Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

ANNO 2023

FEMMINE E LGBTI

TERZA PARTE


 

DI ANTONIO GIANGRANDE


 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO


 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2023, consequenziale a quello del 2022. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.


 

IL GOVERNO


 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.


 

L’AMMINISTRAZIONE


 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.


 

L’ACCOGLIENZA


 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.


 

GLI STATISTI


 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.


 

I PARTITI


 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.


 

LA GIUSTIZIA


 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.


 

LA MAFIOSITA’


 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.


 

LA CULTURA ED I MEDIA


 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.


 

LO SPETTACOLO E LO SPORT


 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.


 

LA SOCIETA’


 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?


 

L’AMBIENTE


 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.


 

IL TERRITORIO


 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.


 

LE RELIGIONI


 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.


 

FEMMINE E LGBTI


 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.


 

FEMMINE E LGBTI.


 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI. (Ho scritto un saggio dedicato)

PRIMA PARTE


 

Il Sesso.

Il Maschio.

Le Femmine.

La Bellezza.

Il Reggiseno.

Le Mestruazioni.

La Menopausa.

Travestiti o Drag Queen.

I Transessuali.

Gli Omosessuali.

La Digisessualità.

La Sexsomnia.

Perversioni e Feticci.

Il Sesso Orale.

Il Sesso Anale.

Durante il sesso.

Mai dire…porno.

Mai dire…prostituzione.

Il Gang Bang.

I Poliamori.

Lo Scambismo.

San Valentino e la Monogamia.

Gelosia e Tradimento.


 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI. (Ho scritto un saggio dedicato)


 

SECONDA PARTE


 

La Molestia.

Il Metoo.

Il Revenge Porn.

Il Revenge Song.

Lo Stupro.

La Violenza e gli Abusi. Femminicidi e Maschicidi.

Gli Stalker.


 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI. (Ho scritto un saggio dedicato)


 

TERZA PARTE

Il Padre.

La Madre.

Quelli che…mamma e papà.

I Figli.

Il Figlicidio.


 


 

FEMMINE E LGBTI

TERZA PARTE


 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI. (Ho scritto un saggio dedicato)

L’Età.

Il Seme.

L’Onore.

Il Potere.

L’Età.

Estratto dell’articolo di Melania Rizzoli per “Libero quotidiano” l’11 marzo 2023

Le ricerche scientifiche degli ultimi anni hanno dimostrato che non c’è un calo della qualità dello sperma e quindi della fertilità maschile nemmeno in età avanzata, e la ragione biologica di ciò è che la spermatogenesi negli uomini avviene costantemente, ogni giorno e in ogni momento. […] 

 Ha fatto scalpore, la settimana scorsa, la notizia della nuova paternità, la sesta, dello stilista Roberto Cavalli, la cui compagna 38enne lo ha reso padre di Giorgio, un maschietto nato senza problemi ed in ottima salute. Mentre è noto che l’età materna influenza fortemente la possibilità di intraprendere una gravidanza, e che dopo i 35 anni le possibilità iniziano ad essere sempre meno, per non parlare dei 40, quella dei padri non influisce affatto sul concepimento nemmeno dopo gli 80 anni. 

[…] e gli spermatozoi non invecchiano come le uova, e, sebbene in età avanzata possano perdere in termini di numero, forza e mobilità, quelli prodotti in continuazione, anche se pochi e più deboli, sono sempre in grado di fecondare qualora incontrino un follicolo femminile compatibile biologicamente ed in fertile ovulazione. 

L’età del padre quindi non pesa sulla possibilità di una gravidanza, nemmeno sulla salute del bebè o sugli esiti ostetrici e perinatali, […] il concepimento con un partner maschile di età avanzata, il cui sperma, prodotto anche dopo i 70anni, non influisce nemmeno sulla salute ostetrica della donna durante la gravidanza […], nonostante il calo del testosterone che inizia a diminuire significativamente dopo i 50 anni. 

L’andropausa degli uomini infatti, a differenza della menopausa femminile, non chiude affatto le porte ad una potenziale riproduzione. Le cause dell’infertilità maschile sono dovute solo ed esclusivamente a patologie dei genitali, come il varicocele o Il criptorchidismo (mancata o incompleta discesa dei testicoli nello scroto) oppure ad anomalie ormonali, infettive o genetiche, che possono causare una scarsa o nulla produzione di spermatozoi, ma se un uomo è sano e in buona salute ha la possibilità di riprodursi in qualunque periodo della sua vita, anche con una qualità o quantità di sperma non ottimale. 

[…] oggi, anche grazie alla enorme diffusione dell’ uso dei farmaci contro la disfunzione erettile, si diventa sessualmente vecchi molto più tardi, e il desiderio sessuale resta sempre alto, naturalmente se in presenza di un oggetto del desiderio, nonostante il lento declino degli ormoni sessuali della riproduzione. Inoltre il rapporto tra salute ed attività sessuale è scientificamente riconosciuto come indice di un elisir di lunga vita, in quanto indicato come produttore di benessere psico-fisico e di essere il miglior anabolizzante e antidepressivo naturale. 

[…] a guardare la forma fisica e la felicità dello stilista Roberto Cavalli nell’annunciare la sua nuova paternità bisogna proprio rammentare la veridicità di una legge medica ormai riconosciuta scientificamente: “Il Sesso è Terapeutico”.

Papà più vecchi delle mamme? Sin dalla nascita dell’Homo Sapiens. Silvia Turin su Il Corriere della Sera il 23 Gennaio 2023.

Gli uomini hanno da sempre concepito i bambini con in media circa sette anni in più delle donne. Un’analisi sulle mutazioni genetiche permetterebbe di risalire all’età dei genitori fino a 250mila anni fa

Dalla notte dei tempi i padri sono stati più anziani delle madri, o meglio da quando la nostra specie è emersa per la prima volta, oltre 250mila anni fa. Lo suggerisce una ricerca condotta dal team di Richard Wang, un genetista evoluzionista dell’Università dell’Indiana a Bloomington (Usa), pubblicata su Science Advances . Le stime precedenti erano limitate a circa 40mila anni fa.

L’analisi delle mutazioni

Come hanno fatto, in mancanza di documenti, lui e i suoi colleghi a determinare le età dei genitori di generazione in generazione? Rintracciando le mutazioni che si verificano spontaneamente nel DNA umano moderno. Tutti i bambini hanno nuove mutazioni che i loro genitori non hanno, un tipo di fenomeno che abbiamo imparato a conoscere con i virus e le varianti genetiche. Queste mutazioni emergono quando il DNA viene danneggiato prima del concepimento oppure si producono a causa di errori casuali durante la divisione cellulare. La ricerca suggerisce che sono i genitori più anziani a trasmettere più mutazioni rispetto ai genitori più giovani.

La messa a punto di un software

Così Wang ei suoi colleghi inizialmente hanno condotto lo studio su un gruppo di islandesi (che da 25 anni stanno procedendo al sequenziamento del genoma di tutti gli abitanti dell’isola): usando un software hanno analizzato i dati di una ricerca del 2017 effettuata su circa 1.500 islandesi e i loro genitori, che aveva monitorato l’età del concepimento e i cambiamenti genetici intercorsi in 3 generazioni. Il programma ha imparato ad associare determinate mutazioni e le loro frequenze all’età e al sesso dei genitori.

Messo a punto lo strumento informatico, gli scienziati l’hanno applicato ai genomi di 2.500 persone moderne (prese in tutto il mondo), per identificare le mutazioni emerse in vari momenti della storia umana. Datando quando sono emerse queste mutazioni, il team è stato in grado di mappare l’età media di mamme e papà nel corso dei millenni.

I risultati finali

I ricercatori hanno scoperto che 26,9 anni era l’età media complessiva del concepimento negli ultimi 250.000 anni. Ma la scomposizione per sesso ha mostrato che gli uomini avevano una media di circa 30,7 anni quando hanno concepito il primo figlio, rispetto ai 23,2 anni delle donne. I numeri hanno oscillato nel tempo, ma il modello ha suggerito che gli uomini hanno costantemente avuto figli più tardi nella vita rispetto alle donne.

L’età maggiore dei padri si può spiegare biologicamente: gli uomini sono in grado di avere figli più tardi nella vita rispetto alle donne, ma potrebbero essere in gioco anche fattori sociali, ad esempio la pressione sugli uomini nelle società patriarcali per costruirsi uno status prima di diventare padri.

Le critiche

Le critiche allo studio dicono che il modello informatico non tiene conto a sufficienza di altri fattori (inclusa l’esposizione ambientale) che potrebbero aver avuto un ruolo nella comparsa delle mutazioni. Ricostruire con sicurezza l’età di concepimento durante i millenni richiederà il campionamento di più popolazioni, ma questo studio, sostengono gli autori, fornisce «stime ragionevoli» che possono aiutare i ricercatori a ottenere informazioni sulla vita dei primi umani.

Il Seme.

Estratto da lastampa.it il 29 aprile 2023.

Il tribunale dell'Aia ha chiuso il caso del musicista Jonathan Meijer, balzato alle cronache nel 2017 in quanto donatore di sperma “seriale”. Il giovane aveva infatti donato il suo seme in diverse cliniche nei Paesi Bassi e in altri 13 paesi contribuendo così a fare nascere, nell’arco di 15 anni, 550 bambini. 

L’uomo da adesso in poi non potrà più continuare con la sua attività perché rischia una multa di 100mila euro per ogni nuovo nato. […]

In base alle regole stabilite in Olanda, un donatore non dovrebbe contribuire a far nascere più di 25 neonati distribuiti in non più di 12 famiglie. […] 

Secondo il tribunale distrettuale dell'Aia «il donatore ha deliberatamente disinformato i futuri genitori sul numero di figli che aveva già generato in passato e adesso questi genitori si trovano di fronte al fatto che i loro bambini fanno parte di un'enorme rete famigliare, con centinaia di fratellastri, che non hanno scelto».

Estratto da open.online il 15 aprile 2023

Fuori programma al tribunale di Treviso, dove il giudice ha abbandonato frettolosamente la postazione dopo aver ricevuto un messaggio che lo avvisava che sua moglie era sul punto di partorire la loro secondogenita.

 […]  Mentre si stava trattando, al cospetto dei tre giudici del collegio, un caso importante e sensibile: una donna di 35 anni era stata denunciata dal marito (i due poi si erano riappacificati) per avere picchiato i due figli, un ragazzo di 14 anni e una bambina che al tempo dei fatti, nel 2020, ne aveva 7.

L’uomo era proprio intento a raccontare i messaggi in cui il ragazzino chiedeva aiuto, quando il giudice Alberto Fraccalvieri ha mostrato il telefono al presidente Umberto Donà, per poi correre via. «Scusate ma il collega deve andare via perché è arrivata un’ottima notizia: sta per diventare papà per la seconda volta», lo ha giustificato Donà. Il collega ha raggiunto l’ospedale in tempo per assistere al parto, avvenuto dopo una mezz’ora. Tutti i processi in programma, nel frattempo, sono stati rinviati. […]

Da leggo.it il 3 Gennaio 2023.

Buone notizie per chi nel 2023 è alla ricerca della genitorialità. Futuri mamme e papà, dall'università di Catania una scoperta importante, che potrebbe essere un valido aiuto per chi ha problemi di fertilità, e nel caso specifico, gli uomini. I ricercatori dell'ateneo siciliano, infatti, hanno scoperto che in un rapporto sessuale, la seconda eiaculazione consecutiva, in seguito ad un periodo di astinenza molto breve, rispetto alla prima, potrebbe rappresentare una strategia semplice ed economica per ottenere spermatozoi di migliore qualità, che potrebbero aiutare a raggiungere l'obiettivo di un figlio. 

Dettagli importanti

Una scoperta, rivolta in particolare ai pazienti con parametri spermatici alterati, secondo i risultati dello studio del gruppo di ricerca di Endocrinologia dell’ateneo catanese, che potrebbero avere importanti implicazioni nella riproduzione naturale e assistita. 

«L’analisi ha mostrato un significativo incremento della concentrazione spermatica e della motilità totale e progressiva nella seconda raccolta rispetto alla prima, soprattutto nei pazienti con parametri spermatici alterati» hanno spiegato gli autori dello studio. Il lavoro pubblicato sulla rivista scientifica, Journal of Clinical Medicine, rappresenta la prima revisione sistematica che indaga l’impatto di un periodo di astinenza molto breve sui parametri spermatici convenzionali e sul tasso di frammentazione del DNA spermatico.

Astinenza rafforza fertilità

«L’esame del liquido seminale rappresenta, ad oggi, una pietra miliare nella diagnosi della fertilità maschile – continuano gli studiosi -. Tra i parametri che possono influenzare l’esame del liquido seminale, l'astinenza sessuale è spesso trascurata, sebbene sia stato ampiamente dimostrato che la durata dell'astinenza sessuale influenzi i parametri spermatici. 

Il manuale dell’Oms per l’analisi e il trattamento del seme umano raccomanda che l’esame del liquido seminale debba essere eseguito dopo un minimo di 2 giorni e un massimo di 7 giorni di astinenza sessuale».

L’Onore.

Onore ai padri coraggiosi di cui è pieno il mondo. Uno spirito di sana abnegazione deve esserci per questo difficile mestiere. ROSSELLA PALMIERI su La Gazzetta del Mezzogiorno il 19 marzo 2023.

Lo definì il «Cristo della paternità» per le sofferenze che gli procurarono le figlie insensibili. Lui, Père Goriot, uscito dalla magistrale penna di Balzac e inserito nel più composito affresco della Comédie Humaine, fa fare più di una riflessione il 19 marzo, festa del papà che cade nel giorno della morte del santo protettore Giuseppe. Un grande intellettuale, non romanziere ma saggista, Giacomo Debenedetti, individuava la crisi della modernità nella perdita dei modelli di riferimento. Orfani di padre, e non solo in senso biologico – ma simbolico e metaforico – sono i grandi personaggi dei romanzi modernisti, da Zeno («sono io buono o cattivo?» Si chiede nel piangere il padre che in punto di morte gli assesta un vigoroso schiaffo) a Mattia Pascal e Vitangelo Moscarda, rispettivamente figli di un capitano che ha fatto fortuna nel gioco ma il cui patrimonio, alla sua morte, è insidiato dall’insipienza filiale e di un banchiere, meglio detto usuraio.

Come entrino questi antipodi del padre sofferente e dell’assenza del padre-modello nel nostro scorcio di mondo è presto detto: da una parte la piaga del femminicidio, e quindi padri che lasciano i loro figli orfani, ma dall’altra quella stragrande maggioranza di uomini che ricoprono il loro ruolo con coraggio e operosità, facendosi carico di un’educazione non sempre facile nelle scelte e consentendo ai loro figli di studiare, eccellere in uno sport, dedicarsi a un hobby. Nei giorni in cui Carlantino (e non solo) piange Petronilla, uccisa con decine di fendenti senza potersi difendere – non c’è difesa che tenga quando a colpire sono le mani di chi diceva di amare – onoriamo allo stesso tempo quei padri silenti, come il Goriot del romanzo di Balzac che mette fine ai suoi giorni ormai privo di tutto. «Meglio per lui che sia morto! Pare che il pover’uomo abbia avuto parecchi dispiaceri, durante la sua vita», si legge nel romanzo.

Non immaginiamo certo questi eccessi, ma uno spirito di sana abnegazione che deve esserci per questo difficile mestiere. E quindi onore a quei padri che, dando una gradevole immagine d’insieme, aspettano i loro figli all’uscita della scuola. O quei padri sui campi di calcio e nelle palestre, a esultare per le vittorie dei figli. O ancora; quei padri creativi che sanno sempre trovarne una, come quel Giuseppe, il falegname silente e operoso che mette in gioco il suo «possibile» e affronta il pericolo di morte del Figlio appena nato sul dorso di un asinello.

Indicare la rotta: ecco il ruolo (dimenticato) del padre. Pubblichiamo, per gentile concessione dell'editore, un estratto di Padri e figli. I sentieri della paternità di Mariolina Ceriotti Migliarese (Edizioni Ares). Mariolina Ceriotti Migliarese il 21 Marzo 2023 su Il Giornale.

Tutti partiamo da una posizione infantile nella quale ciò che prevale è il senso di onnipotenza, e ciò che ci muove è soprattutto il desiderio di rispondere ai nostri bisogni: il bambino è naturalmente egocentrico e prepotente, perché gli strumenti di cui dispone lo rendono poco capace di porsi da un punto di vista diverso dal suo.

L’evoluzione cognitiva, con il progressivo accesso al pensiero astratto e capace di cogliere più punti di vista, è un prerequisito indispensabile per questa evoluzione, ma da sola non sarebbe sufficiente: per decidere in merito alle priorità e ai valori che ispireranno la sua vita, l’essere umano ha bisogno che qualcuno gli indichi la via da seguire, che lo aiuti a riflettere su ciò che è più importante, che sostenga in lui la fatica di rinunciare all’onnipotenza, insegnandogli ad accettare il pensiero della morte come naturale compagna di viaggio. Qualcuno che, pur nel dubbio e nella fatica, tenga aperta la porta alla speranza che il futuro non si chiuderà sul buio della morte.

È necessario che qualcuno faccia strada, perché su quella strada si è incamminato e cammina un po’ più avanti: qualcuno che sia credibile e del quale ci si possa fidare.

Per orientare il proprio comportamento, il cucciolo d’uomo guarda a suo padre: alla sua onestà o disonestà, alla sua fedeltà o infedeltà, alla sua tenacia o al suo scoraggiamento; intuisce nel modo di agire del padre qual è il valore che il padre stesso dà alle cose e qual è il rispetto che riserva alle persone.

Non si tratta di considerazioni astratte: il bambino guarda al modo in cui il papà tratta lui e la mamma, a come parla del suo lavoro; si accorge se papà ama i libri o se ama lo sport; se aiuta in casa o si siede in poltrona; registra anche senza saperlo il modo in cui il papà vive l’amicizia, come si relaziona con le persone che incontra e in che modo parla di loro tra le mura domestiche. Tutto questo il figlio osserva e trattiene dentro di sé, sarà per lui un punto di partenza, un riferimento positivo o negativo: qualcosa da imitare o da contrastare una volta che sarà diventato più grande. Abbiamo dunque una grande responsabilità, che non deve però spaventarci, ma piuttosto stimolarci: sapere che i piccoli guardano a noi con fiducia è solo un invito a non rimanere fermi e seduti nel nostro modo di essere, ma a imparare a metterci in discussione e a considerarci sempre in cammino.

Non dobbiamo pensare che i figli ci vogliano perfetti: tutti i ragazzi che ho ascoltato portano nel cuore amore per i genitori, anche quando esprimono critiche aspre nei loro confronti. Tutti desiderano un rapporto buono. I figli, quando sanno di essere amati, accettano e perdonano i limiti che scoprono nei loro genitori, soprattutto quando, divenuti a loro volta adulti, imparano a comprenderli.

Alex, uccise il padre per difendere la madre. Il pm chiede 14 anni: «Scuote le coscienze, ma serve il coraggio di condannare». Simona Lorenzetti su Il Corriere della Sera il 22 marzo 2023

In primo grado Alex era stato assolto per legittima difesa. La Corte d’Assise aveva stabilito che il ragazzo si stava difendendo da un padre violento e aggressivo che quella sera avrebbe potuto sterminare la famiglia

«È chiaramente un caso che scuote le coscienze. Ma questo è un omicidio e ci vuole coraggio. Il coraggio di condannare». Con queste parole il pubblico ministero Alessandro Aghemo ha chiesto una pena di 14 anni per Alex Cotaia, il 21enne che nel 2020 uccise il padre Giuseppe Pompa colpendolo 34 volte con sei coltelli differenti. In primo grado il giovane, difeso dagli avvocati Claudio Strata e Giancarla Bissattini, era stato assolto per legittima difesa: la Corte d’Assise aveva stabilito che Alex si stava difendendo da un padre violento e aggressivo che quella sera avrebbe potuto sterminare la famiglia.

Una ricostruzione fortemente stigmatizzata dall’accusa, che nel processo di fronte alla Corte d'Assise d'Appello — presieduta da Maria Cristina Domaneschi — ha messo in evidenza le tante contraddizioni che emergono dalle dichiarazioni dell'imputato e dei due unici testimoni presenti la sera del 30 aprile 2020 nell'alloggio di Collegno: la mamma e il fratello di Alex. Per il magistrato il «pericolo non era attuale». 

Se è pur vero che Giuseppe Pompa era un uomo violento e aggressivo (come raccontano centinaia di audio su cui sono incise le sue sfuriate di gelosia nei confronti della moglie), è anche vero che è stato aggredito dal figlio in un momento in cui era disarmato. Alex ha sempre ammesso le proprie responsabilità — fu lui dopo il delitto a chiamare i carabinieri e a dire di aver ucciso il padre —, ma ha anche spiegato che quella sera il padre era furioso come non lo aveva mai visto e che ha dovuto reagire per difendere la madre dell'ennesima aggressione.

 Dichiarazioni che, secondo l'accusa, non trovano corrispondenza negli elementi di fatto che aiutano a ricostruire la dinamica dell'omicidio. «Alex ha giocato d'anticipo. È lui che per primo afferra il coltello e si scaglia contro il padre, che in quel momento era disarmato». Da qui la richiesta di condanna a 14 anni. Un calcolo della pena obbligato che tiene conto dell'attenuante della seminfermità mentale. Ma il pm ha proposto alla Corte, così come aveva fatto in primo grado, di valutare la possibilità di sollevare la questione di legittimità costituzionale sulle norme che impediscono il bilanciamento tra attenuanti e aggravanti: nel caso di Alex, l'aggravante è di aver ucciso un congiunto e questo impedirebbe di applicare le attenuanti generiche legate al fatto che ha confessato e al clima di violenza che si respirava in casa.

Uccide il padre per difendere la madre: assolto il 20enne. Valentina Dardari il 24 Novembre 2021 su Il Giornale.

Il 20enne è stato assolto perché il fatto non costituisce reato. La difesa aveva chiesto la piena assoluzione per legittima difesa

Alex Pompa è stato assolto. Il 20enne che il 30 aprile del 2020 a Collegno, comune in provincia di Torino, uccise il padre con 24 coltellate per difendere la madre e il fratello dalle violenze del genitore, è stato assolto perché il fatto non costituisce reato. A stabilirlo è stata una sentenza pronunciata dalla corte di Assise di Torino dopo una camera di consiglio durata poco meno di sei ore.

Assolto perché il fatto non sussiste

Alessandro Aghemo, il pubblico ministero che si è occupato del caso, al termine della sua requisitoria si era detto costretto a chiedere 14 anni di carcere chiedendo alla Corte d’Assise di "sollevare una questione di legittimità costituzionale sulla norma che impedisce di concedere la prevalenza delle numerose attenuanti". Mentre il legale del ragazzo, l’avvocato Claudio Strata, aveva chiesto la piena assoluzione invocando per il suo assistito la legittima difesa. La sentenza è arrivata dopo le 18 al tribunale di Torino. Presenti in aula ad ascoltare la lettura del verdetto anche la madre Maria Cotoia e il fratello Loris. L’avvocato del giovane ha così commentato quanto deciso:"Questa assoluzione è la cosa più giusta, speravo in una sentenza giusta e credo questa lo sia. Ci ho creduto dal primo giorno, da quando ho sentito i primi due o tre audio e il racconto di Alex. Non ho mai avuto un dubbio, la speranza di arrivare a questo risultato non ci ha mai abbandonato". Il legale aveva fino all’ultimo insistito sulla legittima difesa del suo assistito e ha avuto ragione.

Alex: "Devo ancora metabolizzare"

Ancora incredulo il 20enne che, con accanto la mamma in lacrime, ha ammesso:"Sono senza parole, non me l'aspettavo, devo metabolizzare, sono straniato, scusate". Il fratello Loris ha asserito di averci sempre creduto e ha aggiunto: “Sappiamo quello che abbiamo vissuto, abbiamo visto l'inferno e la morte in faccia e quando diciamo che Alex ci ha salvato la vita è perché è così. Ringraziamo questa Corte che ci ha creduto. La chiave di tutto stava negli audio, sentendoli con le minacce di morte, i vari insulti a mia madre, allora si capisce tutto". Per loro, madre e due figli, inizia adesso una nuova vita, come sottolineato dal fratello di Alex che, dopo aver ringraziato la gente che li ha supportati ed è stata loro vicino in questi mesi, spera che “adesso forse sarà una vita vera, con mia madre e con un fratello, come nelle altre famiglie".

In primo grado il 21enne fu assolto per legittima difesa. Uccise il padre violento, il pm chiede 14 anni di carcere per Alex Pompa: “Si abbia il coraggio di chiamarlo omicidio”. Redazione su Il Riformista il 22 Marzo 2023

Uccise il padre, aggressivo e ossessivo nei confronti della madre, nel tentativo di difendere il genitore nel corso dell’ennesima lite in famiglia. Per questo il pg della Procura di Torino Alessandro Aghemo ha chiesto una condanna a 14 anni di reclusione per Alex Pompa, che il 30 aprile del 2020 uccise il padre Giuseppe Pompa a coltellate a Collegno, nel Torinese.

Il padre 52enne fu ucciso dal figlio 21enne con 34 coltellate con sei coltelli da cucina differenti nel tentativo di difendere la madre: l’ennesima lite era scoppiata quando l’uomo accusò la moglie di aver sorriso ad un collega. In particolare nel giorno in cui fu ucciso l’uomo cercò di contattare la moglie per telefono e via WhatsApp un centinaio di volte solo perché l’aveva vista salutare un collega sul posto di lavoro, dove era impiegata come cassiera, e cominciò a gridarle contro prima ancora che varcasse la porta di ingresso dell’appartamento.

Alex, che nel frattempo ha cambiato da cognome da Pompa a Cotoia, in primo grado era stato assolto per legittima difesa. Nell’appello l’accusa ha chiesto di riconoscere la semi infermità, quindi con una riduzione di pena a 14 anni, confermando in pieno la sua impostazione già evidenziata in primo grado, ovvero che Giuseppe Pompa “non è mai passato dalle minacce ai fatti”.

Aghemo ha respinto nuovamente la tesi della legittima difesa perché Alex “ha agito in anticipo, si è armato e ha colpito una persona disarmata, sferrandogli il primo colpo alla schiena. Il primo di trentaquattro. C’è stato uno scontro tra uno che aveva un coltello e uno che non aveva nulla. Alex non si è difeso, ma ha aggredito”. “E’ un caso che scuote le coscienze – ha aggiunto il pg – ma bisogna avere il coraggio di dire che è stato un omicidio“.

Il pm ha infatti evidenziato, senza sollevare formalmente, tema dell’impossibilità di operare ulteriori riduzioni di pena per altre attenuanti, come le attenuanti generiche, che dal 2019 non possono più consentire riduzioni di pena per reati nei confronti di un congiunto.

Il prossimo 12 aprile la parola passerà alla difesa del ragazzo, che chiederà la conferma della sentenza di primo grado. Il suo legale, l’avvocato Claudio Strata, si è detto “non sorpreso” nel sentire le conclusioni del pm Aghemo “perché ricalcavano ciò che aveva già scritto nel suo atto d’appello”. I familiari di Giuseppe Pompa avevano cominciato a registrare di nascosto le frequenti sfuriate dell’uomo, che sono state fatte ascoltare in aula nel corso del processo: novecento pagine di trascrizioni e 250 file audio, registrati tra la fine del 2018 e l’inizio del 2020, per un totale di 9 ore e 47 minuti.

Il caso di Alex interessò l’allora ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina, poiché il giovane pochi mesi dopo il delitto avrebbe dovuto sostenere la maturità, cosa che gli fu concessa in presenza nonostante si trovasse ai domiciliari.

Estratto dell'articolo di Irene Famà per “La Stampa” il 5 maggio 2023.

Mamma Maria prega, il fratello Loris osserva con rabbia, Alex prova a restare impassibile. Segue parola per parola il discorso della giudice, nella maxi aula 6 del Palagiustizia di Torino. È stato omicidio, non c'è stata legittima difesa. Quattordici anni però sono troppi. 

Stralci della lunga ordinanza della Corte d'assise d'appello, che sulla vicenda di Alex, il ragazzo che la notte del 30 aprile 2020 a Collegno, nel torinese, ha ucciso il padre Giuseppe Pompa al culmine di una lite, ha sollevato la questione di legittimità costituzionale. Il verdetto, dopo una camera di consiglio durata sei ore, non è arrivato: gli atti verranno trasmessi alla Corte Costituzionale. Perché la norma introdotta dal cosiddetto 'Codice Rosso', nei casi di omicidio aggravato dal vincolo di parentela vieta di dichiarare la prevalenza di alcune attenuanti […]

Questione giuridica per sviscerare un dramma familiare complesso. Che è riassunto lì, in quel biglietto che Alex, nel maggio 2020, quando era in carcere su misura cautelare, scrisse e consegnò al suo avvocato Claudio Strata: «A causa di un padre violento non ho potuto vivere la mia adolescenza, se ora passerò la mia giovinezza in carcere potrò dire veramente di avere vissuto?». 

Alex, come il fratello Loris e mamma Maria, per anni è stato sottoposto alle angherie del padre, ha assistito e subito minacce e insulti. Quella sera, quando la madre torna a casa dal lavoro, con il marito si innesca l'ennesima litigata. Dai toni violenti, accesi: l'uomo la accusa di aver sorriso a un collega di lavoro. Alex lo colpisce: trentaquattro coltellate, sei coltelli differenti.

«Ho agito per difenderci. Mio padre stava andando in cucina a prendere un coltello e io l'ho anticipato. Ci avrebbe ammazzati tutti», aveva detto ai carabinieri.  Ed ecco il nodo della questione: la legittima difesa. I giudici di primo grado l'avevano assolto. La Corte d'assise d'appello fornisce un'altra interpretazione. 

[…] A giudizio dei magistrati, però, non si trattava di una situazione di pericolo «concreta, effettiva e specifica» da configurare la legittima difesa. È vero, Alex e i suoi famigliari hanno subito maltrattamenti per anni, «ma queste innegabili sofferenze non possono incidere» sul giudizio di responsabilità. 

Per i giudici dell'appello, il ragazzo, all'epoca dei fatti appena diciottenne, è colpevole. La pena, però, «dev'essere proporzionata e calibrata al fatto e alla personalità dell'imputato». E «quattordici anni contrastano con la finalità rieducativa».

L'avvocato difensore Claudio Strata non nasconde la delusione: «A questo punto l'esito è scontato, Alex verrà condannato. Certamente faremo ricorso per Cassazione per cercare di arrivare a quello che noi sosteniamo, e cioè che il mio assistito non è un assassino». 

[…] 

La madre si sfoga: «Mio figlio non è assolutamente un delinquente, cosa dovevamo fare per farlo capire, basta guardarlo negli occhi. Se non fosse per lui, io ora non sarei qui».

Pavia, padre a processo per violenze sessuali sulla figlia. Dopo sei anni lei ritratta: «Ho inventato tutto per stare con il mio fidanzato». Eleonora Lanzetti su Il Corriere della Sera il 23 marzo 2023.

La giovane aveva raccontato di aver subito continue vessazioni, botte e abusi sessuali. La vicenda è stata ricostruita tramite testimonianze e messaggi. I giudici hanno stabilito che il padre è innocente

Sei anni di calvario terminati con l'assoluzione per un padre accusato dalla figlia di averla violentata. Al processo la ragazza ha ritrattato, spiegando di aver denunciato il padre per poter essere libera di vivere la sua relazione. «Volevo stare con il mio ragazzo senza limitazioni e mi sono inventata gli abusi. Non credevo che denunciando mio padre ci fossero queste conseguenze». 

La vicenda giudiziaria, iniziata nel 2017, ha avuto come protagonista un 48enne di origini romene che abita in un rione popolare di Pavia, ritenuto innocente dopo anni di processi ed accuse. Il pubblico ministero aveva chiesto 8 anni di carcere per violenza sessuale nei confronti della figlia e maltrattamenti contro la moglie. Per la Procura, in un primo momento, la ragazza era stata costretta dal padre a ritrattare.

La giovane, che nel 2018 era scappata di casa per andare a vivere con il fidanzato, aveva raccontato di aver subito continue vessazioni da parte del genitore che le impediva di vestire in un certo modo o di frequentare amiche italiane. I maltrattamenti, a suo dire, erano anche fisici: botte e cinghiate. Agli investigatori la giovane aveva riferito anche di episodi di abusi sessuali, cosa che aveva fatto scattare l'immediato arresto. 

La vicenda è stata ricostruita grazie a diverse testimonianze, intercettazioni telefoniche e messaggi scambiati tra padre e figlia e ora il collegio dei giudici ha ritenuto genuino il comportamento del genitore che si è sempre proclamato innocente e che chiedeva alla figlia di tornare a casa. «Quando papà è stato arrestato ho capito di averla fatta grossa», ha raccontato lei. La difesa del 48enne potrebbe agire per l'ottenimento del ristoro per ingiusta detenzione.

Estratto dell’articolo di Eleonora Lanzetti per corriere.it il 25 marzo 2023.

«La mia forza è il sapere di essere innocente, di non aver fatto nulla a mia figlia, la cosa più preziosa che ho. Nei mesi di carcere ero sconvolto, ma non ho mai provato rancore nei suoi confronti. Ho sempre cercato di proteggerla».

 A parlare è Rubin, il padre di 48 anni, che nel 2017 era stato accusato dalla figlia, oggi 23enne, di averla picchiata e violentata. Si sono conclusi con l’assoluzione piena i sei anni di calvario che l’uomo ha dovuto subire.

 Al processo la ragazza ha ritrattato, spiegando di aver denunciato il genitore per poter essere libera di vivere la sua relazione con un ragazzo. «Volevo stare con lui senza limitazioni, o essere controllata, così ho inventato quella storia. Non credevo che denunciando, mio padre potesse finire in carcere».

La vicenda giudiziaria inizia nel 2017, quando il 48enne di etnia rom, che vive in un rione popolare di Pavia, viene accusato di violenza sessuale nei confronti della figlia e di maltrattamenti alla moglie.

 La giovane, desiderosa di fare le proprie esperienze sin da adolescente, senza il controllo dei genitori (era già fuggita anche qualche tempo prima, poco più che quindicenne), scappa nuovamente da casa, e trova ospitalità da una lontana parente che, a suo dire, le avrebbe consentito di frequentare il compagno senza problemi.

[…] «I messaggi che per la Procura erano persecutori, in realtà avevano un contenuto protettivo nei confronti della figlia da parte del mio assistito -commenta l’avvocato Fabrizio Aronica - In merito alle violenze subite, poi, non ci sono stati riscontri di nessun tipo: referti medici o testimonianze.

 Anche la moglie che, stando a quanto denunciato dalla figlia subiva maltrattamenti dal marito, ha sempre difeso il coniuge, così come i sei familiari che condividono lo stesso bilocale. Per questo chiederemo il ristoro per ingiusta detenzione per il primo periodo trascorso in carcere».  […]

Il Potere.

Nella Bergamasca. Nembro, furia omicida: 35enne uccide il padre, la madre prova a difendere il marito dalle coltellate. Lombardini aveva problemi psichici. Redazione su Il Riformista il 29 Ottobre 2023

Dramma familiare a Nembro, nella Bergamasca: un uomo di 35 anni, Matteo Lombardini, ha ucciso il padre Giuseppe Lombardini, di 72, e ferito gravemente la madre, di 66, colpendo entrambi a coltellate ieri sera nella loro casa. A dare l’allarme, attorno all’ora di cena, i vicini di casa. L’uomo era già in cura per problemi psichiatrici e già in passato aveva aggredito i genitori. Il padre è morto per le ferite riportate, mentre la madre è stata ricoverata in gravissime condizioni. Le indagini sono condotte dai carabinieri. Il figlio, arrestato, è in ospedale, sotto controllo medico e tenuto in osservazione dai militari.

La madre di Matteo Lombardini avrebbe tentato di difendere il marito: di qui le coltellate inferte dal figlio anche a lei. Quando i residenti della palazzina di via Rossini hanno sentito le urla, ieri sera dopo cena, hanno chiamato il 112 e all’abitazione sono giunti i mezzi del 118.

Per il padre non c’era più nulla da fare, mentre la moglie non sarebbe in pericolo di vita. La vittima era in pensione dopo aver lavorato all’ufficio personale della Bas, società di servizi di Bergamo. Matteo Lombardini ha anche una sorella, non presente in casa al momento dell’aggressione. I litigi pare fossero frequenti, proprio per via dei problemi psichiatrici del trentacinquenne.

Essere padri in Italia è una traversata nel deserto, soprattutto per quelli separati. Francesco Colonnese, Comunicatore & anti-avvocato, su Il Riformista il 24 Marzo 2023

Le donne in Italia devono costantemente fare i conti con discriminazioni di diversa forma e natura. Sono infiniti i progetti di legge, le iniziative, gli eventi e le associazioni concepite per la loro tutela; a livello teorico, essere uomini in Italia rappresenta una sorta di “privilegio”. Per certi aspetti è così, ma non per tutti perché le discriminazioni sanno essere anche molto eque e soprattutto generano altre diseguaglianze. Esiste un importante caso di “discriminazione” maschile in Italia. Un elefante nella stanza, anzi un mammuth.

Gli uomini quando diventano padri. È difficile immaginare una discriminazione più silenziosa e sottovalutata di quella che affrontano i padri in Italia. Il motivo è semplice: spesso sono i padri stessi ad esserne i primi complici, i primi ad avallarla. Se è vero che la maternità è un processo biologico ed un’esperienza umana per la donna molto diversa rispetto alla paternità, è altrettanto vero che gli squilibri sociali causati dalla presunta subalternità del padre rispetto alla madre, soprattutto nella prima fase di vita dei figli, rappresenta un danno incalcolabile per la società, per i figli, per i padri stessi ed ancor di più per le madri che non possono nei fatti contare su un supporto neanche lontanamente equiparabile al loro.

Tutti i “padri coraggiosi” che, nonostante l’attuale “inverno demografico”, decidono di andare contro-tendenza, di ribellarsi alle statistiche e di allargare con mogli/compagne le proprie famiglie, devono essere preparati non solo all’incalcolabile sentimento di affetto che i figli restituiscono, non solo all’esperienza di crescita umana e personale rappresentata dall’esperienza della paternità, (l’esperienza di donare tutto a qualcuno, di anteporre la vita di un altro essere umano alla propria, di vedere una pianta crescere ed immaginare un albero). No, non solo questo. Devono anche essere preparati al peggio: devono essere preparati ad una società in cui i padri, nella prima fase di vita dei figli, vengono spesso nei fatti percepiti come oggetti di design, come quelli che non li hanno messi al mondo quindi non possono capire, quelli che hanno unicamente il ruolo di accompagnarli a scuola o all’asilo e poco altro, quelli che non sanno preparare da mangiare, che non li sanno accudire come si deve (anche perché una società tragicamente maschilista come la nostra non lo ha mai preteso), insomma quelli che non hanno “l’istinto materno” quindi sono fuori dalla partita.

Icastico in tal senso è quel mostro giuridico chiamato “congedo di paternità”, un insulto quotidiano a tutte le famiglie italiane. In Italia, il congedo di maternità obbligatoria dura cinque mesi suddivisi in genere in tre di pre-parto ed in due di post-parto. Le madri hanno tuttavia la facoltà di lavorare anche l’ottavo ed il nono mese di gravidanza, usufruendo dunque di un congedo di cinque mesi interamente dopo il parto. I padri invece? Dieci giorni. Come dei conoscenti qualsiasi. Come se, in una famiglia che ha appena generato un figlio, un padre a conti fatti non serva più dopo dieci giorni. Ovviamente non proveniamo da Marte e sappiamo che l’esperienza umana e biologica della gravidanza sia esclusivamente femminile ma, proprio per questo, immaginare che una donna possa contare sul proprio compagno di default solo per dieci giorni è profondamente ingiusto e dannoso.

Detto ciò, facciamo attenzione: esiste anche il congedo parentale ovvero entrambi i genitori hanno diritto ad un periodo complessivo di dieci mesi (per entrambi) di congedo lavorativo spalmabile nei primi 12 anni di vita dei figli. Il padre, tecnicamente, può anche decidere di usufruirne ma, a differenza dei cinque mesi di maternità, per la madre non è un diritto esclusivo perché spetta ad entrambi i genitori. Ciò significa che la madre può contare sia su un congedo di maternità che su un congedo parentale consono, mentre il padre solo sul secondo e questo ha come ulteriore effetto che la famiglia nel suo complesso non possa contare sull’equo supporto di entrambi i genitori. Ma dobbiamo fare uno sforzo in più nel ragionamento perché il nocciolo della questione in realtà è che un congedo di paternità così strutturato finisce non solo per svantaggiare i padri ma anche e soprattutto le madri. Spesso surrettiziamente i datori di lavoro, a scapito del merito, per determinati ruoli preferiscono assumere uomini invece che donne proprio perché il congedo di maternità viene percepito come un enorme peso/ostacolo rispetto agli eventuali dieci giorni del padre. Se invece il congedo di paternità venisse il più possibile equiparato a quello di maternità questa discriminazione si scioglierebbe come neve al sole e magari anche la natalità ne gioverebbe.

Tuttavia, quello appena delineato è solo il quadro iniziale, quando “le cose vanno bene”. Perché, quando a livello sentimentale inizia ad incrinarsi il rapporto con le madri o addirittura si arriva alla separazione e al divorzio, lì comincia tutto un altro capitolo, anzi una cantica. L’inferno, appunto. La vita condotta dai padri separati o divorziati nel nostro Paese è una delle dinamiche più borderline dello stato di diritto. La legge italiana prevede che l’affidamento dei figli minorenni possa essere sia esclusivo ad uno dei genitori (minoranza dei casi) sia “condiviso” ovvero i genitori possono trascorrere il tempo con i figli ed educarli in misura pari, condividendo equamente tutte le scelte nell’interesse della prole. L’intenzione del legislatore, con questo quadro normativo, è quella di tutelare la crescita dei figli ed i diritti di entrambi i genitori.

Chi è giurista, e ancor di più chi è divorziato, sa benissimo tuttavia che l’affidamento condiviso (a livello teorico ineccepibile) cela anche un altro tipo di realtà: quella del genitore “collocatario”, ovvero quel genitore presso cui “in via prevalente” viene collocata la prole. In sintesi, parliamo del genitore che de facto convive con il figlio nella casa coniugale che il giudice, come è noto, nella maggior parte dei casi, assegna alla madre, “maternal preference”. Ciò significa che in Italia, a torto o a ragione, dopo una separazione il figlio può vedere il padre regolarmente ma quasi sempre convive con la madre che, per forza di cose, ne influenza la vita, il pensiero e le scelte in misura estremamente maggiore rispetto al padre. Nell’interesse del minore non avrebbe senso costringere figlio/figlia a dividere la settimana in eguale misura tra madre/padre, perlomeno a livello di convivenza, anzi al contrario questa quotidianità finirebbe per destabilizzare il figlio che si vedrebbe sballottato da una parte all’altra con la conseguente mancanza di un’abitazione stabile che assolva a punto di riferimento della sua vita, senza considerare i disagi su resa scolastica, stanchezza e stress.

A livello meramente teorico, fin quando da parte di entrambi i genitori c’è razionalità, buon senso e cooperazione l’affidamento condiviso è la soluzione più giusta per entrambi. La cronaca però dimostra che, non di rado, dopo la rottura di un rapporto sentimentale (a volte consensuale, altre volte meno), l’epilogo più comune è che il padre (anche sulla scia dell’inconscio retaggio culturale a cui abbiamo fatto riferimento inizialmente) decida autonomamente di lasciare la casa coniugale. I figli si trovano dunque da un giorno all’altro a convivere e crescere solo con la madre, intraprendendo un processo educativo ed una quotidianità non di perfetto equilibrio tra i due come la legge sancisce, auspica ed impone. Non solo: spesso e volentieri, in una situazione familiare già delicata come può essere quella di una coppia separata/divorziata, il padre si trova ad aver a che fare con il versamento dell’assegno (legittimo) di mantenimento dei figli e del coniuge (se privo di reddito) ed a sostenere contemporaneamente doppie spese di affitto o mutuo, spese condominiali, IMU sia per la casa in cui si trova ad abitare da separato sia per la casa assegnata a figli e madre.

L’accumulo di queste spese, porta spesso padri comuni (che non possono contare su disponibilità immobiliari/ed economiche privilegiate o sul supporto delle famiglie) a vere e proprie situazioni di indigenza. Separazione e divorzi rappresentano quasi sempre uno tsunami personale/finanziario anche per donne/madri ma, in merito alla prospettiva di continuare a vivere e convivere liberamente con i propri figli, una delle due parti nella prassi giuridica e nella concretezza è molto più debole, quella paterna. Soprattutto nel caso in cui i due genitori non vivano nello stesso Comune. Indimenticata la drammatica scena del Sig. Nicola De Martino che, intervistato in diretta al Tg2 da Maurizio Martinelli il 7 dicembre 2006, si cospargeva di benzina minacciando di darsi fuoco nel caso in cui il conduttore non avesse letto la sua lettera riguardante la triste storia del figlio Luca che minorenne era stato portato dalla moglie in Australia e da anni non poteva vederlo. Ovviamente questo è un caso limite, però fa un po’ specie notare che il tema nel dibattito generale non venga quasi mai tirato in ballo.

Moltissime sono le occasioni di confronto nelle università, sui media, in Parlamento ed in tutte le sedi per affrontare il tema del sostegno alla maternità oppure la lotta alla denatalità ma dei padri (e soprattutto dei padri separati) se ne parla troppo poco e per merito di poche lodevoli mosche bianche come l’Associazione dei Padri Separati. Si da per scontato che in quanto uomini sono “quelli forti” (ancora retaggio) ed è anche per questo motivo che il congedo di paternità di dieci giorni viene tacitamente accettato, perché gli uomini devono tornare a lavoro (che le donne non lavorino non solo è concesso ma, per la nostra società incompiuta, è addirittura auspicabile).

Qualcuno ha mai chiesto ai padri se davvero si sentono forti? Se per loro è giusto ricominciare a lavorare dopo pochi giorni e lasciare le mogli da sole invece di sostenerle in quella che, ormai da tutti gli analisti, è riconosciuta come la fase di vita più delicata di una donna? È però evidente che la società italiana è tuttora drammaticamente patriarcale ma non per questo a misura di papà. Una società in cui l’abitudine al doppio-cognome per i nuovi nati stenta a decollare (in primis per la riluttanza degli uomini), in cui “auguri e figli maschi” è ancora un’espressione diffusa, una società in cui i padri vengono in molti casi abbandonati a loro stessi.

Per essere madri in Italia ci vuole coraggio; per decidere liberamente di non esserlo forse ce ne vuole di più. Ma lo stesso discorso vale per i padri. Altroché. Con questo non si vuole mettere in dubbio la gratitudine atavica ed eterna alle madri, non si vuole sminuire l’importanza della genitorialità, l’affetto per i figli, la soddisfazione di vederli crescere, di riscoprire attraverso i loro occhi le piccole cose. Soprattutto, non si vuole scappare dal sacrificio, un valore che da tempo la contemporaneità ha perso di vista. Ma una cosa sono i sacrifici, altra le ingiustizie. Nell’Italia del 2023 gli aspiranti padri devono essere preparati ad una traversata nel deserto. In solitaria. Un deserto in cui però nascono i fiori.  I fiori non hanno colpe.

Il sogno del padre.

Pubblichiamo, per gentile concessione dell'autore, un estratto del libro Il sogno del padre (Edizioni Tramedoro) di Massimiliano Fiorin. Massimiliano Fiorin il 27 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Prima ancora che iniziasse il Novecento, Friedrich Nietzsche aveva preconizzato l’imminenza di una spietata guerra tra i sessi che avrebbe travolto la società europea. A suo dire, questo conflitto permanente sarebbe stato dovuto alla degenerazione di quello che Goethe aveva chiamato l’eterno femminino.

Le sue furono parole profetiche, che oggi i pregiudizi correnti tentano di liquidare con l’accusa di misoginia, di per sé nemmeno la più grave tra le tante che sono state rivolte al filosofo dello Zarathustra. L’origine di tanto livore verso l’altro sesso, secondo i superficiali, si spiega semplicemente con la delusione amorosa che Nietzsche patì per opera di Lou von Salomé, una donna intrigante, colta e intelligente, che fin da giovanissima si era sforzata di filosofeggiare sull’esistenza di Dio e anche per questo aveva immediatamente affascinato l’inquieto pensatore tedesco.

Gli studiosi di Nietzsche ben conoscono una fotografia scattata a Lucerna nel 1882, che ha ispirato una parte della storia che segue. In essa, la giovanissima Lou, pur senza saperlo, ha simbolicamente anticipato temi oggi scontati, ma all’epoca ancora esecrati dai salotti borghesi, come la liberazione sessuale della donna, il libero amore e il ménage a trois, che quasi un secolo più tardi sarebbero dilagati e si sarebbero colorati di femminismo, entrando a far parte dell’esperienza comune e contribuendo in modo decisivo alla odierna crisi del matrimonio.

La Salomé in quel periodo si era accompagnata a Nietzsche e a Paul Rée, all’epoca il migliore amico di quest’ultimo, e aveva addirittura formulato l’intenzione di convivere con entrambi, stabilendo tra di loro una relazione assai più cerebrale che non erotica. Tant’è che, per ispirazione della giovanissima intellettuale di origine russa, il loro triangolo volle rappresentarsi addirittura come una trinità filosofica, blasfema parodia della Trinità cristiana. Nello stesso tempo, tuttavia, la von Salomé rifiutò le appassionate proposte di matrimonio del grande filosofo, che di questo soffrì profondamente.

I tre amici figurano insieme nella sopra citata fotografia, dove Lou maneggia un frustino alle spalle dei due uomini, che così appaiono idealmente come due servitori che trainano il carro sul quale si trova assisa la loro padrona. Un’immagine di tormento e delizia che dimostra come quella intercorsa tra i tre pensatori sia stata una storia privata densa di temi e di simboli psicoanalitici di valore universale. Per contrasto, essa ci ricorda che – quando si tratta della nuova disciplina nata nel secolo scorso con Freud e Jung – è quanto mai decisivo saper «vagliare ogni cosa e trattenerne il valore», per dirla come San Paolo ai Tessalonicesi.

Infatti, a centoquarant’anni di distanza da quei fatti, non si può negare che la guerra tra i sessi prevista da Nietzsche sia ormai divenuta conclamata, e pure cruenta, in tutto il mondo occidentale. Essa ha comportato evidenti fenomeni di disgregazione familiare e sociale, di malessere psicologico diffuso, di impoverimento collettivo e, notoriamente, pure di violenza fisica. La rivoluzione sessuale ha parte di responsabilità per quanto è accaduto, ma per trovare una via d’uscita non sarà mai sufficiente puntare il dito su di essa. Infatti, non solo per reazione al fenomeno, troppi uomini dei nostri giorni hanno iniziato – depressione e violenze fisiche a parte – a non essere più all’altezza del loro compito di custodi dei propri cari, così come del bene comune dell’intera società. Si può dire che essi abbiano perso il contatto con quello che il protagonista di questo romanzo definisce come lo sguardo del padre. È questo il problema più urgente tra i tanti che il nichilismo e il relativismo postmoderno, pure profetizzati dalle opere di Nietzsche, ci hanno lasciato in eredità.

La storia che segue, surreale e anche cinica quanto si vuole, è quindi dedicata a tutti coloro che hanno nostalgia del padre. Non soltanto di quello che non hanno potuto avere, ma anche di quello che, spesso non per colpa loro, vorrebbero diventare senza riuscirci.

A Primavalle a Roma. Uccisa e nascosta in un armadio, confessa il figlio: “Troppo cattivo odore, non sapevo cosa fare”. Il cadavere sarebbe rimasto in casa per dieci giorni. Forse un debito dietro il delitto. L'omicidio nello stesso quartiere sconvolto dai femminicidi della 17enne Michelle Maria Causo e dell'infermiera 52enne Rossella Nappini. Redazione Web su L'Unità il 30 Settembre 2023 

Dopo una decina di giorni ha raccontato tutto ai carabinieri. Avrebbe ucciso la madre, messo il cadavere in un sacco sigillato e messo tutto in un armadio. Si trova in stato di fermo un uomo di 59 anni, al momento al carcere di Regina Coeli a Roma. La vittima è una donna di 88 anni. La vicenda tragedia familiare si è verificata a Primavalle, quartiere nella zona nord-ovest di Roma da poco sconvolto dai femminicidi della 17enne Michelle Maria Causo e dell’infermiera 52enne Rossella Nappini.

La scorsa notte intorno alle 2:00 è arrivata una chiamata ai carabinieri. I militari della Stazione di Roma Montespaccato e del Nucleo Operativo della Compagnia Roma Trastevere hanno ascoltato l’uomo e ne hanno seguito le indicazioni fino ad arrivare in via Pietro Gasparri. Sul posto è intervenuto il medico legale, il magistrato di turno ed i Carabinieri del Nucleo Investigativo per i primi rilievi.

I carabinieri hanno effettivamente trovato il cadavere della donna uccisa sigillato in un sacco all’interno di un armadio in una camera da letto. L’omicidio risalirebbe ad almeno una settimana fa secondo i primi rilievi medici, la donna sarebbe stata colpita da diverse coltellate che hanno raggiunto la donna alle spalle. Il sacco era chiuso quasi ermeticamente. Stando alle prime informazioni l’uomo, che non lavorava, non avrebbe mai dato segni di debolezza o di difficoltà psichiche.

“C’era troppo cattivo odore, non sapevo cosa fare. Non sapevo più come tenerla nascosta”, avrebbe dichiarato l’uomo secondo Repubblica. Il pentimento sarebbe arrivato mentre i carabinieri lo portavano via da casa. “Avevo un debito col condominio di tremila euro e non riuscivo a confessarglielo”. L’uomo aveva sempre vissuto con la madre. I vicini non avrebbero avvertito urla ma hanno raccontato di aver percepito quel cattivo odore, senza pensare a una tragedia del genere. Redazione Web 30 Settembre 2023

A Sirmione. Uccide la madre a calci e pugni, arrestato il figlio: la lite per un viaggio in Ucraina con la compagna. Redazione su L'Unità il 16 Settembre 2023

L’ha uccisa, massacrata di botte con calci e pugni dopo un litigio nell’appartamento di famiglia a Sirmione, in provincia di Brescia. Così il 45enne Ruben Andreoli ha ammazzato la madre Nerina Fontana, 72 anni, morta nella notte dopo essere arrivata in condizione disperate in ospedale.

L’uomo, che viveva nell’appartamento assieme alla madre e alla compagna, una donna di origini ucraine che ha assistito alla brutale aggressione, è un magazziniere in una azienda di Desenzano, appassionato di rally e runner di una polisportiva locale.

Andreoli, incensurato, ha aspettato l’arrivo dei carabinieri sul posto:  è stato arrestato con l’accusa di tentato omicidio e, dopo la notizia della morte della donna, l’ipotesi di accusa si è trasformata ovviamente in omicidio.

Restano ancora da chiarire i motivi della lite e del successivo pestaggio mortale, anche se secondo alcune indiscrezioni alla base del litigio sembrerebbe esserci un viaggio in Ucraina che l’uomo stava organizzando con la compagna, che voleva tornare nel paese d’origine pur in una fase così delicata del conflitto con la Russia. A chiamare i soccorsi sarebbero stati i vicini di casa, spaventati dalle urla provenienti dall’appartamento in cui vivevano Andreoli, la madre Nerina Fontana e la compagna del primo.

Sul posto oltre ai carabinieri è intervenuta la scientifica, che ha posto i sigilli all’appartamento per poter effettuare i rilievi e ricostruire così il “teatro” del delitto.

Come riferisce l’Ansa, Andreoli non ha risposto alle domande degli inquirenti nella notte dopo il fermo con l’accusa di omicidio colposo: l’uomo si è chiuso nel silenzio. Redazione - 16 Settembre 2023

Estratto dell’articolo di Gianluigi Nuzzi per “Specchio – la Stampa” lunedì 14 agosto 2023

Il popolare quotidiano spagnolo El Mundo per intenerire i suoi lettori scriveva che alla piccola Lina avevano dato un nome che fa rima con vita. In effetti, l'incredibile storia che state per leggere racchiude mistero, stupore e orrore ma anche nascita e fascino dell'esistenza. La peruviana Lina Marcela Medina, nata a Paurange il 27 settembre 1933, nella regione di Huancavelica, è in letteratura medica la più giovane mamma mai conosciuta nella storia del nostro pianeta. 

Siamo in una zona all'epoca assai poco sviluppata del Perù, tra il Pacifico e le foreste, Lina vive in una famiglia numerosa, è la penultima di ben otto figli: cinque maschi e tre femmine. Lei diventerà una mamma bambina dall'età talmente acerba da lasciare interdetti, tanto da pensare a una fake news sopravvissuta a controlli e verifiche. Ancora oggi è giusto nutrire dubbi su questo caso visto che Lina partorì nel 1939 alla tenerissima età di soli cinque anni, sette mesi e tre settimane di vita.

Un tragico caso umano, una storia contronatura che avrebbe dovuto determinare la caccia al pedofilo che aveva lasciato incinta questa bambina. […] l'unica persona sospettata venne poi scagionata. La storia inizia quando la piccola Lina vive inconsapevolmente i mesi della sua gravidanza e i genitori, Tiburcio Medina e Victoria Loza, non riescono a comprendere i dolori al ventre che la bimba accusa […] i Medina decidono di portare la piccola all'ospedale […] per i necessari accertamenti. 

[…] i dottori non faticarono a scoprire che Lina era incinta: la gravidanza era entrata nel settimo mese e sebbene i camici bianchi fossero di fronte a qualcosa di unico, assurdo e incredibile, tutto stava procedendo nella normalità. […] il medico che seguiva il caso, il dottor Gerardo Lozada Murillo di Arequipa, decise di portare la bimba nella capitale per farla visitare e confrontarsi con i colleghi del maggior nosocomio di Lima. […] si prospettavano dei rischi sia per lei stessa, sia per il suo piccolo. 

E così i medici […] decisero […] di procedere […] con il cesareo. Si costituì così un gruppo medico dedicato a seguire la baby mamma senza agitarla […] […] così, il 14 maggio 1939, nasce un bel maschietto, pesa due chili e 700 grammi. Diventa un caso e intenerisce i cuori visto che viene al mondo proprio nel giorno della mamma in Perù. Si chiamerà Gerardo Alejandro in onore del capo equipe e del suo aiuto […] L'intervento venne eseguito senza difficoltà […] Da quel momento il caso venne approfondito a livello internazionale, aprendo un dibattito tra esperti e scienziati.

C'era chi dubitava – e ancora oggi comprensibilmente dubita – della veridicità della storia stessa, chi invece cercava ragioni scientifiche alla risposta di fondo: a che età l'essere umano può procreare? Una foto dell'aprile del 1939 documenta la vicenda: riprende Lina in piena gravidanza, la bambina era al settimo mese e mezzo. Lo scatto la ritraeva a piedi nudi e mani incrociate dietro la schiena […] 

Sulla prestigiosa La Presse Médicale, escono diversi articoli a iniziare dal 13 maggio 1939, il dottor Edmundo Escomel affrontò il caso, sostenendo che già a otto mesi si può assistere alla comparsa del menarca, il primo ciclo mestruale, mentre altri colleghi indicavano i due, tre anni di età. E il seno? Può svilupparsi già a quattro anni.

Nel caso specifico, questa neomamma aveva un bacino ampliato già a cinque anni con uno sviluppo osseo sicuramente più avanti rispetto alla sua tenera età. […] ci fu anche una parte investigativa. I medici cercarono di capire chi potesse essere il padre. In tal senso, purtroppo, la bimba non forniva risposte che potevano in qualche modo aiutare all'identificazione. […] Lina nemmeno aveva consapevolezza di quanto accaduto […] Le indagini si svilupparono su voci e chiacchiere. A finire in manette fu il padre accusato di violenza sessuale e incesto. Ma alla fine l'indagine indiziaria non riuscì a formulare accuse motivate da prove solide. Tiburcio Medina venne prosciolto.

[…] Impossibilitata Medina a mantenere il figlio, le autorità del Perù decisero di costituire un'apposita a commissione che si occupasse del neonato e delle incombenze per la sua cura. Gli anni passavano e Lina prese consapevolezza della situazione e della genitorialità. E così il piccolo che scoprì solo a dieci anni che la ragazza che riteneva sua sorella maggiore in realtà era sua madre. 

A Lima, di giorno lavorava nella segreteria dell'ospedale del suo dottore di fiducia, Lozada, poi rientrava a casa per accudire il piccolo figlio. Una seconda foto testimonia il periodo e ritrae Gerardo alla vigilia del suo primo compleanno. La figura di Lozada fu centrale nell'esistenza della giovane mamma. Grazie a lui, Medina poté studiare, grazie alla generosità di questo medico il figlio poté frequentare e terminare le scuole superiori.

La ragazza era diventata una brava impiegata nemmeno quarantenne quando conobbe e si innamorò di Raúl Jurado, e con lui ebbe il suo secondo figlio nel 1972. Era una famiglia povera ma felice […] 

Purtroppo, la salute del primogenito era fragile tanto che Gerardo sette anni dopo morì a soli quarant'anni per una neoplasia cronica, la mielofibrosi. In Perù diversi saggi hanno ricostruito la vicenda anche se la donna, oggi ancora in vita a 89 anni, ha sempre rifiutato ogni richiesta di intervista […] Né Lina ha mai svelato il nome dell'uomo che abusò di lei. Ha preferito rimanere in silenzio […] 

Una storia simile a quella di Lina si registrò agli inizi del'900 in Brasile, nello stato di Bahia, dove una bimba, Inacia da Silva, partorì prematuramente a sette anni un feto già morto. […] a metà degli anni'80 ben il 15 per cento dei neonati era partorito da madri tra i dodici e i sedici anni non compiuti. […]

Un po’ la Franzoni la capisco”: sui social è polemica per la tazza gadget per la Festa della Mamma. Cristina Cucciniello su Il Riformista il 12 Maggio 2023 

A ridosso della ricorrenza che celebra le mamme, una nuova polemica infiamma i social. Una tazza-gadget artigianale, pensata per essere un irriverente regalo per le mamme, ha provocato accese discussioni su Twitter.

Perché? Il motivo è la frase impressa sulla tazza dagli artigiani che l’hanno realizzata, ovvero “un po’ la Franzoni la capisco”. Il riferimento al delitto di Cogne è chiaro.

L’idea è della coppia barese che anima la pagina Instagram chiamata “Piattini Davanguardia”, che propone in vendita oggetti di ceramica dal chiaro sapore irriverente, con, come in questo caso, un certo gusto per lo humour nero.

La tazza al centro delle polemiche è la classica mug bianca, ma la scritta sovrimpressa rimanda al celebre caso di cronaca avvenuto in Val d’Aosta: la storia di Annamaria Franzoni, condannata per l’omicidio del figlioletto Samuele, deceduto a soli due anni nel 2002.

Un riferimento incomprensibile per tanti utenti dei social. “Dopo questa, non vi sosterrò più”, scrive più di un utente. L’intenzione, si difende l’autrice della tazza, Annagina Totaro, non era quella di scherzare su una tragedia, ma quella di “una riflessione”, non necessariamente condivisibile, sui momenti in cui le madri, in preda all’ira, pensano “ora lo ammazzo”. Ma, come fanno notare gli utenti, la pezza è peggio del buco: la risposta della ceramista non convince.

Cristina Cucciniello

«La mamma non si tocca. O forse sì»: la pubblicità di Control «bloccata da un privato». Storia di Benedetta Boldrin per il “Corriere della Sera” l'11 maggio 2023.

Un sex toy, una donna fotografata in un momento di piacere e una parola: «Mamma». L’insieme non è piaciuto a chi avrebbe dovuto affiggere il cartellone pubblicitario nei propri spazi e la campagna di Control quindi non si vede in giro. Circola però sui social, con migliaia di like, condivisioni e commenti pro e contro: «La mamma non si tocca. O forse sì», è lo slogan che si legge nella foto-fake di un mega poster lungo un ipotetico viale alberato. «Non c’è stato permesso di far vedere quelle affissioni, allora abbiamo fatto una provocazione - spiega Fabio Padoan, co-fondatore di Together, l’agenzia che ha ideato la campagna -. Abbiamo detto: usiamo le persone. E la campagna l’abbiamo messa lo stesso, sui social. Vogliamo avere la possibilità di parlare di certe cose». Niente contenuti sponsorizzati - che sui social sarebbero comunque stati vietati da Meta in quanto contenenti riferimenti sessuali espliciti - ma influencer contattati e poi la risonanza del botta e risposta online. Ma chi ha bloccato la pubblicità di Control pensata per la Festa della mamma? «Non è stata fermata dall’organo di disciplina pubblicitaria - fa sapere Federica Conte, marketing manager di Control -. È stato un ente privato con cui c’era già un accordo su tempistica e budget». Ma che poi, quando ha visto la campagna, ha chiesto di cambiare immagine, di togliere quel sex toy così esplicito e di eliminare quella parola, «mamma». Legare la maternità al piacere, alla ricerca del piacere fine a sé stesso, è stato considerato troppo forte. Di più, su chi non ha voluto le affissioni, da Control non vogliono dire. «Non vogliamo scatenare la battaglia contro i fornitori degli spazi. E poi crediamo che il problema non sia di quel circuito specifico ma culturale», dice anche Padoan. Sia lui sia Control, parte del gruppo Artsana, hanno interesse a fare ancora pubblicità in futuro, certo. Ma non c’è modo così di verificare se il fatto sia vero oppure no e non c’è modo di sentire l’opinione di chi ha detto «no» a quel contenuto. Se fosse tutta una (furba) campagna di comunicazione? Non siamo in grado di dire se il blocco alle affissioni sia cosa certa. Ma c’è un tema - piacere, autoerotismo e maternità - su cui la polemica è partita, rimbalzando sul web. E allora forse questi pubblicitari hanno centrato un argomento che stimola riflessioni: come parlare di quello che è ancora un tabù? Sperando di sentirne discutere anche dopo domenica.

La mamma non si tocca. I figli che regalano vibratori e altri trucchi del capitalismo vittimista. Assia Neumann Dayan su L'Inkiesta l'11 Maggio 2023

Una azienda si inventa una campagna pubblicitaria per convincere le madri che è bello ricevere un sex toy per la festa della mamma. Ma vi sembra normale che qualcuno ci dica quali desideri dovremmo avere per essere emancipate?

A quel punto, come il ragionier Fantozzi quando apre tutti gli armadietti e credenze e cassetti della cucina pieni di pane, venimmo colte da un leggero sospetto: ci stanno forse prendendo in giro? Cosa lecita, per carità, è solo pubblicità. 

L’azienda Control – azienda che produce giochi erotici, vibratori, profilattici e altro – ha deciso di realizzare una campagna pubblicitaria per la Festa della Mamma il cui slogan è: «La mamma non si tocca. O forse sì». La gente inizia a dire: «Genio!» e quando la gente inizia a dire: «Genio!», lo sappiamo tutti poi come va a finire. 

In questo cartellone mai affisso perché la gente è bigotta e loro sono degli innovatori sotto c’è scritto: «Quest’anno falle un regalo che le farà davvero piacere. Regala Soul Vibes». Sto facendo pubblicità alla pubblicità? Inizierò a cercare Google su Google? Vale ancora il motto che la cattiva pubblicità è pur sempre pubblicità nell’epoca del politicamente corretto? In generale no, ma in questo caso sì, perché ci hanno messo il pretesto dei diritti delle donne, diritti delle donne che andrebbero affrontati con una dignità maggiore, e non certo per abbattere (va beh) gli stereotipi con altri stereotipi. 

Partirei da un punto fermo: una donna è mamma solo se ha figli, se no non è una mamma, anche se ogni anno, ogni seconda maledetta domenica di maggio, spunta il superclassico dei classici: un augurio per la Festa della Mamma anche a chi mamma non è. Ma perché? Ma in nome di cosa? È per via dei cani? O per i romanzi nel cassetto? 

Quindi, una donna è mamma se ha figli. Seguitemi, non perdetevi anche se so che è un ragionamento complesso. Durante la Festa della Mamma si festeggia la mamma, e chi la festeggia la mamma? Esatto, i figli. I papà non fanno il regalino, gli amanti non fanno il regalino, non lo fanno i suoceri, non lo fanno i vicini di casa, non lo fanno i rappresentanti classe, non lo fanno gli amici: sono i figli che fanno il regalino alla mamma. Perché? Perché è la Festa della Mamma. 

Non è la Festa della Donna, non è il compleanno, non è l’onomastico, non è la festa delle pari opportunità, non è la Festa della Repubblica, non si fa ponte perché cade di domenica: è proprio la Festa della Mamma, festa che esclude tutte le altre donne che mamme non sono, donne che non è che valgono di meno, donne che sono certa si siano fatte una ragione nel non ricevere un cuore di rafia e colla ogni anno. Scrivere come ha fatto Control: «Quest’anno falle un regalo», presuppone che si rivolgano ai figli, perché nessun altro fa il regalino alla mamma. E se vostro figlio vi regala un vibratore, chiamate immediatamente qualcuno che possa metterlo in una stanza con le pareti imbottite. 

Aveva ragione Carmelo Bene: voi sputate sul miglior Freud, voi applaudite l’ovvio. «Siamo convinti che il più bel regalo che possiamo fare a tutte le mamme sia una società priva di pregiudizi, non credi anche tu?», risponde Control a un uomo che trova la pubblicità inadeguata, l’utente poi dice che insomma è più un regalo che lui farebbe a sua moglie che non suo figlio a sua madre, e qui l’azienda scrive: «Esatto! Non devono per forza essere soli i figli a fare i regali alle mamme possono anche essere amici/partner». 

Ora, va bene la pesca a strascico, ma se un amico mi regala un vibratore chiamo immediatamente i carabinieri, e se mio marito mi fa un regalo per la Festa della Mamma forse non chiamo i carabinieri ma un tre stelle per la notte sì. Perché nostro marito dovrebbe farci un regalo per la Festa della Mamma? Perché gli abbiamo donato un figlio? Ma dov’è la parità genitoriale quando serve? Ma non vi viene in mente l’immagine plastica del patriarcato sotto forma di uomo che fa un regalo a sua moglie per la Festa della Mamma? A me sì. 

C’è in classifica da mesi Miley Cyrus che canta «I can buy myself flowers», ma il vibratore ce lo deve regalare nostro marito, mica possiamo comprarcelo da sole. Deve sempre esserci un uomo che ci regala ciò che lui pensa possa essere un nostro desiderio? E questo sarebbe sfatare i tabù? Poi cosa, le bambine possono vestirsi di azzurro? È svilente per le mamme perché non è tanto uno stereotipo sociale questo, ma una dinamica familiare. 

Il corpo cambia, cambiano i desideri, cambia pure la percezione del desiderio, e non è nemmeno colpa della società patriarcale, non è colpa di nessuno, si chiama matrimonio dopo i figli, cosa di cui nessuno vuole parlare e quindi si è reso necessario venderla come problematica sociale. Tutto questo non fa che riversare aspettative sulle donne: da un lato non ne possono più di essere chiuse nel ruolo di madri, dall’altro si vedono spinte verso desideri che magari non hanno e pensano che non averli le renda beghine. 

«Questa affissione non è mai uscita e il motivo non vi piacerà. Per la Festa della Mamma volevamo rompere un tabù che da troppo tempo esiste e dire a chiare lettere che, sì, anche le mamme possono provare piacere. Ma proprio come dice il nostro messaggio, l’immagine stereotipata e anacronistica della mamma non si tocca, tanto che la nostra campagna non si può promuovere sui canali social e non è potuta diventare una vera affissione», scrive Control su Facebook, in nostalgica polemica contro Antonio Zequila. 

Ora, a me piace sempre molto quando le persone si percepiscono Martin Luther King perché si sono tagliate con le forbici a punta arrotondata, ma mi piace ancor di più quando lo fanno le aziende. Il capitalismo vittimista non sarà quello che vende, ma è quello che si fa notare. Far passare per “tabù” un meccanismo psicanalitico che evita che ci buttiamo dal balcone non solo è pretestuoso, ma è anche in malafede, e hai voglia a scrivere che il vibratore possono regalartelo amici e parenti e non solo i figli se parli della Festa della Mamma. 

Amiche della brigata Giorgia Soleri che fanno atti politici mentre schiacciano un pisolino, a questo punto non siete anche voi colte da quel sentimento di leggero sospetto? Quel sospetto che ci fa pensare che adesso le aziende per vendere si intestino le nostre battaglie rivendicando cose a nostro nome, che ci dicano quali desideri dovremmo avere per essere donne emancipate? Perché dovremmo credere che le istanze di un’azienda che ci sta dicendo cosa dobbiamo desiderare siano vere se hanno un ritorno economico? 

La verità è che le buone cause non si vendono né si comprano, e questo vale per tutti gli attivismi sponsorizzati. Una settimana fa Control ha postato su Instagram un meme con un pupazzo, ora io non è che mi metto a descrivere i meme, comunque ha come didascalia: «Io che mi immagino mia madre che si masturba». Nessuno ha detto niente, perché era appunto un meme con la faccia di un pupazzo. Se volete fare la rivoluzione sessuale con i meme accomodatevi, io a questo punto preferisco avere il mal di testa.   

Nove figli, un menu unico per tutti: pasta e carne nella dieta della famiglia extra large. GIOVANNI VIGNA su Il Corriere della Sera il 12 Aprile 2023

Chi non mangia va a letto senza cena. Sono le regole di casa Prejalmini-Colombo. E cioè di Luca e Valentina, rispettivamente 36 e 32 anni. Due genitori come tanti altri e un numero di figli come pochi altri. Nove per l’esattezza. Dalla spesa alla gestione dei pasti, ecco come si organizzano ogni giorno

Nove figli, un menu unico per tutti. Chi non mangia va a letto senza cena. Sono le regole della famiglia Prejalmini-Colombo. Papà e mamma, Luca e Valentina, hanno rispettivamente 36 e 32 anni e abitano a Genova. Per accudire e sfamare i nove bambini, vanno a fare la spesa ogni giorno. «Spendiamo in media 20/30 euro a botta — spiega Valentina Colombo —. Andiamo principalmente nei supermercati e, a volte, nei discount, che però sono più distanti da casa nostra, a Sestri Ponente. Acquistiamo in base alle offerte. Quando siamo tutti a casa arriviamo a spendere più di 30 euro al giorno. Diversamente, cioè quando i ragazzi sono a scuola, arriviamo al massimo a 30 euro».

La grande famiglia

Valentina si dedica a tempo pieno alla famiglia mentre Luca è tornitore in una ditta di materiale plastico. Cucinano entrambi: «Di solito, tranne rare eccezioni, non prendiamo piatti pronti — afferma lei —. Il nostro, poi, è un gioco di squadra. Quando ci siamo tutti ci alterniamo ai fornelli: io, il mio compagno e mia madre. Scegliamo un menu e quello è. Cucino cose che piacciono a tutti. Se i ragazzi mangiano, bene, altrimenti significa che non hanno fame. In alternativa bevono un po' di latte. Ma non capita mai».

Il menu preferito

La piccola tribù di bambini ama particolarmente la pasta: condita con il sugo, il pesto alle genovese, il burro, al tonno o alla carbonara, accontenta un po’ tutti. «Non sono bambini che mangiano piatti elaborati — spiega la mamma —. Oltre alla pasta, mangiano una fettina di pollo o di carne impanata, prediligono piatti semplici a base di manzo, vitello, tacchino e pesce, oltre a insalata e contorni di verdura vari. A volte mangiano anche la carne di cavallo». La loro dieta comprende anche frutta e uova, in particolare minestroni e frittate, ricette che invogliano i bambini a mangiare. «Non consumano tanti dolci: ne compro pochi, non sono necessari — puntualizza Valentina —. In genere acquisto razioni limitate di biscotti, merendine, brioche, fette biscottate da mangiare con della crema al cioccolato o della marmellata. MA davvero capita poche volte. Le caramelle? Eccezioni».

L’incontro sui social

Luca e Valentina si sono conosciuti su Netlog, social network che ha anticipato l'era Facebook. «A nemmeno 20 anni ero incinta — ha raccontato Valentina al quotidiano Il Secolo XIX—. Se sognavo una famiglia numerosa? Avevo idea di fare magari tre figli, comunque almeno un maschio e una femmina». Ne sono arrivati nove, cinque maschi e quattro femmine, il più grande (Nicholas) ha quasi 12 anni, il più piccolo (Emanuele) meno di sei mesi. A completare il nucleo familiare, oltre alla nonna materna che è spesso presente per dare una mano, anche tre cani, un gatto, una tartaruga e un criceto.

Come ha detto papà Luca, è una famiglia in cui non ci si annoia mai. «La quotidianità è scandita da ritmi precisi — prosegue il giornale genovese —. La prima a svegliarsi, alle 5.30, è mamma Valentina. E da lì, poco dopo, inizia il valzer». La routine prevede che al mattino tutti si alzino in tempo: «Perché un conto è dire che li ho svegliati tutti, un altro è vederli effettivamente in piedi», conclude Valentina. Poi tutti a scuola e inizia la giornata.

La storia del piccolo e della disperazione di una madre. Enea, il neonato abbandonato con una lettera: “La mamma mi ama ma non può occuparsi di me”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 10 Aprile 2023

Chissà quanto dolore deve aver portato una madre a lasciare il suo neonato di pochi giorni nella “Culla per la Vita”. Una sorta di moderna “ruota degli esposti” attivata dal Policlinico di Milano nel 2007 e che consente di dare accoglienza e assistenza immediata ai neonati lasciati dalle loro mamme in anonimato. Enea è il terzo accolto da quando è attivo il servizio. E’ successo la domenica di Pasqua. La struttura si è attivata alle 11.40 e ha segnalato al presenza del piccolo di 2,6 kg. Nella culla insieme a lui è stata trovata una lettera piana di affetto scritta dalla mamma: “Ciao mi chiamo Enea. Sono nato in ospedale perché la mia mamma voleva essere sicura che era tutto ok e stare insieme il più possibile. La mamma mi ama ma non può occuparsi di me”.

Il piccolo è ora accudito dagli specialisti della Neonatologia alla clinica Mangiagalli del Policlinico, dove sta seguendo i controlli di routine, come spiegato da Repubblica. “E’ una cosa che pochi sanno – commenta Ezio Belleri, direttore generale del Policlinico di Milano – ma in ospedale si può partorire in anonimato, per la sicurezza di mamma e bambino. Inoltre esistono le Culle per la vita: la nostra si trova all’ingresso della Clinica Mangiagalli e permette di accogliere in totale sicurezza un bimbo che i suoi genitori non possono purtroppo tenere con sé. E’ una decisione drammatica, ma la Culla consente di affidare il piccolo ad una struttura dove gli sono garantite cure immediate e che preserva l’assoluto anonimato per i genitori”.

Secondo quanto riportato dal Corriere, la Culla per la Vita del Policlinico di Milano è attiva da 16 anni e questo è il terzo caso registrato. I primi due sono stati nel 2012 e nel 2016: due bimbi maschi che sono stati chiamati rispettivamente Mario e Giovanni. Il neonato sta bene, spiega Fabio Mosca, direttore della Neonatologia e della Terapia Intensiva Neonatale del Policlinico di Milano: “Vivo questo evento anche come una sconfitta a livello sociale, perché in qualche modo non siamo stati in grado di intercettare una madre in grande difficoltà. Madre che, qualora ci ripensasse, siamo pronti ad accogliere e ad assistere”.

Appena la mamma ha appoggiato il neonato nel vano della “culla” e ha schiacciato il pulsante che chiude la piccola cella allarmata, è arrivato l’alert nel reparto di Neonatologia e i sanitari sono subito andati a recuperarlo. Come spiegato a Repubblica dai sanitari, il piccolo è di carnagione bianca, avrà circa una settimana, era pulito e ben vestito, in buona salute e dal tono della lettera la mamma potrebbe essere una giovane donna italiana.

E’ coccolatissimo, prende il latte col biberon senza alcuna fatica, latte materno della nostra Banca del latte – ha detto a Repubblica Mosca – Gli abbiamo fatto tutti gli esami clinici necessari per capire il suo stato di salute, che sembra molto buono. Adesso starà con noi qualche tempo fino a quando le istituzioni non decideranno il suo futuro. Ma mi preme dire che questa giovane mamma è ancora tranquillamente in tempo per ripensarci e tornare a prenderlo, senza conseguenze. Noi non abbiamo capito che aveva bisogno ma adesso non si sentirà sola, sapremo aiutarla. Non deve preoccuparsi, comunque il suo gesto, lasciare questo bimbo in un luogo sicuro, già denota l’amore che ha avuto per suo figlio. Siamo noi del mondo sanitario, sono le istituzioni, sono i servizi sociali a non aver saputo cogliere i segnali di disagio. Ma c’è il tempo per recuperare”.

Ora il piccolo è stato affidato dal Tribunale per i minorenni all’ospedale Policlinico, come da prassi. Per il momento la sua famiglia sono i medici e gli infermieri. Poi dopo alcune settimane, il giudice potrebbe individuare una famiglia affidataria, dopo l’iter previsto per legge, dopo un tempo abbastanza lungo, perché la madre potrebbe ripresentarsi. “Il biglietto che questa mamma ha lasciato nella culla vicino a Enea racconta tutta la sua sofferenza. Sono parole scritte col cuore – aggiunge il professor Mosca – Si percespisce il dispiacere, il dolore che l’ha portata a fare questa scelta, che non è scriteriata, ma dettata dalla convinzione, evidentemente di non potercela fare da sola. E’ un appello alla società intera, siamo noi che dobbiamo chiederci perché questa mamma si è sentita così abbandonata da fare un gesto così disperato. Deve sapere che qui lei troverà una porta aperta se volesse tornare sui suoi passi. Siamo qui per aiutarla. Il problema è la sordità delle istituzioni di fronte a problemi sociali di questa gravità, non il suo senso di difficoltà di fronte a questa nuova vita. E se non se la sente, stia tranquilla, qui il bambino è in mani sicure”.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Estratto da ilgazzettino.it il 16 gennaio 2023.

Curiosa e gioiosa coincidenza al Cardarelli: mamma e figlia hanno partorito a distanza di poche ore. «Io, in anticipo, ho rotto le acque e dato alla luce Futura, 3 chili e 850 grammi», racconta Mara Barone, biologa, diventata madre per la seconda volta e, subito dopo, anche nonna. Paola, la primogenita avuta a 15 anni, ha messo al mondo Giovanni, 3 chili e 400 grammi. «Una emozione immensa», dice la ragazza ancora dolorante.

Le due donne hanno vissuto assieme anche tutta la gravidanza perché abitano nella stessa casa, nella palazzina di famiglia a Melito di Napoli. «Al piano di sopra c'è mia mamma, Lucia, per questi bambini preziosa nonna e bisonna contemporaneamente: il suo aiuto è stato decisivo già nella scelta di portare avanti la gravidanza, quando frequentavo ancora la scuola», sorride Mara, 35enne, ricordando con orgoglio le lezioni fino a 15 giorni prima della nascita e riprese due settimane dopo il fiocco rosa. […]

Enea abbandonato alla Mangiagalli: «Una famiglia entro un mese». Gli altri bambini che nessuno vuole adottare. Elisabetta Andreis su Il Corriere della Sera il 12 Aprile 2023

Valanga di richieste da aspiranti genitori, ma sono inutili: solo chi ha completato l'iter verrà considerato.  Poche invece le domande per piccoli con disabilità

Mentre centinaia di migliaia di occhi sono puntati sul piccolo Enea lasciato dalla mamma nella «culla della vita» alla clinica Mangiagalli e sull’onda del discutibile clamore mediatico le domande di adozione, per lui, si moltiplicano, ci sono altri bambini che faticano a trovare una famiglia. C’è ad esempio Fabio (nome di fantasia), «bello e affettuoso, nato prematuro nel settembre del 2021. A causa di alcune sofferenze perinatali riscontra un certo ritardo psico-motorio al momento non quantificabile ma è socievole, vivace e reattivo», raccontano dagli uffici del Tribunale per i minorenni guidato da Maria Carla Gatto. Aspettano i «loro» genitori un neonato portatore della sindrome di Down e un altro di sette mesi, Carlo, che ha la stessa sindrome e problematiche complesse legate all’alimentazione ma cresce regolarmente ed è curioso, aperto.

«Se qualcuno si propone per questi bambini con bisogni speciali che non hanno ancora trovato famiglia siamo pronti ad aprire subito l’iter con tutti gli approfondimenti necessari», sottolinea la presidente. Il supporto a chi adotta deve essere concreto a maggior ragione in casi come questi ma per tanti di questi bambini le storie di buona riuscita, a distanza di tempo, emozionano.

Intanto numerose offerte di disponibilità che continuano ad arrivare per il piccolo Enea, trovato la mattina di Pasqua nella Culla per la vita della clinica Mangiagalli, sono inutilizzabili: «Gli aspiranti genitori che si candidano adesso non possono essere presi in considerazione perché non hanno già completato l’iter con tutta la documentazione e le indagini psico sociali necessarie a perfezionare la domanda», spiega Gatto.

È un iter che dura circa un anno e anche chi lo ha concluso non può certo influire sulle scelte dei giudici onorari che compareranno tra loro le cinque candidature ritenute «migliori» nell’interesse del bambino e ne discuteranno in Camera di consiglio con anche i giudici togati e la stessa Gatto in qualità di presidente. «Oggi verrà aperto il procedimento di adottabilità e nel giro di un mese verrà selezionata la famiglia più idonea a crescerlo ma prima di procedere bisogna aspettare dieci giorni, ovvero il termine di legge utile per il riconoscimento dei genitori», precisano ancora dal Tribunale.

Al piccolo, che non dovrebbe poter essere riconosciuto, il nome verrà conferito dall’ufficiale di stato civile che formerà l’atto di nascita. Probabilmente non sarà Enea, ma la lettera che gli aveva scritto la mamma biologica accompagnerà sempre il suo fascicolo di adottabilità.

Molte associazioni, da Ai.Bi. al Ciai, polemizzano sulla gestione mediatica di questi giorni e su questo si esprime anche il procuratore capo del Tribunale per i minorenni Ciro Cascone: «C’è una curiosità eccessiva, troppo è stato detto. Bisogna far calare un velo di silenzio e rispettare la scelta dolorosa che questa mamma ha preso senza lanciare appelli che potrebbero suonare quasi come un colpevolizzante giudizio — dice Cascone —. L’opinione pubblica dovrebbe essere cauta e delicata, a maggior ragione quando si parla di maternità e di bambini».

Estratto dell'articolo di f.d.v per “la Stampa” l’11 aprile 2023.

 Ogni anno sono circa 300 i bambini abbandonati e non riconosciuti in Italia […] un fenomeno che riguarda circa 1 minore su 1.000 nati. La Società italiana di neonatologia (Sin), […] stima che la metà delle mamme che abbandona sia compresa tra i 18 e i 30 anni. «In base all'ultimo report (2022, ndr), il 37% delle donne sono italiane; circa la metà sono nubili. Il 58,9% ha un'abitazione fissa, l'84% partorisce in una città diversa dalla propria».

La motivazione che spinge verso questa decisione è per il 37,5% riconducibile a un disagio psichico e sociale, la paura di perdere il lavoro o le difficoltà economiche, invece, influiscono per 19,6%. Incide anche la preoccupazione che il nascituro abbia problemi di salute.

 […] La «Culla della vita» è un progetto del 1995 che consente alle mamme di lasciare i bambini in incubatrici riscaldate e monitorate h24 dai medici.  Il fatto di essere situate in luoghi nascosti, ma facilmente raggiungibili e nei pressi degli ospedali, garantisce alla madre la privacy e al bambino l'immediata presa in carico da parte dei sanitari. Appena il bambino viene appoggiato nella culla, infatti, scatta un sensore collegato con l'ospedale più vicino che allerta i medici che a loro volta possono far partire l'iter giuridico per l'affidamento attraverso il Tribunale dei minori.

[…] Nei 16 anni dall'installazione di questa culla sono stati solo tre i casi. L'ultimo proprio quello del piccolo Enea. Il «parto in anonimato», questo il termine burocratico specifico, rientra, invece, nel quadro del Dpr 396 del 2000 ed è una norma pensata per contrastare l'abbandono dei bambini appena nati e l'infanticidio. Una volta in ospedale, al momento del parto, le madri possono chiedere di «non essere nominate», cioè dichiarano di non voler riconoscere il bambino. […]

Estratto dell’articolo di Francesco Rigatelli per “la Stampa” l’11 aprile 2023.

Una piccola di otto mesi abbandonata nel 1965 a Villa Borghese a Roma ricorda il caso attuale di Enea.

 Quella bambina oggi è Maria Grazia Calandrone, 58 anni, candidata al Premio Strega con il libro Dove non mi hai portata (Einaudi), in cui ricostruisce la storia dei suoi genitori, che dopo averla lasciata si suicidarono buttandosi nel Tevere.

 Si sente un po' Enea?

«Forse sì, anche se abbiamo età diverse. Ci accomunerà probabilmente nel corso dell'esistenza il bisogno di capire, il dover rovesciare il tavolo dell'abbandono. Io ci ho messo quasi sessant'anni. Auguro il meglio a Enea, che tra l'altro ha un nome tutto un programma, carico di responsabilità».

 Rovesciare il tavolo, cioè?

«Nel libro ci ho messo molte pagine a spiegarlo, ma in pratica significa sostituire il risentimento dell'abbandono da parte dei genitori con la compassione per chi ha compiuto un simile gesto.

 A meno di specifici problemi non credo ci possa essere chi fa una scelta del genere a cuor leggero. Lo dico da donna realizzata con due figli, che sono la cosa più preziosa della mia esistenza.

Ho letto del medico che ha chiesto alla madre di tornare da Enea e temo che le abbia girato il coltello nella piaga, mentre lei probabilmente si sta strappando un pezzo di corpo. Quella donna ha tutto il mio rispetto».

 La storia di Enea le conferma che non prova più rabbia?

«Solo una grande tenerezza ormai. Il lavoro che ho fatto sulla storia dei miei genitori mi ha portato a comprendere cosa significhi un gesto del genere.

 Va considerato che l'abbandono può essere un atto d'amore estremo. Succede quando non si ritiene di poter offrire ai figli una vita accettabile. Per esempio per i miei genitori, Giuseppe e Lucia, io ero la figlia illegittima di due migranti interni.

 Il loro è stato un atto generoso […] I giornali dell'epoca insistettero sull'ipotesi dell'omicidio-suicidio, ma tutto porta a un doppio suicidio.

 Certo non li ho visti, però li ho talmente immaginato che mi pare di averlo fatto. E forse pure Enea un giorno vedrà sua madre dentro di sé».

 […] Insomma, conta solo l'amore che si riceve?

«Conta la prassi. Chi è presente, ti accudisce e ti dimostra affetto diventa il tuo genitore.

 Poi resta sempre una domanda sull'origine, ma nel mio caso non è stata ossessiva». […]

Estratto da corriere.it l’11 aprile 2023.

Dopo l’appello del professor Fabio Mosca alla mamma di Enea, il bambino abbandonato la mattina di Pasqua all’ospedale Mangiagalli di Milano, arriva anche quello di Ezio Greggio: «Torna ti prego, questo bambino è fantastico. Non è giusto che sia abbandonato, ti daremo una mano».

Il conduttore […]  invita la mamma di Enea a tornare alla Mangiagalli a riprendere il suo bimbo, garantendole anonimato e sostegno. «C’è tutto il reparto che ti sta aspettando nell’anonimato, nessuno dirà nulla… nomi, cognomi. Avere un bambino è una grande fortuna – ricorda Greggio -. Ci metteremo in tanti a darti una mano. […]».

Dagospia l’11 aprile 2023. Dal profilo Instagram di Selvaggia Lucarelli

Sto leggendo gli articoli (ovunque) su questa madre che avrebbe lasciato il proprio neonato in quella che oggi si chiama Culla per la vita e prima si chiamava Ruota dell’abbandono. Un luogo sicuro collegato ad un ospedale in cui lasciare un bambino che non si vuole o non si può crescere.

 Un servizio giusto, se non fosse che nel momento in cui tu offri quel servizio per evitare che una madre, magari incapace di gestire la situazione, magari spaventata all’idea di doversi rivelare o dover dare spiegazioni, sarebbe cosa opportuna rispettare il silenzio. Il silenzio di chi ha preso una decisione cercando l’anonimato.

 Il chiasso di questi giorni è indelicato e profondamente sbagliato. Il Policlinico ha diffuso la notizia, ha condiviso con la stampa il testo della lettera lasciata dalla madre, ci si è lanciati in identikit parlando di giovane età visto lo slang “giovanile” della lettera. Il primario, addirittura, ha rilasciato un’intervista parlando di sconfitta della società e invitando la madre a ripensarci, se vorrà. Ecco. Se io decidessi di non tenere mio figlio vorrei tutto tranne questo.

Leggere sui giornali i titoli sulla mia scelta, il nome del bambino, i giudizi altrui, il testo della mia lettera spiattellato, il primario che ritiene la mia decisione una sconfitta per tutto il paese che non ha saputo ascoltare il mio grido di dolore (ma chi l’ha detto, poi?). Insomma. Non sbandierate queste opportunità come prova di grande civiltà se poi la scelta di una madre anonima la gestite come un lancio stampa di Sanremo. E non stupitevi, soprattutto, se la prossima madre, magari spaventata dall’eventuale clamore, il neonato lo lascia in un cassonetto. P.s. Ora abbiamo anche Greggio che fa l’appello perché la donna ci ripensi. Ovviamente il padre non pervenuto, lui ha il diritto all’oblio.

Estratto dell’articolo di Flavia Amabile per “La Stampa” il 12 aprile 2023.

Ventiquattro ore di parole in libertà invece del silenzio che dovrebbe accompagnare la scelta di una donna. Da quando la clinica Mangiagalli ha deciso di pubblicizzare l'arrivo di una madre alla "Culla per la vita" presente nella struttura per lasciare il figlio appena nato, in tanti hanno deciso di dare consigli, lanciare appelli, esprimere opinioni di cui di sicuro la donna non aveva bisogno dopo aver trascorso nove mesi a pensarci su.

 Il primo a lanciare un appello è stato Fabio Mosca, primario di Neonatologia del Policlinico di Milano. Dopo aver trovato il neonato la domenica di Pasqua insieme ai medici della clinica Mangiagalli, aveva invitato la donna a cambiare idea offrendo sostegno e aiuto. Poi c'è stato il comico Ezio Greggio - che si è definito «zio Ezio» - a promettere alla donna che non sarebbe stata sola se fosse tornata a prendere il bambino. P

Per provare a convincerla ha usato argomenti e termini che hanno fatto inorridire chiunque si occupi di questioni legate all'infanzia. «Il bimbo è bellissimo e sta bene», ha assicurato, come se il canone estetico avesse un ruolo nella decisione. Poi, ha aggiunto: «Prenditi il tuo bambino che merita una mamma vera, non una mamma che poi dovrà occuparsene ma non è la mamma vera».

 Forse voleva provare a far sentire alla madre l'importanza del suo ruolo, aggiungendo un ulteriore carico di senso di colpa. In realtà è riuscito a offendere migliaia di genitori e figli titolari di affido e di adozione.

[…] Sommerso dalle critiche, il giorno dopo l'appello, Ezio Greggio ha provato a fare una lieve marcia indietro scrivendo che non c'era alcuna «polemica verso quelle fantastiche mamme e famiglie che adottano i bimbi abbandonati», ma ha rilanciato il suo appello: «Mamma di Enea se ami il tuo bimbo e il tuo desiderio è tenere il tuo bimbo siamo in tanti pronti ad aiutarti, sei ancora in tempo a ripensarci».

 In tanti, sui social, si chiedono perché questi appelli non vengono rivolti anche al padre del bambino senza pensare che potrebbe anche non sapere di essere diventato padre.

Oppure si chiedono, in modo più corretto, a che cosa serva la culla della vita se poi non si rispetta la privacy di chi decide per qualsiasi motivo di lasciare il neonato.

Anche perché di fronte alla risonanza avuta dal gesto, alle polemiche, agli appelli, in futuro una donna nella stessa situazione potrebbe scegliere di non portare avanti fino alla fine la gravidanza o di lasciare il bambino in luoghi meno protetti dove la sopravvivenza del bambino sarebbe a rischio.

[…]

Cortocircuito solidale. Nel gran baccano milanese intorno al piccolo Enea è andato tutto male. Assia Neumann Dayan su Linkiesta il 12 Aprile 2023

La donna che ha partorito alla Mangiagalli aveva un desiderio e non è stato accolto, non è nemmeno stato protetto il suo anonimato, non è stato protetto il bambino, e alla fine ci si è messo in mezzo pure Ezio Greggio a fare la morale

Poteva succedere ovunque, e invece è successo proprio a Milano. È successo alla Mangiagalli, l’ospedale dove nascono i veri milanesi, la fabbrica della futura classe dirigente, dove si narra che se vai in solvenza al Santa Caterina viene Cracco a prepararti un toast, dove ci sono le sale parto con la cromoterapia e le casse stereo con i suoni della natura, e soprattutto dove c’è la ruota per la vita, l’ultimo chiodo nella bara del diritto all’anonimato.

La verità è che nella storia di Enea tutto è andato male. La sua mamma lascia il bambino al sicuro insieme con una lettera, dice che ha partorito in ospedale per stare più tempo con il neonato che è «super sano», e che gli vuole bene, ma non può tenerlo.

La gente questa cosa non la accetta, perché l’unico concetto che abbiamo imparato e che consideriamo valido è: dove si mangia in due si mangia anche in tre. Quindi la gente, che comprende il primario, le mamme, le nonne, Ezio Greggio, non ci sta: i soldi te li diamo noi, non devi lasciare tuo figlio visto che hai scritto una lettera tanto caruccia. Inizia quindi il cortocircuito: non devi abortire, però attenta, se lo dai in adozione ripensaci, ti aiutiamo noi, noi che non abbiamo problemi di soldi.

Insomma, questi figli li dovete tenere, è finita la farsa che i figli sono di chi li cresce, i figli sono di chi li fa: aggiungete un posto a tavola che c’è un bambino in più, che volete che sia. Viviamo in un’eterna elemosina dove possiamo solo sentirci migliori, datemi un senso di colpa e vi solleverò il mondo.

La mamma di Enea avrà letto tutti gli appelli, i social, avrà guardato i telegiornali, si sarà vista in prima pagina su tutti i quotidiani: era questa dunque la garanzia dell’anonimato? Non è stato protetto l’anonimato della madre, non è stata protetta la madre, non è stato protetto il bambino, le donne che vorranno portare a termine una gravidanza dando il bambino in adozione ci penseranno due volte prima di farlo, e poi arriva pure Ezio Greggio a farti la morale da Abu Dhabi, che mi sembra il salto dello squalo che possiamo permetterci.

Le mamme di Milano su Facebook si sono subito prese per mano in una gara di solidarietà, cosa che di solito fanno con la domestica, la tata fuori sede, la cugina povera, e di certo non con tutto questo entusiasmo.

Magari la mamma di Enea si sarà detta che era meglio abortire, o magari sta pensando che davvero può riprendersi il figlio visto che tanta gente la vuole aiutare, e che tutti i suoi problemi in questo modo finiranno. È tuttavia curioso che quando una donna dichiara di avere difficoltà economiche e di non riuscire a mantenere i figli le si dica «potevi pensarci prima», mentre in questo caso tutti sembrano portatori di specchiata solidarietà.

Fabio Mosca, direttore del reparto di Neonatologia e Terapia intensiva neonatale del Policlinico, ha detto: «Se ci ripensasse, l’ospedale è pronto ad accoglierla e ad assisterla. È una lettera che la consapevolezza di non poter offrire il meglio al proprio bambino. Una donna in una condizione di profondo disagio che non abbiamo colto e che, nella ricca Milano, dovrebbe fare riflettere tutti». Ma non è che Milano non è poi così ricca? Chi mai a Milano si è accorto del disagio di qualcuno? È evidente che se Fabio Mosca parla di difficoltà economiche, e lui ha letto la lettera e noi no, di quello si tratta. Dove si mangia in due si mangia anche in tre, ma non a Milano.

Poi la gente ha iniziato a dire: ma il padre di Enea? Perché nessuno chiede al padre di riprenderselo? Forse perché anche questa è una scelta, insindacabile, della madre? Forse perché a partorire sono le donne? Forse perché il papà aveva finito il congedo parentale? Abbiamo sempre detto che l’interruzione volontaria di gravidanza è una scelta delle donne, e adesso la scelta di partorire e dare in adozione il bambino diventa una scelta condivisa? Sono davvero tempi strani.

Questa, però, è anche una storia sulla letteratura. Se la mamma di Enea non avesse scritto una lettera così bella e struggente non ci sarebbero stati nessun racconto e nessuna storia da prima pagina. Le parole sono pericolose perché esprimono desideri, e i desideri una volta che vengono esauditi, non ci sopravvivono.

La madre avvelenata con le penne al salmone: "Un figlio non ce l'ho più". Alessandro Leon Asoli, il 21 enne che nell’aprile del 2021 avvelenò sia lei che il suo patrigno, uccidendolo. La donna ancora non riesce a perdonarlo: "Ha provato a soffocarmi quando ha visto che non morivo". Valentina Dardari il 14 Gennaio 2023 su Il Giornale.

"Non riesco a perdonarlo per quello che ha fatto. Quando ha visto che non morivo ha cercato di soffocarmi". Aveva solo 19 anni suo figlio Alessandro Leon Asoli, quando ha ucciso il patrigno Loreno Grimandi, e tentato di uccidere la madre Monica Marchioni, con un piatto di penne al salmone a cui aveva aggiunto del nitrato di sodio. E' la donna a parlare dopo mesi, dopo l'omicidio del 56enne avvenuto il 15 aprile dello scorso anno a Ceretolo di Casalecchio, in provincia di Bologna. E dopo la condanna a 30 anni per il giovane da parte della corte d'Assise di Bologna. La donna si era salvata, solo perché aveva mangiato meno rispetto al marito. Il giovane si è sempre dichiarato innocente, gettando invece la colpa sulla madre e accusandola di essere l’unica responsabile di quanto avvenuto.

Ecco come vive adesso

Marchioni, assistita dal suo legale, l’avvocato Marco Rossi di Modena, come riportato dal Corriere di Bologna ha raccontato come sta vivendo adesso. Ha fatto sapere che sta seguendo un lungo percorso di elaborazione con una psicoterapeuta e una psichiatra e che ha venduto la casa in cui è avvenuta la tragedia. Parlando del ragazzo ha ammesso: "A oggi non lo ritengo più mio figlio. Sì facevamo tanti viaggi, uno degli ultimi era stato a New York, io e marito ci prendevamo sempre cura di lui. Provavamo a dargli sempre le cose migliori, non so se sia stato questo l’errore. Di certo lui è molto cambiato quando abbiamo deciso di chiudergli i rubinetti delle disponibilità economiche e infatti tutto quello che ha fatto era finalizzato a non dover studiare né lavorare quindi a trovare la via più breve, ad avere il nostro lascito prima del tempo".

Il ricordo di quella tragica notte

La donna si sente divisa in due: da una parte c’è la madre che ha sempre amato suo figlio, mentre dall’altra c’è la vittima di un reato. "Ha provato a uccidermi provando a soffocarmi e urlandomi cose cattive dopo che ero stata avvelenata. Sono cose che sto provando a superare, ma non è semplice. In quei drammatici momenti gli dicevo “Chicco ma cosa fai? Sono la mamma, lasciami andare". Lo chiamavo così “Chicco”, ma anche in quelle frasi in lui non ci fu la minima esitazione. Come si fa a sopravvivere a questo ricordo?", ha ammesso la donna. Per quel figlio, che non ha più sentito, continua ogni giorno a pregare.

Ma ancora non pensa di riuscire a perdonarlo, soprattutto perché dal processo è emersa la premeditazione delle sue azioni. Voleva l’eredità e aveva cercato su internet, utilizzando l’iPad della madre, i veleni da utilizzare. Usava sempre l’apparecchio indossando i guanti, per non lasciare impronte che potessero rimandare a lui. Alessandro era cambiato, dopo aver concluso con difficoltà gli studi si era preso un anno sabbatico e aveva detto di voler andare a vivere da solo. Per questo gli era stata presa una casa in affitto a Bologna dove avrebbe dovuto trasferirsi quindici giorni dopo. La donna ha ricordato che il figlio "era attratto dalla capacità di influenzare la personalità e i comportamenti delle persone. Una volta ci disse che voleva fare un rito con un amico per diventare potente ma ovviamente gli dicemmo di non permettersi a farlo. Oppure spesso diceva con noncuranza “Tanto a breve mi suiciderò”, comportamenti che a me preoccupavano tantissimo, ma al tempo stesso ritenuti a Loreno atteggiamenti detti in modo leggero".

Come ha fatto a salvarsi

La Marchioni si è salvata solo per il fatto di aver mangiato meno di suo marito, che si è subito sentito male, perché si era accorta che la pasta aveva un sapore strano. "Quando ha visto che non morivo ha cercato di soffocarmi e per fare tacere le mie grida mi dava dei pugni. Una lotta interminabile, ho pensato che non avrei più visto il giorno e non sarei riuscita ad aiutare mio marito. Si è fermato solo quando ha sentito i vicini che urlavano e calciavano la porta e forse i carabinieri, ero sotto choc. Lui mi ha detto "Vedi cosa hai combinato? Ora vai lì e devi dire che va tutto bene”. Invece ne approfittai per aprire la porta e trovare così la salvezza".

La donna è certa che se adesso andasse a trovare il figlio non riuscirebbe a essere sincera e sa di non poterlo aiutare perché adesso ha bisogno lei stessa di aiuto. A coloro che pensano che un genitore debba sempre saper perdonare un figlio, la donna ha affermato: "Credo che nessuno possa giudicarmi per questo. La mia vita è stata completamente distrutta. Ho perso la persona che amavo e anche un figlio, che a sua volta è il responsabile di tutto questo. Chi vive la mia esperienza non dimentica, impara a convivere con il suo dramma".

Il Matrimonio.

Il Divorzio.

Il Cognome.

Il Nome.

La Paternità.

La denominazione.

Il Matrimonio.

Il modello dominante. Il concetto di famiglia secondo la destra: etero, bianca e procreativa. Ecco quindi la contrarietà alle famiglie arcobaleno e alla loro genitorialità, allo jus soli, gli ostacoli alla procreazione assistita, il reato universale di gestazione per altri: insomma, il rifiuto della declinazione plurale di famiglie. Andrea Pugiotto su L'Unità il 25 Ottobre 2023

1. Il privato che si fa pubblico per un fuori-onda televisivo e un fatto personale che diventa politico tramite un tweet. In sintesi, è questa la dinamica del “caso” che vede protagonisti la premier e il suo (ex) compagno di vita. Il linguaggio da trivio e la postura da maschio-alfa di Giambruno sono stati diffusamente stigmatizzati, mentre la reazione di Meloni ha avuto commenti misti per tutti i gusti.

Con un riquadro in prima («Chapeau. Se invece volete gossip leggete un altro giornale»), L’Unità ha scelto di non occuparsene. Non credo di rompere l’embargo se di questa vicenda segnalo la cultura politica che veicola e la trascende. Sta tutta in un interrogativo: quando i leader del centrodestra alzano le loro insegne («Dio, Patria, Famiglia»), a quale famiglia fanno riferimento?

2. Non è quella tradizionale affermatasi nella storia italiana, a lungo costitutiva della cultura nazionale. Richiamarsi ad essa sarebbe anacronistico (e politicamente controproducente), perché i suoi caratteri un tempo irrinunciabili si rivelano, oggi, regressivi e inaccettabili.

L’indissolubilità del matrimonio. Una struttura familiare gerarchica a subordinazione femminile.

Un diritto di famiglia che – prima della riforma del 1975 – ammetteva il delitto d’onore e l’estinzione del reato di violenza carnale con nozze riparatrici. La responsabilità penale del marito limitata ai casi di «abuso» nei mezzi di correzione della moglie. Il reato del solo adulterio femminile, inizialmente salvato dalla Corte costituzionale proprio richiamando il «tradizionale concetto della famiglia, quale tuttora vive nella coscienza del popolo» (tranne, anni dopo, rimuoverlo con sent. n. 126/1968). Fino a l’altro ieri, questo era il modello familiare di casa nostra. Nessuno, al governo, credibilmente lo rimpiange.

3. Non è neppure la «società naturale fondata sul matrimonio» (art. 29 Cost.), la famiglia sbandierata dal centrodestra. Sarebbe contraddittorio: i suoi leader passati e presenti (Berlusconi, Fini, Casini, Salvini, Meloni) sono divorziati o non sono sposati o hanno finto di esserlo (pensando all’inedito berlusconiano delle “nozze” simulate con l’ultima “moglie”). Sarebbe anche un uso improprio di quella formula costituzionale che non incorpora un modello familiare fondato sul diritto naturale. Lo scopo dell’art. 29 è ben altro, come spiegò Costantino Mortati in Assemblea costituente: indicare nella famiglia una realtà preesistente allo Stato, con «una sua autonomia originaria, destinata a circoscrivere i poteri del futuro legislatore in ordine alla sua regolamentazione».

I Costituenti intesero così marcare il confine tra autonomia familiare e sovranità statale. In ciò, ammaestrati dalla storia patria che aveva conosciuto obbrobri come l’obbligo di improntare l’istruzione e l’educazione dei figli al sentimento nazionale fascista; il divieto (per gli ebrei) di sposarsi in territorio italiano; il divieto di nozze con stranieri per non contaminare la razza. Nessuna prescrizione di un modello, dunque, tantomeno confessionale. Semmai, uno scudo a difesa della libertà di scelta, a cominciare da quella del proprio partner.

4. Forse il centrodestra difende la famiglia monogamica, quale unione tra un solo uomo e una sola donna? Lo si può realisticamente escludere. Le biografie dei suoi leader raccontano di più relazioni e di più figli, di primo e secondo letto. Nulla di illegittimo, anzi: è il nostro ordinamento a non elevare la monogamia a cardine dell’istituto familiare. La sopravvenuta depenalizzazione dei reati di adulterio e di relazione adulterina. L’introduzione del divorzio per scelta legislativa, poi confermata dal referendum popolare. La conseguente possibilità di creare nuove famiglie – anche legittime – senza il passaggio obbligato della vedovanza.

I doveri costituzionalmente imposti ai genitori verso i figli, legittimi o naturali che siano. Sono tutti tasselli che hanno ridefinito il paradigma monogamico dei tempi andati. Oggi, «non si può avere più di un coniuge per volta, ma se ne possono avere più di uno in sequenza» (Chiara Saraceno). Oggi, non solo si consente, ma addirittura si ammette l’esistenza di rapporti poligamici di fatto, riconoscendone gli effetti giuridici tra le generazioni.

5. A cosa alludono allora i leader di centrodestra? Quando invitano a difenderla, pensano a una famiglia trinitaria: etero, bianca, procreativa. È questa che vogliono tutelare legislativamente, agevolare con specifiche misure economico-sociali, culturalmente difendere e diffondere. Nella loro visione, le tre componenti devono suonare in stereo: l’assenza anche di una sola, infatti, cambia la musica e giustifica un diverso spartito. Serve esemplificare? La contrarietà alle famiglie arcobaleno e alla loro genitorialità, di cui si vieta la trascrizione.

Il rifiuto di una legge sulla cittadinanza improntata allo jus soli (per quanto temperato), perché favorirebbe successivi ricongiungimenti familiari da paesi extraeuropei. Le agevolazioni per le famiglie a prole numerosa, purché italiane. Gli ostacoli legislativi alla procreazione assistita. Il divieto penale universale della gestazione per altri, anche quando solidale (così, se ieri nascevano i figli del peccato, oggi nasceranno i figli del reato). È la declinazione plurale di famiglie che non piace e che, dunque, va avversata. Tutto si tiene. Purché si resti entro il perimetro della famiglia etero-bianca-procreativa, nella propria vita privata ogni altra possibile combinazione è tollerata. Lo testimoniano le loro biografie, da questo punto di vista per nulla incoerenti.

6. Senonché, il diritto (costituzionale, in particolare) parla un lessico familiare diverso. Quanto alla nostalgia per la famiglia «granaio della Nazione», contrarre matrimonio non è mai stato un diritto esclusivo di chi è idoneo a procreare naturalisticamente. Può sposarsi la coppia di anziani. Lo può fare il transessuale con il partner del suo sesso originario. Si celebrano nozze in punto di morte.

Dentro o fuori dal matrimonio, avere figli è una libera scelta individuale: infatti, la sterilizzazione volontaria non è più reato; quello di propaganda delle pratiche contraccettive è stato dichiarato incostituzionale (sent. n. 49/1971); la legge sull’aborto riconosce il diritto soggettivo alla procreazione cosciente e responsabile (art. 1, legge n. 194 del 1978). Sono tutti esempi di come, giuridicamente, sia stato da tempo tagliato il cordone ombelicale che univa famiglia e funzione procreativa. È vero: il calo demografico rappresenta un problema nazionale. Lo si potrebbe affrontare con una politica migratoria inclusiva. Se non lo si fa è perché ne uscirebbe divelto uno dei tre picchetti (la famiglia bianca) che si vuole ben piantato a terra.

Quanto al paradigma eterosessuale, resiste solo nell’istituto matrimoniale, come ha confermato la Consulta con una sentenza (n. 138/2010) tra le più discusse in dottrina. Ma non permea di sé le formazioni sociali a vocazione familiare che vediamo intorno a noi: unioni civili, coppie di fatto, famiglie unipersonali, allargate, omo-genitoriali, monoparentali. Famiglie che tali sono (non per il diritto, ma) per la vita, perché capaci di inedite e autentiche relazioni di cura: «è così difficile capirlo? Quello che fa davvero la differenza è la legge dell’amore» (Massimo Recalcati). Non la legge della natura o del codice civile.

7. Se le cose stanno così, l’opposizione farebbe bene allora ad abbandonare il moralismo di chi addita l’ipocrisia altrui. Irridere i leader di centrodestra perché amano così tanto la famiglia da averne più d’una è inutile ed anche sbagliato: infatti, le loro sono – tutte – unioni etero, bianche, procreative.

La posta in gioco è molto più alta. Voler imporre, attraverso il diritto, un modello dominante di famiglia implica narrare le altre come marginali e devianti, esponendone i componenti al pregiudizio sociale. Serve forse ricordare che, nella storia, sono sempre iniziate così tutte le discriminazioni peggiori? Andrea Pugiotto 25 Ottobre 2023

Il Bestiario, il Gossipigno. Il Gossipigno è un animale leggendario che approfitta delle vicende familiari personali per attaccare la "famiglia tradizionale". Giovanni Zola il 26 Ottobre 2023 su Il Giornale.

Il Gossipigno è un animale leggendario che approfitta delle vicende familiari personali per attaccare la "famiglia tradizionale".

Il Gossipigno è un essere mitologico nato dal dio Presunzione e dalla dea Arroganza che, convinto di essere dalla parte della ragione, si erge a paladino della morale, sempre pronto a puntare il dito dimenticando quel minimo di empatia di circostanza propria degli esseri umani e assente negli animali leggendari. Così il Gossipigno, approfittando della separazione dell’anno, sulla quale non ha molto da dire, si scaglia sul concetto di "famiglia tradizionale" che la protagonista della stessa rottura famigliare avrebbe tradito, dimostrando grave incoerenza morale. Di questo si nutre il Gossipigno, dimostrando scarsa intelligenza e pessimo buon gusto.

Il Gossipigno infatti grugnisce frasi sconnesse. Il Gossippigno della specie Zan ha affermato: "Almeno lasciate in pace le famiglie che vogliono stare insieme", come se difendere la "famiglia tradizionale" impedisca ad altre tipologie di coppie di vivere insieme. Anche "l’incoerenza con l’avvocato del popolo intorno" ha detto la sua: "Invito la destra a evitare di elaborare modelli culturali che poi si vogliono imporre a tutti i cittadini, modelli culturali impregnati di forte ideologia costruita su modelli astratti come la famiglia del Mulino Bianco che poi si rivelano poco rispettosi delle scelte di vita personale che poi loro stessi non riescono a tradurre in pratica". Infine l’immancabile Selvaggia giornalista, ma anche giudice, ma anche influencer, produttrice in proprio di acido muriatico e simpatia, ha affermato: "Dio, Patria, Famiglia? Speriamo che abbia capito che la famiglia è imperfetta".

Ma di cosa parla il Gossipigno quando parla d’amore? Tralasciando la famiglia delle prime lettere Lgbtq+, che tecnicamente non è una famiglia, ma una coppia e che onestamente oramai crea poco interesse, vi sono nuove forme "familiari" più stuzzicanti e progressiste. Si chiama "Non-monogamia etica" e definisce i rapporti con più di un partner con il consenso di tutte le parti coinvolte. All’interno del poliamore il numero di componenti è variabile e una famiglia poliamorosa può vivere insieme e avere dei figli senza rinunciare ad altre relazioni. Talvolta le cose si complicano, soprattutto all’interno di famiglie poliamorose composte da un uomo eterosessuale e una donna bisessuale. Può capitare che l’uomo (maledetto patriarcato), pretenda dalla partner una "one penis policy" ("politica dell’unico pene"), chiedendole di avere relazioni soltanto con donne. D’altra parte ogni famiglia ha i suoi guai.

Dunque è vero che la "famiglia tradizionale" sia imperfetta, ma questo non vuol dire che in quanto imperfetta sia sbagliata. Il Gossipigno critica chi difende la "famiglia tradizionale" perché incoerente, quando non è la coerenza a rendere vera la realtà. Se giudicassimo l’uomo dalla sua coerenza chi si salverebbe? Ciò che conta è la tensione ideale al vero. Viceversa, per evitare l’incoerenza, certa ideologia demolisce le regole naturali della famiglia, confezionando verità relative comode ad ogni esigenza. 

Maschi bianchi, etero e cattolici: perché la sinistra woke ci incolpa di tutto. In Maschio bianco etero & cattolico. L'uomo colpevole di tutto (Il Timone) Giuliano Guzzo ripercorre le più folli tesi di un'ideologia che ci vorrebbe affibbiare tutti i mali del mondo. E fornisce anche una via di uscita. Matteo Carnieletto il 26 Ottobre 2023 su Il Giornale.

"Sono maschio bianco eterosessuale e cattolico. Insomma, sono pericoloso". Lo scrive Giuliano Guzzo nel suo ultimo libro che, ovviamente, si intitola Maschio bianco etero & cattolico. L'uomo colpevole di tutto, pubblicato per i tipi del Timone. Lo scrive lui, ma potremmo scriverlo tutti noi perché noi tutti, almeno una volta nella vita, lo abbiamo pensato. Anzi: lo abbiamo provato. Tutti, o quasi, ci siamo sentiti guardati in cagnesco solamente perché incarnavamo queste caratteristiche. Meglio: questi valori. Solamente perché eravamo, e siamo, certamente bianchi ed eterosessuali e - anche se forse non siamo degli stakanovisti dell'acquasantiera, per dirla alla Giovannino Guareschi - cattolici. Lo siamo però con il dito puntato addosso. Con il faro che ci illumina la schiena, come dei galeotti qualsiasi che, da un momento all'altro, potrebbero commettere chissà quali atrocità. Tipo dire che il divorzio è male, che l'aborto è pure peggio e che i bambini hanno il diritto di avere un padre ed una madre. E non due padri o due madri. E nemmeno una famiglia allargata all'americana, corredata da Labrador e polpettone domenicale d'ordinanza, ovviamente preocotto.

Per l'ideologia liberal e woke, che oggi va per la maggiore, noi uomini bianchi, eterossessuali e cattolici siamo i colpevoli di tutto. E lo siamo come categoria, non come singoli individui che possono scegliere tra il bene e il male. Che hanno, in poche parole, il libero arbitrio. Siamo noi i colpevoli di ogni femminicidio. Siamo noi i portatori (in)sani della "mascolinità tossica". Esagerazioni? Non proprio. Pensate all'omicidio della povera Giulia Tramontano, brutalmente ammazzata insieme a suo figlio Thiago da un compagno e padre criminale. C'è chi ha scritto che il killer non è solo un uomo - quello che l'ha uccisa e che ha un nome e un cognome (Alessandro Impagnatiello) - ma "il maschio bianco". Che è come dire: anche io che sto scrivendo queste parole sono colpevole. Anche tu che le stai leggendo lo sei. Tutti i maschi lo sono.

Ovviamente non è così. Anche perché gli uomini sono forti, non violenti. O almeno dovrebbero esserlo. E se oggi non lo sono più è anche colpa di un certo femminismo che, negli ultimi decenni, ha puntato a picconare e disgregare l'istituto familiare, facendo crescere generazioni di orfani di padri. Esagerazioni da reazionari? Non proprio. Cito Guzzo: "Se da un lato i giovani che crescono col padre presente hanno più probabilità di vivere una crescita equilibrata - imparando anche a elaborare l'esperienza del fallimento, in una prospettiva di resilienza, per dirla con un termine ultimamente in voga - dall'altro quando invece il papà manca sono danni e dolori". E qui arrivano i dati, tremendamente puntuali e corredati da riferimenti alle fonti: "I ragazzi abbandonati dai padri hanno più difficoltà accademiche, un quoziente intellettivo più basso e la metà dei bambini ricoverati per malattie psichiatriche hanno precisamente questo in comune: l'assenza paterna. Tra gli adolescenti senza papà si manifestano più facilmente comportamenti aggressivi e sono più alti i tassi di consumo di marijuana. Tra i bambini coi padri biologici assenti aumenta inoltre il rischio di subire abusi e la presenza di patrigni da questo punto di vista non aiuta, anzi".

Siamo quindi sotto attacco ed è bene che iniziamo a rendercene conto. Anche perché è arrivato il momento di reagire. Non con la violenza che tutto distrugge (come vorrebbero le femministe), ma con la forza che fa scudo e che allontana il male. Per questo, al termine del libro, c'è spazio per la speranza. Perché l'uomo bianco e etero è anche, e soprattutto, cattolico. E dalla sofferenza, anzi dal sangue, fa germogliare la resurrezione. La rinascita. Da quest'incubo mischiato di sentimenti pelosi e politicamente corretto, noi uomini possiamo uscirne. E possiamo farlo nell'unico modo possibile per un uomo: rimboccandoci le maniche ed essere uomini veri. Come san Giuseppe (e temo che se qualche femminista che scrive su Repubblica o qualche attivista Lgbt è arrivato fin qui potrebbe svenire). "Lui è davvero nella penombra, dato che non ci viene riferito alcunché di quanto abbia detto, non una sillaba, nulla di nulla. Ciò nonostante, egli può essere ritenuto un esempio, anzi per gli uomini l'esempio. Per quale motivo? Semplice: per ciò che ha fatto. (...) Ha saputo mettere in salvo la sua famiglia, crescendo peraltro un figlio eccezionale". Impariamo da lui. Orgogliosi di essere maschi bianchi eterosessuali e cattolici.

Da “Posta e risposta – la Repubblica” sabato 2 settembre 2023.

Caro Merlo, c’ero anch’io in piazza a Bologna quando, nel giugno scorso, lei e Filippo Ceccarelli ci avete raccontato le avventure di “casa Meloni”, prevedendo e persino anticipando l’escalation di trovate del fidanzato d’Italia Andrea Giambruno e del cognato d’Italia, Francesco Lollobrigida, i due maschi ad alto rischio del governo Meloni. 

Ma in fondo Giambruno può essere visto come una piccola vittoria del femminismo. Anche il familismo si è emancipato: non la moglie di Cesare combina guai, ma il marito di Cesare.

Lilly Rosano - Bologna 

Risposta di Francesco Merlo:

Solo a prima vista c’è un bel progresso del costume in questo malcostume che rovescia lo stereotipo: la moglie “ingravida” il marito, e il marito (o compagno), nella dimensione parassita del macho che traffica nel nome della moglie, ne mette a rischio la carriera. L’Italia che, come lei acutamente nota, è stato il Paese della moglie di Cesare, rischia di diventare il Paese del marito di Cesare. 

Tra le tanti mogli che inguaiarono Cesare ricordo, senza ordine, la moglie di Crispi, la prima moglie di Fanfani, la signora Leone, la signora Dini, la moglie dell’ex presidente della Banca d’Italia Fazio, e poi tutte le mogli e le compagne che i grandi scrittori italiani imposero come scrittrici. E ci sono ovviamente le Mulieres di Berlusconi. A guardar bene, però, con Giambruno e Lollo non siamo alla versione maschile della moglie di Cesare, ma allo svampitello che imbarazza la moglie e tuttavia la gratifica: è la debolezza che ne certifica la forza.

Nella famiglia politica più familistica che l’Italia abbia mai avuto al potere, comandano le due sorelle e gli ometti a rimorchio, con le loro poche e maschiette trovate, alla fine confermano e persino esaltano il potere della Padrina, della Godmather, come una volta accadeva, all’inverso, con “la bionda del capo”. 

La maggiorata svampita al maschile diventa il palestrato svampito. Non mi pare che il femminismo italiano, che si incantò davanti alla Meloni, meriti questo finale da commedia buffa. Quel genio misogino di Carmelo Bene, arrestato perché aveva picchiato la moglie, disse ai carabinieri: “Sono io la moglie di me stesso”.

Estratto dell’articolo di Gianluca Nicoletti per “la Stampa” il 17 luglio 2023.

Ho sperimentato l'unione sologama. Ora sono marito di me medesimo, anche moglie però. Per non negarmi nulla ho attraversato anche la terza opzione, sono diventato così anche compagn* di me stess*. 

L'officiante di questa mia plurima esperienza matrimoniale solitaria è stata la performer digitale Elena Ketra, che al Gazometro di Roma in questi giorni ha installato una postazione dove è possibile coronare la propria storia d'amore autarchico, con marcia nuziale in chiave sologamy. La pratica, pare che abbia origini giapponesi. 

A Kyoto un'agenzia specializzata offrirebbe pacchetti per matrimoni "self-wedding", a cui sarebbero interessate soprattutto donne alla ricerca del proprio benessere interiore. La cerimonia matrimoniale sologamica da me celebrata è però stata austera, algida e tecnologica.

Tutto si è svolto davanti al touchscreen di un totem che riproduce uno smartphone grande quanto una persona, nulla è stato concesso allo sfarzo pacchiano, a cui ci ha abituati la classica iconografia barocca del wedding planning di cultura mediterranea.

[…] 

Tutto questo però è sicuramente parte del messaggio dirompente dell'installazione: «Filo conduttore della ricerca di Elena Ketra è l'empowerment femminile e l'inclusione sociale, ponendo come centro della riflessione il sé come persona, oltre stereotipi di genere». Proprio in forza di questo non mi sono limitato all'autosposalizio nella mia banale collocazione anagrafica, per farlo però sono stato costretto al triplice adulterio nel giro di un paio di minuti. Il problema di coscienza che questo mi ha provocato ancora debbo elaborarlo. […]

È comprensibile un'assegnazione civile di condivisione tra chi dovrà fare un mutuo, spartirsi oneri familiari, convivere e sostenersi quando possibile, ereditare. È pure parte delle libertà individuali scommettere sull'esistenza di un principio superiore e metafisico, che si farà garante del carattere imperituro di tale unione. Ammettiamo pure che a certe latitudini le convinzioni sociali impongano, in nome del quieto vivere, che questo passaggio avvenga in parchi a tema appositamente costruiti, con un esercito di parenti e amici agghindati e speranzosi di potersi satollare a fronte di denaro gettato in liste di nozze o rimpolpamento di bustarelle, acquisto di abbigliamento, scarpe trucchi e parrucchi da bruciarsi in una sola giornata.

Potrà pure esserci una via alternativa allo sprezzante raccapriccio da parte di chi si sente superiore a tutto questo? Ogni pretesa di originalità sponsale è tracimata velocemente nella burinate del tipo matrimonio in masseria, officiato da un Masai, del banchetto etnico-vegano, della sposa con le sneakers. Si scorra a proposito l'illuminante rassegna on line "case pacchiane" e se ne avrà ampia documentazione. […]

Come anticipato io per strafare ho seguito tre volte la stessa procedura, per ognuno dei miei tre matrimoni con la mia persona. Ogni volta quindi ho promesso di amarmi e prendermi cura di me, di non permettere a nessuno di ferirmi o di farmi del male (se a qualcuno però questo desse un po' di gusto? Si può derogare? È ammesso il cilicio e l'autoflagellazione? Non vorrei fosse discriminatorio verso le minoranze che amano tali pratiche catartiche). 

Ho anche promesso che mi batterò sempre per difendere le mie idee e la mia libertà (lo sto dimostrando in questo mio perculaggio benevolo). Ho infine promesso che mi basterò e non mi lascerò mai solo (anche sola e sol* naturalmente). 

Purtroppo tra le tre opzioni di rilascio della certificazione degli avvenuti matrimoni ho scelto quella più micragnosa: il rilascio gratuito di un pdf spedito per mail.

Una signora attempata chiedeva se avessero valore legale, tutto oggi è credibile e questo è il segno della contemporaneità. Forse avrei potuto anche permettermi l'opzione intermedia: «Certificato di matrimonio firmato a mano dall'artista in cartoncino bianco 40X40», al costo di euro 85,40. Mai avrei però potuto ambire all'offerta premium: sempre firmato a mano da Elena Ketra ma con sontuosa «stampa su alluminio specchiato 70x70, certificato e numerato» per cui alla fine 732,00 euro sembrano persino pochi […]

La lunga battaglia dei comunisti in Parlamento e nel paese per rinnovare il diritto famigliare. Paolo Persichetti su L'Unità il 24 Giugno 2023

Il 19 maggio 1975 il parlamento approva il nuovo diritto di famiglia, una legge che ha cambiato profondamente la vita delle donne italiane e quella delle bambine e dei bambini nati da rapporti extraconiugali, considerati per questo illegittimi. Nuovi figli di coppie separate che non potevano essere riconosciuti o peggio figli della «colpa», nati da un adulterio, celati, nascosti, marchiati.

Kant in una pagina della Metafisica dei costumi, dove affronta il regime giuridico della famiglia, del matrimonio e della donna, scrive pagine terribili sui figli nati da adulterio, paragonati a merce avariata che subdolamente si infiltra nella società corrompendola. Un male da tenere fuori della vita civile e giuridica. Dei minus habens, semplicemente «bastardi» nel linguaggio popolare e le loro madri delle poco di buono. Quello che oggi nelle grandi metropoli occidentali viene vissuto come un segno distintivo di emancipazione, la famiglia monoparentale, fino a pochi decenni fa era uno stigma sociale che segnava profondamente la vita delle «ragazze madri», giovani donne senza compagno, abbandonate o che avevano allacciato rapporti con uomini sposati.

Guardate con disapprovazione, poste sotto tutela, rischiavano di perdere i figli da un momento all’altro, sottratti e rinchiusi in istituti dove si allevavano neonati illegittimi o abbandonati, i brefotrofi. Chi scrive è stato uno di quei bambini «illegittimi» divenuti improvvisamente «naturali» col nuovo diritto di famiglia. Avevo 13 anni e la definizione «naturale» per molto tempo ancora ha suscitato in me un certo divertimento, l’illegittimo infatti sembrava d’improvviso divenuto più genuino e vero del figlio regolare anche se la nuova legge, che assicurava «ai figli nati fuori del matrimonio ogni tutela giuridica e sociale», non eliminava tutte le differenze.

La riforma giungeva al termine dopo un iter molto travagliato lungo nove anni. Un contributo notevole al suo compimento era venuto del referendum dell’anno precedente che aveva confermato la legge sul divorzio. La sconfitta delle istanze reazionarie del fronte «clerico-fascista», come veniva definito all’epoca, aveva liberato energie trasformatrici. La rivoluzione entrava in famiglia, spariva la plurimillenaria figura del pater familias tramandata dal diritto romano, un arcano giuridico del patriarcato. Venivano modificati gli articoli del codice civile del 1942, adeguandoli al dettato costituzionale, in particolare all’articolo 29 secondo il quale «il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi».

La moglie non seguiva più la condizione civile del marito, “assumendone il cognome con l’obbligo di accompagnarlo ovunque questi crede opportuno di fissare la sua residenza”, come recitava l’art. 144 del codice civile e non perdeva più la cittadinanza se sposava uno straniero. Vale la pena sottolineare, perché la memoria non è mai neutra, che a questo salto di civiltà, oggi patrimonio comune, si oppose ferocemente la destra, la stessa che oggi governa questo paese. Una destra che si è emancipata malgrado se stessa, grazie ad una legislazione sui diritti che aveva sempre osteggiato.

Bisogna ricordarsene soprattutto oggi che altre forme di relazioni tra persone si sono affermate, dando vita a famiglie omoparentali che nuovamente la destra osteggia in nome di una visione della famiglia che pochi decenni prima combatteva. La famiglia «naturale» di cui la destra favoleggia oggi altro non è che la famiglia nata con la legge del 1975.

***

L’Unità 23 aprile 1975

La riforma del diritto di famiglia è legge dello Stato. L’ha approvata in via definitiva, ieri pomeriggio a conclusione di un dibattito assai serrato, la commissione Giustizia della Camera che, a grande maggioranza, ha votato la legge nel testo modificato dal Senato.

Sul provvedimento, che il ministro della giustizia Reale si è impegnato a pubblicare immediatamente sulla Gazzetta Ufficiale – appena gli giungerà il «messaggio» della Camera – al termine di battaglie che hanno caratterizzato tre legislature, sia a Montecitorio che Palazzo Madama vi è la stata la convergenza dei consensi della grandi forze popolari – comunista, socialista, cattolica – e di quelle repubblicane e socialdemocratiche, per contro, si è registrata l’emarginazione della estrema destra fascista, attestata su posizioni reazionarie e conservatrici.

La legge innova profondamente la normativa sui rapporti fra coniugi, sulla contrazione del matrimonio, sul regime patrimoniale, sulla separazione. In definitiva «salta» il vecchio impianto della legislazione familiare, pur se non è stato possibile evitare taluni limiti.

Il voto favorevole dei deputati comunisti è stato annunciato dalla compagna Nilde Jotti, la quale ha anzitutto rilevato, dopo aver ricordato polemicamente le tenaci resistenze di una certa Dc di dieci anni fa, che la riforma attua finalmente principi fondamentali della costituzione. La legge risponde ai mutamenti intervenuti nella società, nella quale è cresciuto il senso della parità fra uomo donna e della pari responsabilità di fronte alla famiglia e alla società. Ed è cambiato anche col cambiare del mondo, il rapporto fra gli esseri umani, per cui è andata accentuandosi la necessità della solidarietà e della tolleranza.

La compagna Jotti ha quindi posto in rilievo gli elementi più qualificanti della riforma, quali la parità fra i coniugi e la eguale responsabilità nella conduzione della famiglia e nei confronti dei figli, la comunione dei beni, il riconoscimento dei figli nati fuori dal matrimonio ed ha affermato che i comunisti sono lieti di essere stati «parte creatrice» della riforma. Non si tratta qui di calcolare – ha sottolineato la dirigente comunista – quanto ognuno di noi abbia dato alla elaborazione della riforma. Si tratta piuttosto di rilevare come, pur attraverso momenti travagliati – lo scontro sulla legge di divorzio e nel referendum abrogativo – che hanno visto divise e su opposte sponde le grandi forze popolari e democratiche, il processo di affermazione unitaria per un nuovo diritto di famiglia sta avanzando e sia stato, alla fine, vittorioso contro tutte le posizioni conservatrici e reazionarie.

Questo sottolineiamo – ha detto la compagna Jotti – anche se non perdiamo di vista che le posizioni arretrate hanno lasciato nella legge il loro segno. Respingiamo infatti la parte della legge che impone come obbligo la fedeltà coniugale mentre alla Camera avevamo stabilito che questo deve essere un impegno partecipe dei coniugi. E critichiamo non tanto la surrettizia introduzione tramite il dispositivo della sentenza del concetto di colpa nella separazione, quando le conseguenze che da esse si fanno derivare in modo particolare nel rapporto con i figli.

Tuttavia – ha concluso la compagna Jotti – il nostro voto è favorevole e convinto sicuro, perché al di là di taluni limiti i principi fondamentali della riforma restano e liquidano finalmente dalla nostra legislazione, a trent’anni dalla Liberazione, un ciarpame ingiusto, violento e arcaico che era un disonore per il nostro paese

[…]

Una riforma che «non costa» allo Stato, ma che «rende» molto a tutti componenti della famiglia sul piano dei princìpi e sul piano pratico, nella vita quotidiana e in prospettiva. Questo è il valore del nuovo diritto familiare che scalza il vecchio codice civile, con tutte le sue regole dettate da una concezione del nucleo familiare risalente a Napoleone. La famiglia con la legge approvata ieri, non è più vista come una piramide che ha al vertice il marito «capo» e monarca assoluto, padre e padrone nello stesso tempo.

Riconoscendo i diritti delle donne e accogliendo i principi costituzionali, la riforma innanzitutto pone la parità tra i coniugi e colloca in primo piano gli interessi morali e materiali dei figli. L’unità della famiglia trova d’ora in poi la sua vera forza e la sua ragione d’essere nel consenso, non più nell’autoritarismo, mentre viene riconosciuta l’autonoma personalità (e i diritti-doveri) di ciascuno dei suoi componenti, il marito, la moglie, i figli.

La legge non imponendo un «modello», riconosce la mutata realtà della famiglia italiana e nello stesso tempo è aperta al suo sviluppo: da questa conquista sul piano giuridico emerge infatti l’urgenza di altre conquiste sul piano politico e sociale per dare una risposa a tutte le esigenze del nucleo familiare, dei cittadini d’oggi. Da questa riforma, dunque, viene la sollecitazione per altre riforme: dalla famiglia rinnovata viene la spinta al rinnovamento della società.

Paolo Persichetti 24 Giugno 2023

DAGONEWS il 2 maggio 2023.

Alzi la mano chi non ha avuto una storia non per amore o per solitudine. È successo anche a Tracey Cox che rivela: «Ancora oggi mia sorella è perplessa perché ho avuto una relazione con un ragazzo di 15 anni più giovane quando avevo 40 anni. Non era per sesso. La risposta è che mi sentivo sola. Scrivevo libri e colonne, facevo programmi TV e lavoravo sette giorni su sette. Non avevo il tempo o l'energia per trovare un uomo che fosse mio pari e gettare le basi per un amore sano e a lungo termine. Ma ogni tanto desideravo qualcuno da coccolare. Quindi, ho preso una soluzione comoda e poco stressante: un ragazzo simpatico che chiedeva poco, ma riempiva un vuoto. Non mi vergogno e nemmeno tu dovresti farlo se hai fatto lo stesso.

Avere una relazione per smettere di sentirsi soli è un motivo valido. È sicuramente più valido che mettersi con qualcuno per i suoi soldi. Come esseri umani, siamo programmati per desiderare connessione e compagnia. Le donne più degli uomini, perché diamo maggiore enfasi all'intimità emotiva rispetto agli uomini. Ma non sono solo le donne».

In un recente studio statunitense, il 45% degli uomini e il 52% delle donne ha affermato di rimanere nella loro relazione perché si sentono soli e non hanno un supporto emotivo altrove. Un altro motivo per cui si rimane insieme quando non siamo innamorati è la paura. Paura di restare soli, paura di ricominciare, paura di non riuscire a trovare qualcun altro. È una tendenza umana comune e ci spinge ad aggrapparci a ciò che è familiare, anche se non ci rende felici.

È solitudine o amore? Ecco i cinque campanelli di allarme per capirlo.

Temi di rimanere in una relazione per i motivi sbagliati? Fai questo test. 

1. I tuoi amici non "capiscono" la tua relazione. La ricerca dimostra che i nostri amici sono i migliori giudici: capiscono chi è giusto per noi. Meglio dei nostri genitori o di noi stessi. 

2. Sei te stesso con questa persona? Se hai una relazione motivata dalla solitudine, hai paura di perdere il partner. Diventi la persona che pensi voglia che tu sia, non chi sei. Immaginati con il tuo migliore amico. Sei la stessa persona che sei con il tuo partner? O ti stai modificando per paura di perderlo?

3. Sei felice di stare da solo con il partner? Va bene essere estroverso e godersi la compagnia. Altro è non riuscire a stare solo con lui. 

4. Diventi geloso facilmente? La gelosia irrazionale è radicata nella nostra paura dell'abbandono. Pensa al tuo passato. È successo qualcosa che ti ha fatto sentire come se qualcuno di significativo ti avesse lasciato quando ne avevi più bisogno?

5. Cosa ti ha fatto scegliere questa persona? Hai pensato: “Farei meglio a sistemarmi con qualcuno o non rimarrà nessuno?” O “Forse la mia lista dei desideri era un po' irrealistica?”. Su quali aspetti ritieni di essere sceso a compromessi? Sono cose grandi, importanti o cose superficiali?

Estratto da ilfattoquotidiano.it il 16 aprile 2023.

Prima sposa un pupazzo poi rimane incinta due volte, ma niente paura: dopo il lieto annuncio nascono dei pupazzini. La storia della 37enne brasiliana Meirivone Rocha Morales è uno di quei casi socio psicologici dove non comprendi realmente se chi hai di fronte “ci fa o ci è”, come si suol dire. 

Pensate, qualche tempo fa la ragazza aveva sposato ufficialmente un pupazzo, tal Marcelo. Sì: vestito bianco, anello, giuramento, bouquet lanciato tra le pupazze single. Insomma tutto come in ogni cerimonia nuziale che si rispetti. Solo che il coniuge di Meirivone è un pupazzo di pezza a grandezza naturale con pizzetto e riccioli neri. 

[…] la 37enne felice e contenta del suo nuovo marito comincia a documentare su Instagram e TikTok la vita quotidiana con il coniuge. Tanto che a un certo punto si paventa pure una crisi matrimoniale perché lui l’avrebbe tradita con una pupazza (o no?). Il tradimento porta con sé dolorosi strascichi, tutti documentati online con 56mila follower che impazziscono per le vicende di coppia dei due.

A un certo punto però Meirivone perdona il marito birichino perché è incinta. Fermi tutti. La manfrina è la solita, con tanto di esame ufficiale, ma alla fine a nascere è un pupazzetto simile a papà. La nostra signora dei turchi gli fa il bagnetto, gli dà la pappa e siamo da capo. 

 […] E anche stavolta alla crisi segue la solita “ricompensa” per le corna subite: lui, il pupazzo, rimette incinta la moglie, non pupazza. Meirivone è felice come una pasqua e pubblica un video con il solito test di gravidanza che risulta positivo. “[…] Questo nuovo bambino salverà il nostro matrimonio”, ha spiegato Meirivone. In attesa di capire se è di pezza anche questo, l’indirizzo della signora per le autorità sanitarie è visibile e pubblico.

DAGONEWS il 28 gennaio 2023.

I dati dell'Ufficio nazionale di statistica mostrano che il 2021 è stato il primo anno in cui sono nati più bambini fuori dal matrimonio che nel matrimonio.

 Questo dato segue una tendenza a lungo termine di diminuzione dei tassi di matrimonio e di aumento del numero di coppie conviventi registrata negli ultimi decenni.

Per spiegare questo declino, il dottor Max Blumberg, psicologo delle relazioni e membro della British Psychological Society, afferma che il matrimonio non offre più quello che offriva un tempo.

Di seguito spiegati i motivi per i quali l'istituzione tradizionale è in via di estinzione.

 1. LE RAGIONI TRADIZIONALI DEL MATRIMONIO NON HANNO PIÙ IMPORTANZA

Tradizionalmente, le donne avevano bisogno della stabilità economica e della mobilità sociale del matrimonio.

Anche fino agli anni '60 o più tardi, uomini e donne avevano ruoli ben definiti. Ma le strutture sociali moderne rendono questo aspetto sempre meno importante e la vita delle donne è ora molto più flessibile.

 Lavorano, fanno carriera, hanno figli e si occupano della casa, che siano sposate o meno. Anche gli uomini stanno diventando più flessibili nei loro ruoli, ma non allo stesso ritmo delle donne.

 2. LE PERSONE SI SPOSANO QUANDO SONO FELICI (E NOI SIAMO MENO FELICI)

Le persone più felici hanno maggiori probabilità di sposarsi rispetto a quelle infelici, semplicemente perché le persone infelici hanno difficoltà ad avere relazioni e sono più  difficili da gestire.

 Quindi un declino della salute mentale e della felicità si collega a un declino del matrimonio.

 3. CRESCENTE ACCETTAZIONE DELLA CONVIVENZA

La convivenza è sempre più accettata dalla società, con crescenti richieste di protezione legale.

Spesso si crede che vivere con qualcuno prima del matrimonio possa ridurre l'impatto di un successivo divorzio.

 In realtà, la convivenza può comportare più rischi del matrimonio in caso di rottura della coppia. Eppure è sempre più diffusa, forse semplicemente perché è più facile e i genitori non la disapprovano più.

 4. GLI ALTI TASSI DI DIVORZIO DIPINGONO UN QUADRO NEGATIVO

Si stima che il 42% dei matrimoni nel Regno Unito finisca con un divorzio. Spesso uno dei motivi principali sono le discussioni sulle finanze.

 5. NON CI SONO PROVE CHE DIMOSTRINO CHE IL MATRIMONIO RENDA PIÙ FELICI E PIÙ SANI (SOPRATTUTTO PER LE DONNE)

I benefici del matrimonio per gli uomini sono piuttosto evidenti.

Gli studi hanno dimostrato che gli uomini sposati hanno una salute e una felicità migliori. Hanno meno malattie ed una migliore salute mentale.

 Ma non è così chiaro per le donne.

 Nel suo libro del 2020 Happy Ever After: A Radical New Approach to Living Well, lo scienziato comportamentale Paul Dolan della London School of Economics ha analizzato dati globali.

Ha scoperto che le donne single senza figli spesso dichiarano di essere più felici di quelle sposate.

 Inoltre, vivono più a lungo. 

 Le ricerche dimostrano che le donne single possono avere maggiori legami sociali e svolgere più attività sociali, il che è un indicatore chiave della felicità.

 6. COSTO DEI MATRIMONI

Secondo il National Wedding Survey di Hitched, il costo medio di un matrimonio nel 2021 è stato di 17.300 sterline.

 Si tratta di un aumento del 90% rispetto all'anno precedente, in cui i costi erano di 9.100 sterline.

 In una situazione di crisi del costo della vita, molte coppie potrebbero semplicemente pensare che un matrimonio sia troppo costoso e non sia in cima alla loro lista di priorità.

7. LIBERAZIONE SESSUALE E PILLOLA

Il mondo è ormai pieno di siti di incontri. Allo stesso modo, la pillola ha permesso alle donne di liberarsi e di avere un maggiore controllo sul proprio corpo.

 Le donne e gli uomini sono liberi di fare ciò che vogliono e non hanno bisogno di far parte di un'istituzione come il matrimonio.

 8. LE DONNE NON HANNO PROBLEMI A VIVERE LA MATERNITÀ DA SOLE

Oggi c'è meno stigma sul ricorso a donatori di sperma o sull'essere una madre single.

 E se una donna può permetterselo, come sempre più spesso accade, questa sembra essere un'opzione.

 Allo stesso modo, se una coppia rimane incinta ma uno dei due non vuole avere il bambino, l'altro potrebbe scegliere di crescerlo da solo.

 9. LE PERSONE NON VOGLIONO INVESTIRE

Quando una persona valuta se sposarsi o meno, valuta quanto investirà emotivamente e finanziariamente e quale sarà il ritorno che ne ricaverà.

 Il matrimonio implica inevitabilmente la necessità di scendere a compromessi su alcune cose. Non avrete la libertà di fare ciò che volete.

 Allo stesso modo, potreste scoprire che le vostre finanze si riducono, perché finiscono in una piscina condivisa e non avete più la possibilità di decidere come spendere i vostri soldi.

 Le persone guardano al ritorno che ottengono dal loro investimento e, se non sembra sufficiente, non si sposano. Il valore e i benefici devono essere superiori al costo.

10. NASCERE FUORI DAL MATRIMONIO NON È PIÙ UNA VERGOGNA SOCIALE

Chi ha più di 50 anni può ancora alzare un sopracciglio su un bambino nato fuori dal matrimonio. Ma la maggior parte delle persone non lo farà.

 Questo è probabilmente legato al calo di potere della Chiesa.

 Gran parte del tradizionale stigma sociale derivava da una visione religiosa. Ma un recente censimento ha mostrato che sempre meno persone sono affiliate a una chiesa nel Regno Unito.

 Non è una coincidenza che l'aumento dei bambini nati al di fuori del matrimonio cresca in concomitanza con il declino della frequentazione delle chiese.

 11. FLUIDITÀ SESSUALE

Le giovani generazioni sono molto più inclini ad avere una mentalità aperta rispetto alle generazioni più anziane. 

Un numero crescente di persone è gay, lesbica o pansessuale, oltre ad avere una fluidità di genere.

 Se le persone vogliono frequentare persone di sesso diverso e variegato, anche in questo caso il matrimonio è meno probabile che sia un'opzione, soprattutto perché la Chiesa non sostiene ancora il matrimonio gay.

 12. MANCANZA DI MODELLI DI PERSONE SPOSATE

Siamo ormai alla seconda generazione di persone che scelgono di non sposarsi.

 Molti di loro sono cresciuti senza genitori sposati. Allo stesso modo, i media non si concentrano più sulle coppie sposate. Quindi ci sono sempre meno modelli sposati a cui guardare.

Il Divorzio.

Il Bestiario, il Divorzigno. Il Divorzigno è un animale leggendario che non vuole ammettere che i figli possano soffrire per la separazione dei genitori. Giovanni Zola il 27 Settembre 2023 su Il Giornale.

Il Divorzigno è un animale leggendario che non vuole ammettere che i figli possano soffrire per la separazione dei genitori.

Il Divorzigno è un essere mitologico che nasce alla fine degli anni Sessanta dalle ceneri della cultura cattolica e che protesta per la raffigurazione di figli che desiderano vedere i genitori stare insieme. Così il Divorzigno salta sulla sedia quando si imbatte in uno spot che non solo rappresenta la famiglia come una coppia tra un uomo e una donna, ma li induce a sentirsi in colpa di fronte alla loro bambina che li vorrebbe ancora insieme. Sia ben chiaro: per Divorzigno non s’intende colui e colei che si separano tout court, ma chi afferma che sia una scelta normale e senza conseguenze per i più piccoli.

D’altra parte sono cinquanta anni che il Divorzigno finanzia studi e ricerche di mediocri psicologi e sociologi per far dire loro che la “felicità” dell’adulto viene prima di ogni cosa, anche prima dei figli. L’ombra del patriarcato aleggia su tutti noi come il male assoluto. Così gli scienziati esperti si sono sforzati così tanto di dimostrare che l’”amore” passa e se ne va e che sia giusto inseguire l’emozione del momento, che hanno deciso che i figli non hanno diritto di soffrire. I sociologi, amici del Divorzigno, ci hanno insistentemente spiegato che non siamo responsabili delle nostre azioni perché siamo il prodotto di circostanze che non abbiamo scelto. Il Divorzigno, quando si separa, si giustifica, per alleggerire il peso a sé stesso, dicendo che i suoi figli non sono né i primi, né gli ultimi ad essere figli di divorziati, come se l’alto numero di separati dimostrasse che il dolore procurato alla propria progenie sia cosa normale e facilmente superabile. Così fan tutti!

Il grande senso di libertà che il Divorzigno esercita nel perseguire i propri “desideri”, parola chiave per comprendere la riduzione della ragione nell’epoca contemporanea, pretendendo che le sue scelte non rechino danno a coloro che lo circondano, non riesce a nascondere un enorme egoismo. Così crescono e sono cresciute generazioni di figli, poi divenuti adulti, di una fragilità straordinaria grazie a genitori che per non colpevolizzarsi hanno fatto sentire in colpa i propri figli convinti di essere la causa della separazione dei genitori. Il Divorzigno è il re dei nichilisti, il principe del relativismo, toglie le certezze a chi dovrebbe proteggere con conseguenze devastanti.

Il Divorzigno se ne faccia una ragione. Se i genitori si separano, sentirsi in colpa per i figli è assolutamente normale perché è umano. Giovanni Zola

Io sono Oriana. Il mestiere di moglie, l’adulterio istituzionalizzato e la retorica scarsa della sinistra. Guia Soncini su L'Inkiesta il 24 Ottobre 2023

Cinquant’anni fa la Fallaci scriveva che il divorzio rafforza le unioni: può tornare utile a Meloni per ribattere a quelli che le rinfacciano «e allora, come la mettiamo con la famiglia tradizionale»

«A me dà fastidio questo senso del possesso che c’è nel matrimonio: questa palla al piede che ti impedisce di correre e saltare e arrampicarsi sugli alberi. Ed è inutile che io berci tanto contro i padroni, il padrone Stato, il padrone Chiesa, il padrone capitale, se poi accetto un individuo padrone che si chiama marito».

È il 1974. Oriana Fallaci ha 45 anni: ha già intervistato Kissinger e Golda Meir, già fatto i reportage di guerra, già scritto il libro che l’anno dopo ne farà la beniamina del ceto medio dolente, “Lettera a un bambino mai nato”. È più che mai Oriana Fallaci, quando butta giù questi appunti sul matrimonio che verranno pubblicati nel secolo successivo, in “Solo io posso scrivere la mia storia”.

«Non mi sono mai vista chiusa a chiave nella famiglia. Il mestiere di moglie mi inorridiva». Fallaci era nata nel 1929, un anno di ribelli agli schemi del loro tempo (Natalia Aspesi è sua coetanea), che era un tempo con un vantaggio: offriva schemi ai quali ribellarsi.

Oggi che facciamo finta che il mestiere di moglie non esista, che queste parole non vogliano dire niente, che i ruoli non siano più cristallizzati, oggi che vantiamo come conquiste di civiltà i padri che cambiano i pannolini (invece di scandalizzarci perché andiamo su Marte ma i neonati se la fanno ancora addosso e dove diamine è il progresso), oggi per fortuna che c’è Giorgia Meloni che fa ciò che sua nonna non si sarebbe potuta permettere – separarsi – e nel farlo dà modo alla parte retoricamente più scarsa della sinistra di dire: ah, e allora la famiglia tradizionale.

Qualche anno fa, credo di averlo già raccontato, un giornale americano m’intervistò su un libro che avevo scritto, una storia sociale dell’adulterio, che poi era una ricognizione del matrimonio all’italiana, così diverso da quell’isteria statunitense del divorziare e risposarsi cento volte.

Raccontai all’intervistatrice le storie che gli italiani conoscono a memoria: Marcello Mastroianni che non lascia mai la moglie nonostante con Catherine Deneuve faccia perfino una figlia; Vittorio De Sica e la sua doppia vita; Eugenio Scalfari e il suo secondo matrimonio sospeso per decenni, provvisoriamente adulterio fino alla vedovanza e alla celebrazione di nozze senili che era come fossero già avvenute molti decenni prima.

Prima della pubblicazione, la giornalista mi scrisse preoccupata: l’ufficio legale temeva querele per le cose diffamatorie che dicevo di questi uomini, attribuendo loro una doppia vita, doppia morale, doppi obblighi coniugali. Ridendo molto, le mandai pagine di autobiografie e interviste e qualunque possibile prova del fatto che mica erano pettegolezzi: era la tradizione italiana, l’adulterio istituzionalizzato.

Prima perché non avevamo proprio il divorzio, e poi, anche dopo averne avuto la disponibilità legale, perché non si fa, non sta bene, non è buona creanza: mica siamo Donald Trump, noialtri. Noialtre i mariti ce li tenevamo con relazioni doppie, triple, occulte e note a tutti, e senza che neppure fossero Mastroianni o pari figo: gli uomini con cui le nostre madri e le nostre nonne restavano saldamente sposate perlopiù erano ragionieri con la forfora.

La cosa meno americana che abbia fatto Hillary Clinton è stata tenersi un marito che non sapeva tenersi il cazzo nei pantaloni: avrà dei prozii italiani, minimo. Però almeno lei si è tenuta Bill Clinton: se un marito ti mette in imbarazzo, che almeno poi sia un figo, che faccia la storia, che tu abbia una foto con Rabin e Arafat per l’album di famiglia.

Ogni volta che qualche figura italiana collocata a destra si separa, tradisce, viene tradita, va a mignotte, e qualche retore scarso di sinistra beghineggia «e allora la famiglia tradizionale», io mi chiedo in che tradizione siano cresciuti quelli che non riconoscono la tradizione trovandosela di fronte: come si fa a non sapere proprio niente del paese che si ambisce a governare?

«Per quanto celebrati, a volte, e stimati, quegli uomini non valevano un granché. Anzi, capitava sempre il giorno in cui dimostravo d’avere più coglioni di loro. […] Forse il mio tipo di donna è strangolato dal dramma d’esser divenuto, a forza di lacrime, più forte d’un uomo». Sì, a rileggerla ora sembra che Fallaci parli di Giambruno, sembra che Fallaci abbia scritto un monologo per Meloni. Ma non ero andata a cercare queste pagine per questo (è solo che poi la vita è sceneggiatrice).

«Una famiglia può essere composta anche da due omosessuali, cioè due pederasti o due lesbiche. E molti sociologi americani d’oggi accettano questa tesi: che a me sembra un po’ discutibile. Non molto discutibile ma un po’ discutibile».

Nel mondo reale, nessuno parla della famiglia queer. Nessuno mai. È una formula che esiste solo sui giornali e sui social, come il patriarcato o la mascolinità tossica o i pareri perentori su Israele e Palestina o il dualismo tra i film di Scorsese e quelli di fumetti.

Però una settimana fa, prima che il dibattito pubblico venisse monopolizzato da Bellicapelli, stavo ascoltando una tavolata di busoni che spiegava che tutte quelle cose che una volta caratterizzavano la vita degli invertiti, rimorchiare sconosciuti e scoparseli dietro i cespugli senza neanche dirsi come ci si chiama (per chi ha fatto inglese alle medie: cruising), tutta quella modalità lì non esiste più.

Ho detto: chi glielo doveva dire, a Paolo Poli, ad Arbasino, che la frociaggine avrebbe avuto una deriva piccoloborghese in cui ambire al mutuo, ai figli, alla normalizzazione. A questo punto cosa siete froci a fare. Loro hanno preso in considerazione la domanda senza trovare una risposta, e io non pensavo che mi sarebbe poi arrivata dalla sinergia tra l’Oriana e Bellicapelli.

C’è un punto di quegli appunti di cinquant’anni fa in cui Fallaci dice che, quando passa da casa del suo compagno, le viene da rassettare. Era una donna nata quasi cent’anni fa, ed è già estremo e rivoluzionario che scelga di non sposarsi e di non farsi ridurre a massaia quotidiana: sarebbe troppo pretendere che si fosse davvero liberata delle mansioni dell’accudimento.

Mansioni di cui, in quella che i polemisti chiamano «famiglia tradizionale» e io «modo in cui la società ha organizzato la disperazione di gente che se restasse sola con sé stessa si butterebbe dalla finestra», bisogna pure che qualcuno si faccia carico.

Il mestiere di moglie qualcuno deve farlo, pure se siete due uomini, pure se siete un uomo e una donna ma la moglie è lui. Quella che la moglie di Spencer Tracy chiamava «la mole del matrimonio» qualcuno deve sobbarcarsela.

L’uomo si aspetta che anche la donna che ha una carriera più impegnativa della sua si sorbisca i suoi malumori e la sua biancheria sporca, annotava Fallaci cinquant’anni fa, e forse le cose sono un po’ cambiate (con «l’uomo» oggi intendiamo: chi guadagna di più), ma non del tutto.

C’è ancora qualcuno che spignatta, e qualcuno che non sa neanche dove siano le pentole in questa casa. Non ci saranno relazioni paritarie mai, anche perché a caricare la lavatrice si fa prima che a investire energie nell’impegno politico di suddividere tra generi sessuali i compiti domestici.

Le uniche famiglie che hanno risolto lo sbilanciamento dei compiti domestici sono quelle in cui nessun familiare fa niente perché ci si può permettere di stipendiare personale di servizio (e anche lì: ci sarà sempre uno più emotivo, più con tormenti esistenziali, più con deficit di accudimento dei due. Uno più impegnativo d’una lavatrice da caricare. In confronto alla possibilità della parità, lo scioglipancia di Wanna Marchi era razionale).

«Il divorzio rende il matrimonio più forte: autorizza il matrimonio. Se uno si sposa vuol dire che è sposato. E io non voglio essere sposata, tutt’al più divorziata». (A volte non so se Fallaci stia parlando a Meloni o ai detrattori di Meloni, a Pillon o agli oppositori di Pillon).

Quando avevo poco più di trent’anni, chiesi conto a Nora Ephron d’una frase che aveva scritto sul fatto che bisognava scegliersi un marito da cui non sarebbe stato tragico divorziare. Lei si mise paziente a spiegarmi che, se non sei una ragazzina scema condizionata dalla mistica del romanticismo, sai che le storie finiscono, e che è molto importante che finiscano civilmente, e se ciò sia possibile lo capisci subito, quando incontri un potenziale nuovo amore.

(Poiché avevo poco più di trent’anni, non solo mi sembrava scandaloso mettere in conto di lasciarsi, ma inconcepibile farlo senza psicodrammi, senza attaccarsi alle tende, senza catastrofi e minacce e porte sbattute e ripicche d’ogni sorta. Ora so che Ephron aveva ragione: ero il marito che una non dovrebbe prendersi).

«Quando dico infatti che non sono mai stata sposata, avverto come la sensazione di dire una menzogna. Senza l’intervento del prete o del sindaco, lo sono stata e lo sono. In senso morale, affettivo. Poi magari ho divorziato e mi sono risposata».

Lo scriveva Oriana Fallaci prima e dopo aver rivendicato la propria condizione di scapola, che però era una condizione burocratica, che non le sedava l’istinto di raccogliere da terra i calzini di Panagulis, sebbene la razionalità le facesse mantenere una residenza separata che la tutelasse dall’essere una che a tempo pieno raccoglieva calzini.

Lo appoggio qui casomai a Giorgia Meloni servisse una risposta per quelli che «e allora, come la mettiamo con la famiglia tradizionale».

Separazione e divorzio assieme, una scelta che complica e non semplifica. Daniela Missaglia su Panorama il 18 Ottobre 2023

Separazione e divorzio assieme, una scelta che complica e non semplifica La Rubrica - Lessico Familiare L’Italia ha un dono, quello di complicarsi sempre tremendamente la vita. Proprio non ce la facciamo a ragionare in modo lineare, semplice, diretto. Siamo avvinti in una storica, ancestrale maledizione, quella che poi ha coniato il detto popolare, valido solo nel Belpaese, per cui “fatta la legge, trovato l’inganno”. Possiamo ragionare anche sulle origini latine di questo motto (“facta lex inventa fraus”) e dare la colpa ai nostri predecessori, gli antichi romani, che – evidentemente sfaccendati - spendevano molto tempo in Senato per ordire complotti, tradimenti, sistemi per aggirare le leggi, ma questo è un altro discorso che lascio agli storici.

Torniamo al tema: la Riforma Cartabia sul diritto di famiglia ha sdoganato – con uno specifico articolo di legge (di cui vi risparmio l’improbabile numerazione) – la possibilità di proporre separazione e divorzio assieme, con un unico atto. Evviva, tutti felici, grande innovazione. Macché. Ci han pensato bene alcuni solerti Tribunali, come Firenze e Treviso, che si sono messi ‘di traverso’ e posto un altolà, ritenendo che la legge fosse sbagliata, inattuabile, bloccando – di fatto – questa possibilità. I giudici trevigiani hanno addirittura rimesso la questione alla Corte di Cassazione che, quindi, ha dovuto pronunciarsi sulla questione, occupando tempo e risorse per dire che, al contrario, la riforma è corretta e va applicata, sia per le separazioni e divorzi contenziosi, sia per quelli congiunti, dove i coniugi hanno già trovato l’accordo e lo sottopongono al Tribunale. C’era n’era proprio bisogno, mi chiedo? I più ottimisti vi leggono una corretta interlocuzione fra poteri dello Stato, legislativo e giudiziario, io solo una gran perdita di tempo sulle spalle dei cittadini che già da otto mesi, in determinati mandamenti, si sono visti precludere la possibilità di regolare separazione e divorzio assieme, con tutti i danni conseguenti per il portafoglio.

Alessandro Manzoni diceva: “all’avvocato bisogna contare le cose chiare; a lui poi tocca di imbrogliarle” ma, nel caso di specie, questa volta la mia categoria proprio non centra, per una volta. Andiamo nel concreto: ipotizziamo che il matrimonio entri in crisi e decidiamo di separarci. Un tempo, trovata l’intesa con l’altra parte, occorreva depositare ricorso per separazione, aspettare l’omologa da parte del Tribunale, attendere tre lunghi anni e poi procedere con il divorzio. La ‘libertà di stato’, insomma, si faceva attendere, costringendo i coniugi a duplicare i costi legali e di giustizia per promuovere due distinti procedimenti a distanza di anni. A tacer del fatto che, puntualmente, dopo tre anni, molto spesso l’altro coniuge cambiava magicamente idea e si ricominciava a litigare. Poi è intervenuta la riforma del ‘divorzio breve’, nel 2015, che riduceva a sei mesi (o un anno, se il procedimento di separazione era contenzioso) i tempi per promuovere divorzio: ma sempre due procedimenti bisognava pagare e seguire. La Riforma Cartabia, consapevole dell’unicità dell’Italia su questo fronte (la stragrande maggioranza dei paesi occidentali consente alle coppie in crisi di giungere direttamente al divorzio, senza passare dalla separazione), ha introdotto la simultaneità dei giudizi. In pratica, dal 1° marzo 2023 si può depositare, con un unico atto, pagando un’unica imposta, sia separazione che divorzio. Non c’era quindi bisogno di scomodare la Cassazione per applicare ciò che è scritto, nero su bianco, sul nuovo codice di procedura civile, nemmeno volendo ‘temperare la punta delle matite’ e trovare i cavilli interpretativi per frapporsi a questa innovazione. Vi risparmio le elucubrazioni della Suprema Corte, conta solo l’esito finale: si può fare, sempre, ovunque. Con un unico procedimento potremo separarci e divorziare, assomigliando sempre di più ai nostri competitor europei o d’oltreoceano, in cui le trafile giudiziarie per dirsi addio sono molto più svelte. Forse questo promuoverà le fratture matrimoniali, non lo so, ma poco importa: personalmente ho sempre ritenuto che l’Italia avesse impostato un sistema quasi punitivo, disincentivante, così complesso e burocratico, che molti vi rinunciavano e preferivano vivere da eterni separati di fatto piuttosto che consumare tutte le proprie risorse in lunghi e costosi giudizi. Ora che si può risolvere tutto ‘one shot’, forse anche i più restii potranno adire i Tribunali e ufficializzare la recisione del vincolo matrimoniale. A tacer del fatto che, finalmente, non si potrà più negare la validità dei patti matrimoniali. Bene, quindi, una buona notizia per tutti indistintamente, senza differenze di censo.

Divorzio e separazione nello stesso giorno, la sentenza della Cassazione semplifica gli addii. Il Domani il 18 ottobre 2023

Ok al ricorso congiunto per separazione e divorzio. Una novità che farà risparmiare tempo e denaro ai coniugi che hanno deciso di lasciarsi

Via libera al ricorso congiunto per separazione e divorzio con un unico atto. Lo ha deciso la Cassazione a Sezioni Unite con la sentenza numero 28727 su una questione sollevata dal tribunale di Treviso.

La riforma Cartabia del processo civile aveva introdotto la possibilità del ricorso congiunto ma le interpretazioni dei giudici sembravano limitare notevolmente questa possibilità. La sentenza della Cassazione ora rende possibile questo ricorso sia ai divorzi consensuali sia a quelli giudiziali, offrendo sia un risparmio di tempo sia una limitazione dei costi per le parti.

Questo nuovo approccio mira a stabilizzare gli accordi, prevenendo futuri sconvolgimenti e incertezze economiche. La recente decisione della Cassazione fornisce chiarezza in merito a questa pratica, affermando il principio per cui «in tema di crisi familiare, nell’ambito del procedimento di cui all’art 473 bis 51 cpc è ammissibile il ricorso dei coniugi proposto con domanda congiunta e cumulata di separazione e di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio».

I coniugi pronti al divorzio dovevano prima avviare una procedura di separazione, cioè trovare un accordo, pagare la parcella all’avvocato, versare un contributo unificato e poi, se volevano proseguire con il divorzio dovevano ricominciare tutto daccapo. Due cause per raggiungere lo stesso obiettivo. Da adesso sia per i casi consensuali sia per quelli giudiziali, si anticipa l’istanza di divorzio. Il giudice, decorsi sei mesi per le consensuali e 12 mesi per le giudiziali, può emettere la sentenza.

L'Organismo congressuale forense ha accolto con favore questa decisione, elogiando la Corte di Cassazione per aver risolto le divergenze interpretative e ristabilito un criterio uniforme di applicazione dell'art 473 bis n.49 cpc. Questo verdetto è stato emesso in seguito a una richiesta di chiarimento avanzata dal Tribunale di Treviso, che ha invocato l'art 363 bis cpc2 per ottenere indicazioni in sede di legittimità su una questione di diritto particolarmente complessa.

Dopo l'entrata in vigore della riforma Cartabia, si era registrato un proliferare di pronunce contrastanti in vari Tribunali italiani, da Treviso a Firenze, da Genova a Milano, da Vercelli a Lamezia Terme, da Bari a Padova. L'Organismo congressuale forense aveva quindi sollecitato il Ministero a intervenire con una norma per chiarire la disciplina. Ora, grazie alla decisione della Cassazione, si è giunti a un’interpretazione chiara.

L’invidia della pèsca. Pillon, lo spot dell’Esselunga e l’isteria del ceto medio divorzista. Guia Soncini su L'Inkiesta il 27 Settembre 2023

Volevo parlarvi di Martin Scorsese, ma ho visto gente infuriarsi per la trama di uno spot di un supermercato (e non per la dizione sbagliata dell’attrice che interpreta la mamma)

Quest’estate più o meno la metà delle coppie che conosco si sono separate. Se fosse statistica invece che aneddotica, ci sarebbe già un allarme famiglie in disfacimento nei nostri televisori; invece, c’è solo uno spot dell’Esselunga.

Quest’estate l’ho passata a ridere in faccia a quel luogo comune che è «i bambini sono più felici se i genitori sono separati e sereni», ripetuto come fosse il rosario da gente che ha appena finito di dire «tua madre è una stronza» o «tuo padre è un puttaniere» a piccini finalmente sereni in transito tra una casa genitoriale e l’altra. 

La conversazione è sempre finita con «certo, non diremmo mai in pubblico che i bambini preferiscono che i genitori stiano comunque insieme, mica vogliamo passare per retrogradi». Mica siamo l’Esselunga, avremmo dovuto dire. 

Le separazioni dell’estate 2023 tra i miei conoscenti hanno caratteri diversi (alcuni erano primi matrimoni, altri erano già al secondo giro); caratteri sovrapponibili (tutti hanno degli screenshot dell’ex da farti vedere: l’interpretazione dello screenshot speravamo di averla scansata non avendo vent’anni in questo secolo, ma poi sono arrivate le separazioni senili); e tutte sono foriere di ciò di cui da sempre sono foriere le separazioni: la grande domanda «ma come ho fatto a starci insieme finora?».

Forse anche gli amici di Pillon si sono lasciati, e anche lui come me non riesce a essere consolatorio: a ogni «ma come ho fatto», io non riesco a trattenermi e confesso che io me lo chiedo ancora rispetto a tizi che mi sono scopata una volta trent’anni fa, figuriamoci se penso che tu ci possa mettere meno di centodue anni a smettere di pentirti del tizio che hai sposato.

Forse Pillon era esasperato dagli screenshot, dai «ma secondo te cosa intendeva quando mi ha detto che», allorché, due settimane fa, ha spiegato che «il divorzio facile è la prima ragione che tiene i giovani lontani dal matrimonio» e che «lo stato dovrebbe prevedere, per chi lo vuole, una forma di matrimonio indissolubile».

Io l’avevo sentito fratello, Simone Pillon, che all’ennesimo separato che si lamenta perché l’ex gli chiede troppi soldi, all’ennesima divorzianda che gli dice non sai, quello dice ai bambini che sono una zoccola, all’ennesimo guarda qui gli ho trovato delle foto di tette sul telefono, all’ennesima banalità di coppia spacciata per insormontabile tragedia, io l’avevo capito, Pillon, che sbottava auspicando l’abolizione delle separazioni, o almeno una multa che poi lo stato girerà a noialtri amici di famiglia costretti a sorbirci le recriminazioni dei separandi.

Quel che non avevo capito era che Pillon costituiva una prova tecnica di trasmissione. Cosa succede, si era domandato il grande algoritmo che ci governa, se usiamo la separazione per verificare ciò che già sappiamo, ovvero che non esiste più il gusto, il giudizio contestuale, il merito delle cose, ma esiste solo una gigantesca sindrome paranoide applicabile a tutto?

Poiché Pillon è un politico di destra col farfallino che nessuno di noi – noi del cinquanta per cento di separazioni in un’estate sola, noi del ceto medio divorzista, noi che abbiamo molto tempo libero e lo usiamo per gli screenshot – ha mai votato, le reazioni alla sua uscita erano state tutto sommato pacate.

Ma l’Esselunga. L’Esselunga non si deve permettere. Con tutto quel che abbiamo speso in focaccine. Con tutti i punti fragola che abbiamo raccolto. Con tutta la fedeltà che le abbiamo riservato, che se fossimo monogami con le persone come lo siamo con un supermercato allora altro che indissolubilità. E lei, l’Esselunga, ci tradisce così.

Quando, lunedì sera sul tardi, ho ripreso il telefono mollato ore prima, avevo i social pieni di «ah, quindi l’Esselunga è contro il divorzio». Ohibò, cosa sarà mai successo: ti chiedono di controfirmare i desideri di Pillon prima di passare la Fìdaty sul lettore? Macché: era andato in onda uno spot.

Lo spot è fatto così. Dentro al supermercato, una madre cerca la figlia. È uno spot del supermercato, quindi è improbabile che finirà con la bambina rapita da un bruto: il messaggio è forse che i supermercati sono luoghi sicuri? Non so, andiamo avanti a guardare.

Finalmente la trova: è vicina alle pesche (ma siamo a fine settembre: vi era avanzato lo spot girato per l’estate?). La madre pronuncia «pésca», sembra un dettaglio da niente ma non lo è: il messaggio dello spot è forse che bisogna inserire ore di dizione nei programmi scolastici? Non so, proseguiamo.

La bambina è evidentemente una di quelle che da grandi si scriveranno nelle bio social «neurodivergente»: la madre le chiede come le sia venuto in mente di scappare, se voglia una pesca, ma lei non risponde mai, non risponde niente, fissa la pesca forse interrogandosi sulla stagionalità e il chilometro zero. Il messaggio dello spot è dunque che l’Esselunga non è mica Farinetti? Che il mutismo selettivo si cura come suggerisce Checco Zalone? Non so, ma intanto siamo arrivati alla cassa.

Dove la pesca passa sul rullo senza che nessuno le abbia appiccicato su il codice a barre della bilancia, e qui la sospensione dell’incredulità se ne va a meretrici (cioè: a mogli divorziate): dov’è lo spot che tutti attendiamo, quello in cui la cassiera cazzia madre e figlia ed entrambe si mettono a piangere? Il messaggio dello spot è forse che l’Esselunga ha deciso di fare i prezzi a occhio?

In macchina la muta selettiva continua a tacere, la madre dice quelle cose stucchevoli che dicono i genitori di questo secolo terrorizzati di rovinare i figli non trattandoli abbastanza da geni, poi arrivano a casa ed entriamo nel vivo del plot che ha scandalizzato gli osservatori social: il padre separato va a prendere la muta selettiva.

In macchina con lui, ella infine favella: gli dà la pesca, e gli dice che gliela manda la mamma. E lui dice «mi piacciono le pèsche», con la «e» aperta, e dice che la chiamerà, la mamma, per ringraziarla, e a questo punto ci sono due interpretazioni possibili del messaggio dello spot.

La mia è che il matrimonio tra una che pronuncia il frutto come se fosse l’attività del pescare e uno che invece sa quali vocali aprire e quali chiudere non può durare e neppure può finire senza rancori, e che se davvero lui la chiamerà per ringraziarla lei gli chiederà indietro i soldi della pesca (che però non potrà dimostrare d’aver pagato, non avendo il codice a barre).

Quella del collettivo isterico di Twitter è che l’Esselunga ci stia dicendo che il divorzio è sempre colpa delle donne (eh?), che siano degli orridi reazionari che colpevolizzano la madre (eh??), che sia uno schifo, una vergogna, una regressione agli anni Cinquanta, un attentato ai diritti e una sottovalutazione dei problemi miei di donna.

Lo spot è brutto, per carità, ma non ricordo spot belli di supermercati. È più lunare di quello in cui il marito si alzava di notte per andare a controllare le merci dentro alla Conad? Non mi pare, ecco. È tanto diverso da quello della Barilla in cui il papà all’estero trovava il maccherone che gli aveva messo in tasca il figlio? Macché, però quello era nel Novecento: quando uno spot era solo uno spot, e non un pretesto per l’isteria collettiva.

Mi pare che il delirio paranoide proietti su quella pesca e quella muta e quei due dalla dizione incompatibile tutto quel che vediamo nelle separazioni intorno a noi, e quel che temiamo delle (nella migliore delle ipotesi: imminenti) nostre.

Qualche ora prima di vedere gente isterichirsi per uno spot di supermercato, avevo letto un’intervista strepitosa a Martin Scorsese, che è quel di cui avrei voluto parlare oggi qui, ma ancora una volta la stronzata del giorno ha vinto su una cosa bella. Però c’è un dettaglio, tra le cose che dice quel gran figo di Scorsese all’edizione americana di GQ, che forse c’entra con la pesca.

Racconta Martin che non sapeva come avrebbe fatto a controllare il montaggio dei suo film nuovo, che dura tre ore e venti: ha una famiglia, non ce le ha tre ore e venti in cui lo lascino tutti in pace. Ho annuito fortissimo, perché la cosa che chiedo più spesso alle amiche non ancora separate è: come fai a concentrarti?

Ho amiche che, quando vanno fuori città per lavoro, poi mi descrivono per interi minuti con sollucchero e incredulità la beatitudine di avere il silenzio tutto per sé, il letto tutto per sé, l’attenzione tutta per sé. Cerco di non rispondere «ah, la mia vita quotidiana da trent’anni, mi chiedevo giusto quando avresti scoperto come si sta senza rotture di coglioni», perché francamente sarebbe bullismo.

Però è chiaro che il punto che viene fuori con le separazioni non è «come ho fatto a stare con questo specifico cretino», ma: come ho fatto a mettermi un estraneo in casa? Come ho fatto a cedere al ricatto dei metri quadri condivisi, alla truffa della solitudine come problema e non come lusso?

Il problema delle mie amiche, e forse persino di Martin Scorsese, è l’invidia della pesca. Come si fa a non invidiare quel padre che domani la figlia la riporta alla tizia che se la sorbisce tutti i giorni, e avrà la sua casa per sé, la sua vita per sé, la sua pesca per sé? Come si fa a pensare che non avere estranei dentro casa non sia una vittoria? Ma, soprattutto, come abbiamo fatto a ridurci così annoiati e famelici d’indignazione da attaccarci pure al pretesto dello spot dell’Esselunga?

 Estratto dell’articolo di Pietro De Leo per “Libero quotidiano” mercoledì 27 settembre 2023.

E così Esselunga, con questo dibattito nato attorno allo spot, conquista la scena del dibattito pubblico. Di nuovo, come tante altre volte avvenuto in passato. Perché Esselunga è un'impresa intrecciata con la storia del nostro Paese, ha catalizzato parte di un immaginario collettivo che ama le dinastie, i patriarchi e le loro storie di pionerismo e ruvidezza. 

Quella dei Caprotti, e soprattutto di Bernardo, che ha lasciato questo mondo al 2016 a 91 anni, risponde a questi requisiti. È una storia che parla di una dinastia, certo, ma anche della nascita di un colosso della grande distribuzione che portò in Italia un pezzo di sogno americano.

[…] Caprotti, e il suo socio Brunelli, vennero a sapere, ascoltando una conversazione in un hotel, che il magnate americano Nelson Rockefeller voleva aprire alcuni supermercati in Italia. Fanno di tutto per incontrarlo, ci riescono battendo sul tempo la Rinascente e parte il mito. Scandito dallo sbarco in Italia dei “supermarket” costruiti, allestiti e organizzati rispettando fedelmente il modello americano. 

Però è noto che, in Italia, ogni corpo estraneo, che guarda oltre, azzarda e vince, ha vita difficile. E qui si entra nel lungo racconto dello scontro che Caprotti ebbe con le Coop, anch'esse ben piazzate nella grande distribuzione. Lui le accusò costantemente di aver ostacolato l'approdo di Esselunga nelle regioni rosse e di varie irregolarità. Ne nacquero infinite guerre legali, accuse di abuso di posizione dominante, carte bollate e una lunga pubblicistica giudiziaria. Ma ne nacque anche un libro nel 2007, “Falce e Carrello”.

Nel volume, Caprotti denuncia pratiche scorrette a suo danno da parte delle Coop, e delinea l'intreccio di quest'ultime con varie ramificazioni del potere politico della sinistra. Quel libro non fu soltanto il racconto di genesi e sviluppo di una lunga storia d'impresa (in cui non vengono risparmiati neanche i rapporti difficili con i sindacati), ma anche la summa di uno scontro culturale. […] 

D'altronde, erano pur sempre gli anni del berlusconismo, e Caprotti, che al Cavaliere guardava con simpatia come prima aveva guardato a Bossi, portava acqua al mulino di quel racconto lì, del coraggio dell'outsider che lotta con tutte le tue forze contro il groviglio rosso tra potere politico e tessuto economico. Il libro fu bersagliato da denunciare, per diffamazione e concorrenza sleale. A volte Caprotti esce vincitore, altre no.

Il libro fu ritirato dal mercato per poi farvi rientro, qualche anno più tardi, in un'edizione aggiornata. Ma la selva di carte bollate non soffocò per nulla il cuore vero della questione: il messaggio all'opinione pubblica era arrivato, forte e chiaro. E quelle pagine avevano ben disegnato il dualismo tra Esselunga-Coop, specchio di un Paese spaccato in due come una mela, con Caprotti ben piazzato dalla parte dei liberi. 

Il personaggio, poi, aiutava: favella spontanea, pochi fronzoli e parole lapidarie, da imprenditore del Nord. Insomma, il mito era ben solido e, come racconto, avrebbe parlato anche dopo la morte di chi ne aveva scritto il primo tratto. Avrebbe continuato a raccontare: dalla segretaria destinataria, nel testamento, di ben 75 milioni di euro, metà dei risparmi personali dell'imprenditori fino alle cronache sul riassetto societario. Oggi, anche una vicenda effimera come quella dello spot ci riporta lì, al simbolo di un'Italia tenace e laboriosa.

Troppo rumore per una pesca e uno spot. Daniela Missaglia su Panorama il 27 Settembre 2023

La Rubrica - Lessico Familiare. E brava Esselunga. Il coraggioso spot/cortometraggio della ‘pesca’ inverte la retorica della famiglia felice e patinata del Mulino Bianco, dove tutti sono belli, sorridenti, armonici, squarciando il velo di ipocrisia che c’è dietro questi provocatori siparietti. Ma quale famiglia ‘normale’ si siede a tavola di prima mattina già vestita, truccata, imbalsamata nel vestito della festa, radiosa, litigandosi bonariamente una confezione di brioches, scoppiando in fragorose risate e sguardi di ammiccamento fra madre e padre, con tanto di baci e abbracci?

E questa sarebbe una scena di quotidiana vita vissuta? Ma non scherziamo. Esselunga ha voluto essere più realista del re e, con disarmante semplicità, ha fotografato la società attuale, dove i matrimoni non reggono alla prova degli anni, e dove i figli si ritrovano invischiati nelle separazioni dei loro genitori. Non viviamo su Marte, le crisi coniugali sono in continua crescita e hanno raggiunto i livelli pre-covid, dopo una breve pausa dovuta solamente alla difficoltà di accedere ai Tribunali durante la pandemia. Questa è l’Italia e questo è il mondo occidentale, che piaccia o no agli ideatori delle pubblicità. Anche se la polemica dei media su questo spot non mi appassiona, è stato furbamente e volutamente studiato per imprimere nello spettatore un caleidoscopio di emozioni, senza volerlo necessariamente condurre a prendere una posizione, perché non c’è un messaggio politico o sociologico, solo la rappresentazione di una famiglia come tante, dove mamma e papà non stanno più insieme. E’ una solo una breve storia, come quelle di Carosello con Calimero o l’omino coi baffi, dove l’apparente protagonista è una pesca, che segue i personaggi e passa di mano in mano, un po’ come la piuma fluttuante all’inizio del film Forrest Gump.

Il frutto racchiude l’innocente strategia di una bambina per fare riavvicinare i genitori, l’illusoria speranza che, attraverso una mezza bugia, si possa ricostituire quel legame che si è spezzato. La pesca è il mezzo, il testimone olimpico, ma la vera protagonista è la bambina, con il suo mutismo forzato, forse segno degli strascichi di patimento per ciò che ha vissuto, un mutismo interrotto solo quando porge il suo transfert succoso al padre e gli dice “te la manda la mamma”. E’ in quel momento che il padre sussulta di sorpresa, sorridendo imbarazzato e sbirciando verso la finestra dove immagina l’ex moglie che segue la scena a distanza, promettendo infine alla figlia che l’avrebbe chiamata per ringraziarla. Ma insomma, dove sta la polemica di chi si è diviso sul web e sui giornali? Ognuno ci veda quel vuole vedere. Io leggo un riportare i bambini al centro di quell’isola che, per lo storico giurista Arturo Carlo Jemolo, può essere solo lambita dal mare del diritto: la famiglia. La bambina dello spot sa, in cuor suo, che deve abituarsi a una nuova realtà di passaggi fra un genitore e l’altro, lo accetta, ma ugualmente prova a creare le basi per migliorare i rapporti fra mamma e papà, per far rigenerare quell’antica fiamma di cui parlava Virgilio nell’Eneide. Nulla di più, nulla di meno. Perché alla fine il messaggio è uno soltanto: ogni spesa è importante (sottinteso: fatela nei nostri supermercati). In fondo anche l’omino coi baffi sponsorizzava le caffettiere Bialetti e Calimero, piccolo e nero, il detersivo Ava. L’obiettivo quindi è unicamente commerciale. E se poi la gente sgomita e si accapiglia fra favorevoli e contrari, beh, ancor meglio. Questo perché, come disse Oscar Wilde per bocca del suo straordinario personaggio Dorian Grey: “C’è una sola cosa al mondo peggiore del far parlare di sé, ed è il non far parlare di sé.”.

Un tempo si litigava su Pasolini e Lolita, oggi ci accapigliamo su uno spot...Le polemiche sulla famiglia tradizionale generate dalla pubblicità di Esselunga sono il sintomo di una società che ha ucciso la cultura. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 27 settembre 2023

C’è qualcosa di distopico nell’uragano di polemiche provocato dallo spot della “pesca” di Esselunga, qualcosa che racconta e fotografa la nostra società, la qualità del suo dibattito pubblico, dei suoi riferimenti culturali.

Dividersi con toni così feroci e apocalittici su un piccolo filmato commerciale che utilizza la patina emotional di una bambina figlia di genitori separati come espediente narrativo, e il cui scopo è soltanto quello di vendere ortaggi, carni, detersivi e altri articoli, più che il segno di una collettività vigile e impegnata sembra una forma di nevrosi collettiva. Paladini della famiglia tradizionale contro difensori della famiglia moderna, psicologi dell’infanzia contro femministe, sociologi contro prelati, tutti che si azzuffano nell’esasperata e inutile esegesi di uno spot. Di sicuro gli indignati e i rabbiosi, coloro che accusano la Esselunga di veicolare un messaggio retrivo e di vittimizzazione secondaria della coppia separata fa una figura peggiore di chi, al contrario, ne ha apprezzato la “sensibilità” e la “delicatezza”, ma si tratta di dettagli perché il problema di fondo sta nel cercare un messaggio che non c’è.

Queste polemiche giustamente trovano piena cittadinanza e risonanza nel ring che più di tutti ne è diventato l’emblema: i social network. Il mezzo è il messaggio diceva oltre mezzo secolo fa Marshall McLhuan, con l’irruzione dei social la fusione è diventata totale. Tutta la nostra comunicazione è oggi scandita dalle quelle logiche mitomani, dall’indignazione pavloviana, dall’opinionismo diffuso, lo stesso stile letterario con cui ci esprimiamo pubblicamente è figlio di quel medium. Ognuno con il suo format: i cinquanta, sessantenni sul prolisso Facebook che ormai sembra una casa si cura per vecchi rancorosi e sconfitti dalla vita; i più giovani attraverso la brevità dello storie Istagram e dei reels di Tiktok. Entrambi intrappolati nella stessa realtà virtuale che invade e allaga anche il mondo delle cose e delle persone in carne e ossa.

Che anche la premier Giorgia Meloni si sia poi sentita autorizzata a dire a sua sulla questione -per lei lo spot sarebbe «bello e toccante» - non può che chiudere mestamente il cerchio. Come è possibile che la reclame di un supermercato possa generare una simile contrapposizione?

Un tempo non troppo lontano si discuteva e ci si divideva sulle opere degli artisti, dei registi, dei romanzieri, dei cantautori, degli intellettuali omnibus; oggi quel ruolo è interpretato dai creativi delle agenzie pubblicitarie, dai draghi del marketing. I quali, bisogna sottolinearlo, non hanno alcuna colpa; la responsabilità semmai ce l’hanno gli altri, chi non riesce più a concepire e realizzare film, libri, album musicali capaci di suscitare dibattito.

Quando nell’immediato dopoguerra Vittorio De Sica realizzò Ladri di biciclette mostrando la miseria sociale in cui versava il nostro paese, la commissione censura presieduta da un giovane Giulio Andreotti provò a bloccare il film, spiegando che parlava di «cenci e di stracci», i quali per abitudine «si lavano in famiglia». La discussione fu accesa ma e alla fine i moralizzatori persero su tutta la linea e il neorealismo sbocciò nel suo splendore. Si litigava spesso sulla letteratura, ad esempio su Lolita, il perturbante capolavoro di Nabokov, accusato addirittura di giustificare la pedofilia, sui Ragazzi di vita di Pier Paolo Pasolini con l’autore accusato di pornografia e censurato per «oscenità». Anche il compianto Pier Vittorio Tondelli finì nel mirino della procura per il suo Altri Libertini che venne sequestrato in quanto «blasfemo». E che dire del film di Bernardo Bertolucci Ultimo Tango a Parigi letteralmente condannato al rogo nel 1976 sempre per oscenità?

Per rimanere tema del divorzio e delle sue conseguenze sui figli il lungometraggio Kramer contro Kramer (1979) oltre a vincere cinque oscar suscitò grandi discussioni (ma poche polemiche) e allo stesso tempo illuminò con realismo la difficile condizione dei genitori separati. Quando la nostra vita era accompagnata da grandi film e grandi romanzi, mai una pubblicità di una catena di supermercati avrebbe ricevuto tanta attenzione mediatica.

A difesa dello spot di Esselunga c’è da dire che è stato realizzato e recitato molto meglio del 90% dei film italiani, ma questo non fa che confermare l’assunto di fondo.

Estratto da today.it mercoledì 4 ottobre 2023.

Non sembra volersi spegnere il dibattito sullo spot di Esselunga. A infiammare di nuovo gli animi - che nelle ultime ore sembravano essersi assopiti - ci ha pensato questo weekend Matteo Salvini, postando una foto nel parcheggio del supermercato, appena finito di fare la spesa nella nota catena finita al centro della polemica. Una provocazione che ha riacceso i riflettori sulla vicenda. 

A parlarne ieri sera nel programma di Massimo Gramellini su La7, "In altre parole", è stato Roberto Vecchioni. "Sarebbe stato molto più originale, ma molto più originale, se la bambina avesse trovato nella macchina un'altra donna. Un'altra madre" ha detto il cantautore, che ha immaginato anche un altro possibile scenario: "Oppure il padre e con la bambina avessero salutato insieme un altro padre alla finestra". 

Le parole di Vecchioni hanno ovviamente spaccato a metà il pubblico, esattamente come la pubblicità. Nei suoi riguardi, però, c'è stato un attacco personale. Come è noto, la figlia di Roberto Vecchioni, Francesca, ha avuto due figlie insieme a un'altra donna, dalla quale si è separata, e il papà ha sempre portato avanti la loro battaglia su diritti e famiglia. "Molto originale! Che barba" commenta un utente su Twitter, e un altro:

"Guarda Roberto ormai tua figlia con figli l'ha capito che gli vuoi bene, ma non è un nostro problema se si è già separata dalla moglie". A tuonare anche Hoara Borselli: "Una storia di normale divorzio dove ci sono solo due genitori è antico? Troppo démodé? Fuori dai tempi? Mettere i figli al centro è obsoleto?". Infine il commento più gettonato: "Ma lui non era quello che voleva una donna con la gonna?".

La pesca bipolare. Storia di Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 28 settembre 2023. 

Alla Esselunga staranno facendo le capriole perché l’Italia intera parla dello spot di una bimba che, nel tenero tentativo di riconciliare i genitori separati, si fa comprare una pesca dalla madre e poi la regala al padre, spacciandogliela per un pensierino dell’ex-moglie nei suoi confronti. Sui social si trovano recensioni persino sul perché la pesca non sia stata portata alla cassa avvolta nell’apposito sacchetto biodegradabile e su quale dei due genitori abbia lasciato l’altro: probabilmente la madre, a giudicare dallo sguardo bastonato di lui, che però chissà cosa doveva averle combinato. Ma il tema centrale del dibattito è lo stesso che divide la politica, con la destra che esalta lo spot come manifesto dell’indissolubilità della famiglia e la sinistra che lo contesta, a conferma che di spazio per un Terzo Polo in Italia non se ne trova nemmeno al supermercato.

Non vorrei guastare la rissa, però mi pare che poggi su presupposti sbagliati: ricordare che le separazioni procurano dolore ai bambini non significa negare l’istituto del divorzio. Della storia di un’esistenza, quella pubblicità ci restituisce solo un frammento: una bimba di cinque anni che legittimamente desidera che mamma e papà stiano insieme. Ma la vita non finisce a cinque anni e molte coppie divorziano proprio per evitare che i figli crescano tra le tensioni. Magari nel prossimo spot ci sarà un’adolescente che la pesca la spiaccica in testa ai genitori perché continuano a scannarsi invece di separarsi.

Meloni e lo spot della pesca di Esselunga: «Bello e toccante». Storia di Daniela Polizzi su Il Corriere della Sera mercoledì 27 settembre 2023.

«Leggo che questo spot avrebbe generato diverse polemiche e contestazioni. Io lo trovo molto bello e toccante».lo spot «La pesca» che Esselunga manda in onda da lunedì in tv. È la storia di una bimba, figlia di genitori che solo alla fine si scopre che sono separati. Compera una pesca al supermercato insieme alla mamma e la regala poi al papà, dicendo però che gliela manda la mamma.

Esselunga è tornata a fare parlare di sé e questa volta è entrata nel vissuto quotidiano delle persone alle prese con l’evoluzione dei modelli di famiglia. Sui social lo spot ha suscitato apprezzamenti e polemiche che hanno portato a 38 mila le menzioni del gruppo della grande distribuzione su X, l’ex Twitter. La politica è in prima fila nei commenti, con il vicepremier e ministro dei Trasporti, Matteo Salvini, che ha sottolineato come «trasformare uno spot in uno splendido messaggio di amore e famiglia merita solo sorrisi».

Critico verso la campagna l’ex segretario del Pd Pier Luigi Bersani, che considera «davvero sbagliato, in questo ed altri casi, mettere in mezzo la sofferenza dei bambini su temi delicati per scopi commerciali». Carlo Calenda, segretario di Azione, sostiene che la politica dovrebbe occuparsi di altri problemi, per esempio quello della sanità, non di uno spot. Mentre la leader del Pd, Elly Schlein dice di non averlo guardato. Positiva Michela Vittoria Brambilla, presidente della Commissione parlamentare per l’Infanzia, secondo la quale il disagio psicologico dei bambini figli di coppie separate è «troppo spesso dato per scontato. Esselunga accende i fari su questo disagio». Sullo spot più visto in Italia Esselunga va oltre le polemiche. «La spesa — dice Roberto Selva, Chief marketing & customer officer — non è solo un atto d’acquisto, ha un valore simbolico molto più ampio».

"Spacca" lo spot della pesca. Meloni: "Bello e toccante". Ma la sinistra dà i numeri. "È bello e toccante". "No, colpevolizza tutti". Lo spot della "pesca" sta spaccando il Paese. Sui social non si parla d'altro, in ufficio si dibatte, nei capannelli dei genitori all'uscita di scuola è l'argomento del giorno. Alberto Giannoni il 28 Settembre 2023 su Il Giornale.

«È bello e toccante». «No, colpevolizza tutti». Lo spot della «pesca» sta spaccando il Paese. Sui social non si parla d'altro, in ufficio si dibatte, nei capannelli dei genitori all'uscita di scuola è l'argomento del giorno.

Qualcuno cavalca l'onda emotiva che impazza da quando (martedì mattina) Esselunga ha lasciato questa mini-storia da un minuto, subito diventata «trend topic». E alla fine anche la politica si sente in dovere di dire la sua. La presidente del Consiglio Giorgia Meloni interviene in tarda mattinata: «Leggo che questo spot avrebbe generato diverse polemiche e contestazioni - twitta - Io lo trovo molto bello e toccante». Pure il suo vice, Matteo Salvini, è entusiasta: «Trasformare uno spot in uno splendido messaggio di Amore e Famiglia - dichiara - merita solo sorrisi». A sinistra, in effetti non la prendono bene. Qualcuno giura che è retrogrado e pericoloso, altri danno i numeri, Carlo Calenda «calendeggia» («siamo un branco di decerebrati e meritiamo l'estinzione») ed Elly Schlein come di consueto non sa che pesci prendere e non dice nulla: «Non vorrei deludere nessuno ma non ho ancora visto gli spot di cui si sta parlando».

In realtà sono in pochi a non aver visto lo spot prodotto dallo storico marchio milanese della grande distribuzione. Protagonista Emma, la figlia triste di due genitori separati che al supermercato con la mamma prende una pesca per il papà, e poi gliela porta facendola passare per un regalo: «Te la manda la mamma» dice, sperando in una riconciliazione dei due.

Lo spot spacca, nel senso che divide. Da una parte i «pro-pesca», affezionato a un'idea tradizionale della famiglia, e dall'altra gli «anti-pesca», che parlano di colpevolizzazione e farneticano di un attacco ai diritti. Spacca, la clip, anche nel senso che funziona: è un piccolo film ben riuscito, delicato («retorico», per gli anti) - e coglie qualcosa di autentico. Sono passati decenni dai caroselli che profilavano un'idea idilliaca della famiglia, come quella proverbiale «del Mulino bianco». Poi ha iniziato a passare l'idea di modelli diversi e «alternativi», comunque positivi. Questo spot, invece, dopo aver conquistato la ribalta della cronaca potrebbe passare alla storia perché sdogana la verità: la separazione (il divorzio, principe fra i diritti civili) è dolorosa. Lo è di certo per la piccola protagonista, ritratta nel suo tentativo di rimettere insieme i genitori, a loro volta addolorati ma civili. Un tentativo semplicistico certo, infantile: è una bambina. E i bambini - spiega Antonella Costantino, past president di Sinpia, Società italiana di neuropsichiatria dell'infanzia e dell'adolescenza - «in qualunque situazione hanno dei loro pensieri e delle loro ipotesi. Alcuni vogliono rimettere insieme i genitori, altri invece sono contenti che si siano separati perché litigavano». Per Michela Vittoria Brambilla, presidente della commissione per l'Infanzia e l'adolescenza, lo spot accende un faro «sul disagio psicologico di bambini e adolescenti». «Andrebbero evitate interpretazioni monodirezionali», aggiunge Costantino.

«Mi sembra davvero sbagliato mettere in mezzo la sofferenza dei bambini su temi delicati per scopi commerciali» attacca Pierluigi Bersani (Pd). Nicola Fratoianni di Sinistra Italiana la butta sull'inflazione: «Meloni commenta lo spot di una nota catena di supermercati ma non dice nemmeno una parola sul carrello della spesa di milioni italiani, separati e non. Per loro anche una pesca rischia di diventare un lusso - esagera - L'Italia attende risposte».

Nel frattempo, se voleva far parlare, il colpo di marketing è perfettamente riuscito. Sul piano del costume si vedrà, ma stavolta non c'è aria né di retromarce né di scuse. «Urge uno spot della Coop con una famiglia non etero con figli felici della separazione» ironizza qualcuno mettendo nel mirino i fautori del politically correct. Una pesca li seppellirà.

Esselunga, cosa c'è dietro alla guerra della sinistra a Caprotti. Pietro De Leo su Libero Quotidiano il 28 settembre 2023

E così Esselunga, con questo dibattito nato attorno allo spot, conquista la scena del dibattito pubblico. Di nuovo, come tante altre volte avvenuto in passato. Perché Esselunga è un’impresa intrecciata con la storia del nostro Paese, ha catalizzato parte di un immaginario collettivo che ama le dinastie, i patriarchi e le loro storie di pionerismo e ruvidezza. Quella dei Caprotti, e soprattutto di Bernardo, che ha lasciato questo mondo al 2016 a 91 anni, risponde a questi requisiti. È una storia che parla di una dynasty, certo, ma anche della nascita di un colosso della grande distribuzione che portò un pezzo di sogno americano in Italia.

Spesso capita che le epopee inizino da un felice miscuglio tra il rocambolesco e il fortuito. Per Esselunga, siamo alla fine degli anni ’50, fu così, non c’è dubbio. Lo prova il modo in cui Caprotti, e il suo socio Brunelli, vennero a sapere, ascoltando una conversazione in un hotel, che il magnate americano Nelson Rockefeller voleva aprire alcuni supermercati in Italia. Fanno di tutto per incontrarlo, ci riescono battendo sul tempo la Rinascente e parte il mito. Scandito dallo sbarco in Italia dei “supermarket” costruiti, allestiti ed organizzati rispettando fedelmente il modello americano. Però è noto che, in Italia, ogni corpo estraneo, che guarda oltre, azzarda e vince, ha vita difficile. E qui si entra nel lungo racconto dello scontro che Caprotti ebbe con le Coop, anch’esse ben piazzate nella grande distribuzione. Lui le accusò costantemente di aver ostacolato l’approdo di Esselunga nelle regioni rosse e di varie irregolarità. Ne nacquero infinite guerre legali, accuse di abuso di posizione dominante, carte bollate e una lunga pubblicistica giudiziaria.

Esselunga, Porro non si tiene: "Spot fluidi" e opposizione all'angolo. Il Tempo il 27 settembre 2023

Lo spot di Esselunga sta facendo discutere molto. Nel video pubblicitario diffuso dalla catena di supermercati c'è una bambina, figlia di genitori separati, che porta una pesca al papà e gli dice che è da parte della mamma per tentare di riunire la famiglia. Sul tema si è espressa oggi il premier Giorgia Meloni che ha definito il filmato "molto toccante". Il caso ha aperto l'ultima puntata di Stasera Italia, il programma di approfondimento giornalistico di Rete 4, ed è stato oggetto dell'editoriale di Nicola Porro. Il conduttore e giornalista ha ricordato alle opposizioni, che oggi hanno gridato allo scandalo, quanto sia poco lungimirante parlare di strumentalizzazione dei sentimenti dei bambini. 

"I social si conoscono, si infiammano per poco però si sono infiammati anche i politici. Il presidente del Consiglio, dopo aver visto le reazioni, ha detto 'Mi è piaciuta moltissimo questa pubblicità e la trovo molto toccante'. Evidentemente questa frase di Meloni su Twitter non è piaciuta all'opposizione, all'opposizione su uno spot, su una bambina che dà una pesca al papà e cerca di riunire una famiglia separata", ha detto Porro. Poi è andato dritto al punto e ha tirato in ballo Pier Luigi Bersani: "Abbiamo visto spot di tutti i tipi: fluidi, non fluidi. aperti, alti, bassi. Ma questo, evidentemente, non andava bene a Bersani che ha detto 'Mi sembra davvero sbagliato, in questo e in altri casi, mettere in mezzo la sofferenza dei bambini su temi delicati per scopi commerciali'".  

Quindi ha continuato: "Mi viene un po' da ridere perché la memoria è corta, come quella del pesciolino Nemo perché se uno ricordasse come chiusero la campagna elettorale Bersani con una bambina di quattro anni, abbracciandola e dicendo 'Questa bambina è il nostro futuro'. Una bambina ghanese. Non saranno scopi commerciali ma forse politici", ha concluso. 

Esselunga, lo spot scatena il delirio: "Questa pesca da mamma? Stanno con la Meloni". Libero Quotidiano il 26 settembre 2023

Esselunga ha perfettamente raggiunto il suo obiettivo con lo spot da due minuti che sta andando in onda in televisione. Protagonisti una bambina e due genitori separati, alcuni vedono in questo spot l’esaltazione della famiglia tradizionale, una sorta di "assist" al governo Meloni. Altri invece apprezzano la rappresentazione di una “famiglia reale”, quella alle prese con le difficoltà legate a un divorzio.  

La trama dello spot è la seguente: una bambina è all’Esselunga a fare la spesa con la madre, ma a un certo punto si allontana e prende una pesca. Una volta tornata a casa, la bambina appare malinconica. A un certo punto bussa alla porta il padre, al quale la figlia regala la pesca, dicendo che è da parte della madre. Uno spot che è una sorta di rottura col passato: è quanto di più lontano dalla famiglia del Mulino Bianco, dato che i protagonisti sono una coppia separata e la loro figlia che soffre per la situazione.  

L’opinione pubblica si è spaccata a metà. C’è chi si è addirittura commosso per lo spot di Esselunga. “Rimette al centro i bambini, i loro desideri e le loro fragilità. Solo questo mi sembra già una cosa molto apprezzabile”, si legge sui social. Dall’altro lato c’è chi critica lo spot: “Un bambino figlio di genitori separati non ha sofferto già abbastanza? No, serviva Esselunga a continuare a mettere il dito nella piaga. Io sono separata e spero che i miei figli non vedano mai questo spot”. Poi, come detto, chi punta il dito contro la catena di supermercati, "rea" di sostenere le politiche del governo: un discreto delirio. Ma pur di dar contro al centrodestra...

Lo spot delle polemiche. Pubblicità Esselunga, la pesca della “pacificazione” e i genitori separati: perché il cortometraggio fa discutere. Redazione su L'Unità il 26 Settembre 2023

Mandato in onda sui principali canali televisivi nella serata di lunedì 25 settembre, l’ultimo spot di Esselunga, la nota catena di supermercati di proprietà della famiglia Caprotti, è diventato un “trending topic” su X (l’ex Twitter, ndr).

Lo spot è un piccolo cortometraggio di due minuti dal titolo ‘La Pesca‘ con protagonisti una bambina e due genitori separati, realizzato dall’agenzia creativa Small di New York con la regia del francese Rudi Rosenberg. La scena è diversa dalla classica immagine della famigliola felice intenta a fare colazione: siamo in un supermercato Esselunga, protagonista è la bambina che scappa dalla madre (separata dal padre) per andare a scegliere con grande attenzione una pesca. Quindi torna a casa dove, più tardi, viene a prenderla il papà. Quando la bimba sale in auto con il padre gli regala il frutto, fingendo che sia stata la mamma a comprare la pesca per lui, con l’intento di farli riappacificare. “Non c’è una spesa che non sia importante“, è il claim finale dello spot.

Spot che ha spaccato la comunità di X tra coloro che hanno apprezzato la pubblicità firma Esselunga, vista “ in una valle di lacrime” per la scelta di aver messo “il divorzio dal punto di vista dei figli piccoli“, e chi invece l’ha bocciato senza pietà considerandolo una “strumentalizzazione” e chiedendosi se “tra i pubblicitari ci sono Adinolfi, Pillon o altri psicologi e terapeuti familiari“. “Torniamo ai vecchi valori di una volta quando non si poteva divorziare”, con la pubblicità definita” festival dei pregiudizi sulle coppie separate“, scrivono altri utenti critici.

Ma c’è anche ci la mette più sul pratico, facendo notare come “la frutta va messa nel sacchetto e pesata“, “non va presa con le mani e messa nel carrello e sul nastro senza essere imbustata e prezzata“.

Redazione - 26 Settembre 2023

"Spot contro il divorzio". La pubblicità di Esselunga infiamma i social. C'è chi parla di vicinanza alla linea del premier Meloni e chi denuncia la presunta strumentalizzazione di una bambina: il dibattito è rovente. Massimo Balsamo il 27 Settembre 2023 su Il Giornale.

Una spesa vista attraverso gli occhi e il vissuto di una bimba, una storia ricca di tenerezza che arriva al cuore e commuove con delicatezza lo spettatore. Ma anche uno spot capace di scatenare un dibattito infuocato con tanto di connotazioni politiche. Nelle ultime ore è diventata virale la nuova pubblicità dell'Esselunga, trasmessa lunedì sera sulle principali reti televisive. "La pesca", il titolo dello sport, un cortometraggio cinematografico con un messaggio chiaro: "Non c'è una spesa che non sia importante".

Le polemiche sullo spot Esselunga

Una giovane mamma non trova più la figlioletta al supermercato (Esselunga, naturamente), ma scopre poco dopo che la piccola è sfuggita alla sua attenzione per prendere una pesca. Una volta pagata la spesa, tornano a casa. Mentre giocano e sorridono insieme, suona il citofono: è il papà. I genitori sono divorziati, la bimba saluta la mamma e scende dal papà. Una volta salita in auto, la piccola estrae la pesca e la regala al padre, dicendogli che è da parte della madre. Questa la trama del corto firmato dall'agenzia creativa di New York Small, girato a Milano dal regista francese Rudi Rosenberg e prodotto da Indiana Production. E tanto è bastato per sollevare un polverone, con i soliti soloni pronti a tutto per attaccare il centrodestra.

Sui social network c'è grande divisione: c'è chi lo ha apprezzato, ma anche chi lo ha criticato aspramente. Diversi utenti hanno trovato il racconto toccante, tanto da emozionare. Ma le polemiche sono legate soprattutto all'altra fazione, tra chi parla di strumentalizzazione dei bambini e chi denuncia un approccio retrogrado su divorzio e separazioni. Quelli che cercano ancora più attenzione, invece, accusano Esselunga di voler accontentare l'elettorato del premier Giorgia Meloni. Follia allo stato puro.

Tra filippiche e attacchi scomposti, non manca un po' di sana ironia. Così l'utente Klevis su X:"Chi vede nella pubblicità di Esselunga qualcosa che non sia amore nel senso più puro del termine, è semplicemente arido. Che poi è la base dell’essere comunisti". Molto più concreta Maddalena:"Bambina della pubblicità Esselunga sei coraggiosissima e dolcissima, ma vedi se puoi fare qualcosa anche per abbassare i prezzi delle pesche per favore". Infine, la perla di Genio78 citando un'altra celebre pubblicità: "Pazzesco si indignano per una pubblicità sul divorzio quando abbiamo visto per anni Banderas che da sposato ci provava con una gallina". Una cosa è certa: Esselunga ha centrato l'obiettivo.

Esselunga, lo spot è un caso. Lucarelli: "Stereotipo delle separazioni infelici". Il tempo il 26 settembre 2023

Lo spot di Esselunga è finito sotto i riflettori più del previsto e sta facendo discutere parecchio. Il motivo? Il video promozionale, che prima è stato lanciato in tv e che poi è stato riproposto sul web dagli utenti, racconta con poche immagini la storia di una bambina che è figlia di due genitori separati. La piccola, mentre fa la spesa insieme alla mamma, decide di prendere una pesca e, alla fine, la regala al papà dicendogli: "Questa te la manda la mamma". Se una parte del pubblico ha ritenuto che la pubblicità della catena di supermercati abbia strumentalizzato i sentimenti dei bambini, l'altra fazione ha apprezzato il tentativo di narrare il divorzio dal punto di vista dei figli. Sullo spot, che è già un caso, è intervenuta Selvaggia Lucarelli che, senza mezzi termini, l'ha stroncato.  

"Lo spot di Esselunga con la bambina che prende la pesca al supermercato e la dà al papà separato fingendo che sia un regalo da parte della mamma è un tentativo piuttosto riuscito di pubblicità emozionale, un Mulino con schizzi di fango in cui la famiglia separata è terreno fertile per la lacrimuccia facile. In cui il tavolo delle colazioni felici è sostituito da una finestra e un’auto parcheggiata davanti a un portone. Un mulino che ruota in senso contrario rispetto alla corrente della famiglia felice, eppure vittima anch’esso di uno stereotipo": così ha esordito la giornalista. Quindi ha continuato: "Non quello della famiglia felice, questa volta, ma della famiglia infelice. Che non è necessariamente quella in cui i genitori sono separati. Che non è necessariamente quella in cui i bambini sono in trincea con genitori divorziati. Che non è per forza quella in cui i bambini, figli di separati, finiscono adultizzati e risolutori di conflitti con una pesca in mano". 

Lucarelli ha spiegato che, secondo lei, ciò che non funziona è soprattutto il tentativo di cercare a tutti i costi un approccio moderno al tema del divorzio: "Non c’è nulla di male nella pubblicità di Esselunga, ma non è contemporanea, illudendosi però di essere contemporanea. Non è l’anti Mulino bianco, è anch’essa un mulino, ovvero una famiglia che vive in un posto in cui non abita più nessuno (a parte forse qualche olandese bucolico e le ballerine del Moulin Rouge). Così come i matrimoni non sono tutti felici, le separazioni non sono necessariamente campi di guerra, soprattutto in un momento storico in cui i matrimoni non sono più prigioni, in cui rifarsi una vita è la normalità, in cui tanti genitori riescono a condividere la genitorialità anche senza condividere il letto".  

La giornalista, per avvalorare la sua tesi, ha proposto un esempio concreto: "Nella mia famiglia non tradizionale abbiamo tre esperienze diverse: Lorenzo è figlio di genitori separati e non ha vissuto traumi, è stato un ragazzino felice. Leon è figlio di genitori separati, non ha sofferto, ha due genitori che si vogliono bene. Io ho avuto due genitori che sono stati insieme tutta la vita, nel conflitto costante. Indovinate chi di noi tre, da piccolo, è cresciuto con una pesca in mano? Insomma, apprezzo lo sforzo pubblicitario nell’affrancarsi dalla melassa delle famiglie perfette, ma forse bisogna affrancarsi anche dallo stereotipo delle separazioni infelici".  

Forse stiamo un po' esagerando con lo spot dell'Esselunga. La bambina, la pesca, la coppia separata. Il popolo del web attacca la narrazione che criminalizzerebbe i divorziati. Ma se si trattasse solo di un prodotto superficiale che affronta il reale per la prima volta? Beatrice Dondi su L'Espresso il 26 settembre 2023

Tutte le famiglie felici sono uguali. Ogni famiglia infelice mangia una pesca a modo suo. A guardare con l’attenzione che merita lo spot Esselunga, che è sempre uno spot e quindi in quanto tale andrebbe rigorosamente visto di sfuggita, viene da pensare che persino il dorato mondo descritto dalla pubblicità ha scoperto che le coppie scoppiano, i bambini vengono trasportati come buste della spesa da una casa a un’altra ma spesso e volentieri senza alcun dramma in corso. O forse sì, dipende dalle coppie, dipende dai piccoli, dipende dagli avvocati e da quante urla sono state riversate prima di uscire di casa con le valigie. Insomma, dipende dalla vita vera.  

Siamo stati male educati da decenni in cui un padre e una madre, rigorosamente eterosessuali e possibilmente con figli pari e di genere diverso, si ostinavano a ridere appena svegli per il piacere di vedere uno straccio di merendina che si tuffava in una tazza di latte. E all’improvviso viene fuori un micro film in cui seppur di una virgola cambia la prospettiva.  

La mamma fa la spesa con la bambina, la bambina scappa per comprare una pesca perfetta nel supermercato dove non serve neppure pesarla, le due tornano a casa, giocano, ridono e poi la piccina prende lo zainetto perché è arrivato il padre separato per portarla a casa propria. A quel punto, mentre la musica strappalacrime avanza, la bambina sale e in macchina, offre al padre la famosa pesca neanche fosse la mela di Biancaneve e gli dice: «Questa te la manda la mamma». Musica, lacrime, atmosfera triste, gomitate di sottintesi, fine. Perché come recita il claim, «Non c’è una spesa che non sia importante».  

Ora non è una grande idea quella di questo spot firmato dal  regista francese Rudi Rosenberg e prodotto da Indiana . Ma non c’è dubbio che una coppia separata sia una rarità del mondo promozionale patinato per sua stessa essenza, e un po’ lo sforzo andrebbe apprezzato.  

Invece il popolo del web ha emesso il suo verdetto, accusandolo di essere uno spot governativo contro il divorzio. Ma al di là della sceneggiatura buttata un po’ a caso non sembra certo più pericoloso del celebre rigatone che un’altra bambina metteva di nascosto nella giacca del padre che andava al lavoro come ogni buon maschio che si rispetti. E poi, visto il sistematico attacco all’aborto di questi tempi forse sarebbe bene non suggerire nuovi appigli a cui aggrapparsi…

 Rivoluzione spot: la famiglia è normale. La pubblicità Esselunga è un inno alla realtà: una coppia separata e niente "arcobaleni". Luigi Mascheroni il 27 Settembre 2023 su Il Giornale.

Forse, per stare nel campo della pubblicità, le famiglie del Mulino Bianco non esistono. Ma è bello pensare che almeno quelle normali, sì. A proposito: quando Barilla puntò troppo sulle tradizioni italiane - un Paese tutto casa, mamma, papà, bimbe e fusilli - poi dovette fare marcia indietro, direzione gay friendly, per recuperare un po' di reputazione aziendale. Che noia. Quella che è invece gioiosa, commovente, amorevole e vera, e vorremmo implementare l'aggettivazione per innervosire ulteriormente il popolo arcobaleno, è la nuova pubblicità Esselunga.

Più di uno spot, un cortometraggio. Più di un cortometraggio, un sogno. Più di un sogno, la realtà. Una campagna pubblicitaria - in una società che vive la diversità come la norma - fieramente rivoluzionaria. Dura due minuti, s'intitola «La pesca» (frutto originario della Cina, vabbè, ma percepito come mediterraneo, romano, sovranista) e racconta una storia di ordinaria semplicità del quotidiano. Una mamma in un supermercato non trova più la figlia, scappata in un'altra corsia per comprare una pesca. Tornano a casa e quando il papà suona al citofono - i genitori sono separati - la piccola scende in strada, sale in auto con lui e gli regala la pesca, fingendo che sia un regalo da parte della madre. «Questa te la manda lei». Momenti di altissima commozione. Claim: «Non c'è una spesa che non sia importante». Forse manca un appello, sui titoli di coda, a firmare per un referendum abrogativo del divorzio, ma non si può chiedere tutto a un'azienda.

Ora, la cosa è molto delicata oltre che rivoluzionaria. Nell'ordine: la bambina non è di colore. A occhio non sembra frutto di una maternità surrogata. I due genitori sono separati sì, ma etero. Quindi stiamo parlando di una minoranza solitamente discriminata. La pesca non è biologica (Olè!). La cassiera non è né musulmana né di etnia sinti. Fra gli scaffali non si aggirano travestiti, ed è strano. Né mamma né papà hanno tatuaggi tribali sul collo. Ma soprattutto, ed è l'aspetto meno credibile della pubblicità (purtroppo), entrambi, lei e lui, usano - in centro a Milano, zona via Solari - un'automobile a testa. E non elettrica! Vorremmo che lo sceneggiatore fosse eletto sindaco al posto di Beppe Sala. Capite che tutto ciò non è accettabile. E infatti lo spot Esselunga è diventato subito oggetto di feroci attacchi sui social.

Apprezzatissima dall'area politico-sociale che fa riferimento a Matteo Salvini e Giorgia Meloni, uno divorziato e l'altra convivente, sorta di super spot-regalo per il primo anniversario del governo sovranista - Dio, Patria, frutta italiana, cibi sani e Famiglia la pubblicità Esselunga, azienda che in passato ha subito la guerra delle cooperative rosse in mezza Italia, ha infastidito il popolo arcobaleno, quello viola, i piddini della corrente Elly Schlein e l'universo Lgbtq.

Domanda: cosa ne pensa la famiglia queer delle murge? Loro, in effetti, sono sempre andati alla Coop. Falce, carrello, tartine, papaya e monopattini. Reazioni: «La pubblicità Esselunga toglie diritti!». «Ci carica di sensi di colpa!». «Perché alla cassa non c'era l'onorevole Zan?». Esselunga è una azienda italianissima, fondata nel 1957, con 180 negozi tra superstore e supermarket, 25mila dipendenti e un fatturato di 8,8 miliardi di euro. La campagna pubblicitaria è dell'agenzia creativa americana «New York Small» (dove lavorano diversi italiani, che sanno cosa succede da noi), firmata da un regista francese, Rudi Rosenberg, e prodotta da Indiana Production. Forse Pro Vita&Famiglia diventerà presto loro cliente. In realtà lo spot di Esselunga non sembra voler ledere alcun diritto al divorzio, racconta di una bambina che soffre per la separazione dei genitori e dimostra che oltre all'orgoglio Woke ci sia il Paese reale. Sui social non si contano i like e i commenti tipo «Da stasera spesona all'Esselunga». E così la più bella sinistra libera e dem, per una volta, è dovuta uscire dalla Ztl. Per andare alla Conad.

Esselunga e lo spot della pesca, l’attore nei panni del papà: «Solo per riflettere. La scena finale girata 20 volte». Storia di Maria Volpe su Il Corriere della Sera giovedì 28 settembre 2023.

«Lo spot della Esselunga? Ho ricevuto tanti messaggi di solidarietà, tante pacche sulle spalle. Io e la mia collega interpretiamo una coppia che si è divisa e lo spot, che dura quasi due minuti, è questo. È quasi un atto rivoluzionario: due minuti è un tempo rarissimo per una pubblicità, è quasi un cortometraggio e grazie a questa durata consente di riflettere su quel che si vede». Queste le parole di Mauro Santopietro, l’attore che, nel ruolo di un papà separato, recita nell’ormai celebre spot della Esselunga di cui si parla da giorni, tra favorevoli e contrari. Ospite a Rai Radio1, nel programma «Un Giorno da Pecora», Santopietro ha risposto alle domande dei conduttori Giorgio Lauro e Geppi Cucciari, in modo molto ironico, con la voce di chi certo non si aspettava controversie politiche tra destra e sinistra per un semplice uno spot, con protagonista una pesca.

Visto che lei parla di cortometraggio, crede che questo spot avrà un sequel? hanno chiesto i conduttori. «Sto cercando di proporlo: potrebbe prevedere che io vada alla Esselunga a comprare una busta intera di pesche. Non so se me lo faranno mai fare…». E poi: Nello spot chi tra moglie e marito ha deciso di ‘rompere’ con l’altro? «Non si sa…ma quello che vuole trasmettere lo spot è il diritto per una bambina di fare dei tentativi di far riappacificare i propri genitori, anche attraverso una semplice pesca». E poi: Quante volte avete girato la scena della pesca finale? «Una ventina di volte perché si voleva inquadrare la pesca in un certo modo, tanto che è stata montata poi al contrario».

Poi i conduttori hanno voluto sottolineare l’aspetto politico del dibattito, chiedendo a Santopietro: politicamente lo spot è stato apprezzato dal centro destra mentre il centro sinistra è stato più critico. Cosa ne pensa? «Mi spiace per entrambe le posizioni, lo spot è prodotto culturale che dovrebbe far riflettere e non spingere a giudicare». Lei nella vita invece è single, separato o sposato? «Sono impegnato…», ha concluso l’attore.

Emanuela Minucci per la Stampa - Estratti giovedì 28 settembre 2023.

Professor Crepet, ha visto che tsunami ha sollevato lo spot dell’Esselunga?

«Sì, ed era ora che qualcuno ponesse gli italiani di fronte a una realtà speculare a quella del Mulino bianco. E chi dice che il Mulino nero è a sua volta uno stereotipo, sbaglia, perché si tratta semplicemente di una verità statistica.

(…)

Lo spot ha anche molto diviso.

«Ha diviso perché non è facile arrendersi a una realtà dolorosa. Vale a dire che la separazione è sempre un lutto, e che i bambini abbiano due camere da letto non può essere considerata una soluzione felice e ancor peggio è quando si delega anche involontariamente, per incapacità, il ruolo di paciere ai bambini: questa, purtroppo, è la massima sconfitta».

In effetti la pesca da regalare al babbo è un’idea della bambina…

«Sì, e questo è un messaggio realistico, ma molto triste. Stupisce però lo stupore. Venga una mattina al tribunale dei minori, e capirà perché la metafora della pesca è un dettaglio ”light” rispetto a quello che succede nella famiglie con figli che si separano con la massima e più cinica nonchalance». 

(...)

Quindi a lei questo spot è piaciuto.

«L’ho trovato fatto molto bene. Ma è sempre triste assistere a una storia di disfatta e di incomunicabilità che coinvolge i bambini e, anzi, delega loro qualcosa che gli adulti non sono capaci di fare».

Più che uno spot una seduta psicoanalitica.

«Una grande seduta psicoanalitica collettiva, direi, che parla ai sensi di colpa degli italiani».

(...)

Qualcuno dice che è diseducativo, però.

«Guardi, mi ricorda le critiche che ricevette il neorealismo che raccontava l’Italia vera, quella con le pezze al sedere. Ci fu chi insorse, ma quella era la realtà e anche lì era inutile girarci intorno».

La Meloni ha detto che in questo spot ha trovato una grande poesia.

«Più che poesia, ripeto, quel messaggio era un messaggio di puro neorealismo».

Nadia Terranova per la Stampa giovedì 28 settembre 2023. 

Sono figlia di genitori che si sono separati poco dopo la mia nascita e ho vissuto tutta l’infanzia nell’indicibile e dolorosa convinzione che la mia famiglia non esistesse.

(…) 

Se quarant’anni fa avessi visto la pubblicità dell’Esselunga, avrei tirato un sospiro di sollievo: allora esistevo. Allora il mio desiderare follemente, sconsideratamente, che due persone che a malapena si rivolgevano la parola tornassero ad amarsi trovava diritto di cittadinanza. 

(…) Oggi sono un’adulta grata a genitori che non le hanno inflitto la loro infelicità di coppia. Ieri ero una bambina che invidiava tutte le altre famiglie, tranne quelle dove i genitori si trattavano così freddamente o litigiosamente da non farla star male al pensiero di tornare nella sua casa monca, pure se riempita dall’amore di una madre. Che era l’amore di una persona sola. Quando passavo i pomeriggi con mio padre, ne ricevevo altrettanto. Ma due amori separati non ne facevano uno, ed era tutto ciò che m’importava. 

(…)

Mi dispiace per chi si sente offeso dalla pubblicità dell’Esselunga, ma quello che rappresenta è il linguaggio dell’infanzia, tale e quale, ed è un grave errore confonderlo con la difesa della famiglia tradizionale. 

(…)

Estratto dell’articolo di Francesco Moscatelli per “la Stampa” giovedì 28 settembre 2023.

«Ci aspettavamo che il nostro lavoro avrebbe fatto parlare, non ci aspettavamo che avrebbe fatto parlare così tanto». Luca Lorenzini, 46 anni, italiano trapiantato a New York e cofondatore insieme a Luca Pannese della società di comunicazione "Small The Agency", è la mente creativa dietro l'ormai celebre pubblicità «della pesca» di Esselunga. In questi giorni il suo telefono, la sua mail e i suoi account social sono intasati di messaggi. Un risultato che vale quanto i numerosi premi vinti negli anni al Festival di Cannes.

Lorenzini, com'è nato lo spot? Che storia volevate raccontare?

«Siamo partiti dal concetto "non c'è una spesa che non sia importante" e abbiamo raccontato una storia che comunicasse questo messaggio». 

[…] Chi lo apprezza ci vede la capacità di affrontare un tema delicato come quello del divorzio dalla prospettiva dei bambini. Anche per voi è così? Come va interpretato?

«Per noi è una piccola storia in cui una bambina si affida a un trucco (ingegnoso e ingenuo allo stesso tempo) per provare a migliorare i rapporti tra due genitori che, come si vede nello spot, hanno un rapporto distante e freddo. Tutto qui». 

La presidente del Consiglio Giorgia Meloni è intervenuta apposta sui social definendolo «bello e toccante». Vi ha fatto piacere?

«Noi guardiamo le cose dal punto di vista del nostro lavoro. Se la premier italiana decide di parlare del nostro lavoro e lo apprezza per noi è sicuramente un bel risultato».

In Italia la famiglia è spesso al centro di scontri ideologici e giuridici. Pensiamo ai diritti dei figli delle coppie arcobaleno. Voi vivete a New York. Che idea vi siete fatti del dibattito italiano?

 «Non siamo sicuri che in America se ne sarebbe parlato così tanto. Chi accende la televisione qui noterà quasi subito come, rispetto all'Italia, si raccontino storie più variegate. In Italia, in generale, c'è paura di fare qualcosa di diverso».

I critici invece si dividono in due categorie: chi parla di strumentalizzazione […] e chi sostiene che passi un messaggio datato […]. Cosa rispondete ai primi?

«[…] che abbiamo ricevuto decine di messaggi di persone ormai adulte che ci hanno detto: "Io facevo la stessa cosa, mi sono rivisto in quella bambina". Quindi pensiamo di aver raccontato una storia verosimile». 

E […] ai secondi?

«Con i messaggi ricevuti da coppie divorziate che ci hanno detto: finalmente qualcuno che parla di noi».

Estratto dell’articolo di Oriana Liso per “la Repubblica” giovedì 28 settembre 2023. 

Lo spot del Mulino Bianco?  «Era l’esempio di famiglia perfetta di quel tempo in cui è stato girato. Noi raccontiamo un altro tipo di famiglia». 

Luca Lorenzini […] il Mulino Bianco: un riferimento da capovolgere?

«Noi siamo partiti dal concetto che il nostro cliente ci ha chiesto, “Non c’è una spesa che non sia importante”, abbiamo pensato di mettere al centro del racconto i consumatori, chi sono, le loro vite, e di farlo con una narrazione diversa da quella tipica delle pubblicità italiane, forse perché viviamo a New York, lavoriamo con clienti di tutto il mondo e vediamo un altro modo di raccontare la quotidianità».

Ma la pesca, perché?

«Siamo partiti da una idea con il nostro cliente e da una richiesta, abbiamo pensato a come sviluppare un racconto molto cinematografico e lungo - due minuti sono fuori dai canoni classici della pubblicità - e abbiamo pensato alla pesca come spunto di un racconto. Potevano esserci molti altri spunti e molte altre storie, magari ce ne saranno».

C’è chi vi critica anche per l’ambientazione borghese e milanese.

«Esselunga è nata a Milano, il punto vendita di via Solari dove abbiamo girato è uno di quelli più conosciuti e riconoscibili, tutto qui».

Parlando di spot, il vostro viene paragonato a uno di Ikea che parla sempre di famiglie con genitori separati. Cosa ne pensa?

«L’ho visto, certo, e visto che si parla di una azienda che fa mobili il messaggio di far sentire il bambino sempre a casa è bello». 

Ma alla fine il messaggio che volevate dare qual è?

«Sin dalla fase creativa ci eravamo detti che volevamo fosse una storia che potesse avere molte e diverse interpretazioni, che poi è quello che sta succedendo. E abbiamo volutamente lasciato aperto il finale della storia: ci si vede passato, presente e futuro».

Modugno, piange il telefono e la ferita del divorzio. Storia di Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera giovedì 28 settembre 2023.

Caro Aldo, certo che ce ne vuole di fantasia, da parte della sinistra, per creare un caso legato ad uno spot televisivo commovente in cui una bambina, con lo stratagemma della pesca, cerca di far riavvicinare i propri genitori separati: cosa c’è di strano? Non è il sogno di tutti i figli, tranne coloro che hanno assistito a scene di ripetuta violenza? Stefano Casadei Sono sempre più incredulo. Davvero il ceto intellettuale italiano preferisce interrogarsi sulla pubblicità di un supermercato piuttosto che dar vita finalmente a un serio dibattito pubblico sullo stato comatoso della scuola italiana? Leonardo Eva, Firenze

Cari lettori, E’ davvero sorprendente come storie all’apparenza laterali accendano la discussione pubblica provocando financo l’intervento del capo del governo e dei capi dell’opposizione. Non dico ci si debba confrontare ogni giorno su denatalità, migrazioni, cambio climatico, proliferazione nucleare, intelligenza artificiale, biotecnologie, crollo del lavoro intellettuale e del potere d’acquisto; sono le grandi questioni del nostro tempo da cui dipende il futuro dell’umanità; ma sono considerate noiose, e quindi nella piazza digitale della Rete si parla d’altro. La discussione sulla bimba del supermercato ha un precedente. Nel 1975 Domenico Modugno portò in Italia «Piange… il telefono», remake di una canzone che aveva spopolato in Francia. Era un terrificante dialogo tra un padre si presume divorziato e una bambina che non sa di essere sua figlia. L’uomo tenta invano di convincere la sua ex donna a venire al telefono; poi nella versione francese si suicida, in quella italiana si limita a piagnucolare. Ma in Francia nessuno protestò; il divorzio era stato introdotto dai rivoluzionari nel 1792, abolito con la Restaurazione ma ristabilito nella Repubblica laica di fine ‘800. L’Italia era invece ancora lacerata dalla battaglia del referendum del 1974. I divorzisti criticarono la canzone, che rinfrancò invece gli anti-divorzisti. L’Italia resta ancora oggi, anche dopo la tardiva riforma del divorzio breve, uno dei Paesi in cui rompere un matrimonio è più complicato. In Svizzera, ad esempio, il giudice non ha alcun obbligo di provare a riconciliare i coniugi, formalità inutile ma penosa. In Germania non esiste il divorzio con addebito di colpa: se un matrimonio finisce non c’è un solo colpevole. Da noi all’evidenza il divorzio è una ferita aperta. Anche se le giovani coppie si separano facilmente, forse troppo: come se fosse impossibile perdonarsi, attendersi, ritrovarsi.

Estratto dell'articolo di Giuliano Ferrara per “Il Foglio” giovedì 28 settembre 2023.

Il contemporaneo se ne frega dei sentimenti, del senso di abbandono, della nostalgia, del bisogno di tenerezza da parte dei figli che pretendono l’unione dei genitori invece della loro separazione, il contemporaneo considera tutto ciò che genera senso di colpa uno sfregio al modo di vita libero, alla famiglia che funziona o non funziona come dettano le regole sregolate di un matrimonio fallito eccetera. 

Quindi fa scandalo un video promozionale dell’Esselunga in cui una bambina un po’ smarrita prende una pesca o persica durante la spesa al supermercato con la madre e quando è affidata al padre, che la va a prendere sotto casa senza incontrare la moglie separata con cui è in freddo, gliela regala dicendo che gliela manda mamma. 

La presidente del Consiglio, madre non sposata, trova che lo scandalo non ha ragione di esistere […]

Quanta inutile confusione. Evidente che lo spot è inusuale ma indiscutibilmente bellino nella sua sincera ingenuità commerciale, esprime un sentimento ultranormale, dolcemente ricattatorio nella speranza di un lieto fine che forse non ci sarà, e tutti ce ne faremo una ragione, compresa la bambina, ma intanto una pesca è una pesca, una pesca, una pesca (o al massimo una persica), nel mondo reale e nell’immaginazione targata Esselunga. 

[…]

Ma qui bisogna ribadire che l’amore non è abbastanza, love is not enough, come scriveva nel 1967 lo psicologo Bruno Bettelheim, a proposito dei disturbi affettivi dei bambini. Secondo lo psichiatra e umanista e moralista quieto Francesco Montanari, di cui l’editrice Roccantica pubblica una raccolta postuma di scritti (“Un suono che la memoria può ricordare”), Bettelheim […] sapeva che il freudismo ha un limite, perché “l’Io ha delle prerogative e delle funzioni autonome che la psicoanalisi aveva trascurato. Ne conseguiva una concezione in cui l’uomo si configurava non più solo come individuo realizzato affettivamente (Love is not enough) ma anche come individuo socialmente integrato (…)”. 

Così dobbiamo pensare che la bambina dello spot ha un’idea strutturata su principi emotivi fondamentali, non coincidenti con libido e colpa freudiana. Quando fa di un dono una proposta di riconciliazione, più o meno consapevolmente, il suo superIo adopera uno strumento di integrazione sociale e lo propone a una coppia di adulti-bambini soddisfatti o insoddisfatti di un matrimonio per sé, e si presume per altri, condotto a una crisi che potrebbe essere solo provvisoria, agli occhi della figlia in comune.

Quella bambina con quel frutto comune, da supermercato, si muove senza saperlo sulla scia di una nuova letteratura matrimonialista, fiorente in America, in cui anche saggisti liberal assumono come un’ovvietà l’idea solo in apparenza conservatrice che un buon matrimonio con educazione in comune dei figli e un giusto grado di integrazione sia in fondo una buona cosa, perfino testimoniata dagli onnipresenti numeri della sociologia del contemporaneo. 

L’amore non è abbastanza, e non è forse nemmeno quella la tenerezza emozionale in questione. In una ragione del cuore che la ragione non conosce, forse il problema è che la bambina Esselunga sa stare al mondo appena un po’ meglio dei suoi smarriti genitori. Uno scandalo? Giudicate voi. 

Spot Esselunga messaggio velenoso: la bimba (bugiarda e disobbediente) come la strega di Biancaneve. Vladimir Luxuria su Il Riformista il 28 Settembre 2023 

Nel Si&No del Riformista spazio allo spot dell’Esselunga e alle polemiche che ha suscitato la storia della famiglia separata con la bambina che cerca di ricongiungere i genitori con l’acquisto di una pesca. Favorevole allo spot lo scrittore Andrea Venanzoni, secondo cui nella pubblicità “è solo il mondo con la sua varietà, rassegnatevi, sarà una pesca a seppellirvi”. Contraria Vladimir Luxuria. L’ex parlamentare considera “velenoso” il messaggio lanciato dallo spot dell’Esselunga. Un messaggio che fa male a tutti i genitori“.

Qui il commento di Vladimir Luxuria:

Quando ho visto lo spot dell’Esselunga mi è venuta in mente una favola, in particolar modo il momento in cui la strega di Biancaneve ha una mela in mano e cerca di convincere Biancaneve a mordere quella mela. Anche qui la bambina dà una pesca al papà ma è una pesca avvelenata. Avvelenata perché il messaggio è un messaggio velenoso, soprattutto per i genitori separati. Non c’è più la famiglia del Mulino bianco, per riprendere un’altra metafora famosa che riguarda il mondo della pubblicità, ma esistono tanti tipi di famiglie. Non solo famiglie eterosessuali ma anche famiglie arcobaleno, non solo famiglie con papà e mamma che continuano a vivere insieme ma famiglie che vivono insieme sia sposate sia non sposate ma anche tante famiglie ricomposte, quindi madre o padre che si sono risposati e ancora tante famiglie separate. Ora, il messaggio di questo spot pubblicitario è quello di una bambina triste, addolorata e che vive male perché i genitori si sono separati.

I bambini stanno male quando i genitori si separano male, cioè quando cercano di far pesare sui bambini tutti i malumori o quando peggio ancora li utilizzano come arma di ricatto o anche per delle vendette, o quando cercano di parlare male dell’altro al bambino tentando di renderlo partecipe, tifoso, addirittura nel tentativo di far odiare il padre o la madre. Sicuramente un bambino può starci male se due genitori si lasciano e bisogna saper spiegare il momento della separazione, ma per fortuna da un po’ di anni in Italia esiste il divorzio e che a parlare di indissolubilità del matrimonio sia ancora solo la chiesa e Simone Pillon che ultimamente aveva fatto un post nel quale proponeva alcuni tipi di matrimonio indissolubili. Per fortuna esiste il divorzio perché tanti bambini sono stati male e hanno vissuto male per le continue liti che avvenivano dentro le mura domestiche. Certo, questo è uno spot che può piacere oppure no, sicuramente ha centrato l’obiettivo di far parlare di sé ma sicuramente non è rappresentativo di tutte le realtà italiane e soprattutto è uno spot che fa male a tutti i genitori separati che quotidianamente cercano di non far pesare ai figli la propria separazione ma che al contrario cercano di garantirgli comunque un futuro. È vero che questa pubblicità sta facendo molto parlare e chi ha fatto lo story telling sapeva benissimo a cosa andava incontro ma secondo me questo è l’effetto a breve perché alla lunga tiene fuori i single, i genitori separati, tutti gli altri tipi di famiglie e quindi credo che al ungo andare sia controproducente perché i soldi non hanno colore e dovrebbero interessare anche i genitori tranquillamente separati e i bambini che continuano a giocare, a vivere, a studiare anche quando si tratta di figli di genitori separati: anche loro fanno la spesa.

Inoltre, questa non è proprio una bambina modello, disobbedisce alla mamma e se ne va in giro da sola per il supermercato. E poi c’è l’esaltazione della bugia perché sarà pure a fin di bene ma la bambina mente quando dà la pesca al papà dicendo che è la mamma che gliela aveva voluta regalare.

E c’è anche un’altra considerazione da fare: in questo spot la parte della cattiva della coppia la fa la donna. Lui, il papà, timidamente citofona e fa un cenno di saluto con la testa, lei invece arcigna lo guarda dalla finestra con uno sguardo severo e neanche gli permette di salire a casa. E poi il finale dello spot (finale che non fanno vedere) sarebbe stato questo: il padre sale a casa senza citofonare con la pesca in mano e ringrazia la mamma per il pensiero gentile. Lei si arrabbia prima con l’ex marito perché avrebbe solo dovuto citofonare poi rimprovera la figlia per la bugia. Vladimir Luxuria

Spot Esselunga è il mondo con la sua varietà: rassegnatevi, sarà una pesca a seppellirvi. Andrea Venanzoni su Il Riformista il 28 Settembre 2023 

Nel Si&No del Riformista spazio allo spot dell’Esselunga e alle polemiche che ha suscitato la storia della famiglia separata con la bambina che cerca di ricongiungere i genitori con l’acquisto di una pesca. Favorevole allo spot lo scrittore Andrea Venanzoni, secondo cui nella pubblicità “è solo il mondo con la sua varietà, rassegnatevi, sarà una pesca a seppellirvi”. Contraria Vladimir Luxuria. L’ex parlamentare considera “velenoso” il messaggio lanciato dallo spot dell’Esselunga. Un messaggio che fa male a tutti i genitori“.

Qui il commento di Andrea Venanzoni:

Siamo passati da ‘I dieci giorni che sconvolsero il mondo’, il volume di John Reed sulla Rivoluzione d’ottobre, ai ‘due minuti che hanno sconvolto la Rete’, lo spot di Esselunga che ha incrinato le già fragili certezze di tutti gli indignati in servizio permanente che presidiano gli anfratti più nebulosi del dibattito politico e culturale, i quali se ne sono andati, letteralmente, in frantumi davanti la storia di Emma e della sua pesca.

Quella che è semplicemente, linearmente, una garbata storia che veicola un suo messaggio, prima di tutto promozionale, è diventata, nel coro polifonico dei commentatori, un attacco ai diritti, un affronto, una esibizione muscolare reazionaria.

Decostruzionisti, divenuti celebri e istituzionalmente rispettati per aver dimostrato come esista la libertà di essere riconosciuti dallo Stato e di identificarsi quali armadilli o lemuri, verranno a parlarvi di quanto biecamente conservatrice sia quella pesca e di quanto intrinsecamente malvagia sia la bambina.

Poltergeist retrivo che cerca, con il suo nostalgismo magari clericale, di incrinare la sacrosanta autodeterminazione divorzile, e giù di sberleffi e preoccupazione e linguaggi da collettivo maoista anni Settanta.

Gente uscita frettolosamente fuori dal suo baccello da Politburo coi capelli fucsia si azzarda in languide e verbose disamine per dimostrarci quanto scorretto, sbagliato, intrinsecamente violento questo spot sia, perché osa narrare una storia, una storia in cui appaiono soltanto un uomo, una donna, una bambina e una pesca. E un supermercato, già.

Sceneggiato dal Generale Vannacci, penseranno gli indignati che con orrore analizzano ogni singolo fotogramma nemmeno fosse Il Settimo Sigillo di Ingmar Bergman, perché è incredibile, incredibile e indegno, che uno spot di un supermercato osi addirittura parlare di acquisti in un supermercato, e non magari di un musicista eroinomane di colore che tra un’orgia e l’altra combatta per i diritti della comunità transgender, e cerchi di vendervi una auto elettrica, come potrebbe andare di moda in una campagna pubblicitaria di una marca di scarpe da ginnastica.

Non posso che essere favorevole, graniticamente favorevole a uno spot che in due soli minuti sconvolge una parte di opinione pubblica, fa montare un caso politico, diventa fenomeno culturale, con spirito pour épater le bourgeois nonostante non volesse sconvolgere proprio nessuno, limpidamente mette a nudo la strutturale ipocrisia di una parte che vorrebbe spot insensati di qualunque ordine e grado e respinge l’indignazione altrui come bieco oscurantismo e poi pratica la medesima indignazione per una storia del genere.

Esiste anche questo mondo. Che no, non è il mondo al contrario.

E’ semplicemente il mondo, con la sua varietà, le sue famiglie occidentali composte da una mamma, un papà e una bambina, famiglie che a volte si separano e che i figli vorrebbero veder riconciliarsi, nella loro scomoda e sovente dolorosa posizione.

Invece no, tutti figli felicissimi, contentissimi, gioiosissimi di coppie separate, divorziate, meno male che si sono lasciati mamma e papà, ma che scherzi.

I Generali Vannacci, santa pace, ve li meritate, li costruite voi, generando queste polemiche del tutto insensate su quello che è e rimane uno spot con un suo messaggio, totalmente scevro di qualunque violenza e di qualunque esagerazione.

Prendiamone atto: viviamo ormai in un’epoca nella quale la mancanza di violenza, di oscurità, di opacità viene presa essa stessa per violenza. La violenza stigmatizzata, a parole, da chi adesso sputa fiele in preda a grande isteria su mamma, papà, bambina e pesca.

La rivolta contro il mondo moderno passa per la pesca di Emma? A questo davvero siamo arrivati?

Siamo giunti infine nel ventre di un momento storico che similmente all’Atto III dell’Amleto shakespeariano vede la virtù inginocchiata ai piedi del vizio, intenta a chiedergli il permesso di fargli del bene.

Un’epoca di melassa, in cui una narrazione lineare, senza sbavature, senza eccessi di retorica o spirito di conflitto, che ci mostra uno spaccato di vita quotidiana e un guizzo malinconico finale, in quella piccola epifania rappresentata da una pesca è vissuta, percepita, sentita fin nel midollo come una aggressione ai diritti.

Rassegnatevi: sarà una pesca a seppellirvi. Andrea Venanzoni

Giulio Meotti per “il Foglio” - Estratti giovedì 28 settembre 2023. 

(...)

Ora il libro di economia più atteso dell’anno sostiene che avere genitori sposati fa bene ai figli. Banalità? 

“Per anni, gli accademici che studiano la povertà, la mobilità e le strutture familiari hanno evitato questa verità evidente”, scrive l’economista Melissa Kearney in “The Two-Parent Privilege”, pubblicato questa settimana e recensito da tutti i grandi quotidiani che contano. Un tentativo di spiegare l’importanza del matrimonio ai colleghi intellettuali. 

Purtroppo, Kearney ha il suo bel da fare. L’autrice è un’economista formatasi al Mit e scrive: “L’assenza di un padre dalla casa di un bambino sembra avere effetti diretti sui risultati dei figli – e non solo a causa della perdita del reddito genitoriale”. Per questo dobbiamo “ripristinare e promuovere la norma di una casa con due genitori per i bambini”. Daniel Patrick Moynihan lo disse nel suo rapporto del 1965 sulla famiglia. George Gilder ci ha scritto “Sexual Suicide” (1973) e “Men and Marriage” (1986). E Charles Murray, che ne aveva parlato nel suo studio fondamentale, “Losing Ground” (1984), ha avanzato argomentazioni simili in “Coming Apart” (2012).

“Le prove sono schiaccianti: i bambini provenienti da famiglie monoparentali hanno più problemi comportamentali, hanno maggiori probabilità di finire nei guai a scuola o con la legge, raggiungono livelli di istruzione più bassi e tendono a guadagnare redditi più bassi in età adulta” scrive ancora Kearney. “I ragazzi che vivono in famiglie senza papà sono particolarmente inclini a finire nei guai a scuola o con la legge”. 

In un’intervista-podcast con il collega economista Stephen Dubner, Kearney dice anche che scrivere il libro è stato correre “un grosso rischio” a livello professionale, perché i suoi colleghi tendono a evitare di affrontare il ruolo della struttura familiare nelle discussioni sulla disuguaglianza sociale e a guardarli dall’alto in basso. Sfida “le conversazioni progressiste sul benessere dei bambini”. Nel 1960, negli Stati Uniti solo il cinque per cento dei bambini nasceva da madri non sposate. Nel 2019 era quasi il 50 per cento. 

Abbiamo fatto il vuoto e lo abbiamo chiamato progresso.

Tutti parlano dello spot della pesca, nessuno dello sfruttamento in Esselunga. Gloria Ferrari su L'Indipendente sabato 30 settembre 2023.

Vi sarà capitato in questi giorni di vedere o (almeno) di sentire parlare della famiglia e della pesca protagoniste dello spot pubblicitario di Esselunga. Un piccolo cortometraggio realizzato dalla nota catena milanese di supermercati che nel giro di poche ore ha stimolato sul web un copioso dibattito fatto di commenti, opinioni e analisi. Un flusso che, se ve lo stavate chiedendo, non vogliamo ulteriormente alimentare. Lascia infatti sconcertato l’effetto che un frutto, una bambina e una coppia di genitori divorziati hanno avuto su giornalisti e lettori (e pure sulla nostra Premier, che ha gradito la scenetta): tre elementi narrativi in grado di catalizzare l’attenzione e spostarla dal resto. Viene da chiedersi se forse l’intento di Esselunga non fosse proprio quello di sviare il dibattito pubblico e spegnere i riflettori su una questione che la riguarda e che l’ha posta anche al centro dell’attenzione di magistratura e guardia di finanza: le pessime condizioni di lavoro cui sottopone i propri lavoratori.

Solo tre mesi fa la Guardia di Finanza di Milano ha effettuato un maxi sequestro di circa 48 milioni di euro ai danni della catena, con l’accusa di “somministrazione illecita di manodopera” con conseguenti “ingentissimi danni all’erario”. Comportamenti che secondo i pm, in possesso di numerose testimonianze, si sarebbero protratti per diversi anni (tra il 2016 e il 2022). Lasso di tempo durante il quale la società avrebbe allestito un sistema di “sistematico sfruttamento dei lavoratori di carattere fraudolento”. Un vigilante ha per esempio raccontato di essere riuscito ad ottenere tre giorni di ferie «solo al momento in cui mio padre stava per morire», mentre in un altro verbale si legge «mediamente effettuo 80 ore di straordinario al mese».

In pratica Esselunga – così come già accaduto in altre grandi aziende – sarebbe riuscita ad ottenere “tariffe altamente competitive appaltando manodopera” in maniera irregolare. Reclutando lavoratori cioè da cooperative, consorzi e altre società, per cui contrattualmente risultavano dipendenti mentre in realtà svolgevano mansioni per Esselunga. Questi serbatoi di manodopera, come li chiama Unione Sindacale di Base, «hanno emesso fatture false per un importo stimato di oltre 221 milioni di euro con una equivalente frode fiscale di circa 48 milioni di euro. Un risparmio di cui si sarebbe avvalsa Esselunga». Ma «non si tratta solo di tasse evase. Ben più tartassati risultano i lavoratori a cui sono stati fregati i contributi previdenziali, il TFR e quant’altro».

Quello di Esselunga non è un caso isolato. A luglio di quest’anno, per esempio, la società Mondialpol, una delle aziende leader nei servizi di vigilanza privata, è stata sottoposta a controllo giudiziario per caporalato e sfruttamento dei lavoratori. Il commissariamento è stato deciso dal pm di Milano Paolo Storari con un decreto d’urgenza, nell’ambito di un’inchiesta condotta dalla Guardia di finanza. I lavoratori sarebbero stati pagati 5,37 euro lordi all’ora e minacciati di trasferimento in caso di mancata accettazione delle condizioni. Una situazione di forza che avrebbe fatto leva sullo stato di bisogno dei dipendenti, costretti di fatto ad accettare retribuzioni ben al di sotto della soglia di povertà e comunque sproporzionate rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato.

E pochi mesi prima, a marzo, BRT (ex Bartolini) e Geodis, due aziende leader nelle spedizioni internazionali e nei servizi di logistica, sono finite nei guai per lo stesso motivo. La procura di Milano, tramite un’inchiesta condotta dal Nucleo di polizia economico finanziaria della Guardia di Finanza, ha disposto per entrambe l’amministrazione giudiziaria per un anno con l’accusa di caporalato e truffa fiscale realizzata attraverso l’impiego di manodopera priva di tutele, fornita da cooperative in subappalto.

Per il fatto che episodi di questo tipo continuino ad accadere c’è da indignarsi ma non da meravigliarsi. Se una pesca è in grado di totalizzare la nostra attenzione, come possiamo accorgerci di un lavoratore sottopagato, sfruttato e senza diritti? Tuttavia basterebbe cambiare prospettiva: non è sbagliato creare una discussione attorno ad una pesca, a patto che ci si chieda, per esempio, come è arrivata sugli scaffali di quel supermercato, e per quanti chilometri abbia guidato quel lavoratore e per quanti pochi spiccioli l’abbia condotta fino a lì.

[di Gloria Ferrari]

Quanto è dura essere figli con gli adulti fuori controllo. Rissa tra genitori a una gara di ballo per i pochi posti liberi. LISA GINZBURG su La Gazzetta del Mezzogiorno il 25 febbraio 2023.  

A Guidonia, una piccola località vicino a Roma, domenica scorsa, in occasione di una gara di hip hop organizzata per giovani danzatrici e danzatori, c’è stata una rissa tra adulti, ovvero tra i genitori dei giovanissimi in procinto di esibirsi. Posti a sedere mancavano, dai molti rimasti in piedi veniva insinuata l’idea di soprusi nell’aver preso quei posti, qualche parola di troppo che è volata; ed ecco in un battibaleno hanno incominciato a volare anche gli insulti, certe signore vestite bene per onorare la bella occasione dei loro figli hanno cominciato a prendersi a borsettate in faccia, mentre altri adulti, anche uomini, i padri delle povere danzatrici e danzatori, loro anche hanno preso a spintonarsi, offendersi, lacerare relazioni mai nate ma importanti, perché di quotidiana prossemica.

Ci si trova vicini come adulti perché pronti ad assistere a uno spettacolo in stesso ruolo di genitori, ovvero nel solco del più normale condividere uno spazio, ovvero tutto quanto dovrebbe mantenersi nei termini di arginata e veicolata convivenza tra le sponde ordinate di un salubre, moderato, ordinario civismo.

Invece no, scoppia una bagarre violenta. A leggere dell’incredibile fatterello (non fatto, intendiamoci) di cronaca, mi sono figurata i giovanissimi: i figli. Non so se di lì a poco impediti a danzare il loro amato hip hop, se non questo, di sicuro costretti a farlo in condizioni di assoluto disagio generalizzato.

Cosa si deve provare a vedere la propria madre o il proprio padre accanirsi contro un altro adulto, perdere del tutto il controllo di sé, diventare violento come una furia? Che madre e padre è, uno che rovina quella che dovrebb’essere una giornata felice dei figli, tirando fuori il lato più becero e oscuro di sé stesso?

Molto difficile, essere preadolescenti e adolescenti in un mondo dove gli adulti mancano del tutto di saggezza, e di quella competenza naturale che si chiama autocontrollo. Perché i figli innanzitutto ci vogliono persone, e nulla sfugge loro del nostro modo di stare al mondo, nel mondo.

Devono vederci e trovarci persone belle, ovvero sane, limpide, educate: capaci di coabitare con gli altri, le altre persone, anch’esse adulte e non solo. Equilibrati nei riguardi di tutti. Possono sembrare distratti, solitari, selvatici, egoriferiti, ma adolescenti e preadolescenti sono invece sempre molto attenti a considerare i nostri comportamenti. E non è mera, retorica questione di dare loro l’esempio: sapranno elaborare altri modi, loro, i nostri figli, autonome maniere di vivere su questa terra.

La questione è invece quella di avere la loro stima, che implica in via diretta la loro fiducia. La loro approvazione, anzitutto dei nostri comportamenti. Povere ragazze e ragazzi, come stentato e anche penoso dev’esser stato il loro pomeriggio sul palco di Guidonia.

Che imbarazzo e che gigantesca delusione, vedere quelle madri e padri accanirsi, picchiarsi, spintonarsi. Un adulto è le sue scelte, i suoi comportamenti, e prima ancora i suoi valori di convivenza civile. Siamo, esistiamo a partire da come siamo con gli altri, e questo vale dall’infanzia alla fine, senza passare da nessun punto intermedio.

Dovremmo saperlo noi, consapevoli di quanto chiunque ci accada di incontrare osserva da subito i nostri modi di fare, anche nelle sfumature attento a ogni nostro gesto. Tutti, e i nostri figli per primi. Se è vero (ed è vero) che destino è carattere, quale destino mai assumono agli occhi dei loro figli quelle donne e uomini, madri e padri che si sono accapigliati per motivi da nulla, in attesa che cominciasse uno spettacolo che doveva essere festoso, gioioso, una domenica allegra e piena di musiche, danze, bellissime lavoratissime coreografie? Adulto, parola desueta, che evoca saggezze inusitate ma il cui valore è inesauribile, in ogni istante del nostro quotidiano stare. E adulti lo si diventa, ogni giorno, non una volta per tutte: anche pensando e ripensando di continuo a cosa voglia dire – cosa implichi, quale impegno da parte nostra. In ogni sfida, a ogni occasione: anche le più semplici, ordinarie, normali, le più e meno eccezionali. Stare al mondo con misura, in equilibrio.

Tra le molte ragioni, perché più giovani ci guardano, nulla sfugge loro.

Baby sitter per adulte. L’assistente materna e la normale inadeguatezza dei genitori. Assia Neumann Dayan su L'Inkiesta il 29 Settembre 2023

Presto le mamme si vedranno entrare in casa persone che non hanno alcuna laurea sanitaria, ma che hanno fatto un corso di sei-nove mesi per dire la loro su come lavare i bambini e accudirli. Cioè: una suocera pagata dai contribuenti

Siccome non è nemmeno lontanamente pensabile dire pubblicamente che ce la possiamo fare a metter su l’acqua a bollire senza pagare una seduta di psicoterapia, ci siamo dovuti inventare un lavoro dove troviamo accettabile far venire a casa nostra un’estranea che ci dica che l’acqua sta bollendo con l’aiuto di un termometro. L’Ansa ha riportato questa notizia: il Governo introdurrà la figura dell’assistente materna che aiuterà la mamma nei sei mesi dopo la nascita del bambino. La aiuterà nel fare il bagno al neonato, «nel fasciarlo», potrà capire se è in atto una depressione post partum. La mia inguaribile fiducia nel genere umano mi fa dire che possiamo farcela a lavare nostro figlio: magari non riusciremo a farlo dormire, ma a lavarlo sì. Parto dal principio base che regola la mia vita: se un lavoro posso farlo anch’ io dopo un corso di qualche mese, c’è qualcosa che non va. 

Dobbiamo innanzitutto risolvere una questione: o diciamo che la salute mentale delle mamme è importante e va trattata dai medici, o non è poi così importante e allora va bene uscire e fare una passeggiata con un’amica. Nel dubbio, chiamerei un dottore. Poi vorrei dire che sentirsi inadeguate è perfettamente normale, non normale sarebbe sentirsi a proprio agio con un essere inerte che piange, non dorme, non cammina, non parla e che se lo appoggi da qualche parte cade e si rompe. La graduale estinzione dell’istinto, e anche del rischio, mi sembra pericolosa: se a casa usi sempre un coltello di plastica non saprai mai che una lama taglia. 

Tutti sembrano vivere in funzione del non voler provare più nessun tipo di ansia o di tristezza: umanissimo, comprensibilissimo, ma è come se l’unico scopo della vita fosse quello. Le donne che tornano a casa con un neonato non sanno come si fa, cosa si fa, ma sanno il perché. Non sai se è giusto, se è sbagliato, cosa vuol dire quel pianto, tu non lo sai, ma non lo sa nemmeno una che fa un corso, e io quella responsabilità lì di dire che un pianto è normale quando magari non lo è non me la prenderei mai. 

Le assistenti materne non sono figure sanitarie, faranno un corso della durata di sei-nove mesi e poi potranno entrare in casa delle mamme a dire la loro. Cioè: è tua suocera pagata dai contribuenti. Questo non è un punto banale: non c’è donna che non dica che dopo aver avuto un figlio son spariti tutti. Spariscono gli amici, spariscono i parenti, Federica Sciarelli è a tanto così da due nuove rubriche: una dove si cercano i mariti spariti nei corridoi, l’altra per ritrovare i pediatri che non rispondono al telefono da dieci anni. L’unica cosa che non sparisce è Internet, che ha sostituito il famoso villaggio dove si crescono i figli, ma siamo sicuri che per crescere un bambino serva un villaggio se quel villaggio sono i social? 

Le reazioni alla notizia sono state perlopiù: ah ma da anni c’è nel Nord Europa, nei Paesi Bassi, in Francia, e lì le cose sì che funzionano. Credo che ci sia un tic culturale che ci fa dire che tutto quello che viene dal Nord Europa sia avanguardia, lo capiamo dal fatto che abbiamo le case piene di mobili infiammabili e di cucine di legno per bambini. 

Il servizio che fa l’assistente materna esiste: non ovunque, ma esiste, e andrebbe annaffiato di soldi. Esistono i consultori, esistono in alcuni ospedali linee telefoniche dedicate alle neomamme dove si può chiamare per chiedere a che temperatura bolle l’acqua, esistono diversi corsi gratuiti dove si va per sentirsi meno sole e meno inadeguate, se una donna vuole allattare le consulenze sono perlopiù gratuite e domiciliari. Non credo ci sia niente, ma proprio niente, di più importante dell’uscire di casa quando hai un bambino. Uscire di casa significa parlare con adulti, sentire voci che sai non essere solo nella tua testa, fare una cosa normale. E poi, quali direttive seguiranno queste assistenti? Quelle dell’OMS? Adesso ti mettono pure la gente in casa? 

Questa assistente segue la mamma e non il bambino, diciamo che è una baby-sitter per adulti, e onestamente mi sembra l’idea più geniale e in linea con lo spirito del tempo che l’essere umano abbia mai avuto. Mai nella vita avrei creduto di poter dare ragione alle ostetriche, ma la Federazione Nazionale degli Ordini della Professione di Ostetrica ha scritto le sue considerazioni, piuttosto condivisibili: «Restiamo sconcertate e indignate di fronte al fatto che il decisore possa immaginare di poter creare nuove figure professionali che vanno tra l’altro a sovrapporsi per competenze a quelle già esistenti». Sarà come per le consulenze dell’internet dove è tutto un fiorire di abuso di professione? 

Questi cento, centocinquanta milioni di euro si dovevano spendere per inventare l’ennesimo lavoro che nessuno sarà in grado di fare? Sono contenta almeno che nessuno se ne sia venuto fuori che c’è bisogno di un’assistente per i neopapà, nonostante qualcuno pensi che i ruoli siano assolutamente intercambiabili, però so che la realtà può sempre stupirmi. Questa proposta è stata fatta per alleggerire i pediatri, per alzare l’occupazione femminile o per aiutare davvero le neomamme? Ma soprattutto, quanto è brutta la parola «neomamma»? 

La risposta è che questa estate ho letto una notizia: una pediatra bolognese, Paola di Turi, aveva scritto un monologo teatrale dal titolo: “Dottoressa, mio figlio si muove, è normale?”. Boh, direi che dipende da come si muove, ma intanto immagino la felicità dei pazienti di essere finiti in uno spettacolo teatrale. Chissà a questo punto quanto venderanno le assistenti materne con le loro uscite editoriali.

Il Cognome.

Estratto dell'articolo di Sarina Biraghi per “La Verità” il 31 gennaio 2023.

I notai lanciano l’allarme: il doppio cognome per i figli genera soltanto confusione. È il Consiglio nazionale del notariato a denunciarlo in uno studio, pubblicato su Italia Oggi, con cui ha commentato la sentenza della Corte costituzionale numero 131 del 2022 dello scorso aprile che ha giudicato incostituzionale l’attribuzione dell’unico cognome paterno, aprendo la possibilità di dare ai figli un cognome o due [...]

 Se la sinistra ha accolto la norma con entusiasmo perché «l’ingiustizia del cognome singolo viene superata a favore della parità», secondo i notai la regola del doppio cognome (materno e paterno) per i figli mette in crisi la certezza dell’attribuzione dell’identità, con il rischio di lungaggini nella formazione dell’atto di nascita, contenzioso tra genitori in disaccordo sulla scelta, cognomi lunghissimi o fratelli con cognomi diversi. [...]

Ora, a parte che dopo quasi un anno il doppio cognome è un flop visto che 9 coppie su 10, hanno scelto per il figlio il solo cognome del padre, l’ipotesi di seguire la sentenza genera un caos non facile da gestire.

 [...] I genitori, dunque, decidono e in caso di disaccordo sull’ordine dei cognomi o sulla scelta di un solo cognome, deciderà un giudice. Questo è il primo «nodo» che, però, si collega con altri due dubbi che si erano posti già all’indomani della sentenza della Corte: il rischio nel succedersi delle generazioni, di un meccanismo moltiplicatore di cognomi che disperderebbe totalmente la funzione identitaria del cognome e il rischio del figlio di vedersi attribuito, con il sacrificio della identità familiare, un cognome differente rispetto a quello di eventuali altri fratelli. [...]

 Le altre criticità, secondo il Consiglio notarile, sono gli inevitabili ritardi nella formazione dell’atto di nascita e l’ipotesi che nelle more di un procedimento giudiziale, il minore, privo della formazione dell’atto di nascita, non appare poter essere iscritto in anagrafe e i genitori non possono ottenere certificazioni che lo riguardino.

[...] Insomma, come sottolineano i notai, il doppio cognome fa nascere ritardi e contenziosi ma la sentenza stessa della Corte costituzionale genera dubbi di «costituzionalità». L’aveva già sottolineato Pietro Dubolino, presidente di sezione a riposo della Corte di cassazione, in un articolo su La Verità: «In questo modo la Corte non si è limitata ad espungere dall’ordinamento una norma ritenuta incostituzionale ma si è, di fatto, sostituita al legislatore per creare, al suo posto, una norma del tutto nuova, di sua esclusiva creazione: proprio ciò che nelle precedenti occasioni in cui era stata chiamata ad occuparsi dello stesso problema, aveva escluso di poter fare». [...]

Il Nome.

Nuovi nati, ecco i nomi vietati in Italia. Dario Murri il 2 Settembre 2023 su Il Giornale.

Nonostante le statistiche parlino di un “ritorno al classico”, per i nomi dei bambini si fanno sempre più strada scelte originali, se non bizzarre, o addirittura non consentite dal nostro ordinamento. Ecco cosa dice la legge in proposito

Tabella dei contenuti

 I nomi vietati in Italia

 Eccezioni e nomi composti

 Nomi storici “pesanti”

 Nomi stranieri

 Quando la realtà supera l’immaginazione

 Nomi ritenuti ridicoli o vergognosi

 Dare un nome vietato a un figlio. Cosa succede

 Nel resto del mondo

 Fra classicità e originalità

Mentre la notizia di un giovane calciatore di origini ghanesi chiamato Silvio Berlusconi (nome) Boahene (cognome) in onore dell'ex presidente del Consiglio, suscita un certo clamore, c’è chi si chiede se sia lecito dare nomi così “impegnativi” al proprio figlio. Di precedenti, nella nostra storia recente ce ne sono a bizzeffe, e senza scomodare la politica: da Diego Armando in onore di Maradona, a Ridge e Sue Ellen, in omaggio a protagonisti di soap opera e saghe televisive ancora attuali o di qualche decade fa. Senza dimenticare slanci di fantasia più recenti, soprattutto fra i Vip nostrani, con Chanel, o casi ancora più “estremi”, come quello di una bambina chiamata Prima Internazionale Socialista, qualche tempo fa. Ma quali sono i nomi vietati in Italia, e con quali motivazioni? Scopriamolo insieme, non senza qualche sorpresa.

I nomi vietati in Italia

La legge italiana ha fissato delle regole per capire quali siano i nomi "vietati", che non possono essere dati ai propri figli, introdotte con l’articolo 34 del decreto del Presidente della Repubblica 396/2000. Il decreto non fornisce un elenco completo di tutti i nomi vietati, ma esclude alcune tipologie. È vietato, ad esempio, dare al figlio il nome del padre, quello di un fratello o di una sorella viventi, a meno che non siano seguiti da Maria (ad esempio, nome del padre Giorgio, nome del figlio Giorgio Maria), così come non è possibile aggiungere al nome paterno il termine Junior o, abbreviato, Jr, come si fa in America. Non si possono dare nomi femminili a un bambino, o maschili a una bambina. Tornando a Maria, nel caso di un maschietto è l'unico consentito, ma come secondo nome, ad esempio Francesco Maria, o composto (Giammaria o Gianmaria).

Eccezioni e nomi composti

Caso a parte per Andrea, considerato unisex. L'eccezione trova origine in una sentenza della Corte di Cassazione del 2012, con la motivazione che in molti altri Paesi il nome Andrea può essere usato per entrambi i sessi. I nomi composti non possono avere più di tre nomi singoli. Dunque, è valido il nome Anna Laura Maria, ma non il nome Anna Laura Maria Angela. Il fatto che i nomi siano scritti separatamente non è rilevante ai fini del conteggio. Per cui non si potrebbe usare come nome Annalaura Maria Angela, perché il primo nome sarebbe composto da due e quindi si andrebbe oltre il limite massimo dei tre nomi singoli.

Nomi storici “pesanti”

Tra i nomi vietati ve ne sono alcuni storici, associati a dittatori che hanno caratterizzato la storia in negativo quali Benito Mussolini, Adolf Hitler, Napoleone Bonaparte, Iosif Vissarionovich Stalin, Lenin, Osama Bin Laden.

Nomi stranieri

Chi apprezza i nomi stranieri deve comunque rispettare l’alfabeto italiano, ampliato alle lettere J,K,X,Y e W. Sono validi, ad esempio, i nomi Jolanda al posto di Iolanda, Katia e non Catia, Walter anziché Valter, e così via. Ammesso anche, dove possibile, l’uso dei segni diacritici (ç, ñ, ô, ü, etc.) propri dell’alfabeto della lingua di origine del nome. Si tratta di segni uniti ad una lettera per modificarne la pronuncia, che vengono riportati anche nel Codice Fiscale. Limitazioni anche per quanto riguarda i bambini i cui genitori siano sconosciuti: non è possibile dare loro un nome che faccia capire l’origine naturale, o cognomi di importanza storica o di personaggi particolarmente conosciuti nel luogo in cui è stato firmato l’atto di nascita.

Quando la realtà supera l’immaginazione

Anche i personaggi (o meglio, l’utilizzo dei loro cognomi come nome proprio) del mondo dello spettacolo o dello sport, come per esempio il già citato Maradona, così come quelli dati agli animali protagonisti di note serie, tipo Rex, sono vietati.

Non sono consentiti, inoltre, i nomi di fantasia inventati dai genitori, o quelli tratti da libri, serie TV, film e anime, fra cui Joey Tribbiani (da Friends), Doraemon, Pollon, Goku o Vegeta (da Dragon Ball), Laura Palmer (da Twin Peaks), Jon Snow (da il Trono di Spade); Moby Dick (dal romanzo di Melville), Ken (e qui viene da chiedersi perché, visto che è anche un nome straniero, che dunque sarebbe “regolare”); e ancora, Conte Dracula (dal romanzo di Bram Stoker), Frankenstein (dal romanzo di Mary Shelley), Ajeje Brazorf (Aldo, Giovanni e Giacomo); non è neanche possibile (e capiamo bene il perché) chiamare i propri figli Satana, Lucifero, IKEA, Nutella.

Nomi ritenuti ridicoli o vergognosi

Bizzarrie a parte, è bene tenere presente che si parla di divieti non perché, ribadiamo, esista una lista appositamente stilata dalla normativa vigente, ma perché alcuni nomi sono stati nel tempo oggetto di rettifica da parte di Tribunale, Corte d’Appello o di Cassazione, per varie motivazioni, o più semplicemente perché considerati lesivi della dignità del minore. La legge prevede infatti che, al fine di proteggere la dignità del nascituro, i genitori non possano attribuirgli un nome che rischi di procurargli in futuro un pregiudizio morale.

Un nome viene considerato ridicolo o vergognoso qualora possa diventare oggetto di scherno da parte di altre persone. Si pensi a parolacce, ingiurie, o perfino ai nomi di alcuni colori. Per esempio Blu è accettato, mentre Giallo no. Accettati i nomi di nazioni come Europa, America, Asia, ma anche brand, come Chanel (ne abbiamo parlato), ma senza simboli numerici alla fine del nome, perché andrebbero ad evocare, come il 5, il nome di un prodotto. Oggetto di ironia potrebbero dimostrarsi anche alcuni nomi che, affiancati al cognome, rischino di creare giochi di parole, come nel caso di abbinamenti tipo (chiediamo scusa ad eventuali possessori) Santo Campo o Addolorata Zampetta.

Dare un nome vietato a un figlio. Cosa succede

Nell’eventualità in cui si dovesse scegliere un nome non consentito dalla legge, l’Ufficiale dello Stato Civile dovrà darne subito informazione ai genitori. Se questi dovessero insistere, sarà tenuto a formare comunque l’atto di nascita e a dare successivamente notizia dell’accaduto al Procuratore della Repubblica, il quale potrà disporre un giudizio che porti alla rettifica del nome.

Nel resto del mondo

E nel resto del mondo, come funziona? Vediamo qualche esempio, a partire da alcuni paesi europei. In Francia, sono considerati lesivi della dignità del bambino i nomi Nutella, Fragola, Principe William e Mini Cooper, ma anche Enrico e Ludovico, in Germania i nomi di genere neutro, un cognome usato come nome, appellativi di oggetti, o umilianti per il nascituro, come Adolf Hitler e Osama Bin Laden; in Danimarca nomi quali Scimmia e Pluto, accettati soltanto quelli approvati in un registro di circa 7.000 appellativi, mentre in Svezia bando a nomi offensivi e inadatti, come Superman, IKEA e sequenze tipo Brlrmhyjakòffgxxjgjsdroèjkq11111; in Islanda, no a nomi con lettere che non compaiono nell’alfabeto locale, quali C, Q e W, mentre nomi come Giuda e Chanel sono considerati dannosi o offensivi in Svizzera.

Guardando fuori dal Vecchio Continente, troviamo che in Malesia non si possono dare ai figli nomi di animali, o insulti, numeri, appellativi reali e cibo, e non si può chiamare il proprio figlio Woti (cioè rapporto sessuale); vietati in Messico circa 60 nomi, ritenuti imbarazzanti, offensivi o senza senso, tipo Facebook, Robocop, Rambo o Batman; in Giappone, proibito il nome Akuma (che significa diavolo), in America Babbo Natale, Messia, Misteri Nigger, mentre un paio di anni fa erano di grande tendenza Armani, Dior, Maybelline e Sephora, e ancora Nivea, Hermes, Fendi, etc.; vietati in Arabia Saudita almeno 50 nomi ritenuti inappropriati o blasfemi, così come anche Alice, considerato troppo esotico, mentre in Nuova Zelanda sono banditi i nomi Lucifero, Fat Boy, quelli offensivi e che assomigliano a titoli di canzoni.

Fra classicità e originalità

Secondo l’ultimo rapporto Istat disponibile su "Natalità e fecondità della popolazione residente", redatto nel 2021, i nomi preferiti per i neonati in Italia sono, per i maschi, Leonardo, Alessandro, Tommaso, Francesco, Lorenzo, per le femmine Sofia, Aurora, Giulia, Ginevra, Beatrice. In generale, le scelte dei neo genitori sembrerebbero improntate ad una certa classicità, anche se, come abbiamo visto, per alcuni la tentazione dell’originalità ad ogni costo è forte. Ai nomi classici, si affianca quindi la tendenza a chiamare i figli come i personaggi famosi, che si tratti di star del calcio, del cinema, o della musica, mentre crescono i nomi stranieri.

I tempi sicuramente cambiano, e anche in maniera veloce. Decisamente lontani quelli in cui si guardava il calendario per vedere il santo del giorno e dare ad un bimbo quel nome, o quelli in cui si facevano tanti figli e si ricorreva all’ordine cronologico con cui erano nati, chiamandoli Primo, Secondo, Tersilio, Quarto, Quinto etc.

Ad oltre vent'anni dal Dpr 396/2000, anche la giurisprudenza si è evoluta e i confini non sono più netti come allora. La stessa sentenza sul nome Andrea, cui abbiamo accennato, ha aperto le porte ad una maggiore elasticità su questo argomento, così come su tanti nomi neutri, che ci arrivano da altre culture. Se dunque da un lato a legislatori e ufficiali dell’anagrafe è richiesta una maggiore “elasticità”, sarebbe consigliabile per i genitori, considerato che il nome accompagnerà una persona per tutta la vita, usare il buon senso.

Il bimbo deve avere il nome del nonno”, neo papà litiga con moglie e incendia l’auto della suocera. Redazione su Il Riformista il 13 Gennaio 2023

Moglie e suocera negano ‘supponta‘ e la lite con il neo papà finisce nel peggiore dei modi. E’ accaduto a Brusciano, in provincia di Napoli, dove un giovane di 22 anni, dopo aver litigato con la consorte e la madre di quest’ultima, si sarebbe vendicato dando fuoco al furgone della suocera e all’auto parcheggiata nelle vicinanze di una donna che totalmente estranea alla lite familiare.

In dialetto napoletano si chiama “supponta” ma il termine ha origini antiche. Per i latini la parola “sub-punctare” indicava sostegno. Nella tradizione partenopea, invece, quel sostegno assume un’accezione più familiare: sostenere, tramandare un nome per mantenere viva la memoria dei genitori. Soprattutto quella dei nonni del nascituro.

La pensava così il 22enne di Brusciano, tradizionalista al punto da minacciare moglie e suocera affinché accettassero per il figlio prossimo nascituro il nome del nonno paterno. Di diverso avviso le due donne, determinate nel caldeggiare un nome più moderno. L’uomo avrebbe avvisato la suocera: accetta il nome di mio padre o ti incendio il furgone.  La minaccia deve aver sortito scarsi risultati perché dopo qualche ora il veicolo della donna è finito in cenere, distrutto in un incendio. A subirne le conseguenze anche l’auto di una casalinga totalmente estranea alla famiglia, sfortunatamente parcheggiata a pochi passi.

I carabinieri della stazione di Brusciano hanno immediatamente avviato le indagini. Quando hanno svelato e documentato il retroscena è stato facile identificare e denunciare il padre scontento. Dovrà rispondere di danneggiamento seguito da incendio. Resta ancora da sciogliere il nodo del nome…

La Paternità.

Estratto dell’articolo di Marianna Grazi per luce.lanazione.it il 12 febbraio 2023.

È ormai una pratica comune fare un servizio fotografico dei futuri genitori durante la gravidanza. Ma come reagireste se i ruoli si invertissero e a portare in grembo il bambino fosse l’uomo? È accaduto in India, dove una coppia transgender – che ha interrotto la terapia ormonale per avere un figlio – ha diffuso alcune foto dai propri profili social, che hanno fatto velocemente il giro sui social media diventando subito virali. Il loro bambino è nato mercoledì 8 febbraio […]

 Ziya Paval, 21 anni, che dice di aver sempre voluto diventare mamma, è stata registrata come maschio alla nascita ma ora si identifica come femmina. Il signor Zahad, 23 anni, che usa solo il nome per identificarsi, è invece stato registrato come femmina all’anagrafe e ora si riconosce come maschio. […]

 Si stima che nel Paese vi siano circa due milioni di persone trans, anche se gli attivisti sostengono che il numero sia più alto. Nel 2014 la Corte Suprema indiana ha stabilito che i transgender hanno gli stessi diritti delle altre persone. Tuttavia questi fanno ancora fatica ad accedere all’istruzione e all’assistenza sanitaria e spesso devono affrontare pregiudizi e stigma. 

 Quando la signora Paval e il signor Zahad si sono incontrati tre anni fa, erano entrambi lontani dalle loro famiglie. “Vengo da una famiglia musulmana conservatrice che non mi ha mai permesso di frequentare la danza classica”, racconta Ziya Paval. “I miei genitori erano ortodossi al punto che mi tagliavano i capelli per evitare che ballassi”.  […]  

Zahad, che ha una formazione da contabile e attualmente lavora in un supermercato, proviene da una famiglia cristiana della comunità di pescatori della città di Thiruvananthapuram, che ha lasciato dopo aver fatto coming out come transgender. Dopo aver saputo della gravidanza, i genitori hanno accettato la coppia e hanno deciso di sostenerla.

 È stata la madre di Zahad a chiedere inizialmente ai due ragazzi di non rendere pubblica la gravidanza, ma la scorsa settimana l’hanno annunciata sulla loro pagina Instagram dopo che lei ha dato il permesso. Mamma Paval dice che la sua famiglia, invece, non si è ancora rassegnata e non vuole ancora accettare la loro unione né la nuova identità della figlia. “Una volta terminata la gravidanza, potranno riprendere la terapia ormonale sessuale”, afferma il dottor Mahesh DM, un endocrinologo di Bangalore che ha lavorato con diverse persone transgender. […]

SE QUESTA È FIGLIOFOBIA. Redazione L'Identità su L’Identità il 12 Gennaio 2023.

Di FABRIZIO MARRAZZO PORTAVOCE PARTITO GAY

Gentile Ministra,

mi permetto di intervenire nel dialogo fra lei e l’ex ministro Giovanardi, spero per portare un pò di chiarezza.

La gestazione per altri, che è praticata da oltre il 95% di coppie eterosessuali, come dichiarano i centri medici autorizzati che si occupano di tali pratiche, non è l’utero in affitto, ossia lo sfruttamento della donna come avviene in India, in Russia ed in molti altri paesi, che peraltro escludono da tale pratica le coppie LGBT+. Infatti, anche noi come Partito Gay LGBT+, Solidale, Ambientalista, Liberale, condanniamo tale pratica, che ricordiamo è ad uso esclusivo delle coppie eterosessuali.

La gestazione per altri che avviene ad esempio in Canada o in Inghilterra è totalmente gratuita e la madre gestante in alcuni casi è anche un parente, che lo fa solo come gesto altruistico, quindi senza alcun sfruttamento.

Il divieto di trascrizione automatica degli atti di nascita, ossia il riconoscimento di entrambi i genitori di fatto alla nascita, dei bambini nati tramite gestazione per altri all’estero, recentemente ribadito dalla Corte di Cassazione, non è punitivo solo per i genitori, ma discriminatorio per i figli, i quali anche ad avviso della Suprema Corte, devono rimanere nel limbo sino all’adozione tramite “step child”.

E di qui la discriminazione nella discriminazione, solo le famiglie più abbienti e con tempo a disposizione possono ricorrere ad un lungo procedimento presso il Tribunale dei minori, ma anche in quei casi, ad esempio la morte prematura del genitore non biologico, comporterebbe la perdita dei diritti successori. A quei bambini vengono negati diritti, come l’assistenza in ospedale, o altro che possono essere determinanti anche da un punto di vista del danno economico, si immagini l’aspetto ereditario, il minore in quel caso sarebbe un estraneo per il genitore non biologico con ogni conseguenza sulla quota e le tasse della successione.

Pertanto se la “Step Child” venisse reintrodotta con una legge ad hoc, dopo lo “scippo” più che stralcio dalla legge sulle unioni civili, si dice che aprirebbe la strada alla gestazione per altri (GPA) in Italia, ma se questa restasse reato, un suo utilizzo fraudolento per coprire una GPA occulta sarebbe comunque un reato ed in quanto tale punibile. Sarebbe come dire che aboliamo il matrimonio perché spesso viene utilizzato, a pagamento, per ottenere la cittadinanza? O lasciare l’eredità alla badante? Nessuno penserebbe che questa possa essere una soluzione. Non ci sono soluzioni preconfezionate o basate su precetti e ideologie, ma sono sicuro, che l’interesse dei bambini sia quello di concedergli pari diritti sin dalla nascita.

La soluzione che abbiamo portato anche alle scorse elezioni politiche, e condiviso con il Movimento 5 Stelle che ci ha candidato, è stata quella del pieno riconoscimento delle figlie e dei figli. Il prezzo non può essere pagato dai tanti minori che oggi si trovano privi di tutela e legami familiari.

Anche su questo tema, si è espressa la Corte Costituzionale nelle sentenze 32/2022 e 33/2022, riconoscendo a questi minori il diritto a due genitori e a tutta la rete di relazioni e affetti familiari come ogni altro bambino e bambina.

Ministra Roccella se vuole un confronto non ideologico, ma in linea con i tempi e le evoluzioni che molti paesi occidentali ci portano come esempi positivi, siamo pronti al dialogo.

Quei bimbi dai diritti “sospesi” perché nati da surrogate. La Cassazione rigetta la domanda di trascrizione dell’atto di nascita del figlio nato in Canada da due papà: in Italia è riconosciuto solo il genitore biologico. Chiara Lalli su Il Dubbio il 3 gennaio, 2023 • 01:39

Le Sezioni unite della Corte suprema di Cassazione hanno rigettato “la domanda di riconoscimento del provvedimento straniero”, cioè la trascrizione di un atto di nascita di un bambino nato in Canada e figlio di due uomini.

Ovviamente solo uno dei due è genitore biologico e il bambino è nato da maternità surrogata nel 2015. Nel certificato canadese ci sono entrambi i padri, ma quando hanno chiesto la rettifica del certificato italiano, l’ufficiale di stato civile italiano ha rifiutato.

Salto alcuni passaggi per arrivare alla sentenza recente. «Il compito di adeguare il diritto vigente alle esigenze di tutela degli interessi dei bambini nati da maternità surrogata non può che spettare, in prima battuta, al legislatore» (ove l’interesse del minore dovrebbe essere il primo interesse), ma in assenza è necessario valutare gli strumenti normativi esistenti per valutare un eventuale ostacolo insuperabile al divieto di surrogata.

Perché la Corte ha rifiutato la trascrizione? Dopo alcune ovvietà, come l’aggiramento del divieto in Italia da parte di chi può e l’eterogeneità delle leggi degli altri paesi, ecco la questione principale: lo stato del nato da surrogata. Possiamo riconoscere lo stato di figlio per il genitore intenzionale?

Il divieto della legge 40 nulla dice al riguardo. E il conflitto è tra la salvaguardia dell’ordinamento giuridico italiano e gli interessi del minore. Nella parte dedicata alla prima “esigenza” c’è un passaggio che è forse il più discutibile: «Ci sono donne usate come strumento per funzioni riproduttive, con i loro diritti inalienabili annullati o sospesi dentro procedure contrattuali». È un pensiero comune che difetta di una premessa fondamentale: la volontà della diretta interessata. È davvero difficile inoltrarsi nella discussione, morale e normativa, della surrogata con tale dimenticanza. Il fatto che ci «sono bambini esposti a una pratica che determina incertezze sul loro status» è la causa di un divieto eccepibile e non un destino inevitabile.

Rispetto al nato ci sono tante cose importanti che purtroppo però non bastano: la necessità di tutelarlo, il fatto che non ha colpe e responsabilità e che non può essere usato per «conseguire esigenze general- preventive», cioè lo scoraggiamento della pratica.

Può un principio calpestare le persone? E a cosa servono le leggi? Questo bambino nato in Canada e che ha due genitori lì, come va considerato in Italia? Figlio di un solo padre? Con i suoi diritti “infinitamente sospesi”?

I difetti dell’adozione in casi particolari sono stati perfettamente elencati della sentenza 33 del 2021 della Corte costituzionale: la mancata parentela con il resto della famiglia (zia, nonni, fratelli), il necessario assenso del genitore biologico e, aggiungo, la pratica lunga e burocratica (in modo ingiustificabile e causa una discriminazione tra i nati in coppie di sesso diverso e quelli in coppie dello stesso sesso).

A rimediare dovrebbe essere il legislatore, ma il legislatore fa finta di essere morto e al più immagina un irrealizzabile reato universale. Nonostante le Sezioni unite riconoscano la possibilità che una donna scelga liberamente sembrano concordare con il senso del divieto assoluto: prevenire abusi e sfruttamento (che però sarebbe come dire che per prevenire i litigi vietiamo le amicizie). E, nonostante alcune aperture, rifiutano la possibilità di trascrizione automatica per tre ragioni.

Uno: questo rifiuto ha un fine di disincentivare (un valore simbolico a scapito dei diritti reali?) la maternità surrogata che, nonostante gli sforzi di evitare condanne intrinseche e insensate, rimane qualcosa che «offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane, assecondando un’inaccettabile mercificazione del corpo». Il riconoscimento automatico, inoltre, non è «funzionale al miglior interesse del minore» (il non riconoscimento però mi pare perfino meno funzionale).

Due: nonostante la centralità del consenso e della intenzionalità genitoriale per fondare i rapporti di filiazione, non basterebbe nel caso della surrogata (per l’eterologa sì, perché?).

Tre: il riconoscimento della genitorialità non può essere automatico (ma la trascrizione di un atto straniero dovrebbe). «Una diversa soluzione porterebbe a fondare l’acquisto della genitorialità sulla sola scelta degli adulti, anziché su una relazione affettiva già di fatto instaurata e consolidata». Però è già così in altre condizioni, perché nel caso della surrogata dovrebbe essere diverso? L’“accertamento sulla idoneità dell’adottante” dovrebbe valere per tutti o per nessuno. Ci sono vari modi attraverso i quali si diventa genitori, nessuno a priori garanzia di nulla, e lo stato del nato da maternità surrogata sembra essere troppo fragile e troppo diverso da chi nasce diversamente“. L’ordinamento italiano mantiene fermo il divieto di maternità surrogata e, non intendendo assecondare tale metodica di procreazione, rifugge da uno strumento automatico come la trascrizione, ma non volta le spalle al nato”. Ma gli rende la vita più complicata e arriva a una conclusione ingiusta e incoerente: sei padre in Canada, non lo sei in Italia.

Conchita Sannino per “la Repubblica” il 31 Dicembre 2022.

Nessuna trascrizione in automatico dell'atto di nascita per i bambini italiani nati da maternità surrogata. Ma i figli di coppie omosessuali che hanno fatto ricorso alla Gestazione per altri (Gpa) - pratica che nel nostro ordinamento resta vietata - siano tutelati, la legge deve mettere al centro i loro diritti. Come? Con gli strumenti di cui disponiamo: la procedura di «adozione in casi particolari» dinanzi al Tribunale per i minori. Un passo avanti, nella cultura giuridica dell'accoglienza per il soggetto più fragile. Ma anche uno stop, nel rigoroso rispetto della norma, per le tante coppie gay che puntavano a un inizio di "normalizzazione".

Così la sentenza delle Sezioni unite della Cassazione, la numero 38162 depositata in serata, respinge l'istanza dei due padri veneti, Fabio e Simone, che chiedevano di registrare all'anagrafe il loro piccolo di quasi 8 anni, nato in Canada da uno dei due genitori, ma grazie a due donne: la donatrice dell'ovocita e la "madre" che ha portato quel bimbo in grembo. «La sentenza mi dà torto - dice l'avvocato Alexander Schuster - ma devo apprezzare che valorizzi la centralità dei diritti del figlio. Nel cui interesse supera anche, nel caso di separazioni conflittuali, l'eventuale opposizione del genitore biologico al legame con l'altro genitore, per motivi personali». 

Intanto Carolina Varchi, deputata di Fdi e già relatrice del provvedimento che, con testo base di Giorgia Meloni nella scorsa legislatura, proponeva la Gpa come reato universale, commenta con Repubblica : «Bene ha fatto la Corte a decidere in questo senso. Mi riservo di leggere le motivazioni. Resto convinta che la maternità surrogata sia un crimine».

La decisione fa giurisprudenza: da oggi, in Comune si registra il padre o la madre biologica, mentre a trascrivere anche il genitore "intenzionale", per i figli delle coppie gay nati all'estero con la Gpa, non basterà l'intraprendenza di un ufficiale di stato civile. In compenso, i diritti di quei bimbi saranno prioritari. Perché, come scrivono il primo presidente Curzio, con i giudici Amendola, Manna, De Masi, Sestini, Manzoni, Patti, Mercolini e Giusti relatore, è pacifico che «l'ordinamento italiano non consente il ricorso a operazioni di maternità surrogata. L'accordo con il quale una donna si impegna ad attuare e a portare a termine una gravidanza per conto di terzi, rinunciando a "reclamare diritti" sul bambino che nasce, non ha cittadinanza nel nostro ordinamento (...)».

Ma, sottolineano gli ermellini, «le istanze di genitorialità, nondimeno, si rivelano difficilmente comprimibili ». Quindi, è la rigorosa conclusione: «Il divieto di gestazione per altri non argina il progetto di diventare genitori». Che dovrà passare comunque attraverso la valutazione e il percorso delle toghe minorili. 

Un esito accolto con «grande dispiacere » dai due padri. Il verdetto di ieri cancella infatti la decisione della Corte di appello di Venezia che aveva accolto il ricorso della coppia contro il Comune, deciso a non trascrivere i due padri, e decretando l'accoglimento del provvedimento con cui la Suprema Corte della British Columbia, nel 2017, aveva stabilito che sia Fabio sia Simone dovevano figurare come genitori. 

«La via indicata obbliga a procedure costose e ai tempi dilatati della giustizia minorile», sottolinea ancora Schuster, che ha seguito la famiglia in tutti i gradi di giudizio e in Corte costituzionale l'ha difesa insieme al professor Antonio Saitta. Tuttavia, «un progresso è compiuto». Per Schuster, «le Sezioni unite hanno dato prova di avvicinarsi alla questione della gestazione per altri con grande rispetto e delicatezza.

Bene che sia stato confermato anche come l'orientamento sessuale non assuma alcun peso quando si parla di figli e genitorialità: affermazione ovvia, ma ancora necessaria».

Il futuro? «Sta ai legislatori offrire uno strumento migliore, come richiesto dalla Consulta nel 2021. Anche se, confesso, ho poca fiducia che il nostro Parlamento sappia discutere e arrivare a sintesi su temi così complessi».

La pronuncia sul caso di due padri e del figlio nato in Canada. Maternità surrogata all’estero, la storica sentenza della Cassazione sulla Stepchild Adoption. Redazione su Il Riformista il 30 Dicembre 2022

La Corte di Cassazione a Sezioni Unite con la sentenza n. 38162 depositata oggi ha stabilito che i bambini nati all’estero con la maternità surrogata potranno e dovranno essere riconosciuti in Italia come figli di entrambi i genitori con l’adozione in casi particolari, che richiede l’approvazione di un giudice. La decisione della Suprema Corte sulla cosiddetta Stepchild Adoption vale sia per coppie etero che per coppie gay.

La pronuncia della Cassazione si è basata sulla giurisprudenza della Corte Costituzionale che nel 2021 aveva chiesto al parlamento di riconoscere i figli delle coppie omosessuali e su quella della Corte Europea dei diritti umani. La decisione è arrivata sul caso di due padri gay che avevano avuto un figlio tramite maternità surrogata in Canada. La Corte d’Appello di Venezia aveva ordinato il riconoscimento di entrambi i padri tramite la trascrizione dell’atto di nascita canadese. La Suprema Corte ha annullato quella decisione e dichiarato che da questo momento in poi i figli delle coppie gay nati all’estero con la surrogata dovranno essere sempre riconosciuti tramite l’adozione in casi particolari.

E quindi non con la trascrizione diretta all’anagrafe dell’atto di nascita straniero (come avviene di solito per tutti gli altri bambini e come è successo spesso anche per i figli delle coppie gay) ma attraverso l’apertura di un procedimento davanti al Tribunale dei minori per dimostrare l’esistenza di un legame di filiazione tra il bambino e il secondo padre, quello cosiddetto “intenzionale” perché non ha legami col figlio.

Le coppie che ricorrono alla genitorialità surrogata all’estero non sono punibili. Non è più possibile il riconoscimento diretto all’anagrafe dove si iscriverà un solo genitore. Il primo genitore riconosciuto non potrà inoltre opporsi all’adozione da parte del secondo, quello che compare sull’atto di nascita straniero.

Per l’avvocato di Trento Alexander Schuster, che ha parlato a Il Corriere della Sera, la sentenza segna comunque una svolta anche se la coppia di padri sperava in un riconoscimento direttamente all’anagrafe per i tempi e i costi della Giustizia italiana, compresa quella minorile: “Le sezioni unite hanno dato prova di avvicinarsi alla questione della gestazione per altri con grande rispetto e delicatezza. È bene che sia stato confermato anche come l’orientamento sessuale non assuma alcun peso quando si parla di figli e genitorialità: un’affermazione ovvia, ma sfortunatamente ancora necessaria. E vi è un’importante passo avanti in questa decisione: il genitore biologico non potrà più bloccare le domande di adozione e mettere alla porta il genitore intenzionale, un potere che viene superato se contrario all’interesse del minore”.

Ovvero se il secondo padre dovesse morire prima della conclusione dell’adozione o nel caso in cui lo stesso volesse rifuggire alla responsabilità.

La denominazione.

L'arcobaleno va in soffitta. Tornano "mamma" e "papà". Il governo chiarisce: ok la direttiva Salvini del 2019, niente diciture "genitore 1" e "genitore 2". Patricia Tagliaferri su Il Giornale il 28 Dicembre 2022.

Sulla carta d'identità resta la dicitura madre/padre. Non ci sarà scritto genitore 1/genitore 2, come stabilito da una recente sentenza del Tribunale di Roma che ha dato ragione a due mamme sconfessando il Viminale e invitando il ministero a correggere il software per garantire l'inclusione dei genitori gay. Una modifica che non avverrà, hanno stabilito ora i ministeri dell'Interno e della Famiglia, decisi a blindare il decreto firmato da Matteo Salvini nel 2019 per impedire qualifiche «neutre» sui documenti delle famiglie Lgbtq+. Il ministro delle Infrastrutture e leader leghista ha accolto con entusiasmo la scelta dell'esecutivo, rimarcando la sua posizione con un tweet: «Mamma e papà, le parole più belle e dolci del mondo, non si toccano».

Come ha spiegato a Repubblica la ministra della Famiglia Eugenia Roccella, la decisione dei giudici riguarda infatti il singolo caso, dunque per la coppia che ha fatto ricorso, non per tutte quelle formate da due mamme e due papà. Chi non vorrà vedere scritto madre/padre sui documenti dei propri figli dovrà fare ricorso, come hanno fatto un mese e mezzo fa le due donne della sentenza «pilota» rimasta però sulla carta visto che - come hanno denunciato - l'Anagrafe del Comune di Roma non può iscriverle finché il Viminale non cambierà i moduli e il software per la carte d'identità elettronica. Del resto già a novembre l'esecutivo aveva espresso forti perplessità sulla sentenza, ponendo l'accento su «evidenti problemi di esecuzione», che avrebbero tra le altre cose potuto mettere a rischio il sistema di identificazione personale.

La strada del ricorso, denuncia l'Arcigay, rischierebbe però di discriminare le famiglie che non hanno possibilità economiche per rivolgersi al giudice. Per Rosario Coco, presidente di Gaynet, così «il governo mette alla gogna i figli e le figlie delle famiglie arcobaleno». «In pratica - sostiene - per evitare un documento falso ai loro figli e figlie, le famiglie arcobaleno devono passare da un tribunale spendendo migliaia di euro. Sembra di commentare un film distopico ma purtroppo è la realtà. La maggioranza rimane incollata a un familismo grottesco e fuori dal mondo, visto che in Italia secondo l'Istat le persone che vivono da sole superano le coppie con bambini. Prima di stracciarsi le vesti per l'inverno demografico, Roccella e Meloni riconoscano subito gli stessi diritti a tutti i bambini e le bambini e le stesse responsabilità a chi vuole essere genitore». Soddisfatte le associazioni che difendono le famiglie tradizionali, come Pro Vita&Famiglia Onlus. «Accogliamo con favore - dice il portavoce, Jacopo Coghe - il chiarimento del governo che, con le parole dei ministri Piantedosi e Roccella, ha ribadito che sui documenti rimarrà la dicitura madre e padre, anziché l'aberrante e ideologico genitore 1 e genitore 2. Il decreto del 2019 dell'allora ministro dell'Interno Salvini non va toccato perché è una decisione di civiltà che tutela le famiglie e soprattutto i bambini, che hanno diritto ad avere una madre e un padre. La legge, infatti, riconosce che i figli nascono solo da un uomo e da una donna, sbarrando la strada a derive ideologiche e anti-scientifiche, che vorrebbero legittimare le adozioni per coppie omosessuali o pratiche disumane come l'utero in affitto. Ci auguriamo che il governo mantenga questa linea, senza però cedere ad eventuali aperture individuali, come ipotizzato. La legge va rispettata sempre e in ogni caso. Riconoscere termini diversi da madre e padre solo sulla base dei ricorsi delle coppie omogenitoriali significherebbe, al contrario, aprire spiragli di legittimazione che metterebbero a repentaglio i bambini e quanto di buono fatto finora per tutelarli».

Sfrattati.

Comandano loro.

Quanto costano.

Tardoni.

Mai nati.

Platonic co-parenting.

Congelati.

Selezionati.

Eterologhi.

Surrogati.

Adozioni.

Nascite.

Sfrattati.

Bamboccione a chi? Storia di Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera l'1 novembre 2023.

Siamo la foto d’apertura della Faz, il giornalone di Germania, e incredibilmente non con le succose polemiche sul premierato forte, ma con una sfilza di barattoli di pomodoro sotto il titolo «Di mamma ce n’è una sola». A stimolare la curiosità dei tedeschi è stata quella pensionata di Pavia che ha vinto la causa per far sloggiare di casa non uno, ma ben due figli quarantenni. I Blues Estoril Brothers si erano incastrati in modalità ostrica allo scoglio materno senza alcuna intenzione di scollarvisi, nonostante avessero un reddito fisso. Confesso d’essermi avvicinato all’articolo con il pregiudizio di chi si aspetta i soliti stereotipi mandolinistici. Invece ho trovato un’analisi controcorrente: se gli italiani non lasciano il nido, scrive la Faz, è perché a differenza dei coetanei del Nord Europa ricevono stipendi troppo bassi per potersi permettere un appartamento decente. Un calcio benemerito alla retorica dei bamboccioni condita dall’immancabile «ai miei tempi…».

Ai miei tempi (vent’anni fa) in Lombardia un quarantenne guadagnava di più e le case costavano meno. C’è però un altro aspetto della vicenda, anche se la Faz è così gentile da non rimarcarlo, ed è quando la signora di Pavia racconta che i suoi inamovibili eredi non sparecchiano mai la tavola e si guardano bene dal rifare i letti. Difficile che quest’andazzo abbia a che fare con l’abbassamento degli stipendi e l’aumento degli affitti. Tra noi italiani possiamo dircelo: quei due, un po’ bamboccioni lo sono davvero. Corriere della Sera

Federica Zaniboni per “il Messaggero” - Estratti venerdì 27 ottobre 2023.

La mamma è sempre la mamma, si sa. Casa sua è il luogo per eccellenza in cui poter tornare bambini, con i piatti cucinati da lei, il bucato che profuma del suo ammorbidente e la sensazione costante di essere amati e coccolati. A un certo punto, però, arriva per tutti il momento di abbandonare il nido. 

E se a più di quarant'anni, e con un lavoro stabile, decidi di rimanere a vivere ancora con la mamma, lei potrebbe sfrattarti da un momento all'altro. E il Tribunale le darebbe pure ragione. È quanto accaduto a Pavia, dove una signora di 75 anni ha fatto causa ai figli che non volevano saperne di andare via di casa. Il giudice pavese Simona Caterbi ha riconosciuto l'ingiustizia nei confronti della madre e, con una sentenza depositata nei giorni scorsi, ha condannato i due fratelli a lasciare l'abitazione entro il 18 dicembre.

L'assurda vicenda, che lascia tanto pensare al film francese Tanguy, divenuto noto proprio per il protagonista che non voleva staccarsi da mamma e papà, comincia anni fa, quando i genitori hanno deciso di separarsi. 

(...)

Secondo quanto stabilito dal giudice Simona Caterbi, entro meno di due mesi i due eterni adolescenti dovranno abbandonare la casa della 75enne e trovarsi finalmente un nuovo alloggio. Nella sentenza si legge che se «la permanenza nell'immobile agli inizi poteva ritenersi fondata» in quanto si basava «sull'obbligo di mantenimento gravante sulla genitrice, non appare oggi più giustificabile» dato che «i due residenti sono soggetti ultraquarantenni».

Stando al Tribunale di Pavia è dunque venuto meno l'obbligo di ospitalità nell'abitazione, in quanto non è presente «nell'Ordinamento alcuna norma che attribuisca al figlio maggiorenne il diritto incondizionato di permanere nell'abitazione di proprietà esclusiva dei genitori, contro la loro volontà e in forza del solo vincolo familiare». 

(…)

Comandano loro.

Estratto dell'articolo di Federico Mellano per lastampa.it sabato 9 settembre 2023.

«I figli si fanno in modo classico con un uomo e una donna che vivono insieme e fanno famiglia». Parla chiaro la ministra per la Famiglia, Eugenia Roccella, intervenendo in collegamento video agli «Stati generali della Basilicata: summer school» di Fratelli d'Italia a Potenza. Per la ministra, famiglia e natalità «sono connessi anche con la questione delle pari opportunità, di natalità», dei quali «non si poteva quasi più parlare. ll problema dell'inverno demografico, che io definisco "inferno” - continua -, era leggibile da 15 anni, ma non se ne poteva parlare. Rimettere il tema al centro ha fatto sì che oggi il tema sia rientrato nel dibattito pubblico».

[...]

La ministra, poi si scaglia contro quella che definisce «una cultura dell'antifamiglia»: per Roccella c’è «un attacco all'idea di famiglia come se tutti i mali nascessero da lì, la famiglia intesa come luogo di soppressione, ma la famiglia è in realtà è la custodia della nostra individualità, la famiglia è nido che ci custodisce e ci permette di formarci. Oggi cominciamo a porci - continua la ministra - il problema che se non si fanno figli. C’è un problema di sostenibilità di welfare, di sanità e di pensioni, ma anche di vitalità e di speranza delle nostre società». 

Gli aiuti per il secondo e il terzo figlio

Roccella, proseguendo nell’intervento, sostiene che il criterio di favorire la famiglia e la natalità debba diventare uno dei criteri fondamentali su cui muoversi. «Questo impegno noi lo continueremo con la nuova finanziaria che è alle porte. Quindi, ci saranno sicuramente - ne stiamo discutendo - impegni importanti per il secondo e il terzo figlio, perché il punto fondamentale è la possibilità anche per chi ha fatto un figlio di avere il famoso secondo figlio che pare desiderino e poi non riescono a fare. C'è la possibilità attraverso l'aiuto economico e sociale di creare davvero delle condizioni di facilitazioni per chi desidera i figli».

Annalisa Chirico: è ufficiale, l'uomo non conta più nulla. Annalisa Chirico su Libero Quotidiano il 27 luglio 2023

È ufficiale: il maschio non conta più nulla. Cari uomini, siete un pisello e niente più, un iniettore di spermatozoi, necessario alla riproduzione, va bene, ma non a un progetto genitoriale. Neanche Mary Plard, l’avvocato femminista francese autrice di un saggio di qualche anno fa, dal titolo “Paternités imposées”, avrebbe immaginato un tale epilogo. A far discutere è una decisione della Corte costituzionale che, di fatto, obbliga l’uomo a una paternità differita con una donna che non è più moglie né compagna. Una coppia ricorre alla fecondazione assistita e, a distanza di ben sette anni dalla crioconservazione degli ovuli, la donna richiede l’impianto dell’embrione nel proprio utero, con un dettaglio: i coniugi non sono più tali, si sono separati e l’uomo, “fornitore” dei gameti maschili, non ha alcuna intenzione di diventare padre.

Non siamo più una coppia: perché dovremmo diventare genitori insieme? La Consulta ribadisce il principio, contenuto nella legge 40 sulla fecondazione assistita, che sancisce l’irrevocabilità del consenso prestato dall’uomo. Si sostiene che tale sarebbe l’“investimento fisico ed emotivo della donna in funzione della genitorialità” da non poter più arrestare il processo una volta avviato. Il divieto di ripensamento vale solo per il maschio: se la potenziale madre recede il problema non sorge ma se l’uomo cambia idea - per esempio, perla non trascurabile circostanza che i potenziali genitori non sono più una coppia che si ama e vuole stare insieme - la sua volontà vale meno di quella femminile. Anzi, non vale nulla. Anche in tempi di demolizione della mascolinità dovremmo riconoscere che noi donne abbiamo l’inestimabile privilegio di poter decidere se e quando diventare madri. La maternità si può rifiutare, la donna può accedere a diversi strumenti per non diventare madre, ma l’uomo no, non può, per lui la paternità è una condizione più o meno imposta. Si dirà: è la natura, bellezza. Guai a rinnegare questa differenza che una volta tanto non ci penalizza, anzi ci fortifica, ma una legge dello stato che fissa il principio ribadito dalla Consulta suscita perplessità insuperabili.

Forse rivalutare il contributo decisionale dell’uomo e il suo diritto di dire no a una paternità differita, tanto più in casi di Pma e con un coniugio interrotto, restituirebbe dignità al principio di autodeterminazione che non può valere solo per le donne. Un progetto genitoriale si costruisce in due, il maschio non può ridursi a mero distributore di spermatozoi né il nascituro può diventare merce fai-da-te da ritirare in clinica. Il divieto di ripensamento solo maschile, fissato da una legge che andrebbe modificata, ci lascia spaesati rispetto al significato stesso della procreazione che sembra ormai piegarsi a un piano esclusivamente individuale, ai limiti di un approccio egoistico per cui, nella società contemporanea, se desidero diventare genitore devo poterlo diventare, a qualunque costo, anche se la natura non me lo consente, anche se sono single o gay, anche se quell’uomo che sette anni fa si era prestato adesso non vuole più vedermi neanche in fotografia. Io diventerò madre e lui contribuirà alle spese di mantenimento del figlio non voluto, forse un giorno si rassegnerà a essere padre, suo malgrado, e saremo tutti felici. Separati e felici.  

Estratto dell'articolo di Francesco Grignetti per “la Stampa” il 25 luglio 2023.  

L'uomo deve sapere che intraprendere il percorso della fecondazione assistita assieme alla sua compagna è una via da cui non si torna indietro, anche se il tempo scorre e magari la coppia si è dissolta con sogni e speranze. […] Così stabilisce la legge n. 40 del 2004: il consenso del partner maschile è irrevocabile al momento della fecondazione. Così conferma la Corte costituzionale. 

Chiaramente è una scelta dura, quella di imporre la paternità a chi non la vuole. […] la sentenza della Consulta ribadisce che l'irrevocabilità del consenso maschile è però funzionale a salvaguardare quelli che sono da ritenere gli interessi preminenti. E in questo caso è prevalente l'interesse della donna su quello dell'uomo, come anche «la dignità dell'embrione». 

È la donna, infatti - argomenta la Consulta - che si sottomette a cure invasive, lei che si sobbarca il pesante onere «di mettere a disposizione la propria corporalità, con un importante investimento fisico ed emotivo in funzione della genitorialità che coinvolge rischi, aspettative e sofferenze, e che ha un punto di svolta nel momento in cui si vengono a formare uno o più embrioni». Scrive il redattore di questa sentenza, il giudice Luca Antonini, […]

Se l'uomo a un certo punto non ci crede più, come è nel caso concreto alla base di questa sentenza, e ritiene di non voler più condividere un figlio con la donna che pure ha amato, ma da cui ormai è lontano emotivamente e legalmente, secondo la Corte costituzionale non è però suo diritto fermare tutto il processo. Il caso è complesso, drammatico. «Non sfuggono a questa Corte la complessità della fattispecie e le conseguenze che la norma oggetto del presente giudizio, in ogni caso, produce in capo all'uomo, destinato a divenire padre di un bambino nonostante siano venute meno le condizioni in cui aveva condiviso il progetto genitoriale».

Stavolta i supremi giudici sono stati chiamati a dirimere una questione familiare, anzi una disputa da ex. Solo che non è facile scegliere quando c'è di mezzo un embrione fecondato ben 7 anni fa, nel frattempo marito e moglie si sono separati, lei vuole portare avanti la gravidanza e lui si oppone. 

Lui si oppone da anni, ha ritirato il consenso precedentemente prestato, ritiene di non poter essere obbligato a diventare padre. Il giudice ha girato la questione alla Consulta e ieri è arrivata la decisione: l'irrevocabilità del consenso è compatibile con i principi costituzionali.

[…]

Estratto dell’articolo di Alessandra Arachi per il “Corriere della Sera” il 25 luglio 2023.

È una sentenza destinata a fare storia, non solo giurisprudenza. Tutela la donna […] E stabilisce che una volta creato l’embrione con la fecondazione assistita, se la madre lo desidera l’embrione deve essere impiantato, anche se il padre del futuro bambino è deciso a revocare il suo consenso. Lo ha stabilito la Corte Costituzionale e Luca Antonini, il giudice che ha redatto la sentenza (la numero 161 del 2023), non ha negato di essersi trovato di fronte ad una «scelta tragica», ma poi non ha esitato ad assecondare la volontà della futura madre stabilendo che con la fecondazione assistita aveva certamente messo in gioco un suo «investimento fisico ed emotivo».

La Corte ha così conferito legittimità all’articolo 6 (comma 3) della legge 40 del 2004, una norma che rende possibile, per effetto del congelamento degli embrioni, la richiesta dell’impianto non solo a distanza di tempo ma anche quando sia venuto meno l’originario progetto di coppia. La storia che ha dato vita a questa sentenza della Consulta comincia come una delle tante storie di coppie che faticano a mettere al mondo figli.

La legge 40 permette di usare il metodo della fecondazione assistita, per risolvere questo problema. Marito e moglie decidono quindi di rivolgersi ad una clinica specializzata.

Il progetto è di coppia […] tutti e due […] firmano i documenti che certificano il loro consenso alla fecondazione assistita e quindi all’impianto del futuro embrione. […] 

Dopo, la fecondazione avviene con successo e gli embrioni vengono creati. Ma al momento dell’impianto la futura mamma ha qualche complicazione di salute. Si decide quindi di congelare gli embrioni […] Passa il tempo […] Il papà e la mamma di quegli embrioni congelati […] si separano. Ed è in questo momento che l’uomo, che a quel punto è diventato l’ex-marito, revoca il suo consenso. Non voleva più diventare padre.

Si finisce in tribunale. Dal tribunale si arriva davanti alla Corte Costituzionale. È la prima volta che la Consulta si trova ad affrontare una vicenda come questa. […] Il giudice ammette: «È impossibile soddisfare tutti i confliggenti interessi coinvolti nella fattispecie».

Ma è la donna che alla fine viene tutelata, in maniera inequivocabile. 

Scrive il giudice della Consulta: «L’accesso alla procreazione medicalmente assistita comporta per la donna il grave onere di mettere a disposizione la propria corporalità, con un importante investimento fisico ed emotivo in funzione della genitorialità che coinvolge rischi, aspettative e sofferenza e che ha un punto di svolta nel momento in cui si vengono a formare uno o più embrioni».

[…] «Corpo e mente della donna sono inscindibilmente interessati nel processo di creazione dell’embrione che culmina nella concreta speranza di generare un figlio», scrive il giudice che rivolgendosi all’ex marito che non voleva più diventare padre usa ben altri toni. Davanti «alla tutela della salute fisica e psichica della madre, e anche la dignità dell’embrione» l’uomo non può agire a suo piacimento. […] «Non è irragionevole la compressione della libertà di autodeterminazione dell’uomo in ordine alla prospettiva di paternità».

Elena Tebano per il “Corriere della Sera” il 25 luglio 2023.  

1. Cosa dice la legge 40 del 2004 sulla procreazione medicalmente assistita?

«Prevede che prima di fare la pma uomo e donna firmino un consenso informato da cui dipende lo status di figlio del bambino che nascerà. Se un uomo consapevolmente ha deciso di intraprendere una procedura medica per avere un figlio non può più tirarsi indietro dalla responsabilità che ha assunto. Questa sentenza ribadisce che l’irrevicabilità del consenso è funzionale a “sottrarre il destino giuridico del figlio ai mutamenti di una volontà che (...) rileva ai fini del suo concepimento”. Ed è per questo che passano per legge 7 giorni tra la firma del consenso e la fecondazione: si dà al futuro padre il tempo di ripensarci» risponde la professoressa dell’Università di Perugia Stefania Stefanelli, docente di diritto privato e diritto di famiglia. 

2. Vale la stessa cosa per la donna?

«Di fatto no. L’uomo resta vincolato al consenso dato all’inizio, mentre la donna può sempre rifiutare l’impianto dell’embrione, in base agli stessi principi costituzionali che permettono di opporsi a qualsiasi terapia. E dopo l’impianto può interrompere la gravi-danza entro i limiti della legge sull’aborto». 

3. Perché questa differenza?

«Per i ruoli diversi che hanno nella gravidanza, che incide in modo del tutto predominante sulla saluta fisica e psichica della donna. È lo stesso motivo per cui l’uomo non ha nessun diritto di scelta sulla decisione di interrompere o meno una gravidanza. Non è una questione di genere: in un Paese come il Belgio che regola la filiazione delle coppie lesbiche, le stesse differenze previste in Italia per gli uomini si applicano alla mamma che non porta avanti la gravidanza».

4. Però in questo caso il consenso era stato dato sei anni fa e la coppia è separata da cinque...

«La legge 40 originariamente prevedeva il divieto di crioconservazione e l’impianto immediato di tre embrioni. La Corte costituzionale ha tolto queste limitazioni, che comportavano gravi rischi per la salute della donne, permettendo di conservare gli embrioni anche per anni. Ma questo non cambia la responsabilità dell’uomo, che oltretutto tocca diritti fondamentali della donna e la dignità dell’embrione». 

5. Quali diritti sono in gioco?

«Il consenso alla fecondazione dato dall’uomo incide sull’integrità psicofisica della donna, che secondo i giudici, deve essere “protetta dalle ripercussioni negative che su di lei produrrebbe l’interruzione del percorso intrapreso e giunto alla fecondazione”. La donna ha iniziato la pma perché c’era quel consenso e se l’uomo potesse revocarlo in ogni momento, lei non avrebbe la necessaria serenità e integrità psicofisica per andare avanti. Poi c’è la dignità dell’embrione. I giudici scrivono che l’irrevocabilità del consenso da parte dell’uomo protegge anche la dignità umana riconosciuta all’embrione in quanto “ha in sé il principio della vita”».

6. Che differenza c’è rispetto alla procreazione naturale?

«Il padre genetico in una procreazione naturale non può sottrarsi alla responsabilità di essere padre: se anche non vuole riconoscere il nascituro una sentenza può dichiarare la paternità e costringerlo ai suoi doveri. Qui il principio è analogo, ma mentre nella procreazione naturale è la discendenza genetica a fondare la paternità, nella pma è il consenso a fondare la paternità. E quel consenso vale anche a distanza di tempo».

Quanto costano.

Quanto costa avere un figlio in Italia. Secondo dati Istat e Banca d’Italia, nel nostro Paese mantenere un figlio fino al compimento dei 18 anni costa più di 600 euro al mese. Tra le voci di spesa più importanti, gli asili nido. Resta il divario fra Nord e Sud. Dario Murri il 25 Agosto 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 Sempre meno figli e sempre più “cari”

 I costi da Nord a Sud

 Primo anno di vita

 Voci che incidono

 Trend costante

645 euro al mese. Tanto costerebbe ad ogni famiglia italiana un figlio, dalla nascita fino al compimento dei 18 anni. A dirlo è la Banca d'Italia, sulla base di una rielaborazione di dati Istat raccolti tra il 2017 e il 2020 su nuclei composti da due adulti e uno o più minori, cioè una famiglia italiana standard. La cifra comprende acquisti di beni e servizi destinati esclusivamente ai figli, fra cui spese alimentari, per i trasporti e per la casa. Buona parte dei costi riguarda il tempo libero come hobby e sport, seguiti da istruzione (cioè nidi e scuole), abbigliamento e salute, per un totale che si attesta ad un quarto del reddito medio delle famiglie. Quasi una rata del mutuo, verrebbe da dire, se non fosse che anche quelle continuano a crescere, proprio come i figli.

Nel 2020 la spesa è stata leggermente inferiore, 580 euro, ma solo per le restrizioni dovute alla pandemia, che hanno comunque limitato spostamenti e spese relative al tempo libero. Per il resto, le voci più “pesanti” sono legate ai prodotti dell'infanzia come i pannolini e, soprattutto, gli asili nido, tuttora insufficienti.

Sempre meno figli e sempre più “cari”

Crescere un figlio nel nostro Paese diventa sempre più costoso. Secondo Moneyfarm, il mantenimento di un figlio da 0 a 18 anni comporterebbe una spesa tra i 96.000 e i 183.000 euro. Cifre cui fanno eco quelle dell'Osservatorio di Federconsumatori, che ha stimato un costo medio di 175.642 euro, con una media di oltre 7.000 euro l'anno. Analizzando circa 150 voci, lo studio ha rilevato come, con l’aumentare dell’età, crescano anche le spese. Se fino ai tre anni si spendono per un figlio tra i 10.000 e i 25.000 euro, dai 4 ai 5 anni la cifra va dai 10.000 ai 27.000, dai 6 agli 11 si aggira tra i 28.000 e i 48.000 euro e dai 12 ai 18 anni varia tra i 45.000 e i 74.000 euro.

Entrando più nel dettaglio, per ogni fascia di età ci sono tipologie di spese che incidono più di altre. Tra i 6 e gli 8 anni, ad esempio, pesano attività sportive, mensa scolastica, campi estivi, ma anche le visite mediche (con importi fra 420 e 900 euro) e attività doposcuola (fra 510 e 5.400 euro). Per la fascia d’età 15-18 anni salgono le spese sportive (8.000 euro), cui vanno ad aggiungersi trasporti (600 euro), lezioni di lingua, abbigliamento, vacanze, dispositivi elettronici, libri scolastici, paghette (1.164 euro), etc.

I costi da Nord a Sud

Tornando a dati più macro, la spesa per crescere un figlio può variare a seconda dell’area geografica, sulla base del diverso costo della vita: il costo mensile è più alto al Nord, mentre è più basso al Sud e nelle isole. I numeri parlano chiaro: se la media italiana riporta 645 euro al mese, al Nord siamo a 714, per il Centro a 707, al Sud 512, con una forbice molto ampia fra famiglie abbienti e famiglie povere: 688 euro contro 198 al mese per figlio.

Primo anno di vita

Se il quadro potrebbe essere già esauriente con i dati appena elencati, altri elementi si aggiungono analizzando quanto costa un figlio nel primo anno di vita. Sempre secondo lo studio Moneyfarm, fra i costi di mantenimento di un figlio nel primo anno di vita bisogna considerare anche quelli che riguardano la preparazione alla nascita che vanno dai i 5.600 ai 19.300 euro. Questa tipologia dispese presenta molte variabili, differenti a seconda di quanto una famiglia voglia e possa sostenere determinate spese.

Pur considerando che, a differenza di altri paesi europei, in Italia l’assistenza medica negli ospedali pubblici è coperta dal Sistema Sanitario Nazionale, una coppia può decidere di sostenere privatamente alcune visite, per cui il volume di spesa stimato dipende anche dalle soluzioni che ogni famiglia decide di adottare. Dai test prenatali al corso preparto, dal corredo agli accessori, le spese possono subire variazioni notevoli in base alle diverse scelte. Tra le prime spese che i neo genitori devono sicuramente sostenere, ci sono quelle necessarie nei primi mesi di vita di un bambino, fra cui, ad esempio, passeggino (o culla portatile, o ancora passeggino e seggiolino auto), biberon, vaschetta per bagnetto, fasciatoio, tutine, body o intimo (che va cambiato ogni tre mesi circa), pannolini, salviette e altro.

Voci che incidono

Un raffronto interessante tra i diversi costi di un figlio nelle le varie regioni d’Italia si può realizzare prendendo come riferimento altre due voci di spesa significative nei primi anni di vita di un bambino, come l’asilo nido e la baby-sitter. Incrociando tali dati con quelli dell’Unione Nazionale Consumatori relativi all’aumento del costo della vita nel 2022, si ha la conferma di come nel Nord la spesa per un figlio risulti maggiore che in altre parti d’Italia.

Secondo altri dati, provenienti da una ricerca di Altroconsumo, il costo medio di un asilo privato a tempo pieno si aggira in Italia attorno ai 620 euro mensili, arrivando a Milano a 756 euro al mese (con un aumento rispetto alla media nazionale del 22%, che scende al 21% per i nidi di Bologna). Gli asili meno cari si trovano al Sud: a Palermo per un’ora nel nido si pagano circa 2,09 euro per 10 ore settimanali, a Napoli ci si attesta sui 2,75 euro, contro i 3,84 euro di Milano).

Trend costante

Alla luce di quanto visto, possiamo anche capire come non sia un caso che in Italia si facciano sempre meno figli. Nel 2020 sono nati 404.892 bambini, 15.000 in meno rispetto al 2019. Secondo il bollettino Istat “Natalità e fecondità della popolazione residente 2020”, poi, il trend della denatalità è proseguito anche nel 2021. C’è da dire comunque che la fase di calo in Italia è iniziata nel 2009. Da allora e fino al 2019 si è registrato un calo medio costante annuo del 2,8%.

Tardoni.

DAGONEWS domenica 9 luglio 2023.

Cosa hai pensato quando hai letto che Al Pacino ha avuto un altro figlio all'età di 83 anni?

Una meravigliosa dimostrazione che l'età non ha barriere quando si tratta di dare la vita? Ancora un altro esempio dell'ingiustizia che uomini che non hanno un orologio biologico?

Oppure, ecco altro vecchio che cerca di aggrapparsi alla sua giovinezza?

La risposta di Tracey Cox è stata tranchant: “Povero Bambino”. La sexperta non discute i vantaggi di avere come padre la star, ma il piccolo potrebbe non avere mai il ricordo di un padre. Qui troverai i contro di fare un figlio tardi.

I papà sono importanti

Viviamo in un'epoca in cui molti bambini vengono cresciuti perfettamente da un solo genitore. Ma pochissimi fanno questa scelta: di solito è una situazione di vita che viene loro imposta.

È certamente vero che la maggior parte degli uomini che generano un figlio dopo gli 80 anni sono famosi o ricchi: la maggior parte delle donne non andrebbe per un uomo così vecchio altrimenti. 

Questi bambini saranno protetti dal denaro e dai privilegi. Ma questo non succede a bambini nati in famiglie normali.

Non ho nulla contro i padri più anziani, anzi, penso che tendano a diventare padri migliori. Ma forse varrebbe la pena tracciare una linea oltre la quale sarebbe bene pensarci due volte. 

Anche gli uomini hanno un orologio biologico

Per anni si è pensato che l'avanzare dell'età contasse solo per le donne quando si trattava di fare figli. Ma ora sappiamo che anche gli uomini hanno un orologio biologico: un'età dopo la quale avere figli comporta notevoli rischi per il bambino, sia psicologici che fisici. 

Papà molto più grandi fanno sentire i bambini vulnerabili

«Sono sempre stata perseguitata dall'ombra della sua morte», così una donna ha descritto cosa voleva dire avere un padre più anziano. (Suo padre aveva 51 anni quando è nata.) «Ha avuto un infarto a 55 anni; ha avuto il cancro a 62 anni - ha detto - Tutti i miei amici davano per scontato che i loro padri sarebbero stati presenti quando avrebbero avuto figli. Sapevo che non sarebbe mai successo e mi ha spezzato il cuore». 

Un altro uomo ha detto che quando la sua vita stava iniziando, suo padre era agli sgoccioli: «Era difficile non sentirmi geloso degli amici che avevano papà fisicamente più attivi. Mio padre era fragile, il pensiero di lui che prendeva a calci un pallone con me era ridicolo».

L'imbarazzo e la vergogna sono comuni

«Da bambino vuoi essere come tutti gli altri. Non vuoi un papà che sembri e si comporti in modo diverso dagli altri papà: chi non mi conosceva pensava fosse mio nonno» è stato un commento che ha riassunto i sentimenti di molte persone. Ci si vergognava a sentirsi diversi. 

La differenza generazionale rende la vita più difficile

«Un divario di due generazioni crea un enorme abisso culturale. Mio padre non ha mai mostrato i suoi sentimenti, non mi ha mai detto che mi amava. Era l'uomo di casa che portava a casa la pagnotta. Le coccole erano delegate a mia madre».

Mai nati.

Antonio Giangrande: Il ciclo vitale, in biologia, è l'intervallo tra il susseguirsi di generazioni di una specie. L'esistenza di ogni organismo si svolge secondo una sequenza ciclica di stadi ed eventi biologici, caratterizzata in base alla specie di appartenenza. Queste sequenze costituiscono i cosiddetti Cicli Biologici. Ogni essere vivente segue un ciclo vitale biologico composto dai seguenti stadi: nascita, crescita, riproduzione, senescenza e morte. Per quanto possa essere breve o corta la vita, nessun essere vivente preso singolarmente è immortale. Ma la sua specie diventa immortale attraverso la riproduzione e l'evoluzione. Gli esseri viventi si evolvono nel corso del tempo per potersi meglio adattare alla natura che li circonda. Attraverso la riproduzione le generazioni trasmettono i propri geni a quelle future. Durante questo passaggio le nuove generazioni possono assumere caratteristiche nuove o perderne alcune. Le differenze si traducono in vantaggi o in handicap per chi le possiede, agendo direttamente sul processo evolutivo tramite la selezione naturale degli individui. Le nuove caratteristiche che agevolano l'adattamento all'ambiente offrono all'individuo maggiori probabilità di sopravvivenza e, quindi, di riproduzione. E' innaturale non riprodursi. Senza riproduzione non vi è proseguimento ed evoluzione della specie. Senza riproduzione il ciclo vitale biologico cessa. Ciò ci rende mortali. Parlare in termini scientifici dell'eterosessualità e del parto, quindi di stati naturali, fa di me un omofobo ed un contrabortista, quindi un non-comunista? Cercare di informare i simili contro la deriva involutiva, fa di me un mitomane o pazzo?

Estratto dell’articolo di Simonetta Sciandivasci per “la Stampa” sabato 11 novembre 2023.

[…] nel corso di un conflitto si muore moltissimo e si nasce pochissimo. Il calo demografico si registra durante e dopo, anche molto dopo, tanto nei Paesi in cui si combatte, quanto altrove, nel mondo intorno. «Le guerre stanno indebolendo la propensione ad avere figli: tutti i rapporti che abbiamo lo dicono. E questo riguarda i giovani italiani, spagnoli, tedeschi: la visione positiva del futuro, già molto provata, viene ulteriormente minata, e condiziona le decisioni più impegnative e responsabilizzanti, come è quella di costruire una famiglia», dice a La Stampa Alessandro Rosina, professore ordinario di Demografia all'Università Cattolica di Milano.

[…] Sarà sempre più difficile assistere a un "babyboom" come quello italiano degli anni Sessanta, quando l'euforia della ripresa dalla Seconda guerra mondiale incrementò le nascite: all'epoca, sul mettere al mondo un bambino non gravavano le incertezze strutturali del nostro tempo e, soprattutto, la voglia di creare una famiglia era robusta, indiscussa, nella maggior parte dei casi indiscutibile.

[…] 

«In guerra si nasce pochissimo. Non ci sono le condizioni per formare una famiglia, gli uomini sono al fronte e si vive una condizione di disagio perenne che affievolisce e spegne la sessualità. Ma il punto più rilevante è quello che succede dopo: in passato, dopo un grande trauma, di solito, si assisteva a una ripresa rapida e molto vivida: i matrimoni e le unioni riprendevano, così come le nascite. Oggi è molto diverso: formare una famiglia non è più scontato e, anzi, è una scelta molto debole, riflettuta, indagata.

E il rischio è quindi che, dopo le ferite della guerra, anziché ripartire di slancio, i Paesi che l'hanno subita si ritrovino a fronteggiare un andamento demografico indebolito, e in sofferenza cronica. L'Ucraina era già un paese con una natalità molto bassa e con molti flussi migratori in uscita: è molto probabile che la guerra abbia accelerato ulteriormente tanto l'uscita di popolazione quanto il declino della natalità. In sostanza, le condizioni che in passato consentivano di recuperare un declino demografico dopo una guerra, oggi si ripropongono assai più faticosamente[…]».

Gaza può fare eccezione, visto quanto è giovane la sua popolazione?

«A Gaza la natalità è particolarmente elevata: è una forte dimostrazione identitaria. Nel fare figli la comunità trova il mezzo migliore di esprimere il desiderio di venire riconosciuta e, naturalmente, di esistere. 

La guerra è andata a incidere su questa popolazione che ha una base demografica ampia, difficilmente riscontrabile altrove, anche in Medio Oriente, e che però adesso viene fortemente colpita, ma gli effetti futuri dipenderanno dal modo in cui si deciderà di risolvere la crisi attuale».

A pesare sulle fragilità persistenti che un conflitto crea rispetto alla demografia, sono di più gli aspetti economici o quelli psicologici?

«[…] I ragazzi di tutto il mondo si sentono minacciati da quello che succede a Gaza: per tutti si tratta dell'ennesimo segnale di futuro fosco, insicuro, insondabile. Le nostre società sono abitate da chi considera prioritario fare figli e, quindi, non bada alle difficoltà oggettive, e li fa comunque.

Non sono pochi, però, quelli che a fare figli sono poco interessati e, pertanto, li farebbero solo in presenza di condizioni oggettivamente adeguate».

Quali sono queste condizioni?

«La sicurezza economica e la garanzia di un benessere inteso nel senso più ampio, su vasta scala: di un tenore di vita che renda possibile la felicità.

Se ci confrontiamo con Paesi come Francia e Svezia, la sensibilità rispetto al cambiamento climatico pesa su tutti e riduce la natalità. 

In Italia, dove ci sono condizioni oggettivamente peggiori per fare una famiglia, quella sensibilità ha un peso maggiore. La fecondità è bassa tanto in Italia quanto in Francia, ma in Italia è dell'1,2 figli per donna, in Francia dell'1,8. Quella differenza è legata a condizioni oggettive e carenza di politiche pubbliche adeguate».

Perché gli immigrati che arrivano in Italia smettono di fare figli?

«Perché si scontrano con le stesse difficoltà che hanno le donne e le famiglie italiane: la vita è molto più complessa, accedere ai servizi non è scontato e non si può far affidamento alla propria rete familiare. Poi, cambiano gli orientamenti di valori. Nonostante questo, la fecondità delle italiane è 1,2: quella delle straniere di 1,9». […]

Culle vuote. Le guerre stanno indebolendo la propensione ad avere figli. L'Inkiesta il 10 Novembre 2023

In una intervista a La Stampa il demografo Alessandro Rosina spiega che rispetto al passato formare una famiglia non è più scontato, ma una scelta debole, riflettuta, indagata

«Le guerre stanno indebolendo la propensione ad avere figli: tutti i rapporti che abbiamo lo dicono. E questo riguarda i giovani italiani, spagnoli, tedeschi: la visione positiva del futuro, già molto provata, viene ulteriormente minata, e condiziona le decisioni più impegnative e responsabilizzanti, come è quella di costruire una famiglia». Così in una intervista a La Stampa, il professore ordinario di Demografia all’Università Cattolica di Milano, Alessandro Rosina, spiega le ragioni del preoccupante calo delle nascite.

Una rilevante inversione di tendenza rispetto ai decenni passati in cui si assisteva di solito a una ripresa dei matrimoni e delle nascite dopo un grande trauma. L’esempio più vivido è ciò che accadde dopo la seconda guerra mondiale quando per circa venti anni nacquero tantissimi bambini in Occidente. Quella esplosione demografica che durò dal 1946 al 1964 fu la cosiddetta stagione dei baby boomer. «Oggi è molto diverso: formare una famiglia non è più scontato e, anzi, è una scelta molto debole, riflettuta, indagata. E il rischio è quindi che, dopo le ferite della guerra, anziché ripartire di slancio, i Paesi che l’hanno subita si ritrovino a fronteggiare un andamento demografico indebolito, e in sofferenza cronica», spiega Rosina. «Le condizioni che in passato consentivano di recuperare un declino demografico dopo una guerra, oggi si ripropongono assai più faticosamente. Così un Paese si ritrova a fare i conti con una fragilità persistente dal punto di vista demografico».

Come ricorda oggi un articolo de Linkiesta sul problema demografico che sta affrontando l’Ucraina, anche Rosina fa capire che per Kyjiv il momento è difficile: un paese già di bassa natalità è stato stravolto dall’invasione russa che ha portato a deportazioni forzate, soprattutto di bambini, e un imponente esodo di rifugiati verso l’Europa occidentale.

Per Rosina mancano la sicurezza economia e la garanzia del benessere inteso come un tenore di vita che tenda alla felicità. Due condizioni imprescindibili in Occidente per pensare di metter su famiglia: «Se ci confrontiamo con Paesi come Francia e Svezia, la sensibilità rispetto al cambiamento climatico pesa su tutti e riduce la natalità. In Italia, dove ci sono condizioni oggettivamente peggiori per fare una famiglia, quella sensibilità ha un peso maggiore. La fecondità è bassa tanto in Italia quanto in Francia, ma in Italia è dell’ 1,2 figli per donna, in Francia dell’ 1,8. Quella differenza è legata a condizioni oggettive e carenza di politiche pubbliche adeguate». 

Una tendenza che rischia di colpire anche le persone migrate in Italia dall’estero che si scontrano con le stesse difficoltà dei giovani italiani con il problema aggravante di non potersi appoggiare alla propria rete familiare. Nonostante questo, la fecondità delle italiane è 1,2: quella delle straniere di 1,9».

Più figli per la patria? In realtà il mito fascista è fasullo: in Italia siamo troppi. L’invito del governo Meloni a fare bambini è pressante. Ma già negli anni Settanta si analizzava il problema di una società troppo allargata: dal traffico all’inquinamento, dalla distruzione degli ambienti naturali ai conflitti sociali. Franco Corleone su L'Espresso l'8 agosto 2023.

La costruzione del regime si fonda su miti e menzogne che devono diffondere paura e orgoglio. Un impasto di glorificazione del passato e di accanimento contro stili di vita e comportamenti del presente. Una paccottiglia di mediocre ideologia, legata alla concezione dello Stato etico e all’approvazione di leggi che devono punire il diverso, con l’ambizione di imporre una nuova egemonia culturale.

Il decreto anti-rave e la crociata antidroga sono due esempi eclatanti, ma altre scelte del governo Meloni sono ancora più eloquenti per il loro legame con la retorica del fascismo.

Il ministero dell’Agricoltura ora è stato ribattezzato con la dizione della Sovranità alimentare, che non può che richiamare teoria e prassi dell’autarchia: almeno il ministro Francesco Lollobrigida potrebbe riconquistare il nome Tocai per il vitigno autoctono costretto, per compiacere l’Ungheria, a chiamarsi Friulano con grave danno d’immagine!

Eugenia Roccella, dopo un passato radicale e di militante abortista, è a capo del ministero per la Famiglia e la Natalità. Non ha stupito, quindi, la convocazione degli “Stati generali della natalità” sulla scia dei tanti “Family day” per diffondere l’incubo delle culle vuote. L’invito a fare bambini è pressante, ma ovviamente rispettando le regole tradizionali, pena la cancellazione dei genitori.

La campagna per l’incremento demografico della «nazione» sotto il fascismo aveva come motto «il numero è potenza» e nel 1927 fu istituita l’imposta sul celibato. Ancora non è stata ideata la tassa sui single, ci si limita a produrre norme di agevolazione per famiglie numerose.

Molti statistici hanno seminato il terrore per le sorti dell’Italia (tra questi l’ex presidente dell’Istat, Gian Carlo Blangiardo) per il preteso basso numero di nascite; terrorismo che si è tradotto rozzamente nella paventata sostituzione etnica.

Come appaiono lontani gli anni Settanta, quando un grande scienziato come Adriano Buzzati Traverso, di cultura laica, sul Corriere della Sera scriveva un’inchiesta su “I figli che l’Italia non può mantenere” e articoli con il titolo “La tessera per avere figli” e “Bisogna evitare un baby boom”. Non era solo a esprimere questa preoccupazione: sulle stesse colonne, Cesare Zappulli icasticamente affermava l’esistenza di «dieci milioni d’italiani di troppo».

La tesi di Buzzati Traverso era che l’Italia aveva una popolazione di 56 milioni di abitanti e, calcolando il territorio montuoso, si manifestava una densità di popolazione assai preoccupante. Elencava i problemi assillanti, dal traffico all’inquinamento, dalla distruzione degli ambienti naturali alla deturpazione delle città, dai conflitti sociali alla violenza nelle case e nelle strade, e poneva l’interrogativo: «È mai possibile che nessuno o quasi si renda conto che se invece di essere 56 milioni fossimo 35, tali problemi non esisterebbero o si presenterebbero in termini ben più facilmente controllabili?».

Davvero stimolante l’appello al governo per promuovere ricerche per stabilire quale potesse essere la popolazione sostenibile per l’Italia senza realizzare un irreparabile scempio. Buzzati Traverso concludeva con l’auspicio che ai cittadini di domani si garantisse un tenore di vita magari inferiore in termini consumistici, ma «più piacevole, umano e compatibile con la libertà».

Le culle vuote che spaventano l'Europa: i numeri dell'emergenza. Massimo Balsamo il 9 Agosto 2023 su Il Giornale.

Il trend horror dell’Italia, ma non solo: la Francia ha registrato il più basso numero di nascite dal 1994. Germania e Spagna non se la passano molto meglio

L’Italia ha il tasso di natalità più basso in Europa, ma gli altri Paesi non se la passano molto meglio. Il trend horror di Roma è in corsa dal 2008 e si è purtroppo confermato nel 2022 e nei primi mesi del 2023. Il 2022 si è chiuso con 392.598 nuove nascite, quasi 8 mila in meno rispetto al 2021. I dati diffusi dall’Istat a fine luglio hanno invece evidenziato un ulteriore calo dell’1,4 per cento: come evidenziato dal Messaggero, procedendo a questo ritmo il 2023 dovrebbe fare registrare circa 387 mila nascite. In altri termini, un altro minimo storico. Italia cenerentola d’Europa, ma – come anticipato – anche gli altri Stati devono fare con un vero e proprio crollo. Le grandi capitali europee stanno affrontando cali ancora più vistosi di quelli di Roma.

Il crollo delle nascite in Francia

L’inverno demografico ha scosso la Francia. Secondo uno studio diffuso dall’Insee – l’omologo transalpino del nostro Istat – la natalità è calata in proporzione del 7% nel primo semestre del 2023 rispetto ai dati registrati nel 2020 pre-pandemia. Si tratta del livello più basso registrato dal 1994. Entrando nel dettaglio delle rilevazioni, dal 2015 è iniziato un costante calo del tasso di fertilità, che era oscillato intorno a 2 figli per donna tra il 2006 e il 2014. I dati del primo semestre del 2023 sono preoccupanti: tra gennaio e giugno 314 mila nuove nascite, appena mille in più dei decessi. Già nel 2022 era stato annotato un record minimo, paragonabile alla situazione dell’immediato dopoguerra: nati circa 723 mila bambini, 19 mila in meno rispetto al 2021, una riduzione intorno al 2,5%, simile a quella dell’Italia. Nel mirino l'emergenza economica, ma anche la precarizzazione del mercato del lavoro, la crisi sanitaria, la guerra in Ucraina e la minaccia nucleare.

I dati di Germania e Spagna

Nonostante l’impatto dei robusti flussi migratori, la Germania nel 2022 ha affrontato un crollo notevole di nascite, vicino all’8%. La tendenza di questo 2023 lascia pensare a un nuovo segno meno sul dossier natalità. Stesso discorso per la Spagna, già da tempo su una traiettoria discendente: tra il 2021 e il 2022 la diminuzione è stata del 2%, per un totale di 330 mila nascite. Nei primi mesi del 2023 è stata confermata la tendenza. Madrid “vanta” anche il record negativo del tasso di fecondità, ovvero il numero medio di figli per donna. Insomma, l'Italia ha molta strada da fare ma non è l'unico Paese a dove porre rimedio a un'emergenza che ha assunto ormai tratti internazionali.

 Emancipazione interrotta. Le donne di questo secolo meno hanno figli e più hanno la mistica della maternità. Guia Soncini su L'Inkiesta l'1 Giugno 2023

Pensavo che dedicare tutte le proprie aspirazioni al matrimonio o al fare figli fossero pezzi di modernariato. Ma non è niente rispetto al dibattito delle scrittrici italiane sulle madri senza prole 

La miglior notizia marginale dell’ultima settimana stava in una delle mille interviste intorno alla fine di Succession, e faceva più o meno così: poi Sarah è rimasta incinta, e quindi abbiamo incorporato la gravidanza nella storia.

Era un dettaglio che ci diceva che quella telefonata sull’amniocentesi della quarta puntata, quel dettaglio che poi per molte puntate era stato accantonato, quella rivelazione che avevamo voluto leggere come fondamentale e determinante nella scelta finale di Shiv, quella era una soluzione di sponda, una scena girata in fretta e furia e appiccicata alla storia dopo che un’attrice era rimasta incinta senza avvisare.

Era, nel ventunesimo secolo, qualcosa che ci diceva cosa dovrebbe essere una gravidanza in questo secolo: un cascame di quando le donne non potevano fare altro che riprodursi, un accidente marginale, un hobby che si può o no scegliere tra milioni di possibilità.

Poi viviamo nel mondo, e sappiamo che non è così. Sappiamo che l’emancipazione è in un momento di risacca, e la mistica del femminile è tornata agli anni Cinquanta, e le ragazze hanno nei confronti del matrimonio e dei figli un atteggiamento che avrebbe fatto rabbrividire non solo le loro madri ma pure le loro nonne (madri e nonne che ora assecondano figlie e nipoti perché hanno il terrore di non essere in sintonia col presente, ma ai loro tempi erano assai più emancipate, probabilmente perché avevano il patriarcato vero da cui liberarsi, mica dovevano inventarsi problemi quali l’identità di genere).

Quando mi voglio deprimere rispetto all’andamento del presente, vado a guardare le storie Instagram d’una trentenne romana sposata con un militare americano. Sposati già negli Stati Uniti, e ottenuta lei finalmente la carta verde, c’è ora da eseguire quella che sarebbe una formalità: la replica delle nozze in Italia.

Solo che la formalità è totalizzante quanto lo sarebbe stata in un secolo in cui il matrimonio era l’unica ambizione e possibilità per una femmina. Una ragazza cresciuta in una capitale occidentale, che si è laureata, che è andata a vivere all’estero, che dovrebbe avere tutte le caratteristiche che ci parlano di apertura mentale, è da mesi monotematicamente isterica circa la scelta del fiorista e simili amenità.

Spiega per minuti e minuti che deve fare tutto in soli tre mesi (ci vuole meno tempo e dedizione per la pace in medioriente), e che sì, ha lasciato per ben tre mesi solo in America l’inutile pezzo di carne con cui è sposata, ma è un sacrificio che deve fare per realizzare questa cosa importantissima per loro. Cosa importantissima per loro: scegliere i canapé.

Prima dei social, io credevo che questo pezzo di società non esistesse più. Credevo che l’ultima donna adulta a non avere una carriera (solo se non hai una carriera, ma neanche un impiego qualunque, puoi andartene tre mesi in un altro continente a organizzare una cerimonia di nozze) fosse stata mia madre, che però era nata in Molise durante la seconda guerra mondiale e insomma nessuno si aspettava fosse Gloria Steinem o Miuccia Prada. Credevo che la mistica della maternità e quella del matrimonio fossero pezzi di modernariato. Com’ero ingenua.

Due settimane fa era la festa della mamma, e la scrittrice Melissa Panarello ha scritto su Facebook alcune ovvietà. «Un cane, un gatto, un’amica, un amico, una persona amata, un libro da scrivere o uno da leggere, un’idea, un progetto, non potranno mai essere figli e questo puoi saperlo solo se i figli li hai […] Quindi buona festa della mamma a tutte le donne che hanno figli, perché madre alla fine è solo questo, per le altre meravigliose esperienze umane esistono altri nomi».

Se avessi letto questo post appena era stato pubblicato, avrei pensato che Panarello delirava: come sarebbe, puoi saperlo solo se i figli li hai? Per saperlo non basta essere madrelingua? Sì, certo, esistono disturbate che si definiscono mamme dei loro cani (che loro chiamano: pelosoni, bambini pelosi, e altre disturbatezze), ma per il resto siamo tutte piuttosto consapevoli che madre è una che ha dei figli.

Poiché il post l’ho letto solo dopo che ne era nata una polemica infinita, con infiniti post di infinite scrittrici e infinite risposte (se la letteratura fosse viva quanto la determinazione a dirsi madri, vivremmo a Bloomsbury), sono stata costretta a prendere atto che le donne del ventunesimo secolo meno hanno figli e più hanno la mistica della maternità.

«Il padre dei miei figli è molto materno ma non è la loro madre. Mia madre è una stronza ma è mia madre», scriveva Panarello il giorno dopo, con l’esasperato ennui con cui tocca ripetere ovvietà in questo secolo. Le donne non hanno il cazzo, le madri hanno i figli, se lascio cadere questo bicchiere la forza di gravità lo sfracella a terra. E invece.

«La tua posizione è violenta nei confronti, ad esempio, di tutte le donne che non sono riuscite a fare figli ma avrebbero voluto, e poi sono state madri in altri modi. Non hai nessun diritto di sminuirle, né di sminuire chi […] ha adottato animali in difficoltà che sarebbero morti». Lo scrive, in risposta a uno dei post della Panarello, Viola Di Grado, anch’ella scrittrice e, desumo, disposta a definirmi étoile per non essere violenta nei confronti del mio desiderio di ballare sulle punte.

«Che diritto ti toglie chi è madre di un canarino», vibra una finalista allo Strega, e non capisco bene se il riferimento letterario siano le madri dei draghi di quel fumettone recente, o Rhett Butler che dice a Rossella «una gatta è miglior madre di te». Volevamo il pane e le rose, abbiamo ottenuto la via veterinaria alla maternità umana.

Due settimane più tardi, il dibattito ancora non si è sedato (l’eccesso di tempo libero è la più gran piaga sociale di questo secolo: spero che l’inventore della lavasciuga si senta in colpa). Lunedì, un’altra scrittrice (dell’eccesso di scrittrici non saprei invece a chi dare colpa) spiegava senza mettersi a ridere che Jane Austen in una lettera si riferiva a “Orgoglio e pregiudizio” come «il bambino».

Ma tu pensa. Una donna nata nel 1775 non aveva, per le opere d’ingegno d’una donna, altro riferimento che non fosse l’unica cosa che le donne potevano fare nel 1775, cioè partorire. E noialtre, duecento e spicci anni dopo, soffriamo della stessa povertà lessicale. (Con quella di cento e spicci anni dopo che diceva che le donne «o fanno figli, o fanno libri» come la mettiamo? Fateci sapere: vi percepite più madri o scrittrici, dovendo scegliere?).

Nel frattempo Sarah Snook, che non usava Instagram da cinque anni, ha postato una foto di lei che guarda la puntata finale di Succession. Si vede la nuca d’un bambino in braccio a lei. Non può avere un anno, giacché Snook era incinta alla première, tre mesi fa. Ma potrebbe avere due mesi. Quale che sia la sua età, non costituisce una notizia: era visibilmente incinta, abbiamo studiato alle elementari (se le abbiamo frequentate prima che la biologia divenisse percezione soggettiva) che non si resta incinte a vita, prima o poi quel feto diviene bambino. E invece.

E invece ieri tutti i giornali americani titolavano breaking news, Sarah Snook ha partorito. Ha fatto una cosa che fanno anche le gatte, e noi ce l’eravamo persa. Meno male che c’è Instagram, a colmare le lacune del giornalismo contemporaneo.

L’Italia cadrà, se non ci saranno più italiani. La fiera sulla fertilità e i reportage a senso unico dei giornalisti: il vero bersaglio sono i bimbi in provetta? Vicsia Portel su Il Riformista il 29 Maggio 2023 

Si chiacchiera tanto di Wish for a baby, la “fiera sulla fertilità” tenutasi a Milano. Attivisti, femministe e partiti di centro destra si sono azzuffati: picchetti all’esterno, articoli di giornale, blitz di Fratelli d’Italia all’interno. Ma una grande, ingombrante domanda resta aperta. Qual è stato il vero oggetto delle proteste? La maternità surrogata? Giusto, è una pratica illegale. Eppure non era una fiera della maternità surrogata. La maggior parte delle cliniche erano spagnole, paese dove l’utero in affitto è fuorilegge. Non è che il vero obiettivo era aggredire la procreazione assistita tout court?

Sui giornali, reportage di fuoco scritti da giornalisti infiltrati. Li riconoscevi immediatamente, all’interno del padiglione, nel ruolo di coppie o singoli in cerca di un bambino. Seduti dritti davanti agli esperti dei vari stand, raccontavano storie di improbabili infertilità, alla ricerca spasmodica che qualcuno proponesse loro la parola magica: “maternità surrogata”. E se restavano a bocca asciutta, li vedevi comunque indignati, a sentir parlare di ovuli congelati, donatori di sperma e ovociti impiantati.

Poi però c’erano gli altri, le persone vere: occhi lucidi, spesso nelle donne, alla fine dei colloqui. Non coppie strambe con le piume in testa, per lo più eterosessuali, spesso con un bambino piccolo. Erano quelli che, se ne ascoltavi con attenzione gli scarni discorsi durante le attese, si salutavano fra loro tutti con un sussurro, un misto di speranza, pudore, tristezza: “Auguri”, “In bocca al lupo”. “Buona fortuna”. Una lenta processione laica di persone che cercano, senza riuscirci, di fare solo una cosa – la più preziosa, in questo momento, per la nostra cara Nazione-: mettere al mondo un bambino. Ma su loro, nei reportage, solo qualche riga.

Anzi, li hanno presentati, sotto sotto, come i “cattivi” della storia. Quelli che vogliono un figlio “a tutti i costi”. E non c’entra, qui, la maternità surrogata. Chi protesta, chi si indigna, sembra scagliarsi proprio contro l’idea che si possa intervenire, con la tecnologica e la medicina, dove la “natura” fatica ad arrivare. Nel 2023. Eccola, la grande domanda: il vero bersaglio sono, sotto sotto, i “bambini in provetta”, termine gelido per definire i bambini nati attraverso tecniche di riproduzione medicalmente assistita?

In Italia, anche con donatori esterni alla coppia, è legale dopo sentenza della Corte Costituzionale del 2014. E’ questo che non va bene? “GPA (gestazione per altri) E PMA (procreazione medicalmente assistita)= EUGENETICA”, recitava infatti un grande striscione dei manifestanti all’esterno. “Le donne devono capire che i figli si devono fare da giovani, se poi è troppo tardi e non ci riescono più, se ne devono fare una ragione, potevano pensarci prima”, dice il Popolo della Famiglia.

Attivisti e partiti di governo vogliono dare una spallata alla legislazione sulla procreazione medicalmente assistita? Proprio adesso che l’Italia si sta preparando ad affrontare la sfida più drammatica della sua storia: il venir meno della sua popolazione? Perché il mondo della politica, invece di sbraitare per proibire l’evento, non si è imposto per entrarci, per inserire nel programma i “suoi” stand? Quelli del ministero della Salute, degli ospedali della Regione Lombardia. Perché non intervenire per regolamentare e collaborare, se si può? Perché lo stato se ne disinteressa?

Nel solo 2020 quasi il 3% dei bambini nati, sono venuti al mondo grazie all’aiuto delle provette della PMA. Con un crollo demografico vertiginoso e con dati dell‘OMS che parlano di 1 cittadino su 6 con problemi di infertilità, possiamo davvero farne a meno e voltare le spalle alla scienza, alla medicina, anche applicate alla riproduzione umana? Noi, la Terra di Galilei, Fermi, Spallanzani, che hanno contribuito a costruire la scienza mondiale? Il nostro Pico della Mirandola, lo scriveva già nel suo “De dignitate hominis”, nel 1486: la caratteristica dell’uomo è “saper utilizzare la tecnica”. Lo ricordava spesso, questo passaggio, Bertrando Spaventa, maestro di Giovanni Gentile.

Ora che nessuno vuol fare più figli, ha davvero senso mettere sulla graticola questi quattro gatti che vogliono ricorrere a tecniche mediche avanzate per provarci? Se l’Italia cadrà, non sarà per l’arrivo di orde di immigrati o perché i cinesi comprano i nostri porti. L’Italia cadrà, se non ci saranno più italiani. Vicsia Portel

Demografia: di chi è la colpa se la popolazione invecchia? Il “caso Italia”. Anna Meldolesi e Chiara Lalli su Il Corriere della Sera il 28 maggio 2023.

Dobbiamo invertire la rotta con politiche intelligenti e continuative per l’indipendenza economica dei giovani, il lavoro femminile e la parità di genere. Ma non basterà. Per i demografi «nella nostra situazione non c’è alternativa a un’immigrazione consistente»

Questo doppio articolo, pubblicato su «7» in edicola il 26 maggio, fa parte della rubrica del magazine del Corriere «Due punti». Intesi come due punti di vista che qui troverete pubblicati online in sequenza: prima l’articolo di Anna Meldolesi, poi quello di Chiara Lalli. Buona lettura

UNA POPOLAZIONE PIÙ ANZIANA SARÀ ANCHE MENO APERTA ALLE NOVITÀ E MENO CAPACE DI INVENTARE? IL RISCHIO C’È

di ANNA MELDOLESI

Se rappresentasse veramente l’Italia, la Venere influencer dovrebbe avere 48 anni, assai più di quelli che dichiara. Questa infatti è la nostra età media ed è la più alta dell’Unione europea, una delle più alte al mondo. Che la demografia italiana sia un grosso problema è noto a tutti e a tutte: le culle si svuotano, la popolazione invecchia, pensioni e sanità non possono continuare a reggersi sulla ricchezza prodotta da una base troppo ristretta di lavoratori e lavoratrici. Dobbiamo invertire la rotta, con politiche intelligenti e continuative per l’indipendenza economica dei giovani, il lavoro femminile, la parità di genere. Su questo dovremmo essere tutti d’accordo, ma non basterà comunque. Il demografo Massimo Livi Bacci lo ha detto chiaramente: nella situazione italiana non c’è alternativa a un’immigrazione consistente.

E MENTRE LE TECNICHE DI PROCREAZIONE ASSISTITA SI FANNO PIÙ SOFISTICATE, IL CAMBIAMENTO PIÙ RILEVANTE RIGUARDA IL SIGNIFICATO CHE DIAMO AL CONCETTO DI FAMIGLIA, GENITORIALITÀ E FILIAZIONE

Al di là dei record nazionali negativi, oltretutto, esiste un problema di ordine generale che vale per i paesi ad alto reddito. Leggo che in tutto il mondo industrializzato, secondo le proiezioni delle Nazioni Unite, fra trent’anni ci saranno 100 milioni di anziani in più ma la popolazione in età lavorativa conterà 143 milioni di persone in meno. Insomma noi imbianchiamo rapidamente, mentre l’Africa subsahariana si conferma il serbatoio di giovinezza del pianeta. Le politiche migratorie, dunque, sono la base su cui costruire un futuro migliore per tutti. Non so se l’economia sia davvero la più triste delle scienze, ma la demografia probabilmente è la meno divulgata. Una popolazione sempre più vecchia sarà anche meno aperta alle novità e meno capace di inventare? Il rischio c’è, anche se il progresso non è solo una questione di quante persone creative abbiamo, ma anche di quanto ne coltiviamo il potenziale con le politiche per l’istruzione, la cultura e l’innovazione.

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Come diventerà l’Italia: anziani, donne senza lavoro, effetti e rischi della crisi demografica di Federico Fubini

La crisi demografica in Italia? Non c’è al Nord, è drammatica al Sud di Federico Fubini

BIO-ETICA DOMANDE & RISPOSTE - OGNI DUE SETTIMANE CHIARA LALLI E ANNA MELDOLESI SCRIVONO DI UN ARGOMENTO TRA FILOSOFIA MORALE E SCIENZA, TRA DIRITTI E RICERCA. DUE PUNTI DI VISTA DIVERSI PER DISCIPLINA MA AFFINI PER METODO

Una popolazione in declino demografico, almeno, sarebbe più sostenibile dal punto di vista ecologico? Di certo le risorse planetarie sono finite ed è un bene che la bomba demografica sia stata disinnescata dallo sviluppo. Ma meno persone con consumi in crescita (nei paesi emergenti la tendenza è questa) non sono una buona notizia per l’impronta ambientale dell’umanità. Insomma va bene ragionare su come riempire le culle, purché sia chiaro che non c’è solo una piramide demografica da provare a raddrizzare. Il futuro si costruisce lavorando sugli assi portanti - dalla scuola fino all’integrazione - e sempre nella cornice di un’emergenza ambientale di scala epocale. Proprio la crisi climatica, tra l’altro, è destinata a cambiare profondamente la geografia umana del pianeta. Migrare sarà sempre più la soluzione, anziché un problema, come spiega Gaia Vince nel suo Il secolo nomade, fresco di stampa per Bollati Boringhieri.

DESIDERARE DI FARE UN FIGLIO È PUR SEMPRE UN DESIDERIO, DESIDERIO NON È UN OBBLIGO, MA LA NOSTRA LIBERÀ PERSONALE HA DELLE IMPLICAZIONI CHE RIGUARDANO ANCHE GLI ALTRI

di CHIARA LALLI

Fare o non fare un figlio è una scelta personale. È difficile sostenere qualcosa di diverso, è difficile dimostrare che sia un destino o la destinazione d’uso delle femmine degli animali umani. Quanto c’entra l’averlo capito con il fare meno figli? Credo moltissimo. Al fatto che sempre più la maternità sia una scelta e non qualcosa che accade e che deve accadere ripenso ascoltando Giorgia Meloni agli Stati Generali della Natalità lo scorso 12 maggio, quando ha detto «se le donne non avranno una possibilità di realizzare il proprio destino di… desiderio, chiedo scusa, di maternità senza dover rinunciare alla realizzazione professionale». Un desiderio non è un obbligo, ovviamente, ma la nostra liberà personale ha delle implicazioni che riguardano anche gli altri. E questo mica vuol dire che dovremmo avere meno libertà ma che ci sono delle conseguenze che non dovremmo ignorare.

LA CONTRACCEZIONE HA PERMESSO DI CONTROLLARE LA RIPRODUZIONE E DI FARE SESSO SENZA IL RISCHIO DI UN EFFETTO COLLATERALE

Considerare la detanalità come una questione da affrontare non significa obbligare le donne ad avere quattro figli, come ricordare che dopo una certa età è più difficile rimanere incinte non significa che dobbiamo ricominciare a fare figli a vent’anni. Significa provare a essere più razionali e a capire come ci siamo arrivati. Per moltissimo tempo il sesso e la riproduzione sono stati profondamente e misteriosamente intrecciati: per fare un figlio era necessario avere un rapporto sessuale e il sesso poteva causare una gravidanza. Capire come e perché e capire come evitarlo sono stati processi lenti e che hanno poi causato una vera e propria rivoluzione.

La contraccezione ha permesso di controllare la riproduzione e di fare sesso senza il rischio di un effetto collaterale indesiderato. Poi è stato il sesso a non essere più necessario per avere un figlio: la prima bambina nata grazie alle tecniche riproduttive si chiama Louise Brown ed è nata nel 1978. Da allora la riproduzione naturale è stata affiancata da quella artificiale e questo ha comportato non solo la possibilità di rimediare alla sterilità o di evitare patologie genetiche, ma ha cambiato il concetto di famiglia, di genitorialità, di filiazione e ha sollevato molte domande che prima erano solo domande teoriche o fantascientifiche.

È giusto modificare la natura? Che cosa è la natura? Che cosa significa essere madri e quante madri possono esserci? Fare un figlio è una scelta? La maternità è un destino oppure un desiderio? La declinazione al femminile è dovuta al fatto che esiste una disparità biologica importante tra uomini e donne, ed è ovviamente determinata dalla gestazione - almeno fino a quando non esisterà l’utero artificiale. Il cambiamento più rilevante non è solo tecnico ma riguarda i significati e il mondo in cui viviamo.

Nell’Italia senza figli chiudono le scuole: meno 2.600 in 10 anni. "Mancano gli studenti". Corrado Zunino su La Repubblica il 29 maggio 2023. 

Il dossier di Tuttoscuola: nel 2033 gli alunni totali saranno 6 milioni: erano 7,4 nel 2021. Il record negativo al Sud. Vecchione (Svimez): "Contro la denatalità serve investire proprio in istruzione: così all’estero hanno invertito la rotta"

L'Italia chiude le sue scuole, e continuerà a chiuderle nelle prossime stagioni con frequenza crescente. Il crac di un Paese, il suo fallimento ontologico, è tutto qui, nei dati elaborati da Tuttoscuola, da quarant'anni sentinella editoriale del mondo scolastico italiano: nell'ultimo decennio sono stati definitivamente sbarrati i portoni di 2.621 istituti.

Le 393.000 nascite del 2022, minimo storico nella storia del Paese all'interno di un autunno demografico iniziato nel 2009, sono il segnale dell'inaridimento della comunità intera e la sua prima istituzione - la scuola, al centro di una nazione secondo il pensiero di Piero Calamandrei - subisce l'impatto più forte e visibile.

Quanto costa un figlio nel primo anno di vita? Tra i 7 e i 17 mila euro: i conti. Valentina Iorio su Il Corriere della Sera il 28 maggio 2023.

 I dati di Federconsumatori

Durante il primo anno di vita, il costo di un figlio va dai 7.065,07 euro fino a un massimo di a 17.030,33 euro. Rispetto al 2021 i costi minimi sono aumentati del 5%, quelli massimi dell’8%. Per latte e pappe le famiglie spendono tra il 5 e il 7% in più rispetto allo scorso anno. Per un passeggino l’aumento può arrivare fino al 27% in più, per una culla fino al 14%. Anche il costo dei pannolini è lievitato (+10% per i prodotti più economici): la spesa annua nel 2023 oscillerà tra i 547,50 e i 1.277,80 euro. Aumenta anche il costo delle visite mediche (+4% per la spesa minima, +8% per la massima), per le quali si spenderanno tra i 962,5 e i 1.781,6 euro. A fare il punto dei rincari è l’Osservatorio Nazionale Federconsumatori, che ha aggiornato il consueto monitoraggio sui costi per mantenere un bambino nel primo anno di vita.

L’Iva al 5% e i bonus sono insufficienti

«Il ministero delle Imprese e del Made in Italy, nei giorni scorsi, ha dato mandato a Mr Prezzi di convocare al più presto una riunione della nuova Commissione di allerta rapida sui rincari dei prodotti per l’infanzia. «Appare evidente, infatti, che, nonostante la riduzione dell’Iva al 5%, i benefici per i consumatori sui prezzi di latte in polvere, pannolini e simili sono pressoché inesistenti», afferma l’associazione in una nota. Anche i bonus disposti dal governo, a detta di Federconsumatori, sarebbero «ancora insufficienti» e non rappresenterebbero «una soddisfacente certezza per fare programmi stabili».

Usato e acquisti online per risparmiare

Per risparmiare molte famiglie ricorrono all’usato o agli acquisti online. Comprando in rete il risparmio sull’importo minimo di spesa per il mantenimento di un bimbo nel primo anno di vita è del 29%, mentre su quello massimo del 34%. I margini di risparmio legati all’acquisto online si sono ridotti rispetto al 2021, quando si attestavano rispettivamente al 31% per i costi minimi e al 47% per i costi massimi, evidenzia lo studio. Il canale dell’usato, che consente di risparmiare da un minimo del 55%, fino ad un massimo del 62%, risulta il più conveniente per molte famiglie.

Animalisti in rivolta: "Perché si chiama Francesco?" Papa Francesco sgrida una signora: “Mi dice “benedica il mio bambino”, ma era un cagnolino”. Redazione su Il Riformista il 12 Maggio 2023. 

“All’udienza mercoledì passavo ed è arrivata una signora, cinquantenne come me. Lei apre una borsa e dice “benedica il mio bambino”, ma era un cagnolino. Lì non ha avuto pazienza. Io ho sgridato la signora”. A raccontarlo è Papa Francesco nel corso del suo intervenuto, in mattinata, agli Stati Generali sulla Natalità, dove era presente anche la premier Giorgia Meloni.

L’episodio riferito dal Pontefice si è verificato “quindici giorni fa” con Bergoglio che ha liquidato la signora con un “tanti bambini hanno fame e lei col cagnolino”. Esternazioni che non sono piaciute all’Ente nazionale protezione animali, con la presidente Carla Rocchi che a LaPresse ha così commentato la vicenda: “Chi non ama gli animali non ama neanche i bambini perché chi è capace d’affetto lo dà agli animali e ai bambini. Siamo sicuri che se il Papa ci riflette un po’ si convincerà anche lui. Quella del Papa è un’affermazione che il Papa potrebbe riconsiderare perché laddove c’è amore, c’è amore per tutti. Del resto lo dice anche la Chiesa che l’amore di Cristo è illimitato”.

Rocca prosegue: “Mi domando molte volte perché il Papa si è voluto chiamare di Francesco“, in riferimento a San Francesco d’Assisi e al rapporto che aveva con gli animali. “Il Papa dovrebbe capire che l’amore per gli animali non prescinde dall’amore per i bambini. Una persona può volere bene e gli animali. Non si capisce per quale ragione il Papa debba vedere in maniera antitetica l’amore per i bambini con quello per gli animali” aggiunge.

Un caso curioso quello che ha visto protagonista il capo della Chiesa, non nuovo a siparietti del genere. Nel gennaio 2022 infatti criticò la scelta di alcune famiglie di preferire gatti e cani ai figli: “Oggi la gente non vuole avere figli, almeno uno. E tante coppie non vogliono. Ma hanno due cani, due gatti. Sì, cani e gatti occupano il posto dei figli”.

Parole che provocarono la reazione delle organizzazioni ambientaliste con Gianluca Felicetti, a capo della Lega anti vivisezione, che aveva così replicato alle esternazioni di Bergoglio: “E’ brutto mettere sempre in alternativa umani e altri animali. Peraltro la maggior parte di cani e gatti vivono in famiglie con figli! E questo fa bene ai piccoli umani, e ai quattrozampe tanto più se adottati dalla strada o da un rifugio”.

La verità sul perché non facciamo più figli. ELEONORA VOLTOLINA – THE WHY WAIT AGENDA su Il Domani il 01 maggio 2023

Ecco la prima puntata della nuova inchiesta sostenuta dai lettori di Domani: per approfondire e dare luce al tema del fare (o non fare) figli oggi in Italia

Se facciamo sempre meno figli, vuol dire che il desiderio di essere genitori è sempre meno diffuso? Non è così: infatti il fertility gap, il divario tra figli desiderati e figli avuti, è sempre più ampio

Una delle cause del calo delle nascite è l’aumento dei casi di infertilità: una persona su sei ne soffre. E se ne parla troppo poco.

Facciamo sempre meno figli. In tutta Europa, specie in Italia. Allarme culle vuote. Allarme equilibri pensionistici. Allarme demografia. «E vabbè, fare bambini è una scelta personale!», dirà qualcuno: se non ne facciamo, vorrà dire che non ne vogliamo.

Che la gente ha altre priorità, altri desideri: mica si può imporre alle persone di voler diventare genitori. Verissimo. La libertà di scelta è fondamentale. Ma i dati raccontano che in quasi tutti i paesi avanzati le persone desiderano fare due figli, in media. E però poi ne fanno un numero molto inferiore. In Italia, a fronte di quei due desiderati, il numero effettivo di figli per donna è ormai sceso a 1,25.

Si chiama “Fertility gap”. È il divario tra figli desiderati e figli avuti, ed è una potente rappresentazione statistica di quanto la lettura “Se non ne facciamo, vorrà dire che non ne vogliamo” sia fuori fuoco. A volte sì, certo: esistono i “child-free” per scelta. Ma molte persone invece non fanno figli perché non possono, non riescono, perché trovano troppi ostacoli: e restano “child-less”. Nel primo caso c’è una realizzazione personale che passa per la scelta consapevole di non fare figli; nell’altro un senso di frustrazione, e mancanza, e sofferenza nel non aver potuto realizzare il proprio progetto di famiglia.

UN’EPIDEMIA INVISIBILE

Una persona su sei, al mondo, soffre di infertilità. L’ha ribadito di recente l’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms), spiegando in un report che «comprendere l’ampiezza del fenomeno dell’infertilità è essenziale per poter sviluppare interventi appropriati, monitorare l’accesso a trattamenti per la fertilità di qualità, e per limitare i fattori di rischio e le conseguenze dell’infertilità».

Non si può parlare dunque di calo delle nascite senza considerare tutte le persone che vorrebbero figli ma che non riescono a farne per motivi legati alla sfera medicale. Ciascuno di noi può guardarsi intorno e contare.

Il 17 per cento della popolazione in età, come si dice, “fertile”. Può essere un amico, un collega. Un familiare. «Ma no, dai, lo saprei, me l’avrebbe detto!». No. Lo stigma è ancora potente, e tante persone non ne parlano apertamente, tengono nascosti gli esami, le terapie, gli eventuali tentativi di procreazione assistita. Gli aborti spontanei. Il dolore fisico, quello psicologico.

«Ma no, dai, quelli hanno già un figlio, mica possono essere sterili…». Ancora, no. C’è l’infertilità primaria, quando non si riesce a concepire mai: il limite è tracciato, nella definizione scientifica, a 12 mesi di rapporti sessuali completi non protetti senza ottenere una gravidanza.

Ma c’è anche quella secondaria, ancor più invisibile: famiglie con un figlio unico non per scelta, ma perché qualcosa impedisce nuove gravidanze. O anche con più figli – perché l’infertilità secondaria è subdola, può sopraggiungere in ogni momento, e impedire l’arrivo di quel “figlio in più” che si desiderava.

LE SOLUZIONI DELLA MEDICINA

Sfatiamo qualche mito. Solo in un terzo circa dei casi la “responsabilità” dell’infertilità è della donna: in altrettanti casi è dell’uomo, e poi c’è un 25-30 per cento di infertilità “sine causa”. Nelle donne l’infertilità può essere causata da problemi alle ovaie, all’utero, alle tube, al sistema endocrino, oppure a condizioni come menopausa precoce, endometriosi e così via.

Negli uomini molte delle cause ruotano intorno al liquido seminale: quanto si è in grado di produrne e di emetterne, oppure la forma e la performance di velocità degli spermatozoi. Nella maggior parte dei casi si arriva a fare esami specifici solo quando il figlio cercato tarda a venire: così la diagnosi arriva tardi.

Oggi la medicina, per fortuna, aiuta molte persone infertili: inseminazione artificiale e fecondazione in vitro sono le più frequenti procedure di pma, la procreazione medicalmente assistita. Ma la percentuale media di successo è soltanto del 30 per cento. Un sogno che si realizza, per alcuni. Per molti altri, una speranza frustrata e il grande dilemma: fin quanto andare avanti? Quando fermarsi?

L’Oms nel suo report ricorda che tra i diritti umani c’è anche quello di decidere quanti figli fare e quando farli, e sottolinea che l’infertilità può negarne la realizzazione: «Perciò occuparsi di infertilità è un elemento importante per realizzare il diritto degli individui e delle coppie di fondare una famiglia».

SEMPRE PIÙ TARDI

L’incremento dell’infertilità registrato negli ultimi decenni dipende anche dalla perdita di fertilità legata all’avanzare dell’età. Questo riguarda specialmente (ma non solo) le donne. Le principali organizzazioni mediche concordano nell’indicare il momento più fertile, per una donna, nella decade tra i venti e i trent’anni, e un calo repentino della fertilità dopo i 35-37. «Ma non è vero, io ne ho avuti due di fila senza problemi alle soglie dei quaranta. E mia cugina è rimasta incinta per sbaglio a 44! Con un solo ovaio funzionante!». Certo, possibile. La statistica però dice che è meno probabile. Che tra i 35 e i 40, e ancor più dopo i 40, restare incinta, riuscire a portare a termine la gravidanza e mettere al mondo un bebè sano è, dati alla mano, più difficile. Più raro.

Nessuno dice che bisognerebbe precipitarsi a fare figli a 25 anni. I figli si dovrebbero fare solo quando (e se) se ne sente il desiderio e si ha voglia di prendersi quella responsabilità. Ma conoscere i fatti della fertilità è fondamentale per poter soppesare i pro e i contro e fare le proprie scelte riproduttive liberamente, a qualsiasi età.

Rispetto alla natalità l’Europa è messa male, e l’Italia peggio. La media registrata per il 2022 dall’Eurostat, l’istituto di statistica europeo, è di 1,53 figli per donna: il Paese che dove si fanno più bambini è la Francia con 1,84. La Germania sta a 1,58, il Regno Unito a 1,61. L’Italia ha uno dei tasso di fecondità peggiori dell’intero continente: peggio del nostro 1,25 fanno solo la Spagna con 1,19 e Malta con 1,13.

Inoltre, l’Italia detiene il primato assoluto dell’età media delle donne al primo figlio: 31 anni e mezzo, la più alta d’Europa. La media europea è 29 anni e sette mesi e in Francia, che come visto è il Paese con i dati più rosei sulla fertilità, è appena sopra i 29. E che sarà mai, dirà il solito qualcuno. Le italiane fanno figli tre anni più tardi delle francesi, mica sarà una tragedia.

SENZA FRATELLI

Non è una tragedia, forse, ma fare figli tardi porta conseguenze. Per esempio il fatto che più tardi si comincia, meno tempo si ha a disposizione per affrontare eventuali problemi nel concepimento e nella gravidanza, e una volta nato un figlio, per metterne in cantiere altri.

Lo scarto di età tra genitori e figli fa sì che gli anni da passare insieme siano sempre meno; che si diventi nonni sempre più tardi, con meno energie per “viversi” i nipoti; e che i bisnonni si stiano praticamente estinguendo. E ancora, andiamo verso una società senza più fratelli, senza più zii. Il tasso di fecondità sotto il 2,1 – il cosiddetto “tasso di sostituzione”: per ogni due genitori che muoiono, due figli li rimpiazzano – vuol dire anche quello.

E dunque qualche domanda bisogna farsela. Se le persone, in Italia, vorrebbero in media due figli. Se i dati dicono che cominciano a (cercare di) farne ad un’età sempre più avanzata, quando ormai è assodato che più si va avanti con gli anni più aumenta la probabilità di affrontare problemi di infertilità. Se alla fine le donne in Italia si ritrovano, in media, a fare praticamente la metà dei figli che desidererebbero. E’ evidente che qualcosa, nel meccanismo, si è inceppato.

Ma non è “qualcosa”, in realtà. E’ una complessa somma di fattori tra loro molto differenti, a volte sovrapposti e intersecati, che crea un ambiente ostile al fare figli. Al tema dell’infertilità si affianca quello della “fertility awareness”, cioè di quanto le persone – specie le più giovani – conoscano (poco) il proprio corpo e siano effettivamente (in)consapevoli di come funziona la fertilità, dei suoi tempi, di cosa può metterla a rischio, di cosa può invece favorirla.

Una minaccia

C’è anche il tema legato al lavoro. Quanto il mercato italiano è accogliente e inclusivo per le persone, o meglio, per le donne con figli? Poco. Già il tasso di occupazione femminile generale è drammaticamente basso, intorno al 50% per la fascia in età lavorativa, venti punti percentuali sotto la media UE. Una donna su due non lavora e quindi non ha un reddito proprio, con conseguenze nefaste sull’autonomia e la possibilità di autodeterminazione.

Se poi si va a scandagliare la situazione delle lavoratrici madri si scopre che danno le dimissioni con frequenza tripla rispetto ai lavoratori padri (quasi 38mila sulle 52mila dimissioni di persone con figli del 2021 secondo l’Ispettorato nazionale del lavoro), e che molto spesso danno come motivazione per queste dimissioni l’impossibilità di conciliare le attività di madri con il lavoro a causa della mancanza di servizi. Motivazione che non ricorre pressoché mai nel caso di dimissioni di padri lavoratori, che anzi si dimettono soprattutto per cambiare azienda. Cioè: gli uomini con figli si dimettono per fare carriera. Le donne con figli si dimettono rinunciando alla loro carriera.

I dati sono tanti. Gender pay gap: le donne guadagnano in media, anche a parità di mansioni, meno degli uomini, quindi se uno dei due genitori deve restare a casa, si sceglie di solito di rinunciare allo stipendio più basso.

Gli stereotipi di genere scoraggiano ancor oggi le donne dall’intraprendere studi tecnico-scientifici, che sono quelli che però garantiscono maggiori opportunità di lavoro e stipendi più alti. Il soffitto di cristallo impedisce alle donne, salvo rare eccezioni, di diventare top manager. In troppe affrontano ancora demansionamenti, mobbing e stop ai loro percorsi di carriera quando rientrano dal congedo maternità; e se per fortuna le dimissioni in bianco sono state rese illegali, e non possono essere più usate per licenziare una lavoratrice che comunica la sua gravidanza, il percorso per chi vuole il pane e le rose, e non si rassegna a una vita dicotomica in cui o sei madre o lavori, è ancora in salita.

I DANNI DEL PATRIARCATO

In tutto questo, c’è poi l’altra metà del cielo. Perché i figli, almeno nella maggior parte dei casi, si fanno in due. Gli uomini come categoria hanno beneficiato e tuttora beneficiano del sistema patriarcale della società italiana, di un mercato del lavoro tutto sbilanciato in loro favore, e nella visione stereotipata del lavoro di cura come “una cosa da donne”. Ancor oggi dedicano ai lavori di casa una frazione del tempo delle donne, e in generale il loro contributo alla cura dei bambini, degli anziani e dei familiari non autosufficienti è molto minore di quello delle loro compagne.

Ma bisogna anche ammettere che quegli uomini che invece credono nella cosiddetta “genitorialità condivisa”, nell’essere genitori in maniera paritaria, spartendosi fifty-fifty oneri e onori, diventando interscambiabili per i propri figli e costruendo con loro rapporti intensi basati sulla cura quotidiana, non hanno vita facile.

Fin dalla partenza: il congedo di maternità in Italia dura 5 mesi, e si può estendere fino a 12 con una riduzione dello stipendio. Mentre il congedo di paternità esiste solamente da un decennio, e ci sono volute battaglie e presidi e raccolte di firme per far sì che quell’unico, misero giorno di congedo paternità introdotto nel 2012 come misura sperimentale non venisse cancellato e anzi crescesse fino ad arrivare agli attuali dieci giorni. Ma cosa sono dieci giorni di fronte a cinque mesi? Qui lo stereotipo di genere è benedetto perfino dalla legge: tu padre non conti, non importa che ti occupi del bebè, quello è compito della mamma.

NUOVI PADRI

Tra l’altro i padri – non essendo l’attesa di un figlio evidente, nel corpo, come quella delle madri – troppo spesso nemmeno lo richiedono, quel congedo di paternità per il quale si è tanto lottato (fino a portare, con Titti di Salvo, Riccarda Zezza e molti altri, alle più alte cariche dello Stato appena prima che scoppiasse la pandemia una raccolta di firme che chiedeva di assicurare il rifinanziamento della misura). Forse perché non lo considerano importante? A volte.

Ma più spesso non prendono il congedo perché si vergognano a chiederlo; perché la cultura patriarcale li incatena al ruolo di maschi breadwinner che non si devono interessare ai cambi di pannolino. Devono restare focalizzati e dimostrare che il fatto di essere diventati padri non li distrarrà – come è normale che accada alle madri! – e non li renderà meno efficienti sul lavoro – di nuovo, quello succede alle madri! Devono confermare il paradosso che numerosi studi hanno ribattezzato “motherhood penalty vs fatherhood bonus”. E cioè che i datori di lavoro tendono a credere che gli uomini con la paternità migliorino, diventando più affidabili; e che invece le donne peggiorino, perdano concentrazione e motivazione – come se il ruolo di madre si mangiasse, nel loro cervello, tutti gli altri. Insomma, un gigantesco stereotipo che danneggia tutti.

RIDURRE IL FERTILITY GAP

In più la mancanza di servizi adeguati, di posti negli asili nido (e con rette ragionevoli), di orari e calendari scolastici compatibili con quelli lavorativi, la crescente difficoltà a trovare servizi di babysitting, il fatto che i nonni talvolta non vivano vicini, e non sempre siano in condizione di occuparsi dei nipoti (o vogliano farlo), sono tutti fattori che scoraggiano la scelta di fare un figlio, o un figlio in più.

Qui la politica può fare la differenza, in un senso o nell’altro. Può incentivare o disincentivare le nascite, può semplificare la vita ai genitori o complicargliela. Può rendere più o meno sostenibile la spesa da affrontare per ogni figlio, venire incontro ai genitori creando una rete di servizi che permetta loro di gestire la famiglia senza dover abbandonare il lavoro… oppure no.

Il caso della Francia insegna: il loro tasso di fecondità – quello che si avvicina di più, in tutta Europa, all’agognato 2 – è il frutto di decenni di politiche di incentivi alla natalità, di servizi all’infanzia diversificati e diffusi sul territorio (gli asili nido di condominio, le maman de jour…) e di possenti sgravi fiscali per le famiglie con figli. Si può fare una verifica empirica in ogni località turistica, mettendosi a origliare la conversazione delle famiglie in vacanza in cui i figli siano tre. Parlano quasi sempre francese, e non è un caso.

In Italia, invece, non abbiamo mai avuto più che qualche “bonus bebè” random, e molte promesse non mantenute. Chi sceglie di far figli si deve arrangiare. E così non sorprende che sempre più coppie scelgano di mettere in sordina il desiderio di diventare genitori.

La scelta individuale diventa poi trend collettivo se sempre più persone rinunciano a fare figli, o cominciano a cercarli alle soglie dei quarant’anni. Senza contare tutti coloro che a priori non hanno scelta, dato che la normativa italiana vieta l’accesso alla pma a chi non sia in una coppia eterosessuale stabile: dunque escludendo di netto coppie lesbiche e donne single.

Partiremo alla scoperta di questo mondo sommerso attraverso una inchiesta a puntate che può essere finanziata direttamente da voi lettori, se lo vorrete. Per capire perché oggi le persone, e specialmente le donne, alla domanda «Quando farai figli?» rispondano «Non certo domani. Forse, un domani…».

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ELEONORA VOLTOLINA – THE WHY WAIT AGENDA

O fai figli o fai carriera, per gli italiani diventare madre è un rischio per il lavoro: il sondaggio sulla denatalità. Redazione su Il riformista il 17 Aprile 2023

Per la prima volta nella storia dall’Unità d’Italia, nel 2022 i nati in un anno sono scesi sotto la soglia delle 400mila unità. È minimo storico. Denatalità, politiche per la natalità, la scelta di diventare genitori, le possibilità di avere un figlio, le ripercussioni di tale cambiamento nella vita di ognuno. È su questi temi che ragiona il sondaggio Quorum/Youtrend per SkyTg24 che oltre alle solite rilevazioni sullo stato dei partiti, il gradimento dei leader e l’efficacia del governo ha posto all’attenzione degli italiani una serie di quesiti su uno dei temi più caldi e sentiti del momento.

Dall’indagine risulta che il 62% degli italiani è preoccupato per il tema denatalità. È l’elettorato dei partiti al governo la fetta di italiani che sembra essere più preoccupata dal tema, oltre alle fasce più anziane di popolazione e ai residenti al Nord. Secondo il 25% degli intervistati è la crisi economica a causare la denatalità, per il 22% “mancano le prospettive per i giovani”, per il 15% è il “poco sostegno alle famiglie”. Il 42%, potendo, farebbe un figlio ma pesano timori per stabilità economica e assenza di prospettive di crescita per i giovani. Il 30% invece dice che probabilmente non farebbe un figlio.

Tra chi sceglierebbe di non avere figli il 44% argomenta parlando dell’insicurezza economica, il 24% sottolinea come manchino prospettive per i giovani, il 13% dice di non voler avere figli. Oltre un italiano su due, il 55% degli intervistati, ritiene che avere dei figli rischia concretamente di danneggiare seriamente la carriera di una donna. Al contrario, l’84% non sostiene che la stessa cosa succeda agli uomini. Nel Meridione, tra gli elettori di FdI e tra chi non ha figli, l’idea maggioritaria è che non siano danneggiate nemmeno le donne.

Per contrastare la crisi della natalità in Italia il provvedimento principale indicato è l’approntare misure economiche che diano ai giovani la possibilità di crearsi una vita stabile molto prima di quanto succeda oggi. Lo ha detto il 42% delle persone intervistate, molto più di quanti vorrebbero la creazione di nuove strutture a sostegno della genitorialità (24%) o l’ideazione di più bonus monetari come quelli già presenti (15%).

Il sondaggio è stato svolto con metodologia CAWI tra il 12 e il 13 Aprile 2023 su un campione di 802 intervistati rappresentativi della popolazione maggiorenne residente in Italia, indagata per quote di genere ed età incrociate stratificate per titolo di studio e ripartizione ISTAT di residenza.

Un Paese che ha smesso di fare figli L’Istat: è record negativo delle nascite. Maurizio Zoppi su L’Identità l’8 Aprile 2023

Cercasi neonati in Italia. Questo potrebbe essere l’annuncio che lo Stivale dovrebbe usare in questi tempi. I numeri sciorinati dall’Istat rispetto alla Natalità del Bel Paese sono davvero terrificanti. L’ultimo rapporto Istat descrive una situazione demografica allarmante. Dal 1861 a oggi non era mai successo, neppure in tempo di guerra. Il 2022 è stato il primo anno dall’unificazione della penisola nel quale i nuovi nati si sono attestati al di sotto delle 400mila unità, soglia finora mai violata. Nel corso dello scorso anno i nascituri sono stati 393mila, dando vita a un dato che riflette l’emergenza che la popolazione italiana deve necessariamente affrontare con molta attenzione. La mortalità si conferma elevata, con più di 12 morti e meno di 7 neonati ogni 1000 abitanti. Le speranze di ottenere un bilancio positivo nei prossimi anni, a meno di interventi strutturali da parte dello stato, sembrano essere riposti unicamente nel bilancio netto tra immigrazione in entrata ed immigrazione in uscita. L’unica regione con un tasso di fecondità molto alto (1,51 per donna) è il Trentino Alto Adige, luogo in cui Il 69,4% della popolazione appartiene al gruppo linguistico tedesco, al gruppo italiano appartiene il 26% degli altoatesini, mentre i ladini sono circa il 4%. In aggiunta ai 3 gruppi linguistici storici vivono attualmente in Alto Adige circa 46 mila stranieri, 31 mila dei quali provenienti da altri paesi dell’Unione Europea. Insomma gli altoatesini, sono tecnicamente italiani, essenzialmente “sulla carta”. Liguria, Friuli-Venezia Giulia e Umbria si confermano le regioni più anziane. Oltre il Trentino-Alto Adige che vince la medaglia d’oro per indice di natalità, ci stanno anche la Campania e la Sicilia. Anche gli ultracentenari riscrivono un altro record, sfiorando la soglia delle 22mila unità, 2mila in più dell’anno precedente. Nel corso degli ultimi 20 anni, nonostante un temporaneo calo tra il 2015 ed il 2019, il loro numero è triplicato, confermando l’Italia tra le nazioni più longeve al mondo. Dal 2014 in poi la forbice tra nascite e morti si è allargata a tal punto da non poter essere più compensata dai fenomeni migratori. Tra le cause di questo perpetuo calo spiccano non solo le condizioni economiche e sociali delle famiglie, ma anche il progressivo invecchiamento della popolazione femminile nell’età solitamente considerata riproduttiva (dai 15 ai 49 anni).Un fatto è certo: la popolazione italiana sta invecchiando e si sta riducendo al ritmo più veloce dell’Occidente, costringendo il paese ad adattarsi a una popolazione di anziani in forte espansione che lo pone in prima linea in una tendenza demografica globale che gli esperti chiamano “tsunami d’argento”. Ma lo Stivale, deve affrontare un doppio colpo demografico, con un tasso di natalità in drastico calo che è tra i più bassi d’Europa. La premier Giorgia Meloni ha dichiarato ai giornalisti, tempo fa, che l’Italia è “destinata a scomparire” a meno che non cambi. Nel febbraio scorso, il governo guidato da Fratelli di Italia, ha approvato un nuovo “Patto per la terza età”, che dovrebbe gettare le basi per il risanamento sanitario e sociale per la crescente popolazione di anziani in Italia. “Rappresentano il cuore della società, e un patrimonio di valori, tradizioni e saggezza preziosa”, ha detto la Meloni, aggiungendo che la legge impedirebbe l’emarginazione e il “parcheggio” degli anziani negli istituti. “Prendere cura dei vecchi significa prendersi cura di tutti noi”, ha detto. Se l’Italia non si impegna seriamente a incoraggiare le giovani famiglie e le donne che lavorano ad avere figli, “rimarrà e sarà per sempre un paese che invecchia”, ha affermato Alessandro Rosina, uno dei principali demografi italiani e autore di una “Storia demografica d’Italia. “La combinazione di bassa occupazione, fuga di giovani professionisti e famiglie, bassi tassi di natalità e aspettativa di vita radicalmente aumentata, è stato un disastro demografico” Ha esclamato il docente universitario. La realtà del nuovo mondo grigio rappresenta un test decisivo per l’Italia, rendendola un laboratorio per molti paesi occidentali con popolazioni che invecchiano. Alcune regioni italiane sperano di ritardare quella bomba ad orologeria demografica, prolungando il periodo in cui gli anziani possono lavorare, essere autosufficienti e contribuire alla società. Quindi, non rappresentare un salasso finanziario. Anche il fondatore di Tesla, Elon Musk, l’uomo più ricco del mondo, tempo fa ha commentato le terribili prospettive italiane. “L’Italia non avrà popolo se queste tendenze continuano”, ha twittato. La crisi demografica non è solo un problema sociale ma soprattutto delle imprese presenti sul territorio. Gli economisti avvertono che se l’Italia non invertirà la tendenza, la sua già debole crescita economica diminuirà e diventerà impossibile finanziare un welfare adeguato e pensioni statali. Ma le imprese si stanno cooptando nella politica familiare per cercare di colmare le lacune, ei politici locali sembrano felici di passare loro il testimone. Un esempio? Il costruttore navale, Fincantieri, con sede a Trieste, tempo fa ha inaugurato il primo di una serie di asili nido che sta costruendo e finanziando nelle città in cui opera. L’asilo ci sta. Adesso, si spera, arrivano i bambini.

Natalità ai minimi storici. L’Italia è sempre più un Paese per vecchi. Panorama il 07 Aprile 2023

Secondo l’Istat 2050 avremo 5 milioni di abitanti in meno. Papa Francesco: “Calo natalità impoverisce il futuro di tutti”

Italia Paese per vecchi. E non più solo per modo di dire. Come ha illustrato il presidente dell'Istat Gian Carlo Blandiardo durante gli Stati Generali della Natalità, “se non verrà invertita la rotta della natalità con misure strutturali nel 2050 l'Italia avrà 5 milioni di abitanti in meno”. Di questi, 2 milioni in meno saranno giovani. Secondo i numeri illustrati dall’Istat, nel 2050 solo poco più di una persona su due sarà in età da lavoro, con un 52% di persone tra i 20 e i 66 anni e le nascite annue potrebbero scendere nel 2050 a 298mila unità contro le 500mila previste come obiettivo per il Paese. A intervenire con un appello dal Vaticano anche Papa Francesco. “Il tema della natalità rappresenta una vera e propria emergenza sociale” ha commentato il pontefice “Non è immediatamente percepibile, come altri problemi che occupano la cronaca, ma è molto urgente: nascono sempre meno bambini e questo significa impoverire il futuro di tutti; l'Italia, l'Europa e l'Occidente si stanno impoverendo di avvenire.È una povertà tragica, perché colpisce gli esseri umani nella loro ricchezza più grande: mettere al mondo vite per prendersene cura, trasmettere ad altri con amore l'esistenza ricevuta".

 Estratto dell’articolo di Luca Cifoni per “il Messaggero” il 21 aprile 2023.

«Non si possono tassare in modo uguale i singoli e le famiglie con figli». In Parlamento per riferire sul Documento di economia e Finanza, Giancarlo Giorgetti torna sulla strategia per tentare di arginare la denatalità. Il ministro parla della necessità di «immaginare un'azione choc» ma allo stesso tempo sembra voler fare un esercizio di realismo quando osserva che certamente gli incentivi fiscali da soli non bastano e che servono misure su vari fronti. 

Per di più le politiche devono essere «costanti nel tempo» perché «si tratta di un processo lungo e graduale, che per poter dare frutti richiede anche un notevole grado di condivisione politica».

Insomma - sembra voler dire il ministro smarcandosi dalle polemiche di questi giorni - il sostegno alla natalità e alla genitorialità non dovrebbe essere un tema di divisione tra maggioranza e opposizione, visto che l'orizzonte temporale va ben al di là di quello di una legislatura. 

Giorgetti vuole anche precisare quel che ha in mente: «Non è nemmeno il caso di parlare di incentivi, ma piuttosto di disincentivi da eliminare». Tra i disincentivi rientrano quelli legati all'occupazione, per cui bisogna «incentivare il tasso di partecipazione al lavoro in particolare femminile» e certamente anche quelli di tipo economico; che possono essere rimossi sia con il potenziamento dell'Assegno unico e universale (Auu), sia con un intervento specifico sulla tassazione. […]

L'idea intorno alla quale si ragiona, che richiede però un'attenta verifica finanziaria, sarebbe ripristinare una detrazione d'imposta o una deduzione dal reddito uguali per tutti i contribuenti, in modo da sottolineare la valenza sociale di paternità e maternità. La detrazione d'imposta se molto sostanziosa e soprattutto se relativa a più figli avrebbe lo svantaggio di beneficiare solo parzialmente i redditi bassi, che pagano un'imposta troppo bassa rispetto allo "sconto" teorico. 

Mentre la deduzione dal reddito (si è parlato di 10 mila euro ma è un importo tutto da verificare) avrebbe un effetto più favorevole sui redditi più alti, sottoposti ad un prelievo maggiore. Al momento resta decisamente sullo sfondo l'ipotesi di una rivoluzione più drastica come quella che porterebbe all'introduzione del quoziente familiare sul modello francese (che comunque non sarebbe facile da trasferire nell'ordinamento italiano).  […]

Estratto dell’articolo di Francesco Bisozzi per “il Messaggero” il 21 aprile 2023.

«In Italia una famiglia spende in media per ogni figlio minorenne circa 740 euro, mentre prima del Covid e della fiammata dell'inflazione l'asticella si posizionava a quota 645 euro». 

A fare i conti è Adriano Bordignon, presidente del Forum delle Associazioni Familiari. «Le spese obbligate sono aumentate esponenzialmente, pesano soprattutto quelle per la casa, per il carrello della spesa e per i trasporti, che da sole assorbono più di 400 euro per ogni figlio minorenne». Più caro fare figli al Nord, dove sempre stando ai calcoli del presidente del Forum delle Associazioni Familiari la spesa mensile per un figlio minorenne oggi come oggi arriva a superare la soglia degli 820 euro.

Al centro è necessario invece un budget pari a circa 810 euro, che diventano 580 euro al Sud e nelle isole. Per effetto dell'inflazione, che ha in parte risparmiato le spese ricreative e culturali e quelle per i servizi in generale, le famiglie meno abbienti hanno visto crescere in misura più accentuata la spesa per i figli rispetto a quelle agiate. Nel caso dei nuclei in condizione di povertà, infatti, il carrello della spesa rappresenta un terzo della spesa per un figlio. […] 

Va in questa direzione la proposta del sottosegretario al Made in Italy, Massimo Bitonci, e del presidente della commissione Bilancio e Finanze del Senato, Massimo Garavaglia, che puntano a introdurre una deduzione monstre per i figli a carico, di 10 mila euro a figlio (a prescindere dal livello della dichiarazione dei redditi).

«Se il governo imboccherà questa strada con decisione, le famiglie potranno finalmente tornare a progettare. Investire sulla natalità è strategico e improrogabile. La variabile incide in via diretta su pil, occupabili, produttività, oltre che sulla sostenibilità del welfare, del sistema pensionistico e di quello sanitario», continua Bordignon. […]

Estratto dell'articolo di Margherita De Bac per il "Corriere della Sera" il 23 aprile 2023.

Prima del passaggio istituzionale definitivo, le polemiche sulla gratuità degli anticoncezionali irrompono nella politica. Il consiglio di amministrazione dell’agenzia del farmaco Aifa sarà chiamato presto a ratificare la decisione del comitato prezzi dello stesso ente, il Cpr, per portare a termine l’iter burocratico ed è assai improbabile che cambierà rotta.

Però dalla destra si alzano già esortazioni a tornare indietro. Lavinia Mennuni, senatrice di Fdi, riassume la posizione del partito: «Sono entrati in un ambito di pertinenza non tecnica ma politica. Si fermino, tanto più che è un organismo in scadenza. Oggi la priorità è un’altra, investire le risorse a favore della natalità». Plaude il Pd: la deputata Michela Di Biase esclama «finalmente. Da anni aspettavamo questa svolta che libera da un carico di spesa milioni di cittadine».

Aifa ha stimano in 140 milioni il peso economico legato alla rimborsabilità delle pillole anticoncezionali, in tutto 12 principi attivi suddivisi in tre generazioni in ordine di uscita sul mercato. Il presidente della federazione degli ordini dei medici Filippo Anelli chiarisce però che il medicinale si può avere solo presentando la ricetta medica rossa.

Con la bianca si resta soggetti al pagamento. «È un farmaco da usare con attenzione perché ha effetti collaterali», avverte Giovanna Scroccaro, di Aifa. Maria Rachele Ruiu, di Pro Vita, scorge un pericolo per la salute delle donne: «Non è una panacea». Sconcerto in casa Family Day: «Così andiamo in direzione opposta rispetto al problema della denatalità». Dal ministero della Salute nessuna dichiarazione ufficiale e il sottosegretario Marcello Gemmato, Fdi, si riserva di commentare dopo il sì definitivo dell’agenzia presieduta dal virologo Giorgio Palu.

[…]

La pillola anticoncezionale aumenta del 20% il rischio di cancro al seno, ma protegge da altri tumori. Vera Martinella su Il Corriere della Sera il 3 Maggio 2023 

Un nuovo studio ha indagato anche i più moderni contraccettivi ormonali a base di soli progestinici, che risultano molto simili a quelli «tradizionali» contenenti sia estrogeni che progestinici. Le spiegazioni dell'esperto

Anche la pillola anticoncezionale a base di soli progestinici, più recente rispetto a quella «tradizionale» contenente sia estrogeni che progestinici, aumenta leggermente il rischio di sviluppare un tumore al seno. La notizia arriva da un nuovo studio condotto dai ricercatori dell’Università di Oxford e pubblicato sulla rivista scientifica Plos Medicine , ma non c’è motivo di allarmarsi: si tratta di un’informazione in gran parte attesa, in linea con quanto già conosciuto sui medicinali contraccettivi disponibili e che aggiunge un tassello nel quadro dei rischi e dei benefici che ogni donna deve valutare prima di iniziare ad assumere la pillola.  

Valutare pro e contro con ogni donna

Come riportato anche dall’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (IARC),  finora sono state raccolte molte prove sul fatto che l’assunzione delle normali pillole anticoncezionali per un determinato numero di anni riduca le probabilità di ammalarsi di diverse neoplasie (endometrio e ovaio), ma potrebbe aumentare il rischio di altre (seno, cervice e fegato). «L'incremento del rischio non è clamoroso, ma modesto (circa del 20% in più rispetto a una donna che non usa contraccettivi ormonali) e presente soprattutto per chi ha preso la pillola per molti anni – sottolinea Massimo Di Maio, segretario nazionale dell’Associazione italiana di oncologia medica (Aiom) —. La cosa importante è una: che le donne discutano bene con il proprio medico benefici e rischi dell'assunzione della pillola anticoncezionale. Sicuramente vanno discussi con la diretta interessata i risultati degli studi che documentano un effetto protettivo su alcuni tumori e un modesto aumento del pericolo di altri (come appunto il carcinoma mammario). Il medico che conosce la storia della paziente, le sue eventuali altre patologie, l'eventuale storia familiare di cancro può consigliarla nel modo migliore».  

Il nuovo studio

Nella recente indagine i ricercatori britannici hanno analizzato i dati relativi a 9.498 donne con una diagnosi di cancro al seno invasivo prima dei 50 anni e li hanno confrontati con quelli di 18mila coetanee sane. Il 44% delle pazienti con tumore aveva assunto contraccettivi ormonali, prescritti in media tre anni prima della scoperta della neoplasia, rispetto al 39% delle partecipanti sane. Le conclusioni degli autori indicano che il pericolo di sviluppare cancro al seno risulta accresciuto di circa il 20-30%. «In termini relativi il dato può sembrare allarmante, ma in realtà si tratta di un numero di casi abbastanza basso — spiega Di Maio, che è direttore dell’Oncologia all’Azienda Ospedaliera Ordine Mauriziano di Torino —. Gli autori stessi, concludendo che anche i contraccettivi più “nuovi” a base di soli progestinici, come le altre formulazioni tradizionali, comportano un modesto aumento del rischio di sviluppare un tumore della mammella, ma invitano esplicitamente a non allarmarsi leggendo questi risultati, perché il beneficio del ricorso agli anticoncezionali può essere superiore a questo rischio».

La differenza fra le varie pillole anticoncezionali

I contraccettivi ormonali contengono ormoni sessuali femminili. Le formulazioni tradizionali contengono sia estrogeni che progestinici, determinando, tra gli altri meccanismi, un blocco dell'ovulazione. «Proprio su queste formulazioni è disponibile la maggior parte degli studi su benefici e rischi della contraccezione, sia in termini oncologici che in termini di altri effetti (per esempio rischio cardiovascolare e di tromboembolia venosa) — dice l’esperto —. La cosiddetta “minipillola” contiene solo progestinici e non estrogeni. L'assunzione di dosi basse di progesterone tutti i giorni provoca l'addensamento del muco a livello della cervice uterina, rendendolo meno permissivo per il passaggio degli spermatozoi. Inoltre i progestinici alterano l'endometrio, in maniera tale da rendere difficoltoso l'impianto dell'ovulo fecondato. Al pari delle formulazioni tradizionali, anche quelle a base di soli progestinici possono inibire (con efficacia variabile) l'ovulazione».

Evitabile un tumore su tre

In pratica, come devono regolarsi le ragazze? Innanzitutto la scelta deve basarsi su una valutazione approfondita del profilo di rischio della singola persona. «Poi non bisogna dimenticare che pro e contro della pillola non si limitano all'aumento o diminuzione del rischio di alcuni tumori — conclude Di Maio —: questo aspetto va conosciuto, ma non è l'unico da discutere con il medico. La seconda è che ci sono altri fattori di rischio per i tumori molto importanti e spesso associati a una modifica del rischio maggiore rispetto alla pillola: fumo, sovrappeso (collegato spesso a dieta scorretta e sedentarietà), in alcuni casi la predisposizione ereditaria. Contro il cancro anche stili di vita e fattori modificabili hanno un grande peso, così si potrebbe evitare un caso su tre».

 Estratto dell’articolo di Annarita Briganti per repubblica.it il 26 aprile 2023.

La pillola anticoncezionale, ora gratis anche in Italia, viene da lontano. Dal femminismo, da una stagione politica e culturale in cui le donne di ieri hanno lottato per i diritti delle donne di oggi, come racconta Lidia Ravera. 

Scrittrice con più di trenta libri all'attivo, l'ultimo dei quali, Age Pride (Einaudi) parla di come liberarsi dai pregiudizi sull'età, Ravera evoca medici che non prescrivevano la pillola e viaggi all'estero per abortire. E invita a una riflessione su cosa significhi essere o non essere madri sottolineando l'importanza di poter prendere questa decisione liberamente, non perché costrette da divieti o diritti negati. 

Ravera, com'era vissuta la pillola quando lei iniziava a prenderla?

"Era tutto difficilissimo. Doveva prescrivertela un medico. Si tiravano indietro e soprattutto trattavano da puttana chi voleva vivere il sesso scisso dalla procreazione, il sesso come godimento non come mettere su famiglia, non come riproduzione della specie. Le ragazze che chiedevano la pillola erano considerate ragazze di facili costumi, da punire, perseguitare, boicottare".

Quali soluzioni trovava, trovavate?

"Mi feci aiutare da un mio compagno di classe e di lotta nel movimento studentesco, Paolo H. Suo padre, di sinistra, era un progressista ed era un medico, scriveva ricette per tutte le ragazze che glielo chiedevano. Era una scelta politica di cui gli sono ancora grata. Non ricordo se la pagavamo o meno ma ricordo l'imbarazzo in farmacia. M'imbarazzava anche comprare gli assorbenti. Siamo una generazione educata alla vergogna. Avevo sedici anni ed era il '68".

Com'erano le prime pillole?

"Non innocue per il corpo, facevano ingrassare e molte di noi smettevano di prenderla. Ti facevano sentire pesante, ma secondo la nostra idea romantica di rapporto sessuale, tipica dei giovani e forse anche dei vecchi, interrompere per infilarsi quello che chiamavamo "il guanto" rovinava quei momenti". 

(...)

Cosa pensa della pillola gratis?

"È una buona notizia. Un passo verso il riconoscimento del valore sociale della maternità. Le donne hanno questo compito gigantesco: perpetrare la razza umana. Vanno aiutate dal punto di vista economico, dal punto di vista psicologico, e poi ancora, dopo che i figli sono nati, perché non debbano rinunciare alle loro ambizioni per occuparsi dei bambini. Se il dottor Pincus non avesse inventato la pillola, la metà abbondante del mondo sarebbe composta da persone non libere, le donne non sarebbero libere di vivere come gli uomini, d'impegnarsi nel lavoro, di scegliere se farsi una famiglia oppure no. Questa piccola cosa della pillola gratuita Giorgia Meloni la difenderà dagli attacchi dei suoi? Possiamo aspettarci che faccia qualcosa per le altre donne? Magari senza accorgersene?".

La decisione dell'Aifa. Fratelli d’Italia considera le donne oggetti, no alla pillola gratis. Angela Azzaro su Il Riformista il 25 Aprile 2023 

La decisione dell’Agenzia italiana del farmaco, decisione che peraltro va ancora confermata da un consiglio di amministrazione che è in scadenza, ha stabilito la gratuità della pillola anti concezionale. Stiamo parlando di 140 milioni di euro all’anno che adesso vengono sborsati dalle donne. La notizia è stata accolta da un netto no da parte di Fratelli d’Italia con una motivazione che la dice lunga e bene sulla cultura politica di chi ci governa. Per il partito di Giorgia Meloni la gratuità non sarebbe un diritto perché il problema vero secondo loro è – parole testuali – “combattere la denatalità”.

Dopo la frase suprematista sulla sostituzione etnica, ecco una nuova dichiarazione che lascia basiti. Gli esponenti di Fratelli d’Italia contrappongono natalità e contraccezione gratuita cancellando completamente la questione della libera scelta e dell’autodeterminazione sul proprio corpo. E’ un discorso che considera le donne solo come contenitori e che ha come conseguenza quella di mettere in discussione anche la legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza. Il partito della prima premier della Repubblica (nata dalla lotta antifascista) avalla l’idea che le donne non sono esseri senzienti ma uteri al servizio della società. Non importa se la gravidanza è voluta o meno, l’importante è sfornare figli. E non si dica che il discorso non voleva essere questo. Sta accadendo troppo spesso che prima si lancia il sasso, poi si fa finta di nulla dicendo di essere stati fraintesi. Non c’è nessun equivoco e il messaggio è chiaro e grave.

C’era da aspettarselo. Da quando si discute della crisi delle nascite, proprio la maggioranza di governo ha spostato tutti i ragionamenti fuori dalla libertà femminile. Si sono elencate e sommate tutte le varie motivazioni che secondo loro impedirebbero alle donne di fare figli, fuorché citare le tre questioni chiave: il rapporto uomo-donna e la mancata condivisione del lavoro di cura; il fatto che molte donne non vogliano fare figli a qualsiasi condizione; ma se anche volessero fare figli non c’è un welfare adeguato che consenta loro di poter anche lavorare. La proposta di Elly Schlein di approvare maggioranza e opposizione insieme il congedo parentale paritario al momento resta lettera morta. Eppure Meloni si era detta disponibile.

Le proposte spot che abbiamo sentito elencare in questi giorni hanno questo insormontabile limite. Un limite che però diventa un baratro quando si dice no alla pillola gratuita perché lo scopo è fare figli. In questi mesi di attacco costante alla comunità lgbtquia+, la destra-destra ha usato il tema della maternità per altre/altri. Hanno detto che va contrastata perché oggettivizzerebbe le donne, le tratterebbe da merce, negando la possibilità – dimostrata da migliaia di storie – che una donna possa invece acconsentire liberamente e spesso (a seconda delle leggi) gratuitamente a portare avanti una maternità per altre coppie, al 90 per cento eterosessuali. Oggi il re è nudo.

La questione delle donne di cui si farebbero paladini è usata per attaccare la comunità lgbtquia+ e in particolare i figli delle coppie omogenitoriali. Altrimenti, se così non fosse, non si opporrebbero mai alla pillola gratuita per combattere la denatalità. Si userebbero altre argomentazioni. Si direbbero altre parole. Quelle pronunciate sono gravi e non vanno fatte passare sotto silenzio.

Angela Azzaro. Vicedirettrice del Riformista, femminista, critica cinematografi

Ce sta o’puccettone fuori. Il dramma di aver fatto credere alla gente che avere un figlio non deve cambiare le abitudini di vita. Assia Neumann Dayan su L'Inkiesta il 26 Aprile 2023

Il popolo di Twitter si è messo in testa di doversi lamentare sempre dei bambini degli altri, ai concerti, al ristorante o in aereo, e spesso ritiene anche di avere idee progressiste su come si faccia il genitore. L’unica verità è che se hai un neonato non puoi far finta di non averlo

Un paio di settimane fa sono andata a vedere un concerto al Forum, ma non è questa la notizia. Qualche posto più in là c’era una coppia di genitori con un bambino che avrà avuto sei o sette mesi. Era il ritratto dell’artista Apple Martin da giovane in braccio a sua madre Gwyneth Paltrow durante un concerto di suo padre Chris Martin, mentre qua si stava al secondo anello in un palazzetto ad Assago in provincia di Carrefour.

Questo bambino non ha sentito mezza nota, e con lui nemmeno mamma e papà: facevano a turno per tenerlo in braccio e fare avanti e indietro, tra sessantenni ubriachi che suonano nella tribute band dei Pink Floyd, nuovi ceppi di streptococco nell’aria e un altissimo rischio che il bambino volesse buttarsi di sotto per prendere il maiale gonfiabile.

Perché portare un bambino così piccolo che non sa, non sente e non parla in mezzo a dei sosia di Roger Waters? La mia risposta è: per farsi le foto. Ora, siccome l’eterno ritorno dell’uguale non è un concetto filosofico ma la natura di Internet, sono due o tre giorni che sui social si parla dei bambini che escono di casa e si permettono di andare in vacanza, in treno o al ristorante.

Incredibile, non è vero? Questa polemica è più ridicola delle altre perché, guarda un po’, i neonati andranno lo stesso nei ristoranti, piangeranno ugualmente in aereo, vi sposteranno i nervi anche se non lo vorrete: non li potete arrestare, ce sta o’puccettone fuori, spiace.

Ci sono molte cose da dire: innanzitutto, è un caso che questi bambini dei miracoli cresciuti dal Maligno li incontrino solo quelli di Twitter? Io credo di no. La verità è che dovrete subire sempre, comunque e dovunque: subirete, ma continuerete a postare la foto della biblioteca nel Vermont dove c’è anche un recinto per tenerci i bambini e a dire quanto sono bravi, quanto sono illuminati, che grande aiuto per le mamme, e a retwittare gli articoli con il professore che durante la lezione tiene in braccio il figlio di una studentessa, che bravo professore, che civiltà, per non parlare di quelle e quelli che si portano il neonato in Parlamento o all’Onu, quelli sono i più bravi di tutti, un esempio, dei visionari, è proprio così che ci daranno gli asili gratis.

L’importante è sentirsi giusti e progressisti, far finta che tutte queste cose vadano bene mentre una famiglia che porta un bambino al ristorante no. Ecco, adesso provate a fare lo stesso discorso mettendo “cani” al posto di “bambini”: la gente verrà a mangiarvi la faccia se provate a dire che i cani non dovrebbero stare al ristorante.

Forse c’è l’inverno demografico per colpa di Twitter e di quelli che non vogliono i bambini nei ristoranti? O è colpa dei cani? In questa polemica è stato tirato in mezzo di tutto: la depressione post partum, il femminismo, i diritti dei lavoratori, la psicologia, la neurologia, l’astrofisica.

Parte della rovina è stata far credere che avere un figlio non deve cambiare le tue abitudini di vita: non è vero, perché se hai un neonato non puoi far finta di non averlo. A qualcosa si rinuncia sempre, e viverlo come se ci stessero privando dei diritti civili è una cosa totalmente imbecille. Ci sono tre grandi filoni narrativi: quelli che non bisogna rinunciare a niente, quelli che ti dicono che devi rinunciare a tutto, quelli che a loro non capiterà mai, a cui do appuntamento tra un paio d’anni sempre su Twitter. È che niente di tutto questo è vero perché è un gioco delle parti, è la stessa cosa del chiedere chi deve pagare tra l’uomo e la donna a cena o quante volte si cambiano le lenzuola a settimana. Purtroppo, la premessa è sempre stata che nessuno ha il diritto di giudicare, ma pare che questa regolina valga solo se la persona in oggetto è d’accordo con noi, altrimenti può pure crepare.

Ci sono quelli che dicono che mettono i bambini davanti a un tablet, che è legittimo, però poi arrivano quelli che anche quando i bambini non rompono i coglioni non va bene, e non si capisce con quale diritto uno si mette a dire «eh ma il tablet no, eh ma si rovina il cervello, eh ma ai miei tempi c’erano i pastelli di legno».

E tutti i discorsi sulla libertà che inizia dove finisce la tua o la mia o qualcosa del genere? Mica vorrete giudicare? Ah già. Qualche giorno fa qualcuno ha fatto circolare il video TikTok di una mamma che elencava le dieci cose che non avrebbe comprato al suo neonatino: il mangiapannolini, il ciuccio, il biberon, il baby monitor, le salviettine e credo anche il motorino. La signora è stata irrisa e si è messa in piedi una Norimberga come se di questo bambino dovessimo occuparcene noi.

Ah già: questi sono i danni incalcolabili che sono stati fatti nel prendere in giro le “pancine”, bollarle come povere sceme e non come delle donne a cui qualcuno, che sia un pediatra, un’ostetrica o la nonna, ha detto che era meglio così. Però mi raccomando, che si continui a scrivere che per crescere un figlio ci vuole un villaggio: la verità è che io non vi darei in mano nemmeno una bambola, o un cane.

C’è una cosa, però, che andrebbe detta: le mamme devono uscire di casa. Negli ultimi anni si dice loro di dormire quando dorme il bambino, di allattare a richiesta, di essere genitori ad alto contatto, e questo fa sì che ci si chiuda in casa. Ci si chiude in casa perché si ha paura che il bambino pianga in strada o al bar, o di dover allattare in pubblico, e allora tanto vale stare in salotto. Per carità di Dio, uscite.

Se incontrate uno di quelli di Twitter che vi guarda male perché il bambino piange potete sempre tirarlo sotto col passeggino. Uscire di casa ha salvato più mamme della penicillina, e se il bambino piange, ad un certo punto smetterà.

L’altro giorno mio figlio in mezzo alla strada ha fatto una sceneggiata che nemmeno Anna Magnani, piangeva, e un’anziana signora gli è andata vicino e ha iniziato: ma guarda che lacrimoni, ma non piangere, ma che cos’hai. Invece che filmarla, invece che fare la telecronaca su Twitter, le ho detto, testuale: «Signora, ma lei lo sa che chi si fa i cazzi suoi campa cent’anni?». Mio figlio, sgomento, ha smesso di piangere e l’anziana signora se n’è andata, verso una luminosa e lunghissima aspettativa di vita. Come vi dicevo, quello che vi salverà è avere un brutto carattere, mica i buoni di Twitter.

L’INGRANDIMENTO – FARE FIGLI COSTA TROPPO MA NON FARLI SARÀ GRATIS. Eleonora Ciaffoloni su L'Identità il 24 Aprile 2023 

Tutta Italia si è adeguata. La pillola anticoncezionale sarà gratuita per tutte le donne. Il Comitato prezzi e rimborsi dell’Agenzidia italiana del farmaco (Aifa) ha approvato la decisione di rendere gratuita la pillola per contraccezione orale per le donne di tutte le fasce d’età. E quindi a Puglia, Toscana, Emilia-Romagna, Piemonte e la Provincia autonoma di Trento, si accoderanno tutte le altre Regioni del Paese. Un cambiamento storico, che andrà ad aiutare tutte le donne che già ne fanno uso e anche quelle che per motivi economici non hanno potuto finora farlo. Perché in Italia c’è uno scarso ricorso alla contraccezione e proprio per questo motivo potremmo definire la decisione dell’Aifa “inclusiva”. Una decisione necessaria, presa nonostante gli alti costi che avrà per l’economia del Paese. Il rimborso dei farmaci anticoncezionali avrà un costo per le casse dello Stato stimato in circa 140 milioni di euro l’anno. In concreto, per rendere la contraccezione gratuita in Italia, spiega la presidente del Cpr dell’Aifa Giovanna Scroccaro: “sono stati valutati, all’interno di tre categorie di farmaci contraccettivi individuati e divisi per ‘generazione’, i prodotti meno cari che sono stati resi gratuiti. È stata in particolare la commissione tecnico-scientifica a suddividere la grande platea di contraccettivi disponibili a oggi per componente progestinica, raccomandando di rendere disponibili gratuitamente un certo numero di prodotti per ogni diversa ‘generazione’ di medicinali, garantendone una certa sovrapponibilità”. Una notizia accolta con entusiasmo dalle donne che ne fanno – o che vorrebbero farne – uso. Di diverso avviso, un’altra donna, Maria Rachele Ruiu, portavoce della Onlus Pro Vita e Famiglia: “Come è possibile conciliare la pillola contraccettiva ‘libera e gratuita’ come panacea di tutti i mali senza sottolineare i gravi effetti collaterali fisici e psicologici che possono portare fino a depressione e istinti suicidari?”. Effetti collaterali per cui abbiamo modo di credere che l’Aifa abbia fatto le proprie considerazioni. Ma l’accusa continua: “Non c’è nulla di più pericoloso per la salute delle donne che banalizzare temi che impattano sulla loro pelle come aborto, contraccezione, gender e prostituzione”. Insomma, la decisione dell’Aifa è “grave e pericolosa”. Tornando alla decisione dell’Agenzia, il Cpr ha dato il via libera alla rimborsabilità anche per la Prep, la profilassi pre-esposizione anti Hiv. “La decisione di renderla gratuita è stata più facile” spiega la presidente Scroccaro. “Il prezzo pagato dagli ospedali che acquistano questi farmaci ha un impatto di spesa minimo, di qualche centinaio di migliaia di euro. Ma poiché esistono ormai importanti evidenze che dimostrano come possa dare un grande contributo in termini di prevenzione dell’infezione e se pensiamo anche a quanto è importante la spesa farmaceutica per gli antiretrovirali, stiamo facendo un investimento in termini di salute”. Questa pillola verrà distribuita ai soggetti a rischio attraverso gli ospedali con prescrizione da parte dell’infettivologo e quindi tramite la precedente valutazione di uno specialista.

Farmaci e terapie. La svolta dell'Aifa: pillola contraccettiva gratis per tutte le donne. Il costo è 140 milioni l'anno. Federico Garau il 21 Aprile 2023 su Il Giornale.

Una decisione importante quella dell'Agenzia che punta a rendere disponibile la contraccezione orale per tutte le donne 

Il 22 aprile si celebra la Giornata nazionale della salute della donna e in occasione della ricorrenza l'Agenzia italiana del farmaco (Aifa) ha fatto un enorme passo in avanti, decidendo di rendere gratuita la pillola anticoncezionale per le donne di ogni fascia d'età.

La svolta

Si tratta di una scelta non da poco. Una simile svolta, infatti, avrà un costo di circa 140 milioni di euro l'anno per le casse dello Stato. Il primo a dare la notizia è stato Quotidiano Sanità, che ha riportato l'intervista alla presidente del Cpr dell'Aifa Giovanna Scroccaro. La decisione della pillola gratis, fra l'altro, si accompagna anche alla rimborsabilità dei farmaci per la Prep, ossia la terapia necessaria per prevenire l'infezione da Hiv. Anche questa sarà a carico dello Stato.

"Si tratta di due temi che sono da tempo all'attenzione dell'agenzia, che hanno richiesto tempi tecnici per arrivare a una valutazione completa", ha spiegato a Quotidiano Sanità Giovanna Scroccaro.

Come si è arrivati alla decisione

Si è agito per rendere gratuita la contraccezione in Italia. Ciò è stato possibile grazie alla valutazione su tre categorie di farmaci contraccettivi divisi per generazione e costi: "È stata in particolare la Commissione tecnico-scientifica a suddividere la grande platea di contraccettivi disponibili a oggi per componente progestinica, raccomandando di rendere disponibili gratuitamente un certo numero di prodotti per ogni diversa 'generazione' di medicinali, garantendone una certa sovrapponibilità".

È stato poi compito di Aifa analizzare i farmaci con i prezzi più bassi, stimando la spesa finale che andrà a incidere sulle casse dello Stato. In questo modo si è cercato di accrescere la platea di donne che potranno ricorrere al contraccettivo, un tempo preso poco in considerazione a causa del costo troppo elevato. "È difficile peraltro dire, non essendoci stata alcuna contrattazione di prezzi per questi prodotti, che una pillola da 25 euro sia migliore di quelle che costano 10 euro", ha precisato Scroccaro.

Aifa, diventa gratis la pillola che evita il contagio da Hiv

Rendere gratuita la Prep

Non solo contraccezione orale gratuita, ma anche terapia anti-Hiv gratuita. Un passo, se possibile, ancora più importante. La Prep, terapia a base di farmaci antiretrovirali (tenofovir ed emtricitabina) da effettuare prima e dopo l'esposizione a rischio, era prima a pagamento.

I prezzi si aggiravano attorno i ai 50-60 euro a confezione. “La decisione di renderla gratuita è stata più facile", ha dichiarato Giovanna Scroccaro. "Il prezzo pagato dagli ospedali che acquistano questi farmaci ha un impatto di spesa minimo, di qualche centinaio di migliaia di euro. Ma poiché esistono ormai importanti evidenze che dimostrano come possa dare un grande contributo in termini di prevenzione dell'infezione, e se pensiamo anche a quanto è importante la spesa farmaceutica per gli antiretrovirali, stiamo facendo un investimento in termini di salute", ha aggiunto.

Le compresse saranno quindi distribuite dagli ospedali, mediante prescrizione dell'infettivologo.

Riparazione economica. Cronaca di come sono diventata la peggior prenditrice di pillola nella storia della contraccezione. Guia Soncini su L'Inkiesta il 24 Aprile 2023

Ragazze, date retta alla zia Guia, invece della pillola coi punti fragola di stato, spendete diciannove euro per l’anello vaginale, sono stati i soldi meglio spesi prima della menopausa. Altrimenti pretendo 35 anni di arretrati

Quando hai vent’anni, la cellulite ti sembra la più grave disgrazia che possa capitarti. È abbastanza ovvio che sia così: hai vent’anni, non sai cosa sia un problema vero; hai vent’anni, non sai fare conversazione, essere decorativa è l’unico patrimonio che tu abbia.

Quindi, racconta qualunque ginecologa, le ragazze la pillola non la vogliono prendere: sono convinte che faccia ingrassare. Io, che l’ho presa per trentacinque discontinui anni, non ho idea della veridicità di questa leggenda: certo che sono stata abbastanza giovane da pensare che due chili fossero tutto ciò che mi separava dalla felicità, ma non sono stata mai abbastanza osservatrice da notare se quando la smettevo mi calasse il girocoscia.

Non sono neanche stata, fin verso i quarant’anni, abbastanza sensata da capire che, avendo l’endometriosi, assumere una certa quantità di ormoni faceva la differenza tra morire dissanguata ogni mese e fare una vita normale.

Quando mia madre mi portò dal ginecologo, all’inizio del liceo, non lo fece perché avevo l’endometriosi: non lo sapeva, giacché all’epoca per quella malattia per cui il rivestimento dell’utero se ne va in giro per il corpo facendo danni non c’era un nome.

Adesso che se ne parla più che del cancro, adesso ogni volta che sento una giovane smaniosa cianciare di diagnosi tardive e di invisibilizzazione, io vorrei darle un coppino per ognuna delle volte in cui in gioventù sono stata invitata a non rompere i coglioni, ché le mestruazioni le hanno tutte: sarebbero moltissimi coppini.

Quando mia madre mi fece dare la pillola, me la fece dare per la stessa ragione per cui la prendeva lei: era del sud, era piena di complessi, non aveva una carriera né una personalità. Tutto quel che aveva era l’ostentazione dell’emancipazione. Prendo la pillola, quindi sono Mata Hari, sono Gloria Steinem, sono Edie Sedgwick. Mia madre prendeva la pillola come oggi ci si cambiano i pronomi nelle bio sui social.

Io, che non avevo niente da dimostrare ma non avevo neanche nessuna capacità di attenzione continuativa, sono stata la peggior prenditrice di pillola nella storia della contraccezione orale. Le volte che ne prendevo tre perché l’avevo dimenticata per tre giorni. Le volte che decidevo di fare un mese di pausa e ovviamente restavo incinta.

(Il mese di pausa era uno di quei consigli da Cioè, il giornaletto dell’epoca sul quale le ragazze chiedevano se andasse bene come contraccettivo il bidè con la Coca Cola: ogni volta che una della mia generazione si chiede come sopravviveranno i suoi figli senza educazione sessuale nelle scuole, penso che noialtre siamo sopravvissute a «caro Cioè, ho dato un bacio con la lingua e ho un ritardo»).

Le volte in cui perdevo il blister nel disordine della mia cameretta. Uno dei miei aneddoti preferiti è quello sulla farmacia notturna di piazza Maggiore, a Bologna, una volta che a mezzanotte non trovavo il blister, e andai a cercare di comprarla ma non avevo la ricetta, e il farmacista diede la fiala d’acqua e la siringa da insulina a quello prima di me (che mi rise in faccia) ma non la pillola a me, e pensa oggi i titoli cui avrei diritto sul giornale, «Liceale discriminata dal patriarcato e sbeffeggiata da un eroinomane».

Tra l’altro: a me (e alle disorganizzate come me) la vita l’ha salvata, in questo secolo, l’invenzione dell’anello vaginale, per la quale mi risulta inspiegabile non siano stati attribuiti non solo il Nobel per la medicina ma anche quello per la pace. Te lo infili e gli ormoni li rilascia lui e non ci devi pensare per tre settimane, invece di ricordarti di prendere ventuno pillole. Non ne ho visto cenno negli articoli sulla gratuità, e quindi mi chiedo: come sempre ciò che è gratis sarà peggiore, e cioè queste poverine saranno condannate alla pillola invece che all’anello? Ragazze, date retta alla zia Guia: invece della pillola coi punti fragola di stato, spendete diciannove euro per l’anello, sono stati i soldi meglio spesi prima della menopausa.

Ma, tornando alla questione della cellulite (che immagino venga anche con l’anello: gli ormoni sono gli stessi), vorrei chiedere: dare la pillola gratis a una generazione che la pillola non la vuole prendere non sarà come dare incentivi per la natalità a generazioni che i figli proprio non li vogliono fare? I figli li facevano le nostre nonne sotto le bombe senza asili o bonus: forse non è questione di soldi. La pillola costa dieci euro al mese: forse non è questione di soldi.

Ciò detto, siccome invece tutto è questione di soldi (tranne i soldi: quelli sono questione di potere), io rivorrei i miei. Capisco finalmente le battaglie culturali americane. Quella sulle rette universitarie, in cui chi si è indebitato per pagarsi le sue ai tempi suoi si chiede perché ora la fiscalità generale debba farsi carico del debito dei giovani piscialetto troppo fragili per rateizzarsi gli studi come han fatto i loro genitori. Quella dei discendenti degli schiavi che chiedono una riparazione economica dei soprusi subiti dai loro avi (i soprusi li han subiti gli avi, gli eventuali bonifici li incassano loro).

Nell’anno duemilaventitré di nostra vita io, Guia Soncini, condannata a prendere la pillola dalla natura matrigna che fa sì che i feti attecchiscano nei corpi delle femmine e non in quelli dei maschi impedendoci di delegare la contraccezione (ma certo, caro, ci hai pensato tu, ma siccome poi l’eventuale gravidanza me la sobbarco io non ti offenderai se non mi fido); io, condannata a ingerire ormoni da una biologia di merda che mi faceva staccare pezzi di endometrio e sanguinare come vitella sgozzata e contorcere dal dolore, e meno male che non eravamo ancora nell’epoca in cui è transescludente dire che l’endometrio ce l’hanno solo le donne, sennò avrei preso a testate sul naso qualcuno; io, giovane in anni in cui se ti rifiutavano la pillola del giorno dopo non fregava niente a nessuno; io, Guia Soncini, lettrice di Camille Paglia e consapevole che il patriarcato e il capitalismo abbiano fatto per la liberazione femminile più del femminismo e persino di Instagram; io rivoglio i miei soldi.

Se pillola gratuita è, pretendo che sia retroattiva. Voglio trentacinque anni di rimborsi. Non pensate di cavarvela dicendomi che dovevo conservare gli scontrini.

Platonic co-parenting.

Estratto dell’articolo di Paolo Mastrolilli per repubblica.it l'11 giugno 2023.

Si chiama "platonic co-parenting" ed è la nuova frontiera per chi vuole diventare genitore, senza formare una famiglia tradizionale. In altre parole persone adulte, etero o omosessuali, che mettono al mondo figli insieme, attraverso donatori, oppure si accordano per crescere in comune bambini già nati, vivendo nella stessa casa o in case diverse, senza avere relazioni di natura sessuale. 

Per molti versi somiglia a quello che fanno già da tempo le coppie divorziate, senza però passare attraverso la fase del matrimonio, la separazione e il divorzio, con tutti i costi emotivi e materiali che questo comporta.[…] 

Patti chiari...

In questi casi, come già avviene in quelli dei genitori divorziati, il bambino divide il suo tempo tra il padre e la madre, ma in alcune occasioni si vedono insieme, ad esempio per i compleanni o altre feste. Altri invece optano per vivere sotto lo stesso tetto, ma senza avere alcun rapporto fisico. […] 

Il fenomeno si sta così diffondendo, da avere ormai servizi che lo favoriscono. Siti come Modamily o Pollentree ormai hanno migliaia di membri, uniti dallo stesso obiettivo, ossia diventare padri o madri senza formare famiglie tradizionali. Alcuni cercano solo i donatori o le donatrici per concepire, in certi casi conservando poi un rapporto di amicizia o condivisione delle responsabilità genitoriali. 

Altri cercano altri genitori con cui crescere insieme i figli, oppure single che vogliono averne senza poi restare insieme. […]. Tutto è possibile in sostanza, a patto che si tratti di scelte libere, coscienti e condivise.

Congelati.

Estratto dell'articolo di Caterina Stamin per “La Stampa” lunedì 28 agosto 2023

[…]

Serve un modo per fermare il tempo e la medicina, fortunatamente, tende la mano. Sono sempre di più le donne che decidono di ricorrere al social congelamento, letteralmente "congelamento sociale". Un termine che alla professoressa Laura Rienzi, embriologa e direttrice scientifica del gruppo Genera, non piace: «Abbiniamo quasi sempre la parola "social" al divertimento, mentre qui parliamo di un problema importantissimo che riguarda la società».

Si tratta di una pratica diffusa all'estero e sempre più ricercata anche in Italia, che permette di preservare la propria fertilità attraverso la crioconservazione degli ovociti. Nessuna assicurazione di gravidanza, come spesso erroneamente viene descritta, ma un'importante opportunità in più. 

[…] La capacità riproduttiva si può perdere per diversi motivi, primo fra tutti un trattamento oncologico sia nell'uomo sia nella donna. […] Il social congelamento, la crioconservazione per motivi non medici ma personali, permette a chiunque di scegliere quando "fermare" le lancette. «Si procede prima con una piccola confezione farmacologica ormonale controllata, della durata di 10-12 giorni, per far maturare il più possibile i follicoli; poi si esegue un intervento chirurgico in sedazione profonda – aggiunge l'embriologa –. Non restano né cicatrici né tagli. Attraverso una sonda ecografica transvaginale e un ago si pungono i follicoli che contengono gli ovociti dopo la confezione. Poi in laboratorio queste cellule vengono crioconservate e possono rimanere così, ferme nel tempo, senza un limite».

I rischi I rischi dell'intervento sono minimi. Il problema è piuttosto legato al pericolo ostetrico di una gravidanza troppo in là nel tempo. È per questo che le linee guida nazionali consigliano di ricorrere al congelamento degli ovuli tra i 25 ei 37 anni e di cercare una gravidanza entro i 50. 

[…] Riguardo ai costi, la crioconservazione è prevista all'interno di un percorso pubblico se vi sia indicazione medica, come per la chemioterapia, mentre il desiderio di una donna di congelare gli ovociti per avere l'opportunità di avere figli anche dopo la fine dell'età fertile non passa attraverso la sanità pubblica ma bisogna rivolgersi a un centro privato. «Il costo varia a seconda delle strutture, in genere è tra i 2. 500 ei 3. 500 euro per il prelievo e la conservazione degli ovociti, poi c'è il costo dei farmaci per la patologia, che può variare tra 1. 000 ei 1.500 euro». A questi si aggiunge la custodia degli ovociti all'interno di una bio banca, che oscilla tra i 100 ei 200 euro l'anno.

I numeri Sulla scia degli altri Paesi, anche in Italia il numero di donne che scelgono di preservare la loro fertilità aumenta di circa il 20% di anno in anno. Stando ai dati di Genera, specializzato in procreazione assistita, nel 2021 ci sono stati 189 trattamenti, saliti a 226 nel 2022.

Quest'anno, fino al 30 aprile, sono stati 105, più o meno il doppio rispetto allo stesso periodo 2022.

[…]

Nessuna assicurazione Una possibilità in più, quindi.

«La crioconservazione – specifica l'esperta – non è un'assicurazione di gravidanza perché non è detto che quel lotto di ovociti conservato sia efficace. La possibilità di avere una gravidanza dipende da diversi fattori: in primis il numero di uova che congeliamo. In America, per esempio, si tende a fare tre o quattro cicli di crioconservazione ovocitaria per mettere da parte tanti ovociti. Poi, incide l'età biologica in cui sono stati prelevati gli ovociti, ma anche la qualità del seme del partner. In più, la natura ci riserva sempre sorprese».

In merito al numero delle pazienti che hanno avuto figli dopo la pratica, «i risultati ottenuti con ovociti di donne che preservano la fertilità per un social frozen o per un problema oncologico hanno la stessa resa: con meno di 35 anni, conservando 15 uova, si stima un 85% di possibilità di successo dopo la fecondazione in vitro, che con 10 uova si riduce al 60%. A 39 anni queste percentuali si dimezzano: un dato che fa capire il declino della qualità degli ovociti con l'avanzare dell'età».

[…]

Selezionati.

Da ansa.it il 15 Giugno 2023.

Ottenuti embrioni umani sintetici utilizzando cellule staminali in un progresso rivoluzionario che elude la necessità di ovuli o spermatozoi.

Lo riporta un'esclusiva del Guardian che riprende l'annuncio della biologa Magdalena Zernicka-Goetz, dell'Università di Cambridge e del California Institute of Technology, intervenuta ieri all'incontro annuale dell'International Society for Stem Cell Research a Boston.

"Possiamo creare modelli simili a embrioni umani riprogrammando le cellule (staminali embrionali)", ha detto la ricercatrice all'incontro.

Nel 2022 il suo gruppo di ricerca aveva ottenuto il primo embrione sintetico di topo con un cuore che batte. Le strutture ottenute dalle cellule staminali, scrive il quotidiano britannico, non hanno un cuore pulsante o l'inizio di un cervello, ma includono cellule che normalmente andrebbero a formare la placenta, il sacco vitellino e l'embrione stesso.

I dettagli completi dell'ultimo lavoro, del laboratorio Cambridge-Caltech devono ancora essere pubblicati su una rivista scientifica. Ma, parlando alla conferenza, Zernicka-Goetz ha descritto la coltivazione degli embrioni a uno stadio appena superiore all'equivalente di 14 giorni di sviluppo per un embrione naturale. 

Gli scienziati affermano che questi embrioni modello, aggiunge il Guardian, potrebbero fornire una finestra cruciale per studiare sia le malattie genetiche, sia le cause biologiche degli aborti ricorrenti. Tuttavia, rileva ancora il quotidiano britannico, il lavoro solleva anche seri problemi etici, legali e legislativi. 

Sono stati creati i primi embrioni umani ottenuti da cellule staminali. Roberto Demaio su L'Indipendente il 22 Giugno 2023

Un gruppo di scienziati del Regno Unito ha ottenuto “embrioni umani sintetici” a partire da cellule staminali, evitando quindi di usare cellule uovo e spermatozoi. Il termine “sintetici” è un po’ fuorviante: si tratta di embrioni creati a partire da cellule staminali, le quali però sono state prelevate da embrioni veri e propri. Si tratta di un obiettivo che diversi team di ricerca perseguivano da tempo e che non era mai stato raggiunto per l’uomo. Lo scopo del lavoro sarebbe creare embrioni somiglianti a quelli “veri” per comprendere meglio l’impatto di alcune malattie genetiche e le cause biologiche degli aborti spontanei ricorrenti. Nonostante il risultato sia ancora lontano e i ricercatori non abbiano posto l’obiettivo tra quelli perseguiti, potenzialmente gli embrioni derivati potrebbero essere utilizzati a fini riproduttivi, e il fatto che non siano ancora regolamentati da una cornice legislativa potrebbe dare origine a importanti interrogativi etici nel prossimo futuro.

L’annuncio è arrivato dal Congresso della Società per la ricerca sulle cellule staminali, a Boston, dove Magdalena Zernicka Goetz, biologa del CalTech e dell’università di Cambridge, ha illustrato il lavoro, dichiarando: «Possiamo creare modelli simili a embrioni umani riprogrammando le cellule (staminali embrionali)». Nel 2022 il suo gruppo di ricerca aveva ottenuto il primo embrione sintetico di topo con un cuore che batte. La ricercatrice ha specificato inoltre che la ricerca è stata accettata da un’importante rivista scientifica ma non è stata ancora pubblicata. Come precisato dal The Guardian, che ha riportato la notizia in esclusiva, gli embrioni sintetici sono stati fatti sviluppare fino alla fase in cui, se si trovassero in un vero apparato riproduttivo, si impianterebbero nell’utero, l’equivalente dei giorni 7/8-14 dopo la fecondazione, che corrisponde anche al limite legale permesso.

Il motivo del grande interesse è la possibilità di studiarli per ottenere informazioni sulle prime fasi dello sviluppo della vita. In particolare sul periodo, definito “scatola nera”, che va dai 14 giorni oltre i quali nella maggior parte dei Paesi non è più possibile far crescere embrioni in laboratorio. Come iniziano a svilupparsi gli organi umani? Da cosa sono provocati i casi di aborto ricorrente? La scienza può fare qualcosa per evitarli? Sono queste alcune delle domande a cui gli scienziati come Żernicka-Goetz sperano di rispondere. Questi “embrioni derivati” non nascono dalla fecondazione di una cellula uovo da parte di uno spermatozoo, ma vengono ricavati in laboratorio a partire da cellule staminali, ovvero cellule non specializzate capaci di differenziarsi in diversi altri tipi di cellule del corpo, le quali però vengono prelevate da embrioni veri e propri. Sono ancora troppo poco maturi per avere un cuore che batte o cellule cerebrali. Sono composti principalmente da cellule che formeranno la placenta, il sacco amniotico e le cellule precorritrici dei gameti. Il vantaggio tecnico, secondo gli scienziati, è la maggiore facilità nel modificare geneticamente le cellule staminali mentre crescono e si differenziano piuttosto che ricorrere agli embrioni residui dei percorsi delle fecondazioni in vitro donati alla ricerca.

Tuttavia, questa scoperta comporta l’analisi di importantissime questioni legali ed etiche. Questi embrioni ricavati da cellule staminali non sono ancora regolamentati da una cornice legislativa. Al contrario degli embrioni ricavati dalle fecondazioni in vitro, è possibile farli sviluppare anche oltre i 14 giorni canonici e legali (per ora). Gli stessi autori dello studio ritengono che una regolamentazione sia necessaria e stanno partecipando a un gruppo di lavoro per coinvolgere le autorità sanitarie britanniche sui paletti legali per questo tipo di pratica. Una possibilità è che anziché su un limite di tempo, ci si accordi su un limite basato sullo sviluppo dell’embrione. L’esperimento solleva anche domande e perplessità bioetiche che dovranno essere inevitabilmente affrontate. Gli stessi scienziati non sono in grado di dire se questi embrioni sintetici abbiano la capacità di diventare una creatura vivente completa. Finora gli esperimenti su cavie hanno dato risultati non univoci.

L’indipendente ha chiesto un commento ad Alberto Carrara, professore di Antropologia e Neuroetica dell’Ateneo Regina Apostolorum e membro della Pontificia Accademia per la Vita, il quale ha dichiarato: «Per farci un’idea più chiara serviranno sicuramente altri studi a riguardo. Ciò che è certo invece è che chiamarli sintetici è decisamente fuorviante: queste strutture sono biologiche e non sintetiche. L’unica cosa sintetica è la riprogrammazione di cellule che derivano però da embrioni umani. Piuttosto, assomiglia più ad una clonazione fatta ad hoc per non permettere lo sviluppo. I problemi sono principalmente due. Il primo è l’estrazione: il prelievo di cellule danneggia gravemente l’embrione d’origine, portando spesso alla sua distruzione. Il secondo è la modifica: ho visto diversi articoli cercare di rassicurare sul fatto che il sistema nervoso e il cuore non verranno sviluppati. Ma ciò che è fondamentale è il modo in cui si giunge a questo risultato. La riprogrammazione di queste cellule estratte solleva questioni etiche non indifferenti. Nel giudizio etico non deve essere giusto solo il fine, ma anche il modo con cui viene perseguito». [di Roberto Demaio]

La rivoluzione in provetta. Creati embrioni umani sintetici, prodotti da cellule staminali: serviranno a studiare le malattie genetiche. di Redazione Web su L'Unità il 15 Giugno 2023

“Possiamo creare modelli simili a embrioni umani riprogrammando le cellule (staminali embrionali)”. Con questa affermazione, la biologa Magdalena Zernicka-Goetz, dell’Università di Cambridge e del California Institute of Technology, ha annunciato una vera e propria rivoluzione per la ricerca: Gli scienziati hanno ottenuto embrioni umani sintetici utilizzando cellule staminali in un progresso rivoluzionario che elude la necessità di ovuli o spermatozoi. Una svolta che sembra quasi fantascientifica ma che potrebbe far fare in breve tempo passi da gigante alla ricerca scientifica soprattutto per le malattie genetiche e le cure che ancora non sono state trovate.

A raccontare questa svolta è il Guardian in un’esclusiva. Le strutture ottenute dalle cellule staminali, scrive il quotidiano britannico, non hanno un cuore pulsante o l’inizio di un cervello, ma includono cellule che normalmente andrebbero a formare la placenta, il sacco vitellino e l’embrione stesso. I dettagli completi dell’ultimo lavoro, del laboratorio Cambridge-Caltech devono ancora essere pubblicati su una rivista scientifica. Ma, parlando alla conferenza, Zernicka-Goetz ha descritto la coltivazione degli embrioni a uno stadio appena superiore all’equivalente di 14 giorni di sviluppo per un embrione naturale.

Gli scienziati affermano che questi embrioni modello, aggiunge il Guardian, potrebbero fornire una finestra cruciale per studiare sia le malattie genetiche, sia le cause biologiche degli aborti ricorrenti. Tuttavia, rileva ancora il quotidiano britannico, il lavoro solleva anche seri problemi etici, legali e legislativi. Se gli interrogativi in merito sono tanti, gli scienziati spiegano che questo tipo di embrioni non potrebbero mai essere impiantati nell’utero di una paziente ad esempio, sarebbe illegale. E inoltre per come sono strutturate non è ancora chiaro se sono in grado di continuare a maturare e crescere oltre le prime fasi di sviluppo. Inoltre come riportato da Repubblica, non c’è alcuna prospettiva a breve termine che gli embrioni sintetici vengano utilizzati in clinica.

Redazione Web 15 Giugno 2023

«Embrioni sintetici per creare la vita? Siamo ancora lontani...». Il genetista Novelli dopo l’annuncio della scienziata di Cambridge Magdalena Zernicka-Goetz sulla creazione del primo modello umano a partire da cellule staminali, senza l’impiego di ovuli e spermatozoi. Il Dubbio il 15 giugno 2023

Per ora è soltanto un’anticipazione, ma si presenta già come una rivoluzione in campo scientifico: si tratta della creazione di embrioni umani sintetici a partire da cellule staminali, senza la necessità di impiegare ovuli e spermatozoi. Un modello che replica le primissime fasi dello sviluppo umano e che potrebbe aprire un nuovo capitolo nello studio delle malattie genetiche e delle cause biologiche degli aborti ricorrenti. Ad annunciarlo in esclusiva è il Guardian, che riporta i primi dettagli forniti dalla scienziata Magdalena Zernicka-Goetz dell’Università di Cambridge e del California Institute of Technology in occasione del meeting annuale dell’International Society for Stem Cell Research che si è tenuto mercoledì a Boston.

«Possiamo creare modelli simili a embrioni umani riprogrammando le cellule (staminali embrionali)», ha annunciato la scienziata. Che ha descritto la coltivazione degli embrioni ad uno studio appena superiore all’equivalente di 14 giorni di sviluppo per un embrione naturale. I dettagli completi della ricerca condotta dal laboratorio di Cambridge-Caltech devono ancora essere pubblicati. Ma già sorgono i primi interrogativi di natura etica e normativa.

Gli embrioni sviluppati non hanno un cuore pulsante o un cervello, ma includono cellule che normalmente andrebbero a formare la placenta, il sacco vitellino e l’embrione stesso. Al momento non c’è alcuna possibilità perché siano utilizzati clinicamente nel breve termine: sarebbe illegale impiantarli nell’utero di un paziente e non è ancora chiaro se queste strutture possano continuare a maturare oltre le prime fasi di sviluppo. «L'idea è che se si modella davvero il normale sviluppo embrionale umano utilizzando le cellule staminali, è possibile ottenere un'enorme quantità di informazioni su come inizia lo sviluppo, cosa può andare storto, senza dover utilizzare embrioni precoci per la ricerca», spiega Robin Lovell-Badge, responsabile dell’unità “Stem cell biology and developmental genetics” al Francis Crick Institute di Londra.

A chi si chiede se queste strutture abbiano il potenziale per diventare una creatura vivente, risponde il genetista italiano Giuseppe Novelli, per il quale «siamo ancora molto lontani dal pensare che con questo metodo nasceranno bambini». «Questo esperimento potrà fornire, delle prime informazioni sulle fasi iniziali dello sviluppo, che ancora non abbiamo, su come si sviluppa un embrione, informazioni biologiche, biochimiche e molecolari», spiega Novelli. «Come sempre accade nella ricerca scientifica - avverte l’esperto - quando si presentano o si annunciano dei risultati ad un convegno si deve attendere la pubblicazione dell’articolo in cui i ricercatori devono illustrare esattamente l’esperimento e da dove sono partiti e quali sono stati i risultati ottenuti; queste informazioni non sono ancora disponibili, e quello che possiamo dire da quanto è trapelato che i colleghi britannici hanno ottenuto attraverso la nota tecnica di rigenerazione tissutale, cioè la riprogrammazione di cellule per ottenere cellule staminali, quelle che sono le cellule primordiali o totipotenti, cioè le cellule, che all’inizio danno origine appunto agli embrioni, che normalmente si ottengono dalla fecondazione tra uno spermatozoo e un ovocita». «Le prime cellule che si sviluppano dopo la fecondazione normale - continua Novelli - danno origine alla placenta e all'embrione stesso che poi formerà tutti gli organi; ecco, gli scienziati sono riusciti ad ottenere in laboratorio cellule primordiali senza fecondazione. L'esperimento non è non è potuto proseguire in tutte le fasi dello sviluppo perché c'è il limite», conclude il genetista.

Un confine imposto per legge agli scienziati, ai quali è consentito coltivare embrioni in laboratorio solo fino a 14 giorni. Per studiare lo sviluppo dell’embrione in seguito oggi si possono solo osservare le immagini di una gravidanza e studiare gli embrioni donati per la ricerca. In passato, il team di Zernicka-Goetz e un altro gruppo di ricerca presso l'Istituto Weizmann in Israele hanno dimostrato che le cellule staminali dei topi potrebbero essere incoraggiate ad autoassemblarsi in strutture embrionali precoci con un tratto intestinale, l’inizio di un cervello e un cuore pulsante. Da allora, è in corso una gara per tradurre questo lavoro in modelli umani e diversi team sono stati in grado di replicare le primissime fasi di sviluppo. La scienza si muoverà più in fretta della legge?

Estratto dell'articolo di Melania Rizzoli per “Libero quotidiano” il 9 maggio 2023.

Il concepimento naturale che tutti conosciamo, con la casualità, durante l’ovulazione e la fecondazioni, di incrocio dei cromosomi materni e paterni e la prevalenza degli stessi, che produrranno un essere unico e irripetibile, più somigliante alla madre o al padre, e distinto da ogni altro umano, sta per essere superato da un concepimento artificiale, prodotto da un algoritmo creato dall’ Intelligenza Artificiale (AI), il quale, applicato alla Procreazione Medicalmente Assistita (PMA), selezionerà per i genitori l’embrione più idoneo ed ottimale da trasferire in utero, quello che avrà la percentuale più alta di nascere vivo, sano, a scelta maschio o femmina, con le caratteristiche desiderate, senza la possibilità di errori umani o naturali, e con dati clinici e genetici predefiniti, su un modello predittivo fino ad oggi ignorato o trascurato dall’operatore sanitario.

PRECISIONE […] Con l‘Intelligenza Artificiale è stato creato un algoritmo che analizza le fasi iniziali della fecondazione, dello sviluppo embrionale, il suo contenuto cromosomico, il suo livello di attività cellulare e la sua vitalità, calcolando matematicamente quello con più probabilità di impiantarsi (fono al 90%) e di arrivare senza pericoli al termine di gravidanza. In pratica questo sistema classifica automaticamente gli embrioni più idonei all’impianto in utero, scegliendone anche la morfologia, e a richiesta il sesso, attraverso nuovi e precisi indicatori e protocolli personalizzati, individuando anche il momento migliore, dal punto di vista ormonale, per l’impianto dell’embrione finalizzato ad ottenere una gravidanza sicura.

Lo studio sull’Intelligenza Artificiale applicata alla PMA è stato presentato a Malaga al Congresso Internazionale sulla Medicina Riproduttiva, ed ha rivelato come, attraverso l’uso delle reti neuronali artificiali (ANN), il sistema sia in grado di individuare con precisione gli embrioni che si espandono e crescono più velocemente e precocemente rispetto agli altri, che hanno la migliore morfologia e vitalità, e che hanno la migliore percentuale di successo di evoluzione riproduttiva, evitando così alle madri il rischio di ulteriori iperstimolazioni ovariche.

[…] È bene sottolineare che le nuove tecnologie non sono da criticare o demonizzare a priori, poiché non ostacolano il lavoro dei professionisti della medicina, semmai lo agevolano per ottenere risultati migliori per gli obiettivi prefissati, per rivelare molti aspetti cellulari che l’occhio umano ancora non riesce ad individuare con i metodi tradizionali, ed è evidente che si tratta di grandi opportunità scientifiche per eliminare le inefficienze in termini di valutazione, troppo spesso legate alla soggettività dell’operatore umano.

Il progresso scientifico, si sa, è inarrestabile, e ci sarà qualcuno che obietterà che con queste tecniche non nasceranno più bambini con la sindrome di Down o con malattie cromosomiche e genetiche rare, ma è proprio questo il compito della scienza, quello di studiare e possibilmente evitare tutte quelle patologie che possono essere fonte di sofferenza, se non di letalità. […]

Eterologhi.

La Procura di Padova ha cambiato idea sulla cancellazione delle famiglie arcobaleno. Dopo aver impugnato i certificati di nascita di 37 figli di coppie lesbiche registrati all'anagrafe dal Comune, ora chiede in Tribunale il parere della Corte Costituzionale. E il giudice rinvia la decisione. Simone Alliva su L'Espresso il 14 Novembre 2023

La Procura di Padova che ha impugnato tutti e 33 gli atti di nascita di figli di coppie di due donne, registrati dal sindaco Sergio Giordani dal 2017, ha cambiato idea. E, dopo aver trascinato le coppie di mamme in Aula, chiede al Tribunale di mandare gli atti alla Corte costituzionale.  

È una storia che inizia nel mese di giugno: 33 coppie omogenitoriali si sono viste recapitare delle notifiche firmate dalla Procuratrice facente funzioni di Padova Valeria Sanzari con cui, in base al decreto del ministro Piantedosi, si chiedeva nei fatti la rettifica degli atti di nascita, dunque la cancellazione del cognome della mamma non biologica. «Togliere un genitore legale a minori anche a distanza di sei anni dalla nascita: un atto vergognoso e indegno di un paese civile», aveva commentato a L’Espresso Alessia Crocini, Presidente di Famiglie Arcobaleno. 

Del perché, a distanza di 6 anni, la Procura che era già in possesso di questi atti abbia deciso di impugnarli resta materia da analisti politici. Postuma, la storia dirà. L’Espresso aveva già raccontato a metà marzo della direttiva del ministro dell'Interno Matteo Piantedosi, che aveva fatto pressione sulle Procure italiane affinché togliessero diritti e doveri ai figli e ai genitori delle famiglie arcobaleno. Eppure qui la procura si era spinta oltre, o meglio a ritroso nel tempo.  

Una questione politica favorita da un’opportunità giuridica, quella del vuoto legislativo. La giurisprudenza infatti è vaga e una legge non c’è: «Le coppie madri non accedono alla gestazione per altri, ricorrono alla Procreazione medicalmente assistita all’estero». La premessa, fondamentale, è di Stefano Chinotti, Avvocato di Bergamo, membro della Commissione diritti umani del Consiglio Nazionale Forense e socio di Avvocatura per i diritti LGBTI – Rete Lenford. Questa decisione, infatti, non ha nulla a che fare con il discusso ddl sul reato universale di gestazione per altri.   

«Se il bambino nasce all’estero la giurisprudenza è ormai pacifica nel dire che il certificato dei nati all’estero con due mamme possa essere trascritto in Italia perché non si tratta di azione contraria all’ordine pubblico (non c’è la Gpa). La questione che si pone è un’altra: è possibile iscrivere nei nostri registri dello Stato civile dei bambini che nascono non all’estero da due donne ma in Italia? Il tema è ancora oggetto di un dibattito giurisprudenziale. Ci sono sentenze della Cassazione che ci dicono che non è possibile ma ci sono anche pronunce di merito che dicono che è possibile».  

Il cambio di passo della Procura sorprende anche l'associazionismo arcobaleno: l'avvocatura Lgbti Rete Lenford nell'appello "Affermazione costituzionale" pubblicato il 23 giugno scorso, oltre a indicare che l’illegittimità della cancellazione di figli delle Famiglie Arcobaleno da parte delle Procure, aveva sollecitato ogni autorità a investire nuovamente la Corte costituzionale della tutela delle famiglie omogenitoriali. In udienza, il giudice "si è riservato", cioè la decisione è stata rinviata a un successivo momento: il tribunale potrebbe decidere di togliere i bambini alle loro mamme, rendendo 37 figli legalmente orfani di un genitore, oppure rinviare la questione alla Corte Costituzionale.  

Intanto, si apprende dall'associazione di genitori omosessuali Famiglie Arcobaleno, il Comune di Padova ha proseguito in questi mesi a registrare i figli di mamme lesbiche, nonostante l'impugnazione degli atti da parte della Procura. Si tratta di altre 4 coppie omogenitoriali, che hanno visto il bimbo e la bimba della mamma biologica venire alla luce all'ospedale di Padova. L'ultimo caso di registrazione è stato una quarantina di giorni fa. Difficile dire se, alla luce della giravolta della Procura di Padova, arriverà anche per loro lo stesso tipo di impugnazione già deciso dalla Procura per le precedenti 33.

Noi mamme arcobaleno alla sbarra”. Maria Novella De Luca su L'Esprresso il 14 Novembre 2023

Inizia a Padova il processo contro 33 coppie lesbiche e i loro 37 bambini. La colpa è aver ottenuto la trascrizione dei figli, vietata dalla circolare Piantedosi e impugnata con effetto retroattivo dalla Procura. Ecco le loro storie: tra vite sconvolte e il rischio per i piccoli di restare orfani per decreto

Saranno in piazza ogni martedì fino alla alla vigilia di Natale, per difendere i loro figli. Con le bandiere di arcobaleno e la solidarietà di un’intera città. Trentatré coppie di madri e 37 bambini, dagli 8 anni ai 40 giorni, per i quali il tribunale di Padova dovrà decidere se renderli legalmente orfani di una madre. O lasciare che vengano cresciuti dalle due donne che insieme li hanno desiderati.

Madri alla sbarra: non era mai accaduto in Italia. Inizia oggi infatti a Padova il maxiprocesso civile contro le coppie lesbiche i cui figli sono stati riconosciuti alla nascita dal 2017 a oggi dal sindaco Sergio Giordani. Nel giugno scorso, in seguito ad una circolare del ministro Matteo Piantedosi, la Procura ha impugnato tutti i certificati di bambini nati in famiglie omogenitoriali. «La Procura non si è limitata, come a Milano, ad impugnare le ultime registrazioni, ma è andata indietro nel tempo, fino al 2017, decidendo di annullare i certificati anche di bimbi che oggi hanno 7 anni», spiega l’avvocato Michele Giarratano, che difende 15 delle 33 coppie. «La Giustizia è chiamata a decidere se da domani a questi figli va cancellata per decreto una delle due mamme, quella che non li ha partoriti. La Giustizia però è del preminente interesse del minore che si dovrebbe occupare e mi chiedo se togliere una madre ad un bambino, senza tenere dei legami, degli affetti, quindi renderlo di fatto orfano di una delle due genitrici, sia un’azione davvero nel suo interesse. Sarà una battaglia lunga». Se davvero il tribunale rettificherà gli atti di nascita, le mamme non biologiche perderanno qualunque diritto ma anche qualunque dovere nei confronti dei loro figli. Diventeranno, semplicemente, delle genitrici fantasma.

Oggi dunque una folla di mamme e bambini invece di incontrarsi davanti al cortile della scuola, si ritroverà in un’aula di tribunale. Perché nell’Italia che torna indietro e si ripiega su se stessa è ancora vietato essere figli di due donne o di due uomini. Ecco le loro storie, tra vite sconvolte e speranze tradite.

Elisa Barbugian e Sara Quinto: “Siamo la famiglia più numerosa ci spetta un premio, non la gogna”

«Siamo la famiglia arcobaleno più numerosa del Veneto — scherza Elisa — dovrebbero darci un premio perché incrementiamo la natalità, invece lo Stato vuole punire i nostri figli». Eccole: Elisa Barbugian, 38 anni e Sara Quinto, 35 anni, mamme di Carlo, 7 anni e mezzo, Cesare, 4 anni e le piccolissime Clelia e Caterina, nate soltanto un mese e mezzo fa. Una villetta a schiera, il gatto Mimì e il cane Totò, più nonni e vicini di casa che danno una mano. «Nonostante il divieto il sindaco Giordani ha registrato Clelia e Caterina, come impegno civile. Infatti a tempo di record è arrivata l’impugnazione da parte della procura», dice amara Elisa, che oggi sarà in tribunale insieme a Sara, tra le prime coppie a essere convocate. «Sapete cosa mi ha detto Cesare quando a giugno sono arrivate le notifiche e le nostre famiglie sono state sconvolte? “Perché vogliono togliermi mamma Sara?”. Come si può cancellare per decreto una madre dalla vita di un bambino di 4 anni o ancora peggio di 7 anni? Non avremmo mai immaginato che ci sarebbero venute a cercare, come ladre, per escludere dalle vite dei nostri figli quella di noi due che non li ha partoriti, ma desiderati e accuditi fin dal rimo istante». Se il tribunale ordinerà la rettifica Carlo e Cesare perderebbero Sara, mamma intenzionale e Clelia e Caterina perderebbero Elisa. «A scuola, al parco ci fermano dicendo: lottate, siamo con voi, i nostri figli sono inseriti, amati, fanno addirittura catechismo. La società è anni luce avanti ai tribunali, Una cosa è certa: non ci fermeremo, avremo giustizia».

Sabrina Meggiato e Barbara Girotto: “Gabriele felice dei due cognomi con che coraggio toglierne uno?”

«Gabriele ha cinque anni. Se gli viene chiesto: come ti chiami? Lui risponde orgoglioso: Gabriele Meggiato Girotto. Vi sembra umano che sulla notifica in cui ci viene annunciato che la sua mamma non biologica, cioè mia moglie Barbara, dovrà essere cancellata dalla sua vita, ci sia scritto che data la tenera età del bambino questo non influirà sul suo benessere psicologico e sulla sua identità? Provate a chiederlo a Gabriele». Sabrina Meggiato, 38 anni, mamma di Gabriele insieme a Barbara Girotto, 45 anni, è preoccupata e non lo nasconde. «È stato come essere colpite da una coltellata. Chi mai avrebbe potuto pensare che la Procura ci venisse a cercare casa per casa, dopo cinque anni, per sconvolgere la vita di nostro figlio? Dopo la registrazione eravamo rimaste in allerta, temendo che il certificato di nascita venisse impugnato. Non era successo nulla e credevamo che Gabriele fosse al sicuro, in un’Italia che magari iniziava a cambiare». Poi, l’estate scorsa, la doccia fredda. «Barbara non ha partorito, dovrà diventare un genitore fantasma? Che ingiustizia. Sapete cosa vuol dire? Per ogni passo di Gabriele dovrà avere una mia delega, non potrà accompagnarlo a scuola, dal medico, da nessuna parte. Per fortuna noi andiamo d’accordo, ci amiamo, non importa cosa dice la legge, Barbara è e resterà mamma di Gabriele. Però siamo umane e i rapporti si possono rompere, con il rischio che se non c’è accordo la mamma non tutelata dalla legge venga esclusa dalla vita dei figli».

Vanessa Finesso e Cristina Zambon: “Vittoria ha il Dna di entrambe vinceremo in tribunale”

«Sono stata operata per un tumore osseo. Adamatinoma si chiama. Da quasi un anno cammino con le stampelle, soltanto adesso mi sto riprendendo. Per tutta la vita dovrò restare sotto controllo. Se mi accadesse qualcosa cosa ne sarà di Vittoria? Se la procura di Padova cancellerà mia moglie Cristina dalla vita di nostra figlia, chi si occuperà di una bambina che ha soltanto un anno e 4 mesi?». Ha la voce accorata Vanessa Finesso, 33 anni mentre tiene in braccio la piccola Vittoria, accanto a sua moglie Cristina Zambon, 34 anni. Entrambe operaie vivono con i tre figli che Vanessa ha avuto da un compagno prima di conoscere Cristina. «Mi sembra di vivere un incubo. Fino a pochi mesi fa nostra figlia aveva due mamme, due cognomi, avevamo fatto una festa, il battesimo, adesso per la legge Cristina non avrà più alcun legame con lei semplicemente perché non l’ha partorita. Forse i giudici hanno dei sassi sul cuore. Ma Cristina è biologicamente madre di Vittoria e lo proveremo». Sì perché nel maxiprocesso contro le mamme arcobaleno che si apre a Padova ci sono coppie i cui figli sono nati con il metodo “Ropa”. «Abbiamo fatto una fecondazione eterologa in Spagna, a Bilbao. L’ovocita di Cristina è stato fecondato con il seme di un donatore e impiantato nel mio utero. Io l’ho partorita, ma Vittoria ha il dna di Cristina. Non conta nulla questo? Noi non faremo una stepchild adoption, siamo troppo povere. Vinceremo in tribunale. Per Vittoria e tutti gli altri bambini».

Anna Girelli e Caterina Minozzi: “Il nostro amore più forte nessuna sentenza ci separerà”

Quello che colpisce parlando con Anna Girelli e Caterina Minozzi, farmacista la prima, rappresentante farmaceutica la seconda, è la determinazione a non farsi abbattere. «Con due figli devi guardare la vita con ottimismo, se sarà necessario porteremo la nostra battaglia fino alla Corte Costituzionale», dice Anna Girelli, mamma insieme a Caterina di Ettore, nato nel 2018 e di Adele, nata nel 2022. «Entrambi i certificati di nascita dei nostri figli sono stati impugnati quando ormai pensavamo di essere al sicuro. Se in tribunale dovessimo perdere, per lo Stato mia moglie Caterina che non è la mamma partoriente dovrebbe scomparire dalle loro vite. Naturalmente non avverrà, qualunque sia il verdetto, ma quale impatto potrebbe avere una scelta del genere su Ettore ad esempio, che ha già 5 anni, cui verrà tolto un cognome? A scuola potrà continuare a chiamarsi Girelli Minozzi? Troveremo alle elementari quel clima di inclusione che ci ha accompagnato finora?». Anna e Caterina abitano in provincia di Padova, Ettore e Adele frequentano la scuola parrocchiale. «C’è stata una solidarietà fortissima, incontravamo gente che ci abbracciava dicendoci “vincerete”, ci sentivamo i Ferragnez», dice Anna con ironia. Ma il timore è che dopo questo processo il vento cambi. «L’Italia è un paese ancora omofobo, non abbiamo fatto nulla di illegale, ci occupiamo dei nostri bimbi come tutte le famiglie. Però siamo coppie lesbiche ed è la nostra libertà che vogliono colpire, colpendo i nostri figli».

Michela Vedovato e Sofia Zamboni: “La nostra Mia ha tre nonni ed è amata da tutto il paese”

È un amore nato all’università quello di Michela Vedovato e Sofia Zamboni, 34 e 35 anni, entrambe psicologhe. Un amore da cui è nata dieci mesi fa Mia, dopo una fecondazione eterologa in una clinica svizzera. «Fin da subito abbiamo capito che volevamo la stessa cosa, una famiglia e dei figli e alla fine ci siamo riuscite», racconta Michela, mamma intenzionale di Mia. «Abbiamo vissuto a lungo in Spagna dove i figli delle coppie omosessuali hanno identici diritti di chi nasce in famiglie eterosessuali. Pensavamo che anche in Italia piano piano le cose sarebbero cambiate. Invece no, Mia è stata legalmente figlia di entrambe soltanto per pochi mesi, poi è arrivata la doccia fredda. Io sono la mamma intenzionale mentre Sofia ha partorito Mia: se verrò cancellata dal suo certificato di nascita perderò non soltanto i miei diritti di genitrice, ma anche i miei doveri. È davvero incredibile». Perché invece tutto il clan familiare e così l’ambiente intorno a loro ha festeggiato l’amore di Michela e Sofia e soprattutto l’arrivo di Mia, felicemente accudita da tre nonni. «Quella contro di noi è una vera e propria persecuzione, il cui unico fine è togliere a dei bambini il diritto ad avere due genitori. È una mossa politica per dire che famiglie come le nostre non possono esistere, perché siamo una coppia lesbica. Dopo Mia avremmo voluto adottare un altro figlio. Figuriamoci. Se sarà necesario per tutelare nostra figlia faremo la stepchild adoption, ma non prima di aver dato battaglia fino in fondo».

Franca Chiarello e Ilaria Quadri: “Sono venuti a cercarci a casa per casa questo clima d’odio fa paura”

«Ci sono venute a cercare casa per casa. Facendosi dare i certificati di tutti i bambini nati negli ultimi sette anni. Cosa vi ricordano queste liste? Anche a Milano sono state impugnate le trascrizioni, ma soltanto le ultime. A Padova no, sono venuti a bussarci, hanno guardato gli archivi per trovarci tutte. Capite?» Franca Chiarello e Ilaria Quadri, 51 e 48 anni, sono mamme di Matilde, nata a luglio del 2019. Vivono in campagna in provincia di Padova, insieme a Bianca, la nonna di Matilde, due cani, due gatti e una gallina. Ora sono preoccupate. «Ilaria e io ci siamo conosciute da grandi — racconta Franca — non è stato facile diventare madri, ci sono voluti più tentativi, ma desideravamo fortemente costruirci una famiglia. Matilde è la più grande gioia della vita, è serena e solare. A volte unisce i nostri cognomi e dice: mi chiamo Matilde Quadrello. Abitiamo in un piccolo comune, all’inizio tutti ci guardavano con una certa curiosità, qualche difficoltà c’è stata, soprattutto sul piano burocratico, sulla carta d’identità mi sono dovuta rassegnare a firmare nella casella “padre”. Piano piano però ci siamo inserite bene nel tessuto sociale, Matilde è amata da tutti, frequenta anche un nido di orientamento cattolico». Qualcosa è cambiato però, ammette Franca con amarezza. «Da quando c’è questo governo chi riteneva illegittime le nostre famiglie ma taceva, oggi si sente libero di mostrare la propria omofobia. Pazienza. Se sarà necessario faremo la stepchild per Matilde, ma non prima di essere andate fino in fondo in tribunale».

La dottrina della fede, i registri battesimali e la mancata risposta sui bimbi nati da utero in affitto. La mancata risposta del dicastero per la dottrina della fede ad una precisa domanda sui registri battesimali apre scenari inaspettati. Nico Spuntoni il 12 Novembre 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 Padrini e madrine omosessuali? C'erano anche prima

 Il battesimo e l'utero in affitto

 Il dicastero contraddice se stesso

A chi pensava che l'avvicendamento al dicastero per la dottrina della fede non avrebbe comportato alcun cambiamento sono bastati pochi mesi per ricredersi. Il cambio di rotta con l'approdo del cardinal Víctor Manuel Fernández al Palazzo del sant'Uffizio c'è stato ed è sotto agli occhi di tutti. Non solo in termine di stile per la loquacità del nuovo prefetto con i giornalisti, ma anche per il contenuto dei documenti che escono da quello che è stato per secoli il dicastero più importante della Curia. Dopo aver adottato la risposta del Papa ai dubia dei cardinali Walter Brandmüller, Raymond Burke, Juan Sandoval Íñiguez, Robert Sarah e Joseph Zen - con quest'ultimo convinto che li abbia ispirati proprio il nuovo prefetto - ed aver risposto a quelli sulla comunione ai divorziati risposati avanzati dal cardinale Dominik Duka, Fernández ha conquistato l'attenzione di tutto il mondo con la diffusione di un nuovo documento, approvato dal Papa, che dà il via libera al battesimo delle persone transessuali e dei bambini di coppie omosessuali, anche se nati attraverso la pratica dell'utero in affitto e all'accettazione di persone transessuali ed omosessuali conviventi come padrini o madrine. Lo ha fatto nelle risposte fornite ad alcune domande inviate al suo dicastero da monsignor José Negri, vescovo di Santo Amaro, sulla possibile partecipazione ai battesimi e ai matrimoni di persone transessuali e omosessuali.

Padrini e madrine omosessuali? C'erano anche prima

Il documento del dicastero, approvato dal Papa al termine di un'udienza del 31 ottobre, ha delle novità importanti e che hanno suscitato proteste pubbliche e private all'interno della Chiesa. Ma, a dispetto dei titoli, non è una novità che un omosessuale possa fare il padrino o la madrina di battesimo. Anche prima delle risposte di Fernández alle domande di monsignor Negri, infatti, la Chiesa non discriminava gli uomini e le donne con tendenze omosessuali. Il codice di diritto canonico, a proposito dei padrini, stabilisce tra i requisiti per colui che è ammesso all'incarico che "sia cattolico, abbia già ricevuto la confermazione e il santissimo sacramento dell'Eucaristia, e conduca una vita conforme alla fede". Dunque, da sempre può fare il padrino o la madrina una qualsiasi persona omosessuale che conduca una vita retta, rimanendo continente. Chi convive non può essere padrino o madrina a prescindere dalla tendenza omosessuale perché questa viene giudicata una condizione non coerente con la missione che è chiamato ad assumere. Il gesuita Francesco Bersini in uno scritto di fine anni Settanta sull'ammissione dei divorziati risposati ai sacramenti e anche al ruolo di padrini, spiegava d'altra parte che "i sacramenti sono stati istituiti da Cristo ed affidati alla Chiesa, perché essa li custodisse e li amministrasse, ma non secondo la propria volontà" e che quel 'no', che nulla ha a che vedere con l'accoglienza pastorale, lo motiva con la "fedeltà a Cristo e non a un vuoto legalismo". Il Catechismo si pronuncia chiaramente sulle persone con tendenza omosessuale, insegnando che "devono essere accolti con rispetto, compassione, delicatezza" e condannando "ogni marchio di ingiusta discriminazione".

Il battesimo e l'utero in affitto

Le domande di monsignor Negri presentano una realtà che esiste nella società odierna ma non sempre ottengono risposte univoche. Ad esempio, il vescovo brasiliano chiede come "le persone omoaffettive possono figurare come genitori di un bambino, che deve essere battezzato, e che fu adottato o ottenuto con altri metodi come l’utero in affitto". Dal dicastero di Fernández non arriva una risposta ma si ribadisce soltanto che "perché il bambino venga battezzato ci deve essere la fondata speranza che sarà educato nella religione cattolica". Quello che però Negri voleva sapere era chiaro: gli omosessuali che formano una coppia con un bambino adottato o ottenuto tramite la pratica dell'utero in affitto possono essere inseriti entrambi come genitori nel registro battesimale? Se il dicastero per la dottrina della fede preferisce lasciare in sospeso la domanda, limitandosi ad affermare - come è sempre stato anche nei casi di figli di coppie non sposate - quanto già previsto dal diritto canonico e cioè che è lecito battezzare il bambino se c'è la "fondata speranza che sarà educato nella religione cattolica" , c'è chi ha già elaborato delle linee guida. E' il caso delle Orientações pastorais e canônicas della Conferenza nazionale dei vescovi del Brasile in cui si afferma - come spiegato dal canonista don Marcio Fernando França in un lavoro scientifico dedicato proprio a questo tema - che "non sarà lecito adottare la terminologia utilizzata dal diritto civile quando contraria al Diritto divino". La risposta che i vescovi brasiliani è quindi 'no', non si possono trascrivere entrambe le persone dello stesso sesso come genitori nei registri battesimali. Ma la Conferenza nei suoi orientamenti propone delle soluzioni: si propone, infatti, di utilizzare il termine di "adottanti" e di aggiungere, laddove compaiono nel registro civile, i nomi dei genitori biologici. Quindi la Conferenza - di cui lo stesso Negri fa parte - invita ad utilizzare "differenze terminologiche tra i registri civili ed ecclesiastici" sulla base di quanto sostenuto dal canonista don José San José Prisco per il quale "in nessun caso il nome di due padri o di due madri dello stesso sesso deve essere scritto nel libro dei battesimi".

Il dicastero contraddice se stesso

Una delle risposte a monsignor Negri, invece, contraddice quanto affermato in un documento uscito dallo stesso dicastero solamente solamente otto anni fa. Infatti, Fernández risponde che “a determinate condizioni, si può ammettere al compito di padrino o madrina un transessuale adulto che si fosse anche sottoposto a trattamento ormonale e a intervento chirurgico di riattribuzione di sesso”. L’allora congregazione per la dottrina della fede, rispondendo alla stessa domanda avanzata dal vescovo di Cádiz e Ceuta monsignor Rafael Zornoza Boy, aveva sentenziato “l’impossibilità che sia ammessa” quest’opzione motivandola col fatto che “lo stesso comportamento transessuale rivela pubblicamente un atteggiamento contrario all’esigenza morale di risolvere il proprio problema di identità sessuale secondo la verità del proprio sesso” e dunque ritenendo “evidente che questa persona non ha il requisito di condurre una vita secondo la fede e l'incarico di padrino e non può quindi essere ammessa all'incarico di madrina o padrino”. Questa interpretazione viene confermata anche in un lavoro scientifico del 2016 del canonista argentino don Javier E. González Grenón sul tema coerenza tra fede e vita per essere padrini di battesimi o cresime. Nell'articolo, entusiasta per Amoris laetitia, il canonista cita proprio la risposta a monsignor Boy ed osserva che "è chiaro che chi ha una sessualità disordinata, non essendo conforme con la fede e la morale che ciò implica, non dovrebbe essere padrino". Nelle conclusioni che fanno appello al discernimento del pastore proprio sulla base di Amoris laetitia, Grenón riconosce però che "ci sono condizioni che escludono automaticamente un credente dalla possibilità

di fare il padrino o la madrina" e vi include anche i transessuali.

Nel giro di otto anni, nell’arco dello stesso pontificato, il dicastero chiamato a custodire l’ortodossia cattolica ha fornito due risposte diverse alla stessa domanda. Una circostanza che inevitabilmente potrebbe provocare confusione.

Estratto dell’articolo di Michele Bocci per “la Repubblica” il 27 marzo 2023.

Sono sempre di più le coppie che si affidano all’eterologa. I bambini venuti al mondo grazie alle strutture che utilizzano questa tecnica in Italia hanno raggiunto quasi l’uno per cento del totale dei nati. I figli della fecondazione tra il 2019 e il 2021 sono aumentati addirittura del 64%. E, tra l’altro, i dati non tengono conto di coloro che continuano a scegliere di andare all’estero.

 Chi ha bisogno della procreazione medicalmente assistita (pma) con donazione di ovocita, però, è quasi sempre costretto a pagare. Sono pochissime infatti le Regioni che hanno messo insieme un’offerta di attività pubblica accettabile. Quasi tre quarti delle procedure avviate nel nostro Paese avvengono così in centri privati, che chiedono dai 5 ai 9 mila euro per ogni ciclo di pma.

[…]

 L’incremento delle culle

I numeri, inediti e gli ultimi disponibili, sull’attività dei centri di pma nel 2021, raccontano di un boom di procedure di eterologa e soprattutto di nascite. Due anni fa sono stati fatti 13.461 cicli contro gli 8.995 del 2019 (+49 per cento). I nati sono stati ben 3.608, cioè oltre 10 al giorno e addirittura il 64 per cento in più rispetto al 2019, e anche al 2020, anno nel quale tutta l’attività sanitaria si è ridotta a causa della pandemia da coronavirus. Mai si era registrata una crescita così importante in solo dodici mesi: oltre 1.400 nati. Negli anni precedenti si aumentava al massimo di 2-300 parti alla volta.

 […]

Il business dei privati

In Italia ci sono ben 83 centri privati che fanno la fecondazione eterologa. Presso di loro vengono effettuati quasi il 73% dei cicli, cioè 9.767. Le coppie arrivano soprattutto dal Sud, ma non solo.

 La Regione dove vengono effettuate più procedure a pagamento è il Lazio, che ha appena due centri pubblici (dove nel 2021 sono stati fatti appena 71 cicli) e ben 17 privati, che ne hanno effettuati 3.000. Se poi si scende più a sud, è il deserto. Ci sono due strutture pubbliche in Campania. E poi basta.

A certe latitudini anche i privati scarseggiano. Ce ne sono solo nella stessa Campania, in Puglia e in Sicilia. Da certe realtà, come Molise, Basilicata e Sardegna, le coppie sono costrette giocoforza a emigrare, visto che non hanno alcun centro dove si fa l’eterologa.

[…] La Regione con il sistema pubblico più forte, compresi i convenzionati, è la Toscana, dove si fanno 2.400 cicli l’anno con il sistema sanitario. Infatti, oltre due terzi delle coppie arrivano da fuori.

Fecondazione eterologa e maternità surrogata: i figli delle coppie dello stesso sesso e la legge che non c’è, chi sono e perché.  Milena Gabanelli ed Elena Tebano su Il Corriere della Sera il 29 Marzo 2023.

Lo scontro esploso sui riconoscimenti dei figli delle coppie gay è una conseguenza del fatto che la legge italiana non li prevede e quindi non li riconosce, ma loro esistono e da decenni chiedono tutela, appellandosi ai giudici o — più di recente — ai sindaci. In questo vuoto normativo sono nate le famiglie arcobaleno. Nessuno può negare a una coppia dello stesso sesso di aspirare a diventare genitori. Una strada è l’adozione di un bambino abbandonato. Questo è possibile in Portogallo, Spagna, Francia, Regno Unito, Irlanda, Islanda, Paesi Bassi, Belgio, Danimarca, Svezia, Norvegia, Finlandia, Germania, Svizzera, Austria, Slovenia, Croazia e Malta, ma non in Italia. La nostra legge consente l’adozione solo alle coppie eterosessuali sposate. Le coppie lesbiche, a partire dall’inizio degli anni duemila, hanno cominciato a ricorrere alla fecondazione eterologa nei Paesi dove era permessa. Dapprima in Svezia, poi Spagna, e poi nel resto dell’Europa occidentale. I loro figli più grandi hanno ormai vent’anni. E infatti oggi la stragrande maggioranza delle famiglie omogenitoriali, nove su dieci, sono formate da madri lesbiche.

La fecondazione eterologa

La fecondazione eterologa è una tecnica inizialmente sviluppata per aiutare le coppie eterosessuali con problemi di fertilità: si chiama così perché uno o entrambi i gameti (seme o ovulo) provengono da donatori esterni alla coppia in cui la donna porta avanti poi la gravidanza. In Italia la fecondazione eterologa era vietata dalla legge 40 del 2004 sulla procreazione medicalmente assistita. Divieto che poi la Corte costituzionale ha abrogato a partire dal 2014. E così oggi tutte le coppie eterosessuali sposate o conviventi possono accedere all’eterologa senza più viaggiare per mezza Europa. Prima di iniziare la procedura firmano un consenso informato vincolante: una volta che un uomo acconsente ad avere un figlio con la moglie o compagna grazie al seme di un donatore, o viceversa, non può più disconoscere il nascituro e il bambino viene subito registrato alla nascita con un semplice modulo depositato all’anagrafe. Si chiama «genitorialità intenzionale»: un modo di essere genitori che non passa dal legame di sangue, ma dall’impegno morale a far nascere un bambino, a crescerlo e prendersene cura. L’Italia pone però un limite alla genitorialità intenzionale: per legge i genitori devono essere un uomo e una donna.

Se la coppia è lesbica

In Spagna, Portogallo, Francia, Regno Unito, Irlanda, Islanda, Belgio, Paesi Bassi, Danimarca, Norvegia, Svezia, Finlandia, Germania, Svizzera, Austria e Malta il sesso dei genitori non conta: anche le coppie di donne sposate o conviventi possono ricorrere alla fecondazione assistita eterologa e avere un figlio con il seme di un donatore, esattamente come succede per le coppie eterosessuali. La compagna della donna che porta avanti la gravidanza (chiamata madre intenzionale) firma il consenso informato alla fecondazione eterologa, alla nascita è riconosciuta come secondo genitore e non può più disconoscere il figlio. In tutti i Paesi sopra menzionati, il bambino che nasce con l’eterologa da una coppia di donne viene registrato come figlio di entrambe con un semplice modulo, esattamente come succede per tutti gli altri bambini. Fa eccezione la Germania, dove la legge attualmente prevede che la seconda madre riconosca il figlio con la stepchild adoption (l’adozione del figlio del partner), ma i partiti di governo stanno lavorando per introdurre una legge simile a quelle degli altri Paesi europei, perché ritengono che adottare il figlio che si è contribuito a far nascere sia un processo troppo lungo e discriminatorio.

Italia: un solo genitore per legge

In Italia i bambini concepiti all’estero con la fecondazione eterologa vengono registrati come figli di una madre single. Davanti alla nostra legge perdono la mamma intenzionale che si è impegnata a farli nascere e a prendersene cura quando ha firmato il consenso alla fecondazione eterologa. Infatti, i bambini più grandi delle coppie lesbiche sono cresciuti con una madre legale, quella che li ha partoriti, e una che doveva avere la sua delega anche solo per andarli a prendere a scuola. A partire dal 2014, le famiglie arcobaleno hanno iniziato una battaglia legale chiedendo di volta in volta ai tribunali dei minori di vedere riconosciuto il rapporto delle madri intenzionali con i loro figli, perché il Parlamento non ha mai affrontato questo tema, anzi, ha deciso di togliere gli articoli sulla genitorialità anche dalla legge sulle unioni civili del 2016 perché troppo divisivi. I giudici, per dare una tutela legale minima al rapporto tra la seconda mamma e i suoi figli, hanno dunque usato una legge già esistente: quella sulla «adozione in casi particolari». È una forma di adozione che si usa per dare la responsabilità genitoriale a un adulto che non è il genitore dei bambini, ma è loro legato e se ne prende cura di fatto.

In Italia i bambini concepiti all’estero con la fecondazione eterologa vengono registrati come figli di una madre single.

Cos’è l’adozione particolare

Per ottenere l’adozione in casi particolari serve un procedimento fatto davanti al Tribunale dei minori, che incarica i servizi sociali di redigere, dopo colloqui con entrambi le mamme e almeno una visita a casa, una relazione sulla situazione familiare, sul legame affettivo della seconda mamma con il bambino o la bambina, sulla sua capacità genitoriale, sulle condizioni di vita del minore. La mamma che chiede di essere riconosciuta come tale deve inoltre presentare documenti che attestino il suo reddito e patrimonio. Alcuni tribunali, come quello di Milano, chiedono persino le analisi del sangue con test Hiv e dell’epatite. Sulla base di questi documenti il Pm minorile esprime il suo parere e lo inoltra al giudice, che autorizza o nega l’adozione. I tribunali più veloci, come quello di Roma, riescono a concludere la procedura in 9-12 mesi, ma in media ci vuole un anno e mezzo. Se in quel periodo la mamma adottiva disgraziatamente muore — è successo — il legame non viene perfezionato e il bambino non ha il diritto di ereditare. Durante il lungo procedimento può succedere che la coppia si rompa — ed è già successo molte volte — e che la madre legale ritiri il consenso all’adozione, oppure che la seconda mamma rifiuti di prendersi la responsabilità legale. In tutti questi casi i bambini hanno sempre perso la seconda mamma.

La Corte costituzionale (…): «Il legislatore dovrà al più presto colmare il denunciato vuoto di tutela, a fronte di incomprimibili diritti dei minori»

I sindaci in ordine sparso

Per evitare tutti questi problemi alcuni sindaci, a partire da Chiara Appendino a Torino, nel 2017, seguita poi dai sindaci di Milano, Bologna, Padova e molte altre città, hanno iniziato a fare delle «Dichiarazioni di riconoscimento» per via amministrativa subito dopo la nascita, sul modello di quelle previste per i padri non sposati, e basandosi sul fatto che le madri intenzionali avevano dato il consenso alla fecondazione eterologa. In questo modo la seconda mamma veniva annotata sull’atto di nascita del bambino diventandone genitore a tutti gli effetti. Siccome la giurisprudenza è incerta, non tutti i Comuni ovviamente seguono questa strada, tant’è che mentre ben 9 tra tribunali e Corti d’Appello hanno autorizzato i riconoscimenti alla nascita, la Cassazione si è pronunciata 7 volte contro. A chiarire una volta per tutte, a gennaio 2021 è arrivata la sentenza della Corte Costituzionale.

La maggioranza dei Paesi europei che per ragioni etiche hanno vietato la surrogata riconoscono comunque i bambini che nascono all’estero con questa tecnica, perché i figli non devono pagare le colpe dei genitori.

Il monito della Corte Costituzionale

Scrivono i giudici: «I nati a seguito di procreazione medicalmente assistita eterologa praticata da due donne versano in una condizione deteriore rispetto a quella di tutti gli altri nati, solo in ragione dell’orientamento sessuale delle persone che hanno posto in essere il progetto procreativo. Essi, destinati a restare incardinati nel rapporto con un solo genitore, proprio perché non riconoscibili dall’altra persona che ha costruito il progetto procreativo, vedono gravemente compromessa la tutela dei loro preminenti interessi». La Corte quindi chiede al Parlamento di fare una legge che equipari questi bambini a tutti gli altri: «Il legislatore dovrà al più presto colmare il denunciato vuoto di tutela, a fronte di incomprimibili diritti dei minori». Quella legge non è mai stata neppure discussa.

La maternità surrogata

Cosa c’entra con tutto questo il dibattito sulla maternità surrogata che sta occupando la politica italiana? Nulla. Innanzitutto, riguarda una minoranza delle famiglie arcobaleno (una su dieci, si stima). Si tratta della pratica, chiamata anche gestazione per altri (gpa) o in modo dispregiativo utero in affitto, con la quale una donna porta avanti la gravidanza di un bambino concepito con gameti esterni alla coppia oppure l’ovulo di una donatrice e il seme del padre o di uno dei padri, nel caso delle coppie gay. Alla nascita il bambino diventa figlio dei genitori che l’hanno incaricata, con contratto, di metterlo al mondo. In Italia, come nella maggior parte dei Paesi europei, la maternità surrogata è vietata. Le uniche eccezioni sono Regno Unito, Paesi Bassi, Danimarca, Portogallo e Belgio. La pratica però è possibile solo in forma altruistica, come per la donazione di organi, e di fatto vietata agli stranieri non residenti. In Ucraina, Grecia e Georgia invece la maternità surrogata a pagamento non è né regolata né vietata. E questi Paesi sono così diventati le destinazioni principali per le coppie eterosessuali, anche italiane. I genitori gay italiani invece possono fare la maternità surrogata solo in Canada (altruistica) e Stati Uniti (a pagamento), dove è legale per una donna portare avanti una gravidanza per altri, e i bambini vengono registrati con il nome dei due padri sull’atto di nascita.

La maggioranza dei Paesi europei che per ragioni etiche hanno vietato la surrogata riconoscono comunque i bambini che nascono all’estero con questa tecnica, perché i figli non devono pagare le colpe dei genitori. Germania e Austria, per esempio, trascrivono il certificato di nascita con due padri. Spagna e Francia prevedono l’adozione per il secondo padre. Finora l’Italia trascriveva i figli delle coppie eterosessuali nati con la surrogata (la maggioranza) per via del fatto che essendo etero non li «vedeva», mentre i figli delle coppie gay, a seconda delle città e dei tribunali, li trascriveva o imponeva l’adozione in casi particolari. Il 30 dicembre la Corte di Cassazione ha vietato la trascrizione automatica e indicato l’adozione in casi particolari, perché ritiene la surrogata «contraria all’ordine pubblico». A quel punto il Prefetto di Milano, su mandato del ministero dell’Interno, ha messo sullo stesso piano maternità surrogata ed eterologa, fermando anche le trascrizioni alle coppie lesbiche. Il centrodestra però ha spostato tutta l’attenzione sull’utero in affitto proponendo una legge che lo renda reato universale, cioè perseguibile in Italia pure se «consumato» in un Paese dove la pratica è legale. Per i giuristi la norma ha profili di incostituzionalità. Nel pollaio politico e di conseguenza mediatico, si continuano a ignorare i richiami della Corte Costituzionale sul vero punto: quello di tutelare i bambini venuti al mondo.

Surrogati.

Il Bestiario, l'Uterigno. Giovanni Zola l'8 Giugno 2023 su Il Giornale.

L’Uterigno è un animale leggendario che si batte perché i cuccioli dell’orsa non vengano separati dalla madre, ma poi difende l’utero in affitto

L’Uterigno è un animale leggendario che si batte perché i cuccioli dell’orsa non vengano separati dalla madre, ma poi difende l’utero in affitto.

L’Uterigno è un essere mitologico con una spiccata sensibilità nei confronti dei diritti dei più deboli, degli emarginati, dei migranti, dei “diversi” e, coma già detto, degli animali. L’Uterigno s’indigna quando i poveri migranti sono costretti, per guerre e povertà, ad allontanarsi dalla propria terra e non vengono accolti, perché essere strappati dalle origini di appartenenza è una cosa ingiusta e disumana. L’Uterigno difende i poveri costretti ad umiliarsi per sopravvivere obbligati ad accettare lavori sottopagati e con turni e orari disumani a cui è stato tolto il “reddito di cittadinanza” perché strappare all’uomo la dignità del lavoro è una cosa ingiusta e disumana. L’Uterigno si batte per i diritti delle minoranze, soprattutto per la comunità LGBTQ, perché non vengano stigmatizzati, odiati e discriminati sul lavoro – sebbene ci siano più omossessuali nel mondo del cinema, della televisione e della moda che parlamentari ex Movimento 5 Stelle nel Gruppo Misto, perché essere strappati dalla propria indole sessuale è una cosa ingiusta e disumana.

L’Uterigno scende in piazza a favore degli animali, soprattutto quelli a rischio d’estinzione, costretti a convivere con l’uomo, più bestia delle bestie, che li sfrutta e li uccide come fossero animali, perché essere strappati dal proprio habitat naturale è una cosa ingiusta e disumana anche se si tratta di animali. L’Uterigno combatte per la natura contro il “cambiamento climatico” per salvare la terra dalla apocalisse provocata dall’uomo – fine del mondo che sarebbe dovuta avvenire proprio quest’anno, ma che è stata posticipata al 2025 – e per salvaguardare l’esistenza dei nostri figli a cui è stata strappata l’adolescenza in modo ingiusto e disumano.

L’Uterigno grida vendetta quando non si rispetta il “diritto al desiderio” di coppie eterosessuali e omosessuali che non potendo avere figli propri, i primi per questioni di salute, i secondi per questioni tecniche, si affidano alla GPA o gestazione per altri o più volgarmente all’utero in affitto, pagando donne in grave difficoltà economiche che ospitano embrioni scelti dal catalogo dei desideri per ottenere il figlio con le caratteristiche preferite. Perché strappare il figlio alla madre non è considerata una pratica ingiusta e disumana.

(ANSA giovedì 31 agosto 2023) - Lo Stato italiano ha violato i diritti di una bambina, nata nel 2019 in Ucraina con il ricorso alla maternità surrogata, impedendo il riconoscimento legale del rapporto di filiazione con il padre biologico, e facendo di lei un'apolide. L'ha stabilito la Corte europea dei diritti umani giudicando l'Italia colpevole di aver violato il diritto alla vita familiare e privata della bambina di cui non svela le generalità. La Corte ha inoltre stabilito che le autorità italiane dovranno versare alla bimba 15 mila euro per danni morali e 9.536 per le spese legali sostenute dal padre biologico e la madre intenzionale.

A portare il caso alla Corte di Strasburgo nel settembre del 2021 sono stati il padre biologico e la madre intenzionale della bambina, entrambi cittadini italiani, e di cui nella sentenza non vengono indicate le generalità. Il ricorso a Strasburgo è stato introdotto dopo che i due si sono visti rifiutare ripetutamente dagli uffici dell'anagrafe e dai tribunali italiani il riconoscimento legale del legame con la bimba.

Nel ricorso si specifica che "il rifiuto delle autorità nazionali di riconoscere il padre biologico e la madre intenzionale come suoi genitori, da un lato, e il fatto che non avesse la cittadinanza, dall'altro, la ponevano in uno stato di grande incertezza giuridica". La piccola, afferma l'avvocato della coppia, Giorgio Muccio, non ha documenti d'identità, né tessera sanitaria, o accesso alla sanità e istruzione pubblica. Nella sentenza la Corte di Strasburgo riconosce che la piccola, che ha 4 anni, "è stata tenuta fin dalla nascita in uno stato di prolungata incertezza sulla sua identità personale", e conclude che "i tribunali italiani hanno fallito nell'adempiere all'obbligo di prendere una decisione rapida per stabilire il rapporto giuridico della bimba con il padre biologico".

Tiziano Ferro delude la sinistra arcobaleno. Alberto Busacca su Libero Quotidiano il 04 ottobre 2023

Che delusione, per la sinistra. Tiziano Ferro era il testimonial ideale per attaccare il governo sui diritti e per criticare la solita “destra bigotta” che se ne frega delle famiglie arcobaleno. E invece lui, Tiziano, si è tirato indietro. E la sua storia, dolorosamente privata, non potrà più essere utilizzata da dem e progressisti vari. Il cantante, si sa, è in fase di divorzio dal marito, Victor Allen. E, come succede a tante coppie che scoppiano, bisogna pensare anche (e soprattutto) ai bambini. Che in questo caso sono due: Margherita e Andres. Annunciando la separazione, a metà settembre, Ferro aveva spiegato: «I miei due meravigliosi figli trascorrono la maggior parte del tempo con me. In questo momento non posso lasciarli, e non posso portarli in Italia». Già, «non posso portarli in Italia». Apriti cielo. Questa frase aveva fatto sobbalzare la sinistra e i giornali progressisti...

La Stampa, per dire, era andata all’attacco a testa bassa. Con questo titolo: «Il divorzio di Ferro e i figli arcobaleno senza tutele in Italia». Anche Repubblica aveva preso la stessa strada: «Qui non c’è una legge che protegga i bambini delle coppie omogenitoriali: restano senza diritti del tutto o si vedono riconosciute le tutele solo a metà. Le parole del cantautore accendono di nuovo i riflettori sulle mancanze dell’Italia». E ancora: «Da quando è in carica, il governo ha usato questo tema, delicato e divisivo, come passepartout per attaccare i diritti di molte altre minoranze. Attuando una stretta che ha complicato ancora di più le cose». Insomma, i problemi di Tiziano Ferro sarebbero colpa del governo di Giorgia Meloni...

Ma le cose stanno davvero così? No, assolutamente. E a chiarirlo ci ha pensato lo stesso Ferro, intervistato da Candida Morvillo sul Corriere della Sera. Domanda: come mai non può portare i bambini in Italia? Risposta: «Questa frase ha scatenato gli odiatori seriali e ha dato pane ai cretini, specie considerando che i miei figli erano con me in tour in Italia questa estate. Ora, non poter partire coi bimbi è dovuto non alle leggi italiane, ma a un tecnicismo noioso e fastidioso: avendo un divorzio in corso, non posso lasciare lo Stato della California coi miei figli». Toh, non c’entrano le leggi italiane e non c’entra la Meloni. È solo la sinistra che se la canta e se la suona. Ma alla fine, guarda un po’, stecca sempre... 

Tiziano Ferro e la via crucis per i figli di coppie gay. Il cantante annuncia il divorzio: “Non potrò portare i bimbi in Italia”. Nel nostro paese due uomini non possono adottare, e se ricorrono alla maternità surrogata il riconoscimento è solo per il genitore biologico. Francesca Spasiano su Il Dubbio il 19 settembre 2023

Questa volta non è soltanto una questione di gossip. Se la notizia del divorzio tra Tiziano Ferro e suo marito Victor Allen continua a rimbalzare in rete è anche perché la loro storia rimette al centro il dibattito su una fetta di diritti che in Italia sono ancora negati. E lo saranno sempre di più, soprattutto alla luce della nuova legge, già approvata alla Camera, che rende la maternità surrogata un reato universale.

«Qualche giorno fa, davanti al mio mare, di fronte al mio monte, il mio uomo e io ci siamo sposati. La cosa è molto più grande di Victor e di me. Riguarda tutti», spiegava la pop star di Latina quattro anni fa, dopo la doppia cerimonia a Los Angeles e a Sabaudia nell’estate 2019. Da allora la coppia ha sempre mantenuto alta la “soglia” della privacy, soprattutto dopo l’annuncio nel febbraio del 2022, quando in famiglia sono arrivate «due meraviglie di 9 e 4 mesi», Margherita e Andres.

Tiziano Ferro diventa papà e vuole gridarlo al mondo, ma sa di doverne parlare con discrezione. «Comprendiamo e accettiamo la curiosità che regna intorno a noi - spiegava - ma vi chiediamo di rispettare la riservatezza» dei due bimbi: saranno loro, quando e se vorranno, a raccontare la loro storia. La stessa riservatezza è stata invocata anche oggi, quando Ferro ha annunciato che il suo matrimonio è finito. Il cantante ha voluto condividere sui social la «dolorosa separazione da Victor», spiegando ai fan che dovrà rinunciare al tour di presentazione del suo primo romanzo, La felicità al principio (Mondadori), per potersi occupare dei figli negli Stati Uniti.

«È un momento delicato, in cui tutta la mia attenzione è concentrata sulla tutela dei miei due meravigliosi figli, che attualmente trascorrono la maggior parte del tempo a casa con me. In questo momento non posso lasciarli e non posso portarli con me in Italia», ha scritto il cantante nel messaggio postato su Instagram. Dal quale, senza azzardare ipotesi, è possibile trarre almeno un’evidenza: in Italia le coppie omogenitoriali e i loro figli non hanno tutele. Soprattutto se quella coppia è composta da due uomini che desiderano diventare papà: nella migliore delle ipotesi, cioè al termine di un percorso di gestazione per altri all’estero con annesso certificato di nascita del bimbo, è su di loro che grava il maggiore “sospetto”. Perché? Facciamo un po’ di ordine.

In Italia due uomini che vogliono un figlio hanno soltanto una scelta: andare via. Adottare è impossibile per una coppia omosessuale (e anche per i single), e la maternità surrogata da noi è già reato: ciò che il centrodestra ora chiede è di perseguire il cittadino italiano anche all’estero. Ma c’è di più.

Nonostante il monito della Consulta, il legislatore fino ad ora non ha trovato una risposta utile a garantire le necessarie tutele ai minori già nati e che nasceranno: a regolare la materia è la giurisprudenza. La cosiddetta stepchild adoption, l’adozione da parte del partner, è stata stralciata dalla legge sulle unioni civili del 2016, come “sacrificio” necessario per ottenerne il via libera al testo. Nel quadro attuale normalmente sono i singoli comuni ad interpretare le norme, a decidere se trascrivere gli atti di nascita formati all’estero, e se riportare sul documento i dati di entrambi genitori, quello biologico e quello “intenzionale”. Se arriva un rifiuto la coppia può ricorrere al tribunale, ma ciò che il giudice deciderà è una lotteria. Lo confermano le decisioni a macchia di leopardo di cui si ha notizia su tutto lo stivale, in uno scenario complicato lo scorso gennaio dallo stop del Viminale ai sindaci.

Il ministero ha imposto la sospensione sulla base di una sentenza della Cassazione dello scorso dicembre, secondo la quale - in caso di maternità surrogata, considerata “contraria all’ordine pubblico” - il genitore di intenzione può ricorrere all’adozione in casi particolari. Un istituto regolato dalla legge numero 184 del 1983, che apre una “corsia” speciale per questi casi, ma solo se il genitore biologico presta il consenso, che a differenza dell’adozione “normale” si può revocare in seguito.

Ecco perché, se il comune si rifiuta di trascrivere il nome di entrambi i genitori sull’atto di nascita, la via è obbligata, ma anche parecchio lunga e accidentata. Che succede se il genitore biologico si ammala, o peggio, muore? Che succede se la coppia si separa? La risposta spesso è affidata alle sentenze, e può variare di volta in volta, fino a generare situazioni paradossali: come nel caso di una bambina nata in Ucraina e rimasta “apolide” fino a 4 anni, quando sulla vicenda si è espressa la Cedu. Un po’ diverso è il caso dei bimbi nati da due mamme tramite fecondazione eterologa: sul punto la giurisprudenza è abbastanza concorde, e le trascrizioni (normalmente) procedono spedite.

«Oggi, se voglio far entrare i miei figli in Italia, so che avrebbero diritto a metà del presidio genitoriale anche se ci sono due persone che possono prendersi cura di loro. Se stanno male, solo io posso andare al pronto soccorso perché Victor non risulta sul passaporto, il che è una cosa aberrante. Al di là dell’essere d’accordo o meno, della morale, di un senso di colpa costruito a tavolino, ho sempre pensato che i miei diritti non tolgono nulla a quelli degli altri. Quando poi questa cosa prende una faccia, che è quella dei tuoi bimbi, è allora che ti ferisce. Per questo non gli ho ancora fatto il passaporto italiano anche se ne hanno diritto, forse lo farò più avanti, o lo faranno loro. Tanto a farli entrare col passaporto italiano avrebbero solo svantaggi, mentre da americani son tranquillo, so che se vengo in tour Victor può prendersi cura di loro… È una cosa che può sembrare stupida, e invece mi fa soffrire da morire», spiegava  Tiziano Ferro in un’intervista a Rolling Stones del 2022. Un riassunto efficace di quanto sia complicato, se non impossibile per due uomini, diventare papà in Italia.

Estratto dell’articolo di Carlo Bertini per “la Stampa” giovedì 27 luglio 2023.

Dunque per la Camera dei deputati la maternità surrogata deve essere un reato universale, non solo nazionale come lo è dal 2004: quando la legge passerà al Senato, chiunque lo commetta fuori dai patri confini (nei paesi dove è consentita la gestazione per altri), sarà punito al suo rientro con il carcere da tre mesi a due anni. Pure se avrà un neonato in braccio al quale la legge varata ieri in prima lettura non concederà la possibilità di essere registrato sul suolo italiano, come avevano chiesto le opposizioni. [...] 

La maggioranza si compatta sotto questa bandiera, le deputate FdI danno vita davanti Montecitorio ad un flash mob insieme alla ministra della Famiglia, Eugenia Roccella, con lo striscione "Utero in affitto reato universale. Difendiamo il corpo delle donne".

E il Pd porta a casa la pelle, riuscendo a non spaccarsi di fronte ai colpi dei più liberal, come il radicale Riccardo Magi, segretario di +Europa: che scodella un emendamento-trappola per i dem, provando a sdoganare la gestazione solidale, ovvero quella senza fini di lucro dove alla gestante viene riconosciuto solo un rimborso spese.

I dem si sottraggono al voto ed evitano lo show down, che avrebbe fotografato le diverse sensibilità, malgrado alla vigilia le premesse ci fossero tutte. Con una sola defezione al regime d'aula imposto dalla segretaria: quella dell'ex ministra Paola De Micheli, che vota contro la proposta Magi. Il quale reagisce agli attacchi, denunciando «lo schiaffo in faccia alle famiglie e alle persone che hanno nella gestazione per altri l'unica alternativa per avere figli». E puntando il dito sul Pd dove «persiste un'anima conservatrice su questi temi che ogni volta blocca tutto». 

L'animosità della discussione in aula e i toni accesi svelano quanto il tema scaldi gli animi, e ancor di più lo svelano i silenzi degli assenti: tanti in entrambi gli schieramenti: 15 della Lega, 12 di Forza Italia, 5 di FdI, 15 dem, tra cui Elly Schlein; 14 di M5s, tra cui Giuseppe Conte e tre di Az-Iv. Il Terzo Polo, che ha lasciato libertà di coscienza, si è frantumato: quattro a favore - tra cui Carfagna e Rosato - sette contro - tra cui Boschi, Costa, Richetti - quattro astenuti - tra cui Elena Bonetti. [...]

Estratto dell’articolo di A. Ar. per il “Corriere della Sera” giovedì 27 luglio 2023.  

Cosa prevede la proposta di legge sulla maternità surrogata come reato universale?

La maternità surrogata (chiamata anche gestazione per altri o utero in affitto) oggi è già vietata in Italia, ma con questa proposta di legge viene previsto l’obbligo per i magistrati di perseguire un cittadino italiano anche se effettua questa pratica all’estero. 

Cambia qualcosa se il Paese dove viene effettuata la maternità surrogata considera lecita questa pratica?

No. Il reato è, appunto, universale e il cittadino italiano viene perseguito ovunque. 

Quali sono le sanzioni a cui va incontro chi viola questa legge?

Si rischia la reclusione da tre mesi a due anni e una multa da 600 mila euro a un milione. Questa è la stessa pena già prevista dalla legge esistente. 

[…] 

Con questa approvazione la proposta è diventata legge?

No, con questo passaggio c’è stata soltanto l’approvazione di un ramo del Parlamento, la Camera, e adesso il testo dovrà passare il vaglio del Senato. 

È la prima volta che arriva in Parlamento una simile proposta di legge?

No nella scorsa legislatura era stata Giorgia Meloni a presentare un testo assolutamente identico che, però, non era arrivato nemmeno alla discussione in commissione.

Maternità surrogata, la capogruppo Verdi-Sinistra la stronca: "Mercifica il corpo". Il Tempo il 31 luglio 2023

Nella discussione della gestazione per altri, anche detta maternità surrogata, uno degli interventi più applauditi è stato quello di Luana Zanella, la capogruppo dell'Alleanza Verdi e Sinistra alla Camera. Il motivo? La deputata si è schierata contro la proposta di Roberto Magi che introduceva l'alternativa della gravidanza per altri solidale e altruistica. In un'intervista rilasciata a Il Giornale, Zanella è tornata ad affrontare l'argomento con chiarezza. Seppur ecologista e femminista da sempre, la capogruppo di Verdi e Sinistra ha rivendicato il suo intervento alla Camera contro la Gpa solidale e approfondito il suo ragionamento sul tema.

"Questa proposta delinea un concetto di maternità che non ha nulla a che vedere con la maternità che si è affermata nel corso dei millenni. La maternità non può essere ridotta a un mezzo di produzione a vantaggio di altri": così Luana Zanella aveva raccolto l'entusiasmo del centrodestra, facendo implodere la sinistra e contribuendo a respingere l'emendamento proposto dal deputato di +Europa alla Camera. Ora, in un'intervista concessa a Il Giornale, Zanella ha spiegato meglio le sue idee. "Rivendico le mie parole. Perché non dovrei? Quell'intervento non è stato improvvisato. È frutto di una lunga militanza eco-femminista e di una cultura politica che si è formata nel femminismo della differenza. Le mie parole sono anche espressione di elaborazioni teoriche di grande spessore, che contestano la gestazione per altri come pratica che mercifica il corpo della donna", ha affermato.

Poi Zanella ha commentato lo scenario di un centrosinistra spaccato che non trova accordi su molti argomenti di discussione: "Purtroppo non sono sorpresa da queste divisioni, forse dispiaciuta. In ogni caso, sarà indispensabile affrontare una riflessione su questioni così cruciali, come l'origine della vita umana e la relazione madre-creatura". Alla domanda sul modo attraverso cui battere il centrodestra, la capogruppo Verdi-Sinistra ha risposto: "Con una coalizione che assuma su di sé la questione ecologica come bussola per le proprie azioni. Non solo per la sua urgenza, negata dalla premier Meloni in persona, ma anche perché è il buco nero che comporterà terribili disparità economiche e sociali". E sul dialogo con Azione e Italia Viva ha ammesso: "Nel lavoro parlamentare quotidiano io mi trovo molto bene con le donne di Azione e Italia Viva, a partire dall'ex ministra Elena Bonetti. Dunque sì al dialogo, ma ci dividono le opzioni del nucleare e delle trivelle, inaccettabili per noi ambientalisti".

 

Scontro sui diritti civili. Cos’è l’emendamento Magi sulla maternità surrogata e perché è stato bocciato alla Camera. Così come per il voto sulla mozione di sfiducia in Senato per il Ministro Santanché, anche per quello alla Camera sulla Gpa come reato universale, le opposizioni si sono divise: Partito democratico e M5s poco 'radicali' (rispettivamente non ha partecipato e si è astenuto dal voto), Italia Viva, Verdi e Sinistra favorevoli. Redazione Web su L'Unità il 26 Luglio 2023

È iniziato oggi alla Camera l’iter relativo alla proposta di legge del centrodestra, volta a introdurre il reato universale per la maternità surrogata. L’Aula ha bocciato tutti gli emendamenti, compreso quello presentato da Riccardo Magi di +Europa. Ma Cos’è l’emendamento Magi sulla Gpa e perché è stato bocciato? Il deputato di scuola radicale avrebbe voluto regolamentare la Gestazione per altri (Gpa) invece di criminalizzarla, istituendo un Registro nazionale delle gestanti. Sul tema, il Partito democratico non ha partecipato alla votazione. Il Movimento 5 Stelle si è astenuto. L’alleanza Verdi e Sinistra ha votato a favore. Il testo è stato sostenuto da Ivan Scalfarotto di Italia Viva. Anche sui diritti civili le opposizioni si sono dunque divise.

Cos’è l’emendamento Magi sulla Gpa e perché è stato bocciato

“Essere femminista per me ha sempre significato una cosa: rendere le donne, tutte le donne, libere di scegliere perché consapevoli delle loro scelte, senza alcuna imposizione o limite imposto da parte degli uomini e neppure da altre donne. Per questo, quando leggo di alcune femministe che si schierano contro la Gestazione per Altri e pretendono che il loro parere si faccia verbo per tutte le altre persone, sorrido amaro. La loro opinione, legittima, è la loro – aggiunge Bonino -. La mia è la mia, quella di ciascuna donna è solo e soltanto quella di quella donna. Così come non lottavamo perché tutte le donne abortissero, oggi non lottiamo affinché tutte le donne possano liberamente scegliere se essere portatrici. Lottiamo semmai affinché il confine tra lo Stato che tende a farsi etico e il corpo di ogni donna si fermi alle sue decisioni, rispettandole e accompagnandole. Alle donne che oggi voteranno in Parlamento sul Dl Varchi sul reato universale chiedo, ancora una volta, di tenerlo bene in mente“, ha scritto Emma Bonino sui social.

La questione ha invece ricompattato, almeno nelle dichiarazioni pubbliche, il ‘fronte radicale’ che per diritti civili si è sempre storicamente speso in tante battaglie politiche. Hanno dichiarato Maurizio Turco e Irene Testa, segretario e tesoriere del Partito Radicale: “Nell’ambito dei referendum che il Partito Radicale si appresta a presentare, sulla giustizia, sull’antiproibizionismo, ci sarà anche quello per abrogare il reato universale sulla gestazione per altri“. Gli ha fatto eco l’Associazione Luca Coscioni, attraverso le parole dell’avvocato e Segretario Filomena Gallo: “Con la votazione di oggi si è persa un’occasione per una buona regolamentazione della gravidanza per altri solidale, unica vera alternativa al proibizionismo che la maggioranza propone. Apprendiamo che il PD non ha partecipato alla votazione dell’emendamento Magi basato sulla proposta di legge dell’Associazione Luca Coscioni; mentre si è astenuto il M5S e solo AVS ha votato a favore.

Ci dispiace che sia la maggioranza sia l’opposizione non abbiano voluto cogliere questa possibilità di concreta regolamentazione. Noi, insieme con le tantissime persone che per una malattia o per una condizione hanno bisogno di accedere alla gravidanza per altri, non perdiamo la speranza che ci possa essere una valutazione diversa al Senato e continueremo con la mobilitazione in corso. Confidiamo che il ceto politico voglia ascoltare la voce dei tanti cittadini investiti da questo tema. Ringraziamo Riccardo Magi e Ivan Scalfarotto che alla Camera e al Senato hanno depositato il testo elaborato dall’Associazione Luca Coscioni con altri per una buona legge sulla gravidanza per altri solidale e ci auguriamo che altri colleghi vogliano sottoscrivere il testo“. Redazione Web 26 Luglio 2023

La Camera approva il “reato universale” di maternità surrogata. E l’opposizione si spacca. Zanella di Alleanza Verdi e Sinistra incassa un minuto di applausi dalla destra. Paola De Micheli e Bruno Tabacci votano in dissenso del Pd. “L’obbrobrio giuridico” ora passa al Senato. Simone Alliva su L'espresso il 26 Luglio 2023

Un pateracchio, un mostro, un obbrobrio giuridico a rischio pernacchia. La Camera approva. Accompagnato da questi giudizi espressi da parlamentari e giuristi, l’Aula di Montecitorio dà il via libera al progetto di legge Varchi di Fratelli d’Italia che modifica il reato di maternità surrogata, rendendolo universale, ovvero perseguibile anche se commesso all'estero. I sì sono stati 166, i contrari 109. Una giornata fatta di chiacchiere, polemiche, scontri interni e silenzi. La soglia di attenzione sull’Italia che arde, letteralmente o che finisce sott’acqua, in Aula è scarsa. Lo fanno notare in apertura i deputati di opposizione.

Il primo a intervenire è per il Partito Democratico, Alessandro Zan: «È evidente a tutti che questo obbrobrio giuridico è una grande arma di distrazione di massa», messa in campo nel momento in cui «l'Italia brucia al Sud e subisce nubifragi senza precedenti al Nord con un negazionismo vergognoso. Allora perché oggi lo si approva? Perché c'è un disegno preciso di questa destra, un attacco sistematico alle famiglie arcobaleno e ai loro figli» ha aggiunto. Un'offensiva che per Zan è cominciata con la circolare del ministro Piantedosi ai sindaci che impedisce le trascrizioni all'anagrafe dei figli delle coppie omogenitoriali nati all'estero. «Poi c'è la questione del regolamento europeo sui figli, bocciato dal Senato, e l'appoggio dato da Meloni alle norme discriminatorie di Orban in Ungheria». 

«Sotto il profilo giuridico» continua il deputato di +Europa, Riccardo Magi, «è una scemenza che contrasta con il codice penale e sorprende il silenzio del ministro della Giustizia. Nessuno cittadino europeo può essere condannato per un'azione che non sia reato o nel Paese in cui viene commessa o per i trattati internazionali. Questa legge ci porrà in contrasto con altri paesi sovrani. Questa maggioranza e questo governo vogliono rendere un reato universale ciò che altrove è nei fatti realtà. E allora saranno le istituzioni di queste democrazie a farvi una pernacchia». 

Tutti gli interventi sottolineano i pareri degli esperti auditi nelle commissioni e riportati anche da L’Espresso: il reato universale nel linguaggio giuridico non esiste, la legge avrà difficoltà di applicazione quando in altri Stati, a determinate condizioni, la maternità surrogata è consentita. Sulle coppie omogenitoriali il giudice su segnalazione potrà aprire dei fascicoli ma come dovrà procedere? Sia la Corte Costituzionale che quella di Cassazione hanno dichiarato che sì, la pratica della maternità surrogata costituisce una violazione dell’ordine pubblico (perché da noi è penalmente punita) eppure bisogna attivare la procedura di adozione dei casi speciali, e tutelare soprattutto il minore.

Dalla maggioranza silenzio. Nessuno deputato si iscrive per un intervento. Dai banchi della destra solo sorrisi, sguardi obliqui e ironici. 

Ed è un silenzio a presa rapida, come il cemento, una tecnica che si stringe in due parole: divide et impera. Diventa visibile quando la discussione plana sull’emendamento Magi che propone di consentire e regolamentare la cosiddetta maternità surrogata solidale, cioè non a fini di lucro (la gestante riceve pagamenti in forma di rimborsi spese). 

Il gruppo Alleanza di Verdi, Sinistra si divide con Sinistra Italiana che voterà a favore e i Verdi contro. Nel Pd l'equilibrio si raggiunge con la non partecipazione al voto, fatta eccezione per Paola De Micheli e Bruno Tabacci che votano contro. Il M5s sceglie l'astensione. Mentre il Terzo Polo opta per la cosa più semplice per un tema sensibile, vale a dire la libertà di voto. Ma è l’intervento della capogruppo di Alleanza Verdi e Sinistra alla Camera Luana Zanella a rompere e aprire uno scontro tutto interno, tra mondi e tra epoche, tra femminismi di seconda e terza ondata: «La maternità non può essere ridotta a un mezzo di produzione a vantaggio di altre e altri», ha chiarito Zanella, in un intervento che pronuncia in quanto «nonna e mamma». «Con il contratto proposto la donna rinuncia al proprio corpo. Questa proposta delinea un concetto di maternità che non ha nulla a che vedere con la maternità che si è affermata nel corso dei millenni».

Dai banchi della maggioranza si solleva un applauso che dura un minuto intero. Pro-Vita l’associazione anti-abortista e anti-scelta riprende subito l’intervento di Zanella e lo rilancia sui social. Elisabetta Piccolotti della segreteria nazionale di Sinistra Italiana, parlamentare dell'Alleanza Verdi Sinistra gela Zanella: «Tutelare le donne significa tutelare la libertà di scelta sul proprio corpo mai scegliere al loro posto e per loro. La mia esperienza di madre non può mai assurgersi a modello di vita per tutte le altre. Non siamo uno Stato etico». Per Laura Boldrini «La definizione più frequente sarà obbrobrio giuridico. Fermatevi, perché l'impatto che avrà sulla vita di questi bambini sarà devastante, potete immaginare cosa vuol dire sapersi figli di un reato universale. Perché vi volete accanire sulla vita di questi bambini?». 

Anche il dem Alessandro Zan, risponde senza citare direttamente Zanella, parla di «intervento reazionario» pronunciato da una «collega dell'opposizione» applaudito dalla maggioranza. «Stiamo parlando di persone di bambini e di famiglie che non meritano questo sciacallaggio quotidiano. Chiedo un linguaggio rispettoso alla vita di queste persone».

La discussione procede ma è un soliloquio solo dell’opposizione. Elon Musk accolto con giubilo dalla presidente del Consiglio, Giorgia Meloni e che ha avuto un figlio tramite maternità surrogata, è il grande protagonista degli interventi dell'opposizione. Con lui citate anche le famiglie arcobaleno, che si vorrebbero tutelare ma tutte le proposte emendative volte a garantire diritti ai figli che già esistono delle coppie omogenitoriali vengono respinte dalla relatrice Carolina Varchi.  Non serve a nulla l'invito dell'opposizione a ripensarci. «Mi vergogno per voi. Un comportamento totalmente disumano e crudele», si sfoga Zan. 

L'emendamento Montaruli di Fratelli d’Italia è l’unico a passare:  esclude la commercializzazione dei gameti dalla punibilità all’estero. E salva dunque la procreazione medicalmente assistita che era minacciata dal pdl Varchi e che rischiava di punire la pma fatta all’estero. «Una svista» dicono da Fdi. «La prova plastica della loro inettitudine e incapacità» rispondono dall’opposizione.

Ma l’affondo arriva a fine giornata. Il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove (Fdi) da parere favorevole all'ordine del giorno di Zanella (Avs) che impegna il governo ad adottare iniziative diplomatiche perché l'Onu imponga «il divieto globale nei riguardi della maternità surrogata». Il testo, sottoscritto anche da Augusta Montaruli (Fdi) impegna il governo «a intraprendere ogni iniziativa utile a livello internazionale affinché l'Assemblea Generale dell'Onu adotti una risoluzione con il divieto globale nei riguardi della surrogazione di maternità», sul modello di quella per l'eliminazione delle mutilazioni genitali femminili. 

A fine giornata il capogruppo di Fratelli d'Italia alla Camera, Tommaso Foti gongola: «L'ennesima profonda crepa all'interno del centrosinistra». Mentre Carolina Varchi rassicura: «Con questa legge nessun bambino sarà discriminato». Purché non siano figli di coppie omogenitoriali. 

Estratto dell'articolo di corriere.it il 19 Giugno 2023.

La procura di Padova ha chiesto formalmente al tribunale di rettificare i 33 atti di nascita chiesti da coppie di mamme e registrati dal sindaco della città, Sergio Giordani, a partire dal 2017. 

Le raccomandate - in cui si chiede al tribunale di «cancellare» il nome della madre non biologica e di «rettificare» il cognome attribuito alla figlia, tramite la cancellazione di quello della seconda mamma - sono già state inviate alle famiglie interessate e ai loro legali.

[…]

L'11 aprile scorso, obbedendo a una circolare sul tema del ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, del mese precedente, la procura aveva chiesto al Comune di Padova di trasmettere tutti gli atti di nascita di coppie omogenitoriali, prefigurando le successive richieste di annullamento al tribunale. 

Natalia Aspesi tra sviste, offese e manipolazioni: ecco il metodo Repubblica. Nella rubrica che tiene su “Il Venerdì” la giornalista mi attribuisce posizioni che non mi appartengono condendo il tutto con notazioni velenose sul mio conto. Ma dai vertici solo silenzio. Fabrizio Mastrofini su L'Unità l'11 Luglio 2023

Cara collega Natalia Aspesi, perché approfitti della tua rubrica su Il Venerdì e mi fai dire quello che non ho detto? Perché attraverso di me manipoli i tuoi lettori, facendo confusione, facendo finta di non capire la questione che ho sollevato? Eppure è semplice: rispondendo a una tua lettrice anonima (anonima! Ancora a questo punto siamo, come nell’Ottocento?), che solleva interrogativi a partire da una mia lettera, tu interpreti quello che ho scritto e mi metti in bocca (o sulla carta…) concetti che non mi sono mai sognato di esprimere (neppure di pensare).

E poi siccome ho reagito, della mia reazione citi quello che ti pare, per non fare capire più niente a nessuno, passare te per povera vittima e sferrare il più classico e inutile degli attacchi. Quello “ad hominem”, prendendo una mia foto in rete (delle molte) e commentandola. Complimenti per la lezione di alto giornalismo. E adesso facciamo capire un po’ meglio ai lettori de l’Unità di cosa parliamo. Il 9 giugno Il Venerdì, nella rubrica di N. Aspesi, pubblica una mia considerazione sul tema del ruolo dei padri, in relazione a due lettere di una signora che raccontava la sua esperienza di fecondazione eterologa.

Si noti: la mia era in riferimento ai temi trattati dalla signora – la questione di una donna che per avere un figlio ricorre, appunto, alla fecondazione eterologa e lo cresce da sola. Il 23 giugno, la stessa rubrica pubblica la lettera di una signora (anonima!) che mi cita esplicitamente, criticandomi, e risponde sulla sua esperienza di crescere un figlio da sola perché maltrattata dal marito, che ha (giustamente) lasciato. E fin qui la ‘cosa’ sarebbe pacifica. Il punto è che la nostra Aspesi non ha avuto (non ha voluto avere?) la prontezza di rispondere spiegando alla seconda che la mia lettera trattava di un tema completamente diverso. Chiarito questo, la Aspesi poteva rispondere alla sua lettrice come credeva più opportuno. Invece, legando la lettera del 9 giugno a questa del 23, che riguarda una situazione diversa, la Aspesi è partita con fantasiosi fuorvianti riassunti dei contenuti da me espressi.

Ecco gli esempi, per capire meglio. Dicevo il 9 giugno: “Non dovrebbe essere la relazione tra due persone a dare valore e valori ad una nuova vita? Certo, dirà, ci sono molti fallimenti nelle coppie e tante situazioni monogenitoriali (…) O dobbiamo rassegnarci a descrizioni di solitudini esistenziali fatte di padri assenti e madri (sempre) presenti? E in ogni caso, dovremmo sempre chiederci se davvero il “bene” di uno o dell’altro genitore, diventi automaticamente anche il bene del figlio/a?”. Scrive l’anonima del 23 giugno: “Ho cresciuto una figlia da sola, tanto dolore per solitudine alle feste scolastiche e compleanni (…). Non capisco cosa voglia dire il lettore Mastrofini, mi aiuti lei. Forse che anche avendo un padre biologico la fatica e la solitudine e talvolta la disperazione sono travolgenti?”.

E qui arriva il colpo di scena (il primo!). La Aspesi non dice che sono due temi diversi. Si mette a fare l’esegesi della mia lettera, e parte per la tangente. E così afferma sicura: “Il signor Mastrofini dice quel che gli uomini sostengono, che un padre “biologico” è meglio di un padre anonimo”; “Sempre che la nuova destra ce lo consenta, anche le donne potranno, volendo, avere figli senza padre, come del resto abbiamo avuto per secoli, con i padri fuggiti e del tutto indifferenti e lontani” e termina: “temo che gli uomini che in questo momento sono i più portati a sperare nelle nascite, in realtà temano di essere esclusi dalla procreazione, con l’idea terrorizzante di qualcosa di, forse, spaventoso”.

Faccio notare che non ho mai detto (e non penso) che “un padre biologico è meglio di un padre anonimo”. In nessun passaggio di quello che ho scritto si può avallare questa affermazione. E i riferimenti alla “nuova destra” o “l’idea terrorizzante” di essere esclusi dalla procreazione, non c’entrano con la mia lettera e le mie considerazioni. Invece diventa tutto un guazzabuglio indistinto. È una attribuzione di idee penalmente rilevante (se ci fosse una giustizia veloce, e se La Repubblica avesse un Garante dei Lettori!). Ma arriva il secondo incredibile colpo di scena. La rubrica del 7 luglio della Aspesi è dedicata a me. Quale onore. Prima un lettore (non anonimo) mi cita in positivo. Ma subito dopo la Aspesi prende la parola e per tre colonne e mezzo mi fa passare per uno che fa passare lei per una svampita manipolatrice poco di buono (ma quando mai!). E poi ci va giù con la perla delle bugie. La trascrivo.

Nota la Aspesi il 7 luglio che lei, poverina, il 23 giugno “in tutto il mio sproloquiare (il suo cioè, ndr) mai, dico mai, il signor Mastrofini viene citato”. E invece non è vero, visto che scrive proprio “Il signor Mastrofini dice quel che gli uomini sostengono che un padre ‘biologico’ è meglio di un padre anonimo”. Caspita che memoria corta! E poi, dai, ma che bisogno c’è di usare un tono astioso, commentare una foto trovata in rete e dire che non sapeva che fossi un collega giornalista? Cerca di ridicolizzarmi e non si accorge che nel descrivermi cita due libri che ho pubblicato, ne fa la pubblicità (anche l’Editore ringrazia per mio tramite!). Libri che siccome si occupano di Chiesa, mi fanno diventare automaticamente “di parte”. E già perché invece lei da che parte sta?

Questo è il giornalismo che ci meritiamo? Questo è il trattamento da infliggere ai lettori? In tutto questo discutere, chi capisce più da dove eravamo partiti? E invece eravamo partiti da un tema serio: adulti, rapporti di coppia, diritti dei figli, tecnologia che interviene sul desiderio di maternità e paternità. Temi seri, “incianfrusagliati” da ipotetiche fantasiose sbagliate esegesi di quello che i lettori non dicono. Qui agisce l’ideologia e il disordine informativo (tema di un mio libro che la Aspesi non cita mentre farebbe bene a leggere). Scopo: evitare di discutere per davvero. Come direbbe una scrittrice più famosa di me (e della Aspesi, temo), “niente e così sia”. Ho scritto a Direttore e vicedirettori de la Repubblica. Nessuna risposta, ovviamente. Scrivo una Lettera aperta, perché la vicenda è emblematica di un giornalismo arrogante, irrispettoso e alla lunga fallimentare. Fabrizio Mastrofini 11 Luglio 2023

Di gestante ce n’è una sola. La strana fissazione del sangue del mio sangue non è solo fascista, ma anche di sinistra. Guia Soncini Linkiesta il 27 Giugno 2023

In un’epoca in cui il dubbio viene considerato un gesto di ostilità, sarebbe interessante discutere del desiderio di fare figli senza madri

Quand’ero piccina, il fratello di mio padre s’innamorò d’una vedova, la sposò, ne adottò i figli. Mi ritrovai con due cugini un po’ più grandi di me, che potevano fare tardi la sera quando io ancora no.

Un’estate in Grecia, io avevo quindici anni e mio cugino diciannove, era appena tornato dall’aver fatto il militare nei parà, ogni tanto si buttava per terra annunciando che avrebbe fatto cento flessioni, Full Metal Jacket al bar sulla spiaggia.

A un certo punto sparì per tre giorni, aveva conosciuto una ed era andato a scopare senza avvisare nessuno (mica c’erano i cellulari); me ne ricordo solo perché, nella stessa vacanza, la vacanza in cui il maschio poteva star fuori tre giorni senza che nessuno si turbasse, mio zio una sera disse alla figlia che doveva tornare a mezzanotte «perché non sta bene che una ragazza faccia troppo tardi».

Fu la prima volta che pensai «che antiquato, che buffo», che era quel che nel Novecento pensavamo di molte delle cose di cui adesso diremmo disinvoltamente «fascista»: mio zio era nato negli anni Quaranta, certo che pensava che le femmine dovessero portarsi pubblicamente con più compostezza dei maschi.

Qualche anno dopo, forse rassegnato al fatto d’aver generato un’egoista che tutta la vita sarebbe stata troppo concentrata a occuparsi di sé per fare figli, o più plausibilmente così nato negli anni Quaranta da non concepire che i figli prendessero il cognome materno, mio padre sospirò: con te finisce il cognome Soncini.

Dissi che no, c’era mio cugino, lui magari i figli li faceva e si sarebbero chiamati Soncini. Mio padre mi guardò come una che non sa che dal rubinetto rosso l’acqua esce già calda e disse: ma non avranno il nostro sangue. Pensai la solita cosa: che antiquato, che buffo.

Mi è tornato in mente quando, all’ultima puntata di “Succession”, Roman Roy dice al fratello Kendall che il padre i suoi figli adottati non li ha mai considerati veri nipoti. Su Twitter è partita una polemica sul razzismo di quella frase, giacché la figlia di Kendall è indiana, e a me è venuto da ridere: io uno più bianco e di destra di quello che si buttava per terra a far le flessioni non l’ho mai visto, eppure mica bastava per passare la prova del sangue.

«Non mi viene in mente niente di più fascista del sangue. Il sangue che stabilisce parentele, gerarchie, eredità, tradizioni» ha scritto su Repubblica Chiara Valerio in uno strano articolo. Strano perché parlava delle coppie di lesbiche che a Padova erano registrate come madri di bambini che ora si ritrovano con una madre di meno. Strano perché sceglieva proprio quei casi lì per inveire contro il primato della biologia.

Ma quelli di madri lesbiche sono perlopiù casi in cui le madri sono entrambe madri biologiche: una ci ha messo l’ovulo, l’altra la gestazione. L’anagrafe registra solo una come madre biologica perché il modo in cui la società ha organizzato le famiglie risale a prima che un’operazione del genere fosse possibile; ma è innegabile che, nascendo tutti noi da un ovulo, quella che ci mette l’ovulo sia la tua madre biologica pure se non ti ha partorito; è innegabile che tu abbia il suo sangue.

Non voglio dire che mio padre non fosse fascista, mica pratico il revisionismo autobiografico per il quale gli italiani son tutti figli di partigiani e nessuno di evasori fiscali. Dico però che io, il sospetto che la fissazione per il sangue vigesse anche a sinistra, l’ho iniziato ad avere ormai un secolo fa, le prime volte in cui ho visto amiche assai democratiche e con problemi all’apparato riproduttivo non provare neanche ad adottare, perché il figlio doveva essere comunque loro, e con loro s’intende: col loro sangue. E pazienza se questo comportava una gamma di problemi che andava dalle cure per la sterilità al rischio di morire di parto, come nei film in costume.

Di solito a insistere per il sangue del mio sangue e le piume delle mie piume erano i mariti, giacché la trasmissione del sangue è una fissazione maschile stratificata nei secoli in cui la madre era certa e il padre no. Ma comunque le mie amiche li assecondavano molto più di buon grado di quanto avrebbero fatto, chessò, se quelli avessero richiesto che la moglie restasse a casa invece d’avere una carriera.

Che cos’è la maternità surrogata (già utero in affitto, poi derubricata a definizione offensiva, e ora anche maternità surrogata viene considerato scortese, per ora va bene gestazione per altri ma aggiorniamoci presto sulle sfumature lessicali) se non un modo di assecondare la fissazione della trasmissione del sangue?

Certo che l’adozione in Italia è assurdamente complicata, e non prevista se sei un uomo senza una moglie o una donna senza un marito, ma non se ne discute quanto della surrogata, perché con l’adozione il figlio non ha il tuo sangue, e negli anfratti più impresentabili della nostra formazione risuona un: se lo adotto poi non ha il mio sangue.

Mi dispiace molto vivere in un’epoca incapace di considerare il dubbio in modo diverso da un gesto d’ostilità, e non poter quindi discutere delle coppie di uomini gay che vanno all’estero a farsi fare un figlio da quelle che, non potendole più chiamare madri surrogate, potremmo forse definire collaboratrici familiari. Se se ne potesse parlare senza venire accusate di qualcosafobia, non m’interesserebbe tanto il ruolo delle gestanti e il potenziale di sfruttamento (sono perché ognuna faccia ciò che le pare, anche le cose più degradanti quali prendere un cane, lavorare nelle pubbliche relazioni, andare a correre: figuriamoci se non sono per la libertà di prestare il proprio utero a scopi riproduttivi).

Mi piacerebbe che qualcuno con gli strumenti della psicanalisi studiasse il fatto che gli uomini gay, che perlopiù (è un cliché, ma i cliché diventano tali perché hanno fondamento nella realtà) hanno rapporti strettissimi e di dichiarato grande amore con le madri, poi appena la società gliel’ha permesso si sono adoperati a mettere al mondo figli programmaticamente senza madri.

Chissà se c’entra il fatto che quel grande amore in realtà non è tale, o se invece sì, di mamma ce n’è una sola, come cucina mia mamma nessuna, però scusa tanto, mio figlio deve avere il mio sangue.

Una mamma è di troppo. La Procura di Padova cancella sei anni di atti. Gpa, la manifestazione a Roma contro il "reato universale". LISA DI GIUSEPPE su Il Domani il 19 giugno 2023.

Il dibattito sulla gestazione per altri arriva in aula alla Camera, dove la discussione generale si chiude tra banchi vuoti tipici del lunedì e la maggioranza si compatta su un tema che i partner condividono. Ma anche le opposizioni trovano l’accordo nella battaglia contro l’istituzione del reato universale.

Il centrodestra impone un’accelerazione al dibattito in attesa della possibilità di contingentare i tempi, che scatterebbe già a luglio. 

L’opposizione prende posizione contro il testo e promette iniziative fuori e dentro il parlamento. Più Europa spinge per la regolamentazione anche in Italia, il Pd si oppone al reato universale. 

A Montecitorio sono rimasti per tre ore in un’aula semivuota a dibattere di gestazione per altri e di reato universale. A Padova la Procura ha impiegato qualche giorno per impugnare 33 atti di nascita registrati dal sindaco Sergio Giordani dal 2017 a oggi, quegli atti che riconoscevano ai figli delle coppie omogenitoriali gli stessi diritti degli altri bambini. Un decreto con cui è stata cancellata la dicitura di “genitore 2” dallo stato di famiglia, nella scia della circolare inviata a metà marzo dal ministro dell'Interno Matteo Piantedosi. Non è la prima applicazione della stretta del governo Meloni, qui la specificità consiste nella retroattività, la cancellazione di atti firmati sei anni fa.

«Va contro le leggi e i pronunciamenti della Cassazione, un atto di nascita registrato con due mamme» è la posizione della procura. Una coppia di donne gay si è vista notificare un atto giudiziario che cancella il nome della madre non biologica e rettifica il cognome attribuito alla bambina di 6 anni, con la cancellazione di quello della seconda mamma. Un ricorso sarà discusso in tribunale il 14 novembre.

L’AULA

È questo il clima in cui è partito l’iter parlamentare della legge che vuole rendere la gestazione per altri un reato universale. Tre ore di parole. Il seguito dell’esame di un testo arrivato in commissione già blindato dal governo, verosimilmente sarà rimandato a luglio, quando sarà più facile portare a casa il provvedimento: la maggioranza potrà utilizzare lo strumento del contingentamento dei tempi a causa della scadenza ravvicinata. L’opposizione promette mobilitazioni in parlamento e fuori: il deputato e relatore di minoranza Riccardo Magi sfoggiava in aula un cartello che recitava «genitori, non criminali», mentre fuori dal palazzo si raccoglievano i difensori della gpa.

In difficoltà a trovare l’accordo su temi economici e giuridici, in rotta sulle nomine e in balia delle conseguenze della morte di Silvio Berlusconi, la destra ha bisogno di misure di bandiera da approvare. Agita spauracchi come quello dell’opportunità di scegliere i tratti somatici dei bambini (Stefano Candiani, Lega) o quello di strappare bambini dal grembo della madre per assecondare «il desiderio egoistico delle coppie omosessuali» (Grazia Di Maggio, FdI).

A sinistra si sommano i riferimenti alla recente visita di Elon Musk a palazzo Chigi e a sua figlia, nata dalla gestazione per altri, e alle critiche, non pervenute, di Meloni all’imprenditore sudafricano. A sottolineare che la gpa viene utilizzata soprattutto da coppie eterosessuali sono sia Laura Boldrini del Pd che Chiara Appendino del M5s. Alessandro Zan, responsabile Pd per i diritti, parla di «un attacco pesantissimo alle famiglie arcobaleno. Di quei bambini a FdI non frega assolutamente nulla». Sulla stessa lunghezza d’onda Andrea Grimaldi di Avs, che accusa la destra di essersi «sentita minoranza nel paese dopo le piazze arcobaleno che chiedevano gli stessi diritti per tutte e tutti».

Ma nonostante gli approcci differenti, le opposizioni – almeno Pd, Più Europa, M5s e Alleanza Sinistra e Verdi – trovano una quasi inedita unità sull’opposizione all’istituzione del reato universale. Fa eccezione il Terzo polo, che va in ordine sparso. Tra Italia viva e Azione, lo spettro va dalla posizione del senatore Ivan Scalfarotto, che a titolo personale ha presentato la proposta di legge firmata dall’Associazione Luca Coscioni sulla gestazione per altri solidale, a quella di Mara Carfagna, che invece ha contribuito alla stesura del testo in discussione. All’epoca portava la firma dell’ex ministra e di Meloni, in questa legislatura è stato riproposto dalla deputata FdI Carolina Varchi.

Più Europa spinge per la regolamentazione della gpa solidale (Riccardo Magi ha depositato lo stesso testo di Scalfarotto alla Camera), ma su questa posizione le sensibilità si dividono. Il Pd, che ha dovuto fare i conti con le prese di posizione di alcuni esponenti dell’ala cattodem, come quelle di Graziano Delrio e Valeria Valente, si ferma all’opposizione al reato universale. Elly Schlein ha già espresso la sua posizione personale favorevole, ma spingersi a un’ulteriore liberalizzazione rappresenta ora un azzardo eccessivo: più facile lasciare le cose come stanno, con il divieto, sancito dalla legge 40 del 2004, che vale in Italia ma offre la libertà di rivolgersi a medici all’estero.

I BAMBINI

Le opposizioni in commissione hanno votato compatte a favore degli emendamenti che tutelano la trascrizione dell’atto di nascita, messa in discussione dalla circolare Piantedosi. Secondo opposizioni e associazioni di settore, l’«obbrorio giuridico» presenta un profilo di conflitto con le norme internazionali: la Carta dei diritti Ue prevede che non si possa essere condannati per un reato se è una pratica legale nel paese in cui è stata portata a termine.

Andrea Quartini del M5s ha sollevato il rischio di scontri diplomatici con altri paesi. L’«estate militante» lanciata da Schlein è appena cominciata. Contro l’aria che soffia da Padova.

LISA DI GIUSEPPE. Scrivo di politica, economia ed esteri (soprattutto Germania). Ho lavorato per Reuters, La7, Corriere della Sera e Public Policy.

Mattia Feltri per “La Stampa” il 21 giugno 2023.

Giuristi titolati e altri più improvvisati prendono le misure alla decisione della procura di Padova di impugnare l'iscrizione nei registri comunali di trentatré bambini nati da coppie omogenitoriali. Si tratta di tutti e trentatré i casi di figli di due mamme in cui il sindaco di Padova, Sergio Giordani, si è imbattuto dal 2017, sei anni fa. 

Ora dovrà decidere il tribunale, ma nel frattempo non è trascurabile il dibattito fra chi ritiene fondata e chi no la scelta dei magistrati, il cui effetto, se l'impugnazione verrà accolta, sarà di dichiarare quei trentatré bambini figli di una sola madre, e non di entrambe.

Non è facile districarsi perché per esempio, secondo il ministro dei Rapporti con il Parlamento, Luca Ciriani, i pm hanno semplicemente applicato le leggi, quando la Corte costituzionale ha spesso invitato il medesimo Parlamento, con cui Ciriani dovrebbe intrattenere i rapporti, a votare una legge che ancora non c'è. 

Così tocca slalomeggiare fra sentenze della Consulta, della Cassazione e della Corte europea dei diritti dell'uomo (per la quale è obbligatorio garantire il legame di filiazione con entrambi i genitori), senza che il nostro farfallone potere legislativo si scomodi a fare ordine.

Dentro questo "quadro giuridico", dice Giancarlo Coraggio, presidente emerito della Corte costituzionale, la procura non poteva fare altrimenti. Eppure la scienza giuridica, che di solito mi appassiona molto, stavolta mi appassiona poco, perché continua a risuonarmi in testa la banale traduzione: stiamo dicendo a una mamma che quello non è più il suo bambino, e a un bambino che quella non è più la sua mamma.

 Estratto dell’articolo di Alessandra Arachi per il “Corriere della Sera” il 21 giugno 2023.

Ministra Eugenia Roccella, cos’è successo a Padova? La Procura ha impugnato gli atti di nascita di trentatré bambini figli di due mamme, atti costituiti a partire dal 2017, perché far passare tanto tempo?

«Non entro nel merito delle decisioni dei magistrati. Mi pare chiara però la cornice in cui questa vicenda si inserisce: in Italia si diventa genitori solo in due modi, o per rapporto biologico o per adozione. Lo ha ribadito anche la Cassazione». 

Di quale sentenza parla?

«Di quella del dicembre 2022 dove per le coppie omogenitoriali viene indicata la strada dell’adozione in casi particolari, un’adozione semplificata. Che ci sia il vaglio di un tribunale, quando non c’è un legame naturale, per i bambini è una garanzia in più. La genitorialità per contratto in Italia non esiste». 

A marzo il prefetto di Milano ha intimato al sindaco Sala di non trascrivere più i certificati di bimbi nati da due mamme. È stato il ministro Piantedosi a mandare una circolare in proposito a tutti i prefetti.

«II ministro Piantedosi ha richiamato al rispetto di tutti la sentenza della Cassazione. Il governo non ha cambiato di una virgola le norme o le regole. Sono stati i sindaci, per scelta politica, a compiere atti in contrasto con quella sentenza, sapendo che avrebbero potuto essere impugnati». 

E adesso che possono fare le coppie omogenitoriali?

«Seguire la procedura adottiva. E bisogna essere chiari: dopo le ultime sentenze della Consulta e della Cassazione, l’adozione in casi particolari immette pienamente il bambino nella rete di parentela del genitore adottivo, assicurandogli quindi nonni, zii, cugini e pieni diritti patrimoniali, e non richiede nemmeno il consenso obbligatorio del genitore biologico. Stiamo parlando della stepchild adoption, che qualche anno fa veniva richiesta a gran voce. Perché adesso non va bene più? Non è una procedura discriminatoria». 

Cosa intende dire?

«Che la stepchild adoption viene seguita da sempre dalle coppie eterosessuali, quando il nuovo compagno di una vedova con figli o di una mamma single vuole diventare padre dei suoi figli e non ha con loro un rapporto biologico».

La legge in Italia consente la fecondazione eterologa alle coppie eterosessuali e non a quelle omogenitoriali. Pensa sia il caso di intervenire su questa differenza?

«La legge 40, che non a caso parla di procreazione “assistita”, era stata pensata in coerenza con un quadro normativo fondato sulla filiazione naturale. Il senso era aiutare chi non poteva avere figli per motivi di infertilità, senza alterare questa impostazione. Quello che bisogna chiedersi è altro».

 Cosa?

«Se vogliamo mantenere un impianto fondato sulla filiazione naturale o vogliamo arrivare alla filiazione per contratto. Se consideriamo il figlio una persona autonoma, frutto di una relazione, o un diritto dell’adulto ottenuto attraverso un contratto.». 

[…] 

Quando si annulla un certificato di nascita di un bambino nato da due mamme una delle due mamme perde il diritto di essere genitore. Nel caso di Padova è già successo in una famiglia con un bimbo di sei anni: che fare?

«Di nuovo: c’è la stepchild adoption». 

Ma nel caso di una famiglia già costituita una mamma perde la genitorialità e ne rimane senza fino all’adozione: che conseguenze ci sono?

«È sicuramente un disagio e un dispiacere per l’adulto, ma non credo che i bambini si accorgeranno del cambiamento che probabilmente durerà pochi mesi. E nel frattempo nessuno escluderà la persona che hanno conosciuto come genitore dall’accompagnamento a scuola e dalle normali attività del bambino». […]

Estratto dell'articolo di repubblica.it il 22 giugno 2023.

Vale per tutti, coppie omosessuali ma anche eterosessuali. La decisione dell’Italia di non trascrivere all’anagrafe gli atti di nascita di bambini nati all’estero con maternità surrogata è legittima. 

Così ha deciso la Corte europea dei diritti umani che ha dichiarato inammissibili una serie di ricorsi contro l'Italia di coppie dello stesso sesso che chiedevano di condannare il Paese perché non permette di trascrivere all'anagrafe gli atti di nascita legalmente riconosciuti all'estero per bambini nati usando la maternità surrogata. 

[…]

"Il desiderio delle coppie di veder riconosciuto un legame tra i bambini e i loro genitori intenzionali - osservano i giudici di Strasburgo - non si è scontrato con un'impossibilità generale e assoluta, dal momento che avevano a disposizione l'opzione dell'adozione e non l'avevano utilizzata". 

Una pronuncia che irrompe in Italia a pochi giorni dalla decisione della Procura di Padova che ha impugnato le 33 iscrizioni all’anagrafe di bambini di coppie gay registrate dal sindaco anche con il nome della mamma non biologica […]

(ANSA il 22 giugno 2023) - "Dovremo pensare a una soluzione legale per i bambini nati fin qui". Lo ha detto la ministra alla Famiglia e alle Pari Opportunità Eugenia Roccella riferendosi alla maternità surrogata durante la registrazione de La Confessione di Peter Gomez, in onda sul Nove venerdì 23 giugno. 

"Dovremo pensare a una sorta di sanatoria - ha spiegato - una volta che ci sarà la nuova legge per la perseguibilità dell'utero in affitto, anche per chi lo fa all'estero, visto che in Italia è già vietato per fortuna. Io penso che sia utile introdurre una soluzione legale che non sia un modo di aggirare le leggi per i bambini nati fin qui".

Sui “figli di due donne” la Procura di Padova ha applicato la Legge. Jacopo Coghe su Panorama il 20 Giugno 2023

Ci sono leggi e sentenze della Cassazione sul tema; non si tratta del capriccio oltranzista di un giudice 

Sinistra e progressisti pensavano di avere in pugno la giurisprudenza e le procure d’Italia e di fare il brutto e il cattivo tempo quando si tratta di “figli” di coppie dello stesso sesso. Ieri, però, fortunatamente, hanno ricevuto una doccia fredda che li ha fatti ritornare alla realtà dei fatti e soprattutto a vedere qual è davvero la natura delle cose. Stiamo parlando della decisione della Procura di Padova di impugnare ben 33 atti di nascita formati dallo stesso Comune fin dal 2017 e che recavano l’indicazione di “due madri”. Promotore di questi atti illegittimi, era stato il sindaco tuttora in carica, Sergio Giordani, eletto per due volte come indipendente ma nell’orbita del centrosinistra e sostenuto da coalizioni formate da Partito Democratico, Socialisti, La Sinistra e liste civiche. Una decisione, quella della Procura retta dal procuratore Valeria Sanzari, che ha delle motivazioni chiare. «Va contro le leggi, e i pronunciamenti della Cassazione, un atto di nascita registrato con due mamme», i motivi riportati anche dalla stampa nazionale. E non potrebbe essere altrimenti perché, lo sappiamo, i bambini non possono essere figli di due mamme (così come non possono esserlo di due papà), ma nascono e hanno diritto a vivere, crescere e conoscere una mamma e un papà. Appare sempre più inequivocabile, dunque, come le anagrafi italiane non siano e non debbano essere trattate come il laboratorio per le sperimentazioni sociali delle Famiglie Arcobaleno e dei sindaci di centro sinistra. La Procura lo ha fatto capire impugnando gli atti e dunque semplicemente facendo il proprio dovere: difendere lo Stato di Diritto e la realtà delle cose. Ad aver messo quei bambini in una situazione di disagio sociale non è stata la Procura che, appunto, fa rispettare la legge richiamando la giurisprudenza della Cassazione (in particolare la sentenza 38162/22), ma le coppie che hanno deciso di privarli per sempre del papà che avevano il diritto di conoscere e dei sindaci che hanno manipolato ideologicamente i loro atti di nascita per gratificare un loro segmento elettorale. E’ giunta l’ora - e a Padova lo si è dimostrato - di guardare in faccia la realtà e dire una volta per tutte basta con la pratica immonda di mettere al mondo bambini orfani di padri e madri vivi; basta uteri in affitto; basta commercio di gameti umani; basta mercato dei figli. L’azione della Procura è stato dunque uno schiaffo che ha fatto tornare alla realtà il sindaco e la sua amministrazione e a livello nazionale ha scardinato ancora di più le ideologiche pretese dei cosiddetti “sindaci arcobaleno ribelli”, ovvero quel manipolo di primi cittadini che, in barba al loro ruolo di pubblici ufficiali, cercarono lo scorso maggio di sfidare la legge e la direttiva del ministro Piantedosi, con una loro assemblea Lgbtqia+ a favore delle trascrizioni anagrafiche a Torino, tra loro anche i sindaci Roberto Gualtieri (Roma), Beppe Sala (Milano), Gaetano Manfredi (Napoli), Stefano Lo Russo (Torino), Matteo Lepore (Bologna), Dario Nardella (Firenze) e Antonio Decaro (Bari).

Commercio di bambini: il mercato aperto in Australia e il mercato nero globale. Dee McLachlan il 10 giugno 2023 su gumshoenews.com.

Tutti abbiamo sentito e letto dei rapporti sul "traffico di bambini" in tutto il mondo. Si va da bambini senza certificato di nascita oggetto di traffico transfrontaliero; al prelievo di organi, all'adrenocromo e al sacrificio di bambini. E alla fine dell'articolo, includo di seguito il video (redatto) di Clayton Morris sulla nuova serie di documentari di Mel Gibson che espone Hollywood. Questo è il mercato nero.

Ma in questo articolo scriverò del mercato aperto , in bella vista, del commercio di bambini in Australia. È un business enorme e redditizio. Dal mio lavoro e dalle mie indagini degli ultimi anni sulla "protezione" dei minori ho prodotto un rapporto intitolato: “Un rapporto sullo sfruttamento dei bambini in Australia”

L'obiettivo del rapporto è avviare indagini sull'attività di trarre profitto dal commercio o dalla tratta di bambini (non quei casi in cui è richiesta la legittima protezione dei bambini). Questo è un breve estratto del rapporto:

Potrebbe essere difficile capire come questo sia possibile in Australia. Ci sono state 8.000 vittime di abusi istituzionali [la Royal Commission in Institutional Responses into Child Sexual Abuse] ma molti credono che questo rapporto (riferendosi allo sfruttamento) sia una macchia maggiore per il paese. Alcuni stimano che potrebbero esserci più di quindicimila bambini sottratti illegalmente o del tutto ingiustificatamente ai loro genitori per guadagno finanziario. A vantaggio delle leggi sulla segretezza, questa è una brutale realtà nascosta in bella vista.

Materie in Avviso

Il commercio di bambini (vale a dire, tratta di bambini)  è definito come la “rimozione” illecita o illegale o lo sfruttamento di bambini per guadagno finanziario o compenso… mediante il continuo sfruttamento delle loro vittime.

The  Conspiracy to Defeat the Course of Justice  per ostacolare, prevenire, pervertire o sconfiggere il corso della giustizia nei Tribunali dei Minorenni in tutta l'Australia.

L'AFP ha la responsabilità primaria delle forze dell'ordine per indagare su frodi e corruzione gravi o complesse contro il Commonwealth , compreso l'uso illegale di materiale o servizi, la causa di una perdita, l'uso improprio dei beni del Commonwealth e la condotta del cartello.

Questo avviso descrive in dettaglio come alcune agenzie governative, dipendenti pubblici e appaltatori esterni stanno utilizzando il sistema di protezione dei minori per facilitare e incentivare l'allontanamento illegale e ingiustificato dei bambini australiani dalle loro case. Questi bambini vengono “processati” attraverso i tribunali minorili e la loro rimozione da una madre e/o un padre affettuosi attraverso pratiche segrete e ingannevoli è criminale. Queste persone hanno cospirato, consapevolmente o inconsapevolmente, per sconfiggere il corso della giustizia e danneggiare i bambini. Le conseguenze dei tre crimini summenzionati sono che stanno danneggiando generazioni di bambini australiani e i loro protettivi genitori e famiglie.

Panoramica del danno

Il processo e le conseguenze dell'allontanamento di un bambino da una relazione d'amore e da un genitore è una delle peggiori forme di abuso psicologico nei confronti del bambino . La scienza dimostra che altera il cervello del bambino e non è solo un disgregatore della società, ma può distruggere la famiglia e spezzare il sacro legame biologico della maternità. …queste azioni possono essere considerate calamitose e catastrofiche. …Sir James Munby ha spiegato la gravità dei casi familiari o di un bambino sottoposto a procedimenti di cura… e il professore di pediatria alla Harvard Medical School, Charles Nelson – sulla separazione di un amorevole legame genitore-figlio – come riportato dal Washington Post, ha detto: “ L' effetto è catastrofico… Ci sono così tante ricerche su questo che se le persone prestassero attenzione alla scienza, non lo farebbero mai”.

Comprensione della protezione dell'infanzia in Australia

 “ I bambini e i giovani in Australia hanno il diritto di crescere sicuri, connessi e supportati nella loro famiglia, comunità e cultura. Hanno il diritto di crescere in un ambiente che consenta loro di raggiungere il loro pieno potenziale. " ( Fonte )

Il mantra del governo è uno sforzo ambizioso per proteggere i bambini. Tuttavia, la soluzione predefinita per la "protezione" sembra essere quella di "allontanamento dei bambini" con attualmente oltre 60.000 bambini in custodia statale - vale a dire, Out-of-Home-Care (OOHC)... È anche quasi impossibile ottenere dati fattuali grezzi su i bambini in affidamento mentre l'industria ei tribunali per i minori operano in SEGRETO; ma aneddoticamente le agenzie di protezione sono in molti casi l'antitesi di questo messaggio. I bambini affidati alle cure del governo hanno maggiori probabilità di subire danni; le loro famiglie sono state distrutte e il potenziale del bambino stentato. è generazionale...

Decine di migliaia di persone beneficiano finanziariamente dell'allontanamento dei bambini da case non sicure e sicure … I mezzi di sussistenza di molte persone dipendono dalla cosiddetta protezione dei bambini (cioè allontanati). Più bambini vengono rimossi dai tribunali in OOHC, maggiori diventano i budget... Una conseguenza naturale dell'economia comportamentale...

L'impatto della rimozione ingiustificata dei bambini dalle loro case legittime per incentivi finanziari sta corrodendo il tessuto stesso della società e sta provocando fratture sociali. …l'impatto delle loro azioni sulla società australiana è epocale, dannoso e di vasta portata.

Gli abusi sui minori e il business dei traslochi di minori

C'è una negazione collettiva degli abusi sui minori e questo è in parte dovuto all'ignoranza e all'apatia. È emerso che il PROTOCOLLO della polizia prevede di nascondere le prove di abusi sessuali su minori, a meno che non sia impossibile farlo. Quando un genitore protettivo denuncia un abuso sessuale del proprio figlio, il risultato più probabile è che perda il figlio.

Queste azioni vanno contro la scienza. Un documento ben documentato, di Collin-Vézina, De La Sablonnière-Griffin, Palmer & Milne, 2015 p.123, avviato dall'Office of the Children's Guardian (OCG) del NSW ha presentato uno studio che rilevava che l'Australia, sorprendentemente, ha il più alto tasso riportato di abusi sessuali su bambine a livello internazionale al 21,5% ( Stoltengorgh, van Ijzendoorn, Euser, & Bakersman-Kranenburg, 2011)...

La Commissione etica legislativa australiana (ALECOMM) ... dimostra che le decisioni dei tribunali aumentano il rischio per i bambini ... I cosiddetti avvocati indipendenti per bambini e esperti di tribunali per la famiglia spesso incoraggiavano i tribunali a rimandare i bambini che avevano rivelato abusi sessuali a vivere con il loro aggressore e che il contatto con cessa il genitore protettivo.

È ovvio che alcuni bambini devono essere tenuti al sicuro da una casa danneggiata o pericolosa, ma con oltre 60.000 bambini in OOHC; il numero di questi bambini che rientrano in questa grave categoria a rischio non è noto. Tuttavia, molti sostenitori e ricercatori stimano che forse il 50% dei bambini in OOHC sia stato allontanato ingiustificatamente/illegalmente.

Comprensione dell'industria del "commercio di bambini" in Australia

Certo, ci sono alcuni bambini che hanno bisogno di essere salvati, ma questo dovrebbe avere un'adeguata supervisione giudiziaria civile o penale - e non attraverso i  fronti della camera stellare del 1692 Oyer e Terminer chiamati Tribunali dei bambini e della gioventù.

La segretezza nei tribunali minorili avrebbe lo scopo di proteggere la privacy di un bambino, ma viene utilizzata per proteggere gli autori e mascherare il dannoso "business dei traslochi". C'è una cultura della segretezza e una cultura dell'occultamento degli abusi sessuali sui minori. Esistono vari metodi utilizzati per sabotare il legame genitoriale protettivo del bambino e i vulnerabili, spesso attraverso la stesura di rapporti di opinione psicologica in cui una frase può essere usata per maledire un buon genitore. Queste opinioni di "esperti" vengono spesso acquistate per facilitare la rimozione dal tribunale. Sarebbe più corretto dire: "La questione è davanti alla camera delle stelle". E una volta che questi bambini vengono rimossi dalle cure statali, diventano beni (unità) o "beni mobili" per un'industria che offre enormi incentivi finanziari nel settore OOHC.

Anche quando viene denunciata la criminalità dei dipendenti pubblici, le agenzie di protezione e i dipendenti pubblici sembrano incapaci di invertire il "commercio" e riparare un torto. I bambini trafficati dalle agenzie governative statali hanno, in effetti, una "Politica di non ritorno".

Comprendere lo sfruttamento

La parola "traffico di bambini" evoca immagini di bambini africani di età compresa tra gli 8 ei 14 anni caricati con la forza su camion e portati oltre il confine con la Liberia per lavorare nelle piantagioni di cacao della Costa d'Avorio. Ad esempio, il valore di ogni bambino è determinato dalla produzione lavorativa del bambino nell'arco di diversi anni, che potrebbe essere dell'ordine di 8-10 dollari australiani al giorno. I guadagni del commercio dei bambini derivano dalla vendita del cacao. Un bambino vittima di tratta (adolescente) potrebbe essere "valutato" circa A $ 3.000 ogni anno per il "sindacato"...

Al contrario... ogni bambino inserito nel sistema in Australia, diventa una "unità", una risorsa, [e] equivale all'incirca a $ 90.000 a $ 150.000 per unità (bambino) in cura ogni anno. Si dice che i bambini con bisogni speciali "costino" (in servizi) fino a $ 350 - 450.000 all'anno; questo è ulteriormente supportato dall'NDIS. Più bambini sono sotto tutela... più soldi (tasse) sono richiesti, con conseguenti salari, tasse e profitti sempre crescenti. In Australia, il denaro che sostiene coloro che beneficiano finanziariamente di traslochi illegali proviene dall'inganno (frode) del contribuente.

Sono in atto molti meccanismi per facilitare i trasferimenti ingiustificati... [e] non hanno senso – a meno che non si consideri che questi bambini sono semplici “beni” per un'industria che beneficia dell'ottenimento e del commercio di bambini – dove i bambini hanno un valore e dove i profitti sono aumentati da l'espansione del "traffico" di prodotti... [e] altro denaro viene trasferito per finanziare l'industria della giustizia nelle camere stellari dei tribunali dei minori e dei giovani. Enormi guadagni finanziari vengono ottenuti attraverso processi giudiziari quando questi trasferimenti illegali vengono contestati nei tribunali. Questo rientra nel dipartimento del procuratore generale ed è un'ulteriore frode al Commonwealth.

[Estratto di fine rapporto. Il rapporto delinea i meccanismi e gli esempi di denaro speso e scambiato.]

Domande: Quanto vale il settore Out of Home Care per l'Australia? Quanti soldi vengono spesi per la famiglia e poi per i tribunali dei minori in Australia? Un caso che cito dimostra che forse $ 2 milioni di dollari sono stati spesi e guadagnati solo perché un agente di polizia donna ha nascosto orribili abusi sui minori, scrivendo nelle sue note di ingresso "nessuna divulgazione". Il bambino è stato rimosso perché l'ufficiale ha mentito. È una vergogna nazionale. E ci sono centinaia di casi simili.

E ora al mercato nero...

Fratelli d’Italia condannata a pagare 25mila euro per la foto con la coppia di padri. L’immagine fu usata dal partito di Giorgia Meloni in una violenta campagna contro la gestazione per altri nel 2016, senza chiedere autorizzazioni e travisandone il senso. L’avvocata Cathy La Torre: «Non si può fare politica in questo modo sul corpo e sulle vite delle persone». Simone Alliva su L'Espresso il 9 giugno 2023.

Siamo nel 2016. Anno di piena discussione sulle unioni civili. Campagne contro la comunità Lgbt, scontri di piazza, governi in bilico per una manciata di voti. E, soprattutto, l’approvazione del ddl Cirinnà l’11 maggio 2016 sulle Unioni civili.

Il partito di Giorgia Meloni, Fratelli d’Italia, aveva realizzato una campagna contro le coppie dello stesso sesso, accanendosi, ieri come oggi, contro una questione che poco aveva a che fare con l’oggetto della discussione: la gestazione per altri.

Sui social, sui siti, affissa a lungo per le strade e nelle piazze di tutta Italia compare un’immagine: una coppia di uomini canadese in sala parto con il loro neonato. Scattata nel 2014, ritraeva l’istante della nascita del piccolo Milo e la gioia dei suoi due papà Frank e Rosario BJ Barone per il suo arrivo, nonché quella della donna che lo aveva dato alla luce.

L’immagine, coperta da copyright, era stata pubblicata sull’account professionale della fotografa Lindsay Foster che l’aveva realizzata accompagnata da una nota che sottolineava il rapporto di profondo amore e rispetto fra i padri e la donna gestante.

Fratelli d’Italia decise di utilizzarla per portare avanti la sua campagna, senza richiedere alcuna autorizzazione né all’autrice dell’immagine – detentrice dei relativi diritti – né ai soggetti ritratti nella foto (fra cui un minore). E oggi il partito di Giorgia Meloni viene condannato a risarcire Frank e Rosario BJ Barone «per il danno loro cagionato» ed anche a rifondere le spese processuali.

Una sentenza frutto di un procedimento lunghissimo, durato sette anni e portato avanti dagli avvocati Michele Giarratano e Cathy La Torre di Gay Lex: il Tribunale condanna Fratelli d’Italia a risarcire più di 25mila euro la coppia per «il disagio per la diffusione di una immagine rivelatrice della loro intimità, la riprovazione espressa pubblicamente nei riguardi del loro stile di vita e della loro condizione familiare, il timore di essere oggetto di attenzione indesiderata nel caso si fossero recati in Italia».

Una strategia precisa quella di Fdi che ricalca le dinamiche su cui si fondano i crimini d’odio, cioè la disumanizzazione: l’attacco sistematico a forme non eteronormate di identità sortisce l’effetto di trasformare in oggetto ridicolo o degradato chiunque non corrisponda agli standard e alle aspettative del gruppo. L’avvocata e attivista per i diritti umani, Cathy La Torre spiega così l’importanza della sentenza: «Non è rivolta soltanto al partito di Fratelli d’Italia ma a chiunque nel mondo della politica utilizza le vite altrui a volte calpestandone la dignità o arrecandogli danni morali o alla loro reputazione o alla loro vita. Si faccia politica, ma non sul corpo e sulle vite delle persone. E questo vale per tutti i partiti».

Una sentenza che arriva in un tempo in cui è proprio la gestazione per altri al centro del dibattito politico italiano come ricorda Michele Giarratano, esperto in diritto delle famiglie e tutela antidiscriminatorie: «Mentre alla Camera, in questi giorni, si discute della proposta di legge dell’onorevole Varchi (Fratelli d’Italia) che approderà in aula il 19 giugno e che vuole punire penalmente la gestazione per altre/i anche quando effettuata all’estero, il Tribunale di Roma condanna il partito della premier Giorgia Meloni per una violenta campagna d’odio contro le famiglie omogenitoriali e la maternità surrogata: è un segnale importante alla politica, un invito a fermarsi e mettere davvero al centro i bambini e le bambine, le famiglie e l’amore con cui vengono create».

Estratto dell’articolo di Francesco Grignetti per “la Stampa” l'1 giugno 2023.

Un passo avanti deciso e senza tentennamenti, verso il reato universale di maternità surrogata. Dopo l'accelerazione dei lavori alla commissione Giustizia della Camera, da ieri c'è un testo unico della maggioranza di destra-centro che verrà discusso e sicuramente approvato senza modifiche dall'Aula della Camera il 19 giugno. […]

Quando infatti la maternità surrogata, che a sinistra chiamano asetticamente Gpa (gestazione per altri) e a destra con disvalore «utero in affitto», sarà un reato da perseguire anche se materialmente i fatti accadono all'estero, non solo sarà impossibile trascrivere all'anagrafe i figli di coppie omogenitoriali (cavallo di battaglia dei sindaci del Pd), ma addirittura si profila il caso che quelle coppie, al rientro in Italia con un neonato, si vedano denunciate, incriminate e sottratte di ogni potestà genitoriale. 

Il risultato non può logicamente che essere uno, anche se per il momento non è dichiarato: affidamento del bebé ad altre coppie su decisione della magistratura. È questo il senso sottinteso della legge che, a firma di Carolina Varchi, FdI, finirà in Aula tra un paio di settimane.

Unica limatura tecnica dell'ultima ora: il reato sarà universale, cioè senza lo scudo dei confini geografici, ma potranno essere perseguiti solo i cittadini italiani che ne siano ritenuti responsabili. […] Anche se il Pd è spaccato in materia, perché c'è la posizione a favore di Elly Schlein, o anche dei deputati Alessanfro Zan e Rachele Scarpa, contro quella dei cattolici del partito. […] 

Sta crescendo, intanto, una terza via, quella che chiede la messa al bando internazionale della maternità surrogata. E che dilanierà ancor di più il Pd. Ci sono già centinaia di firme, infatti, in calce a una petizione che chiede al Parlamento italiano di operarsi per arrivare a una Convenzione delle Nazioni Unite contro la maternità surrogata. 

La prima firma è di Aurelio Mancuso, ex Arcigay. La seconda è di Cristina Gramolini, presidente di ArciLesbica. O la scrittrice e sociologa trans Neviana Calsolari. Dietro ci sono femministe storiche di sinistra come Adriana Cavarero, Francesca Izzo, Alessandra Bocchetti. […]

(ANSA venerdì 7 luglio 2023.) - La corte europea dei diritti dell'uomo ha dichiarato irricevibili i ricorsi proposti contro l'Italia relativi al rifiuto di trascrizione di atti di nascita formati all'estero con il ricorso della pratica della gestazione per altri, sia al rifiuto di una seconda madre nel caso di bambini nati in Italia con la tecnica della procreazione medicalmente assistita. 

È quanto si legge in una circolare del dipartimento per gli affari interni del Viminale diramata oggi, secondo cui la corte di Strasburgo, pur confermando la necessità del riconoscimento del rapporto tra il minore e il "genitore d'intenzione", ha ribadito che rientra nell'ambito della discrezionalità di ciascuno Stato la scelta dei mezzi con cui pervenire a tale risultato, tra i quali si annovera il ricorso all'adozione del minore.

Coppie gay, sono inutili i ricorsi a Strasburgo. Luca Fazzo il 3 Luglio 2023 su Il Giornale.

Con tre sentenze fotocopia la Cedu dà ragione al governo: "Inammissibili 2 mamme o 2 papà"

«Sono ricorsi all'utero in affitto sapendo perfettamente che era contrario all'ordine pubblico italiano» così come sancito dalla Cassazione, e proibito dalla legge italiana che rientra «negli ampi spazi di discrezionalità» di cui ogni nazione europea gode. È questo uno dei passaggi chiave delle tre sentenze-fotocopia depositate il 22 giugno dalla Corte europea dei diritti dell'Uomo in risposta ai ricorsi di una decina di coppie italiane omosessuali. La richiesta era sempre la stessa: ottenere la trascrizione all'anagrafe italiana di entrambi i partner, sia il genitore biologico che il cosiddetto «genitore intenzionale». Ricorsi che la Corte di Strasburgo respinge senza neanche entrare nel merito, dichiarandoli inammissibili. A decidere all'unanimità è stato un collegio presieduto dall'ungherese Péter Paczolay e di cui faceva parte per l'Italia il giudice Raffaele Sabato.

Quando le decisioni della Corte sono arrivate in Italia, sono state lette con attenzione al ministero dell'Interno, nello staff di Matteo Piantedosi: cioè del ministro cui compete dare le indicazioni alle prefetture sui riconoscimenti di figli di due genitori dello stesso sesso, chiesti da coppie gay che hanno utilizzato all'estero la fecondazione assistita o la maternità surrogata. Piantedosi è stato accusato spesso - da ultimo dal sindaco di Milano Beppe Sala - di avere forzato la mano per motivi ideologici, bloccando riconoscimenti che erano possibili. Le tre sentenze della Corte non solo danno ragione al ministro, ma - bloccando i ricorsi come «inammissibili» prima ancora di aprire la causa, escludendo che ci fosse anche un "fumus" di buone ragioni - di fatto sconsigliano ad altre coppie gay italiane di seguire lo stesso esempio ricorrendo in massa a Strasburgo. Le speranze di vincere la loro battaglia dovranno concentrarsi in Italia, sulla legge che prima o poi il Parlamento dovrà varare. Va notato che il giudice italiano che ha bocciato i ricorsi gay non è sospettabile di essere un ottuso conservatore: Raffaele «Lello» Sabato è da sempre una toga progressista, legato alla corrente centrista di Unicost ma applaudito, al momento della nomina alla Corte europea, dal plenum di Area, la corrente di sinistra.

Le decisioni di Strasburgo bocciano allo stesso modo ricorsi di coppie maschili e coppie femminili. In questo modo vanno oltre la recente decisione del tribunale civile di Milano che ha annullato solo le trascrizioni di figli di due papà, mentre ha lasciato aperta la porta alle registrazioni di due mamme per un motivo semplice: nel primo caso i figli vengono prodotti con maternità surrogata, ovvero utero in affitto; nel secondo si ricorre alla procreazione assistita. Non è affatto la stessa cosa.

Per la Cassazione italiana le due pratiche vanno considerate in modo distinto, e a essere del tutto intollerabile per l'ordine pubblico è solo la prima. Ad affrontare il delicato tema nello stesso modo, due giorni fa, un giurista del calibro di Giuliano Amato, ex presidente della Corte Costituzionale, che in una intervista a Repubblica dichiara di ritenere possibili e legittime le due mamme («non vedo ostacoli al riconoscimento della genitorialità piena anche della madre non biologica») ma chiude seccamente la porta all'utero in affitto, quindi ai due papà. E quando gli chiedono se così non si discriminano i figli dei gay maschi risponde secco: «É una conseguenza inevitabile».

La Corte europea, come si è visto, è ancora più rigida. Alle mamme e ai papà «intenzionali» che vogliono riconoscere il figlio biologico del loro partner, Strasburgo indica la stessa strada indicata dalla Procura di Milano: adottateli. 

Utero in affitto? "Degradante": se anche la Cassazione smonta il Pride. Corrado Ocone su Libero Quotidiano il 09 giugno 2023

La cosiddetta “maternità surrogata” non ci piace perché è una pratica che, oltre a prestarsi a turpi mercimoni, tende ad allentare quei naturali rapporti familiari che vigono tra gli umani e che hanno permesso alla nostra civiltà di svilupparsi e crescere nel tempo. Lo ripetiamo, su queste pagine e poche altre simili, da diversi giorni. Sarebbe però un errore limitarsi a una critica solo contenutistica. Quel che sta succedendo in questi giorni in Italia, ad esempio attorno alla vicenda connessa al patrocinio prima concesso e poi negato della Regione Lazio al Gay Pride, porta infatti in luce un problema più vasto e più serio, che è un problema di libertà. Un problema metapolitico, o di civiltà democratica e liberale, prima ancora che politico. Chi rappresenta, o dice di rappresentare, le “minoranze” che sono al centro di questi episodi non si sta preoccupando infatti semplicemente di promuovere le proprie idee, e casomai di affermarle nell’agone pubblico con la forza della persuasione e dell’argomentazione razionale. Vuole di più. Esige, più radicalmente, che quelle opinioni vengano considerate a stregua di “verità” assolute e indiscutibili. E che quindi ogni idea o convinzione contraria, sia isolata, silenziata, censurata, o addirittura condannata per mezzo della legge. 

CONVERSAZIONE DEMOCRATICA

Dal punto di vista della “conversazione democratica” chi sfila in un Gay Pride e chi, al contrario, lo fa sotto le bandiere del Family Day pari sono e di un pari diritto all’espressione delle proprie idee devono godere. La proposta di legge presentata nella passata legislatura da Alessandro Zan, e poi per fortuna bocciata, rappresentò quasi plasticamente questa volontà intollerante e liberticida di zittire i diversamente pensanti e opinanti e di indottrinare i giovani nelle scuole prima ancora che maturi in loro un auspicabile spirito critico. È una idea che è agli antipodi della democrazia liberale: una idea da “Stato etico” tutto proteso a realizzare una “verità di Stato”. Quello che sempre più succede è che l’ambito della politica diventi, ipso facto, quello istituzionale, il quale non viene più visto come la garanzia del pluralismo delle idee di tutti ma viene fatto coincidere senza scarti con le idee di una parte, spesso fra l’altro minoritaria nella società. A ben vedere, Francesco Rocca, il presidente del Lazio, concedendo il patrocinio, aveva chiesto agli organizzatori solo questo: di non strumentalizzare e politicizzare la concessione dimenticando che le istituzioni dello Stato non sono appannaggio di una sola parte politica. 

CONTROCORRENTE

E che, quindi, non ci si servisse del patrocinio stesso per avallare una pratica, quella dell’ “utero in affitto”, che comunque è in Italia, allo stato attuale, illegale e che la stessa Cassazione ha definito “degradante”. Non solo gli organizzatori non hanno ottemperato a questo impegno ma hanno preteso con protervia ed arroganza che Rocca non ritirasse il patrocinio. E spiace che il Pd, che pure sa vendersi (soprattutto all’estero) come “partito delle istituzioni”, sia intervenuto ancora una volta a difesa dell’indifendibile, quasi a calcare quella deriva antidemocratica che caratterizza ormai la segreteria di Elly Schlein. Probabilmente la più parte di gay e trangender si riconoscono in queste idee democratiche e non desiderano affatto che le loro idee siano “riconosciute” con il metodo della violenza e dell’arroganza. Sarebbe forse giunto il momento che si liberino di certi leader. Non è discriminando a propria volta che si combattono le vere o presunte discriminazioni dell’oggi e del passato. Il giorno in cui questa consapevolezza sarà diffusa sarà un bel giorno per la nostra democrazia. 

Da “la Stampa” l'1 giugno 2023.

[…] Il testo approvato ieri in commissione giustizia alla Camera conferma multe da 600 mila a un milione di euro e pene di carcere da due mesi a tre anni. Il via libera formale della commissione arriverà la prossima settimana con il mandato al relatore a illustrare il testo in Aula, dove dovrebbe approdare il prossimo 19 giugno.

Estratto dell'articolo di Massimo Basile per “la Repubblica” l'1 giugno 2023.

«Nessun governo dovrebbe entrare nella camera da letto di una persona», dice Deepak Gulati, seduto nella sala riunioni al piano terra di un palazzo art decò di dodici piani, al numero 1148 sulla Fifth Avenue, a Manhattan. […] Alla fine del corridoio ci sono gli uffici di Surrogacy4All, clinica che dal 2006 offre servizi di maternità surrogata a single, gay, lesbiche, coppie etero. Molti americani, ma anche europei, soprattutto tedeschi, e italiani. 

Laurea in tecnologia a Madras, India, master in ingegneria a Berkeley e a Chicago, Gulati è presidente e volto di questa organizzazione con sedi a New York, California, Ghana e India. «[…]ci sono donne anziane che hanno mariti giovani e vogliono un figlio per diffondere il loro Dna. Cosa facciamo? Neghiamo loro la realizzazione di un sogno? ».

«Poi ci sono le persone Lgbtq — continua […]». La parola magica è immortalità. «Se dovessi morire domani — continua — posso andare in paradiso, o all’inferno, non so, ma attraverso il nostro dna continuiamo a vivere, così il bambino diventa un vascello per l’immortalità ». 

Salire a bordo di questo vascello può essere semplice, ma costoso. Gli Stati Uniti sono un riferimento da anni: tra il 1999 e il 2013 sono nati con la “surrogata” 18 mila bambini. È anche un grande business: nel 2022 sono stati mossi 14 miliardi di dollari nel mercato globale. Entro il 2032, secondo l’istituto di ricerca Global Market Insights, arriveranno a 129 miliardi. […] 

Il costo medio va da 120 a 140 mila dollari, in cui vanno compresi screening, consulenza psicologica, congelamento embrioni, compenso alla gestante e spese sanitarie. Si diventa genitori in 15-18 mesi. Se si vive fuori, all’inizio neanche c’è bisogno di mettere piede a New York. In quel caso Gulati presenta il piano via Zoom o Skype. Al “genitore” manderanno a casa il kit per il prelievo dello sperma, da consegnare alla banca locale del seme per rilevare eventuali malattie trasmissibili. Ricevuto il via libera, la clinica si occuperà di prelevare il campione, portarlo a New York e sottoporlo a procedimento con ovuli e congelamento dell’embrione.

[…] più la donatrice è giovane, più aumentano le possibilità di successo. «Il modo migliore — spiega Gulati — è avere una donatrice tra i 21 e i 25 anni, le chance aumentano del 72 per cento. Tra i 35 e 40 scendono al 50 e così via». Accoppiati sperma e ovuli, si passa al congelamento. «Se hai un buono sperma, una donatrice di ovuli giovane e una madre surrogata giovane, le possibilità di successo sono tra l’80 e il 95 per cento».

[…] Per ogni donazione ricevono ottomila dollari. Le madri surrogate, invece, 60 mila, e possono avere fino a tre gravidanze. Firmano documenti, assistiti dall’avvocato, in cui rinunciano a eventuali ripensamenti. […] Come vengono selezionate?

«Attraverso inserzioni pubblicitarie su Google», spiegano. Sono più di mille. Devono avere tra i 21 e 40 anni, essere non fumatrici, avere portato avanti almeno una gravidanza con successo, niente precedenti per droga, niente crimini, niente malattie mentali. L’aspirante genitore sceglie la madre da un gruppo di cinque-sei candidate inserite in un data base con centinaia di nomi. La gestante verrà seguita dal proprio medico e dalle ostetriche del centro. 

Una settimana prima del parto, madre e genitore, assistiti dai rispettivi studi legali, firmano davanti al giudice i documenti finali di “cessione volontaria” del bambino. A quel punto vengono avviate le pratiche per il passaporto americano. Il nuovo genitore uscirà dall’ospedale con il figlio. […]

Utero commissariato pro vita. Le argomentazioni da Family Day contro la gestazione per altri non stanno in piedi. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 2 Giugno 2023

Ci sono tanti motivi, tutti più o meno condivisibili, per avversare la maternità surrogata. Ma quelli basati sulla difesa della donna da non ridurre a fattrice o incubatrice non hanno senso

Ci sono tanti motivi, tutti più o meno condivisibili, tutti più o meno contestabili, per avversare la pratica della cosiddetta gestazione per altri. Ci sta anche che a qualcuno (presente!) non piaccia per ragioni pur soltanto estetiche, e cioè perché non sopporta il lamento da mancata soddisfazione genitoriale né l’affanno a porvi rimedio.

Ma l’avversione ex Family Day articolata sulla difesa della donna da non ridurre a fattrice, no, quella proprio no. Perché tra le ragioni opposte alla locazione uterina da parte confessionale c’è appunto che quel commercio farebbe della femmina un’incubatrice: e appunto non si può sentire. Non risulta infatti che per quella cultura sia un problema, anzi è un destino benedetto, che la donna adempia al proprio ruolo natural-costituzionale di donare figli al marito e alla nazione, e che in quel cimento si celebri e si risolva la meglio essenza dell’altra metà del cielo in versione tridentina. Dunque una bestia da figli, ma nel quadro presidiato dalla liturgia e dai ruoli familisti anziché nel disordine patologico e mercantile della coppia contro natura.

La donna va bensì protetta, quindi, dalla degradazione a recipiente di seme e ad apparato di scodellamento di creature, ma a patto che vi sia sottoposta nel mondo che va a rotoli perché i carabinieri si sposano e la Spectre Gay si insinua nelle scuole a pervertire le naturalità infantili: se invece quell’inquadramento riproduttivo avviene nell’accettabilità del modulo calabro-sudanese che tiene la donna dove deve stare, allora va bene e non si fa più questione del suo corpo adibito a macchinario di procreazione.

A questi ripugna la condizione corporale e spirituale della donna che partorisce il pargolo in favore della coppia gay ma non la condizione dell’altra, la versione aggiornata della sposa bambina che ne sforna dodici per la felicità del marito e la soddisfazione del prete. Dall’utero in affitto all’utero commissariato pro vita.

Maternità surrogata reato universale: c'è il via libera della Commissione. Marco Leardi il 31 Maggio 2023 su Il Giornale.

Approvato un emendamento della maggioranza che dichiara l'utero in affitto perseguibile anche se praticato all'estero: saranno puniti solo i cittadini italiani. A giugno il provvedimento in Aula

La Commissione Giustizia della Camera ha detto "sì" al riconoscimento della maternità surrogata come reato universale. Si è concluso da poco il voto degli emendamenti alla proposta di legge presentata dalla maggioranza, che dichiara la gestazione per altri un illecito perseguibile anche se commesso all'estero. In particolare, a quanto si apprende, è stato approvato un emendamento del centrodestra che prevede la punibilità dei soli cittadini italiani. Prosegue dunque in modo spedito l'iter per l'arrivo in Aula del provvedimento.

Le opposizioni hanno votato contro, ribadendo una posizione già nota e manifestata in passato. Alla vigilia del voto, il segretario di +Europa aveva parlato di "oscena concezione del diritto". A prevalere è stata però la linea della maggioranza, intenzionata a perseguire quella che la deputata di Fratelli d'Italia, Carolia Varchi (prima firmataria e relatrice della proposta di legge), aveva definito "un esempio esecrabile di commercializzazione del corpo femminile e degli stessi bambini". Una linea chiaramente condivisa anche dal governo, in particolare dal ministro per le Pari opportunità e la Famiglia, Eugenia Roccella, e da molte associazioni impegnate in ambito sociale.

Surrogata reato universale, il testo in Aula il 19 giugno

Per il via libera formale mancano ancora i pareri delle commissioni competenti e il mandato al relatore, ma il provvedimento è atteso in Aula per il prossimo 19 giugno, così come previsto dall'ultima calendarizzazione e auspicato dalla stessa maggioranza. "Grazie al testo come riformulato noi estendiamo la punibilità a tutte le condotto commesse all'estero e questo disincentiverà il ricorso a questa pratica, con ciò fermando il turismo procreativo e più in generale quel mercato che si è formato, di cui la recente fiera a Milano è testimonianza", ha affermato la relatrice Carolina Varchi.

"Sul metodo seguito vorrei sottolineare che la sapiente organizzazione dei lavori su un tema così delicato ha evitato che si giungesse al contingentamento dei tempi, quindi come relatrice ringrazio il presidente Ciro Maschio che ha evitato il ricorso a questi strumenti che, pur previsti dal regolamento, avrebbero inasprito il dibattito", ha aggiunto la deputata della maggioranza. Diversa e polemica l'opinione di Riccardo Magi (+Europa). "La riformulazione del testo con l'emendamento della maggioranza prova a mettere una pezza sull'abnormità della pretesa di punire in Italia un cittadino straniero per una condotta commessa in un Paese dove la Gestazione per altri è legale, magari in forma solidale, ma rimane una assurdità giuridica", ha affermato il parlamentare.

Diversamente, a esprimere soddisfazione è stata la Lega. "L'approvazione è una pagina di buona etica e di reale civiltà", ha dichiarato il deputato del Carroccio, Davide Bellomo, componente della Commissione Giustizia. "Ancora una volta - ha proseguito - con il significativo voto contrario dell'opposizione, è emersa plasticamente tutta la differenza con una sinistra che identifica il progresso con una pratica che sfrutta il corpo femminile e ne fa squallidamente merce di scambio. Grazie alla Lega e al centrodestra si è posto un argine a una sicura deriva che in altri Paesi, dove si organizzano addirittura fiere per promuovere l’utero in affitto, stanno già vivendo".

Poi la nota polemica sul centrosinistra: "Non oso neppure immaginare cosa accadrebbe in Italia con la Schlein e i suoi compagni di cordata alla guida del nostro Paese. Per fortuna, però, è una pura ipotesi di scuola, destinata a restare tale. Il centrodestra andrà avanti per la sua strada per restituire veri diritti a chi ne ha diritto, nell’interesse primario dell’infanzia e di chi rappresenta il nostro futuro". Il tema certo è di quelli che da tempo infiammano il dibattito. Nelle scorse ore, ad esempio, alcuni esponenti dem di area riformista avevano firmato una petizione per dire no alla gestazione per altri, in dissenso rispetto alla personale posizione aperturista espressa dal segretario Elly Schlein.

Il reato universale di maternità surrogata va alla Camera. Ma per i giuristi è una legge “finta”. La norma voluta da Fdi arriverà il 19 giugno in Aula: il reato però non esiste giuridicamente, mentre le opposizioni si spaccano anche per regolare conti interni. La preoccupazione di Famiglie Arcobaleno: «Carnefici. Aspetteranno negli aeroporti per arrestare i genitori e mettere i bambini nelle case famiglia?» Simone Alliva su L'Espresso Sera il 31 Maggio 2023

Il “reato universale” contro la maternità surrogata, fortemente voluto da Giorgia Meloni, criticato dall’opposizione e irriso dai giuristi, ha concluso l'esame degli emendamenti in Commissione Giustizia e si prepara ad approdare in Aula alla Camera il 19 giugno.

«La commissione - ha detto la relatrice Carolina Varchi (Fdi) - ha concluso il voto degli emendamenti alla proposta di legge. Grazie al testo riformulato noi estendiamo la punibilità a tutte le condotte commesse all'estero e questo disincentiverà il ricorso a questa pratica, con ciò fermando il turismo procreativo e più in generale quel mercato che si è formato, di cui la recente fiera a Milano è testimonianza».

Di parere opposto Riccardo Magi (+Europa): «Una proposta da Stato di Polizia etico, per cui si incriminano i genitori e nessuno si chiede che effetto possa avere sui bambini. Nemmeno nelle peggiori dittature del passato, e oggi forse solo nell'Iran degli Ayatollah o nell'Afghanistan dei talebani. La riformulazione del testo con l'emendamento della maggioranza prova a mettere una pezza sull'abnormità della pretesa di punire in Italia un cittadino straniero per una condotta commessa in un Paese dove la Gestazione per altri è legale, magari in forma solidale, ma rimane una assurdità giuridica. Quindi con la riformulazione non viene arrestato il medico canadese che viene in vacanza in Italia insieme al bimbo avuto con la Gpa, ma si arresta il medico italiano che ha avuto anch'egli un bimbo con la Gpa in Canada e torna a trovare i genitori in Italia».

Una grana, insomma, anche solo sotto il profilo giuridico. Come già aveva spiegato a L’Espresso Marco Pelissero, ordinario di diritto penale presso l’Università degli Studi di Torino: «Possiamo parlare di reati come crimini di guerra o contro l’umanità, cioè reati che la comunità internazionale ritiene presentino una criminosità manifesta che giustifica una repressione ad ampissimo raggio. Ma qui non vedo i presupposti per costituire un reato universale della maternità surrogata quando in altri Stati, a determinate condizioni, la maternità surrogata è consentita». 

Insomma nel linguaggio giuridico la forma “reato universale” non esiste, ma non solo: «Non ci troviamo né di fronte a quei crimini contro l’umanità che ovunque e da chiunque sono commessi sono repressi – dice il professor Pelissero - né fatti che presentano una dimensione di una gravità tale su quale c’è condivisione della comunità internazionale (come la tutela del minore rispetto al traffico della prostituzione). Qui la norma penale interverrebbe a sanzionare comportamenti che tenuti in Ucraina piuttosto che in Canada sono leciti secondo quel sistema. Questa è l’abnormità».

Abnorme, fantapolitica, follia sono gli aggettivi che si stringono intorno a questa proposta che vorrebbe vietare in Italia ciò che è già vietato (la legge 40/2004) ma che punta ad allargare la punibilità del reato anche se compiuto da un italiano all’estero. «La priorità della destra è limitare i diritti. Pnrr, alluvione, asili, inflazione vengono dopo, forse. Ora la loro urgenza è attaccare le famiglie arcobaleno e i loro figli», sottolinea il deputato del Partito Democratico, Alessandro Zan. Perché è qui la vera questione, mentre dalla maggioranza a ritmi regolari e sonoramente, si parla di “difesa delle donne”, “mercato” e “sfruttamento”, nascosta sotto i banchi è la tutela dei figli delle famiglie arcobaleno che il governo Meloni non ha intenzione di concedere anzi ostacola, dopo il divieto di trascrizioni imposto ai Comuni tramite circolare del ministero dell’interno. E sono i deputati M5S nella commissione Giustizia della Camera a tirarla fuori, agitarla di fronte alla Commissione e chiedere “fate qualcosa”. Due emendamenti a firma Stefania Ascari, Federico Cafiero De Raho, Valentina D'Orso e Carla Giuliano: «Con il nostro pacchetto di proposte, snello ma estremamente curato dal punto di vista giuridico, avremmo potuto stabilire una volta per tutte che ogni bambino ha il diritto ad avere due genitori e tutta la rete parentale. Proponevamo, e riproporremo in aula, un ventaglio di soluzioni tutte pensate nel prevalente interesse dei bambini. Peraltro con i nostri emendamenti il Parlamento potrebbe accogliere in pieno il monito della Corte Costituzionale rivolto proprio al legislatore. Ma l'Italia è in mano a una maggioranza irresponsabile che pur di seguire il suo furore ideologico calpesta i diritti delle persone e la responsabilità istituzionale». Emendamenti bocciati dunque, bambini ancora senza tutele. 

Nel frattempo nell’opposizione riemergono i nomi di chi cerca di riposizionarsi contro una pratica già illegale in Italia: Goffredo Bettini, Pierluigi Castagnetti, Emma Fattorini sono le firme di punta in calce all'appello  'La maternità surrogata è una pratica che offende la dignità delle donne e i diritti dei bambini'. L’appello sembra spaccare Italia Viva, con Ivan Scalfarotto che parla di «mostro giuridico» e Elena Bonetti che promette «farò la mia parte».

Dal fronte dem l’appello è condiviso da Valeria Valente, senatrice e già presidente della commissione sul femminicidio: «Non posso firmare l'appello visto che i parlamentari sono i destinatari ma lo condivido pienamente. Una violenza brutale contro le donne». E strattona la segreteria del suo stesso partito Elly Schlein: «Ha detto di essere favorevole alla Gpa a titolo personale e si è impegnata con tutti noi a fare una discussione sul tema. Sono certa che manterrà l'impegno».

Dal Nazareno non si espongono ma qualcuno azzarda: «Quella della maternità surrogata è un terreno assai scivoloso, perché sempre le questioni così delicate sui diritti sono state da noi usate come pretesto per attaccare il segretario in carica».

Un pretesto, un’arma politica dunque, tuttavia qualcosa di nebuloso, fatto per colpire i figli delle famiglie arcobaleno (nonostante il 90% delle coppie italiane che ricorrono alla maternità surrogata all'estero siano eterosessuali). E mentre Andrea Delmastro delle Vedove, deputato di Fratelli d'Italia e Sottosegretario di Stato alla Giustizia festeggia «Il testo sulla maternità surrogata licenziato pone l'Italia all'avanguardia», Alessia Crocini, presidente di Famiglie Arcobaleno entra nel concreto della questione: «Un’avanguardia liberticida. L'Italia sarà il primo paese che andrà a colpire altri paesi molto più avanti di noi su libertà e diritti civili. Una legge strumentale: sanno che non è applicabile e costringerà le persone ad andare nei tribunali per anni, fino a che la Consulta non riconoscerà l’incostituzionalità già palese. Quello che mi chiedo è cosa faranno nel concreto? Aspetteranno le famiglie negli aeroporti per arrestare i genitori e mettere i bambini nelle case famiglia? Se l’applicazione non è ancora chiara, a livello simbolico l’aspetto più grave è lo stigma che stanno rovesciando su bambini e ragazzi nati da gestazione per altri: saranno considerati figli di un reato, così come venivano considerati quelli nati da uno stupro. Questo è il delitto politico che porta avanti il governo insieme a chi firma appelli strumentali per avvicinarsi alla destra al potere: la condanna a vita dei bambini cresciuti in famiglie (etero o omosessuali) e nati con queste tecniche che un domani saranno guardati dagli altri come frutto di un reato. A prescindere dalle proprie idee sulla GPA, chi oggi sta dalla parte di questa legge è alla stregua di un carnefice e apre una porta molto pericolosa».

«I veri Stati Generali della Natalità sono qui». 300 sindaci a Torino in difesa delle Famiglie Arcobaleno. Al Teatro Carignano la convention dopo il pressing del governo Meloni per cancellare i figli delle coppie omogenitoriali. I sindaci a una voce sola: «Questo è il momento del matrimonio egualitario». Simone Alliva su L'Espresso il 12 maggio 2023.

È nelle città che si capiscono con grande nitore ed esattezza le dinamiche che muovono la politica. Quello che agita la gente, abita le loro vite. Un interesse spesso reso opaco dai grandi scenari romani dove tra predellini e papi tutto può diventare uno show, anche gli Stati Generali della Natalità.

Così, in purezza, si possono vedere a Torino oltre 300 sindaci da tutta Italia riempire Teatro Carignano per chiedere più diritti per le famiglie omogenitoriali. A rispondere all'appello del sindaco Stefano Lo Russo fra gli altri i primi cittadini di Roma, Milano, Napoli, Bologna, Firenze e Bari: gli stessi che recentemente hanno scritto al governo chiedendo un intervento per cancellare la disparità di trattamento in materia di diritti civili. A far partire la mobilitazione, è stato lo stop - per Torino arrivato nel giugno scorso e per Milano nel marzo di quest'anno come raccontato da L’Espresso - alle trascrizioni all'anagrafe dei figli delle coppie dello stesso sesso. Divieto che ha spinto i sindaci alla mobilitazione.

Sul palco della convention “La Città per i diritti” con Lo Russo c’è il sindaco di Roma Roberto Gualtieri, in collegamento video da Milano Giuseppe Sala, da Bologna Matteo Lepore, da Firenze Dario Nardella, da Napoli Gaetano Manfredi, e da Bari Antonio Decaro. È l’opposizione dei sindaci al governo Meloni che tra provvedimenti e pressioni soffia sull’omotransfobia del paese e nega diritti e doveri alle coppie omogenitoriali.

La distanza tra Roma e Torino è insieme millimetrica e abissale ed è Vladimir Luxuria, attivista Lgbt e direttrice del Lovers Film Festival a misurarla in apertura: «Benvenuti alla festa della natalità. Essere a favore della natalità significa non mettere dei paletti a persone che sono famiglia e che desiderano essere genitori. Significa consentire la possibilità di avere dei bambini che altrimenti non ci sarebbero».

Ma è l’unità dei sindaci sui diritti delle famiglie arcobaleno a mandare messaggi precisi e inequivocabili alla politica romana. «Chiediamo al Parlamento di colmare un vuoto, così come ha fatto presente anche la Consulta: serve un quadro normativo per i figli delle coppie omogenitoriali». Dice Stefano Lo Russo, sindaco di Torino e racconta le difficoltà di chi, da primo cittadino, esercita in prima persona la responsabilità: «Come sindaci ci siamo ritrovati in molti casi a dare una risposta alle famiglie che si rivolgevano a noi per ottenere una cosa che in Europa è scontata, e cioè il riconoscimento della doppia genitorialità, quella biologica e quella intenzionale. I tribunali del nostro Paese dicevano una cosa e il suo esatto contrario», ha sottolineato.

Interviene in collegamento anche il sindaco di Milano, Giuseppe Sala che ci tiene a precisare: «Non vogliamo disobbedire bensì ottenere leggi giuste» e sembra rispondere così, con pacatezza, all'invito alla disubbidienza civile fatto dallo stesso palco dal giurista Gustavo Zabrelsky. «Purtroppo - ha continuato Sala - la Corte costituzionale si è già espressa, non è quella la strada. E non mettiamola sulla mancanza di coraggio: ci sono sindaci che si stanno battendo. Ma non so se trasgredire alla legge sia il percorso giusto: vogliamo che sia il Parlamento a esprimersi. Alcune coppie ci stanno chiedendo la registrazione del padre biologico. Bisogna capire sulla base di quale documento poterlo fare, poiché non figura sull'atto di nascita del bambino, ma sarebbe già un piccolo passo».

Come fare? Proprio questo è il punto intorno cui gira l’intera convention. «Il Parlamento si deve assumere le sue responsabilità, non si possono decidere i diritti dei bambini nei tribunali. I sindaci hanno sempre avuto coraggio e continueranno ad averlo, ma non vogliamo portare i bambini nei tribunali, vogliamo tutelarli con la legge. Il matrimonio egualitario può essere la soluzione», suggerisce il sindaco di Napoli, Gaetano Manfredi.

A queste parole sembra fargli eco il sindaco di Roma, Roberto Gualtieri, «C'è una maggioranza di italiani e italiane - ha sottolineato Gualtieri - che è matura per fare ciò che in Europa è normale. Ma c'è anche purtroppo una parte fosca - ha aggiunto - che punta a rimestare su sentimenti che nel Paese stanno scomparendo. Tali figli, senza le trascrizioni, si trovano in una situazione di oggettivo svantaggio e discriminazione. Speriamo di essere ascoltati sia dal Parlamento che dal Governo».

Fuori dal teatro pochi attivisti di Pro-Vita agitano dei bambolotti in un carro della spesa. "I bambini non sono prodotti” urlano, ma la mobilitazione è fiacca mentre il Teatro Carignano esplode in un applauso alle parole del sindaco di Bari, Antonio Decaro. «C'è una certa classe politica che dimostra un pregiudizio, quello verso l'omosessualità» e quasi a rispondere ai contestatori fuori ricorda: «l’80 percento della maternità surrogata è fatta da coppie eterosessuali all'estero, a cui nessuno chiede niente al momento della trascrizione dei figli. C'è un pregiudizio rispetto al quale non possiamo stare fermi».

Il punto è proprio questo: fermi non si può stare. Non più. Questa volta a dirlo sono i sindaci: volto della politica nelle città e nei paesi. Quelli che la gente ferma per strada per chiedere soluzioni e aiuto: «Noi sindaci - osserva Decaro - siamo stati chiamati a guardare oltre lo stretto contenuto di una norma e abbiamo sentito forte la necessità di tutela i diritti dei più deboli, l'abbiamo già fatta per tanti anni la disobbedienza, e sempre tenuto al primo posto i diritti dei bambini. Ora è tempo di legiferare».

"Destino oscurantista". Torna la carica dei sindaci arcobaleno. Marco Leardi il 12 Maggio 2023 su Il Giornale.

A Torino la manifestazione dei sindaci progressisti per chiedere il riconoscimento delle famiglie omogenitoriali. Parte il solito attacco al governo "oscurantista". Ma la replica non si fa attendere

Si sono presentati in fascia tricolore. Ma l'obiettivo era arcobaleno. Da tutta Italia, oltre 300 sindaci si sono riversati a Torino per perorare la causa delle famiglie omogenitoriali. Il tema è quello controverso e ormai noto ai più: i primi cittadini in questione, in ampia maggioranza d'estrazione progressista, chiedono infatti che il Parlamento legiferi al più presto sulle coppie gay e sui loro figli, lamentando un grave vulnus in materia. L'inghippo, tuttavia, lo avevano creato proprio quelle amministrazioni che, con una fuga in avanti di natura ideologica, avevano effettuato registrazioni all'anagrafe pur in assenza di una normativa che lo consentisse. Poste di fronte all'illegittimità dei suddetti provvedimenti, ora quei politici buttano la patata bollente contro il governo accusandolo - con uno scaricabarile strumentale - di essere retrogrado e di non volere i diritti civili.

L'adunata de sindaci arcobaleno

A far partire la mobilitazione torinese era stato lo stop - avvenuto proprio nella città sabauda, ma anche a Milano - alle trascrizioni all'anagrafe dei figli delle coppie dello stesso sesso. Il sindaco del capoluogo piemontese, Stefano Lo Russo, aveva fatto scattare l'appello arcobaleno e i suoi colleghi favorevoli a quelle istanze sono tornati così alla carica. A rispondere al suo invito sono stati, tra gli altri, i primi cittadini di Roma, Milano, Napoli, Bologna Firenze e Bari: gli stessi che recentemente hanno scritto al governo chiedendo un intervento per cancellare la disparità di trattamento in materia di diritti civili. Facile dunque intuire il carattere politico della manifestazione e degli interventi pronunciati sul palco.

"Disobbedienza civile". Ma Zabrelsky non convince Sala

"Non vogliamo disobbedire bensì ottenere leggi giuste", ha rilanciato il sindaco di Milano Giuseppe Sala, intervenuto in videocollegamento. E dal palco è arrivato anche l'invito alla disobbidienza civile del giurista Gustavo Zabrelsky. La discutibile proposta di quest'ultimo, però, non ha convinto il primo cittadino del capoluogo lombardo. "Purtroppo la Corte costituzionale si è già espressa, non è quella la strada. E non mettiamola sulla mancanza di coraggio: ci sono sindaci che si stanno battendo. Ma non so se trasgredire alla legge sia il percorso giusto: vogliamo che sia il Parlamento a esprimersi", ha affermato Sala. "Alcune coppie - ha poi aggiunto - ci stanno chiedendo la registrazione del padre biologico. Bisogna capire sulla base di quale documento poterlo fare, poiché non figura sull'atto di nascita del bambino, ma sarebbe già un piccolo passo".

"Destino oscuro". L'attacco di Lepore al governo

Certo, che le insistenze della sinistra arrivino proprio ora - quando a guidate il Paese c'è un governo prudente sulla tematica - è quasi surreale. La maggioranza di centrodestra, infatti, ha sempre sostenuto la propria contrarietà a riconoscimenti che (più o meno direttamente) rischiassero di legittimare pratiche controverse come quella dell'utero in affitto. Ma il messaggio non è stato recepito dai progressisti. "Serve il coraggio della politica in Parlamento, ma noi ci siamo e ci saremo sempre: continueremo a combattere questa battaglia contro il destino oscuro e oscurantista verso il quale ci vuole spingere il governo di Giorgia Meloni", ha tuonato il sindaco Pd di Bologna, Matteo Lepore, sferrando uno schiaffo politico all'esecutivo. Il sindaco di Napoli Gaetano Manfredi, sostenuto dal centrosinistra, ha parlato di matrimonio egualitario come soluzione e da Firenze Dario Nardella ha ribadito la propria convinzione che vada colmato il "vuoto normativo sulle garanzie dei diritti dei figli di coppie omogenitoriali".

Fdi replica ai sindaci arcobaleno

La risposta alle rivendicazioni politiche della kermesse progressista non si è fatta attendere dalla maggioranza. "Torino purtroppo, prima con il sindaco Appendino poi con Lo Russo, è stata trasformata nella città dei diritti negati: ha negato il diritto dei bambini ad avere una mamma e un papà con il registro e poi al governo il ministro Lamorgese, dovendo interrompere quell'abuso politico li ha gettati in un limbo senza precedenti che adesso non sanno come risolvere", ha ricordato la parlamentare Augusta Montaruli, vicecapogruppo di Fratelli d'Italia alla Camera, circostanziando l'argomento al di là delle strumentalizzazioni di parte.

"Utero in affitto sia reato universale"

"Nell'imbarazzo di questa situazione si stanno strumentalizzando le aspettative, che provavano a soddisfare, con un escamotage amministrativo sapendo benissimo che non ne avevano alcuna competenza. Sono stati al governo 10 anni, se avessero voluto avrebbero coinvolto il Parlamento su quelle che oggi chiamano famiglie arcobaleno. Potevano ma evidentemente non volevano farlo neanche loro", ha aggiunto Montaruli, spiegando come "la migliore risposta a quei sindaci" progressisti sia arrivata da Giorgia Meloni - oggi agli Stati Generali alla presenza del Papa - e da Fratelli d'Italia in Parlamento con la proposta che trasforma l'utero in affitto reato universale. "Questa pratica non può essere mai legittimata. In troppi, a prescindere dalle questioni di genere, aggirano le leggi facendo prevalere il sentimento di maternità e paternità sul diritto dei minori e sul diritto della donna che non può mai essere sfruttata", ha concluso l'onorevole del partito meloniano.

Estratto dell'articolo di Daniele Priori per “Libero quotidiano” il 14 aprile 2023.

«Le femministe che chiedono alla Schlein di rivedere le proprie posizioni sulla gestazione per altri non sono 100 ma 101. Non vedo come si possa sostenere che quella sulla maternità surrogata sia una battaglia di sinistra e di uguaglianza. È una pratica schiavistica dove il ricco compra il povero. Non mi vengano a dire che è un atto di amore.

 Ci crederò quando una miliardaria farà figli per la sua domestica o le americane per le africane. Vorrei piuttosto che uno di questi governi si mettesse la mano sulla coscienza e permettesse alle coppie gay di adottare i bambini».

A rincarare la dose dopo l’appello delle 100 femministe è Barbara Alberti, scrittrice, volto noto della tv, da sempre attenta narratrice del mondo femminile. […]

 È serena ma anche determinata su un tema come la gestazione per altri, ci par di capire...

«Sentire la sinistra che sostiene lo schiavismo mi fa male al cuore. Mi auguro che la Schlein ascolti l’appello delle cento femministe più una».

 Recentemente l’abbiamo anche sentita esprimersi con durezza sullo schwa che dovrebbe essere una sorta di linguaggio al di sopra dei generi, salvo seguire spesso il filone della cosiddetta cancel culture...

«Le donne sono state bruciate come streghe, non possiamo essere noi adesso a praticare la censura e accendere i roghi […]».

Lei ha detto: compio 80 anni senza nessun merito. Allora partiamo dalle colpe. Se il mondo va come va, secondo lei le colpe sono più degli 80enni che hanno sbagliato o dei più giovani che non hanno capito?

«Non mi faccia queste domande del cazzo. Che ne so! (Ride) L’uomo è stolto. Dove siamo? Sull’orlo della guerra. Siamo nel medioevo. Non abbiamo imparato nulla. La scienza ha raggiunto vette importanti. Mio marito si ruppe un femore a trent’anni e dovette fare sette mesi di riabilitazione, oggi in un mese ti rimettono in piedi. Ma l’uomo è un animale suicida. Di cui scienza e tecnologia hanno anche moltiplicato la stupidità.

L’unica cosa che ci consola è dare la morte. Pensi a Putin che ha riportato in Europa la guerra che la mia generazione aveva avuto la fortuna di non ricordare […] ».

 Non mi ha detto però se c’è una generazione più colpevole di un’altra...

«Penso che la responsabilità se c’è sia nella natura umana. […] Giovani, vecchi siamo tutte piccole formiche in balìa del mercato. La morte è stata censurata dalle coscienze perché i morti non comprano. […] Stanno edulcorando il linguaggio perché deve finire tutto come nelle pubblicità.[…] questa censura sulla verità, sul linguaggio e sui fatti umani diventa una camicia di forza incredibile».

Vittorio Sgarbi facendole gli auguri si è rivolto a lei come a una donna che potrebbe essere anche un uomo. Lei, Barbara, si sente fluida?

«Non ho mai calcolato di che sesso fosse la persona che mi suscitava amore quando mi è capitato questo sommovimento del pensiero capace di metterti il terzo occhio! Quando ami hai un’audacia intellettiva oltre che fisica. Solo l’amore te lo da. E tu vai a guardare se è maschio o femmina? Sarebbe una bestemmia.

[…]

Torniamo alla politica. Giorgia Meloni e Elly Schlein. Improvvisamente l’Italia ha scoperto non una ma due donne leader. Che ne pensa?

«Da un punto di vista puramente antropologico in entrambe vedo una vitalità, una sincerità, una voglia di fare. Qualcosa che molto raramente ho visto in politica. Non so cosa ne verrà fuori. Con tutte le facce da morti o da volpi che hanno attorno, in loro vedo due persone sincere e con grande voglia di lavorare». […]

Nichi Vendola: «Mio figlio Tobia nato grazie a Sharline, madre surrogata: le abbiamo pagato un anno di lavoro». Claudio Bozza su Il Corriere della Sera il 15 Aprile 2023.

L’ex governatore della Puglia parla del marito Ed e del figlio Tobia e della proposta del governo di sanzionare come «reato universale» la gestazione per altri. Gli scontri con D’Alema: «Anche a me hanno proposto di fare il lobbista. No, grazie»

Nichi Vendola, a destra, 64 anni, con il marito Edward Testa e il figlio Tobia Antonio che la coppia ha avuto nel 2016 grazie alla maternità surrogata (foto Mario Amura)

A Campo de’ Fiori c’è un filo di vento . Splende il sole. E frotte di americani sono già in déshabillé agostano. Nicola Maria Vendola (dai genitori ribattezzato “Nichi” in onore del presidente Urss Nikita Krusciov) qui ha casa da 25 anni. Il fioraio gli mette la mano sulla spalla: «Ahò, daje!». Al caffè sotto casa, una donna rincara: «Grazie per quello che ha detto ieri in tv». E lui - uno dei pochi leader della sinistra alternativa capace di vincere - si vede che gongola. Eppure ha lasciato da anni il palco della politica. Un esilio auto-imposto a causa di un processo, quello sull’Ilva, che gli procura «dolore immane» a un cuore un po’ malconcio. Così ha scelto di fare un passo di lato, per tutelare la sua famiglia: suo marito Ed e il piccolo Tobia Antonio. Ma nel frattempo, il governo Meloni ha annunciato una legge che sanzioni come “reato universale” la gestazione per altri. Così sono successe due cose: Vendola è tornato su giornali e tv a difesa delle famiglie arcobaleno e, di conseguenza, i suoi sostenitori sono tornati ad abbracciarlo.

Vendola, il momento in cui ha detto basta?

«Quando è nato mio figlio, dinanzi alla virulenza della polemica politica e mediatica scatenata in Italia, ho dovuto comprendere quanto la mia esposizione pubblica potesse riverberarsi negativamente sulla vita dei miei cari. Dovevo innanzitutto proteggere il bambino. Per me è stato un momento emotivamente molto impegnativo, anche perché avevo perso mia madre. Insomma avevo addosso una morte e una nascita: ero passato dallo stringere la mano di mamma agonizzante ad accarezzare quella di Tobia appena nato».

«IL FATTO CHE SI POSSA FAR RIVIVERE L’ESPERIENZA DEI COSIDDETTI “FIGLI ILLEGITTIMI” E DI DIRITTI DISEGUALI PER I BAMBINI, A SECONDA CHE SIANO DI UN CERTO TIPO DI FAMIGLIE O DI UN ALTRO, È MOSTRUOSO»

Nel 2016, grazie alla maternità surrogata, è nato in California Tobia. Oggi, se la stretta della ministra Roccella andasse in porto, lei e suo marito Ed Testa non potreste più farlo. O meglio: potreste, ma se tornaste in Italia con il bambino rischiereste l’arresto. Che ne pensa?

«Ma del bambino poi che farebbero? Lo renderebbero orfano nel nome dei suoi diritti? Sono incredulo dinanzi a questa bolla ideologica e al suo grave profilo di incostituzionalità. La destra vuole definire “crimine universale” una pratica che in gran parte del mondo è legale. È una crociata, una postura da “polizia morale”, che crea soprattutto ansia e angoscia, che può molestare e intimidire. Ma che non può fermare il cambiamento in atto».

L’allora governatore della Puglia Vendola e il vicepresidente del Consiglio D’Alema a Bari nel 2008: tra loro ci sono stati forti scontri

La ministra, e molti da destra, contestano: «C’è un problema etico e serve una legge per rendere l’utero in affitto un reato universale». Dall’altra parte, le famiglie come la sua chiedono una legge che riconosca i vostri bambini. Cosa deve fare la politica adesso?

«Innanzitutto separare le due questioni. Il fatto che si possa far rivivere l’esperienza mostruosa dei cosiddetti “figli illegittimi” e di diritti diseguali per i bambini, a seconda che siano di un certo tipo di famiglie o di un altro, è mostruoso. Il regolamento europeo, viceversa, afferma il diritto dei nostri figli bambini a non essere discriminati e a poter godere della pienezza della vita familiare. Poi c’è il tema della maternità surrogata, che in Italia è già vietata. Cosa significa renderla un “reato universale”? Non sarebbe più saggio e più realistico regolamentarla solo come pratica solidale ed altruistica, così eliminando a monte il rischio dello sfruttamento delle donne più povere? E non sarebbe ora di consentire l’adozione per i single e per le coppie gay?».

Oggi due gay possono avere un figlio all’estero con la gestazione “altruistica” o “commerciale”. Per la destra è comunque mercimonio dell’utero. Ma la donna che ha tenuto Tobia in grembo perché l’ha fatto?

«Fondamentalmente lei era curiosa, una sua cugina aveva partorito per una coppia gay ed era stata una esperienza molto bella. Noi abbiamo incontrato molte donne, ma con Sharline è subito scattato l’amore. Ci ha chiesto: ma quando Tobia sarà nato potrò tenere la sua foto in casa mia? Aveva già tre figli suoi. Il guadagno che lei cercava era starsene a casa con i suoi bambini per un anno senza lavorare».

La gestazione per altri è una pratica «da ricchi» è la constestazione. Ci potrebbe dire quanto vi è costata?

«Il ristoro di un anno di lavoro mancato per Sharline. Poi molto, in Usa, pesano le spese sanitarie e la clinica. Non le so dire, davvero. Abbiamo pagato molte cose, mai fatto un conto definitivo».

Avere un figlio è un diritto?

«No. Non è un diritto. È una esperienza, un desiderio, un progetto. Non è un diritto, ma neanche un delitto».

Tobia ha conosciuto le donne che lo hanno fatto nascere?

«Aveva solo tre anni quando siamo andati per conoscere Britney (che ha donato l’ovulo) e Sharline (che lo ha portato in grembo). Poi siamo rimasti imprigionati per il Covid. Oggi ha sei anni: gli spiegheremo tutto, intanto ha fatto il paggetto al matrimonio di Britney».

Lei ha raccontato che avere un figlio è stata la scelta più difficile della sua vita. Come gli avete spiegato che ha due papà?

«Intanto non ha mai percepito la sua condizione come una stranezza, bensì come qualcosa di speciale. A un certo punto gli abbiamo raccontato che un bambino può nascere solo dalla pancia di una donna, ma che io ed Ed ci volevamo bene e avevamo bisogno di un uovo: così abbiamo chiesto a una donna di donarcelo e a un’altra di portarlo nella sua pancia. Poi gli abbiamo anche letto un fumetto molto tenero, che racconta una storia vera. Allo zoo di Central park a New York ci sono due pinguini maschi e sono tristi perché non hanno figli: uno prova a covare una pietra, poi il custode se ne accorge e gli porta un uovo abbandonato, che covano. Alla fine nasce un pinguino e sono felicissimi».

Che difficoltà ha e avete incontrato?

«Tobia è un bambino sereno, gioioso, socievole, curioso. Un giorno la cassiera di un bar gli ha detto: “Ti posso offrire un cioccolatino?”. Lui ha risposto che non gli piace la cioccolata. “Lo puoi portare alla tua mamma!”. E Tobia ridendo: “Ma io ho due papà, lo porto a loro”. Ecco, un figlio non è una scelta che fai a cuor leggero. Noi per anni abbiamo studiato, ci siamo interrogati, siamo entrati in tante famiglie omogenitoriali per capire come stessero quei loro figli».

«SONO SORPRESO DA QUANTE PERSONE MI STIANO CHIEDENDO DI CANDIDARMI ALLE EUROPEE. NON SO RISPONDERE. POI È CHIARO CHE IO SENTA IL RICHIAMO DELLA FORESTA, MA...»

Una foto dall’album di famiglia di Nichi Vendola, scattata nel 2021 a casa del fratello maggiore Gianni (in prima fila, il secondo da destra) qualche settimana prima della sua morte: era malato di cancro. Vendola tiene in braccio il figlio Tobia Antonio, al centro con la maglia bordeaux c’è il marito Ed Testa. Gli altri sono parenti e amici

Ora che Elly Schlein è diventata segretaria, è la volta buona che si iscriverà al Pd?

«Non credo accadrà. Il mio giudizio sul Pd resta molto severo. Elly tuttavia è una speranza vera: la sento congeniale ai miei sentimenti per la sua cultura e il suo linguaggio. Il Pd è stato inquinato dal moderatismo, dal governismo, da un cattivo realismo: e spesso è prigioniero di cacicchi e di tessitori di clientele. Schlein ha un compito fondamentale: smantellare tutto questo. E spero ovviamente in un’evoluzione che possa portare all’incontro di tutte le sinistre».

In molti dicono che tornerà in campo per le Europee del prossimo anno...

«Sono rimasto molto sorpreso da queste reazioni e dalle tante persone che me lo stanno chiedendo. Sinceramente non ci avevo pensato. Non so rispondere. Poi è chiaro che io senta “il richiamo della foresta”, ma ora non ho in conto un rientro per la porta delle istituzioni».

Eppure alla sinistra, specie al Sud, i suoi voti farebbero comodo. È proprio certo del suo no?

«Non ho mai considerato i voti come “miei”. Di certo, con la mia gente del Sud, con la mia Puglia, è rimasta viva una relazione forte, direi una connessione sentimentale».

Nel 2010 Massimo D’Alema le chiese di rinunciare al suo bis per la Puglia. Oggi l’ex premier fa il lobbista, anche nel mercato della Difesa. Che ne pensa?

(lungo silenzio) «In quegli anni ci fu uno scontro virulento con D’Alema. Lui ci parlava come se fosse ancora il segretario della Fgci e noi dei sottoposti ribelli. E allora ci ribellammo davvero. Anche a me, quando sono uscito dal ruolo istituzionale, era giunta qualche proposta di fare il lobbista... Ho risposto: “No, grazie”. Io la scelta di D’Alema non l’avrei fatta».

Nel 2018 ha avuto un infarto mentre era a Montecitorio. Come sta oggi?

«Come sta una persona di 64 anni, che vede crescere la propria Spoon river. Ho il cuore segnato da lutti e congedi definitivi. Fortunatamente sono molto felice delle cose che imparo da mio figlio. Anche se patisco il fatto di essere appeso da 10 anni a un processo che ritengo offensivo del senso della mia vita: e questa è una sofferenza che il mio cuore non è riuscito a sopportare, come poi si è visto».

Checco Zalone nella parodia di Vendola: la carriera del comico iniziò su Telenorba, imitando l’allora governatore

La carriera di Checco Zalone iniziò a Telenorba, facendo proprio l’imitazione del governatore pugliese. Vi sentite ancora?

«Ho sempre ammirato l’assoluta serietà con cui fa il mestiere di far ridere. Lui mi ha studiato, mi ha vivisezionato e ricostruito come un prodotto comico. Lo ha fatto con grande intelligenza. Gli sono molto grato per avermi coinvolto nel suo film Tolo Tolo , dove interpreto me stesso. Sì, capita che ci sentiamo ancora».

«HO CONOSCIUTO ED NEL 2004: ERA LA PRIMA VOLTA CHE ANDAVO IN UN LOCALE GAY A ROMA. LUI SI EMOZIONAVA PER IL BUON CIBO, SBAGLIAI IL PRIMO RISTORANTE, POI FU UN TRIONFO»

Nel frattempo Ed, grafico e organizzatore di grandi eventi, è rientrato a casa. Chiedergli su cosa litiga con Vendola viene spontaneo.

«Nichi è disordinato» risponde lui. «Ma nelle sue cose, la scrittura, è ordinatissimo (ride, ndr )».

Il momento preciso in cui vi siete conosciuti?

Nichi Vendola: «Settembre 2004. Era la prima volta in vita mia che andavo in un locale gay a Roma. Quella sera ero già in pigiama, non volevo nemmeno uscire».

Ed Testa: «Avevo 25 anni: ero appena arrivato dal Canada per studiare. Quella sera volevo scoprire un po’ la vita notturna a Roma, ma c’erano solo americani».

Ma alla fine ha incontrato un pugliese. E come attaccaste discorso?

Nichi Vendola: «Questo cuba libre fa proprio schifo, eh? Ed si emozionava per il buon cibo e i posti belli di Roma. Quando l’ho portato a vedere via Giulia, vicino all’arco avvolto dall’edera, stava quasi per piangere. Sbagliai il primo ristorante, poi fu un trionfo. Insomma, lo presi per la gola».

Estratto dell’articolo di Antonio Noto per “la Repubblica” il 31 marzo 2023.

Nelle scelte che appartengono alla sfera dei temi etici, l’opinione pubblica segue solo parzialmente i riferimenti politici. A pesare sono più gli stili di vita che l’ideologia ed è per questo che il posizionamento sulle tematiche sociali è particolarmente insidioso per i leader politici. Spesso si creano divisioni anche nello stesso partito. È quanto emerge dalle risposte degli italiani sulle questioni legate alla famiglia che hanno animato il dibattito degli ultimi giorni.

Infatti la pratica della maternità surrogata, con o senza pagamento in danaro, divide esattamente a metà la popolazione fra favorevoli e contrari. Ma la polarizzazione non ricalca fedelmente gli schieramenti politici. Si registrano, infatti, percentuali fino al 40% a favore anche in partiti di centrodestra come Lega e Forza Italia così come risulta contrario il 38% dei votanti Pd.

Ciò si manifesta ancor di più sulla proposta di rendere la maternità surrogata reato universale. Solo 1/3 è favorevole. Tra questi la quota maggiore è costituita dagli elettori di FdI (51%) […] Altro tema […] è lo stop ai sindaci che avevano scelto di iscrivere all’anagrafe i bambini nati all’estero da coppie omogenitoriali. Anche in questo caso l’opinione degli italiani va controcorrente: il 75% si dice favorevole in quanto la priorità è difendere i diritti dei bambini e questa possibilità è condivisa anche dagli elettori del centrodestra con punta del 83% tra i votanti FI.

 In generale, non è un tabù pensare che le famiglie arcobaleno abbiano figli. Per la maggioranza (56%) la diversità di sesso dei genitori non è un peso sulla crescita dei bambini e non determina danni psicologici o discriminazioni (52%). Anche in questo caso l’elettorato di FI sembra avere posizioni un po’ diverse rispetto ai partiti della coalizione.

Nella formazione dell’opinione riguardo alla tematica bambini- coppie omogenitoriali, gli italiani pensano più ai benefici del minore che agli aspetti legali e amministrativi.

 È così che il 59% è favorevole a che il partner adotti il figlio naturale dell’altro, e il 60% concorda sull’eventualità che una coppia omosessuale possa ricorrere all’adozione. […]

Estratto da fanpage.it il 30 marzo 2023.

L’attrice e conduttrice televisiva spagnola Ana Obregon è diventata mamma a 68 anni grazie alla maternità surrogata. La notizia arriva dalla rivista ¡Hola! che ha fotografato l’attrice all’esterno di una clinica privata di Miami – il Memorial Regional Hospital – mentre teneva in braccio una bambina appena nata. Obregon era arrivata in Florida solo qualche giorno fa ed era rimasta in attesa del parto.

 L’arrivo della bambina apre una nuova pagina nella vita dell’attrice spagnola che, nel maggio 2020, aveva perso il primogenito Alejandro Lecquio Garcia a causa di un cancro. La bimba sarebbe nata il 20 marzo 2023. Obregon avrebbe lasciato la struttura insieme alla neonata due giorni dopo il parto. Secondo quanto riporta Europa Press, l'attrice avrebbe portato avanti il processo per diventare madre attraverso la maternità surrogata nella più totale discrezione. Pare che nemmeno le sorelle Celia e Amalia fossero state informate della decisione di Obregon.

(…)

 Estratto da rainews.it il 30 marzo 2023.

Il caso di Ana Obregon, mamma a 68 anni con la maternità surrogata, riapre il dibattito in Spagna su questa tecnica di procreazione assistita. Il governo è stato molto chiaro sulla posizione: "E' una forma di violenza contro le donne". Lo hanno sottolineato i ministri delle Pari opportunità, Irene Montero (Podemos), e delle Finanze, Maria Jesus Montero (Psoe)

 (…)

"Mi è parsa un'immagine dantesca", ha contestato Pilar Alegria, ministro dell'Istruzione e portavoce del Partito socialista del premier, Pedro Sanchez, "Questo si chiama utero in affitto, non gravidanza surrogata". L'opposizione a destra è apparsa più aperta al dibattito: la questione "merita un dibattito profondo e sereno, perché tocca molte questioni morali, etiche e religiose", ha osservato Cuca Gamarra, 'numero due' del Partito popolare, dove sono convinti che la 'linea rossa' è che la maternità surrogata sia a pagamento.

Estratto dell’articolo di Giuliano Guzzo per “la Verità” il 7 aprile 2023.

«Rifarei tutto, magari per un maschietto, anche se non è possibile scegliere il sesso dei bambini. Mio figlio voleva avere cinque figli». Ana Obregòn non si ferma. Dopo essere diventata «madre», grazie all’utero in affitto, della piccola Ana Sandra Lequio Obregòn, l’attrice spagnola lascia intendere di non escludere nuove gravidanze conto terzi.

 Potrebbe, così, avere un seguito la vicenda che la vede discussa protagonista, in questi giorni, delle cronache di mezzo mondo. Il che è comprensibile, visto che non capita tutti i giorni di apprendere che una signora di 68 anni abbia ottenuto, via maternità surrogata, la nascita di colei che, biologicamente, è sua nipote.

[…] è una bimba ottenuta con un procedimento che vede coinvolte complessivamente quattro persone: l’attrice spagnola nella veste di «genitore intenzionale», la madre surrogata, una donatrice di ovuli e Alejandro Lecquio García, il figlio della Obregòn, deceduto per un tumore il 13 maggio 2020 a 27 anni di età, il cui seme è stato appunto impiegato nell’iter.

[…] «La gente non sa che questa era l’ultima volontà di Alejandro, quella di far venire al mondo suo figlio. Lo ha confessato lui stesso una settimana prima di morire a me e a suo padre».

A proposito del padre del giovane morto, attorno alla sua figura si sta addensando un piccolo giallo. Pare, infatti, che il signor Lequio, divenuto nonno a 62 anni, sia irreperibile. Tutte le testate spagnole sono vanamente sulle sue tracce. Secondo il quotidiano La Vanguardia, l’uomo sarebbe rimasto colpito, anzi sconvolto da questa vicenda.

 Al punto che, pur di sottrarsi alle telecamere, avrebbe lasciato il Paese insieme all’attuale moglie, Maria Palacios, e la figlia Ginevra, nata dal loro matrimonio. Oltre che sconvolto, l’uomo sarebbe anche assai amareggiato. Stando alle ricostruzioni della testata Diez Minutos, infatti, Lequio era a conoscenza dei piani «di maternità», per così dire, dell’ex compagna e avrebbe fatto di tutto pur di farla desistere, senza successo.

[…]

 La notizia della nascita […]ha subito sollevato delle severe critiche da esponenti del governo. A destare indignazione, da parte di un esecutivo che comunque è di sinistra, è stato in particolare il ricorso alla maternità surrogata. «È una forma di violenza contro le donne», hanno dichiarato i ministri delle Pari opportunità, Irene Montero di Podemos, e delle Finanze, Maria Jesus Montero, di Psoe.

[…] l’attrice non nasconderà la verità alla bambina: «Le dirò: “Tuo papà è in cielo e che tu arrivassi era ciò che più desiderava al mondo, e tua mamma è una donatrice”, e basta. Che problema c’è?». Invece un problema esiste e pure enorme: è quello d’una signora che, pur distrutta dal dolore, ha scelto di usare la propria ricchezza per trasformare in pretese dei desideri.

L’attrice Ana Obregón, mamma a 68 anni con surrogata: «Il seme è di mio figlio morto». Virginia Nesi su Il Corriere della Sera il 6 Aprile 2023

L’ultima intervista di Hola ad Ana Obregón segna un prima e un dopo sul caso della seconda maternità dell’attrice, presentatrice e produttrice spagnola. Prima, il 30 marzo, la Spagna e il mondo intero vedono nella foto di copertina della celebre rivista di gossip, l’artista 68enne cullare una neonata fuori da una clinica statunitense. Titolo dell’esclusiva: «Ana Obregón madre di una bambina per maternità surrogata a Miami».

Dopo, il 5 aprile (passati solo sette giorni), Obregón ricompare sulla copertina della stessa rivista per raccontare un’altra verità: «Quella bambina non è mia figlia, ma mia nipote biologica». Perché Ana Sandra Lequio Obregón è nata dal seme congelato del figlio dell’attrice, Aless Lequio, morto nel 2020, a 27 anni, per il sarcoma di Ewing.

Racconta Obregón nell’intervista: «Ho preso la decisione di iniziare il processo di maternità surrogata, che come è noto implica la partecipazione di una donatrice di ovulo e di una gestante, il giorno stesso in cui lui è volato in cielo. È stata l’ultima volontà di Aless». Quel desiderio, precisa l’attrice, suo figlio lo ha espresso davanti a lei e al padre, Alessandro Lequio. Loro hanno ricevuto il suo testamento olografo, «un documento legale». E tutto il procedimento per arrivare alla nascita della bambina è stato in piena norma, assicura.

Così spiega: «Quando gli hanno diagnosticato il cancro, i medici avevano raccomandato ad Aless di conservare campioni di sperma per assicurarsi di poter avere figli. Questi campioni sono stati conservati a New York. Un giorno in cui Aless stava già molto male, ci ha detto che se gli fosse successo qualcosa voleva che sapessimo che lui voleva lasciare degli eredi in questa vita, anche se lui non ci sarebbe più stato».

Il 20 aprile Ana Sandra Lequio Obregón compirà un mese, ma la sua nascita ha già suscitato aspre polemiche anche nelle istituzioni spagnole (ne aveva parlato il 30 marzo la Rassegna Stampa del Corriere). In Spagna la maternità surrogata, sia commerciale sia altruistica, è illegale dal 2006. La ministra dell’uguaglianza spagnola Irene Montero (Podemos) aveva detto: «Non dimentichiamoci delle donne che ci sono dietro questi casi, vittime di una chiara discriminazione per povertà».

Uno dei punti introdotti con la nuova legge sull’aborto, voluta proprio da Podemos e approvata lo scorso febbraio, definisce questa pratica «una forma di violenza contro le donne» e proibisce ogni «pubblicità tramite agenzie di intermediazione». Ma, mentre in Italia il ministero dell’Interno ha detto stop al riconoscimento dei figli delle coppie dello stesso sesso, la Spagna non pone veti sulle iscrizioni e nel caso dei bambini avuti tramite maternità surrogata all’estero prevede l’iscrizione del figlio o della figlia nel registro del Consolato spagnolo del Paese di nascita e poi l’adozione.

Negli Stati Uniti Obregón è la madre legale della bambina. Prima di lasciare il Paese, l’attrice dovrà registrare Ana Sandra. Se ne prenderà cura lei, anche se in Spagna la legislazione non consente di adottare bambini appena nati a chi ha più di 45 anni: la differenza tra adottante e adottato deve essere almeno di 16 anni e non può superare i 45 anni. Il caso lascia aperti degli interrogativi giuridici, sociali ed etici.

Il seme del figlio. Storia di Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 6 aprile 2023.

Ci sono notizie da cui puoi difenderti solo con la nostalgia. Nella tragedia greca un figlio sposava la madre e ci faceva quattro figli per la gioia degli psicanalisti. Nelle telenovelas il figlio morente affidava le proprie creature a sua madre, cioè alla loro nonna, e per fortuna che sul più bello arrivava la televendita dei materassi. Altri tempi. Adesso la scienza ingloba tragedia e telenovela, proponendo uno scenario distopico: l’attrice spagnola Ana Obregòn promette al figlio morente Aless di eternarlo in un erede e, dopo averlo pianto e sepolto, munita del seme congelato di lui vola in Florida per procedere a tutte quelle costosissime e da noi vietatissime pratiche di maternità surrogata che oggi, a 68 anni, le consentono di stringere fra le braccia una figlia che in realtà è sua nipote. Che cosa pensi la donna che ha messo al mondo la bambina non ci è dato sapere, e neanche che cosa penserà la bambina, una volta raggiunta l’età della ragione (benché lo si possa immaginare). Dobbiamo farci bastare cosa ne pensano loro, il fu Aless e sua madre Ana: lui voleva un figlio anche da morto, e lei una figlia che assomigliasse al figlio morto. A guardarla in controluce può persino sembrare una storia d’amore. E allora perché lascia dentro un retrogusto indefinibile? Ammetto di non riuscire a dare un nome al mio disagio. Posso solo condividerlo con chi legge. Non trovando risposte, mi concedo il lusso di una domanda: davvero tutti i desideri sono diritti? 

"Il seme è di mio figlio morto". Ana Obregón, l'attrice mamma a 68 anni. Storia di Federico Garau su Il Giornale il 5 aprile 2023.

"Il seme è di mio figlio morto". Ana Obregón, l'attrice mamma a 68 anni© Fornito da Il Giornale

La sua scelta aveva suscitato forti polemiche in Spagna, anche a livello politico nazionale, riportando alla luce il dibattito sulla surrogazione di maternità, ma quanto rivelato di recente sulla vicenda dalla stessa diretta interessata, l'attrice madrilena Ana Obregón, fornisce ulteriori dettagli sul perché di una decisione del genere. Il seme utilizzato nella pratica è proprio quello del figlio morto nel 2020, cosa che la renderebbe quindi "nonna" della neonata.

"Utero in affitto"

La celebre conduttrice spagnola, dato che nel proprio Paese è fatto esplicito divieto di ricorrere alla maternità surrogata, si era rivolta al Memorial Regional Hospital, clinica privata di Miami (Florida). La sua nuova voglia di maternità, così si era pensato inizialmente, era emersa dopo la grande sofferenza per la perdita del figlio Aless Lequio, scomparso a soli 27 anni nel 2020 a causa di un tumore. Giunta in Florida qualche giorno prima del parto, Ana Obregón era stata "pizzicata" da un fotografo proprio mentre usciva dalla clinica con la bimba in braccio: immagine pubblicata in copertina dalla celebre rivista madrilena ¡Hola!.

La foto era stata poi utilizzata dalla stessa diretta interessata per commentare la notizia sul proprio profilo Instagram: "Ci hanno beccate! È arrivata una luce piena d'amore nella mia oscurità. Non sarò mai più sola, vivo di nuovo", aveva commentato sul social l'attrice spagnola, attirando le critiche di numerosi utenti. A ciò era anche seguito un dibattito politico nazionale, dato che in Spagna la pratica della surrogazione di maternità è vietata per legge. "Mi è parsa un'immagine dantesca", aveva dichiarato il ministro dell'Istruzione nonché portavoce del Partito socialista del premier Sanchez Pilar Alegria, "questo si chiama utero in affitto, non gravidanza surrogata".

La rivelazione

Durante un'intervista concessa a ¡Hola!, Ana Obregón ha svelato altri dettagli della vicenda, spiegando che in

"Legalmente è mia figlia, e così viene indicato sul suo passaporto", ha spiegato l'attrice. "La registrerò presso il Consolato spagnolo e così potrò portarla a casa". Una scelta nata dalla volontà di esaudire l'ultimo desiderio del figlio. "Ho preso la decisione di iniziare il processo di maternità surrogata, che come è noto implica la partecipazione di una donatrice di ovulo e di una gestante, il giorno stesso in cui lui è volato in cielo", ha spiegato la 68enne, la quale assicura che sarà lei a prendersi cura della bambina, occupandosi anche di spiegarle in futuro chi era il padre, senza mai nasconderle nulla."Le dirò: 'Tuo papà è in cielo e che tu arrivassi era ciò che più desiderava al mondo, e tua mamma è una donatrice, e basta. Che problema c'è?", ha aggiunto, annunciando la sua intenzione di scrivere un libro sulla vicenda.

Il Parlamento europeo condanna il governo Meloni: «Discrimina le famiglie arcobaleno. Revochi la decisione». Approvato un emendamento che, in riferimento allo stop al riconoscimento delle coppie omogenitoriali, parla di «decisione che si iscrive in un più ampio attacco contro la comunità Lgbtqi+ in Italia». Sul voto si spaccano anche i Popolari Europei. Simone Alliva su L’espresso il 30 Marzo 2023

L’idillio sembra finito tra l’Europa e Giorgia Meloni. Dopo la preoccupazione di Bruxelles per un rischio “orbanizzazione” dell’Italia, arriva dal Parlamento europeo la condanna «le istruzioni impartite dal governo italiano al comune di Milano di non registrare più i figli di coppie omogenitoriali».

L'Eurocamera ha approvato l'emendamento al testo della Risoluzione sullo Stato di diritto che «ritiene che questa decisione porterà inevitabilmente alla discriminazione non solo delle coppie dello stesso sesso, ma anche e soprattutto dei loro figli; ritiene che tale azione costituisca una violazione diretta dei diritti dei minori, quali elencati nella Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell'infanzia e dell'adolescenza del 1989».

L’emendamento a una risoluzione sulla "Situazione dello Stato di diritto nell'Unione europea", inoltre, «esprime preoccupazione per il fatto che tale decisione si iscrive in un più ampio attacco contro la comunità Lgbtqi+ in Italia e invita il governo italiano a revocare immediatamente la sua decisione».

Una condanna politica che mette all’angolo la fase iniziale di rassicurazioni e pragmatismo, tra l’Europa e il governo Meloni con ampia disponibilità a cooperare

Il Partito popolare diviso

Il voto spacca anche il Ppe, passato per alzata di mano e con una maggioranza così solida da non richiedere conteggio elettronico, fonti interne al gruppo dei Popolari confermano che la delegazione di Forza Italia ha votato compattamente in difesa del governo, ma le delegazioni dei Paesi nordici e quella portoghese, invece, hanno fatto sapere di volersi schierare a difesa delle famiglie arcobaleno.

Benifei: «Tutti tranne Meloni hanno capito che una violazione di diritto comunitario»

«Dopo il dibattito in cui abbiamo condannato le politiche del governo italiano contro le famiglie arcobaleno e i loro figli, oggi il Parlamento Europeo nella risoluzione sullo Stato di Diritto in Europa invita il governo a ritirare immediatamente la decisione” commenta a L’Espresso Brando Benifei, capodelegazione degli eurodeputati Pd: “È chiaro a tutti, tranne al governo Meloni, che queste misure sono una palese violazione del diritto comunitario».

Surrogacy underground”, la gestazione per altri vista da chi l’ha vissuta. Online il documentario di Rossella Anitori e Darel Di Gregorio, che racconta la maternità surrogata dal punto di vista delle gestanti e delle coppie che vi fanno ricorso. Un viaggio dall’Italia all’Inghilterra, passando dalla Grecia. “Un invito a riflettere, senza la pretesa di dare risposte”. Francesca Spasiano su Il Dubbio il 29 marzo 2023

«È come fare la babysitter, solo che il bambino è dentro di me». Chi si domanda perché (e se) una donna scelga di portare avanti una gravidanza per altri trova qualche risposta nel documentario “Surrogacy Underground” di Rossella Anitori e Darel Di Gregorio, presentato in anteprima il 14 marzo a Milano nell’ambito della rassegna “Sguardi Altrove. International Women's Film Festival” e ora disponibile on demand su wildmovieproduction.com.

A prendere parola sono le gestanti, le coppie che hanno avuto bisogno di una mano per avere un bambino, e anche una ragazza nata tramite gestazione per altri. In Inghilterra capita spesso che facciano parte di una stessa famiglia “allargata”. C’è la “mamma di grembo” e c’è la mamma intenzionale, che poi è solo mamma: quando Gee Roberts, oggi adulta e testimonial della Gpa, le disegna entrambe a scuola per la prima volta la maestra non riesce a capacitarsi. Allora ne parla con i genitori, va a casa loro, e comincia a capire. Succede un po’ lo stesso con questo film, che getta uno sguardo su un fenomeno “sommerso” e quasi del tutto ignorato in Italia, dove il ricorso alla maternità surrogata è illegale. Frutto di tre anni di ricerca, arriva nel bel mezzo di un dibattito infuocato. Ma senza la pretesa di dare risposte o giudizi definitivi, sottolinea Anitori, giornalista e autrice del doc. «Questo film mostra la complessità del reale, che non è riducibile - spiega -. È un invito a riflettere e a conoscere le vicissitudini personali di ognuno prima di giudicare». In ballo infatti ci sono un sacco di cose. Considerazioni etiche e culturali, ma soprattutto la tutela di quei minori i cui diritti rischiano di essere compressi. Perciò entrare nelle case di queste persone aiuta a farsi un’idea su ognuna di queste questioni, compreso il nodo adozioni, che si intreccia alle riflessioni sul tema.

Il film contempla tre scenari: l’Italia, l’Inghilterra e la Grecia. Il nostro paese è il punto d’arrivo: quando le coppie fanno ritorno con un bambino nato all’estero bisogna trascrivere l’atto in nascita che riporti entrambi i genitori come tali. Qui cominciano i guai, soprattutto se ad aver avuto un figlio sono due papà, sui quali preme il “sospetto” della Gpa. Non dappertutto, però, le cose stanno così. Normalmente una coppia italiana che non riesce ad avere figli intraprende un percorso di gestazione per altri come ultima possibilità. E decide di andarsene all’estero, generalmente in Grecia, in Inghilterra oppure in Ucraina. Anche il Canada è un’opzione, seppure lontano. La scelta non è mai casuale, perché Grecia e Gran Bretagna hanno due sistemi normativi ben diversi, che «producono due fenomeni differenti», spiega Anitori.

In Grecia, dove la maternità surrogata è legale anche per gli stranieri dal 2014, la legge “privilegia” il genitore intenzionale alla gestante, che in nessun caso è riconosciuta come madre e non figura nel certificato di nascita. Possono ricorrere alla Gpa le coppie eterosessuali o le donne single a cui siano stati diagnosticati problemi di infertilità. In Gran Bretagna, dove la Gpa altruistica è legale dal 1985, invece è madre colei che porta avanti la gravidanza, anche quando l’ovulo è donato dalla madre intenzionale. La gestante può ripensarci per i sei mesi successivi alla nascita, e riceve un rimborso spese. «Non si paga per il bambino - sottolinea Kim Cotton, la prima ad aver fatto da gestante in Inghilterra - ma per il tempo che una donna mette a disposizione».

Nella maggior parte dei casi si creano relazioni sane, di amicizia, che vanno avanti per tutta la vita. Anitori racconta di un elemento ricorrente: molte delle gestanti intervistate avevano un storia di infertilità in famiglia, che le ha spinte a riflettere sulla Gpa. Tutte avevano almeno un figlio, e tutte attribuivano un grande valore alla famiglia e alla maternità. «Inizialmente mi sono approcciata al tema con molta criticità, proprio per le dinamiche di potere che una relazione del genere crea tra una donna e l'altra - spiega Anitori -. Poi ho conosciuto queste persone, sono entrata nelle loro case, e mi sono resa conto che c’era una grande volontà di autodeterminarsi. C’erano tutte le ragioni, le proprie ragioni, per scegliere un percorso di Gpa».

Maternità surrogata: cos'è e dove è legale. Storia di Redazione Tgcom24 il 27 marzo 2023

"Un mercato di bambini", "Connotazioni razziste sulla scelta degli ovociti": le ultime dichiarazioni della ministra per le Pari Opportunità e la Famiglia, Eugenia Roccella, hanno alimentato il dibattito sulla già (ampiamente) discussa maternità surrogata. Ma di cosa si tratta, esattamente? Per maternità surrogata si intende un percorso di fecondazione assistita nel quale una donna porta avanti una gravidanza, fino al parto, per un'altra persona o una coppia. Si definisce anche, per questo motivo, gravidanza o gestazione per altri (GPA) ed è entrato nel linguaggio comune anche il termine di "utero in affitto".

La madre surrogata  Si tratta della donna che ha deciso di portare avanti una gravidanza per conto di persone che, per diversi motivi tra cui anche patologie rare come la sindrome di Rokyitansky, caratterizzata dall'assenza congenita della vagina e dell'utero, tumori all'utero, malformazioni, forme gravi di endometriosi, non sono in grado di concepire o avere figli. Ma come avviene il percorso di maternità surrogata?

La fecondazione  Se possibile, si utilizzano i gameti (quindi ovociti e spermatozoi) della coppia di persone che ha fatto richiesta. Ma è possibile utilizzare gameti di donatori estranei alla coppia stessa e alla donna che porterà avanti la gravidanza oppure ancora utilizzare ovociti della madre surrogata e liquido seminale di quelli che saranno gli aspiranti genitori. Dal punto di vista della genetica, non sempre madre biologica e madre surrogata coincidono.

Il riconoscimento dei bambini concepiti all'estero  In base a una circolare del Ministero degli Esteri, le coppie eterosessuali presentano un certificato di nascita che attesti che sono state rispettate le procedure dello Stato in cui ci si trova e il funzionario consolare deve accettare gli atti al comune competente, informandolo contestualmente sulle particolari circostanze della nascita, insieme alla Procura della Repubblica. Si trascrive l'atto e la Procura accertato che sia stata rispettata la legge del Paese di provenienza, archivia il procedimento. Per le coppie dello stesso sesso, invece, la trascrizione non è effettuata in modo uniforme.

In Italia la Legge 40 e le nuove proposte E' vietata con l'articolo 12, comma 6, che recita: "Chiunque, in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità è punito con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 600.000 a un milione di euro". Una proposta di legge per la regolamentazione della gravidanza per altri solidale elaborata dall'Associazione Luca Coscioni con esperti e altre associazioni è stata depositata alla Camera dei Deputati il 13 aprile 2021. In Parlamento, con l'attuale legislatura, è invece iniziato da pochi giorni l'iter di due proposte di legge, di Lega e Fdi, che mirano a dichiarare la pratica un reato perseguibile anche se commesso all'estero.

Dove è legale, le due forme: altruistica e retribuita In Europa la maternità surrogata è consentita in forma altruistica in Regno Unito, Paesi Bassi, Danimarca, Portogallo (ma non il ricorso da parte di stranieri non residenti). Anche in Belgio è praticata solo in forma altruistica e solo per i residenti, mentre Ucraina, Grecia e Georgia sono diventate alcune delle prioritarie destinazioni per la maternità surrogata commerciale per le coppie eterosessuali. Nello specifico, ad esempio, la legge ucraina consente l'accesso solo a coppie eterosessuali sposate, che per problemi documentati di salute non possono portare avanti una gravidanza; prevede inoltre che almeno il 50% del patrimonio genetico sia della coppia e che il gamete donato non sia della gestante. La gestazione per altri infine è legale anche in alcuni Stati degli Stati Uniti in forma gratuita e in altri anche in forma retribuita. In Canada solo in forma altruistica, anche se è previsto un rimborso spese per la madre surrogata.

Estratto dell'articolo di Nando Pagnoncelli per il "Corriere della Sera" il 25 marzo 2023.

Nelle ultime settimane il tema dell’omogenitorialità ha fatto irruzione nel dibattito radicalizzando le posizioni di leader e partiti. Si tratta di un tema che investe la sfera etica rispetto alla quale le opinioni dei cittadini sono solitamente meno influenzate dall’orientamento politico. […] La maternità surrogata, vietata in Italia e nella stragrande maggioranza dei Paesi, suscita reazioni diverse a seconda che avvenga a fronte di un corrispettivo in denaro o meno.

Nel primo caso, infatti, prevale nettamente la contrarietà (due italiani su tre, il 65,4%), i favorevoli sono il 19,7%, gli altri non rispondono. Nel secondo i contrari, pur prevalendo, diminuiscono al 40,3%, i favorevoli salgono al 34,6, mentre il 25,1% non si pronuncia.

 I giudizi Il sondaggio odierno evidenzia che il 45% degli italiani si dichiara favorevole al fatto che i figli nati a seguito di maternità surrogata nei Paesi in cui questa pratica è consentita, vengano registrati nei comuni di residenza della coppia dopo il loro rientro in Italia, perché ritengono che sia un dovere dello Stato concedere anche a questi figli gli stessi diritti di tutti gli altri.

Viceversa, uno su quattro (26%) è contrario perché registrarli significherebbe dare il via libera alla maternità surrogata anche in Italia e il 29% non prende posizione. La contrarietà prevale solo tra gli elettori di FdI (49%) e della Lega (41%), tra i quali però si registra una minoranza numericamente molto rilevante di favorevoli, rispettivamente il 28% e il 37%.

[…]la possibilità di adottare un figlio da parte delle coppie omosessuali vede prevalere i favorevoli (47%) sui contrari (32%). Peraltro, gli atteggiamenti di apertura sono in aumento di 5 punti rispetto al 2021. Si conferma un atteggiamento di maggiore contrarietà tra gli elettori di FdI (58%) e Lega (48%), pur in presenza di una quota pari al 30% e al 39% di favorevoli. Un italiano su due (53%) è convinto che la politica in Italia su questi temi stia arrancando rispetto alla società, mentre uno su quattro (25%) si mostra più benevolo, ritenendo che su un tema così complesso, l’assenza di una legislazione chiara per le famiglie omogenitoriali sia preferibile piuttosto che avere una legge «di parte».

L’idea di famiglia E a proposito dei cambiamenti della società, va osservato che gli italiani sono sempre meno legati ad una visione tradizionale di famiglia, dato che il 43% ritiene che la famiglia sia l’unione che nasce tra un uomo e una donna uniti in matrimonio civile o religioso (20%) oppure che convivano senza essere sposati ma semplicemente uniti da un legame affettivo (23%), mentre il 45% considera famiglia l’unione che nasce tra due individui anche dello stesso sesso che hanno un legame affettivo e decidono di convivere sotto lo stesso tetto uniti civilmente (15%) o meno (30%, ossia la maggioranza relativa). E va osservato che tra i cattolici praticanti oltre uno su tre consideri famiglia anche le coppie omosessuali, e questo la dice lunga sui cambiamenti che attraversano la Chiesa.

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Airbnb delle gravidanze. L’inutile dibattito sull’utero a equo canone nel paese dei più scarsi polemisti della storia. Guia Soncini su L’Inkiesta il 28 Marzo 2023

La discussione pubblica sulla gestazione per altri si arena su una destra che vorrebbe renderla un reato universale e una sinistra che accusa la controparte di omofobia. In una società evoluta, matura, civilizzata non esisterebbero gestazioni se non a pagamento, perché è un lavoro di fatica

Questo articolo non contiene soluzioni. Non solo perché le soluzioni non le trova chi è pagato per trovarle, figuriamoci se le trovo io. Soprattutto perché la questione della riproduzione della specie in un’epoca in cui essa attiene ai desideri e non all’ineluttabilità è una questione che non si può risolvere.

I figli sono figli, dicono quelli che citano Filumena Marturano come fosse stata un’illuminata pensatrice e non una popolana analfabeta. I figli sono anche, elenco non esaustivo: ingombri; accessori; segni di normalità; ambizioni; accidenti – eccetera.

Ognuna di queste cose genera problemi etici, dall’aborto volontario a quella che, con espressione orrenda, viene chiamata «gestazione per altri». Non «per altre»: per «altri». Il che apre a una questione che mi sta a cuore: se gli «altri», cioè quelli coi gameti sbagliati, hanno diritto a una protesi d’utero per ovviare alla mancanza di modi d’ottemperare al loro desiderio di generare, le altre, cioè io, hanno diritto a che la scienza s’occupi del mio desiderio di pisciare in piedi?

Subaffittare il tuo sistema riproduttivo non è accettabile, dicono le une, perché la maternità mica è un lavoro qualunque che si fa col corpo, come sono quasi tutti i lavori: dall’edilizia alle pulizie, dalla corsa a ostacoli al balletto classico. La maternità ha implicazioni filosofiche, giurano citando immancabilmente qualcuno che l’ha detto prima di loro, perché la mistica della femminilità non è superata ma quella del liceo classico ancora meno, e restiamo convinte che se una cosa sta in un libro non possa essere del tutto una cazzata.

Non mi sembrano maturi i tempi per dire l’indicibile, che infatti non dicono neanche quelli che sono a favore del comprarsi i figli, avendo preso meno sul serio degli altri Filumena Marturano.

L’indicibile è che in una società evoluta, matura, civilizzata non esisterebbero gestazioni per sé stesse, a parte quelle di qualche pervertita per cui partorire è uno spasso. La gestazione sarebbe solo a pagamento, giacché l’unica ragione di farsi ingravidare in proprio è avere sudditi così tonti da voler vedere l’erede al trono nella pancia, e in quella società ideale quei sudditi non esisterebbero più: saremmo tutti abbastanza evoluti da riconoscere la gravidanza come il lavoro di fatica che è.

Ma quella società lì arriverà tra troppi secoli perché io possa avere la soddisfazione di dire «ve l’avevo detto». In quella società lì si potrà anche discutere dell’elemento che mi pare più interessante e più taciuto: gli uomini gay, coi loro rapporti strettissimi con la figura materna, pianificano prole accuratamente priva di madri. In questa società qui non oserei mai proporre di dibatterne: mica voglio sentirmi dare dell’omofoba.

In questa società qui la mistica della maternità è ancora fortissima (non si compensano millenni a partorire nelle grotte con pochi decenni di sale operatorie sterili), e i gruppi Facebook di mamme sono pieni di donne che scrivono di non voler fare l’epidurale per non perdersi l’esperienza, e quando lo racconti tra interlocutori alfabetizzati c’è sempre una che ti dice beh neanch’io me la sono fatta fare, succede una volta sola.

In quel momento ti viene il dubbio che la società del benessere e del figlio unico ci abbia guastato il cervello: pensa le nostre bisnonne che ne partorivano tredici, se sapessero che ci son quelle che rifiutano l’anestesia. Me le vedo, con qualcuno che gli spiega che ora c’è la possibilità di non soffrire mentre il nascituro ti squarcia le pudenda, e però ci sono donne che la possibilità la rifiutano dicendo no scusate io questa sofferenza me la voglio godere appieno. Risorgerebbero solo per investire queste ingrate con l’aratro, e farebbero bene.

Uno dei molti problemi amplificati dalla questione dell’utero a equo canone è che in circolazione ci sono polemisti scarsissimi. A destra strepitano che vogliono istituire il reato universale, e a sinistra, invece di rispondere «ma quale reato universale, deficienti, cosa fate, uno torna dagli Stati Uniti con un bambino che lì ha legalmente riconosciuto e che ha pure il passaporto americano e la possibilità di diventare tra qualche decennio presidente, e voi glielo togliete? Il futuro presidente degli Stati Uniti in orfanotrofio, e il benestante che è andato a fare un Airbnb dell’utero all’estero in galera? Ma avete un’idea anche vaga del concetto di applicabilità della legge?», invece di ridere in faccia a una destra ridicola, a sinistra strepitano «siete omofobi».

Per poi, dieci secondi dopo, dire che quella che chiamano gestazione per altri la fanno perlopiù le coppie etero. I più scarsi polemisti della storia dell’uomo.

E dopo avere, venti secondi prima, detto che non registrando i bambini figli delle coppie gay come aventi due padri o due madri vogliono privarli dei diritti che hanno gli altri bambini. Ma quali diritti? Il diritto d’avere due madri non ce l’ha nessuno, in Italia. Chiedete che esista, quel diritto, cioè chiedete il matrimonio egualitario e l’adozione per i gay, invece di frignare perché vi viene tolto un diritto che non vi è mai stato riconosciuto. I più scarsi polemisti della storia dell’uomo.

Non so se la usino perlopiù le coppie etero, la gravidanza surrogata, e non lo sapete neanche voi: nell’epoca dei numeri sparati a caso, figuriamoci se si posson prendere sul serio quelli ipotetici circa il come sono nati bambini la cui origine perlopiù non viene dichiarata. Di sicuro saranno pochi: non è che la disponibilità economica di andare all’estero e pagare decine di migliaia di dollari per avere un figlio che abbia un pezzo del proprio dna sia proprio alla portata di tutti.

Sabato scorso il Financial Times ha intervistato Bari Weiss, giornalista americana di cui su queste pagine si è molto parlato, sposata con una donna. Nell’intervista si diceva che Weiss e la moglie ora hanno una bambina, e io ho pensato per tutta la lettura: surrogata? Sperma di donatore? Adozione? Non era un dubbio etico, era una curiosità banale, come quando vedi i filmati delle donne trans e vuoi innanzitutto sapere se si siano tagliate il pisello. Solo che la conversazione collettiva ha deciso che le curiosità normali siano morbose.

Tempo fa dicevo che ci voleva una parola per i figli della surrogata, perché se non puoi dire né «ha partorito» né «ha adottato» finirai sempre per dire «s’è comprata un figlio» (che peraltro non mi pare terribile: parte del diventare adulti è rendersi conto che tutto si compra, anche le relazioni, specialmente le relazioni).

Un padre di figli surrogati mi ha risposto che assolutamente no, non bisogna chiedere, non bisogna dire, bisogna accontentarsi d’un generico «è diventato padre» «è diventata madre». Però la paura delle parole non è mai portatrice di sensatezza, e usare espressioni vaghe e generiche non fa che aumentare la curiosità. Come ha fatto a diventare madre, se non le ho mai visto la pancia? Come ha fatto a diventare padre, se sta con un uomo?

Questo articolo non contiene soluzioni e non contiene neanche un business plan. Nell’imminente prima puntata dell’ultima stagione di Succession, i figli Roy dicono che il loro nuovo progetto editoriale dev’essere «clickbait per gli intelligenti». Nell’epoca con polemiche così semplificate da incartarsi su loro stesse, guardo questo articolo che il povero titolista non potrà rendere attraente né con «L’utero in affitto è la rovina dell’occidente» né con «Le famiglie arcobaleno devono vedere riconosciuti i loro diritti», e lo vedo e lo piango, povero titolista, e li vedo e li piango, poveri Roy: come diavolo lo fai, il clickbait per un po’ meno imbecilli?

Stop alle registrazioni delle famiglie arcobaleno, ecco cosa accadrà. Simone Alliva su L’Espresso il 14 Marzo 2023

Il passo indietro del sindaco Sala. La differenza tra iscrizione e trascrizione. Cosa dicono le sentenze. Proviamo a fare chiarezza su alcuni punti fondamentali

Cosa vuol dire per le famiglie arcobaleno la mancata trascrizione degli atti di nascita? Cos’è un’iscrizione? E perché il sindaco Sala si è rifiutato? Sbaglia il prefetto della Repubblica di Milano?

Il disorientamento di chi segue da vicino le battaglie che infiammano le vite delle persone Lgbt e di chi, invece, le osserva per la prima volta, illuminate dal faro della cronaca, è lo stesso. Nei giorni in cui il Comune di Milano sotto pressione del Governo Meloni annuncia lo stop alle registrazioni proviamo a fare una guida aiutati da Stefano Chinotti, Avvocato di Bergamo, membro della Commissione diritti umani del Consiglio Nazionale Forense e socio di Avvocatura per i diritti LGBTI – Rete Lenford.

Avvocato Chinotti, parliamo di famiglie omogenitoriali, leggiamo spesso termini come “iscrizione” e “trascrizione”, mancate o concesse. Cosa vogliono dire? 

«L’iscrizione è un atto che l’Ufficiale di Stato Civile crea, cioè qualcosa di completamente nuovo. La trascrizione invece consiste nell’atto del trascrivere qualcosa che già esiste. Parliamo di iscrizione quando formiamo un atto di nascita nuovo. Mentre parliamo di trascrizione quando trascriviamo un atto di nascita che si è già formato all’estero».

In Italia come possono le persone omosessuali diventare genitori? 

«Le coppie maschili diventano coppie genitoriali solamente attraverso il ricorso alla Gestazione Per Altri che non essendo ammessa in Italia deve essere conseguita all’estero. Laddove la GPA è consentita alle coppie omosessuali (Stati Uniti, Canada). In altri paesi possono accedervi solo i single e le coppie eterosessuali. Le coppie omosessuali maschili acquisiscono la genitorialità inoltre anche mediante l’adozione conseguita anch’essa all’estero. Si formano, quindi, all’estero i certificati di nascita o le sentenze di adozione che devono essere poi trascritte in Italia. I certificati di nascita indicanti i due papà, poiché sono conseguenza dell’applicazione di una tecnica vietata dal nostro codice penale (art 12 della legge 40 che vieta la maternità surrogata) non sono trascrivibili, allo stato attuale. Ci sono, infatti, due sentenze della Cassazione a sezioni unite che dicono che trascrivere questi certificati di nascita con l’indicazione dei due papà è azione contraria all’ordine pubblico italiano. Questo divieto è superabile solo attraverso il ricorso all’adozione co-parentale».

Quindi il sindaco Sala fa bene a non trascrivere questi atti?

«Bisogna dire che dopo la prima di queste due sentenze delle sezioni unite vi siano stati stati comunque alcuni tribunali che hanno ordinato la trascrizione di tali certificati, ma a prescindere dalle circostanze, se devo mettermi dalla parte di un sindaco, allo stato, non trascriverei l’atto di nascita di due papà. Quello che però la Cassazione ti dice è che il papà non biologico può comunque adottare il bambino. Insomma, la nascita conseguente una Gestazione per Altri non può essere, per il momento, trascritta ma il papà intenzionale può adottare il bambino».

Eppure, l’adozione in Italia non è consentita alle coppie omosessuali.

«Quando sono state approvate le unioni civili è stato valutata l’introduzione dell’istituto della step-child adoption (l’adozione del figlio del partner) che però è saltato a causa di convenienze politiche. Tuttavia, dal 2014 ad oggi ci sono stati tantissimi i casi di adozioni ed oggi l’adozione del figlio del partner è una possibilità ufficialmente riconosciuta per via giurisprudenziale».

In che modo?

«L’istituto è quello dell’adozione in casi particolari, formulato su modello dell’adozione del maggiorenne. Ricordo infatti che questo istituto rimanda a disposizioni del codice relative all’adozione del maggiorenne che serviva non per dare un bambino da crescere in famiglia ma per consentire a una persona che non aveva eredi di averne. Non è un’adozione ordinaria, ha dei limiti, non equivale a un rapporto di filiazione. Fino a poco tempo fa non creava neppure rapporti di parentela fra i famigliari dell’adottante e l’adottato. Questa situazione è recentemente cambiata a seguito della pronuncia di una sentenza della Corte costituzionale del 2022. In ogni caso questo tipo di adozione non equivale a quella ordinaria».

E invece per una famiglia formata da due madri?

«Le madri non accedono alla gestazione per altri, ricorrono alla Procreazione medicalmente assistita all’estero. Se il bambino nasce all’estero la giurisprudenza è ormai pacifica nel dire che il certificato dei nati all’estero con due mamme possono essere trascritti in Italia perché non si tratta di azione contraria all’ordine pubblico (non c’è la Gpa). La questione che si pone è un’altra: è possibile iscrivere nei nostri registri dello Stato civile dei bambini che nascono non all’estero da due donne ma in Italia? Il tema è ancora oggetto di un dibattito giurisprudenziale. Ci sono sentenze della Cassazione che ci dicono che non è possibile ma ci sono anche pronunce di merito che dicono che è possibile».

Il dibattito è aperto per la giurisprudenza. Ma chiuso secondo il prefetto di Milano Renato Saccone che dice: “non si possono trascrivere neanche le madri”.

«La circolare del ministero dell’Interno è chiara, dice che sulla base di sentenze che riguardano la gestazione per altri, i sindaci non possono trascrivere i certificati con due papà. Il problema è che il prefetto Sacconi amplia la portata della comunicazione ministeriale prendendo come base questa direttiva ma aggiungendo: non si possono formare i certificati con due mamme dei nati in Italia e incredibilmente aggiunge, quanto alla trascrizione dei nati all’estero, di riservarsi di chiedere un parere all’avvocatura. Ma non c’è nulla da chiedere. Ci sono delle sentenze che pacificamente lo consentono. Anzi, lo impongono».

Beppe Sala potrebbe seguire questa indicazione

«I sindaci operano quali diramazione periferica del ministero. Devono attenersi alla disposizioni ministeriali ma quella disposizione dice solo che non devono trascrivere i figli di due papà. Null’altro».

Usciamo dalle questioni tecniche parliamo delle conseguenze reali di questi eventuali divieti sulla vita delle persone.

«I figli di due papà avranno solo un papà perché potrà essere riconosciuto in Italia solo il papà biologico. Il problema è serio: alcuni papà sono andati all’estero hanno fatto ricorso alla Gestazione per Altri negli Stati Uniti e si trovano in mano un certificato con indicazione della genitorialità di entrambi che non si può trascrivere in Italia. Negli stati uniti si può avere una certificazione che riconosce solo il padre biologico ed una seconda con l’indicazione dei due due papà che però non è trascrivibile. Se le coppie non si premuniscono della certificazione col papà biologico rischiano di ritrovarsi in Italia con un certificato inidoneo ad essere trascritto. Nel frattempo i bambini restano in un limbo. Senza documenti».

Le conseguenze sulle madri invece?

«In una famiglia con due genitori, dove soltanto uno di questi è riconosciuto, la situazione pesa sulle scelte educative e sull’attività di cura. Le faccio un esempio, immaginiamo una coppia di donne in cui la madre biologica ha un impegno lavorativo che la porta all’estero. La figlia rimane per lunghi periodi con la madre sociale e se questa non è riconosciuta l’altra deve munirla di delega per fare qualsiasi cosa: dalle cure mediche all’asilo. La bambina non può neanche espatriare con la madre per andare a trovare quella biologica che si trova all’estero. Per non parlare poi dell’eventualità in cui malauguratamente dovesse accadere qualcosa alla madre riconosciuta. L’altra si troverebbe in balia delle determinazioni dei parenti della prima».

L’adozione sembra l’unica strada da seguire anche per le coppie lesbiche.

«Oggi per le coppie lesbiche, come per tutte in verità, passare attraverso l’adozione vuol dire sottoporsi all’esame dei servizi sociali. Mentre i componenti delle coppie eterosessuali che accedono alla PMA diventano genitori come se fossero genitori biologici e non devono sottoporsi ad alcuna trafila, le coppie di donne che diventano genitrici attraverso PMA si devono sottoporre al un vaglio dei servizi sociali per dimostrare il legame tra adottato e adottante, la casa diventa un via e vai di psicologi, carabinieri, medici. In taluni casi il Tribunale per i minorenni può sottoporre l’adottando a esami medici che prevedono l’individuazione anche di malattie infettive. Ad esempio, il Tribunale di Milano impone di sottoporsi anche all’esame dell'HIV».

Non avviene per le coppie eterosessuali

«No, le coppie eterosessuali non devono adottare se fanno la PMA. Le persone omosessuali devono adottare anche se sono già genitori secondo quanto disporrebbe un’interpretazione costituzionalmente orientata del disposto della legge 40 del 2004».

Cosa succederà adesso?

«Sulle coppie formate da madri si aprirà il contenzioso. Le famiglie impugneranno probabilmente il diniego dei sindaci e sarà qui di il tribunale a decidere se il sindaco, in questo caso Sala, dovrà iscrivere o non iscrivere. Anche se ormai ritengo che la questione potrà essere risolta solo da una disposizione di legge che però non ci aspettiamo arrivi da questo governo. La Corte Costituzionale due anni fa, con la sentenza n. 32 del 2021, aveva lanciato un monito al legislatore; monito caduto nel vuoto. Potrebbe quindi tornare a pronunciarsi. Lo auspichiamo».

E sulle coppie formate da padri che già esistono?

«La Corte europea dei diritti dell'uomo è stata molto chiara: il Paese interessato può anche vietare il riconoscimento diretto alla nascita dei bambini nati dalla Gestazione per altri ma non può togliere loro la tutela genitoriale che anzi deve essere garantita nel più breve tempo possibile. Gli Stati devono trovare un modo pienamente tutelante per i minori ed assolutamente veloce. L’attuale sistema dell’adozione in Italia non rispetta nessuno di questi requisiti».

Cosa è il certificato europeo per i figli delle coppie arcobaleno e cosa succede dopo la bocciatura del Senato. Palazzo Madama ha respinto il certificato di filiazione europeo che avrebbe garantito gli stessi diritti in tutti i paesi dell’Unione ai figli delle coppie omogenitoriali. Pina Picierno a L’Espresso: «La caratterizzazione omofoba di questo governo assume connotati inquietanti». Simone Alliva su L’Espresso il 15 Marzo 2023

Come spinta al clima millenaristico da crociata che cresce contro le famiglie arcobaleno, dopo il pressing del ministro Piantedosi al Comune di Milano, non è male. Il Governo Meloni dice no anche alla proposta di regolamento europeo per il riconoscimento dei diritti dei figli anche di coppie omosessuali. Segnando in due giorni due vittorie che frenano il Paese sul riconoscimento dei diritti e dei doveri per le famiglie omogenitoriali.

La Commissione Politiche europee del Senato ha approvato la risoluzione della maggioranza, contraria alla proposta di regolamento Ue, con 11 voti favorevoli e 7 contrari. Da Bruxelles è Pina Picierno, eurodeputata del Pd e vicepresidente del Parlamento Europeo a commentare per L’Espresso la bocciatura: «Un fatto politico molto grave che certifica la vocazione reazionaria di questa maggioranza. In Europa la maggior parte degli Stati prosegue in una direzione, Polonia e Ungheria dalla parte opposta. Il Governo Meloni si colloca in questo secondo campo, condannandoci all'isolamento su temi fondamentali, bloccando persino un elementare intervento di civiltà come quello apportato dal Regolamento».

Il segnale di un esecutivo omofobo, affonda Picierno: «Un Governo sempre più propenso ad avallare pesanti discriminazioni. In questo caso addirittura a danno dei bambini, che vengono pesantemente colpiti. La caratterizzazione omofoba di questo esecutivo assume connotati inquietanti e si somma alla più complessiva inclinazione a scaricare le proprie battaglie identitarie sui più deboli. Bisogna poi evidenziare come questa votazione non preclude agli Stati membri di proseguire con l’approvazione del regolamento in sede europea. Obiettivo più ampio sembra quello invece di rendere la posizione del governo italiano in un manifesto politico per i reazionari».

E mentre l’Europa osserva la virata “reazionaria” dell’Italia, cerchiamo di capire dove può portare questa bocciatura. L’Espresso ha chiesto ad Angelo Schillaci, professore associato di Diritto pubblico comparato alla Sapienza di Roma, di spiegare quello che può essere tecnicamente difficile da capire per i non addetti ai lavori.

Professore partiamo dal principio: perché in Europa non è omogenea la situazione delle famiglie omogenitoriali? Se una coppia omogenitoriale è riconosciuta in Spagna perché non lo è in Italia?

«La disciplina interna del diritto di famiglia e della filiazione rientra nella competenza degli Stati membri dell’Unione europea. Ogni Stato segue le sue regole in materia. Ciò comporta che gli atti di nascita formati in uno Stato membro dell’Unione, per divenire efficaci in un altro Stato membro, e in particolare in Italia, debbano essere trascritti nei registri dello stato civile ed è possibile verificarne la compatibilità con l’ordine pubblico. L’Unione europea, però, ha la competenza ad adottare provvedimenti riguardanti il mutuo riconoscimento degli atti di stato civile formati nei diversi Stati membri. Ed è proprio quello che vuole fare con la proposta di regolamento di cui si è discusso in questi giorni. Segnalo peraltro che un sempre maggiore numero di Stati membri riconosce l’omogenitorialità al suo interno, in diverse forme: l’Italia, però, è tra i pochissimi Stati membri che non riconoscono diritti alle bambine e ai bambini con genitori dello stesso sesso».

Cosa prevede questo discusso certificato europeo di filiazione?

«La proposta di regolamento di cui si è discusso in questi giorni prevede, da un lato, il mutuo e automatico riconoscimento automatico degli atti di nascita formati in uno Stato membro dell’Ue e, dall’altro, la creazione di un certificato europeo di filiazione che consenta alle famiglie, una volta rilasciato nello stato membro di appartenenza, di esibirlo e farne uso in tutti gli stati membri dell’Ue».

La proposta di regolamento, quindi, non incide sulla competenza nazionale in materia di filiazione?

«No, gli stati restano liberi di disciplinare la filiazione come meglio credono. Quello che non potranno più fare, una volta entrato in vigore il regolamento, sarà rifiutarsi di riconoscere gli effetti degli atti di nascita formati in un altro stato membro. Questo consentirà alle bambine e ai bambini di circolare liberamente nell’Unione, esercitando in pieno i diritti che derivano dalla cittadinanza europea, venendo riconosciuti ovunque come figlie e figli dei loro genitori. Per quel che riguarda le famiglie omogenitoriali, peraltro, la proposta di regolamento si pone in linea con ben due sentenze della Corte di giustizia che, nel 2021 e 2022, hanno affermato che lo Stato membro di destinazione non può negare il riconoscimento allo stato di figlio di coppia omogenitoriale costituito in un altro Stato membro, nemmeno se al proprio interno non disciplina l’omogenitoralità».

La bocciatura del centrodestra che effetti avrà sulle decisioni dell’Ue? Quali sono i prossimi passi?

«La proposta di regolamento si trova in una fase preliminare. Il diritto dell’Unione europea prevede che, quando la Commissione adotta - come in questo caso - una proposta di atto normativo, i Parlamenti nazionali possano esprimersi sul rispetto del principio di sussidiarietà. Sono cioè chiamati a valutare se l’Unione europea abbia ben esercitato la propria competenza in materia o se, viceversa, vi sia stata una indebita ingerenza nelle competenze degli Stati membri. Se un terzo dei parlamenti nazionali dà parere negativo, la Commissione è obbligata a esaminare nuovamente la proposta. Una volta esaurita la fase di esame preliminare da parte dei Parlamenti nazionali, la proposta andrà all’esame del Parlamento e del Consiglio. Trattandosi di proposta adottata sulla base dell’articolo 81, comma 3 del Trattato sul funzionamento dell’Unione, sarà peraltro richiesta l’unanimità in Consiglio: dunque, tutti i governi dovranno essere d’accordo».

È una decisione prettamente politica?

«Come anticipato, l’esame da parte dei Parlamenti nazionali è circoscritto al rispetto del principio di sussidiarietà. Il dibattito in Commissione al Senato, e la stessa risoluzione approvata, vanno al di là di tale ambito. Si è trattato, infatti, di un dibattito relativo più che altro all’opportunità di dare riconoscimento all’omogenitorialità e, soprattutto, animato dal timore che - approvato il regolamento - sarà intaccata la competenza dell’Italia in materia di filiazione. Questo non è vero: non solo infatti l’articolo 5 della proposta riafferma il rispetto della competenza degli Stati in materia, ma la proposta stessa riconosce la possibilità, in casi specifici, di far valere il rispetto dell’ordine pubblico. Si è poi detto che il regolamento favorirebbe il ricorso alla gestazione per altri: anche questo non è vero. In primo luogo, infatti, la gestazione per altri è disciplinata in un limitatissimo numero di Stati membri (tra cui Grecia, Cipro e Portogallo), e peraltro possono accedervi solo coppie eterosessuali. In secondo luogo, lì dove è possibile riconoscere la doppia paternità in caso di nascita da Gpa, il percorso che si segue è molto simile a quello tracciato dalla giurisprudenza italiana: nessun riconoscimento automatico, ma ricorso all’adozione successiva. Non si capisce davvero, allora, dove sia il problema e mi pare evidente che la questione sia stata oggetto di una strumentalizzazione, tanto più grave perché riguardante i diritti delle bambine e dei bambini».

Coppie omogenitoriali, il Senato boccia il regolamento Ue sul riconoscimento dei figli. Il Pd: «Siamo alla destra ungherese». Approvata la risoluzione di maggioranza sulla creazione di un certificato europeo di filiazione. Gasparri e Zanettin: «Netta contrarietà», ira delle opposizioni. Il Dubbio il 14 marzo 2023

Dopo lo stop imposto al Comune di Milano sulla registrazione dei figli nati da coppie omogenitoriali, la commissione Politiche europee del Senato ha bocciato la proposta di regolamento Ue in materia di filiazione e per la creazione di un certificato europeo di filiazione. Con 11 voti favorevoli e 7 contrari è stata approvata la risoluzione presentata dalla maggioranza: hanno votato a favore della risoluzione Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia, contrari Pd, M5s e Iv.

«Alcune disposizioni contenute nella proposta, e in particolare l'obbligo di riconoscimento (e di conseguente trascrizione) di una decisione giudiziaria o di un atto pubblico, emessi da un altro Stato membro, che attestano la filiazione, e l'obbligo di riconoscimento del certificato europeo di filiazione - si legge nel documento approvato - non rispettano i principi di sussidiarietà e di proporzionalità». Per la maggioranza, inoltre, la proposta di regolamento metterebbe in discussione le sentenze della Corte di Cassazione sulla maternità surrogata.

La Commissione esaminava oggi la proposta di Regolamento europeo del Consiglio relativo alla competenza, alla legge applicabile e al riconoscimento delle decisioni e all'accettazione degli atti pubblici in materia di filiazione e alla creazione di un certificato europeo di filiazione. Le opposizioni avevano presentato tre mozioni (una del M5s, una del Pd e del Terzo polo) per opporsi alla risoluzione di maggioranza e avevano chiesto di rinviarne il voto a domani. Ma la richiesta che non è stata accolta.

«No alla maternità surrogata e all'utero in affitto. La risoluzione votata oggi in commissione Politiche Europee al Senato ribadisce la nostra netta contrarietà a queste pratiche inaccettabili», spiegano i senatori FI Maurizio Gasparri e Pierantonio Zanettin. «Su una materia così delicata - proseguono - va adottato il principio di massima cautela. Solo l' ampio divieto di ricorrere alla maternità surrogata è in grado di evitare lo sfruttamento delle condizioni di fragilità delle donne. L'utero in affitto risulta lesivo della dignità della gestante, ma anche dello stesso bambino». 

«Il Senato ha appena bocciato il Regolamento Ue che chiede il riconoscimento dei diritti dei figli anche delle coppie dello stesso sesso in tutti i Paesi membri», denuncia su Twitter il deputato Pd Alessandro Zan, della commissione Giustizia della Camera. «Si trattava - spiega - di riconoscere uguaglianza e civiltà. Ormai siamo alla destra ungherese». «La maggioranza bocciando la proposta di regolamento Ue sul certificato di filiazione si è assunta la responsabilità di far sedere l'Italia con Polonia e Ungheria», commenta Simona Malpezzi, Presidente dei senatori del Pd. «Un attacco ai diritti dei minori inaudito. La destra con una forzatura inaccettabile e agitando un falso problema, vota contro un regolamento che aiuta tutti i bambini, mettendo al centro, come abbiamo ribadito più volte l'interesse del minore. Per noi è prioritario, per loro evidentemente no. Il regolamento non tocca le normative dei singoli Stati: non siamo chiamati a rivedere le nostre leggi, ma siamo chiamati a dare regole comuni su come rapportarsi con minori non nati in Italia da famiglie non residenti in Italia, che nei loro paesi hanno il riconoscimento dello status di figlio e che si possono trovare qui da noi temporaneamente. Oggi la maggioranza, con una decisione propagandistica fatta sulla pelle dei minori, ha deciso di suddividere i bambini tra serie A e B». Per la capogruppo del M5S, Barbara Floridia «la risoluzione della destra ci porta dritti dritti verso una Visegrad dei diritti. Un Paese con la storia dell'Italia non può permetterselo, tanto più se si parla di diritti dei bambini». 

La propaganda miope sui figli delle coppie LGBT. Daniela Missaglia su Panorama il 15 Marzo 2023.

Cosa sta succedendo ai figli di coppie omosessuali in Italia? Una coppia di uppercut al mento che stenderebbero anche il più nerboruto dei pugili sul ring. Lunedì 13 marzo arriva il primo ‘destro’ al volto: la Prefettura di Milano, interpellato il Ministero dell’Interno, dirama una circolare indirizzata al Comune in cui avverte Palazzo Marino di interrompere immediatamente la pratica delle trascrizioni dei certificati di nascita esteri dei figli nati da coppie omogenitoriali. Immediatamente il Comune di Milano si allinea, nonostante il Sindaco Sala si spertichi nel dichiararsi contrario e solidale ai movimenti LGBTQIA+. Né il Comune meneghino avrebbe potuto fare altrimenti dacché la Prefettura ha avvertito che se avesse proseguito nelle trascrizioni avrebbe richiesto l’intervento della Procura per annullarle. Martedì 14 marzo, quindi il giorno successivo, arriva la seconda ‘sventola’: la Commissione Politiche europee del Senato ha bocciato la proposta di Regolamento Ue per il riconoscimento dei diritti dei figli anche di coppie gay e l’adozione di un certificato europeo di filiazione, una sorta di carta di identità europea del minore che gli garantisca l'accesso ai diritti civili e sociali anche in quegli Stati dove non risulti il suo status di figlio. La risoluzione della maggioranza è passata con 11 voti favorevoli e 7 contrari, contrarie le opposizioni compatte. La lettura superficiale che queste ultime stanno offrendo all’opinione pubblica è di un Governo oscurantista e restauratore allineato ai Paesi più conservatori come Polonia e Ungheria che calpesta i diritti umani per mera perfidia.

Per sabato 18 marzo è stata anche convocata una manifestazione di protesta in cui inevitabilmente il nemico verrà individuato nella maggioranza e nel suo esponente di spicco, Giorgia Meloni, per la quale sono già pronte caricature che la trasfigureranno facendola rassomigliare a Orban, Hitler o al Dott. Mengele La propaganda politica pecca spesso di miopia. In Italia vige una legge promulgata nel 2004, la famigerata Legge n. 40, che riserva le tecniche di procreazione medicalmente assistita (Pma) solo alle coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile. La legittimità costituzionale di tale legge è stata deferita alla Corte Costituzionale che, con sentenza n. 221 del 2019 ha rigettato tutte le eccezioni sollevate e reso inequivocabile il divieto di accesso alla Pma da parte di coppie omosessuali. La Corte di Cassazione, più volte interessata della questione, non ha potuto che rigettare tutti i ricorsi, da ultimo con la recentissima sentenza a Sezioni Unite n. 38162 del 30 dicembre 2022 che ha sancito un fermo divieto all’inserimento in automatico nell’atto di stato civile del nome del genitore intenzionale di un minore, nato da maternità surrogata, pratica «che offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane». Viviamo quindi in un Paese del IV Reich? La verità è che si guarda sempre al dito e non alla luna e nessuno si fa un esame di autocoscienza domandosi come sia possibile che, dopo il 2004, abbiamo avuto al Governo quelle stesse opposizioni che oggi gridano al fascismo di Stato ma che non si sono mai prese la briga di modificare o abrogare la legge n. 40, preferendo rinviare il problema per poi aspettare che tornasse al governo la ‘destra’ per gridare allo scandalo. I vari Presidenti del Consiglio succedutisi, Prodi, Monti, Gentiloni, Renzi, Letta, Conte, Draghi, e le maggioranze che li sostenevano dov’erano?

E’ profondamente sbagliato attribuire alla questione un colore politico e cavalcarla solo per mero opportunismo elettorale: in questo modo non se ne esce e si perde inevitabilmente la visione d’insieme. Il tema è etico e come tale appartiene a valutazioni insindacabili rimesse alla coscienza di ciascuno, indipendentemente che sia di destra o di sinistra o pentastellato o vattelapesca. Quando si è deciso di legalizzare aborto e divorzio è stata fatta una consultazione popolare che ha fornito un indirizzo cui i Governi si sono allineati. Gli italiani decidano, una volta per tutte, se pagare una donna per procreare un figlio e partorirlo ‘per conto terzi’ sia sdoganabile attraverso una sanatoria successiva quale è il riconoscimento dello status di figlio tramite la trascrizione dell’atto di nascita estero. Gli italiani decidano se il genitore intenzionale, colei o colui che non ha alcun legame di sangue con il figlio ma ha condiviso questo progetto con il genitore biologico (la compagna o moglie omosessuale o il padre donatore del seme) meriti in Italia lo status di genitore. Siamo una democrazia, abbiamo versato sangue per diventarlo dopo gli orrori della guerra, riappropriamoci della prerogativa di scegliere, in coscienza, come la nostra Costituzione prevede. Eraclito ha scritto: “Ogni giorno, quello che scegli, quello che pensi e quello che fai è ciò che diventi”. Sarebbe il caso di smetterla davvero di piangerci addosso decidendo, una volta per tutte, quello che vogliamo diventare, come Nazione, anche su questi temi.

Vittorio Feltri a Beppe Sala: un bimbo ha bisogno di mamma e papà. Vittorio Feltri il 15 marzo 2023 su Libero Quotidiano.

Il sindaco di Milano, Beppe Sala, si è adoperato allo spasimo per consentire alle coppie, non importa se costituite da persone dello stesso sesso, di avere e di poter ufficialmente mantenere dei figli e di iscriverli regolarmente all’anagrafe. In sostanza egli pretende, allineandosi alla moda, che due conviventi dello stesso genere siano in grado di avere una prole esattamente come accade a marito e moglie. Evidentemente Sala ha una visione molto allargata della famiglia. Per lui praticamente se due maschi convivono more uxorio (il che è già abbastanza ridicolo) hanno il diritto di avere dei bambini e di registrarli in Comune come fossero eredi nati da una lei e da un lui. Peccato che il prefetto abbia bocciato simile proposta in base alla legge nazionale. Il sindaco però non demorde ed è intenzionato a far valere la sua pur stravagante idea innovativa. Sarà battaglia. E personalmente sono convinto che egli perderà il contenzioso, perché non esiste in natura la possibilità che due uomini procreino, essendo privi degli organi corporei atti a concepire e partorire un bebè.

Lo stesso vale per due signore lesbiche che ambiscano ad allevare un bimbo. Oddio allevarlo è possibile, ma non spacciarlo come proprio virgulto per il fatto che gli eredi si producono solo ed esclusivamente mediante l’accoppiamento tra uomo e donna, come avviene da quando esiste questo mondo. Non esiste altro modo per diventare madri e padri se non quello tradizionale, l’unico che garantisca il concepimento. Cioè un rapporto tra un uomo e una donna. Il resto viene da sé. Mentre un uomo può frequentare un suo simile per venti annidi fila senza che accada niente. Quanto alle donne possono amarsi una vita intera ma un piccino non lo faranno mai. Io non sono pratico di omosessualità, e affermo con risolutezza che tale tendenza non mi turba minimamente.

Ogni persona ha il diritto di coricarsi con chi decide senza subire attacchi di tipo moralistico, ma nessuno è in grado di sostituirsi alla natura o prevaricare sudi essa.

Non riesco neppure a immaginare che un omaccione sia in grado di accudire un neonato, cambiargli i pannolini e allattarlo. Sono cose che sanno fare solo le nostre mogli e non un compagno qualsiasi. Queste frequentazioni non c’entrano con la paternità e la maternità, sono un’altra cosa che a me non piace, tuttavia capisco che altri la pensino diversamente. Ma i nostri eredi non vanno coinvolti in tale groviglio di passioni. Ogni individuo è libero di fare ciò che gli garba, ma non coinvolga nelle sue abitudini degli esseri innocenti, meritevoli di nascere e crescere in un ambiente, ovvero una famiglia, di cui non vergognarsi. Chiaro, sindaco Sala?

I limiti alla libertà. Le radici serie e profonde del no all'utero in affitto. Alfredo Antoniozzi su Avvenire sabato 11 marzo 2023

Gentile direttore,

nei giorni scorsi è ritornato centrale il discorso sulla bioetica in seguito a un’intervista a Giorgia Meloni, presidente del Consiglio, che ha ribadito la netta contrarietà di Fdi e della maggioranza a qualsiasi, possibile apertura sul tema dell’utero in affitto. La tendenza italica alla polarizzazione di qualsiasi discorso ha purtroppo fatto sviluppare da sinistra più reazioni semplicisticamente antitetiche (del tutto legittime, ci mancherebbe) che una discussione aperta sul concetto essenziale di libertà, sull’etica e sulle ragioni che determinano un simile convincimento.

Il presidente Meloni ha parlato di strumentalizzazione del corpo femminile, richiamando a una visione di tutela della donna che ha tanti significati e che dovrebbero conoscere adesione da chiunque coltivi una dimensione autenticamente dignitosa della vita. Il tema della maternità surrogata, nella sua genesi, è innanzitutto la pretesa di trasformare un’aspirazione naturale, qual è quella della genitorialità, in un’esasperazione senza confini.

Secondo una certa sinistra, il corpo è un possesso illimitato della persona (cosa, ovviamente, giusta) dal quale possono scaturire decisioni non censurabili quali quella della concessione “in comodato dell’utero” e, quindi, della funzione di concepimento. È superfluo, nella fattispecie, finanche stabilire se questa pratica consenta a coppie omosessuali o eterosessuali la genitorialità, giacché l’aspetto principale è vicariare ciò che la natura non consente di fare. E qui è necessario aprire una parentesi per ricordare che tale pratica, in diverse parti del mondo, è addirittura regolata da accordi giuridici che prevedono a vario titolo una forte corresponsione economica in favore della “donatrice”.

A mio avviso, la differenza tra visioni cristiana, liberale e progressista risiede proprio nel vincolo posto alla concezione di libertà. Che non può essere assoluta, superando ogni dogana etica. È certamente una libertà laica e illuminata quella che pura avendo una base di fede religiosa e/o di ideali politici è tesa a garantire ogni orientamento anche sessuale personale da sopraffazioni di maggioranza. La differenza con le teocrazie sta anche in questo.

La tradizione cattolico-liberale a cui anch’io mi richiamo, del resto, accetta pienamente la via democratica della costruzione del consenso, e concepisce – come Augusto Del Noce, meglio di chiunque altro nel nostro Novecento ha argomentato – un percorso diverso da quello che – secondo una tradizione che va da dalla Rivoluzione francese a quella russa – giustifica la guida verticistica e persino violenta di un’élite “in ragione del popolo”.

Sui grandi nodi bioetici, dunque, e anche sulla questione dell’utero in affitto, la nostra impostazione è di riconoscere il limite alla libertà assoluta dell’individuo, a fronte invece di un individualismo illimitato che legittima come “sacra” qualsiasi decisione singola. È ciò che avviene, peraltro, in materia di liberalizzazione delle droghe o sul delicatissimo e complesso tema del fine vita. Per concludere, direttore, anch’io sono cresciuto nella consapevolezza, molto cattolica, del nostro libero arbitrio che ho appreso essere concessione totale di libertà, ma in una dimensione di redenzione. Siamo così liberi, come anche lei ha scritto in diverse occasioni, che possiamo persino dire di no a Dio, eppure dobbiamo rispettare pienamente la libertà altrui e a comprendere e fare nostra la regola della natura. Lo scrive san Tommaso d’Aquino, ma lo ribadisce pure Voltaire. È proprio in questa ottica per noi non sarà possibile negoziare sul rispetto di ciò che non può essere in nessun modo ridotto a “cosa”.

Vicecapogruppo di Fratelli d’Italia Camera dei deputati

La ministra Roccella: «Famiglie arcobaleno? Il problema è l’utero in affitto. E le regolarizzazioni lo alimentano». Alessandra Arachi su Il Corriere Della Sera il 16 marzo 2023.

La ministra per la Famiglia: vogliamo colpire questo mercato, non gli omosessuali

Ministra Eugenia Roccella, a Milano il prefetto ha detto al sindaco di sospendere le trascrizioni dei figli delle coppie gay. In Parlamento è stata bocciata la proposta di regolamento europea sul certificato di filiazione. Che sta succedendo?

«Il problema è uno solo».

Quale?

«La maternità surrogata, che preferisco chiamare utero in affitto perché è più chiaro che c’è una compravendita della genitorialità, un vero e proprio mercato. I bambini di coppie di uomini omosessuali nascono con l’utero in affitto. La questione è se vogliamo legittimarlo oppure no».

Ma sono più le coppie eterosessuali che ricorrono alla maternità surrogata rispetto a quelle omosessuali...

«Non è un problema di omosessuali o eterosessuali, è molto sbagliato pensare che chi è contro questo mercato voglia colpire gli omosessuali, vorrei che non si confondessero proprio le due cose: l’utero in affitto e l’orientamento sessuale, le scelte sessuali delle persone. È la pratica dell’utero in affitto che va combattuta anche a livello internazionale».

Il quotidiano Avvenire parla della «giustizia del giorno dopo» per tutelare i bambini che, venuti al mondo, ora vivono con due papà o con due mamme. Che fare per loro?

«Non mi sembra che ci sia una discriminazione nei confronti di questi bambini soprattutto dopo la sentenza della Corte costituzionale sulle cosidette adozioni in casi particolari con cui si inserisce completamente il bambino nel nucleo familiare».

Adozione particolare sarebbe la step child adoption che dalla legge sulle unioni civili è stata stralciata?

«È quello che dice la Cassazione: in questi casi si deve passare dalla valutazione del giudice».

E non si potrebbe inserire in una legge invece che lasciarla in mano ai giudici?

«I giudici hanno il compito di verificare che il rapporto con l’altro genitore non biologico ci sia davvero e sia continuativo. Questo una legge che attiva un procedimento automatico non lo può fare. Ma poi stiamo parlando sempre dello stesso problema».

L’utero in affitto?

«Già. Se una persona va all’estero a fare la pratica dell’utero in affitto e sa benissimo che in Italia c’è una legge che garantisce che il bambino sarà figlio del committente — voglio chiamarlo committente, è un mercato — così non lo combatti il problema».

Però ci vanno lo stesso.

«Ma se noi regolarizziamo tutto incrementiamo questa pratica. E noi invece vogliamo combatterla a livello internazionale, facendolo diventare un reato universale. Un emendamento contro l’utero in affitto proposto in Europa è stato bocciato, non votato da Elly Schlein».

Non è d’accordo con una legge che regoli le step child adoption e non le deleghi al giudice volta per volta. Perché non pensare invece alle adozioni per le coppie omosessuali?

«Noi abbiamo un grande problema, sono pochissimi i bambini adottabili. Anche con le adozioni internazionali questo problema si è acuito».

È quindi una questione legata al numero di bambini che si possono adottare?

«È chiaro che vengono privilegiate alcune situazioni. La legge sulle adozioni prevede una serie di condizioni e, chiaramente, il migliore interesse per il bambino. I bambini si affidano alle famiglie che hanno requisiti richiesti».

Quindi alle famiglie con una mamma e un papà?

«Si riserva al bambino la garanzia di maggiore stabilità e di migliore accoglienza familiare possibile».

E non si può dire che le coppie omosessuali diano ai bambini un’assistenza familiare colma d’amore?

«Questo non lo discuto affatto, anzi io penso che singolarmente un papà o una mamma omosessuale possono essere una splendida mamma o uno splendido papà. Ma si deve valutare il maggior interesse per il bambino, i suoi diritti. Come il diritto all’origine».

Il diritto di sapere da dove proviene ?

«Ai bambini figli di coppie omosessuali questo diritto viene negato perché hanno un solo genitore biologico. L’altro genitore è stato volutamente cancellato. Con l’utero in affitto vengono negati due genitori (la donna che vende l’ ovocita e quella affitta l’utero). Ormai per tutto questo abbiamo smarrito alcuni termini. La parola mamma non si può più dire».

Ma si può dire genitore.

«Sono affezionata alla parola mamma».

Scontro sulla maternità surrogata. Roccella: «È un mercato di bambini, può costare 100 mila euro». Cesare Zapperi su Il Corriere della Sera il 19 marzo 2023

La ministra per la Famiglia: «La maternità surrogata è proibita. Chiamiamola con il suo nome, utero in affitto». Rampelli (FdI): «Non si possono spacciare figli come propri»

Dopo la manifestazione di Milano, il confronto sull’iscrizione all’anagrafe dei figli di coppie omogenitoriali si infiamma. Nelle ultime ore ci sono in tv state prese di posizione della ministra per la Famiglia Eugenia Roccella e del vicepresidente della Camera Fabio Rampelli che stanno infiammando il dibattito. «La maternità surrogata è proibita e chiamiamola col suo nome, utero in affitto, perchè è un passaggio di denaro con un contratto» spiega la ministra per le Pari opportunità e la Famiglia a «Mezz’ora in più» su Rai3. «Si apre un mercato della natalità, ci sono fiere internazionali. Hanno provato a farne una anche a Milano, ma c’è stato qualche timore e non è stata fatta. Può costare sui 100mila euro, una cosa per benestanti, ma alle donne arrivano dieci mila euro», sottolinea Roccella. «Si scelgono gli ovociti - sostiene- un mercato con connotazioni anche razziste, si scelgono le donne bianche, gli ovociti delle donne nere costano meno. Poi si sceglie la donna che presta l’utero, che di solito è bella e bionda e si sceglie pure la religione».

Rampelli (FdI) a «In Onda» su La7 sabato sera ha detto che le coppie omosessuali «spacciano per figli loro» quelli concepiti all’estero tramite maternità surrogata. «Non c’è alcuna discriminazione nei confronti dei bambini: noi ci preoccupiamo innanzitutto dei bambini. Ci preoccupiamo delle donne che vengono sfruttate», ha sostenuto l’esponente di Fratelli d’Italia. «Se poi due persone dello stesso sesso chiedono l’iscrizione all’anagrafe di un bambino che `spacciano´ per proprio figlio significa che questa maternità viene fatta fuori dai confini nazionali», aggiunge, alludendo al fatto che la maternità surrogata non è possibile in Italia. E oggi, per la festa del papà, un messaggio non meno fonte di possibili polemiche: «Auguri a tutti i papà consapevoli di non poterlo essere senza una mamma. Affermazione tutt’altro che banale di questi tempi perché c’è chi ha scambiato le persone per oggetti o animali o specie arboree e i bambini per puffi, a proposito di peluche… ».

Sull’uscita di Rampelli (l’uso della parla «spacciano»), Roccella cerca di trovare una spiegazione, ma conferma la posizione di fondo del vicepresidente della Camera: «Le parole di Rampelli? Mi rendo conto che spacciare è una parola che evoca altre cose, ma la verità è quella che ha detto Rampelli. Quando si fa l’iscrizione all’anagrafe devi dire una serie di cose, dove è avvenuta la nascita, chi è il genitore, e chiaramente se dici che i due padri sono entrambi genitori dici una cosa che non è la verità, perché uno dei due certamente non è la madre».

Alle parole di Rampelli replica l’eurodeputata del Pd Pina Picierno: «“Le coppie gay che spacciano i bambini per loro figli´. Una violenza atroce, non soltanto nei confronti dei genitori che scelgono di accogliere con amore dei figli, ma soprattutto nei confronti dei bambini che nemmeno possono difendersi. Si spacciano (loro sì) per politici degni del governo del Paese, sono solo reazionari violenti».

Ma la ministra Roccella a Lucia Annunziata consegna altre riflessioni: «La manifestazione di ieri a Milano? Le manifestazioni sono sempre una buona occasione di partecipazione di democrazia, quindi fanno bene, non è un problema, l’unica questione è che mi sembrato che ci fosse spostamento del tema. Non si vuole parlare dell’utero in affitto, si sostiene che il problema non è l’utero in affitto, mentre questo è il cuore del problema, e che il problema sono invece i diritti dei bambini. Su questo vorrei fare chiarezza: non esiste una negazione dei diritti dei bambini. In Italia tutti i bambini hanno gli stessi diritti - spiega la ministra -, e per quanto riguarda le stesse coppie che hanno anche fatto l’utero in affitto eventualmente all’estero, quando si torna in Italia comunque il genitore biologico è riconosciuto. Non è vero che non si può avere il codice fiscale, non è così. Il problema è che queste coppie a volte non accettano il riconoscimento del padre biologico e chiedono invece di essere iscritte all’anagrafe come genitore entrambi, e quindi non fanno questo passo. La Corte di Cassazione ha detto con chiarezza quale è la strada, ed è l’adozione in casi particolari, quindi il secondo genitore può arrivare all’adozione attraverso questo percorso».

Lucia Annunziata durante l’intervista alla ministra Roccella a un certo punto perde la calma e, parlando della maternità surrogata, sbotta: «E fatele queste leggi, c....». Immediate le scuse «per questo sgarro linguistico», ai telespettatori e alla stessa ministra che replica: «Si vede che questo tema le sta molto a cuore».

Gli interventi si susseguono. «La lista degli statisti di Fratelli d’Italia si allunga ogni giorno di più. Ci sarà una fine? Ai posteri...». Lo scrive su Twitter il leader di Azione, Carlo Calenda, in riferimento alle parole Fabio Rampelli. Su Instagram interviene Nichi Vendola (Sinistra italiana): «È curioso ricordare che oggi è San Giuseppe, che è il simbolo, è l’icona della paternità. Peccato che San Giuseppe non fosse il papà biologico di suo figlio, fosse un papà sociale, un papà d’anima, un papà spirituale. Io non so se San Giuseppe è tra i riferimenti del cristianesimo esibito della destra, vedendo le polemiche attuali direi che è più Erode un riferimento per questa destra, magari lo chiedano al ministro Sangiuliano». «E comunque - conclude Vendola - bando a quelli che emettono volgarità anche in un giorno come questo, e auguri, auguri a tutti i papà del mondo».

Rampelli in tv: «Coppie dello stesso sesso non possono ‘spacciare’ bambini per propri figli». Il Corriere della Sera il 19 marzo 2023

Lo scontro su La7 tra il vicepresidente della Camera e la giornalista Concita De Gregorio

CorriereTv

«Se due persone dello stesso sesso chiedono il riconoscimento, e cioè l’iscrizione all’anagrafe, di un bambino che spacciano per proprio figlio significa che questa maternità surrogata l’hanno fatta fuori dai confini nazionali». Così Fabio Rampelli, vicepresidente della Camera e esponente di FdI, nel corso della trasmissione In Onda su La7 con Concita De Gregorio e David Parenzo.

Il dibattito era incentrato sulla manifestazione delle famiglie arcobaleno a Milano, scese in piazza dopo lo stop della registrazione all’anagrafe dei propri figli.

«Rampelli, mi scusi» lo ha interrotto la giornalista «non è che lo ‘spacciano’. Il bambino è il loro figlio. Se si tratta di due madri spesso è nato da una delle due, se si tratta di due padri spesso è nato dal seme di uno dei due. Quand’anche non fosse così, il bambino è tuo figlio anche se è stato adottato».

Annunziata sbotta con Roccella: «Avete la responsabilità di fare queste leggi, c...o». Poi le scuse in diretta

Il Corriere della Sera il 19 marzo 2023

La conduttrice di 'Mezz'ora in più' perde la calma discutendo con la ministra. Poi si scusa. CorriereTv

(LaPresse) «La politica serve anche a costruire un modello per il futuro, allora si tratta di decidere se la maternità e la paternità sono una questione di mercato. Abbiamo delle soluzioni, ma il problema è se accettiamo o no il mercato dei bambini».

Così la ministra per le Pari Opportunità e la Famiglia, Eugenia Roccella, ospite a Mezz'Ora in Più su Rai3. Sul tema legato alla maternità surrogata, e alla chiusura da parte del governo alla trascrizione dei figli delle famiglie omosessuali, la conduttrice Lucia Annunziata ha poi perso per un attimo la calma rivolgendosi così alla ministra in studio: «Voi avete la responsabilità di farle queste leggi, ca...».

Subito dopo la giornalista si è scusata, anche con gli spettatori, "per questo sgarro linguistico", mentre Roccella ha concluso: «Noi adesso faremo una legge, perché l'utero in affitto non è realmente perseguito nel nostro Paese». 

"E fatele queste leggi, c...o". Annunziata senza freni e la parolaccia in diretta. La conduttrice di "Mezz'ora in più" va su tutte le furie quando il ministro Roccella parla di "umanesimo" nel contesto del dibattito sulla maternità surrogata. Lorenzo Grossi il 19 Marzo 2023 su Il Giornale.

"Assumetevi la responsabilità di fare queste leggi", poi l'aggiunta di un'esclamazione colorita. Lucia Annunziata non è proprio riuscita a controllarsi nel finale dell'intervista a Eugenia Roccella, ministro per la Famiglia, la Natalità e le Pari opportunità nel governo Meloni. Il contesto del botta e risposta, dal quale è poi scaturita la frase infelice della conduttrice, era la discussione sul tema della maternità surrogata e la chiusura da parte del governo alla trascrizione dei figli delle famiglie omosessuali. Un argomento che ha riguardato tutta la prima parte della trasmissione "Mezz'ora in più", su Rai3.

Annunziata si fa prendere dal dibattito

Già all'inizio dei trenta minuti circa di faccia a faccia tra l'Annunziata e la Roccella si intuisce che il clima in studio rischia di diventare parecchio incandescente. La giornalista tv tenta più volte di mettere in difficoltà il ministro sul recente provvedimento in Parlamento che ha visto il divieto di trascrizione dei figli delle famiglie omosessuali. Roccella, tuttavia, non si scompone sottolinea come il punto da affrontare, rispetto alle coppie gay, sia quello della maternità surrogata.

"Gruppettara di destra...". L'attacco della Annunziata alla Meloni

"La Cassazione ha spietato che c'è un percorso per il riconoscimento dei figli". Come quello "dell'adozione, che viene utilizzato normalmente da una madre single, che si sposa e deve comunque – se vuole che il compagno riconosca il figlio - passare da questo percorso, quindi non è qualcosa contro gli omosessuali". Quando l'intervista sembra ormai volgere verso la conclusione, un rapido botta e risposta tra le due fa andare su tutte le furie l'Annunziata: "Il tempo spiegherà la politica meglio di lei e me", sostiene quest'ultima. Roccella replica: "Io spero che il tempo manterrà queste caratteristiche di umanità e umanesimo".

Apriti cielo. "Perché chi sgarra dall'idea che la famiglia non è composta da una mamma e un papà non fa parte dell'umanità e dell'umanesimo?", è la domanda stizzita della presentatrice. Il ministro spiega: "Io intendo l'umanesimo nel senso proprio dell'esperienza umana che tutti abbiamo vissuto e che va conservata". E qua si arriva al culmine del confronto. Lucia Annunziata sbotta infatti definitivamente: "Questo si può fare - perché è un grande dibattito - senza necessariamente e surrettiziamente chiudere in commissione politiche europee del Senato una cosa per arrivare alla proibizione della trascrizione dei certificati di nascita esteri di bambini già nati e vietare la maternità surrogata. Prendete la responsabilità di fare queste leggi, cazzo!". In un nanosecondo la conduttrice si rende perfettamente conto di avere premuto troppo sull'acceleratore e chiede immediatamente scusa per il turpiloquio: sia al ministro sia ai telespettatori. Ma ormai la frittata è fatta.

Estratto dell’articolo di Valentina Santarpia per corriere.it il 20 marzo 2023.

«È davvero inaccettabile quanto avvenuto ieri durante la trasmissione In mezz'ora»: partono all'attacco i componenti di Fratelli d'Italia della commissione di Vigilanza Rai dopo l'episodio in cui Lucia Annunziata, conduttrice della trasmissione su Rai Tre, è sbottata con una parolaccia, scusandosi poi subito con l'ospite e i telespettatori.  La reazione era legata alla possibilità da parte degli organi politici di legiferare sui figli delle coppie omogenitoriali, dopo lo stop alle registrazioni.

 «La conduttrice ha più volte interrotto il ministro Eugenia Roccella impedendole di parlare, fino a scivolare nella volgarità. Che senso ha invitare un esponente politico, peraltro ministro, ad un'intervista e poi impedirgli di parlare perché non si condividono le sue tesi? Faziosità e ideologia si pongono agli antipodi rispetto al servizio pubblico, Lucia Annunziata si è resa protagonista di una pessima pagina del giornalismo e dell'emittente pubblica. È arrivato il momento di cambiare pagina, il rispetto dei contribuenti che pagano il canone Rai non può più venire meno», scrivono in una nota i componenti di FdI.

Cosa è successo? A «Mezz'ora in più», in diretta su Rai 3, il tema di ieri era quello del riconoscimento dei figli delle coppie omogenitoriali, ma il confronto è diventato aspro quando si è spostato sul terreno della maternità surrogata. […] La ministra teneva il punto […] «Si tratta di decidere, e abbiamo delle soluzioni: il problema è se accettiamo o non accettiamo il mercato della maternità e della paternità».

 E qui Annunziata è sbottata, richiamando il parere sul certificato di filiazione europea espresso dalla maggioranza in commissione politiche europee al Senato. «Prendetevi la responsabilità di farle queste leggi». Quindi, la parolaccia. […] Annunziata si è portata le mani sulla bocca. «Oddio», e si è scusata per due volte. Chiedendo «perdono» a ministra e telespettatori. Ma non è bastato a frenare il coro di critiche […] i componenti della Lega in commissione di Vigilanza Rai […]: «Atteggiamento intollerabile, troppi giornalisti del servizio pubblico credono di essere al Nazareno». […]

Estratto dell'articolo di Alessandro Sallusti per “Libero quotidiano” il 20 marzo 2023.

Le mani giunte che si agitano su e giù come quelle della professora che sta redarguendo gli alunni, il tono altrettanto dottorale «qui forse non ci siamo capiti», poi quel «voi avete la responsabilità di farla questa legge caz..». Sì, Lucia Annunziata ha detto proprio così, caz.., rimproverando durante la sua trasmissione “Mezz’ora in più” niente di meno che un ministro della repubblica, la ministra della Famiglia, della Natalità e delle Pari opportunità Eugenia Maria Roccella che con un sorriso le ha replicato: «Vedo che lei si coinvolge».

 Già, è proprio così, abbiamo i conduttori del servizio pubblico pagati, nel caso assai bene, non per fare domande ma per «essere coinvolti» nel dibattito politico, in questo caso la discussione in corso sui modi del riconoscimento anagrafico dei figli di coppie omosessuali, tema delicato perché se non maneggiato con cura può diventare il grimaldello per il riconoscimento di fatto della pratica dell’utero in affitto, pratica fortemente osteggiata dalla maggioranza di Centrodestra in quanto disumana e umiliante per le donne ridotte a incubatrici di figli altrui.

(...)Che poi il problema non è la parolaccia in sé ma il tono inquisitorio e l’arroganza culturale che Lucia Annunziata ben rappresenta, come se il ministro non andasse interpellato bensì inquisito e rieducato. Propaganda, non c’è altro termine per definire questo tipo di informazione fatta di giudizi e pregiudizi. 

(...)

Littizzetto, la lettera contro la Meloni: “Orrore in Rai”, scoppia la bufera. Libero Quotidiano il 20 marzo 2023

Scoppia la bufera a Che tempo che fa. Luciana Littizzetto e Fabio Fazio mettono a segno uno dei loro colpi, uno di quei monologhi che scatenano la tempesta. Protagonisti del messaggio della Littizzetto letto nell'ora di punta del prime time della domenica sera su Rai 3 sono due bambini, uno, figlio di una coppia etero, l'altro figlio di una coppia di omosessuali. Il tutto guarda caso il giorno dopo la manifestazione di Milano contro il divieto di trascrizione dei figli delle coppie omo a cui ha partecipato anche la segretaria del Pd, Elly Schlein.

I passaggi che hanno fatto discutere (e non poco) sono questi: "Non puoi fermare l’amore, al massimo puoi fargli lo sgambetto, ma poi lui si alza in piedi e va avanti", applausi in studio per la comica, con Fazio che ha commentato: "Con tutto il rispetto per chi ci governa, cerchiamo di non costruire altro dolore”. Insomma un vero e proprio attacco all'esecutivo in prima serata. E la risposta da parte del centrodestra non si è fatta attendere. C'ha pensato Maurizio Gasparri a intervenire: "Patetica demagogia della #Littizzetto #CTCF propaganda per l’utero in affitto, lesione diritti donne, compravendita bambini #orroreRai". Insomma il caso è aperto e di sicuramente non si chiuderà presto...

Il monologo buonista della Littizzetto sulle famiglie arcobaleno. L’intervento della comica torinese a “Che tempo che fa” strizza l’occhio al mondo Lgbt: “L’amore non rappresenta mai una minaccia, mai”. Massimo Balsamo il 20 Marzo 2023 su Il Giornale.

È mancata solo la lacrimuccia, quella non è arrivata nonostante l’impegno profuso. Come facilmente prevedibile, il divieto di trascrizione all’anagrafe dei figli di coppie omogenitoriali ha fatto tappa a “Che tempo che fa”, protagonista Luciana Littizzetto con il suo immarcescibile monologo buonista. "Fino a pochi giorni fa, i comuni di Milano, di Torino, e molti altri, registravano regolarmente i figli nati da coppie omogenitoriali, cioè coppie composte da due persone dello stesso sesso, ma questa settimana sono stati bloccati da una circolare inviata ai sindaci", ha ricordato la comica torinese.

"Da qualche giorno quindi i bambini con due mamme e due papà non avranno più tutti e due i genitori registrati all’anagrafe, ma solo uno dei due, quello legato biologicamente al bambino”, ha aggiunto la Littizzetto:“E secondo la legge italiana, purtroppo, l’altro genitore non è più nulla, è un fantasma. Questi bambini vivono già nelle nostre città. Mentre la politica fa finta che non esistano". Il braccio destro di Fabio Fazio ha poi raccontato la storia di Luca e Marta, due bambini di fantasia cresciuti rispettivamente in una famiglia tradizionale e in una famiglia con due mamme, con tanto di accenti pomposi, gonfiati.

Il monologo buonista della Littizzetto

Terminato l’elenco di pseudo differenze tra i due bimbi, la Littizzetto è intervenuta in prima persona:"Mentre la società corre, la politica al massimo cammina. La società è Marcell Jacobs, la politica è me dopo che mi sono distrutta il ginocchio. L’abbiamo detto centinaia di volte, ma forse non l’hanno ancora capito e quindi facciamo centouno, come la carica. Non puoi fermare l’amore, al massimo puoi fargli lo sgambetto, ma poi lui si alza in piedi e va avanti. Perché l’amore non rappresenta mai una minaccia, mai".

Ci risiamo: Littizzetto accusata di copiare. Il monologo sugli affitti "preso" dai social

Un intervento un po’ facilone, confezionato con maestria per strappare consensi, basti pensare alla chiosa: "Amici governanti, pensate ai bambini. Sono loro che dovete proteggere. Non discriminateli per il modo con cui sono stati concepiti o per l’identità dei genitori. E soprattutto pensate ad aiutare le famiglie, non a rendergli la vita ancora più difficile, o sembrerete come chi vuole asciugare il mare con il mocio". La banalotta letterina della Littizzetto è stata accolta con un’ovazione dal pubblico in studio, simile alle standing ovation al festival di Cannes al termine della proiezione di un film di Tarantino. La fiera del buonismo (e della propaganda) a tinte arcobaleno.

"Non era il papà biologico". Lo sfregio di Vendola contro San Giuseppe. Marco Leardi il 19 Marzo 2023 su Il giornale.

L'ex presidente di regione polemizza con il centrodestra sulle famiglie arcobaleno e scomoda San Giuseppe: "Non era padre biologico, ma padre sociale. Riferimento di questa destra è più Erode"

Ormai nemmeno i santi vengono lasciati in pace, nella beata tranquillità degli altari. Il povero San Giuseppe, ad esempio, si è ritrovato suo malgrado al centro della polemica politica, strattonato per la lunga tunica e buttato al centro dei bisticci sulle coppie Lgbt. Nel giorno in cui si celebra la festa del papà, è stato Nichi Vendola a scomodare il padre putativo di Gesù per imbastire una discutibilissima arriga contro il centrodestra. Sui social infatti l'ex presidente della regione Puglia - che è anche padre di un bambino nato attraverso la gestazione per altri - ha pronunciato un'insolita provocazione politica sulla paternità chiamando in causa proprio il santo del giorno.

"San Giuseppe non era padre biologico"

"Oggi 19 marzo è la festa del papà usata anche quest'occasione per fare polemica contro le famiglie arcobaleno, per dire che ci sono dei papà di serie A e dei papà di serie B", ha affermato Vendola. All'indomani della manifestazione organizzata a Milano dalla sinistra con le famiglie arcobaleno, l'ex presidente si è poi addentrato in un'ulteriore ragionamento dai risvolti polemici. E politici. "È curioso ricordare che oggi è San Giuseppe, che è il simbolo, è l'icona della paternità. Peccato che San Giuseppe non fosse il papà biologico di suo figlio, fosse un papà sociale, un papà d'anima, un papà spirituale. Io non so se San Giuseppe è tra i riferimenti del cristianesimo esibito della destra, vedendo le polemiche attuali direi che è più Erode un riferimento per questa destra, magari chiedetelo al ministro Sangiuliano", ha detto l'ex leader di Sel, rifilando una stoccata alla maggioranza di governo.

L'indelicata provocazione di Vendola

E comunque - ha concluso l'ex governatore - "bando a quelli che emettono volgarità anche in un giorno come questo, e auguri, auguri a tutti i papà del mondo". Certo, a proposito di indelicatezza, la provocazione approntata da Vendola non ci è sembrata tra le più riuscite. Anche perché non ci risulta che - sul fronte opposto - il centrodestra abbia invece arruolato l'icona religiosa di Giuseppe per sostenere le proprie istanze politiche. E peraltro andrebbe ricordato all'ex presidente di regione che la Chiesa ha sempre considerato San Giuseppe come esempio di una paternità "tradizionalista", nell'ambito della Sacra Famiglia. Non esattamente un modello arcobaleno, insomma.

Diversamente, il premier Meloni aveva celebrato la ricorrenza odierna postando sui social un messaggio di tenore differente. Senza cenni ai bisticci politici. In un post, il presidente del Consiglio aveva infatti ringraziando i padri definendoli una "ricchezza insostituibile".

Estratto dell’articolo di Andrea Scaglia per “Libero quotidiano” il 20 marzo 2023.

Certo è che fa impressione. E non si tratta di metterla sul piano dell’etica, poiché qui si vorrebbe impostare un discorso del tutto laico - nel senso più generale del termine. D’altronde, la maternità surrogata (o gestazione per altri) presuppone la prestazione di una terza persona in seguito alla richiesta formalmente presentata da parte di uno o due committenti, richiesta pressoché sempre mediata da un’agenzia, e dunque va preventivamente regolata.

 Normale quindi che la cosa sia regolata da un contratto, e però - ripetiamo - quando ci sono di mezzo gravidanze e parti e poi neonati, la fredda schematizzazione da esercizio commerciale suona stonata. Ma tant’è. Innanzitutto una premessa, visto che- anche se è argomento di grande attualità - non tutti hanno chiaro di quel che si parla. La maternità surrogata prevede che una donna porti avanti la gravidanza per conto di altre persone. […]

Ed ora andiamo ai contratti. I termini si trovano facilmente sui siti delle agenzie che forniscono il servizio. Cominciamo con uteroinaffitto.com, riferibile a BioTexCom, clinica che ha sede a Kiev, in Ucraina, specializzata in tutte le tecniche di fecondazione assistita.

 Qui si può consultare una schematizzazione dei contratti offerti proprio in ordine alla maternità surrogata. Premettendo che «il costo del contratto è diviso in 6 rate, ogni pagamento viene effettuato in una certa fase del programma» (sui costi torneremo dopo: ovviamente quelli di viaggio fino in Ucraina non sono compresi), si spiega che ci sono tre possibili inquadramenti.

Il contratto “standard”, che assicura l’assistenza medica per tutto il periodo necessario (compreso il servizio pediatrico post parto), un pacchetto di supporto trasporto, cibo, alloggio per due mesi, l’assistenza per ottenere i certificati, e però viene sottolineato che non comprende alcuni aspetti: la possibilità di scegliere la donatrice dal loro database (quindi te la devi portare da casa, supponiamo), la copertura di spese supplementari se nascono dei gemelli, il test Pgd (cioè quello per verificare la salute del feto).

 Tutte cose invece incluse nel contratto “plus”, compresa, per l’appunto la possibilità di scegliere la gestante nel famoso database interno. Inoltre sarà fornito pure un servizio di baby sitter, sei ore al giorno, per assistere il futuro poppante (e l’assistenza logistica è assicurata per tre mesi).

Infine c’è il contratto “vip”, che contempla tutti i servizi medici e genetici possibili e immaginabili, l’assistenza trasporto-vitto-alloggio che sale a quattro mesi, la baby sitter assicurata per otto ore al dì. […]

 Veniamo ai prezzi. Ovviamente, variano a seconda dei servizi offerti, e dei relativi contratti. Prendiamo il pacchetto “confort guarantee”: qui la fecondazione in vitro è compresa, la madre surrogata è “a scelta” dei committenti o del committente e può eventualmente donare ovociti “illimitati”, la “copertura dei rischi” arriva però solo fino alla 12 settimana di gestazione, il tutto per un costo totale di soli euro 17mila (se si opta per il pacchetto “Vip guarantee”, con copertura dei rischi fino alla nascita del piccolo, il prezzo sale a 28mila).

Il pacchetto successivo garantisce servizi ulteriori, anche burocratici e ben oltre il parto, e prevede anche l’utilizzo di propri ovociti (operazione più delicata, perché va impiantato l’embrione nell’utero della madre surrogata): 37.500 euro. Se si vuole poi stabilire da prima il sesso del nascituro, ecco che la tariffa sale ulteriormente fino a oltre 60mila euro. […]

Cos’è la Gestazione per altri o maternità surrogata: “utero in affitto” per i detrattori, come funziona e le proposte di legge. Antonio Lamorte su Il Riformista il 21 Marzo 2023

La maternità surrogata, o gestazione per altri, o utero in affitto per i detrattori arriva in commissione Giustizia della Camera. Al via tra domani e giovedì l’esame sulla proposta di legge presentata da Fratelli d’Italia per rendere la pratica reato universale. A renderlo noto il presidente della commissione, Ciro Maschio. Al testo di Fdi sarà abbinato anche quello della Lega in attesa del testo preannunciato da FI, ha spiegato la prima firmataria della proposta Carolina Varchi. L’attenzione sul tema è esplosa dopo la manifestazione LGBTQUIA+ di sabato scorso a Milano, le dichiarazioni a In Onda di Fabio Rampelli – “Se due persone dello stesso sesso chiedono il riconoscimento, e cioè l’iscrizione all’anagrafe, di un bambino che spacciano per proprio figlio significa che questa maternità surrogata l’hanno fatta fuori dai confini nazionali” – , quelle del deputato Fdi e presidente della Commissione Cultura, Federico Mollicone – “un reato grave, più grave della pedofilia” – e lo scontro a Mezz’ora in più tra la ministra Eugenia Roccella e la giornalista Lucia Annunziata.

Il governo Meloni la settimana scorsa ha richiesto ai sindaci di smettere di riconoscere alla nascita i figli delle coppie gay e lesbiche in Italia. E Migliaia di persone sono scese in piazza a Milano in segno di protesta. La Gestazione per Altri è una procreazione medicalmente assistita. Prevede che la gravidanza sia portata da una donna per conto terzi. È una pratica illegale in Italia sia per le coppie eterosessuali che per quelle omosessuali, che quando vogliono ricorrerci vanno all’estero, nei Paesi dov’è legale e dove spesso è previsto un accordo contrattuale o un compenso economico – questo il punto morale che rende la pratica controversa secondo i detrattori.

Il procedimento consiste in una persona singola o in una coppia che non potendo portare avanti la gravidanza si rivolge a una terza persona per poi adottare la bambina o il bambino dopo la nascita. A ricorrere alla pratica sono soprattutto coppie eterosessuali che per varie ragioni non riescono ad avere un figlio e coppie di uomini. Sono due i tipi di GPA: quella tradizionale, in cui l’ovulo fecondato appartiene alla donna che porta avanti la gravidanza, e quella gestazionale, in cui l’ovulo che viene fecondato in vitro proviene dalla madre intenzionale, che adotterà il bambino, o da una terza donna. Il Post aveva scritto in un articolo che in alcuni casi le coppie italiane abbiano mantenuto un rapporto con la donna che ha portato avanti la gravidanza, a volte anche parlando apertamente ai figli della pratica. Lo stesso articolo sottolineava come gli studi sul procedimento, ancora pochi, non abbiano rilevato grandi differenze nella loro crescita. In pochi casi la pratica si è risolta per via giudiziaria.

La GPA in Italia è vietata dalla legge 40 del 2004, “Norme in materia di procreazione medicalmente assistita”, approvata durante il secondo governo Berlusconi. Le pene riguardano “chiunque, in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizza” la maternità surrogata con pene che vanno da 600mila euro a due anni di carcere come recita il comma 6 dell’articolo 12. La Corte Costituzionale nel 2021 ha ribadito che “il divieto, penalmente sanzionato, di ricorrere alla pratica della maternità surrogata risponde a una logica di tutela della dignità della donna e mira anche ad evitare i rischi di sfruttamento di chi è particolarmente vulnerabile perché vive in situazioni sociali ed economiche disagiate”. La Cassazione nel 2022, con la sentenza n.38162 a Sezioni Unite, ha stabilito che i bambini nati all’estero con la maternità surrogata dovessero essere riconosciuti in Italia come figli di entrambi i genitori con l’adozione in casi particolari, che richiede l’approvazione di un giudice, e non con la trascrizione diretta all’anagrafe.

Le leggi cambiano sensibilmente da Paese a Paese, così come cambiano i termini di riconoscimento del bambino. Il modello preso ad esempio in Italia da chi vuole legalizzare la maternità surrogata è quello del Canada: non commerciale, fatta con scelta “libera, autonoma, volontaria e altruistica” con ovuli diversi dai propri, sia per single che per coppie eterosessuali che omosessuali. Quando la pratica prevede compensi economici, i costi – che riguardano le spese sia per le agenzie che seguono la pratica, per il procedimento e per la donna gestante – possono andare dai 100 ai 150mila dollari come succede per esempio negli Stati Uniti. Da Paese a Paese cambiano anche le regole per permettere quali donne possano offrirsi come gestanti. Una delle destinazioni più ambite al mondo – fino allo scoppio della guerra – è stata l’Ucraina, anche per i costi più contenuti rispetto agli USA, dove la pratica era però consentita solo a coppie eterosessuali e sposate e dove sul certificato di nascita del nato i genitori riconosciuti sono quelli intenzionali, non c’è bisogno del percorso di adozione. Erano 6.000 i bambini nati con maternità surrogata nel 2021 nel Paese.

Le situazioni più delicate, ricostruisce sempre il Post in un lungo articolo, sono quelli in cui il contesto sociale ed economico risulta molto povero e dove mancano o sono molto larghi i riferimenti normativi. Come in Kenya, in Messico, in India, in Nepal o in Thailandia. L’espressione “utero in affitto” vuole esplicitare proprio lo sfruttamento del corpo della donna, connotare la pratica in senso commerciale, per trarre profitto. Non esistono dati o stime precisi sulla procreazione medicalmente assistita all’estero. L’indagine SIRU del 2019 riportava 3.000 persone all’anno per tutti i tipi di PMA.

La manifestazione di sabato scorso a Milano era stata organizzata dopo lo stop al riconoscimento alla nascita dei figli delle coppie gay e lesbiche in Italia. Lo scorso 15 febbraio Fdi aveva presentato la proposta di legge a firma Carolina Varchi composta di un solo articolo in cui è previsto che le pene previste dalla legge 40 “si applicano anche se il fatto è commesso all’estero”. È la cosiddetta universalizzazione del reato. Al momento non è chiaro a quali conseguenze andrebbero incontro i bambini nati da tali pratiche. Le coppie eterosessuali italiane si recato maggiormente a Cipro e in Grecia, quelle omosessuali in Canada o Stati Uniti. Della maternità surrogata si hanno tracce anche nell’Antico Testamento, quando Abramo e Sara non riescono ad avere un figlio.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Estratto dell’articolo di Elena Tebano per il “Corriere della Sera” il 23 marzo 2023.

Non ci sono in Italia numeri certi sui bambini figli delle coppie dello stesso sesso in attesa di riconoscimento. E neppure di quelli già riconosciuti. Dal 7 luglio, quando il Comune di Milano ha ripreso a registrare alla nascita entrambi i genitori dei figli nati all’interno delle coppie omogenitoriali, le registrazioni effettuate sono state 38.

 La grande maggioranza riguardano madri: per lo più di bambini e bambine nati in Italia dopo che le mamme hanno effettuato la fecondazione assistita eterologa nei Paesi in cui è legale, ma anche di bambini nati all’estero in Paesi che riconoscono l’omogenitorialità.

Circa un terzo delle trascrizioni milanesi riguarda invece bambini figli di due padri con la maternità surrogata, ma non è una fotografia dei nati nei sei mesi trascorsi: comprende anche i nati negli anni passati che finora (al contrario dei figli di due madri) non erano stati «trascritti» e che sono recuperati dopo dall’anagrafe

 C’è un dato empirico chiaro: in generale sono molte di più le madri dei padri, con un rapporto stimato di 9 a 1. Le coppie di donne possono fare la fecondazione eterologa all’estero, una procedura ormai facilmente accessibile in Europa, e poi partorire in Italia.

I padri gay per avere figli devono ricorrere alla maternità surrogata, che è una procedura estremamente costosa (oltre che contestata) e quindi preclusa ai più, e possono farlo solo in Canada e negli Stati Uniti, gli unici due Paesi in cui la gestazione per altri è legale per le coppie di uomini non residenti.

 Il fatto che i figli delle coppie dello stesso sesso non vengano rilevati dipende dall’assenza di una legge per riconoscerli: all’anagrafe vengono registrati per lo più come figli di una madre single, o più di un padre single. Un dato circolato in questi giorni è di 150 mila figli di coppie dello stesso sesso in attesa di riconoscimento.  […]

 Non ci sono dati certi neppure sui genitori tramite maternità surrogata, di qualsiasi orientamento sessuale. Anche in questo caso stime empiriche calcolano che facciano la surrogata almeno 250 coppie all’anno, di cui il 90 per cento eterosessuali.

[…] Le coppie eterosessuali che ricorrono alla surrogata fanno di tutto per nascondersi, nel timore di vedersi togliere i bambini, anche se da anni ormai i processi aperti in proposito hanno concluso che il fatto che la maternità surrogata sia illegale in Italia non è un motivo per toglierli ai loro genitori.

La disobbedienza dei sindaci. La ministra Roccella ripete che la maternità surrogata è una pratica razzista. Linkiesta il 27 Marzo 2023

La responsabile della Famiglia del governo Meloni continua a parlare solo di gestazione per altri e se la prende con i primi cittadini decisi a registrare i bambini delle coppie omosessuali. Nelle prossime ore iniziative comuni nelle grandi città, da Roma a Bologna

Per Eugenia Roccella, ministra per la Famiglia, fino a oggi ci sarebbe stata troppa tolleranza sulla maternità surrogata, che definisce come una pratica razzista. Per questo, dice in un’intervista al Messaggero, va combattuta.

«Innanzitutto ricordo che in Italia non è vietato soltanto l’utero in affitto, ma anche la sua propaganda», spiega la ministra. «Anche chi offre questo tipo di “servizi”, dunque, nel nostro Paese commette un illecito penale. Peccato che da quando questo reato è stato introdotto nel nostro ordinamento non sia mai stato realmente perseguito, e che non si spieghi davvero all’opinione pubblica che cosa comportino i contratti di maternità surrogata. È in discussione in Parlamento una proposta per rendere la pratica perseguibile anche se commessa all’estero. Penso sia un passo importante per combattere questa forma di sfruttamento».

Poi attacca i sindaci che hanno dichiarato che continueranno a trascrivere i certificati di nascita dei bambini nati all’estero da coppie omosessuali. «Le leggi in Italia ci sono e sono chiare», dice. E «non comportano per i bambini la negazione di alcun diritto. Anzi, l’ultima sentenza della Cassazione in materia afferma con chiarezza che la richiesta della trascrizione automatica non tutela il migliore interesse del bambino ma solo quello dell‘adulto, il partner del genitore biologico. Ritengo che i sindaci sappiano tutto questo, e mi aspetto che chi ha responsabilità politiche e amministrative rispetti la legge».

Il sindaco di Roma Roberto Gulatieri, l’ultimo ad aver dichiarato che si opporrà al diktat del governo nel corso della manifestazione delle famiglie Arcobaleno, ha detto che nelle prossime ore sentirà i sondaci di Milano, Bologna, Napoli, Firenze, Torino e Bari per valutare iniziative comuni.

La ministra è contraria alla proposta dell’opposizione che ammette la gestazione per altri all’interno di vincoli stretti per evitare che diventi una pratica commerciale. «Temo che chi dice queste cose voglia solo aprire una breccia nel divieto», attacca Roccella. «L’utero in affitto è a tutti gli effetti una pratica commerciale: ci sono fiere internazionali, cataloghi per scegliere l’ovocita in base ai caratteri genetici. Non è razzismo questo? Criteri diversi per scegliere la donna che dovrà portare in grembo il bambino. Alcuni, per camuffare questa orrenda realtà, parlano di rimborso spese invece che di compenso. Ma la sostanza non cambia: si tratta di un commercio della maternità, che umilia le donne e priva i bambini – questo sì! – di diritti fondamentali, cancellando un genitore biologico». In una trasmissione televisiva, la ministra ha anche ricordato che «l’ovocita di una donna nera costa meno di una donna bianca»

Roccella sostiene che «in Italia ai bambini non è negato nessun diritto… Il genitore biologico può immediatamente registrare il bambino, che da quel momento gode di tutti i diritti. Quanto al partner del genitore biologico, la soluzione l’ha indicata la Cassazione a sezioni unite: l’adozione in casi particolari, molto più semplice e veloce dell’adozione classica».

Caos surrogata e anagrafi. I sindaci ora fanno da soli. Domenico Di Sanzo il 27 Marzo 2023 su Il Giornale.

Comuni alleati e anche Roma sfida il governo. Il ministro: "Quella pratica ha connotati razzisti"

Nonostante la decisione del ministro dell'Interno Matteo Piantedosi sullo stop alla registrazione dei figli di coppie omogenitoriali, i sindaci italiani continuano a muoversi in ordine sparso. C'è chi si è adeguato alla circolare del Viminale e chi, soprattutto tra i primi cittadini di centrosinistra, continua a opporsi ai prefetti. Tutto è cominciato a Milano, con Beppe Sala che ha dato il via alla registrazione dei figli di coppie Lgbt. Poi l'hanno seguito altri sindaci.

Dal capoluogo lombardo alla Capitale, è arrivato anche il no del sindaco di Roma Roberto Gualtieri, pure lui del Pd. «Roma Capitale procederà alla trascrizione integrale dei certificati di nascita costituiti all'estero con due mamme, fattispecie per la quale riteniamo l'indirizzo della giurisprudenza molto chiaro», spiega Gualtieri in una giornata in cui ci sono state una serie di manifestazioni delle famiglie arcobaleno in tutta Italia. Da Roma a Catania, da Genova a Palermo, dopo il corteo della scorsa settimana a Milano. «In queste settimane ho portato avanti il dialogo con molti sindaci del nostro Paese e ci sentiremo ancora all'inizio della prossima settimana per fare insieme un punto finale sulle possibili iniziative da intraprendere collettivamente nell'esclusivo interesse dei minori», continua Gualtieri. L'obiettivo del sindaco è quello di mettersi alla testa del movimento a favore della registrazione dei figli di coppie dello stesso sesso, facendo concorrenza politica a sinistra a Sala. E, più in generale, i sindaci di centrosinistra puntano a portare la questione dal piano legale e burocratico a un piano più strettamente politico. Gualtieri torna anche sulla maternità surrogata, argomento tornato di stretta attualità in questi giorni. Il sindaco Pd ed ex ministro dell'Economia vuole eliminare gli «ostacoli alla trascrizione e alla registrazione dei figli di coppie di donne, non riconducibili a una gestazione per altri, chiaramente esclusa dalla legge e che nessuno sta chiedendo di legalizzare».

Dalla manifestazione romana di piazza Santi Apostoli Gualtieri cerca di fissare una road map per le iniziative dei Comuni ribelli. «Martedì ci sentiremo per fare il punto sulla proposta e valuteremo insieme le prossime tappe con i sindaci delle più grandi città italiane: Milano, Bologna, Napoli, Firenze e Bari», annuncia. Oltre a Gualtieri e Sala, quindi, sono in prima fila Matteo Lepore, Gaetano Manfredi, Dario Nardella e Antonio Decaro, tutti a capo di giunte di centrosinistra. La richiesta è quella di «un'iniziativa legislativa». Parla di «vuoto normativo che va colmato» anche il sindaco di Verona Damiano Tommasi, ex calciatore della Roma eletto con il Pd. In Veneto è sulla stessa linea di Tommasi il suo collega di Padova, Sergio Giordani. Giordani ha motivato così il suo rifiuto di adeguarsi alle direttive del Viminale: «Ho il dovere di tutelare gli interessi dei bambini». Anche il sindaco leghista di Treviso Mario Conte si è espresso a favore della registrazione dei figli di coppie omogenitoriali.

Alessandra Maiorino, vice capogruppo M5s al Senato, dalla manifestazione romana parla di «vergognoso vuoto normativo». Mentre la ministra per la Famiglia Eugenia Roccella invita i sindaci dem «a rispettare la norma nazionale» e a Zona Bianca su Rete4 tuona: «La maternità surrogata ha connotazioni razziste».

Da ansa.it il 27 Marzo 2023

"Nella maternità surrogata ci sono due donne: una dà gli ovociti, l'altra è il vero utero in affitto che deve avere altri requisiti come aver già partorito ed essere in buona salute. Si sceglie chi dà l'ovocita attraverso una sorta di selezione della razza - la donna deve essere alta, bella, bionda, generalmente è dell'Est - l'ovocita di una donna nera costa molto meno di una donna bianca, con connotazioni evidentemente razziste. Il costo dell'operazione è molto alto ma alle donne va una cifra relativa". Così il ministro della Famiglia Eugenia Roccella in a Zona Bianca Su Rete 4.

"Sono convinta che i genitori omossessuali possono essere ottimi genitori, il punto non è questo. Il problema è come è arrivato quel figlio e il fatto che genitori dello stesso sesso, uomini in particolare, devono ricorrere a certe pratiche, in particolare all'utero in affitto.

Oggi si parla dei bambini per non parlare dell'utero in affitto. In realtà già oggi è reato l'utero in affitto e lo è anche la propaganda dell'utero in affitto ma non sono mai stati perseguiti. Così si va all'estero dove si affitta l'utero di una donna povera, tornando poi in Italia e chiedendo la trascrizione automatica del bambino.

C'è la trascrizione per il padre biologico, per il secondo genitore la Corte di cassazione ha indicato un percorso, l'adozione nei casi particolari, per la maggior tutela del bambino e per la verifica del rapporto affettivo".

 Lo ha detto il ministro della Famiglia Eugenia Roccella ospite di Zona Bianca condotto da Giuseppe Brindisi, in prima serata su Retequattro. Oltre 250 coppie italiane ogni anno ricorrono alla maternità surrogata. "Ora hanno la sicurezza di non essere perseguite - ha aggiunto il ministro - ma ci dovrebbe essere più consapevolezza di cosa si va a fare sfruttando una donna bisognosa, è una questione di mercato, basta guardare su internet per vedere di cosa si tratta".

Estratto dell’articolo di Pietro Piovani per “il Messaggero” il 27 Marzo 2023

Per Eugenia Roccella, ministra per la Famiglia, la natalità e le pari opportunità, fino a oggi c'è stata troppa tolleranza di fronte al fenomeno della maternità surrogata. Che in Italia «è un reato, ma non viene perseguito».

 Da Parigi arriva una notizia che - a suo giudizio - dovrebbe essere sufficiente a smentire tante polemiche italiane: con una risoluzione il Senato francese ha respinto il cosiddetto "certificato di filiazione europeo". Ovvero quel regolamento che obbligherebbe a riconoscere automaticamente come genitori di un bambino chi ha acquisito lo status di genitore in qualunque altro Paese europeo. È insomma un voto analogo a quello del Senato italiano, contro cui tante contestazioni sono state sollevate in questi giorni.

 «Sul voto del Senato francese - dice Roccella - dovrebbe esserci un'attenzione almeno pari alle polemiche pretestuose che ci sono state dopo il voto parlamentare italiano. […] Dopo la pronuncia del nostro Senato si era parlato di un'Italia retrograda e lontana dall'Europa. Ora mi aspetterei non dico un mea culpa, ma quantomeno una discussione meno strumentale e con meno falsità».

Alcuni sindaci, a cominciare da Gualtieri a Roma, dichiarano che continueranno a trascrivere i certificati di nascita dei bambini nati all'estero con genitori omosessuali. Pensa che ci sia bisogno di un chiarimento legislativo, per evitare situazioni confuse?

«Le leggi in Italia ci sono e sono chiare. E, come hanno spiegato recenti sentenze ai massimi livelli della giurisdizione italiana, non comportano per i bambini la negazione di alcun diritto. Anzi, l'ultima sentenza della Cassazione in materia, afferma con chiarezza che la richiesta della trascrizione automatica non tutela il migliore interesse del bambino, ma solo quello dell'adulto, il partner del genitore biologico. Ritengo che i sindaci sappiano tutto questo, e mi aspetto che chi ha responsabilità politiche e amministrative rispetti la legge e le sentenze».

Ci sono agenzie straniere, americane o di altri Paesi, che vengono clandestinamente in Italia a offrire alle coppie (in grande maggioranza eterosessuali) il servizio di maternità surrogata, una pratica vietata dalle nostre leggi: farete qualcosa per contrastare il fenomeno?

«Innanzi tutto ricordo che in Italia non è vietato soltanto l'utero in affitto, ma anche la sua propaganda. Anche chi offre questo tipo di "servizi", dunque, nel nostro Paese commette un illecito penale. Peccato che da quando questo reato è stato introdotto nel nostro ordinamento, non sia mai stato realmente perseguito […]».

[…] Dall'opposizione arriva una proposta di legge che ammette la maternità surrogata all'interno di vincoli molto stretti per evitare che diventi una pratica commerciale: il governo esclude qualsiasi apertura in questa direzione?

«Temo che chi dice queste cose voglia solo aprire una breccia nel divieto. L'utero in affitto è a tutti gli effetti una pratica commerciale: ci sono fiere internazionali, cataloghi per scegliere l'ovocita in base ai caratteri genetici (non è razzismo questo?), criteri diversi per scegliere la donna che dovrà portare in grembo il bambino.

 Alcuni, per camuffare questa orrenda realtà, parlano di rimborso spese invece che di compenso. Ma la sostanza non cambia: si tratta di un commercio della maternità, che umilia le donne e priva i bambini - questo si! - di diritti fondamentali, cancellando un genitore biologico.»  […]

Estratto dell'articolo di Al. Ar. per il “Corriere della Sera” il 23 marzo 2023.

Lo ha definito «una pratica abominevole». Vladimir Luxuria non ne vuole sentir parlare, dell’utero in affitto. «È una pratica che avviene per soldi, per esigenze economiche».

 Quindi secondo lei non si può fare?

«No, non sono d’accordo con tutte quelle pratiche che sfruttano il corpo delle donne».

 Quindi pensa che le coppie di uomini omosessuali non debbano fare dei figli?

«Non con l’utero in affitto, ma con la gestazione per altri sì».

 Cosa intende?

«Quelle gestazioni che non vengono fatte per soldi. Una donna senza utero può farsi aiutare da una sorella. Uomini gay possono farsi aiutare da un’amica» [...]

Sì ma quante donne sono disposte a portare un figlio in grembo e poi donarlo? Senza prendere soldi?

«Più di quante si possa immaginare. Un’amica si era offerta di farmi avere un bambino».

 Ma come si potrebbe regolamentare questa pratica?

«Penso al modello Canada, dove ci sono requisiti stringenti. Intanto che la donna che fa la gestazione sia economicamente indipendente, poi si fa un test psicologico. E, soprattutto, si fa il controllo incrociato dei conto correnti così da essere sicuri che non ci sia scambio di denaro» [...]

Il Bestiario, la Paroligna. La Paroligna è un animale leggendario che gioca con le parole e preferisce dire “gestazione per altri” perché “utero in affitto” fa brutto. Giovanni Zola il 23 Marzo 2023 su Il Giornale.

La Paroligna è un animale leggendario che gioca con le parole e preferisce dire “gestazione per altri” perché “utero in affitto” fa brutto.

La Paroligna è un essere mitologico che si nasconde dietro le parole con giochi di prestigio linguistici per non dire quello che davvero pensa. Il meglio di sé, la creatura leggendaria, lo esprime intorno all’argomento dell’”utero in affitto” che preferisce definire come maternità surrogata o gestazione per altri, cioè una forma di procreazione assistita in cui una donna provvede alla gestazione per conto di una o più persone che diverranno il genitore o i genitori del nascituro. Effettivamente detta così potrebbe sembrare un servizio utile e compassionevole nei confronti di chi non può avere figli.

Ma se lo raccontiamo in modo realistico e quindi un po’ brutale, suonerà in un altro modo. In sostanza ci si reca in una agenzia di maternità che offre un catalogo con diversi pacchetti che vanno dai 40mila ai 150mila euro a seconda dei tempi di attesa e della scelta del sesso. L’agenzia poi si rivolge a una donna disperata che in una condizione normale eviterebbe volentieri di mettere il proprio l’utero in affitto. Intanto, in un paese ricco e lontano, il papà si masturba in un raccoglitore sterile sperando tanto che sia un maschietto. A questo punto si prende lo spermatozoo buono e l’ovocita di un terzo donatore. Solo a questo punto l’ovulo fecondato viene inserito nell’utero della donna. Dopo nove mesi la donna partorisce e se va tutto bene il cliente si porta via il bambino appena nato, se invece va male a causa di una malformazione o di un sesso diverso da quello che si era programmato, allora è un bel pasticcio, ma se il contratto è scritto bene i clienti possono rifiutare la creatura imperfetta. Insomma soddisfatti o rimborsati.

La Paroligna non gradisce questa narrazione forse troppo cruda e allora, dato che in Italia non sono riconosciuti come genitori coloro che utilizzano tale pratica illegale, si appella ai “diritti dei bambini” dimenticando che i diritti dei nascituri dovrebbero essere presi in considerazione anche quando si discute a proposito dell’interruzione di gravidanza. Ma, con il solito gioco di parole, la Paroligna sull’aborto si preoccupa del diritto alla salute delle donne. Sacrosanto diritto, esattamente come il diritto di vedere la luce dei bambini non ancora nati ma vivi.

D’altra parte l’utilizzo della neo lingua è un’antica tecnica ideologica per aggirare l’evidenza della realtà svuotando di significato delle parole confondendo il male con il bene e in questo, bisogna ammetterlo, la Paroligna è cintura nera al terzo dan.

Ci siamo comprati una mamma surrogata ed un bambino, in un'ora, via mail. Linda Di Benedetto su Panorama (Di giovedì 23 marzo 2023) 

NEWS23 Marzo 2023 65 mila euro per il pacchetto VIP, 50 mila per quello standard. Viaggio nel mondo e nel business degli uteri in affitto

Si parla tanto di mamme surrogate ed è tutto clamorosamente illegale ma assolutamente facile, anzi, facilissimo. In un'ora abbiamo rintracciato la società su fb e poi via mail abbiamo avuto tutte le info (tariffario, esami, documenti necessari) ed eravamo ad un bonifico dal via definitivo dal comprarci il ventre di una ragazza e regalarci un figlio. La società ucraina è facilmente rintracciabile sui social e parecchio sponsorizzata da diversi media italiani; era già salita alla ribalta delle cronache perché questo business con l'invasione della Russia aveva mostrato forse il suo lato peggiore. Decine e decine di bambini infatti, comprati e nati, erano rimasti nelle mani di chi le aveva partorite dato che i «compratori» non potevano recarsi sul posto a ritirare il «pacchetto» di persona. Così, un tablet ed una mail finta e via con la ricerca; l'azienda offre già sulla sua pagina fb le info per arrivare ad avere un contratto per ottenere un’utero in affitto. Basta mandare una mail e nel giro di un’ora ecco il tariffario con due tipologie di contratto: c'è quello Standard plus al costo di 49.900 euro, dove il pagamento è diviso in comode rate. La prima è di 8mila euro alla firma del contratto. La seconda da 9.900 euro da versare per il primo tentativo. Il terzo pagamento invece da 2.000 euro deve essere fatto entro la 16esima settimana. Mentre il quarto da 10mila euro va fatto entro 6 mesi di cui 6mila euro vanno all’agenzia e 4mila direttamente alla madre. Infine 20mila euro è la rata finale da dividere tra l’agenzia con sede nelle Seychelles e la mamma surrogata per un totale di 49.900 (anche se nascono gemelli viene specificato). Per i più esigenti c'è invece la formula Vip. Per attivarla bisogna versare subito 13mila euro e poi altri 12.900 per il primo tentativo. 2mila euro alla sesta settimana e 11mila dopo il sesto mese (7mila all’agenzia delle Seychelles e 4.000 alla mamma surrogata) con l’ultima rata di 26mila euro. In entrambi i contratti si ha il diritto di scegliere il sesso e la madre del bambino. Il pacchetto Vip però consente tentativi illimitati per scegliere il genere del bambino con un tempo di attesa di 4 mesi invece che di 8 e una diagnosi genetica pre-impianto che prevede 400 tipi di malattie mentre con lo standard solo le più frequenti. La Mail La mail di richiesta info La Risposta

Buongiorno. Grazie per la mail. In seguito Le scrivo le informazioni riguardo la maternità surrogata. Per la legge ucraina per poter accedere ad un programma di maternità surrogata bisogna essere sposati (matrimonio civile - si può sposarsi anche dopo la firma del contratto) e serve almeno 50% del materiale genetico della coppia, cioè sarebbe il liquido seminale del marito. Inoltre ci serve un certificato medico che attesti l'impossibilità (o rischi/tentativi falliti ecc) per la donna di portare avanti la gravidanza, quindi mi potrebbe raccontare, per favore, perché non riuscite ad avere i figli? Abbiamo 2 tipi di contratti tutto incluso: contratto VIP 64.900 euro e contratto Standard Plus 49.900 euro - entrambi i contratti si pagano a rate. Tutto incluso significa che in questo prezzo sono inclusi i tentativi illimitati finché non nasce il bambino e per ogni tentativo viene cambiata sia la madre surrogata che la donatrice di ovuli (se dovesse servire); il pagamento alla madre surrogata; servizio medico, servizio dell'interprete e pratiche di trascrizione del bambino, test del DNA; vitto e alloggio per la coppia; servizio pediatrico; babysitting, ecc.

La madre surrogata non avrà nessun legame genetico con il bambino. Per la legge ucraina il bambino/i viene trascritto a entrambi i nomi della coppia, la madre surrogata non compare da nessuna parte e il certificato di nascita ucraino tradotto e apostillato (legalizzato) viene semplicemente trascritto in Italia senza dover affrontare alcune procedure di adozione/riconoscimento o altro. Quando nasce il bambino, per fare tutte le pratiche di trascrizione, si dovrà stare in Ucraina circa 2-3 settimane. E se il liquido seminale ci viene spedito crioconservato, la coppia dovrà venire in Ucraina una volta sola - per trascrivere e prendere il bambino. In allegato Le mando i nostri contratti da leggere e i tempi d'attesa che abbiamo per ogni contratto.

Per iniziare il percorso non c’è bisogno di venire da noi, bisogna solo inviare un tot degli esami per la nostra valutazione e se tutto ok si può firmare il contratto online e fare il primo bonifico di acconto di 1000 euro per bloccare il contratto scelto ed essere messi subito nella lista d'attesa. Gli esami che servono per la nostra valutazione sono quelli maschili, vanno bene anche se non sono recentissimi: 1. Spermiogramma 2. Cariotipo (esame genetico, mappa cromosomica - viene fatto una volta nella vita e non cambia) 3. Esami sierologici: Epatite B (HBV) HBsAg, Epatite C (HCV) anticorpi totali, Treponema pallidum anticorpi totali, HIV Antigene dell'HIV-1 e anticorpi generali contro l'HIV-1-2 4. Gruppo sanguigno Le chiedo gentilmente di dare un'occhiata agli allegati e fissiamo l'appuntamento telefonico. Mi faccia sapere, per cortesia, se ha ricevuto questa mail e gli allegati. GrazieRimango a Sua disposizione per qualsiasi chiarimento. Cordiali saluti

Estratto dell’articolo di Maurizio Belpietro Maurizio Belpietro per “La Verità” il 22 marzo 2023.

Ignorante. Retrogrado. Omofobo. Sono questi alcuni dei gentili aggettivi che i sostenitori dell’utero in affitto riservano a chiunque si opponga a quella che i giornali chiamano, con una terminologia asettica, «maternità surrogata».

 […] Tuttavia, tra le mistificazioni che vengono propalate, la maternità «succedanea» non è la peggiore. Infatti, c’è qualche cosa di più artificioso e subdolo ed è l’idea che l’utero in affitto sia un atto d’amore, il gesto misericordioso di una donna nei confronti di una coppia (etero o omosessuale ha poca importanza) che neppure conosce.

Anche ieri, sulle pagine della Stampa, Ryan e Giuseppe, genitori di un maschietto e di una femminuccia, hanno sostenuto che il loro desiderio di essere padri non è stato esaudito sfruttando il corpo di una donna, ma grazie alla volontà di una giovane che ha voluto provare un’esperienza di generosità. «Chi sostiene il contrario» ha spiegato la coppia «non conosce il fenomeno. In California, fare la surrogata è un vanto. Quando era incinta, Bethany (la donna che ha partorito i figli, ndr) raccontava con orgoglio quello che stava facendo. E le persone si congratulavano».

 […] i due hanno spiegato alla giornalista che in America esistono condizioni a tutela della donna. Colei che porta in grembo il neonato da cedere, per contratto, a terzi, «innanzitutto, deve essere già stata madre, perché questo le consente di decidere in piena consapevolezza. E poi non dev’essere in condizioni di indigenza. Quindi non deve farlo per denaro».

Bethany, ha concluso la coppia, era facoltosa. […] ma Ryan e Giuseppe, pur sostenendo che per entrambi era indispensabile che la donna non lo facesse per soldi, alla fine non negano di aver pagato, anche se dicono che la spesa è stata «nettamente inferiore ai 100.000 euro di cui ha parlato il ministro Roccella».

 Del resto, è sufficiente collegarsi al sito di qualunque clinica californiana per rendersi conto di quanto sia fiorente il mercato dell’utero in affitto. Sotto il titolo «Compenso surrogato», è vero che il California center for reproductive medicine spiega come le donne che si offrono per la maternità surrogata siano «premurose e compassionevoli» e desiderose di «creare miracoli per le persone che desiderano diventare genitori».

Ma poi aggiunge che, sebbene «essere pagati non sia la motivazione principale, il compenso e i benefici sono componenti essenziali del percorso». Siccome la gravidanza comporta sforzi e rischi, le giovani che prestano il loro utero «ricevono un generoso compenso», che il sito si incarica di stabilire fra i 50 e gli 85.000 dollari. Occhio: questo non è ciò che paga chi ordina un figlio, ma ciò che la clinica retrocede a chi accetta di sostenere la gravidanza.

Dream of parenthood, altro centro specializzato in gestazioni su ordinazione, invita chiunque voglia avere un figlio con la maternità surrogata, a consultare le candidate al concepimento su un apposito catalogo, «informandosi sul gruppo sanguigno, l’altezza, l’età, la razza e il livello di istruzione». Serve altro per poter scegliere il meglio offerto dal mercato?

 Hatch, altra clinica specializzata in «fertility, egg donation e surrogacy», non perde tempo e promette a chi inizierà il suo viaggio come surrogato un guadagno di 61.000 dollari, più un ulteriore compenso, ma per chi è al suo primo parto per conto terzi assicura anche altri vantaggi, mentre Future family fertility offre prestiti a tassi competitivi e piani di finanziamento flessibili, come quelli per prendere un’auto, a chi intenda diventare genitore ma non ha i soldi per pagare una donna che partorisca «suo» figlio.

Infine, per chi ha dubbi, basta scaricare sul cellulare l’app di Gestlife, studio legale specializzato nell’assistenza a chi si prepara a diventare padre e madre per contratto. Per comodità si può scegliere tra più programmi: maternità surrogata per eterosessuali, per coppie Lgbt, per uomini single e per donne single. Ossia c’è un’offerta per tutti. Infatti esiste anche la maternità surrogata per persone affette da Aids. […]

Una pratica disdicevole. Utero in affitto, il mercato non ha sempre ragione. Il dibattito è forte e ci sono liberisti che non la pensano come me. Ma la Gpa è una questione spinosa. Nicola Porro il 22 Marzo 2023.

Questa mattina il Giornale ha titolato “Il dictat europeo sulle famiglie gay“. Pare infatti che il Commissario europeo della giustizia abbia inviato una lettera in cui dice che tutti i paesi sono tenuti a riconoscere i diritti dei figli delle coppie omosessuali. Il problema lo pone bene oggi Italia Oggi: nessuno è contrario alla tutelala dei diritti dei figli delle coppie non etero. La questione, invece, è l’utero in affitto. Come dice bene Magnaschi, infatti, lo possono chiamare in tutte le maniere, ma sempre utero in affitto rimane.

Tu prendi una donna e le dici “senti, facciamo una cosa: ti metti nella pancia un bambino di altre due persone, te lo metti dentro la pancia e, alla fine dei nove mesi, me lo restituisci.” Secondo voi, questa cazzo di operazione la farà una signora che gira con la Bentley e con l’autista? O la farà una povera ucraina che vuole portarsi a casa la pagnotta? Chi cazzo pensate che faccia una cosa di questo tipo? Credete veramente che saranno delle miliardarie animate da generosità e altruismo a partorire un figlio non loro?

Dovrebbero essere proprio le femministe ad opporsi per prime, invece all’interno del Partito Democratico si discute di questa pratica forse con troppa leggerezza. Nonostante sia un liberista e creda che il mercato abbia quasi sempre ragione, non credo che in questi campi si possa dare ragione al mercato.

Così come per il traffico di organi, l’utero in affitto è una questione spinosa che divide i libertari. Su questo tema io mi sento un po’ meno liberista rispetto a chi crede che, essendo l’utero una parte del proprio corpo, lo si possa affittare, e per lo stesso motivo, sia legittimo vendere un proprio rene per 100 mila euro. Insomma, il dibattito da Walter Block in poi è fortissimo e porsi qualche domanda, così come sto facendo io, non credo sia qualcosa di cui vergognarsi. Nicola Porro, 22 marzo 2023

L’interesse del minore non sia vittima dell’egoismo degli adulti. Redazione su L’Identità il 21 Marzo 2023

di CARLO GIOVANARDI

Sabato 18 marzo la neo segretaria del Pd Elly Schlein ha partecipato a Milano ad una manifestazione di solidarietà con le cosiddette famiglie arcobaleno, che protestano contro la decisione del Governo di non iscrivere all’anagrafe come figlio dei committenti il bambino comprato all’estero tramite la famigerata pratica dell’utero in affitto. Secondo gran parte del mondo LGBTQ (femministe escluse) il superiore “interesse del bambino” sarebbe quello di essere riconosciuto anche in Italia come figlio di due uomini e di due donne, anche se nato all’estero. Mi permetto allora di citare fatti che purtroppo troppi media omettono di ricordare, sempre curioso di trovare qualcuno che li possa confutare. Primo, una coppia di uomini o una coppia di donne non sono in grado in natura di avere figli; secondo, un bambino può nascere soltanto, nel caso di due uomini, se la gravidanza sia portata avanti da una donna grazie al materiale genetico di uno dei due e nel caso delle due donne se c’è un uomo che offre il suo materiale genetico; terzo, in Italia queste pratiche sono vietate: ricorrere all’utero in affitto è reato, concetto ribadito recentemente dalle sezioni unite della Cassazione che nel negare l’iscrizione all’anagrafe di un bambino commissionato all’estero da una coppia di omosessuali italiani ha scritto che si tratta di “pratica che offende in maniera intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane”; quarto, per aggirare questo divieto le coppie omosessuali italiane si rivolgono ad agenzie (a Milano addirittura c’è una Fiera del settore) che dietro il pagamento di somme che variano da 100 mila a 300 mila euro garantiscono all’estero un neonato perfetto, di norma con un ovulo fecondato di una donna bianca, sana, di bell’aspetto, che viene poi innestato per la gravidanza ad una gestante di qualche paese del terzo mondo (ma anche ucraina o russa); quinto, al momento della nascita il neonato viene sottratto alla vera madre e consegnato ai committenti con la lesione, sin dall’inizio, del sacrosanto diritto di un bambino di crescere con una figura paterna ed una materna; sesto, una recente sentenza del Tribunale di Bari ha messo in luce ulteriori incredibili pasticci: in questo caso si tratta di un coppia di lesbiche, la prima delle quali ha fatto innestare negli Stati Uniti il suo ovulo fecondato (da un donatore) ad una seconda donna che lo ha partorito (che per la legge italiana è la vera madre) per poi portarlo in Italia come figlio suo e della sua partner (la terza donna). Purtroppo poi la coppia è scoppiata e quella che ci ha messo l’ovulo rifiuta di far vedere la bambina all’altra, mentre il vero padre e la vera madre sono spariti nel nulla. Penso che ci voglia un bel coraggio a sostenere che il “superiore interesse del bambino” sia crescere in questo manicomio; settimo, in realtà siamo di fronte ad un drammatico fenomeno che consente a signori ricchi e potenti di sfruttare il bisogno e la disperazione dei poveri per portargli via addirittura la prole, quella che i rivoluzionari del secolo passato ritenevano essere l’unico bene dei proletari, cosicché la popolana Filumena Marturano potevano con orgoglio dire nell’omonima commedia: “i figli non si pagano!”; in ultimo, non mi vengano a raccontare che chi si ritrova con due padri e senza madre accetterà serenamente la sua condizione. Consiglio a tanti sprovveduti osservatori di prendere contatto con la Associazione Nazionale di coloro che vennero suo tempo abbandonati negli orfanotrofi e si battono per poter sapere di chi sono davvero figli, diritto a loro riconosciuto dalla Corte Costituzionale e diventato per loro una ragione di vita. L’unica via per uscire dalla strada del sostegno a questi falsi diritti è rendere universale il reato di utero in affitto, da perseguire ovunque sia commesso, avendo ben presente che il superiore interesse del bambino è quello di non essere vittima dell’egoismo degli adulti.

I progressisti e la difesa della schiavitù, gli strani diritti che piacciono ai dem. Carlo Giovanardi su Libero Quotidiano il 21 marzo 2023

Nella Piazza Arcobaleno di Milano, guidata dalla neo segretaria del Pd Elly Schlein, i movimenti LGBTQ hanno annunciato battaglia per i diritti a loro avviso messi in pericolo dalla maggioranza parlamentare di centro destra, in primis quello delle coppie omosessuali di procurarsi un bambino. Tutto questo naturalmente in nome del progresso, uscendo finalmente da atteggiamenti oscurantisti del passato, come quello ad esempio che ritiene che i bambini non possano essere comprati ed abbiano diritto ad avere un padre ed una madre.

Questa posizione del Partito democratico italiano mi ha fatto venire in mente la grande battaglia che un altro partito democratico, quello degli Stati Uniti, combatte “a metà” del 1800 per sostenere il diritto dei bianchi a mantenere legalmente schiavi i neri. Il confronto tra i Democratici di Jefferson Davis e i Repubblicani di Abramo Lincoln, contrari alla schiavitù, non fu soltanto di idee ma lasciò sui campi di battaglia circa seicentomila morti. Gli Stati secessionisti del Sud sostenevano infatti che sia dal punto di vista politico, sia da quello culturale e persino religioso tenere altri uomini schiavi non soltanto fosse lecito ma anche moralmente accettabile in quanto i padroni garantivano un trattamento benevolo a famiglie di coloro che altrimenti non sarebbero stati in grado di gestirsi autonomamente.

 E' impressionante oggi constatare che tutto questo veniva sostenuto come difesa di diritti che Lincoln voleva mettere in discussione. Uno degli argomenti forti dei Confederati era infatti quello di non mettere in discussione la scelta degli Stati del Nord di abrogare la schiavitù ma nel contempo contestare la loro intenzione di abrogarla anche negli Stati del Sud, toccando così interessi e diritti dei ricchi latifondisti di quelle terre che i neri se li potevano comprare. Oggi possiamo constatare con certezza che in tutto il mondo si è progressivamente accettato il principio che la schiavitù non può essere regolamentata ma cancellata e perseguiti penalmente tutti coloro che la vogliono di fatto praticare. Mi pare pertanto che le ragioni della Schlein per sostenere il diritto di due uomini a commissionare un bambino pagando una donna per la gestazione sia molto in sintonia con le idee dei Democratici americani del 1800 sui diritti degli schiavisti mentre chi vuol far diventare l’utero in affitto reato universale sia molto in sintonia con le idee sui diritti di ogni essere umano di un Presidente che si chiamava Abramo Lincoln. O no?

Estratto dell'articolo di Felice Manti per “il Giornale” il 21 marzo 2023.

«La prossima battaglia si combatte sul corpo della donna». Marina Terragni è la femminista più odiata dalle donne per la battaglia contro l'utero in affitto e «le balle sulla maternità surrogata, l'esempio più lampante della sottrazione dei figli alle donne».

 E i diritti dei bambini?

«I diritti dei bambini sono violati con la maternità surrogata, li vìola chi chiede la trascrizione integrale degli atti di nascita».

 (...)

 Tipo?

«Se io madre single dico che mio figlio è tuo io vengo perseguita. Non si capisce per quale ragione se due uomini dicono che il figlio è loro devono avere una corsia preferenziale».

 Rispetto a chi vuole adottare e gli viene negato questo diritto...

«Tutto il comparto è una materia complicata, da rivedere. Soprattutto la fattispecie dell'adozione in casi particolari, non in stato di abbandono, perché sono bambini che hanno un genitore biologico. Non si capisce perché questa strada non va bene».

 E i diritti civili?

«A me risulta che siano garantiti a tutti. Di quali violazioni parliamo? Me ne dicessero uno. L'altra sera ho sentito parlare di diritto al pediatra negato dalla Concita De Gregorio e sono saltata sulla sedia. Sono tutte balle»

 Il Parlamento è fermo, la giurisprudenza creativa ne prende il posto e si aggira la norma...

«In Francia l'hanno chiamata frode alla legge. Tu sai che è reato ma lo rivendichi. Certo, se il reato è punito solo in Italia... Il femminismo radicale è convinto che lo sfruttamento delle donne e il mercato dei bambini vada perseguito ovunque, anche all'estero».

Non tutte le femministe sono d'accordo con te...

«Se quelle di Non una di meno vogliono che le donne si prostituiscano liberamente, che mettano al mondo figli per gli altri per 10mila euro... chiedilo a loro, non è femminismo, è transfemminismo, al servizio della comunità Lgbt+».

 La sinistra chiede la gestazione per altri «solidale»...

«Non in cambio di soldi? Così si ciurla nel manico. Dicono che in Canada è solidale perché si pagano le spese. Altre balle. Le vere eccezioni al mercato - sorelle che si prestano per i fratelli, madri per le figlie - possono venire regolate dai tribunali. Resta una pratica azzardata, però per un caso a decennio può essere una strada...».

 (...)

Ma in tv la sinistra non ne parla...

«Il femminismo vero ha cercato un dialogo, non c'è stato concesso un dialogo con Enrico Letta, le donne del Pd, Alessandro Zan o Monica Cirinnà. Mai... mai».

 Il governo vuole stanarli

«E fa bene. Se dici che l'utero in affitto è una fake news, che i bambini non hanno diritti eccetera, sei alla frutta. Ma anche il movimento Lgbt ne ha le p..., le tasche piene».

 Sono favorevoli?

«Non gliene frega niente. Sapessi quanti ne sento io... Sarebbe anche ora che i gay dicessero che non è omofobia non trascrivere gli atti di nascita da utero in affitto».

Estratto dell’articolo di Lucetta Scaraffia per “la Stampa” il 3 marzo 2023.

Giorgia Meloni ha giustamente definito l'utero in affitto una nuova forma di sfruttamento del corpo femminile. E dunque apriti cielo! […] non viene in mente ai molti che sostengono queste teorie […] che la gente l'ha votata forse anche perché sa che le femmine sono diverse dai maschi, sa che nessuna donna ricca ha mai offerto né tanto meno venduto il suo utero per "aiutare" una coppia sterile, ed è convinta che è meglio avere una mamma e un papà piuttosto che un solo genitore o due dello stesso sesso?

[…] Forse sostenere che sono battaglie femministe le ideologie gender e l'incoraggiamento al cambiamento di sesso nei giovanissimi non trova conferma nella realtà. Se si prendono in esame le statistiche sui cambiamenti di sesso avvenute fra i giovani negli ultimi anni nei Paesi dove a questo passaggio è assicurata l'assistenza statale, infatti un dato balza subito all'attenzione: sono molto superiori i passaggi da femmina a maschio che il contrario. Una evidente sconfitta del femminismo, bisogna ammettere.

[…] ci sono ancora molte battaglie da combattere che tuttavia sono scomparse dai radar dei partiti, anche da quelli di sinistra che si fanno un punto d'onore nell'autoproclamarsi femministi: […] l'estensione dell'apertura di asili nido e le scuole nei mesi estivi – quando le mamme lavorano – o per cancellare le differenze di salario fra donne e uomini nel privato, a parità di competenze e mansioni.

 E sono quelle più evidenti: se il servizio sanitario a una donna incinta di quattro mesi offre di fare l'ecografia otto mesi dopo, se una donna sola e povera che si ritrova incinta non può che abortire per mancanza di aiuto, se non si fa nulla per arginare una pornografia indirizzata ai maschi in cui le donne sono rappresentate sottomesse e perfino malmenate, si può ben capire come una ragazza sogni ancora di essere un maschio.

Forse però, prima di pensare a darle una cura ormonale – che ne danneggerà la salute – o addirittura di sottoporla a una operazione per cancellare i seni, bisognerebbe indurre quella ragazza a riflettere su quale è il destino che le sta davanti. […]

 […] potranno […] vedere confermata la potenza maschile dalla quotidiana visione di uomini – cioè di coppie di maschi omosessuali – che possono aspirare ad avere un figlio con i gameti di uno di loro affittando l'utero di una donna povera, che poi sparirà dalla loro vita. Molte femministe se ne sono accorte, molte donne di sinistra – specie fuori del nostro paese – combattono perché questa nuova forma di sfruttamento del corpo femminile anziché ammessa venga invece sanzionata dalla legge. Se ne sono accorte ma a loro rischio e pericolo, dal momento che corrono il rischio dell'accusa infamante di omofobia. È per l'appunto ciò che sta accadendo a Giorgia Meloni.

Estratto dell'articolo di Lucetta Scaraffia per “la Stampa” il 17 marzo 2023.

Ho incontrato Consuelo, una giovane donna ispanica di una trentina d'anni, in un albergo della California dove faceva la cameriera. È lì che mi ha raccontato la sua storia. Aveva ripreso a lavorare sei mesi dopo il momento in cui aveva partorito un figlio per una coppia di omosessuali di Chicago, e ne era ancora sconvolta.

 Quando ha deciso di accettare questa proposta, due anni prima, pensava che sarebbe stato facile e poco faticoso [...] le piaceva la possibilità di guadagnare 15.000 dollari [...]

Sarebbero serviti molto alla sua famiglia [...] Era quindi andata a parlare per proporsi a una agenzia apposita [...] Il contratto che le avevano fatto firmare parlava chiaro: per nove mesi avrebbero avuto la possibilità di arrivare inaspettati a casa sua, per controllare se le regole di ingaggio erano rispettate.

Regole di alimentazione, di riposo, di controlli medici – tutto pagato dall'agenzia – e di incontri con uno psicologo se fossero sorti problemi. Ma per questi in realtà non c'era spazio. Consuelo, ad esempio, non sarebbe stata libera di abortire qualora avesse cambiato idea, e al contrario sarebbe stata costretta ad abortire se la coppia committente lo avesse deciso.

 Ma in un primo momento questa clausola, questa limitazione così forte della sua libertà, non le era sembrata così grave, così come non aveva capito bene cosa significassero i controlli medici. Pensava si trattasse di un monitoraggio della sua salute e quella del bambino. Si trattava invece di un controllo minuzioso del suo corpo.

A cominciare da tre mesi prima dell'inseminazione, aveva dovuto assumere dosi massicce di ormoni, per garantire l'insediamento e poi la crescita di un embrione estraneo al suo utero. Il che aveva voluto dire, per un anno, nausee, pesantezza, gonfiore, spossatezza. E naturalmente nessuno l'aveva informata [...] che questa dose massiccia di ormoni avrebbe aumentato di otto volte le sue probabilità di ammalarsi di cancro, e che la stessa cosa sarebbe valsa per il feto-bambino che portava dentro di sé.

Ma questa [...] era una informazione che l'agenzia preferiva sempre omettere. [...]

 Ben più difficile, anzi decisamente straziante, era stato ascoltare i primi movimenti del feto, sentire quel legame speciale che si crea fra una donna e il figlio che porta dentro, consapevole tuttavia che lui sarebbe andato a lungo in cerca del suono della sua voce, del suo odore, e lei però non ci sarebbe stata. Sapere già da ora che avrebbe dovuto separarsene: e sempre per quei 15.000 dollari.

Consuelo non immaginava che sarebbe stato così doloroso, così come del resto era stato difficile e doloroso affrontare il parto [...] ma sapendo già che non avrebbe mai visto suo figlio. Perché questo Consuelo non aveva messo in conto: che durante quei mesi quel piccolo era diventato suo figlio. Come succede del resto a ogni madre. Non era come cuocere una torta nel forno per poi regalarla, come avevano voluto farle credere.

 Parlando con altre donne e informandosi meglio in giro, aveva poi saputo che quei 15.000 dollari in realtà non costituivano che un quinto della somma complessiva pagata dai committenti. Molto di più era andato ad avvocati, medici, impiegati dell'agenzia: per loro sì che era stato un buon affare. Consuelo lo raccontava a tutti, voleva avvertire altre donne che rischiavano di venire coinvolte in questo mercato.

Era venuta a sapere però che molte nascondevano di averlo già fatto [...] ma che si vergognavano e preferivano non dirlo a nessuno. Questa è la storia di Consuelo, così mi è stata raccontata. Mi rincresce se trascrivendola ho forse turbato la felicità di tanti genitori, come le coppie omosessuali, che si sono serviti della pratica dell'utero in affitto. Ma così come è rispettabile e vero il loro dolore per non avere figli è forse egualmente vero il dolore oggi di Consuelo per avergliene fornito uno.

Gay ed etero, il desiderio di avere un figlio non dà il diritto a fabbricarselo. Iuri Maria Prado su Libero Quotidiano il 18 marzo 2023

Si vuole evitare che siano sacrificati (cosa certamente ingiustissima) i diritti dei figli delle coppie omosessuali? C’è un modo molto spiccio e questa volta giustissimo per ottenere il risultato da qui in poi: impedire a quelle coppie di fabbricarsi i figli prendendo in locazione il ventre di una fattrice o- anche se è meno osceno- comprando la performance del pecchione. Dice: «Ma hanno desiderio di maternità e paternità!». E chi gli nega di avere quel desiderio? Ce l’avranno pure: ma devono tenerselo. Dice: «Ma darebbero tanto amore a quei bambini!». Non discuto: ma lo diano a un cane, a un porcellino d’India, quando è possibile a un bambino adottato, non al pargolo generato dal diritto arcobaleno di essere genitori, cioè un diritto che non esiste e che bisognerebbe abolire semmai esistesse.

 Non è un pregiudizio omofobo, vale anche perla coppia infertile: ricorra agli espedienti che vuole, ma non eserciti l’inesistente diritto alla genitorialità facendo covare a qualcuna il regalo di Pasqua da portarsi a casa per la felicità del coniugio. Che poi il bambino della coppia inetta ad avere figli possa essere più felice di quelli sfornati in una conigliera della cosiddetta famiglia tradizionale non solo è possibile, ma probabile; così come è certo che il mammo o la babba di una coppia omosessuale o gli omologhi di una coppia infertile possano in ipotesi essere genitori cento volte meglio rispetto a quelli devoti al protocollo Family Day. Ma tutto questo non c’entra.

 Tutto questo non rimuove il dispositivo di inaccettabile protervia, di immaturità civile e in definitiva di violenza che presiede alla manifattura dei bambini tramite concepimento via tour operator e gestazione appaltata. Non sta scritto da nessuna parte - e se fosse scritto griderebbe vendetta- che l’uzzolo di possedere e allevare figli debba placarsi con la democratica estrazione del marmocchio dalla pancia che ne fa cessione alla coppia di genitori nn. 1 e 2. Che potranno essere le migliori persone del mondo, ma la cui ambizione di avere figli non può vincere in quel modo contro le scelte o le avversità che impediscono loro di farne. Qualsiasi discriminazione dei figli delle coppie omosessuali è orrenda. Ma fa senso la pretesa che costituisca un diritto qualsiasi diventare genitore. 

I giudici (italiani ed europei) ci ricordano la differenza tra adozione e madre surrogata. Andrea Soglio su Panorama il 23 Giugno 2023

Sono giorni di aspre polemiche per vicende legali e giudiziarie legate alla maternità surrogata e ai figli che ne scaturiscono. E, guardando oltre le norme, i giudici sono concordi su una cosa: si scelga l'adozione

«Disincentivare il ricorso alla pratica della maternità surrogata che offende la dignità della donna...». «Il desiderio delle coppie di veder riconosciuto un legame tra bambini ed i loro genitori intenzionali non si è scontrato con un'impossibilità generale e assoluta, dal momento che avevano a disposizione l'opzione dell'adozione e non l'avevano utilizzata». Le due dichiarazioni, virgolettate, appena lette appartengono nell'ordine la prima ai giudici del Tribunale Civile di Milano che hanno annullato l'atto di nascita di un bambino, figlio di una coppia di uomini avuto grazie all'uso della maternità surrogata e la seconda ai giudici della Corte Europea dei diritti dell'uomo. Frasi, quindi, non figlie di questo o quel movimento o dell'idea di un «talebano» o oltranzista vecchio stampo. Sono le convinzioni di giudici da sempre impegnati sul fronte dei diritti, delle libertà, insomma delle persone. Lasciamo ad altri il dibattito sulla legalità delle norme e le loro attuazioni. La legge infatti purtroppo concede sempre una diversa ed opposta chiave di lettura a seconda di quella che è la propria idea. Quello che non si può non considerare è la differenza tra adozione e surrogata che porta con se una domanda, ovvia, ma forse troppo poco dibattuta: perché non adottare? Perché preferire pagare una donna per farla partorire a nome di un altro (o un'altra) che non può, invece che scegliere di dare una vita felice ed una famiglia a chi una vita (complicata e senza genitori) ce l'ha già? Sentiamo spesso discorsi di chi ci spiega che un bambino non ha bisogno per forza di una mamma e di un papà. Ci spiegano che due uomini o due donne posso essere genitori migliori, posso amare tanto quanto una coppia etero. Quello che conta - è lo slogan - è l'amore e l'affetto. Non ci sono quindi differenze. Le differenze invece cominciano, e sono decisive, se si parla del proprio figlio. Se è da adottare, se non ha nulla del mio patrimonio genetico, allora non va bene. È un bambino o una bambina diversa, soprattutto diversa da quella che «voglio». Voglio che il bambino mi somigli, Voglio che cresca nella pancia di una ragazza magari scelta da un catalogo, con le caratteristiche che piacciono a me. E fa niente se tutto questo mi costa caro. Compro, pago, pretendo. Ognuno è libero di fare la propria scelta, ma tutto questo puzza terribilmente di egoismo. I giudici di Milano e Bruxelles oggi ci ricordano una semplice cosa: adottare significa amare e fare del bene due volte. La prima dando amore ed una famiglia ad un bambino che non avevano ne uno ne l'altra. La seconda evitando a questo bambino l'unica alternativa: un’esistenza terribile in un orfanotrofio. E che in questo c'è molto più amore che nell'affittare un utero. Ps. Detto questo, cari giudici, fate qualcosa anche per agevolare le pratiche di adozione, troppo spesso dei veri e propri calvari personali e familiari.

Le Adozioni.

Estratto dell’articolo di Elena Tebano per il “Corriere della Sera” martedì 5 settembre 2023.

Una procedura accelerata — ma con tutti i passaggi previsti da quella “ordinaria” — per riconoscere il secondo papà nei tempi più brevi possibili dopo che il primo, l'unico registrato come racconto in Italia, si è ammalato rischiando di morire. È quella portata avanti dal Tribunale dei minori di Trento per un bambino di 3 anni e mezzo figlio di una coppia gay, nato all'estero con la maternità surrogata. Che così ha potuto ottenere la cosiddetta Stepchild Adotion in soli quattro mesi. […]

Il bimbo in questione è nato in Canada, dove entrambi i papà, una coppia gay di Trento, sono stati registrati sull'atto di nascita come i suoi genitori. I due hanno poi chiesto la trascrizione del documento in Italia, che sarebbe stata immediata, ma il Comune di Trento l'ha negata. 

Stavano iniziando una battaglia di ricorsi al Tribunale ordinario quando il padre biologico del bimbo si è ammalato (nel frattempo la Corte costituzionale ha anche sancito che i nati con la surrogata possono vedersi riconosciuto il secondo genitore solo con l'adozione in casi particolari).

[…] il Tribunale dei minori di Trento e il suo presidente, Giuseppe Spadaro, hanno fatto in modo di velocizzare la procedura, fissando nel minor tempo possibile tutti quei passaggi obbligati. Se il papà biologico — l'unico registrato all'anagrafe italiana — fosse morto, infatti, il bimbo sarebbe diventato un orfano, perché l'altro papà per la legge italiana non esisteva. […]

Estratto dell’articolo di Martina Mazzeo per “la Stampa” l'11 luglio 2023.

In Italia si diventa genitori solo in due modi, per rapporto biologico o per adozione. Parole affidate a un quotidiano dalla Ministra alla famiglia e alle pari opportunità Eugenia Roccella dopo i fatti di Padova, dove il mese scorso la Procura ha impugnato gli atti di nascita di 33 bambini figli di due mamme. Genitori per contratto? No, grazie. 

[…] Ma se la denatalità è un problema, in primis per il Governo che ne fa un tema di bandiera, si può forse rispondere che le adozioni siano una soluzione praticabile? Vediamo. Una coppia omogenitoriale che all'estero abbia fatto ricorso alla maternità surrogata, in Italia può ricorrere solamente a un'adozione speciale, procedura che richiede l'intervento di un giudice del Tribunale dei minori e che comunque non garantisce un'adozione piena dal momento che non solo lascia i figli fuori dall'asse ereditario ma è anche esposta al rischio di essere impugnata.

Un percorso lungo e dall'esito incerto, un limbo di anni, come denunciano le famiglie arcobaleno. L'adozione ordinaria, opzione a cui hanno accesso le coppie eterosessuali, al momento è esclusa. È possibile seppure difficile l'affido, ma quello che succede il più delle volte è che le coppie omogenitoriali che si iscrivono agli elenchi non vengano mai richiamate. Quanto alle trascrizioni degli atti di nascita all'anagrafe dei Comuni, il problema è il vuoto legislativo, e per i papà è una strada che finisce quasi sempre con l'impugnazione. 

La vita di una coppia "tradizionale" che voglia adottare non è affatto più facile. Anni di attese e di rinvii, di assistenti sociali e tribunali, di psicologi, colloqui e valutazioni: una storia già scritta. […]

Complessivamente in Italia alla fine del 2022, la Commissione adozioni internazionali (Cai), che vigila sul rispetto della Convenzione de L'Aja del 29 maggio 1993 ed opera in seno alla Presidenza del Consiglio dei Ministri al cui vertice oggi siede la ministra Roccella, ha contato 565 adozioni andate a buon fine. 

Erano 563 nel 2021, 526 nel 2020 ed è verosimile che si vada verso una ulteriore riduzione. Nel 2001, dati l'Istat, erano quasi 4.000 i minori stranieri adottati in Italia. Sono 2.500 le coppie in attesa, secondo dati Ciai, che peraltro ha di recente aperto alle adozioni per single e coppie omogenitoriali. A pesare è la mancanza di bambini per ragioni che riguardano lo scenario internazionale, dal calo demografico in paesi come la Cina e il Vietnam ai conflitti come quello in Ucraina, dai nazionalismi come nel caso di Stati quali la Polonia e l'Etiopia, alle complicazioni causate da sistemi amministrativi e giudiziari soggetti a continui scossoni, come in Burkina Faso, che concorrono a chiudere i canali. dei servizi sociali e della giustizia minorile. «Prendiamo i Tribunali dei minorenni dove niente è informatizzato», spiega Laura Cossar, avvocata esperta di diritto di famiglia a Milano. In città, ad esempio, l'iter può essere molto lungo perché c'è grande carico sui servizi. 

I percorsi preparatori verso l'idoneità possono durare 1 o 2 anni. «Molti genitori adottivi – dice Cossar – si arrendono perché non riescono a entrare in sintonia con il servizio». Un vero e proprio «percorso a ostacoli» dove «nessuno ci mette meno di 4 anni» e che, quando poi ci si rivolge all'estero, comporta costi anche ingenti ma solo in parte rimborsati dalla Cai benché «l'Italia sia il paese che eroga più sussidi», come ci spiega il vicepresidente Vincenzo Starita. C'è chi dice poi anche che pesi un certo clima di pregiudizi razziali, non solo in Italia.

[…] Guardando i numeri, tra il 2001 e il 2021 le procedure di adozione di minori italiani completate sono scese da 1290 a 866. Non sembra allora che sia possibile indicare l'adozione come una delle leve utili a risolvere, almeno in parte, la crisi della natalità o a soddisfare il desiderio di genitorialità di tante coppie, tradizionali e non. Eppure c'è chi sostiene che in Italia si possa diventare genitori solo per rapporto biologico o per adozione.

Estratto dell’articolo di Enza Cusmai per “il Giornale” il 23 giugno 2023.

Adottare in Italia è un percorso ad ostacoli e il primo comandamento da rispettare è «non avere fretta». Un bambino non è un pacco postale, ovvio, ma volte anche i più volenterosi abbandonano la loro chimera di diventare genitori, per sfinimento. Ci sono due strade da percorrere, entrambe lunghe e impervie. La prima è quella dell’adozione nazionale, la più difficile. […] 

Basti pensare che nel 2021 a fronte di 8mila domande, sono stati adottati solo 866: i bambini italiani adottabili sono pochi le domande sono moltissime. Ecco perché l'adozione internazionale è la via più gettonata anche se nel 2022 ne sono arrivate a buon fine solo 565, mentre ben 2.382 sono le pratiche pendenti.

La premessa però è che i requisiti previsti dalla legge sono uguali per tutte le coppie genitoriali. Bisogna essere sposati da almeno tre anni ed aver compiuto i 25 anni di età e al momento dell'inizio dell'iter di adozione di un neonato il genitore più giovane non deve aver superato i 41 anni e i 58 per un minore diciassettenne. Solo in casi eccezionali è possibile per un single adottare ma è vietata l'adozione per le coppie omosessuali. 

Se una coppia ha le caratteristiche indicate dalle norme, si parte. La trafila inizia con la richiesta alla Asl, poi si passa all'assistente sociale infine al Tribunale dei minori. «Ma dall'idea di adottare a quando può abbracciare un bambino passano quattro-cinque anni» puntualizza Francesco di Ai.BI, l'associazione Amici dei bambini autorizzata a operare in 30 paesi.

«La legge dice che la pratica di idoneità deve concludersi in sei mesi racconta Francesco ma non succede mai: i servizi prendono appuntamenti molto scaglionati, i colloqui al tribunale hanno tempi dilatatissimi, e per ottenere l'idoneità si aspetta anche tre anni». […]

Adozioni in Italia: tutti gli ostacoli che le scoraggiano. Marta Camilla Foglia su Il Corriere della Sera il 15 Febbraio 2023.

Sappiamo che il nostro Paese ha il tasso di natalità tra i più bassi del mondo, ragion per cui le famiglie disposte a adottare (e non sono poche) neonati o minori dovrebbero poter contare su una rete che faciliti un procedimento per sua natura complesso. Purtroppo avviene il contrario: sai quando l’iter inizia e non se e quando finisce. Partiamo dai requisiti di legge imprescindibili: essere sposati da almeno tre anni ed aver compiuto i 25 anni di età. Non è prevista l’adozione da parte dei single (salvo in casi eccezionali) o delle coppie omosessuali. Per quel che riguarda l’età bisogna farsi due conti, perché i tempi sono lunghi: al momento dell’inizio dell’iter di adozione di un neonato il genitore più giovane non deve aver superato i 41 annie i 58 per un minore diciassettenne. Chi possiede queste caratteristiche può iniziare la trafila.

Da che parte si comincia

Gli aspiranti genitori si rivolgono alla propria Asl di competenza per i primi colloqui conoscitivi e dichiarano la disponibilità all’adozione. Il passaggio successivo è l’intervento dei servizi sociali, che valutano le potenzialità genitoriali della coppia: il loro stato di salute fisica, l’equilibrio psicologico e la stabilità economica. Una procedura che richiede tempi non definiti, alla fine della quale i servizi sociali trasmettono la relazione al Tribunale dei Minori, che a sua volta approva o meno l’idoneità all’adozione. Se tutte le condizioni sono in linea con gli interessi del minore emette il decreto di idoneità. A questo punto la coppia deve scegliere se optare per l’adozione nazionale, per quella internazionale o per entrambe.

Adozioni nazionali

Ad occuparsi della ricerca del minore o neonato che soddisfi le richieste della coppia sono i servizi sociali e il Tribunale dei minori. Quando il bambino viene individuato, parte l’affido provvisorio della durata di un anno, durante il quale i servizi sociali monitorano. Se va tutto bene il Tribunale per i Minori autorizza l’adozione definitiva e il bambino diventa a tutti gli effetti un membro della famiglia adottiva.

Il problema è che le cose non vanno bene già in partenza. Diverse coppie dichiarano che al primo colloquio conoscitivo l’Asl scoraggia: «Per l’adozione nazionale i tempi sono lunghissimi, è quasi impossibile»

Quanto lunghi però non esiste un solo dato. Un altro ostacolo alla possibilità di adozione è l’emanazione da parte di alcuni tribunali di Decreti di Idoneità vincolati al volere iniziale di una coppia, per esempio quello di adottare un bambino di pochi mesi e in perfette condizioni di salute. Se successivamente la coppia desidera considerare anche un’età superiore o uno stato di salute più fragile (e succede), il Tribunale non la ritiene valida. Alla fine l’unico dato certo lo comunica l’Istat: nel 2021 si è conclusa l’adozione per 866 minori italiani, mentre ogni anno le domande in attesa sono fra le 7 e 8 mila. Da notare: il decreto di idoneità all’adozione nazionale ha una validità di 3 anni. Se in quel tempo l’adozione non si conclude, si rinnova e l’attesa continua. Per quel che riguarda le spese, sono tutte a carico dello Stato.

Adozioni internazionali

In questo caso la coppia, entro un anno dall’emanazione del decreto di idoneità, deve rivolgersi a uno dei 49 enti autorizzati dalla Commissione Adozioni Internazionali del Ministero della Giustizia. Si tratta di onlus private, e sono loro a valutare i candidati, consigliarli su quale Paese puntare e a seguirli nello svolgimento delle pratiche. Una volta scelto il Paese di origine, la coppia può presentare la richiesta di adozione presso le autorità competenti di quello stesso Paese. Quando la coppia viene abbinata ad un bambino deve recarsi nel Paese straniero, di solito più volte, e adempiere alle richieste delle autorità locali. Alla fine, è il Paese di origine, insieme alla Commissione per le Adozioni Internazionali (CAI), ad autorizzare l’adozione definitiva e a provvedere alla registrazione di stato civile. Nel 2022 le adozioni internazionali sono state 565, le pratiche pendenti 2382, ovvero gli iter adottivi in corso e per i quali ancora non si intravede una soluzione. I tempi di attesa medi per un’adozione continuano ad aumentare. Ad oggi chi vuole diventare genitore deve attendere 53,3 mesi (più di 4 anni).

Con un’attesa così lunga è aumentata anche l’età media dei genitori adottivi: nel primo semestre 2022 si attesta a 48,5 anni per il marito e 46,7 per la moglie.

Anche l’età media dei bambini adottati è molto alta: 6 anni e 8 mesi, e per il Brasile la media supera addirittura i 10 anni d’età.

Quando l’adozione è rapida

È il caso di sottolineare che se una coppia si rende disponibile per l’adozione di un bambino con bisogni speciali, sia a livello nazionale che internazionale, l’iter diventa improvvisamente rapidissimo. È possibile l’adozione anche per un single, sempre e solo nel caso di minori che presentano un deficit fisico, psichico o sensoriale, stabilizzato o progressivo, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione (articolo 3 della legge 104 del 1992).

Costi e ostacoli

A differenza dell’adozione nazionale qui i costi sono a carico della famiglia e possono facilmente superare i 20 mila euro. Comprendono le spese per l’Ente, quelle legali, di viaggio (vitto e alloggio nel Paese d’origine del minore) e altri costi per traduzioni, interpretariato e visto. Va inoltre detto che una volta scelto un determinato Ente non si torna indietro. Qualora la coppia non fosse soddisfatta di come procedono le cose e decidesse di cambiare Ente, oppure a causa della chiusura delle frontiere del Paese inizialmente scelto, significa ricominciare l’iter da zero. Ad oggi tante famiglie sono bloccate in un limbo che non conosce una fine dopo la sospensione delle adozioni internazionali da parte di Ucraina, Russia e Cina.

La situazione a Milano

Per quanto riguarda il Tribunale dei Minori di Milano, che comprende 8 province (Milano, Como, Lecco, Lodi, Monza Brianza, Pavia, Sondrio, Varese) le domande di adozione internazionale sono calate diminuite drasticamente negli ultimi 15 anni, passando dalle 1.159 del 2006 alle 220 del 2022. Di queste 220 coppie, 122 hanno ottenuto l’idoneità, 75 hanno rinunciato. Il motivo? Non è dato sapere. Hanno probabilmente contribuito l’incertezza economica aggravata dalla lenta uscita dal Covid e dalle ricadute della guerra in Ucraina. Non dimentichiamo infatti che i costi delle adozioni internazionali sono significativi e tutti a carico della coppia. Invece sulle adozioni nazionali, nell’anno giudiziario 2021/2022 a Milano sono stati resi adottabili 80 minori a fronte di 530 domande presentate da coppie residenti su tutto il territorio nazionale. Quanto tempo però abbiano dovuto attendere le coppie non è dato sapere perché il sistema non è informatizzato, e non ci sono dati statistici.

Le domande senza risposta

A fronte di un quadro così complicato e incerto è evidente che le famiglie sono scoraggiate. E se si prova a cercarne le ragioni, non se ne viene a capo. Da un lato i Tribunali sostengono che i bambini adottabili purtroppo sono numerosi, ma mancano le coppie idonee a adottarli per la scarsità di domande presentate ogni anno. Dall’altro le Asl e gli stessi assistenti sociali (su cui pesa il lavoro di valutazione) sconsigliano alle famiglie di appoggiarsi allo Stato per indirizzarle verso gli Enti che si occupano di adozione internazionale.

Si può aggiungere che l’attività delle Onlus non è delle più sorvegliate, che in Italia i servizi sociali sono pochi e il coordinamento con il Tribunale è pessimo

In mezzo ci sono bambini, bambine e minori che crescono nel disagio, mentre le coppie desiderose di accoglierli in una famiglia vengono confinate in un limbo.

Nascite. Crisi demografica: in tre anni l’Italia ha perso quasi un milione di abitanti. su L'Indipendente il 23 marzo 2023.

La crisi demografica in Italia non accenna a diminuire, ma anzi peggiora: lo rileva l’Istat in una delle ultime statistiche sulla natalità in cui spiega che nel 2022 le nuove nascite sono sotto le 400 mila (392.598), mentre i morti sono stati 713 mila. Se si esclude il 2020 e la pandemia da Covid-19, è il nuovo record negativo dal dopoguerra ad oggi. In particolare, le nascite risultano l’1,9% in meno rispetto al 2021. L’Istituto rileva che il saldo naturale è “fortemente negativo” e che al 31 dicembre 2022 c’erano 179.000 residenti in meno rispetto all’inizio dell’anno. Le cause sono imputate alla crisi sanitaria e alle conseguenti incertezze economiche che – scrive l’Istat – potrebbero avere incoraggiato le coppie a rimandare ancora una volta i loro piani di genitorialità. In tre anni, si stima che la penisola abbia perso  quasi un milione di abitanti. Tuttavia, tale tendenza demografica si registra almeno dal 2008 e si è solo inasprita con le recenti misure pandemiche. A livello europeo si registra il medesimo quadro, caratterizzandosi l’Europa tra i continenti con il segno meno nelle proiezioni demografiche delle Nazioni Unite.

Il calo della popolazione è meno marcata al nord e al centro, dove si registra rispettivamente il – 0,1% e il -0,3%, rispetto al Mezzogiorno, dove si passa dal -0,2% del 2021 al -0,6% del 2022. A preoccupare è soprattutto la “dinamica naturale” o “saldo naturale”, ossia la differenza tra il numero di iscritti per nascita e il numero di cancellati per decesso dai registri anagrafici dei residenti. L’Istituto rileva che «Dal 2008, anno in cui si è registrato il valore massimo relativo di nascite degli ultimi 20 anni, l’Italia ha perso la capacità di crescita per effetto del bilancio naturale, non rimpiazzando a sufficienza chi muore con chi nasce». La dinamica naturale presenta valori negativi anche nella provincia autonoma di Bolzano (-314 unità), tradizionalmente caratterizzata da una natalità superiore alla media. «Il tasso di crescita naturale, pari al -5,4 per mille a livello nazionale, varia dal -0,6 per mille di Bolzano al -10,2 per mille in Liguria», si legge. Con le sole eccezioni del Friuli Venezia-Giulia (-7,2 per mille contro -7,8 per mille) e della Puglia (-4,7 per mille contro -5,1 per mille), tutte le regioni presentano un peggioramento del tasso di crescita naturale. Il deficit del saldo naturale è aumentato in modo progressivo, raggiungendo i picchi più elevati nel biennio 2020-2021, quando si è registrata una perdita di oltre di 300000 persone in media annua. Al deficit della componente naturale negli anni di pandemia, nel 2022 si somma un ulteriore decremento di 320000 unità, determinando in soli tre anni la perdita di 957mila persone, all’incirca la popolazione di una città come Napoli.

Le cose non vanno meglio a livello europeo, dove già nel 2020 veniva segnalato dalla Ue che la popolazione era destinata a diminuire a partire dal 2030. «L’UE conta attualmente 447 milioni di abitanti. Secondo le proiezioni di Eurostat, questa cifra raggiungerà i 449 milioni intorno al 2025, per poi diminuire a partire dal 2030, attestandosi a 424 milioni nel 2070. Tutto ciò è accompagnato da un significativo invecchiamento: si prevede che la percentuale della popolazione di età superiore ai 65 anni aumenterà dal 20% nel 2019 al 30% nel 2070», si legge nel rapporto europeo. Quest’ultimo prosegue spiegando che «nei prossimi decenni, ciò costituirà una sfida importante per le nostre economie, nonché per il finanziamento dei nostri sistemi sociali e sanitari. […] Da qui l’importanza che la Commissione attribuisce a tale questione». Il calo delle nascite è allarmante in quanto ha importanti ripercussioni in campo socioeconomico comportando invecchiamento, squilibrio tra generazioni, insufficienza di forza lavoro, minori contributi sociali, perdita di produzione e innovazione e ristagno economico. Per quanto riguarda l’Italia, non solo non si prevede un’inversione di questa tendenza, ma essa pare destinata ad accentuarsi. Sulla base dei dati disponibili, infatti, si prevede un’ulteriore decrescita della popolazione residente nel prossimo decennio: da 59,2 milioni al 1° gennaio 2021 (punto base delle previsioni) a 57,9 milioni nel 2030, con un tasso di variazione medio annuo pari al -2,5%.

Senza un’inversione di tendenza nella dinamica demografica, la popolazione italiana tenderà ad invecchiare e a diminuire sempre di più con le relative conseguenze in termini economici e sociali. Al contempo sarà in buona parte rimpiazzata dai flussi migratori che già oggi compensano – sebbene in misura ancora contenuta – la perdita di popolazione e di forza lavoro. Secondo le Nazioni Unite, infatti, il continente africano avrà un aumento demografico del 146%, passando dagli attuali 1,3 miliardi di persone a 3,3 miliardi. Ciò conferma come le misure di sostegno alla natalità messe in atto finora dai vari governi siano assolutamente insufficienti a contrastare le politiche di austerità che hanno eroso lo Stato sociale e ridotto l’occupazione, precarizzando l’esistenza e rendendo più difficile pianificare la genitorialità. Si stima che senza l’apporto degli immigrati, nel 2070 il calo della popolazione italiana arriverebbe al 33%, passando dagli attuali 58 milioni a 40 milioni.

Nascite: l’Italia è sempre più fanalino di coda europeo, la Francia dà l’esempio. Francesca Naima su L'Indipendente il 9 Febbraio 2023.

L’ultimo rapporto Istat certifica ancora una volta la crisi apparentemente irreversibile della genitorialità in Italia. Gli ultimi dati parlano di una media di 1,2 nascite per ogni donna, dati da inverno demografico la cui tendenza non accenna a placarsi. E se è vero che tutta Europa se la passa male, vi sono però esperienze che mostrano una controtendenza incoraggiante: innanzitutto quella dei vicini francesi, giunti al tasso di 1,83 nascite per donna. In incoraggiante avvicinamento verso l’obiettivo del tasso 2,00: quello che consente di fermare il declino demografico. Un risultato che non è frutto del caso ma viene dalle politiche di sostegno messe in campo Oltralpe.

Tra il 2011 e il 2019 circa il 2,40% del Pil francese è stato stanziato per le politiche familiari; in Italia invece, solo l’1%, motivo per cui il Bel Paese è tra gli ultimi europei per capacità di sostenere la genitorialità. Gli investimenti del Governo francese hanno portato a un momento di “rinascita” a tutti gli effetti, con i frutti raccolti perlopiù nel 2021 perché stando ai dati dell’INSEE (l’equivalente francese dell’ISTAT) nel 2022 sono nati 19.000 bambini in meno rispetto al 2021, momento in cui dopo sei anni consecutivi di calo ma applicando le giuste politiche, si era giunti a un ottimo risultato.

La Francia, pur nella crisi, rimane il primo Paese europeo e un potenziale esempio da seguire. Merito anche del quotient familial, ovvero il quoziente familiare, il quale consente di attenuare la progressività dell’imposta sui redditi concedendo agevolazioni fiscali ai contribuenti con figli a carico ed è calcolato al momento della dichiarazione dei redditi, senza tenere conto delle prestazioni sociali percepite dal nucleo familiare fiscale. La tassazione italiana è invece su base individuale, così come in Italia per i trasferimenti monetari si ricorre all’assegno familiare mentre in Francia esistono diverse possibilità. Innanzitutto alla nascita del primo figlio viene erogato il prime de naissance, e per chi invece ha figli fino ai 3 anni è prevista la prestation d´accueil du jeune enfant. Le famiglie con almeno due figli possono optare per l’allocation familiale e le famiglie particolarmente numerose hanno invece possibilità di richiedere il complément familial; per aiutare i genitori a sostenere le spese dei percorsi scolastici dei figli viene erogato un sussidio che prende il nome di allocation de rentrée scolaire, e anche per le famiglie monogenitoriali, è prevista l’allocation de soutien familial. 

In Italia invece non avere sicurezze economiche e appoggio da parte dello Stato fa sorgere in molti la scelta di non avere figli e ciò con il passare degli anni, porterà la popolazione indietro nel tempo: stando alle ultime stime ISTAT, nel 2070 gli italiani saranno circa 12 milioni in meno rispetto a oggi. [di Francesca Naima]

L’ideologia.

Emanuele Savino e Anna Gammella.

Monia Bortolotti.

Kindelan Ballester Da Maris.

Elisa Roveda.

Veronica Amistadi.

Alessia Pifferi.

Monica Vinci.

Abbandonati.

I ricoveri in ospedale.

Il Lancio nel vuoto.

Lo Scuotimento.

Il Soffocamento.

L’ideologia.

Antonio Giangrande: Che razza di Stato è quello che permette di uccidere in grembo un bimbo sano che non vuol morire e poi nega una morte dignitosa ed assistita all’adulto che vuol morire per le atroci sofferenze?

Antonio Giangrande: Non dovevo nascere.

A proposito di figlicidio. Alla morte di mio padre ogni tabù è caduto. Mia madre mi ha raccontato che sono un sopravvissuto. Uno che non doveva nascere.

Mia nonna paterna era la matrona della famiglia. Era lei a decidere le sorti dei suoi otto figli: quattro maschi e quattro femmine.

Era lei a decidere anche nelle loro famiglie.

Mio padre e mia madre erano appena sposati ed era mia nonna paterna a decidere il loro destino.

Li costrinse ad emigrare per lavorare.

Ma c’era un problema: mia madre era incinta. Ed era un intoppo.

La portò dalla “mammana”, una ostetrica casalinga.

La signora chiese a mia madre: perché vuoi abortire?

Essa, ignara, rispose: cosa è l’aborto?

Era stata portata in quel posto senza sapere cosa dovesse fare. Portata dalla madre di mio padre e, sicuramente, con l’assenso di lui, perché io non ho mai saputo di questo fatto, né che ci siano state ripercussioni nei rapporti tra mio padre e sua madre.

La “mammana” chiese a mia madre: tu lo vuoi questo bambino? Sì, rispose mia madre.

La “mammana” disse a mia nonna paterna: se anziché tua nuora, fosse tua figlia, faresti fare questa cosa? No, rispose mia nonna paterna.

La “mammana” intimò a mia nonna: porta a casa sta piccina e lasciala stare.

Oggi sono qui a raccontare quest’episodio. La mia vita è stata una sofferenza perenne di uno che non doveva nascere: un inaccettato per tutta la vita, avvinghiato da povertà ed ignoranza.

Oggi mio padre è morto per tumore alla prostata. Male che si lascia in eredità.

Mio padre era uno che nulla faceva per gli altri, ma lo pretendeva per sé.

Mio padre, però, sicuramente, era uno che dava. E a me, tra le altre cose, ha dato il suo male.

Oggi, però, sono qui a raccontare che sono un sopravvissuto che non doveva nascere. E tutto quel che è successo è tutto di guadagnato. Sicuro di aver guadagnato 60 anni di vita, pur tribolata.

"Odio cieco e furioso". Femministe assaltano la sede di Pro Vita e Famiglia. Francesca Galici il 25 Novembre 2023 su Il Giornale.

Hanno tentato l'ennesima dimostrazione con fumogeni, provando a imbrattare vetrine e pareti della sede di Roma di Pro Vita e Famiglia: femministe bloccate dalla polizia

Oggi le piazze si sono riempite "contro ogni violenza", hanno detto gli organizzatori prima dei cortei. Le solite belle parole alle quali non sono seguiti i fatti, come dimostra il violento attacco contro la sede di Pro Vita e Famiglia a Roma. Scene che ricordano da vicino, troppo da vicino, una caccia alle streghe dei tempi moderni. "Stanno rompendo i vetri delle nostre vetrine, stanno dando fuoco alle serrande. Un odio cieco e una violenza furiosa. Chi non condanna è complice", ha denunciato sui social il portavoce di Pro Vita e Famiglia, Jacopo Coghe.

Stando a quanto si apprende, a margine del corteo realizzato da "Non una di meno" sono state lanciate bottiglie e fumogeni contro l'edificio che era presidiato dalle forze dell'ordine. Il gruppo di manifestanti si è poi allontanato. Sul posto blindati e agenti in tenuta antisommossa. Ovviamente, come è ormai consuetudine in questo Paese, alcuni manifestanti pensano di essere in diritto di scatenare la loro violenza contro qualunque cosa non sia inquadrata all'interno della loro linea di pensiero.

Così hanno fatto davanti alla sede di Pro Vita e Famiglia, associazione che in modo lecito e in pieno diritto ha come obiettivo la tutela della vita e della famiglia, portando avanti campagne contro l'aborto o contro le famiglie omogenitoriali. Si può concordare o meno con il pensiero dell'associazione, ma in una democrazia deve trovare spazio anche questo punto di vista. E dev'essere tutelato. Pertanto, davanti all'attacco dei manifestanti, la polizia ha reagito, scatenando la solita reazione isterica: "Le forze dell'ordine ci hanno preso a manganellate mentre facevano un'azione con fumogeni e scritte sul muro".

E ancora: "Due ragazze sono rimaste ferite, una al viso, che è stata portata in ospedale, l'altra alla testa". Nei video, si sentono chiaramente gli insulti contro le forze dell'ordine: "Fascisti, pezzi di merda…". Con tanto di lancio di bottigli e oggetti contro gli agenti. Come al solito le veterofemministe, che attingono a piene mani dai centri sociali, cercano di imporre il pensiero unico con la violenza e si lamentano se si prova a impedirlo.

L'assalto alla sede di Pro Vita e Famiglia è la dimostrazione che in questo Paese la sinistra è permeata di soggetti e organizzazioni che provano a imporre con la forza il proprio pensiero, cercando di intimorire o eliminare chi va in una direzione diversa. "Se assaltano la sede della Cgil c'è (giustamente) indignazione nazionale. Se estremisti rossi assaltano la sede di una Onlus che aiuta e difende le famiglie, silenzio? La solidarietà mia, di tutta la Lega e di tutto il popolo italiano", ha dichiarato Matteo Salvini. "Eccole, le militanti "democratiche" e "contro ogni violenza" che, dietro la maschera della lotta alla violenza sulle donne, nascondono l'odio per chi difende vita e famiglia. Un abbraccio agli amici di Pro Vita & Famiglia Onlus e una durissima condanna, che spero arrivi da parte di tutte le forze politiche, a chi in queste ore ha dato l'assalto alla loro sede", è il commento del capodelegazione di Fratelli d'Italia-Ecr al Parlamento europeo Carlo Fidanza.

In Italia esiste il diritto all’aborto farmacologico, ma non è garantito. Gloria Ferrari su L'Indipendente il 10 ottobre 2023.

Era l’agosto del 2020 quando l’allora ministro della Salute Roberto Speranza, con la pubblicazione di una circolare, promulgava gli aggiornamenti alle “Linee di indirizzo sulla interruzione volontaria di gravidanza con mifepristone e prostaglandine”, inserendo la possibilità di abortire farmacologicamente fino a nove settimane compiute di gravidanza e presso consultori, o in day hospital. A distanza di tre anni, però, e nonostante l’Organizzazione mondiale della sanità abbia giudicato tale pratica sicura ed efficace, in Italia chi vuole interrompere la gravidanza – esercitando un diritto riconosciuto dalla legge 194 del 1978 – senza ricorrere alla chirurgia deve fare i conti con moltissimi ostacoli. Solo 3 regioni su 20 infatti — cioè Toscana, Emilia-Romagna e Lazio —  hanno, nel tempo, applicato le nuove direttive, “peraltro in ordine sparso e con grandi differenze in termini di regole, accesso, applicazione”.

Lo dice Medici del Mondo, una rete internazionale impegnata a garantire l’accesso alla salute, denunciare le ingiustizie e promuovere il cambiamento sociale, e che sull’aborto tenta di sopperire a quel vuoto informativo che in Italia investe molteplici settori. Dall’ultima raccolta dati, pubblicata in un rapporto intitolato “Aborto farmacologico in Italia: tra ritardi, opposizioni e linee guida internazionali”, curato dalla giornalista Claudia Torrisi, è emerso che sulla pillola abortiva, conosciuta come RU486 – arrivata da noi nel 2009 solo per uso in ambito ospedaliero e fino alla settima settimana – l’Italia ha ancora molta strada da fare se vuole renderlo un diritto effettivo. Nonostante la sua assunzione – che prevede l’ingerimento di due pillole a 48 ore di distanza l’una dall’altra – sia preferita al metodo chirurgico, passando dallo 0,7% nel 2010, al 20,8% nel 2018, fino al 31,9% nel 2020, i numeri rimangono nettamente inferiori a quelli degli altri Paesi europei. In Francia, per esempio (dove la RU486 è stata introdotta nel 1988) gli aborti farmacologici superano il 70% del totale. Cifra che sale al 90% nel Nord Europa.

Nel nostro Paese la prima regione a mettere in atto le linee guida – e quindi a dare il consenso alla somministrazione di farmaci per l’aborto in strutture extra-ospedaliere – è stata la Toscana, adeguatasi alle direttive pochi mesi dopo la circolare governativa. Poi è stata la volta dell’Emilia-Romagna, che ha però applicato delle restrizioni (per esempio l’obbligo di assumerla entro le sette settimane dal concepimento fuori dagli ospedali). Infine il Lazio, che ha elaborato un ‘piano’ per l’assunzione della pillola a casa, dopo una sola visita in ambulatorio. Per tutte le altre regioni, la situazione è piuttosto confusionaria. Alcune hanno emanato direttive che alla fine non sono state applicate, altre hanno modificato la circolare originale, altre ancora hanno espresso parere negativo alla somministrazione fuori dagli ospedali. In certi casi, è perfino difficile reperire la pillola in tutti gli ospedali – a Catania, ad esempio, la RU486 non è disponibile in alcuna struttura.

A frenare l’accesso all’aborto, sia farmacologico che chirurgico, sono molteplici fattori. Prima di tutto c’entrano gli i medici obiettori. Secondo gli ultimi dati forniti dal Ministero della Salute e raccolti dal Sistema di Sorveglianza Epidemiologica delle IVG (interruzione volontaria di gravidanza), nel 2020 su scala nazionale ha presentato obiezione di coscienza il 64,6% dei ginecologi, il 44,6% degli anestesisti e il 36,2% del personale non medico, con ampie variazioni regionali per tutte e tre le categorie. I numeri riportati dall’Associazione Luca Coscioni, che ha richiesto i dati specifici direttamente alle singole ASL e ai presidi ospedalieri (anche se non tutte hanno fornito quanto chiesto) dicono che in Italia ci sono 72 ospedali che hanno tra l’80 e il 100% di obiettori di coscienza, 22 ospedali e 4 consultori con il 100% di obiezione tra medici ginecologi, anestesisti, personale infermieristico e OSS e 18 ospedali con il 100% di ginecologi obiettori.

Secondo Michele Mariano, il medico molisano costretto a rimandare la pensione per poter garantire la presenza in Regione di almeno un professionista abortista, citato dal settimanale L’Essenziale, «la maggior parte dei colleghi è obiettore perché chi fa aborti non fa carriera». Per quale motivo? «In Italia c’è la Chiesa, e finché ci sarà il Vaticano che detta legge il problema ci sarà sempre». Silvia De Zordo, un’antropologa dell’Università di Barcellona, che ha studiato le dinamiche di quattro ospedali pubblici di Roma e Milano per capire le motivazioni degli obiettori, dice che la religiosità individuale ha un ruolo importante. Ma non è tutto, c’è anche una questione pratica. Nel nostro Paese ci sono troppo pochi consultori familiari rispetto ai bisogni della popolazione (1 consultorio ogni 35.000 abitanti sebbene siano raccomandati nel numero di 1 ogni 20.000) e spesso, al loro interno, è perfino difficile reperire ginecologi e personale ostetrico, impiegati per troppe poche ore. L’Istituto Superiore di Sanità dice che solo 5 Regioni del Nord raggiungono lo standard atteso per la figura dell’ostetrica e 2 per il ginecologo. E c’entra anche il fatto che l’Italia non dispone ancora di una rete informativa adeguata, accessibile e facile da consultare, in merito alla fornitura di servizi per l’interruzione di gravidanza. [di Gloria Ferrari] 

L'ipocrisia delle donne. Costretta ad abortire, cioè uccidere il proprio figlio? Cose di donne all'antica?

Estratto dell’articolo di Carmen Pugliese per “Chi” domenica 5 novembre 2023.

“Sono finalmente libera di raccontare la mia storia, di alzare la voce e farmi sentire” è la premessa della popstar Britney Spears nel suo memoir The woman in me, uscito in tutto il mondo il 24 ottobre. L’icona della musica pop si guarda allo specchio e parla a tutte le diverse versioni di sé rappresentate in questi anni da media, rumors e scandali. E dà la sua visione dei fatti, la sua interpretazione della sua vita. 

Ora che può finalmente parlare, lo fa con estrema sincerità, senza risparmiare nessuno: l’autobiografia è una resa dei conti con le persone che le hanno fatto più male, come genitori ed ex amori, ma è anche un bilancio della vita che deve a se stessa. Oggi, a 41 anni, Britney non è più la ragazzina prodigio di The Mickey Mouse Club, il programma che a 11 anni l’ha lanciata in tv, quello che le ha fatto incontrare Christina Aguilera, Ryan Gosling e Justin Timberlake. 

Proprio su quest’ultimo si concentra uno dei capitoli più inaspettati, con rivelazioni eclatanti. Il racconto ripercorre il suo primo amore, quella relazione (durata dal 1999 al 2002) che l’ha costretta ad affrontare l’esperienza più dolorosa della sua vita, l’aborto. «Durante un pigiama party abbiamo giocato a “obbligo o verità”, e qualcuno ha sfidato Justin a baciarmi», ricorda Britney rievocando il loro primo contatto. Ma poi svelando che nel 2000, a 19 anni, era rimasta incinta.

Lui, però, non voleva tenere quel bambino: «La gravidanza fu una sorpresa per me, ma non era una tragedia: amavo Justin così tanto! Ho sempre sognato di farmi una famiglia, anche se in quel momento sarebbe stato molto prima di quanto mi aspettassi», scrive lei. «Ma Justin non era affatto contento: diceva che non eravamo pronti. Se fosse dipeso solo da me, non avrei mai abortito: resta una delle esperienze più angoscianti della mia vita». 

Britney ai lettori non risparmia crudi dettagli: «Nessuno doveva sapere della cosa, nemmeno le famiglie e i nostri amici. Decidemmo di farlo a casa, da soli. Presi delle pillole, poi rimasi stesa sul pavimento del bagno tra dolori allucinanti. Ho pianto e urlato tutto il tempo, ci vollero ore, pensavo di morire: oggi, 20 anni dopo, vivo ancora il dolore e la paura».

Di Timberlake dice anche che l’aveva tradita con una star famosa, una che ora è felice con la sua famiglia e di cui non rivela il nome per tutelarla. Pochi avrebbero potuto pensare che dietro una delle coppie mediatiche più invidiate di sempre ci fosse tanto dolore, nascosto dai sorrisi forzati concessi ai fotografi. 

Estratto dell'articolo di repubblica.it mercoledì 18 ottobre 2023.

Per tutti i fan in attesa arriva il memoir The woman in me di Britney Spears, con tutti i segreti della popstar, fra i quali racconta di essere rimasta incinta del suo ex fidanzato, la popstar Justin Timberlake, ma di aver abortito. Il testo sta per uscire nelle librerie il 24 ottobre. Britney rivela di aver scoperto di essere incinta alla fine del 2000, quando aveva 19 anni, la stessa età di Timberlake. Chi ha letto il libro ha raccontato a Tmz che Britney considerava Justin l'amore della sua vita e che la decisione di non tenere il bambino fu presa insieme. [...]

Britney Spears, nel libro pubblicato da Simon and Schuster, attacca il padre e il resto della famiglia per il ferreo controllo che per tanti anni è stato esercitato su di lei: "A ripensarci mi dà la nausea", afferma. "Ero diventata un robot, una specie di bambina robot. La custodia legale mi aveva privato del mio essere donna. Mi aveva privato della libertà. Più che una persona sul palcoscenico, ero diventata una entità. Ho sempre sentito la musica nelle mie ossa e nel sangue: loro me l'avevano rubata [...] Ero diventata l'ombra di me stessa" [...] 

[...] ci sarà la rivelazione che nel 2000, quando stava insieme a Justin Timberlake, entrambi avevano 19 anni, lui la mise incinta, e, nonostante la sua riluttanza, la convinse ad abortire. “Se fosse stato solo per me non l'avrei fatto Justin però non era affatto felice della gravidanza. Diceva che non era pronto a che ci fosse un bambino nella nostra vita e che eravamo troppo giovani", afferma ancora la cantante.

Della gravidanza la Spears ha detto: "Fu una sorpresa, ma per me non una tragedia. Amavo moltissimo Justin ed ero convinta che avremmo avuto una famiglia assieme". A posteriori, la popstar afferma che l'aborto forse non fu la giusta decisione: "Ma Justin era così sicuro che non voleva essere padre".

Justin e Britney sono stati insieme dal 1999 al 2002 e né l'uno né l'altra hanno mai svelato perché si sono lasciati. [...]

Estratto da leggo.it mercoledì 11 ottobre 2023.

Emma Bonino è stata la prima ospite della terza puntata di Belve, il programma di Francesca Fagnani. La politica radicale si è raccontata alla giornalista alla quale ha spiegato le sue origini, la sua infanzia e, poi, anche alcuni temi della sua politica, ad esempio, l'aborto. Emma Bonino ha raccontato di avere abortito perché non si sentiva pronta a essere madre, non aveva quella vocazione e, quindi, ha deciso di interrompere la gravidanza. 

(...)

Emma Bonino è rimasta incinta "per colpa" del ginecologo, che le aveva detto di essere sterile. 

Ma perché ha deciso di abortire? «Io ho abortito perché non mi sentivo pronta a essere una madre come, poi, non mi sono mai sentita pronta in tutta la mia vita. Io penso che dal momento in cui una donna decide di avere un figlio è come se si dicesse un "per sempre". Un figlio è per sempre, mentre, ad esempio, una relazione con uomo può finire. Io non ero pronta a dire quel "per sempre" e quindi ho deciso così. Nella mia vita ho avuto tanti tipi di coraggio ma non quello di diventare madre». 

Emma Bonino e la metafora con la marijuana

Durante la sua intervista a Belve, Emma Bonino e Francesca Fagnani hanno sorriso perché l'ospite ha paragonato la sua vita politica alla marijuana: «Tutti mi vogliono, tutti cercano di votarmi ma, poi, non vinco mai».

Verissimo, il dramma di Romina Carrisi: "Costretta ad abortire". Libero Quotidiano il 07 ottobre 2023

Momenti emozionanti a Verissimo. Ospite nella puntata di sabato 7 ottobre su Canale 5 Romina Carrisi. La figlia di Al Bano ha confessato a Silvia Toffanin di essere in dolce attesa. "Sono incinta di cinque mesi e mezzo – ha raccontato la 36enne -. Mi sono reclusa in masseria quest’estate perché non volevo renderlo pubblico troppo presto, il termine della gravidanza lo ho il 14 gennaio".

La scoperta è arrivata mentre si trovava in Croazia dalla sorella Cristel: "Mi sentivo sempre stanca, avevo sempre sonno. Vado in Croazia, ho un ritardo, mia sorella mi porta subito a fare il test: risultato positivo. Ho chiamato subito Stefano che era in Bangladesh a lavorare ed è scoppiato di gioia. Con Stefano stiamo insieme da un anno e mezzo, abbiamo iniziato a convivere dopo soli 5 mesi".

Inutile dire che a gioire sono stati anche i genitori: il cantante di Cellino San Marco e Romina Power. Addirittura - ha aggiunto - "mamma usa il pendolo per capire il sesso del bimbo, mi ha detto che prima avrò una bimba e poi un maschietto. Comunque è super entusiasta. Papà quando glielo ho detto ha fatto un’esclamazione in pugliese che non si può ripetere. Gli ho detto: 'Non sei contento?'. Risposta sua: 'Tu devi essere contenta'. Però sì, è entusiasta".

Per Romina non è però la prima gravidanza: "Mi è capitato di abortire perché non volevo essere madre single. Mi sono trovata costretta a dover abortire perché da questo punto di vista sono all’antica e penso che un bimbo debba avere un padre e una madre. Una donna deve poter fare ciò che vuole con il suo corpo. Se hai un bimbo credo che devi avere gli strumenti giusti per crescerlo, io non li avevo all’epoca", ha ammesso stupendo e commuovendo la conduttrice.

Estratto dell’articolo di Serena Riformato per “la Stampa” il 25 luglio 2023.

 «La legge sull'interruzione di gravidanza è una conquista di civiltà e rappresenta una scelta individuale che non può essere giudicata o messa in discussione». Anna Maria Bernini si smarca dalla collega di governo Eugenia Roccella, la ministra della Famiglia e delle Pari opportunità che, insofferente, dell'aborto diceva nel gennaio scorso: «Purtroppo sì, fa parte delle libertà delle donne». 

La ministra dell'Università, in un dialogo con i ragazzi del Giffoni Film Festival, a Giffoni (Salerno), non usa giri di parole: «Credo che su questo tema bisogna essere chiari». Una ragazza si alza in piedi e le chiede se le dichiarazioni di Roccella siano espressione dell'intero governo: «No - la risposta senza esitazioni – e di certo non è la mia posizione». La conclusione è altrettanto netta: «C'è molta sofferenza personale dietro queste scelte che deve essere rispettata. Punto». 

[…] Dallo staff di Bernini spengono la polemica sul nascere: «Queste sono sempre state le sue convinzioni, è una liberale vera, anche sui diritti civili. Niente di personale contro la ministra Roccella, i rapporti sono buoni». Le due non si sono sentite, non c'è stata la necessità di un chiarimento.

Da sempre Bernini si spende per i diritti civili con una voce spesso non allineata alle posizioni più conservatrici del centrodestra, soprattutto sulle tutela del mondo LGBTQ+.

Parlando di Lega e Fratelli d'Italia un anno fa, alla festa del Fatto quotidiano, rivendicava la propria autonomia di pensiero: «Sui diritti la vedo in maniera molto diversa da loro – spiegava – . Sono sempre stata lasciata libera di fare, dire e praticare sulle libertà personali quello che ritenevo giusto». 

Nel 2016, l'ex capogruppo di Forza Italia si è espresso a favore del disegno di legge Cirinnà sulle unioni civili tra persone dello stesso sesso, proponendo di andare oltre, con la revisione dell'articolo 29 della Costituzione per allargare l'istituto del matrimonio alle coppie gay.

[…] La ministra dell'Università, negli anni, si è anche detta disponibile a sostenere un disegno di legge contro l'omofobia, pur con qualche distinguo nei confronti della legge Zan (troppo «politicizzata», commentò quando il provvedimento fu affossato). Storicamente, all'interno di Forza Italia, su questi temi hanno sempre convissuto spazi di dissenso. 

Nel 2014, Mara Carfagna, allora alla guida del dipartimento per le "Libertà civili ei diritti umani" di Forza Italia propone persino "un patto del Nazareno" sui diritti civili (mai portato avanti). […]

Aborto, Bernini prende le distanze da Roccella: "La 194 è una conquista di civiltà". Rispondendo alla domanda di una ragazza al Giffoni Film Festival, Anna Maria Bernini ha preso le distanze da Eugenia Roccella. Marco Della Corte su Notizie.it Pubblicato il 29 Luglio 2023

La ministra dell’Università, Anna Maria Bernini, ha palesato la sua contrarietà riguardo alle posizioni anti abortiste della ministra per la Famiglia Eugenia Roccella, nel corso di un suo intervento al Giffoni Film Festival lo scorso 25 luglio a Salerno. Rispondendo alla domanda di una ragazza tra il pubblico, Bernini ha dichiarato fermamente: “Non rappresenta la mia visione, e su questo mi sono espressa con molta chiarezza. La legge sull’interruzione della gravidanza è una conquista di civiltà che non può essere messa in discussione e giudicata. C’è una grande sofferenza personale nel fare certe scelte e questo deve essere rispettato. Punto”.

Bernini contraria a Roccella: le riflessioni sull’aborto

Con le sue dichiarazioni Bernini si è quindi dissociata dal pensiero di Roccella, la quale aveva affermato lo scorso gennaio a “Oggi è un altro giorno” su Ra1: “Purtroppo l’aborto è una libertà delle donne”. Questa non è la prima volta che Anna Maria Bernini si è espressa in favore della libertà di scelta sull’aborto. Già nel giugno precedente, aveva commentato le leggi restrittive degli Stati Uniti sul diritto all’aborto, affermando che sia una scelta estrema, ma soprattutto un diritto di libertà che non dovrebbe essere negato alle donne in nome di un’ideologia oscurantista fuori dal tempo. Ha inoltre sottolineato che in Italia questa discussione non avrebbe avuto conseguenze perché i diritti civili non possono essere toccati e l’ultima parola spetta sempre alle donne.

Le reazioni alle dichiarazioni di Bernini

La manifestata contrarietà di Bernini alle posizioni di Roccella ha suscitato diversi commenti e reazioni. Da un lato, ci sono coloro che hanno appoggiato e condiviso le dichiarazioni della ministra dell’Università, sostenendo la sua visione riguardo alla libertà delle donne in materia di aborto. Dall’altro lato, c’è chi ha criticato la politica e ha attaccato la sua decisione di adottare una linea diversa da quella della ministra Roccella, ritenendo che non sia corretto dissentire pubblicamente all’interno del governo.

Estratto dell’articolo di Fabrizio Roncone per “Sette – Corriere della Sera” venerdì 28 luglio 2023.

Eugenia Roccella è la ministra per la Famiglia, per la Natalità, per le Pari opportunità e per le “gaffe”. Che stanno diventando la sua specialità.  

(...) La Roccella è figlia di Franco, uno dei fondatori del Partito Radicale, e della pittrice femminista Wanda Raheli: debutta in politica nel Movimento di liberazione della donna e, nel 1975, a 22 anni, scrive il libro Aborto: facciamolo noi. Poi cambia idea. Di botto. Su tutto. Sostiene il movimento del Family Day e si schiera efferata contro la pillola abortiva e le unioni civili, contro il reato di omofobia e il suicidio assistito, contro il divorzio breve e la procreazione assistita, argomento che, tragicamente, ignora.

Infatti un giorno se ne esce dicendo che in Italia «non si fanno figli perché si preferisce lo spritz», insultando, mortificando così le migliaia di coppie che – in un percorso di dolore e di speranza – lottano per riuscire ad averlo, un figlio. Le chiedono allora cosa pensi del caso di Daniela Santanchè, la ministra indagata per “bancarotta” e “falso in bilancio”: e lei osa paragonarla a Enzo Tortora.

Insistono: vabbé, ci dica almeno qualcosa di serio su Ignazio La Russa, che interroga e assolve in salotto il figlio accusato di stupro. E lei, invece di rispondere che il presidente del Senato, seconda carica dello Stato, avrebbe dovuto tacere e affidarsi alla giustizia, dice solenne: «Non entro nelle frasi d’un padre». La Roccella poi ci fa pure sapere – con analoga solennità – che «ai cani non bisogna dare i nomi dei bambini». No, scusi, mi faccia capire: io non avrei dovuto chiamare Ciro il mio adorato bassotto, mentre La Russa può chiamare i suoi figli Cochis, Apache e Geronimo?

Aborto per tutt*” ed è caos per l’asterisco. Sinistra vittima del suo perbenismo. Francesco Giubilei su Nicolaporro.it il 19 Luglio 2023

Sta facendo molto discutere in questi giorni un manifesto promosso dai radicali italiani insieme all’associazione Libera di abortire in cui si vuole promuovere una legge in favore del diritto di aborto. E in questo manifesto si legge: “Aborto libero per tutt*”, con l’asterisco, anziché la vocale femminile, come sarebbe normale visto che l’aborto viene compiuto da donne.

È evidente che stiamo raggiungendo dei livelli di politicamente corretto che rasentano la follia. Tant’è che addirittura numerose femministe, come Anna Paola Concia, hanno deciso di protestare in maniera veemente contro questo manifesto. E non è la prima volta.

La deriva liberal mostra bene come la sinistra sia vittima ormai del suo stesso perbenismo. Continua ascoltando il video di Francesco Giubilei.

Martire anche lui. La Chiesa beatifica un bimbo ucciso in grembo. Gloria degli altari per la famiglia Ulma, sterminata dai nazisti per aver nascosto otto ebrei. La madre era incinta. Nico Spuntoni il 3 Settembre 2023 su Il Giornale.

Domenica 10 settembre a Markowa, un villaggio a due ore di macchina da Cracovia, verranno beatificati tutti i membri della famiglia Ulma: Józef e Wiktoria ed i loro figli Stasia, Basia, Władziu, Franio, Antoś, Marysia e il più piccolo portato in grembo dalla madre. Papa Francesco ha approvato il decreto sul martirio di questa famiglia polacca sterminata nel 1944 dai nazisti per aver nascosto otto ebrei nella soffitta di casa.

Una famiglia cattolica

Il 24 marzo 1944, giorno dell'eccidio perpetrato da un gruppo formato da soldati tedeschi e collaborazionisti della cosiddetta "polizia blu", Wiktoria era incinta del settimo figlio. Si era sposata con Józef nel 1935. Il marito era un giovane molto conosciuto nel villaggio perché attivo nel circolo cattolico giovanile e nella cooperativa dei produttori di latte. Una mente brillante quella di Józef che da agricoltore decise, tra i primi, di puntare sulla produzione di frutta e verdura e che svelò ben presto una grande passione per la fotografia. Anche Wiktoria aveva una predisposizione artistica, in particolare per il disegno e la recitazione. Ad accomunarli più di ogni altra cosa, però, la grande fede cristiana. Quella fede che li spinse ad accogliere gli otto ebrei della famiglia di Saul Goldman che chiesero ospitalità per sfuggire all'operazione Reinhard portata avanti dai nazisti con lo scopo di annientare la presenza ebraica in Polonia.

L'eccidio

La storia della famiglia Ulma e quella dei Goldman che vissero nella loro soffitta per un anno e mezzo è raccontata nel libro di recente uscita Uccisero anche i bambini. Gli Ulma, la famiglia martire che aiutò gli ebrei edito da Ares e scritto a quattro mani da Manuela Tulli e da don Pawel Rytel Andrianik. Nella prefazione il cardinale Marcello Semeraro, prefetto del dicastero per le cause dei santi, ha sottolineato la straordinarietà di questa beatificazione per la procedura non distinta della causa di ciascun membro della famiglia Ulma.

Ma a rendere eccezionale questa causa è soprattutto il fatto che per la prima volta viene riconosciuto come martire e beato un bambino non nato. All'alba del 24 marzo 1944, infatti, quando i nazisti e i loro collaborazionisti piombarono nella casa contadina di Markowa, la gravidanza di Wiktoria era in stato avanzato. Gli assassini prima uccisero gli ebrei in soffitta: Saul, Baruch, Mechel, Joachim e Moses Goldman, Golda Grünfeld, Lea Didner e la figlia di quest'ultima Reszla. Subito dopo intimarono ai due coniugi Ulma di uscire dalla loro casa e lì fuori li fucilarono per dare un monito agli altri abitanti del villaggio davanti agli occhi dei bambini. Non contenti, i nazisti decisero di non risparmiare i sei figli piccoli della coppia.

L'ultimo figlio

Lo shock portò Wiktoria a partorire proprio al momento dell'esecuzione. Questo aspetto, che rende il figlio che aveva in grembo il primo bambino non nato ad essere riconosciuto come martire e beato, è stato ricostruito grazie alle testimonianze di chi si recò nei giorni successivi nella casa dell'eccidio per dare una sepoltura dignitosa ai cadaveri. Uno di questi era il familiare Franciszek Szylar che - come si legge nel libro Uccisero anche i bambini di Tulli e Andrianik - raccontò: "Ponendo il corpo di Wiktoria Ulma nella bara, ho constatato che era incinta. Baso la mia affermazione sul fatto che dai suoi organi riproduttivi erano visibili la testa e il petto di un bambino". Anche il nipote della vittima, Roman Kluz, ha raccontato che quando, cinque giorni dopo, i parenti andarono a disseppellire i corpi inizialmente messi in una fossa comune per poterli mettere dentro le bare "trovarono il settimo figlio nato nella tomba, che mia zia aveva dato alla luce dopo la morte".

Quel sangue che unisce cattolici ed ebrei

Nel 1942 gli Ulma presero la decisione di ospitare clandestinamente gli otto ebrei loro conoscenti pur consapevoli del rischio di pagare con la vita quella scelta. Lo fecero animati dalla loro fede cristiana che non avrebbe potuto fargli compiere scelta diversa. Il dicastero per le cause dei santi ha riconosciuto che "la scelta di aiutare gli ebrei venne ponderata alla luce del comandamento dell’amore e dell’esempio del buon samaritano, come risulta dalle sottolineature vergate sulla loro Bibbia. I bambini erano battezzati e coinvolti nella fede operosa dei genitori. Per il nascituro vi fu il Battesimo di sangue".

ome hanno ricostruito Tulli e don Andrianik nel loro libro, la barbara uccisione degli Ulma non dissuase gli altri abitanti di Markowa ad imitarli e si verificarono nuovi casi di ebrei accolti clandestinamente da altre famiglie del posto per proteggerli dalla furia nazista. Il martirio di Wiktoria e Jòzef valse da testimonianza d'amore cristiano che valeva la pena seguire. Il sacrificio degli Ulma è stato riconosciuto nel 1995 dall'Istituto Yad Vashem di Gerusalemme con l'alta onorificenza di Giusti tra le nazioni. Papa Francesco li ha ricordati nell'udienza generale di mercoledì scorso, affermando: "Questa numerosa famiglia di Servi di Dio, che attende la beatificazione sia per tutti noi un esempio di fedeltà a Dio e ai Suoi comandamenti, di amore al prossimo e di rispetto alla dignità umana”.

Nico Spuntoni

Aborto: i perché di un figlicidio. Di Antonio Giangrande domenica 26 giugno 2022.

La Corte suprema degli Stati Uniti ha ribaltato la storica sentenza Roe contro Wade del 1973, annullando così il diritto costituzionale Usa all'aborto. In questo modo ha sentenziato che ogni Stato ha la competenza di legiferare in riferimento all'interruzione della gravidanza.

In base al dibattito che ne è scaturito sorgono delle domande spontanee.

1 Perché i media politicizzati, fomentando dibattiti e polemiche, oltre che proteste, hanno fatto passare il messaggio che la sentenza riguardasse l’abolizione dell’aborto e non la libertà di scelta di ciascuno Stato?

2 Perché nei talk show il dibattito era palesemente schierato a favore dell’aborto ed al diritto costituzionale al figlicidio, considerando la sentenza un arretramento della civiltà? Perché tutelare la vita del figlio è incivile e retrogrado?

3 Perché nel paese più civile al mondo si considerano incivili da una parte la vendita delle armi libere che causano morti e dall’altra parte la libertà di scelta di ogni Stato a vietare la morte dei nascituri?

4 Perché la sinistra fa sua la battaglia sull’aborto, confermando quel detto sui comunisti che mangiano i bambini, non foss’altro che, intanto, ne agevolano la morte?

5 Perché è primario il diritto della donna all’aborto, violando l’istinto naturale materno alla difesa dei cuccioli, rispetto al diritto alla vita del nascituro?

6 Perchè il diritto all'aborto della donna va pari passo al diritto della donna alla libera sessualità, irresponsabile degli eventi?

7 Perché è diritto della sola donna decidere sulla vita del nascituro, tenuto conto che c’è sempre un uomo che ha avuto rilevanza fondamentale alla fecondazione? E perché, se il figlio non lo si vuole per problemi economici e/o sociali, non si fa un regalo a coppie sfortunate che la gioia di un figlio non la possono avere?

8 Perché una vita deve essere sindacata in base alla cronologia dello sviluppo e non in base all’esistenza?

9 Perché un delitto viene punito in base all'evolversi del diritto politico alla morte e non al diritto naturale alla vita?

Assumono denominazioni specifiche l’uccisione del padre (parricidio), della madre (matricidio), del coniuge (uxoricidio), di bambini (infanticidio), del fratello o sorella (fratricidio), del sovrano (regicidio), di una donna (femminicidio).

Si noti bene: il politicamente corretto elude il termine figlicidio, scaturente dal reato di aborto.

La scriminante è la carta del pepe.

Si dibatte quando, l'embrione, prima, ed il feto, poi, ha valore di nascituro.

Il diritto alla vita dell'embrione e del feto nascente: futuri nascituri di fatto.

10 Perché il dispositivo dell'art. 544 bis Codice Penale prevede: “Chiunque, per crudeltà o senza necessità, cagiona la morte di un animale è punito con la reclusione da quattro mesi a due anni”; mentre per l’omicidio del nascituro la sinistra si batte per l’immunità dell'omicida?

(1) Tale articolo è stato inserito dalla l. 20 luglio 2004, n. 189.

(2) La l. 20 luglio 2004, n. 189 ha previsto una serie di ipotesi in cui sussiste per presunzione la necessità sociale. Si tratta della caccia, pesca, allevamento, trasporto, macellazione, sperimentazione scientifica, giardini zoologici, etc. (art. 19ter disp.att.).

(3) Il trattamento sanzionatorio prima previsto nei limiti di tre e diciotto mesi di reclusione è stato innalzato secondo quanto previsto dall'art. 3, comma 1, lett a), della l. 4 novembre 2012, n. 201.

Ratio Legis

La norma è stata introdotta al fine di apprestare una tutela più incisiva agli animali, i quali però non ricevono copertura legislativa diretta, rimanendo ferma la tradizionale impostazione che nega un certo grado di soggettività anche agli animali. Di conseguenza risulta qui garantito il rispetto del sentimento per gli animali, inteso come sentimento di pietà.

In conclusione: perchè per gli animali si ha sentimento di pietà e per i futuri nascituri viene negata l'umana misericordia?

Aborto, Gigliola Pierobon: la padovana che sfidò i giudici e il primo processo mediatico. Roberta Polese su Il Corriere della Sera il 5 giugno 2023.

Cinquant'anni fa le udienze che portarono alla 194. L'imputata Pierobon: «Il loro perdono non lo voglio: non mi sento colpevole»

Quando se ne occupò il Time il 25 giugno del 1973, scrisse: «Il caso della ragazza con gli occhi verdi e i capelli rossi di San Martino di Lupari, vicino a Padova, era proprio quello che serviva al movimento di liberazione delle donne per far sì che l’aborto diventasse un questione pubblica». Il processo a Gigliola Pierobon, padovana, figlia di contadini, finita davanti ai giudici di Padova esattamente cinquant’anni fa, il 5 giugno 1973, con l’accusa di aver abortito, non era certo il primo e non fu nemmeno l’ultimo, visto che la legge sull’aborto arriverà solo 5 anni dopo. Ma fu il primo a creare un clamore tale sui giornali che i giudici si videro costretti a chiudere la partita nel giro di due giorni. Arrivarono anche dall’estero a intervistare Gigliola, che finì sulla Cnn.

L'aborto e il processo

La ragazza aveva 17 anni quando abortì, la polizia arrivò a lei sei anni dopo quando in altre indagini venne fatto il suo nome. Lei confessò. «Ho abortito, non avevo scelta». L’uomo con cui aveva avuto una relazione la lasciò sola, ma sei anni dopo Gigliola aveva già una bimba con un altro uomo che l’aveva sposata e da cui poi si era separata. Questi l’aveva aiutata dandole l’indirizzo di un’ostetrica che lavorava in casa. Finirono imputati in tre: la ragazza, l’ex marito e l’ostetrica. Gigliola chiese aiuto al gruppo delle femministe di Padova, e dopo essersi consultata con loro decise che «se doveva esserci un processo, doveva essere un processo politico». Ingaggiarono l’avvocato veronese Vincenzo Todesco e la collega torinese, ex partigiana e antifascista, Bianca Guidetti Serra. In aula Gigliola, detta «Lola», sui manifesti fuori dal tribunale, raccontò ai giudici: «Andai da un’ostetrica mi infilò prima una sonda, poi un tampone, mi disse di toglierli quando sarebbero stati pieni di sangue, tornai a casa, stavo malissimo e dovetti fingere di non avere niente». Il ragazzo che era con lei pagò 30 mila lire. «Per quel processo chiamai a testimoniare anche Oriana Fallaci e Franco Basaglia – ricorda ancora Todesco - ma il tribunale di Padova preferì spegnere tutti i clamori e diede il perdono giudiziario a Gigliola. La nostra difesa si basava due elementi fondamentali: il primo era che Gigliola aveva agito in stato di necessità, e poi che la legge che puniva l’aborto era incostituzionale perché andava contro il diritto alla salute della donna». 

Padova divisa in due

Il clima in città era pesante, mentre il giornalista Egisto Corradi raccontava in un pezzo di apertura sul Corriere della Sera le vicissitudini del processo, in prima pagina Enzo Passanisi dava conto dei «mazzieri neofascisti contro le paladine dell’aborto», sugli agguati alle femministe di certi esponenti dell’Msi che confluirono in Ordine Nuovo. Era una Padova «divisa in due»: l’area del Pedrocchi e via Zabarella erano territorio dei neri. Piazza dei Signori e Capitaniato erano dell’autonomia operaia e delle femministe. Anche per queste tensioni quello a Gigliola fu un processo lampo. Si aprì il 5 e si chiuse il 7 giugno con la sentenza di colpevolezza seguita dal «perdono giudiziario in virtù della profonda pietà che non può non rivolgersi verso chi si trovi moralmente impreparata ad affrontare problemi implicanti un generoso e duro sacrificio» e «della resipiscenza dimostrata con la consapevole accettazione di una seconda maternità». 

«Non mi sento colpevole»

«Il loro perdono non lo voglio: non mi sento colpevole», dichiarò lei poco dopo al Corriere della Sera. «Noi difensori volevamo fare come alcuni mesi prima si fece a Bobigny, in Francia, dove a un processo per aborto andò a testimoniare anche Simone de Beauvoir, ma i giudici avevano fretta» aggiunge ancora l’avvocato Todesco. Nel 1974 Gigliola Pierobon scrisse un libro «Il processo agli angeli, storia di un aborto» e si trasferì a Roma. Tornò a Padova per dire alle compagne che quella battaglia per lei era chiusa. Cinque anni dopo la legge stabilì che mai più nessuna donna avrebbe dovuto rischiare la vita con ferri da calze, uncini o cannule, come aveva fatto la giovane ragazza padovana. Quanto a lei, dicono che abbia cambiato nome, per non farsi più trovare.

La battaglia della destra. Giù le mani dalle donne, la legge 194 va rafforzata. Modificare la legge del ‘78 è possibile e auspicabile. Occorre un “tagliando” in grado di garantire la piena applicabilità delle norme: se ne parla oggi a Roma in un seminario dell’associazione Luca Coscioni. Andrea Pugiotto su L'Unità il 4 Luglio 2023

1.Si può modificare una legge, approvata da molti anni e quando l’applicazione ne rivela criticità e disfunzioni? Certo che sì. Avremmo altrimenti una disciplina pietrificata e fuori dal tempo. A tale regola, però, si oppone una resiliente eccezione: la legge n. 194 del 1978 sull’interruzione volontaria della gravidanza. In materia, le lancette dell’orologio sono ferme a 45 anni fa e anche solo l’ipotesi di un suo aggiornamento sembra vietata. Sarebbe salutare una sua discussione pubblica, ma latita. Perché?

2. Giuridicamente, non è una disciplina intangibile. In vigore da quasi mezzo secolo, alcune sue parti sono viziate da anacronismo legislativo. Il doppio no a entrambi i quesiti abrogativi, votati il 17 maggio 1981, non crea alcun vincolo negativo per il legislatore. La sua natura di legge «a contenuto costituzionalmente vincolato» (sent. n. 35/1997 della Consulta) sottrae all’abrogazione, totale o parziale, solo quella minima tutela dei diritti fondamentali in gioco (della donna e dell’embrione) imposta dalla Costituzione: ampi, dunque, sono gli spazi residui per una sua riforma. Del resto, la possibilità di modifiche parziali della legge n. 194 è attestata dai due citati referendum manipolativi, allora promossi da Movimento per la Vita e Partito radicale, giudicati ammissibili (sent. n. 26/1981). Come pure dall’intervenuta abrogazione di alcune sue fattispecie penali (artt. 17 e 18), disposta di recente con decreto legislativo (n. 21 del 2018).

3. Costituzionalmente, ripensare l’attuale disciplina in tema di aborto è possibile. Quel testo nasceva da disegni di legge coevi o successivi alla sent. n. 27/1975, che dichiarò illegittimo il reato di aborto di donna consenziente (art. 546 c.p.) laddove lo puniva anche se giustificato terapeuticamente. In quella storica decisione, la Consulta affermò che il diritto alla vita del concepito e il diritto alla salute della donna, ambedue garantiti in Costituzione, se esposti entrambi a pericolo vanno bilanciati. Il baricentro va trovato nella salvaguardia della vita e della salute della madre, operando in modo da salvare, quando ciò sia possibile, la vita del feto.

Recependo tale bilanciamento, la legge n. 194 ha poi regolamentato la procedura abortiva stabilendone i soggetti coinvolti, le scansioni modali e temporali, i divieti penali. Quel bilanciamento ebbe il merito di imporre il superamento di una legislazione fascista che puniva l’aborto a prescindere, come reato contro l’integrità della stirpe. Eppure, appare come il frutto di un lunghissimo equivoco: guarda alla donna e all’embrione come a due soggetti «indipendenti e simmetrici» quando, invece, «senza la relazione con il corpo pensante della madre non vi è possibilità di vita, biologica e simbolica» (Maria Luisa Boccia).

Altrove, nella giurisprudenza costituzionale, emergono altri princìpi che andrebbero inclusi nella mappa del conflitto tra diritti, in caso di aborto: l’eguaglianza di genere e il principio di autodeterminazione. Il primo entra qui in gioco perché se e quando procreare è una scelta determinante per la partecipazione effettiva della donna alla vita sociale, economica e politica (art. 3 Cost.). Il secondo incapsula la libertà (anche fisica) della donna di sottrarsi a una gravidanza indesiderata (art. 13 Cost.), e compone con il diritto alla salute (art. 32 Cost.) il principio del consenso informato a trattamenti medici (sent. n. 438/2008). Anche attraverso la lente di questi due princìpi, quel bilanciamento originario si mostra inadeguato. È come un chiodo che non regge più tutto il peso del quadro (normativo).

4. Dunque, una novella della legge n. 194 più rispettosa della soggettività femminile è questione matura. Se non la si coglie è perché, politicamente, la materia è incandescente. Divide le forze politiche, anche al loro interno. Taglia trasversalmente gli elettori, che su questo tema già in passato hanno deciso in autonomia. Come in surplace, in Parlamento nessuno si muove e a regnare è un dolceamaro accontentarsi. Anche chi, ad ogni inizio legislatura, ripropone il riconoscimento della capacità giuridica al concepito (AS n. 950, Gasparri), si affretta a parlare di mera provocazione individuale. Il rischio concreto è di sfogliare amleticamente, anche negli anni futuri, la solita margherita. A interrompere questo letargo intervengono ora due iniziative politiche.

5. La prima sarà presentata oggi, a Roma, in un seminario convocato – per impulso dell’Associazione Luca Coscioni – dall’Intergruppo Parlamentare sull’interruzione volontaria della gravidanza (27 tra deputati e senatori, appartenenti a tutte le forze di opposizione). Ginecologi, giuriste, bioeticiste, parlamentari, discuteranno della necessità di «un “tagliando” per la legge n. 194 del 1978».

I temi affrontati riguarderanno il concetto di salute riproduttiva, le incongruenze mediche e giuridiche della vigente normativa, l’opacità dei dati (mai dati) circa la sua applicazione diffusa sul territorio nazionale. L’obiettivo dichiarato è indicare «alcune modifiche puntuali, ritenute urgenti per porre rimedio alle maggiori criticità» della legge n. 194, in una logica di manutenzione più che di un suo stravolgimento.

La seconda si deve, invece, a Radicali italiani. All’interno di un pacchetto di 6 proposte di legge di iniziativa popolare, invitano a sottoscrivere un testo mirante a «superare la legge» n. 194 attraverso una nuova regolazione dell’intera materia.

L’articolato normativo proposto è ad ampio spettro: tutela e promozione dei diritti riproduttivi, funzionamento dei consultori, accesso ai servizi abortivi, modalità e tempistiche dell’aborto, sepoltura e smaltimento del materiale biologico residuo, report istituzionali sull’applicazione della legge, aggiornamento del personale sanitario. Convergenti nelle intenzioni, le due iniziative divergono per strategia. L’una prospetta un intervento normativo chirurgico; l’altra un bombardamento a tappeto. L’una si inserisce in quello spazio tra la possibilità e il fallimento parlamentare; l’altra va all’assalto come un ariete. L’una, contro il probabile, gioca il possibile; l’altra, per ottenere il possibile, chiede l’improbabile.

Ognuno giudichi come vuole. Io sono per la prima strategia, perché credo più nelle battaglie di scopo che in quelle di principio, e considero di gran lunga più utili, delle belle sconfitte, le brutte vittorie. Per quanto condivisibile, un testo (legislativo) che non si cura del contesto (parlamentare), scade a pretesto (politico). La sua approvazione sarebbe un miracolo, ed io ai miracoli non credo. Specialmente su temi come questi, i mezzi vanno commisurati ai fini perché a contare sono i risultati ragionevolmente conseguibili, non le intenzioni.

6. Entrambe le iniziative hanno però il merito di porre all’attenzione generale il tema di fondo: l’habeas corpus, qui declinato al femminile. Ciascuno di noi è una singolarità incarnata. È questo dato esistenziale a collocare le questioni del corpo al centro di tutti i conflitti per le libertà e i diritti, fin dalla Magna Charta del 1215. Regola cruciale, l’habeas corpus, è costruita attorno all’indisponibilità fisica e all’inviolabilità del corpo del cittadino rispetto alla pretesa di controllo del sovrano: incapacitarlo, infatti, significa togliere alla persona, con la libertà di movimento, anche l’autodeterminazione e l’autonomia nell’agire.

È, questa, una tentazione sempre presente nei processi riproduttivi. Lo si vede nel revival delle politiche per la natalità, nell’idea balorda e spietata della gpa quale reato universale, nella procreazione assistita legislativamente ostacolata. L’aborto non fa eccezione, in quanto «esperienza umana totale, della vita e della morte, del tempo, della morale e del divieto, della legge, un’esperienza vissuta dall’inizio alla fine attraverso il corpo» (Annie Ernaux, L’evento, 2019). A questa sorta di neo-sovranismo corporale si deve reagire. Qualcuno, finalmente, inizia a farlo.

Andrea Pugiotto 4 Luglio 2023

COME SI PUO' RAGIONARE COSI'?

Non solo si permette di uccidere i figli in grembo, ma li si denigra pure. Tutto in nome di una ideologia comunista.

La legge per punire come duplice omicidio l’assassinio di una donna incinta è un attacco al diritto all’aborto. La proposta è della forzista Ronzulli, dopo il caso di Giulia Tramontano ammazzata dal compagno al settimo mese di gravidanza. «Norma pericolosa e di cui non c’è bisogno. È una strategia pseudo-comunicativa: si strumentalizza un caso grave per minare un diritto delle donne». Rita Rapisardi su L'Espresso il 30 giugno 2023

Non è trascorso molto tempo da quanto annunciato da diversi rappresentanti del governo, dopo il femminicidio di Giulia Tramontano il 27 maggio scorso. Un caso di cronaca efferato che ha fatto discutere il paese per giorni per la sua crudeltà e per il fatto che la donna fosse incinta al settimo mese, uccisa da Alessandro Impagnatiello compagno e padre del bambino che stava per nascere.

Su questo aspetto Forza Italia, nella figura di Licia Ronzulli, ha presentato un disegno di legge per introdurre un nuovo reato, che riguardi proprio l’uccisione di una donna in stato di gravidanza, e inserendo la fattispecie di duplice omicidio: quello della donna e quello del feto, prevedendo una pena non inferiore ai trent’anni.

«Non c'è dubbio che si tratti di un duplice omicidio perché oltre a quella di Giulia è stata spezzata anche un'altra vita che al settimo mese di gravidanza avrebbe potuto nascere in qualsiasi momento - aveva detto la prima firmataria dopo il femminicidio - La contestazione dell'interruzione di gravidanza non consensuale non risponde alla realtà dei fatti». È infatti l’interruzione non consensuale di gravidanza il reato che potrebbe essere contestato ad Impagnatiello per l’uccisione di Thiago, il bimbo che doveva nascere.

Al di là della stretta giurisprudenza quello che molte femministe vedono in questo ddl è una messa in discussione dell’aborto, che potrebbe essere quindi equiparato a un omicidio, una strada che purtroppo è stata da tempo intrapresa in altri paesi che cercano di limitare l’interruzione di gravidanza. Ad esempio alcuni stati degli Stati Uniti, dove alcune donne sono in carcere per aver commesso l’omicidio del feto, anche in aborto spontaneo.

«In generale non mi sorprende tutto ciò, è la modalità ordinaria con cui si affrontano i femminicidi strumentalizzando per altre finalità un fenomeno grave e le questioni sociali e culturali sottese, questa volta con lo scopo poi di limitare l’aborto», spiega Ilaria Boiano, avvocata dell’associazione Differenza Donna, che su questo cita i noti manifesti affissi a Roma da CitizenGo con la dicitura: “L’aborto è la prima causa di femminicidio nel mondo”.

«Fa tutto parte di una strategia pseudo comunicativa che piega i fatti e i dati - continua Boiano -, ad esempio nel 2018 tutte le mozioni contro l’aborto si aprivano sostenendo che l’ivg sarebbe la causa di sei milioni di “bambini non nati”, un numero evocativo del genocidio nazista degli ebrei». Una strategia di lungo periodo quindi: «Una goccia cinese che alla fine modifica, prima della legge, la sua percezione sociale. La proposta di configurare il duplice omicidio nel caso di femminicidio di donna incinta, si inserisce in questa cornice discorsiva antiabortista».

In primis troviamo quella di Maurizio Gasparri per il riconoscimento giuridico del feto, che andrebbe a modificare l’articolo 1 del codice civile, che dice che il soggetto giuridico diventa tale solo dopo la nascita. Una proposta che il senatore di Forza Italia fa sua ad ogni legislatura. L’obiettivo è chiaro: far acquisire al feto tutti gli aspetti giuridici di un soggetto andrebbe a minare la ratio alla base della legge 194 sull’aborto e, come si diceva sopra, alla possibilità che una donna che interrompe la gravidanza possa essere accusata di omicidio.

«Il ddl Ronzulli cavalca l’onda di uno sdegno sociale giustificabile per la gravità dei fatti, ma che già trova piena corrispondenza e sanzione nel nostro codice penale, che prevede l’aggravante per maltrattamenti, stalking e lesioni quando una donna è incinta. Questo perché la violenza si aggrava e aumenta quando una donna è in stato di gravidanza. Non serve un nuovo reato. L’obiettivo è strumentalizzare, non interessa la violenza sulle donne, ma si vuole colpire l’aborto con leggi draconiane», conclude Boiano. Impagnatiello, se si applicassero tutti gli elementi aggravanti, rischierebbe l’ergastolo già in primo grado, anche in abbreviato. Il diritto su questo sembra dare già una risposta chiara di condanna alla violenza, quello che invece manca è una discussione sull’origine di questa violenza che metta al centro gli uomini.

Se le intenzioni del governo appaiono chiare, fare propaganda anti-choice su un caso di cronaca, c’è chi vuole andare oltre il discorso politico, pur mantenendo una chiave di lettura femminista e di difesa dell’aborto. Lo fa Silvia Niccolai, ordinaria di Diritto Costituzionale all’Università di Cagliari: «Preso atto che è una norma pericolosa e di cui non c’è bisogno, l’impostazione su cui nasce l’aborto è quella di mettere l’uno contro l’altro l’embrione e la donna, dando a quest’ultima l’immunità ad esempio dall’accusa di omicidio e bilanciando i diritti di entrambi, ad esempio quello dell’embrione alla vita, ponendo il limite dei tre mesi per accedere all’interruzione di gravidanza. Ma si può fare un passo avanti, quando la donna ha accettato la gravidanza farà una differenza o no?».

Su questo la docente cita un caso del 2004 portato alla Corte europea di Strasburgo, dove un ginecologo francese, dopo aver confuso i cognomi di due sue pazienti cinesi, ha provocato l’aborto a una delle due, pensando di doverle togliere la spirale contraccettiva. La donna ha portato il caso alla Cedu, chiedendo riconosciuto l’omicidio del feto, ormai al sesto mese. La Corte ha rigettato la richiesta anche perché in Francia questa fattispecie non è riconosciuta, proprio come in Italia, e “perché teme che una decisione in tal senso possa refluire negativamente sulle legislazioni nazionali che consentono l’aborto, offrendo argomenti in favore di quanti sostengono che il concepito è una “vita”.

«Siccome sempre di una vita potenziale si tratta, se non si può dire che un aborto volontario è uccidere una vita, allora non si può dire nemmeno che un aborto provocato è uccidere una vita. Ovverosia, che un aborto voluto dalla donna e un aborto subíto dalla donna sono la stessa cosa. Non credo che si possa non avvertire l’ingiustizia sostanziale di questa decisione», ragiona Niccolai, pur ammettendo che le intenzioni del governo sono quelle di minare l’aborto.

«Politicamente non ha senso stare nella sussistenza della destra, perché si gioca sempre al ribasso. Possiamo rilanciare e meglio. Se io con la mia gravidanza ho accettato la chance di vita e un uomo mi uccide sapendo che sono incinta, l’offesa che subisco deve tener conto di questo: l’uomo non ha solo provocato l’aborto, ma ha contraddetto la mia libertà di scegliere di essere madre, libertà che posso comunque rivendicare proprio grazie alla 194, che mi permette allo stesso tempo di non dover subire una gravidanza contro la mia volontà».

Per Niccolai il timore che possa essere toccata la legge sull’aborto ha senso, ma può essere motivo per aprire una discussione, magari non parlando di omicidio, ma uscendo da posizioni nette e contrapposte e riconoscendo la primazia delle donne sul generare: «Come femministe dovremmo essere libere dalla subalternità della destra che ci detta l’agenda».

Giulia e Thiago ugualmente vittime. Redazione su L'Identità il 7 Giugno 2023

di ELISABETTA ALDROVANDI

Tantissima attenzione mediatica e sdegno collettivo ha suscitato l’omicidio di Giulia Tramontano e di Thiago, il bimbo che portava in grembo. E, anche se per la legge la persona uccisa è una sola, per il senso comune, intriso di lacrime e rabbia per queste morti così ingiuste, le vittime sono due. La mamma, e il suo bambino, già formato nel suo ventre e che se fosse nato sarebbe certamente sopravvissuto. In questo senso la nostra legge andrebbe cambiata: attualmente, non viene considerato omicidio l’interruzione di una vita che nel momento in cui è spezzata non è autonoma, come quella di un feto. Ma non serve essere laureati in medicina per capire che un conto è interrompere una gravidanza ai primi mesi, un conto è farlo quando il bambino è così forte e completo di tutti i suoi organi che, se nascesse prematuro, avrebbe ottime possibilità di sopravvivere.

E su questo tema, la politica deve essere sensibilizzata e interpellata, affinché rifletta sull’opportunità di considerare casi come quello di Giulia e di Thiago non un omicidio singolo, ma duplice. Anche perché chi, presumibilmente, ha commesso questo crimine così efferato non solo sapeva dello stato di gravidanza della donna, ma era direttamente coinvolto nella procreazione, come padre del bambino. E la lucida efferatezza con cui avrebbe deliberatamente posto fine alla vita della compagna sapendo che così avrebbe impedito a suo figlio di venire al mondo, non può essere ristretta, in punto di sterile diritto, a una interruzione di gravidanza. È molto, molto di più. È impedire a una vita in procinto di nascere di farlo, a quella vita che esiste anche grazie al proprio seme.

E non sono particolari che possono passare in secondo piano, neppure nelle austere aule di un tribunale, dove i sentimenti e il dolore dei familiari delle vittime difficilmente avranno il giusto spazio. Perché bisogna stare attenti a non trasformare una persona che ha sbagliato in un mostro, in quanto anche questa persona ha diritto di riabilitarsi, e un giorno, qualsiasi sarà la sua condanna, di ritornare in società, come se scontare la pena processuale equivalesse a togliersi di dosso le macchie del sangue della compagna e del proprio figlio.

E se da avvocato condivido le esigenze del diritto e concordo con la funzione riabilitativa della pena prevista dal terzo comma dell’art. 27 della nostra Costituzione, e comprendo che non ci si può lasciare trasportare dai sentimenti e dall’inquinamento emotivo, tuttavia non posso fare a meno di pensare che personalità come quella di Alessandro Impagnatiello sono tra noi, si confondono tra gli amici, i colleghi, i vicini di casa, spesso mascherate da vite di successo, suscettibili di ammirazione e invidia, come era la sua. “Instabile emotivamente e manipolatore, con assoluta incapacità di sopportare le frustrazioni”: così ha scritto il GIP che ha convalidato l’arresto e disposto la custodia cautelare in carcere per il trentenne reo confesso. Elementi caratteriali gravi, ma quanto frequenti? In particolare, colpisce l’incapacità di Impagnatiello di sopportare le frustrazioni. Caratteristica tipica, a volte, delle nuove generazioni, imbottite di “sì”, soddisfatte nei loro desideri ancora prima di capire di averli, abituate al tutto e subito, nei cui confronti, spesso, la parola “no” è inesistente, perché i genitori, cresciuti in famiglie autoritarie, non vogliono reiterare modelli educativi ritenuti, in buona parte a ragione, sbagliati.

Tuttavia, l’educazione al rispetto non può prescindere dalla capacità di forgiare caratteri in crescita anche attraverso prove da superare, come l’accettazione di un rifiuto. Educare significa insegnare valori positivi e lasciare ai figli desideri insoddisfatti, sogni irrealizzati, perché capiscano che la vita non è fatta di oggetti da possedere e buttare quando non servono più. Ma di relazioni, sentimenti, persone da amare. E, soprattutto, rispettare.

Caro Porro, Giulia e Thiago uccisi: omicidio meno grave senza travaglio? Il caso di Giulia Tramontano ammazzata insieme al piccolo Thiago: oggi si è tenuto il funerale. La Posta su Nicolaporro.it l'11 Giugno 2023

Caro Nicola,

ti scrivo questa mail per manifestare la mia perplessità, anzi, posso dire di essere rimasta scioccata davanti alla notizia appresa ieri al telegiornale, in cui si parlava dei progressi nel caso della povera Giulia Tramontano, la ragazza uccisa a coltellate insieme al suo bambino in grembo. Ciò che mi ha scioccata è stato sentire che la situazione per il compagno assassino si potrebbe aggravare se venisse provato “che lei era entrata in travaglio“, perché in tal caso si tratterebbe di duplice omicidio.

Ma di che cosa stiamo parlando? Cioè qual è il potere soprannaturale del travaglio per far sì che solo grazie a una contrazione uterina si possa parlare di duplice omicidio e in caso contrario no? Una semplice contrazione può avere il potere di “trasformare” quell’essere nel grembo materno in un bambino vero altrimenti sarebbe rimasto un bambino finto o un ammasso informe?

Riflettevo oggi che esiste già nel nostro ordinamento una legge che punisce chi danneggia una gestante, ovvero la legge sul fumo. Nella legge Sirchia (legge 3/2003) all’articolo 51 si trova scritto che in caso di trasgressione del divieto di fumo “la misura della sanzione è raddoppiata qualora la violazione sia commessa in presenza di una donna in evidente stato di gravidanza o in presenza di lattanti o bambini fino a dodici anni”. Non c’è scritto “in stato di gravidanza e che abbia iniziato il travaglio”, ma c’è scritto “in evidente stato di gravidanza”, quindi non c’è neanche scritto al nono, ottavo, settimo mese di gravidanza. No. Basta che la gravidanza sia evidente. Il che significa che potrebbe essere anche al quarto o al terzo mese volendo, basta che sia evidente. E questo perché? Perché basta che ci sia una donna in gravidanza per capire che lì, dentro di lei, c’è anche un bambino. Non a caso l’articolo della legge pone l’aggravante della presenza di donna in gravidanza accanto alla presenza di lattanti o bambini entro una certa età, quindi per sottolineare che si sta danneggiando non tanto la donna in sé, quanto il bambino nel suo grembo attraverso di lei.

E da qui torno alla notizia che ho sentito e al potere magico del travaglio. Questo vorrebbe dire che chi partorisce tramite cesareo per un’emergenza o perché non le è partito il travaglio deve farsi il segno della croce perché rischia che le tirino fuori un’ameba invece di un bambino? Smettiamola con queste ipocrisie sociali e giuridiche! Quando ero Incinta della mia prima bambina mi ricordo che all’ecografia morfologica, che si fa attorno al quinto mese, io vidi ben distinto un bebè col pollice in bocca e l’altro braccio dietro alla testa.

Quella di fatto è stata la posizione che poi ha sempre tenuto anche dopo la nascita quando dormiva. Cos’era dunque l’immagine che vedevo nell’ecografia? Io ho due carissime amiche che per motivi diversi hanno dovuto subire dei cesarei d’urgenza a 24 settimane di gestazione l’una e a 25 settimane l’altra, ovvero circa 5 mesi e mezzo. Sono nate due bambine minuscole, grandi come una mano, che hanno vissuto i loro primi lunghi mesi in un’incubatrice in ospedale, mesi delicati, mesi di cura, mesi di forti emozioni…

Adesso sono due belle bambine, una di 3 e una di 6 anni, due bambine con due gambe funzionanti, braccia e mani funzionanti, occhi, orecchie, cuore, polmoni, tutto perfettamente funzionante. Parlano, ridono, giocano. Sono due bambine splendide. E allora io mi chiedo ancora, anzi, grido ancora: ma oggi, in Italia, nel 2023, dobbiamo provare che sia partito un travaglio per dire che è stato massacrato un bambino dentro la sua mamma? Silvia P.

Estratto dell’articolo di Anna Giorgio per ilgiorno.it domenica 27 agosto 2023.

Sono le ricerche effettuate sui computer da parte di Alessandro Impagnatiello, l’uomo che ha ucciso Giulia Tramontano e il piccolo Thiago che portava in grembo a catalizzare l’attenzione della procura. Ricerche su "come uccidere una donna incinta con il veleno" e su "come avvelenare un feto". 

Perché Impagnatiello, il barman dell’Armani café, voleva uccidere la compagna, ma soprattutto il bambino che aspettava da lui, il vero ostacolo all’inizio di una nuova relazione.

[…] I superperiti hanno chiesto e ottenuto la proroga dei tempi dell’indagine per poter fare un ulteriore specifico accertamento medico proprio sul feto, sul piccolo Thiago, il bimbo che sarebbe nato a luglio. 

L’accertamento, come spiegano gli investigatori della procura, è specifico sulla ricerca di veleno che si sospetta sia stata somministrato da Impagnatiello alla madre del bambino e che potrebbe essere stato assorbito, quindi, dal feto. Le risposte, che non arriveranno prima di settembre, confluiranno nella relazione finale che servirà per definire il quadro delle aggravanti, in particolare per consolidare l’aggravante della premeditazione.

Sotto il cellophane usato per avvolgere il cadavere di Giulia è stato isolato un capello sul quale sarà fatto un esame supplementare per analizzare la compatibilità del Dna con quello di Giulia o di Alessandro ed escludere l’ipotesi che, al momento dell’occultamento del cadavere, ci fossero altre persone rispetto ad Impagniatiello. 

Gli investigatori hanno escluso che la madre di Alessandro fosse presente e abbia aiutato il figlio. Il match sul capello sarà tra gli accertamenti già fissati sul caso nei laboratori del Ris di Parma. Oltre al capello, gli accertamenti irripetibili riguarderanno il materiale usato per nascondere il cadavere e i reperti biologici rinvenuti nella casa in cui si è consumato il massacro, prima che Impagnatiello decidesse di tentare di bruciare il corpo della ex al fine di "cancellarne l’identità" come ha lui stesso riferito durante l’interrogatorio tenuto davanti al gip. […]

 Thiago ucciso insieme a Giulia, parla don Salvatore: "È stato duplice omicidio". Le parole di don Salvatore, il parroco di Sant'Antimo che ha battezzato Giulia: "La legge non lo riconosce ma diciamolo senza mezzi termini, questo è duplice omicidio". Federico Garau il 3 Giugno 2023 su Il Giornale.

È stato duplice omicidio. Ne è convinto don Salvatore Coviello, il parroco di Sant'Antimo, sacerdote della parrocchia Santa Lucia frequentata da Giulia Tramontano. Don Salvatore esprime quello che è il pensiero di molti. Uccidendo Giulia, la sua compagna, Alessandro Impagnatiello ha infatti tolto la vita anche a Thiago, un bambino che sarebbe nato entro pochi mesi.

Nessuna festa

Grande il dolore nella comunità di Sant'Antimo, piccolo comune della città metropolitana di Napoli. Avrebbe dovuto essere un periodo di festa: festa per la vittoria del Napoli, e festa patronale. Nessuno, però, ha più voglia di festeggiare. Non dopo una tragedia di tali proporzioni.

Il Club Napoli della cittadina ha già fatto sapere che non si terrà alcuna celebrazione. "Niente caroselli né sfilate per rispetto di questo angelo volato in cielo. Abbiamo già festeggiato, ora pensiamo solo al dolore dei familiari di Giulia, la notizia della sua morte ha squarciato il cuore della nostra comunità", fanno sapere i dirigenti, come riportato da Ansa.

La festa patronale potrebbe subire lo stesso destino. Nelle prossime ore si saprà, forse, qualcosa di più. A darne notizia è proprio don Salvatore Coviello, che non esclude la possibilità di una cancellazione dell'evento religioso.

"Era un fantasma". A Sant'Antimo quelle voci sul fidanzato di Giulia

"È stato duplice omicidio"

Provato dall'immane tragedia, don Salvatore ricorda Giulia. È stato lui a battezzarla, appena nata, e negli anni l'ha vista crescere. La giovane è stata a lungo vicina alla parrocchia, prima di intraprendere la sua strada, fino a trasferirsi a Milano.

"Possiamo dire di essere umani? Non lo so. La violenza non dovrebbe essere degli uomini", commenta il parroco. "E poi, in questo caso ancor di più. La legge non lo riconosce ma diciamolo senza mezzi termini, questo è un duplice omicidio. Quello di Giulia e di un bambino, Thiago, di una vita che esisteva e che è stata stroncata insieme con la madre".

Giulia tornerà a casa

Intanto è stata data conferma che la salma di Giulia farà ritorno a Sant'Antimo per le esequie. Al funerale parteciperà anche Magda Beretta, sindaco di Senago. Tutti si riuniranno per dare l'ultimo alla giovane 29enne, uccisa assieme al suo bambino. Bisognerà ancora attendere un po'. Prima, come disposto dall'autorità giudiziaria, dovrà essere svolta l'autopsia. Solo a quel punto il corpo di Giulia sarà consegnato alla famiglia. Stando alle ultime informazioni, l'esame dovrebbe essere eseguito martedì prossimo. A quel punto si sapranno, si spera, anche data e ora del funerale.

"Prepareremo le esequie ed anche una manifestazione con un momento di solidarietà e di preghiera", spiega don Salvatore, "ma attendiamo che ritorni la famiglia di Giulia, che si trova ora in Lombardia. In questo momento il sentimento comune è lo smarrimento. Domani nelle messe domenicali ci sarà occasione per riflettere su quanto accaduto. Ora si prega, si prega per Giulia e la sua famiglia".

Nicola Lagioia: «Il Salone del Libro non è la Rai, comandano solo i lettori». Dal 18 al 22 maggio torna la rassegna internazionale dedicata alla lettura. Duemila eventi, grandi ospiti. E spazi nuovi, come la Pista 500 sul tetto del Lingotto. Parla il direttore, alla sua ultima edizione prima dell’arrivo di Annalena Benini. Sabina Minardi su L'Espresso il 16 maggio 2023.

Quando arriva a Roma, a minimum fax, è lo “Straniero” proprio come la rivista fondata da Goffredo Fofi e il premio letterario che si aggiudica nel 2001: si è laureato in Legge a Bari, scrive, fa il ghostwriter, ma appena si ritrova a dirigere la casa editrice la trasforma in un punto di riferimento nella ricerca letteraria.

Un riconoscimento dopo l’altro Nicola Lagioia vince nel 2015 il premio per eccellenza, lo Strega, con il romanzo “La ferocia”, che dedica, chiamandola sul podio come Rocky Balboa la sua "Adrianaaa”, alla moglie Chiara: la scrittrice Chiara Tagliaferri. E anche se nel frattempo dirige collane, conduce alla radio, seleziona film per la Mostra del cinema di Venezia, quando viene nominato direttore del Salone del libro, nel 2017, torna a essere uno straniero. Riprende la valigia e si trasferisce a Torino: per capire bene i meccanismi della manifestazione e di quella politica che vuole dire la sua, ricorda ora, alla vigilia della 35° edizione del Salone.

L’ultima da direttore, con un consenso cresciuto anno dopo anno. E un pubblico che ha rafforzato l’amore per la rassegna: da 144 mila presenze nel 2018 a oltre 168 mila nel 2022. Ma per lo straniero Lagioia la vittoria è un’altra: «Mi auguro che oggi il Salone non sia più considerato solo dei torinesi, ma un evento italiano e internazionale». 

Dopo mesi di polemiche e fumate nere, sarà Annalena Benini a prendere il suo posto dal prossimo anno. Non ha avuto la tentazione di restare? Ernesto Ferrero...

«È rimasto in carica 18 anni, certo. Ma erano tempi diversi. Ho vissuto grandi sfide: quando sono arrivato, nel 2016, il Salone praticamente non esisteva più, migrato a Milano con Tempo di libri. Non c’era quasi più un nucleo di lavoro. Abbiamo riportato il Salone al Lingotto, ma ci siamo ritrovati a fare i conti con il fallimento della Fondazione. Eravamo trionfanti, ma senza contratto. Siamo andati avanti lo stesso, finché non c’è stata l’acquisizione da parte dei vecchi fornitori, gli attuali proprietari, che si sono ripresi il marchio. Ricominciando da zero».

Nel 2019 fu al centro di proteste per l’annunciata presenza di Altaforte, casa editrice vicina a Casapound, esclusa dopo la defezione di molti autori. Poi l’epidemia.

«Sostenere tutto ciò, anche dal punto di vista psicologico, non è stato facile. Quando mi proponevano di restare dicevo: ma prima posso prendermi una pausa di un paio d’anni? Poi magari ritorno».

Quanto ha avvertito in questi anni l’influenza della politica?

«Premessa: il Salone non è la Rai, il Salone è per il 60 per cento dei privati, per il resto del Comune di Torino, la Regione, la Compagnia di San Paolo, il Ministero. La politica prova a influenzare. Ogni tanto arrivava qualche proposta di consulenza, ma è importante far capire subito che “non attacca”. Una volta fui convocato dalla Regione Piemonte con l’accusa di fare un Salone troppo di sinistra. Risposi con una lezione di editoria. Lo sapete che cos’è la Gfk, domandai. Sapete che una “fiera” del libro è diversa da un “festival”? A una fiera vanno gli editori, che pagano gli stand e vogliono rientrare dell’investimento. Facciamolo questo gioco cretino di destra e di sinistra: leggiamo i 5.000 titoli più venduti e collochiamoli da una parte e dall’altra. Il fatto che Zerocalcare riempia l’Auditorium non lo decido io, lo decide il pubblico. E se il 90 per cento degli scrittori è di sinistra, o non gliene importa di schierarsi, è un fatto. Questa è una fiera da almeno 100mila persone. Se si fanno certe scelte non è per un capriccio del direttore».

Insomma, rivendica neutralità?

«Rivendico qualità. E pure quantità. Michel Houellebecq è ritenuto reazionario: è venuto al Salone. Idem per Cormac McCarthy: magari venisse! Se il pensiero conservatore è interessante merita ascolto».

Regali alla neodirettrice una cosa che ha imparato stando al comando del Salone.

«C’è solo un consiglio che posso darle: avere chiaro che il referente di un direttore non è né la politica né la proprietà. Sono gli editori, le autrici e gli autori, il pubblico. Con loro dalla tua parte, nessuno può condizionarti. Le faccio ancora un esempio su cos’è il Salone: andai a trovare Roberto Calasso per convincerlo a tornare. Ero emozionato, avevo i suoi libri in mano. Le assicuro che non abbiamo parlato un istante delle “Nozze di Cadmo e Armonia”. Già nell’accogliermi sventolava i rendiconti delle edizioni passate, i soldi persi e quelli guadagnati. Se si conoscesse di più come funziona l’editoria si perderebbe meno tempo a parlare di destra e di sinistra».

Perché c’è un’industria culturale in gioco, obbligata a pensare alla sua sostenibilità.

«Certo, noi esercitiamo un filtro, ma non puoi pretendere autori solo secondo il tuo gusto. Perché il pubblico viene al Salone per vedere Rachel Cusk, ad esempio, ma anche Alberto Angela. E tu chi sei per dire no? Il Salone del libro è una festa popolare, per lettori forti ma anche per chi non comprerebbe un libro in un anno e ne acquista qualcuno proprio lì. Devi avere rispetto di tutti. Abbiamo la classe politica che legge meno d’Europa e che ignora la diversità tra lettori, la difficoltà di leggere nei paesini di provincia, la vivacità dei gruppi di lettura».

Lei ha sempre valorizzato il lavoro di squadra, mettendone su una con nomi molto apprezzati.

«Ho seguito diversi consigli a Torino. Uno ho voluto ignorarlo: concepire il Salone come una struttura piramidale. Manco morto, ho detto: io non lavoro così. Le strutture reticolari funzionano meglio. Contare su un gruppo di consulenti così valido è stato bello e complicato: non è facile tenere testa a scrittrici come Valeria Parrella, Helena Janeczek, Loredana Lipperini, Claudia Durastanti, solo per fare qualche nome. Però, una volta allineati, ogni difficoltà ha avuto alle spalle una forza incomparabile».

Mi dica di getto un incontro che conserva nel cuore?

«Quello con Bernardo Bertolucci. Intervistato da Luca Guadagnino con Elena Stancanelli, nel bel mezzo dell’incontro si fermò e ci propose di metterci a meditare. Fu incredibile, calò il silenzio in un istante, a dimostrazione della magia che si può creare con le parole. Un altro incontro straordinario fu con Edgar Morin. Lo invitammo pensando che non sarebbe venuto, aveva già 99 anni, invece si presentò e fu grandissimo. E poi ho tanti ricordi legati al Salone Off: il tango di notte; il concerto di Iosonouncane, seguitissimo alle 5 del mattino. Un’altra cosa stupenda mi accadde nel 2017: in un clima di incertezza, all’improvviso mi sentii abbracciare alle spalle: era Inge Feltrinelli, gioiosa, con quella sua energia incredibile che mi fece sciogliere di emozione».

Un rimpianto, invece: chi non è riuscito a portare?

«Camilleri. Era sul punto di venire, ma non fece in tempo. Il momento più brutto? La pandemia: ricordo una riunione drammatica per decidere se andare avanti. Decisi di scommettere che la campagna vaccinale sarebbe andata bene: il contrario era un pensiero contro il futuro. “D’accordo”, dissero: “Cosa siete disposti a rischiare?”. Lavorammo gratis per mesi. L’audacia fu premiata».

Il Salone può crescere ancora?

«Dovrebbe continuare a essere com’è. Però poi agire da agenzia culturale e organizzare eventi in tutta Italia».

Un Salone itinerante?

«No, il Salone è a Torino e lì deve restare. Ma ha sviluppato un tale know-how, è in contatto con tutti gli scrittori del mondo, ha così tanta capacità di attrarre pubblico che potrebbe dare vita ad altro. Sarebbe bello se diventasse una scuola di formazione».

Lagioia, c’è una guerra terribile a due passi da noi. Non le viene il dubbio che mettere in scena dialoghi e parole sia cosa inutile?

«L’arte c’è sempre stata sotto le bombe. La poesia europea ha avuto una svolta proprio durante la Prima guerra mondiale, quando Ungaretti cominciò a scrivere versi dal fronte. È assolutamente sensato ritrovarci in un Salone, significativamente aperto da Svetlana Aleksievič. Certo non dà un contributo alla fine della guerra. Ma serve a restare umani: rinunciare a occasioni così vuol dire impoverirsi. C’è bisogno di comunità».

E magari di promuovere davvero la lettura.

«Ecco il punto. L’editoria è uno dei pochi mondi culturali che si sostiene da solo, diversamente dal cinema che vive di finanziamenti. Non penso a provvedimenti di assistenzialismo, ma di aiuti al settore sì, con una legge che colleghi editori, librai, bibliotecari, scuole. Questo mi aspetterei dalla politica che invitiamo ogni anno. Abbiamo traduttori tra i migliori del mondo e i peggio pagati d’Europa. L’Italia sarà ospite a Francoforte nel 2024: come sfrutteremo l’occasione? La politica di questo dovrebbe occuparsi: di librerie che chiudono per affitti alle stelle, di editori che resistono, di scuole che vorrebbero fare di più ma sono disastrate: mettiamo tutto questo a sistema».

Dal profilo facebook di Nicola Lagioia – 21 maggio 2022

Circa vent'anni fa, sollecitato da un blogger che mi chiedeva un commento su "Cento colpi di spazzola prima di andare a dormire", il romanzo d'esordio di Melissa P., feci un commento violento, sessista e molto stupido. 

Subito dopo andai a scusarmi di persona con Melissa Panarello. Non avevo la consapevolezza che ho oggi, capii di aver sbagliato. Melissa accettò le scuse, ma ci mise un po' – giustamente – per assorbire il colpo. Discutemmo ancora (aveva ragione lei: ovvio). Abbiamo poi preso a vederci sporadicamente, adesso lo facciamo con più frequenza. Siamo diventati amici. Ci lega un rapporto di stima e di affetto. Quando si sbaglia, è bene chiedere scusa e provare a riparare. 

Ecco che però, 20 anni dopo, le telecamere di "Striscia la Notizia", in occasione del Salone del Libro, si sono avventate su Melissa per chiederle conto dei fatti di allora, e hanno sollecitato con la stessa prepotenza altre scrittrici e personalità della cultura chiedendo di commentare quella frase (il più delle volte tacendo che fosse stata pronunciata quasi 20 anni fa in quelle circostanze, mistificando, manipolando come fa spesso la trasmissione).

Le telecamere di Striscia sono venute lo scorso anno al Salone del Libro, il servizio è stato mandato invece in onda solo alla vigilia di quest'ultimo Salone per cercare di recare più danno possibile. Subito dopo la prima messa in onda, non essendo scoppiata la polemica che speravano scoppiasse, le telecamere di Striscia sono tornate alla fiera anche quest'anno, hanno ripreso la loro operazione. 

Poiché diverse scrittrici interpellate mi conoscono e conoscono il mio lavoro, si sono mostrate prima sorprese e incredule. Quando hanno capito l'inganno, molte di loro hanno protestato, sentendosi aggredite hanno cercato di sottrarsi alle telecamere per non stare al gioco, alcune hanno denunciato sui loro canali l'accaduto. Le loro proteste sono state ignorate, tagliate dal montaggio. Melissa, nei confronti della quale l'aggressione è stata vergognosa, ha denunciato l'accaduto sui suoi canali social. Naturalmente la sua replica non è stata riportata da "Striscia", che invece in trasmissione ha preso ad attaccarla accusandola di connivenza. Ha attaccato me provando a innescare una campagna d'odio il cui esito è stato, per fortuna, fallimentare. 

La frase per cui avevo chiesto scusa 20 anni fa, e che all'epoca era stata pubblicata su un piccolo blog che non esiste più da tanto tempo, è stata rilanciata più volte da Striscia con una violenza moltiplicata. È stata addirittura volantinata al Salone da persone molto aggressive (peraltro in modo illegale, visto che per volantinare ci vuole un'autorizzazione).

Più la campagna d'odio di Striscia la Notizia andava avanti, più non veniva raccolta. La gente sa ormai come lavora quella trasmissione. Nel 2009 osai criticarla pubblicamente. Da allora, partono ogni tanto campagne mediatiche contro di me. Stamattina ho parlato con uno dei loro inviati, mi sono presentato a lui e alle telecamere senza attendere che mi facessero il classico agguato. 

L'inviato ha cercato di buttarla in caciara, mi ha detto che si tratta di una trasmissione satirica e che bisogna prenderla a ridere. Ma non c'è tanto da ridere, se il desiderio in fondo è quello di arrecare sofferenza alle persone. Commetterò sicuramente in futuro degli errori (per chi interviene su temi pubblici la possibilità di errore non è bassa): verranno usati strumentalmente in questo modo? Vent'anni fa chiesi scusa a Melissa Panarello, sarei pronto a rifarlo mille volte. La mia solidarietà a lei è totale. Gli autori della trasmissione sono pronti a scusarsi per la loro violenza mediatica? Ringrazio il gruppo di lavoro del Salone per il sostegno di questi giorni.

Ringrazio tutte coloro e tutti coloro che stanno esprimendo solidarietà per l'accaduto.

Estratto da amp.torinotoday.it il 22 maggio 2023.

"Con lei c’è una sola cosa da fare. La prendi. La metti a novanta appoggiata a un tavolo. Poi prendi Lolita di Nabokov. Strappi le pagine. Gliele infili una per una nel culo. Dopo un po’, per osmosi, qualcosa assimila per forza": questo era quanto Lagioia aveva scritto su un blog e che è stato ripescato da Bezzaz e da Striscia. L'inviata chiede poi un commento sull'accaduto a scrittrici presenti al Salone, Lidia Ravera, Simonetta Agnello Hornby, Chiara Gamberale, Myrta Merlino, e Laura Boldrini: soltanto la terza ricorda che si tratta di una faccenda avvenuta anni fa. Infine, viene raggiunta Melissa Panarello, che si rifiuta di rispondere alle domande. 

Allora l'inviata le ricorda che "su internet si trova ancora tutto", comprese le sue risposte contro Lagioia. Nel finale viene instillato il dubbio che Panarello si rifiuti di prendere una posizione contro Lagioia in quanto ora lavora con la moglie di quest'ultimo (hanno un podcast insieme): "Quando entri nella famigghia...", dice sibillina Bezzaz.

"Feci un commento violento, sessista e molto stupido - ricorda Lagioia -. Subito dopo andai a scusarmi di persona con Melissa Panarello. Non avevo la consapevolezza che ho oggi, capii di aver sbagliato. Melissa accettò le scuse, ma ci mise un po', giustamente, per assorbire il colpo. Discutemmo ancora (aveva ragione lei: ovvio). Abbiamo poi preso a vederci sporadicamente, adesso lo facciamo con più frequenza. Siamo diventati amici. Ci lega un rapporto di stima e di affetto. Quando si sbaglia, è bene chiedere scusa e provare a riparare".

Estratto da open.online il 22 maggio 2023.

Il Salone Internazionale del Libro di Torino precisa, in una nota, che «è, è sempre stato, e continuerà a essere tutt’uno con la propria direzione editoriale e con l’intera squadra di lavoro. Chi attacca la direzione e la squadra di lavoro attacca il Salone, attacca l’istituzione. Il Salone è la casa dell’intero mondo editoriale che è di per sé garanzia di pluralismo, libertà, indipendenza». Dopo due giorni di polemiche, arriva la posizione definitiva dell’ente sulla querelle che ha visto protagonisti il suo direttore, Nicola Lagioia, e la ministra per la Famiglia, Eugenia Roccella. 

(...) 

La ricostruzione di Lagioia, a due giorni dallo scontro

Ospite di Agorà su Rai3, Lagioia è tornato a commentare quel che è successo durante la protesta: «I contestatori della ministra Roccella non volevano il dialogo perché per loro la ministra è anti abortista e con una firma può rovinare le nostre vite, può cambiare le loro vite, dovrebbe essere lei, prima di fare delle leggi, a far sì che queste leggi siano il risultato di un dialogo. “Se lei legifera direttamente con delle leggi che incidono in maniera molto violenta sui nostri corpi e sulle nostre vite, noi ci sentiamo violate”. Per loro la ministra ha un potere enorme sui loro corpi e può legiferare. Come si fa a trasformare il conflitto in un dialogo? La politica e le istituzioni diano il buon esempio e cerchino una strada». 

(...)

Il direttore del Salone, giunto alla sua ultima edizione, ha anche argomentato il senso del suo intervento durante la contestazione nei confronti della ministra: «Io non sono il servizio d’ordine del Salone e non sono la polizia. Ho detto ai ragazzi: eleggete un vostro delegato e trasformiamo questa contestazione in un dialogo. Loro mi hanno detto di no. Hanno rifiutato questa mediazione. È un peccato, ma è legittimo da parte loro. Il mio metodo è quello del dialogo, non del manganello». Infine, Lagioia ha espresso un giudizio generale sull’operato del governo: «Questo governo può avere una virata autoritaria, che non vuol dire fascismo, ma un’altra cosa. Restrizione della libertà, restrizione dei diritti, nel momento in cui c’è una ministra che è anti abortista io capisco che le donne si sentano minacciate».

Caso Roccella, Gruber spiazza Lagioia: "Quanti soldi ha preso?". Ecco la cifra. Il Tempo il 22 maggio 2023

Nella puntata di lunedì 22 maggio di Otto e mezzo si torna a parlare della contestazione subita dalla ministra Eugenia Roccella al Salone del libro di Torino. Tra gli ospiti di Lilli Gruber c'è il direttore della kermesse, lo scrittore Nicola Lagioia, accusato dal centrodestra e non solo per non aver saputo o voluto evitare la censura, di fatto, dell'esponente di governo. Lo scrittore ha esordito riservando, dal canto suo, un attacco al governo idi Giorgia Meloni accusandolo di derive autoritarie. "Stamattina mi hanno chiesto se questo è un governo fascista. Ho risposto di no ma ci sono cose che mi danno da pensare. Per esempio, è un governo i cui ministri parlano in modo disinvolto di sostituzione etnica mentre oggi il presidente Mattarella ha detto che deve essere la persona e non l’etnia a essere protetta", afferma Lagioia.

"Un governo che considera chi non la pensa come esso un nemico da epurare, da aggredire verbalmente o da irridere quando vengono mandati via", afferma. Il riferimento, ovviamente è al suo ruolo di direttore del Salone. Per Lagioia l'esecutivo vuole mettere in discussione diritti acquisiti: "Un governo che può mettere in discussione alcuni diritti acquisti come l’aborto. Alcuni cittadini hanno paura di questo governo e non dovrebbe essere così. Si dovrebbe confrontare con più serenità. Ogni governo deve essere sottoposto a verifica e non vedo perché non dovremmo farlo anche con questo. Un po' attento starei".

Dopo aver cercato, piuttosto tiepidamente, una mediazione con i contestatori dei movimenti ecologisti e femministi che hanno bloccato la presentazione del libro di Roccella, Lagioia è stato attaccato dall'esponente di FdI Augusta Montaruli che gli ha gridato: "Vergogna, con tutti i soldi  che prendi". "Ma questi soldi li guadagnava", chiede allora Gruber con Lagioia che risponde: "Ho preso 120mila euro lordi a partita iva", afferma. Una cifra di tutto rispetto, insomma. Ma lo scrittore rivendica tuttavia che i ritorni per il Salone sono stati molto superiori. 

Il Salone del Libro più politico di sempre ha mostrato lo scontro culturale che sta vivendo l’Italia. L’edizione appena conclusa dell’evento di Torino, l’ultima diretta da Nicola Lagioia, è stata scandita da contestazioni, polemiche, solidarietà, tifoserie. Prova generale di un conflitto tra visioni del mondo di destra e di sinistra. Sabina Minardi su L'Espresso il 22 maggio 2023. 

«Com’è andata? Bene, si sono incazzati tutti!», ha detto al telefono Nicola Lagioia, direttore del Salone internazionale di Torino, a Vittorio Sgarbi. Che non ha perso tempo per raccontarlo a tutti, in apertura dell’incontro su “Scoperte e Rivelazioni. Caccia al tesoro dell’arte”, edito da La nave di Teseo di Elisabetta Sgarbi.

E se la sorella ha voluto inneggiare a Lagioia per la fine del suo settennato dedicandogli una divertente e affollata festa con tanto di concerto degli Extraliscio, Sgarbi senior, sceso dal palco, ne ha criticato l’equidistanza di fronte alle contestazioni della ministra Eugenia Roccella: «Non c’erano due parti in gioco. La parte qui è solo una, quella del libro. E il libro deve essere sempre libero. Non si censurano gli autori», ha detto. Tanto per aggiornare la polemica d’apertura del Salone: la richiesta di dimissioni del presidente degli editori Ricardo Franco Levi, commissario del governo per la Buchmesse, per aver disinvitato dalla fiera di Francoforte il fisico Carlo Rovelli. 

Giusto il tempo di ammettere la figuraccia che la parola censura ha ricominciato a circolare. E i corto circuiti hanno fatto saltare di continuo la corrente, come era prevedibile dall’istante in cui il presidente del Senato Ignazio La Russa, inaugurando il Salone, ha auspicato «contaminazione, assenza di steccati» ideologici: da Matteo Renzi contro il fascismo degli antifascisti al ministro della cultura Gennaro Sangiuliano che cita il pensiero di Piero Gobetti ma apprezza anche l’immagine dei “giornalisti poliziotti” del filosofo della destra radicale Alain de Benoist, autore di un libro con l’ideologo di Putin Alexander Dugin.

È stato un Salone più politico del previsto questo appena concluso: con le voci del dissenso di piazza decise a farsi sentire, dai ragazzi di Extinction Rebellion in gommone contro i disastri ambientali alle donne di Non una di meno fino al no vax che assalendo l’immunologa Antonella Viola ci ha riportati di colpo al cospetto di quel virus appena rimosso. Dal consigliere del ministro Francesco Giubilei che si rivolge a distanza ad Annalena Benini, dicendo di aspettarsi da lei, il prossimo anno, una direzione più pluralista di quella attuale, alla polemica culturale degli autori che protestano sulla scarsa considerazione del lavoro intellettuale nel nostro Paese: il sasso l’ha lanciato lo scrittore Vincenzo Latronico, ma la polemica ha circolato di incontro in incontro: solo noi, gli scrittori, non guadagniamo nulla, hanno detto in coro.

Gli editori, al contrario, esultano: le vendite si sono moltiplicate per tutti, in questa trentacinquesima edizione del Salone che, tra record di biglietti staccati e disagi da pioggia incessante, ha mostrato anche i suoi limiti fisici: difficilmente potrà crescere oltre l’attuale capienza, nonostante lo sforzo di dilatarlo verso l’alto, con l’apertura di Pista 500 sul tetto del Lingotto.

«Il Salone non si lottizza», ripetono gli autori, e come non essere d’accordo. Ma gli spazi cambiano, le geometrie si ridefiniscono, tra attacchi e solidarietà, tra soliti noti e nuovi protagonisti, il Salone somiglia a un poligono che sta già curvando i suoi lati.

E questa edizione del Salone è stata la prova generale di uno scontro culturale a cui assisteremo sempre più spesso nei prossimi mesi: tra visioni del mondo di destra e di sinistra. E un’agorà allargata che ha ora, prima di tutto, il dovere di difendere le regole democratiche del confronto, non di promuovere hooligans della cultura.

«È responsabilità del poeta mettersi agli angoli delle strade e distribuire volantini scritti, è responsabilità del poeta entrare e uscire da torri d’avorio, bilocali sulla avenue e campi di grano saraceno e accampamenti militari, è responsabilità del poeta dire la verità al potente…», scandiva Grace Paley in “Piccoli contrattampi del vivere”, a proposito di onestà e libertà del lavoro intellettuale. E ha ragione lo scrittore Javier Cercas quando, sottolineando il bisogno di voci critiche nella società, ripete al Salone ciò che aveva anticipato all’Espresso: «La politica è troppo importante per lasciarla solo ai politici».

Anche il libro è troppo importante per lasciarlo solo alla politica. E alle tifoserie.

Eugenia Roccella, ministra contro i diritti. Compreso quello di contestarla. La ministra della Famiglia è da sempre contraria all’aborto, alla procreazione assistita, alle tutele per gli omosessuali, all’eutanasia. È diventata simbolo di una politica che mette le mani sul corpo delle donne. Le proteste al Salone del Libro di Torino non possono stupire. Simone Alliva su L'Espresso il 22 maggio 2023.

Bisogna avere lo spirito, la calma eversiva e l’eleganza di Nicola Lagioia per spiegare le ultime ore che hanno scosso il Salone del Libro di Torino e la politica italiana: «È anti abortista e con una firma può rovinare le nostre vite, può cambiare le loro vite, dovrebbe essere lei prima di fare delle leggi, a far sì che queste leggi siano il risultato di un dialogo».

Il soggetto è Eugenia Roccella che prima ha chiesto il dialogo di fronte alle contestazioni all'Arena Piemonte al Salone contro la sua politica antiaborto (presente nel lessico, ancora incerta nelle leggi), poi smentisce sé stessa e dichiara a Il Tempo: «Lagioia non ha ritenuto di prendere una posizione chiara ed esplicita contro chi nega il diritto di parola». Ma lo scrittore e direttore uscente del Salone del Libro avvisa che il governo «può avere una virata autoritaria, che non vuol dire fascismo ma un'altra cosa: restrizione della libertà, restrizione dei diritti, nel momento in cui c'è una ministra che è antiabortista io capisco che le donne si sentano minacciate».

Per capirlo, in effetti, bisognava essere lì sabato, tra cori, urla e ragazzi e ragazze che si stendono sul pavimento, non solo le donne attiviste di Non Una Di Meno ma anche attivisti Lgbt del Coordinamento Torino Pride, genitori di Famiglie Arcobaleno, giovani di Extinction Rebellion, attivisti per i diritti dei migranti. È un’onda che si solleva contro chi per tutta la sua vita politica ha cercato di limitare il diritto all’autodeterminazione delle donne e mortificare le conquiste civili. Una protesta che salda generazioni e istanze, identità e classi sociali. La voce di chi non ha, come la ministra, studi televisivi, predellini, ministeri ma può disporre solo – invece – di quel momento per farsi sentire, avanzando la capacità di resistere e andare avanti contro la ministra alla Famiglia, alla Natalità e alla Pari Opportunità del Governo Meloni: bolognese, classe 1953, "interrotta” proprio mentre prendeva il microfono per presentare il suo libro "Una famiglia radicale".

Figlia del fondatore del partito Radicale, con una storia politica che arriva ad un punto in cui fa un giro completo e annulla sé stessa: negli anni ’70 milita accanto alle femministe, entra nel Movimento di liberazione della donna e nel 1975, scrive il libro “Aborto, facciamolo da noi” (prefazione di Adele Faccio). È in prima linea nelle manifestazioni per l’interruzione di gravidanza, contro la violenza di genere e per le pari opportunità. E nel 1979 si candida con i Radicali (non eletta). 

Passano 20 anni, qualcosa succede: Roccella torna sulla scena a fianco di Silvio Berlusconi. Eletta con il Pdl, fa la sottosegretaria al Welfare (2008) e alla Salute (2009). Poi nel 2013 aderisce a Ncd, prima di passare nel gruppo Misto dove è tra le fondatrici di “Identità e azione” (Idea) guidato da Gaetano Quagliariello.

È portavoce del Family day (2007) ed è artefice del primo comitato contro l’utero in affitto (2013). Nel 2011 firma una lettera aperta ai cattolici con Roberto Formigoni perché sospendano il giudizio su Berlusconi e il caso Ruby. La sua entrata in Fratelli d’Italia può sembrare l’ultima conversione ma è in realtà un percorso naturale, che la porterà nuovamente in Parlamento dopo che proprio dentro il partito erede del Msi cresce la fronda antiabortista, ultracattolica fondamentalista.

Crociate che non possono non disturbare (e non preoccupare) gli attivisti e le attiviste per i diritti e che rischiano di diventare leggi. Sulla questione dell’interruzione volontaria di gravidanza, infatti, Roccella non ha mai nascosto le sue posizioni, dietro un refrain che è stato assorbito subito dalla leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni: la legge 194 non si tocca, è il copione recitato da entrambe. A “Otto e Mezzo”, di fronte a una Laura Boldrini incredula disse: «Sono femminista e le femministe non hanno mai considerato l’aborto un diritto. L’aborto è il lato oscuro della maternità».«Ma quale femminismo? I femminismi sono tanti», insisteva l’onorevole Laura Boldrini, in studio, attonita. Negli ultimi anni la ministra si è distinta per una difesa ostinata dei “medici obiettori di coscienza”, arrivando a sostenere che non sono un ostacolo all’attuazione della legge 194 negli ospedali. Contraria da sempre alla pillola dei cinque giorni dopo, da sottosegretaria alla Salute la definì «un farmaco con molte ombre, basti pensare alle 29 morti, 5 in Gran Bretagna, di cui non si è scritta una riga» ed è stata tra le prime a opporsi all’aborto farmacologico, definendolo un mezzo «per smantellare attraverso una prassi medica la legge 194» e arrivare «all’aborto a domicilio». Negli ultimi anni la ministra è diventata una colonna del movimento anti-abortista e anti-lgbt Pro-Vita. Presente in ogni conferenza stampa, nel 2018 senza mezzi termini paragonò l’aborto a un omicidio. 

Sulla procreazione assistita Roccella ha sostenuto, che «la libertà di scelta di “quando e se” essere madri, sta diventando sempre più una libertà di scelta sul figlio: la libertà di “chi” essere madri, attraverso la selezione genetica». Nel 2010, invocava una modifica della 194: «Perché ha 30 anni e va adattata ai nuovi fenomeni».

Anti-abortista ma non solo, anche da sempre contraria ai diritti delle persone Lgbt, nel 2018 promise di battersi «per abolire o cambiare profondamente tutte le leggi approvate dalla sinistra che hanno ferito la famiglia» riferendosi alle unioni civili: «Per la sinistra leggi come questa portano verso il preteso progresso; per noi, vanno verso la fine dell'umano». Contraria anche al fine vita, tra le ultime dichiarazioni: «C’è un obiettivo politico: arrivare all’eutanasia come opzione facile e libera. C’è un obiettivo culturale: distruggere l’idea di intangibilità della vita».

Oggi siede al governo e la missione del suo ministero è dichiarata: «Vorrei prima di tutto occuparmi delle donne e della maternità. Penso che ci sia molto da fare per ridare alla maternità il prestigio e la centralità che le spettano».

Aborto, un diritto in ostaggio della destra. Negare, eludere, ridimensionare: la maggioranza di Giorgia Meloni non affonda il colpo ma gioca per sottrazione. Smentisce la rilevanza dei medici obiettori. E continua a criminalizzare la Ru486. La legge sull’interruzione di gravidanza ha 45 anni. Ma non è ancora uguale per tutte. Susanna Turco su L'Espresso il 18 maggio 2023.

Non sempre l’attacco ai diritti ha il passo pesante da King Kong. In quest’era meloniana ha la sottigliezza dell’ambiguità, è subdolo come lo svolazzare di un pipistrello. Preferisce andare di riflesso, di rimbalzo. Trascurare, disapplicare, complicare. Assai più che affermare, cambiare, imporre. Le conseguenze non sono meno gravi: è più difficile però vederle arrivare. Si prenda ad esempio lo stop alle trascrizioni all’anagrafe dei figli di coppie omogenitoriali: è bastata una circolare prefettizia, combinata con il no del Senato alla proposta di adottare un certificato europeo di filiazione, a fare il risultato.

Una linea politica costruita per sottrazione, in cui si evita di riconoscere quello che c’è (i figli di coppie omogenitoriali), per privilegiare come «modello antropologico» la famiglia «dove ci sono ancora un papà e una mamma» negando persino di produrre una discriminazione: «Non c’è alcuna differenza tra i bambini», ha avuto l’ardire di sostenere la ministra della famiglia, Eugenia Roccella, subito dopo aver spiegato però che i figli delle coppie omo - a differenza di quelle etero - avranno due genitori soltanto previo ricorso al giudice per ottenere una «adozione per casi particolari».

Grossolani e facili, al confronto, i tempi di Silvio Berlusconi, quelli in cui, per fermare la volontà di Eluana Englaro, il Cavaliere tentava la via del decreto, con tanto di urla in Aula, scontro con il Quirinale, assunzione - se non altro - di una qualche responsabilità.

Nell’era di Giorgia Meloni prevale quello che Roberto Saviano chiama «l’estremismo dell’ambiguità». Una espressione che si presta bene a vestire l’atteggiamento nei confronti dell’aborto e della legge che lo regola, la 194 del 1978, approvata il 22 maggio di 45 anni fa.

A partire dall’ambiguità con cui ne ha parlato Giorgia Meloni a cavallo tra la campagna elettorale e la formazione del governo. Assicurare infatti che non si cambierà la legge ma che si vuole applicarla meglio - però solo per la parte che riguarda la prevenzione - può significare tante cose, in alcuni casi opposte, non tutte rassicuranti. Tanto più se chi lo dice è capace di negare le difficoltà di applicazione della 194, quando invece - hanno ricordato le attiviste di “Non una di meno” sfilando in piazza ad Ancona il 6 maggio - «in tutta Italia vediamo come l’aborto sia ostaggio dell’obiezione di coscienza».

Una pietra sull’accesso all’interruzione di gravidanza confermata dagli ultimi dati disponibili al ministero della Salute (risalgono al 2020): in Italia gli aborti continuano a calare (-9,3 per cento sul 2019), ma i medici obiettori sono sempre numerosi, mediamente il 64,6 per cento dei ginecologi, un numero che al Sud sale al 76,9, più di tre su quattro (con punte dell’83 in Abruzzo, 82 in Molise, 81 in Basilicata).

Un quadro che i dati disaggregati mostrano più chiaramente: l’inchiesta giornalistica “Mai dati”, condotta con l’Associazione Luca Coscioni da Chiara Lalli e Sonia Montegiove, ha evidenziato come alla fine del 2021 ci fossero 22 tra ospedali e consultori con il 100 per cento degli obiettori e 72 ospedali dove la percentuale di chi non pratica aborti è tra l’80 e il 100 per cento. Insomma ci sono luoghi in Italia dove non si può abortire - in tutto il Molise lo fanno due ginecologi e mezzo - ma per Giorgia Meloni vale quel che disse a Mezz’ora in più. Quando le fu chiesto come avesse in mente di affrontare la questione, come applicare non solo la prima (prevenzione), ma anche la seconda parte della 194 (l’accesso all’interruzione), rispose che il problema non c’era: «Non ho mai conosciuto una donna che non abbia potuto abortire in Italia».

Negare la questione aiuta a non risolverla, come sanno nelle Marche di Francesco Acquaroli dove il rifiuto di applicare, per due anni, le nuove linee guida per l’utilizzo della Ru486 ha portato la sua regione ad essere una specie di esperimento pilota: percentuali di aborto più basse della media nazionale, ricorso all’aborto farmacologico ridotto a un terzo, ospedali come quelli di Jesi e Fermo dove c’è l’obiezione di struttura (cioè non si fanno aborti), una regione che magari interrompe dopo quarant’anni la convenzione con l’Aied (è accaduto a gennaio, per Ascoli), ma patrocina gli eventi dei pro-vita (ad aprile, a Macerata).

Sul piano generale si tratta, per adesso, soprattutto di un clima. Non a caso, nelle tante resurrezioni operate da questo governo che vede le associazioni pro-life pimpanti come non mai, Giorgia Meloni ha riportato in auge, in posti chiave, un certo genere di personaggi, magari rimasti per qualche anno confinati nelle retrovie.

Uno dei più influenti è senz’altro Alfredo Mantovano, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, tra i membri di Alleanza cattolica, tradizionalista di destra, contrario all’eutanasia, al ddl Zan, alle coppie genitoriali, e ovviamente alla gestazione per altri. Un giurista che, sia pure molti anni fa, aveva scritto proprio sull’aborto parole che ancora campeggiano sul sito di Alleanza Cattolica, immaginando per la 194 una «prospettiva di riforma» che di fatto mandasse all’aria la legge stessa perché «va affermato senza incertezze che l’essere umano è tale dal concepimento, e quindi da quel momento ne va garantita l’intangibilità: l’articolo 1 della legge n. 194 tutela la vita umana “fin dal suo inizio”, ma trascura di riconoscere quando si ha quell'inizio», e quindi «si deve ripensare a misure, anche penalistiche, che dissuadano dalla pratica abortiva: non ha senso proclamare l’intangibilità della vita e ometterne la tutela sotto questo profilo».

Il ritorno di Mantovano ha portato con sé il ritorno - in quanto consulente per le politiche antidroga - del neurochirurgo anti-gender Massimo Gandolfini. Il leader del Family day era in piazza a San Giovanni anche un anno fa, per «contrastare tutte quelle derive legislative, normative che feriscono, annullano la vita dal concepimento alla morte naturale: le leggi che favoriscono l'aborto, il suicidio assistito, l'eutanasia, la morte volontaria e quella medicalmente assistita». Adesso agisce da consulente di Palazzo Chigi.

A loro si aggiunge un’altra grande protagonista, almeno sin dai family day dell’era ruiniana: Eugenia Roccella, oggi ministra della Famiglia, ieri sottosegretaria al Welfare e alla Salute, l’altroieri militante radicale e volto del referendum che considerava la 194 un compromesso al ribasso. Una biografia che si può riassumere con una parziale bibliografia dei suoi scritti: il primo fu “Aborto: Facciamolo da noi”, tra gli ultimi figurano “Eluana non deve morire”, “La favola dell’aborto facile”, “Fine della maternità” (dedicato all’eterologa).

Mentre il ministro della Salute Orazio Schillaci si guarda bene anche solo dal dire «194», Roccella in questi mesi è di fatto la portavoce del governo per i temi come questo. In ultimo, intervistata dopo la presentazione del suo libro ad Ascoli Piceno, ha ricordato come la 194 non abbia «nessuna difficoltà di applicazione». Né c’è un problema di «obiezione di coscienza», dice: «perché il carico di lavoro per i medici non obiettori è un aborto a settimana, quindi non c’è sovraccarico». Ecco la sottigliezza: Roccella cita il dato medio nazionale, non le singole realtà disaggregate e, in questo caso, presenti anche nella relazione depositata in Parlamento (strutture dove si fanno 9, 10, anche 16 aborti a settimana, ad esempio).

La parte più interessante delle sue posizioni è però quella che riguarda la pillola abortiva, la Ru486, che rappresenta la maggiore novità sul punto. Commercializzata in Italia nel 2009, imbrigliata nelle linee guida emanate dal Consiglio superiore della sanità proprio negli anni in cui al ministero c’era anche Roccella (inizialmente si obbligava a tre giorni di ricovero), la Ru486 è cresciuta costantemente nel suo utilizzo: il 20 per cento nel 2018, il 32 nel 2020. Fino ad avere un balzo nel quarto trimestre di quell’anno: 42 per cento. In agosto, motivate anche dalle necessità indotte dalla pandemia, entravano in vigore le nuove linee di indirizzo relative alla pillola abortiva, che - allineando l’Italia ad altri Paesi europei - ne rendevano possibile la somministrazione fino a 9 settimane (anziché 7) e la somministrazione anche in ambulatori e consultori e non solo in ospedale.

Bene: quello che per il resto del mondo sarebbe un’evoluzione, per Roccella è il male assoluto. E non da oggi. «Si vuole arrivare all'aborto a domicilio, con la pillola Ru486, abolendo l'obiezione di coscienza e l'obbligo di legge di eseguire gli interventi in strutture pubbliche», aveva detto a ottobre, in una intervista a governo appena insediato. Le stesse parole da sottosegretaria alla Salute, nel 2010: «Siamo di fronte ad un nuovo attacco, più subdolo, che è quello della pillola abortiva. Un metodo che porta all'aborto a domicilio se non viene adottata una governance attenta».

Secondo Roccella, infatti, «si crea una situazione di fatto che scavalca la 194 e impedisce obiezione e prevenzione». In effetti, con l’aborto farmacologico, il raggio d’azione del ginecologo è ridotto alla scelta di consegnare o non consegnare la pillola (niente più «ostaggi»), per il resto le statistiche del ministero raccontano di casi comunque seguiti dall’inizio alla fine, senza alcuna complicazione nel 97 per cento dei casi.

Ma sulla questione anche Meloni la pensa come Roccella: «Non si può dire che è una conquista di civiltà abortire da sole a casa con una pasticca che produce contrazioni ed emorragie solo perché bisogna sostenere per forza la tesi che abortire è facile» ha scritto in “Io sono Giorgia”.

Insomma, mentre tutti dicono che non ci sono problemi, come in un film di Quentin Tarantino, ciascuno ha preso la mira e ha il dito sul grilletto. Chissà da dove partirà il primo colpo.

(ANSA il 22 maggio 2023) - "Spero anch'io che non accadano più cose come quelle che sono successe. Ci sono state polemiche in passato, può darsi ce ne siano in futuro e le gestiremo, ci comporteremo nel miglior modo possibile", ha detto Annalena Benini, neodirettrice del Salone del Libro. 

"Lagioia ha il mio totale sostegno. Se avrei fatto la stessa cosa? Assolutamente sì. Non temo per l'indipendenza del Salone, assolutamente no. La garanzia dell'indipendenza è la squadra di lavoro, il sostegno di tutti e credo che sia anche il mio pensiero, la mia personalità. Non mi sembra proprio che ci sia mancanza di pluralismo. C'è spazio per tutti e ce ne sarà sempre".

Lagioia, l'amico di tutti e il nemico di molti. Finisce un'epoca: il Salone è come il suo direttore ormai ex. Pluralista sì, ma solo con chi pare a lui. Luigi Mascheroni il 23 Maggio 2023 su Il Giornale.

L'unico difetto di Nicola Lagioia Lui, che ha salvato il Salone del Libro e lo ho moltiplicato in stand, appuntamenti e visitatori: ieri il solito dato record e alla fine l'edizione 2023 arriva alla cifra monstre di 215mila entrate - è che quando parla si crede un romanzo. Ultimamente è in fase guru: funghetti, il Bosco degli amichetti Scrittori nella campagna romana, psichedelia e sciamanesimo. Qualche settimana fa, durante una lectio sul rapporto tra Vita e Letteratura all'Università Cattolica di Milano, ha trascinato il pubblico al vertici della tensione fino a che, così dice Lagioia, una studentessa è scoppiata in un pianto irrefrenabile di gioia (con la minuscola).

La sua più che una carriera intellettuale è la via spirituale di un Maestro. Da sempre. Impose le mani sulla piccola casa editrice minimum fax, e ne fece il santuario del Dipartimento per l'agitazione e la propaganda del partito comunista-capitolino, poi fiancheggiatore della fazione einaudiana romana e per estensione torinese (da cui il celebre grido «Dentro i faxisti nel Salone!»). Elevò l'Einaudi col suo personalissimo vangelo, La ferocia, e vinse lo Strega. Ha toccato il Salone di Torino e lo ha guarito da tutti i suoi mali, sanandolo dal fallimento, respingendo l'attacco frontale della fiera concorrente di Milano, superando con coraggio e una buona dose di fortuna l'incubo pandemia e esorcizzando tutte le destre possibili, procedendo dal basso ad Altaforte. E infine ha benedetto santa Annalena Benini, su intercessione di Alain Elkann, e lei è stata eletta direttrice. E l'intellighenzia tutta elevò il suo Inno. A Lagioia. Poi però, ma è solo una scivolata, dopo averci riconsegnato il Salone sette volte migliore e più grande di quando se l'è preso, l'altro giorno - travolto dal caso Roccella e scacciato dai golpisti rossi d'Ultima generazione - è scappato come il peggiore degli antieroi.

Ma a suo modo, per essere un eroe, Nicola Lagioia è un eroe. Un po' per come porta senza imbarazzo quelle camicie finto hawaiane, t-shirt Pink Communist, occhiale d'avanguardia Jacques Durand sempre accanto alla moglie-musa, lui un po' il Brian Ferry di Capurso, lei Jane Birkin versione cubista. Un po' perché Lui fa tutto, o lo ha fatto, con successo: il ghostwriter, l'autore, l'editor, il direttore editoriale, il romanziere, il saggista, il giornalista, il conduttore radiofonico, il presentatore, il direttorissimo. Guru e trino, è la grande superstar del piccolo mondo dei lettori, che per sette anni ha radunato, applaudendo e leggendo, al Salone del libro di Torino. Lui è quello che tutti gli intellettuali vorrebbero essere. Famoso, ricco («Con tutti i soldi che guadagna») e potentissimo, in particolare sull'asse Repubblica-Einaudi-RadioTre-Esquilino. Ed è persino di sinistra.

A sinistra dei dem-centristi e un po' a destra di Christian Raimo, Nicola Lagioia è partito da Bari, periferia incancrenita di via Bitritto, concerti al Pellicano e l'ambizione di suonare la batteria alle feste di paese, laurea in Legge e poi via subito dalle Puglie prima che diventassero il posto più cool del Sud Italia. Lui voleva Roma, e soprattutto scrivere. Parte da Castelvecchi alla fine degli anni '90, lavorando nella casa editrice e pubblicando il suo primo libro: un romanzo a più mani che esce sotto il nome collettivo di «Aldo Dieci», un po' meno di un flop, un po' più dell'amico cannibale Antonio Centanin. Titolo: Route 66. Da qui parte la sua personalissima strada della gloria, passando per minimum fax, dove dirige la collana di narrativa italiana «nichel», primo nucleo editoriale di quella famiglia allargata, un po' setta un po' comune - Pascale, Pacifico, Valeria Parrella, Laura Pugno e i fratelli Grimm del Terzo Municipio: Christian&Veronica Raimo - che poi tappa dopo tappa, dall'Einaudi al Lingotto, e dopo anni di riviste, vecchi clan e Nuovi Argomenti, festival, premi, Saloni, riviste, radio e programmi condivisi, si riaggregherà nel falansterio queer di Michela Murgia&Co., una bolla autoreferenziale dove Paola Belloni, la compagna di Elly Schlein, si fa tatuare sul braccio il logo di Morgana, il podcast-libro della Murgia e di Chiara Tagliaferri, la moglie di Lagioia, in una koinè di Potere, Amichettismo e Ostentazione. E poi tutti a cena ai Parioli a casa di Claudio Baglioni. L'intellettualità italiana come un allegro dopo-festival.

È vero, il Salone del Libro non è un festival ma una fiera. E lui l'ha fatta benissimo. Determinato, carrierista che non fa niente per caso, grande capacità comunicativa (sa sfruttare tutte le sue conoscenze e l'arma della propaganda) e straordinaria abilità nel puntare a un obiettivo preciso senza farlo trasparire, Nicola Lagioia aveva tutte le caratteristiche del Direttore Perfetto. Pedigree politico purissimo, un cerchio magico romano di consulenti fidati e la predisposizione a muoversi senza refusi fra le righe della politica. Chiamato alla direzione del Salone per l'edizione del 2017 dall'allora Presidente della Fondazione per il Libro, Massimo Bray - sponsorizzato dal ministro della Cultura Dario Franceschini e dal governatore Sergio Chiamparino (quando vigeva l'infallibile metodo che prende il suo nome: «Io pago, io comando, io decido»), Lagioia è stato capace di restare ai vertici del Salone con chiunque governasse il Comune di Torino e la Regione Piemonte: il Pd, i CinqueStelle, Forza Italia e l'avrebbe potuto fare anche con Giorgia Meloni, se avesse voluto. Una cosa che in una città come Torino, peraltro, può riuscire solo a un predestinato o a un funambolo.

Amico di tutti, critici e critici (persino di Melissa P.), amato da tutti, editori e lettrici, iroso per istinto ma capace di dominarsi (quando l'ex amico Massimiliano Parente scrisse sul Giornale un memorabile «Inno a Lagioia», la sera stessa Nicola andò sotto casa sua con una mazza da baseball, ma poi desistette), se c'è una virtù in cui eccelle, bisogna dargli merito, è quella di sapere smussare i contrasti. Da cui il suo motto: «Mai attaccare di fronte, sempre aggirare il nemico». E anche l'amico se necessario (per colpirlo alle spalle, aggiungono i maligni). Ed ecco il soprannome di Ciriaco De Mita del Salone.

Camaleontico, fluido, anima democristiana - Realpolitik e tartine - è stato l'uomo per tutte le stagioni e di tutti i Saloni: nascostamente più faziano di un Fabio Fazio, apparentemente meno fazioso dell'ala movimentista dei suoi pretoriani à la Raimo. E ieri, chiuso il suo settennato dei record fatto di qualche inevitabile polemica e centinaia di migliaia di biglietti venduti, San Nicola di Bari, portato in processione da Roma a Torino, andata senza più ritorni, si è pure tolto la soddisfazione di lasciare dietro di sé una trionfale dichiarazione lastricata di pluralismo e indipendenza. In letteratura si dice autofiction.

Ora, visti i successi, sarà dura per chi gli succede. Bisognerà fare - almeno - come lui. Intanto Annalena Benini, che negli anni d'oro del Foglio guidò con Giuliano Ferrara la battaglia in difesa dell'embrione, ieri ha detto che sul caso Roccella avrebbe fatto la stessa cosa di Lagioia. Chissà se è vero.

E per quanto riguarda Nicola - cinquant'anni un mese fa, gattaro, affamato di visibilità come un lupo - è già pronto a dedicarsi a nuove sfide, editoriali e magari politiche. Qualsiasi cosa sceglierà, Auguri. Come il messaggio (un po' imbarazzante) che gli ha dedicato il suo staff: «Son 50 candeline di letture sopraffine, per chi anche nel cognome porta gioia in ogni dove! Quindi oggi, con calore: tanti auguri, direttore!».

Anche da parte nostra.

Dagoreport il 23 maggio 2023.

Il prode Nicola Lagioia, direttore uscente del Salone del Libro di Torino più noto forse per le sue galanterie nei confronti della collega Melissa Panariello («Con lei c’è una sola cosa da fare. La prendi. La metti a novanta appoggiata a un tavolo. Poi prendi Lolita di Nabokov. Strappi le pagine. Gliele infili una per una nel culo. Dopo un po’, per osmosi, qualcosa assimila per forza»

ha così spiegato ad Agorà, Rai3, il fatto di non avere saputo o voluto garantire diritto di parola alla ministra Eugenia Roccella ospite della kermesse letteraria: le contestatrici di Roccella “non volevano il dialogo perché per loro è antiabortista e con una firma può rovinare le vite. Per loro” ha detto delle imbavagliatrici “la ministra ha un potere enorme sui loro corpi e può legiferare. Come si fa a trasformare il conflitto in un dialogo?”.

Tolto il fatto che non sono i ministri a legiferare ma il Parlamento (dettagli, per carità); tolto anche che come racconta nel suo libro “Una famiglia radicale” Roccella si fece 15 giorni di sciopero della fame in sostegno all’approvazione della legge 194 e che insieme a Giorgia Meloni ha più volte ribadito che la legge non si tocca; è da segnalare l’amorosa vicinanza a Nicola Lagioia della sua successora Annalena Benini: "Lagioia ha il mio totale sostegno. Se avrei fatto la stessa cosa? Assolutamente sì. Non temo per l'indipendenza del Salone, assolutamente no”. 

Quindi anche Benini non avrebbe impedito l’imbavagliamento di Roccella “in quanto antiabortista”? Si tratta della stessa Annalena Benini che nel 2008 fu convintissima sostenitrice della lista “Aborto? No, grazie”, pazza invenzione politica di Giuliano Ferrara che chiedeva una “moratoria sull’aborto”? E che annunciò pubblicamente che avrebbe votato per “Aborto? No, grazie” alla Camera?

Quindi l’antiabortista chi è? Roccella, che volle e continua fortemente a volere la legge 194, o la neodirettora del Salone del Libro Benini che intendeva abolirla? Non Una di Meno andrà a imbavagliare pure lei? Pop corn a tonnellate!

Giampiero Mughini per Dagospia il 23 maggio 2023.

Caro Dago, il fatto è che pur essendo io uno che di mestiere scrive libri (ne ho scritti una decina negli ultimi dieci anni) detesto le presentazioni di libri con annessi Saloni del libro e tutto. E difatti pur avendo molti amici che scrivono libri, e il più delle volte dei gran bei libri, non ci vado mai alle loro presentazioni: Tutte le volte che posso, quei libri li scelgo, li compro, li leggo. 

Oltretutto le presentazioni non servono a nulla per chi come me non ha un pubblico di lettori acquisito e fedele, com'è soprattutto degli scrittori che si fanno sacerdoti del bene, quelli che spasimano nel difendere una Causa -  i diritti delle donne, la lotta alla mafia - , quelli che  si vantano apertamente di essere "di sinistra" o "di destra", due contrapposte e similari panzane. Quanto a me i miei quindici lettori li raggiungo di volta in volta a uno a uno, e va bene così. 

Nei sette anni che è durato Nicola Lagioia alla testa del Salone del libro di Torino, mai una volta sono stato invitato e di questo lo ringrazio perché sarei andato di malavoglia e solo per far piacere al mio editore. L'ultima volta che sono andato al Salone di Torino è stato nel 2011, e lo feci per far piacere alla mia bravissima editrice, Elisabetta Sgarbi, lei che  aveva appena pubblicato il mio In una città atta agli eroi e ai suicidi, un libro che nessun editore fino a quel momento aveva voluto. "Ma perché vuoi fare un libro su Trieste?", mi chiese sbigottito uno di loro.

Quella volta a Torino del 2011 avevano messo me e un altro scrittore triestino su un palchetto che era separato dal (ridottissimo) pubblico dal corridoio lungo il quale si muoveva il pubblico che andava girovagando per il Salone. Noi parlavamo mentre vedevamo scorrere la gente innanzi ai nostri occhi. Non mi sono alzato e me ne sono andato solo per rispetto ad Elisabetta. Ricordo che vendetti un paio di copie e non una di più. Per vendere le quali avevo fatto un viaggio andata e ritorno da Roma a Torino, una giornata e mezza persa. 

E difatti ancor oggi vado a presentare un mio libro solo se mi pagano, altrimenti non ne vale la pena. Ai miei quindici lettori ci arrivo per altre vie e ammesso che oggi ci siano vie per arrivare ai lettori a parte Tik Tok.

Quindici anni fa presentai un libro alla trasmissione di Fazio. All'indomani e giorni seguenti se ne vendettero 2000 copie. Un paio d'anni fa Fabio mi ha invitato ancora. All'indomani della mia chiacchiera su Rai3 di quel libro se ne sono vendute 200 copie, forse qualcuna in più. 

I libri oggi ci sono e non ci sono, purtroppo è così. Ripeto, ringrazio ancora Lagioia di non avermi mai scocciato in questi sette anni. Non l'ho mai incontrato, mi piacerebbe trovarmelo di fronte da quanto ho trovato penosa la sua difesa a mezza voce del ministro Eugenia Roccella, che era stata aggredita da un pugno di invasate. Perché c'è di questo di sacro e inviolabile, che i libri, tutti i libri, vanno accolti e discussi e ragionati. Che tra tutte le porcherie che esistono al mondo, quella di dare addosso a un libro e al suo autore è forse la più schifosa. La più ripugnante. Fossi stato presente a quel fatale scontro con la Roccella, sarebbe finita a cazzotti.

 Estratto dell’articolo di Flavia Amabile per lastampa.it il 23 maggio 2023.  

È il fascismo degli antifascisti. […] anche la ministra per le Pari Opportunità e la Famiglia Eugenia Roccella prende in prestito la tesi di Pier Paolo Pasolini per descrivere la contestazione di due giorni fa al Salone del Libro nello stand della Regione Piemonte dove avrebbe dovuto presentare il suo ultimo libro.

È un’accusa pesante che i contestatori considerano «ridicola». Per “Non Una di Meno - Torino” accetta di parlare Lara, una delle attiviste che hanno partecipato alla contestazione di due giorni fa. «Fascisti, noi? Crediamo che sia la ministra che l'assessore abbiano già tantissimi, troppi, palchi per accusarci di omicidio perché abortiamo o per istigare all'odio verso di noi in quanto persone Lgbtqia+. Riteniamo che abbiano a disposizione strumenti legislativi, possibilità di finanziare economicamente le loro politiche, potere mediatico. Infatti sui giornali è stata pubblicata la sua versione dei fatti con lunghe interviste. Averla fatta rimanere in silenzio per qualche ora è nulla rispetto alla violenza che viviamo tutti i giorni a causa delle loro politiche, che non ci permettono neppure di curarci o di accedere a diritti fondamentali».

«Fascismo? Stavamo difendendo una posizione politica», risponde Annalisa Gratteri di Extinction Rebellion, l’altro gruppo che ha partecipato alla contestazione. «[…] Non stavamo contestando una scrittrice ma una ministra che sta rendendo più difficile la vita a persone che non si conformano all’unica visione di famiglia che secondo il governo esiste. In democrazia questo tipo di contestazioni sono giustificate anche per la disparità di potere di comunicare fra noi e lei. Infatti il nostro parere non è stato pubblicato sulla gran parte dei giornali mentre la ministra ha avuto grande spazio per raccontare la sua versione. Noi, sempre attraverso la stampa, abbiamo saputo di essere stati denunciati ».

[…] «Vogliamo i fatti (e soprattutto i soldi) - risponde Lara di Nudm- Torino - perché delle parole e del dialogo istituzionale non ce ne facciamo più nulla. Per noi democrazia non è affatto far parlare chiunque e dare spazio anche ad opinioni lesive dei diritti, ma, anzi, è riequilibrare l'abuso di potere che ogni giorno viviamo sulle nostre vite». […]

Ecco chi ha difeso Roccella e perché i radical chic dovrebbero prenderli a esempio. Lorenzo Grossi il 23 Maggio 2023 su Il Giornale.

Politici, scrittori, giornalisti, intellettuali: sono in tanti gli appartenenti a un mondo che (sicuramente) non si può definire di destra a criticare ferocemente le modalità delle proteste al Salone del Libro 

C'è forse solo un minuscolo elemento positivo da potere trarre sugli sviluppi dell'atteggiamento illiberale e antidemocratico dei manifestanti contro Eugenia Maira Roccella a Torino: è la netta presa di posizione di alcuni rappresentanti politici o della società civile - per niente di centrodestra - che hanno chiaramente espresso durissimi biasimi nei confronti di coloro che hanno impedito fisicamente al ministro della Famiglia di potere presentare il libro proprio nel Salone di Torino dove era stata invitata apposta.

Il Salone dell'odio e dell'intolleranza

I vari Saviano, Murgia, Lagioia, Schlein e Appendino avrebbero molto da imparare da persone che, se non proprio tutti di sinistra, certo non sono per nulla afferenti all'area politica dell'attuale governo. Tra sindaci, senatori, ex deputati, giornalisti, scrittori e intellettuali, il risultato che ne consegue è una vera e propria lectio magistralis impartita a tutti quei radical-chic in malafede o con le fette di salame sugli occhi. Fa quindi piacere constatare come l'onestà intellettuale non sia stata smarrita tra chi, anche recentissimamente, non ha mancato di lesinare delle (stra-legittime) critiche all'operato dell'esecutivo presieduto da Giorgia Meloni e alle politiche adottate dal ministro Roccella.

Il discorso perfetto del sindaco Lo Russo

Il primo a intervenire severamente contro l'azione indegna degli attivisti è stato il sindaco di Torino, Stefano Lo Russo, eletto un anno e mezzo fa tra le fila del Partito Democratico. Il suo giudizio, espresso 24 ore dopo l'accaduto, dovrebbe quasi essere scolpito all'esterno del Lingotto in occasione delle prossime edizioni della Fiera. "Il Salone del Libro è un luogo bipartisan dove trovano spazio da sempre tutte le opinioni, anche quando queste opinioni possono risultare scomode. È questa l'essenza stessa del Salone, un luogo in cui si produce cultura e si confrontano idee. La contestazione, quando avviene in modo pacifico, è sempre legittima e chi fa politica e soprattutto chi ha ruoli istituzionali è obbligato, in una Repubblica democratica in cui esiste la libertà di pensiero e di parola, a tollerare la contestazione -. Ma, aveva poi commentato Lo Russo - quando questa contestazione travalica e rende invece impossibile esprimere il proprio pensiero si sconfina in una dimensione che è antitetica al concetto stesso di libertà, impedendo quello che è il valore stesso del dialogo e del confronto di idee".

Renzi e Violante contro le manifestazioni a Roccella

Matteo Renzi è stato altrettanto chiaro sul caso Salone e lo esprime apertamente in un editoriale del suo Riformista. "Alla ministra della Famiglia, Eugenia Roccella, è stato impedito di parlare. È stato impedito il confronto al grido di "via i fascisti dal salone'". "Ma chi è un fascista oggi? - si chiede il numero uno di Italia Viva -. Uno che prova a dire quello che pensa o uno che nega agli altri il diritto di parola? Chi ha impedito a Eugenia Roccella di parlare non ha manifestato un diritto: ha negato il diritto democratico di un'altra persona".

“Zittire un ministro è da fascisti”. Renzi smonta i deliri di Saviano e Murgia

Sempre restando sulla politica, anche l'ex presidente della Camera Luciano Violante (dell'allora Pds) non accetta concessioni di alibi a quei ragazzi. Loro "non hanno spostato niente, nessuno ha saputo che cosa chiedevano. È grave che, dopo aver letto un documento, si siano rifiutati di dialogare con la ministra che invece aveva chiesto un civile confronto. Questo rifiuto del dialogo è inaccettabile". Secondo Violante, i manifestanti "non si sono preoccupati di espandere i loro punti di vista, ma si sono inchiodati nella propria auto-referenzialità perdendo l'occasione di fare politica, di persuadere, di spostare forze".

"Grave...". La lezione di Violante alla sinistra

Un po' a sorpresa (ma nemmeno troppo) c'è una Emma Bonino che respinge ogni giustificazione di comodo. Rispetto alle contestazioni a Roccella, commenta: "Questo episodio mi ha fatto rabbia e molta pena. La mia cultura liberale non violenta e radicale mi avrebbe spinta a comportarmi in modo diverso. Mai e poi mai avremmo impedito a qualcuno di parlare. Condivido la frustrazione e la rabbia di chi ha portato avanti la contestazione ma questa reazione ha reso la ministra un'eroina e le ha permesso di parlare a reti unificate a milioni di ascoltatori".

Gli intellettuali (non di destra) senza l'anello al naso

Poi, a essere in buona fede, ci sono anche alcuni scrittori che non risultano essersi iscritti negli ultimi mesi a qualche sezione di Fratelli d'Italia. Sul Corriere della Sera, Aldo Cazzullo risponde così a una lettera di una lettrice che gli chiedeva se avessero fatto bene o meno a non fare presentare il libro alla Roccella: "Non occorre esserci stati per sapere che al Salone del Libro si presentano i libri e se ne discute. Impedire una presentazione e una discussione è un fatto di inciviltà, che a mio avviso non può essere difeso. Servire la propria causa in questa maniera significa renderle un pessimo servizio".

Salone del libro, caso Roccella: gli aggressori pretendono pure le scuse dagli aggrediti

Non meno ferreo si dimostra Antonio Padellaro sul Fatto Quotidiano. "A Torino, in una sala gremita di persone, è stato materialmente impedito di ascoltare quanto la ministra della Famiglia aveva da dire. E, anche, possibilmente, di contestare in maniera civile e non con l'uso prepotente delle invettive la visione reazionaria dell'aborto e della maternità surrogata". Un ragionamento che porta alla stoccata finale contro la Schlein, dalla quale "era lecito attendersi almeno una netta presa di distanza dagli utili idioti che fanno solo male alla sinistra. Che non c'è stata (ma forse pretendiamo troppo)".

Giampiero Mughini lancia una vera e propria invettiva nei confronti delle responsabilità degli organizzatori del Salone, in particolar modo del direttore uscente Nicola Lagioia: "Ho trovato penosa la sua difesa a mezza voce del ministro Eugenia Roccella, che era stata aggredita da un pugno di invasate - scrive in una lettera a Dagospia -. Perché c'è di questo di sacro e inviolabile, che i libri, tutti i libri, vanno accolti e discussi e ragionati. Che tra tutte le porcherie che esistono al mondo, quella di dare addosso a un libro e al suo autore è forse la più schifosa. La più ripugnante".

"Contestazioni a Roccella? Risposta a provocazioni". Delirio totale di Saviano

Infine, merita una più che meritata menzione la merita la lucidissima riflessione di Monica Lanfranco, giornalista e formatrice sui temi della differenza di genere e sul conflitto, che collabora con MicroMega (la storica rivista che ha come sottotitolo "Le ragioni della sinistra"). "La censura, in particolare, su un libro, ha echi pericolosi legati a doppio filo alla cultura totalitaria - scrive Lanfranco -. Se non sei d'accordo prima leggi il testo, ti prepari, poi intervieni anche duramente, ma a ragion veduta. A Torino con la contestazione a Roccella questo non è successo. E nel caotico mettere insieme critiche ai dirigenti della regione Piemonte, questione climatica e proclami in difesa della legge 194 (che la ministra sostiene e che difende) la contestazione ha mostrato la sua inefficacia. Dissentire è una parola importante nella pratica di opposizione: nella sua radice c'è l'ascolto, il sentire appunto. Come si può dissentire, onorando il senso dell'agire conflittuale costruttivo, se nemmeno si conosce e si ascolta l'avversaria?".

 E adesso pretendono pure le scuse da chi è stato aggredito. Lagioia torna ad attaccare: "Questo governo può avere una virata autoritaria". Sulla stessa linea pure Schlein, Saviano e Appendino. Siamo al ribaltamento della realtà. Andrea Indini il 22 Maggio 2023 su Il Giornale.

Badate bene: non troverete mai uno di loro che se ne esce allo scoperto dicendo che no, il ministro Eugenia Roccella non ha diritto di parola. E nemmeno che gli esagitati di Extinction Rebellion e Non una di meno hanno fatto bene a far saltare l'incontro perché al Salone del libro di Torino certe persone non dovrebbero entrare manco per la porta di servizio. Però, badate bene, il senso dei distinguo, delle puntualizzazioni, delle accuse è esattamente lo stesso. Nei vari "se la sono andata a cercare", "hanno un problema col dissenso" e "la conflittualità è necessaria" si nascondono (neanche troppo bene) l'antipatia, la repulsione e finanche l'odio per quella destra che dalla scorso 25 settembre devono sopportare al governo e che in questi giorni si sono trovati nei loro salotti. L'hanno vissuta come una inaccettabile invasione di campo. Tanto che glielo hanno fatto capire in tutti i modi che lì non erano bene accetti.

Partiamo da Nicola Lagioia, direttore (uscente) della kermesse piemontese. Dopo aver accuratamente evitato di prendere le difese del ministro sul palco, ha addirittura detto che le contestazioni, per una divisiva come la Roccella, "vanno messe in conto". Non solo. Dopo aver detto di essere stato "quasi cacciato dal palco", cosa peraltro non vera e smentita da diversi filmati, se l'è presa con la deputata di Fratelli d'Italia Augusta Montaruli. "È stata un'aggressione molto violenta", ha detto ieri in un'intervista alla Stampa. E poi oggi, a rincarar la dose, ai microfoni di Agorà: "Questo governo può avere una virata autoritaria". Può avere, cioè: non ce l'ha ma è sulla strada buona. E, infatti, poi specifica: "Il mio metodo è quello del dialogo, non del manganello". Che, sotto sotto, richiama il concetto del Roberto Saviano pre scontro, quando al Domani ha detto che la Meloni parla "la lingua del picchiatore", o l'invettiva di Selvaggia Lucarelli contro i "destroidi camuffati" a cui su Twitter ha spiegato che "la conflittualità è necessaria".

Ma rimaniamo su Saviano. Che ai distinguo preferisce sempre le testate alla Zinédine Zidane. Per lui la colpa è tutta dei ministri e dei politici che "sono venuti al Salone a provocare". Dopo tutto cos'altro avremmo potuto aspettarci da uno che esprime il proprio dissenso politico insultando pubblicamente gli avversari. Purtroppo, però, non è l'unico a vederla in questo modo. Luca Sofri, direttore del Post, se ne è uscito così su Twitter: "Roccella poteva benissimo parlare. Ha preferito il vittimismo, l’arma di questi tempi, ma nessuno le ha 'impedito' niente". Per non parlare di Ezio Mauro che oggi su Repubblica ha tirato in ballo il "sovranismo culturale". E, poi, ancora: Chiara Appendino, ex sindaco pentastellato di Torino, anziché stigmatizzare quanto accaduto, è andata a prendersela con la Montaruli. Ha parlato di "toni e frasi irricevibili" e "abisso di ignoranza".

Ma la numero uno in assoluto in questo gioco al massacro è senza alcun dubbio Elly Schlein che a caldo ha subito accusato il governo di avere problemi con il dissenso. "Noi siamo per il confronto duro", ha detto. E poi: "È surreale che ministri e deputati si siano messi ad attaccare Lagioia. Non so - ha, quindi, concluso - come si chiama la forma di un governo che attacca le opposizioni e gli intellettuali ma quantomeno mi sembra autoritaria". E arriviamo così al ribaltamento totale della realtà. Con gli aggrediti che finiscono sul banco degli imputati, quasi a dover chiedere scusa ai propri aggressori.

Annamaria Bernardini de Pace: "Roccella zittita, sono loro i veri squadristi". Claudia Osmetti su Libero Quotidiano il 22 maggio 2023

«Io una cosa del genere non l’avevo mai vista, ma neanche Pol Pot». Al Salone del Libro di Torino, ieri pomeriggio, il ministro per la Famiglia Eugenia Roccella doveva essere presentata dall’avvocato Annamaria Bernardini de Pace. Doveva, perché il suo intervento è finito nel modo che sappiamo: è finito e basta. Non è riuscita, Roccella, a dire manco mezza parola. «Quella di “Non una di meno” e di “Extinction Rebellion” è stata una manifestazione volgare e arrogante», dice Bernardini de Pace, «nonché aggressiva. Alla faccia della democrazia, si è trattato di una violenza enorme. Di uno stupro verbale e mentale». 

Dottoressa, addirittura?

«Guardi, io sono una persona pluralista e non mi scandalizzo facilmente. Ma come altro si può definire chi impedisce a qualcuno di parlare e gli rende impossibile anche solo aprir bocca? Lo sa come li ho apostrofati, a un certo punto, quei ragazzi?».

Come?

«Ho detto che erano dei fascisti. Perché è quello che fa il fascismo, mette il bavaglio a chi non è d’accordo».

E loro?

«Per una frazione di secondo sono rimasti in silenzio, poi hanno ripreso a inveire ancora di più. Si sono arrabbiati. Chi urlava per il clima, chi per l’aborto. Non si capiva niente. Però il momento più brutto è stato un altro». 

Quale?

«Quando il ministro ha invitato una di questi attivisti a salire sul palco. Lei è venuta, ha letto un comunicato di due paginette scritte, se posso permettermi, anche male e poi se ne è andata». 

Così, senza un confronto?

«Io mi son detta: adesso si apre un dibattito su posizioni differenti, una discussione civile. Macché. Ha girato i tacchi e se n’è andata». 

Della serie “io con te neanche ci parlo”?

«Della serie maleducazione. Per fortuna che il ministro è di tutt’altra pasta». 

Perché? Come si è comportata?

«È stata squisita. Premesso che io non faccio parte di Fratelli d’Italia, io sono iscritta al Partito radicale: Roccella è stata straordinaria. Tutto il contrario di quei ragazzi. Ha chiesto alle autorità che non li portassero via, per esempio. E quando ha realizzato che per recuperare l’intervento avremmo dovuto scalzare chi veniva dopo di noi ha rifiutato».

Se ne è andata da Torino senza presentare il suo libro, quindi?

«Sì, perché altrimenti, in un certo senso, avremmo fatto noi ad altri quello che invece abbiamo subito. La correttezza è una cosa seria».

Che libro dovevate presentare?

«Una famiglia radicale, edito da Rubbettino. Tra l’altro racconta una storia che, se questi ragazzi l’avessero ascoltata, avrebbero imparato qualcosa».

La butto là, visto il riferimento radicale. La lezione di Pannella, quella del dialogo e del “con-vincere”e non solo del vincere, a proposito di violenza?

«Appunto. Invece abbiamo assistito a una brutta manifestazione di arroganza. Il ministro non se lo meritava. In un contesto del genere, poi».

Il Salone del Libro, intende?

«Certo, uno spazio di cultura. E non c’è niente che metta tutti sullo stesso piano come la cultura».

Occupy Pd’ ha invaso il Nazareno. Il dissenso alla ministra Roccella è la cultura gruppettara di Schlein, Pd tra “facciamo casino” e la parabola Tsipras. Phil su Il Riformista il 22 Maggio 2023 

Laura Boldrini, da Presidente della Camera e successivamente da deputata del Pd, è stata contestata sonoramente tantissime volte. Ed il rituale preveda un minuto dopo, il mail bombing di parlamentari dem indignati, che sulle agenzie si dicevano certi della matrice fascista delle aggressioni verso la collega. In quel caso, il dissenso non era una funzione essenziale della democrazia ma per l’appunto becero squadrismo, voglia di chiudere la bocca.

Cambiamo scenario: Salone del libro a Torino, la ministra delle Pari opportunità Eugenia Roccella viene invitata a presentare il suo ultimo libro, ‘una famiglia radicale’, tenero ricordo di suo padre, Franco, che fu un combattivo fondatore del Partito Radicale ed in seguito deputato socialista. La ministra, come è ampiamente noto, viene contestata da una trentina di manifestanti che di fatto le impediscono di parlare.

Commenta a caldo Elly Schlein: “In una democrazia si deve mettere in conto che ci sia il dissenso. È surreale il problema che ha questo governo con ogni forma di dissenso”. Sulla stessa falsariga della segretaria, decine di dichiarazioni dello stesso tenore di esponenti del Pd. In pratica nessuna condanna dei contestatori, che paiono aver solo incarnato il legittimo diritto al dissenso, impedendo alla ministra di parlare.

Un giudizio se non altro estremista che però delinea la fisionomia di un partito. Che da Torino, così come con gli imbrattatori di Ultima Generazione, manda un messaggio fondamentale ai suoi sostenitori: ‘Facciamo casino’. L’equivalente dell’Aventino scelto nelle camere parlamentari. Ovvero facciamo casino nelle piazze, ed usciamo dalle Aule in Parlamento.

Calato nella vita reale del Paese, è esattamente il messaggio opposto di quello che arriva dalla giornata in Romagna del governatore Stefano Bonaccini e della presidente Giorgia Meloni. E a voler essere certosini, opposto anche alla ricetta di sempre del Pci, che organizzava le piazze e collaborava in Parlamento. Che Pd ha in mente Elly Schlein? “Prevale una cultura gruppettara’, hanno detto nelle settimane scorso all’unisono alcuni fuoriusciti del Pd.

Dal Piemonte sembrerebbe giungere una conferma. È come se ‘Occupy Pd’, nel frattempo, avesse invaso il Nazareno. Ironia del destino è che i fatti di Torino anticipano solo di qualche ora la parabola greca di Alexīs Tsipras, già manifesto vivente della sinistra anche a casa nostra, praticamente doppiato nelle elezioni di casa sua.

Il Pd che fa casino di Elly ha questo obiettivo? Phil 

Lo psicanalista al Salone del Libro. Salone del Libro, Recalcati: “Sì alla lotta per la difesa dei diritti ma attenzione al fascismo di sinistra”. Redazione su Il Riformista il 22 Maggio 2023 

Massimo Recalcati, psicanalista, 63 anni, milanese, è stato intervistato allo spazio La Stampa dal direttore Massimo Giannini, entro gli eventi del Salone del Libro.

Lo psicoanalista – partendo dal suo ultimo volume – “A pugni chiusi” (Feltrinelli), cui sottotitolo è “Psicoanalisi del mondo contemporaneo, dal Covid alla guerra in Ucraina, dalle disuguaglianze alla politica italiana” – affronta i temi di più stringente attualità.

Recalcati si apre, raccontando che, nel suo lavoro, non affronta solo le questioni personali dei suoi pazienti, ma anche quel che ci riguarda tutti: la crisi economica, il terrorismo islamico, il Covid, conflitti tra cui quello in corso e l’incertezza del destino del nostro Paese.

E, nel contesto dei fatti d’attualità, Recalcati dà il suo parere sulle critiche sollevate da Roberto Saviano verso le istituzioni, accusate di cercare un nuovo sistema autoritario, in una fase populista italiana potrebbe portare a forme più o meno velate di autoritarismo o autarchia. “Credo  – dice Recalcati – che il populismo con Trump, la Brexit e l’Europa orientale ci abbia già mostrato una sua componente autoritaria che in Italia si è vista di meno, perché i Cinque stelle hanno portato una serie di istanze legittime che la sinistra non rappresentava più. Se mai abbiamo avuto il berlusconismo che però, più che tendenze autoritarie, rappresentava il neolibertinismo del nostro tempo”.

Del salvinismo, invece, dice Recalcati: “è stato un fenomeno differente, anche se pur sempre anti-istituzionale, cioè senza il pensiero dello Stato. Meloni al contrario ce l’ha e questa è una delle ragioni della sua vittoria elettorale”.

Secondo Recalcati, non è in atto un progetto restrizioni di stampo autoritario: “allo stesso modo durante la pandemia mi lasciavano dubbioso le posizioni di alcuni intellettuali che parlavano di dittatura sanitaria. Per un senso di responsabilità civile dunque non enfatizzerei questo rischio democratico“.

“Anche perché  – prosegue Recalcati – essere democratici è una fatica, uno sforzo, pure per me che sono di sinistra. Il filosofo Deleuze diceva che per essere veramente antifascista bisogna occuparsi del fascista che ognuno porta con sé. In questo senso, la democrazia comporta il lutto del pensiero unico e la faticosa accettazione del pluralismo. Garantire il pluralismo è stato

un problema storico dell`antifascismo”

Recalcati torna agli anni della sua gioventù: “All’epoca solo Pannella o Pasolini ebbero il coraggio intellettuale dell’anticonformismo. In quegli anni chi diceva qualcosa di diverso veniva considerato un infame. Venendo all’attualità penso per esempio che le ragazze che a Roma hanno strappato i manifesti elettorali di Meloni abbiano compiuto un atto fascista”.

Della contrapposizione tra fascisti e antifascisti, Recalcati dice “Quello del manifesto è stato un atto intollerante e non educa alla democrazia, che è uno sforzo etico. Certo non mi piace quel manifesto e sono vicino a quelle ragazze, ma pure io a Milano ho sopportato la pubblicità di Gallera, che non ha avuto il senso del ridicolo di non ripresentarsi”.

“Il diritto alla contestazione – conclude Recalcati – è uno dei fondamenti della democrazia”, che aggiunge “purtroppo vedo ancora il fascismo nel cuore di tanti democratici“.

Le opinioni degli altri. Zittire un Ministro è da fascisti non è democrazia: il caso Roccella e i cattivi maestri. Matteo Renzi su Il Riformista il 23 Maggio 2023. 

Per me la cultura è la vera carta d’identità del Paese. Quando sento parlamentari dire che “con la cultura non si mangia” avrei voglia di regalare loro un weekend nella mia Firenze. Poi ci rifletto e dico che non ne vale la pena: se non hanno ancora capito che l’Italia deve smettere di considerare i beni culturali come argomento “sfigato”, non lo capiranno mai. Occorre piuttosto investire sulla nuova generazione e porre la cultura al centro della sfida educativa.

Mi hanno preso in giro quando ho proposto di investire in cultura dopo un attentato. Era il Novembre 2015 e gli estremisti islamici avevano preso di mira il Teatro Bataclan dove era in corso un concerto, uccidendo oltre cento persone e seminando il terrore. Pensai: hanno voluto colpire un concerto? Rispondiamo investendo in cultura. Ironizzavano: usiamo i carri armati, non i libri, contro questi assassini. E ovviamente servono anche le armi, certo. Ma usai l’esempio dei fiorentini del Rinascimento che per pagare la porta del Paradiso del Ghiberti investirono l’equivalente del budget annuale della difesa della città.

Bene, dissi, anche noi per ogni euro investito in sicurezza investiamo un euro in cultura. I fiorentini lo facevano col Ghiberti. Qualcuno mi prese per matto. Abbiamo i terroristi alle porte e tu pensi alle biblioteche. Sì. Anche alle biblioteche. Perché se devi difenderti, è la tua cultura che devi mettere in salvo. La tua identità, i tuoi valori. Non è un caso se le culture autoritarie, nazismo in testa, bruciano i libri: è una forma brutale di cancel culture, un rogo e addio.

Il Salone del Libro di Torino è una colonna delle istituzioni di questo Paese. Lo abbiamo seguito, introducendolo con un pezzo di Elisabetta Sgarbi. Ne abbiamo apprezzato il messaggio universale: la cultura salva il mondo. Poi però è arrivato il fattaccio. Alla Ministra della Famiglia, Eugenia Roccella, è stato impedito di parlare. Femminista storica, radicale, oggi impegnata in una battaglia pro life su posizioni conservatrici, a Roccella è stato impedito il confronto al grido di “via i fascisti dal salone”.

Ma chi è un fascista, oggi? Uno che prova a dire quello che pensa o uno che nega agli altri il diritto di parola? Pasolini – che era Pasolini e che ci aveva visto lungo – titolò un suo libro proprio così: “Il fascismo degli antifascisti”. Chi ha impedito a Eugenia Roccella di parlare non ha manifestato un diritto democratico: ha negato il diritto democratico di un’altra persona. Mi sembra così semplice. Tu hai tutta la libertà di dire la tua o di criticare gli altri. Ma non hai nessun diritto di zittire l’altro con la violenza verbale. E non c’entra nulla la vergognosa esibizione di Augusta Montaruli, parlamentare di Fratelli d’Italia che ha sbraitato contro il direttore del Salone, Nicola Lagioia, attribuendogli la responsabilità dell’evento.

Il fatto, semplice, è che una ministra è stata zittita. Pensavo tutti potessimo trovarci d’accordo nella condanna. Invece alcuni maestri del pensiero contemporaneo, cattivi maestri si sarebbe detto una volta, hanno spiegato che “la contestazione alla Roccella è quanto di più sano possa avvenire in una democrazia” (Roberto Saviano) e che “quello che tu hai fatto e che è scritto e teorizzato in questo libro ha reso la mia vita peggiore, quindi io qui non ti lascio parlare: non ne hai il diritto” (Michela Murgia).

Poi mi ha scritto uno dei bravissimi ragazzi della scuola di formazione “Meritare l’Europa”, Jacopo. E ho visto che il messaggio dei Saviano-Murgia passa nelle corde delle persone molto più di quanto io immaginassi. Mi ha scritto Jacopo: “No, Matteo, non sono d’accordo. In democrazia il dissenso è tutto. (…) La Roccella stava dicendo cose aberranti sulla dignità della donna ed è stata fermata”.

Jacopo è un giovane talentuoso e sono convinto che abbia un bel futuro in politica. Ma se noi non partiamo dal dire che nessuno ha il diritto di fermare chi non la pensa come noi, anche se dice cose che sono giudicate aberranti (che poi che siano aberranti, chi lo decide?), rischiamo di essere travolti da una slavina in cui l’evento culturale smette di essere palestra di libertà e diventa occasione di odio ideologico. Pensiamoci bene. Perché è inutile gridare al fascismo se non siamo disponibili ad ascoltare le opinioni degli altri. Soprattutto quelli con cui non siamo d’accordo. Matteo Renzi

Estratto dell’articolo di Fabrizio Caccia per il “Corriere della Sera” il 21 maggio 2023.

«Quanto accaduto al Salone del Libro di Torino è inaccettabile e fuori da ogni logica democratica. Altrettanto inaccettabile è l’operazione dei soliti noti di capovolgere i fatti, distorcendo la realtà e giustificando il tentativo di impedire a un ministro della Repubblica di esprimere le proprie opinioni. Come al solito, chi pretende di darci lezioni di democrazia non ne conosce le regole basilari». 

La presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, è tranchant. Condanna in poche righe la contestazione di ieri nei confronti della ministra Eugenia Roccella ma anche la difesa dei contestatori da parte di Partito democratico e Movimento 5 Stelle, schierati dalla parte del direttore del Salone, Nicola Lagioia, che aveva definito «legittima» la protesta.

Ospite di In Onda, su La7, la leader del Pd Elly Schlein aveva detto: «In una democrazia si deve mettere in conto che ci sia il dissenso. Sta nelle cose, non riguarda mica solo chi sta al potere. Noi siamo per il confronto duro, acceso, ma è surreale il problema che ha questo governo con ogni forma di dissenso. È surreale che ministri e deputati si siano messi ad attaccare Nicola Lagioia. Non so come si chiama la forma di un governo che attacca le opposizioni e gli intellettuali ma quantomeno mi sembra autoritaria». 

[…]

Tutto il governo comunque ha fatto quadrato: «Non permettere a un autore, chiunque esso sia, di poter presentare liberamente il suo libro ed esprimere il proprio pensiero perché bloccato da un gruppo di violenti è un atto antidemocratico e illiberale», le parole del ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano. 

Il ministro della Difesa, Guido Crosetto, ha twittato: «Le è stato impedito di esprimere le proprie idee da persone che pensano di difendere la libertà privando gli altri della loro. Persone pericolose, antidemocratiche e prevaricatrici, camuffate da attiviste». 

[…]

E la maggioranza, infatti, stringe i tempi proprio sulla maternità surrogata come reato universale. La proposta di legge dovrebbe approdare in Aula a giugno, mentre già a partire da mercoledì prossimo verranno votati i 20 emendamenti dell’opposizione proposti in Commissione, volti a recepire la proposta dei sindaci di centrosinistra che chiedono di poter procedere alla registrazione dei figli di coppie omogenitoriali. L’unica proposta di modifica della maggioranza proviene da Forza Italia e aumenta le pene previste per il ricorso alla maternità surrogata all’estero, prevedendo il carcere da uno a tre anni.

Estratto dell’articolo di Claudia Luise per “La Stampa” il 21 maggio 2023.

Non è contraria alla contestazione «tutti hanno il diritto di manifestare». Ma la ministra della Famiglia, Eugenia Roccella, si scaglia contro le modalità di coloro che le hanno impedito di presentare il suo libro e contro il direttore del Salone del Libro, Nicola Lagioia, che non ha sottolineato quanto fosse «antidemocratico» impedirle di parlare. 

Ministra, cosa è successo con Lagioia?

«Capisco che Lagioia sia uno scrittore e quindi lavori di fantasia, ma mi sembra un po' eccessivo cercare di far passare una discussione accalorata con l'onorevole Montaruli per un'aggressione subita da lui, mentre nel Salone da lui diretto veniva impedita la presentazione di un libro».

Come mai ha chiesto l'intervento del direttore?

«Perché non trovo corretto che nel Salone che dirige possano accadere queste cose senza che lui prenda una posizione chiara a difesa del diritto di parola di chiunque». 

[…] 

Proprio oggi ricorrono i 45 anni dall'approvazione della legge sull'aborto. Va modificata?

«Sull'aborto non c'è nessuna battaglia. C'è una legge che viene rispettata. L'obiezione di coscienza non impedisce affatto l'accesso all'interruzione di gravidanza e infatti il carico di lavoro per i medici non obiettori è di un aborto a settimana. Dopo 45 anni è una legge che è stata applicata, quindi non mi sembra necessario intervenire. Ricordo che i punti nascita in Italia sono meno dei punti dove si può abortire. C'è semmai un problema di libertà delle donne di fare figli se vogliono, anche se sono in condizioni di bisogno. Ed è questo su cui si dovrebbe intervenire. Piuttosto c'è una battaglia sull'utero in affitto: chi ha a cuore l'inviolabilità del corpo femminile e la non mercificazione dovrebbe capire che è questa "la battaglia"».

[…] 

La settimana scorsa si sono ritrovati a Torino molti sindaci per chiedere al Parlamento di legiferare sul matrimonio egualitario e sulle trascrizioni per le coppie omogenitoriali. Il governo pensa di intervenire?

«No, c'è il Parlamento che sta discutendo sulla perseguibilità del reato di utero in affitto anche quando commesso all'estero. Ovviamente non si tratta di arrestare le persone che rientrano in Italia ma di rendere efficace la sanzione, perché questa pratica in realtà non è stata mai perseguita. La sinistra cerca di spostare il dibattito dall'utero in affitto, di cui non vuole parlare, alla questione dei diritti dei bambini. Ma in realtà i bambini hanno tutti i diritti fin dal primo momento, con la registrazione immediata del genitore biologico» […]

Estratto dell'articolo di Irene Famà e Claudia Luise per lastampa.it il 20 maggio 2023.

Contestazione degli attivisti di Extinction Rebellion, femministe di Non una di Meno, comitato EssenNon, all’Arena Piemonte del Salone del Libro dove la ministra delle Pari Opportunità Eugenia Maria Roccella presenta il suo libro “Una famiglia radicale”. I manifestanti, una cinquantina, si sono sdraiati per terra urlando «vergogna! Vergogna», «Sul mio corpo decido io, ma quale Stato, ma quale Dio». 

La ministra ha invitato alcune attiviste a salire sul palco: «Non posso accettare che venga portata via nessuno, vista che la protesta dei sit in ha fatto parte del mio percorso e anche io sono stata cacciata in diverse occasioni». 

[…]

Una decina di attivisti sono stati identificati dalla Digos. Dal pubblico sono iniziati dei cori contro i manifestanti: «Per favore fateci seguire, fateci seguire». La loro risposta: «Per favore fateci abortire». E in platea si creano capannelli di discussione. 

«Non violenza e diritto di parola devono essere garantiti. Volete solo impedire agli altri di parlare», dice Roccella. La ministra ha chiesto l'intervento del direttore Lagioia per parlare con i contestatori. Sul palco è salito il presidente del Circolo dei Lettori, Giulio Biino.

Dura la ministra: «E’ grave che nel Salone che presiede non ci sia neanche la sua presenza – dice-. Lo abbiamo cercato, lo stiamo cercando. Non sappiamo dove sia». «È una pagina buia per il Salone, c'è una responsabilità politica e la direzione ne dovrà rispondere. Volevamo presentare un libro, invece si procede per slogan e ci è stato impedito» commenta l'assessore regionale Maurizio Marrone che aggiunge: «questa non è la società civile ma incivile». 

Poco dopo l’intervento di Lagioia: «Il Salone è un gioco democratico e nelle democrazie la contestazione ne fa parte ma perché non trasformare questa occasione in un dialogo tra uno di voi e il ministro?» chiede dal palco per cercare di mediare ma i contestatori rispondono: «Noi del loro pensiero ce ne freghiamo».

E ancora: «Questo è un incontro nella programmazione della Regione, non del Salone. Ho detto solo che finché la contestazione non è violenta sono legittime. Mi ha sorpreso l'attacco delle persone vicine al ministro, Montaruli mi ha inveito contro. E quindi anche loro devono mettersi d'accordo. Montaruli ha iniziato a urlarmi vergogna nelle orecchie». […]

Un video lo smentisce, ma Lagioia continua a far la vittima. Marco Leardi il 21 Maggio 2023 su Il Giornale.

Il direttore del Salone del Libro di Torino torna sulla deprecabile contestazione al ministro Roccella e quasi minimizza: "Da mettere in conto...". Poi dichiara di essere stato lui l'aggredito

Nicola Lagioia insiste. Il giorno dopo le deprecabili contestazioni subite dal ministro Roccella al Salone del Libro di Torino, il direttore dell'evento ribadisce di essere stato lui la vittima di una presunta aggressione. In un'intervista rilasciata alla Stampa, lo scrittore barese è tornato sulla vicenda puntando il dito contro la deputata di Fratelli d'Italia Augusta Montaruli, che lo aveva rimproverato ad alta voce per non essere riuscito a placare gli attivisti anti-Roccella. "Mi ha gridato contro con un atteggiamento veramente molto violento", aveva lamentato lui. Ma un video aveva mostrato come in realtà non ci fosse stata nessuna aggressione, bensì solo un animato scambio di battute (il clima non era certo dei più distesi) risoltosi in pochi istanti.

E il ministro "imbavagliato" dai soliti bravi ragazzi? Secondo Lagioia - parafrasiamo - certe critiche sono da mettere in conto. "Contestazioni ce ne sono state anche in passato, per esempio nei miei stessi confronti, su una presunta distrazione rispetto alle tematiche ambientali. In questo caso, però, si dirigono verso un politico, che di suo un po' deve aspettarsele, e soprattutto se è divisivo come la ministra Roccella sono da mettere in conto", ha affermato il direttore del Salone del Libro di Torino. Un po' come aveva fatto Roberto Saviano, secondo il quale gli esponenti del governo Meloni erano andati lì per "provocare". Dunque, quella aggressione faceva parte (sempre a suo avviso) della "dialettica".

Alla Stampa, Lagioia ha poi riferito la propria versione dei fatti. "Io arrivo al palco e, auspicando ovviamente che possa parlare, intervengo e dico ai contestatori: dialogate con la ministra attraverso un vostro delegato. Il tentativo di mediazione purtroppo non riesce. Poso il microfono e mi avvio verso la platea per capire che cosa si possa fare, e a questo punto l'onorevole Montaruli comincia a gridarmi addosso: vergognati, con i soldi che ti sei preso", ha affermato. E ancora: "È stata un'aggressione molto violenta. Ma, aggiungo, è anche assurdo che uno scrittore venga considerato un avversario politico. Io ho fatto il possibile perché la ministra potesse parlare".

Certo, i toni concitati di quei momenti non erano quelli di una sala da tè. Ma parlare di "aggressione molto violenta" è forse eccessivo, anche perché - come si evince da un video realizzato in quegli attimi - lo stesso Lagioia aveva tentato di replicare alla Montaruli, facendosi avanti senza timore. "Ma che vuoi? Ma chi sei?", aveva risposto, mentre qualcuno lo invitava a desistere. "Spero che sia archiviabile come un momento colorito del Lingotto. Siamo umani, anche l'intemperanza è parte di noi. Se si è trattato di uno sfogo, pazienza. Ma se invece è un comportamento politico, ebbene allora siamo davvero di fronte a qualcosa di preoccupante", ha aggiunto lo scrittore. Posizioni legittime, ci mancherebbe. L'unica contestazione apertamente politica vista al Salone è stata proprio quella degli attivisti anti-Roccella, sopraggiunti con l'obiettivo di impedire al ministro di parlare.

"Ho detto e ripetuto: fatela parlare; ho tentato di trasformare la contestazione in dialogo. Che avesse diritto di presentare il suo libro è ovvio, lapalissiano", ha argomentato infine lo scrittore. Ma quel suo tentativo di mediazione era stato giudicato poco incisivo da parte di Fratelli d'Italia ed è proprio su questo punto che si è scatenato il successivo diverbio. "Non potevo fare anche il servizio d'ordine, c'è la polizia per questo", si è giustificato Lagioia, rivelando però di avere poi avuto un "dialogo civile" di confronto con Roccella.

Giampiero Mughini per Dagospia il 21 maggio 2023.

Caro Dago, data la mia veneranda età ho una qual certa esperienza di chiacchiere in pubblico, e questo a partire dai primissimi anni Sessanta, da quando si era appena spenta l'eco delle fucilate del luglio 1960 che uccisero dei civili a Reggio Emilia e a Catania, la città in cui sono nato. 

Ebbene ti confesso che a vedere le facce le espressioni il furore del drappello di visitatrici del Salone del libro di Torino che si sono scagliati contro il ministro Eugenia Roccella, sto piuttosto dalla parte del ministro. Non delle sue idee, che non sono le mie, ma dell'atteggiamento con cui ha accolto le offese che le venivano fatte a voce alta e rauca.

A furia di offese a voce alta e rauca, era questo il modo in cui ci affrontavamo nelle assemblee dei primi Sessanta noi "di sinistra" e loro "i fascisti". Tra noi era odio odio odio e soltanto odio, e ne verranno i terroristi dell'una e dell'altra sponda che insanguineranno le piazze e le strade italiane dei Settanta. Così come ricordo con gioia le prime volte che alcuni di noi e alcuni di loro prendemmo a confrontarci civilmente. Mi rammento di Marco Tarchi, di Stenio Solinas, di Giuseppe Del Ninno. Ne abbiamo fatto da allora di cammino in direzione della civiltà, del fatto che si possono avere idee e valutazioni diverse ma che non per questo ci si debba scannare.

Piuttosto mi ricordo di una serata degli anni Settanta per me triste al Circolo culturale Mondoperaio allora presieduto dal mio amico Paolo Flores d'Arcais. Era una serata dedicata al seguente argomento: se nei gruppi terroristici le donne fossero più garbate degli uomini quando c'era da scegliere le maniere forti. A quel dibattito erano state invitate quattro o cinque donne, tutte di valore. Paolo volle che fossi io a rappresentare la voce maschile.

Lo feci al modo mio solito, senza cercare nemmeno per un attimo di essere piacione. E dunque dissi papale papale che quanto ai gruppi terroristici le donne vi si comportavano con la stessa ferocia degli uomini, né più né meno. Adriana Faranda (più tardi divenuta una mia cara amica) non c'era a via Fani, ma non era stata meno impetuosa in un assassinio all'università di Roma. Né al tempo in cui erano due criminali politici (oggi sono anch'essi dei miei cari amici) Francesca Mambro era più "morbida" di Giusva Fioravanti. Sì e no avevo parlato cinque minuti, quando la platea femminile insorse a volermi togliere la parola.

Nessuna delle donne sedute accanto a me bisbigliò che mi lasciassero parlare salvo poi esprimere le loro idee diverse dalla mia. Le forsennate in sala non ne volevano sapere. Non potevano uccidermi, quello no, ma azzittirmi quello sì. Lasciai perdere, e non dissi più una parola ed è stata la sola e unica volta nella mia vita: che non potessi far uso delle parole. Avevo per quelle signore furibonde solo disprezzo intellettuale, e ce l'ho a tutt'oggi per tutti i forsennati che intendono il confronto delle opinioni alla maniera di uno scontro pugilistico. Di uno scontro in cui l'avversario lo devi lasciare esanime sul tappeto

Sallusti, "ecco che cosa è la sinistra": svelata la violenza rossa. Alessandro Sallusti su Libero Quotidiano il 21 maggio 2023

Immaginate cosa sarebbe successo se ieri l’altro nei saloni della Fiera del Libro in corso a Torino qualcuno del pubblico avesse contestato fino a impedire loro di parlare Michela Murgia o Concita De Gregorio. Possiamo solo immaginarlo perché non è avvenuto né mai accadrà, non è nel dna della destra italiana infilarsi nelle fila dell’avversario per fare casino e zittirlo. È invece accaduto che ieri, nello stesso luogo, un nutrito gruppo di fascisti di sinistra - ambientalisti e fanatici delle teorie Lgbtha impedito a un ministro della Repubblica, Eugenia Roccella, di presentare il suo libro “Una famiglia radicale”. Non c’è da stupirsi più di tanto: il Salone del libro è il fiore all’occhiello della cultura di sinistra, e la cultura di sinistra è esattamente questa cosa qui, intollerante, falsa, settaria e all’occorrenza violenta. La sinistra è una casta che si mobilita per difendere un miliardario, Fabio Fazio, che in realtà ha deciso liberamente di andare a guadagnare ancora più soldi lasciando la Rai, ma che non muove un dito per permettere a una ministra di esporre le sue opinioni a casa loro dopo averla invitata.

Questi sono quelli che i morti di Covid sono colpa della Regione Lombardia, quelli di Cutro del governo Meloni ma guai a segnalare i ritardi della regione rossa Emilia Romagna- cioè del presidente Bonaccini e della sua vice Schlein, numeri due e uno del Pd - nella prevenzione di disastri ambientali perché altrimenti sei “uno sciacallo”. Un salone del libro dovrebbe essere un luogo di libertà e confronto, Torino si è dimostrata luogo di incultura comunista in balia di teppisti e provocatori nonostante i non pochi finanziamenti pubblici di cui gode. «Il dissenso è legittimo», ha dichiarato il direttore della rassegna, lo scrittore Nicola Lagioia, che però un minuto dopo si smentisce piagnucolando per il dissenso nei suoi confronti espresso dalla deputata di Fratelli d’Italia Augusta Montaruli, che gli ha detto in faccia «vergognati, con i soldi che prendi...». Ecco, Lagioia è la perfetta immagine del fango in cui nuotano lui e i suoi amici di sinistra: contestare la ministra Roccella è il sale della democrazia, contestare lui è da fascisti: un concetto neppure troppo vagamente fascista. 

Saviano contro Roccella: "Venuta al Salone del Libro a provocare". Libero Quotidiano il 20 maggio 2023

"In realtà questi ministri e politici sono venuti qui a provocare, non ribaltiamo la verità": Roberto Saviano ha commentato così le proteste contro Eugenia Roccella al Salone del libro di Torino. La ministra è stata contestata da alcuni attivisti del movimento ambientalista Extiction Rebellion e del collettivo femminista Non una di meno. Questi ultimi hanno impedito il suo intervento e per questo la Roccella, che a un certo punto ha anche provato a dialogare ma senza successo, alla fine ha deciso di andare via. 

"Le parole di La Russa e Sangiuliano e le parole della ministra Roccella sono vere e proprie provocazioni e quindi la contestazione entra in questa dialettica", ha poi aggiunto lo scrittore nel suo intervento a margine della presentazione del podcast "Chi chiamerò a difendermi. Giovanni Falcone, la vita".  

"Anche quello dell'utero in affitto è un tema che non va demonizzato ma regolamentato - ha proseguito Saviano -. Regolamentazione significa far rientrare nel diritto una pratica che, condivido, se non regolamentata, diventa esposta a una manipolazione criminale, esposta a contraddizioni importanti. Quindi la mia risposta è di smettere di provocare, che significa arrivare con una loro propaganda a far passare per pensiero, per opinione, quelle che sono vere e proprie aberrazioni".

Roccella contestata al Salone: “Ecco cosa avrei spiegato a quei ragazzi sulla surrogata”. Il dialogo del Dubbio con la ministra della Famiglia dopo le proteste al Salone del Libro: «Se l’aborto è un diritto? Nessuno ha intenzione di toccare la legge 194». Servizio di Francesca Spasiano su Il Dubbio il 20 maggio 2023

«Il corpo non può essere né in vendita né in affitto». Dopo le contestazioni che l’hanno costretta a lasciare il Salone del Libro, la ministra della Famiglia Eugenia Roccella difende, dialogando in diretta Facebook con Francesca Spasiano del Dubbio, la scelta del governo di rendere quello della maternità surrogata un reato universale. E lo fa escludendo qualsiasi possibilità di fine altruistico dietro la scelta di condurre una gravidanza per altri, trattandosi di un «contratto» e, dunque, di «un mercato». 

Maternità surrogata reato universale

Alcune pratiche, più che di procreazione assistita, sono tecniche di «spezzettamento del corpo» e, dunque, una pratica di mercato. In Commissione Giustizia è incardinata una proposta di legge per rendere la maternità surrogata un reato universale. «Si tratta di perseguire il reato, perché per la legge italiana è un reato, non è mai stato perseguito. Anzi, in qualche modo è sempre più legittimato – ha sottolineato la ministra -. Ci sono persone famose che raccontano del fatto di aver fatto ricorso alla maternità in un altro Paese e sono tornati facendo servizi sui rotocalchi raccontando di quanto sia stata una esperienza felice. Sicuramente lo è stata per loro, non so quanto lo sia per la donna che ha firmato il contratto e mi farebbe piacere che le persone sapessero con altrettanta dovizia di particolari e di sensibilità per i sentimenti della donna cosa significa la maternità surrogata, quali i contratti, quali sono le condizioni per una donna deve rispettare».

«Mi sembra un orizzonte abbastanza angosciante – ha aggiunto – quello di una maternità che entra nel mercato. Tanto che ci sono le fiere su questo, non solo quella di Milano, ma in tutte le capitali Europee. Il corpo materno viene fatto a pezzettini e immesso all’interno di un sistema di marketing. La maternità è per contratto e mi sembra un orizzonte molto grave». 

Guarda l’intervista alla ministra Roccella:

Il diritto all’aborto

«C’è una legge, la 194, che dà le regole, le norme per l’accesso all’interruzione volontaria di gravidanza. Questa si applica da 30 anni e questo governo non ha mai avuto intenzione di toccare questa legge. Lo abbiamo detto in maniera ossessiva, perché ce lo chiedono in maniera ossessiva», ha spiegato la ministra. «La relazione che ogni anno viene trasmessa al Parlamento sull’attuazione della legge 194 e questa relazione racconta che non ci sono problemi di accesso all’aborto. Il carico di lavoro per i non obiettori è di un aborto a settimana – ha sottolineato – e quindi evidentemente il problema non è, come a volte si pensa, la percentuale totale di obiettori, ma il rapporto tra chi fa gli aborti e il numero di aborti richiesti. Quindi se non c’è un carico di lavoro eccessivo per chi fa gli aborti vuol dire che l’obiezione non è un problema per l’accesso all’aborto».

Marco Zonetti per Dagospia il 21 Maggio 2023.

Le contestazioni alla ministra per la Famiglia Eugenia Roccella al Salone del Libro, per opera di un gruppo di attivisti che le hanno impedito di presentare il suo libro "Una famiglia radicale", hanno scatenato un putiferio mediatico e istituzionale che sta infiammando questo fine settimana. 

I manifestanti hanno messo sotto accusa la Roccella per le sue posizioni antiabortiste, e 29 di loro sono stati denunciati dalla Digos. E chissà se Eugenia Roccella, in quei giovani, ha riconosciuto una sé stessa ventunenne, quando cioè nei primi anni Settanta lei stessa manifestava a favore dell'aborto - all'epoca non ancora legalizzato - e, membro del gruppo femminista MLD, pubblicava addirittura un libro dal titolo "L'aborto fatto in casa". 

Il contenuto del libro, i cui dettagli non lasciavano spazio all'immaginazione, viene descritto dalla stessa Roccella in un'intervista rilasciata all'epoca a Paola Fallaci, sorella di Oriana, riesumata anni fa dal sito radiospada.org. 

L'allora giovanissima Eugenia, "studentessa alla facoltà di lettere di Roma, due incriminazioni a Palermo per «incitamento a delinquere» poiché in un comizio invitò le donne ad autodenunciarsi per aborto, spiegava: «II libro non vuole affatto che la singola donna si metta in bagno a farsi l’aborto da sola. oltre che da incoscienti, sarebbe una cosa impossibile. 

Alla singola donna vuole dare soltanto informazioni e indirizzi giusti. Indirizzi dove troverà gruppi di donne, i “Self Help”, che le praticano l’aborto secondo la tecnica moderna, sicura e indolore. La nostra proposta è solo un momento della lotta, non ci sogniamo neanche di seguitare per tutta la vita a fare gli aborti in queste condizioni”.

E quindi precisava ulteriormente: «La mammana cos’è? È l’unica che abbia offerto un po’ di solidarietà alle donne. E non per arricchirsi come certi medici che noi trattiamo con molto rispetto, dimenticando che loro, “i dottori”, avevano i mezzi per evitare alle donne le stecche d’ombrello, i decotti e i gambi di prezzemolo, ma non li hanno mai voluti usare. Non siamo noi le mammane, ora. Noi usiamo metodi moderni e sicuri». 

Paola Fallaci ricordava quindi alla giovane Roccella che nel libro si parlava di “pompe di bicicletta”, e l'intervistata ribatteva: «La pompa di bicicletta è soltanto lo strumento che può utilizzare chi non ha l’aspiratore elettrico, difficile da procurarsi e molto costoso. Non c’è nulla di stregonesco in questo, né di anti-igienico, né di agghiacciante: è un procedimento meccanico, molto più ambiguo a descriverlo che a vederlo fare. Certo, da come parli tu, sembra che una donna debba infilarsi la pompa nel corpo e mettersi furiosamente a pompare! Non è mica così». 

«Ma tu lo faresti un aborto con la pompa di bicicletta?» domandava Fallaci, al che Roccella replicava: «Sicuramente non lo farei con il raschiamento. E andrei da un gruppo di donne proprio per l’appoggio morale e la garanzia che mi darebbero». 

«Ma non sarebbe meglio tenervi un medico vicino?» s'informava a quel punto l'intervistatrice. E la risposta di Eugenia Roccella era che: «Magari! Vorrebbe dire che avremmo già vinta la battaglia per l’aborto, vorrebbe dire cioè che i medici accettano di fare aborti a basso prezzo e ad alta garanzia». 

Interessante che, nel momento in cui da tempo è diventato realtà ciò che si augurava da giovane Eugenia Roccella e le donne hanno ottenuto il diritto all'aborto, la stessa venga contestata pubblicamente da giovani poiché contraria a quelle stesse posizioni. 

Altrettanto peculiare che chi la contesta sia denunciato così come la stessa Roccella negli anni Settanta veniva incriminata sempre per lotte pro aborto. L'Italia e le sue istituzioni sono davvero un mondo che nessuno scrittore di science fiction potrebbe mai ipotizzare.

Salone del Libro: cosa dicono i social? Roccella e Lagioia si prendono Twitter, l’analisi in esclusiva di Domenico Giordano. Redazione su Il Riformista il 21 Maggio 2023 

Il Salone del Libro si è appena concluso. Tra presentazioni, autori e incontri non sono mancate polemiche e contestazioni che hanno letteralmente preso la scena del salone torinese. Un dato confermato dal flusso di interazioni registrate sui social e analizzate in esclusiva per il Riformista da Domenico Giordano, Social strategist di Arcadiacom.it.

Sulla polemica che ha coinvolto la ministra Roccella Il dato del parlato della rete evidenzia subito come non siano più le keyword fascista o fascismo – per esempio – a coinvolgere gli utenti in rete. La tematica storico-politica alla fine sembra non interessare più a nessuno.

Ciò che ha generato coinvolgimento sono stati proprio i protagonisti della vicenda, con le loro storie personali, che hanno spinto gli utenti ad intervenire e prendere parte al dibattito in corso. 

Il confronto tra le due linee temporali delle menzioni e dell’engagement, nelle ultime 24h, mostra in modo evidente che la keyword ” fascista OR fascismo “ che ha incassato il 30% delle citazioni complessive è di fatto una keyword fredda dal punto di vista del coinvolgimento

A contendersi il primato dell’engagement infatti sono le keyword di contesto e dei protagonisti di quanto accaduto ieri a Torino. La comparazione delle torte delle menzioni e dell’engagement ci conferma che l’innesco che ha spinto gli utenti a intervenire nel dibattito non è stato certo il tema del fascismo, quanto al contrario gli stessi protagonisti e le diverse visioni politiche.            

Le due keyword Roccella e Lagioia si prendono su Twitter la quota più ampia di parlato tra tutte le chiavi di ricerca. Mentre Salone del Libro incassa un 6% su Instagram e Fascista or Fascismo dilaga su Facebook.

Il dibattito su Twitter ha coinvolto, come plasticamente evidenziato dalla tagcloud degli account , un nucleo di opinion maker composto per lo più da attori e giornalisti interessati al dibattito politico in via esclusiva. 

Mentre su Facebook e Instagram , la Top10 degli account e delle pagine dei politici, che hanno scelto di intervenire sulla vicenda e che hanno incassato una quota consistente di interazioni, è guidata da Matteo Salvini

Soloni del libro. Il caso Roccella e l’intolleranza alternata dei fan di destra e sinistra. Iuri Maria Prado su l'Inkiesta il 22 Maggio 2023.

Da una parte ci si scandalizza perché a Torino la ministra non è stata accolta con gli applausi per le sue tesi antiabortiste, dall’altra si loda la polizia morale che limita la libertà di parola. In mezzo, anzi: altrove, c’è la ragione di chi diffida degli uni e degli altri 

Mica ci voleva un genio per immaginare come si sarebbero posizionati gli schieramenti degli opposti mentecatti a proposito del “Caso Roccella”, l’ex radicale radicalizzata in involuzione Family Day che l’altro giorno, a Torino, ha subìto la contestazione di un gruppo di balordi che si è messo di mezzo per mandare in vacca la presentazione del libro della ministra.

E che doveva succedere? L’ovvio, appunto. Da destra strilli contro lo squadrismo rosso, e da sinistra la celebrazione del popolo che resiste al fascismo dilagante a Torino. La realtà (e la decenza), in mezzo: anzi altrove. Perché, per un verso, almeno per ora non esiste il diritto di un ministro a una platea composta in silenzio nella convinzione che la donna che abortisce è un’assassina e che i figli dei genitori omosessuali crescono scostumati. E perché, per altro verso, non esiste, anche se essi lo pretendono, il diritto dei manipoli democratici di trasformare il Salone del libro nella terza Camera del ddl Zan.

La verità è che il gregge affidato alle cure della madre bianca e cristiana crede sinceramente che la vittoria elettorale sia il presupposto di una restaurazione del consenso tramite decretazione Dio-Padre-Famiglia con accredito in Rai o appunto al salone torinese, mentre la mandria sinistra ritiene che ogni ambito del discorso pubblico debba essere presidiato, pena il collasso del sistema democratico, dalla sorveglianza della polizia morale antifascista che sgombera i soprammobili del presidente del Senato e controlla che i libri in commercio siano provvisti della dovuta fascetta 25 aprile.

Checché ne abbiano detto in contrario, ai destri non dava fastidio l’intendimento oggettivamente sopraffattorio di quella contestazione, ma il fatto che “l’aria nuova” di una manifestazione finalmente sottratta al giogo comunista non fosse destinataria dell’entusiasmo monopolizzante che si deve alle decisioni irrevocabili. E per quanto i sinistri abbian fatto mostra, assolvendo quegli urlatori, di appellarsi al neutro canone liberale e costituzionale secondo cui il potere deve sopportare di essere contestato, la verità è che essi proteggevano non il fatto in sé, ma soltanto l’orientamento di quei berci e, sotto sotto, l’idea che la nobiltà democratica della contestazione risiedesse nell’impresentabilità democratica di chi dopotutto si meritava l’incursione.

Due belle culture a confronto. 

Estratto dell’articolo di Sara Strippoli per repubblica.it il 21 Maggio 2023.

Zerocalcare è "un cretino" e Michela Murgia "sfrutta la sua malattia per dire che il governo è fascista". Al Salone del libro di Torino, nella sala Rosa del Lingotto, si trovano gli intellettuali di destra. La contestazione alla ministra della Famiglia Eugenia Roccella è appena avvenuta e loro bollano i manifestanti come "fascisti".

All'incontro, intitolato "La destra e la cultura", ci sono il consulente del ministro Sangiuliano Francesco Giubilei, Ferrante De Benedicitis, che è presidente di Nazione Futura, il vicedirettore de La Verità Francesco Borgonovo, oltre a Giordano Bruno Guerri.

Il giudizio su Murgia è di Luca Beatrice, critico d'arte ed ex presidente del Circolo dei lettori, che attacca la scrittrice per l'intervista in cui ha definito fascista il governo Meloni: "Sfrutta un problema grave come la malattia per dare del fascista a chiunque la pensi in maniera diversa da lei".  

Quello su Zerocalcare appartiene invece a Borgonovo, che definisce il fumettista "un cretino" perché "ha detto che Alain De Benoist è un ispiratore dei neonazisti". Mentre De Benedictis dice: "Per decenni abbiamo vissuto l'incubo della cultura di sinistra".

[…] 

Tra le varie riflessioni, c'è anche spazio per l'autocritica. Francesco Giubilei ritiene che il centrodestra sia stato troppo timido: "Quando il centrodestra vince un Comune nomina nelle partecipate uno di sinistra perché dice che ha maggiore esperienza. In questo modo nessuno si farà mai esperienza". […]

La Regione Piemonte difenda il Salone del Libro di Torino dalla finta superiorità della sinistra. Lorenzo Castellani su Panorama il 21 Maggio 2023.

 Le contestazioni al ministro Roccella sono colpa degli organizzatori ma anche di chi governa la Regione che sull'evento ha modo di intervenire. Come dovrà fare già dal prossimo anno.

Non c’è molto da girarci intorno: se un ministro, invitato dagli organizzatori, non riesce a parlare ad un evento la colpa è degli organizzatori. La contestazione da parte di attivisti della sinistra ai danni del ministro Roccella al Salone del Libro di Torino evidenzia le responsabilità della direzione dello stesso che non è stato in grado di trovare un modo per far parlare un ospite. Lo scrittore Nicola Lagioia, chiamato all’improbo ruolo di manager del Salone, ha fatto una figura barbina. Ha balbettato senza successo sul palco per cercare di far parlare il ministro della famiglia, e poi si è dileguato, con rapidità e poco coraggio, senza riuscire a dare l’impressione di stare con l’ospite oppure con i manifestanti. Ma qui, al di là dei fallimenti organizzativi e di gestione politica, la questione a monte è un’altra: se il Salone di Torino si considera una roccaforte della sinistra nell’organizzazione e nella direzione, espressione di una sinistra che non tollera ne riconosce dignità all’avversario politico, perché invitare i ministri del governo di destra per poi contestarli, impedirne i discorsi e passare per intolleranti e autoreferenziali? Sul piano politico sono degli errori dilettanteschi, che conducono a scene ridicole come quelle a cui si è assistito sabato. Sono le stesse baruffe a cui assistiamo da anni per la scelta della direzione, per le case editrici considerate di destra che non dovrebbero partecipare, per la scelta degli ospiti e così via. Baruffe che vengono lautamente finanziate dai contribuenti perché il Salone del Libro si regge su una associazione privata che vive anche e soprattutto di finanziamenti pubblici, regionali in particolare. Ma su questo punto ci sono pure le colpe del centrodestra.

La Regione Piemonte siede, con proprio assessore, nel comitato direttivo del Salone del Libro. La Regione in sede di Comitato direttivo ha proposto come nomi di direttore del Salone, in sostituzione di Lagioia, tutte figure legate alla sinistra per venire incontro alla maggioranza del Comitato. Inoltre, la Regione Piemonte sostiene il Salone del libro, essendo il socio unico della Fondazione Circolo dei lettori che eroga contributi all’Associazione culturale Torino che dal 2018 è subentrata alla precedente Fondazione, non priva di problemi di sostenibilità del bilancio. La Regione Piemonte, come moltissime altre Regioni, contribuisce anche a sostenere gli stand degli editori e dei librai presenti. Essa, dunque, finanzia indirettamente l’associazione che gestisce il Salone. Viene da chiedersi perché una regione amministrata dal centrodestra non si opponga ad una associazione che, non da ieri, politicizza, esclude, impedisce l’espressione di una parte politica e culturale che oggi è maggioritaria per altro in Piemonte e nel paese. Insomma, perché continuare a riversare contributi pubblici, di tutti, nelle casse del Salone? La loro abolizione farebbe chiarezza perché si aprirebbero due scenari. La sinistra potrebbe essere in grado di realizzare privatamente, senza soldi dei contribuenti, il suo Salone autogestito e autoreferenziale. A quel punto nessuno porterebbe rivendicare un problema politico e l’organizzazione sarebbe libera da ossequi a ministri sgraditi e da relative contestazioni. Oppure, se l’associazione non fosse in grado di sostenersi da sola, essa sarebbe costretta ad aprirsi a sponsor e a partecipazioni associative di aziende ed editori vari, non tutti riconducibili ad una certa area culturale. A quel punto un po’ di sano capitalismo privato, anche nell’organizzazione della governance dell’associazione, riporterebbe probabilmente anche un po’ di pluralismo politico e culturale. Il messaggio di fondo è infine chiaro e semplice: basta offrire certi teatrini politici e certe manifestazioni di giacobinismo con i soldi di tutti i cittadini.

Il Salone dell'odio e dell'intolleranza. Murgia, Saviano e Zerocalcare contro la destra al potere. Ma le violenze del Salone del libro svelano chi sono i violenti. Andrea Indini il 20 Maggio 2023 su Il Giornale.

E per fortuna che, giusto ieri, Michela Murgia al Salone del libro puntava il dito contro quelli che a suo dire sono i "fascisti" da combattere. E cioè Giorgia Meloni e il suo governo. Perché a guardare quello che è successo oggi pomeriggio, sempre a Torino, verrebbe da pensare l'esatto contrario. E cioè che i fascisti non sono affatto quelli dell'esecutivo ma i violenti che hanno impedito al ministro per le Pari opportunità e la Famiglia Eugenia Roccella di parlare. Guarda un po', ancora una volta l'odio militante e l'intolleranza, che sfocia in manifestazioni di violenza fisica e ideologica, portano la firma dei soloni dell'antifascismo, disposti a tutto pur di imporre la propria ideologia.

E per fortuna che, giusto questa mattina, in una intervista a tutta pagina sul Domani, Roberto Saviano spiegava che "questa destra (quella al governo, ndr) è violentissima", che la Meloni parla "la lingua del picchiatore" e che il suo paradigma è "spaventoso" perché impedisce a "chi ha un'altra visione" di realizzarsi. Perché oggi pomeriggio, proprio a Torino, ci verrebbe da dire che è successo l'esatto contrario. A parlare "la lingua del picchiatore" non è stata certo la Roccella, che anche dopo l'aggressione ha invitato al dialogo, ma un gruppetto da sempre abituato a impedire a "chi ha un'altra visione" di esprimerla e a incassare il buffetto compiaciuto di quegli stessi progressisti che poi vanno sui giornali a pontificare. A muovere le mani sono stati, infatti, gli ecocretini di Extinction Rebellion e le femministe di Non una di meno. Hanno unito le forze, formando un inedito branco di intolleranti, per dire chiaramente chi ha diritto di parola e chi no, al Salone del libro di Torino come in tutta Italia.

E ancora. Per fortuna che, sempre questa mattina, dalle pagine di Repubblica, Zerocalcare rinfacciava alla sinistra di essersi fatta (letterale) "soltanto i cazzi propri" e di non aver determinato alcuna egemonia culturale. Perché a vedere il menefreghismo con cui i vertici del Salone del libro hanno accolto la cacciata di un ospite, che per di più è un ministro della Repubblica, saremmo spinti a pensare tutt'altro. E cioè che una "egemonia culturale" c'è (eccome!) e, guarda un po', non solidarizza con la povera Roccella. Anzi. Siamo spinti a credere, così su due piedi, che questa "egemonia culturale" simpatizzi più con gli scalmanati, che urlavano con la schiuma alla bocca, che con la democrazia.

E questo dovrebbe spingere tutti (anche il direttore uscente del Salone del libro, Nicola Lagioia) ad accendere un campanello d'allarme. Perché, quando il dialogo e il confronto vengono messi a tacere con la prepotenza, ebbene lì finisce la libertà. E non solo quella della Roccella e delle persone (poche o tante non importa) che volevano ascoltare quello che aveva da dire, ma anche quella di tutto il nostro Paese. Che oggi, con buona pace della Murgia, è un po' meno democratico e più fascista. E non certo per colpa della Meloni.

Rai e Salone del Libro di Torino, così si scoprono i veri fascisti. Davide Vecchi su Il Tempo il 21 maggio 2023

Ieri al Salone del libro di Torino un drappello di fascistelli travestito da compagnucci ha impedito al ministro per le pari opportunità, Eugenia Roccella, di presentare il suo libro «Una famiglia radicale». Scandendo lo slogan «fuori i fascisti dal salone» hanno vietato un confronto pubblico. Roccella ha invitato i contestatori a spiegare le loro ragioni, dando una lezione di stile. Ma di ragioni non ne avevano né quindi hanno saputo spiegarle. L’intervento del direttore del Salone, Nicola Lagioia, caldeggiato per calmare gli animi, ha ottenuto il risultato opposto. Del resto Lagioia invece di invitarli a lasciar parlare ha legittimato la contestazione per poi andarsene accompagnato da doverosi insulti. Un comportamento vergognoso. Ma domani, dopo ben sette anni, il suo incarico scade e quindi non ha più interesse a mostrarsi rispettoso del ruolo che svolge, preferendo schierarsi con un gruppetto di barbari, prepotenti e stupidi. Dunque fascisti. Lui stesso ha definito il fascismo come «una scala crescente di barbarie, prepotenza, paura e stupidità». Ma ormai è noto: la vittoria elettorale del centrodestra ha mostrato con chiarezza il fastidio per i principi basici della democrazia da parte di quanti democratici si autodefiniscono senza esserlo.

Lo abbiamo visto in Rai, dove i miracolati dalle lottizzazioni si sono quasi incatenati pur di non lasciare lo strapuntino. Lo vediamo in alcuni giornali che non avendo nulla di concreto da usare contro chi governa (e chi è vicino al governo) mischiano e agitano fango con menzogne nel tentativo di screditare i «nemici». E lo abbiamo visto ieri a Torino dove è stato impedito a una persona (prima che ministro) di esprimersi. Sono i fascisti di oggi. Censori e supponenti, capaci di tutto pur di difendere i diritti. I loro. Ché tutti devono poter parlare ma può parlare solo chi è autorizzato. Da loro, i veri fascisti.

Squadristi camuffati. I veri estremisti sono a sinistra: un gruppo di attivisti impedisce l’intervento del ministro Roccella a Torino. Il centrodestra: "Attacco illiberale". Denunciati in 29. Augusto Minzolini il 21 Maggio 2023 su Il Giornale.

Si può essere o meno d'accordo con le posizioni di Eugenia Roccella sull'utero in affitto, i diritti Lgbt o quant'altro. Non è questo il punto se si vuole esprimere un giudizio sull'orrenda gazzarra che ieri ha impedito al ministro della Famiglia e delle Pari opportunità di parlare al Salone del libro di Torino, quello che dovrebbe essere il tempio della cultura, del dialogo e del confronto. L'episodio appare, infatti, come un tuffo indietro nel tempo, negli anni '70. Solo che si tratta di una nostalgica parodia di ciò che fu, non di una sua riedizione: sparite almeno sulla carta le ideologie del secolo scorso (nel '68 in qualche modo la cultura c'era), ieri sono stati reiterati solo i comportamenti. È andato in scena uno strano gioco di specchi in cui uno strambo coacervo di pseudo-ambientalisti, pseudo-femministe, pseudo-comunisti che ha tolto la parola alla Roccella alla fine si è rivelato per quel che era: un gruppo di fascisti camuffati. Squadristi non nel pensiero ma, appunto, nei comportamenti. Il che è peggio. Assertori di poche idee, estremamente confuse, che per imporsi debbono ridurre gli interlocutori al silenzio. Con i rituali del passato magari imparati a memoria in qualche pellicola polverosa da cinema d'essai: proclami, accuse, slogan e cori da stadio e la portavoce che sul palco legge un comunicato dal significato ermetico, con una prosa da assemblea liceale. E meno male che era il Salone del libro! Gli estensori di quel ciclostile, pardon di quella paginetta scritta sul pc, di libri ne debbono aver letti ben pochi. Tant'è che danno vita ad una pagina della commedia dell'assurdo: denunciano un clima da regime, parlano di svolta a destra autoritaria, insomma paventano l'avvento di un nuovo fascismo come hanno fatto in questi mesi i loro fratelli maggiori, ma agiscono esattamente secondo logiche che nell'immaginario collettivo richiamano allo squadrismo. Un testacoda intellettuale, sempreché questa volta l'intelletto c'entri in qualche modo.

Eh sì, perché che cosa c'è più di intellettuale, di intrigante sul piano culturale, di un confronto tra diversi? Nulla. A meno che a qualcuno non piaccia la cappa da pensiero unico, quella che impongono le dittature, i regimi. Dittature che non debbono essere per forza politiche, ma possono anche essere solo culturali. In fondo è la pretesa che hanno sempre avuto certi salotti di sinistra, circoli ristretti che si atteggiano a liberal ma in fondo non accettano un altro punto di vista qualunque esso sia: si nutrono della religione del rispetto del «diverso» ma il «diverso» da rispettare è solo quello che scelgono loro; quello che, invece, non la pensa come loro è «out», diventa di botto un fascista. E non c'è nulla di più tragico, di più pericoloso di chi si sente depositario di una verità, di chi non coltiva insieme alle proprie convinzioni pure la categoria del dubbio. È tutto qui il seme velenoso dei totalitarismi. È la grande contraddizione di chi si atteggia a liberal e poi aspira a cancellare il passato. Di chi non accetta neppure l'idea che qualcuno possa pensarla al contrario. Di chi non rispetta la libertà di pensiero e paventa il ritorno del fascismo comportandosi da fascista. E fa una certa impressione scoprire al Salone del libro di Torino che per una certa sinistra anche quella vecchia frase attribuita a Voltaire dalla scrittrice Evelyn Beatrice Hall, stracitata addirittura da un antifascista come Sandro Pertini, sia finita in soffitta: «Non sono d'accordo con quello che dici, ma darei la vita perché tu possa dirlo».

Ecco come hanno fatto scoppiare la famiglia tradizionale. Clemente Sparaco su culturaidentita.it il 18 Maggio 2023

Del fatto che la denatalità sia diventata un problema urgente oggi finalmente si ha contezza, per cui non solo se ne parla, ma si comincia anche ad affrontare prendendo a prestito da altri Paesi modelli di agevolazioni fiscali e di incentivazioni in ragione del numero dei figli. Ma sembra ancora argomento politicamente scorretto il metterla in relazione alla crisi della famiglia naturale, la quale ha subito, e continua a subire, attacchi sul piano economico, giuridico, nonché ideologico.

Anche sulle difficoltà di “mettere su famiglia” si comincia a parlare, nel contesto di una criticità più grande che coinvolge i giovani nel nostro Paese. Ma fino ad ieri, si può dire, c’è stata un’assoluta assenza di sensibilità su questo tema, talché, per me che vengo dal Sud, famiglia numerosa suona automaticamente come famiglia povera, marginalizzata economicamente e socialmente.

L’immagine è quella delle bocche da sfamare, come se, al di là delle necessità materiali e di fabbisogno da soddisfare, i figli non potessero rappresentare, come invece era nella società contadina, una risorsa. Non ne parliamo poi di come tuttora per una donna l’essere madre mal si concili non solo con la carriera, ma anche con il semplice mantenimento del lavoro, ove ci sia. E che dire poi degli stili, delle condotte e dei ritmi di vita che impone la società industriale confliggenti con le esigenze e i bisogni familiari?

C’è stata anche una progressiva, costante e perpetuata azione giuridica tesa a introdurre leggi che penalizzassero, ostacolassero, sfavorissero l’istituto familiare compromettendone l’unità. Essa è stata presentata come segno di modernità e civiltà, ma ha avuto l’effetto di minare la solidità del vincolo matrimoniale, fino a relativizzarlo. L’equiparazione delle unioni di fatto all’istituto familiare ne è un esempio, perché non si capisce come il rispetto che si deve alle persone a prescindere dall’orientamento sessuale debba significare sminuimento della famiglia naturale e della sua peculiarità.

Quindi, il mezzo più efficace, capace di far scoppiare la famiglia, è stata l’ideologia. Essa è alla base delle legislazioni contrarie, divorziste e abortiste, ma più pervasivamente si è insinuata nel comune senso morale alimentando, a sua volta, una svalutazione della famiglia.

Questa avversione è da mettere in relazione al carattere di unità adialettica della famiglia, in cui marito e moglie nella loro differenza sono inincardinabili in omologazioni di tipo ideologico. La famiglia è, come scrisse Emanuele Samek Lodovici, una società gerarchica singolare, in cui «la funzione del comando è legata al servizio e non all’esercizio del potere», uno scandaloso “coagulo di affetti incondizionati” in cui i legami sono frutto di coesione e non di coercizione. Quindi, non è una sintesi superante i singoli individui, ma un singolare assoluto che custodisce le persone nella loro particolarità.

Ma ancor più la famiglia è stata avversata in quanto “luogo del limite” in una società ideologizzata che invece ha creduto di abolire il limite. Questo è da intendersi almeno in due sensi: perché la famiglia si fonda su rapporti di dipendenza (da genitori, nonni, fratelli etc.) e perché luogo della tradizione.

Nel primo caso, ci si è adoperati piuttosto a insinuare la divisione nei rapporti tra marito e moglie, tra genitori e figli, tra fratelli, veicolando la contestazione, la lotta e il conflitto al suo interno. Ne sono derivati vari luoghi comuni: la famiglia come tomba dell’amore, i figli come marmocchi rumorosi e gravosi ostacolanti la realizzazione lavorativa.

Nel secondo caso la si è etichettata come attardata, appartenente ad un passato retrivo e opprimente, laddove la tradizione è stata vista come limitante l’individuo nella pretesa di costituire l’inizio incontrastato e libero. Ne è scaturita l’irresponsabilità caratteristica di un’adolescenza che si è protratta da noi fino all’inverosimile e ha impedito a giovani, o presunti tali, di crescere al punto da assumere responsabilità familiari, come invece avevano saputo fare i padri.

Aborto, un diritto in ostaggio della destra. Negare, eludere, ridimensionare: la maggioranza di Giorgia Meloni non affonda il colpo ma gioca per sottrazione. Smentisce la rilevanza dei medici obiettori. E continua a criminalizzare la Ru486. La legge sull’interruzione di gravidanza ha 45 anni. Ma non è ancora uguale per tutte. Susanna Turco su L'Espresso il 18 Maggio 2023

Non sempre l’attacco ai diritti ha il passo pesante da King Kong. In quest’era meloniana ha la sottigliezza dell’ambiguità, è subdolo come lo svolazzare di un pipistrello. Preferisce andare di riflesso, di rimbalzo. Trascurare, disapplicare, complicare. Assai più che affermare, cambiare, imporre. Le conseguenze non sono meno gravi: è più difficile però vederle arrivare. Si prenda ad esempio lo stop alle trascrizioni all’anagrafe dei figli di coppie omogenitoriali: è bastata una circolare prefettizia, combinata con il no del Senato alla proposta di adottare un certificato europeo di filiazione, a fare il risultato.

Una linea politica costruita per sottrazione, in cui si evita di riconoscere quello che c’è (i figli di coppie omogenitoriali), per privilegiare come «modello antropologico» la famiglia «dove ci sono ancora un papà e una mamma» negando persino di produrre una discriminazione: «Non c’è alcuna differenza tra i bambini», ha avuto l’ardire di sostenere la ministra della famiglia, Eugenia Roccella, subito dopo aver spiegato però che i figli delle coppie omo - a differenza di quelle etero - avranno due genitori soltanto previo ricorso al giudice per ottenere una «adozione per casi particolari».

Grossolani e facili, al confronto, i tempi di Silvio Berlusconi, quelli in cui, per fermare la volontà di Eluana Englaro, il Cavaliere tentava la via del decreto, con tanto di urla in Aula, scontro con il Quirinale, assunzione - se non altro - di una qualche responsabilità.

Nell’era di Giorgia Meloni prevale quello che Roberto Saviano chiama «l’estremismo dell’ambiguità». Una espressione che si presta bene a vestire l’atteggiamento nei confronti dell’aborto e della legge che lo regola, la 194 del 1978, approvata il 22 maggio di 45 anni fa.

A partire dall’ambiguità con cui ne ha parlato Giorgia Meloni a cavallo tra la campagna elettorale e la formazione del governo. Assicurare infatti che non si cambierà la legge ma che si vuole applicarla meglio - però solo per la parte che riguarda la prevenzione - può significare tante cose, in alcuni casi opposte, non tutte rassicuranti. Tanto più se chi lo dice è capace di negare le difficoltà di applicazione della 194, quando invece - hanno ricordato le attiviste di “Non una di meno” sfilando in piazza ad Ancona il 6 maggio - «in tutta Italia vediamo come l’aborto sia ostaggio dell’obiezione di coscienza».

Una pietra sull’accesso all’interruzione di gravidanza confermata dagli ultimi dati disponibili al ministero della Salute (risalgono al 2020): in Italia gli aborti continuano a calare (-9,3 per cento sul 2019), ma i medici obiettori sono sempre numerosi, mediamente il 64,6 per cento dei ginecologi, un numero che al Sud sale al 76,9, più di tre su quattro (con punte dell’83 in Abruzzo, 82 in Molise, 81 in Basilicata).

Un quadro che i dati disaggregati mostrano più chiaramente: l’inchiesta giornalistica “Mai dati”, condotta con l’Associazione Luca Coscioni da Chiara Lalli e Sonia Montegiove, ha evidenziato come alla fine del 2021 ci fossero 22 tra ospedali e consultori con il 100 per cento degli obiettori e 72 ospedali dove la percentuale di chi non pratica aborti è tra l’80 e il 100 per cento. Insomma ci sono luoghi in Italia dove non si può abortire - in tutto il Molise lo fanno due ginecologi e mezzo - ma per Giorgia Meloni vale quel che disse a Mezz’ora in più. Quando le fu chiesto come avesse in mente di affrontare la questione, come applicare non solo la prima (prevenzione), ma anche la seconda parte della 194 (l’accesso all’interruzione), rispose che il problema non c’era: «Non ho mai conosciuto una donna che non abbia potuto abortire in Italia».

Negare la questione aiuta a non risolverla, come sanno nelle Marche di Francesco Acquaroli dove il rifiuto di applicare, per due anni, le nuove linee guida per l’utilizzo della Ru486 ha portato la sua regione ad essere una specie di esperimento pilota: percentuali di aborto più basse della media nazionale, ricorso all’aborto farmacologico ridotto a un terzo, ospedali come quelli di Jesi e Fermo dove c’è l’obiezione di struttura (cioè non si fanno aborti), una regione che magari interrompe dopo quarant’anni la convenzione con l’Aied (è accaduto a gennaio, per Ascoli), ma patrocina gli eventi dei pro-vita (ad aprile, a Macerata).

Sul piano generale si tratta, per adesso, soprattutto di un clima. Non a caso, nelle tante resurrezioni operate da questo governo che vede le associazioni pro-life pimpanti come non mai, Giorgia Meloni ha riportato in auge, in posti chiave, un certo genere di personaggi, magari rimasti per qualche anno confinati nelle retrovie.

Uno dei più influenti è senz’altro Alfredo Mantovano, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, tra i membri di Alleanza cattolica, tradizionalista di destra, contrario all’eutanasia, al ddl Zan, alle coppie genitoriali, e ovviamente alla gestazione per altri. Un giurista che, sia pure molti anni fa, aveva scritto proprio sull’aborto parole che ancora campeggiano sul sito di Alleanza Cattolica, immaginando per la 194 una «prospettiva di riforma» che di fatto mandasse all’aria la legge stessa perché «va affermato senza incertezze che l’essere umano è tale dal concepimento, e quindi da quel momento ne va garantita l’intangibilità: l’articolo 1 della legge n. 194 tutela la vita umana “fin dal suo inizio”, ma trascura di riconoscere quando si ha quell'inizio», e quindi «si deve ripensare a misure, anche penalistiche, che dissuadano dalla pratica abortiva: non ha senso proclamare l’intangibilità della vita e ometterne la tutela sotto questo profilo».

Il ritorno di Mantovano ha portato con sé il ritorno - in quanto consulente per le politiche antidroga - del neurochirurgo anti-gender Massimo Gandolfini. Il leader del Family day era in piazza a San Giovanni anche un anno fa, per «contrastare tutte quelle derive legislative, normative che feriscono, annullano la vita dal concepimento alla morte naturale: le leggi che favoriscono l'aborto, il suicidio assistito, l'eutanasia, la morte volontaria e quella medicalmente assistita». Adesso agisce da consulente di Palazzo Chigi.

A loro si aggiunge un’altra grande protagonista, almeno sin dai family day dell’era ruiniana: Eugenia Roccella, oggi ministra della Famiglia, ieri sottosegretaria al Welfare e alla Salute, l’altroieri militante radicale e volto del referendum che considerava la 194 un compromesso al ribasso. Una biografia che si può riassumere con una parziale bibliografia dei suoi scritti: il primo fu “Aborto: Facciamolo da noi”, tra gli ultimi figurano “Eluana non deve morire”, “La favola dell’aborto facile”, “Fine della maternità” (dedicato all’eterologa).

Mentre il ministro della Salute Orazio Schillaci si guarda bene anche solo dal dire «194», Roccella in questi mesi è di fatto la portavoce del governo per i temi come questo. In ultimo, intervistata dopo la presentazione del suo libro ad Ascoli Piceno, ha ricordato come la 194 non abbia «nessuna difficoltà di applicazione». Né c’è un problema di «obiezione di coscienza», dice: «perché il carico di lavoro per i medici non obiettori è un aborto a settimana, quindi non c’è sovraccarico». Ecco la sottigliezza: Roccella cita il dato medio nazionale, non le singole realtà disaggregate e, in questo caso, presenti anche nella relazione depositata in Parlamento (strutture dove si fanno 9, 10, anche 16 aborti a settimana, ad esempio).

La parte più interessante delle sue posizioni è però quella che riguarda la pillola abortiva, la Ru486, che rappresenta la maggiore novità sul punto. Commercializzata in Italia nel 2009, imbrigliata nelle linee guida emanate dal Consiglio superiore della sanità proprio negli anni in cui al ministero c’era anche Roccella (inizialmente si obbligava a tre giorni di ricovero), la Ru486 è cresciuta costantemente nel suo utilizzo: il 20 per cento nel 2018, il 32 nel 2020. Fino ad avere un balzo nel quarto trimestre di quell’anno: 42 per cento. In agosto, motivate anche dalle necessità indotte dalla pandemia, entravano in vigore le nuove linee di indirizzo relative alla pillola abortiva, che - allineando l’Italia ad altri Paesi europei - ne rendevano possibile la somministrazione fino a 9 settimane (anziché 7) e la somministrazione anche in ambulatori e consultori e non solo in ospedale.

Bene: quello che per il resto del mondo sarebbe un’evoluzione, per Roccella è il male assoluto. E non da oggi. «Si vuole arrivare all'aborto a domicilio, con la pillola Ru486, abolendo l'obiezione di coscienza e l'obbligo di legge di eseguire gli interventi in strutture pubbliche», aveva detto a ottobre, in una intervista a governo appena insediato. Le stesse parole da sottosegretaria alla Salute, nel 2010: «Siamo di fronte ad un nuovo attacco, più subdolo, che è quello della pillola abortiva. Un metodo che porta all'aborto a domicilio se non viene adottata una governance attenta».

Secondo Roccella, infatti, «si crea una situazione di fatto che scavalca la 194 e impedisce obiezione e prevenzione». In effetti, con l’aborto farmacologico, il raggio d’azione del ginecologo è ridotto alla scelta di consegnare o non consegnare la pillola (niente più «ostaggi»), per il resto le statistiche del ministero raccontano di casi comunque seguiti dall’inizio alla fine, senza alcuna complicazione nel 97 per cento dei casi.

Ma sulla questione anche Meloni la pensa come Roccella: «Non si può dire che è una conquista di civiltà abortire da sole a casa con una pasticca che produce contrazioni ed emorragie solo perché bisogna sostenere per forza la tesi che abortire è facile» ha scritto in “Io sono Giorgia”.

Insomma, mentre tutti dicono che non ci sono problemi, come in un film di Quentin Tarantino, ciascuno ha preso la mira e ha il dito sul grilletto. Chissà da dove partirà il primo colpo.

"Il feto non esiste". E il collettivo femminista vandalizza i manifesti. Alcune esponenti di un collettivo femminista avrebbero vandalizzato i manifesti di una campagna di sensibilizzazione lanciata dall'Associazione Pro Vita & Famiglia. La replica dell'associazione: "Che c'è di male nel dire che vogliamo tutelare ogni vita? Per il collettivo esistono vite "di serie A" e di "serie B", a quanto pare". Giovanni Fiorentino il 4 Marzo 2023 su Il Giornale.

In disaccordo con i manifesti che ribadiscono l'importanza della vita, alcune esponenti di un collettivo femminista avrebbero pensato bene di strapparli o di vandalizzarli incollandovi sopra altri cartelli senza alcuna autorizzazione. Questo perlomeno è quanto denunciato dall'Associazione Pro Vita & Famiglia nelle scorse ore che non ha nascosto la propria perplessità per l'accaduto, condannando fermamente il gesto.

L'episodio in questione si sarebbe svolto a Pisa, dove l'associazione ha lanciato una campagna di sensibilizzazione acquistando regolarmente lo spazio pubblicitario su alcuni cartelloni posti per le vie della città. "La vita vale sempre", la frase ben leggibile sui manifesti, corredato dall'immagine di sette persone diverse per età ed etnia, a rimarcare la trasversalità e l'inclusività del messaggio. Un'iniziativa pacifica e tutt'altro che offensiva, dunque. Ma che, sempre stando a quanto fatto sapere da Pro Vita, qualcuno non avrebbe accolto affatto bene.

Si tratterebbe in primis del collettivo femminista "Non Una di Meno", che avrebbe preso di mira i manifesti: in alcuni casi, le esponenti del collettivo li avrebbero strappati, in toto o in parte. In altri li avrebbero invece coperti con altri manifesti da loro prodotti che inneggiano alla libera scelta ("Scegliamo quando e come vivere"). "Il feto non esiste, di per sè", la motivazione adottata per giustificare quelli che si prefigurano alla stregua di veri e propri atti vandalici. Donatella Isca, referente del Circolo Territoriale della Toscana di Pro Vita & Famiglia Onlus, non le ha mandate a dire, in un comunicato apparso sul sito internet dell'associazione: "Hanno scritto che il feto non esiste. Stentiamo a credere ad un’affermazione così assurda e antiscientifica del collettivo femminista Non Una di Meno per giustificare gli atti vandalici contro i nostri manifesti sulla tutela della Vita, in ogni sua forma, fase e condizione. Affermano che la nostra campagna sarebbe “pericolosa” - si legge nel comunicato - cosa c’è di pericoloso nel dire che “Ogni Vita vale”? Cosa c’è di pericoloso nel dire che vogliamo tutelare ogni vita: quella del concepito, dei neonati, delle persone con Sindrome di Down, dei migranti, delle donne incinte, degli anziani e dei disabili?"

E nell'ultima parte della nota, Isca non ha risparmiato un'ulteriore "stoccata" al collettivo. "Non Una di Meno ha gettato la maschera e ha rivelato che per le femministe esistono vite di "serie A" e vite di "serie B", addirittura sostenendo che un feto neanche esiste. Ebbene, care femministe, non siamo noi ma è la scienza a dire che c’è vita fin dal concepimento e il vostro vandalismo non ci fermerà - ha concluso - aver coperto il nascituro e lo slogan dei nostri manifesti con le vostre frasi sulla “libertà di diventare genitori” non ci fermerà. Per noi, come per la scienza, tutte sono persone e degne di essere trattate come tali. Continueremo a difendere tutte le vite perché sempre degne di essere vissute e di vedere la luce. Continueremo con le nostre campagne, i nostri manifesti, i nostri convegni e le azioni su tutto il territorio toscano e nazionale".

Emanuele Savino e Anna Gammella.

Da ansa.it mercoledì 15 novembre 2023.

Sospettati fin da subito di aver provocato il 2 settembre scorso la morte della figlia di appena 45 giorni, sono stati arrestati e portati in carcere per omicidio volontario pluriaggravato e maltrattamenti in famiglia Emanuele Savino, 26 anni, e Anna Gammella, di 19, coppia residente a Santa Maria a Vico, nel Casertano. 

Ma la realtà che è emersa in poco più di due mesi di indagini, condotte dalla procura di Santa Maria Capua Vetere e dai carabinieri di Maddaloni, è ancora più agghiacciante di quello che sembrava in un primo momento: ad uccidere la piccola Aurora, è risultato dall'autopsia, non è stata infatti solo l'acqua bollente con cui i genitori l'avevano lavata per uno dei primi bagnetti della sua breve vita, ma anche le botte e i maltrattamenti ricevuti dai genitori.

Una coppia che, nonostante la giovane età, ha anche altri due figli piccoli, che sono stati loro tolti subito dopo il delitto e affidati ad una comunità. Gli accertamenti medico-legali hanno rivelato che il papà avrebbe colpito violentemente alla testa la figlia neonata provocandole una doppia frattura al cranio e al viso e un grosso e visibile ematoma, e che tale condotta, insieme alle ustioni provocate dal bagnetto troppo caldo, ne avrebbe provocato la morte per insufficienza cardio-respiratoria. Troppo gravi le lesioni subite perché la neonata potesse sopravvivere. 

Gli inquirenti hanno poi accertato che la coppia non avrebbe mai sottoposto la piccola, nei 45 giorni di vita, a visite mediche, ricorrendo a cure fai da te; addirittura sembra che usassero lo strutto come pomata per guarire le ferite provocate alla neonata. Padre e madre sono stati incastrati anche dai messaggi scambiati nelle chat estrapolate dai cellulari sequestrati dopo il fatto, da cui è emerso il totale stato di abbandono della piccola e l'indifferenza verso le sue sofferenze. La morte della neonata aveva provocato uno choc nella comunità di Santa Maria a Vico. Lo stesso sindaco Andrea Pirozzi si era detto costernato perchè conosceva bene i genitori del 26enne papà della neonata.

[…] Quando la piccola fu trovata morta nella culla i genitori spiegarono ai carabinieri, che avevano riscontrato ecchimosi, scottature e lesioni sul corpo della neonata, che la figlia si era addormentata dopo aver fatto un bagnetto, senza più svegliarsi, e che la pediatra da loro contattata gli aveva consigliato di utilizzare una pomata per le ustioni. Una versione cui gli inquirenti non hanno mai creduto, tanto che la Procura (sostituto Stefania Pontillo e procuratore Pierpaolo Bruni) li aveva iscritti nel registro degli indagati.

Monia Bortolotti.

Chi è Monia Bortolotti, arrestata a Bergamo per avere ucciso i suoi bambini: «Ho cercato di essere la mamma che non ho avuto». Maddalena Berbenni su Il Corriere della Sera il 5 novembre 2023.

Il doppio infanticidio di Pedrengo, Bergamo. Monia Bortolotti, detta "Mia", è stata l'ultima orfana di Madre Teresa di Calcutta a essere adottata in Italia, a Gazzaniga, su Facebook si difendeva dalle accuse

«E la Procura incolpa me, come se tutta questa tragedia fosse voluta, cercata. A nessuno importa che i miei bimbi fossero seguiti e tenuti come fiorellini, perfetti. A nessuno importa come io cercassi disperatamente di essere la mamma che non ho mai avuto». La difesa di Monia Bortolotti era lì, gettata in pasto ai social network mesi prima del suo arresto per l’omicidio volontario dei figlioletti Alice e Mattia, 4 e 2 mesi.

L’ultima orfanella di Madre Teresa di Calcutta a essere adottata in Italia poco prima della scomparsa della santa, saputo dell’indagine che la metteva al centro dei sospetti, si era sfogata sulla pagina Facebook del gruppo Sids Awareness. «Sids» sta per Sudden infant death syndrome, la sindrome della morte in culla. «Care mamme e cari papà — scrive Bortolotti il 20 agosto scorso —, ho perso la mia prima bimba in culla, soffocata da un rigurgito. La colpa è mia, per averla messa a dormire di lato sui suoi cuscinotti tanto morbidi. E il secondo, nato l’anno successivo, andatosene molto probabilmente schiacciato da me mentre mi sono addormentata allattandolo. Al mio risveglio era ancora vivo, ma per poco. La colpa è ancora mia perché, per evitare la stessa tragedia avvenuta alla sorellina, lo tenevo in braccio giorno e notte, camuffando le mie paure per non disturbare nessuno». Bortolotti sembra darsi ogni colpa, ma descrivendo sempre i fatti come accidentali e, in definitiva, auto-assolvendosi: «Perché adottata? Perché adottata da una mamma nociva e anaffettiva? Chi lo sa...», dice di se stessa.

Il riferimento è ai rapporti difficili con la madre che l’ha cresciuta, Laura Brena, mentre risulta che la ragazza sia molto legata al padre Pietro, che l’ha ospitata nell’ultimo periodo a Gazzaniga. I genitori, entrambi 63enni, sono separati. Nessuno, alla porta del padre, ieri, ha voluto rispondere. Nata in India il 17 maggio 1996, nel paese della Val Seriana Monia è stata battezzata, ha frequentato le scuole e vissuto fino quando non è rimasta incinta del compagno Cristian Zorzi, 52 anni. Allora ha lasciato il lavoro come insegnante di ballo e si è trasferita nella sua casa a Pedrengo, con il giardino e il cespuglio di ortensie della fotografia con il pancione.

I rapporti con lui si sarebbero interrotti una volta arrivata la consulenza del medico legale: «Per me amare — scrive sempre ad agosto «Mia», così la chiamano tutti — significa stare accanto a qualcuno nella buona e nella cattiva sorte, ma non tutti sono disposti a questo». E ancora: «È in queste tragiche situazioni di dolore estremo che una coppia dovrebbe stringersi ancora di più, per amore! Ma quando amore non è mai stato, allora non sarà mai».

Alla luce delle accuse, sono agghiaccianti le frasi contenute nel primo post del 3 febbraio, quando pubblica anche due foto di lei e dei bambini: «Io giorno e notte continuo a chiedermi come sia successo e se sia davvero possibile sopravvivere a questo dolore, perché i bimbi non dovrebbero stare da nessuna parte, se non tra le braccia di mamma e papà». Nell’ultimo, del 13 ottobre, scrive così: «Vado avanti solo per proteggere l’amore immenso che provo per i miei bimbi dalle accuse della procura, perché i miei bimbi erano tenuti come gioielli, erano la gioia che cercavo da una vita».

Monia Bortolotti, la bugia sull'amica mai arrivata il giorno della morte del figlio Mattia. Maddalena Berbenni su Il Corriere della Sera il 7 novembre 2023.

Il duplice infanticidio di Bergamo, la madre arrestata disse ai familiari, che non volevano lasciarla sola, che avrebbe ricevuto una visita. Ma non c'è mai stata traccia di quell'appuntamento. In vista dell'interrogatorio, anche per proteggerla da gesti estremi, è stata trasferita in ospedale  

Monia Bortolotti, 27 anni, ha origini indiane. Fu adottata da una coppia di Gazzaniga nell'orfanatrofio di Madre Teresa di Calcutta 

La tomba di Mattia non è accanto a quelle della sorellina e degli altri bambini sepolti ai piedi di schiere di angioletti. È nell’ultimo angolo del cimitero. Fatichi a trovarla perché devi infilarti lungo i vialetti, tra le cappelle e poi andare ancora più giù, oltre una parete dove i loculi sono in buona parte intonsi. Sembra non possa esserci altro, dopo. E invece c’è lui. Da solo. Certo, con i pupazzi, i fiori, le dediche, i lumini e una macchinina rossa. Ma da solo. Se possibile, oggi, fa stringere ancora più il cuore.

La finta visita

Il giorno in cui Mattia morì, il 25 ottobre 2022, la madre Monia «Mia» Bortolotti, 27 anni, era da sola in casa a insaputa dei familiari. Il suo compagno Cristian Zorzi, 52, e il padre adottivo Pietro Bortolotti, 60, si preoccupavano di non lasciarla mai, da quando il piccolino era stato dimesso dal Papa Giovanni XXIII dopo un ricovero durato più di un mese. E non perché nutrissero sospetti o perché in ospedale glielo avessero suggerito, ma perché erano preoccupati, loro, che la ragazza non reggesse lo stress dopo il parto a meno di un anno dalla tragedia della primogenita Alice. Quel giorno di ottobre, un martedì, Mia aveva rassicurato entrambi, dicendo che l’avrebbe raggiunta un’amica, che non c’era bisogno che rimanessero con lei. Ma l’amica non si è mai presentata e nessuno ha trovato tracce di un appuntamento fissato o disdetto, di un contatto telefonico, di un messaggio in chat. 

Trasferita in ospedale per l'interrogatorio 

Mattia aveva due mesi, Alice, morta il 15 novembre 2021, quattro. Monia Bortolotti è accusata di averli uccisi perché non riusciva a sopportare la frustrazione del loro pianto, quando non ne capiva le ragioni e non sapeva gestirlo. L'ipotesi sul giorno della morte del piccolino è che la donna volesse rimanere da sola. I carabinieri della Sezione operativa della compagnia di Bergamo l’hanno accompagnata in carcere sabato (4 novembre 2023), prelevata all’alba dall’appartamento del papà, a Gazzaniga, dove era tornata da fine agosto. Di fronte a loro, non ha pronunciato una parola né versato lacrime. Ora, si trova invece nella cella di sicurezza del Papa Giovanni, dove è stata trasferita in vista dell’interrogatorio di garanzia con il gip Federica Gaudino, questa mattina (7 novembre). Una forma di precauzione per evitare possibili gesti di autolesionismo, considerata la drammaticità della vicenda e l’estrema gravità delle accuse che le vengono rivolte.

L'accusa del duplice omicidio e le autopsie 

L’assiste l’avvocato Luca Bosisio, da tempo, perché è stata iscritta nel registro degli indagati dal pm Maria Esposito fin dall’autopsia di Mattia, disposta subito. Il suo consulente ha condiviso le conclusioni di quello della Procura, cioè che il bambino sia morto per «un’asfissia meccanica acuta da compressione del torace». Ma mentre gli inquirenti sono convinti che sia stata provocata volontariamente da un abbraccio mortale, per la donna fu una disgrazia. Nei tre post scritti su Facebook, su un gruppo dedicato alle morti in culla, scrive di avere schiacciato il figlioletto dopo essersi addormentata. A suo dire, lo teneva sempre in braccio per la paura che finisse come con Alice. Una morte in culla o forse causata da alcuni cuscini sistemati male, sempre secondo Bortolotti. Per gli investigatori, invece, anche in quel caso fu un omicidio volontario, con la piccina soffocata probabilmente con uno dei cuscini di cui, a un certo punto, a indagini avviate, la madre ha iniziato ad accennare.

Gli elementi su Alice 

Gli anatomopatologi non sono stati in grado di dare risposte sulla bambina, perché il suo corpicino era in avanzato stato di decomposizione, ma proprio le contraddizioni della 27enne, unite al fatto che anche quel giorno era da sola in casa e che la figlia era sana, hanno spinto il pm a formulare l’ulteriore contestazione. Inoltre, i medici del 118 aspirarono latte dalla trachea della piccola, per cercare di salvarla. Se allora, per questo, era sembrato che potesse essere stato un rigurgito a soffocarla, oggi sarebbe un elemento, per il medico legale del pm, compatibile con una compressione del torace.

Il dramma della madre adottiva e dei familiari 

La famiglia è distrutta. E finora, quei pochi hanno pronunciato solo singole frasi. Chiedono il silenzio. «Non avete idea di che cosa si provi», lo sfogo ai giornalisti di Cristian Zorzi, che nell’ultimo periodo si era allontanato dalla 27enne. «Non pensiamo sia stata lei, io non posso crederlo», le parole di suo padre, Giovanni Zorzi, la sera dell’arresto. Dalla parte di Monia, solo porte chiuse e cappucci alzati per non rischiare di essere ripresi, a Gazzaniga, da parte di Pietro Bortolotti, che condivide il suo dolore con la nuova compagna. Monia le è legata e anche da lei aveva ricevuto aiuto dopo la seconda gravidanza, mentre non frequentava la madre adottiva Laura Brena, 60 anni anche lei. Da dopo la separazione, vive a Vertova, dove nessuno ha mai visto la figlia. Ieri pomeriggio, è uscita per una camminata, scansando i cronisti che l’aspettavano al cancello. «Come volete che si senta?», la reazione protettiva della donna che si è allontanata a passo spedito insieme a lei. Anche qui, solo dolore. Nata il 17 maggio 1996, Monia era stata adottata in India quando aveva un anno, poco prima della morte di Madre Teresa di Calcutta. Fu l’ultima delle sue orfanelle ad arrivare in Italia per quella che doveva essere una vita migliore.

Estratto dell’articolo di Monica Serra per “La Stampa” lunedì 6 novembre 2023.

Risponde al citofono sfinito che sono le sei di sera: «Non potete capire il dolore, non avete idea di quel che si prova». Papà Cristian non vuole parlare: «Non ho più niente da dire. È così oggi e sarà così sempre». 

Asserragliato nell'appartamento al piano terra di questo condominio di villette a schiera a Pedrengo, pochi chilometri da Bergamo, ha vissuto l'incubo delle ultime 48 ore. L'arresto della compagna Monia Bortolotti, 27 anni, con l'accusa di aver ammazzato entrambi i suoi bimbi pochi mesi dopo averli dati alla luce. La certezza più atroce che ha preso il posto dei sospetti che hanno distrutto anche la sua relazione, fino alla separazione di due mesi fa.

Dopo la morte della prima figlia, Alice, oggi per l'accusa soffocata dalla madre il 15 novembre 2021, per gli investigatori Monia Bortolotti aveva già provato a uccidere il piccolo Mattia, nato appena dieci mesi dopo. La prima volta che è finito in ospedale era il 14 settembre 2022, aveva appena 19 giorni. È proprio Monia a raccontarlo in un lungo sfogo sul gruppo Facebook «Sids Awareness» che raccoglie le esperienze dei genitori di figli morti in culla. 

«Alice, una piccola scoiattolina dalle guanciotte paffute, due giorni prima dei suoi quattro mesi – scriveva la madre il 1° febbraio – si è addormentata nella sua cullina con il dolce suono del suo carillon preferito. Tempo dopo giurai a me stessa che, se mai avessi avuto la benedizione di cullare un secondo bimbo, le mie braccia sarebbero sempre state la sua culla. Il nostro desiderio si è avverato inaspettatamente presto. Così è venuto al mondo il nostro arcobaleno di speranza, un dolce koala mangione, che però già a due settimane di vita è stato ricoverato in ospedale per apnea durante una poppata».

La chiamata al 112 quel pomeriggio è arrivata presto. Papà Cristian era di turno al colorificio e per poco, pochissimo tempo, Monia era rimasta da sola con il piccolo. Dopo una corsa in ambulanza all'ospedale Papa Giovanni di Bergamo, Mattia si era ripreso. Ma proprio per via del precedente, della morte improvvisa di Alice l'anno prima, i medici del reparto di patologia neonatale hanno voluto vederci chiaro.  […] 

Elettrocardiogrammi ed esami genetici per escludere che il bimbo fosse affetto da qualche malattia. Ma per i pediatri era sanissimo. Il ricovero era andato avanti per oltre un mese e Monia era rimasta in ospedale col piccolo nel «box», una stanza con spazi ristretti in cui la madre avrebbe mostrato segni di insofferenza alla convivenza forzata col figlio. 

Accade spesso anche con altre madri, ma proprio per via della morte della prima figlia i medici si erano un po' insospettiti. E avevano così deciso di sottoporre la 27enne di origine indiana, adottata quando aveva un anno e con un difficile rapporto con la madre («Cercavo disperatamente di essere la mamma che non ho mai avuto»), a un consulto psichiatrico.

L'esperto aveva escluso che la donna fosse affetta da qualche patologia psichica (anche le indagini dei carabinieri di Bergamo, diretti dal maggiore Carmelo Beringheli, lo confermano). Ma proprio a causa dello stress che anche la donna aveva manifestato, lo psichiatra avrebbe consigliato di evitare di lasciarla da sola col bambino. 

Così il compagno, Cristian, e il padre adottivo della 27enne, Pietro, con la sua compagna, facevano i turni per starle sempre accanto. È capitato neanche una settimana dopo le dimissioni dall'ospedale e il ritorno a casa di Monia: l'unica volta in cui era rimasta sola con Mattia erano le 9 del mattino del 25 ottobre 2022, il giorno in cui il piccolo è morto, per l'accusa, stretto in un «abbraccio letale» della madre. […]

La custodia cautelare. Pedrengo, arrestata giovane madre per infanticidio: “Ha soffocato e ucciso i suoi due figli”. La donna di origini indiane di 27 anni è accusata di aver ucciso i suoi due figli, una bambina di quattro mesi e un bambino di due anni. Redazione su Il Riformista il 4 Novembre 2023

A Pedrengo, in provincia di Bergamo, è stata arrestata una donna di 27 anni con l’accusa di infanticidio. Avrebbe soffocato i suoi due figli, una bambina di quattro mesi, nel 2021, e un bambino di due anni, nel 2022. Si pensava fossero morti per cause naturali, ma il secondo decesso ha fatto scattare le indagini dei carabinieri sulla donna di origini indiane. Alla fine, dopo più di un anno dall’ultimo caso, è arrivata l’ordinanza di custodia cautelare.

Le indagini sulla madre

Le indagini sono state coordinate dalla Procura della Repubblica di Bergamo e condotte dalla sezione operativa della compagnia Carabinieri di Bergamo, hanno permesso di raccogliere gravi indizi di colpevolezza a carico della giovane madre, accusata ora di aver ucciso i suoi figli. A farle scattare, è stata la morte del secondo figlio, il 25 ottobre 2022, avvenuta in circostanze simili al decesso della prima figlia.

La madre non soffriva di disturbi psichici

Sempre dalle indagini, sarebbe emerso che la donna non soffrirebbe di alcun tipo di problema psichico. Anzi, avrebbe agito “nella piena capacità di intendere e di volere, apparendo lucida, ben orientata, con grande capacità di linguaggio, razionalizzazione e freddezza, caratteristiche palesate, tra l’altro, nell’organizzazione della propria difesa, dopo aver scoperto di essere sospettata dei due infanticidi”.

La morte dei due bambini

In entrambe le occasioni, i figli erano presenti a casa solo insieme alla madre. Nel caso della prima figlia, la donna aveva riferito di aver dato il latte alla bambina di averla fatta digerire in braccio fino a farla addormentare. Dopo una doccia, avrebbe controllato la culla e avrebbe scoperto che la piccola era diventata cianotica e non respirava più. A quel punto il medico che aveva constatato il decesso, in assenza di evidenti segni esterni, aveva sostenuto potesse essere avvenuto un deficit nella deglutizione, forse per la nascita prematura della bambina, nata di sette mesi.

Nel secondo caso, l’esito dell’esame autoptico, fatto nel mese di febbraio aveva rivelato che la morte del bambino fosse stata causata da un’asfissia meccanica acuta da compressione del torace. Per gli inquirenti, è stata un’asfissia ottenuta attraverso un’azione volontaria, con l’intento di causare la morte.

Ilaria Carra per milano.repubblica.it - Estratti mercoledì 8 novembre 2023.

Medici e infermieri dell’ospedale di Bergamo si erano sì accorti della «sua grossa insofferenza», manifestata verso i figli ed espressa in più di un’occasione. E di questa forma di rifiuto della maternità Monia Bortolotti ha dato tanti segnali, prima di quel terribile doppio infanticidio per cui adesso è stata arrestata. Alcuni più espliciti, altri meno. Dalla sua fragilità passata a quella più attuale. Anche rivolta verso se stessa. 

Tra gli indizi più chiari ci sono quelli che la portano in ospedale al papa Giovanni XXIII, oltre un mese ad assistere il suo secondogenito Mattia, che il 14 settembre 2022 viene soccorso a casa da un’ambulanza chiamata da lei. Il bimbo sta soffocando, «un’apnea dopo la poppata» dice la mamma ai medici, una stretta volutamente troppo forte, invece, per gli investigatori.

Una delle tante. Perché anche nel reparto di patologia neonatale, quando Mattia entra che ha 19 giorni, la sua incapacità di gestire il bambino e di sopportare il suo pianto - indicata dagli inquirenti come movente dei due presunti omicidi, di Mattia, 58 giorni, e un anno prima di Alice, due mesi - emerge chiaramente. Dopo qualche giorno a stretto contatto lei e il bimbo, il suo disagio esce. E un giorno capita che sia un’infermiera a correre, perché il piccolo piange e all’ultimo le deve togliere Mattia dal petto mentre la mamma lo sta stringendo troppo forte, quasi a non farlo respirare più. Incapace di gestire lo stress che i figli comportano, per chi indaga, quando, secondo il gip, non sarebbe stata sottoposta a stress diversi da quelli di tutte le madri con figli neonati. 

(..)

Tutta la famiglia sapeva della sua fatica a gestire e sopportare i suoi figli, specialmente Mattia. E sapeva anche della sua insofferenza mostrata prima che nascesse il piccolo, quando era ancora in grembo e l’autolesionismo della mamma era rivolto proprio lì, in quella parte del corpo. Con le testimonianze dei famigliari su questi gesti che sono agli atti di indagine. Il compagno non si fidava più a lasciarla da sola con Mattia. Anche seguendo quanto indicato alle dimissioni dagli esperti, non la lasciavano mai da sola in famiglia. Il compagno Cristian la portava sempre dai nonni paterni quando doveva andare al lavoro al colorificio. 

Ma quella mattina del 25 ottobre 2022, otto giorni dopo le dimissioni dall’ospedale, Monia dice una bugia. Deve andare dallo psicologo al Cps e al compagno dice di stare tranquillo, lo rassicura che la porterà un’amica. Di cui, però, non c’è mai stata traccia, né un messaggio, né una telefonata. Succede che si trova da sola, per la prima volta dopo il lungo ricovero, lei e il suo bambino Mattia, che quella mattina muore soffocato. «Per asfissia meccanica» dirà l’autopsia.

(...)

Kindelan Ballester Da Maris.

Livorno, bimbo morto a due anni: la madre in cella. L’ipotesi di una vendetta contro il papà. Andrea Vivaldi e Luca Serranò su La Repubblica il 2 Settembre 2023. 

Accertata la presenza di gravissime lesioni da caduta. Il gip firma una misura cautelare in carcere per omicidio premeditato. L’accusa è che la donna abbia spinto o lasciato cadere il figlio dalle scale

Le telecamere l’hanno ripresa mentre entra in un palazzo con il figlio, nel quartiere popolare di Borgo Cappuccini a Livorno. Una notte di vuoto, poi le immagini strazianti di lei che esce con il bambino in braccio, ormai esanime.

È stata una fine drammatica quella del piccolo Marcus, due anni e mezzo, morto la notte tra il 16 e il 17 agosto scorso in circostanze che da subito avevano destato sospetti: la mamma, Kindelan Ballester Da Maris, una cittadina cubana di 38 anni residente a Torino ma in Toscana per un periodo di vacanza, aveva infatti parlato di un malore seguito a un incidente in un parco giochi, avvenuto il giorno precedente.

Una versione smontata dalle indagini della squadra mobile e dal responso dell’autopsia - accertata la presenza di gravissime lesioni da caduta -, tanto da spingere il gip a firmare una misura cautelare in carcere per omicidio premeditato. L’ipotesi è che la donna abbia spinto o comunque lasciato cadere il figlio dalle scale, e che si sia nascosta nel palazzo fino al giorno successivo, quando ha dato l’allarme.

L’arresto è scattato, tra le altre cose, per il pericolo di fuga, valutato come concreto dopo che la cittadina cubana ha lasciato Livorno nonostante l’invito degli investigatori a restare in città.

Riguardo al movente, non si escluderebbe un’atroce “vendetta” contro l’ex marito, un manager torinese di 48 anni che aveva ottenuto l’affidamento esclusivo del bambino: proprio durante il procedimento, spiegano fonti vicine alle indagini, erano affiorati segnali di una personalità complessa e instabile.

Secondo la ricostruzione, il piccolo doveva passare due settimane di vacanza con la mamma tra la Toscana e l’Emilia-Romagna, e proprio il giorno dell’omicidio sarebbe dovuto tornare dal padre. Non è chiaro se durante la vacanza sia successo qualcosa, o se invece la donna avesse pianificato l’omicidio già dal primo giorno.

Di certo ci sono quelle immagini di lei che esce dal palazzo con il figlio in braccio, la testimonianza incerta agli inquirenti, i vuoti nella ricostruzione. E quei traumi sul corpo del bambino, che già sul momento avevano spinto procura e squadra mobile a imboccare la pista dell’omicidio. L’allarme era scattato intorno alle 5 di mattina, quando l’arrestata aveva avvisato il 118 raccontando che il piccolo stava molto male: il medico aveva tentato tutte le manovre di rianimazione, ma una volta arrivati in ospedale anche le ultime speranze si erano spente.

Viste le tante incongruenze («è caduto da uno scivolo», le parole della donna), il pm aveva ordinato l’autopsia e delegato verifiche sugli spostamenti della madre. Accertamenti che alla fine hanno portato a un interrogatorio, al termine del quale la donna ne è uscita come indagata. Da qui la richiesta di non allontanarsi da Livorno, seguita a sorpresa dalla “fuga” a Torino. Inevitabile l’arresto.

Elisa Roveda.

"Ho ucciso mio figlio". Orrore nel Pavese, mamma strangola il figlio di un anno. Rosa Scognamiglio il 14 Luglio 2023 su Il Giornale.

La donna avrebbe agito in preda a un raptus e sarebbe stata lei stessa ad allertare i soccorsi. Per il piccolo non c'è stato nulla da fare mentre la madre si trova ricoverata in Psichiatria. A chiamare i soccorsi è stata la nonna del bimbo

"Ho ucciso mio figlio, venite a prendermi". Quando i carabinieri si sono precipitati sul luogo della segnalazione, hanno scoperto che Elisa Roveda, una mamma di 45 anni, aveva appena strangolato il figlioletto di un anno. Sul posto, un appartamento alla periferia di Voghera (Pavia), sono intervenuti gli operatori del 118, che però non hanno potuto far altro che constatare il decesso del piccolo Luca. La donna, che avrebbe agito in preda a un raptus, ora si trova ricoverata nel reparto di Psichiatria dell'ospedale San Matteo. Quando sarà possibile, i magistrati la interrogheranno in presenza di un avvocato.

I fatti

La tragedia si è consumata in un'abitazione di via Mezzana a Voghera, in provincia di Pavia, attorno alle ore 9 di questa mattina. Dai primi accertamenti sembra che sia stata la donna ad autodenunciarsi chiamando il 112 subito dopo aver strangolato il figlioletto. Dopodiché la nonna del bimbo avrebbe allertato il 118. Purtroppo, però, quando i soccorritori sono arrivati sul posto il piccolo era già morto.

"Un raptus"

La 45enne, che era da sola in casa al momento del fatto, avrebbe agito in preda ad un raputs. Per questo motivo è stata accompagnata al Policlinico San Matteo di Pavia, dove ora si trova ricoverata per accertamenti psichiatrici. Verosimilmente, non appena le condizioni della donna lo consentiranno, sarà sottoposta a fermo da parte dei carabinieri.

"Era un po' depressa"

Secondo quanto apprende l'Ansa, la donna sarebbe rimasta da sola in casa soltanto un'ora. Quanto è accaduto il fatto, il padre del bimbo, Maurizio Baiardi, si trovava al lavoro. Sarebbe stata la suocera ad informalo della tragedia. "La conosco, è una bravissima persona. - ha raccontato una vicina di casa della donna - Lei mi ha detto che era un po' depressa. Però stava bene, era da cinque anni che voleva questo bambino. Sono tutti bravi in quella famiglia, anche il marito e la nonna del bimbo".

Il sindaco: "Gesto terribile, siamo attoniti"

"Rimaniamo attoniti di fronte a un bimbo strappato alla vita da un gesto terribile. Attendiamo di sapere di più dalle forze dell'ordine sulla tragedia che questa mattina ha sconvolto la nostra città". Lo scrive su Facebook il sindaco di Voghera, Paola Garlaschelli, in merito alla morte del bimbo di un anno strangolato dalla mamma. "Per ora - aggiunge Garlaschelli - un pensiero di dolore enorme e di vicinanza alla famiglia".

Veronica Amistadi.

Estratto dell'articolo di Silvia M.C Senette e Lorenzo Pastuglia per corrieredeltrentino.corriere.it il 22 maggio 2023.

I corpi senza vita di una donna, Veronica Amistadi di 41 anni, e del figlio di 4 sono stati recuperati all'alba di domenica nelle acque del torrente Noce a Mostizzolo di Cles, in Trentino, sotto un viadotto alto quasi 90 metri tristemente noto in provincia per i suicidi. 

A dare l'allarme, intorno all'una della notte tra sabato e domenica, erano stati alcuni automobilisti di passaggio per il piccolo centro che collega alla Val di Non: diversi conducenti in transito avevano notato un'auto abbandonata sul ponte, le porte erano aperte e all'interno dell'abitacolo non c'era nessuno.

[…] Le operazioni di ricerca, avviate nella notte, hanno visto impegnati per ore i vigili del fuoco volontari di Malè, Cis e Taio, gli uomini del soccorso alpino, il personale sanitario, il gruppo speleologico e un elicottero. Solo alle prime luci dell'alba è stato però possibile individuare i due corpi senza vita, rinvenuti a breve distanza dal greto del torrente Noce e recuperati a fatica dai soccorritori nella profonda gola del corso d'acqua. 

Si ipotizza che la donna - Veronica Amistadi, originaria di Roncone, in alta valle del Chiese, e da anni residente a Trento - si sia gettata con il figlio in un estremo gesto di disperazione. È probabile che si sia buttata dal ponte di Mostizzolo dopo aver abbandonato l'auto a bordo carreggiata, ma sulla dinamica della tragedia familiare e sulle sue cause stanno indagando i carabinieri di Cles.

[…] A suffragare la tesi dei militari è una dinamica che lascia supporre quanto accaduto: l'orario della tragedia, il luogo, l'auto abbandonata sul ponte. Lo stesso ponte che, in passato, diverse persone avevano scelto per porre fine alla loro vita. 

Anche le ricerche di Sara Pedri, la ginecologa di Forlì scomparsa due anni fa dopo mesi di mobbing da parte dei superiori, si concentrano sul ponte di Mostizzolo: lì era stata rinvenuta la sua auto e lì si perdono le tracce fiutate dai cani molecolari.

Dopo la laurea in economia e commercio internazionale a Verona nel 2005, Veronica Amistadi aveva conseguito un primo master nel 2009 in marketing e logistica all'università Bocconi di Milano dove, nel 2021, aveva ottenuto il secondo master in "leading change" (direzione del cambiamento). […]

Mamma e figlio morti nel Noce, l'angoscia della donna in due lettere. Dafne Roat, ​Marzia Zamattio su Il Correre della Sera il 23 maggio 2023.

Trento, la procura indaga per istituzione al suicidio: in casa le ultime tre foto e la password del computer 

Tre fotografie appoggiate al tavolo, accanto alla password del computer. Immagini di lei, del piccolo Riccardo, di mamma e figlio insieme, scattate poche ore prima della tragedia raccontano più delle parole. L’amore di una madre, il dolore e un disagio profondo, nascosto dietro al suo sorriso dolce, che nessuno aveva compreso davvero. Il biglietto lasciato in auto che accenna alla relazione complicata con l’ex compagno con il quale si era lasciata dallo scorso settembre e la lettera inviata a un quotidiano, per i familiari e gli amici di Veronica Amistadi non sono sufficienti a spiegare quel volo di novanta metri dal ponte di Mostizzolo, nel torrente Noce con il figlioletto di soli quattro anni tra le braccia. L’ultimo viaggio, non senza Riccardo. «La cosa più preziosa che ho», aveva scritto su un’agendina fitta di appunti e pensieri. È difficile anche solo immaginare la tempesta di emozioni che si agitava in lei e la lucida disperazione che l’ha spinta sabato sera a salire in auto e guidare fino al ponte di Mostizzolo, lasciare la sua Volkswagen Touran a lato della strada con le chiavi inserite nel cruscotto e le quattro frecce accese, e avviarsi verso quel ponte tristemente noto in valle per i suicidi. Il parapetto alto un metro e mezzo e il salto nel vuoto di decine di metri. All’interno della macchina è stato trovato uno dei biglietti scritti dalla manager di 41 anni, originaria di Roncone, ma residente a Trento, trovata senza vita insieme al figlio a poca distanza dal greto del torrente. 

Il biglietto e la mail della donna nelle mani degli investigatori

Il biglietto, l’email inviata al giornale e l’agendina sono ora nelle mani degli investigatori della compagnia dei carabinieri di Cles che stanno cercando di far luce su una tragedia tanto agghiacciante quanto difficile da comprendere anche per le persone più vicine a Veronica. Il pm di turno Davide Ognibene ha aperto un fascicolo per istigazione al suicidio a carico di ignoti, un atto dovuto per cercare di far luce sulla terribile tragedia e permette agli inquirenti di effettuare gli approfondimenti necessari e le analisi sul computer e il telefono di Veronica. Si cerca di capire cosa abbia spinto la donna, una manager affermata e molto impegnata, lavorava per un’azienda farmaceutica, al gesto estremo e a decidere di portare con sé il piccolo Riccardo. Un piano che forse meditava da qualche giorno. È quanto stanno cercando di capire i carabinieri che hanno analizzato le telecamere lungo il tragitto da Trento fino al viadotto. Venerdì l’auto della donna era stata immortalata proprio nei pressi del ponte di Mostizzolo. Nel biglietto trovato nella macchina ci sono frasi scritte e poi cancellate che accennano alla difficile relazione con l’ex compagno, all’amore per il figlio, alla disperazione della donna che sembra non si sentisse più stimata. «Non ce la faccio più a vivere così». 

Quel grave disagio interiore che non era mai trapelato

Veronica, era rimasta a vivere nel capoluogo anche dopo la separazione con l’ex convivente e aveva sempre cercato di mantenere un buon rapporto con lui anche dopo la fine della relazione per amore del piccolo Riccardo. Desiderava che la separazione fosse il meno dolorosa possibile per il suo bimbo. I rapporti erano cordiali e il piccolo trascorreva del tempo con entrambi i genitori. Sabato pomeriggio il bimbo aveva trascorso il pomeriggio a casa del papà, poi Veronica era andata a prenderlo. Non è chiaro se proprio in quel momento ha deciso. L’unica certezza è l’allarme lanciato da un passante dopo l’una nella notte tra sabato e domenica. Secondo gli investigatori Veronica aveva probabilmente maturato nel tempo un forte disagio che, però, all’esterno non è mai trapelato, neppure dall’ultima telefonata fatta alla sorella verso le 22.30 poco più di due ore prima della triste tragedia. Aveva raccontato della nuova vita dell’ex compagno e dei suoi sentimenti. Forse aveva paura di veder messo in discussione il suo ruolo di madre. «Così sarei stata esclusa dalla vita di mio figlio», si sarebbe confidata. Ma la sua voce era calma, tanto che poi aveva parlato della gita da fare insieme sul Garda. Nessuno poteva immaginare. Veronica sabato sera, prima salire in auto si era seduta al computer e aveva affidato a una lunga email i suoi pensieri più profondi. Un dolore sottile si era insinuato in lei, sempre più difficile da sopportare, spiega chi l’ha conosciuta e in queste ore sta provando a razionalizzare l’immensa tragedia. La lettera ora sarà esaminata dai carabinieri insieme all’altra documentazione acquisita a casa della donna. Non ci sono dubbi sulla natura del gesto di Veronica ma la Procura vuole effettuare tutti gli accertamenti necessari per capire i contorni della tragedia.

Alessia Pifferi.

Anticipazione da "Telelombardia" giovedì 16 novembre 2023 

Esclusiva Telelombardia: Gli audio inediti di Alessia Pifferi, nei giorni in cui lasciava sola diana cantava ‘trottolino amoroso’: “come mi vesto? abito lungo sexy o corto con i tacchi a spillo?” dagli audio emerge l’ennesima bugia, sapeva chi era il vero padre della figlia diana. 

06 giugno 2022

audio whatsapp inviato da Alessia Pifferi a un'amica

Ho scritto alla (...) appena torni vieni su perché veramente non ce la faccio più, sono a pezzi. Non lo so veramente per me ha bisogno proprio di un bravo psichiatra questo qua, ma di quelli forti. Adesso ne sto mandando a cagare un altro, che era rispuntato fuori dopo cinque mesi, sei mesi. Il papà della bimba. Spunta fuori mi chiede di uscire a cena e poi oggi neanche si fa sentire. Ma vattene a fanculo.

La macchina con l'autista alle sei e mezza arriva qui, la (...) alle sei viene di volata qui, io dopo faccio la doccia mi sistemo un po'. Ho intenzione di mettere su un vestito corto coi tacchi a spillo, alti tacco 12 eleganti. Anche se il tempo fa un po' cagare, però non fa niente. Tu cosa dici? Vestito lungo sexy o vestito corto coi tacchi? Consigliami, consigliami tu l'abbigliamento giusto dai. Per farlo restare così a bocca aperta.

05 luglio 2022

audio whatsapp inviato da Alessia Pifferi alla società di noleggio limousine

Quindi in poche parole la limousine verrebbe e prendere me e poi andiamo, io vado lì da lui con la limousine. Giusto? Comunque confermo tutto perché veramente sarà una cosa molto emozionante e inaspettata anche per lui. Penso e credo. Aspetto l'altra sua risposta per il ristorante. Se le danno la conferma per il posto che mi ha detto lei meglio ancora. Sarà una serata meravigliosa, per questo chiedo il suo aiuto. Perché voglio che sia tutto perfetto, che deve rimanere nei nostri ricordi una cosa indimenticabile. 

5 luglio 2022

audio whatsapp inviato da Alessia Pifferi alla società di noleggio limousine

Posso farglielo domani mattina subito il pagamento? E poi le volevo chiedere ma allora il ristorante? L'ha prenotato lei? C'è o non c'è? Questo volevo capire.

8 luglio 2022

audio whatsapp inviato da Alessia Pifferi alla società di noleggio limousine

Buongiorno, l'unica cosa che io ho avuto un problema. Lì in ospedale mi hanno rubato tutto e quindi io ho solo 100 euro con me, me li hanno prestati appena arrivati a casa mia sorella. Se per lei va bene non scappo, così le liquido tutto e non ho più debiti. Perché se no non dormo la notte, non sono abituata ad avere debiti. 

8 luglio 2022

audio whatsapp inviato da Alessia Pifferi alla società di noleggio limousine

Buonasera le chiedo scusa ma mio nipote ha avuto un incidente in moto quindi devo rimandare per forza tutto. Mio nipote ha 16 anni è in coma e non è messo bene, quindi mi dispiace. 

14 luglio 2022

audio whatsapp inviato da Alessia Pifferi alla società di noleggio limousine

Buonasera sono la signora delle otto e mezza allora io sto cominciando a prepararmi se vuole io riesco ad essere pronta anche un po' prima, verso le sette e mezza. Così se lei è libero. Mi faccia sapere tranquillamente, se no rimaniamo d'accordo per le otto e mezza. Grazie a dopo buonasera.

"Pifferi è stata imbeccata", "Allora si indaghi sui test". È lotta sulle psicologhe. Scontro pm-difesa. Disposta la perizia psichiatrica sulla donna che ha fatto morire di stenti la figlioletta. Manuela Messina il 14 Novembre 2023 su Il Giornale.

Scintille tra procura e difesa sulla questione della perizia psichiatrica per Alessia Pifferi, accusata di avere abbandonato per giorni la figlia Diana, di 18 mesi, morta di stenti nel luglio scorso. In aula davanti alla corte d'Assise, il pm Francesco De Tommasi ha contestato in particolare la relazione delle psicologhe sui colloqui in carcere avuti dalla 37enne.

«Alessia Pifferi - ha detto il pubblico ministero - è stata influenzata nel fornire una versione differente rispetto a quella che spontaneamente ha dato all'inizio». Secondo De Tommasi, è necessario togliere queste valutazioni - da cui è emerso un «deficit cognitivo» della donna - dall'insieme dei documenti che dovranno essere analizzati dal perito Elvezio Pirfo, a cui è stato affidato ieri l'incarico di redigere la relazione sulla donna.

Secondo la procura, Pifferi in carcere sarebbe stata sottoposta a un test psicologico non autorizzato che «fuoriesce da quelle che sono le competenze di una casa di reclusione». Per altro si tratterebbe di «accertamenti privi di dignità scientifica. Non si è trattato di un percorso di assistenza per la detenuta, ma di un percorso di revisione dei fatti come se fossero consulenti privati della difesa». Il pm, secondo il quale Pifferi è sempre stata lucida (non ha ma avuto pregressi psichiatrici), ha ribadito: «Non ci sto a essere preso in giro».

Secondo De Tommasi, i fatti avvenuti a luglio 2022 sarebbero stati rivisitati secondo il punto di vista del personale di San Vittore: «L'effetto è stato quello di metterle in testa di non avere alcun tipo di responsabilità e di fare affermazioni sconcertanti durante la scorsa udienza».

Da parte sua, la difesa, con l'avvocata Alessia Pontenani, ha chiesto di sentire le psicologhe e in alternativa ha invitato la procura ad aprire un fascicolo sulle eventuali responsabilità delle esperte. «Pifferi non solo ha un problema cognitivo molto grave, ma non riesce a comprendere le conseguenze delle sue azioni - ha detto il legale dopo l'udienza -è come se fosse una bambina».

E ancora: «Il pubblico ministero insiste nel dire che è stata manipolata e che le è stato suggerito cosa dire da psicologi e difensori, per quello ho chiesto che venissero sentite le psicologhe, ma la corte lo ha ritenuto non fattibile, ritenendolo non importante», ha concluso. Alessia Pifferi è a processo per l'omicidio pluriaggravato della figlioletta. L'inizio dei lavori a cui parteciperanno anche i consulenti della procura e della difesa è previsto per il 27 novembre. Il deposito della relazione invece è fissato nel termine di 90 giorni. La prima sezione della corte d'Assise, con il presidente Ilio Mannucci Pacini, ha rinviato l'udienza al 4 marzo 2024.

Alessia Pifferi e il mistero della babysitter Giusy. C'era una babysitter nella vita di Alessia Pifferi e della piccola Diana: si chiamava Giusy e per un breve periodo ha rappresentato un aiuto in casa. Angela Leucci il 28 Ottobre 2023 su Il Giornale.

Fanno ancora discutere le dichiarazioni e le narrazioni di Alessia Pifferi, a processo per l’omicidio della figlia Diana Pifferi: la piccola era stata lasciata sola in casa a Milano per sei giorni e il 20 luglio 2022 la donna, al rientro da Leffe l’aveva trovata morta. La giustizia dovrà valutare se in quel gesto c’è stata volontarietà o Pifferi non avrebbe avuto le capacità per comprendere il rischio per la vita della figlia.

Pifferi aveva detto di aver lasciato la figlia con la babysitter nei giorni a Leffe dall’ex compagno: la babysitter sarebbe stata tale Jasmin, di cui però non esiste traccia. Eppure pare che, almeno per un periodo, una babysitter o comunque un aiuto, ci sia stato. Tra le dichiarazioni rese in aula, Pifferi ha parlato di tale Giusy, un’amica di origine peruviana, che di tanto in tanto si prestava gratuitamente per fare da babysitter a Diana, andando peraltro a vivere con loro per tre settimane, in un periodo in cui era disoccupata, aiutando Alessia Pifferi con la figlia e nelle faccende di casa.

Ma di Giusy non c’è traccia: gli inquirenti non l’hanno ascoltata, un’amica di Pifferi ha detto a Quarto Grado di non aver mai saputo di lei, l’ex marito che abitava sul pianerottolo ha spiegato a processo di sapere di una babysitter ma di non averla conosciuta e di non sapere neppure il suo nome. Nei verbali Giusy viene nominata per nove volte ma solo in una chat in cui la donna fa gli auguri a Pifferi per la nascita di Diana. Solo la madre Maria Assandri ha affermato di aver conosciuto Giusy, e anche di averle dato il proprio numero di telefono in caso di necessità, ma che la donna non l’abbia mai contattata.

In studio a Quarto Grado tra gli ospiti c’era la legale di Alessia Pifferi, Alessia Pontenani, che ha raccontato come in effetti Giusy non solo esista, ma che, se ci fosse necessità, potrebbe anche chiamarla a testimoniare per la difesa: “Credo che banalmente i rapporti con Giusy si fossero interrotti. Perché da quello che ho capito e da quello che mi è stato riportato in realtà questa Giusy è una persona… sì, esiste, ma alla procura non interessava cercarla. Io non l’ho interrogata: non è che abbiamo dei dubbi sullo svolgimento dei fatti, qui abbiamo dei dubbi esclusivamente sulle capacità della signora. Questa Giusy poteva venire a dire che cosa?”.

Estratto dell’articolo di leggo.it il 10 ottobre 2023.

Alessia Pifferi di nuovo nell'occhio del ciclone. La 37enne è accusata di omicidio volontario, anche aggravato dalla premeditazione, per aver lasciato morire di stenti, nel luglio 2022, abbandonandola da sola in casa per sei giorni, la figlia Diana, che aveva meno di un anno e mezzo. 

La Corte d'Assise di Milano ha disposto una perizia psichiatrica per valutare la capacità di intendere e volere al momento dei fatti e l'eventuale pericolosità sociale di Alessia Pifferi. «Il mio pensiero resta sempre quello, io conosco le sue bugie, non la ritengo così incapace da non riuscire a parlare, scrivere, agire, come dicono i suoi consulenti, mia sorella è una scaltra».

Così Viviana Pifferi, sorella di Alessia, la 37enne a processo per aver lasciato morire di stenti la figlia Diana, ha commentato la decisione della Corte milanese di disporre una perizia psichiatrica sull'imputata. 

«Era prevedibile che venisse disposta», ha spiegato la sorella, parte civile assieme alla madre, nonna di Diana, contro la 37enne. «Una persona che fino al giorno prima è normale ora passa per una che ha difficoltà di muoversi, di agire. Quando succedono queste cose qua si tende sempre a far venire fuori un deficit, qualcosa», ha aggiunto Viviana Pifferi. […]

La Corte, presieduta da Ilio Mannucci Pacini, accogliendo l'istanza della difesa, con l'avvocato Alessia Pontenani, ha ritenuto «necessaria» la perizia per «accertare la sussistenza o meno al momento del fatto della capacità di intendere e volere e la eventuale pericolosità sociale». 

Nel caso venisse accertato che la donna era totalmente incapace e, dunque, non imputabile, sarebbe assolta per vizio totale di mente e collocata, in caso di pericolosità sociale, in una struttura per l'esecuzione delle misure di sorveglianza. 

In caso di vizio solo parziale, invece, ci sarebbe una riduzione sulla pena. Se venisse, invece, riconosciuta capace, Pifferi rischierebbe una condanna all'ergastolo. I giudici hanno nominato come perito psichiatra Elvezio Pirfo e hanno fissato un'udienza per il conferimento dell'incarico per il 13 novembre, quando daranno il termine per il deposito della relazione.

«Non ci sto ad essere preso in giro, la signora non ha alcun problema mentale e ha avuto un atteggiamento scellerato nei confronti della figlia». Con queste parole il pm di Milano Francesco De Tommasi ha chiesto ai giudici di respingere la richiesta difensiva di perizia psichiatrica su Alessia Pifferi. 

Sull'eventuale perizia dovranno decidere i giudici della Corte d'Assise di Milano. Il pm ha criticato gli accertamenti medici effettuati dal carcere di San Vittore e la consulenza della difesa che parlano, in sostanza, di un ritardo mentale della donna.

«Un quoziente intellettivo di 40 vuol dire che nella scorsa udienza - ha detto il pm - lei non sarebbe stata in grado di dire nulla, né di formulare accuse contro il personale di polizia, di relazionarsi con nessuno». Invece, ha dato «risposte chiare», ha reso «dichiarazioni sconcertanti», è stata proprio lei a dichiararsi consapevole di ciò che ha fatto, «dicendo che a volte lasciava da bere alla piccola per la sua sopravvivenza». […]

Estratto dell'articolo di Luigi Ferrarella per corriere.it mercoledì 20 settembre 2023. 

Il «fatto nuovo» – come a fine udienza lo chiama il presidente della Corte d’Assise, Ilio Mannucci Pacini – si materializza non tanto nella mattinata di interrogatorio di Alessia Pifferi, ma nell’esame pomeridiano dello psichiatra consulente della difesa della 37enne, imputata di omicidio volontario pluriaggravato per aver lasciato la figlia di 18 mesi, Diana[…]

Lo psichiatra Marco Garbarini prospetta infatti (in base a due test psicologici, pregresse relazioni degli psicologi di San Vittore sul basso quoziente intellettivo di 40, i verbali, e un colloquio con la donna l’8 agosto) che Pifferi sconti un «deficit di sviluppo intellettivo di grado moderato» che non le farebbe provare empatia e accorgersi dei bisogni e della sofferenza degli altri; che non le farebbe comprendere e collocare nel tempo le conseguenze dei propri atti; e che la renderebbe suggestionabile se incalzata dalle domande. Un quadro con il quale l’avvocato Alessia Pontenani punta a convincere la Corte dell’opportunità di disporre una perizia psichiatrica sulla capacità di intendere e volere.

[…]

Di certo, nell’identikit psicologico tratteggiato di pomeriggio dal consulente si è incastrato perfettamente l’interrogatorio in mattinata. «Avevo lasciata Diana sola altre volte, e di solito rientravo subito l’indomani. Pensavo che il latte le bastasse», racconta Pifferi al pm, «io le chiedo gentilmente di non sgridarmi». Contrariamente a mesi fa, Pifferi ora giura che «per me non è mai stata un peso, mi manca, mi sono pentita, tornassi indietro non lo rifarei», aggiunge, tendendo a recriminare sul compagno: «Parlando con le psicologhe del carcere, mi sono ricordata che mi diceva di lasciarla sola in casa per andare con lui al supermercato. Cominciai a farlo». «Ha recitato tutta la vita, sempre colpa di qualcun altro, si accorge ora che il biberon non bastava...», scuote la testa la sorella Viviana.

Alessia Pifferi, tutte le tappe del processo. La lotta della sorella: "Giustizia". La piccola Diana Pifferi, 18 mesi, morì di stenti a luglio del 2022 dopo essere stata lasciata sola in casa per sei giorni. La madre, Alessia Pifferi, è a processo con l'accusa di omicidio aggravato. Rosa Scognamiglio su Il Giornale il 19 Settembre 2023

Tabella dei contenuti

 La morte della piccola Diana

 L'arresto di Alessia Pifferi

 I sospetti: "Diana è stata sedata?"

 Una vita di eccessi

 Il processo

 "Giustizia per Diana"

Riprende il processo davanti alla Corte d'Assise di Milano a carico di Alessia Pifferi, la 38enne accusata di omicidio volontario pluriaggravato, per aver fatto morire di stenti la figlioletta di 18 mesi, Diana, abbandonandola per sei giorni in un appartamento in zona Ponte Lambro, alla periferia della capoluogo lombardo. "Sarà una giornata durissima. Come tutte le altre volte che devo incrociare lo sguardo di mia sorella in quell'aula di tribunale. Mia nipote aveva tutto il diritto di crescere e continuare a vivere. È solo questo il motivo per cui chiedo che venga fatta giustizia" dice a ilGiornale.it Viviana Pifferi, sorella dell'imputata.

"Vergognati, mi hai abbandonata". La lettera choc della Pifferi alla madre

La morte della piccola Diana

La piccola Diana Pifferi, 18 mesi, fu trovata morta il 20 luglio del 2022 nell'abitazione in cui viveva assieme alla madre, Alessia Pifferi. A lanciare l'allarme, dapprima ai vicini di casa e poi al 118, fu proprio la donna. Quando i soccorritori del 118 giunsero sul posto non poterono far altro che accertare il decesso della bimba che giaceva esanime in una culla da campeggio. Accanto al corpicino c'erano solo un biberon vuoto e una bottiglietta d'acqua. I successivi esami cadaverici accertarono che la piccina era morta di fame e sete dopo essere stata abbandonata per 6 giorni senza cibo né acqua. "Diana era molto dolce e sempre sorridente, non piangeva mai. Avrei tanto voluto avere la possibilità di crescere mia nipote e di viverla come zia, era una bimba meravigliosa", ricorda Viviana Pifferi.

"Alessia Pifferi è lucida". La Corte stronca la richiesta di perizia psichiatrica

L'arresto di Alessia Pifferi

Fin da subito i sospetti degli investigatori si concentrarono su Alessia Pifferi. L'allora 37enne fu arrestata il giorno successivo al ritrovamento della bimba. Interrogata dal pm Francesco De Tommasi, titolare dell'inchiesta assieme alla collega Rosaria Stagnaro, la donna rivelò di aver lasciato Diana da sola in casa per andare dal compagno che viveva a Leffe, in provincia di Bergamo. Lì vi era rimasta per sei lunghi giorni, ignorando, come lei stessa ammetterà durante l'interrogatorio di convalida del fermo, i rischi e le drammatiche conseguenze per la salute della figlioletta. "Sapevo che stavo facendo qualcosa che non andava fatto, che poteva succedere di tutto. - ammise - Ma non la disidratazione e la morte".

L'orrore della Pifferi: "500 euro di Limousine e la figlia da sola"

I sospetti: "Diana è stata sedata?"

All'interno dell'appartamento di via Parea, gli agenti della squadra mobile guidati da Marco Calì trovarono un flacone vuoto per tre quarti di "En", un farmaco contenente benzodiazepine. Da qui il sospetto che la donna potesse aver sedato la figlioletta prima di allontanarsi dall'appartamento. Ma gli esami tossicologici effettuati sulla bottiglietta d'acqua e sul biberon trovate accanto al corpicino della bimba, eseguiti con la formula dell'incidente probatorio su richiesta degli ex difensori Solange Marchignoli e Luca D'Auria, non hanno evidenziato tracce di tranquillanti. Circostanza che, sul piano giudirico, ha escluso l'ipotesi della premeditazione.

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Una vita di eccessi

Come emerso durante le indagini, Alessia Pifferi era ossessionata dall'idea di perdere il nuovo compagno (totalmente estraneo alla vicenda) che aveva conosciuto su Tinder poco tempo prima della nascita di Diana. Non solo. Aveva un stile di vita dispendioso rispetto alle sue reali possibilità economiche. Si procacciava il denaro con vari espedienti, anche mediante prestazioni sessuali a pagamento con uomini conosciuti in chat e su app di incontri. Soldi che poi investiva in cene costose, abiti lussuosi oppure spostamenti a bordo di limousine. "Non ho mai condiviso le scelte di vita di mia sorella, nel senso che non lavorava e cercava a tutti i costi di avere un compagno. - puntualizza Viviana Pifferi - Ero preoccupata più che altro che, cercando, potesse trovare qualcuno che facesse del male alla bambina. Ma mai avrei pensato che fosse lei l'unico reale pericolo per mia nipote".

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Il processo

Rinviata a giudizio con l'accusa di omicidio volontario pluriaggravato davanti alla Corte d'Assise di Milano, Alessia Pifferi ha sempre negato di voler fare del male alla figlioletta. Per gli inquirenti, invece, avrebbe ucciso Diana perché rappresentava "un peso, un ostacolo" alla sua felcità. L'avvocato Alessia Pontenani, subentrata al collega Fausto Teti, aveva chiesto una perizia psichiatrica per l'assistita ipotizzando un eventuale "deficit cognitivo". La richiesta è stata respinta dalla Corte d'Assise presieduta dal presidente Ilio Mannucci Pacini ritenendo che l'imputata fosse "lucida" al momento del fatto. Al processo, cominciato lo scorso marzo, hanno già deposto alcuni testimoni, tra cui l'ex compagno della donna, la mamma della 38enne, Maria Assandri, e la sorella Viviana Pifferi, che si sono costituite parte civile. Durante l'ultima udienza, l'8 maggio 2023, è emerso che un vicino di casa della donna è indagato con l'ipotesi di reato per favoreggiamento della prostituzione. Secondo l'accusa, avrebbe aiutato Alessia Pifferi a organizzare incontri a pagamento con gli uomini.

"Giustizia per Diana"

Dal carcere di San Vittore, dove è ristretta dallo scorso luglio, la 38enne ha scritto due lettere, una indirizzata alla madre e l'altra alla sorella, in cui le accusa di averla abbandonata. "Le lettere, in cui non ha mostrato neanche il minimo pentimento per quello che ha fatto, sono scritte con un tono incommentabile. - racconta Viviana Pifferi - Mi hanno completamente spiazzata le sue accuse. Ha avuto tutto il sostegno possibile sia da me che da mia madre, che peraltro le ha messo a disposizione anche la casa in cui viveva con la piccolina. Mia madre c'è sempre stata, non le ha fatto mancare nulla". Alessia Pifferi, che oggi salirà per la prima volta sul banco degli imputati, rischia la condanna all'ergastolo. "Sarò presente fino all'ultimo giorno del processo e continuerò a indossare la maglietta con la foto di Diana perché voglio che nessuno dimentichi mia nipote. - conclude la sorella Viviana - Aveva tutto il diritto di vivere ed è solo per lei che chiedo giustizia".

Alessia Pifferi parla in aula: “Non mi sgridate per favore, pensavo che il biberon che avevo lasciato a Diana bastasse”. Rosario Di Raimondo su La Repubblica il 19 Settembre 2023

“Quando sono tornata a casa ho trovato mia figlia nel lettino, sono andata subito da lei, l’ho accarezzata e ho visto che non si muoveva. E ho capito che c’era qualcosa che non andava, non giocava come le altre volte. Ho tentato di rianimarla, le ho fatto il massaggio cardiaco, l’ho presa in braccio, le ho dato qualche pacchetta sulla schiena, l’ho portata in bagno e ho provato a bagnarle i piedini, le manine, il viso e la testa. Poi l’ho rimessa nel lettino, le ho spruzzato acqua in bocca ma non si riprendeva. Sono corsa a chiamare una vicina di casa. Mi sono messa a piangere, ero nel panico, ho chiamato il 118, ho chiesto al signor D’Ambrosio di venire ma lui non è venuto. Io mi preoccupavo per mia figlia, pensavo che il biberon che le avevo lasciato bastasse”. Sono le parole in aula di Alessia Pifferi, mamma della piccola Diana, la piccola lasciata morire di stenti nel luglio del 2022.

“Conosce le conseguenze del digiuno, dell’assenza di acqua e cibo in un bambino di tenera età?”, le chiede più volte il pm Francesco De Tommasi, che segue l’inchiesta con la collega Rosaria Stagnaro. ”Le chiedo di non sgridarmi, per favore. Pensavo che quello che avevo lasciato bastasse”.

Pifferi è accusata di omicidio volontario pluriaggravato. Le indagini hanno ricostruito che nel luglio di un anno fa la donna lasciò per sei giorni in casa la piccola di 18 mesi da sola per andare dal suo compagno, che viveva in provincia di Bergamo. “Piangevo, tremavo, ero sotto choc”, continua la donna durante l’esame, parlando di quel giorno. La sua testimonianza è piena di “non ricordo”.

Non era la prima volta che la piccola Diana rimaneva da sola in casa. Era successo prima? “Sì, pochissime volte. Non ricordo quante. Di solito l’indomani mattina tornavo subito a casa”. Quando succedeva, “le lasciavo due biberon di latte, due bottigliette di acqua. Sì, ero preoccupata a lasciarla da sola, perché sapevo che era a casa. Ero preoccupata di molte cose. La lasciavo da sola perché pensavo che il latte bastasse. La lasciavo nel lettino da campeggio, la bambina non era in grado di scendere. Quando rientravo era tranquilla che giocava nel lettino, la cambiavo, la lavavo, le davo la pappa ma era tranquilla”. Piangeva in sua assenza? “Non mi hanno mai detto niente, e mia figlia piangeva pochissimo”.

Ma Pifferi, in aula, dice che “la accudivo come una mamma accudisce un figlio. Le davo da mangiare, la cambiavo, se stava male contattavo l’ospedale, la crescevo, le davo da mangiare e bere per sopravvivere”. “Rischia di non sopravvivere una bambina se non mangia o non beve?”, chiede ancora il pm De Tommasi. Cala il silenzio. “Non lo so”.

La mattina del 14 luglio, alle 6.30, Pifferi si sveglia, dà il latte alla bambina, la lava, la cambia, “siamo andate a fare una passeggiata per prendere la focaccia che a lei piaceva”. Verso le 11.30 rientrano in casa, la madre prepara da mangiare poi la mette nel lettino. “Quando sono uscita di casa Diana dormiva, la toccai e si mosse”. La madre tornerà nell’appartamento solo il 20 luglio. Da giovedì al mercoledì della settimana successiva. Ma nel frattempo, un lunedì, Pifferi è a Milano. “Ero andata con D’Ambrosio (il compagno, ndr) che doveva venire per un lavoro. Poi con lui ci fu una discussione molto accesa. Ho pensato a mia figlia, ma avevo paura di dirgli di riportarmi a casa perché avevamo discusso in mezzo alla strada, avevo paura di parlare e non dissi niente, mi riportò a casa sua. Per questo non sono tornata da Diana. Io mi preoccupavo di mia figlia ma avevo paura delle reazioni del signor D’Ambrosio, perché era aggressivo”.

La testimonianza agghiacciante. Caso Pifferi, la madre della bimba a processo: “Avevo paura del mio compagno ecco perché non sono tornata da Diana”. La piccola abbandonata per sei giorni a casa da sola. Redazione su Il Riformista il 19 Settembre 2023 

“Avevo paura di parlare. Non dissi niente e lui mi riportò a casa sua. Per questa ragione non sono tornata a casa da Diana”. A parlare è Alessia Pifferi, a processo davanti alla Corte d’Assise di Milano per l’omicidio volontario pluriaggravato della figlia di appena 18 mesi, morta di stenti nel luglio del 2022 dopo essere stata lasciata a casa da sola per sei giorni. Rispondendo alle domande del pm, la 37enne ha raccontato che quella settimana si trovava in provincia di Bergamo con il suo compagno. Quando lui, due giorni prima del ritrovamento del corpo della bimba, era dovuto andare a Milano per lavoro, Pifferi lo aveva accompagnato, ma senza passare dalla casa di via Parea in cui la piccola Diana era da sola.

“Io mi preoccupavo di mia figlia – ha detto – ma purtroppo avevo paura delle reazioni del mio compagno. Avevo paura di parlare con lui, era parecchio aggressivo nel verbale. Una volta ha anche cercato di sbattermi contro a un vetro in una discussione. Mi preoccupavo per mia figlia ma al tempo stesso avevo paura di chiedergli di portarmi a casa”. In altri passaggi del suo esame in aula, la donna ha spiegato più volte che per il compagno la bambina “era un intralcio”. È ancora: “Diceva che le voleva bene, ma non era vero. Mi ha usata e basta”.

Pifferi: “Eravamo molto legate, il mio compagno mi disse di lasciarla sola”

“Eravamo molto legate, veniva anche in bagno con me, non mi staccavo mai da mia figlia. Io cominciai a lasciarla da sola perché il signor d’Ambrosio mi aveva detto di lasciarla a casa da sola per andare a fare la spesa”. Lo ha detto Alessia Pifferi in corte d’assise a Milano, dove è imputata per omicidio con l’accusa di aver lasciato morire di stenti, nel luglio 2022, la figlia Diana, di un anno e mezzo. “Due-tre volte che lui mi disse di lasciarla da sola a Leffe per andare a fare la spesa”.

"Non ho avuto problemi ad accettarla". Processo Pifferi, la testimonianza agghiacciante: “La bimba è nata in bagno, non sapevo di essere incinta.” Diana è morta di stenti in culla senza cibo né acqua a luglio. Redazione su Il Riformista il 19 Settembre 2023

”La accudivo come una mamma accudisce un figlio: le davo da mangiare, la cambiavo, se stava male contattavo l’ospedale, la crescevo, le davo da mangiare e bere per sopravvivere”. È uno dei passaggi dell’interrogatorio, in aula a Milano, di Alessia Pifferi, 37 anni, la donna accusata di omicidio volontario pluriaggravato per aver lasciato morire di stenti nella sua culla la figlia Diana di soli 18 mesi.

Nella sua testimonianza racconta la nascita della piccola, nel bagno dell’abitazione dell’allora compagno conosciuto su un sito di incontri. ”Diana nasce all’improvviso il 29 gennaio 2021, non sapevo di essere incinta, è nata prematura. È stata in incubatrice per un mese e mezzo all’ospedale di Bergamo, non è stato facile essere ragazza madre, ma non ho avuto problemi ad accettarla” racconta con un tono monocorde.

Pifferi: “Non sapevo di essere incinta, non so chi sia il padre”

”Anche a mia madre ho raccontato di essere incinta e che non sapevo chi fosse il padre, ancora oggi non so chi sia” dice la 37enne che ricostruisce i mesi della figlia e il su e giù dalla provincia di Bergamo – dove vive l’ex compagno per il quale ”la bambina era un intralcio, diceva che le voleva bene ma non era vero” – all’abitazione di via Carlo Parea a Milano dove Diana muore il 20 luglio del 2022. “Ho avuto dei dolori la sera prima al basso ventre e mi davano da pensare come se fosse un’infiammazione del nervo sciatico, ma nessun sintomo di gravidanza”.

La 37enne, difesa dall’avvocato Alessia Pontenani, ha deciso di rispondere alle domande dei pubblici ministeri Francesco De Tommasi e Rosaria Stagnaro. Con D’Ambrosio “avevamo una relazione ripresa da pochi mesi” dopo esserci “conosciuti sul profilo Meetic, un sito d’incontri, nel 2020, e non si è mai accorto che io fossi incinta” ha detto Pifferi. “Non era presente in casa al momento del parto – ha continuato la donna – gli ho telefonato e gli ho detto ‘torna su che è nata questa bambina non ne sapevo nulla e abbiamo chiamato l’ambulanza, non mi ha aiutata a partorire”.

Caso Pifferi, parla il suo legale: «Ha avuto paura e mentito sulla babysitter». Il difensore Alessia Pontenani spiega: «Ha un deficit cognitivo, dice le bugie come i bambini». Il Dubbio il 4 luglio 2023

«Ha un deficit cognitivo, dice le bugie come i bambini. Quella mattina ha avuto paura, non sapeva cosa dire e allora si è inventata che c'era la babysitter ma non era nemmeno in grado di dire sempre lo stesso nome, prima 'Giovanna', poi 'Jasmine', come un bambino» Così' l'avvocato di Alessia Pifferi, Alessia Pontenani, commentando le bugie sulla presenza di una babysitter nella casa di via Carlo Parea a Milano in cui il 20 luglio 2022 è stata trovata morta la figlia Diana, che ieri sono emerse durante il processo alla donna accusa di omicidio volontario pluriaggravato.

Nei primi minuti e ore dal ritrovamento Pifferi ha parlato di una babysitter a tutti i medici intervenuti, ad almeno due vicini di casa e ai poliziotti ma senza fornire contatti telefonici e cambiando i nomi dell'eventuale levatrice. Nell'aula della Corte d'Assise è stata chiamata a testimoniare la vera babysitter che nei mesi prima aveva tenuto Diana in qualche occasione, in realtà un'amica che lo faceva gratis tranne in un'occasione per 10 euro quando la madre si è dovuta vaccinare contro il Covid all'ospedale di San Donato.

«A fine maggio 2022 ho iniziato a lavorare per una società di vigilanza come portiera - ha detto ai giudici la teste Serena Maria Convertino - e ho finito il 31 luglio 2022. L'ultima volta che ho tenuto Diana è stato un mese prima che iniziassi a lavorare ad aprile». Una data incompatibile con i giorni in cui la piccola moriva di stenti e disidratazione abbandonata in casa, collocata dai medici legali 24-48 ore prima del 20 luglio 2022.

Estratto dell'articolo di repubblica.it lunedì 3 luglio 2023.  

"Non ha mai pianto Alessia e mi ha chiesto 'ora che mi succede mi arrestano'?". A parlare, nell'aula del processo di primo grado ad Alessia Pifferi, accusata dell'omicidio aggravato della figlia Diana, è la vicina di casa Letizia. 

[...] La mattina del 20 luglio 2022, giorno del ritrovamento della piccola, "intorno alle ore 10, mi citofona agitata: 'venga, la bambina non respira più' - racconta la vicina di casa -. Siamo salite e siamo entrati nella camera e ho visto la bambina. Era supina, con una magliettina che le copriva fino al pancino, aveva le manine e i piedini scuri, aveva gli occhi chiusi e le palpebre scure e Alessia mi ha chiesto 'è morta?'.

lo non ho risposto, siamo rimaste li pochi secondi, poi l'ho fatta sedere sul divanetto in sala, spostando le valige (era appena rientrata) e mi ha raccontato che aveva lasciato la bimba con una baby sitter, ma al suo rientro non c'era". 

Poi la chiamata ai soccorsi. "Ha chiamato il 118 dicendo la bambina non respira, poi mi ha passato il telefono e io ho detto 'guardi, per la bambina non c'è più niente da fare'. Lei ha chiamato il compagno e gli ha detto 'Diana è morta', lui le ha chiesto come è morta e lei ha risposto 'Ti ho raccontato una bugia, non l'ho lasciata a mia sorella, ma a una baby sitter'" conclude la testimone del processo in corso a Milano. Baby sitter di cui non si ha traccia. 

Morte di Diana Pifferi, la poliziotta che per prima entrò nell'appartamento: «Non c'era cibo per la bambina». Redazione Milano su Il Corriere della Sera il 5 giugno 2023.

La testimonianza della dirigente del gabinetto regionale di polizia scientifica di Milano, Anna Maria Di Giulio. «La madre Alessia Pifferi era appena rientrata, nelle valigie aveva almeno trenta abiti da sera»

C'erano «due valigie all'ingresso», quando la polizia scientifica è arrivata nell'appartamento di Alessia Pifferi in via Parea a Milano il giorno in cui è stata trovata la figlia Diana, di appena 18 mesi, morta di stenti. All'interno, vi erano solo «vestiti da donna, almeno 30 abiti da sera». Lo ha testimoniato in aula la dirigente del gabinetto regionale di Polizia scientifica che lo scorso 20 luglio è intervenuta sul posto per i primi rilievi, dopo la scoperta del corpo. Alessia era appena rientrata da Bergamo, dove aveva trascorso 6 giorni con l'uomo che frequentava. La dirigente ha poi riferito che il frigorifero era praticamente vuoto, in particolare senza cibo per bambini e nell'abitazione vi erano diversi pannolini usati, sparsi in soggiorno e sul davanzale della finestra. «Non c'erano alimenti per la bambina con il frigo che era praticamente vuoto». 

La dirigente del gabinetto regionale di polizia scientifica di Milano, Anna Maria Di Giulio, ha raccontato così quanto visto durante il primo sopralluogo nell'appartamento di via Parea dove il 20 luglio 2022 era stato ritrovato il corpo di Diana Pifferi, la bimba di quasi 18 mesi morta di stenti dopo essere stata abbandonata per una settimana dalla madre Alessia. La funzionaria di Polizia è stata sentita come testimone nel processo in corte d'assise in cui Alessia Pifferi è imputata per omicidio pluriaggravato. Sulle condizioni del corpo la dirigente Di Giulio ha detto: «Indossava solo un vestino giallo e non aveva il pannolino. Aveva già annerite le punte della dita e del naso. Era umida con i capelli un po' bagnati». Il lettino della piccola Diana «era senza lenzuola né cuscino» e la bimba «si vedeva che era stata sciacquata».

"Non pensavo che Diana potesse morire". La Pifferi sulla morte della piccola. Federico Garau il 27 Maggio 2023 su Il Giornale.

Il video dell'interrogatorio della donna a poche ore dalla morte della figlia: "Sapevo di fare una cosa sbagliata"

Dal rapporto burrascoso con l'ex ai weekend fuori casa, fino ad arrivare al tentativo inutile di rianimare la figlia: per la prima volta, grazie a Quarto Grado, vengono diffuse le immagini della confessione fatta da Alessia Pifferi ai carabinieri, a poche ore dalla tragica morte della piccola Diana.

Il rapporto con Angelo Mario

La donna rivela agli inquirenti le prime fasi della crisi con Angelo Mario, escludendo che questa fosse dovuta in qualche modo alla presenza della bimba. "La crisi quindi non era dovuta alla bambina, era il rapporto tra voi due che non andava", considera il carabiniere. "Quindi il 23 di dicembre decide di chiudere il rapporto con me", spiega Pifferi, "poi invece abbiamo fatto pace e abbiamo tirato fin dopo l'Epifania". Da allora passa del tempo prima che Angelo Mario si rifaccia vivo. "Di punto in bianco, dopo sei mesi, mi manda un messaggio chiedendo di incontrarci, rimasi sorpresa. Voleva che provassimo di nuovo a stare insieme", racconta la donna. "Ci siamo visti per un aperitivo all'Idroscalo e c'era anche mia figlia. Vedeva in lui una figura paterna, lo chiamava "Papà".

"Quando invece andava via nei weekend, sua figlia?", incalza il militare. "Andavo via venerdì sera e tornavo lunedì mattina", la risposta. "E sua figlia?". "Mia figlia era a casa", dice la Pifferi. "La lasciava sola per l'intero fine settimana?", chiede l'interlocutore. "Sì, infatti ero sempre molto agitata". "E quando tornava a casa in che stato fisico e psichico era?". "Fisico, l'ho sempre trovata abbastanza bene", dice la donna. "Era pulita?", chiede il carabiniere. "La lavavo subito, a volte non teneva il pannolino, se lo strappava". "Come faceva a mangiare?", insiste l'inquirente. "Quando andavo via le mettevo sempre due biberon di latte, quattro bottigliette d'acqua e due di tè deteinato".

La consapevolezza

"Perchè si è comportata così? Non era preoccupata per sua figlia?", domanda uno degli inquirenti. "Sapevo di fare una cosa che non andava fatta. Perché poteva capitare qualunque cosa", replica la Pifferi. "Che cosa?". "Poteva cadere dal lettino, poteva subentrare un malessere, un malore, ma non pensavo che sarebbe potuta morire", specifica la donna. "Tuttavia è rimasta fuori per tutti questi giorni?", domanda il carabiniere, senza ottenere una risposta.

Il ritorno a casa

"Quando è rientrata come ha trovato sua figlia?", incalza il militare. "Così com'era, nel lettino...", si limita a dire la donna. "Il pannolino ce l'aveva?", insiste l'interlocutore. "No, io glielo avevo messo, ma non ce l'aveva. L'ho trovato sul letto", rivela la Pifferi, "appena ho visto la bambina mi sono spaventata, aveva le mani e i piedi viola, sono andata subito nel panico". La piccola, tuttavia, era già morta e a nulla sono valsi i tentativi di rianimarla. "Ho pensato che era successa una cosa troppo grave", ammette Pifferi, "poi ho preso la bambina, l'ho tirata su, le ho fatto un massaggio cardiaco, ma non succedeva niente. Allora l'ho presa, le ho dato delle pacchette sulla schiena, le ho massaggiato le mani e le ho messo dell'acqua in bocca, ma vedevo che non si muoveva".

"Lei conosce le conseguenze del digiuno prolungato?", domanda uno degli inquirenti. "A parte la disidratazione no", si limita a rispondere la donna. "Signora, il fatto che è successo è molto grave, quindi lei stasera non può tornare a casa, penso che ne sia consapevole. Purtroppo lei deve andare in carcere", annuncia il carabiniere.

Estratto dell'articolo di corriere.it il 16 maggio 2023.

Alessia Pifferi, accusata di omicidio aggravato per aver lasciato morire di stenti la figlia Diana di quasi un anno e mezzo ha un «gravissimo ritardo mentale» pari a un quoziente intellettivo di «una bimba di 7 anni. Hanno messo una bambina in mano a una bambina». 

Lo ha spiegato Alessia Pontenani, legale della 37enne, in base ai risultati degli ultimi accertamenti medici svolti nel carcere di San Vittore e della consulenza di parte, al termine dell'udienza di oggi. La Corte d'Assise di Milano si è riservata di disporre una perizia sulle condizioni psichiche della donna all'epoca dei fatti [...]

Oggi in aula la difesa di Alessia Pifferi ha chiesto alla Corte, presieduta da Ilio Mannucci Pacini, sulla base degli ultimi esami effettuati a San Vittore, una perizia medico psichiatrica finalizzata ad accertare l'incapacità di intendere e volere della donna al momento del fatto la sua eventuale rilevanza «sull'imputabilità dell'imputata». La Procura si è opposta all'istanza chiedendo inoltre la estromissione dal fascicolo processuale di tutti i documenti redatti in carcere sulla situazione medica e psichica di Alessia Pifferi in quanto non disposti nell'ambito di una vera e propria consulenza.

I giudici però hanno rigettato tale richiesta, a cui si era associata la parte civile, ritenendo tali relazioni utilizzabili e facendole entrare nel procedimento. Di certo la difesa, al termine dell'istruttoria dibattimentale, insisterà con la perizia. 

«Ha un gravissimo deficit intellettivo - ha affermato l'avvocato di Alessia Pifferi, che anche oggi si è presentata in aula - In carcere è stata sottoposta a un test sul quoziente intellettivo» che è risultato pari a «40, ossia a 1 percentile. È una bambina. Ed è stato come aver messo in mano una bambina di un anno e mezzo a un'altra bambina - ha ripetuto più volte l'avvocato - . La signora ha un problema serio ed è stato un peccato che nessuno l'abbia mai aiutata. Aveva un insegnante di sostegno» quando era a scuola, «ed era seguita da una psicologa che adesso sto cercando di rintracciare». [...]

"La Pifferi? Come una bimba di 7 anni". La difesa della donna e gli esiti degli esami medici in carcere: "Gravissimo ritardo mentale". Cristina Bassi il 17 Maggio 2023 su Il Giornale.

Alessia Pifferi «ha un grave ritardo mentale. Le hanno fatto il test del Qi ed è risultato che ha il quoziente intellettivo di una bambina di sette anni. È un peccato che non se ne sia accorto nessuno... Forse quello che è successo si sarebbe potuto evitare. Hanno lasciato una bambina in mano a un'altra bambina»: l'avvocato Alessia Pontenani, a margine dell'udienza, tenta di spiegare dal proprio punto di vista il disagio, il «problema serio» alla base delle azioni di Alessia Pifferi.

La donna, 37 anni, è accusata di omicidio volontario pluriaggravato per aver lasciato morire di fame e di sete la figlia Diana di soli 18 mesi. La piccola venne lasciata sola dalla madre per sei giorni nel suo lettino con appena un biberon di latte lo scorso luglio, nella loro casa del quartiere milanese di Ponte Lambro. L'imputata era andata a trovare il compagno in provincia di Bergamo. Ora si trova in carcere a San Vittore. Il processo davanti alla Corte d'assise è alle battute iniziali. «Ha un grave deficit intellettivo - continua il legale -. Lo dicono i medici di San Vittore e i miei consulenti. Il suo quoziente intellettivo è pari a 40, è nel primo percentile. Non era in grado di gestire una bambina. Nessuno l'ha mai aiutata...La famiglia, i vicini, i servizi sociali, gli uomini che lei ha frequentato...È un'incapace. La Procura dice il contrario? Io mi fido della valutazione delle psicologhe del carcere, che la incontrano tre volte a settimana». Alla domanda se Alessia Pifferi parli mai della figlia l'avvocato ha risposto: «La bambina le manca, è disperata. Dice che se tornasse indietro, non rifarebbe quello che ha fatto». Poi il difensore si chiede a sua volta: «Possibile che nessuno intorno a lei si sia accorto di quello che stava succedendo? Questa è una tragedia, per tutti».

All'udienza di ieri era di nuovo presente l'imputata. L'avvocato Pontenani ha chiesto alla Corte presieduta dal giudice Ilio Mannucci Pacini una perizia psichiatrica finalizzata ad accertare l'incapacità di intendere e volere della donna al momento del fatto. La Procura, con il pm Rosaria Stagnaro, titolare dell'inchiesta insieme al collega Francesco De Tommasi, si è opposta all'istanza chiedendo inoltre l'estromissione dal processo dei documenti redatti in carcere, in quanto non disposti nell'ambito di una vera e propria consulenza. I giudici però hanno rigettato la richiesta, ritenendo tali relazioni utilizzabili. Sulla perizia invece si sono riservati di disporla alla fine dell'istruttoria dibattimentale.

Nelle prossime udienze, a partire dal 5 giugno, saranno sentiti i testi dell'accusa: gli investigatori della Squadra mobile e i medici legali. Dopo la pausa estiva, a settembre, toccherà alla difesa e poi arriverà la sentenza.

(ANSA il 26 marzo 2026) - "Diana era la bimba più bella del mondo, non si meritava tutto questo, lei deve pagare per ciò che ha fatto". Lo ha detto ai cronisti Viviana Pifferi, sorella di Alessia, la 37enne che era presente stamani alla prima udienza del processo in cui è accusata di omicidio volontario aggravato per aver lasciato morire di stenti la figlia Diana di quasi un anno e mezzo, abbandonandola da sola in casa per sei giorni.

 La sorella, anche lei in aula in Corte d'Assise a Milano e con una maglietta addosso con stampata la foto della nipote, e la madre della 37enne, nonna della piccola, saranno parti civili nel processo contro Alessia Pifferi.

Stamani il processo, davanti alla Corte presieduta da Ilio Mannucci Pacini, è stato subito rinviato al prossimo 8 maggio, perché nei giorni scorsi Alessia Pifferi ha cambiato ancora una volta difensore.

Poi, ha richiamato il precedente legale, il quale alla fine ha rinunciato al mandato. Ora è assistita dall'avvocato Alessia Pontenani, la quale ha chiesto termini a difesa essendo stata nominata solo qualche giorno fa. Rinvio concesso dai giudici data la "delicatezza e complessità del procedimento".

Nella prossima udienza, come ha spiegato il legale Emanuele De Mitri che le rappresenta, la madre e la sorella di Alessia Pifferi, rispettivamente nonna e zia della bimba, si costituiranno parti civili contro la 37enne, in carcere da fine luglio scorso nell'inchiesta della Squadra mobile di Milano, coordinata dai pm Francesco De Tommasi e Rosaria Stagnaro. La Procura ha contestato nell'imputazione di omicidio volontario anche l'aggravante della premeditazione, oltre a quelle di aver ucciso la figlia e dei motivi futili e abietti.

La piccola, scrivono i pm nell'imputazione, venne lasciata "priva di assistenza e assolutamente incapace, per la tenerissima età, di badare a se stessa, senza peraltro generi alimentari sufficienti e in condizioni di palese ed evidente pericolo per la sua vita, pure legate alle alte temperature del periodo". Tutto ciò causò "nella minore una 'forte disidratazione'" che portò alla morte.

Dopo aver chiuso la porta di casa, la donna se ne era andata dal compagno (non padre della bimba) in provincia di Bergamo. La 37enne nel processo rischia la condanna all'ergastolo (aveva provato a chiedere il rito abbreviato, ma l'istanza è stata respinta in base alle normative). La difesa potrebbe puntare su un'istanza di perizia psichiatrica per valutare un eventuale vizio di mente al momento dei fatti. "Deve pagare", ha ripetuto la zia in lacrime.

Nella prossima udienza saranno trattate le questioni preliminari e la fase della ammissione prove. Il processo, ha spiegato il presidente della Corte, sarà trattato "tra la seconda metà di giugno e la prima metà di luglio" e si potrebbe chiudere anche prima dell'estate. Oppure a settembre.

Monica Vinci.

Estratto da corriere.it il 18 febbraio 2023.

Ha ucciso la figlia di 14 anni e poi si è lanciata dalla finestra al primo piano. È successo nel pomeriggio ad Oristano, nella frazione di Silì. La donna, Monica Vinci di 52 anni, è stata soccorsa e trasportata in ospedale con l’elicottero del servizio 118. Le sue condizioni sono molto gravi. La ragazzina, si chiamava Chiara Carta ed è stata ritrovata morta nel bagno di casa.

 Sono stati alcuni passanti ad accorgersi del corpo della donna agonizzante. Entrati in casa hanno fatto la macabra scoperta: la figlia era nel bagno di casa in un lago di sangue. Il corpo dell’adolescente è stato ritrovato con evidenti ferite da taglio [...]

Estratto da leggo.it il 20 febbraio 2023.

Chiara Carta avrebbe compiuto 14 anni il 24 marzo, una ragazza che i vicini di casa definiscono «dolce, solare, educta». Ma quel compleanno per la giovane di Silì, Oristano, non arriverà mai: è stata uccisa dalla madre, accoltellata venti volte e poi strozzata con un cavetto per la ricarica del cellulare.

 Il padre di Chiara, Piero, non si dà pace: «Ho perso tutto, mi ha tolto ogni cosa e quanto avevo di più prezioso», le sue parole riportate su l'Unione Sarda. Oggi non solo familiari e colleghi si stringono attorno all'agente della polizia locale, 53 anni, ma anche il sindaco di Oristano, Massimiliano Sanna, ha portato il cordoglio di tutta la città al padre distrutto dal dolore della tragedia avvenuta sabato. […]

 Migliorano le condizioni di Monica Vinci la 52enne che ha ucciso a coltellate la figlia di 13 anni e poi si è lanciata dalla finestra al primo piano della sua casa  La donna non è in pericolo di vita: nella caduta ha riportato un trauma cranico e una frattura al bacino e viene curata all'ospedale Santissima Annunziata di Sassari dove è arrivata ieri codice rosso. […]

 Estratto da corriere.it il 20 febbraio 2023.

[…] L’ipotesi che la donna temesse che le venisse tolto l’affidamento della figlia 13enne. Il legale del padre: «Lei soffriva di disagio psichico, ma il giudice aveva rifiutato la nostra istanza»

 Sul caso spunta però un dettaglio importante: «Eravamo consapevoli dello stato di disagio della donna e già nel 2015, dopo il suo ricovero per problemi psichici, avevamo presentato istanza perché venisse dichiarata incapace di intendere e di volere, ma l’istanza è stata rigettata perché la donna ha presentato un certificato medico che la dichiarava idonea all’affidamento della figlia».

A dirlo all’Ansa è stato l’avvocato Filippo Cogotti, che tutela Piero Carta, il padre di Chiara. Negli ultimi tempi le tensioni tra madre e figlia sarebbero state frequenti. «La ragazza si era avvicinata di nuovo al padre — spiega l’avvocato Cogotti — ed era nostra intenzione ad aprile, quando sarebbero decorsi i termini per il divorzio, presentare una nuova istanza di affido. Ma c’è anche dell’altro: Chiara al compimento dei 14 anni, il prossimo 24 marzo, avrebbe potuto esprimere la sua preferenza davanti al giudice e decidere se stare con la madre o con il padre».

Ed è proprio questo il punto su cui si fa largo una terribile ipotesi: la donna, consapevole che a breve avrebbe potuto perdere la figlia, l’assegno di mantenimento e la casa, potrebbe aver deciso di uccidere la figlia e di farla finita gettandosi dalla finestra. […]

Oristano, Chiara uccisa dalla madre con 20 coltellate e strangolata con un cavo del cellulare. Il padre: «Ho perso tutto». Alberto Pinna su Il Corriere della Sera il 20 febbraio 2023.

L’ipotesi che la donna temesse che le venisse tolto l’affidamento della figlia 13enne. Il legale del padre: «Lei soffriva di disagio psichico, ma il giudice aveva rifiutato la nostra istanza»

Il dolore di Piero Carta, nel riquadro la figlia uccisa (Foto Alessandra Chergia/L’Unione Sarda per gentile concessione)

Colpita più di 20 volte con una lama tagliacarte, strangolata con il cavo caricabatterie di un telefonino. Chiara ha cercato disperatamente di difendersi dalla furia della mamma che l’inseguiva. Dieci minuti d’inferno da una stanza all’altra, sangue dappertutto, e l’ultimo vano tentativo di barricarsi nel bagno. Ha cercato di chiedere aiuto. Due vicini di casa hanno sentito le urla. «Ma avveniva spesso che mamma e figlia litigassero, n on abbiamo pensato che la potesse finire in tragedia». Più passano le ore e più emergono contorni sconvolgenti: domani l’autopsia chiarità l’ultimo dubbio. La ragazza è morta per le ferite o soffocata dal laccio del cavetto caricabatterie?

Ciò che è veramente accaduto può raccontarlo soltanto Monica Vinci, che dopo aver ucciso la figlia ha cercato di suicidarsi lanciando dal balcone della camera da letto. Ma nel reparto di psichiatria dell’ospedale di Sassari ha lo sguardo fisso sul soffitto e parla poco, frasi sconnesse. Quando starà meglio (frattura al bacino, ferite e traumi una po’ in tutto il corpo) se lo vorrà e se sarà in condizioni mentali di farlo racconterà al magistrato come e perché.

Il papà ha riversato il suo strazio sui social: «Amore, so che non potrai leggere e rispondere — ha scritto Pietro Carta —, ma il mio cuore vuole comunicare con la tua anima. La tua vita è stata interrotta in tenera età. Papà non ti dimenticherà mai. Fintanto che il suo cuore batterà, continuerai a essere il primo pensiero del giorno». La famiglia Carta (nonni di Chiara e due fratelli di Pietro) è da anni impegnata in opere di volontariato. «Ho perso tutto ma ho grandi progetti — scrive ancora papà Pietro — per fare in modo che tu possa essere sempre ricordata ed essere un valido aiuto per gli altri».

Nella sua scuola, i disegni allegri e le immagini di Carnevale sono oscurati e Chiara è stata ricordata con una candela accesa su uno sfondo nero. «Ci sentiamo tutti inermi — le parole di compagni di classe e insegnanti — di fronte a questa tragedia, non troviamo una risposta. Il posto che occupavi in aula rimarrà vuoto, ma non quello nei cuori di chi ti ha conosciuto e voluto bene». Doveva compiere 14 anni il 24 marzo, Chiara. In un selfie recente mostrava il suo volto di adolescente, due occhi spalancati e appena ombreggiati dal mascara, le labbra accese da un rossetto vermiglio. «Vorrei essere più grande» aveva confidato a un’amica. E fra i suoi progetti c’era, finite le scuole medie, fare un corso professionale — lo zio Carmelo ha un salone di bellezza — per parrucchiera ed estetista.

Ma intanto c’erano problemi di convivenza con la mamma, alla quale era stata affidata dal tribunale dopo la separazione. Monica Vinci era rimasta scossa dalla fine del matrimonio. Aveva dato segni di squilibrio psichico. Era stata anche ricoverata e sottoposta a Tso (trattamento sanitario obbligatorio). «Già nel 2015, dopo il suo ricovero — fa sapere l’avocato Filippo Cogotti, che assiste la famiglia Carta — avevamo presentato istanza perché venisse dichiarata incapace di intendere e di volere, ma l’istanza è stata rigettata». Monica Vinci aveva presentato un certificato medico che la dichiarava idonea all’affidamento. Negli ultimi mesi Chiara aveva chiarito col papà: «Con mamma è diventato impossibile vivere. Voglio stare con te».

Compiuti 14 anni avrebbe potuto chiedere al tribunale di essere affidata al padre. Il 24 marzo era vicino e prossima anche la data dell’udienza di divorzio. Monica Vinci non usciva più di casa, era terrorizzata: fra poche settimane avrebbe potuto perdere, figlia, assegno di mantenimento e casa. Troppo per la sua mente, fragile e sconvolta. Che senso ha — può avere deciso e questo è anche il movente cui gli inquirenti cercano conferme — vivere senza Chiara?

Il dolore del papà e i problemi psichici dell'ex moglie. Chiara uccisa a 13 anni a coltellate dalla madre, l’ipotesi raccapricciante: “Tra un mese la donna l’avrebbe persa”. Redazione su il Riformista il 20 Febbraio 2023

Ascoltami figlia mia, la tua vita è stata interrotta ad una tenera età” ma “papà non ti dimenticherà mai”. E’ il pensiero che affida ai social Pietro Carta, il vigile urbano di Oristano e papà di Chiara, la ragazzina di 13 anni uccisa sabato scorso a coltellate dalla madre, Monica Vinci, 52 anni, che ha poi tentato di togliersi la vita lanciandosi dalla finestra dell’abitazione al primo piano dove viveva con la giovane vittima.

Una tragedia, quella avvenuta nel primo pomeriggio nella frazione di Silì, sulla quale sono in corso indagini per capire se poteva essere evitata. La donna, attualmente ricoverata nel reparto di psichiatria dell’ospedale Santissima Annunziata di Sassari, non è in stato di fermo. Per lei scatterà nelle prossime ore l’accusa di omicidio volontario. Ma c’è un aspetto inquietante al momento al vaglio degli investigatori (le indagini sono condotte dalla Squadra Mobile e coordinate dalla procura di Oristano). Vinci in passato avrebbe sofferto di problemi di natura psichica e tra circa un mese la figlia Chiara avrebbe compiuto 14 anni, età dove avrebbe potuto esprimere davanti al giudice la preferenza se stare con la madre o con il papà.

I genitori sono infatti separati da anni e negli ultimi tempi la 13enne si era riavvicinata alla famiglia del genitore dopo i segni di disagio psichico manifestati dalla mamma, con la quale le liti erano sempre più frequenti. Da qui l’ipotesi più inquietante: la donna, consapevole che a breve avrebbe potuto perdere la figlia, l’assegno di mantenimento e la casa, potrebbe aver deciso di uccidere la figlia e di farla finita gettandosi dalla finestra di casa.

Eravamo consapevoli dello stato di disagio della donna – spiega l’avvocato Filippo Cogotti, che assiste Piero Carta – e già nel 2015, dopo il suo ricovero per problemi psichici, avevamo presentato istanza perché venisse dichiarata incapace di intendere e di volere, ma l’istanza è stata rigettata perché la donna ha presentato un certificato medico che la dichiarava idonea all’affidamento della figlia”.

Stando a quanto emerso nella prima fase di indagini, la 13enne oltre ad essere stata raggiunta da una ventina di coltellate, sarebbe anche stata strangolata dalla donna con il cavetto del cellulare. Chiara, stando ai primi rilievi della Scientifica, ha cercato di fuggire e difendersi, come testimoniano alcune ferite sul corpo della mamma. Ma non è riuscita a sfuggire alla furia omicida della mamma ed è stata trovata senza vita e in una pozza di sangue all’interno del bagno. Sarà adesso l’autopsia, in programma domani, martedì 21 febbraio, a far luce sulle cause del decesso.

Questo il messaggio di Piero Carta pubblicato sui social: “Amore di papà, so che non potrai leggere e rispondere a quello che scrivo, ma il mio cuore vuole comunicare con la tua anima. Ascoltami figlia mia, la tua vita è stata interrotta ad una tenera età. Papà non ti dimenticherà mai. Fintanto che il suo cuore batterà, continuerai a essere il primo pensiero del giorno. Ho grandi progetti per fare in modo che tu possa essere sempre ricordata ed essere un valido aiuto per gli altri. Ciao amore mio, ti amo”.

Abbandonati.

Storia di un bambino. Storia di Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera giovedì 17 novembre 2023

Una donna di Modica partorisce in casa e consegna il neonato moribondo nelle mani dell’uomo con cui lo ha concepito. L’uomo appoggia un sacchetto della spesa con dentro suo figlio davanti alla macelleria per cui lavora. Poi chiama i soccorsi, fingendo che non sia suo e che qualcun altro l’abbia abbandonato lì.

Il bimbo sopravvive quasi per miracolo e viene dato in preadozione a una coppia di Siracusa. Passano gli anni, tre: i genitori preadottivi si innamorano pazzamente del piccolo e lui di loro, com’è naturale che sia, mentre il padre biologico viene condannato per abbandono di minore e la madre indagata per concorso nello stesso reato. Ma lei sostiene di non essere mai stata d’accordo nel liberarsi del bambino: aveva soltanto detto al compagno di portarlo in ospedale. Per cui adesso lo rivuole indietro e il Tribunale dei minorenni le ha dato ragione, riconoscendo una falla giuridica nella preadozione: prima di procedere, nessuno si era premurato di chiederle se avesse cambiato idea.

Il bimbo dovrà essere consegnato alla madre entro il 28 dicembre «anche con l’uso della forza pubblica».

I genitori preadottivi, come potete immaginare, si sentono la vita scivolare sotto i piedi e si aggrappano a tutto, persino a una petizione web, pur di non perdere la creatura che adorano. Ora qualcuno dovrà spiegare a un bambino di tre anni che non li vedrà mai più: di tutte le cattiverie che una storia del genere racchiude, questa mi sembra la più atroce.

Neonato abbandonato in un sacchetto: dopo tre anni deve tornare alla madre naturale. Storia di Claudio Del Frate su Il Corriere della Sera giovedì 16 novembre 2023

Un neonato gettato via in un sacchetto tre anni fa e per tutto questo lasso di tempo cresciuto con una coppia di genitori affidatari, dovrà essere restituito alla madre naturale perché quest’ultima lo rivuole con sè. È quanto ha stabilito il tribunale di Catania con un provvedimento che sta provocando polemiche e che dovrà essere eseguita «anche con l’uso della forza pubblica» entro il 28 dicembre prossimo.

Per scongiurare che «Miele» - così viene soprannominato il bambino che all’ospedale era stato registrato come Vittorio Fortunato - venga tolto alla coppia che lo ha fin qui accudito è stata lanciata anche una petizione sulla piattaforma change.org che ha già raggiunto le 25.000 adesioni. Il testo ricostruisce anche le tappe attraverso le quali ci si sta avvicinando alla paradossale conclusione.

Il 4 novembre del 2020 in via Saragat, a Ragusa un uomo dà l’allarme perché ha ritrovato in un sacchetto di un supermercato gettato via un bimbo nato da poche ore. Il piccolo viene portato all’ospedale, salvato da una condizione di ipotermia - ha ancora il cordone ombelicale attaccato - e curato.

Nel frattempo però emergono anche i primi retroscena della vicenda: l’uomo che ha dato l’allarme è anche il padre naturale del bambino, partorito in casa da una ragazza di Modica con la quale ha una relazione extraconiugale e dalla quale ha già avuto un’altra figlia. La messinscena serviva ad abbandonare il neonato ma al tempo stesso a salvargli la vita. L’uomo viene condannato all’inizio del 2023 a due anni per abbandono di minore. Stessa accusa viene contestata alla madre del bimbo ma per lei il processo è ancora in corso.

Venti giorni dopo la nascita, intanto, il bambino viene affidato a una coppia residente nella vicina provincia di Siracusa. È un decreto del tribunale dei minori di Catania a consegnare il piccolo alla nuova famiglia (che da tempo aveva fatto domanda per adottare un bimbo) con una condizione di «pre adozione». Per tre anni «Miele» cresce sano fino alla svolta di questi giorni.

«Per un decreto che abbiamo appena ricevuto Miele verrà tolto dalla nostra famiglia e collocato dalla madre biologica che non ha mai visto, né incontrato» racconta la famiglia adottiva su change.org. Il decreto del tribunale si basa dal presupposto che la madre naturale rivorrebbe con sè il figlio: avrebbe dichiarato di non aver mai voluto disfarsene ma di averlo consegnato al padre solo perché lo portasse in ospedale. I giudici di Catania sottolineano dunque che non sarebbe stato verificato il «ravvedimento» dei genitori naturali. Di conseguenza hanno revocato la condizione di adottabilità e hanno dato tempo fino al 28 dicembre perché «Miele» venga riconsegnato alla madre biologica «anche ricorrendo alla forza pubblica»...

«Immaginate un bambino – scrive nella petizione la famiglia affidataria - che ha già subito un rifiuto in grembo e un abbandono cruento alla nascita essere costretto a lasciare, dall’oggi al domani, tutte le sue certezze, il suo mondo, le braccia sicure e il calore di mamma papà, gli unici affetti che abbia conosciuto, per essere inserito forzatamente in un contesto in cui tutto è estraneo compresa la persona che dovrebbe iniziare a chiamare “mamma “».

Estratto dell’articolo di Valentina Lupia per roma.repubblica.it il 7 Settembre 2023

Erano sporchi, denutriti, con ematomi e cicatrici: segni delle percosse ricevute negli anni. Erano in un completo stato d’abbandono e per disperazione, forse, sono arrivati a mangiare la terra. E ai poliziotti, che li hanno trovati il 10 maggio in una zona appena fuori dal Raccordo anulare hanno detto: “Non vogliamo tornare dalla mamma, abbiamo fame, vogliamo il gelato”. È la storia di Pietro e Paolo, due fratellini ai quali il Policlinico ha dato un nome di fantasia per raccontare attraverso i social quanto hanno vissuto. 

Pietro e Paolo sono stati immediatamente ricoverati in terapia intensiva pediatrica per poi essere trasferiti in gastroenterologia pediatrica. Entrambi “presentavano gravi problemi alimentari”. Così gravi che “alcuni esami lasciavano pensare, a causa dei residui nello stomaco, che avessero mangiato terra”, raccontano dall’Umberto I. 

(…) 

Cinque infermieri, si sono alternati per prendersi cura di loro 24 ore al giorno, “costruendo un rapporto di fiducia. Grazie alla sensibilità del nostro personale infermieristico, sono stati rilevati ulteriori problemi di salute nel più piccolo dei due che hanno necessitato di ulteriori approfondimenti”.

I miglioramenti ora sono quotidiani: “Pietro, nonostante avesse 4 anni, all'arrivo in pronto soccorso non era in grado neppure di camminare”. Infatti “col tempo e con l'aiuto di fisioterapisti ha imparato a farlo, ad andare sul monopattino e anche a ballare. Il loro percorso di rinascita è stato illuminato dalla generosità dei volontari dell'associazione Arvas, dai tanti regali che hanno ricevuto e dall'enorme affetto di tutti i professionisti sanitari che si sono occupati di loro”. 

In contemporanea si sono mossi i servizi sociali dell’ospedale. “Le indagini — si legge nel racconto del Policlinico — hanno confermato il grave stato di abbandono dei piccoli e di irresponsabilità totale dei genitori, è stata revoca loro la patria potestà”. Il più grande, dimesso il 6 luglio, è andato subito in una casa famiglia, mentre “il più piccolo è stato sottoposto a un delicato intervento in neurochirurgia pediatrica per ridurre delle raccolte ematiche, causate dalle percosse subite negli anni, che pressavano sul suo cervello e ne compromettevano la vista e altre funzioni”.

Poi ha raggiunto il fratello. Ora sono entrambi adottabili. “Auguriamo ai nostri due angioletti di avere presto una famiglia che li ami incondizionatamente e che garantisca loro un futuro ricco di amore, gioie e soddisfazioni — dicono dall’Umberto I — Dopo quello che hanno passato nei primi anni di vita, nessuno lo merita più di loro”.

Taranto, neonato abbandonato vicino ai cassonetti. «La città regalerà amore a Lorenzo». A parlare l'assessore ai Servizi sociali, Gabriella Ficocelli. Il piccolo, che sembra nato da meno di 24 ore , sta bene ed è al SS. Annunziata, dove lo hanno chiamato Lorenzo. REDAZIONE ONLINE su La Gazzetta del Mezzogiorno il 12 Agosto 2023

Ritrovato intorno alle sette del mattino un neonato vicino ad un cassonetto dei rifiuti in pieno centro a Taranto. Il piccolo era in una busta di plastica, avvolto da una coperta. Accanto c'era anche un peluche. I vagiti del neonato hanno attirato l'attenzione di una donna che portava a spasso i cani. Inizialmente la donna pensava al suono di un pupazzetto, ma poi si è avvicinata e rovistando tra le buste ha visto il bimbo con accanto un peluche. A quel punto, ha dichiarato la donna «ho capito che si trattava di una creatura in carne e ossa, ho preso il neonato in braccio e ho chiesto a un ragazzo di chiamare un’ambulanza perché non avevo il cellulare con me. E’ stato un miracolo».

La polizia è intervenuta sul posto ed ha avviato le indagini acquisendo anche le immagini delle telecamere di videosorveglianza della zona. L’Asl ha poi spiegato che dopo l’arrivo al Pronto soccorso dell’ospedale SS. Annunziata, il neonato ed è stato trasferito nell’Unità di terapia intensiva neonatale. 

Il piccolo secondo i medici ha meno di 24 ore di vita. Secondo quanto riferito dall’Asl è «in ottime condizioni». La parte del cordone ombelicale attaccata al neonato, ha spiegato l’azienda sanitaria locale, era ancora fresca. Questo vuol dire che il parto potrebbe essere avvenuto una-due ore prima del ritrovamento. L’altra parte del cordone sarebbe rimasta attaccata alla madre che, se non assistita adeguatamente, rischierebbe l’emorragia. Era stato sicuramente lavato e aveva presumibilmente consumato la prima poppata. 

Il professor Federico Schettini dell’Unità di terapia intensiva neonatale (Utin) sta seguendo personalmente il piccolo, «coccolato da tutto il personale». «Speriamo - aggiungono dall’Azienda sanitaria locale - che la madre si faccia sentire presto». Gli agenti della polizia di Stato sono intervenuti sul posto ed hanno avviato le indagini acquisendo anche le immagini delle telecamere di videosorveglianza della zona. Il bambino è stato trovato in via Pisanelli all’angolo con via Principe Amedeo.

Lorenzo, questo il nome dato al piccolo, pesa circa tre chili ed è in una condizione ritenuta «adeguata all’età gestazionale», sta bene, «è in condizioni stabili ed è costantemente monitorato per i parametri vitali». Il neonato è stato preso in carico dal professor Federico Schettini, rientrato appositamente dalle ferie e dalla dottoressa Lucrezia De Cosmo, direttrice dell’Unità di Terapia intensiva neonatale. Il bimbo, ha rivelato il direttore generale dell’Asl Vito Gregorio Colacicco, «era pulito e profumato e forse la mamma lì sul posto lo ha anche vegliato. Dall’accesso ospedaliero di via Crispi abbiamo la culla della vita, un’apparecchiatura in funzione da tempo che permette di lasciare in un’area protetta un neonato e poi la presenza di sensori all’interno del luogo fa subito intervenire il personale del reparto». Mario Balzanelli, presidente del Società Italiana Sistema 118, ha rivolto «un appello a tutte le donne, e alle madri, che si trovino in un momento psicologico critico, drammatico: prima di fare qualunque cosa chiamate il 118, che prenderà in carico immediatamente la situazione e verrà in pochi minuti da voi, attivando i percorsi stabiliti. Veniamo noi da voi». Intanto, è partita «la gara di solidarietà e la corsa a coccolare il neonato - ha commentato il sindaco Rinaldo Melucci - e la città lo sta già riempiendo d’affetto». Il Comune ha attivato anche un iban sul quale sarà possibile effettuare donazioni. I servizi sociali, ha assicurato l’assessore Gabriella Ficocelli, «stanno seguendo da vicino la vicenda. Noi speriamo ad un ripensamento della mamma ma se non dovessero presentarsi i genitori naturali, sarà il tribunale per i minorenni a procedere all’affidamento a una delle famiglie che sono già individuate, pronte ad un gesto d’amore».

Neonato abbandonato a Taranto, rintracciata la madre di Lorenzo. La donna sarebbe stata condotta all’ospedale Santissima Annunziata, dove si trova il figlio, per essere ricoverata nel reparto di Ginecologia: anche lei ha bisogno di cure. REDAZIONE ONLINE su La Gazzetta del Mezzogiorno il 12 Agosto 2023

E’ stata e rintracciata la donna che ha dato alla luce nelle scorse ore un neonato, abbandonandolo poi accanto ai cassonetti ingegnerizzati della raccolta differenziata in via Pisanelli, a Taranto Secondo fonti sanitarie si tratta di una cittadina di nazionalità georgiana.

La donna si era recata al punto di primo intervento dell’ospedale Moscati, al quartiere Paolo VI, per un controllo. A quanto si è appreso, sarebbe stata notata all’ingresso dai vigilanti che hanno messo poi a disposizione della Polizia le immagini del sistema di video sorveglianza. La donna sarebbe stata condotta all’ospedale Santissima Annunziata, dove si trova il figlio, per essere ricoverata nel reparto di Ginecologia: anche lei ha bisogno di cure.

Taranto, neonato abbandonato in un cassonetto viene salvato grazie al fiuto di un american pitbull. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 12 Agosto 2023 

Il bimbo è adesso ricoverato nel reparto di neonatologia. Lorenzo è il nome che il personale del reparto ha dato al neonato. "sta bene coccolato da tutto il personale. .

Questa mattina intorno alle 7 un neonato è stato abbandonato a Taranto in un sacchetto ai piedi di un cassonetto di rifiuti nel pieno centro della città. A trovarlo è stato un uomo che portava a spasso il suo cane, un americpitbull che passando nei pressi del cassonetto ha cominciato ad abbaiare forte irrigidendosi nella sua posizione nonostante il suo padrone cercasse di portarlo via. E’ sopraggiunta una signora con un altro cane  e entrambi gli animali cercavano di attirare l’attenzione dei loro padroni verso quel sacchetto e si sono uditi dei vagiti dal suo interno. Resisi conto della presenza del bambino abbandonato , immediatamente hanno contattato la sala operativa del 112, che ha fatto intervenire una volante della Polizia di Stato ed un ambulanza. 

Il gemito del neonato, nato da poche ore (aveva ancora il cordone ombelicale), ed il fiuto infallibile di un pitbull, ha reso possibile il suo rinvenimento tra via Pisanelli e via Principe Amedeo. Allertato il 118, i soccorritori sono immediatamente arrivati sul posto trovando il piccolo fortunatamente in buone condizioni. Nella busta dove era contenuto c’era un orsacchiotto ed una coperta. L’ambulanza è corsa immediatamente verso l’Ospedale SS. Annunziata dove “Federico Schettini professore universitario, che lavora con l’ ASL Taranto nell’ambito della clinicizzazione dei reparti – precisa Colacicco – che era di turno questa mattina e segue i posti letto di pediatria universitaria. Abbiamo infatti la pediatria ospedaliera, affidata a Valerio Cecinati, e quella universitaria che segue appunto Schettini, mentre primario dell’Unita’ di terapia intensiva, Utin, è Lucrezia De Cosmo . Il primario del reparto, il professor Alfonso Fischetti, al suo primo giorno di ferie è rientrato immediatamente in servizio“.

Il bimbo è adesso ricoverato nel reparto di neonatologia. Lorenzo è il nome che il personale del reparto ha dato al neonato. “sta bene coccolato da tutto il personale. La madre è stata rintracciata. Si tratta, a quanto si apprende, di una ragazza georgiana 20enne. La giovane è stata individuata dopo essere andata al punto di primo intervento dell’ospedale Moscati per un controllo: è partita così una segnalazione che ha permesso alla polizia di rintracciarla. Ora la donna si trova nello stesso ospedale, il SS. Annunziata di Taranto, dove questa mattina è stato portato il figlio, nato poche ore prima. 

Le ricerche della Polizia sono ora orientate a rintracciare la madre in quanto avendo il neonato ancora il cordone ombelicale attaccato perchè venuto alla luce da poche ora, potrebbe essere che un pezzo dello stesso cordone sia rimasto attaccato alla donna che per questo potrebbe aver bisogno di assistenza.

Il direttore dell’Asl: “Il bimbo era lavato e profumato”

 “In questa vicenda del neonato lasciato ai piedi del cassonetto dei rifiuti, si incrociano la festa e la gioia degli operatori del 118, che l’hanno messo in salvo e portato in ospedale, e il dramma di una mamma che adesso sta piangendo” ha dichiarato il direttore generale di ASL Taranto, Vito Gregorio Colacicco. “Ho detto al presidente della Regione, Emiliano, di questa doppia sensazione che avvertiamo oggi – aggiunge Colacicco -. La mamma si è preoccupata di lavarlo e profumarlo, di mettergli accanto un peluche. Il bimbo stava infatti pulito e profumato e forse la mamma, secondo me, lì sul posto lo ha anche vegliato. Secondo quello che immagino io, ovvio, per come stava il bambino, per le premure, l’attenzione, il lenzuolo bianco, la copertina pulita”.   

“Dall’accesso ospedaliero di via Crispi abbiamo la culla della vita” aggiunge il dg Colacicco, con riferimento all’apparecchiatura, in funzione da tempo, che per permette di lasciare in un’area protetta un neonato e poi la presenza di sensori all’interno del luogo fa subito intervenire il personale del reparto.

“Una donna, inoltre, può anche partorire in reparto e poi lasciare il bambino, però i drammi che stanno dietro a queste situazioni sono inimmaginabili. Noi facciamo tanto per il sostegno alla vita e per i centri di ascolto – continua il dg Colacicco -, poi capitano queste situazioni e ti cadono le braccia, si resta disorientati. Il piccino, comunque, sta benissimo e questo è molto importante”.

“Oggi abbiamo salvato una vita grazie ad un cane, ed è stato un miracolo. Ma in un altro contesto sarebbe potuta essere una tragedia. Ora è il momento di festeggiare questa vita. Evitiamo che se ne possano perdere altre”, è l’appello che lancia attraverso l’Adnkronos da Mario Balzanelli. Quindi l’invito a “tutte le mamme che dovessero avere un momento psicologico critico, di grande tensione o preoccupazione o sconvolgimento emotivo, prima di prendere qualsiasi decisione, chiamino il 118. Garantiamo una risposta immediata in tutta Italia e ci prendiamo in carico il problema attraverso i percorsi istituzionali corretti“.

Il neonato “è giunto alle 7.26 di stamattina al pronto soccorso del presidio ospedaliero centrale Santissima Annunziata – ha detto il direttore sanitario dell’ ASL Taranto, Sante Minerba – tramite il servizio del 118. Il neonato era a termine. Il piccolo è stato immediatamente trasferito in Utin, presente il primario, per le cure e l’assistenza. Era in condizioni cliniche stabili, di peso adeguato all’età gestazionale, ed è costantemente monitorato nei parametri vitali”. L’ ASL Taranto ha intanto puntualizzato che “è importante ricordare che già dal 1997 la legge italiana tutela madre figlio assicurando in ospedale il parto in anonimato e consentendo di garantire la massima riservatezza, garantendo interventi sanitari adeguati ed efficaci a tutela della salute degli stessi”. 

Il Comune di Taranto ha pensato di attivare un IBAN ( IT 98 X 05385 41330 T2099187031) sul quale sarà possibile effettuare donazioni per il neonato. Causale: “Donazione per il piccolo Lorenzo”. Resta da capire chi gestirà la somma raccolta. Redazione CdG 1947

L’ambasciata della Georgia si attiva per la mamma del neonato partorito e abbandonato a Taranto. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 14 Agosto 2023

La giovane mamma 23enne che è ricoverata in osservazione finora non ha chiesto di vedere il piccolo Lorenzo Si cerca di capire come intervenire per fornirle assistenza alla ragazza.

L’ambasciata georgiana, venuta a conoscenza del caso, sta analizzando come aiutare la giovanissima donna georgiana, 23enne che da poco tempo era arrivata a Taranto, che ha un compagno della stessa nazionalità, giovane anch’egli, che sembrerebbe risieda nella stessa zona dove è stato salvato ieri il piccolo Lorenzo.  

La Squadra Mobile di Taranto è risalita alla ragazza georgiana, grazie ad un paziente e meticoloso lavoro di analisi delle immagini delle telecamere di videosorveglianza presenti nell’area del ritrovamento. Gli agenti della Polizia di Stato sono quindi andati a casa della giovanissima donna, l’hanno prelevata nel tardo pomeriggio ed accompagnata all’ Ospedale SS. Annunziata per i controlli medici. 

La ragazza georgiana è molto facile che non fosse informata delle norme italiane che, da tempo, permettono di partorire in ospedale in assoluta libertà e sicurezza, così come ignorasse che uno degli accessi dell’ospedale Santissima Annunziata è munito da anni della cosiddetta “culla della vita” dove i neonati possono essere lasciati.

Neonato abbandonato tra i rifiuti a Taranto, il dramma di un madre sola. Ricostruite le ultime ore della 24enne georgiana prima dell’abbandono di Lorenzo il neonato trovato vicino i cassonetti. GIACOMO RIZZO su La Gazzetta del Mezzogiorno il 15 Agosto 2023

La mamma che sabato mattina ha abbandonato il figlioletto accanto ai cassonetti della raccolta differenziata, in via Pisanelli, ora è indagata per abbandono di minore e rischia persino l’arresto (se dovesse essere contestata l’accusa più grave di tentato omicidio). La donna, una badante georgiana di 24 anni, è stata rintracciata poche ore dopo il parto dalla Polizia. Madre e figlio, entrambi in osservazione in ospedale, stanno bene. Hanno trascorso la notte tranquillamente, senza alcuna complicanza. Nel caso in cui la ragazza non dovesse procedere al riconoscimento del bimbo entro i 10 giorni previsti dalla legge, scatterebbe il procedimento di adottabilità. Nella lista a disposizione del Tribunale per i minori, presieduto dal giudice Ciro Fiore, figurano già diverse coppie. L’indagine è seguita dal procuratore capo Pina Montanaro.

Il neonato, a cui il personale sanitario ha dato il nome di Lorenzo, è costantemente monitorato (e coccolato) da medici e infermieri dell’Utin, l’Unità di terapia intensiva neonatale del Santissima Annunziata. Pesa poco più di tre chili, ha guance paffute, occhi vispi e una gran voglia di vivere. Il suo vagito l’altro ieri ha attirato l’attenzione di una passante che passeggiava con i suoi cani. Inizialmente la donna pensava al suono di un giocattolo, ma poi si è avvicinata e rovistando tra le buste ha visto il bimbo con accanto un peluche. Era avvolto in una coperta e sistemato in un sacchetto di tela. A quel punto la donna ha capito che si trattava «di una creatura in carne e ossa», come da lei stesso dichiarato ai cronisti. Ha preso il neonato in braccio e ha chiesto a un ragazzo di chiamare i soccorsi perché non aveva con sé il cellulare. In meno di cinque minuti è arrivata l’ambulanza del 118 che ha portato Lorenzo in ospedale. Contestualmente la polizia ha avviato le indagini e ha identificato la donna visionando le immagini delle telecamere di videosorveglianza della zona, che l’avrebbero ripresa mentre abbandonava il bambino. La mamma è stata poi rintracciata nel primo pomeriggio dai poliziotti della Squadra Mobile. La 24enne è giunta in Italia nel marzo scorso, quando era già incinta di circa 4 mesi. La donna, assistita dall’avv. Francesco Zinzi, è stata interrogata dagli agenti, ai quali ha raccontato la sua storia, sostenendo di aver divorziato dal marito. Per il momento è stata ascoltata a sommarie informazioni come testimone. La giovane straniera ha riferito di aver portato avanti la gravidanza da sola e di aver partorito nel bagno dell’appartamento dell’anziana, una 97enne, che assiste e dove dimora. Ha anche un altro figlio di 4 anni rimasto in Georgia da dove è partita con il bus che l’ha condotta a Istanbul, poi si è imbarcata su un volo di linea diretto a Budapest e da lì a Bari. Grazie a un contatto di una sua connazionale a Taranto, circa un mese fa, ha spiegato la 24enne, è poi riuscita a trovare un lavoro come badante e si è trasferita nell’abitazione dell’anziana. La giovane ha ammesso di essere partita dal suo Paese sapendo di essere in stato interessante, aggiungendo di non aver mai pensato di interrompere la gravidanza sperando sino all’ultimo di tenere con sé il bambino. La georgiana ha dichiarato che il suo unico scopo era quello di tutelare il figlio, consapevole anche della possibilità di una futura adozione, e di non aver informato mai nessuno del suo stato di gravidanza. E nessuna delle persone per le quali ha lavorato si sarebbe mai accorto di nulla. La ragazza ha detto anche di non essere mai ricorsa a uno screening neonatale da quando è in Italia né di essersi sottoposta a terapia medica. Ignara della possibilità che offre la legge italiana di un parto in anonimato e della culla per la vita, un’apparecchiatura in funzione da tempo che permette di lasciare in un’area protetta un neonato e poi la presenza di sensori all’interno del luogo fa subito intervenire il personale del reparto.

Entrando nel dettaglio, la 24enne – a quanto si è appreso – avrebbe riferito di aver avvertito nella mattinata di sabato i primi dolori al basso ventre, man mano aumentati col trascorrere delle ore. A quel punto la donna avrebbe sistemato per terra nel bagno alcuni asciugamani sopra i quali si è distesa e ha dato alla luce il figlio verso le ore 14, recidendo da sola il cordone ombelicale. Durante la giornata ha allattato il figlioletto 3 volte. In seguito avrebbe buttato di fronte all’abitazione dell’anziana la busta con la placenta in un contenitore dei rifiuti e poi avrebbe camminato per un paio di isolati lasciando il bimbo in una busta della spesa rigida con le asciugamani utilizzate per il parto e il peluche accanto ai cassonetti della differenziata, luogo di passaggio scelto proprio perché immaginava che qualcuno potesse vederlo più facilmente e portarlo al sicuro. Poi è tornata a casa senza dire nulla all’anziana che la ospita e solo qualche ora dopo è stata trovata dagli agenti nell’appartamento doveva aveva partorito. Dopo l’interrogatorio la donna è stata trasferita all’ospedale Santissima Annunziata e ricoverata nel reparto di Ginecologia in attesa di un ulteriore trattamento per evitare potenziali emorragie. Disposta anche la sorveglianza da parte degli agenti. Fortunatamente le condizioni generali del bambino sono buone. Il Comune ha anche attivato un Iban per le donazioni (tante già quelle effettuate), iniziativa che pure ha subito qualche critica sui social. Non si sa se Lorenzo potrà restare con la madre o se sarà accolto da una nuova famiglia. Sarà comunque il Tribunale per i Minorenni a valutare se sussistono le condizioni per affidare alla donna il bimbo. Sicuramente Lorenzo è stato già adottato in maniera simbolica da tutta la città, come affermato dal sindaco Rinaldo Melucci. E «al piccolo, la cui vita – ha commentato il primo cittadino - è cominciata in salita, rivolgiamo l’augurio di continuare a ricevere tutto l’amore che c’è».

Taranto, sospesa la responsabilità genitoriale alla georgiana che abbandonò il neonato. Madre e figlio restano comunque insieme in una casa protetta. Ora ci sarà anche un tutore. FRANCESCO CASULA su La Gazzetta del Mezzogiorno il 5 Settembre 2023

Il tribunale per i minorenni di Taranto ha sospeso la responsabilità genitoriale alla donna georgiana che il 12 agosto scorso, poco dopo il parto, aveva abbandonato il figlio vicino ai cassonetti di via Pisanelli, nel centro di Taranto.

La decisione dei magistrati è giunta nei giorni scorsi dopo la richiesta formulata dal pubblico ministero Maria Stefania Ferrieri Caputi che, insieme al procuratore per i minorenni Pina Montanaro, sta seguendo la vicenda. Al momento, tuttavia, il piccolo Gabriele – nome che la donna ha scelto per il bambino dopo averlo riabbracciato e dopo aver ottenuto il riconoscimento – resta con la madre: entrambi si trovano in una località protetta e sono seguiti dai servizi sociali. All'equipe di esperti, ora, si aggiunge anche il tutore del piccolo Gabriele nominato dal tribunale: un atto dovuto proprio come conseguenza della sospensione della responsabilità.

Ieri mattina, però, accompagnata dal suo legale Francesco Zinzi, la donna è stata ascoltata dai giudici e ha fornito la sua versione dei fatti: ha raccontato le sue paure e parte della sua vita che finora era rimasta sconosciuta. Ha ripercorso quei momenti in casa dell'anziana donna in cui ha partorito da sola e poi ha deciso di lasciare il suo bambino avvolto in una coperta all'interno di un sacchetto con accanto un orsacchiotto. Ed è proprio su questa scelta che la donna ha voluto precisare alcuni aspetti fondamentali.

Ha spiegato di essere uscita da un matrimonio violento: il marito, con il quale la donna aveva avuto una bambina, era stato per lei un compagno terribile. Non solo l'aveva picchiata, ma le avrebbe anche puntato un coltello. Da quella relazione finita male, la donna aveva provato a ricostruirsi una vita: la sua speranza era stato un coetaneo, un uomo di cui si era innamorata. Quando però ha scoperto di essere incinta, quel 24enne l'ha messa di fronte a una scelta drammatica: abortire o chiudere la relazione.

E di qui sarebbe nata la decisione di raggiungere l'Italia: un viaggio di migliaia di chilometri per continuare la gravidanza. Ma quando il tempo del parto è arrivato è sopraggiunta in lei una nuova paura: quella della reazione del suo Paese. Ai magistrati ha spiegato che non sono pochi in Georgia i casi di linciaggio verso le donne e soprattutto verso i bambini nati fuori dal matrimonio. Un turbine di terrore che l'ha portata alla decisione di quel 12 agosto: allontanare da sé il piccolo per evitargli un futuro difficile.

Estratto dell'articolo di corriere.it il 7 giugno 2023.

Tragedia alla Cecchignola. Una bambina di meno di un anno è stata trovata morta in macchina in via dei Fucilieri. Sul posto le ambulanze del 118 insieme con le forze dell’ordine. Secondo i primi accertamenti la piccola sarebbe stata lasciata sola in auto. Sono in corso le indagini per ricostruire la vicenda. Nel frattempo la zona è stata isolata per consentire i rilievi da parte degli investigatori.

Il papà carabiniere doveva portarla all'asilo

Sarebbe stato il papà a dimenticare la bimba. Da una prima ricostruzione, l'uomo, un carabiniere che lavora alla divisione generale per il personale militare del ministero della Difesa, sarebbe arrivato in via dei Fucilieri, avrebbe parcheggiato la macchina per accompagnare la bambina all'asilo interno per i dipendenti del ministero della Difesa. La  mamma avrebbe poi dovuto riprenderla.

Quando la donna è arrivata all'asilo però le hanno detto che la piccola non c'era. A quel punto ha visto la macchina del marito parcheggiata con la bimba all'interno e si è sentita male. Una donna aveva già chiamato il 112. Purtroppo per la piccola non c'è stato nulla da fare. Entrambi i genitori sono al momento sotto choc.

[…]

Roma, dimenticata in auto dal papà per 7 ore, muore a 11 mesi. La madre sviene. Il giallo dell'ovetto senza allarme: è obbligatorio. Rinaldo Frignani su Il Corriere della Sera il 7 Giugno 2023

Il padre della piccola, appuntato dei carabinieri, indagato per abbandono di minore. L'ipotesi: colpito dalla sindrome Fsb, era sicuro di averla portata al nido ed è andato al lavoro. Un collega ha infranto i finestrini ma era tardi 

Un grido disperato squarcia il tranquillo pomeriggio alla Cecchignola. Quello della madre della piccola Stella, 11 mesi appena, morta chiusa a chiave nella Mégane rossa che il papà Sandro ha parcheggiato sette ore prima di fronte al nido dove avrebbe dovuto lasciarla. Come ogni giorno. In una routine quotidiana che si è trasformata per lui, Sandro La Tona, 45 anni, appuntato scelto dei carabinieri in servizio presso la Direzione generale del personale militare nella cittadella delle forze armate, alla periferia sud della Capitale, in una tragedia senza fine. Per lui, e per la moglie, con la quale è rimasto chiuso per ore — in lacrime, con i pugni stretti e lo sguardo perso, poi uno è stato accompagnato in caserma per essere interrogato e l’altra è andata via con un’amica — su un’ambulanza del 118 parcheggiata davanti a quella Renault e sulla quale una psicologa ha provato ad affrontare con loro l’inaffrontabile: la morte della loro bambina, dimenticata nell’ovetto sul sedile posteriore della vettura, ferma sotto il sole e dalla prima mattinata nel parcheggio in via dei Fucilieri. 

Il decimo caso in Italia, almeno dal 1998, di Fsb («Forgotten baby syndrome»), nella quale, secondo gli studiosi, un vuoto di memoria fa credere a un genitore di aver compiuto un’azione — come aver lasciato il figlio all’asilo — quando invece non l’ha fatto. Dal febbraio 2020 è obbligatorio, con il «decreto seggiolino» — promotrice l’attuale premier Giorgia Meloni —, installare sui veicoli un dispositivo di allarme per prevenire l’abbandono in auto di bambini sotto i 4 anni (articolo 172 del Codice della strada): un sistema nel sedile, in auto o indipendente da entrambi. 

Le indagini dovranno chiarire se sulla Mégane fosse attivo un apparecchio di questo genere ma intanto la procura ha indagato l’appuntato, che ha due figli da una precedente relazione, per abbandono di minore in attesa dei risultati degli esami autoptici che dovranno chiarire le cause del decesso: il caldo, la mancanza d’aria o altri motivi. Per prassi l’Arma gli ha tolto la pistola. Da chiarire, anche con le telecamere di sicurezza della zona, cosa abbia fatto il 45enne quando è sceso dalla macchina: se sia andato direttamente al lavoro, oppure se avesse qualcosa in mano da consegnare in ufficio pensando poi di tornare a prendere la bimba, ma dimenticando di farlo e se durante la mattinata abbia parlato al telefono con la moglie.

 A dare l’allarme è stata una passante che alle 14.40 ha notato la piccola esanime e ha chiamato il 112. «Correte, non respira. Se la sono dimenticata in macchina e i finestrini sono chiusi», ha spiegato all’operatore, che ha subito inviato ambulanze e vigili del fuoco. Qualche istante più tardi la mamma di Stella si è precipitata fuori dall’asilo «Luinetti» — gestito dalla Cooperativa sociale Gialla, ma del ministero della Difesa — dove le maestre le avevano appena detto che in realtà la bimba non l’avevano vista. Per capire le è bastata un’occhiata all’auto del marito. Poi ha gridato, scagliandosi contro i finestrini con l’intento di romperli e liberare la piccola ma si è sentita male. Un carabiniere fuori servizio è accorso con altre persone e ha spaccato il cristallo, tentando di rianimare la bimba. Come hanno fatto poco dopo due medici dell’Ares 118 davanti a una piccola folla attonita. Tutto inutile: Stella non c’era più da ore.

Marco Maffettone per l’ANSA l'8 giugno 2023.

Un interrogatorio drammatico, durante il quale ha detto che ieri era "convito di avere accompagnato la figlia all'asilo". Il padre di Stella, la piccola di 14 mesi trovata priva di vita nell'auto dei genitori in un parcheggio della Cecchignola a Roma, è apparso sconvolto dal dolore agli inquirenti che hanno raccolto la sua testimonianza. 

Il 45enne carabiniere non riesce a "comprendere cosa sia avvenuto", nella sua mente forse un blackout durato ore tanto che nel corso della mattinata di ieri si sarebbe anche sentito telefonicamente con la moglie per decidere chi dovesse andare a prendere a scuola la piccola. Come tutte le mattine ha effettuato il tragitto che da casa arriva alla cittadella militare, al parcheggio di via dei Fucilieri.

Una routine quotidiana, gesti che si ripetono ogni giorno. L'uomo, che presta servizio presso la direzione generale del personale militare della Difesa, ad una manciata di metri dall'asilo della figlia, è iscritto nel registro degli indagati per l'accusa di abbandono di minori. Per chi indaga l'unica pista resta quella della tragica fatalità: avere dimenticato la figlia nel seggiolino all'interno dell'auto e essere andato al lavoro. 

La piccola in quell'abitacolo è rimasta per circa sette ore. A trovarla un passante che ha chiamato i soccorsi. Alcuni militari, forse attirati dalle grida disperate, sono accorsi e hanno infranto il finestrino dell'auto per cercare di salvare Stella. Un tentativo arrivato pochi minuti prima che la madre appurasse dalla scuola che quella mattina "Stella non era stata portata". I tentativi di rianimare la piccola sono risultati vani.

Sulle cause della morte risposte arriveranno dall'autopsia che i pm della Procura di Roma affideranno domani al medico legale nelle indagini che sono state affidate ai carabinieri. L'auto, al momento, resta sotto sequestro. Obiettivo è chiarire se all'interno della vettura fosse stato attivato il sistema di allarme che è diventato obbligatorio in Italia da alcuni anni. Secondo dati recenti la cosiddetta "Forgotten baby syndrome", la sindrome del bambino dimenticato, negli ultimi 25 anni ha causato in Italia la morte di 11 bambini.

Lo psichiatra Claudio Mencacci, co-presidente della Società italiana di neuropsicofarmacologia, spiega che a determinare il tragico fenomeno è una sorta di black out biologico ovvero "una disconnessione biologica tra le funzioni della corteccia cerebrale, che presiede alla coscienza, e quelle della cosiddetta memoria di lavoro che presiede alle nostre azioni quotidiane: È come se coscienza e memoria di lavoro non si parlassero più e questo determina una amnesia dissociativa transitoria". 

Tra le cause, spiega Mencacci, "la mancanza o i disturbi del sonno, il forte stress, il sovraccarico mentale. E vi sono anche delle possibili concause quali le temperature molto elevate o anche un cambiamento delle proprie abitudini".

Estratto dell'articolo di Marco Carta per repubblica.it l'8 giugno 2023.

"Correte, correte, c'è una bambina che non respira. I finestrini sono chiusi, se la sono dimenticata". È rimasta quasi 7 ore dentro la macchina. Abbandonata sotto il sole della Cecchignola, periferia a sud di Roma. 

Stella, la bambina di 14 mesi, era pronta a entrare all'asilo nido in via dei Fucilieri ma è stata dimenticata a pochi metri dall'ingresso dal padre, un carabiniere in servizio presso la direzione generale del personale militare del ministero della Difesa. 

L'uomo, 44 anni, ha parcheggiato l'auto intorno alle 8. Poi, dopo aver messo la sicura e chiuso i finestrini, si è incamminato a piedi verso l'ufficio, lasciando Stella nell'auto […] 

A ritrovarla è stata sua madre, un'insegnante. La donna intorno alle 15 si è recata all'asilo Luinetti, il nido per i dipendenti del ministero della Difesa. Voleva prendere Stella e riportarla a casa. Poi la scoperta drammatica: "Oggi sua figlia non è venuta". La donna non ha avuto neanche il tempo di chiamare il compagno per capire cosa fosse successo.

Avvicinandosi all'asilo ha visto con la coda dell'occhio la Renault rossa parcheggiata, d'istinto è tornata indietro verso l'auto e dal finestrino ha visto Stella. Era adagiata sul seggiolino, sembrava dormire. 

La donna ha iniziato a gridare. Un militare in servizio all'ingresso del parcheggio è accorso e ha sfondato il vetro posteriore dell'auto. Intanto una donna ha chiamato il 112.

La corsa dell'ambulanza è stata inutile, Stella aveva già smesso di respirare. 

Intanto il padre, giunto sul posto, si dispera. […] padre di altri due figli da una precedente relazione, ora è indagato per abbandono di minore […]

Saranno fatti accertamenti per capire perché, come sembra, non fosse installato un dispositivo anti abbandono, previsto dalla legge del 2020, per contrastare la Forgotten Baby Syndrome. 

Sono 10, in Italia, i bambini morti perché dimenticati in auto. Quello di Stella è il primo caso dopo l'entrata in vigore del cosiddetto “decreto seggiolino”.

La bambina morta in auto, la telefonata al marito della mamma in asilo: «Come lì non c’è, chi ha preso Stellina?» Fulvio Fiano, Rinaldo Frignani su Il Corriere della Sera il 9 Giugno 2023.

La mamma di Stella, Arianna Leonetti, ha chiamato allarmata Sandro La Tona che non si era reso conto di nulla: «Ero assolutamente convinto di averla lasciata al nido» 

«Chi ha preso Stellina?». Sandro La Tona non ci credeva. Per alcuni attimi, al telefono con la moglie Arianna Leonetti, ha addirittura pensato a uno scherzo. Un gioco senza senso, anche perché dall’altra parte la compagna non aveva alcuna voglia di perdere tempo. «Qui le maestre mi dicono che Stella non è mai arrivata! Sandro, dov’è la bambina?». La voce sempre più concitata, il tono duro e preoccupato. Ma nel marito appuntato dei carabinieri, sposato nell’ottobre di due anni fa, non è scattato alcun allarme legato a un suo possibile errore. «Ma come? Chi l’ha presa?», le ha risposto Di Tona nell’ultima telefonata, alle 14.40 di mercoledì pomeriggio. La moglie nella segreteria dell’asilo nido «Luinetti», in via dei Fucilieri, alla Cecchignola, accanto alle colleghe - anche lei è maestra in una scuola dell’infanzia vicino casa, all’Eur - sempre più attonite, lui invece in ufficio, a meno di un centinaio di metri, nella sede della Direzione generale del personale militare. Stesso complesso nella cittadella delle forze armate.

«HO AVUTO UN COMPLETO BALCK OUT»

La ricostruzione della tragedia della piccola Stella, appena 14 mesi, fatta dai carabinieri conferma la versione dell’appuntato di un completo black out di memoria che lo avrebbe colpito nella prima mattinata di mercoledì quando ha parcheggiato la sua Renault Megane rossa davanti al nido. Prima era stata una mattinata come tutte le altre. «Ero assolutamente convinto di averla lasciata al nido, non so cosa è successo. Ho pensato che Stella stesse lì anche quando ho parlato a metà mattina con mia moglie per mettermi d’accordo per andarla a riprendere», ha infatti ammesso il sottufficiale. A lui spettava accompagnare la bimba all’asilo proprio perché più comodo per il suo lavoro lì vicino, mentre la ripresa dopo l’ora di pranzo era alternata fra marito e moglie. «Una giornata come tutte le altre - avrebbe spiegato Di Tona, interrogato dai colleghi della compagnia Eur e del Nucleo investigativo di via In Selci, coordinati dal procuratore aggiunto Paolo Ielo -, ci siamo alzati, preparati. Ho portato a spasso il nostro cagnolino, sono sceso con Stella nel passeggino e siamo saliti in macchina».

BATTEZZATA A SETTEMBRE

Da chiarire se durante il tragitto fra l’abitazione della coppia, sempre all’Eur, e la Cecchignola, durato circa venti minuti, la piccola si sia assopita. Di sicuro una volta arrivato nel parcheggio, l’appuntato non ha avuto alcun incertezza nel lasciare l’auto e dirigersi a piedi al lavoro, senza pensare nemmeno per un secondo al fatto che dietro di lui, sui sedili posteriori, c’era Stella. Buio totale, confermato anche a metà mattinata quando la moglie gli ha telefonato come sempre per mettersi d’accordo su chi fra i due avrebbe ripreso la piccola al nido. «Tutto a posto? - gli avrebbe detto -. Ok, allora passo io a prenderla e la porto a casa». La mamma della bambina, battezzata nel settembre scorso da don Alfio nella parrocchia di San Virgilio, lo ha raccontato quando è stata sentita da chi indaga subito dopo la scoperta della tragedia. Poi è toccato al marito. Momenti drammatici nei quali però entrambi hanno fornito versioni coincidenti. Di Tona, assistito dalle avvocate Daniela Ciardo e Giovanna Mazza, è indagato per ora per abbandono di minore.

Oggi verrà conferito l’incarico per gli esami autoptici che saranno subito effettuati presso l’istituto di medicina legale del Policlinico di Tor Vergata. Da capire ancora le cause del decesso, forse legate al caldo - ieri nel parcheggio c’erano 29 gradi esterni - e al fatto che la bimba è rimasta chiusa nella macchina. Una bimba fortemente voluta dalla coppia, che dopo la tragedia si è riunita nella serata di mercoledì a casa, con i parenti e gli amici più stretti, dove è rimasta anche per tutta la giornata di ieri. Tutti sperano che i funerali possano essere celebrati il più presto possibile. Intanto però le indagini proseguono su due punti in particolare: se l’appuntato - che durante l’interrogatorio non ne ha comunque fatto cenno addossandosi ogni responsabilità sull’accaduto - stesse vivendo un periodo particolarmente stressante dal punto di vista personale o professionale, e sulla presenza sulla Megane o meno del dispositivo di allarme anti-abbandono, obbligatorio secondo il Codice della strada.

Siamo anche noi, potenzialmente, come quei genitori che lasciano i figli in auto. Cristina Brasi su Panorama l'8 Giugno 2023

Proviamo a dare una spiegazione a quanto successo ieri a Roma scoprendo che potrebbe accadere anche a noi persi in una vita che non controlliamo

I genitori che hanno lasciato in auto i propri figli, nella convinzione di averli portato all’asilo, hanno sempre ricevuto molte accuse. In realtà, nessuno è immune di da questo rischio. Gli esseri umani non hanno controllo su molte delle proprie attività, basti pensare al semplice automatismo del guidare un’automobile o alla routine messa in atto prima di uscire di casa per andare al lavoro. Per inficiare l’efficacia di questi automatismi e cadere in errore basta davvero poco, un’ora di sonno in meno o una banale interruzione della routine, come il sopraggiungere di una telefonata. A quel punto si registrerà un’azione mai compiuta come agita. Il genitore, nella fattispecie, non avrebbe consapevolezza della mancata azione in quanto l’automatismo è un processo che agisce indipendentemente dal proprio controllo cognitivo. Gli individui sono strutturati in maniera tale da rendere alcuni processi automatici, al fine di consentire di compiere più azioni in contemporanea. L’automatismo spesso viene identificato come un processo non intenzionale che l’individuo non fa partire con un atto intenzionale, quando invece può essere identificato come processo automatico anche quello che avviene al di fuori della nostra consapevolezza; la persona difatti non si accorge del processo in atto. Anche un’attività che per noi non è controllabile può essere definita come processo automatico, lo stesso vale per ciò che avviene in modo efficiente senza interferenza, pur presentandosi in contemporanea con alte attività. Non si tratta solo di semplici routines prefissate, ma anche di strategie per affrontare le richieste dell’ambiente e della situazione, le quali possono presentare una grande variabilità. L’esempio più semplice è quello citato in precedenza, la guida automatica dell’automobile da parte di un guidatore esperto che si trovi a fare un percorso familiare: la sua guida automatica è tutt’altro che un automatismo rigido e stereotipato, in quanto viene di volta in volta adattata alle condizioni della strada, alla luminosità, al traffico, agli spostamenti anche repentini di altri veicoli. Si tratta di una vera e propria pianificazione adattiva e opportunistica. I piani non sono specificazioni di sequenze di azioni fisse, ma strategie che determinano ogni azione successiva in funzione dell’informazione corrente sulla situazione. Lo scopo iniziale può essere innescato da stimoli ambientali, senza che sia necessaria una decisione conscia. Nel caso specifico del “dimenticare” in auto i bambini intervengono dei bias cognitivi che sono degli automatismi mentali da cui si traggono decisioni veloci. Si tratta di errori che impattano sia sulle decisioni che sui processi di pensiero. Gli individui prendono le loro decisioni utilizzando un numero limitato di euristiche (scorciatoie mentali) piuttosto che sofisticati processi razionali. Le euristiche sono delle strategie cognitive che portano a conclusioni veloci attraverso il minimo sforzo cognitivo e funzionano in molti ambiti della vita umana, ma producono bias alterando la percezione di molti eventi come la registrazione di un evento mai comopiuto come agito.

"È una forma dissociativa": l'analisi dello psicologo sui bimbi dimenticati in auto. La bambina lasciata in auto a Roma è l'ennesimo caso di una forma dissociativa di uno dei genitori. A spiegarlo lo psicologo Alberto Siracusano, docente di psichiatria all'università Tor Vergata di Roma, che lancia anche una proposta. Roberta Damiata il 7 Giugno 2023 su Il Giornale.

Ogni volta che succede la prima domanda che ci si fa è: "Come è possibile?". Nessuno a mente lucida può credere che un papà o una mamma, possano lasciare il proprio figlio in auto, convinti di averlo già portato al nido o all'asilo, ritrovandolo poi morto. Eppure è così, e quello che successo oggi a Roma in via dei Fucilieri, dove una bambina di un anno è stata lasciata sul seggiolino dal papà e trovata poi morta, è qualcosa di già visto. Tanto che con la legge 1° ottobre 2018, n. 117, in Italia è diventato obbligatorio dotarsi di un dispositivo anti abbandono se si trasportano in auto bambini di età inferiore ai 4 anni.

Ma cosa succede nella testa di un genitore tanto da dimenticare un figlio? A spiegarlo e a fare una proposta è il dottor Alberto Siracusano, docente di psichiatria all'università Tor Vergata: "Con ogni probabilità, quello che è successo è legato ad una forma dissociativa del genitore alla guida dell'auto. Potrebbe essere utile inserire, durante i corsi di formazione pre-parto per i genitori, specifiche informazioni per ricordare che è un'evenienza possibile e che ciascuno deve adottare strategie di prevenzione. Anche il pediatra può essere un punto di riferimento per informare sul tema".

Questa la proposta dello psicologo, per sottolineare anche che casi del genere, possono accadere anche se sembra assolutamente impossibile: "Nel recente passato, abbiamo registrato altri casi. Si tratta di uno sganciamento tra i vari livelli di coscienza che noi abbiamo e che porta a non ricordare una cosa che ciascuno penserebbe di non poter dimenticare mai. La nostra mente, per diverse motivazioni può andare incontro a meccanismi dissociativi".

Questi, detti anche amnesie transitrorie dissociative, avvengono in maniera del tutto imprevedibile e portano ad avere un momento di buio totale nella propria vita, senza che la persona ne abbia la minima consapevolezza. Un black out in cui in questo, ulteriore caso, è entrata anche la bambina. Il perché accadono è ancora un mistero. Non aiuta certo la vita frenetica che si fa ogni giorno, la stanchezza, i disagi o i problemi. Per questo, spiega il professore: "Serve accendere, attraverso la formazione, una spia sui rischi che possono correre i genitori".

Non è l'unico caso

È successo per Gioia di 17 mesi a Vicenza, lasciata dai genitori in auto, ricordandosene solo dopo qualche ora quando la bambina era già morta. Nel 2008 a Merate dove una maestra, convinta di aver lasciato la figlia di due anni dalla baby sitter, solo uscita da scuola si rende conto di averla lasciata in auto. Nel 2011 ben due neonati perdono la vita, Elena di 22 mesi di Teramo e Jacopo di appena 11 di Passignano sul Trasimeno. A Firenze una bimba di 18 mesi dimenticata dalla mamma sicura di averla lasciata all'asilo. E ancora ad Arezzo dove è morta per arresto cardiaco Tamara di 16 mesi lasciata in auto e a Pisa dove muore Giorgia che aveva un anno. Stava dormendo nel seggiolino posteriore quando il padre è uscito dall'auto per andare a lavorare dimenticandola completamente. Roberta Damiata

 La storia di Francesco Alberto, salvato da un contadino. Neonato abbandonato, mamma minorenne (incastrata da Dna) arrestata con fidanzato: gravidanza nascosta a familiari e amici. Redazione su Il Riformista il 29 Maggio 2023 

Sono stati arrestati i presunti genitori di Francesco Alberto, il neonato abbandonato nelle campagne trapanesi lo scorso 4 ottobre 2022, ritrovato da un contadino che rincasando lo ha sentito piangere ed ha subito chiamato carabinieri e 118. Si tratta, stando a quanto emerso dal test del Dna, di una giovane donna, ancora minorenne, e del fidanzato, di qualche anno più grande. Entrambi, secondo la ricostruzione investigativa, avevano nascosto a familiari e amici la gravidanza e, una volta dato alla luce il neonato, decisero di abbandonarlo consapevoli del rischio di una morte “pressoché certa”.

Il piccolo venne chiamato Francesco Alberto per la coincidenza con San Francesco d’Assisi (che si festeggia il 4 ottobre) e con Alberto, santo patrono di Trapani, stesso nome che ha anche il vicebrigadiere dell’Arma (Alberto Marino), il primo ad intervenire nelle campagne di Paceco dopo l’allarme lanciato dal contadino.

I Carabinieri della Sezione Operativa della Compagnia di Trapani e della Stazione di Paceco, coordinati dalle Procure della Repubblica presso i Tribunali di Trapani e per i Minorenni di Palermo, in esecuzione di provvedimenti restrittivi emessi dai rispettivi GIP, hanno arrestato con l’accusa di tentato omicidio in concorso, i presunti genitori del neonato abbandonato lo scorso anno, in un terreno in contrada Sciarrotta di Paceco (Trapani).

La notizia scosse l’intera comunità della provincia trapanese, suscitando scalpore a livello nazionale. A ritrovare il piccolo, avvolto in una coperta, erano stati i proprietari di un terreno poco distante dal luogo dell’abbandono, attratti dai vagiti del bimbo. Da quel momento, i Carabinieri di Trapani, coordinati dalle competenti autorità giudiziarie, hanno dedicato ogni energia per risalire agli autori dell’abbandono e del tentato omicidio.

L’indagine è stata scrupolosa, sono state visionate ore e ore di immagini dei sistemi di videosorveglianza, sono stati ascoltati i residenti della zona, i proprietari dei veicoli transitati in quell’area, sono stati svolti accertamenti presso ospedali, pronto soccorso, consultori provinciali, medici di base, guardie mediche, nonché presso gli istituti scolastici della provincia per acquisire ogni possibile elemento utile alle indagini.

Il paziente lavoro degli inquirenti ha consentito così di stringere il cerchio attorno ai due presunti genitori. In particolare, le attenzioni si sono concentrate inizialmente su una minore che già da diversi giorni non frequentava le lezioni e, attraverso una complessa attività investigativa è stato possibile raccogliere gravi elementi indiziari a carico della giovane. La conferma dell’ipotesi investigativa si è avuta poi dall’esame del DNA svolto dai Carabinieri del RIS di Messina che ha dato esito positivo. Quello estratto dalla placenta e quello acquisito dai campioni biologici della giovane erano perfettamente sovrapponibili, con una probabilità che i Carabinieri del RIS definiscono “di un milione di miliardi rispetto l’opzione contraria”.

Secondo la ricostruzione degli investigatori, la ragazza avrebbe organizzato di compiere l’insano gesto insieme al giovane fidanzato. In particolare, i due, dopo aver nascosto a familiari e amici la gravidanza, avrebbero deciso insieme di liberarsi del neonato. La notte del parto lo avrebbero così abbandonato in un terreno, con la piena consapevolezza, secondo quanto ricostruito dai magistrati, “di esporre il loro figlio non soltanto ad astratti ed eventuali pericoli conseguenti al suo stato di incapacità di difesa, bensì al rischio di una morte pressoché certa, evitata per fattori del tutto indipendenti dalla loro volontà”.

Alla luce del grave quadro indiziario, su disposizione delle competenti autorità giudiziarie, i due sono stati quindi arrestati con l’accusa di tentato omicidio. La minore è stata ristretta presso un istituto penale per i minorenni mentre il giovane presso la Casa Circondariale di Trapani.

Estratto da leggo.it il 29 aprile 2023.

Il corpicino di una neonata appena partorita è stato trovato venerdì sera in un cassonetto della Caritas per la raccolta degli indumenti usati a Milano. A notare una manina tra i vestiti appoggiata sul meccanismo a ruota del cassonetto è stato un passante che si era fermato a depositare degli abiti all'angolo tra via Botticelli e via Cesare Saldini, in zona Città studi.

L'uomo ha chiamato immediatamente il 112, che è arrivato sul posto insieme agli uomini del 118, ma per la piccola, non c'è stato niente da fare. Sull'episodio stanno ora indagando gli agenti della Squadra mobile. Secondo una prima ricostruzione la neonata, abbandonata nel cassonetto avvolta in una felpa, sarebbe stata partorita solo poche ore prima.

Gli agenti di polizia sono al lavoro per cercare di risalire a chi ha gettato la piccola nel cassonetto. Sul corpo sarà eseguita l'autopsia disposta dal pm di turno, Paolo Storari. Sono in corso accertamenti sulle telecamere della zona e negli ospedali milanesi per verificare se qualche donna si sia presentata per essere curata. […]

Neonata ritrovata nel cassonetto della Caritas: “Era già morta, si cerca la madre”. Vito Califano su Il Riformista il 30 Aprile 2023 

Secondo un primo risultato dell’autopsia sulla bambina ritrovata morta in un cassonetto della Caritas a Milano, la piccola potrebbe essere stata già senza vita quando è stata lasciata. L’esame è stato condotto nella notte all’Istituto di Medicina Legale. Si attendono altri accertamenti anatomopatologici per fugare ogni dubbio. Sul caso indagano gli agenti della Squadra Mobile, coordinati dal pm Paolo Storari.

Il ritrovamento venerdì sera in via Botticelli, in zona Città Studi a Milano, in un cassonetto per gli indumenti usati della Caritas. La piccola, neonata, era avvolta in una felpa ancora sporca di sangue e placenta. Il cordone ombelicale sarebbe stato tagliato in maniera artigianale. Forse il parto sarebbe avvenuto in casa e non in una struttura clinica o in un ospedale. Secondo quanto scrive Lapresse potrebbe essere nata già morta.

Proseguono le analisi delle immagini delle telecamere di videosorveglianza della zona e le indagini negli ospedali nei quali la donna potrebbe aver chiesto aiuto dopo il parto per identificare la persona che ha lasciato la piccola. Il pm Storari ha aperto un fascicolo per l’ipotesi di reato di infanticidio. A preoccupare però anche le condizioni di salute della madre: avrebbe potuto partorire in condizioni non in sicurezza.

La terribile notizia del ritrovamento arriva in seguito a quelle dei ritrovamenti, nelle scorse settimane, di neonati lasciati da genitori a Milano nella “Culla della Vita” del Policlinico di Milano e all’Ospedale Buzzi. Due bambini lasciati in condizioni di sicurezza che pure avevano scatenato un vivace dibattito.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

La neonata morta nel cassonetto: se i figli possono essere un sogno o un niente. Storia di Marina Corradi su Avvenire il 29 aprile 2023.

Sul cassonetto giallo della Caritas c’era un fagotto rosso. L’uomo che arrivava con una borsa di abiti usati dapprima lo ha guardato distrattamente. Poi, nella luce incerta delle otto di sera, ha visto: una mano molto piccola sbucava dagli stracci. Una manina di neonata, di quelle che i nuovi genitori contemplano con stupore, ancora increduli. Una di quelle manine che, se avvicini un dito, istintivamente lo stringono – come se dal principio fossimo fatti per fidarci dell’altro. Ma, quella piccola mano era immobile.

Milano, venerdì 28 aprile sera, via Botticelli, Città Studi, zona residenziale. L’urlo della sirena dell’ambulanza si interrompe bruscamente: la bambina è già morta. Ha il cordone ombelicale, tagliato malamente. È sporca di sangue, ma non ha alcun segno di violenza. Ha vissuto qualche minuto, o già non respirava quando è stata abbandonata? Una bambina apparentemente perfetta, partorita da pochissimo. Forse in un ospedale non sarebbe morta. La madre, ignota: una irregolare, una “invisibile” o, come li chiamano, una “clandestina”? O magari – succede – una figlia giovanissima, sola col suo segreto sotto ai vestiti extralarge?

La notizia, nella città presa dal torpore di un lungo weekend, suona come uno schiaffo. Quella piccola mano, e poco oltre le auto che correvano verso il mare, è una trafittura nel petto. Era una bambina.

E tu hai ancora negli occhi la Milano di pochi giorni fa, del Salone del mobile e del Fuorisalone, invasa da una moltitudine di visitatori, in una babele di lingue. E dappertutto gente in fila per un “evento”, e happy hours dal pomeriggio a notte: calici alzati a brindare al design, al bello, al trendy. Pareva quasi una città felice il centro di Milano, giorni fa. Una metropoli pazza di eleganze leggere, spesso effimere, a volte futili.

Quel fagotto rosso riporta nella realtà dura di un’altra città, sotto al vestito che luccica. La bambina è stata lasciata non in un luogo qualunque, ma su un cassonetto con su scritto “Caritas”, parola che anche gli ultimi arrivati imparano presto, parola antica: carità. Non è stata buttata fra i rifiuti, ma deposta dove qualcuno l’avrebbe presto trovata. Era ancora viva? Nessuno dalle case accanto ha sentito piangere. Quante richieste di adozione ci sarebbero state per lei?

Perché il paradosso nostro è che i figli appena concepiti sono un niente legalmente eliminabile, e che i figli dei più diseredati possono perfino venire abbandonati, come è successo recentemente, anche in una scatola da scarpe davanti a un ospedale - come si fa con i gattini randagi. Eppure a Milano come in tutto l’Occidente tante coppie, che quei figli non riescono a averli, arrivano a comprarli all’Est, a farli partorire da una madre “in affitto” per decine di migliaia di euro. Quei figli che se non voluti sono un niente, per altri sono un sogno da ottenere a ogni costo.

La bambina di via Botticelli era sul crinale fra le due categorie: abbandonata col cordone ombelicale strappato male, ma quanto, fosse vissuta, desiderata da sconosciute madri, e padri, nella città che attorno a lei si accendeva di luci. Il paradosso taciuto fra noi è che se lo desideri è un figlio, spiato nelle ecografie col fiato in gola, o anche inseguito in Paesi lontani; altrimenti è un niente.

Oppure, è un “clandestino”, figlio di una che si nasconde, che non si fida e non chiede aiuto. Se non, quasi inconsciamente, in quell’ultimo lasciare una neonata proprio sotto la scritta “Caritas”. Carità. Come il palmo di una mano mendicante.

Proprio nessuno in questa Milano l’aveva vista, quella madre e il suo ventre al nono mese? E che città è questa, brillante, costosa, ricca, e poi tanto distratta, assente? Quella manina sporgente da un fagotto come in un’estrema richiesta d’aiuto, è uno strazio cui cercheremo di non pensare. E, invece, è una domanda: da tenere bene a mente.

"Non paghiamo per lui". E lasciano il neonato in aeroporto. Storia di Federico Garau su Il Giornale il 2 febbraio 2023.

Una notizia che ha dell'incredibile, quella che arriva da Israele, tanto da aver lasciato sbigottito e senza parole anche il personale di Ryanair operativo presso l'aeroporto di Tel Aviv: dopo essersi rifiutati di pagare il costo del biglietto previsto per poter imbarcare a bordo anche il figlio, infatti, due genitori hanno lasciato il neonato nel passeggino al check-in per precipitarsi a protestare presso l'area di controllo passaporti.

Incredulità al check-in

A rendersi conto del fatto che il piccolo fosse stato abbandonato con noncuranza dalla coppia, evidentemente troppo impegnata a manifestare le proprie rimostranze per ricordarsi del figlio, sono stati gli stessi dipendenti Ryanair che facevano parte del personale di terra.

I genitori, entrambi di nazionalità belga, hanno dato in escandescenza nel momento in cui si sono resi conto che avrebbero dovuto pagare separatamente un surplus per poter imbarcare il neonato sul volo diretto a Bruxelles. Non avendo alcuna intenzione di spendere altro denaro, i due si sono rifiutati di versare la somma prevista, dando luogo a una furiosa reazione all'interno del terminal Ben-Gurion di Tel Aviv. Stando a quanto riferito dal notiziario Mako, la coppia belga ha quindi lasciato il bimbo al check-in e si è precipitata a manifestare le proprie rimostranze presso l'area di controllo passaporti.

È a questo punto che, sentendo i lamenti del neonato, alcuni dipendenti della compagnia aerea irlandese si sono resi conto dell'accaduto: nel video si vede chiaramente una donna addetta al check-in che abbassa la copertina sul passeggino e trova il piccolo. Allertate, le forze dell'ordine hanno rintracciato i genitori del bimbo e li hanno riportati indietro per interrogarli sull'accaduto.

I commenti

"Tutti i lavoratori erano sotto shock. Non abbiamo mai visto niente del genere. Non potevamo credere a quello che stavamo vedendo", dichiara il desk manager di Ryanair. Secondo quanto riferito dal personale a Mako, la coppia aveva fretta di superare i controlli. "Sono arrivati in ritardo per il volo dopo che i banchi del check-in del volo erano stati chiusi", ha spiegato invece l'autorità aeroportuale israeliana. "La coppia ha lasciato il passeggino col neonato e voleva varcare il prima possibile il terminal dei controlli di sicurezza per raggiungere il gate di partenza". Dopo essere stati rintracciati, i genitori hanno ripreso il piccolo, ha spiegato ancora l'autorità.

Cosa dice Ryanair

"Questi passeggeri in viaggio da Tel Aviv a Bruxelles si sono presentati al check-in senza una prenotazione per il loro neonato", ha precisato la compagnia aerea irlandese a Metro.co.uk: "Hanno quindi proceduto ai controlli di sicurezza lasciando il bambino al momento del check-in".

Ryanair ha spiegato poi che quando si viaggia con un neonato, sul portale un popup informa del fatto che è previsto un addebito pari a 27 dollari o 25 euro a tratta. Questo qualora il piccolo viaggi in braccio a uno dei genitori. Nel caso in cui occupi un sedile, invece questo va pagato separatamente.

I ricoveri in ospedale.

Estratto da repubblica.it sabato 9 settembre 2023.

Schiaffi, forchettate sulle mani dei bambini. Le telecamere installate in casa riprendono i maltrattamenti della madre sui figli. Il marito la denuncia. Ma le immagini non sono utilizzabili perché violano la privacy della compagna. […] 

Ma riavvolgiamo il nastro. La storia, raccontata dal Corriere della Sera, inizia diversi mesi fa. La coppia è vicina alla rottura. C’è la separazione. A lei viene diagnosticata una depressione post parto e la necessità di farsi seguire da uno psichiatra. Il rifiuto per i figli è evidente e la situazione diventa giorno dopo giorno sempre più complicata. Fino a diventare irrecuperabile.

Scattano esposti e controesposti. Lui denuncia lei per maltrattamenti. Lei fa lo stesso con il marito. L’uomo si tutela e alle forze dell’ordine racconta di essere stato calunniato. Intanto la pm Barbara Trotta sequestra le immagini riprese in casa. Nessuno, però, ascolta lo psichiatra che ha in cura la donna. Tanto meno i piccoli in audizione protetta.

Intanto i bambini continuano a vivere con la donna che secondo il marito li maltratterebbe. Passano mesi e arriva la svolta: i giudici del Riesame confermano il sequestro delle immagini “frutto di indebita captazione” e quindi “inutilizzabili”. 

L’uomo è disperato: “I video dimostrano quello che succede ai miei figli quando sono con la mia ex moglie. Sono episodi di violenza gravissimi”. […]

Estratto da leggo.it il 6 febbraio 2023.

Spruzzava lo spray sulla figlioletta di 16 mesi per farla ricoverare in ospedale, e i medici non riuscivano a spiegare le gravi irritazioni sul corpicino della piccola. I fatti: la bambina per tre volte era stata portata in vari ospedali con delle gravi irritazioni sulle braccia e sul corpo.

 Durante l'ultimo ricovero, il quarto, in un ospedale milanese, gli agenti della Squadra mobile, a seguito anche dei sospetti dei medici, hanno accertato che era la madre a procurare intenzionalmente alla figlia di 16 mesi spruzzandole dello spray deodorante al borotalco [...]

La donna, 29 anni, dopo le indagini coordinate dal Dipartimento che tutela minori e fasce deboli della Procura di Milano, è stata arrestata per maltrattamenti aggravati. La piccola è stata affidata ai Servizi sociali. Non si esclude che la donna soffra di disagi psichici da approfondire. Appartiene a una famiglia non problematica [...]

 Sono state le telecamere poste dagli investigatori in ospedale a dimostrare come la donna, più volte al giorno, spruzzasse il deodorante sul corpo della bambina.

La piccola aveva sempre delle forti irritazioni delle quali i medici di più ospedali non riuscivano a capire le ragioni. Così la donna è stata indirizzata in un altro ospedale e sono stati avvertiti gli investigatori. [...]

Il Lancio nel vuoto.

Litiga con il marito e si lancia dal balcone con le figliolette di 6 mesi. Roberto Chifari il 20 Agosto 2023 su Il Giornale.

È successo nel Siracusano, dopo una violenta lite con il marito la donna si è lanciata nel vuoto con le bimbe gemelle di sei mesi. La donna ha fratture multiple mentre le bimbe non ha riportato ferite gravi

Una donna di 40 anni, originaria della Tunisia, si sarebbe lanciata dal balcone di casa della sua abitazione a Francofonte, nel Siracusano, piccolo centro di poco più di 10mila abitanti. Secondo una prima ricostruzione la donna si sarebbe lanciata nel vuoto insieme alle due figlie di appena sei mesi dopo un litigio con il marito, un lavoratore stagionale, con cui abita al primo piano di un edificio nel centro storico di Francofonte. Le piccole, trasportate all'ospedale Cannizzaro di Catania, non sarebbero in gravi condizioni, la donna trasferita in codice rosso all'ospedale di Lentini avrebbe riportato fratture multiple su tutto il corpo. Le bimbe, come la madre, non sono in pericolo di vita. Le bambine resteranno comunque sotto osservazione nei prossimi giorni.

Le indagini sono coordinate dalla procura di Siracusa e sul posto sono condotte dai carabinieri di Francofonte coordinati dal comandante Fabio Sardella. Le indagini stanno provando ad accertare se la madre ha tentato di suicidarsi insieme alle figlie o se, invece, ci sono altre chiavi di lettura come un incidente domestico o una violenza. La donna, prima di quel volo dal balcone, avrebbe litigato con il compagno, un lavoratore stagionale e dietro il gesto potrebbe esserci problemi e vecchie ruggine della coppia, ma si tratta comunque di una ricostruzione che è nel campo delle ipotesi. Il pubblico ministero di Siracusa informato sui fatti ha aperto un'inchiesta.

L'avvocato del compagno: "Nessuna lite in famiglia"

"Il compagno della donna non era in casa quando la stessa ha prima lanciato dal balcone di casa le sue due figlie per poi gettarsi nel vuoto". Lo afferma l'avvocato Antonella Schepis, difensore del compagno della 40enne. Secondo la ricostruzione del difensore, il gesto della donna non sarebbe scaturito da una precedente lite con il compagno. Da tempo, la donna avrebbe manifestato l'intenzione di tornare nel suo paese di origine e questo le avrebbe provocato uno stato di malessere. Dalla testimonianza della difesa dell'uomo, stamane la tunisina era in casa con le figlie assieme alle zie del compagno, con quest'ultime che stavano giocando con le piccole. Sempre secondo quanto riferisce l'avvocato le prime a prestare soccorso alle vittime sono state le zie che hanno poi chiesto l'intervento dei soccorsi e delle forze dell'ordine. I vigili del fuoco hanno poi sistemato un materasso ai piedi dell'immobile visti i propositi di suicidio della donna che aveva raggiunto il terrazzo. Si è lanciata ma il suo corpo non è finito del tutto sul gonfiabile, al punto da procurarsi delle fratture.

Da lastampa.it il 25 Gennaio 2023.

La drammatica testimonianza di Lucia Chinelli, madre di Fatima, al processo contro il suo ex Mohssine Azhar accusato dell'omicidio della bambina di 3 anni.

 "La bambina voleva solo dargli il bacio della buona notte e voleva ringraziarlo del peluche che le aveva regalato - dice con la voce rotta -. Poi abbiamo avuto una discussione, è andato fuori di testa, un diavolo". La donna racconta che ha afferrato la piccola dal braccino e l'ha lanciata.

«La mia piccola Fatima lanciata come un pallone». In aula il racconto choc della madre. Simona Lorenzetti su Il Corriere della Sera il 26 Gennaio 2023.

Tragedia di via Milano, la donna accusa l’ex fidanzato: «Quando in ospedale ho visto com’era ridotta, ho deciso di dire la verità»

«L’ho portata a casa di Mohssine. La bambina voleva dargli il bacino della buonanotte». Fatima aveva tre anni e a raccontare i suoi ultimi istanti di vita è la mamma, Lucia Chilleni. Lo sguardo spento e il respiro affannato, con fatica per due ore la donna risponde al fuoco incrociato di domande che le vengono rivolte dal pubblico ministero, dagli avvocati e dai giudici. Una lunga giornata in aula per testimoniare nel processo in cui è imputato l’ex fidanzato Mohssine Azhar, 32 anni: il marocchino è accusato di omicidio volontario per aver lanciato la piccola Fatima dal ballatoio del proprio appartamento in via Milano 18. 

Per il pm Valentina Sellaroli, l’uomo ha agito con crudeltà e l’agghiacciante gesto sarebbe da ricollegare a un litigio con la madre. «Toh, prendila. Me l’ha gettata di sotto come fosse un pallone e io non sono riuscita ad afferrarla in tempo», racconta la donna. Parole dalle quali emergono le fragilità e i traumi che ancora oggi avvelenano la sua quotidianità. Il suo racconto è uno dei passaggi chiave del processo. Mohssine, difeso dall’avvocato Alessandro Sena, non ha mai negato le proprie responsabilità: «È stato un incidente, stavamo giocando e mi è scivolata dalle mani». Una narrazione che la sera del delitto — il 13 gennaio 2022 — trova conferma anche nelle dichiarazioni della madre della piccola. Ma 24 ore dopo lei cambia versione: «L’ha gettata perché stavamo litigando».

Quel giorno Fatima trascorre il pomeriggio a casa di un’amica della madre: «Sono andata a riprenderla intorno alle 4 e siamo rientrate. Le ho dato il peluche, un leone, e le caramelle che Mohssine le aveva comprato. Intorno alle sette lui ha citofonato ed è salito a casa per salutare la bambina». Chilleni ricostruisce il legame stretto e affettuoso che c’era tra l’uomo e sua figlia. Poco dopo le 21, Fatima invia un messaggio vocale a Mohssine per ringraziarlo del peluche.

Da quel momento i ricordi della donna diventano faticosi. Tra le 20.54 e le 21.18 intercorrono quattro chiamate tra il suo cellulare e quello di Mohssine e le perizie stabiliranno che Fatima è precipitata alle 21.21. «Non ricordo», risponde Chilleni. Poi spiega le due versioni: «Volevo prendermi la colpa. Perché non avevo insistito nel dire alla bambina di non uscire per andare da lui. Ma quando in ospedale ho visto com’era ridotta, ho deciso di dire la verità. Quella sera lui era indiavolato, non l’ho mai visto così. Sono salita a casa sua. Sul ballatoio ho messo Fatima a terra e ho bussato. Mi ha aperto uno dei suoi amici, poi è arrivato lui e ha afferrato la bambina per il braccio e l’ha trascinata in casa. Volevo portarla via. Il suo coinquilino ha cercato di passarmela e lui l’ha sollevata e gettata di sotto». 

«Voglio la mamma», sono state le ultime parole di Fatima. Le ha sentite la signora che abita nell’alloggio sotto quello dell’imputato: «Stavo mettendo a letto mia figlia, ho sentito “mamma” e un rumore contro la ringhiera. Poi la voce di una donna provenire dal lato opposto dello stabile, “cosa state facendo?”. E la bambina ripetere “voglio la mamma”. Poi non ho sentito più nulla». Mohssine ascolta in silenzio. Prima dell’inizio del processo aveva reso dichiarazioni spontanee: «Volevo bene a quella bambina come se fosse mia figlia. So che verrò condannato, ma più della condanna a pesare è il senso di colpa. Mi spiace, chiedo scusa».

Lo Scuotimento.

Neonato morto a Padova, madre arrestata per maltrattamenti. Un neonato di tre mesi è morto a Padova: nel referto dell'ospedale si ravvisano traumi compatibili con la sindrome del bambino scosso. Francesca Galici l'11 Settembre 2023 su Il Giornale.

Tragedia in Veneto, dove un bambino di tre mesi è morto in ospedale dopo essere stato trasportato d'urgenza in ospedale di Padova dopo una chiamata d'urgenza al 118 dalla provincia di Rovigo. Il piccolo è deceduto una settimana fa ma solo oggi la procura, con una nota, ha reso noto il fatto, con contestuale annuncio dell'arresto della madre del piccolo, di nazionalità marocchina, che ora dovrà rispondere per il reato di maltrattamenti aggravati da morte.

All'arrivo in ospedale, la situazione del piccolo è apparsa subito subito disperata ai medici che hanno preso in carico il bambino. Alla sua morte, i medici hanno deciso di fare una ricognizione medico-legale per accertare le cause della morte, sulle quali la madre non sarebbe stata in grado di fornire spiegazioni. La perizia sul corpo del bambino, come riportato sul referto dell'ospedale di Padova, ha ravvisato "traumatismi cerebrali e midollari con encefalopatia ipossico-ischemica", ossia delle lesioni che comportano un insufficiente afflusso di sangue al cervello. Questa tipologia di lesioni sarebbe compatibile con quella che viene definita come sindrome del bambino scosso con trauma cranico abusivo.

Si tratta di un trauma che sopraggiunge a seguito di un eccessivo scuotimento del bambino. Si tratta di una reazione registrata in molti genitori, quando questi non sono in grado di gestire le crisi di pianto o l'irrequietezza del neonato. Nasce dalla frustrazione di non saper da cosa derivino i pianti di un bambino in età infantile, che non sa parlare e non può comunicare col genitore. Si tratta di un trauma irreversibile, che purtroppo è stato registrato molte volte in casi simili. Ed è proprio alla luce del referto stilato dall'ospedale che la procura ha deciso di procedere contro la madre, ottenendo la misura cautelare della custodia in carcere, che è stata eseguita mercoledì scorso, 6 settembre, dalla Squadra Mobile della Questura, motivata da gravi indizi di colpevolezza.

C'è già stata l'udienza della donna davanti al giudice per le indagini preliminari per l'interrogatorio di garanzia, durante il quale però la donna si è avvalsa della facoltà di non rispondere. Ora è stata disposta l'autopsia sul corpo del bambino, che potrà dare conferma di quanto rilevato dal medico legale. Una formalità che si espleterà in forma di accertamento tecnico irripetibile di carattere medico-legale, con le garanzie della difesa. Ulteriori accertamenti sono stati affidati alla Squadra Mobile.

Il Soffocamento.

A Napoli.

A Roma.

A Napoli.

"Facciamolo schiattare". La chat dell'orrore della madre trovata col bimbo morto. La donna sarà sottoposta a una terza perizia psichiatrica: così ha deciso la corte d'Assise di Napoli. Federico Garau il 2 Febbraio 2023 su Il Giornale.

Adalgisa Gamba, imputata per la morte del figlio di soli 2 anni, dovrà essere sottoposta a una nuova perizia psichiatrica, la terza dall'inizio delle indagini: il bimbo fu trovato privo di vita tra le braccia della madre su una spiaggia di Torre del Greco lo scorso 2 gennaio 2022.

Una vicenda dai contorni ancora oscuri. In un primo momento si era ipotizzato che la 41enne potesse aver ucciso il piccolo annegandolo nelle acque del mare. Gli esami autoptici condotti sul corpicino, tuttavia, avevano escluso tale ipotesi, tanto che gli inquirenti hanno iniziato a presupporre che nel momento in cui la donna era giunta sul luogo del ritrovamento, il bimbo fosse già morto, forse per soffocamento.

Il processo

Riunitasi in tribunale quest'oggi, giovedì 2 febbraio 2023, la corte d'Assise di Napoli ha scelto di procedere con una nuova perizia psichiatrica per stabilire con maggiore sicurezza se Alalgisa Gamba sia davvero in grado di intendere e di volere. Ad opporsi in aula sono stati invece il pubblico ministero della procura della Repubblica di Torre Annunziata Andreana Ambrosino, nonché gli avvocati di parte civile. Ad assistere al processo c'erano anche il marito della 41enne e i nonni paterni del bambino. Appuntamento in tribunale per il prossimo 15 febbraio: l'udienza stabilirà il conferimento dell'incarico al perito che si dovrà occupare della valutazione.

Le indagini

A testimoniare in aula quest'oggi è stato anche l'ufficiale del carabinieri che si è occupato fin da subito di coordinare le indagini sulla torbida vicenda. Particolarmente sconcertante il contenuto di alcuni messaggi che l'imputata e il marito si erano scambiati tramite cellulare, ha ricordato in aula il militare."Non dorme, forse ci vuole il ciuccio, o vogliamo farlo schiattare e magari si toglie il vizio?", scrisse la madre in uno di questi.

Ad aggravare la posizione della donna anche alcune ricerche effettuate in rete sempre tramite smartphone, peraltro eseguite in un ristretto arco cronologico: si andava dall'autismo fino all'elenco di metodi per uccidere un bimbo. Un aspetto che pare ricollegarsi ai sospetti della 41enne sulla salute del figlio: stando alle indagini, infatti, la Gamba sarebbe stata certa che il piccolo fosse autistico, e questo per il fatto che alcuni suoi comportamenti risultassero per lei affini a quelli descritti in rete da chi aveva a che fare con persone affette da quel genere di patologia.

La difesa

I messaggi in questione sarebbero invece decontestualizzati: questa l'opinione espressa all'Ansa da uno dei legali dell'imputata. "Va messo l'accento sugli emoticon che compaiono in questi messaggi, un accento che era stato completamente tralasciato", dichiara Salvatore Del Giudice. "Quando dice 'il bambino è brutto', le emoticon che seguono fanno comprendere che non si tratta di parole dette in un contesto violento. Dalle risposte del marito si comprende che anche lui non ha percepito pericolo in quelle frasi. Si tratta di un tono giocoso tra moglie e marito", prosegue l'avvocato.

Le ricerche in rete, precisa il legale, non avrebbero legami con quanto accaduto, dato che l'accusa ritiene che il bimbo è stato soffocato: "non c'è nessuna ricerca sul soffocamento". Che senso avrebbero quelle ricerche, quindi? "Sono ossessive e rientrano, a nostro avviso, nel delirio della donna", precisa ancora Del Giudice. "Molte pagine non venivano neppure visualizzate. La vicenda delle ricerche è indicativa del delirio di cui la donna soffre. Quelle ricerche non erano finalizzate a commettere il reato ma il frutto del delirio in cui si trovava la signora, della dissociazione di cui soffre", conclude l'avvocato.

A Roma.

Si addormenta mentre allatta, il neonato muore. La mamma era in ospedale, aveva partorito da tre giorni. Indagine per omicidio colposo. Redazione il 23 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Una tragedia inimmaginabile per una mamma che ha appena messo al mondo un figlio. Perderlo nel modo più atroce nel momento più felice della propria vita, a pochi giorni dal parto, schiacciandolo involontariamente con il peso del proprio corpo al termine di una poppata nel letto dell'ospedale dove aspettava di rimettersi in forma per potersene tornare a casa con il suo bambino.

È accaduto nella notte tra il 7 e l'8 gennaio nel reparto di ginecologia del Pertini, nosocomio romano in via dei Monti Tiburtini. Il dramma si è consumato senza che nessuno della struttura sanitaria si rendesse conto di nulla. Per questo adesso la Procura di Roma ha aperto un'inchiesta e l'ospedale dovrà dimostrare di non avere responsabilità in quanto accaduto. La neomamma non è indagata ed è ancora in stato di choc. Nel tardo pomeriggio del 7 gennaio la trentenne voleva tenere tra le braccia il suo bambino, nato tre giorni prima, qualche minuto in più. E aveva chiesto al personale del reparto di poter restare con il figlio ancora un po' dopo averlo allattato al seno. Ma poi si è addormentata e nel sonno è finita inavvertitamente sul neonato con tutto il peso del suo corpo, soffocandolo. Se qualche infermiera fosse ripassata a stretto giro per riprendere il piccolo e riportarlo al nido, come prevede la prassi, la tragedia forse si sarebbe potuta evitare. Ma così non è stato. Forse per una dimenticanza, forse per la carenza di personale. Per questo gli inquirenti hanno aperto un fascicolo ipotizzando il reato di omicidio colposo contro ignoti. Vogliono verificare se ci sono state carenze nell'assistenza della madre o se il dramma è stata provocato soltanto da una fatalità. Il magistrato ha disposto l'autopsia e presto ascolterà il personale in servizio quella sera. La donna è comunque considerata parte offesa e il sospetto di chi indaga è che sia vittima di un comportamento omissivo o scorretto del personale della struttura sanitaria. Da una prima ricostruzione, sarebbe stata un'infermiera del turno di notte a notare nel letto, soltanto dopo la mezzanotte, il corpo senza vita del bimbo accanto a quello della madre. Sarebbe stato anche praticato un disperato tentativo di rianimazione, ma purtroppo per il neonato non c'è stato nulla da fare. I magistrati della Procura di Roma sperano di ottenere dall'esame autoptico risposte certe su cosa abbia causato il decesso e vogliono capire come mai non è stato rispettato il protocollo, secondo il quale il personale deve sorvegliare le fasi dell'allattamento e provvedere a riportare il piccolo in culla per evitare i danni collaterali del co-sleeping, considerato tra le principali cause di morte dei neonati.

Giovanni Iacoi, candidato di Forza Italia alla Regione Lazio, ha stigmatizzato il problema della carenza di personale in corsia: «Incredibile come il momento più felice del mondo per ogni donna possa trasformarsi in dramma. Mi stringo nel dolore a questa mamma che ha perso il suo piccolo e non posso non rilevare, ancora una volta, come la situazione dei nostri ospedali, in sofferenza per il poco personale, sia da non sottovalutare».

Roma, mamma neonato morto al Pertini: ho chiesto aiuto ma mi hanno detto no. Storia di Redazione Tgcom24 il 24 gennaio 2023.  

La mamma del neonato di tre giorni, trovato morto a Roma all'ospedale Pertini, nel letto in cui la donna lo teneva dopo averlo allattato ed essersi addormentata, interviene dopo il marito e sfoga la sua disperazione: "Sto leggendo le dichiarazioni rilasciate dalla Asl 2 dicono che hanno garantito tutta l'assistenza necessaria, che alle puerpere viene fatta firmare un'autorizzazione a tenere i figli con loro. Bellissime parole, peccato non siano veritiere". "Ho chiesto aiuto e mi hanno detto no", dice.

 "Più volte ho chiesto in reparto di essere aiutata - precisa al  Messaggero - perché non ce la facevo da sola e di portare per qualche ora il bambino al nido per permettermi di riposare, eppure mi è stato detto sempre di no", aggiunge.

"Non è che si giustificassero in qualche modo. Dicevano che non era possibile e basta. E io rimanevo lì a dovermi occupare di tutto. Dovevo allattare il piccolo, cambiarlo, riporlo nella culletta accanto al letto, e ho dovuto farlo anche subito dopo il parto anche se ero sfinita".

La mamma del neonato morto al Pertini: «Ho chiesto aiuto per tre notti di seguito, ma non mi hanno ascoltato».  Rinaldo Frignani su Il Corriere della Sera il 24 Gennaio 2023.

La procura indaga (per ora) contro ignoti per omicidio colposo. La 30enne: «Mi hanno svegliata nel cuore della notte e portata in una stanza per dirmi che era deceduto, ma non mi hanno spiegato come era successo»

«È come se fosse successo ieri. Ancora sto mettendo in ordine quello che ho passato in quei giorni. Pretendo che sia fatta chiarezza sulla morte del mio bambino». Sono passate due settimane dalla tragedia all’ospedale Sandro Pertini. Anna, un nome di fantasia, non riesce a pronunciare più di tre parole senza che le lacrime le impediscano di andare oltre. Un misto di rabbia e dolore accompagna la giovane donna che abita con la famiglia alle porte di Roma. Mentre la magistratura e la polizia indagano per individuare eventuali responsabilità della struttura sanitaria nel decesso per soffocamento del bimbo che aveva appena dato alla luce, la notte fra il 7 e l’8 gennaio scorsi nell'ospedale romano, la mamma - tramite il suo avvocato Alessandro Palombi, che assiste lei e il compagno - accetta di rispondere ad alcune domande.

Ricorda cosa è successo quella notte?

«Ero ancora molto stanca, piuttosto provata dal parto, dopo 17 ore di travaglio, il 5 gennaio. Ero entrata in ospedale il giorno precedente, avevamo scelto il Pertini perché ero affezionata a questo posto visto che ci sono nata anche io. Per due notti, quella dopo aver partorito e quella successiva, sono riuscita, a fatica, a tenere il bambino vicino a me. Ero stravolta, ho chiesto aiuto alle infermiere, chiedendo loro se potevano prenderlo almeno per un po’, mi è sempre stato tuttavia risposto che non era possibile portarlo nella nursery. E lo stesso è accaduto la notte di sabato. Anzi, mi sentivo peggio dei giorni precedenti. Ho chiesto ancora di prendere il bimbo, non l’hanno fatto. Due notti ho resistito, l’ultima ero davvero affaticata. “Non è possibile”, mi è stato risposto ancora una volta». 

Come stava il bambino fino a quel momento?

«Benissimo, in piena salute. Pesava più di tre chili. Le infermiere mi hanno dato alcune indicazioni su come mettermi sul letto per allattarlo, ma a parte la stanchezza avevo sempre una flebo attaccata al braccio. Mi muovevo con difficoltà. Poi quella notte sono crollata, non ce la facevo proprio. Da quel momento non ricordo più nulla».

Fino a quando?

«All’improvviso, nel cuore della notte, sono stata svegliata dalle infermiere: il bambino non stava più nel letto con me. Senza dirmi una parola, mi hanno fatto alzare e mi hanno portato in una stanza vicina: lì mi hanno comunicato che il bimbo era morto. Non ricordo che fosse presente una psicologa, e nemmeno che mi abbiano dato una spiegazione più approfondita. Di sicuro non mi hanno detto come era successo. A quel punto non ho capito più niente, mi è crollato tutto addosso. Forse sono anche svenuta».

Quando ha appreso la notizia di quello che era successo al piccolo?

«Ho realizzato a poco a poco. Non ricordavo niente di quella notte. Non capisco come sia potuta succedere una cosa del genere: ho chiesto aiuto per tre notti di seguito al personale del reparto in cui ero stata ricoverata (Ostetricia e ginecologia, ndr), non mi hanno ascoltato. Due giorni dopo, il 10 gennaio, ho firmato le dimissioni e sono tornata a casa. Adesso pretendo giustizia». 

Anna, 30 anni, il compagno di 36 - che non sono stati sentiti dai pm - e gli altri familiari non hanno ancora sporto denuncia. «Questo passo non è stato ancora compiuto - spiega l’avvocato Palombi - perché in realtà l’indagine è scattata d’ufficio. Abbiamo massima fiducia nel lavoro dei magistrati». La procura ha aperto un fascicolo contro ignoti per omicidio colposo, gli agenti del commissariato Sant’Ippolito si sono recati nel pomeriggio dell’8 gennaio al Pertini su richiesta della direzione sanitaria: acquisite le cartelle cliniche del bambino e della madre (negativa agli esami sull’assunzione di farmaci), e i turni di servizio di medici e infermiere di Ostetricia dal 4 all’8 gennaio scorsi.

Neonato morto, ospedale sotto accusa. Il papà: "Mia moglie stravolta, aveva chiesto di tenerlo al nido". Test tossicologico negativo. Maria Sorbi il 24 Gennaio 2023 su Il Giornale.

«La mia compagna arrivava da un travaglio di 17 ore, non si reggeva più in piedi. Aveva chiesto di portare il bambino al nido per riposarsi ma le hanno detto di no. L'hanno abbandonata». È uno sfogo con una precisa accusa quello del padre del neonato soffocato all'ospedale Pertini di Roma nella notte fra il 7 e l'8 gennaio mentre la madre lo stava allattando. La donna, negativa al tossicologico, si è addormentata tenendolo in braccio e probabilmente lo ha schiacciato senza volerlo con il suo corpo.

«Ora vogliamo giustizia anche per le altre mamme e gli altri piccoli» dicono i genitori, distrutti dal dolore inaspettato. La donna, 29 anni, era stremata dal parto ma, per le regole anti Covid, nelle ore successive non aveva nessuno ad aiutarla di fianco al letto, nè parenti nè personale sanitario. I risultati dell'autopsia sul corpicino del bimbo, nato apparentemente sano, arriveranno tra 60 giorni. Sul caso è stato aperto un fascicolo della Procura di Roma contro ignoti: si indaga per omicidio colposo. Gli inquirenti hanno acquisito una serie di documenti in ospedale, compresa la cartella clinica della donna. La Asl Roma 2 precisa che, «come da prassi, ha attivato immediatamente un audit clinico per verificare la correttezza e l'aderenza alle best practice e l'appropriatezza delle procedure, ed ha consegnato alla magistratura tutta la documentazione in possesso al fine di consentire uno svolgimento delle indagini che conduca, il più rapidamente possibile, a ricostruire la dinamica degli avvenimenti e ad accertare eventuali responsabilità». La Asl tiene comunque a sottolineare in una nota che «l'ospedale Pertini è punto di riferimento per la città di Roma»: nel 2022 ha contato «916 parti con un trend in crescita rispetto agli anni precedenti».

Da chiarire se ci sia stata noncuranze nei confronti delle richieste della donna da parte delle ostetriche o no. Il personale sanitario ha lasciato il bimbo nel letto con la mamma seguendo la pratica del rooming-in, «consolidata nel contesto nazionale ed internazionale per sostenere il contatto tra neonato e mamma, sin dalle prime ore dopo la nascita».

Sia l'Organizzazione mondiale della sanità sia l'Unicef promuovono questo modello organizzativo, che permette al piccolo e alla neomamma di condividere la stanza 24 ore su 24. Per questo motivo il rooming-in viene attuato anche nell'ospedale Pertini, dove tutte le puerpere vengono informate dei rischi connessi alla gestione del bambino, venendo peraltro edotte, anche con la sottoscrizione di un modulo, sulle azioni da effettuare per evitare il verificarsi di eventi avversi.

«Quanto è successo al Pertini è un fatto tragico che ha dell'incredibile, la magistratura farà il suo corso perché le concause possono essere diverse: al vaglio degli inquirenti ci sono tutte le ipotesi, starà a loro decidere cosa è effettivamente accaduto» spiega Silvia Vaccari, presidente della Fnopo, la Federazione nazionale Ordini professione di ostetricia. «Non possiamo escludere nessuna causa - evidenzia Vaccari - tanto meno che si tratti di un caso di Sudden infant death syndrome (Sids), o morte in culla, ovvero il decesso improvviso e inspiegabile di un bambino al di sotto dell'anno di età. Lo stabilirà solo il medico legale ad autopsia avvenuta».

Bimbo morto in ospedale. Il padre: “Colpa delle regole anti Covid”. La denuncia del papà del piccolo soffocato a Roma all’ospedale Sandro Pertini: “Nessuno poteva stare con lei”. Claudio Romiti su Nicolaporro.it il 23 Gennaio 2023.

Un bimbo di tre giorni muore soffocato a Roma, nell’ospedale Sandro Pertini, mentre lo stava allattando la madre. E secondo il padre non si tratta affatto di mera fatalità. Egli punta il dito contro le sempre più folli misure anti-Covid nei nostri centri di cura e lancia il suo j’accuse: “Mia moglie dopo il parto era sfinita, ma le hanno portato il piccolo per l’allattamento, sebbene lei non si reggesse letteralmente in piedi. Hanno persino preteso che gli cambiasse il pannolino da sola”. E ancora: “Avevamo scelto il Pertini   perché la mia compagna è nata lì e lì voleva partorire. Ma gliel’hanno lasciato accanto ininterrottamente e con le norme Covid nessuno di noi ha potuto starle accanto. E lei, anche se ha 29 anni, era stanchissima, il piccolo era irrequieto, non l’hai mai fatta dormire. Così ha passato le nottate senza chiudere occhio”. Molte donne, è la denuncia, “sono lasciate sole nei reparti anche a causa delle restrizioni anti-Covid. I protocolli andrebbero rivisti”.

Dai primi accertamenti operati dalla polizia, sembrerebbe che il piccolo sia morto schiacciato dalla madre, la quale è comprensibilmente crollata dal sonno dopo un travaglio di 17 ore. Malgrado ciò anche in questo caso ha prevalso l’ottusa, intransigente battaglia del nostro sistema sanitario contro un virus clinicamente quasi scomparso e che – parole di Giorgio Palù, illustre virologo presidente dell’Aifa – attualmente registra un tasso di letalità cinque volte più basso rispetto a quello dell’influenza stagionale.

Da questo profilo, così come è accaduto a molte giovani vittime dei vaccini pseudo-sperimentali e ai tantissimi morti causati dal ritardo nelle cure di altre malattie, il neonato di Roma allunga l’interminabile lista di decessi determinati dalle più rigide restrizioni d’Occidente. Di fatto possiamo definire il prodotto di questa catastrofe, in parte ancora in atto, come i danni collaterali di una follia che non sembra avere mai fine.

Una follia che ci impone ancora di indossare l’inutile e malsana mascherina per accedere in qualunque ospedale della Penisola (per questo motivo sto procrastinando la mia consueta donazione di sangue, in attesa che il nostro formidabile ministro della Salute si decida ad eliminarne l’obbligo, perché mi rifiuto di subire una tale umiliazione), e che condanna ad una morte evitabile tante, troppe persone, così come pare che sia accaduto al povero bimbo della Capitale.

Ancora una volta bisognerebbe emulare in massa l’esortazione del protagonista del magnifico film Quinto potere, del grande Sidney Lumet, gridando dalle nostre finestre “sono incazzato nero e tutto questo non lo accetterò più.” Tutto ciò nella speranza che dagli alti palazzi della politica qualcuno si prenda la responsabilità di mettere la parola fine a questa surreale vicenda, mandando finalmente al macero i citati, demenziali protocolli anti-Covid. Claudio Romiti, 23 gennaio 2023

Neonato morto al Pertini, l'allarme fu dato da una delle mamme. Giulio De Santis su Il Corriere della Sera il 25 gennaio 2023.

Sorveglianza carente? Il pm vuole chiarire quali e quanti controlli furono fatti dal personale quella notte. L’avvocato della famiglia: «La prossima settimana arriverà la nostra denuncia»

È stata un'altra mamma, all’una di notte dell’8 gennaio, a lanciare l’allarme al personale sanitario dell’ospedale Pertini. Si era accorta che il neonato, nel letto accanto al suo, rischiava di morire soffocato sotto il peso della mamma, crollata nel sonno per l’estrema stanchezza. L’infermiera è arrivata subito, anche se ormai troppo tardi per salvare il piccolino, nato tre giorni prima. Il fatto che ad allertare il personale sanitario sia stata una paziente, ricoverata nella stessa stanza della tragedia, rappresenta una svolta nell’inchiesta sulla tragedia avvenuta all’ospedale Pertini. Si tratta di una novità che rafforza la principale ipotesi della procura: il piccolo sarebbe morto per la sorveglianza carente da parte del personale medico. A dare sostegno a questa tesi c’è ora una testimone oculare del dramma, che potrà parlare dei controlli lacunosi sulla mamma del piccolo, nei giorni seguenti al parto.

Questa la ricostruzione di quell’attimo fatidico, almeno in base alla testimone. È quasi l’una di notte, quando la puerpera si volta verso la compagna di stanza che stava allattando. Non vede più il neonato. Prova a chiamarla. Ma niente, la mamma non risponde. Allora lancia l’allarme. L’infermiera si precipita. Come la dipendente dell’ospedale scrive nel report, apre la porta e toglie il piccolo da sotto la mamma, addormentatasi per l’estrema stanchezza. Ormai però non c’è niente da fare: il piccolo è morto. I primi riscontri dell’autopsia danno un risultato prossimo alla certezza: il neonato sarebbe spirato perché soffocato, anche se per certificarlo in modo definitivo mancano gli esami istologici che deve finire di svolgere il professor Luigi Cipolloni. Il racconto della testimone sarà il cardine dell’inchiesta.

Alla puerpera che ha dato l’allarme sarà chiesto se ricorda un aspetto: c’è stato o no il rifiuto degli infermieri (riferito al Corriere dalla mamma), di portare il neonato nella nursery come chiesto dalla donna perché spossata dalla fatica, dopo 17 ore di travaglio e due notti insonni? Se il personale medico ha sottovalutato la stanchezza, lo chiarirà l’inchiesta del pm Maria Sabina Calabretta, che indaga per ora senza indagati con l’accusa di omicidio colposo in ambito sanitario. L’indagine è stata avviata su segnalazione dell’Ospedale Pertini, come succede sempre quando muore un neonato. Un particolare ha destato però l’attenzione degli investigatori. L’assenza della relazione dell’anatomopatologo dell’ospedale Pertini chiamato a fare un primo esame sulle ragioni del decesso. La mancanza è parsa un’anomalia che ha fatto sorgere un dubbio: il medico si è dimenticato oppure ha preferito proprio non farlo? Sarà l’inchiesta a chiarirlo. Un punto appare già certo agli inquirenti: la donna ha firmato un protocollo dove si avvertono le mamme sul divieto di dormire con i neonati. Tuttavia in capo al personale rimane l’obbligo stringente di evitare le disgrazie, tra le quali quella di un neonato che può morire soffocato sotto il peso della stessa mamma. «La prossima settimana presenterò una denuncia in procura, documentata con una investigazione difensiva», dice l’avvocato Alessandro Palombi, legale dalla signora. Intanto l’associazione «Mama Chat» lancia una petizione «Basta mamme sole» per chiedere di garantire accompagnatori h24 per le puerpere.

Estratto dell'articolo di Nadia Ferrigo per "la Stampa" il 25 Gennaio 2023.

Ripetuta dieci, cento, mille e ancora mille volte, è una frase che va oltre l'immedesimarsi nello stremo e nella solitudine della neomamma lasciata sola con il suo bimbo di tre giorni, morto soffocato al seno al Pertini di Roma perché lei è crollata per la stanchezza. Non è solo compassione, ma denuncia collettiva e rivendicazione: non è stato un incidente, una disgrazia.

[…] Sarah Malnerich, con Francesca Fiore ideatrice della community Mamma di Merda, dedita a «smontare la retorica della mamma perfetta e lenire i sensi di colpa». «Mia figlia aveva il cordone ombelicale girato intorno alla testa e nessuno se ne era accorto. […]. Dopo un primo giorno in cui hanno tenuto la bambina al nido, me l'hanno portata in camera e non c'è stato verso di farla tenere un minuto in più. Una notte chiamai una puericultrice chiedendole di aiutarmi a prendere la bambina dalla culla per allattarla. Non avevo forze e dolori lancinanti. Mi rispose: "Signora, che cosa si credeva? La maternità è questo: sacrificio"».

Poche ore dopo questo post, i commenti e le storie raccolte dalla community sono già centinaia. C'è che si sfoga con racconti lunghi e dettagliati, che ripercorrono passo passo la degenza, chi riassume quanto vissuto in poche, dolorose, parole. Come Federica di Perna, che scrive: «Quei tre giorni in ospedale sono stati un inferno. Non mi sono mai sentita così umiliata e impotente in vita mia». […]

 «Quando ho letto la storia del bimbo di tre giorni morto soffocato, ho pianto» racconta Martina Strazzeri, mamma di un bimbo nato a Rimini, in pieno Covid. «Dopo un lungo travaglio e un taglio cesareo d'urgenza sono rimasta completamente sola tre giorni, non riuscivo a piegarmi per tirarlo su dalla culla. Quando ho chiamato per chiedere aiuto, mi hanno detto che avrei dovuto impegnarmi un pochino di più, che la culla si chiama "next to me" proprio perché sta vicino. Loro mi hanno fatto una lezioncina di inglese, io non ho chiuso occhio per tre giorni, nel terrore di far cadere o schiacciare mio figlio. Mi hanno preso in giro».

[…] «Non è solo colpa dei tagli alla Sanità. Da queste testimonianze emerge un problema sistemico nell'affrontare la maternità, il dolore e il corpo delle donne – denuncia Malnerich -. La retorica della maternità ci dice che "verrà tutto naturale", che le donne "lo fanno da secoli" e hanno risorse infinite. Il sacrificio, lo sforzo estremo, è dovuto. E se non ce la fai il problema sei tu. Il riposo per una mamma non è concesso, nemmeno dopo il parto. Questa è la retorica patriarcale, che fa danni gravissimi». […]

Estratto dell'articolo di Paolo Russo per la Stampa il 25 Gennaio 2023.

 Il bambino è nato, che la festa cominci. Parenti e amici accorrono in ospedale con fiori e cioccolatini, pensando che sarà una passeggiata. Ma non sempre è così e ce lo ricorda la tragedia di Anna, che al Pertini di Roma ha schiacciato il proprio neonato, Andrea, addormentandosi dopo 17 ore di travaglio e il parto.

Soprattutto in un Paese come il nostro, dove si fa fatica a seguire le puerpere prima, durante e dopo il parto. […] spiega la dottoressa Silvia Vaccaro, presidente della Fnopo, la federazione dell'ordine delle ostetriche.

In Italia sono 20 mila, «ma ne servirebbero almeno altre 4 mila per offrire un'assistenza adeguata alle donne e assistere i neonati nei nidi degli ospedali anziché essere costretti ad affidarli a mamme magari ancora sotto stress per il parto», […]. «All'estero le donne continuano ad essere seguite anche a casa, controllando non solo lo stato di salute del neonato e della mamma, ma intercettando anche qualche eventuale trauma psichico […]».

Ma il nostro Servizio sanitario nazionale, a corto di soldi e personale, ha sempre più difficoltà a offrire cure adeguate alle partorienti, […] Lo dicono i dati di un'indagine a cura del Centro di collaborazione Oms per la salute maternoinfantile dell'Irccs «Bruno Garofolo» di Trieste, […]  Il 44,6% ha avuto già difficoltà ad accedere alle cure prenatali, fatte anche di accertamenti diagnostici e analisi che - quando i tempi nel pubblico si allungano oltre misura - si finisce per dover fare nel privato, pagando di tasca propria. […]

complici le restrizioni imposte dalla pandemia, il 78,4% delle partorienti non ha potuto contare sul proprio compagno in sala parto. Il 36,3% non ha invece ricevuto un supporto adeguato all'allattamento, il 39,2% non si è sentita coinvolta nelle scelte mediche, il 33% afferma di aver ricevuto indicazioni poco chiare dal personale, mentre il 24,8% ha riferito di non essere stata trattata con dignità, con un 12,7% che denuncia persino di aver subito abusi. E se questo è il quadro, non c'è di che stupirsi se a volte la solitudine della puerpera sconfina poi nel dramma.

«Noi, neo mamme stanche e affaticate: lasciate da sole con i nostri bambini appena nati». Simona De Ciero su Il Corriere della Sera il 26 Gennaio 2023.

Farina (Ostetricia): «Contatto utile, ma ogni caso è diverso»

«Sono una mamma fortunata perché tengo mio figlio addormentato addosso. È vivo ed è sano. Ma sarebbe potuta andare diversamente». Sabrina Zanini, trentunenne torinese, è la mamma di Vittorio Milo, 11 mesi. È una delle tante neo madri di Torino e provincia che hanno deciso di riunirsi in un collettivo spontaneo ed esprimere il loro punto di vista dopo la morte del neonato all’ospedale «Pertini» di Roma in circostanze ancora da accertare ma che stanno facendo discutere l’opinione pubblica. Il piccolo sarebbe stato lasciato da subito in stanza con sua madre, e sarebbe morto mentre lei — esausta dopo travaglio e parto — si era addormentata. «Come ogni donna, nel post parto sono stata lasciata da sola con il mio bambino, sia di giorno sia di notte. Le puericultrici passavano la mattina a pesare il piccolo e a medicare il cordone — racconta Sabrina— . Passava un’infermiera a prendere temperatura e saturazione a noi mamme, e questo avveniva sia di giorno sia di notte. Passava il pediatra a visitare il piccolo, e una volta al giorno passava una signora a chiedere cosa volessimo per pranzo e cena. Le ostetriche passavano a controllare l’attacco al seno del bambino, e accorrevano quando chiamate». Secondo la signora Zanini, però, questo non basta. 

«Ricordo che non vedevo l’ora di essere dimessa per tornare a casa e dormire; perché in ospedale è quasi impossibile, specie se, oltre il tuo, ci sono bambini che piangono e mamme in travaglio nelle stanze vicine. La privazione del sonno, è una cosa terribile». Sabrina parla di una profonda e perenne stanchezza e «di un senso estremo di solitudine pur cercando di fare del mio meglio per stare accanto al mio bambino, allattarlo tutte le volte che lo desiderava e tenerlo vicino a me. Come mi avevano spiegato di dover fare durante il corso preparto: allattarlo a richiesta e tenerlo come me nel letto di notte». E così spiega di aver fatto. «Anche se facevo fatica a stare in piedi e a camminare per i punti del cesareo. Anche se non mangiavo da 36 ore e forse non ero lucidissima. Anche se, come tutte le altre mamme (Vittorio Milo è nato in pieno periodo pandemico, ndr), non avevo la possibilità di vedere il mio compagno per qualche minuto al giorno: ricevere un abbraccio, un aiuto o un po’ di sostegno, anche solo per mangiare qualcosa senza il mio bimbo in braccio». E aggiunge: «Sono stata fortunata. - Sarebbe potuto succedere anche a me, di addormentarmi e di schiacciare il mio piccolo». 

Come lei la pensa anche Valentina Viecca, madre di Raul. «Chi tiene i corsi preparto e le ostetriche, incoraggiano senza mezze misure il rooming-in (contatto pelle-pelle ndr) perché fondamentale per la crescita emotiva del neonato, alla base di un sano rapporto madre-figlio e della buona partenza dell’allattamento — precisa — una necessità ribadita così tante volte, che le neo mamme spesso si sentono in colpa e perse se ciò non può avvenire. È successo anche a me, che non ho potuto tenere Raul da subito a causa di complicazioni che hanno reso necessario il suo ricovero in terapia intensiva». Valentina Viecca e le altre mamme torinesi però non se la prendono con la sanità pubblica, almeno non direttamente. «Non stiamo dicendo che ostetriche e infermieri facciano il proprio lavoro senza giudizio e amore — prosegue Valentina — ma sono pochi rispetto alle partorienti e ai bambini. Il sistema non dovrebbe prevedere che le neo mamme rimangano sole per giorni a gestire il piccolo dopo il parto; è una questione culturale che deve cambiare per accettare e sostenere anche gli aspetti più scomodi della maternità, e lasciarsi alle spalle quel racconto retorico e che ci vuole unicamente felici». 

Così la vede anche Lucrezia Cerutti che ha partorito Margherita un anno fa, con cesareo d’urgenza e che «completamente stordita da emozioni, stanchezza e soprattutto dalla morfina. Dopo essere stata sgridata da un’infermiera perché non avevo cambiato il pannolino quasi per tutto il giorno, ho capito che non ero lucida e così, invece di chiedere aiuto mi sono fatta togliere la flebo di morfina, preferendo il dolore alla paura di far del male a mia figlia. Per tre giorni siamo state sempre da sole in stanza, io e lei, in un letto singolo, alto e senza sponde, con una cicatrice dolorante che mi limitava i movimenti, con la pressione bassissima e tutta l’insicurezza di quei primi momenti». 

Daniele Farina, a capo del Dipartimento ostetrico ginecologico di Città della Salute sostiene che il roaming-in sia «senza dubbio una buona cosa ma ogni situazione è a se stante e le mamme, specie in un periodo complesso come questo in cui la presenza dei caregiver è molto limitata, devono essere trattate con la giusta cura da parte nostra che abbiamo l’onore di partecipare al momento neonatale, tanto bello quanto complesso e faticoso». Insomma, i comportamenti estremi sono sempre sbagliati, anche se hanno buone radici. Intanto Torino non è l’unica città in cui le donne si stanno mobilitando per sollecitare un cambiamento culturale legato al post partum ospedaliero che molte definiscono «violenza ostetrica». A provarlo, le oltre 110 mila firme raccolte in pochi giorni online. 

Cittadine (in)consapevoli. Il mito della maternità e la tragica realtà del sistema sanitario nazionale. Alessia Centioni su L’Inkiesta il 26 Gennaio 2023

La gravidanza non è un momento magico da raccontare come se fosse una favola: è un eccezionale sforzo fisico e mentale che ha bisogno di servizi di assistenza e di cura adeguati e pagati dalle tasse

La notizia della mamma che ha perso il suo neonato addormentandosi su di lui dopo l’allattamento ha colpito l’opinione pubblica. È una tragedia e sappiamo quanto le tragedie dove di mezzo ci vanno i bambini colpiscano la sensibilità di tutti. Per le madri invece c’è sempre la gogna morale. Assia Neumann Dayan ha scritto un pezzo perfetto, condivisibile anche nelle virgole che porta alla luce il grande equivoco sulla gravidanza e la maternità. Concepita ancora come “dono”, vissuta da molte madri che leggono libri sbagliati come fosse una lezione di yoga acrobatico, un’occasione per sperimentare pratiche naturalistiche. 

La realtà è che gravidanza e maternità sono state impacchettate con una serie infinita di stronzate, più verosimili alle credenze che alla medicina. Assia Neumann Dayan tocca un punto centrale quando parla di tasse, quelle pagate da noi donne ma dimenticate quando sperimentiamo il Servizio sanitario nazionale e altri servizi (?) del welfare. Ma andiamo per ordine.

Le visite ginecologiche ogni due settimane per nove mesi: fanno diciotto, minimo, a cui si aggiungono varie analisi. Tra queste analisi, i test del DNA fetale per scoprire possibili malformazioni del feto non rientrano nelle nostre tasse. Come se scoprire malformazioni del feto non sia poi necessario cara mamma, potrebbero esserci sofferenze supplementari che valgono il “dono” della maternità. Le scoprirai a tempo debito.

Oggi, in Italia, circa cinquantamila donne in gravidanza richiedono ogni anno il test del DNA fetale, pagando cifre comprese fra 300 e 700 euro. Bene per chi può permetterselo, e le altre? Scopriranno il “dono” il giorno del parto perché il Sistema sanitario nazionale non include il NIPT fra gli esami gratuiti.

Ritornando alle visite ginecologiche, ci fosse un medico, dico uno che ti informi sulle possibilità che possono avverarsi durante il parto, delle possibili complicazioni per te e il bambino o dei possibili interventi che subirai. Poi ti ritrovi su quel lettino, dolorante, distrutta nel corpo e nella mente e all’improvviso, se ce la fai ancora a tenere la testa su, vedi apparire una grande siringa, delle grandi forbici e in un attimo sei tagliata e ricucita. Un dolore cane, che si aggiunge ad altri ma guai a lamentarsi, devi soffrire. Alla fine non è niente di che. Sentire quel dolore profondo per settimane che ti farà tremare di paura anche solo lavarti, non è nulla cara mamma, puoi sopportare. 

Quando chiedi al medico spiegazioni sul perché non ti abbia informata sull’episiotomia ti senti rispondere: «non volevo spaventarla signora». Ma come non voleva spaventarmi? Non mi informa? State raccontando una fiaba a una bimba o state informando una paziente? Qual è la considerazione avete delle donne? Come siamo trattate? 

Siamo trattate come bambinette cui si racconta il mito della maternità, un mito che per definizione è privo di basi scientifiche ma pieno di omissioni a sostegno della narrazione di un mistero che tu madre scoprirai poco a poco e a tue spese. Invece no! Siamo pazienti che pagano le tasse e hanno il diritto di essere informate, di scegliere e di mettere limiti al sacrificio fisico che non siamo obbligate a sopportare e che al contrario deve essere alleviato con tutti gli strumenti di cui la medicina dispone. Sul rooming-in e allattamento è stato già detto tutto. 

Invece sulle terapie e l’assistenza post parto non è stato detto nulla dai ministri della Salute. In molti paesi europei, Belgio e Francia per citarne alcuni, nei giorni post parto la paziente riceve la visita di una fisioterapista che valuta lo stato fisico generale, del pavimento pelvico e del bacino, entrambi sconquassati. Riceve un appuntamento per iniziare le sedute nelle settimane successive e la aiuta a rimettersi in sesto. Il costo della fisioterapia è accessibile e rimborsato dal Servizio sanitario nazionale. 

Dopo il parto, quando rientri a casa disponi della possibilità di avere un’ostetrica a domicilio per otto settimane che aiuta te e il bambino, ti aiuta ad abituarti alla tua vita con il bebè, ti rassicura, ti guida, ti assiste. Prova a farti respirare mentre continui a perdere sangue per settimane, il seno ti esplode, i capezzoli sono lividi. Anche questo servizio è economicamente accessibile e rimborsato dal Servizio sanitario nazionale.

Se volessimo rendere il nostro Paese un Paese normale, se volessimo smettere di dire idiozie sull’inverno demografico e sull’essere genitori, se prendessimo seriamente la vita e il funzionamento dello Stato per come sono senza immaginarlo attraverso false credenze, la negligenza e l’ignavia mascherate da ideologie e inutili studi di associazioni militanti, inizieremmo a pensare la gravidanza e la maternità per quello che sono. Un eccezionale sforzo fisico e mentale che ha bisogno di servizi di assistenza e di cura adeguati. 

Inizieremmo a sostenere le spese per le cure per la fertilità, per la fecondazione assistita e in vitro. Metteremmo a disposizione protocolli di diagnosi e cure più efficaci per l’endometriosi e la vulvodinia. Finalmente smetteremmo di pensare al post parto come si trattasse esclusivamente della dieta più efficace che c’è per perdere quei chili di troppo (tanto c’erano pure prima), smetteremo di aspettarci e di convincerci che la gravidanza sia un “dono” bellissimo, ci baseremmo sulla scienza invece che su libricini mistici, esigeremmo cure e prestazioni sanitarie civili. Voteremmo chi sostiene che la buona sanità può cambiarci la vita e chi vuole investire nel Servizio sanitario nazionale. 

Noi donne per prime, dovremmo dopo migliaia di anni, appropriarci della narrazione del corpo femminile, maternità inclusa e pretendere di più, pretendere di essere curate e non riempite di stronzate. Dovremmo esigere che una donna che abortisce, una che partorisce e un’altra ancora che toglie una ciste ovarica non stiano nello stesso reparto. 

Dovremmo smettere una volta per tutte di sentirci fragili, vittime, fortissime wonder women capaci di tutto, e iniziare semplicemente ad essere CITTADINE che esigono informazioni precise, cure e servizi di alta qualità. Essere madri non è un “dono” magico da babyshower, perché quando lo scarti, trovi tante soprese che non ti aspettavi e forse non avresti voluto.

Restiamo vive. L’inganno del “rooming-in” e tutte le cose che non ci hanno detto prima di partorire. Assia Neumann Dayan su L’Inkiesta il 24 Gennaio 2023

L’ipocrisia della maternità senza problemi, anche per sopperire alla carenza di personale nei reparti maternità

Non è fantastico poter partorire in sale ospedaliere che fanno uso dell’aromaterapia? Vogliamo poi parlare di quando ci sono anche le luci biodinamiche per la cromoterapia? Che dire poi del parto in acqua, della musica in filodiffusione, del contatto pelle a pelle prolungato, della rava, della fava. Non è forse questo il migliore dei mondi possibili? La scienza esatta, l’avanguardia, l’evoluzione della medicina, tutto splendido, poi però capisci che il progresso non conta un cazzo perché a contare è solo la fortuna. Un neonato è morto soffocato al terzo giorno di vita perché la mamma si è addormentata mentre lo stava allattando.

È successo a tutte di addormentarsi col bambino nel letto: lo so io, lo sapete voi, lo sanno i vostri mariti, lo sanno le ostetriche, lo sa pure il primario, lo sanno tutti, ma noi abbiamo avuto fortuna, lei no. Il marito della donna ha detto che lei aveva chiesto di poter riposare, di poter lasciare il bambino al nido qualche ora, ma non è successo. E questo è quello che succede a tutte, perché non è un’eccezione, ma la prassi. Il buon senso viene sostituito dall’ideologia per diventare poi, di fatto, un abuso.

I nidi ospedalieri non ti aiutano, il neonato lo devi tenere con te anche la notte, perché adesso c’è il rooming-in perpetuo: sapete mamme, è meglio per l’allattamento al seno, per creare un legame madre figlio, sceme noi che abbiamo sempre pensato che nostro figlio ci avrebbe amato comunque, anche con il latte artificiale, anche da riposate.

Nella Dichiarazione congiunta OMS/UNICEF del 1989 dallo splendido titolo “L’allattamento al seno: protezione, incoraggiamento e sostegno. L’importanza del ruolo dei servizi per la maternità” possiamo leggere: «Il contatto tra madre e figlio, che si realizza sia a livello epidermico che visivo immediatamente dopo la nascita, dovrebbe continuare offrendo alla madre la possibilità di tenere sempre il bambino con sé. La pratica del rooming-in dovrebbe quindi sostituire quella di tenere madre e figlio in camere separate e a contatto soltanto durante “visite” programmate. La prima pratica presenta una serie di importanti vantaggi: per esempio, facilita il crearsi di un legame affettivo, rende possibile l’allattamento al seno tutte le volte che il neonato sollecita nutrimento e permette un contatto più stretto con il padre e gli altri familiari». Immagino che tutti i figli che hanno ammazzato i genitori abbiano usato come attenuante al processo la mancanza di un legame affettivo con la mamma per colpa dell’assenza di rooming-in, no?

Non sono un medico, ma possiamo supporre che prima o poi un legame con questo neonato si creerà, o vivremo per sempre ignorate e malvolute? Tanto succede lo stesso, quindi possiamo anche dormire due ore, no? Le mamme che quindi chiedono aiuto alle ostetriche, puericultrici, infermiere per tenere il bambino stanno compromettendo qualcosa? Non vogliono bene al loro bambino? Il meglio però arriva sul finale: «Il rooming-in può essere gestito in vari modi, in base alla struttura dell’ospedale o del reparto di maternità. Il principio fondamentale è consentire alla madre libero e facile accesso al neonato grazie alla sua vicinanza fisica, sia che il piccolo divida il letto con lei, traendo così molti importanti vantaggi, sia che si trovi in un altro letto posto nella stessa stanza». Possiamo smetterla di dire in continuazione «ma lo dice l’OMS!»? Dai, smettiamola.

Ho letto un numero importante di articoli di professori stimati, pediatri luminosi, riviste illuminate sull’importanza del tenere il bambino sempre vicino, sempre, mentre nemmeno una riga sul: se siete stanche, se non ce la fate, chiedete aiuto al personale ospedaliero, perché pagate le tasse. Ecco, noi dobbiamo smetterla di berci tutte le stronzate che ci vengono dette. Dobbiamo smetterla ancora prima che ci vengano dette. Essere madre ti dà sempre un vantaggio nell’era dove l’identità vale tutto, dove tutte possiamo fare gli editoriali sui quotidiani anche perché abbiamo un figlio: non serve essere un medico per capire che anche se dorme tre notti al nido il bambino ti vorrà bene, non serve essere un medico per sapere che anche se gli dai il latte artificiale non succede niente, non serve essere un medico per capire che una donna dopo aver partorito deve dormire.

Nessuno sa quantificare il dolore del parto: una volta ho letto che bisogna pensare alla rottura in contemporanea di tutte le ossa del corpo. Questa è un’idea vaga, perché una donna si fa anche venti ore di travaglio, il che vuol dire rompersi tutte le ossa per venti ore di seguito. E anche lì, secondo me non rende l’idea. Capite anche voi che dopo esservi rotti tutte le ossa ogni cinque minuti per 24 ore dovete dormire, no? E allora quello che succede negli ospedali cosa diventa? Diventa accanimento, tortura, buttar via le mie tasse, violenza, abuso. Poi il capitolo delle manovre vietate durante il parto che vengono fatte lo stesso, delle epidurali negate, nelle episiotomie a sorpresa lo apriamo un’altra volta, ma va aperto.

Io vorrei che qualcuno, ad esempio, mi avesse parlato dei morsi uterini: non del parto in acqua (dove non puoi farti fare l’epidurale, perché sa signora, coi tubi è un casino, lasci perdere l’epidurale, nuoti nel suo sangue che fa bene alla pelle), non della possibilità di usare oli essenziali alla citronella, non della palla su cui sedersi durante il travaglio: perché nessuno mi ha detto che dopo aver partorito avrei continuato ad avere le contrazioni? E non posso nemmeno dormire? Eh signora, poi sarà peggio a casa, meglio che si abitui, non avrà davvero pensato che fosse facile? E nessuna di noi risponde mai, e invece bisogna iniziare a farlo, perché lì siamo sole, perché credetemi, avere un brutto carattere aiuta a sopravvivere.

E allora anche basta berci la stronzata della maternità come santità perché partoriscono pure le gatte, iniziamo a pretendere che i reparti maternità funzionino, che i corsi preparto non siano dei ted sull’allattamento al seno, sulla diade speciale madre figlio, sull’epidurale che è meglio di no perché siamo donne e ce la possiamo fare, sul cesareo no che è brutto e cattivo, e iniziamo a parlare delle nostre tasse e di come i nostri soldi vengono spesi. Il rooming-in anche notturno risponde a una mancanza di organico ospedaliero, perché non possiamo davvero pensare che la spiegazione sia che se no non si crea un legame affettivo tra madre e figlio. I nostri figli ci ameranno lo stesso, noi ameremo loro, ma per succedere dobbiamo rimanere tutti vivi.

Non ho mai partorito, ma…Il dramma del metodo scientifico nel facinoroso mondo dei social. Guia Soncini su L’Inkiesta il 25 Gennaio 2023.

Il neonato morto in ospedale ha fatto emergere plotoni di picchiatelli che su Twitter e Instagram praticano epistemologia identitaria, mistica della maternità e se-non-sei-madre-non-puoi-capire

Non ho mai partorito, ma una volta, alle quattro di mattina, una neurologa che mi stava per fare una tac mi disse che lei non lo sapeva ancora, se avessi avuto un ictus, ma comunque non avrebbe potuto applicare il protocollo perché, acciocché sia efficace, quel protocollo di cura va somministrato entro tot ore, che erano più di quelle lungo le quali infermieri e dottori mi avevano mollata nella sala d’attesa del pronto soccorso.

Non ho mai partorito, ma alla vigilia d’un intervento (in clinica privata) per l’endometriosi ho detto all’anestesista (donna) che non volevo la spinale (mio padre era anestesista, e la sua storia del terrore preferita era la paralisi se ti sbagliano la spinale: grazie papà, tu sì che hai saputo lasciarmi i tabù giusti). Un attimo prima che entrassi in sala operatoria, la stronza è venuta a insistere, eh ma sennò poi devo farle più morfina, ma mi faccia la morfina e si faccia i cazzi suoi – che adesso lo dico perentoriamente ma lì singhiozzavo come chi è nella posizione di debolezza di una che ha paura pure dei prelievi di sangue e stanno per aprirle la pancia.

Non ho mai partorito, ma ho nel telefono dei filmati di una delle volte in cui sono stata in un pronto soccorso, nessuna delle quali per fortuna per cose letali. Ho dei filmati perché non c’era campo telefonico ma c’era il wifi (grande metafora di non so bene cosa), e agli amici preoccupati mandavo filmini della gente mollata assieme a me in una specie di deposito corpi non diagnosticati, molti (corpi) dei quali urlavano ininterrottamente.

Siete mai stati in un pronto soccorso? Urlano tutti, e nessuno fa quel che, se non sei mai stato in un pronto soccorso, ti sembra normale e naturale fare se qualcuno già malato urla: accorrere.

Medici e infermieri non accorrono perché sanno che sono falsi allarmi? Forse, ma poi ci sarà l’uno su mille che ha una vera emergenza (e pure se non ce l’ha: una volta una signora dall’apparente età di centoventi anni ha urlato che voleva l’acqua così a lungo che se ci ripenso mi sale la sete e l’angoscia e la voglia di prendere a schiaffi l’infermiera che poco più in là chiacchierava di linee di autobus con un’amica passata a trovarla).

Non accorrono perché se non hai tre dita di pelo sullo stomaco come diavolo fai a stare in mezzo a gente che sta male tutto il giorno e a non farti venire l’esaurimento? Forse. Mio padre, quando da piccola a cena mi lamentavo di qualcosa, rispondeva: che vuoi che sia, oggi abbiamo operato uno col cancro, l’abbiamo aperto e richiuso – e lo diceva col tono con cui io riferisco che Glovo mi ha portato il pranzo freddo.

E quindi questo non è un articolo sulla tizia il cui neonato è morto perché la mistica della maternità è persino più pervasiva di quella della bellezza, non lo è perché quel che c’è da dire sulle responsabilità del sistema l’ha già scritto Assia Neumann, ma soprattutto non lo è perché io non sono abbastanza sensibile da pensare al bambino morto: io penso alla madre viva, a una madre che ha per distrazione ucciso il figlio, al plotone di psicologi che spero le abbiano messo intorno, a una tragedia che persino Euripide o Sofocle avrebbero qualche remora a immaginare.

Non ho mai partorito, ma non è per questo che non parlo di come sarebbe meglio accudire le madri. Anzi, vi dirò: questa deriva dell’epistemologia identitaria non è la soluzione, è il problema.

Ormai siamo abituate, e quindi quasi non ci fa impressione la diffusa modalità per cui è autorizzato a parlare solo chi ha subìto il problema. L’altro giorno ho visto un filmato in cui una militante dell’Instagram sosteneva che se sei contrario all’aborto ti basta non abortire. Sotto, commenti d’entusiasta condivisione di questa miseria dialettica.

Non sarebbe un problema (il mondo è sempre stato costituito più da gente inabile dialetticamente di quanto lo fosse da Christopher Hitchens), non fosse che a quella militante lì la tv dà uno spazio per dire la sua sull’attualità, che per quella militante lì le case editrici stanno facendo un’asta per farle rilegare i suoi penzierini e farne un’intellettuale, una filosofa, una che legittimamente può sentirsi pensatrice di professione, una di quelle che gli americani chiamano pomposamente published author. Una che fa il mio stesso mestiere, che il dio del fare fatturato purchessia fulmini gli editori.

Quindi, se una troppo scema per capire che chi è contro l’aborto pensa si tratti di assassinio, e per questa metà della popolazione dire «e allora non farlo» è come dire che non servono leggi contro la pedofilia, «se sei contrario, non scoparti i bambini», se una così è una che io dovrei considerare interlocutrice alla pari, non è che possiamo prendercela con le disgraziate qualunque.

Disgraziate qualunque che ieri, a commento del dibattito sul neonato morto e le ostetriche stronze e le madri stanche e il sistema che non funziona, twittavano elogi ai loro ginecologi che ammettevano di non sapere niente del parto essendo (orrore) maschi che non l’avevano «vissuto per esperienza diretta».

Se non scartassi molti interventi social pensando «ma questo può essere un articolo» (e molti articoli pensando «ma questo può essere un libro»), avrei risposto alla signora che l’epistemologia identitaria, ovvero l’idea che il ginecologo conosca ciò che ha vissuto e non ciò che ha studiato, ci ha portate fin qui: alla mistica della maternità, del se-non-sei-madre-non-puoi-capire, dell’allattamento al seno che guai se non lo fai, come vivessimo nella foresta e al neonato servissero anticorpi a infezioni che il Napisan e gli antibiotici non conoscono.

Non ho mai partorito e non ho mai voluto figli, ma solo per caso non mi è capitato quel che accade a molte (saltate queste righe se la vostra identità di madri è una vocazione religiosa): d’innamorarmi di uno che i figli li vuole, e di assecondarlo.

In quel caso sono però abbastanza certa di come sarebbe andata, con la sicumera che ho quando non sono sul tavolo operatorio: li avrei adottati. Questo nella migliore delle ipotesi: ho un’amica di buoni studi e apparente equilibrio psichico che è quasi morta di parto perché, nonostante si sapesse che aveva molti problemi, il marito ci teneva troppo che il figlio avesse il suo dna per optare per l’adozione. Sì, in questo secolo.

Nell’ipotesi in cui anch’io fossi stata accondiscendente come la mia amica, e ridotta quindi alla gestazione, poi però cesareo e latte artificiale. Invece di pensare che la qualità della vita delle madri la faccia lo stipendio alle casalinghe, iniziamo a pensare che non è normale, nel ventunesimo secolo, farsi squarciare le innominabilità da quattro chili d’essere vivente e farsi sanguinare i capezzoli per nutrirlo. Si è sempre fatto così? Eh, si è anche sempre andati a cavallo e morti di vaiolo: ci si evolve.

Però. Però a me piacerebbe dire, come dice Eugenia Roccella, «Non credo che le donne siano deboli» – ma mentirei, considerata la mia amica che quasi muore perché il padre del feto vuole il sangue del suo sangue e le piume delle sue piume, considerate quasi tutte le donne che osservo da tutta la vita.

Credo invece che le donne siano abituate a considerare la debolezza uno strumento seduttivo, e che quindi i figli vengano lasciati con una madre esausta sì perché le linee guida sono una puttanata (ho solo dodici parole per voi: ma voi ve lo ricordate come l’Oms ha gestito la pandemia?), sì perché sono appunto esauste, ma anche per la ragione per cui le donne non chiedono più soldi al datore di lavoro: perché preferiscono essere benvolute che averla vinta. L’ha scritto ieri Assia, ed essendo mitomane sono convinta l’abbia capito osservandomi: il brutto carattere ti salva la vita (e il fatturato).

Sì, lo so che non posso liquidare l’Oms in quella parentesi. Lo so che c’è un problema di valutazione del principio di autorità, che nei secoli scorsi era dato dal fatto che i medici erano quelli che avevano studiato, e noi eravamo quelli che zappavano la terra e non avevamo gli strumenti culturali per metterli in discussione. In questo, di secolo, c’è stato un carpiato del dibattito culturale: siamo quasi tutti laureati, e tutti terrorizzati di dire che i medici sono incapaci. Un po’ perché la categoria è stata santificata dai sacrifici-fatti-durante-la-pandemia (cioè: dall’aver fatto né più né meno che il suo lavoro); un po’ perché nessuno vuole sembrare il picchiatello laureato all’università della vita che pensa di saperla più lunga di chi ha studiato la materia. Ma la materia sua l’ha studiata anche Orsini: nell’epoca in cui la laurea è più diffusa dei tatuaggi, mi pare evidente che non basta a certificare alcuna competenza (una laurea italiana, poi: un paese dove 30 può prenderlo anche uno che non conosce l’ortografia).

Oltretutto, diversamente dall’ingegnere che se progetta un ponte che poi crolla è proprio asino, il medico procede per tentativi: i metodi di cura cambiano nel tempo, e anche questo è un problema comunicativo. Meno di un anno fa l’ostetrica a capo del Royal college of Midwives si è scusata perché la linea-guida che pretendeva meno parti cesarei (negli ospedali inglesi fare più parti naturali faceva crescere la valutazione della struttura) aveva preso una deriva ideologica, non ti facevano il cesareo neanche se era l’opzione più sicura, e ne erano ovviamente derivati casi così agghiaccianti che non sto a descriverveli.

Il metodo scientifico è prendere una decisione, vagliarne i risultati, cambiare idea. Il metodo social è dire «no ma noi non abbiamo mai detto che i vaccini non vi avrebbero fatti ammalare», come gli archivi dei giornali non fossero a disposizione di tutti, perché ammettere che la medicina è una scienza inesatta – e che un vaccino progettato in tre quarti d’ora lo scopri vivendo che limiti ha, e cara grazia se ti evita di crepare – non appare una linea spendibile nell’epoca dei picchiatelli saperlalunghisti.

E quindi?, chiederanno coloro che non mi hanno mai letta e pensano di trovare risposte, oltre alle domande, in questo prolisso sproloquio. E quindi io mica lo so come se ne esce. So come non se ne esce: invocando epidurali fuori orario come se non servissero soldi per assicurarle (la polemica e le campagne elettorali, nel tempo che viviamo, sono due passatempi accomunati dal fatto che chi le fa non tiene mai conto del fatto che le risorse sono una quantità limitata). E so che per fortuna non ho mai partorito. Per fortuna ho sempre avuto un carattere così brutto che nessuno si è intestardito a volerlo far ereditare alla sua prole. Per fortuna, per il brutto carattere, non serve allocare un budget.