Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

 

ANNO 2023

FEMMINE E LGBTI

SECONDA PARTE


 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO


 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2023, consequenziale a quello del 2022. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.


 

IL GOVERNO


 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.


 

L’AMMINISTRAZIONE


 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.


 

L’ACCOGLIENZA


 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.


 

GLI STATISTI


 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.


 

I PARTITI


 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.


 

LA GIUSTIZIA


 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.


 

LA MAFIOSITA’


 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.


 

LA CULTURA ED I MEDIA


 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.


 

LO SPETTACOLO E LO SPORT


 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.


 

LA SOCIETA’


 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?


 

L’AMBIENTE


 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.


 

IL TERRITORIO


 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.


 

LE RELIGIONI


 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.


 

FEMMINE E LGBTI


 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.


 


 

FEMMINE E LGBTI.


 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI. (Ho scritto un saggio dedicato)

PRIMA PARTE


 

Il Sesso.

Il Maschio.

Le Femmine.

La Bellezza.

Il Reggiseno.

Le Mestruazioni.

La Menopausa.

Travestiti o Drag Queen.

I Transessuali.

Gli Omosessuali.

La Digisessualità.

La Sexsomnia.

Perversioni e Feticci.

Il Sesso Orale.

Il Sesso Anale.

Durante il sesso.

Mai dire…porno.

Mai dire…prostituzione.

Il Gang Bang.

I Poliamori.

Lo Scambismo.

San Valentino e la Monogamia.

Gelosia e Tradimento.


 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI. (Ho scritto un saggio dedicato)


 

SECONDA PARTE


 

La Molestia.

Il Metoo.

Il Revenge Porn.

Il Revenge Song.

Lo Stupro.

La Violenza e gli Abusi. Femminicidi e Maschicidi.

Gli Stalker.


 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI. (Ho scritto un saggio dedicato)


 

TERZA PARTE

Il Padre.

La Madre.

Quelli che…mamma e papà.

I Figli.

Il Figlicidio.

 


 

FEMMINE E LGBTI

SECONDA PARTE


 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Le discriminazioni.

Il caso Joe Formaggio.

Le discriminazioni.

Estratto da lastampa.it il 23 Febbraio 2023.

Il giornalista australiano JohnPaul Gonzo ha ricevuto un bacio in diretta da una passante, durante la registrazione di un servizio in Moldavia per il canale australiano 10 News First. […] Fuori programma che ha fatto sorridere molti follower di Gonzo, ma non sono mancate le polemiche: alcuni commenti hanno infatti evidenziato che se i ruoli fossero stati invertiti si sarebbe parlato di molestie sessuali.

Estratto dell’articolo di Camilla Mozzetti per “il Messaggero” il 10 febbraio 2023

Si doveva controllare, verificare se quell'allenatore avesse i requisiti, non soltanto tecnici, per stare a contatto con dei minori. Lo sancisce la legge e, a meno che questa non sia carta straccia, dovrebbe essere rispettata.

 Perché se è vero che la responsabilità penale è sempre personale, chi sa e non parla, chi ipotizza e non accerta né fa nulla per dipanare dei dubbi voltandosi invece dall'altra parte, quantomeno potrebbe essere ritenuto complice.

 Ed è per questo che la Federazione italiana pallacanestro ha aperto un'inchiesta interna per chiarire la posizione della società di basket capitolina "Stella Azzurra" e il suo operato di verifica nei confronti dell'allenatore Paolo Traino, 55enne, arrestato con l'accusa di molestie sessuali compiute almeno su un ragazzino di 13 anni nel 2020 quando ricopriva il ruolo di "coach" nella giovanile della società.

L'uomo al termine di una lunga indagine è stato arrestato dagli agenti di polizia della IV sezione della Squadra Mobile di Roma, stava rientrando in Italia da un viaggio in un paese asiatico. Non ha opposto resistenza ma ieri, nell'interrogatorio di garanzia, si è avvalso della facoltà di non rispondere. «Tutto ha una spiegazione - avrebbe detto l'uomo - quando mi sentirò meglio riuscirò a parlare».

 […]

L'uomo già nel 2018 era stato condannato dal gup di Perugia (in rito abbreviato) a due anni per molestie e abusi su minori. All'imputato era stato impedito di svolgere lavori che prevedessero contatti con i minori. Prima ancora della condanna nel 2015 Traino si dimise dalla società perugina "Basket academy" (che pure contribuì a realizzare unendo tante piccole società di zona) ma un anno dopo trovò un nuovo impiego nella "Stella Azzurra".

 La condanna è divenuta definitiva lo scorso dicembre ma il 55enne, nel mentre, ha continuato ad allenare. E in base alla legge chiunque «intenda impiegare al lavoro una persona per lo svolgimento di attività professionali o attività volontarie organizzate che comportino contatti diretti e regolari con minori» deve richiedere, prima dell'assunzione, il certificato del casellario giudiziale della persona in questione.

Ovvero deve controllare la sua fedina penale. Questo controllo non è dovuto in caso di assenza di contratto ma Traino era un collaboratore regolare con l'ultimo contratto scaduto il 30 giugno 2022, al termine della fine della precedente stagione sportiva.

[…] L'allenatore ha preso parte al camp estivo a Montalto di Castro. Giusto qualche lezioni, nulla di più, precisano dalla società […] Due collaboratori della società di basket nel 2020 segnalarono dei comportamenti non opportuni che, stando all'indagine della Mobile, si sarebbero consumati dentro alla foresteria dove risiedeva sia l'allenatore che molti ragazzi fuori sede. […]

 Estratti dell’articolo di Riccardo Caponetti Marco Carta per la Repubblica – Roma il 10 febbraio 2023

Otto anni dopo una condanna di due anni per molestie su minori, l’allenatore di pallacanestro Paolo Traino, fino all’estate scorsa sotto contratto con la Stella Azzurra, viene arrestato di nuovo. Con una grave accusa: violenza sessuale e continuata su atleti minorenni. La vittima, un ragazzo che oggi ha 17 anni, all’epoca dei fatti ne aveva 13, ma nel corso delle indagini sono diversi i ragazzi molestati dall’allenatore.

(..)

« Fai come ti dico io e vedrai che ce la fai » . Secondo le prime ricostruzioni degli inquirenti, Traino carpiva la fiducia dei giovani cestisti nella foresteria della Stella Azzurra con scuse di ogni tipo, dal ripasso di alcuni schemi a massaggi fisioterapici, nonostante non avesse alcun attestato a riguardo. Una volta in casa, da soli, esercitava il proprio potere su di loro. Ragazzi spesso stranieri, venuti a Roma per giocare a basket senza la famiglia. Sfruttava l’assenza dei genitori per assumere una figura paterna. Anche attraverso minacce: «Se denunci o ti rifiuti, non giochi».

(...) L’inchiesta è partita nel 2020, in seguito ad alcune segnalazioni di collaboratori della Stella Azzurra, insospettiti da strani comportamenti di Traino, da molto tempo nel mondo del basket italiano: nel 2013 ha ricevuto premi e targhe in qualità di Presidente della Commissione Regionale Umbria e formatore nazionale di giovani istruttori. Poi, nel 2015, la condanna di due anni per molestie - scontata in parte ai domiciliari prima di ritrovare la libertà - quando ricopriva il ruolo di presidente della Perugia Basket Academy.

« Non sono un pedofilo, sono solo molto affettuoso » , si era difeso l’uomo nel corso del processo in cui era stato condannato a due anni. Una pena che non ostacolato la sua carriera. Lascia Perugia e va a Roma, dove inizia a darsi da fare sul parquet della Stella Azzurra a Corso Francia. Qui trova lavoro presso la prestigiosa società romana, che vanta circa 400 tesserati e 50 atleti ospitati nella foresteria. « Lui ha iniziato a lavorare qui 9 o 7 anni fa. Abbiamo appreso la notizia questa mattina, non sapevamo nulla e non abbiamo notato mai nulla di strano», dicono da Corso Francia, sottolineando di non essere a conoscenza del passato giudiziario di Traino e dei suoi comportamenti, nonostante le segnalazioni siano partite proprio dai collaboratori della scuola.

 L’allenatore, però, sarebbe stato licenziato a inizio anno « per divergenze tecniche » . Un dettaglio non indifferente secondo gli inquirenti: l’uomo era stato condannato nel 2018 per molestie a Perugia. E la condanna era divenuta definitiva lo scorso dicembre: la pena prevedeva l’inibizione perpetua dal lavorare a contatto coi minori. Da dicembre Traino, insomma, non poteva più allenare. Ma nessuno dei genitori era stato avvisato.

Da tgcom24.mediaset.it il 21 dicembre 2022.

La pacca sul sedere è violenza sessuale, ma non se viene data con il dorso della mano e se la "durata del contatto" è "fugace". Lo stabilisce il Tribunale di Lecce, che ha archiviato il procedimento penale nei riguardi di un 51enne di Spongano accusato di aver toccato il fondoschiena di una commessa di 25 anni. 

La vicenda, raccontata dal "Giorno", si riferisce a un episodio avvenuto il 22 giugno 2022, per il quale l'uomo venne denunciato dalla giovane ai carabinieri. Se la pacca sul sedere viene qualificata come violenza sessuale secondo l'orientamento della Cassazione, esistono infatti eccezioni già chiarite dagli "ermellini" nella loro sentenza numero 35.473 del 2016. Tra le "variabili" ci sono proprio la durata del contatto e il modo in cui la mano tocca il sedere della vittima.

La giudice del Tribunale di Lecce, Simona Panzera, ha optato per l'archiviazione proprio per questi due dettagli della vicenda. Nel fascicolo dell'inchiesta finirono i filmati ripresi dalle telecamere del negozio che immortalarono l'azione: si vede il cliente che, mentre percorre la corsia dei prodotti frigo, poggia il dorso della mando sul sedere della donna, che lui conosceva, intenta in quel momento a sistemare la merce su uno scaffale. 

Gesto fulmineo e dorso della mano - I video hanno consentito ai magistrati di stabilire con certezza che il gesto fu fulmineo: durò soltanto una frazione di secondo. Dopo la chiusura delle indagini preliminari, la difesa aveva chiesto e ottenuto un interrogatorio con il magistrato. In seguito al confronto il pm, condividendo le argomentazioni della difesa, aveva chiesto l'archiviazione, pur definendo quel gesto immorale, volgare e irrispettoso.

"Non si tratta di un palpeggiamento, facendosi in tal caso riferimento al toccamento con il palmo delle mani, e non si tratta neppure di un toccamento lascivo, facendosi in tal caso riferimento a quei toccamenti che manifestano libidine", ha notato il pubblico ministero, che ha chiarito: "Sul punto la giurisprudenza appare univoca nel ricondurre al sintagma 'atti sessuali', in virtù del principio di oggettività e tassatività della fattispecie, non ogni contatto corporeo con zone erogene della persona offesa, ma solo quei palpeggiamenti o quei toccamenti a connotazione lasciva. Pertanto non può qualificarsi come lascivo il toccamento del gluteo attuato con il dorso della mano".

Da “Libero quotidiano” il 21 dicembre 2022.

La pacca sul sedere? È violenza sessuale, ma non sempre. Gli ermellini nel 2016 avevano chiarito che molto dipende dalla durata del contatto, se prolungato o fugace, e dal modo in cui la mano tocca il lato B della vittima, se col palmo o col dorso. Così, giorni fa, la giudice del Tribunale di Lecce Simona Panzera, come riporta il sito Lecceprima, ha archiviato il procedimento penale nei confronti di un 51enne di Spongano accusato di aver toccato il fondoschiena di una commessa lo scorso giugno. 

L'uomo aveva poggiato in modo fulmineo il dorso della mano sulla zona intima di una ragazza intenta a sistemare della merce sullo scaffale. Il tocco, della durata di meno di una frazione di secondo, e il fatto di aver usato il dorso della mano, ha fatto concludere che non era un palpeggiamento. Da qui l'archiviazione del caso.

Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 21 dicembre 2022.

Niente è peggio che far parte di una maggioranza, e andò esattamente così quando la telecronista Greta Beccaglia si prese una pacca sul sedere fuori dallo stadio Castellani di Empoli (27 novembre 2021) e da queste parti scrivemmo che era stata solo una volgare bravata, una cronaca minore scappata di mano, qualcosa che non meritava un serio dibattito sulla violenza sessuale e, tantomeno, la crocifissione di un «paccatore» alla «Amici miei» (un ristoratore) che divenne un perseguitato mentre la telecronista vincolava per sempre la sua carriera a una pacca sul sedere di cui parlò in trecento trasmissioni televisive.

Ora, come allora, tocca far parte di una maggioranza: quella che giudica abnorme la decisione dei giudici di condannare il «violento sessuale» a un anno e sei mesi con sospensione del carcere (il pm voleva 6 anni di galera) a patto che risarcisca decine di migliaia di euro ai più vari soggetti, ma, soprattutto, segua «percorsi di recupero» in compagnia di simpaticoni che la violenza sessuale l'hanno praticata sul serio. Che cosa resta? Un padre di famiglia rovinato (nonostante si sia scusato cento volte nelle maniere più umilianti), una tragedia prettamente giornalistica, la piccola rivalsa sociale di una cronista vestita da pin up e, personalmente, la sospensione da un social network con accuse di «victim blaming» che non so ancora che cazzo sia.

Da areanapoli.it il 21 dicembre 2022.

Il tifoso che palpò la giornalista Greta Beccaglia dopo Empoli-Fiorentina è stato condannato a una pena di un anno e sei mesi per violenza sessuale. Di tale decisione se ne è parlato nel corso della puntata odierna de La Zanzara in onda su Radio 24. Sull'argomento è intervenuto Giuseppe Cruciani: "La vicenda della palpata a Greta Beccaglia. Questo signore è stato condannato oggi a un anno e 6 mesi e dovrà anche risarcire la giornalista. Secondo voi uno può essere condannato a un anno e 6 mesi per una cosa del genere?".

Cruciani ha poi aggiunto: "La palpata a Greta Beccaglia può essere giudicata una violenza sessuale ? Ha commesso un errore, ha dato un buffetto veloce che non è una violenza sessuale. Qualsiasi cosa ormai è un pericolo anche una bravata diventa un anno e 6 mesi. Io dico solo Vergogna! Questo qua è stato condannato per un semplice motivo, per dare un esempio, non c'è altro motivo". 

Sull'argomento è intervenuto anche David Parenzo con tesi opposte a quelle di Cruciani: "Al pubblico ludibrio si è messo lui. E' lui che davanti a milioni di persone ha deciso palpeggiare il sedere di una persona che stava lavorando e quindi è giusto che venga condannato!".

Da “la Zanzara - Radio 24” il 23 dicembre 2022.

Il Sottosegretario alla Cultura Vittorio Sgarbi, a La Zanzara su Radio 24, attacca la sentenza del Tribunale sul caso Greta Beccaglia: “Ci sono le multe pecuniarie per dei reati degni di attenzione. Basta che uno sappia che se tocchi il culo a una donna senza volontà di modestia, questo atteggiamento strafottente diventa una multa da 500/1000/2000 euro. A quel punto troverai tanti culi in offerta per avere questi soldi” 

E ancora attacca: “Il paradosso è che una ragazza intelligente può indignarsi ma se questa viene risarcita ne hai di culi che si offrono. Io sono uomo se mi toccano il culo non denuncio nessuno” 

A me gli omosessuali - continua Sgarbi a La Zanzara - mi hanno toccato le palle. Lui (Serrani ndr) non l’ha attaccata, era una ingiuria, un atteggiamento di disprezzo. Non c’era molestia ne attacco. Se un gay mi tocca le palle lo fa per dire che siamo uguali. Non è una molestia e nemmeno una violenza, è una volgarità” 

Poi commenta ancora la sua proposta: “Cinque anni di rieducazione come dice lei  - continua Sgarbi -nemmeno nel nazismo. Quello è un cretino che ha fatto un gesto beffardo e di spregio. Se a una donna gli dici che i soldi vanno a te con una pacca ne puoi indurre molte a dire 500 euro valgono uno schiaffo sul culo. Le donne sono umiliate in lavori dipendenti molto peggiori rispetto a quel gesto. Una che fa le pulizie è umiliata perché fai cose che tu non faresti” 

E infine il Sottosegretario conclude: “L’omosessuale che mi è simpatico, come Cerno, mi tocca le palle ma non lo denuncio. Alle donne che mi hanno toccato il culo ho sorriso. Se dico a uno stronzo, pago una multa. È una ingiuria. Lei non può dirsi molestata ma disprezzata, preferirei una multa rispetto al carcere e avremmo 

Se dico a uno stronzo, mi fanno pagare una multa. È una ingiuria. Non facciamo la morale, quello è un cretino che ha voluto lei non può dirsi molestata ma disprezzata. Preferirei una multa rispetto al carcere e avremmo persone con 500/1000 euro che offrono il culo”

Da lanazione.it il 21 dicembre 2022.

È di 1 anno e 6 mesi per violenza sessuale la condanna inflitta al termine del giudizio in abbreviato al ristoratore marchigiano Andrea Serrani, accusato di avere molestato la giornalista Greta Beccaglia. Il giudice ha disposto la sospensione della pena per 5 anni subordinandola alla partecipazione dell'imputato a percorsi di recupero. La reporter era impegnata in una diretta al termine del match Empoli- Fiorentina, all'uscita dallo stadio Castellani di Empoli la sera del 27 novembre 2021.

Serrani dovrà risarcire la giornalista, ma intanto verserà una provvisionale di 15mila euro. Indennizzi, per 10mila euro complessivi sono stati stabiliti anche a favore dell'Ordine nazionale dei giornalisti e all'Associazione della stampa nazionale e toscana.

Marco Gasperetti per il “Corriere della Sera” il 21 dicembre 2022.Greta ha vinto la sua battaglia. «Che non è soltanto mia ma di tutte le donne. Nessuno ha il diritto di violare i nostri diritti, di considerare il nostro corpo come un trofeo; nessuno deve più umiliarci, denigrarci, considerarci un oggetto. Nessuno», dice e quasi si commuove.

 «Nessuno», stavolta, ha anche un nome: si chiama Andrea Serrani, 47 anni, ristoratore della provincia di Ancona. È stato appena condannato a 1 anno e mezzo di carcere per violenza sessuale (pena sospesa con obbligo di frequentare un corso di riabilitazione psicologica) nei confronti di Greta Beccaglia, 28 anni, giornalista sportiva che lo scorso anno durante una diretta tv al termine della partita tra Empoli e Fiorentina fu palpeggiata da Serrani, tifoso viola.

Lei non riuscì neppure a difendersi. Umiliata e mortificata, con il microfono in mano e la videocamera che aveva filmato la violenza, disse all'uomo che questa cosa proprio non la doveva fare. 

Il tribunale di Firenze, con rito abbreviato, ha anche condannato il tifoso a pagare 10 mila euro di provvisionale alla giornalista e 5 mila euro all'Ordine dei giornalisti e Fnsi (il sindacato dei giornalisti) che si erano costituiti parte civile. È una sentenza innovativa che, dicono gli esperti, farà giurisprudenza.

Soddisfatta della sentenza?

«Sì, sono contenta, non solo per me ma per tutte le donne. Però i soldi non li voglio, neppure un centesimo. Andranno a una onlus che combatte per i diritti violati delle donne in tutto il mondo. C'è da fare moltissimo e sarà un piccolo ma sincero contributo».

Lei l'ha perdonato?

«Non è importante che io lo perdoni. È lui stesso che deve perdonarsi. Mi ha sorpreso alle spalle, ha sputato sulla sua mano e mi ha palpeggiato, un atto terribile, di estremo maschilismo. Spero che abbia capito il male che mi ha fatto, e che questa condanna sia di esempio. Confido che finalmente una donna possa essere libera di fare il suo lavoro senza essere molestata. Non provo odio nei suoi confronti, solo tristezza».

Le ha chiesto scusa?

«Non personalmente, non ci ho mai parlato. So che lo ha fatto in televisione, ma non mi interessa. Vorrei invece che ciò che è successo serva a far capire a lui e a tanti altri che toccare, oltretutto con violenza, il sedere a una donna, è un gesto abominevole e non un atto goliardico. Non c'è niente di allegro, nulla di carnevalesco. È solo un atto di terribile umiliazione. Una violenza». 

C'è chi non lo ha ancora capito?

«Tanti, un esercito. Continuo a ricevere messaggi, anche in questo momento, di persone, anonime, che mi accusano di aver rovinato una persona, di essere una ragazza cattiva, senza cuore. Dicono che la colpa è mia perché mi sono messa troppo in mostra, scrivono che lui voleva scherzare. Mi sembra di essere tornata indietro nel tempo. La colpa è sempre delle donne». 

Ha ricevuto anche minacce?

«Sì, purtroppo, molte e odiose. Anche contro la mia famiglia. In una missiva era stata allegata la foto di un uomo nudo. Ne ricevo continuamente ancora oggi. Ma resisto, non mi piego. Sono forte, come mia mamma Ingrid». 

Che le ha detto la mamma?

«Mi ha abbracciato. Mi ha detto di essere felice e di stare serena dopo aver sofferto tanto. "Brava Greta non hai avuto paura e hai dato un buon esempio alle donne che lottano", mi ha sussurrato. Ma io non voglio essere considerata una paladina. Ho fatto solo il mio dovere di donna e di giornalista. Ho avuto anche la fortuna di avere un compagno fantastico, mi ha aiutato molto, mi ha dato ancora più forza». 

E lui come l'ha presa?

«Mi è sempre stato vicino, ha capito che la mia battaglia non era per odio e peggio per soldi che, ripeto, andranno tutti la beneficienza. Lui non toccherebbe mai una donna. Penso che sia l'esempio di un nuovo inizio».

Mondiali, giornalista palpato da una tifosa in diretta tv: "Mi ha toccato il c..." Il Tempo l’08 dicembre

Una sorta di caso Greta Beccaglia, la giornalista toscana molestata in diretta tv davanti allo stadio mentre era in collegamento, ma al contrario e che alla fine si è risolto tra grasse risate. Il protagonista è Tancredi Palmeri, giornalista di SportItalia inviato ai Mondiali in Qatar per l'emittente televisiva. Durante un collegamento da Doha una tifosa passa alle sue spalle e gli palpa il sedere mentre l'inviato aggiorna in diretta sulle notizie dal mondiale. La reazione del giornalista è tutt'altro che risentita. “Mi ha appena toccato il c***”, afferma e comincia a chiamare la ragazza per farla intervenire davanti alle telecamere: "Come here!". Poco dopo chiama anche la sua amica, con cui inizia una piccola intervista.

Si scopre che quella che gli ha toccato il fondoschiena è neozelandese, mentre l’amica proviene dal Regno Unito. Palmeri ha preso la curiosa situazione sul ridere, con il conduttore da studio che chiede il Var per isolare il momento esatto della palpata in diretta. Il video del siparietto è stato diffuso dallo stesso Palmieri che ha commentato: "Niente da vedere quì. Solo una ragazza neozelandese in bikini a Doha che mi stringe il sedere mentre sono in diretta, chiedendo poi supporto alla sua amica gallese, per concludere infine il segmento sorseggiando birra dalla spiaggia di Doha".

Qatar 2022, Palmeri palpato in diretta: "Me lo ha appena toccato". Libero Quotidiano l’08 dicembre 2022

Tancredi Palmeri è l’inviato in Qatar per Sportitalia. Durante un suo collegamento da Doha, una tifosa è passata alle sue spalle e per la sorpresa di tutti gli ha palpato il sedere. Un gesto goliardico che il giornalista ha trasformato in un simpatico siparietto: ha infatti invitato la ragazza ad avvicinarsi e poi ha fatto lo stesso con una sua amica, facendo una rapida “intervista” a entrambe. 

La “palpatrice” è neozelandese, mentre l’amica proviene dal Regno Unito. La dinamica è stata curiosa, con la ragazza che è passata rapidamente alle spalle di Palmeri e quest’ultimo che ha fatto una faccia stranita per poi fermarsi ed esclamare: “Mi ha appena toccato il c***”. La ragazza allora è scoppiata a ridere e gli ha chiesto con chi stesse parlando, scoprendo poi che era in collegamento diretto con la televisione italiana. Palmeri non ha dato troppo peso all’accaduto, ci ha scherzato su e poi ha salutato le due donne, tra l’altro pure attraenti.  

In studio si è poi riflettuto come in passato siano accaduti episodi spregevoli in cui giornaliste sono state molestate: “In passato è successo un atto da condannare - ha ricordato Michele Criscitiello - quando c'era una giornalista bravissima, che mentre faceva il collegamento, un tifoso un po' volgarotto ha messo la manina. Questa volta è successo al contrario, è una notizia secondo me”. 

CULO NON VALE CULO – IL “CORRIERE DELLA SERA” CI SPIEGA CHE LA PALPATA SUL SEDERE A TANCREDI PALMERI E QUELLA A GRETA BECCAGLIA NON SONO PARAGONABILI: “BASTA RICORDARE IL CONTESTO IN CUI È SUCCESSO TUTTO, E LA DIVERSA FORZA CHE AVEVANO I DUE PROTAGONISTI”. MA IL VERO MOTIVO NON È IL CONTESTO, NÉ LA FORZA, MA IL GENERE: SE TI DANNO UNA STRIZZATA ALLE CHIAPPE E SEI DONNA, È MOLESTIA. SE SEI UOMO, T’ATTACCHI AL CAZZO (RICORDATE IL CASO BLANCO 

Elvira Serra per il “Corriere della Sera” il 12 dicembre 2022.

Tancredi Palmeri è un giornalista sportivo. Ha 42 anni ed è una persona autoironica e divertente, che sa prendere con leggerezza le cose che sono leggere e con gravità quelle più serie. 

Come ha fatto qualche giorno fa a Doha, da dove sta seguendo per SportItalia i Mondiali di calcio. Nel bel mezzo di una diretta sulla spiaggia, una ragazza neozelandese gli ha assestato soavemente una pacca su sedere, lui ha strabuzzato un poco gli occhi e in mezzo secondo le ha chiesto di avvicinarsi alla telecamera, invitando anche l'amica gallese, riuscendo così a trasformare l'inconveniente in un siparietto da avanspettacolo.

Poche ore dopo sul web, dove lui stesso aveva rilanciato il video spiegando che non era successo niente di più di quello che mostrava il filmato (una tifosa in bikini che fa quel che fa, con il finale di una birra sotto l'ombrellone), è diventato l'eroe dei due mondi, con il merito di aver reagito all'imprevisto «con spirito, mica le solite fregnacce da femministe racchie e baffute». 

Il rimando era al caso di Greta Beccaglia, quando poco più di un anno fa, fuori dallo stadio di Empoli-Fiorentina, il ristoratore marchigiano Andrea Serrani le aveva dato uno schiaffone su sedere (l'uomo, accusato di violenza sessuale, ha chiesto il rito abbreviato: la prossima udienza al Tribunale di Firenze sarà il 20 dicembre). Lo stesso collega di Palmeri in studio aveva ricordato subito quanto successo alla «bellissima», poi per fortuna «bravissima anche », giornalista di Toscana Tv, condannando naturalmente il gesto.

Da lì, sui social, è partita la domanda delle domande: perché le femministe adesso, a ruoli invertiti, non dicono nulla? Ma poiché ogni risposta nasconde un'insidia, che richiederebbe una controreplica ancora più insidiosa, forse basta ricordare il contesto in cui è successo tutto, e la diversa forza, che in quel momento avevano, i due protagonisti. 

Chiediamolo a Tancredi: si è sentito molestato? «No, e non perché lei fosse una bella ragazza, ma perché il clima era scherzoso. Mi è capitato, dopo il caso di Greta Beccaglia, che un tifoso mi desse una pacca sul sedere. Voleva fare il simpatico, ma fu solo sgradevole e inopportuno. Con le molestie non si scherza. Sonia, la tifosa di Doha, non è una sexual offender. Lo spirito del gesto era lo stesso di un baffo con la vernice rossa. Altrimenti la mia reazione sarebbe stata diversa».

Il caso Joe Formaggio.

La mano morta di Joe Formaggio. Ivano Tolettini su L’Identità il 10 Marzo 2023

Lo sceriffo de noialtri Joe Formaggio ama far parlare di sé. Nella buona come nella cattiva sorte. L’importante, questa è la sua filosofia, che se ne parli. Anche se in questa occasione ha esagerato. Fin da quand’era sindaco di Albettone, piccolo comune del Basso Vicentino al confine con la provincia di Padova, allorché si industriava per regalare un titolo ai cronisti che lo sfruculiavano e così alzare le sue quotazioni nella politica locale. Dalla battaglia per la legittima difesa, a tutela del benzinaio Graziano Stacchio che aveva ucciso con una fucilata un bandito durante un assalto a una oreficeria, alla rivendicazione di esporre il busto di Benito Mussolini. A forza di spararle grosse, si è beccato anche una condanna per istigazione all’odio razziale. Ma stavolta il 45enne consigliere regionale di Fratelli d’Italia si è messo in fuorigioco. A “denunciarlo” di avere oltrepassato il limite dell’educazione e del galateo, in poche parole di averla palpeggiata, è la collega della Lega Milena Cecchetto, vicentina pure lei, amica di vecchia data, anche perché è stata sindaca per dieci anni del comune di Montecchio Maggiore, che lo accusa di averla molestata. Il fatto sarebbe avvenuto niente meno che alla buvette del palazzo della Regione, a Venezia, la vigilia della festa delle donne davanti ad altri consiglieri regionali. All’origine del caso un abbraccio un po’ troppo insistito con sospetto di annessa manomorta. Forse Joe avrà modo di approfondire il suo articolato punto di vista nell’assise radiofonica dove viene spesso invitato, La Zanzara, dove con Cruciani e Parenzo si diverte a recitare con astuzia il ruolo del politicamente scorretto. Ma siccome ad additarlo al ludibrio dell’opinione pubblica è stata una donna notoriamente forte, una che certo non si impressiona, Formaggio è stato subito sospeso dal suo partito. E da Zaia ai vertici della politica regionale, di qualsiasi colore, è partito un coro di genuina solidarietà a sostegno di Cecchetto per il comportamento inaccettabile del collega. “La verità è che quello che è successo non è stato certo goliardia, anche perché sono rimasta pietrificata”, spiega per una giornata ai cronisti la leghista dura e pura, ribadendo che se è rimasta impressionata pure lei, donna “strutturata”, la battaglia culturale contro ogni violenza di genere, anche di fronte ad episodi in un tempio istituzionale della politica, è ancora molto lunga. Joe Formaggio, per chi non conoscesse la sua biografia, è tutt’altro che uno sprovveduto, una persona rozza come potrebbe superficialmente apparire. Sposato e padre di tre figli, laureato in ingegneria, manager commerciale di alto profilo del colosso dell’acciaio Valbruna, uomo di fiducia degli Amenduni, nel fine settimana lo potete trovare anche nella trattoria di famiglia a servire ai tavoli con simpatica teatralità. Come quella volta che affisse sulla porta del ristorante, all’indomani del crac della Banca Popolare di Vicenza guidata dal vignaiolo Gianni Zonin, il seguente cartello: “Si avvisa la gentile clientela di non chiederci vini del gruppo Zonin perché non li vendiamo”. I paesani lo amano per la sua veracità al limite dell’autolesionismo, come in questa vicenda davvero poco edificante con la collega Cecchetto. Insomma, sulla carta è un uomo di spessore, ma ama fare il guascone per arruffianarsi l’opinione pubblica, perché un po’ ci fa e un po’ ci è, cui piace vellicare i sentimenti del veneto medio, con sparate contro zingari, gay e neri, e che non più tardi di un mese fa alla fiera delle armi a Verona si è fatto fotografare imbracciando una mitraglietta. “Mi scuso con la collega Milena Cecchetto se c’è stata qualche incomprensione verbale o un gesto male interpretato, respingo però ogni accusa di molestia fisica”, sottolinea Formaggio all’indomani che il caso è diventato di dominio pubblico e che si è meritato anche il Caffè di Massimo Gramellini sul Corriere della Sera. Ripetiamo, per lui questa volta sarà più complicato uscirne indenne sul piano politico perché da Roma è sceso in campo anche Giovanni Donzelli, che annuncia che il caso Formaggio finisce alla Commissione disciplina del partito. Del resto, la premier Giorgia Meloni non l’ha certa presa bene, perché sulla violenza di genere, di qualsiasi livello sia, ma a maggior ragione se in ambito istituzionale, non si scherza. Com’è giusto che sia. Al di là degli eventuali profili giudiziari che al momento non paiono profilarsi perché Cecchetto non avrebbe intenzione di passare dalla denuncia etico-politica a quella penale. “Certo stavolta è stato superato il segno, ed ho deciso di parlarne pubblicamente perché tutte le donne devono sempre segnalare ogni forma di violenza”, chiosa Cecchetto. Delusa e ancora arrabbiata.

«Il meloniano Joe Formaggio mi ha molestata»: la denuncia della consigliera della Lega in Regione Veneto. Il politico e consigliere regionale per Fratelli d’Italia in Veneto, spesso al centro delle polemiche, accusato di aver palpeggiato Milena Cecchetto fuori dall’aula consiliare. Unanime la condanna dal mondo politico. Simone Alliva su L’Espresso l’8 marzo 2023.

È proprio nella giornata mondiale nata per ricordare le conquiste sociali, economiche e politiche raggiunte dalle donne che esplode il caso tutto interno alla destra.

Il consigliere regionale del Veneto, Joe Formaggio (Fdi) viene accusato di aver compiuto atti molesti nei confronti di una collega, la leghista Milena Cecchetto, durante una pausa all'esterno dell'aula consiliare.

L'episodio, riferiscono i quotidiani locali, sarebbe avvenuto nel pomeriggio di mercoledì a Palazzo Ferro Fini, sede del Consiglio regionale, nell'anti-aula, in un divanetto dove i due si sono seduti e hanno parlato per qualche momento. In quel frangente Formaggio avrebbe palpeggiato platealmente la collega.  L'esponente di Fdi è noto per esternazioni e atteggiamenti provocatori, come una recente visita a una fiera di armi dove si è fatto ritrarre mentre imbracciava un mitra. «Nella mia vita, politica e personale - ha dichiarato la consigliera leghista - sono sempre stata in grado di difendermi. Conosciamo tutti il carattere esuberante di Joe Formaggio: quello che è successo oggi è però inqualificabile ed inaccettabile. Sono molto delusa e amareggiata da un comportamento del genere: essere stati colleghi da sindaci prima e oggi da consiglieri non giustifica un comportamento così aggressivo ed irruento. Ogni donna ha un proprio confine del rispetto e della sensibilità: oggi sono sconcertata perché quel limite il collega con me lo ha superato».

Da parte sua Formaggio ha sostenuto di aver «spinto giù sul divano» Cecchetto, «ma era tranquilla, ho preso il suo posto. Poi sono andato via, un bacio sulla guancia, come sempre. Manate sul sedere? Falso».

Sulla vicenda il presidente del Consiglio regionale Roberto Ciambetti ha chiesto delucidazioni ai due capigruppo, Alberto Villanova (Lega) e Enoch Soranzo (FdI).

Mercoledì il presidente del Consiglio regionale del Veneto, Roberto Ciambetti ha convocato l'Ufficio di presidenza «che esaminerà la vicenda». Intanto, «a titolo personale, esprimo la mia vicinanza e solidarietà alla collega Cecchetto e a tutte le donne vittime di una perversa cultura anacronistica, che può esprimersi anche in atteggiamenti o attenzioni non richieste, solo in apparenza innocue, ma purtroppo ugualmente violente per chi le subisce».

Intanto arriva netta la presa di posizione delle consigliere regionali delle opposizioni: «I fatti si configurano come gravemente lesivi: chiaramente ed in primo luogo nei confronti di Milena Cecchetto. Ma, in parallelo, vanno anche a danno della credibilità e della dignità del Consiglio regionale del Veneto. Ci attendiamo le dovute verifiche e le eventuali, conseguenti azioni sanzionatorie» scrivono in una nota le dem Vanessa Camani, Anna Maria Bigon, Francesca Zottis, assieme a Cristina Guarda (Verdi), Elena Ostanel (Veneto che vogliamo), Erika Baldin (M5s), assieme ai colleghi Giacomo Possamai, Jonatan Montanariello, Andrea Zanoni (Pd) e Arturo Lorenzoni. «Esprimiamo totale vicinanza e solidarietà alla collega Milena Cecchetto, vittima di un episodio che, secondo quanto ricostruito dalla stampa, è di gravità assoluta». A commentare l’episodio all’Ansa anche il presidente del Veneto, Luca Zaia: « Esprimo vicinanza alla consigliera, che ho sentito questa mattina presto. Giunti a questo punto è bene che i fatti vengano chiariti fino in fondo, nell'interesse di tutti».

Joe Formaggio, una vita sull’onda delle polemica.

Risalgono al 2015, in qualità di sindaco di Albettone, in provincia di Vicenza, le sue controverse uscite spesso a sfondo omofobo o razzista. Quell’anno arrivò alla ribalta delle cronache nazionali per il sostegno di Graziano Stacchio, uomo che aveva sparato in una gioielleria contro un rapinatore, poi morto. Risale al 2018, la condanna a 12mila euro per alcune frasi razziste pronunciate durante la trasmissione La Zanzara. «Dimmi cosa viene a fare un immigrato ad Albettone che rischia la pelle. Lo devono capire che siamo razzisti», aveva detto. Erano seguiti altri commenti, come: «Esportiamo cervelli e importiamo n*gri, pensa dove andremo», e "facciamo il più grande allevamento d’Europa di maiali se dovesse essere che vogliono aprire una moschea ad Albettone», oltre a «i nomadi delinquono. Loro ce l’hanno nel Dna. Io ho già preparato delle delibere che prima di mandarmi qualsiasi profugo il prefetto deve dirmi come si chiama e che malattie ha avuto nella sua vita e noi ti aspettiamo col fucile in mano».

Stesso anno, stessa trasmissione radiofonica, Formaggio attaccò l'allora ministra Cecile Kyenge: «Ditemi a che cazzo serve un partito come l'Afro Italia Power della Kyenge», in Italia «non c’è razzismo, non c’è odio razziale. Una come la Kyenge è stata persino ministro e ha preso 80mila preferenze alle europee». Anzi, «siamo anche troppo democratici, consentiamo tutto. Casomai c'è razzismo al contrario contro gli italiani». Se si continua «con queste puttanate», aveva detto, «qualcuno farà il partito dei bianchi, il White Power». Convinto che il partito fascista non avrebbe dovuto essere cancellato: «Una puttanata che abbiano vietato il Partito nazionale fascista, non dovrebbe essere al bando. Io al ristorante ho un bel busto di mezzo metro di Mussolini. Me l'hanno regalato e lo tengo lì. La maggior parte della gente che viene al mio ristorante si fa un selfie con la testa di Mussolini. Sono tutti deficienti allora?». Formaggio è anche un sostenitore appassionato di Vladimir Putin, presidente della Russia, «un bel figo» che avrebbe visto bene «come podestà d'Italia».

Milena Cecchetto e le molestie di Joe Formaggio: «Ero pietrificata ma tornerò ad essere forte». Silvia Madiotto su Il Corriere della Sera il 9 marzo 2023.

La consigliera leghista ha accusato il collega di Fratelli d'Italia di averla molestata: «È stata dura ma alla fine ho deciso: le donne devono sempre denunciare»

Di lei dicono che è una donna forte, una che non molla. Temprata dall’impegno amministrativo, capace, piena di energia. Eppure, martedì sera, ha ammesso di sentirsi «pietrificata». Ripete quella parola lentamente, quasi scandita, perché è la prima volta che le capita di riferirla a se stessa. «Pietrificata». Milena Cecchetto, consigliera regionale leghista, 51 anni, ha deciso di non tollerare più le intemperanze del collega di Fratelli d’Italia Joe Formaggio. Fuori dall’aula del Consiglio, nel foyer, martedì pomeriggio ha subito molestie e l’ha denunciato. Un bacio improvviso e non voluto, un’aggressione fisica inaccettabile in qualsiasi situazione, figuriamoci in un palazzo delle istituzioni. 

«Ho fatto il sindaco per 10 anni a Montecchio Maggiore - racconta - Tante volte, presentando le iniziative sul territorio, anche per l’8 marzo, ho dato battaglia per le donne, dicendo “se non denunciamo noi non lo farà nessuno”. E l’altra sera mi sono ritrovata a dover dire “no comment” per quella paura che ci coglie all’improvviso in situazioni come quella. Sì, uso il plurale, ci coglie. E ho capito che è una paura atavica, non riusciamo a parlare, ad andare avanti».

 Martedì sera però poi ha deciso di farlo.

 «Sì, ma il difficile è sempre il dopo. Parlare è difficile. Il giorno dopo è difficile». 

Molte persone le hanno espresso solidarietà, nel suo partito e nell’opposizione. Le ha dato un po’ di serenità, questo?

«Assolutamente sì, ho trovato una incredibile forza in quelle parole. Sappiamo che queste battaglie spesso sono solitarie, sono solo di chi subisce, e per certi versi deve cercare di trasformare in forza una l’esperienza negativa. Mi hanno fatto bene». 

Lei ha definito quello del collega un gesto «inqualificabile ed inaccettabile, ogni donna ha un confine del rispetto e della sensibilità, è stato superato». Formaggio l’avrebbe palpeggiata davanti a tutti, dandole un bacio. Che cosa è successo nel foyer? 

«Preferisco non parlare di questo. Ma sono convinta che sia necessario far emergere certi comportamenti inadeguati. Se non siamo noi donne a pensare a noi, non lo farà nessuno». 

Ha deciso di denunciare? 

«Ci sto seriamente pensando». 

Qual è stata la sua prima reazione, l’altro giorno? 

«Ero impietrita, pietrificata, uno choc totale. E mi sono chiesta: se io che sono forte, strutturata, io che non sono una che non si spaventa facilmente, mi sono trovata spiazzata, bloccata, cosa succederebbe a una donna più fragile, più mite di me? Che reazione può innescare un fatto simile? Che a volte arriva dopo molestie continuative, verbali, quasi quotidiane». 

Formaggio respinge ogni accusa di molestie ma le ha chiesto scusa, dice di essere stato male interpretato. Per lei è sufficiente? 

«Sinceramente, mi sarei aspettata scuse senza giustificazioni e tanti giri di parole, e molto prima di quando sono arrivate. Il fatto di conoscerci da anni, fin da quando eravamo sindaci, non esclude forme di rispetto e dignità, che invece non sono state prese in considerazione. Non può essere derubricato a goliardia. So distinguere cosa lo è e cosa non lo è. Però quello che è successo mi fa pensare di voler fare qualcosa di più per le donne, per contrastare ogni forma di violenza». 

Le istituzioni si mobilitano da anni contro la violenza e le prevaricazioni. Che ulteriore contributo vorrebbe dare? 

«Le iniziative, spesso, sono legate ai momenti dell’anno che ci portano a ricordare quali siano i problemi, ma sono confinate in quelle date. Dobbiamo parlarne di più, tutto l’anno. E iniziare dalle famiglie, dal nucleo più piccolo delle nostre comunità. Partire dai bambini, non dai ragazzi. Bisogna cominciare subito a parlare di rispetto e dignità delle donne». 

Come si sente oggi? 

«Sono una donna forte, strutturata caratterialmente, ho avuto molte esperienze nella vita. Riesco sempre a rielaborare e scaricare i problemi. Ma questo è uno tsunami. Sto lentamente superando lo sconforto, sto passando alla delusione e alla rabbia. Ma tornerò ad essere forte. Ne sono sicura».

Il mistero di Joe Formaggio. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 9 marzo 2023.

Joe Formaggio non è reale, fin da quel nome che sembra uscito da un album di fumetti. Il consigliere regionale veneto di Fratelli d’Italia è il parto di un comico, di un radical-chic fazioso che gli ha versato addosso tutti i luoghi comuni sulla destra dei suoi incubi: l’odio per i rom, i gay e i migranti, che lui chiama con nomi ben più coloriti; l’amore per la carne di maiale (in funzione antislamica), le armi, Putin e Mussolini, di cui possiede un mezzobusto di mezzo metro che fa sembrare lillipuziano quello di La Russa; la passione sfrenata per la legittima difesa e per qualche illegittima offesa.

L’ultima sul suo conto è che avrebbe festeggiato l’otto marzo palpeggiando una consigliera leghista, Milena Cecchetto, nel palazzo del Consiglio Regionale, anche se lui sostiene di essersi limitato a darle una cameratesca manata sui fianchi per farla scendere dal bracciolo di un divano: affettuosità tra alleati. Comunque sia, con l’accusa di molestie il quadro è quasi completo: gli manca di assaltare Montecitorio vestito da Sioux.

Poiché però Joe Formaggio - lo ribadiamo - è palesemente un attore di simpatie progressiste che recita la parte del reazionario becero per alimentare false dicerie sulla presenza nel nostro Paese di parecchia gente che la pensa ancora in un certo modo, resta da capire chi siano, e che cosa pensino, quei mattacchioni che sono riusciti a inserirlo nelle liste di Fratelli d’Italia e quelli, persino più numerosi, che gli hanno poi dato il loro voto.

Lo si vede in ogni dove.

I Talebani del Metoo..

Le agenzie pubblicitarie.

Il caso Emmanuelle Béart.

Il caso Lizzo.

Il caso Kevin Spacey.

Il caso Valentina Selvaggia Mannone.

Il Caso Trump.

Il caso Rudy Giuliani.

Il Caso Barbareschi.

Il caso Ron Jeremy.

Il Caso Nathan Chasing Horse.

Il Caso Marilyn Manson.

Il Caso Tyson.

Il Caso Epstein.

La Pretestuosità.

Il Caso Aerosmith.

Il Caso Weinstein.

Lo si vede in ogni dove.

Quasi tutte le donne ricevono avance e messaggi inappropriati anche su LinkedIn. L’app pensata per i contatti di lavoro, a vent’anni dalla nascita, viene spesso usata a scopo non professionale. E uno studio rivela che il 91 per cento delle utenti ha ricevuto almeno una volta attenzioni inopportune. Marco Gemelli su L'espresso il 31 ottobre 2023.

Quando nel 2003 un’intuizione di Reid Hoffman portò alla nascita di LinkedIn, il suo ideatore aveva ben chiaro l’obiettivo della piattaforma: sfruttare l’onda lunga dei principali social media per crearne una versione business-oriented, in cui a fare rete e a confrontarsi nel mondo virtuale fossero soprattutto professionisti. Ma perché ciò funzionasse era necessario mantenere la fruibilità e una certa dose di informalità intrinseca ai social. Ecco, quindi, che nel modellare LinkedIn non sono stati intaccati molti degli strumenti mutuati da Facebook, come il profilo personale con foto e bio, la formula del feed, la possibilità di chiedere il contatto di altri utenti, l’uso di una chat diretta e così via. Ma, a distanza di vent’anni, uno studio rivela che questa piattaforma non è esente dai rischi degli altri social e viene utilizzata come strumento per rivolgere attenzioni inopportune alle utenti, fino alla richiesta di appuntamenti online o all’invio di messaggi espliciti. 

Secondo il report di Passport-Photo Online, che ha intervistato un campione di oltre un migliaio di donne, circa il 91 per cento degli utenti di genere femminile su LinkedIn ha ricevuto almeno una volta avance o messaggi inappropriati in privato. Nella maggioranza dei casi si tratta di proposte d’incontri romantici o a sfondo sessuale; nel 25 per cento dei casi, poi, ciò avviene con frequenza quotidiana oppure ogni due giorni, mentre in un altro 20 accade settimanalmente. Il 43 per cento delle professioniste contattate su LinkedIn, inoltre, si è trovato a dover affrontare il mittente informandolo di aver oltrepassato il limite, magari segnalandolo agli amministratori della piattaforma. Non si tratta di semplici tentativi di flirtare su LinkedIn, perché – sempre secondo lo studio – quasi il 74 per cento delle donne diventate almeno una volta oggetto di attenzioni indesiderate ha preferito ridurre la propria attività sulla piattaforma appunto a causa di un comportamento inappropriato. In un contesto in cui la parità di genere sul posto di lavoro è lungi dall’essere raggiunta, vedersi costrette a sparire virtualmente – con tutto ciò che comporta in termini di discriminazione e opportunità perse – per le molestie è un’ulteriore zavorra. In fondo, LinkedIn può fornire una grande quantità di informazioni sulle tradizionali metriche di successo di una persona, come il titolo di studio, la qualifica o il potenziale stipendio. 

«È divertente come la mia casella di posta sia invasa da messaggi di ragazzi che cercano di flirtare con me più che da quelli di persone che cercano di fare networking», racconta un’utente con una punta d’ironia. «A volte iniziano chiedendo di poter fare una videochiamata, oppure invitandomi a pranzo in località come Venezia o Monte Carlo – racconta un’altra utente, attiva nel settore della comunicazione – ma su cinque approcci tutto sommato innocenti ce n’è stato uno più sgradevole. È successo lo scorso autunno, il mittente si è presentato come imprenditore con toni molto seri. Mi ha fatto una proposta lavorativa, ha chiesto il numero di cellulare e ha iniziato a scrivermi su WhatsApp. Sin dai primi messaggi ho capito che c’era almeno un altro tipo di interesse: sono stata tempestata di domande personali, poi ha iniziato a inviarmi sue foto di ogni genere, persino in accappatoio». Ancora una testimonianza, dal Nord Est: «Un paio di persone mi hanno contattata e il loro profilo era anche il linea con il mio settore. Hanno iniziato ringraziandomi per il collegamento, ma dal momento in cui ho risposto con gentilezza hanno cominciato a darmi del tu e a chiedermi cosa facevo di bello, se fossi sposata e via dicendo». Che l’approccio professionale nasconda altri interessi è una prassi sempre più diffusa: «Un tizio con cui avevo lavorato anni prima – racconta un’altra imprenditrice – mi ha contattata su LinkedIn e invitata a pranzo con una scusa. Mi ha fatto una lunga proposta, molto concreta, ma appena ha capito che sono sposata e ho un figlio ha iniziato a tagliare corto e poi è letteralmente sparito. L’ho anche incrociato in un ristorante dove pranzavo con mio marito e ha fatto finta di non conoscermi». 

Ma non ci sono soltanto richieste di appuntamenti online o d’incontri sessuali a definire il lato oscuro di LinkedIn: un altro 30 per cento delle intervistate ha subìto richieste di informazioni personali o intime e oltre una su dieci si è vista inviare contenuti espliciti non richiesti. Nata per il business, ora la piattaforma rischia di avvicinarsi sempre più a Tinder. Al punto che alcuni anni fa è nata addirittura un’applicazione ad hoc, BeLinked, che consente di trovare singleproprio attraverso LinkedIn. Ovviamente l’app appartiene a un’azienda diversa dal colosso americano della piattaforma, ma si aggancerebbe a quest’ultima per scovare profili interessanti da incrociare, prendendo come parametri gli interessi professionali, le ambizioni e gli obiettivi lavorativi futuri degli utenti. Dal canto suo, LinkedIn è ben consapevole del fenomeno e cerca di limitarne la portata: ormai da qualche anno, infatti, invia un promemoria agli utenti per ricordare loro l’opportunità di effettuare conversazioni di livello professionale e tenere toni adeguati in post, commenti e messaggi. Inoltre, invita tutti gli utenti a segnalare «qualsiasi atteggiamento o contenuto inappropriato», in modo da arginare i comportamenti inadatti e recuperare l’uso per cui la piattaforma era stata pensata in origine.

I Talebani del Metoo.

Woody Allen, Besson e Polanski nel mirino dei nuovi talebani. Polemiche per la partecipazione dei registi al festival di Venezia: «Sono dei predatori sessuali». Francesca Spasiano su Il Dubbio il 31 agosto 2023

Qui non si tratta nemmeno di distinguere “l’uomo dall’artista” citando per la milionesima volta Caravaggio, pittore sublime nonché violento omicida oppure l’antisemita Céline, il razzista Conrad e così via. Il livello è persino più sconfortante.

Stiamo parlando del Festival del cinema di Venezia, del suo direttore Alberto Barbera e di tre cineasti: Woddy Allen, Roman Polansky e Luc Besson ospiti con le loro ultime opere nella rassegna lagunare. Il giornalista Scott Roxborough, firma di punta e responsabile della redazione europea di The Hollywood reporter, attacca frontalmente Barbera, ritenendo inopportuno aver invitato «tre uomini problematici». In un articolo di fine luglio era stato ancora più esplicito, definendo i registi «tre predatori sessuali».

Roxborough cita le parole della francese Ursula Le Menn, attivista del gruppo Oser le feminisme, che lo scorso maggio aveva lanciato appelli per boicottare il festival di Cannes a causa della presenza di Johnny Depp, anche lui accusato di abusi sessuali. «Solo il fatto di averli invitati sembra una celebrazione dei colpevoli!», tuona Le Menn per poi scagliarsi contro i giornalisti: «Sembrano degli avvocati difensori e fanno di tutto per mettere questi figuri in una buona luce». Ma colpevoli di cosa? Sarebbe il caso di riavvolgere il nastro dell’indignazione pavoloviana e tornare ai fatti.

Cominciamo da Woody Allen, accusato dall’ex moglie Mia Farrow di molestie sessuali nei confronti della figlia Dylan quando lei aveva sette anni. Due diverse inchieste hanno stabilito la completa estraneità del regista newyorkese che non è mai stato nemmeno indagato. L’indagine dei servizi sociali infantili dello Stato di New York concluse al contrario che la bambina avrebbe vissuto in un ambiente «disturbato», subendo l’influenza della madre che l’ha spinta ad accusare Allen. Ma la macchia di “pedofilo” è rimasta appiccicata al regista che negli scorsi anni ha avuto serie difficoltà per la distribuzione dei suoi film.

Anche Besson è stato prosciolto lo scorso giugno dalle dalla giustizia francese per le accuse di violenza sessuale lanciate dall'attrice belga-olandese Sand Van Roy. Un fatto che non è andato giù alla signora Le Mann il cui fervore accusatorio è pari solo all’ignoranza dello Stato di diritto: «Si dice che Besson è stato dichiarato non colpevole nel caso di stupro, il che semplicemente non è vero. Non è mai stato processato, quindi come potrebbe essere ritenuto colpevole o non colpevole?». Presunzione di innocenza questa sconosciuta.

Diverso il caso di Polansky il quale ha effettivamente ammesso di aver avuto rapporti sessuali sotto l’effetto di droga con la 13enne Samantha Geimer nel 1977 (lui ne aveva 44) ed è attualmente un ricercato per giustizia degli Stati Uniti. Ma è stata la stessa Geimer, che negli anni ha costruito persino un rapporto epistolare con Polansky a voler spegnere i riflettori sulla vicenda intimando ai giornalisti di smetterla di rimestare nel torbido.

Eppure per i corifei del processo mediatico permanente, le sentenze di tribunale e gli stessi sentimenti delle loro amate vittime non contano nulla: «È necessario distinguere tra giustizia e persecuzione» ha ricordato Barbera in una bella intervista a Le Monde in cui ha rivendicato tutte le sue scelte.

Ancora ieri però sul quotidiano Libération è apparsa una disarmante petizione a firma ADA, un’associazione di attrici e attori dal titolo “No alla cultura dello stupro” che chiede l’isolamento di chiunque sia finito nell’obiettivo del #metoo criticando aspramente i direttori dei festival e tutta l’industria cinematografica, colpevole di offrire loro una immeritata vetrina.

Da ilnapolista.it martedì 5 settembre 2023.

Woody Allen difende Luis Rubiales. Il regista 87enne, che fu accusato di abusi sessuali dalla figlia adottiva Dylan Farrow, intervistato dal Mundo in occasione della prima del suo nuovo film “Coup de chance” alla Mostra del Cinema di Venezia, sostiene il boss della Federcalcio spagnola, sospeso dopo aver imposto un bacio alla giocatrice Jenni Hermoso.

Allen dice di non capire: “È difficile immaginare che una persona possa perdere il lavoro ed essere penalizzata in questo modo per un bacio in pubblico. Baciare quella calciatrice è stato un errore, ma non ha bruciato una scuola. Non l’ha rapita e baciata in un vicolo buio. Non l’ha violentata, è stato solo un bacio e lei era un’amica. Cosa c’è che non va?“. 

L’Adn Kronoso racconta che Woody Allen ieri è stato contestato sul red carpet della Mostra del Cinema di Venezia 2023. Una trentina di persone, soprattutto ragazze, assiepate dietro le transenne, hanno accolto il passaggio del regista sul tappeto rosso con urla di contestazione. “Stupratore!”, hanno urlato le contestatrici mentre il regista attraversava il tappeto soffermandosi davanti ai flash dei fotografi. La vigilanza ha poco dopo allontanato il gruppo, che allontanandosi ha gridato anche “Abbasso il patriarcato!”. Woody Allen probabilmente non si è neppure accorto della contestazione perché nel momento in cui avveniva era appena sceso dall’auto è stava parlando con lo staff.

La protesta è legata alle accuse di molestie sessuali dalle quali il regista è stato totalmente scagionato per due volte. A fronte del gruppo di contestatori, Allen è stato accolto con applausi e urla da oltre cinquecento fan che lo attendevano già da un paio d’ore. Tanti anche i giovani che hanno chiesto un autografo al celebre regista che prima di entrare nella Sala Grande per la proiezione del suo film ‘Coupe de Chance’ si è avvicinato per accontentarli. All’ingresso della sala, altre 300 persone circa attendevano il regista per salutarlo prima dell’entrata.

(LaPresse martedì 5 settembre 2023)  – Woody Allen contestato lunedì sera sul red carpet della Mostra del cinema di Venezia. Un gruppo di persone ha inscenato una protesta al momento dell’arrivo del regista americano. I contestatori dietro le transenne lo hanno accolto al grido di “spegnete i riflettori sugli stupratori” e “il patriarcato non lo vogliamo”, prima di essere allontanati dagli addetti alla sicurezza.

Estratto dell'articolo di Gloria Satta per “il Messaggero” martedì 5 settembre 2023.

La stampa internazionale accoglie Woody Allen con una standing ovation. Gabriele Salvatores lo incrocia e s'inchina al suo passaggio. Lungo il red carpet i fan lo acclamano. E poi spuntano una trentina di ragazze (qualcuna si denuda il seno) che, subito allontanate dalla sicurezza, lo contestano al grido di «Stupratore!», «Abbasso il patriarcato» diffondendo un volantino che rinfaccia alla Biennale di aver invitato il regista, Luc Besson e il film di Roman Polanski accusati di abusi. 

E poco importa che Woody sia stato scagionato da ben due inchieste dall'accusa di aver molestato la figlia adottiva Dylan. Anche in America è stato ostracizzato. «Se sei "cancellato", questa è la cultura da cancellare», ha dichiarato a Variety.

Contestazione a parte, a Venezia il regista, 87 anni, ha conquistato tutti con il suo 50mo film Coup de Chance, girato a Parigi con attori francesi che parlano la loro lingua (Lou de Laâge, Melvil Poupaud, Valerie Lemercier, Niels Schneider) […] 

[…] È vero che "Coup de Chance" sarà il suo ultimo film?

«Non credo. La voglia di lavorare è sempre tanta, le idee ci sono ma è faticoso trovare i finanziamenti. Mi arrivano proposte da tutti i Paesi d'Europa. Aspetto il progetto giusto, girerei un film anche in Islanda».

Tornerebbe ad ambientare una storia nella sua New York?

«Non lo escludo affatto. Ho già un'idea bellissima e, se qualche folle avrà voglia di finanziarmi, sarò felicissimo di girare ancora una volta a Manhattan». 

È cambiato, negli anni, il suo modo di lavorare?

«Il mio obiettivo numero uno è sempre stato lo stesso: non essere noioso. Oggi continuo a seguire la solita routine: mi alzo, faccio qualche esercizio, poi colazione, quindi mi sdraio sul letto per buttare giù a penna quello che poi copierò con la macchina per scrivere. Con il tempo non ho imparato chissà cosa, è sempre questione di ispirazione». 

Preferisce scrivere i personaggi femminili o maschili?

«I ruoli maschili migliori li ho scritti 30 anni fa, quando ero io stesso a interpretarli. I personaggi femminili mi vengono meglio, forse perché le donne hanno avuto molta importanza nella mia vita». 

Lei è stato ostracizzato in America, eppure ha dichiarato a Variety di appoggiare il movimento #MeToo. Perché?

«Ogni movimento che faccia qualcosa di positivo per le donne è una buona cosa. Quando diventa estremo è sciocco. Io potrei essere un modello per il #MeToo: ho sempre creato bei ruoli femminili, ho pagato le donne come gli uomini, ho diretto centinaia di attrici e nessuna si è lamentata».

Che rapporto ha con il destino?

«Mi considero molto fortunato. Ho avuto una vita meravigliosa, un matrimonio fantastico, due figlie, il rispetto e l'ammirazione. Non sono mai stato in ospedale e non mi è successo nulla di tremendo. Spero continui così». 

L'umorismo può servire ad esorcizzare l'idea della morte?

«La morte è una brutta cosa ma non c'è modo di contrastarla né una via di fuga. Basta non pensarci».

Le agenzie pubblicitarie.

Sex and the spot, esplode un nuovo #MeToo nelle agenzie pubblicitarie. Ecco tutti i nomi. Battute, foto, ammiccamenti e avances. Sessismo e omofobia dilaganti. Da Milano a Roma a Torino, i racconti di ex dipendenti e le chat delle maggiori aziende creative rivelano che il clima di prevaricazione non è affatto un ricordo. Così si allarga lo scandalo. Rita Rapisardi su L'Espresso il 3 Ottobre 2023 

Se domani non mi arrestano, tutto bene». A giugno scorso, quando è esploso il Me Too della pubblicità, con la divulgazione della “Chat degli 80” dell’agenzia milanese “We are social”, molti hanno iniziato a dubitare. I big del settore si sono affrettati ad arginare lo scandalo confinando i reprobi nel recinto della «sparuta minoranza», allontanando il sospetto di un andazzo diffuso, ribattendo a colpi di codici etici e campagne su «inclusivity e diversity».

Uno che ha cominciato a interrogarsi è Vincenzo Gasbarro, già fondatore e ceo della M&C Saatchi Milano, agenzia simbolo dell’advertising che chiude contratti milionari, ingaggiando anche star di Hollywood. Gasbarro ha iniziato a chiamare allarmato ex colleghi, uomini non donne, per chiedere: «Secondo voi ho avuto atteggiamenti non consoni?». Insieme con Carlo Noseda, altro ceo e fondatore dell’agenzia, a fine giugno, è comparso a un aperitivo di ex colleghi di M&C Saatchi, un evento di solito precluso ai dirigenti. «Come va?», gli hanno chiesto. «Se domani non mi arrestano, tutto bene», ha detto all’ex collega cui aveva inflitto una pacca sul sedere alla presenza dei clienti, come racconta un testimone a L’Espresso. 

Durante l’occasione conviviale capita che, tra l’altro, le donne del team vengano sottoposte a un giudizio di valutazione, stile concorso di bellezza trash con categorie molto particolari. «Le fasce da assegnare sono “la più porca” o “la più scopabile”. E per raccogliere i punti bisogna rispondere a domande tipo "la migliore per fare la pecorina sulle stampanti". Alla fine si elegge la vincitrice», racconta un insider. Nulla di troppo segreto, visto che chi ottiene il titolo viene avvisata il giorno dopo. La celebrazione dell’evento richiede preparazione. I partecipanti vi dedicano un anno, durante l’orario di lavoro, creando delle moodboard, di solito usati nei progetti, album fotografici delle ragazze con scatti appositi o tratte dai social. Tutte le neoassunte passano per la selezione con tanto di avviso alle interessate dell’avvenuta inclusione. 

«La partecipazione alla cena è volontaria, ma in molti, anche padri di famiglia, partecipano. La vivono come un momento di team building maschile, ma se rifiuti di partecipare sei espulso dalla chat», riferisce un’ex dipendente: «Un giorno smetti di essere una collega e diventi carne da macello, un oggetto sessuale. Ogni giorno pensavo a come vestirmi per sfuggire a tutto questo». Stando ai testimoni la cosa va avanti da anni. «Della chat ci sono prove già nel 2012, si è sempre fatto così e te la fai andare bene, anche per paura». 

Resta aperta invece la chat analoga di Across, una web agency di medie dimensioni con sede nel centro di Torino. È su Whatsapp e si chiama esplicitamente “Scopareeee”. Lo spirito è sempre lo stesso: commentare le colleghe, mandare foto di donne mezzo nude, rubare scatti alle più carine dell’ufficio. E con spirito analogo esiste pure la squadra di calcetto che, creativamente, si chiama Ss Orca. Volendo, è anche l’anagramma di Across. 

In passato ce n’era un’altra su Skype, “Amici di figa” e, a differenza dell’altra, viaggiava sui computer dell’ufficio. La chat aziendale è stata chiusa nel 2020 poco prima del Covid. Determinante l’iniziativa di una stagista che ha segnalato la cosa non senza prima averne chiesto la cancellazione. Con una reputazione in ascesa e cento dipendenti, Across ha accolto il consiglio della responsabile delle risorse umane Silvia Virginia Di Liberto: così all’improvviso, dalla chat sono scomparsi i capi ed è caduta nell’oblio. Ma senza alcuna conseguenza per i responsabili. Nessuna iniziativa invece per la comunità che si ritrova su Whatsapp.In entrambe figurava il fondatore e ceo dell'azienda, Sergio Brizzo, che nel 2011, a 22 anni, ha dato vita a quella che si definisce una realtà «giovane e dinamica» ed esibisce sul proprio sito una montagna di riconoscimenti che ne potenziano il valore. 

«Guarda, si vede il perizoma sotto il vestito bianco», ha comunicato al gruppo Brizzo riferendosi a una collega. «Basta mi dimetto, non si può lavorare così», ha commentato il direttore commerciale Edoardo Marrone riferendosi a un’altra di cui si vedevano i segni dell'abbronzature. A un terzo, in ferie, che chiedeva prove, è subito arrivato un video. 

«Essere oggetto di quella chat appena arrivati in agenzia legittimava tutti, anche l’ultimo degli stagisti a trattarci con meno riguardo e a prendersi libertà», dice a L’Espresso una che è passata per oggetto di quelle conversazioni. 

Perché se in altre realtà le chat erano riservate a una selezione di dipendenti, in Across tutti sapevano, perché, come in un rito di iniziazione, i maschi venivano aggiunti già a partire dal periodo di formazione. E c’era poco da nascondere visto che il ceo ne faceva parte e la finestra rimaneva aperta sui computer aziendali. 

Anche qui «sondaggi sulla più scopabile, sulle più belle tette e culo dell’azienda», riferisce un’ex interna. Voti su una scala da uno a dieci e foto. Di tutte, tranne di chi era legato a membri dello staff. Così erano circolate anche le foto intime di una collega che aveva una storia con un dipendente di Across. Ma lei era di un’altra agenzia. A fine estate, una galleria di colleghe in costume, scavando sui profili social. Racconta ancora al nostro settimanale una che c’è passata: «Per anni, proprio per sfuggire a quelle attenzioni, mi sono vestita come un sacco di patate, ho smesso di truccarmi e di andare dal parrucchiere. Un cambiamento radicale che le mie amiche non hanno fatto a meno di notare. D’altra parte, tutto era all’insegna del sessismo. Se qualcosa non andava bene era colpa di noi frigide che dovevamo prendere più cazzi». La chat su Whatsapp ancora oggi attiva, comprende dipendenti che non lavorano più in Across. 

E per gli Lgbt era anche peggio: «Tu non sei come noi, sei frocio». Così il direttore commerciale di Across a un dipendente che ha accettato di parlare con L’Espresso.  

Con una lunga nota, Across ha ribattuto alle tesi sostenute dalle fonti, prendendo le distanze da chat e iniziative svolte da dipendenti al di fuori dell'azienda. Il ceo Brizzo chiarisce anche «che in passato era stato aggiunto alla chat (di whatsapp, ndr) da persone terze, ne è uscito volontariamente condannando e dissociandosi da quel genere di contenuti e affermazioni».   

«Across - spiega la nota - ammette con trasparenza e profondo dispiacere l’esistenza in passato di una chat presente sui sistemi aziendali – la piattaforma Skype, precisamente – in cui venivano condivisi commenti inappropriati». Secondo Brizzo la faccenda non sarebbe caduta nell'oblio ma «ha convocato una riunione ufficiale con tutti gli appartenenti alla chat in cui ha comunicato la chiusura e ha diffidato chiunque a reiterare quel generare di comportamenti sul luogo del lavoro». Across nega inoltre episodi di discriminazione o sessismo citando anche un'indagine interna alll'azienda sul gradimento da parte dei dipendenti.  

Brizzo conclude: «Come fondatore e ceo di Across voglio scusarmi profondamente per quanto accaduto in passato nella chat aziendale, è stato un grave errore di cui mi sono già assunto le responsabilità e di cui mi scuso. Dalla comprensione della gravità di quanto accaduto, ho impegnato tutte le energie e le risorse della società per costruire un luogo di lavoro sano, positivo e inclusivo». 

Gli episodi che hanno riguardato Across non sono diversi da quelli verificatisi in altre aziende: «Tanto tu conosci tutti i cazzi della provincia», ha detto il ceo di un’azienda del Veneto. Nell’ex Radzorfish, ora Nurun del gruppo Pubblicis, è accaduto invece che durante il colloquio di ingresso si investigasse sui gusti sessuali degli esaminati perché l’agenzia teneva a essere «l’unica agenzia di Milano senza omosessuali». Così si è vantato il capo dell’ufficio dell’epoca Marco Barbarini. «Una manifestazione piena di froci e lesbiche, cosa hanno da mostrare?», è sbottato un giorno, racconta un suo ex collaboratore. E durante una notte di lavoro in agenzia ha dato i voti a suo modo alle neoassunte: «Che bona, glielo infilerei qui, quell’altra è un cesso non la scoperei neppure con un sacchetto in testa». A una collega che ha obiettato avrebbe ribattuto: «Tranquilla, tanto sei tu che hai il culo più bello dell’agenzia». 

In Leo Burnett un’agenzia tradizionale, vecchia scuola, con sede a Milano e Torino, il client director amava far comparire peni sul desktop delle stagiste mentre erano in bagno. Talvolta venivano mandati film porno sul pc a tutto volume durante l’orario di lavoro. Goliardate? Non dal punto di vista delle donne. E anche molestie verbali a raffica: «Quando facciamo sesso io e te?», pacche sul culo, commenti continui alle account, le più tartassate. E tanta allegria disinibita alle feste, a beneficio dei clienti. «Dal primo giorno capisco, mi sento subito fare dei commenti sulla gonna corta e reagisco. Il terzo giorno ricevo un messaggio da uno dei colleghi, uno del digitale che chiama le ragazze prosciuttine riferendosi alla linea. Se continui a essere così ruvida, mi scrive, rimarrai da sola, se la gente fa certi commenti, lo fa per scherzare. Per un periodo ho smesso di mangiare», rievoca con il nostro settimanale una ex dipendente. 

Uno dei manager più influenti nell’industria della comunicazione italiana è Giorgio Brenna, già ceo di Leo Burnett, una collezione inarrivabile al festival della creatività di Cannes. I suoi modi rudi sono proverbiali nella ricostruzione a L’Espresso di chi ha potuto stargli vicino: «A una collega con un braccio fasciato chiese: “Cos’è successo? Ti ha menato il fidanzato? Ha fatto bene”. Il superiore le ha detto: “Lui ci paga lo stipendio, bisogna stare zitti, magari copriti di più, sorridi, l’azienda cresce”. Molte hanno lasciato, firmando accordi di riservatezza e ricevendo una buonuscita». Sudditanza. Che qualcuno come Gianpietro Vigorelli, teorizza. Si dice che non assumesse donne perché non avrebbe potuto picchiarle. Ma su un’intervista passata per YouTube ha corretto: «Le donne le picchiavo, ma solo quelle brutte». E, in un’altra: «Anche lo stagista lo umiliavo subito, così capiva, altrimenti andava a fare il parrucchiere». E a sentire lui ha funzionato: «Oggi infatti sono tutti direttori creativi». E tutti maschi. 

L’Espresso ha contattato le agenzie coinvolte ma nessuna ha voluto confrontarsi nel merito delle ricostruzioni degli ex dipendenti, disconoscendole. Sulle cene, Havas precisa che non rientrano nelle attività aziendali. Tanto M&C Saatchi che Gasbarro hanno inviato, separatamente, una diffida alla pubblicazione. L’agenzia ricorda di aver adottato un codice etico e messo al lavoro una task force contro le discriminazioni, Gasbarro si dice pronto a esibire le testimonianze di quanti hanno lavorato con lui e non hanno mai eccepito nulla sul suo comportamento. Nè, tantomeno, è mai stato raggiunto da alcuna comunicazione giudiziaria. Come, del resto, sostengono anche gli stessi testimoni, interessati a raccontare un clima e non reati. Con l’obiettivo di promuovere un cambiamento di passo nelle relazioni di lavoro. Anche nel mondo patinato della réclame.

«Sei fidanzata ma presto sarai single, questa è la tua vita»: così si lavora nelle agenzie pubblicitarie. Assenza di orario, straordinari non pagati, mobbing, vessazioni continue. Lo scandalo emerso dalla nostra inchiesta non riguarda solo sessimo e omofobia. Rita Rapisardi su L'Espresso il 06 ottobre 2023 

«Oggi mezza giornata?», la battuta è un classico quando, dopo ben oltre le otto ore di lavoro, ci si prepara ad andare via. Fare le notti in agenzia, anche per una settimana di seguito, non è cosa rara. «Una sera, all’ennesima nottata, ho detto: non posso restare, non ho neanche le mutande di ricambio. La mia responsabile è uscita, è tornata con un sacchetto e me lo ha lanciato addosso: “Ecco le mutande, ora puoi rimanere”. Era andata a comprarmele», ricorda a L’Espresso una creativa. Quando si arriva in agenzia tutto è chiaro sin dal colloquio: «Sei fidanzata? Perché presto sarai single, questa è la tua vita». «Lavorare in pubblicità è come fare la suora». «Dopo la maternità ho subito mobbing pesante, alla fine me ne sono andata», racconta una lavoratrice. Che l’andazzo sia questo lo si percepisce durante i corsi nelle prestigiose e costose scuole milanesi Ied, Naba, Accademia di comunicazione (che tiene a precisare di non aver mai registrato episodi di sessismo) tenuti dagli stessi director e ceo che poi selezionano gli stagisti. «Quindicimila per entrare nella scuola, ma poi te li rifai in un anno dopo in agenzia», è il tormentone. Si entra invece in un meccanismo che ti può tenere in tirocinio anche tre anni a 500 euro al mese (prima dell’obbligatorietà in Lombardia si arrivava anche a 300). Il trucco è rinnovare lo stage, ma cambiare agenzie (anche solo sul contratto): nei grandi gruppi c’è la capofila e le satelliti. 

Nel 2021 quattro giovani, tre ex di We are social, lanciano un questionario online. Chiamano il progetto Be Okay Creativity (Boc), raccolgono mille testimonianze, età media 32 anni. Ne viene fuori che solo il 12% degli straordinari è pagato, al Sud lo stipendio medio è 13 mila euro più basso, le donne, a parità di ruolo, guadagnano il 12% in meno. E poi ci sono i resoconti: attacchi di panico, ansia, burnout, (a Milano l’87% degli intervistati ne soffre) assenza di orari, straordinari a go go. C’è chi ha denunciato l’azienda per 800 ore non pagate. Una volta fuori si finisce dallo psicologo o dallo psichiatra per il troppo stress, alcuni si isolano non riuscendo più a uscire di casa per mesi e pagano le conseguenze per anni. Ci sono poi mobbing e vessazioni: urla in ufficio, attacchi fisici e psicologici continui. Minacce a chi pensa di andare via: «Tanto so dove vai, conosco tutti, non lavorerai più». È successo più volte in Publiciss ora guidata da Cristiana Boccassini e il compagno Bruno Bertelli, due creativi di livello, noti per i modi spicci: «Se parlano male di noi, meglio così - ha detto più volte Bertelli - almeno gli sfigati non vengono». E intanto durante il Covid sfornava una campagna contro il duro lavoro. 

Gli over 50 sono i grandi assenti delle agenzie perché a certi ritmi non si può resistere. Se non si finisce ai vertici si opta per le consulenze private, altrimenti le droghe stimolanti aiutano, più diffuse tra i senior che tra gli junior. 

Lo screening dei quattro apre un piccolo spiraglio, ma dura poco. Le vertenze sono rare e sconsigliate. 

Velvet Media di Treviso è finita in bancarotta dopo il Covid, con un passivo di oltre sette milioni di euro (di cui cinque allo Stato). Era diventata nota per «aver abolito l’orario di lavoro». Il ceo Bassel Bakdounes manteneva un clima da caserma. Urla, lanci di oggetti, attacchi fisici, scenate e frasi sessiste («Vorrei passare il 25 aprile tra le tue gambe»). E il direttore creativo non era da meno: «Ho dato il tuo numero a un collega, si vede che non scopi da tanto. Così mi ha detto: ero entrata da appena due mesi», riferisce a L’Espresso una ex collaboratrice. Tante donne assunte e Bakdounes se ne vantava. Quando la situazione ha iniziato ad andar male ha minacciato alcuni dipendenti che volevano sindacalizzarsi: « Ha detto: vi vengo a cercare a casa», riferisce la fonte. 

Il mondo dell’advertising oggi è una piramide la cui base è sorretta da migliaia di stagisti e junior: la pubblicità paga meno e tutto si sostiene con le ore gratis. Un anno fa un gruppo di giovanissimi mette su una protesta chiamata “Gentilissima rivolta”. L’occasione sono i prestigiosi Adci Adwards. Apre una pagina Instagram: in meno di una settimana 11mila persone iniziano a seguirla, pubblica oltre cento testimonianze dettagliate. Partono le diffide: «Guardate che il pezzo grosso ha chiamato gli avvocati di Berlusconi». I giovani chiudono tutto e scompaiono, ora vivono nell’ombra, sperando un giorno di ritornare.

Il #MeToo della pubblicità scuote il settore: «L'impatto dell’inchiesta Sex and the Spot è stato enorme, ma troppi restano in silenzio». Il lavoro dell'Espresso su sessismo e discriminazioni nel mondo dell'advertising continua a far parlare. E molte società si espongono. Across: «Sbagliammo, ora ambiente inclusivo». Tonetti, ex Was: «Denunciai io l’esistenza della chat». E il nostro lavoro non finisce qui, inviateci le vostre segnalazioni. Rita Rapisardi e Chiara Sgreccia su L'Espresso il 12 Ottobre 2023

La copertina che L’Espresso ha dedicato la scorsa settimana a un’inchiesta esclusiva su sessismo e discriminazioni nel mondo dell’advertising italiano ha scosso l’intero settore: le reazioni non mancano e, per quanto possibile, si corre ai ripari. 

«La condivisione online dell’inchiesta è stata enorme, ma ha fatto breccia solo nei profili di junior, stagisti e middle. Nessun ceo o direttore ha speso una parola su quanto è stato rivelato e questo denota l’ambiente malato. Nessuna agenzia, da quello che sappiamo, ha fatto qualcosa, anche i clienti tacciono», fa sapere Tania Loschi, del collettivo Re:B, che continua a raccogliere segnalazioni. 

Una delle aziende citate nell’articolo, Across, di Torino ha inviato a L’Espresso una lunga nota, per ribattere alle tesi sostenute dalle fonti, prendendo le distanze da chat e iniziative svolte da dipendenti al di fuori dell’azienda. Il ceo Sergio Brizzo chiarisce anche «che in passato era stato aggiunto alla chat (su WhatsApp, ndr) da persone terze, ne è uscito volontariamente condannando e dissociandosi da quel genere di contenuti e affermazioni». «Across –  spiega la nota –  ammette con trasparenza e profondo dispiacere l’esistenza in passato di una chat presente sui sistemi aziendali – la piattaforma Skype, precisamente – in cui venivano condivisi commenti inappropriati». Secondo Brizzo la faccenda non sarebbe caduta nell’oblio ma lui stesso «ha convocato una riunione ufficiale con tutti gli appartenenti alla chat in cui ha comunicato la chiusura e ha diffidato chiunque a reiterare quel generare di comportamenti sul luogo del lavoro». Across, che si dichiara «parte lesa» in relazione all’esistenza di altre chat, cita anche un’indagine interna sul gradimento da parte dei dipendenti. Brizzo conclude: «Come fondatore e ceo di Across voglio scusarmi profondamente per quanto accaduto in passato nella chat aziendale, è stato un grave errore di cui mi sono già assunto le responsabilità e di cui mi scuso. Dalla comprensione della gravità di quanto accaduto, ho impegnato tutte le energie e le risorse della società per costruire un luogo di lavoro sano, positivo e inclusivo». 

Attraverso i propri legali, l’ex account manager di Was, Paola Tonetti, pur confermando i contenuti della vicenda, si ritiene chiamata in causa in modo inesatto e tiene a precisare di avere avuto un ruolo attivo nel denunciare la vicenda ai piani alti dell'azienda. A quanto risulta a L’Espresso, in effetti, Tonetti ha comunicato nel 2017 per mail l’esistenza della chat ai tre ceo di We are social, Gabriele Cucinella, Stefano Maggio e Ottavio Nava. Da quel momento in poi, però, la segnalazione non avrebbe avuto seguito. Del resto, è lo stesso Cucinella in un’intervista rilasciata a Repubblica il 23 giugno 2023, pur non nominando Tonetti, a confermare la ricostruzione. Il ceo racconta di aver ricevuto la segnalazione della collega, non controllando però in prima persona i contenuti della chat sessista. Lui e gli altri due ceo non presero provvedimenti nei confronti dei membri del gruppo. La chat, come raccontato da un partecipante a L’Espresso, si svuotò una mattina all’improvviso ma solo dei big. Il testimone sentito da L’Espresso aveva attribuito la soluzione precipitosa ai rapporti tra Tonetti e uno dei membri della chat. Un’ipotesi che Tonetti, sempre tramite i legali, smentisce seccamente ritenendo lesiva della sua onorabilità anche solo l'idea che possa avere avuto un interesse a silenziare il caso. Come testimoniato dalla mail con cui sollevò la questione davanti ai responsabili dell'azienda. Anche Was si è rivolta a un legale, sostenendo che i comportamenti descritti dalle fonti a L’Espresso non corrispondono al vero e contestando presunti comportamenti sessisti attribuiti a Nava.

Le segnalazioni di molestie sui luoghi di lavoro continuano ad arrivare anche a #lavoromolesto, lo spazio anonimo di denuncia de L’Espresso con lo scopo di combattere ogni genere di discriminazione sui luoghi di lavoro. «Avevo 28 anni e lavoravo in una gioielleria. Il capo un giorno è arrivato all’improvviso. Mi ha abbracciata da dietro, sfiorandomi il seno. Mi ha messa al muro. “Perché?”, mi chiedevo: “Perché fa così?”, “Non sono brava abbastanza?”. Quando ho chiesto spiegazioni, lui si è giustificato dicendo che erano coccole. Come quelle che dava al suo cucciolo di cane. Io me ne sono andata». Così racconta una lettrice. E un’altra: «Ricordo un collega che mi disse: “Se hai voglia di provare qualcosa di nuovo perché non vieni qui sotto al tavolo?». 

Molestie e non solo. «Ho 43 anni, un dottorato, e 16 anni di esperienza. Ora, di certo non mi faccio chiamare “dottore”, nemmeno “dottoressa”, ma non accetto “dolcezza”, “tesoro”, “ciccia”, “bella di casa”. Non accetto neanche che venga invaso il mio personale spazio fisico con mani sulle spalle che fanno un “massaggino” perché ho sbuffato per lo stress. Non accetto nemmeno che a una collega di 55 anni dicano: “Ma metti i fuseaux all’età tua? C’hai er culo che fa provincia!”. E giù sghignazzi mentre la collega con una risata avalla un comportamento becero», racconta una lavoratrice che è rientrata in Italia dopo un lungo periodo negli Usa. 

#lavoromolesto ha preso forma il 25 novembre del 2021, con l’obiettivo di promuovere un cambiamento con un occhio di riguardo a lavoratrici e lavoratori vittime del pensiero maschilista dominante. Per condividere le vostre esperienze scrivete a dilloallespresso@lespresso.it e noi pubblicheremo tutto. Perché è ora di rompere il silenzio.

Il caso Emmanuelle Béart.

Estratto dell’articolo di Stefano Montefiori per Il Corriere della Sera mercoledì 6 settembre 2023.

Emmanuelle Béart rompe 45 anni di silenzio e nel documentario presentato in anteprima ieri a Parigi (sarà trasmesso in tv il 24 settembre) rivela di essere stata vittima di incesto, dagli 11 ai 15 anni. Non indica il colpevole — «questo non è un regolamento di conti», dice — e si limita a scartare immediatamente l’ipotesi della madre e del padre, Guy Béart, cantante molto amato in Francia, morto nel 2015.

L’attrice oggi sessantenne di Un cuore in inverno e Nelly e Mr. Arnaud ha lavorato per tre anni al documentario Un silenzio così rumoroso assieme alla regista franco-ucraina Anastasia Mikova. Nel film la si vede commuoversi per le testimonianze di Norma, violentata dal nonno tra i 3 e 12 anni; Pascale, stuprata dal padre a 12; Sarah, la cui figlia è stata aggredita dal marito tra i 4 e gli 8 anni; e Joachim, molestato da entrambi i genitori.

[…] Béart racconta anche che a salvarla è stata la nonna, Nelly, l’unica della famiglia ad avere capito, che poi ha vissuto a casa con lei fino alla morte, nel 2011, a 107 anni. «Se mia nonna non fosse intervenuta, e non mi avesse messa in un treno per farmi raggiungere mio padre quando avevo 15 anni, forse non sarei riuscita a vivere. È stato davvero violento fino a questo punto, reale fino a questo punto». Fino ad allora la futura attrice aveva vissuto con la madre e i quattro fratelli e sorelle a Cogolin, non lontano da Saint Tropez, mentre il padre Guy dopo il divorzio viveva alla periferia di Parigi. Non ha mai presentato denuncia, «per la paura di sentirsi dire che quei fatti non erano mai accaduti».

Ma dice di averne parlato alle persone care, «l’ho detto a tutti, ma non c’è mai stata una risposta. Passi da una persona all’altra rivelando un segreto che ti devasta ma è come se la verità non attecchisca, niente rimane».[…] «Mi sono chiesta spesso perché avessi deciso di fare questo mestiere, e di farlo in questo modo. Esibirsi fino all’eccesso, dare un’immagine sessualizzata di se. Credere di non potere essere amata se non per il proprio corpo, questa è finalmente una risposta».

Il caso Lizzo.

Dagospia mercoledì 2 agosto 2023. Diana Dasrath e Tim Stelloh - nbcnews.com mercoledì 2 agosto 2023.

Tre ex ballerini di Lizzo hanno e di aver creato un ambiente di lavoro ostile. Sostengono anche di aver fatto pressioni su uno di loro per toccare un artista nudo in un club di Amsterdam e di aver sottoposto il gruppo a un'audizione "straziante" dopo aver mosso false accuse secondo cui stavano bevendo sul posto di lavoro. 

I ballerini hanno accusato Lizzo - un'artista nota per abbracciare la positività del corpo e celebrare il suo fisico - di richiamare l'attenzione sull'aumento di peso di un ballerino e successivamente rimproverare, quindi licenziare, quel ballerino dopo aver registrato un incontro a causa di una condizione di salute.

La causa, depositata presso la Corte Superiore di Los Angeles e fornita a NBC News dallo studio legale dei querelanti, accusa anche la responsabile della squadra di ballo di Lizzo, Shirlene Quigley,  di fare proselitismo con altri artisti e deridere coloro che hanno avuto rapporti prematrimoniali condividendo fantasie sessuali oscene, simulando sesso orale e discutendo pubblicamente della verginità di uno dei querelanti. 

La causa nomina Lizzo, il cui vero nome è Melissa Viviane Jefferson, la sua società di produzione e Quigley come imputati. Oltre alle accuse di ambiente di lavoro ostile e molestie sessuali, la causa porta denunce per molestie religiose e razziali, falsa detenzione, interferenza con potenziali vantaggi economici e altre accuse.

"Il modo come Lizzo e il suo team hanno trattato i loro artisti sembra andare contro tutto ciò che Lizzo rappresenta pubblicamente, mentre in privato fa vergognare i suoi ballerini e li umilia in modi non solo illegali ma assolutamente demoralizzanti", ha detto l’avvocato Zambrano in una dichiarazione. 

Il viaggio allo strip club di Amsterdam, Bananenbar, è avvenuto dopo un'esibizione in città all'inizio di quest'anno. La causa afferma che gli afterparties di Lizzo erano di routine e non obbligatori, ma sostiene che coloro che vi partecipavano erano favoriti dal cantante e avevano una maggiore sicurezza sul lavoro.

Al club, Lizzo avrebbe "iniziato a invitare i membri del cast a toccare a turno le performer nude, afferrando dildo lanciati dalle vagine delle performer e mangiando banane che sporgevano dalle loro vagine", dice la causa. "Lizzo ha quindi iniziato a fare pressioni su una ballerina affinché toccasse il seno di una delle donne nude". 

Una settimana dopo, dopo uno spettacolo a Parigi, Lizzo ha invitato i suoi ballerini in un club in modo che "potessero imparare qualcosa o essere ispirati dallo spettacolo". "Ciò che Lizzo non ha menzionato quando ha invitato i ballerini a questa esibizione è che si trattava di un cabaret bar per nudisti".

Nel frattempo, Lizzo continua a ispirare i fan. In una recente clip circolata sui social media, si può vedere la cantante raccontare a una giovane donna che partecipa a un concerto in Australia quanto sia bella e speciale e come "potrebbe essere la più grande ballerina del mondo". 

Lizzo denunciata dalle sue ballerine per molestie. Andrea Pascoli su La Repubblica il 2 Agosto 2023 

La cantante è stata accusata di creare un ambiente di lavoro “ostile”, inclusi episodi di body shaming e razzismo da Arianna Davis, Crystal Williams e Noelle Rodriguez, parte della sua crew 

Molestie sessuali e ambiente di lavoro ostile: questa le accuse ricevute dalla popstar Lizzo da parte di tre ballerine del suo corpo di ballo. Comportamenti “sessualmente denigratori” e “pressing a partecipare a inquietanti spettacoli di sesso” quanto si legge nella denuncia depositata alla Corte Suprema della Contea di Los Angeles da Arianna Davis, Crystal Williams e Noelle Rodriguez, parte della crew della cantante trentacinquenne nel periodo 2021-2023. 

Le querelanti hanno accusato la popstar, vero nome Melissa Viviane Jefferson, di aver violato il Fair Employment and Housing Act (FEHA) della California non garantendo un’adeguata protezione da molestie, aggressioni e discriminazioni. Nello specifico durante uno show tenuto in un nightclub di Amsterdam Lizzo avrebbe fatto pressioni per coinvolgere in atteggiamenti disdicevoli con alcuni performer le ballerine, che avrebbero acconsentito per paura di ripercussioni sulle loro carriere. A ciò si aggiungono inoltre accuse di molestie religiose, razziali e pure “body shaming”. Da sempre icona della “body positivity”, Lizzo è infatti accusata assieme alla sua coreografa Tanisha Scott di aver fatto commenti a Davis circa la sua forma fisica dopo uno show, commenti che “hanno dato a Ms. Davis l’impressione di dover giustificare il suo aumento di peso e rivelare dettagli personali sulla sua vita al fine di mantenere il suo lavoro”. 

“Come Lizzo e il suo management hanno trattato il suo team sembra andare contro tutto ciò che la popstar rappresenta pubblicamente” le parole di Ron Zambrano, avvocato delle ballerine, “In privato umilia i suoi performer in modi che non solo sono illegali, ma assolutamente demoralizzanti”. Dalla diretta interessata e dai suoi rappresentanti, per il momento, ancora nessun commento, ma il popolo social sta già provvedendo a chiederle pubblicamente spiegazioni.

Lizzo si difende dalle accuse di molestie: «Tutto falso, sono devastata». Redazione Spettacoli su Il Corriere della Sera giovedì 3 agosto 2023.

La popstar, paladina della body positivity, da sempre orgogliosa delle sue forme extralarge, è stata citata in giudizio da tre sue ex ballerine. Accusano la cantante e il suo staff di molestie a sfondo sessuale, religioso e razziale, fat shaming, discriminazioni 

Si dice «sconvolta» dalle accuse mossale da tre sue ex ballerine la popstar Lizzo (al secolo Melissa Viviane Jefferson» che, martedì scorso, ha ricevuto notizia dell’azione legale intentata alla Corte Superiore di Los Angeles. Tre ex danzatrici del corpo di ballo della popstar, Arianna Davis, Crystal Williams e Noelle Rodriguez, hanno citato in giudizio Lizzo insieme al suo capitano di ballo e alla sua società di produzione Big Grrrl Big Touring (Bgbt). Le accuse sono molto gravi: molestie sessuali, religiose e razziali, discriminazione, aggressione e falsa detenzione. Tra gli episodi più gravi denunciati, anche alcuni momenti in cui le ballerine sarebbero state costrette a partecipare a spettacoli di sesso e ad interagire in atteggiamenti «hot» con altri ballerini tra il 2021 e il 2023.

In un post su Instagram, Lizzo interviene nella vicenda, dicendosi estranea alle accuse: «Questi ultimi giorni sono stati incredibilmente difficili e incredibilmente deludenti — scrive Lizzo —. La mia etica del lavoro, la morale e il rispetto sono stati messi in discussione. Il mio carattere è stato criticato. Di solito scelgo di non rispondere a false accuse, ma queste sono incredibili come suonano e sono troppo oltraggiose per non essere affrontate. Sono devastata dopo aver sentito queste affermazioni inventate fatte contro di me». Tra le accuse contro Lizzo, il cui vero nome è Melissa Viviane Jefferson, c’è quella di aver «fatto pressioni sulla signora Davis perché toccasse il seno» di un’artista in una discoteca di Amsterdam. La signora Davis, dopo aver resistito, alla fine ha acconsentito «per paura che potesse compromettere il suo futuro nel team» se non l’avesse fatto.

Lizzo attacca le sue accusatrici: «Queste storie sensazionalistiche provengono da ex dipendenti che hanno già ammesso pubblicamente che gli era stato detto che il loro comportamento in tournée era inappropriato e poco professionale» e poi difende il suo lavoro: «Come artista sono sempre stata molto appassionata di quello che faccio. Prendo sul serio la mia musica e le mie esibizioni perché alla fine della giornata voglio solo esprimere la migliore arte che rappresenta me e i miei fan. Con la passione arrivano il duro lavoro e standard elevati. A volte devo prendere decisioni difficili, ma non è mai mia intenzione far sentire qualcuno a disagio o come se non fosse considerato una parte importante della squadra».

Lizzo, sempre in prima linea contro il bodyshaming è anche accusata, insieme alla coreografa di danza Tanisha Scott, di aver fatto vergognare una delle ex ballerine, Arianna Davis, in tournée per un presunto aumento di peso. L’accusa sostiene inoltre che il capitano della squadra di ballo, Shirlene Quigley, abbia fatto pressioni delle sue convinzioni cristiane sugli artisti e deriso coloro che facevano sesso prima del matrimonio. È anche accusata di aver discusso apertamente della verginità di una delle ex ballerine e di averla postata sui social media. Accuse, inclusa la discriminazione razziale, sono rivolte anche al team di gestione di Bgbt, secondo le quali i membri neri della compagnia di ballo sarebbero stati trattati in modo discriminatorio rispetto agli altri membri del team. I querelanti affermano anche che Lizzo e il team della società di produzione non li avrebbero pagati in modo equo durante alcune parti del tour europeo della pop star. Ai ballerini sarebbe stato offerto solo il 25 per cento della loro retribuzione settimanale come acconto durante il periodo in cui non si esibivano nel tour, affermando inoltre che Lizzo e la società preferivano che non svolgessero altri lavori durante queste pause.

Due delle tre ballerine, Davise e Williams, sono state licenziate da corpo di ballo, mentre Rodriguez si è successivamente dimessa . Le prime reazioni al caso sono arrivate da Beyoncé quando durante un concerto a Boston, martedì, in alcuni video sembra aver omesso il nome di Lizzo mentre si esibiva in Break My Soul (Queen’s Remix) brano che celebra le donne nere nell’industria dell’intrattenimento e nel cui testo appare il nome di Lizzo insieme a quelli di Nina Simone, Lauryn Hill e Nicki Minaj

Estratto dell’articolo di Massimo Basile per “la Repubblica” giovedì 3 agosto 2023.

Tre ballerine hanno denunciato Lizzo per molestie sessuali, discriminazione e body shaming.

Il caso non è nuovo nel mondo dello spettacolo, ma è inaspettata la persona al centro delle accuse: Lizzo, pseudonimo di Melissa Viviane Jefferson, 35 anni, di Detroit […] 

[…] Arianna Davis, Crystal Williams e Noelle Rodriguez dipingono la cantante come un’arpia, una despota che non si fermava davanti a niente, pronta a umiliare i suoi collaboratori e a farli lavorare in condizioni “intollerabili”.

Una delle tre, Davis, ha accusato Lizzo di averla costretta, in un night club ad Amsterdam, a toccare il seno di una performer nuda e a prendere in mano dildo e banane. Al momento i legali dell’artista non hanno commentato. Due delle ragazze erano state ingaggiate da Lizzo dopo averla conosciuta durante uno dei tanti reality tv. La terza era stata assunta a parte. Tutte e tre hanno lavorato alle coreografie di scena per due anni, dalla primavera del 2021 all’inizio di quest’estate. 

Lizzo è accusata di aver dedicato “troppa attenzione, e non richiesta,” al fatto che le danzatrici avessero messo su peso. Una di loro, Williams, sarebbe stata licenziata davanti a tutti da un agente della cantante, una settimana dopo una lite scoppiata tra lei e Lizzo.

Davis, a cui è stato diagnosticato un disturbo dell’alimentazione, era stata cacciata per aver registrato un incontro con la cantante. Quell’episodio aveva spinto l’amica, Rodriguez, ad andarsene. 

[…]

I fan sono rimasti spiazzati. La cantante è stata a lungo vittima di bullismo quando era giovane: durante gli anni scolastici era stata più volte offesa e presa in giro dai suoi compagni. Adesso che è diventata una persona di potere, hanno commentato alcuni suoi fan, Lizzo «dovrebbe mostrare più empatia verso gli altri e invece si è trasformata lei stessa in bulla».

Il caso Kevin Spacey.

Kevin Spacey, il caso “zero” del linciaggio hollywoodiano. L’attore, vittima del populismo giudiziario internazionale, è stato assolto sia negli Usa che in Gran Bretagna. Ma dopo sei anni…Valentina Stella su Il Dubbio il 16 ottobre 2023

«Il mio mondo è esploso», ha testimoniato Kevin Spacey in tribunale a Londra. «C'è stata una corsa al giudizio e prima che la prima domanda venisse posta o si rispondesse, ho perso il mio lavoro, ho perso la mia reputazione, ho perso tutto nel giro di pochi giorni». Adesso chi ripagherà il due volte premio Oscar, uno dei più grandi attori della sua generazione, visto che è stato assolto sia negli Stati Uniti che in Gran Bretagna? Quando all’inizio di gennaio di quest’anno ha ricevuto, tra mille polemiche, un premio alla carriera dal Museo Nazionale del Cinema in una cerimonia a Torino l’attore ringraziò il museo per aver avuto «il coraggio, le palle, di invitarmi». Adesso che non serve più il coraggio qualcuno tornerà a farlo recitare sui grandi schermi? Sembrerebbe di no.

Come racconta inews.co.uk verso la fine di luglio, il New York Times ha contattato 15 importanti manager del teatro britannico. Il giornale americano ha voluto tastare il polso a Londra: potrebbe Kevin Spacey tornare alla ribalta? La loro risposta è stata il silenzio. Nessuno era disposto a commentare. Solo Alistair Smith, redattore del giornale di settore The Stage ha parlato della questione. Il ritorno di Spacey, ha scritto, «è altamente improbabile», così come un suo ritorno ad Hollywood. Insomma l’ostracismo continua a essere la sua punizione lavorativa. Come società, finora non siamo riusciti a sviluppare un approccio sano per riabilitare coloro che cadono in disgrazia e vengono soprattutto assolti.

Da quando era stato accusato di molestie e abusi sessuali, Spacey aveva smesso di lavorare come attore: nel 2017 era stato addirittura sostituito nel film di Ridley Scott “Tutti i soldi del mondo”, le cui riprese erano già state completate. Era stato poi escluso anche dal cast di “House of Cards”, la serie di Netflix di cui era stato protagonista per cinque stagioni. Intanto da allora la vera giustizia, quella delle Corti e non della piazza, ha fatto il suo corso: nel 2019, quando la presunta vittima si è improvvisamente rifiutata di testimoniare, i pubblici ministeri del Massachusetts hanno ritirato le accuse contro di lui in un procedimento penale in cui era accusato di aver aggredito sessualmente un uomo di 18 anni a Nantucket nel 2016. Un altro caso in California, intentato da un massaggiatore, è stato archiviato dopo la morte della presunta vittima.

L’anno scorso una giuria di New York lo ha assolto nella causa civile da 40 milioni di dollari che gli aveva intentato Anthony Rapp, l'attore di “Star Trek: Discovery” che l'aveva accusato di averlo molestato quando era ancora adolescente. A luglio di quest’anno un tribunale londinese lo ha assolto nel processo in cui era accusato di aver aggredito sessualmente quattro uomini. Le lacrime sono scese sul suo volto durante la lettura del verdetto finale di non colpevolezza. Il premio Oscar ha guardato la giuria, ha messo la mano sul petto e ha detto «grazie» ai nove uomini e tre donne che gli hanno restituito l’onore nel giorno del suo 64° compleanno.

Quello concluso tre mesi fa era l’ultimo processo pendente nei suoi confronti. Questi sono i fatti: cosa possiamo trarne? Senza dubbio questa sequela di assoluzioni è la prima vera crepa nel movimento del #metoo di cui Kevin Spacey era stato uno dei maggiori simboli. Il reietto è stato messo al bando dall’industria cinematografica, contro di lui si sono alzati i pugni delle femministe, è stato processato e giudicato colpevole dalle tricoteuse del nuovo millennio. Nessuno ha avuto la pazienza di attendere i verdetti del tribunale. L’epurazione doveva essere repentina, senza lasciare minimamente spazio alla presunzione di innocenza, inghiottita dal populismo giudiziario internazionale. Eppure Philip Roth, anch’egli travolto post mortem da questa ondata con accuse generiche e poco sostanziate, in poche parole è riuscito a dare senso a tutto questo: «Io presto ascolto al grido delle donne offese e ferite (nel caso di Spacey, uomini, ma non fa differenza, ndr). Non provo altro che solidarietà per il dolore e la loro richiesta di giustizia.

Ma mi rende ansioso la natura del tribunale che si sta pronunciando su quelle loro accuse. Mi rende ansioso, in quanto libertario e sostenitore dei diritti civili, perché non mi sembra un vero tribunale. Quello che invece vedo sono accuse rese istantaneamente pubbliche e subito seguite da un castigo perentorio. Vedo che all’accusato viene negato il diritto all’habeas corpus, il diritto a un confronto con chi lo accusa, e il diritto a difendersi in qualcosa che somigli a una vera corte di giustizia, dove possono essere fatte distinzioni rigorose riguardo alla gravità del crimine riportato» (Blake Bailey, Philip Roth – La biografia, Einaudi, pagine 1030, euro 26). Ecco, il grande scrittore americano con un perfetto equilibrismo tra le giuste pretese delle presunte vittime a farsi ascoltare e il diritto degli imputati ad essere giudicati nelle sedi opportune è riuscito a rappresentare tutti gli elementi in gioco del #metoo.

Quest’ultimo ha avuto sicuramente un impatto significativo sulla nostra cultura. Ad esempio la questione del consenso è cambiata grazie ad esso, con più persone che ora capiscono che «no» significa «no». Tuttavia nel 2018, Amber Heard si era dichiarata un «personaggio pubblico che rappresenta gli abusi domestici», e ha portato a un processo di alto profilo contro il suo ex marito, Johnny Depp. L’assoluzione di quest’ultimo ha rivelato che l'opinione pubblica è diventata meno amichevole nei confronti degli accusatori. Addirittura la violenza domestica continua a essere sottostimata, con solo il 41% dei casi denunciati alla polizia nel 2020, in calo rispetto al 47% del 2017, secondo il Dipartimento di giustizia americano.

Dagospia giovedì 27 luglio 2023. OGNI TANTO UNA BUONA NOTIZIA: FORSE POSSIAMO ARCHIVIARE QUEL PROGETTO POLITICO DI “REGIME CHANGE” NEI POSTI DI POTERE (TOGLIERE UOMINI E METTERCI DONNE) CHE SI CHIAMA “ME TOO” - L’ASSOLUZIONE DI KEVIN SPACEY E LE FALSE ACCUSE CONTRO JOHNNY DEPP DA PARTE DI AMBER HEARD, SENZA CONTARE LE INFAMANTI “RIVELAZIONI” CONTRO WOODY ALLEN, DIMOSTRANO CHE LA NEO-INQUISIZIONE ANTI-MASCHIO, INIZIATA (GIUSTAMENTE) CON IL CASO WEINSTEIN, E’ ANDATA FUORI CONTROLLO - “REPUBBLICA”: “IL METOO HA TRAVOLTO CINEMA, FINANZA E POLITICA, CON DECINE DI UOMINI IN POSIZIONI DI POTERE RIMOSSI DAI LORO INCARICHI. MA È STATO ACCOMPAGNATO DA FORTI POLEMICHE PERCHÉ SPESSO LA RESPONSABILITÀ DEGLI ACCUSATI VENIVA SANCITA SENZA UNA REALE DIMOSTRAZIONE DELLA VERIDICITÀ DEI FATTI”

Alba Parietti: «Il MeToo? Quello italiano è stato una barzelletta». Cosa insegna l’assoluzione di Kevin Spacey? Parla l’opinionista tv: «Io mi sono stufata di sentire inutili lamentele. La verità è che i veri potenti non si denunciano mai. E alla fine ci si accanisce contro una singola persona, senza mai cambiare le cose». Francesca Spasiano su Il Dubbio il 28 luglio 2023

Cosa resta del MeToo? È la domanda che si pone all’indomani dell’assoluzione di Kevin Spacey, diventato suo malgrado il simbolo di un movimento che ha sconquassato il mondo dello spettacolo in ogni parte del mondo. Cadute le accuse, svanisce anche la gogna. E forse l’attore americano potrà riprendersi la carriera che gli è stata sottratta. Ma cosa è cambiato, intanto, dentro quel sistema che si voleva smantellare? Per quel che riguarda l’Italia «assolutamente nulla», risponde Alba Parietti. «Il MeToo interessa soprattutto perché riguarda personaggi famosi, è il gusto del gossip - aggiunge la conduttrice e opinionista tv -. Ci siamo limitati a guardare la punta dell’iceberg, senza badare a quello che c’era sotto. E senza prendere coscienza di ciò che accade nel mondo, dove ogni giorno alle donne sono negati i diritti fondamentali. Ecco perché bisognerebbe estendere la nostra visione e smettere di piangersi addosso. Altrimenti facciamo le Elkann sul treno per Foggia».

Il MeToo italiano: caccia alla streghe o una rivoluzione mancata?

In America tutto è partito da due casi eclatanti, Weinstein ed Epstein, vicende documentate e arcinote. In Italia, il MeToo è stata un po’ una barzelletta: si è parlato di un unico caso, il caso Brizzi, assunto come capro espiatorio. Intanto il sistema è rimasto intatto. Tanto nel mondo dello spettacolo, quanto negli altri ambiti lavorativi dove ci sono tante situazioni che non hanno la stessa risonanza mediatica. Se c’è stata una caccia alle streghe? Prenda il caso di Roman Polanski, che ha pagato un prezzo altissimo per le accuse che gli sono state rivolte. Accuse che mi hanno molto stupita, e nelle quali non rivedo la persona che ho conosciuto per anni.

Ritiene che nel suo ambiente alcune vicende siano state strumentalizzate?

Bisogna imparare ad essere intellettualmente onesti. Io non giudico nessuna donna. Qualsiasi persona ha diritto di sognare la più fantastica delle carriere, senza accettare compromessi. Ma sono altrettanto convinta che questo sia possibile in pochissimi casi. Perché per ogni persona di talento, ce ne sono altrettante pronte a tutto per fare carriera. E bisogna ammettere che è la regola del gioco.

Accettare compromessi?

Scardinare questo tipo di sistema è molto - molto complicato. Perché c’è una grande capacità in questo lavoro di scavalcare gli altri senza alcun tipo di scrupolo morale. Io posso permettermi di dire che in 46 anni di carriera non ho mai accettato un compromesso.

Le è capitato di trovarsi in situazioni spiacevoli?

Due in particolare, molto inquietanti. Ho avuto la forza di reagire e di uscirne senza grosse conseguenze. Ma anche senza vantaggi per la mia carriera. Una volta, quando avevo 18 anni, ho ricevuto delle avances da parte di una persona che si trovava in una posizione di potere. Sono rimasta paralizzata, ma per fortuna avevo di fronte una persona non violenta che ha capito la situazione. E io purtroppo l’ho considerato un episodio normale. Il meglio che potessi sperare è che questa persona non mi perseguitasse lavorativamente per un rifiuto.

Ci ha più ripensato negli anni?

Ho cercato di limitare i danni. Non l’ho raccontato a nessuno, non volevo farne un caso. S’immagina un mondo in cui nessun produttore o regista importante ci prova con un’attrice? Crede che possa succedere? Dovrebbe, ma è un’utopia. Un giorno un grosso dirigente disse al mio agente: “Ricorda che la Parietti che non ha santi in paradiso”. Vede: certamente si può fare carriera anche senza accettare compromessi, ma facendo cento volte più fatica. E questo non è un lavoro per persone deboli. Ci sono i lupi e gli agnelli, ma gli agnelli devono imparare a diventare dei falchi ed essere capaci di difendersi.

Si potrebbe obiettare che non sono le donne a doversi difendere, ma gli uomini a dover cambiare.

Mi creda, nessuno è più femminista di me. Però io mi sono stufata di sentire inutili lamentele. La verità è che i veri potenti non si denunciano mai. E alla fine ci si accanisce contro una singola persona, senza mai cambiare le cose.

Come le si potrebbe cambiare, a suo parere?

Le donne devono imparare a difendersi culturalmente. Certo gli uomini devono cambiare per primi, ma anche le donne devono appropriarsi del diritto di non stare al gioco. E di sottrarsi a questo schema di scambio. Oggi si è perso il senso della morale e della vita. Vedo un analfabetismo totale dei sentimenti, un mondo mercificato e brutto da vedere.

E al contempo siamo diventati “puritani”, come sostiene qualcuno?

Se parla del politicamente corretto, ci siamo tolti soltanto il gusto della battuta. Un’ipocrisia totale. Perché non si può più dire nulla, ma sul piano dei diritti non è cambiato nulla.

Ma tornando al discorso precedente, per una donna che trova il coraggio di denunciare le cose non sono mai semplici. Il rischio è di finire sul banco degli imputati, fuori e dentro i tribunali.

Quando una donna denuncia viene sempre giudicata, lo abbiamo visto nei casi più eclatanti, come nella vicenda Genovesi. Si diceva: “Ah, ma queste ragazze facevano le escort”. Come se significasse che sono schiave. Il problema è il giudizio, che spesso viene proprio dalle donne. Una donna che fa la escort e viene violentata, è una donna violentata. Punto. Bisogna sempre distinguere tra una scelta consapevole da parte delle donne, che possono accettare dei compromessi e non vanno giudicate per questo. Ma quando non c’è una scelta, si tratta di violenza. A qualunque livello.

Che idea si è fatta del caso LaRussa Jr? Il presidente del Senato ha ricevuto duri attacchi per le parole pronunciate in difesa del figlio, ed è diventato anche un bersaglio delle femministe che hanno affisso dei manifesti in segno di protesta.

Credo che abbia ragione Meloni, quando dice che se fosse stato suo figlio avrebbe scelto di restare in silenzio. Sono abituata a non giudicare mai prima di conoscere i fatti. E questo deve valere anche per il presidente La Russa. Ma non mi piace fare la forcaiola, i processi si fanno in tribunale.

CASO KEVIN SPACEY, GIUSTO ROVINARGLI LA CARRIERA? Si & No

Il Sì&No del giorno.

Caso Kevin Spacey, giusto rovinargli la carriera? “Sì, bisognava proteggere le vittime e difendere l’integrità del cinema”. Veronica Cereda su Il Riformista il 28 Luglio 2023 

Nel Sì&No del giorno ci occupiamo del caso dell’attore Kevin Spacey, accusato di molestie sessuali, assolto nelle ultime ore da tutte le accuse. Dalle accuse a Spacey, mosse i primi passi il movimento #Metoo, mentre Spacey vide la sua carriera sostanzialmente stoppata. Abbiamo chiesto se sia stato giusto rovinare la carriera all’attore all’attivista Veronica Cereda, che è favorevole, e al parlamentare ed avvocato Francesco Bonifazi, che è contrario.

Qui il parere di Veronica Cereda.

L a decisione di interrompere la carriera di Kevin Spacey è stata giustificata dalle gravi accuse di molestie sessuali che sono state mosse nei suoi confronti. Le accuse, rese pubbliche nel 2017, coinvolgevano numerose persone che avevano lavorato con lui o che avevano avuto incontri personali. Queste affermazioni hanno scosso l’industria cinematografica e hanno avuto un impatto significativo sulla reputazione di Spacey come attore e figura pubblica. Le accuse di molestie sessuali sono estremamente serie e possono avere un profondo effetto sulle vittime coinvolte. Esse non solo causano un trauma emotivo e psicologico, ma possono anche influenzare negativamente la vita e la carriera delle vittime. È fondamentale ascoltare e sostenere le vittime, garantendo che le loro storie siano ascoltate e che ricevano giustizia.

Le accuse contro Kevin Spacey hanno ricevuto un’attenzione significativa da parte dei media e dell’opinione pubblica, mettendo in luce l’importanza di affrontare seriamente i problemi legati agli abusi sessuali nell’industria dell’intrattenimento e oltre. Questi eventi hanno innescato un’importante discussione sulla cultura del silenzio e dell’impunità che ha a lungo caratterizzato l’industria cinematografica e spettacolare. Le azioni prese per interrompere la carriera di Spacey sono state intraprese da istituzioni e produttori cinematografici sulla base delle accuse e delle prove disponibili. Queste azioni possono includere il licenziamento da progetti in corso o il rifiuto di lavorare con lui in futuro. Tale reazione può essere vista come una misura preventiva per proteggere l’immagine e l’integrità dell’industria, ma soprattutto per proteggere le vittime e garantire che non si sentano emarginate o ignorate. È importante sottolineare che la presunzione di innocenza è un principio fondamentale nei sistemi giuridici democratici.

Tuttavia, quando si affrontano casi di molestie sessuali, spesso può essere difficile ottenere prove concrete e la verità può risultare complessa da stabilire. Pertanto, mentre il sistema giuridico può trattare il caso in base alle leggi vigenti, la società e l’industria del cinema devono prendere decisioni basate sul rispetto e sulla protezione delle vittime. Un altro aspetto importante di questo dibattito riguarda il messaggio inviato alla società. Quando una figura pubblica Veronica Cereda / Attivista accusata di abusi sessuali continua a lavorare senza conseguenze, ciò potrebbe trasmettere il messaggio che tali comportamenti sono tollerati o ignorati. Al contrario, interrompere la carriera di un individuo accusato di molestie sessuali può inviare un segnale forte che tali comportamenti sono inaccettabili e non saranno ignorati o minimizzati.

In conclusione, la decisione di interrompere la carriera di Kevin Spacey dopo le accuse di molestie sessuali è stata giustificata dal bisogno di proteggere e sostenere le vittime, mantenere l’integrità dell’industria cinematografica e inviare un messaggio chiaro contro gli abusi sessuali. È importante continuare a lottare contro la cultura dell’impunità e lavorare verso un ambiente più sicuro e rispettoso per tutti. Veronica Cereda

Il Sì&No del giorno

Caso Kevin Spacey, giusto rovinargli la carriera? “No, una vita spezzata, per anni sotto la scure di una giustizia sommaria e mediatica”. Francesco Bonifazi su Il Riformista il 28 Luglio 2023 

Nel Sì&No del giorno ci occupiamo del caso dell’attore Kevin Spacey, accusato di molestie sessuali, assolto nelle ultime ore da tutte le accuse. Dalle accuse a Spacey, mosse i primi passi il movimento #Metoo, mentre Spacey vide la sua carriera sostanzialmente stoppata. Abbiamo chiesto se sia stato giusto rovinare la carriera all’attore all’attivista Veronica Cereda, che è favorevole, e al parlamentare ed avvocato Francesco Bonifazi, che è contrario.

Qui il parere di Francesco Bonifazi.

Un grido di dolore e di vergogna dovrebbe levarsi dall’Inghilterra e dagli Stati Uniti per ciò che è accaduto a Kevin Spacey. Ma più in generale dovrebbe levarsi un grido di dolore per l’insensata e, ahimè, colpevole compressione dei princìpi di Giustizia che si è verificata in questi due Paesi, caratterizzati storicamente dal sistema di Common Law da sempre antesignano nel riconoscimento dei diritti e nell’esercizio della Giustizia.

Questa assoluzione mi auguro serva a far comprendere che la Giustizia, quella vera, quella che incide sulla vita di ciascuno di noi, si forma solo e soltanto nel Processo, nel contraddittorio tra le parti. La Giustizia non può essere quella emersa dalle parole di improbabili accusatori o, peggio, quella descritta nei caratteri e nelle parole di qualche spregiudicata testata giornalistica, impegnata più nello sciacallaggio mediatico che non nel rispetto del diritto di cronaca. Un sistema, quello della giustizia sommaria, che trova infine sublimazione nel mare magnum, privo di regole e di morale, dei social network. Sempre più spesso, purtroppo anche in Italia, la verità processuale cede il passo alla verità mediatica frutto di una cronaca giudiziaria (per fortuna non tutta) priva di scrupoli e più impegnata ad additare il colpevole che non a ricercare criticamente la verità. Una vita spezzata, anzi correggo, tante vite spezzate; quella di Kevin Spacey, quella della sua famiglia e quella di chi gli vuole bene.

Per anni sotto la scure di una giustizia sommaria, mediatica, Spacey è stato designato dai media come il colpevole di efferati reati che in verità non ha mai commesso. Da carnefice oggi ci accorgiamo che è stato vittima di una giustizia ingiusta, che lo ha leso irreparabilmente nella sua reputazione, nel suo onore, nella sua dignità, oltre ad avergli distrutto la vita professionale. È bene ripetercelo: per tutto il mondo egli è stato, per oltre quattro anni, il “predatore seriale, viscido e spregevole” (così gli atti d’accusa), e oggi, grazie alla Giustizia vera, quella che si esercita davanti ai giudici nel Processo, torna finalmente ad essere Kevin Spacey, un uomo vittima di una distorsione e di un arretramento culturale che sta colpendo tutto l’Occidente e che vede negli Stati Uniti un negativo anticipatore. Per ironia della sorte si potrebbe affermare che Kevin Spacey in questi anni fosse stato confuso col suo personaggio più famoso, quello del politico corrotto, privo di scrupoli e morale. Egli però non lo era, era invece il grande attore che con grande capacità e con grande professionalità ha interpretato il suo carnefice, metafora (il politico corrotto) dello scadimento dei valori essenziali delle nostre società.

Le deriva giustizialista, lo sciacallaggio mediatico, il massimalismo giudiziario rappresentano un’aggressione profonda alla nostra cultura, ai nostri valori giuridici, una vera involuzione. Permettere che la nostra cultura giuridica ceda il passo alla rabbia giustizialista, significa non solo mortificare la nostra storia, ma indietreggiare verso sistemi sommari che abbiamo sempre e giustamente contrastato. Siamo l’Occidente, siamo i figli di culture democratiche, siamo fermi sostenitori dello stato di diritto, per questo dobbiamo reagire con forza a questa spinta verso l’anticultura massimalista, giustizialista, che minaccia ahimè non solo gli Stati Uniti, ma anche la nostra Europa e la nostra Italia. Francesco Bonifazi

Estratto dell’articolo di Arianna Farinelli per “la Repubblica” giovedì 27 luglio 2023.  

Kevin Spacey è stato assolto ieri a Londra dall’accusa di aver abusato sessualmente di quattro uomini. Durante il processo il suo avvocato ha dichiarato che chi lo accusava ha mentito solo per ottenere dei benefici finanziari. Già l’anno passato, Spacey era stato assolto in un altro processo per abusi sessuali a Manhattan. Non è questo il primo processo dell’era del MeToo che finisce in questo modo. Lo scorso anno l’ex moglie di Johnny Depp, Amber Heard, era stata condannata per aver ingiustamente accusato il marito di violenza.

E già allora il New York Times scriveva che quel processo aveva decretato una volta per tutte la fine del MeToo, il movimento diventato globale dopo le accuse di abusi sessuali al produttore Harvey Weinstein. In questi anni il MeToo ha finito per travolgere il mondo del cinema, della finanza e della politica, con decine di uomini in posizioni di potere rimossi dai loro incarichi. Ma è stato accompagnato anche da forti polemiche perché spesso la responsabilità degli accusati veniva sancita senza una reale dimostrazione della veridicità dei fatti. 

E ci sono stati casi famosi, come quello di Woody Allen, che hanno diviso l’opinione pubblica e decretato la fine della carriera del regista, almeno negli Stati Uniti. Quest’anno il film di Allen e quelli di registi come Luc Besson e Roman Polanski, anche loro accusati di abusi, verranno presentati alla Mostra di Venezia, segno che forse i tempi sono davvero cambiati rispetto al MeToo.

Quello che invece non è cambiato, e anzi è in crescita, è la violenza di genere: più 33% di casi di violenza sessuale nel 2022, secondo il ministero dell’Interno. Pertanto, il punto vero non è se il MeToo è morto come movimento, ma se la battaglia per i diritti delle donne è viva. Nel nostro Paese, poi, come hanno dimostrato i casi di cronaca delle ultime settimane, è sempre più radicato il pregiudizio che addebita alla donna la responsabilità della violenza sessuale subita. Il 12 luglio il Parlamento Europeo ha approvato una direttiva per combattere più efficacemente la violenza di genere negli Stati dell’Unione.

[…] Forse, invece di occuparci dei processi alle celebrità, dovremmo impegnarci in un profondo cambiamento culturale, oltre che giuridico, affinché si crei maggiore consapevolezza e rispetto attorno al tema del consenso.

Estratto dell’articolo di Caterina Soffici per “la Stampa” giovedì 27 luglio 2023.

Kevin Spacey non è più un mostro. L'hanno assolto ieri a Londra da tutti e nove i capi d'accusa, tra cui violenza sessuale e induzione di attività sessuali senza consenso. Per tutto il tempo della lettura dei verdetti l'attore due volte premio Oscar è rimasto in piedi in un box trasparente al centro dell'aula, in abito blu scuro, guardando la giuria senza far trasparire emozioni. […] 

La giuria ci ha messo appena dodici ore e mezza a decidere. Una giuria composta da 12 cittadini britannici comuni (nove uomini e tre donne) tirati a sorte dalle liste elettorali.

Un aspetto interessante, questo, perché il verdetto popolare ribalta la condanna mediatica contro l'attore descritto negli ultimi sei anni come un «predatore seriale», «viscido, disgustoso e spregevole», un «cobra che si credeva intoccabile» in quanto ricco, potente e famoso, paragonato a un serpente perché abile in una mossa fulminea con la quale si avventava sugli organi sessuali delle sue giovani prede.

Il verdetto arriva dopo un processo lungo un mese, nel giorno del compleanno numero 64, e c'è già chi parla di una nuova nascita per Spacey. Anche se non è ovvio rifarsi una vita, dopo che sei stato uno dei simboli negativi del potere cattivo dei maschi di Hollywood, e quattro uomini ti hanno accusato, proprio all'inizio del #MeToo, di aver abusato del tuo potere per molestarli sessualmente.

Era il 2017 quando le accuse di comportamenti inappropriati sono iniziate ad emergere contro Spacey su entrambe le sponde dell'Atlantico. Durante il processo, sono stati ascoltati i quattro uomini che hanno dichiarato che Spacey li aveva aggrediti tra il 2001 e il 2013, durante il periodo in cui l'attore è stato il direttore artistico dell'Old Vic, il più importante teatro di prosa londinese.

Uno dei denuncianti aveva accusato Spacey di averlo toccato più volte senza il suo consenso. In una occasione, nel 2004 o nel 2005, ha detto che l'attore gli ha afferrato i genitali così forte da farlo quasi uscire di strada mentre era alla guida e si stavano dirigendo al "White White Tie and Tiara Ball" di Elton John. 

[…] Un altro accusatore ha detto di aver scritto a Spacey sperando che gli facesse da mentore e di essere poi andato a bere qualcosa a casa dell'attore a Londra. Lì si sarebbe poi addormentato e si sarebbe svegliato trovandosi Spacey in ginocchio che gli praticava sesso orale. Spacey ha ammesso queste relazioni, ma ha sostenuto che erano consensuali.

La difesa (che pare sia costata all'attore tra i 2 e i 3 milioni di sterline) ha giocato tutto sull'aspetto del ricatto, sostenendo che tre dei denuncianti hanno mentito nella speranza di ottener un guadagno economico. Patrick Gibbs, l'avvocato di Spacey, ha sostenuto che lo stile di vita promiscuo dell'attore lo ha reso un «bersaglio facile» per le false accuse.

L'attore dal canto suo ha ammesso di aver fatto uso di droghe «ricreative» ma ha sempre negato di aver approfittato del suo ascendente e di aver agito in modo non consensuale. Va anche ricordato che nel 2022, una giuria federale di Manhattan aveva dichiarato Spacey non responsabile di percosse dopo che l'attore Anthony Rapp aveva intentato una causa accusandolo di averlo assaltato e di avergli fatto una avance sessuale nel 1986, quando Rapp aveva 14 anni. Ora è da capire se davvero questa seconda rinascita a 64 anni sarà possibile. […]

In difesa di Golia. Tommaso Cerno su L'Identità il 28 Luglio 2023

Come in una nemesi i Soliti Sospetti, la figura più forte accusata da quella più debole, si trasforma nei soliti pregiudizi. Kevin Spacey è condannato dal mondo, cade dal suo altare ma poi è innocente. Perché Davide e Golia non è sempre la realtà. Dovremmo trarre una lezione dall’esito del processo di Londra a quello che è stato il più grande attore del momento nel mondo proprio quando venne colpito dalle accuse di molestie da parte di giovani aspiranti attori che l’avevano incontrato.

È stato facile scrivere la trama del film che lui non aveva ancora girato. Un film in cui chi non era Kevin si sentiva vittima di un successo planetario e tifava per quelle accuse. Accuse che si sono materializzate come una condanna dantesca, cancellando il suo nome dal cinema in poche ore, cancellandolo dai titoli di coda, cancellandolo dai progetti già in corso, mentre nel silenzio ipocrita tutti noi avevamo già deciso che quel signore che sugli schermi era il presidente degli Stati Uniti cinico e fluido Underwood nella realtà era un molestatore di ragazzini. E nell’America neopuritana non c’è stato scampo. È un po’ il sistema hollywoodiano applicato alla giurisprudenza quello che ci fa leggere la trama come l’avrebbe scritta uno sceneggiatore, quella trama che vediamo ripetersi nelle fiction nei film identica sempre, quella trama per cui il debole ha ragione e prima o poi riuscirà nella società perfetta che non guarda in faccia a nessuno a sconfiggere il potente.

Il problema è che le società perfette non esistono e che non sempre le trame corrispondono alla realtà. Anche se ci piacerebbe pensare che chi ha fatto e ha avuto più di noi in fondo nasconde segreti inconfessabili, anche se ci stimola l’idea che veder cadere chi sta in alto porta un po’ più in alto anche noi, si tratta di grandi bugie che raccontiamo a noi stessi. E che mostrano invece quanto poco crediamo davvero in quello che diciamo.

Noi vogliamo una giustizia uguale per tutti e invece la giustizia ha sempre il manico dalla parte di chi accusa. Noi vogliamo una società da sogno in cui non è possibile che una persona che non ha avuto ciò che voleva dalla vita inventi delle accuse o ingigantisca dei fatti perché non potendo arrivare là dove un altro è arrivato vuole veder scendere lui fino al suo livello. Eppure succede anche questo. Perché non è detto che un grande attore, inarrivabile, narcisista, omosessuale debba per forza violentare o molestare i ragazzi che incontra nella vita privata o in quella lavorativa.

Come non è sempre vero che il debole che denuncia il più forte lo fa per un senso di giustizia, vincendo le paure o sfidando il sistema. Capita anche che lo faccia per invidia o per vendetta e che il sistema stia bello e schierato proprio dalla sua parte, indipendentemente dai fatti reali e se noi vogliamo davvero che chi subisce torti o malvagità, così come violenze o soprusi, possa difendersi da chi li ha compiuti usando una posizione di forza, sfruttando l’ufficio del capo, facendo quello che succede davvero in molti sistemi gerarchici, dobbiamo limitarci ad analizzare i fatti. Perché altrimenti noi faremo un danno proprio a chi è vittima davvero esponendo al mondo i limiti del nostro sistema giudiziario e morale.

Sono pronto a scommettere che nemmeno stavolta cambierà nulla perché è troppo bello dal divano di casa sposare la sentenza che ci fa vedere il mondo come più giusto, sensazione che non viene rovesciata nemmeno quando abbiamo le prove che la giustizia in quel caso stava tutta da un’altra parte. E così come nell’ultima scena dei Soliti sospetti mentre Kevin Spacey smette di zoppicare e mostra a tutti il vero volto di Kaiser Soze noi lo rivedremo camminare eretto a dirci che quel passo incerto che ha travolto la sua vita non era reale, mentre tutti guardavano da una parte la verità si consumava come in un gioco di prestigio agli antipodi del racconto su cui il mondo è rimasto sospeso per anni. Con la differenza che Soze era un criminale che fuggiva e si mimetizzava nel mondo incapace di afferrarlo mentre Kevin è un innocente che farà molta fatica a rientrare in quello spazio che durante la vita si era costruito recitando la parte di un altro.

Kevin Spacey, le nuove accuse di violenza: "Mi svegliai mentre faceva questo su di me". Alice Coppa su Notizie.it l'11 Luglio 2023

Una nuova testimonianza shock è stata ascoltata in aula alla Southwark Crown Court di Londra nel processo per abusi contro Kevin Spacey.

Kevin Spacey: le accuse del testimone

4 uomini hanno denunciato il celebre attore Kevin Spacey per 12 capi d’accusa relativi a reati sessuali e nella terza settimana del processo, riferisce il sito americano di The Hollywood Reporter, alla giuria è stato mostrato un video di un’intervista della polizia risalente al 2007 in cui la quarta presunta vittima ha raccontato l’abuso che avrebbe subito da parte dell’attore nella sua abitazione.

L’uomo in questione lascia intendere di esser stato in qualche modo drogato da Spacey che, infine, avrebbe abusato di lui. Dopo un periodo di tempo imprecisato l’uomo si sarebbe svegliato sul divano presente nella casa dell’attore e avrebbe trovato Spacey inginocchiato sul pavimento intento a praticare del “sesso orale su di lui” dopo avergli aperto i pantaloni. La presunta vittima a seguire si sarebbe allontanato da casa dell’attore e, a suo dire, lo stesso Spacey gli avrebbe intimato di non dire nulla di ciò che era avvenuto.

L’attore – che ha fatto coming out quando sono emerse le prime accuse di abusi ai suoi danni – si è sempre dichiarato innocente e al momento non ha rilasciato dichiarazioni.

Estratto dell'articolo di tg24.sky.it mercoledì 26 luglio 2023.

L'attore statunitense Kevin Spacey è stato dichiarato non colpevole da una giuria presso un tribunale di Londra nel processo in cui era accusato di aver commesso reati sessuali nei confronti di quattro uomini. Il 64enne premio Oscar è stato assolto da nove accuse, tra cui violenza sessuale e induzione di attività sessuali senza consenso. 

I presunti abusi e molestie sessuali contestate a Londra riguardavano vicende risalenti a un periodo compreso fra il 2001 e il 2013. Il verdetto della giuria popolare, radunata dinanzi alla Southwark Crown Court, è arrivato dopo circa un mese di udienze. L’attore si era sempre dichiarato innocente rispetto alle accuse, riguardanti una decina di episodi, rivoltegli da 4 uomini più giovani tra cui un ex aspirante attore.

Le accuse erano denunciate in due tranche, prima dal giovane aspirante attore, poi da altri tre uomini che a quel tempo avevano tra i 20 e i 30 anni. Nella fase finale del procedimento la pubblica accusa ha insistito nel presentare il due volte premio Oscar come un personaggio che ha sfruttato il suo potere e la sua influenza nel mondo dello spettacolo per abusare di uomini più giovani di lui sostenendo che il suo comportamento andasse giudicato alla stregua delle molestie sessuali commesse ai danni di donne e denunciate dal movimento MeToo.

L'avvocato difensore di Spacey, Patrick Gibbs, ha invece negato ogni accusa, sebbene l'attore abbia riconosciuto di essere una persona "promiscua" e ammesso di aver fatto uso di droghe "ricreative" ma allo stesso tempo ha negato con forza di aver approfittato del suo ascendente e di aver agito in modo non consensuale. […]

 Estratto dell’articolo di Paola De Carolis per il “Corriere della Sera” mercoledì 26 luglio 2023.

Si è difeso dicendosi, tra le lacrime, un uomo «propenso al flirt» ma non per questo «cattivo» e definendo le accuse di molestie e violenze sessuali a lui rivolte «pura follia»: al termine di un processo lungo quasi un mese, il destino dell’attore Kevin Spacey è ora nelle mani di dodici giurati. 

Spetterà a loro – normalissimi londinesi convocati a svolgere il proprio dovere civico – decidere chi ha ragione in un caso che alla Southwark Crown Court di Londra ha portato una sfilata di star e l’attenzione dei media internazionali. 

Due volte premio Oscar – per American Beauty e I soliti sospetti – ex direttore del teatro Old Vic, famosissimo anche grazie alla serie House of Cards, Spacey si è battuto con ogni mezzo: conferma dell’importanza del verdetto londinese, si è avvalso della testimonianza via video di Elton John e del marito David Furnish oltre a quella di Chris Lemmon, figlio di Jack, che lo hanno ritratto come un amico affidabile e sempre pieno di rispetto verso gli altri, […]

[…] L’assoluzione piena gli permetterebbe di riavviare una carriera interrotta bruscamente dalle prime accuse nel 2017, all’epoca degli esordi del #MeToo. Un verdetto di colpevolezza, invece, allontanerebbe la possibilità di riabilitazione in modo definitivo. 

Quattro gli accusatori – la loro identità è protetta dalla legge, ma si sa che del gruppo fanno parte un ex autista di Spacey e un aspirante attore – e dodici i capi d’accusa, che risalgono al periodo tra il 2001 e il 2013. Spacey in aula à stato descritto come un predatore seriale «viscido, disgustoso e spregevole».

Nel corso delle udienze sono emersi i dettagli delle presunte molestie: da quella che è stata definita la «mossa caratteristica» di Spacey, ovvero l’abilità di afferrare l’inguine delle sue vittime in modo inaspettato e violento, a un rapporto di sesso orale avuto con un uomo che crede di essere stato drogato una volta arrivato nell’appartamento dell’attore. Le azioni e i movimenti di Spacey sono stati paragonati a quelli di «un cobra che si credeva intoccabile».

Da parte sua, l’attore ha ammesso di aver condiviso momenti di intimità con alcuni suoi accusatori ma ha sottolineato di aver avuto soltanto rapporti consensuali.

Ha ammesso inoltre di aver «interpretato male» i segnali ricevuti da uno dei quattro uomini e di aver cercato di spingersi «goffamente» oltre il flirt prima di capire di aver frainteso. Ha detto di aver fatto uso di droghe e di essere promiscuo, aggiungendo però che tutto questo non fa di lui un mostro. […]

Non colpevole. Kevin Spacey assolto per le accuse di molestie sessuali, perché l’attore era finito sotto processo. È terminato con una sentenza di assoluzione il processo ai danni della star di Hollywood. A denunciarlo sono stati quattro uomini. Redazione Web su L'Unità il 26 Luglio 2023

“Non colpevole“, lo ha stabilito la giuria londinese che si è occupata del processo a carico di Kevin Spacey. La decisione è giunta dopo tre giorni di riunione in camera di consiglio. Il verdetto è stato già consegnato alla Southwark Crown Court. L’attore era stato accusato di molestie sessuali, dopo la denuncia di quattro uomini. I fatti sarebbero accaduti venti anni fa. Tre hanno dichiarato di essere stati afferrati in modo violento da Spacey al linguine. Il quarto, un aspirante attore, l’aveva invece accusato di avergli praticato del sesso orale dopo essersi risvegliato a casa della star di Hollywood, dove era svenuto o si era addormentato.

L’altro procedimento giudiziario

L’attore si è sempre dichiarato non colpevole. Perché Kevin Spacey è stato accusato? La star di Hollywood è stato assolto lo scorso ottobre dalla Corte Federale di New York dopo che il premio Oscar era finito sotto processo in seguito alle accuse del collega Anthony Rapp. Quest’ultimo, lo aveva denunciato per alcuni fatti avvenuti nel 1986. Rapp sarebbe stato molestato da Spacey quando aveva 14 anni e l’attore era già noto a Broadway. La denuncia fu fatta nel 2017 e la presunta vittima chiese 40 milioni di dollari di risarcimento. Sulla vicenda si scatenò il movimento ‘MeeToo‘. Il processo è durato tre settimane e i giurati hanno impiegato 90 minuti per prendere una decisione. Il verdetto è stato consegnato al giudice Lewis Kaplan.

Perché Kevin Spacey è stato accusato

Spacey è uno degli attori più famosi e importanti della storia del cinema. Ha vinto due oscar per le interpretazioni nei film I Soliti Sospetti e American Beauty. Da ricordare Americani, Il prezzo di Hollywood, Iron Will, Seven, L.A. Confidencial, Bugie, baci, bambole e bastardi, The big Kahuna, K-Pax, The life of David Gale. A causa delle accuse è stato licenziato da Netflix che gli impedì di essere protagonista dell’ultima stagione di House of cards. Lo stesso gli è capitato per il film girato da Ridley Scott, Tutti i soldi del mondo. Il lungometraggio ha raccontato la storia del rapimento di John Paul Getty III, nipote di uno degli uomini più ricchi del mondo: Jean Paul Getty. Proprio quest’ultimo era stato interpretato da Spacey, poi sostituito da Christopher Plummer. Redazione Web 26 Luglio 2023

 Estratto dell’articolo di Natalia Aspesi per “la Repubblica” sabato 29 luglio 2023

Oggi le prede che potevano concupire Kevin Spacey (o essere da lui concupite) l’hanno lasciato un po’ ciccio, come può esserlo a 64 anni uno che ha passato anni brutti tra gente bruttissima, a spiegare che quelle cose là lui non le aveva proprio fatte, per lo meno con loro. Proprio a Londra, dove era stato a dirigere l’Old Vic in tempi quasi remoti, dal 2003 al 2009, quando gli allora giovanetti da lui avvicinati dicevano di essersi addormentati mentre lui ne faceva di ogni colore e loro continuavano a dormire. […] ora le signore possono singhiozzare contente: innocente!

Anche lui, pover’uomo, di quei lontani passaggi tra giovanotti non aveva più memoria, ma il MeToo, vindice, che non fa differenze tra uomo, donna o altro, si è abbattuto su di lui per almeno cinque anni di umiliazione e vuoto: niente sesta puntata dell’appassionante Underwood per Netflix, niente Tutti i soldi del mondo in cui, sostituito da Christopher Plummer, doveva essere l’avaro miliardario Jean Paul Getty. 

Niente soprattutto Gore, prodotto da Netflix, sulla aristocratica vita di Gore Vidal, grande scrittore omosessuale americano, già girato ma messo in cantina. E in più, tanto per dire il suo momento di disperazione, si è lasciato mettere in un film di Franco Nero, L’uomo che disegnò Dio, scomparso in un baleno.

Riuscirà il grande attore Spacey a tornare a galla, mentre nel frattempo gli attori si son messi a scioperare e al cinema vanno ormai i novantenni? I tempi cambiano in un baleno. Adesso anche il MeToo, dopo aver raggiunto picchi estremi (quale quello di mandare in galera un buon giovane che ti diceva “che bel sedere”), sta un po’ in affanno. Ma pochi anni bastano a rendere vecchia una bella idea, a renderla frusta? 

Parliamo adesso delle vere protagoniste, le donne per cui il MeToo è nato. In un bell’articolo su Repubblica, Arianna Farinelli ricorda come il codice penale italiano, 609 bis, prevede che oggi il reato di stupro sia necessariamente legato alla violenza e non al rapporto sessuale senza consenso.

Sinceramente, e con tutta la buona volontà, è difficile pensare a una folla presente al fattaccio, che sostenga che ha ragione lei o ha ragione lui, col consenso o senza consenso. È dall’estate del 2019, quasi quattro anni, e da qualche settimana che ci si chiede se Ciro Grillo (con processo avviato) e Leonardo Apache La Russa (ancora a indagine) siano colpevoli o no, ed è probabile che le sentenze ci saranno quando i due saranno lieti nonni: […] 

Poi altre cose sono di molto cambiate. Secondo il Pd si sono raddoppiati i queer che le donne neanche le vedono, una massa immensa di influencer maschi e non solo loro ha imparato a depilarsi tutto e se non sembri un leone perché dovresti perdere tempo con una signorina? Ma poi dove sono finite le giovani timide che nulla sanno della vita e nessuno gli ha detto di tenerla ben stretta sino alle sante nozze, guarda la povera Maria Goretti? 

Si sa che oggi va di moda, anche in piena estate, uscire di casa a mezzanotte per andare a divertirsi nei luoghi giusti (come Apophis a Milano) sino alle 7 del mattino. Non per niente i giovani in vacanza al mare sanno che l’abbronzatura è del tutto fuori moda. È che passare la notte fuori può essere anche un po’ noioso e puoi passare al petting (che parola anziana!), giusto sino a quando ti accorgi che non va bene, la ragazza in quel momento, o dando spintoni, dice di no che è no ma può anche essere sì. Sì sì o sì no?

Forse il momento in cui stare insieme, in una bella notte di estivo tifone a 40 gradi con vento che sradica gli alberi, diventa da cose carine a stupro. Forse sì, forse no? MeToo è nato contro i produttori che pretendevano di portarsi a letto le ragazze che poi diventavano dive. Oggi quel tempo è già […] finito, il numero di film, per esempio in Italia, che poi nessuno va a vedere, è in parte fatto da registi ignoti, spesso più o meno inutili e malamente finanziati. La 80esima Mostra di Venezia, che si svolgerà dal 30 agosto con la direzione di Barbera, promette di essere un ritorno al grande cinema, come se tutto tornasse come prima. Chissà il MeToo.

L’assoluzione della marmotta. E ora fateci vedere Kevin Spacey che fa Vidal, o almeno fategli fare il cattivo di Mission: Impossible. Guia Soncini su L'Inkiesta il 27 Luglio 2023

Sono cadute anche le accuse londinesi, ma la nomea del più grande attore vivente ormai è rovinata. Chissà se esistono davvero quelli che promettevano che l’avrebbero scritturato una volta che fosse stato prosciolto 

«Molte persone temono che, se si schierano dalla mia parte, non avranno più una carriera. Ma so che c’è chi è pronto a scritturarmi nel momento in cui verrò prosciolto da queste accuse a Londra. Nel momento in cui accade, sono pronti a farsi avanti». L’ha detto il 6 maggio, a un intervistatore di Die Zeit, Kevin Spacey, che a quel punto era stato assolto o prosciolto in tutti i processi americani.

Ieri l’assoluzione della marmotta è tornata. Le accuse londinesi erano legate a quattro diversi uomini che asserivano d’essere stati forzatamente concupiti o toccati da Spacey, in un arco di tempo tra il 2001 e il 2013. Le accuse erano arrivate nel 2022, tre prima e una dopo l’ultimo articolo in cui avevo scritto: adesso che Spacey è stato assolto, potete per favore restituirlo al pubblico?

Questo per dire che, nonostante quello concluso ieri fosse l’ultimo processo pendente, non è affatto detto che oggi un attore senza talento o un qualunque tizio con qualche nevrosi non si sveglino e non decidano che la ragione della loro mancata realizzazione è che una volta si sono svegliati e hanno trovato Kevin Spacey che glielo stava ciucciando (una delle accuse londinesi era formulata esattamente così).

A quante assoluzioni si può assistere prima di decidere che sì, va bene, l’altare del consenso al quale ci inginocchiamo tutti (scusate il doppiosenso) è sacro, ma insomma chiunque conosca gli uomini in generale e gli uomini gay in particolare fatica a non mettersi a ridere di fronte a queste accuse, e non esiste che noi non possiamo vedere il film di Netflix su Gore Vidal (cioè: il più grande attore vivente che interpreta uno dei più interessanti personaggi del Novecento) perché qualcuno si è pentito d’essersi fatto fare un pompino da Kevin Spacey. Mi scuso per la crudezza coi lettori e con chi volesse affidarmi la conduzione d’una striscia in Rai, ma insomma di questo si tratta.

Non sono, dicevo, affatto sicura che quest’assoluzione sia quella definitiva, e quindi non so se l’ottimismo di Spacey sia giustificato, però la Zeit faceva l’esempio di Johnny Depp, trattato come un appestato finché erano in piedi le accuse di Amber Heard, e ora eccolo tornare in gran spolvero a Cannes con “Du Barry”. Solo che per Depp si sapeva dove stesse la fine: aveva meno ex mogli di quanti giovanotti ci saranno in giro con cui Spacey si è accoppiato in decenni di vita busona segreta.

C’è, inoltre, un altro vantaggio: lo sciopero del sindacato degli attori e di quello degli sceneggiatori. Magari tra un po’ Netflix si trova coi magazzini vuoti, magari quel Kevin Spacey nel ruolo di Gore Vidal che hanno da parte torna utile a riempire una stagione senza novità.

Se non avessero già presentato il programma di Venezia, sarebbe bello immaginarlo lì, in quest’Italia in cui, mi pare la definizione sia di Maria Laura Rodotà, il MeToo viene a morire. In programma c’è già Woody Allen: due assolti dai tribunali ma reietti della società civile ci starebbero bene.

Alla Zeit, Spacey ha detto anche che la sua reputazione è ormai irrecuperabile, non si può pensare di sanarla; leggevo e pensavo come sempre a Rhett Butler: chi ha coraggio fa anche a meno della reputazione. Ma soprattutto pensavo che forse giusto ai tempi della guerra civile americana si parlava di reputazione tanto quanto in questo secolo, in questo secolo che ogni giorno ci dimostra che la reputazione non conta niente, non vale niente, non esiste.

Per mille ragioni, che vanno dal fatto che nessuno sta dietro a tutte le notizie (ci sarà sempre quello che sa delle accuse a Spacey ma non delle assoluzioni), all’economia dell’attenzione che non ci permette di occuparci di tutto (esisterà persino un pubblico per cui Kevin Spacey è quello che fa Keyser Söze finto zoppo e poco più), all’attenzione labile dell’opinione pubblica: ogni giorno c’è qualcuno – un politico, una influencer, una scienziata, un calciatore – che viene sputtanato in modi che ci fanno pensare che non lavorerà mai più, e poi dopo una settimana è tutto dimenticato. Abbiamo già tante cose da pensare, possiamo mai tenere a mente gli scandaletti continui?

Mentre aspettava che la sua fedina penale tornasse immacolata, Spacey ha fatto una serie di cose minori (tra cui un film di Franco Nero, essendo noi appunto il paese dove il MeToo viene a morire, per non parlare di come si mangia bene). Il regista inglese di uno di questi film ha gongolato alla Zeit che, se Spacey fosse stato assolto, il suo sarebbe stato il primo film con Spacey innocente a venire distribuito – e ora così sarà, immagino. Ma, poiché a maggio ancora non si sapeva come sarebbe finita, aveva anche preso in considerazione l’ipotesi d’una condanna: «C’è gente che lo verrà a vedere lo stesso: nessuno ha smesso di ascoltare Michael Jackson».

Non è questione di distinguere l’uomo dall’artista: è questione che pochissime di noi hanno voglia di fare Torquemada quando ci svacchiamo sul divano. Vogliamo vedere un attore che ci piaccia, ascoltare una canzone che ci faccia ballare. È questione di livelli di talento piuttosto rari, e infatti Michael Jackson, per sostenere questa tesi, è l’esempio che usano sia Ricky Gervais sia Chris Rock nei loro monologhi. Non è che là fuori ci sia un pieno di cantanti accusati di cose brutte ma che hanno una discografia irresistibile. Non hanno scritto tutti “Billie Jean”, non hanno tutti, con la sola forza del loro sguardo sfrontato e della loro voce teatrale, reso imperdibile una puttanata sesquipedale qual era “House of Cards”.

Chissà se esistono davvero, quelli che hanno promesso a Kevin «appena t’assolvono ti scritturo». Voglio credere di sì, e voglio credere che uno di loro sia Chris McQuarrie, già sceneggiatore dei “Soliti sospetti”, e ora regista e sceneggiatore di tutto ciò che fa Tom Cruise. Riuscite a pensare a un esito più superfragilistico, dopo tutto questo golgota, di: Kevin Spacey cattivo cattivissimo nel prossimo “Mission: Impossible”?

DAGONEWS il 21 luglio 2023.

“Non è un crimine fare sesso, anche se si è famosi”. È questa la strategia difensiva dell’avvocato di Kevin Spacy, Patrick Gibbs. Nella sua arringa, il legale ha invitato i giurati di essere “sicuri” del loro verdetto, qualunque esso sia: “Se siete anche meno che sicuri, sarà vostro dovere dichiararlo non colpevole”. 

L’attore, due volte premio Oscar, deve rispondere di nove capi d’accusa per violenza sessuale, nei confronti di quattro uomini. La giuria dovrebbe ritirarsi lunedì prossimo, per poi emettere il verdetto. Mercoledì scorso, quattro capi d'accusa sono stati ritirati a causa di un "cavillo legale". Ma rimane l'accusa più grave: aver indotto una persona “a praticare attività sessuale penetrativa senza consenso”. Un reato che comporta una condanna massima all'ergastolo.

Variety ha ricostruito con un lungo articolo la vicenda: “Le quattro presunte vittime hanno testimoniato nel corso delle ultime quattro settimane insieme a familiari e amici. La denuncia più vecchia cronologicamente, che risale a un anno imprecisato dei primi anni 2000, sostiene che Spacey abbia ripetutamente toccato i genitali e il sedere della presunta vittima sopra i suoi vestiti e abbia messo la mano dell'uomo sui propri genitali. Nell'ultima occasione, Spacey avrebbe afferrato l'uomo - che stava guidando - così forte all'inguine da aver quasi causato un incidente d'auto. 

Spacey si difende sostenendo che si sia trattato di un rapporto "consensuale" e che non si è mai spinto oltre il “limite di sopportazione” della presunta vittima. L’attore afferma che la palpata all'inguine, che sarebbe avvenuta mentre si recava a un evento nella casa di Elton John a Windsor, non sia mai avvenuta.

La seconda presunta vittima ha detto invece che Spacey gli ha fatto commenti sessuali aggressivi nel 2005, prima di afferrarlo per l'inguine durante un evento di beneficenza. In questo caso l'attore ritiene il racconto del tutto inventato. Il terzo denunciante, che nel 2013 ha incontrato Spacey in un pub del Gloucestershire, prima di tornare nella casa in affitto dell'attore con un gruppo di amici per continuare la festa, ha accusato Spacey di aver cercato di baciarlo e, anche in questo caso, di avergli afferrato l'inguine. Spacey ha definito l'incontro un "passaggio maldestro" per il quale si è poi scusato. 

Arriviamo così alla quarta denuncia, la più grave. Risale al 2008, quando l’attore avrebbe portato un uomo nel suo appartamento di Londra dove si la vittima si sarebbe addormentato (o è svenuta). Quando l’uomo si è risvegliato, ha trovato Spacey che gli praticava del sesso orale. Spacey ha dichiarato che l'incontro era consensuale e ha fornito i tabulati telefonici per dimostrare che c'erano stati contatti continui durante quella sera e nei mesi successivi.

Nella requisitoria conclusiva di mercoledì, la pubblica accusa ha esortato la giuria a considerare la somiglianza dei quattro casi. Giovedì, però, l'avvocato di Spacey ha suggerito che le accuse si "sminuiscono" l'una con l'altra. "È facile inventare accuse contro un uomo nelle condizioni del signor Spacey", ha detto. "Con questo intendo un uomo promiscuo, un uomo che non si dichiara pubblicamente, anche se tutti gli addetti ai lavori sanno che è gay. Un uomo che vuole essere solo un ragazzo normale, che beve birra e ride e fuma erba e si siede davanti [al sedile di un'auto] e passa il tempo con persone più giovani da cui è attratto".

L'avvocato, che esercita da quasi 40 anni, ha anche ammonito la giuria a non lasciarsi influenzare dalla promiscuità o dall'orientamento sessuale di Spacey. "Non è un crimine amare il sesso e non è un crimine fare sesso, anche se si è famosi. Non è un crimine fare sesso occasionale, non è un crimine fare molto sesso e non è un crimine fare sesso con qualcuno dello stesso sesso, perché siamo nel 2023 e non nel 1823", ha detto Gibbs. 

"Potreste dedicare un momento a pensare dove si trova lo squilibrio di potere nel processo [del tribunale] e dove il signor Spacey - seduto da solo con un carceriere dietro il vetro - si colloca nell'equilibrio di potere in questo tribunale", ha detto Gibbs. "Non si tratta di una storia strappalacrime, [ma la difesa] si trova ad affrontare lo svantaggio di dover dimostrare il contrario molto tempo dopo".

Parlando a un'aula gremita, Gibbs ha usato la sua arringa per rivedere puntualmente la denuncia di ogni presunta vittima e suggerire alla giuria i motivi per cui le ritiene fallaci. 

"La realtà è che le false accuse, anche quelle apparentemente convincenti, esistono davvero", ha detto. "Non sempre, ma a volte accadono davvero, soprattutto quando ci sono di mezzo fama, denaro, sesso, segreti, vergogna e confusione sessuale". 

Riguardo alla “presa dell'inguine”, Gibbs ha detto che si tratta di una "finzione progettata per drammatizzare e dare dignità a una reimmaginazione, molto tempo dopo gli eventi, di tutto ciò che è realmente accaduto tra i due uomini". Ha inoltre affermato che la data del presunto incidente è stata smentita da documenti e testimonianze di Elton John e di suo marito David Furnish, oltre che dal modo in cui Spacey ha viaggiato per recarsi all'evento di Windsor.

Gibbs si è poi soffermato sull'evento di beneficenza, durante il quale Spacey avrebbe fatto commenti sessualmente aggressivi prima di bloccare il denunciante a un muro e afferrargli il pene. "Ci sono parole che attirano l'attenzione", ha detto Gibbs. "Cazzo è una, scopare è un'altra, succhiare è una terza". "Non è stato sentito da nessuno", ha concluso, indicando le testimonianze di alcune persone che si sono occupate dell'evento di beneficenza e che hanno negato di aver sentito Spacey fare commenti sessuali o di averlo visto aggredire qualcuno. […]

Per quanto riguarda la denuncia più grave, in cui Spacey è accusato di aver praticato sesso orale a un uomo mentre era addormentato o incosciente, Gibbs ha fatto riferimento ai tabulati telefonici che, a suo dire, smentiscono la versione dei fatti della presunta vittima.

 L'uomo ha affermato di essere rimasto incosciente per circa cinque ore, fino al mattino, mentre Spacey ha detto che l'incontro consensuale è durato circa due ore prima che l'uomo cambiasse atteggiamento e lasciasse rapidamente l'appartamento. I "vecchi" tabulati telefonici di Spacey mostrano che ha effettuato una chiamata di 19 secondi all'uomo intorno a mezzanotte e mezza e una serie di chiamate e messaggi nei mesi successivi. 

Interrogato sui tabulati telefonici al banco dei testimoni, la presunta vittima ha detto di non aver mai ricevuto chiamate o messaggi successivi da Spacey e ha suggerito che l'attore potrebbe aver usato un "malware" per farli sembrare inviati.

"Un malware che genera messaggi di testo casuali a persone a cui hai fatto un pompino?". Ha detto Gibbs nella sua arringa finale. "Si potrebbe dire che qualcuno ha guardato troppo CSI". 

L'avvocato ha anche messo in dubbio l'affermazione dell'uomo di essersi "addormentato" nell'appartamento di Spacey. "Le cose erano così noiose, così soporifere nell'appartamento del premio Oscar che si è appisolato?”, ha chiesto Gibbs, con la voce carica di incredulità.

Gibbs ha cercato di dipingere Spacey come un uomo decisamente poco passionale, dicendo che era "comprensibile" che volesse ubriacarsi in un pub del Gloucestershire dove la gente lo chiama "K-dog" piuttosto che "Lex Luthor". "Che possa trovare interessante almeno quanto stare su un tappeto rosso e sorridere per la telecamera con qualcun altro che ha vinto un Oscar", ha detto Gibbs. 

L'avvocato ha anche parlato della "cancellazione" di Spacey dopo le accuse mosse contro di lui dall'attore Anthony Rapp nel 2017. Ha fatto due volte riferimento alla "mostrificazione" di Spacey e ha elogiato Elton John e Furnish per il loro "coraggio" nell'accettare di essere testimoni della difesa. 

Gibbs ha dichiarato che, nonostante gli "ovvi rischi di associazione con un uomo il cui nome è diventato tossico", il duo ha accettato di testimoniare lunedì in videoconferenza da Monaco riguardo alla presenza di Spacey al loro annuale White Tie and Tiara Ball all'inizio degli anni 2000, nonché se l'attore abbia mai visitato la loro casa di Windsor in altre occasioni.

"Per il loro eterno merito, [John e Furnish] sono rimasti in piedi e hanno contato come testimoni nella difesa di un uomo che è stato universalmente cancellato", ha detto Gibbs. "Rischiando senza dubbio l'ira di Internet per essere associati a un uomo a cui non è stato permesso di lavorare negli ultimi sei anni". 

Dopo che Gibbs ha terminato le sue dichiarazioni conclusive, Spacey si è avvicinato all'avvocato e gli ha dato una pacca sulla spalla, apparentemente in segno di gratitudine.

Ivan Marra per cinema.everyeye.it il 21 luglio 2023.

Sono giorni decisivi per la vicenda Kevin Spacey: l'attore si trova in questi giorni a doversi difendere in tribunale dalle ben note e molteplici accuse di molestie rivolte nei suoi confronti negli anni scorsi, e nel farlo è tornato ancora una volta ad affrontare la tanto discussa questione del suo coming out. 

Come probabilmente ricorderete, Zachary Quinto e altri avevano accusato Spacey di aver fatto coming out solo per distrarre l'opinione pubblica da quanto gli stava accadendo: un'accusa di cui la star di American Beauty ha parlato proprio in queste ore, chiarendo di non aver mai agito con quest'intenzione. 

"Su di me avvertivo tantissima pressione, sapevo di dover fare qualcosa. Se non avessi detto che sono gay sarebbe stato un incubo dal punto di vista dei danni d'immagine. Ora però capisco anche la reazione di molte persone di fronte a quella scelta. [...] La comunità gay mi invitava da tempo a uscire allo scoperto, l'ho fatto solo allora per mettere una volta per tutte a tacere le voci sulla mia sessualità" sono state le sue parole. 

Spacey ha concluso: "Ora che le accuse che mi ha fatto Anthony Rapp si sono rivelate false, forse qualcuno potrà comprendere meglio il perché della mia decisione di allora". Vedremo se queste spiegazioni basteranno: nei giorni scorsi, intanto, una delle presunte vittime di Spacey l'ha paragonato al John Doe di Seven.

Estratto da lastampa.it sabato 15 luglio 2023.

«Molto aperto, a volte promiscuo: ma questo non fa di me una cattiva persona». Nuovi elementi sono emersi dalla prima testimonianza di Kevin Spacey al processo londinese che lo vede imputato di cattiva condotta sessuale. 

L’attore si è sforzato di trattenere le lacrime raccontando di come le accuse per violenza sessuale abbiano sconvolto la sua carriera. «Il mio mondo è esploso», ha detto Spacey in aula. «C’è stata una corsa al giudizio e prima ancora che la prima domanda fosse posta o avesse avuto risposta, ho perso il lavoro, ho perso la mia reputazione, ho perso tutto nel giro di pochi giorni».

[...] Le odierne accuse che invece lo vedono imputato a Londra sono relative all’aggressione sessuale nei confronti di quattro uomini: per tre di loro, Spacey nel controinterrogatorio ha negato ogni responsabilità e ha definito «passaggio maldestro» l’aver afferrato l’inguine del quarto accusatore. 

gli [...] è stato chiesto se potesse aver ignorato o capito male i segnali delle persone con cui ha interagito. Spacey ha risposto di aver «decisamente interpretato male» i segnali di uno dei denuncianti, aggiungendo: «E lo accetto». [...] Spacey ha risposto che trovava più difficile fidarsi delle persone «a causa di quello che ero».

Estratto dell'articolo di blitzquotidiano.it venerdì 7 luglio 2023.

In questi giorni l’attore Kevin Spacey […] sta affrontando un nuovo processo per violenze sessuali nel periodo in cui era direttore artistico di un importante teatro di Londra, l’Old Vic Theatre. 

La procuratrice Christine Agnew, come raccontano i tabloid inglesi, lo ha definito “un uomo che non rispetta i confini o lo spazio personali, un uomo che sembra divertirsi nel far sentire gli altri impotenti e a disagio, un bullo sessuale“. Anche a Londra Kevin Spacey si è dichiarato innocente.

In aula intanto è stata divulgata la testimonianza di uno dei quattro uomini che lo ha denunciato. Spacey, le parole dell’accusatore, lo avrebbe afferrato “come un cobra”. L’uomo dice di aver incontrato l’attore premio Oscar a un evento in un teatro del West End nel 2005. 

Nella registrazione dell’interrogatorio della polizia, che è stata divulgata nel corso dell’udienza, la vittima ha raccontato che Spacey “puzzava di alcol” e “sembrava spettinato”. “La mia prima impressione è che fosse molto arrogante, mi trattava dall’alto in basso”. 

“Ha guardato la mia regione inguinale. È stato molto aggressivo. Nessuno mi ha mai parlato in quel modo. Era tutto hardcore”: Poi Spacey lo avrebbe afferrato: “con una tale forza che è stato davvero doloroso”. E qui la similitudine “come un cobra”. 

“Ricordo di essermi congelato e di aver spinto via il suo braccio e di essermi sentito scioccato e frustrato dal fatto che qualcuno era così squallido nei miei confronti”.

Kevin Spacey e le denuncia per molestie: «Non mi sono mai nascosto, non ho vissuto in un grotta». Stefania Ulivi, inviata a Torino su Il Corriere della Sera il 16 Gennaio 2023.

L’attore a Torino per tenere una masterclass e ricevere un premio si confessa

Prove tecniche di ripartenza dopo una assoluzione per molestie ma con ancora altri procedimenti penali in corso. Kevin Spacey è in Italia in visita ufficiale, invitato dal Museo del cinema di Torino per tenere una masterclass e ricevere il premio Stella della Mole, con la proiezione di American Beauty, per cui vinse il suo secondo Oscar. “Non chiamatela ripartenza” dice nell’incontro stampa in un albergo torinese. Di vicende giudiziarie l’attore 63enne non parla, c’è un processo in corso – nei giorni scorsi qui da Torino ha dovuto collegarsi con l’udienza davanti al giudice della Southwark Crown Court di Londra, dichiarandosi non colpevole dei capi di accusa contestatigli -, la star de I soliti sospetti e House of cards parla di come ha vissuto gli ultimi anni. “La mia vita è andata avanti. Non mi sono mai nascosto, non ho vissuto in una grotta. Sono andato al ristorante, ho visto amici, incontrato persone, anche lavorato. Sono grato a Franco Nero che mi ha voluto nel suo film L’uomo che disegnò Dio, per il gesto ancora prima che per la parte”.

Una carriera la sua che ha un prima e un dopo l’ottobre 2017. Lo avevamo lasciato sul set di Tutti i soldi del mondo di Ridley Scott, da cui fu sostituito, con il film già al montaggio, con Cristopher Plummer che dovette rigirare tutte le sue scene. Travolto dall’accusa di aver molestato nel 1996 Anthony Rapp, all’epoca quattordicenne, vicenda per cui ha ricevuto un’assoluzione nei mesi scorsi. Dopo quella di Rapp ne sono arrivate altre, alcune archiviate, e altre in corso come quella partita dalla denuncia di un uomo per diversi episodi avvenuti tra il 2001 e il 2004. I ruoli memorabili come il Lester Burnham di American Beauty o il Frank Underwood di House of cards sono alle spalle, pronto a parlarne come farà nella masterclass. Oggi arrivano film come “Once upon a time in Croatia” di Jacov Sedlar, sulla figura, molto controversa, del leader Franjo Tudjiman. O quello che ha girato in North Carolina “Peter 58” del giovane Micheal Zaiko Hall. “La vita è piena di occasioni e opportunità di imparare. A volte è importante stare in silenzio e ascoltare, e nel silenzio trovare le risposte”.

Quindi, cancelliamo Kevin Spacey? Pedro Armocida il 14 Gennaio 2023 su Il Giornale.

C'è chi dice no. No, non va bene dare un riconoscimento artistico, la Stella della Mole del prestigioso Museo del Cinema di Torino, a un attore due volte Premio Oscar. Perché no? Perché Kevin Spacey, che lunedì riceverà il riconoscimento dalle mani del presidente del museo Enzo Ghigo e da Vittorio Sgarbi sottosegretario alla Cultura, è accusato di molestie sessuali. Ieri il quotidiano di Torino, La Stampa, rilanciava le posizioni di Cinzia Spanò, una delle fondatrici dell'associazione Amleta che raccoglie le testimonianze di chi ha subito molestie nel mondo del cinema, per la quale «cultura e violenza non possono stare insieme» mentre Laura Onofri di Se non ora quando? s'è detta convinta che non si può dare spazio a una persona «che ha avuto questo tipo di problemi». Va ricordato che la prima denuncia, la più famosa perché scoperchiò un vaso di Pandora pieno di altre accuse odiose (abusi sessuali su minori, come quella dell'attore Anthony Rapp che nel 2017, sull'onda del caso Weinstein, lo accusò di molestie avenute nel 1986 quando Spacey aveva 26 anni e lui 149 si sia conclusa con un'assoluzione «perché il fatto non sussiste», così ha sentenziato nell'ottobre scorso la giuria della causa civile a New York. Intanto in questi cinque anni l'attore sessantatreenne che, in seguito alla prima accusa, ha fatto coming out dichiarando la propria omosessualità, è diventato persona non grata a Hollywood e la sua carriera s'è interrotta forse per sempre. È la conseguenza dei processi mediatici che non sono mai equi e giusti né per i presunti colpevoli né per le vittime a cui va tutta la solidarietà. Vedremo come andrà a finire con l'incriminazione per molestie sessuali nei confronti di tre uomini, all'epoca pre-adolescenti, nel Regno Unito. Spacey proprio ieri si è dichiarato innocente in video collegamento (è già a Torino dove lunedì terrà anche una masterclass) di fronte al giudice dell'udienza introduttiva del processo che si terrà in estate. Ma intanto, oggi, è un uomo libero, innocente come chiunque fino a che una sentenza non ne dichiari la colpevolezza, che può ritirare un premio che riconosce giustamente le qualità attoriali d'uno dei grandi interpreti della storia del cinema (American Beauty) e delle serie tv (House of Cards).

Estratto dell'articolo di Gloria Satta per "Il Messaggero" il 10 gennaio 2023.

«Ci è voluto coraggio per scritturarmi, mentre molti altri hanno avuto paura. E per questo sarò sempre grato a Franco Nero». Kevin Spacey racconta in esclusiva al Messaggero la sua rinascita avvenuta grazie a un film italiano, girato a Torino: L'uomo che disegnò Dio, diretto appunto da Nero. Il grande attore americano, 63 anni, due Oscar e una carriera leggendaria, camaleontica, parla per la prima volta dopo cinque anni. Anni lunghi una vita in cui, travolto dalla furia giustizialista del movimento #MeToo con le sue denunce a scoppio ritardato, è finito sotto processo per molestie sessuali ed è stato messo al bando da Hollywood. (…)

Perché ha scelto di tornare al cinema proprio con questo film?

«Come tutti gli attori, vado dov'è il lavoro. Ma a dire la verità è stata la decisione di Franco Nero di scritturare proprio me a farmi accettare la proposta. Ha avuto coraggio, mentre tanti altri hanno avuto paura. La mia gratitudine per lui sarà per sempre».

 Non le dispiaceva non essere il protagonista?

«La parte era piccola, ma l'invito aveva un grande significato. Ho detto di sì non tanto al ruolo che avrei interpretato sullo schermo quanto al ruolo che Franco stava giocando nella mia vita».

(…)

 E adesso che progetti ha?

«Stanno succedendo tante di quelle cose che è difficile pianificare. Un tempo avevo un programma del tutto diverso e decidevo le opportunità su tutta la linea. Ma ora il lavoro più importante che voglio fare non riguarda la recitazione».

Cosa intende?

«Riguarda me stesso e gli altri. Ogni giorno rappresenta un'opportunità di fare meglio, far ridere qualcuno per contribuire a rendere buona la sua giornata. E in passato non mi sono concentrato come avrei potuto su questo aspetto. Come molti attori ho guardato troppo a me stesso».

 (...)

Dagospia l’11 gennaio 2023. “UN’ESCLUSIVA MONDIALE A KEVIN SPACEY PUÒ SUSCITARE INVIDIE. È UMANO, ANCHE SE UN PO’ PATETICO” – GLORIA SATTA SCRIVE A “DAGOSPIA” E RISPONDE PICCATA A VALERIO CAPPELLI CHE L’AVEVA ACCUSATA DI AVER ACCETTATO L’INTERVISTA CON L’ATTORE CON LA CLAUSOLA CHE LE IMPEDIVA DI FARE DOMANDE SULLE VICENDE GIUDIZIARIE: “BASTA UN MINIMO DI ESPERIENZA DI GIORNALISMO PER SAPERE CHE NESSUNO PARLEREBBE MAI PUBBLICAMENTE DEI PROCESSI. C’È CHI MASTICA AMARO, MA…”

LA RISPOSTA A "DAGOSPIA" DI GLORIA SATTA A VALERIO CAPPELLI 

Carissimo Dago,

capisco che un’esclusiva mondiale come la prima intervista a Kevin Spacey dopo cinque anni e rotti di silenzio, dovuto alle sue vicende giudiziarie, possa suscitare invidie. E’ umano, anche se un po’ patetico.

 Basta un minimo di esperienza di giornalismo per sapere che nessuno parlerebbe mai pubblicamente dei processi che lo vedono imputato, specie se ultra-delicati, e ancora in corso.  Spacey, di cui ho correttamente riportato la situazione giudiziaria, ha tutto il diritto di non prendere posizione dell’argomento per difendersi nelle sedi opportune.

Giornalisticamente, era molto più interessante ascoltare dopo tanto tempo la voce dell’attore ostracizzato sulla base di semplici accuse, fargli raccontare in prima persona la sua rinascita cinematografica, registrare le sue emozioni e i suoi progetti. Lo ringrazio ancora per avermi concesso l’intervista.

C’è chi mastica amaro, ma altri ringraziano Il Messaggero per aver ridato la voce al più grande attore della sua generazione. E sono la maggioranza.

Alessio Mannino per mowmag.com l’11 gennaio 2023.

 Martedì 10 gennaio il Messaggero mette a segno uno scoop mondiale: la prima intervista a Kevin Spacey dopo il proscioglimento dall’accusa di molestie sessuali all’attore Anthony Rapp, che sulla scia del movimento #MeToo aveva fatto causa nel 2020 alla star hollywoodiana, ventiquattro anni dopo i fatti.

 La firma dell’articolo è di Gloria Satta, e leggendola salta all’occhio un, chiamiamolo così, particolare: del processo giudiziario di Spacey nemmeno un cenno nelle domande, a parte naturalmente averlo ricordato nell’attacco del pezzo e avergli pudicamente chiesto che cosa gli “hanno insegnato gli ultimi anni”.

Immancabilmente presenti le frasi di rito su quanto apprezzi l’Italia (“Adoro il vostro Paese”) e soprattutto la felicità per essere tornato a lavorare, con ringraziamenti ad abundantiam a Franco Nero, che in qualità di regista lo ha chiamato nel film “L’uomo che disegnò Dio” per la parte della rinascita.

 Più che uno scoop, diciamo sicuramente un’esclusiva planetaria. Complimenti al Messaggero e alla Satta. Accade però che, sempre in data 10 gennaio, Pier Paolo Mocci, ex cronista del Messaggero e oggi curatore editoriale di Fortune Italia, sul proprio Facebook scriva un lungo post di felicitazioni per la Satta sotto il quale, fra i commenti, ne spunti uno di Valerio Cappelli, giornalista del Corriere della Sera, che rivela un retroscena interessante.

Questo: “A me era stata proposta due mesi fa (l’intervista, ndr) e d’intesa col giornale ho detto no, perché l’attore Kevin Spacey non voleva parlare della sua vicenda giudiziaria. Infatti non ne ha parlato”. E conclude così: “Bisogna sapere di no, a volte”.  Alla replica di Mocci, che difende la Satta, a suo dire brava nel riuscire a “girare intorno alla cosa”, Cappelli chiarisce meglio il concetto: “Ho rinunciato perché la richiesta dei suoi avvocati era un insulto a questa professione (…) un po’ di schiena dritta farebbe bene a tutti. Passo e chiudo”.

In sostanza, secondo Cappelli l’esclusiva era “telefonata”,  imboccata, cioè proposta probabilmente anche ad altri, e sicuramente al Corriere, ma c’è chi non ha voluto sottostare a una clausola-capestro, e chi invece ha accettato.  E altrettanto probabilmente, la motivazione dei legali di Spacey non si riferiva soltanto all’ultimo caso chiuso a fine ottobre 2022, dopo altri due archiviati nel 2019 e nel 2020, ma anche alle accuse di violenze sessuali ancora in piedi, da parte di altri tre uomini per cui potrebbe nuovamente tornare a processo quest’anno, ma stavolta  in Inghilterra.

Dagospia l’11 gennaio 2023. “UN’ESCLUSIVA MONDIALE A KEVIN SPACEY PUÒ SUSCITARE INVIDIE. È UMANO, ANCHE SE UN PO’ PATETICO” – GLORIA SATTA SCRIVE A “DAGOSPIA” E RISPONDE PICCATA A VALERIO CAPPELLI CHE L’AVEVA ACCUSATA DI AVER ACCETTATO L’INTERVISTA CON L’ATTORE CON LA CLAUSOLA CHE LE IMPEDIVA DI FARE DOMANDE SULLE VICENDE GIUDIZIARIE: “BASTA UN MINIMO DI ESPERIENZA DI GIORNALISMO PER SAPERE CHE NESSUNO PARLEREBBE MAI PUBBLICAMENTE DEI PROCESSI. C’È CHI MASTICA AMARO, MA…”

LA RISPOSTA A "DAGOSPIA" DI GLORIA SATTA A VALERIO CAPPELLI 

Carissimo Dago,

capisco che un’esclusiva mondiale come la prima intervista a Kevin Spacey dopo cinque anni e rotti di silenzio, dovuto alle sue vicende giudiziarie, possa suscitare invidie. E’ umano, anche se un po’ patetico.

 Basta un minimo di esperienza di giornalismo per sapere che nessuno parlerebbe mai pubblicamente dei processi che lo vedono imputato, specie se ultra-delicati, e ancora in corso.  Spacey, di cui ho correttamente riportato la situazione giudiziaria, ha tutto il diritto di non prendere posizione dell’argomento per difendersi nelle sedi opportune.

Giornalisticamente, era molto più interessante ascoltare dopo tanto tempo la voce dell’attore ostracizzato sulla base di semplici accuse, fargli raccontare in prima persona la sua rinascita cinematografica, registrare le sue emozioni e i suoi progetti. Lo ringrazio ancora per avermi concesso l’intervista.

C’è chi mastica amaro, ma altri ringraziano Il Messaggero per aver ridato la voce al più grande attore della sua generazione. E sono la maggioranza.

Alessio Mannino per mowmag.com l’11 gennaio 2023.

 Martedì 10 gennaio il Messaggero mette a segno uno scoop mondiale: la prima intervista a Kevin Spacey dopo il proscioglimento dall’accusa di molestie sessuali all’attore Anthony Rapp, che sulla scia del movimento #MeToo aveva fatto causa nel 2020 alla star hollywoodiana, ventiquattro anni dopo i fatti.

 La firma dell’articolo è di Gloria Satta, e leggendola salta all’occhio un, chiamiamolo così, particolare: del processo giudiziario di Spacey nemmeno un cenno nelle domande, a parte naturalmente averlo ricordato nell’attacco del pezzo e avergli pudicamente chiesto che cosa gli “hanno insegnato gli ultimi anni”.

Immancabilmente presenti le frasi di rito su quanto apprezzi l’Italia (“Adoro il vostro Paese”) e soprattutto la felicità per essere tornato a lavorare, con ringraziamenti ad abundantiam a Franco Nero, che in qualità di regista lo ha chiamato nel film “L’uomo che disegnò Dio” per la parte della rinascita.

 Più che uno scoop, diciamo sicuramente un’esclusiva planetaria. Complimenti al Messaggero e alla Satta. Accade però che, sempre in data 10 gennaio, Pier Paolo Mocci, ex cronista del Messaggero e oggi curatore editoriale di Fortune Italia, sul proprio Facebook scriva un lungo post di felicitazioni per la Satta sotto il quale, fra i commenti, ne spunti uno di Valerio Cappelli, giornalista del Corriere della Sera, che rivela un retroscena interessante.

Questo: “A me era stata proposta due mesi fa (l’intervista, ndr) e d’intesa col giornale ho detto no, perché l’attore Kevin Spacey non voleva parlare della sua vicenda giudiziaria. Infatti non ne ha parlato”. E conclude così: “Bisogna sapere di no, a volte”.  Alla replica di Mocci, che difende la Satta, a suo dire brava nel riuscire a “girare intorno alla cosa”, Cappelli chiarisce meglio il concetto: “Ho rinunciato perché la richiesta dei suoi avvocati era un insulto a questa professione (…) un po’ di schiena dritta farebbe bene a tutti. Passo e chiudo”.

In sostanza, secondo Cappelli l’esclusiva era “telefonata”,  imboccata, cioè proposta probabilmente anche ad altri, e sicuramente al Corriere, ma c’è chi non ha voluto sottostare a una clausola-capestro, e chi invece ha accettato.  E altrettanto probabilmente, la motivazione dei legali di Spacey non si riferiva soltanto all’ultimo caso chiuso a fine ottobre 2022, dopo altri due archiviati nel 2019 e nel 2020, ma anche alle accuse di violenze sessuali ancora in piedi, da parte di altri tre uomini per cui potrebbe nuovamente tornare a processo quest’anno, ma stavolta  in Inghilterra.

Il caso Valentina Selvaggia Mannone.

Estratto dell’articolo di Gabriella Cantafio per “la Repubblica” il 6 luglio 2023.

“Le molestie sessuali sono la punta dell’iceberg di un modello marcio che tende a sottometterci. […]”. 

Lo afferma Valentina Selvaggia Mannone, copywriter 41enne con 17 anni di esperienza nel mondo della comunicazione, tra Milano, Roma e Torino, riferendosi al MeToo scoppiato in queste settimane. 

Ricorda la prima volta che si è imbattuta in un abuso?

“Ho cercato di rimuovere tanti episodi, però non posso dimenticare quando, poco più che ventenne, durante un colloquio mi chiesero se avessi un compagno e se volessi figli perché sarebbe stato un problema. Fare domande sulla vita riproduttiva era normale in tante agenzie, piccole o grandi che fossero. Purtroppo la radice marcia si può trovare ovunque”. […] 

In quanto donna era reputata un essere inferiore.

“Non so, però, spesso, nonostante fossi la collega con più esperienza in un determinato gruppo di progetto, non ne ero messa a capo solo perché donna. Eravamo prese di mira con atti di prevaricazione e apprezzamenti fastidiosi”.

Tipo?

“I continui commenti sul mio seno prosperoso. Le battute mi infastidivano e appena lo manifestavo venivo sminuita e definita una figa di legno”. 

Ha sempre taciuto?

“Sono cresciuta con un modello errato, secondo cui era normale sopportare questi soprusi, altrimenti si perdeva il posto di lavoro. Avendo subito episodi del genere in varie agenzie, sono arrivata a credere di essere io il problema. 

Ho pensato di essere sbagliata. Era questo che ci inculcavano e finivamo in bagno a piangere. Anche se il mio carattere, quando mi sento vessata, mi porta a ribellarmi e diventare fredda e distaccata. Tanto che un superiore, una volta, mi chiese di ammorbidirmi ed essere più bagascia”.

Cioè?

“Seppur nauseata, capii che non c’era una vera e propria allusione sessuale, intendeva che dovevo mostrarmi più piaciona e accomodante”. 

Ha provato ad esserlo?

“Paradossalmente sì, ma ben presto sentii un senso di fastidio e inadeguatezza che non riuscivo a sostenere. Ero diventata la caricatura di me stessa e la mia bravura era passata in secondo piano”. 

Anche con i clienti vi chiedevano questo atteggiamento?

“Certo, spesso a seguire i progetti inserivano colleghe più compiacenti o che addirittura rispecchiavano il gusto estetico di quel determinato cliente”. 

Qual è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso?

“Durante una riunione, un mio capo mi ha umiliata davanti a tutti, addossandomi la colpa di un errore che non dipendeva da me. Mi aggredì verbalmente perché tentai di smentirlo, rovinando il suo piano di usarmi come scudo”. […]

Il Caso Trump.

Carroll vs Trump, processo all’accusatrice e non all’accusato. «Così si ritorna al ‘700». Viviana Mazza su Il Corriere della Sera il 15 Maggio 2023.

La giornalista, che ha raccontato di essere stata stuprata da Trump nel 1996, viene presentata dalla difesa dell’ex presidente come poco credibile «perché non urlò e non denunciò subito». Per il “New York Times” è «una linea di tre secoli fa». E l’effetto MeToo? Il verdetto di questo caso sarà decisivo. 

Jean Carroll, 79 anni, (a destra): la giornalista, che ha accusato Donald Trump di violenza sessuale, lascia l’aula del tribunale con la sua avvocata Roberta Kaplan

Questo articolo è stato scritto per 7 alla vigilia dell’udienza in cui E.Jean Carroll si è vista riconoscere da una giuria di Manhattan, formata da tre donne e sei uomini, un risarcimento da 5 milioni di dollari. Una bella vittoria, preceduta però da una serie di polemiche sulla giornalista. Indegne di un Paese moderno. Ce le racconta la corrispondente da New York del Corriere della Sera Viviana Mazza

«Le donne si sono fatte avanti, una dopo l’altra», ha detto E. Jean Carroll nella sua testimonianza in tribunale. «Ho pensato: bene, forse questo è un modo per cambiare questa cultura della violenza sessuale. Ho pensato: possiamo davvero cambiare le cose se tutte noi raccontiamo le nostre storie». La giornalista, che accusa Donald Trump di averla stuprata in un camerino dei grandi magazzini di lusso Bergdorf Goodman di Manhattan nella primavera del 1996, ha detto di essere stata ispirata a parlare dal movimento MeToo e dal processo contro Harvey Weinstein.

«Sono nata nel 1943», ha detto Carroll, spiegando che alla sua generazione di donne è stato insegnato il silenzio, «a tenere la testa alta e a non lamentarsi mai». Carroll ha rivelato per la prima volta pubblicamente le sue accuse contro Trump un libro del 2019 intitolato What do we need men for?A modest proposal (A cosa servono gli uomini? Una modesta proposta).

LA GIURISTA: «SI DÀ MENO VALORE ALLE TESTIMONIANZE DI CHI DENUNCIA, SOPRATTUTTO SE DALL’ALTRA PARTE C’È UN UOMO POTENTE»

«Questo caso è una sorta di cerchio che si chiude» dice a 7 Deborah Tuerkheimer, docente di Legge alla Northwestern University, autrice del libro Credible. Why We Doubt Accusers and Protect Abusers (“Credibile: perché dubitiamo di chi accusa e proteggiamo chi compie gli abusi). «Carroll è stata incoraggiata da MeToo, e molte delle donne che si sono fatte avanti prima di lei dandole coraggio hanno parlato proprio a causa di Donald Trump». Non denunciavano necessariamente lui, ma nel suo vantarsi di «prendere le donne per la vagina» perché «quando sei ricco e famoso te lo lasciano fare» (una registrazione degli Anni 90 durante il programma tv Access Hollywood ), hanno visto un simbolo degli abusi sessuali degli uomini potenti. «Molte di queste storie convergono nel tribunale di Manhattan dove Carroll ha testimoniato e rendono il processo ancora più ampio».

La credibilità

In realtà però il problema resta la credibilità. La parola di una vittima di abusi sessuali spesso non è sufficiente a convincere una giuria - in questo caso formata da sei uomini e tre donne -, sottolinea Tuerkheimer. «Anche se in un caso civile l’onere della prova è inferiore, le persone hanno bisogno di maggiore evidenza rispetto alla storia dell’accusatrice. Questo accade perché si dà un valore più ridotto alle testimonianze di chi denuncia una violenza, specialmente quando l’accusato è un uomo potente».

In questo particolare processo, le accuse della giornalista sono corroborate da due amiche: Carroll le avrebbe chiamate per rivelare subito la violenza. La giornalista Lisa Birnbach ha detto che la collega era «senza fiato», «continuava a ripetere: “Mi ha abbassato i collant”, come se non riuscisse a crederci». Birnbach le suggerì di denunciare lo stupro alla polizia, ma l’altra amica, Carol Martin, la avvertì che era meglio che tacesse o Trump l’avrebbe rovinata e Carroll avrebbe seguito questo consiglio.

Altre accuse, stessa scena

Nel processo sono apparse poi Jessica Leeds, oggi 81enne: era seduta in aereo accanto al tycoon negli Anni 70 e sostiene che lui la toccò dappertutto come se «avesse 40 milioni di mani» e Natasha Stoynoff, ex giornalista di People , che era andata a casa di Trump in Florida per un’intervista nel 2005, quando Melania era incinta: lui «chiuse la porta, la spinse contro il muro e le infilò la lingua in bocca». «È possibile», dice Tuerkheimer «che queste testimonianze a sostegno della parola di Carroll la aiutino a convincere la giuria sulla sua credibilità».

Anche Trump si è posto come un simbolo: degli uomini accusati ingiustamente. «Se può succedere a me, che ho risorse infinite, figuratevi a voi», ha detto spesso negando le accuse di abusi sessuali. L’ex presidente, che è nuovamente in corsa per la Casa Bianca, non testimonierà nel caso Carroll.

La miglior difesa è l’attacco

La strategia dell’avvocato Joe Tacopina è intaccare la credibilità della giornalista. In un’intervista nel suo ufficio di Manhattan, l’avvocato ci ha detto di considerare Weinstein «una persona orribile» («Io non avrei preso l’incarico di difenderlo»), ma ha dichiarato che Trump viene «trattato ingiustamente»: «Difendo la presunzione di innocenza, perché il sistema funziona solo se applica la legge anche all’imputato meno amato». La difesa di Tacopina si basa sul fatto che per 20 anni Carroll non ha denunciato la presunta violenza, che non riesca a ricordare il giorno esatto, che non sia andata dalla polizia, sulla totale assenza di testimoni. Tacopina ha dichiarato nella sua arringa di apertura che la donna ha inventato tutto «per i soldi, per vendere il suo libro», oltre che per danneggiare Trump politicamente.

Il camerino

La giornalista afferma che si imbatté in Trump nel negozio, lui l’avrebbe riconosciuta: «Sei quella che dà i consigli» (lei aveva una rubrica di consigli femminili, Ask E. Jean ). Le avrebbe chiesto un suggerimento per un regalo per «un’amica». Carroll pensò che sarebbe stata una storia divertente da raccontare sul tycoon onnipresente sulle copertine dei tabloid. Trump avrebbe scelto un body e avrebbero scherzato su chi dei due dovesse indossarlo. Poi si sarebbero diretti ad un camerino, lui avrebbe chiuso la porta e i tentativi di respingerlo sarebbero stati inutili; l’avrebbe spinta contro il muro con forza, abbassandole le calze. «La porta aperta di quel camerino mi ha perseguitato per anni perché io sono entrata», ha testimoniato Carroll. «Non volevo fare scenate, non volevo farlo arrabbiare, non mi ricordo di aver gridato. Non sono una che grida, ma sono una che lotta». 

TACOPINA, L’AVVOCATO DELL’EX LEADER: «E’ LUI CHE VIENE TRATTATO INGIUSTAMENTE, WEINSTEIN INVECE FU ORRIBILE, IO NON L’AVREI MAI DIFESO» 

La frase diventata celebre del controinterrogatorio di Tacopina è: «Non ha gridato?» «Una delle ragioni per cui le donne non si fanno avanti è perché viene sempre chiesto loro: perché non hai gridato? - ha risposto Carroll - Ero troppo nel panico per gridare, stavo lottando». E poi esasperata ha aggiunto: «Mi ha stuprata, che io gridassi o meno!» Carroll ha sostenuto che alla fine, dandogli una ginocchiata, è riuscita a fuggire. Ma l’avvocato ha definito implausibile che abbia potuto sollevare il ginocchio con i collant abbassati e i tacchi di dieci centimetri.

Nel Settecento

Il processo civile è un mix di vecchio e nuovo. È reso possibile da una nuova legge di New York, l’Adult Survivors Act, che permette di sporgere denuncia per aggressioni sessuali cadute in prescrizione. Ma la commentatrice del New York Times Jessica Bennett traccia un parallelismo con le strategie di avvocati difensori del Settecento, che per svalutare la credibilità di accusatrici puntavano su criteri come la reputazione, la tempestività della denuncia e il fatto che avessero urlato oppure no, anche se ciò non rispecchia spesso il comportamento di chi subisce abusi sessuali da parte di persone conosciute o potenti. 

Le coperture

«Questo processo sta mostrando che forse siamo a un punto in cui la giustizia è possibile ma non è scontata. Ci sono molte più denunce di abusi che circolano nella nostra società, e questo contribuisce a cambiare la comprensione generale del comportamento di chi li compie e di chi li subisce. Il processo a Ghislaine Maxwell, la complice di Epstein, ha mostrato che ci sono molte persone che coprono gli abusi e consentono che continuino. Ma questo non è abbastanza se sminuiamo la credibilità di chi subisce l’abuso e gonfiamo quella degli uomini potenti che vengono accusati». Nella conclusione di questo processo molti leggeranno un’indicazione del punto a cui si è arrivati nel percorso iniziato da MeToo per trasformare la cultura dell’impunità.

Donald Trump condannato per aggressione sessuale e diffamazione: dovrà versare 5 milioni a Jean Carroll. Viviana Mazza su Il Corriere della Sera il 9 Maggio 2023.

L’ex presidente era accusato di aver abusato della scrittrice in un camerino di un centro commerciale nel 1996. Il tycoon: «Verdetto vergognoso, non so chi sia questa donna»

Colpevole. È il verdetto unanime raggiunto questa sera in tempi brevissimi (circa due ore e mezzo) da una giuria di Manhattan, formata da tre donne e sei uomini, nel processo civile di E. Jean Carroll contro Donald Trump. Il tycoon, che ambisce a tornare alla Casa Bianca nel 2024, dovrà pagare 5 milioni di dollari all’ex giornalista che lo ha accusato di averla stuprata nel 1996 in un camerino dei grandi magazzini Bergdorf Goodman di Manhattan. Si tratta di circa due milioni di dollari per abusi sessuali e tre milioni per diffamazione, per aver definito sulla piattaforma social «Truth» il caso «un totale imbroglio», «una truffa e una bugia».

La giuria non lo ha condannato per stupro, ritenendo di non aver visto la «preponderanza di prove» necessaria per farlo. Il giudice Lewis A. Kaplan ha detto che perché la giuria stabilisse che Trump aveva stuprato Carroll, si doveva dimostrare che c’era stato un rapporto sessuale senza il suo consenso che includa «la penetrazione».

La donna di 79 anni è uscita sorridente e vittoriosa dal tribunale di Manhattan, stringendo la mano alla sua avvocata Roberta Kaplan, ma ha evitato di rilasciare dichiarazioni. Dalla folla si è levata una voce femminile: «Sei così bella e coraggiosa!». Carroll ha ringraziato. Trump ha risposto sulla sua piattaforma social ribadendo di non «avere idea di chi sia questa donna» e definendo il verdetto una «continuazione della più grande caccia alle streghe di tutti i tempi».

La sua campagna elettorale, nell’annunciare che farà ricorso in appello, ha dichiarato che «il sistema giudiziario è compromesso dalla politica dell’estrema sinistra» che consente ad «accuse totalmente inventate di individui disturbati di interferire con le nostre elezioni».

Il caso è stato visto come un test dell’era post-MeToo. Il processo civile è stato possibile grazie ad una legge dello stato di New York, approvata nel 2022 dalla governatrice democratica Kathy Hochul, che ha consentito di farsi avanti per casi di abusi sessuali caduti in prescrizione. Carroll ha detto di essere stata ispirata a parlare dal movimento MeToo e dal processo contro Harvey Weinstein. E Trump a sua volta è stato visto da molte donne come un simbolo dell’impunità degli uomini potenti che commettono abusi sessuali. Anche il tycoon però si è presentato come icona: degli uomini accusati ingiustamente.

L’avvocato difensore Joe Tacopina, che all’uscita dal tribunale ha stretto la mano di Carroll e dei suoi legali, non è riuscito a distruggere la credibilità della giornalista, rafforzata soprattutto da quattro testimonianze — due amiche alle quali confidò subito la violenza e altre due donne, Jessica Leeds e Natasha Storynoff, che hanno evidenziato un «modus operandi» del tycoon raccontando di aver subito molestie da parte sua rispettivamente negli anni 70 e nel 2005.

In aggiunta è stata ascoltata la registrazione dietro le quinte del programma tv Access Hollywood, in cui Trump si vantava di «prendere le donne per la vagina» e la deposizione in cui scambiava Carroll in una foto per l’ex moglie Marla Maples pur avendo dichiarato che «non era il mio tipo». Una frase diventata celebre nel controinterrogatorio di Carroll da parte di Tacopina è stata: «Perché non ha gridato?». Ma l’accusa ha chiamato esperti a spiegare che gridare non rispecchia il comportamento di chi subisce abusi sessuali da parte di persone conosciute o potenti

Estratto dell'articolo di Anna Lombardi per “la Repubblica” l'11 maggio 2023.

Altro che Sex and The City .Quella che oggi appare come una elegante pensionata dagli occhi vivaci incorniciati da capelli corti e bianchissimi, era considerata una delle più brillanti columnist della Grande Mela quando negli anni Novanta fu aggredita da Donald Trump in un camerino dell’iconico Bergdorf Goodman, celebre tempio del lusso sulla Fifth Avenue a New York. 

Autrice dell’allora seguitissima rubrica Ask E. Jean pubblicata sulla rivista Elle dal 1993 al 2020: dalla quale, per tre decenni, ha dispensato consigli su sesso e relazioni sentimentali. Raccomandando fra l’altro alle sue lettrici soprattutto di non «costruire mai e poi mai la propria vita intorno a un uomo». […]

Certo, Elizabeth Jean Carroll, nata nell’operaia Detroit nel 1943 ma cresciuta in una zona rurale dell’ Indiana, dove a 20 anni era stata eletta pure reginetta di bellezza, era ben più intellettuale del personaggio da fiction creato anni dopo. Ambiziosissima, fin da ragazzina, aveva iniziato a definirsi “writer ”, scrittrice. 

Tempestando già a 12 ani di articoli e proposte addirittura la rivista di moda maschile Esquire . Una caparbietà che alla fine aveva pagato: uscita dall’università era riuscita a imporre la sua firma a riviste patinate – ma anticonformiste per l’epoca – come Outside, Rolling Stone e Playboy .

All’epoca del “fattaccio” era dunque glamour e influente, parte del team di autori del più popolare show tv satirico d’America, quel Saturday Night Live ormai in onda da quasi mezzo secolo, e conduttrice pure di un programma tv tutto suo intitolato proprio come la rubrica: Ask E. Jean. 

E chissà che non fu proprio questo ad attirare il palazzinaro Donald Trump, all’epoca signore dei rotocalchi – e già mito faustiano dell’American Psycho Patrick Bateman partorito dalla mente dello scrittore Bret Easton Ellis – fresco di (milionario) divorzio dalla prima moglie Ivanka, madre dei suoi primi tre figli, e già risposato con l’ex miss Georgia Marla Maples, che gli aveva partorito Tiffany.

«Mi ha trascinata in un camerino e mi ha tirato giù i collant a forza»: era il 1996 quando Jean Carroll lo rivelò ancora sotto choc, nel corso di una telefonata concitata e drammatica, all’amica Lisa Birnbach, autrice diThe Official Preppy Handbook , la guida satirica al mondo “preppy”, sì insomma, quello degli universitari americani straricchi. 

Raccontandole quello che ieri una giuria ha trovato credibile: «Lo avevo incontrato per caso e mi aveva chiesto di accompagnarlo al reparto lingerie per aiutarlo a trovare un regalo per una sua amica. Poi mi ha spinto in un camerino, sbattuta contro un muro, stuprata...». 

L’amica Lisa glielo aveva detto subito: «Devi andare dalla polizia, ti ha violentata». Ma lei non aveva voluto, chiedendole anzi di non parlare con nessuno.

Nel 2019 è stata la stessa Carroll a renderlo pubblico raccontandolo nel suo libro di memorie What Do We Need Men For? A Modest Proposal in cui descriveva nel dettaglio gli uomini “orribili” che l’avevano maltrattata e molestata (oltre a Trump pure quel Leslie Moonves, ceo di Cbs, costretto alle dimissioni nel 2018). […]

Chi è la donna che ha vinto la causa milionaria contro Trump. Storia di Roberto Vivaldelli il 10 Maggio 2023 su Il Giornale.

Negli Stati Uniti è la donna del momento, colei che è riuscita a battere in tribunale - almeno in parte - l'ex presidente Donald J. Trump. Secondo il verdetto raggiunto da un tribunale di New York, infatti, il magnate non ha stuprato ma ha aggredito sessualmente la scrittrice E. Jean Carroll nei camerini di un grande magazzino nel 1996, diffamandola poi sui social quando negò di averla conosciuta. Il tycoon dovrà ora risarcire in sede civile la scrittrice con un indennizzo di 5 milioni di dollari, 2 per abuso e 3 per diffamazione. Come scrive il New York Times, la giuria, composta da sei uomini e tre donne, ha stabilito che Carroll è riuscita a dimostrare che il magnate ha abusato sessualmente di lei quasi 30 anni fa in un camerino di Bergdorf Goodman, grande centro commerciale di lusso con sede sulla Quinta Strada a Midtown Manhattan. L'avvocato di Trump, Joseph Tacopina, ha annunciato che presenterà ricorso.

Chi è la scrittrice che ha vinto la causa contro The Donald

Nata a Detroit, Michigan, Carroll ha trascorso la sua infanzia a Fort Wayne, nell'Indiana, la maggiore di quattro figli in una famiglia che comprendeva un fratello minore e due sorelle. Ha frequentato l'Università dell'Indiana a Bloomington, nell'Indiana, dove era una cheerleader.

Prima di diventare "l'accusatrice di Trump", Carroll è stata Miss Indiana University nel 1963 e Miss Cheerleader nel 1964; a metà degli anni Ottanta è stata autrice per il celebre show Saturday Night Live e, nel 1987, è stata nominata agli Emmy per la miglior sceneggiatura per un programma musicale o varietà. Ma Carroll è famosa, in particolare, per la sua rubrica sulla rivista Elle ("Ask E. Jean"), che ha tenuto dal 1993 al 2020. Nel 2002, lei e sua sorella Cande Carroll hanno fondato GreatBoyfriends.com, marchio acquisito da The Knot Inc. nel 2005. Insieme a Kenneth Shaw ha inoltre fondato Tawkify, un sito di incontri online lanciato nel gennaio 2012.

Il libro e l'atto d'accusa contro Trump

E. Jean Carroll, 79 anni, editorialista di lunga data per la rivista Elle, ha accusato per la prima volta il tycoon in un libro pubblicato nel 2019, nel quale affermava che Trump l'aveva violentata nel camerino del grande magazzino di lusso di Manhattan nel 1995 o 1996. Trump rigettò pubblicamente quell'accusa, sostenendo che Carroll "non era il suo tipo". Il 25 settembre dello scorso anno la giornalista ha intentato una causa per stupro e diffamazione nei confronti dell'ex presidente, pochi minuti dopo l'entrata in vigore di una nuova legge statale, a New York, che consente alle vittime di violenza sessuale di citare in giudizio i presunti responsabili per fatti avvenuti anche diversi decenni prima. In precedenza, le era stato impedito dalla legge statale di fare causa per il presunto stupro perché erano passati troppi anni dal fatto.

Le sue parole

Ho intentato questa causa contro Donald Trump per riabilitare il mio nome e riavere indietro la mia vita. Oggi il mondo conosce finalmente la verità. Questa vittoria non è solo per me, ma per ogni donna che ha sofferto perché non è stata creduta". Sono queste le sue prime parole dopo il verdetto che le ha dato - almeno parzialmente - ragione. Il caso è scoppiato nel giugno 2019, quando Jean. E. Carroll ha pubblicato il suo libro A cosa servono gli uomini? Una proposta modesta accusando l'ex presidente e Ceo della Cbs Les Moonves e Donald Trump di averla violentata a metà degli anni Novanta. Carroll sostenne che Trump l'aveva "violentata e palpata con la forza", diffamandola quando negò di aver compiuto quel gesto.

Da adnkronos.com il 10 maggio 2023.

"Mio marito ha avuto uno straordinario successo con la sua prima amministrazione e può guidarci di nuovo verso grandezza e prosperità". Dopo mesi di voci e indiscrezioni di un suo progressivo allontanamento del marito, con una vita da separata in casa nell'enorme magione di Mar-a-Lago, Melania Trump torna in pubblico e, intervistata da Fox News, afferma il suo pieno sostegno alla nuova candidatura alla Casa Bianca di Donald Trump. 

E dice che sarebbe per lei "un privilegio" servire di nuovo come first lady.

"Ha il mio sostegno e noi non vediamo l'ora di ristabilire la speranza per il futuro e guidare l'America con amore e forza", ha poi aggiunto Melania. Trump al momento viene dato ampiamente in testa nella corsa per la nomination repubblicana, con 41 punti di vantaggio su Ron De Santis, il governatore della Florida considerato il suo più temibile avversario. Ed i sondaggi più recenti lo danno anche in testa nell'eventuale nuova sfida, una vera e propria rivincita, con Joe Biden.

Forte di questi numeri, Melania pensa già al suo ritorno alla Casa Bianca, spiegando che per il suo secondo mandato da first lady intende "dare la priorità allo sviluppo e benessere dei bambini, come ho sempre fatto". "Il mio focus continuerebbe essere quello di creare uno spazio sicuro e stimolante che permetta ai bambini di crescere e imparare", ha aggiunto Melania che alla Casa Bianca aveva lanciato un programma contro il cyberbullismo.

Bugie elettorali e battute sugli abusi sessuali: show di Trump sulla Cnn. Viviana Mazza su Il Correre della Sera l'11 Maggio 2023.

L’ex presidente americano ha sfoderato tutto il suo repertorio in un’intervista di Kaitlan Collins sul network. «Il 6 gennaio 2021? Una bellissima giornata»

Donald Trump non ha rimpianti e, accolto con una standing ovation in New Hampshire, ha sfoderato tutto il suo consueto repertorio, che include accuse di brogli elettorali nel 2020 e nomignoli e battute contro i suoi nemici. Il «town hall» con gli elettori repubblicani e indipendenti del New Hampshire, andato in onda ieri sera su Cnn e coordinato dalla giornalista Kaitlan Collins, è stato il primo forum di questo genere nella campagna elettorale di Trump per il 2024 ed è stata la prima volta che l’ex presidente tornava sulla Cnn dal 2016. Il network era stato criticato da alcuni commentatori democratici per aver dato a Trump una piattaforma «mainstream», nel timore che sfrutti come nel 2016 la fame di spettacolo e di indignazione che tiene vive le tv via cavo per ottenere legittimità e pubblicità gratuita che possano aiutarlo a catapultarsi nuovamente alla Casa Bianca. Da parte sua l’ex presidente, prima della sua apparizione in tv, aveva avvertito il network di «trattare con rispetto Maga (Make America Great Again), il più grande movimento politico nella storia del nostro Paese».

Le elezioni del 2020

Collins ha aperto l’incontro spingendo l’ex presidente e attuale candidato alla nomination repubblicana per il 2024 ad ammettere di aver perso le elezioni nel 2020. «I sondaggi mostrano che è in testa alla corsa per la nomination repubblicana in questo momento, ma è anche sotto inchiesta federale per aver cercato di rovesciare i risultati del voto nel 2020 – ha ricordato la giornalista –. Il suo primo mandato è terminato con una rissa mortale al Campidoglio e non ha tuttora riconosciuto i risultati del 2020. Perché gli americani dovrebbero rimandarla alla Casa Bianca?». Trump ha risposto: «Penso che quando guardi a quel risultato e a quanto è accaduto durante quell’elezione, a meno che tu sia una persona molto stupida, puoi capire cosa è successo. È stata un’elezione truccata…».

Più volte la giornalista ha contestato le affermazioni dell’ex presidente, dicendo che non erano accurate e che non c’erano prove di ciò che sosteneva, ma Trump ha accusato Nancy Pelosi di aver rifiutato di accettare la protezione del Campidoglio il 6 gennaio 2021, ha detto che la folla quel giorno aveva «l’amore nel cuore… era una giornata bellissima», ha tirato fuori gli appunti dei suoi tweet affermando di aver chiesto alla gente di manifestare «pacificamente e patriotticamente», e infine ha difeso i rivoltosi condannati per l’assalto al Congresso dicendosi propenso a concedere la grazia a molti di loro se tornerà alla Casa Bianca.

Il pubblico e la giornalista

Gli spettatori seduti nel Saint Anselm College hanno applaudito e riso ai nomignoli di Trump per Nancy Pelosi («Crazy Nancy, come la chiamo affettuosamente»), alla frecciata a Biden («Quando c’ero io alla Casa Bianca non avevo bisogno di discorsi scritti, a differenza di una certa persona che sta lì adesso»), alle battute contro E. Jean Carroll alla quale dovrà pagare 5 milioni di danni per abusi sessuali e diffamazione (l’ha definita «fuori di testa», ha giurato sui suoi figli di non conoscerla e ha detto di provare pietà per il suo ex marito). Verso la fine, frustrato dalle interruzioni della giornalista, Trump l’ha definita una «nasty woman» («una donna cattiva», la stessa frase che usò contro Hillary Clinton). Durante il suo mandato da presidente, Trump espulse Collins che allora era la reporter assegnata alla Casa Bianca da uno dei suoi eventi nel giardino delle rose perché arrabbiato per le domande che aveva fatto il giorno prima; e ci furono altri momenti di tensione. Ieri alla fine dell’incontro le ha stretto la mano e le ha detto: «Ottimo lavoro».

Dal debito all’Ucraina

Trump ha invitato i repubblicani a non innalzare il tetto del debito, lasciando che ci sia un default, se non ottengono da Biden e dai democratici la promessa di tagli notevoli alla spesa. «Tanto vale fare default ora, perché altrimenti succederà più avanti», ha detto. Ad una domanda su come affronterebbe la situazione economica e i costi dell’energia del Paese, Trump ha risposto: «Drill, baby, drill» (Trivella, baby, trivella). Alcuni degli applausi più lunghi sono stati dedicati all’immigrazione e alla questione del confine con il Messico. Oggi viene a cadere Title 42, una legge approvata durante la presidenza Trump che permetteva - con la giustificazione della pandemia - di rimandare indietro richiedenti asilo: ora le autorità si aspettano un enorme aumento di tentativi di ingresso negli Stati Uniti. Trump ha premuto su questa paura: «Milioni di persone stanno entrando. Vengono rilasciati dalle prigioni, vengono fatti uscire dai manicomi, arrivano in massa nel nostro Paese. E adesso stanno eliminando Title 42 che io ho approvato e che li teneva fuori».

Strizzando l’occhio alla potente lobby delle armi Usa, la Nra, l’ex presidente ha inoltre affermato che il problema delle stragi in America è legato alla salute mentale: «Il problema non è il grilletto, ma chi lo preme». In uno dei suoi tentativi di parlare agli elettori indipendenti e moderati, Trump ha evitato di dire se approverebbe un divieto federale per l’aborto. Pur dicendosi orgoglioso di aver consentito (con la nomina di tre giudici conservatori alla Corte suprema) l’abolizione della tutela federale per l’aborto (Roe v Wade), l’ex presidente ha accusato i sostenitori del diritto all’interruzione della gravidanza di essere dei «radicali» che vogliono «uccidere il bambino in grembo al nono mese, all’ottavo, al settimo o anche dopo che è nato». Ha evitato anche di dire se abbandonerebbe gli aiuti militari per l’Ucraina, affermando soltanto che gli Stati Uniti hanno speso 171 miliardi di dollari e l’Europa solo 20 miliardi nonostante il problema dell’Ucraina sia a loro più vicino. Non ha voluto definire Putin «un criminale di guerra», affermando che sarebbe controproducente farlo adesso se l’obiettivo è di raggiungere la pace, ma ha aggiunto che il presidente russo «ha fatto un grosso errore invadendo l’Ucraina« e se lui tornerà alla Casa Bianca farà in modo che la guerra finisca «in 24 ore». L’enfasi non sarebbe tuttavia su una vittoria di Kiev, ma piuttosto sulla fine della guerra. «Sono pronto a riconoscere il risultato delle elezioni del 2024, se saranno corrette», ha concluso l’ex presidente, rifiutando dunque di accettare la legittimità dell’esito di un eventuale nuovo scontro con Biden, qualunque esso sia.

(ANSA il 5 marzo 2023) Donald Trump non si pente delle dichiarazioni sessiste del 2005 quando si vantò, usando un'espressione volgare sull'organo genitale femminile, che "se sei una celebrità, le donne le puoi prendere dove vuoi". Durante una video testimonianza registrato a ottobre 2022 nel processo per l'accusa di stupro della scrittrice Jean Carroll, il tycoon infatti ribadisce: "E' stato così per mille anni, sfortunatamente o fortunatamente". Il filmato è stato mostrato ai giurati mercoledì e giovedì e oggi trasmesso dalla Cnn. Alla domanda se egli si considerasse una "star" l'ex presidente ha poi risposto: "Direi di sì, mi si può definire così".

Dagospia il 4 maggio 2023.

Un’altra accusa di molestie sessuale pende sulla testa di Donald Trump. La giornalista Natasha Stoynoff è scoppiata in lacrime in tribunale quando ha raccontato di essere stata aggredita sessualmente dal tycoon nella sua tenuta di Mar-a-Lago mentre la moglie Melania, incinta di Barron, si stava cambiando in un’altra stanza per un servizio fotografico. La giornalista era nel villone per un articolo per celebrare il primo anno di matrimonio tra Donald e Melania con un articolo su per People Magazine quando è stata spinta contro un muro ed è stata baciata. 

Trump le avrebbe promesso di portarla a mangiare una bistecca e di darle il "miglior sesso che tu abbia mai fatto". La testimonianza è arrivata durante il processo a Trump per violenza sessuale e diffamazione promosso dalla scrittrice E. Jean Carroll.

Durante una pausa del servizio fotografico, Melania si è allontanata ed è stato in quel momento che trump si è avvicinato alla giornalista dicendole che voleva mostrarle una "stanza davvero fantastica". «Ho sentito la porta chiudersi dietro di me – ha raccontato Stoynoff - Quando mi sono voltato aveva le mani sulla mia spalla e mi stava spingendo contro il muro e mi stava baciando. 

Ho provato a spingerlo via. È venuto di nuovo verso di me e ho provato a spingerlo di nuovo. Ha continuato a baciarmi, mi tratteneva per le spalle. Non ho detto parola. Ero scioccata. Nessuna parola è uscita dalla mia bocca. Ricordo solo una specie di borbottio. È entrato un maggiordomo e ha detto che Melania aveva finito di cambiarsi ed era pronta a riprendere il servizio fotografico e Trump se n'è andato». 

Poco dopo Trump sarebbe tornato al contrattacco e nell'area della piscina le avrebbe detto: «Oh, sai che avremo una relazione. Non dimenticare quello che ha detto Marla (la seconda moglie, ndr): "Il miglior sesso che abbia mai fatto"».

Quando Melania è tornata tra di loro, Trump si è mostrato "adorabile" nei suoi confronti e Stoynoff ha portato avanti l'intervista nel miglior modo possibile. Non l'ha detto ai suoi capi perché si sentiva "umiliata e provava vergogna" e non voleva causare problemi alla rivista.

(ANSA il 4 maggio 2023) Non c'e' tregua per Donald Trump. Un giudice di New York ha archiviato la causa intentata dal tycoon contro il New York Times per un'inchiesta sulle sue dichiarazioni dei redditi del 2018 che ha anche vinto il Pulitzer. L'ex presidente ha denunciato il prestigioso quotidiano nel 2021 accusando tre dei suoi reporter di aver cospirato con Mary L. Trump, una nipote con la quale il tycoon non ha più rapporti, per ottenere in modo illegale i suoi documenti fiscali.

Il giudice Robert R. Reed ha stabilito che l'inchiesta del New York Times è tutelata dal Primo emendamento della Costituzione, quello che garantisce la libertà di stampa. "I tribunali hanno da tempo riconosciuto il diritto dei giornalisti di svolgere attività legali e ordinarie di raccolta di notizie senza timore di responsabilità illecite, poiché queste azioni sono protette dal primo emendamento", ha sentenziato il giudice che ha anche ordinato a Trump di pagare le spese legali sostenute dal Nyt e dai suoi giornalisti, Susanne Craig, David Barstow e Russ Buettner.

La giornalista Jean Carroll in tribunale: «Trump mi stuprò in un camerino». The Donald: «Una truffa». Viviana Mazza su Il Corriere della Sera il 27 Aprile 2023.

Per quasi due ore, nel secondo giorno del processo a Manhattan, Carroll ha testimoniato, descrivendo nei dettagli la presunta violenza che ha reso pubblica per la prima volta in un libro nel 2019. Lui risponde via social

Pochi minuti prima della testimonianza di E. Jean Carroll, giornalista 79enne che accusa Donald Trump di averla stuprata in un camerino dei grandi magazzini di lusso Bergdorf Goodman di Manhattan nella primavera del 1996, l’ex presidente ha attaccato la donna sul suo social Truth: «Il caso è una truffa». 

Prontamente, l’avvocata di Carroll, Roberta Kaplan, ha interrotto il procedimento per leggere le parole di Trump in aula, prima dell’ingresso dei giurati. Il giudice Lewis Kaplan (stesso cognome, ma non sono imparentati) ha risposto: «E’ del tutto inappropriato». E ha minacciato conseguenze penali, in riferimento all’intimidazione dei testimoni (aveva già ordinato che i giurati restino anonimi, per loro sicurezza). L’avvocato difensore di Trump, Joe Tacopina, ha replicato che avrebbe chiesto al suo assistito di evitare ulteriori commenti sul caso. Ma dopo pranzo il giudice si è infuriato quando gli è stato riferito che uno dei figli di Trump, Eric, aveva twittato che il miliardario di LinkedIn Reid Hoffman avrebbe finanziato la causa di Carroll per «puro odio e paura di un formidabile candidato» (il tweet è stato poi cancellato). A Manhattan mercoledì è stato il secondo giorno del processo Carroll contro Trump, iniziato il giorno prima. Un processo civile che può dare filo da torcere all’ex presidente e candidato alla nomination repubblicana il 2024. 

Ty Cobb, ex avvocato della Casa Bianca che fu assunto proprio da Trump, lo ha definito un caso piuttosto difficile per l’ex presidente, anche per via dell’appoggio di altre due testimonianze di donne che si dicono vittime delle sue molestie sessuali. Una accusatrice da sola raramente convince una giuria, ma il caso potrebbe essere rafforzato anche dalla ormai nota registrazione degli anni Novanta che verrà riascoltata in aula in cui, dietro le quinte del programma tv «Access Hollywood», Trump si vantava di «prendere le donne per la vagina» perché «quando sei ricco e famoso te lo lasciano fare». Il caso è stato definito uno dei più significativi sviluppi dell’era post MeToo da Deborah Tuerkheimer, docente di Legge alla Northwestern University e autrice del saggio «Credibile: perché dubitiamo delle accuse e proteggiamo gli abusi». «Per molte donne - scrive l’autrice sul New York Times - Trump è diventato il simbolo degli abusi sessuali degli uomini potenti». 

Ma lo stesso Trump si è posto come difensore degli uomini accusati ingiustamente: «Se può succedere a me, che ho risorse infinite, figuratevi a voi». Per quasi due ore, nel secondo giorno del processo a Manhattan, Carroll ha testimoniato, descrivendo nei dettagli la presunta violenza che ha reso pubblica per la prima volta in un libro nel 2019. Ha spiegato di avere taciuto fino ad allora perché aveva «paura di Donald Trump» e di non essere creduta, temeva i danni alla sua reputazione in quanto vittima di stupro e dava a se stessa la colpa per quanto era accaduto per essere entrata in quel camerino. 

Avrebbe rivelato subito la cosa a due amiche, però, una delle quali, la giornalista Lisa Birnbach, cercò di convincerla a chiamare la polizia, mentre l’altra, Carol Martin, la avvertì che era meglio che tacesse o Trump l’avrebbe rovinata. Ha detto di avere atteso per due anni di parlarne in tribunale (una legge dello Stato di New York approvata nel 2022 ha dato un anno di tempo alle vittime di abusi sessuali per denunciare violenze che sarebbero cadute in prescrizione). La donna ha descritto nei dettagli lo stupro iniziato così: «Mi ha infilato una mano nella vagina, ha curvato le dita... Sono seduta qui oggi, e lo sento ancora». Ha dichiarato di non avere più avuto rapporti sessuali da allora. Con voce tremante ha aggiunto: «Quando mi chiedete cosa io abbia fatto in quel momento, perché sia andata là dentro con lui… Ma sono orgogliosa di dire che ne sono uscita». 

Carroll ha anche accusato Trump di aver usato il suo potere da presidente per rallentare il processo. Quando uno dei suoi avvocati, Michael Ferrara, le ha chiesto se si sia pentita di aver lanciato questa battaglia legale, ha risposto tra le lacrime: «Poter finalmente apparire in tribunale è tutto per me. Sono felice. Felice di poter raccontare la mia storia. Questo è il mio momento». Carroll non ricorda che giorno fosse esattamente: afferma che nella primavera del 1996 aveva terminato la registrazione del suo programma tv pomeridiano «Ask E. Jean» a Fort Lee, in New Jersey (era una rubrica di consigli femminili simile a quella che aveva sulla rivista Elle), aveva guidato fino ai magazzini Bergdorf Goodman.

Mentre stava uscendo si imbatté in Trump, il quale l’avrebbe riconosciuta («Sei quella che dà i consigli») e le avrebbe suggerito di tornare indietro e fare shopping con lui, poiché gli serviva un consiglio per un regalo per «un’amica». Carroll dice di aver pensato che sarebbe stata una storia divertente da raccontare: Trump non era ancora presidente ma era un tycoon onnipresente sulle copertine dei tabloid. Sarebbero saliti al sesto piano, nell’area lingerie, dove Trump avrebbe scelto un body trasparente grigio e avrebbero scherzato su chi dei due dovesse indossarlo. «Provalo, è il tuo colore», gli avrebbe detto lei. Ma poi si sarebbero diretti ad un camerino, lui avrebbe chiuso la porta e i tentativi di respingerlo sarebbero stati inutili; l’avrebbe spinta contro il muro con forza, abbassandole le calze.

«La porta aperta di quel camerino mi ha perseguitato per anni perché io sono entrata», ha detto quasi in lacrime Carroll. «Non volevo fare scenate, non volevo farlo arrabbiare, non mi ricordo di aver gridato. Non sono una che grida, ma sono una che combatte». 

Il tycoon ha più volte negato l’intero episodio, affermando tra l’altro che è impossibile che non ci fossero testimoni (e nemmeno personale) su quel piano del negozio. Ha anche detto che Carroll non era il suo «tipo» anche se la donna negli anni Novanta somigliava moltissimo alla ex moglie Marla Maples, e infatti lui stesso in una deposizione le avrebbe confuse in una foto, secondo gli atti. La giornalista lo ha denunciato anche per diffamazione, in questa causa potenzialmente milionaria. L’ex presidente non si è presentato in tribunale finora, come è sua facoltà. La strategia della difesa è di smontare la credibilità di Carroll. Sui social Trump ha accusato anche l’avvocata Kaplan di essere una attivista politica, finanziata da un uomo politico suo rivale. L’ex presidente ha fatto riferimento anche al vestito che Carroll avrebbe indossato quel giorno e conservato («Vuole usare la carta di Monica Lewinsky») e ha scritto che quell’abito dovrebbe essere parte del caso e confermerebbe la sua innocenza, ma lui per anni ha rifiutato di confrontare il Dna con quello che secondo l’accusa sarebbe reperibile dalle macchie sull’abito. 

"Trump mi violentò e poi mi diffamò". Le accuse della scrittrice Jean Carroll. Occhiali scuri, gesti composti, ha sfilato davanti a uno stuolo di giornalisti in attesa. Jean Carroll, la scrittrice e giornalista che ha accusato Donald Trump di averla violentata negli anni '90, ha portato la sua testimonianza in aula. Redazione il 27 Aprile 2023 su Il Giornale.

Occhiali scuri, gesti composti, ha sfilato davanti a uno stuolo di giornalisti in attesa. Jean Carroll, la scrittrice e giornalista che ha accusato Donald Trump di averla violentata negli anni '90, ha portato la sua testimonianza in aula, a New York, dove si celebra il processo all'ex presidente degli Stati Uniti d'America. Ieri, nel secondo giorno di udienze, Carroll ha raccontato nei dettagli tutta la storia. La donna, che adesso ha quasi 80 anni, ha raccontato che la violenza avvenne nello spogliatoio dei grandi magazzini Bergdorf Goodman, lo store di lusso sulla Fifth Avenue, ad appena cinquecento metri dalla Trump Tower.

«Sono qui perché Donald Trump mi ha violentata, e quando ne ho scritto, ha detto che non è successo. Ha mentito e ha distrutto la mia reputazione, e io sono qui per cercare di riprendermi la vita» ha spiegato la scrittrice. Negando l'episodio, Trump l'ha diffamata. Ora Carroll, che vuole dignità e giustizia, si è presentata davanti ai giudici. E ha descritto tutto nei minimi particolari: alla giuria ha infatti spiegato come lei e Trump, che si conoscevano già da tempo, erano finiti nella sezione biancheria intima insieme. Trump le aveva detto di indossare un capo grigio-blu, ma lei aveva rifiutato.

Trump, allora, l'avrebbe spinta verso lo spogliatoio e qui sarebbe avvenuta la violenza. «Le sue dita» ha raccontato Carroll «si infilarono nella mia vagina, cosa estremamente dolorosa». «Poi - ha aggiunto - lui ha inserito il suo pene. Mi vergognavo» ha raccontato la scrittrice «pensavo fosse colpa mia. Era una commedia, era buffo e a un certo punto». Da quell'esperienza, ha rivelato, «sono stata incapace di avere di nuovo una vita sentimentale». Carroll ha raccontato di aver lasciato in stato di schock i grandi magazzini, e di essersi sentita colpevole per essere andata nello spogliatoio, si autoaccusava per quella scelta davvero «molto stupida».

L'accusatrice ha inoltre raccontato in aula che ne parlò subito a due amiche. Una, Lisa Birnbach, le disse che quello era stato un stupro e che doveva andare subito alla polizia. L'altra, Carol Martin, le consigliò al contrario di non parlarne con nessuno perché Trump era potente e aveva un team di avvocati che l'avrebbe seppellita. Il processo si celebra grazie a una legge, approvata l'anno scorso nello Stato di New York, che offre una finestra temporale di un anno a tutte le vittime di abusi e stupri, per denunciare episodi avvenuti anche lontano nel tempo, e il cui reato sarebbe caduto in prescrizione.

Estratto dell'articolo di Federico Rampini per il “Corriere della Sera” il 20 aprile 2023.

A Manhattan ci separa solo mezz’ora di metrò, ma c’è voluto un set alla Agatha Christie — una crociera sul Nilo — perché lo incontrassi: un omonimo che è uno degli italiani illustri di New York. Un principe che discende da un papa. A lungo socio e «quasi amico» di Donald Trump. Nonché proprietario del più grande spazio mondiale dedicato alla pubblicità di moda, i Pier59 Studios di Chelsea. Espulso da casa sua e «relegato» in una suite a Casa Cipriani, club esclusivo con vista sulla Statua della Libertà. 

Federico Pignatelli della Leonessa, nato nel 1963 a Roma, discende da una casata con 1.100 anni di storia a Napoli e in Sicilia. «Le nostre connessioni con il Vaticano sono antiche — dice — e uno dei miei antenati nel 1691 divenne papa Innocenzo XII. In famiglia abbiamo avuto anche quattro cardinali. A Napoli Villa Pignatelli è un museo, a Roma porta il nostro nome via Appia Pignatelli. Nella capitale Palazzo Pignatelli è l’ala antica di Montecitorio. Quando torno a Roma però non mi lasciano alloggiare in Parlamento, mi tocca andare in albergo...».

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Il principe fin da bambino è stato attratto dal mondo dello spettacolo. Sua madre Doris Mayer Pignatelli, originaria di Monaco di Baviera, amava il cinema e accettò di interpretare la parte di una nobildonna romana ne «La dolce vita» di un altro Federico. «In famiglia fece scandalo — ricorda Pignatelli — si vede che Fellini era considerato un rivoluzionario. La nonna paterna tolse il saluto a mia madre per anni». 

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La carriera professionale di Federico inizia «da zero, senza nessun patrimonio familiare», con una breve esperienza da giornalista economico al Globo. Viene notato da un finanziere italo-svizzero che lo invita a lavorare per lui, tra Ginevra e Lugano. 

Sono gli anni Ottanta, c’è l’iper-inflazione, le banche centrali la combattono con tassi d’interesse a due cifre, Pignatelli si tuffa nel nuovo mondo dei financial futures. Inizia una vita a duecento all’ora tra incidenti d’auto, amori con donne sempre bellissime, traslochi veloci da un continente all’altro: vive a Sidney, a San Francisco («Quando era l’epicentro della tragedia dell’Aids»), a West Hollywood (Los Angeles), Londra, infine New York.

È la Grande Mela degli anni Novanta, in pieno rilancio sotto il sindaco Rudolph Giuliani. La passione per la fotografia lo porta a contatto con un ambiente in effervescenza, «ma non c’erano studios adeguati al volume di attività di New York, i grandi fotografi dovevano lavorare in vecchi loft o garage». 

Lo attrae Pier59, uno dei moli di Chelsea sul fiume Hudson. «Era la zona dove storicamente attraccavano i transatlantici dall’Italia, ma il quartiere non era la Chelsea glamour di oggi. Nel Meatpacking District lì a fianco arrivavano i camion carichi di animali destinati a diventare scatolette. Nell’aria c’era la puzza di carne macellata. Pier59 sembrava un grattacielo sdraiato sull’acqua. Vuoto, inutilizzato».

Comincia così l’investimento che diventerà l’attività principale di Pignatelli: ricostruisce il molo per un mondo che conosce bene, la pubblicità della moda. Lo inaugura nel dicembre 1995 con un grande party di Renzo Rosso per Diesel. «Tutta la New York che contava quella sera venne, Pier59 Studios era lanciato». 

[…] 

Ha un po’ di nostalgia per la New York dove l’avventura ebbe inizio. «Negli anni Novanta questa città era spettacolare, sprigionava un’energia straordinaria, tutto era possibile, il fermento era unico, incontravi le persone più interessanti del mondo. Oggi ha perso quella dimensione esclusiva, è meno sofisticata, forse perché è cambiato il mondo. Mi manca».

Nella New York degli anni Novanta a lui capitò pure di diventare socio di Donald Trump. Insieme investirono in un ristorante-club, il Lotus, uno dei locali che lanciarono la vita notturna a Chelsea. 

Di Trump lo colpì una contraddizione: «Avventuroso, circondato di donne, amante della bella vita, però rigorosamente astemio. Io da buon italiano apprezzavo il vino, lui non si è mai lasciato tentare: solo acqua o peggio, Coca Cola. Anche dalla droga riusciva a tenersi lontano, in anni in cui scorreva a fiumi». The Donald però era «un temperamento focoso, s’imbestialì una sera in cui al Lotus non lo riconobbero e gli presentarono il conto». 

La discesa in politica? «L’ho perfino incoraggiato, pensando che non sarebbe mai stato eletto. Poi me ne sono pentito perché quelli che conoscevano i nostri rapporti hanno cominciato a perseguitarmi, per chiedermi contatti con il presidente. Ho dovuto cancellare il mio nome dall’ingresso del mio appartamento a Soho». 

Quell’appartamento è al centro di un altro aneddoto curioso: la causa contro uno dei più celebri finanzieri degli Stati Uniti, Ray Dalio, italo-americano. «Lui vale 20 miliardi e potrebbe comprarsi tutta Soho — osserva Pignatelli —, invece ha costruito una penthouse sopra il mio appartamento, poggiando sulle mie colonne portanti, e lo ha reso pericolante. Ho uno dei loft più belli di Soho e non ci posso entrare, è inabitabile. Per colpa di un cantiere illegale». [...]

Il caso Rudy Giuliani.

Estratto dell’articolo di Monica Ricci Sargentini per il “Corriere della Sera” venerdì 22 settembre 2023.

Il giorno dell’assalto al Congresso, mentre il mondo guardava attonito le immagini della folla che irrompeva nel parlamento americano, Rudy Giuliani avrebbe pesantemente molestato Cassidy Hutchinson, l’ex assistente della Casa Bianca diventata testimone chiave nel processo per gli avvenimenti del 6 gennaio 2021. 

A dare la notizia è stato il britannico Guardian che,mercoledì, ha pubblicato un estratto del nuovo libro di memorie della donna Enough ( Basta ), edito da Simon and Schuster, in cui lei racconta come l’ex sindaco di New York l’abbia palpeggiata dietro le quinte del palco da cui Donald Trump teneva il suo discorso nel parco sud della Casa Bianca, poco prima che i suoi sostenitori marciassero sul Campidoglio.

«Rudy mette un braccio attorno al mio corpo, stringendomi a sé, dice:“adoro come ti sta addosso questa giacca di pelle” ... abbasso gli occhi e vedo l’altra mano raggiungere il mio blazer e poi infilarsi sotto la gonna. Sento le sue dita gelate percorrere la mia coscia. I miei muscoli si irrigidiscono e mi ritraggo». Alla scena assiste il consigliere di Trump John Eastman che, sempre secondo la donna, lancia un sorriso malizioso. 

[...]

L’ex sindaco di New York ha negato tutto in un’intervista con Eric Boiling di Newsmax .

«Prima di tutto non sono il tipo che si mette a palpeggiare una persona. È falso, totalmente assurdo», ha detto. [...]

Non è la prima volta che Giuliani viene accusato di molestie sessuali. Lo scorso maggio una sua ex dipendente gli ha fatto causa per 10 milioni di dollari per violenza sessuale, molestie e decurtazione non legittima del salario. Lui si è detto innocente. 

Piove sul bagnato. L’accusa di Hutchinson è solo uno dei tanti problemi dell’ex avvocato di Trump. Rudy è tra i 18 complici accusati di aver cospirato per rovesciare l’esito del voto del 2020 in Georgia e si è dichiarato non colpevole di 13 accuse. Ed è stato anche ritenuto responsabile di diffamazione nei confronti di due operatori elettorali della Georgia. La Washington DC Bar Association ha raccomandato la sua radiazione dall’albo.

Oggi l’uomo è indebitato fino al collo e deve affrontare una causa da 1,3 milioni di dollari intentata dal suo avvocato per parcelle non pagate. 

Per saldare i conti ha messo in vendita il suo lussuoso appartamento nell’Upper East Side a Manhattan e ha pregato il suo ex amico e ex datore di lavoro, Donald Trump, di pagargli i 3 milioni di dollari dovuti, secondo lui, per pareri legali e consulenze che gli offrì da avvocato quando era ancora alla Casa Bianca (senza contare le parcelle successive). Ma il tycoon ha fatto spallucce, lasciandolo in un mare di guai.

Estratto dell’articolo di Biagio Chiariello per fanpage.it il 16 maggio 2023.

Rudy Giuliani si farebbe fatto praticare sesso orale da una sua ex consulente aziendale mentre era in vivavoce con Donald Trump, perché "lo faceva sentire come Bill Clinton". 

È [....] Noelle Dunphy ad accusare l'ex sindaco di New York, come raccontato nelle 69 pagine di accuse depositate alla corte statale di Manhattan. 

Nello specifico, la donna lo accusa di "abuso di potere, abusi sessuali, appropriazione di stipendio e altre cattive condotte”, [...] reati che sarebbero stati commessi [...] tra il 2019 e il 2021. 

La 43enne sostiene di non essere stata pagata e chiede 10 milioni di dollari di risarcimento, sostenendo che il suo famoso datore di lavoro spesso "si lasciava andare a insulti alimentati dall'alcol e che comprendevano riferimenti sessisti, razzisti e antisemiti". [...]

Giuliani ha poi insistito affinché la sua collaboratrice "lavorasse nuda, in bikini o in pantaloncini corti con una bandiera americana che le aveva comprato". [...] 

[...] Giuliani le avrebbe chiesto se conoscesse qualcuno che aveva bisogno di un ‘pardon', un provvedimento di clemenza individuale deciso dal presidente degli Stati Uniti, in cambio di due milioni di dollari. "Io e Trump – avrebbe detto – facciamo a metà". [...]

Il Caso Barbareschi.

Estratto dell’articolo di Viola Giannoli per repubblica.it il 10 maggio 2023.

"Lo stupro non è un barbatrucco". E poi giù gli slip e su le gonne per mostrarsi nude e nudi all'obiettivo e ai passanti su via Nazionale. 

Così oggi un gruppo di lavoratori dello spettacolo, appartenenti al collettivo Campo innocente, ha voluto protestare contro l'attore, regista e produttore Luca Barbareschi che, in un'intervista a la Repubblica, ha minimizzato le accuse di molestie sessuali da parte delle attiviste del gruppo Amleta. 

Il blitz è avvenuto davanti allo storico teatro Eliseo, adesso chiuso e fallito sotto la gestione Barbareschi, e davanti alla società di produzione Casanova Multimedia spa.

Non una dichiarazione di opinioni: un’aggressione” quella di Barbareschi, sostengono i manifestanti. Che aggiungono: “Le parole – come i gesti, come le azioni – feriscono, umiliano, fanno violenza. Si incidono sui nostri corpi, modificano l’ambiente in cui viviamo. Negare legittimità alle parole di chi denuncia è un ulteriore atto di violenza - continuano in un comunicato molto acceso - Le dichiarazioni di Barbareschi sono un distillato di maschilismo, e cultura dello stupro. Sono parole inaccettabili”. 

[...] “La realtà che noi viviamo è un’altra - dicono - chi denuncia si espone e rischia di non lavorare, il settore culturale subisce tagli sistematici che penalizzano le esperienze più fragili e indipendenti, non esiste alcuna forma di reddito per i/le lavoratrici precarie della cultura e dello spettacolo”. [...] 

Estratto da leggo.it il 10 maggio 2023.

Stanno creando decisamente polemica le parole di Luca Barbareschi, che in un'intervista a Repubblica pubblicata oggi sminuisce la lotta contro le molestie delle attrici raccolte dall'associazione Amleta. Ora arriva la replica, sul suo profilo Instagram, di Caterina Collovati, sempre attenta al dibattito sui diritti delle donne e che spesso commenta i casi di molestie. 

«Parliamo di un tema troppo delicato per fare polemica becera, però caro Luca Barbareschi, nello stesso modo in cui tu metti in dubbio gli abusi denunciati dalle tue colleghe attrici, così le donne potrebbero mettere in dubbio le violenze da te subite nell’infanzia», dice la Collovati. «Invece io ti credo, ma vorrei che anche le donne venissero credute quando raccontano l’orrore, la paura, l’umiliazione degli abusi». 

«È per colpa di giudizi come i tuoi se tante donne preferiscono chiudersi nel buio dell’anima dopo il trauma, per non venire colpevolizzate e non credute. Quel tuo dire “alcune si presentano a gambe larghe” è un grave stereotipo culturale che vede la donna sempre come “provocatrice” e mai come vittima di infami approfittatori. Aiutiamo le donne ad uscire dall’incubo e non privilegiamo il punto di vista di chi quella violenza la commette», conclude il suo post.

Cosa ha detto Luca Barbareschi

Negli scorsi mesi l'Associazione Amleta, l'associazione che si batte contro la disparità e la violenza di genere nel mondo dello spettacolo, ha raccolto una serie di denunce di molestie ad attrici da parte di attori, registi e produttori. A parlarne, tra le altre, Pamela Villoresi, Chiara Claudi, a Margherita Laterza. Oggi l'attore e regista Luca Barbareschi dice in un'intervista a Repubblica che le denunce di molestie «servono solo a farsi pubblicità». Ma confessa anche: «sono stato omosessuale nella mia vita», parlando del personaggio che interpreterà nel nuovo film The Penitent.

Barbareschi si scaglia poi contro le attrici che denunciano molestie. A Barbareschi «viene da ridere, perché alcune di queste non sono state molestate, o sono state approcciate malamente ma in maniera blanda, non cose brutte. Alcune di queste andrebbero denunciate per come si sono presentate. Sedendo a gambe larghe: 'Ciao, che film è questo?'». Barbareschi parla con Arianna Finos mentre sta girando la scena finale di The Penitent. Ispirato alla figura dello psicologo canadese Jordan Peterson. Poi dice io sono tollerante «Ho quattro figli, un maschio e tre femmine, e voglio che siano dignitose, libere e non subiscano mai. 

Io sono stato un bambino molestato, mi hanno abusato dagli otto agli undici anni i preti gesuiti a Milano: mi chiudevano in una stanza, uno mi teneva fermo e l'altro mi violentava. Ho fatto una legge su questa cosa qui». 

La replica delle attrici

Le attrici che fanno parte del collettivo hanno voluto replicare, sempre con un lungo post diffuso su profili Instagram e Facebook, in cui si legge: «In una riga Barbareschi liquida come 'una carrellata di finte denunce' perché dice alcune le ho avute a teatro quelle venute alla luce grazie al lavoro di Amleta, il report che raccoglie i dati di 2 anni di lavoro evidenzia più di 200 casi di violenza e molestie. Barbareschi forse si crede Dio e la sua esperienza e il suo percepito vengono da lui confusi con la verità per tutti e tutte noi. Noi al contrario abbiamo verificato che le donne che si decidono a denunciare hanno elementi, prove, testimonianze che confermano quello che dicono. Lo stereotipo che le donne mentano è molto radicato e di solito è alimentato da chi vuole mantenere intatto un sistema di potere e di oppressione. Non è basato su un'analisi della realtà ma sul nulla».

Nella replica a Barbareschi Amelta fa notare: Le artiste denunciano per farsi pubblicità? «Non esiste un'attrice che sia diventata famosa denunciando una violenza. Al contrario l'esposizione in quest'ambito è un atto di grande coraggio e generosità verso tutte le altre. Un'attrice che si espone è consapevole di correre un grande rischio, è proprio per questo che riusciamo a procedere con le denunce soltanto nel 5% dei casi. Ma anche questo tabù si sta infrangendo. Sempre più donne si espongono, perché vogliono proteggere anche tutte le altre e sono protette da tutte le altre. Non ci potete zittire tutte». 

Estratto da open.online l'11 maggio 2023.

L’attrice Jasmine Trinca all’attacco di Luca Barbareschi. Che aveva parlato di finte denunce per farsi pubblicità a proposito delle molestie alle attrici di cinema e teatro portate alla luce dall’Associazione Amleta. Trinca aveva detto qualche tempo fa che le molestie erano toccate anche a lei e che il #metoo era servito. Oggi in un’intervista a Repubblica risponde all’attore e regista proprio mentre scoppia una protesta davanti al teatro Eliseo. «Trovo vergognoso che degli uomini possano continuare a prendere parola per le donne. Quindi non direi stendiamo un velo pietoso, tutt’altro: alziamo questo velo. È gravissimo, sono dichiarazioni gravissime».

La parola delle donne

E ancora: «Barbareschi esprime la voce di persone che continuano a prendere parola per altre. Per me la parola di una donna è una parola intoccabile, una parola che prende il suo tempo, quale che sia questo tempo, e va rispettata. Di sicuro la voce di tante attrici e non solo, di donne che vengono abusate a vari livelli, perché l’abuso di potere non è solo quello sessuale, è una parola che va ascoltata e rispettata».

Trinca aggiunge nel colloquio con Arianna Finos che la società in questi anni «è cambiata relativamente e probabilmente non per il movimento in Italia. La verità è che siamo stati guidati da un movimento internazionale fortissimo che viene soprattutto da altri Paesi. È stato importante che le donne potessero sentire una parola che risuona, l’idea di non sentirsi sole di fronte a una dichiarazione molto difficile. È un’assunzione di coscienza complicata che nessuno si può permettere di commentare».

Giampiero Mughini per Dagospia l'11 maggio 2023.

Caro Dago, vedo che intere tribù femminili si sollevano e si manifestano contro Luca Barbareschi, il quale aveva rilasciato un’intervista nella quale si diceva diffidente delle donne che dieci o venti anni dopo denunciano molestie maschili nei loro confronti, e tanto più che lui per esperienza personale ricordava più e più donne che gli si erano presentate allargando le gambe nel sedersi a far capire quel che fosse possibile fra loro e lui. 

Premetto che Luca lo conosco da tempo, gli sono amico, so che non ci va di mano leggera quando vuole dire una qualche cosa. Di certo in quell’intervista Luca parlava a nome personale, ci metteva nome e cognome, non si appellava alla solidarietà di qualche miliardo di uomini, gente dove c’è del meglio e del pessimo, dei galantuomini ma anche dei bastardi e degli autori di femminicidi. 

Volete replicargli? Fatelo pure, tenendo conto però del suo specifico itinerario e delle sue specifiche caratteristiche umane e professionali. Conosco Luca a puntino, fin da quando accompagnava Lucrezia Lante della Rovere in casa della madre di lei, la per me indimenticabile e adorata Marina.

Ebbene contro Luca non si ergono delle persone, con i loro argomenti e con le loro specificità umane e professionali e bensì la metà del mondo, le donne in quanto tali. Le Donne, nientemeno.

Voglio dire che loro così si presentano, così si ergono, così si fanno valere. Solo che le Donne con la maiuscola non esistono, esistono alcuni miliardi di donne ciascuna con nome e cognome, le une differentissime dalle altre. Ho detto differentissime, non differenti. Le donne dell’Afghanistan e le modelle inglesi o americane. Quelle che fanno le giornaliste in Italia e quelle che fanno le mogli in Ucraina. Donne madri, donne amanti, donne compagne insostituibili del loro uomo, donne che hanno un tocco del vivere differentissimo da quello maschile, donne che non c’è nulla al mondo che valga il passare un’ora con loro a guardarle con gli occhi, donne che non sono altro che delle puttanelle pronte a tutto pur di farsi valere, eccetera eccetera.

Non c’è nulla nella mia vita che valga il rapporto avuto con il femminile, il rapporto con le diversissime donne di cui ho detto prima. Nella cosa la più importante della mia vita, i libri che ho scritto e firmato, sempre mettevo una di loro, una donna a di cui ho messo solo l’iniziale del nome in Compagni addio ma anche la B. al cui funerale in una chiesa romana sono andato in compagnia di Michela, la Kate Moss che stava in non ricordo più quale mio libro, l’Elsa Martinelli che figurava nella copertina di Che belle le ragazze di via Margutta, quell’altra ragazza che ha illuminato la mia giovinezza e alla quale ho dato un ceffone la volta che era venuta a casa mia per segnare con un’offesa il suo congedo per sempre. Tutte donne strabilianti e terrorizzanti e maledette e mirabili. Tutte donne che hanno marcato per sempre la mia anima, ciascuna diversissima dalle altre, così come sono l’una diversissima dalle altre le mie amiche adorate dell’oggi, Sandra Chiara Simonetta Annalena. Non diversissime, di più. Ed ecco perché ne vale la pena affrontarle, contornarle, accettarle, tenerle a bada. Non certo per i motivi banalissimi addotti da quelle che bersagliano Luca Barbareschi.

Dagospia l'11 maggio 2023. Riceviamo e pubblichiamo: “Non rinnego una parola della mia intervista che è esaustiva e chiara, uscita su Repubblica martedì 9 maggio 2023. Non ho mai minimizzato l’importanza e il coraggio di chi denuncia molestie o violenze subite. Al contrario, sono profondamente solidale, oggi e da sempre. In nessun caso posso giustificare o trattare alla leggera gli abusi. Appartiene alla mia biografia personale e mi sono speso in prima persona per tutelare questo tipo di soprusi grazie alla mia Legge contro la pedofilia e al trattato europeo sulle violenze di Lanzarote. 

Dispiace e rattrista che alcuni colleghi da me stimati, come Roberto Andò Fabrizio Gifuni e Mario Martone, si siano limitati a leggere il titolo dell’intervista. È oggettivo che nel nostro ambiente sia usata, in alcuni casi in modo strumentale, questa piaga delle molestie per ottenere visibilità (nella mia intervista dichiaro che “alcune di queste attrici non sono state molestate, o sono state approcciate in maniera blanda”). Intendo dire che, così come è vero che ci sono uomini e donne di potere che si approfittano di persone fragili, è anche vero che ci sono attrici e attori che si fanno pochi scrupoli pur di raggiungere i loro obiettivi.

Attenzione però a condannare senza prove o su illazioni. Sono stato il primo a parlare nel 1990 del pericolo della speculazione sulla parola molestie e violenze subite; si trattava del mio spettacolo Oleanna su testo di David Mamet. Non a caso la sceneggiatura di un Premio Oscar e Premio Pulitzer. In quel caso si parlava di uno stupro subito a causa di una carezza verbale. La mamma degli imbecilli partoriva il primo cretino. 

Suggerisco quindi a tutte le numerose associazioni che difendono i diritti di donne e uomini molestati, abusati o bullizzati, di ampliare il raggio d’azione anche ad altre le categorie professionali: commesse, studentesse, segretarie, operaie, ecc.

Ho sei figli, un maschio di 49 anni, quattro femmine tra i tredici e i quarant’anni e un altro maschio di 11 anni (più tanti nipoti), e desidero che ciascuno di loro cresca dignitoso, libero e non subisca mai censure e prevaricazioni. La prevaricazione è il primo passo verso la dittatura. Anche quella di un pensiero opposto al nostro. La prevaricazione è sempre sbagliata e se è vero che i ricatti li fanno i potenti, è anche vero che sedurre un potente può essere una scorciatoia.

Quello che mi preme sottolineare – e che è uno degli aspetti cardine del mio film “The Penitent – a rational man” di cui onestamente ho cercato di parlare a lungo – è che rispetto a certi temi spesso si incorre in una insidiosa semplificazione del pensiero, per cui si tende a omologarsi ad una visione unica. Nel film lo psichiatra protagonista viene linciato pubblicamente perché un giovane paziente gli annuncia una strage e poi uccide otto persone. L’assassino appartiene alla comunità LGBT e immigrato ispanico: per questo, paradossalmente, non viene più percepito come colpevole e diventa necessario - per l’opinione pubblica e la stampa – trovare qualcuno su cui scaricare la responsabilità di quella tragedia. Modificare la percezione di quanto avvenuto per ricondurlo ad un pensiero dominante. Io invece rivendico l’autonomia da questo pensiero dominante, la libertà di sviluppare un proprio pensiero critico e autonomo.

Mi piace sviscerare le questioni, cogliere le sfumature e superare la tendenza al pensiero unico. Che è ben diverso da avvallare o sminuire le violenze che quotidianamente accadono, a prescindere dagli ambiti in cui si verificano. 

Un’ultima precisazione: Eliseo Teatro è uno dei brand della holding ÈLISEO ENTERTAINMENT Moving Emotions insieme a Eliseo Fiction, Eliseo Doc & Light, Eliseo Cinema, Eliseo Cucina, Eliseo Musica, Eliseo Ragazzi… Il Teatro Eliseo non è fallito. Chi dice questa falsità verrà raggiunto dai miei legali. L’Eliseo apre per convegni, eventi e per affitti sala ma, senza le sovvenzioni come tutti gli altri teatri storici, non può produrre come una volta.”  Luca Barbareschi

Il caso Ron Jeremy.

Barbara Costa per Dagospia l’11 marzo 2023

Ron Jeremy compie 70 anni. È corretto fare gli auguri a chi ha fatto la storia del porno, è stato un pornostar internazionale, ora finito marchiato quale porco stupratore e sudicio molestatore? La verità è che Ron Jeremy, che è il suo compleanno, non credo se ne renda neppure conto. Lui ora è un demente. Rinchiuso a Los Angeles in un ospedale psichiatrico statale per decisione di un giudice che, valutati i referti medici inoltrati e dall’accusa e dalla difesa, ha dichiarato l’imputato Ron Jeremy incapace di reggere le udienze perché affetto da demenza cognitiva.

E il processo per i 34 casi di stupro? Ron Jeremy è colpevole, sì o no? A questo punto è congelato, e una sentenza non l’avremo mai. Ron Jeremy starà in ospedale psichiatrico 2 anni, sottoposto a visite cicliche monitoranti il suo mentale declino. La prima è fissata l’8 maggio. Ma la sorella di Jeremy, Susan, vuole che l’avvocata di Jeremy sia nominata suo tutore sanitario e finanziario, e che Jeremy sia trasferito in una struttura privata, fino alla fine dei suoi giorni. 

Fine la più deplorevole per una icona mondiale. In notorietà, nel porno maschile son pari a Ron Jeremy solo John Holmes e Rocco Siffredi. Ron Jeremy per 4 decenni ha mostrato al pubblico porno e no che un uomo non bello né palestrato, senza alcun fascino ma con panza e peli da vendere – e con un pene di 25 cm – poteva sedurre ogni pornof*ga.

 La fama mondiale di Jeremy sta nel suo corpo goffo, nel suo personaggio untuoso, maleducato, rude, a cui ogni bellezza in video cedeva (quanti l’hanno guardato, in Italia, nei "Concetta Licata" di Mario Salieri, protagonista con Selen “che gl’è piace 'u gelato”?). Un personaggio in ogni sgradevolezza fusosi con la persona: sta qui il cuore dell’impianto accusatorio che ha piegato la carriera di Ron Jeremy, di riflesso macchiando il porno come settore.

Le donne che accusano Jeremy di molestie e violenza sessuale – sia le 34 accusatrici in tribunale, sia le pornoattrici denuncianti solo via social – rimproverano a Jeremy di sovrapporre le sue gesta da pornostar – attuate nel consenso, secondo i plot – a quelle dell’uomo Jeremy che non accetta una donna non volente alcun tipo di intimità sessuale con lui.

 Lo stereotipo dell’attore pornografico senza morale sullo schermo identicamente senza morale nella realtà è ciò a cui Ron Jeremy ha fatto guerra tutta la vita. Che ci abbia preso in giro per tutti questi anni? Il laureato con master Ron Jeremy, figlio dell’alta borghesia newyorchese, mai fatto uso di droghe neppure nicotina né alcool, mai fatto uso di Viagra o simili, volto del porno il più professionale, tramite il quale far capire al mondo non porno che chi fa porno non è una cattiva persona.

Ci ha perculato per 40 anni? I media nella loro totalità ma specie chi ha fatto inchiesta sul "caso Jeremy" ha puntato ogni faro sull’accusa e poco su Ron Jeremy che, fino all’anno scorso, fino a che cadesse nel buio della demenza, ha sempre ribadito la sua innocenza e chiesto più volte non un "processo ombrello" (tutte le accuse di violenza sessuale in un unico processo e sentenza) ma di venir giudicato accusa per accusa, difendendosi da ognuna con la sua verità.

È curioso che più accuse contro Jeremy seguano lo stesso copione: più donne – e tra queste 2 minorenni all’epoca dei fatti, risalenti fin da metà anni '90 e inizio 2000 – si dicono vittime dello stesso iter: loro si avvicinano alla star Ron Jeremy in cerca di una foto, autografo, un saluto, lui le attirerebbe in un posto pubblico ma isolato (ad esempio il parcheggio del "Rainbow Bar", a West Hollywood) per infilargli le dita in vagina e nell’ano, e la punta del suo pene nel sesso o nell’ano. E ci sono donne che accusano Jeremy di aver loro baciato i seni senza consenso, e succhiato i capezzoli, quando loro domandavano a lui solo un innocente autografo sulle tette.

Il web è zeppo di foto e video di Ron Jeremy che, con sguardo da maiale fantozziano, palpa seni, prende in braccio donne, anche le bacia in bocca. E sono tutte donne sorridenti, felici, con Jeremy in luoghi pubblici come convention e fiere del porno. Presenziare a tali eventi – e baciare su loro richiesta le fan, e farsi su loro richiesta sfiorare il pene coperto da mutande e pantaloni, e fare selfie con loro, e scrivere con un pennarello RJ circondato da un cuore su un foglio ma pure su ogni parte del corpo che varie fan desiderano, seni e natiche compresi, per una media di 150 seni a settimana – è dal 2013 il lauto pagato lavoro che Jeremy ha svolto nel porno, dopo aver subito un delicato intervento al cuore che non gli ha più permesso di pornare ad alti livelli (men che mai a esibirsi nel suo porno cavallo di battaglia, l’auto-fellatio).

Baci, carezze e palpeggiamenti avvenuti in convention e in fiere pieni di telecamere, e sono talmente pubblici che le donne che li han ricevuti li hanno pubblicati sui loro social e non solo, e sono accaduti davanti a tante persone e al netto di agenti di sicurezza che, interrogati, mai una volta sono stati chiamati a intervenire per fermare la lingua e le mani di Jeremy.

Ci sono pornoattrici e stripper che, forti del MeToo, dopo anni son venute allo scoperto contro Jeremy dicendo che quanto pornato con lui in pubblico era stato fatto non col loro consenso. Ma che non l’hanno denunciato prima perché convinte di non essere credute poiché porno attrici. E ci sono pornostar – come Ginger Lynn – che, dopo aver sul web incolpato Jeremy di terribili nefandezze, sono tornate a pornare con lui, come niente fosse. Ancora, ci sono colleghi/e nel porno amici di Jeremy che, in questi anni di prigionia (Jeremy è stato arrestato nel 2020, e incarcerato sotto cauzione monstre di 6,6 milioni di dollari) non hanno detto una parola in sua difesa. L’hanno lasciato solo.

L’hanno abbandonato. E però, con Jeremy sul tetto del mondo, era ovunque un dire ogni bene, su di lui, e a girare sui set, con lui. Dove sta la verità? Lo hanno coperto per decenni? O Ron Jeremy paga una condotta sessuale magari pure discutibile e però consensuale e però adesso non più tale visti i benefit mediatici assicurati dal MeToo? Ma una donna è sempre vittima, incapace di dire no, di ribellarsi a un uomo sempre porco se di potere? O è Ron Jeremy che, invecchiando, è sessualmente ammattito, non governando più i suoi istinti i più malsani?

Laura Zangarini per corriere.it l'1 settembre 2020. Già incriminato dalla giustizia all’inizio dell’estate per stupro e aggressione sessuale su quattro presunte vittime, il celebre pornodivo Ron Jeremy si ritrova ad affrontare 20 nuove accuse di stupro e di abusi sessuali su una 15enne. Lo ha reso noto lunedì 31 agosto il procuratore distrettuale di Los Angeles. Ron Jeremy, 67 anni, che ha all’attivo oltre 2.000 film porno dalla fine degli anni ‘70, era stato a lungo oggetto di tali accuse all’interno della professione ed era stato tenuto lontano da vari eventi negli ultimi anni.

Le nuove accuse. Nel giugno scorso è stato ufficialmente accusato dello stupro di tre donne e aggressione sessuale di una quarta. Il suo arresto e, successivamente, la sua apparizione in tribunale hanno scatenato una nuova ondata di denunce a suo carico. Ron Jeremy, che si è dichiarato totalmente «innocente» su Twitter, si dichiarerà «non colpevole» per questa nuova serie di accuse, ha riferito il suo avvocato. Alcune di queste accuse risalgono al 2004, quando Ron Jeremy, il cui vero nome è Ronald Jeremy Hyatt, avrebbe aggredito un’adolescente a una festa. In questo caso l’accusa è di atti osceni e di penetrazione forzata da parte di un oggetto estraneo. Le nuove accuse portano a 17 il numero delle presunte vittime di Jeremy, che vanno dai 15 ai 54 anni, e coprono un periodo di 16 anni.

L’ultima aggressione sessuale pochi mesi fa. Secondo quanto riferito, l’aggressione più recente è stata commessa su una donna di 21 anni fuori da una attività commerciale a Hollywood il 1 ° gennaio 2020. Se condannato, Ron Jeremy, attualmente in custodia, potrebbe finire i suoi giorni in prigione: rischia una sentenza all’ergastolo di oltre 250 anni. Sempre in giugno, il suo avvocato, Stuart Goldfarb, ha negato apertamente le accuse contro il suo cliente, assicurando che «non era uno stupratore». «Ron, nel corso degli anni e per quello che è, è stato il partner di più di 4.000 donne (...) Le donne gli saltano addosso», è la tesi di Goldfarb.

Le indagini del procuratore. Al centro del documentario del 2001 «Porn Star: The Legend of Ron Jeremy», il pornodivo è l’ultimo dei grandi nomi dell’industria dello showbiza trovarsi faccia a faccia con il sistema giudiziario di Los Angeles per gli abusi sessuali da quando è emerso nel 2017 il movimento #MeToo contro la violenza contro le donne. In totale, la squadra appositamente creata dal procuratore di Los Angeles per indagare sui crimini sessuali a Hollywood si è interessata a una ventina di potenziali sospetti. Tra loro c’è il magnate e produttore cinematografico Harvey Weinstein, condannato a 23 anni di carcere a New York ma allo stesso tempo accusato di aver abusato di altre tre donne a Los Angeles.

Dagonews  il 7 agosto 2020. Ci sono decine di altre donne che accusano il porno attore Ron Jeremy di stupro e violenza sessuale. Jeremy è stato arrestato alla fine di giugno dopo essere stato accusato da quattro donne. Quelle accuse hanno squarciato il velo e ora molte altre sono pronte a parlare. Già pochi giorni dopo l’arresto, il dipartimento dello sceriffo della contea di Los Angeles ha ricevuto almeno 30 accuse di stupro forzato e tentazione contro la porno star. E molte altre sono state fatte in altre parti del paese. Un nuovo rapporto pubblicato dal “Los Angeles Times” racconta di sei nuove presunte vittime della pornostar. Secondo il Times ogni storia ha un sottotesto comune: se Ron vedeva qualcosa che voleva, se lo prendeva e basta. Lianne Young, per esempio, ha raccontato al giornale che una notte Jeremy è sgattaiolato dietro di lei in un locale sulla Sunset Strip di L.A. Era il giorno di Halloween del 2000 e a quei tempi lei faceva la pornostar con il nome di “Billie Britt”, era in bikini nella ex House of Blues per una festa dell’industria del porno, lui è arrivato, l’ha spinta sopra un tavolo e l’ha penetrata. Il tutto davanti a tre famosi dirigenti dell’industria. Un’altra donna, anche lei dell’ambiente dell’hard, ha confessato di aver sempre avuto troppa paura della presa che Jeremy aveva nell’industria del porno per parlare quando lui l’ha attaccata a Chicago, nel 2014. In un bar Jeremy l’ha presa in grembo finché lei non ha provato a scappare e lui l’ha inseguita e l’ha costretta a fare sesso orale: “A un certo punto ha tirato fuori il suo pene mentre io, me lo ricordo ancora vividamente, stavo piangendo”, ha detto Elle, aggiungendo che ha premuto il suo pene così forte contro di lei da averle lasciato un’abrasione ai suoi genitali. Alana Evans, presidente della “Adult Performers Actors Guild”, era alla stessa festa di Halloween in cui sarebbe stata violentata Lianne Young, e dice che le aveva parlato di quell’aggressione. “Fa le cose senza chiedere”, ha detto Evans. “Ci sono molte persone che pensano che siccome siamo attrici hard sia giusto toccarci in modo inappropriato o violentarci”. Voci sulla presunta cattiva condotta sessuale di Jeremy sono circolate nel settore dell'intrattenimento per adulti da decenni, tuttavia sono state rese pubbliche solo negli ultimi anni. La svolta è arrivata nel 2017, quando Ginger Banks ha compilato una serie di accuse contro Jeremy in un video di YouTube di 10 minuti. Mesi dopo, Rolling Stone ha pubblicato le accuse mosse da una dozzina di donne che affermavano che Jeremy le palpeggiava o, come spiegato dettagliatamente da due presunte vittime, le violentava violentemente. Jeremy dopo quell’articolo è stato espulso dall'industria cinematografica, ed è stato addirittura bandito dall'Exxotica Expo e dai premi Adult Video News.

Da "ilmessaggero.it" il 24 giugno 2020. Ha 67 anni e, in fatto di salute, non se la passa bene, ma ora la stella dei film porno Ron Jeremy è finita in galera a Los Angeles con l'accusa di stupro di quattro donne nell'area di West Hollywood. I primi episodi risalirebbero al 2014. L'incriminazione del "Porcospino" (il suo soprannome di cui va fiero) è stata formulata dal procuratore della contea di Los Angeles Jackie Lacey. La notizia ha avuto un enorme eco non solo negli Usa dove il nome dell'attore, star del periodo d'oro del porno narrato nella serie The Deuce con Maggie Gyllenhall che ha preceduto il boom delle luci rosse on line,  è subito salito in testa alle classifiche delle ricerche on line e dei post sui social. Le sue foto in tribunale, in manette e con il volto malconcio in parte coperto dalla mascherina anti Covid-19, sono fra le più viste nelle ultime 24 ore. Le accuse coprono il periodo che va dal 2014 al 2019 e partono da donne che al momento dei presunti stupri avevano dai 25 ai 46 anni. Il pornoattore, ritenuto il migliore al mondo nel 2003, fra i primi a inserire toni comici nei film a luci rosse, rischia 90 anni di prigione, insomma l'ergastolo. In carriera ha girato più di duemila film con cameo anche di recente. In Italia divenne noto nel 1990, l'anno dei Mondiali di calcio, per un film in cui faceva la parodia di Maradona alle prese con Moana Pozzi e Ilona Staller Cicciolina. Ron Jeremy, sul set dal 1979, negli anni migliori alla pari del John Holmes cantato anche da Elio e le Storie Tese, si era autodefinito “grasso, basso e peloso”, da qui il soprannome il porcospino. E' stato consulente per le scene di sesso per il film 9 settimane e mezzo con Mickey Rourke e Kim Basinger e Boogie Nights.

Barbara Costa per Dagospia il 28 giugno 2020. “Sono un porno molestatore, ma non ho mai violentato nessuna”: si dice innocente, Ron Jeremy, lo ripete su twitter e tramite le parole del suo avvocato, e usa il termine con cui ha sempre descritto il suo porno-personaggio, "groper", che sta proprio per pomicione, palpeggiatore, uno che ti mette mani e bocca e lingua ovunque. Ma che lo fa per gioco, perché lo pagano, perché questo è il suo lavoro, perché la donna palpeggiata sa che è tutta scena a favore di telecamera. Stavolta però sembra non essere così, non lo è per i giudici, ci sono accuse pesantissime, ci sono 4 donne (ma forse sono 25!) che lo accusano di violenza sessuale, in 4 episodi che vanno dal maggio 2014 al luglio 2019. Tutte donne non del porno, contro l’attore porno più famoso al mondo. Alzi la mano chi non conosce Ron Jeremy, chi non ha mai visto un suo porno, anche i più giovani sanno chi è, per i porno e per le centinaia di incursioni non porno, nel cinema, nella musica, in tutti i media, che Ron Jeremy ha fatto prima di finire in galera. Non è la prima volta che Mister Ron Jeremy finisce sotto accusa: durante la tempesta Weinstein alcune pornoattrici, guidate da Ginger Banks, misero su una campagna social contro Jeremy, accusandolo dei crimini sessuali i più orridi, ma allora nessuna aveva fatto seguire le sue social-accuse da denunce. Questa volta le denunce ci sono, Ron Jeremy rimane in carcere, e rischia 15 anni per ogni imputazione. Questa volta Ron Jeremy è nei guai sul serio. Questa volta c’è un tribunale, e si è defilato anche il suo manager. Ron Jeremy è solo. È tutto il porno che con Jeremy esce ammaccato, perché Jeremy è da sempre, da 4 decenni, la faccia pulita del porno, uno che mai ha avuto problemi di droga o alcool, e tra i pochissimi che è riuscito a rimanere al top in un ambiente dove l’età che avanza è il più acerrimo nemico. La fama mondiale di Ron Jeremy è tutta nel personaggio che si è cucito addosso, quello dell’uomo non macho, dal corpo tarchiato, sgradevole di viso e di maniere, grezzo, zotico, ma simpatico. L’uomo medio avente tra le gambe un bastone da 25 cm in grado di soddisfare donne su donne, in erezioni lunghe e implacabili. Ron Jeremy quale antitesi di James Bond, ignorante e volgare e però incontenibile scopatore. Un personaggio lontano dal Jeremy reale, figlio dell’alta borghesia newyorchese, padre fisico, madre editor ed ex spia OSS (la CIA della Seconda guerra mondiale). Jeremy frequenta ottime scuole, si laurea, per un breve periodo insegna ma poi lascia, e mica per il porno: lui vuole fare cabaret, ci prova, si mantiene come cameriere, ma fa la fame. Con Alice, la sua ragazza di allora, si scatta foto nudo che invia alla rivista "Playgirl". Jeremy le firma col suo vero nome e cognome, Ron Hyatt (Jeremy è il suo secondo nome), e i lettori di Playgirl – gran parte uomini gay – trovano il suo numero di telefono sull’elenco, ma lo sbagliano, in realtà è il numero della nonna di Jeremy, una mite signora che da un giorno all’altro è tempestata di chiamate di uomini infoiati. A Jeremy – e al suo membro generoso – arrivano offerte porno da ogni parte: lui rifiuta, lui vuole fare l’attore comico. Cambia idea per soldi e per una celebrità nel porno che lo sommerge da subito. Una popolarità immensa, internazionale, Jeremy è sul porno-podio con nomi da leggenda quali John Holmes e Traci Lords, ma Jeremy è pure uno che capisce subito che è sfruttando il porno fuori dal porno che diventi una icona. Ron Jeremy è stato un influencer quando ancora non solo i social, ma proprio il web, erano da inventare. Jeremy ha trasformato il suo nome porno in un brand capace di sponsorizzare prodotti, e sommare ospitate tv, radiofoniche, e nel cinema tradizionale. Se la filmografia porno di Ron Jeremy è quasi incalcolabile – siamo oltre i 2300 film recitati e 289 diretti – notevole è quella nel cinema mainstream, b-movie e tv-movie. È innegabile: Ron Jeremy ha riempito il suo personaggio di crudi aneddoti, grossolani, triviali, alcuni veri altri no, e che oggi gli si ritorcono contro. Oltre a migliaia di foto e selfie che si è scattato in posa da maiale con donne famose e non, è provato: in "87 and Still Bangin" Ron Jeremy si è davanti alle telecamere – e dietro compenso milionario – scopato una donna di 87 anni. Scopata, completamente, con consenso e gioia di lei, una donna di nome Rosie Agree, e credo l’unica porno-défaillance di Jeremy: con lei gli è riuscito tutto tranne il facial. Ron Jeremy è stato il regista del porno con John W. Bobbitt, l’uomo passato alla cronaca e alla storia per essere stato evirato dalla moglie, uomo a cui è stato riattaccato il pene rivelatosi nuovamente funzionante, anche se non sul set. Jeremy ha ammesso che per farglielo alzare nel film glielo ha siringato, sebbene Jeremy sia contrarissimo all’uso di viagra e simili, lui non ne ha mai presi e ne approva l’uso solo per quegli uomini che vanno a letto con la stessa donna da tanti anni. Non me ne sto dimenticando, lo dico, che l’enorme porno-fama di Ron Jeremy sta anche nella sua capacità di fare self- suck, l’auto-fellatio, abilità che ha perso con l’età (da ragazzo era un ginnasta) e con l’ingrossarsi della pancia: fino all’infarto del 2013, riusciva ancora, seppur a malapena, a sfiorarsi la punta. È risaputo: il soprannome di Jeremy è "porcospino", ma tu lo sai da che deriva? Non dal suo aspetto rozzo, né dai suoi modi rozzi, ma da una ipotermia che su un set lo rivelò nudo davanti a tutti e tutto rosso e coi peli duri e ritti come quelli di un porcospino.

Dagotraduzione dal Daily Mail l'8 settembre 2021. L’attore di film per adulti Ron Jeremy ha sfruttato la sua celebrità per incontrare e isolare le donne che ha violentato e aggredito sessualmente, usando le stesse tattiche per anni. È quanto hanno testimoniato al Gran Giurì le 21 donne che lo hanno denunciato per abusi. Una delle donne, identificata come Jane Doe 8, ha raccontato di aver incontrato Jeremy nel 2013 in un bar di West Hollywood e di aver detto all’amica che era con lei: «Non sarebbe divertente se ricevessimo una sua foto con un autografo?». Pochi minuti dopo Jeremy l’avrebbe aggredita sessualmente in bagno. Jane Doe 7 ha ricordato che era eccitata all’idea di conoscere una celebrità poco prima che si presentasse alla porta della sua stanza d’albergo. Ma qualche minuto dopo l’ha violentata. Ron Jeremy, 68 anni, si è dichiarato non colpevole delle 34 accuse di violenza sessuale formalizzate dal Gran Giurì, tra cui 12 per stupro. È stato arrestato nel 2020 e da allora è in prigione. Soprannominato “The Hedhehog”, Jeremy è stato a lungo uno degli artisti più noti e prolifici dell’industria del porno ed è arrivato al grande pubblico con i reality show, le apparizioni pubblice e i video musicali. Per i collezionisti di autografi e i malati di selfie, è diventato presto una vera calamita, ed è così che molte delle donne che lo accusano lo hanno incontrato. Una donna oggi 33enne, ma che all’epoca aveva 15 anni, ha raccontato di essersi avvicinata a lui durante un rave a Santa Clarita, in California. «Non sapevo chi fosse, ma tutti mi dicevano che era famoso ed ero entusiasta di incontrare una celebrità» ha detto la Jane Doe numero 5. Lui l’ha invitata nel backstage per farle vedere qualcosa di «interessante», poi l’ha presa in braccio, e ha messo la mano sotto la gonna e l’ha molestata. I luoghi delle violenze emersi dai racconti sono spesso gli stessi: il ristorante dove era solito mangiare e dove aveva il permesso di usare il bagno dei dipendenti, e il suo appartamento, descritto come sporco e infestato dagli animali. In particolare attirava le donne al Rainbow Bar and Grill sulla Sunset Strip di West Hollywood, e con la scusa di mostrare loro la cucina dove il ristorante preparava le sue famose pizze, o il bagno esclusivo a cui aveva accesso, le portava nello spazio angusto, chiudeva la porta e le stuprava. Diverse donne hanno raccontato anche che Jeremy le costringeva a descrivere la loro esperienza su un tovagliolo di carta e a volte dava loro dei soldi. Secondo i pubblici ministeri tentavi di tutelarsi e di ottenere prove di un rapporto consensuale. Una donna ha raccontato di aver incontrato Jeremy al Sunset Strip e di aver scattato una foto con lui, nonostante il fidanzato e il fratello l’avessero avvisata di starne lontano. Dopo averla violentata in bagno, le ha tirato 100 dollari: «Mi ha lanciato dei soldi dal nulla». Un’ora dopo la donna era alla polizia per denunciare la violenza, ma è stata una delle poche a farlo subito. «È una celebrità come attore porno, pensavo che nessuno mi avrebbe mai creduta, volevo solo uscire da lì e dimenticare tutto» ha detto Jane Doe 7. In difesa di Jeremy s’è schierato però Eliot Preschutti, a lungo gestore del famoso rock bar Rainbow Bar & Grill sulla Sunset Strip: «È vero, è un palpeggiatore, ma non uno stupratore». Preschutti ha raccontato che Jeremy andava nel suo bar quattro sere alla settimana: «Ho visto tutta la gente che gli veniva incontro, la gente che gli si accalcava intorno. Lo conosco molto più della maggior parte delle persone e anche se non posso parlare per nessuna delle situazioni di cui è accusato, credo che sia solo un altro tentativo di abbatterlo. Non sono il suo migliore amico, ma ho avuto ore e ore di conversazione con lui, dalle sette alle otto ore, quattro volte alla settimana, e ho osservato il suo comportamento. L’ho visto in azione: semplicemente non ha bisogno di violentare le donne. Ci sono un sacco di donne che si mettono a sua disposizione».

Dagotraduzione dal Guardian il 26 agosto 2021. Un gran giurì ha incriminato l’attore di film per adulti Ron Jeremy accusandolo di oltre 30 reati di aggressione sessuale che hanno coinvolto 21 donne e ragazze. Ieri, alla corte superiore di Los Angeles, Jeremy, 68 anni, si è dichiarato non colpevole di tutte le accuse, compresi i 12 stupri che gli sono stati addebitati. Le accuse riguardano un periodo che va dal 1996 al 2019, con vittime di età compresa tra i 15 e i 51 anni. I pubblici ministeri di Los Angeles hanno utilizzato, per questo caso, la stessa strategia impiegata nel caso di Harvey Weinstein: i procedimenti segreti del gran giurì per ottenere un atto d’accusa che sostituisse le accuse originali, consentendo loro di saltare un’udienza preliminare pubblica sulle prove e procedere al processo. L'avvocato difensore Stuart Goldfarb ha dichiarato in una e-mail che la «posizione di Jeremy è la stessa di quando è stata presentata la denuncia penale. È innocente da tutte le accuse». Jeremy è in carcere e il giudice ha fissato la cauzione a 6,6 milioni di dollari. Tra le violenze sessuali contestate a Jeremy, c’è quella su una donna durante un servizio fotografico (1996), su una 19enne in discoteca (2003), su una 17enne in casa (2008) e su una 15enne (2004). A ottobre si svolgerà l’udienza preliminare. Ron Jeremy è stato per decenni tra gli attori più noti e prolifici dell’industria pornografica, e ha partecipato a oltre cento film negli anni 70.

Dagotraduzione da Xbiz il 14 agosto 2021. L'udienza preliminare del processo a Los Angeles contro Ron Jeremy è stata rinviata un’altra volta, al 25 ottobre. L’ex star del porno è accusato di 35 capi di imputazione, da parte di 23 presunte vittime. Se condannato, rischia dai 330 anni all’ergastolo, da scontare nella prigione di Stato dove è rinchiuso da giugno 2020. L’avvocato di Jeremy, Stuart Goldfarb, e il procuratore distrettuale Paul Thompson avevano concordato a marzo di svolgere oggi l’udienza preliminare, ma poche settimane fa Goldfarb ha presentato una richiesta per un’altra proroga. Goldfarb infatti ha insistito per oltre un anno sul fatto di non potersi preparare adeguatamente per l'udienza preliminare senza avere accesso ai nomi e agli indirizzi delle 23 vittime e degli oltre 50 testimoni che l'ufficio del procuratore distrettuale intende produrre. I casi di aggressione sessuale hanno regole speciali progettate per proteggere la sicurezza delle vittime; la difesa chiede che queste regole speciali siano allentate per identificare le persone dietro le accuse di aggressione al fine di rispondere ad esse. Goldfarb ha presentato un appello per ottenere queste informazioni, ma non è stato accolto. Jeremy è stato arrestato e accusato la prima volta il 22 giugno 2020. Quella settimana è stato chiamato in giudizio e si è dichiarato «non colpevole». La sua cauzione è stata fissata a 6,6 milioni di dollari e da quella data è rimasto in carcere. Durante un'udienza di fine agosto 2020, il vice procuratore distrettuale Thompson della divisione crimini sessuali ha aggiunto altre 20 accuse alle otto originarie. Il 28 ottobre 2020, l'ufficio del procuratore distrettuale ha presentato sette ulteriori accuse di violenza sessuale che hanno coinvolto sei vittime aggiuntive e che riguardano il periodo dal 1996 al 2020. Il caso contro Jeremy è stato quindi modificato per aggiungere i capi d’imputazione: 11 capi di imputazione per stupro forzato, 8 conteggi di percosse sessuali per costrizione, 6 conteggi di copulazione orale forzata, 5 capi di imputazione per penetrazione forzata da parte di un corpo estraneo e 1 conteggio ciascuno di sodomia, aggressione con l'intento di commettere stupro, aggressione con l'intento di commettere una penetrazione digitale forzata, penetrazione di un oggetto estraneo su una vittima priva di sensi o addormentata e condotta oscena con una ragazza di 15 anni. Ron Jeremy, nato a New York nel 1953, è stato per anni uno dei pornodivi più quotati. Ha girato migliaia di film a luci rossi, tra cui “Cicciolina e Moana ai Mondiali” di Mario Bianchi nel 1990. Nel film, interpreta la parte di Diego Armando Maradona. Insieme a lui altre due pornostar tra le più note: il nostro Rocco Siffredi e l’americano Sean Michaels, che con tante di treccine alla Ruud Gullit, intrecciano un triangolo amoroso con Cicciolina e Moana Pozzi. Era così famoso che in Finlandia veniva distribuito un rum con il marchio “Ron de Jeremy”. Dopo l’arresto della star, l’azienda ha rinominato tutti i prodotti della serie in “Hell or High Water”.

Il Caso Nathan Chasing Horse.

(ANSA l’1 febbraio 2023) - L'attore di Balla coi lupi Nathan Chasing Horse è stato arrestato per abusi sessuali dalla polizia di Las Vegas che lo accusa anche di essere il leader di una setta nota come The Circle. Lo riporta la Bbc. Gli investigatori hanno identificato almeno sei presunte vittime che risalgono ai primi anni 2000. L'abitazione di Nathan Chasing Horse, che si dice abiti con cinque mogli, è stata perquisita ieri a seguito di un'indagine della polizia durata mesi e iniziata dopo aver ricevuto una soffiata in ottobre.

L'ex attore si era guadagnato una reputazione tra le tribù indigene degli Stati Uniti e del Canada come uomo di medicina che eseguiva cerimonie di guarigione e incontri spirituali. Adesso la polizia sospetta che abbia sfruttato la sua posizione di guaritore per commettere gli abusi, che secondo i documenti della polizia sarebbero avvenuti in diversi Stati, tra cui Montana, South Dakota e Nevada, dove Nathan Chasing Horse ha vissuto per circa un decennio. Alcune delle sue presunte vittime avrebbero avuto anche 13 anni.

Una delle sue mogli gli sarebbe stata offerta come "regalo" quando aveva 15 anni, mentre un'altra è diventata moglie dopo aver compiuto 16 anni. L'uomo è anche accusato di aver registrato le aggressioni sessuali e di aver organizzato rapporti sessuali con le vittime per altri uomini che lo avrebbero pagato. Secondo la polizia, nel 2015 Chasing Horse è stato bandito da una riserva del Montana a causa delle accuse di traffico di esseri umani. Durante la sua carriera di attore, era noto soprattutto per il ruolo del giovane membro della tribù Sioux nel film di Kevin Costner del 1990.

Il Caso Marilyn Manson.

"Nessuno stupro". Ritrattate le accuse contro Marilyn Manson. Storia di Massimo Balsamo su Il Giornale il 25 Febbraio 2023

Un colpo di scena inatteso, destinato ad avere ripercussioni su tutta la vicenda giudiziaria in corso. La modella Ashley Morgan Smithline, tra le tante donne che avevano denunciato gli abusi da parte di Marilyn Manson, ha ritirato l'accusa contro l'artista statunitense per stupro e aggressione. Come riportato dal The Hollywood Reporter, la donna ha affermato di essere stata manipolata dall'ex fidanzata di Manson, Evan Rachel Wood, e da altre persone.

In una dichiarazione alla Corte di Los Angeles, Ashley Morgan Smithline ha affermato di essere stata manipolata dall'attrice e spinta ad accusare Marilyn Manson di abusi sessuali e aggressione."Ho ceduto alle pressioni di Evan Rachel Wood e dei suoi soci per muovere accuse di stupro e assalto che non erano vere". E ancora: "Non ho mai avuto intenzione di perseguire accuse penali contro il signor Warner (vero nome di Marilyn Manson, ndr) e non ho intenzione di perseguire mai accuse penali, poiché il signor Warner non mi ha mai aggredita o violentata".

La modella americana accusò Marilyn Manson nel 2021, a pochi mesi di distanza dalla clamorosa confessione di Evan Rachel Wood. La Smithline ha ricordato l'incontro la Wood e con altre accusatrici dell'artista - comprese l'attrice Esme Bianco e l'ex assistente Ashley Walter - e in quell'occasione negò di aver condiviso esperienze simili. Le donne, però, le avrebbero risposto che non ricordava le violenze per lo choc subito: "Mi è stato detto che forse stavo semplicemente ricordando male quello che è successo, reprimendo i miei ricordi di quello che è successo, o che i miei ricordi non erano ancora emersi, cosa che hanno detto che è successo a persone contro le quali sono stati perpetrati questi atti".

Marilyn Manson si è sempre professato innocente, negando qualsivoglia addebito:"Le mie accusatrici stanno cercando cinicamente e disonestamente di sfruttare il movimento #MeToo", una sua recente dichiarazione. Sul caso è intervenuto l'entourage di Evan Rachel Wood, negando integralmente le dichiarazioni della Smithline:“Evan non ha mai fatto pressioni o manipolato Ashley. È stata Ashley a contattare per prima Evan per gli abusi che aveva subito. È un peccato che le molestie e le minacce che Ashley ha ricevuto dopo aver intentato la sua causa federale sembrino averla spinta a cambiare la sua testimonianza". Nessuna reazione da parte di Manson, mentre il suo avvocato ha tenuto a precisare che la Smithline non ha ricevuto alcun compenso per esprimersi a favore del suo cliente.

DAGONEWS l’1 marzo 2023.

 Evan Rachel Wood ha negato di aver fatto pressioni su Ashley Morgan Smithline affinché muovesse accuse di violenza sessuale contro la rock star Marilyn Manson .

Nel febbraio 2021, Wood e altre quattro donne hanno affermato che Manson le aveva sottoposte a varie forme di abuso: sessuale, fisico ed emotivo, includendo anche casi di tortura.

 La scorsa settimana una di quelle donne, Ashley Morgan Smithline - la cui causa contro Manson è stata archiviata da un tribunale della California a gennaio - ha ritrattato le sue accuse, sostenendo di aver «ceduto alle pressioni di Evan Rachel Wood e dei suoi soci per accusare di stupro e aggressione Manson».

Wood ha negato le accuse di Smithline, affermando che Smithline l'ha contattata, aggiungendo: «Non ho mai fatto pressioni o manipolato Ashley Morgan Smithline per fare accuse, e di certo non ho mai fatto pressioni o manipolato qualcuno per fare accuse che non fossero vere». Gli avvocati di Wood affermano anche che gli avvocati di Manson hanno fatto pressioni su Smithline quando ha iniziato la causa.

Smithline, nel frattempo, ha detto a Rolling Stone dopo la dichiarazione di Wood questa settimana: «Evan è piena di merda… sta dicendo tutto quello che può per screditarmi. Questo è quello che succede quando ragazze orribili si annoiano». Manson ha sempre negato qualsiasi illecito e attualmente sta facendo causa a Wood e alla sua compagna Illma Gore per diffamazione.

Estratto da rollingstones.it il 31 gennaio 2023.

Marilyn Manson è stato accusato di molestie sessuali nei confronti di una minorenne: stando a quanto riferito dall’accusa i fatti risalirebbero agli anni ’90, quando la carriera di Brian Warner (questo il vero nome dell’artista) era ancora in una fase embrionale.

 Come spesso accade in questi casi la ricorrente – oggi adulta – ha sporto querela impiegando un nome fittizio, “Jane Doe”. Il caso – che coinvolge anche due ex etichette di Manson, la Interscope e la Nothing Records – è stato depositato presso la Corte Suprema della Contea di Nassau a Long Island, New York.

 Doe ha affermato di aver incontrato Warner per la prima volta nel 1995, dopo un concerto a Dallas, quando aveva ancora 16 anni (meno dell’età del consenso prevista in Texas, fissata a 17 anni). Doe avrebbe aspettato Manson davanti al bus insieme ad alcuni amici, e lui avrebbe invitato lei e un’altra giovane ragazza a salire sul pulmino, prendendo nota di alcune informazioni – i loro indirizzi di casa, i loro numeri di telefono, la classe che frequentavano e la loro età.

«Mentre era sul bus, l’imputato Warner ha compiuto vari atti di violenza sessuale contro la querelante, che all’epoca era ancora vergine, inclusi la copulazione forzata e la penetrazione vaginale”, si legge nei documenti presentati dall’accusa. «Uno dei membri della band ha visto l’imputato Warner aggredire sessualmente la querelante», scrive ancora l’accusa.

 «La querelante soffriva, era spaventata, sconvolta, umiliata e confusa. Dopo che ebbe finito, l’imputato Warner rise di lei (…) chiedendo alla querelante di “levarsi dal c*zzo” e scendere dall’autobus». Inoltre, sempre a detta dell’accusa, Manson avrebbe anche minacciato la querelante dicendole che, se avesse deciso di raccontare l’abuso a qualcuno, avrebbe ucciso lei e la sua famiglia.

Inoltre, prima che Doe compisse 17 anni, Warner l’avrebbe invitata a un concerto a New Orleans per incontrarla di nuovo. In quell’occasione, sempre a detta dell’accusa, «L’imputato Warner è diventato più aggressivo e ha nuovamente aggredito sessualmente la querelante con baci, morsi al seno, copulazione orale e penetrazione”. Inoltre, nei documenti si legge che, subito dopo le presunte violenze sessuali, Doe avrebbe sviluppato una dipendenza da droghe e alcol.

 L’accusa sostiene inoltre che le summenzionate etichette discografiche, che avevano sotto contratto Warner in quel momento, «erano ben consapevoli dell’ossessione dell’imputato per la violenza sessuale e l’aggressione sessuale infantile» […]

Il Caso Tyson.

(ANSA il 25 Gennaio 2023) - Una donna nello Stato di New York ha intentato una causa civile contro Mike Tyson, accusando l'ex campione di boxe di averla violentata in una limousine all'inizio degli anni '90, come attestano documenti del tribunale.

 La donna, che ha chiesto al tribunale di rimanere anonima, ha presentato la sua denuncia all'inizio di gennaio ai sensi di una legge temporanea dello Stato di New York che consente alle vittime di violenza sessuale di chiedere il risarcimento dei danni civili indipendentemente dai termini di prescrizione.

Tyson ha trascorso tre anni in prigione a partire dal 1992 dopo essere stato dichiarato colpevole di aver stuprato la modella Desiree Washington, che all'epoca aveva 18 anni. In una breve dichiarazione giurata datata 23 dicembre 2022, la querelante afferma di aver incontrato il pugile in una discoteca "nei primi anni '90", quindi di averlo seguito nella sua limousine, dove presumibilmente l'ha aggredita prima di violentarla. "Come risultato dello stupro di Tyson, ho sofferto e continuo a soffrire di lesioni fisiche, psicologiche ed emotive", ha detto. Chiede 5 milioni di dollari di risarcimento danni.

Nato a Brooklyn nel 1966, Tyson ha avuto un'infanzia turbolenta prima di diventare il campione indiscusso dei pesi massimi negli anni '80, terrorizzando i suoi avversari con la sua furia sul ring e una fenomenale potenza di pugni. Ma dopo la sua pena detentiva, non ha potuto mantenere i suoi titoli.

 In un famigerato incontro del 1996, Tyson ha morso un pezzo dell'orecchio del suo avversario Evander Holyfield. Preso dalla depressione e dalla dipendenza, ha continuato a fare notizia, in particolare per uno spettacolo personale in cui ha descritto i molti alti e bassi della sua vita. Di recente si è lanciato nell'industria della cannabis con un suo marchio di prodotti a base di marijuana.

Il Caso Epstein.

Jeffrey Epstein: l'ex First Lady delle Isole Vergini lo aiutò nel traffico di minori. Storia di Roberto Vivaldelli su Il Giornale il 16 giugno 2023. 

Prosegue la battaglia legale su Jeffrey Epstein. Le Isole Vergini americane hanno citato in giudizio JPMorgan Chase con l'accusa di aver favorito i crimini sessuali del finanziere. La causa sostiene che JPMorgan Chase ha "chiuso un occhio" sul traffico di esseri umani per oltre un decennio a causa degli affari che il magnate portava avanti. Ora la banca con sede a New York risponde con un documento clamoroso: un deposito federale che dimostrerebbe il rapporto stretto tra l'ex First Lady delle Isole Vergini, Cecile de Jongh, e lo stesso Epstein. La banca sostiene infatti che il governo delle Isole abbia aiutato il finanziere in più occasioni: in un documento, JPMorgan accusa Cecile de Jongh, che lavorava come capoufficio per Epstein, di aver agito come suo "principale tramite per diffondere denaro e influenza nelle Isole Vergini americane". In particolare, il finanziere-pedofilo avrebbe aiutato de Jongh a redigere una bozza di legge sui criminali sessuali. Sì, proprio lui, il finanziere condannato per traffico sessuale.

Così il finanziere aiutò l'ex First lady

Tre anni dopo che Epstein si era dichiarato colpevole di aver adescato una prostituta minorenne in Florida, de Jongh, moglie dell'allora governatore delle Isole Vergini John de Jongh Jr, avrebbe chiesto a Epstein se approvava modifiche specifiche alle leggi sul monitoraggio dei criminali sessuali. In risposta alla richiesta di de Jongh di dare un contributo circa la bozza di legge sui reati sessuali, Epstein rispose così: "Dovremmo aggiungere fuori dal Paese per più di 7 giorni, altrimenti non potrei fare una gita di un giorno a Tortola all'ultimo minuto". Sebbene Epstein abbia seguito da vicino il processo di scrittura della bozza, rimase poi deluso dal risultato finale. A quel punto l'ex First Lady si scusò per come erano andate le cose ma promise al finanziere-pedofilo che avrebbe trovato un modo per "aggirare questi ostacoli", si legge nel documento. Secondo il deposito, la donna avrebbe infatti escogitato un piano per aggirare la stessa legge e dare a Epstein ampia libertà di movimento dentro e fuori dal Paese. Non solo. Secondo un altro documento, Epstein avrebbe pagato le tasse scolastiche dei figli del governatore e della first lady delle Isole Vergini americane, allo Skidmore College di New York, per un totale di 25mila dollari.

L'accordo raggiunto da Jp Morgan con le vittime

È notizia di pochi giorni fa la chiusura di un patteggiamento da 290 milioni di dollari tra JPMorgan e le vittime di Epstein. L'accordo, secondo quanto riportato dal New York Times, riguardarebbe nello specifico la causa intentata lo scorso novembre da una donna alla corte federale di New York a nome anche di altre vittime del finanziere morto suicida in carcere. L'ex finanziere divenne cliente di JPMorgan nel 1998 e la banca nel corso degli anni ha gestito decine di conti correnti legati a Epstein con milioni di dollari, ed è accusata di aver "chiuso un occhio" rispetto alle sue attività illegali. Il magnate è stato arrestato il 6 luglio 2019 con l'accusa di abusi sessuali su minorenni: è morto per un presunto suicidio il 10 agosto 2019 presso la sua cella del Metropolitan Correctional Center di New York.

75 milioni di dollari alle vittime di Epstein: perché a pagare è la Deutsche Bank. Storia di Mariangela Garofano su Il Giornale il 18 maggio 2023.

Dopo le accuse mosse al colosso JPMorgan, nell’ambito delle indagini su Jeffrey Epstein, ora è Deutsche Bank a essere finita nell'occhio del ciclone. Pare infatti che la banca tedesca pagherà 75 milioni di dollari alle vittime del finanziere accusato di pedofilia per aver continuato a tenerlo come cliente per cinque anni, pur sapendo che l’uomo era un abusatore seriale. Come riporta Reuters, l’accordo con la banca tedesca è il risultato di una class action avviata dai legali di alcune vittime di Epstein, depositata presso il tribunale di Manhattan da una vittima chiamata "Jane Doe 1".

Il milionario newyorkese nel 2008 era stato registrato come predatore sessuale e arrestato in Florida, con l’accusa di traffico della prostituzione. Le donne abusate da Epstein accusano Deutsche Bank di aver continuato a fare affari con il magnate dal 2013 al 2018 e di aver favorito, in questo modo, i suoi traffici illeciti. David Boies, uno dei legali delle vittime che hanno intentato la causa contro la banca tedesca, ha dichiarato a Reuters che le vittime di Epstein “hanno bisogno della collaborazione e del supporto di personalità ed istituzioni potenti. Apprezziamo la volontà di Deutsche Bank di assumersi le proprie responsabilità per il suo ruolo nella vicenda”.

A questo proposito, il portavoce della banca, Dylan Riddle, non ha commentato l’accordo, ma la banca avrebbe ammesso che avere Epstein come cliente sarebbe stato un errore. Errore che ora costerà caro alla banca, ma che renderà ricche le vittime del milionario. Secondo alcune fonti le donne avrebbero ricevuto tra i 75.000 e i 5 milioni di dollari ciascuno, da Deutsche Bank. Recentemente anche JPMorgan è finita sotto i riflettori, per aver facilitato i traffici illeciti dell'americano, dopo il suo arresto nel 2008. La causa contro JPMorgan è stata intentata da una delle sue vittime, una ballerina nota come "Jane Doe 2", e dal governo delle Isole Vergini, che hanno chiamato a fornire documenti sui rapporti con Epstein, il patron della Tesla e Twitter, Elon Musk.

DAGONEWS il 31 gennaio 2023.

Il fondatore di Microsoft Bill Gates ha dichiarato che "non avrebbe dovuto cenare" con Jeffrey Epstein.

 Secondo quanto riportato dal New York Times, Gates ed Epstein, il potente finanziere accusato di traffico sessuale di minori prima di suicidarsi in una cella del carcere di New York in attesa del processo, si erano incontrati numerose volte, a partire dal 2011.

 Ma Gates ha dichiarato di aver cenato con lui solo per potenziali opportunità filantropiche.

 Epstein si è dichiarato colpevole di due accuse di prostituzione e nel 2008 è stato condannato a 18 mesi di carcere, ben prima degli incontri di Gates con lui.

 La presentatrice Sarah Ferguson ha interrogato Gates, chiedendogli se fosse pentito della relazione che ha mantenuto con Epstein, andando anche contro il parere dell'ex moglie Melinda Gates.

 "Non avrei dovuto cenare con lui", ha risposto Gates.

 Ferguson ha chiesto se Melinda stesse avvertendo Gates del "modo in cui Epstein compromette sessualmente le persone".

"No", ha risposto Gates, che ha ribadito di essersi pentito di "aver cenato con lui". Ha anche negato che ci fosse una relazione di qualsiasi tipo tra la Fondazione "Bill & Melinda Gates" e Epstein.

 "È stato un errore enorme passare del tempo con lui e dargli la credibilità" ha detto Gates.

Nell'intervista alla CNN Gates ha dichiarato di aver incontrato Epstein per raccogliere più fondi da destinare ai problemi di salute globale.

"Ho avuto diverse cene con lui, sperando che potesse aiutarmi a raccogliere soldi per la filantropia attraverso i contatti che aveva", ha detto Gates.

 "Quando ho capito che non era qualcosa di reale, la relazione si è conclusa" ha continuato.

 I procuratori federali di New York hanno reso pubblica un'accusa penale contro Epstein nel luglio 2019, sostenendo che il ricco manager finanziario gestiva un traffico sessuale e abusava sessualmente di decine di ragazze minorenni.

Queste accuse hanno seguito Epstein per anni.

 Epstein è stato trovato morto nella sua cella di New York nell'agosto 2019; l'Ufficio del medico legale della città ha dichiarato che la causa del decesso è il suicidio per impiccagione.

 Gates ha rilasciato dichiarazioni simili al Wall Street Journal, quando ha riportato che il suo legame sociale con Epstein ha avuto un ruolo nel suo divorzio da Melinda French Gates.

(ANSA il 23 gennaio 2023) Ghislaine Maxwell parla in diretta dal carcere e afferma: "non avrei mai" voluto incontrare Jeffrey Epstein. Condannata a 20 anni di reclusione perché complice del milionario morto in carcere, Maxwell - riporta il Guardian citando l'intervista rilasciata a TalkTV du Jeremy Kyle - si dice convinta che che la foto del principe Andrea con l'accusatrice di Epstein Virginia Giuffre sia un falso. "Non credo sia vera. Infatti sono sicura che non lo è, non c'è mai stato un originale", dice.

Una vasca da bagno per «scagionare il principe Andrea»: «Molestie a Virginia Giuffre lì dentro? Impossibile». Enrica Roddolo su Il Corriere della Sera il 28 Gennaio 2023.

La famiglia di Ghislaine Maxwell, la donna legata al finanziere Jeffrey Epstein nello scandalo sessuale che ha coinvolto anche il principe, ha messo a disposizione una foto della vasca dove, secondo Giuffre, si sarebbero svolte le molestie: «È troppo piccola»

Una vasca da bagno vecchio stile, nei «Mews»(le vecchie scuderie riconvertite in abitazioni) di una bella casa di Belgravia. E dentro due attori con sul viso la sagoma del principe Andrea e della giovane Virginia Giuffre.

Il Telegraph di Londra pubblica oggi per la prima volta una foto che ricrea la situazione intima in cui si trovarono il duca di York e la sua giovane amica anni fa, e che Giuffre ha rievocato in un’intervista con il programma «Panorama» della Bbc nel 2019 e nella sua biografia-memoir mai pubblicata ma resa pubblica nel processo.

Una foto messa a disposizione dalla famiglia di Ghislaine Maxwell, legata al finanziere Jeffrey Epstein nello scandalo sessuale che ha travolto anche il principe. Perché? «La gente guardando a questa foto potrà giudicare da sola. E se questo potrà aiutare il principe, che sia», dice la famiglia Maxwell che al Telegraph ha fornito anche le dimensioni della vecchia vasca: 1.359 millimetri per 380.

Insomma, «una vasca troppo piccola per qualsiasi tipo di “sex frolicking”, attività sessuale – scrive il fratello della Maxwell -. Rendo pubblica questa foto perché la verità deve venire a galla».

Oggi il principe Andrea non è più un working Royal e ha dovuto restituire i suoi gradi militari e tirarsi fuori da tutti i patronati ai quali era legato, pur continuando a poter utilizzare il suo appellativo di Altezza reale (ma solo in una forma privata, come gli concesse la madre Elisabetta prima della morte).

Certo, in passato sarebbe forse stata impensabile una foto del genere per scagionare un’Altezza Reale. Ma è l’anno delle rivelazioni di «Spare», il memoir del principe Harry che rivelazioni molto personali, e non si possono dimenticare le descrizioni intime sulla vita dentro la mura reali, al tempo della guerra Carlo-Diana.

Ed è chiaro anche che dietro alla decisione di rendere pubblica la foto della vasca — alla cui notizia Buckingham Palace non ha rilasciato alcun commento — c’è probabilmente un confronto con il principe. Alla luce del fatto anche che a novembre scorso,Virginia Giuffre ha deciso di ritirare la sua denuncia contro un ex professore di diritto all’Università di Harvard. Ritiro che ha riaperto il dibattito sul caso. Prima aveva indicato il professore come uno degli uomini con i quali Epstein l’avrebbe obbligata ad attività sessuali.

E una settimana fa, come riportato dal «Guardian», proprio Ghislaine Maxwell aveva messo in dubbio l’autenticità dell’ormai «famosa» foto che ritrae Andrea e la ragazza allora minorenne abbracciati. «E’ un falso... non c’è mai stato un originale e non c’è mai stata una foto. Ho solo visto una fotocopia di questa», ha dichiarato dal carcere americano dove sta scontando la sua pena la Maxwell alla giornalista tv Daphne Barak per TalkTv.

Andrea, intanto, aveva raggiunto nel febbraio di un anno fa un accordo extra-giudiziale con la sua accusatrice: «Questo vuol dire», come scriveva il Corriere qui, «che Andrea non dovrà affrontare un processo in tribunale per violenza sessuale, una eventualità che rischiava di trascinare nel fango tutta la famiglia reale britannica.Giuffre aveva detto in precedenza che non avrebbe accettato di ritirare la causa civile intentata contro Andrea in cambio di soldi, perché reclamava giustizia per sé e per le altre vittime di abusi sessuali. Le parti hanno annunciato di aver raggiunto un “accordo di principio”, il cui ammontare non è stato rivelato: di conseguenza, il procedimento legale sarà lasciato cadere».

Giuffre aveva denunciato il principe nell'agosto 2021, sostenendo di essere stata violentata da lui oltre vent’anni fa, quando aveva solo 17 anni: Virginia era una delle ragazze vittime del magnate pedofilo Epstein e della sua amante e complice Ghislaine Maxwell. Andrea ha sempre negato ogni accusa, sostenendo di non ricordare neppure di aver mai incontrato la sua presunta vittima.

In questi giorni ha fatto notizia la ristrutturazione del suo vecchio pied à terre a Buckingham Palace (quello dove teneva a sua famosa collezione di teddy bear).

Il fatto è che il palazzo, con l’arrivo di re Carlo, ha accelerato il piano di ristrutturazione interno in vista anche dei progetti che il nuovo sovrano nutre per la storica reggia. Resta piuttosto un grande punto interrogativo sul futuro del Royal Lodge. È la residenza nel parco del castello di Windsor dove da anni risiede Andrea assieme alla ex moglie Sarah Ferguson.

La Pretestuosità.

«Come eravamo», DAGONEWS il 29 gennaio 2023.

L'autore Robert Hofler racconta le tensioni e i drammi tra Robert Redford e Barbra Streisand nel libro "The Way They Were: How Epic Battles and Bruised Egos Brought a Classic Hollywood Love Story to the Screen", in uscita il 24 gennaio.

 Il libro rivela i dettagli delle tormentate riprese del film romantico "Come Eravamo" del 1973 che valse alla Streisand una nomination all'Oscar come miglior attrice. 

Ma secondo l'autore, Redford inizialmente non voleva impegnarsi con una donna che non considerava un'"attrice seria" e voleva "proteggersi", essendo un padre di quattro figli felicemente sposato.

 La Streisand, invece, era "ipnotizzata" dalla bellezza fisica di Redford e voleva disperatamente fare sesso con lui.

 Indossò persino un bikini per la loro scena di sesso, ma Redford raddoppiò le mutande e si assicurò che la scena fosse il meno esplicita possibile.

Il libro rivela che durante la loro seconda scena di sesso, Redford si rifiutò di dire la battuta: "Questa volta andrà meglio", perché pensava che la gente avrebbe pensato che nella vita reale fosse un fallimento a letto.

Come dice Hofler, critico teatrale del sito TheWrap: "Redford non è mai stato male a letto", quindi anche il suo personaggio non poteva esserlo.

 Il film si rivelò un successo di critica e commerciale e vinse due Oscar, tra cui quello per la miglior canzone originale per "The Way We Were", cantata dalla Streisand, che raggiunse anche il primo posto della Billboard Hot 100.

Pollack iniziò otto mesi di "corteggiamento incessante" per convincere Redford ad accettare la parte.

Uno dei principali ostacoli che dovette superare fu la riluttanza di Redford a lavorare con la Streisand.

 Non la riteneva un'"attrice seria" perché "non era mai stata messa alla prova", si lamentava, perché i suoi film precedenti erano stati musical e film più leggeri.

Ha anche contestato il suo passato di cantante, dicendo: "Non canterà, vero? Non voglio che canti nel bel mezzo del film".

 Tra Ray Stark, produttore del film, e Redford non correva buon sangue: l'attore disse che The Way We Were sembrava "un altro viaggio dell'ego di Ray Stark, non voglio nemmeno leggerlo".

 Stark ha liquidato Redford come un "ingrato arrivista", ma Pollack ha lottato per farlo partecipare al film.

Robert Redford indossò due paia di mutande per «difendersi» da Barbra Streisand nelle scene di sesso. Simona Marchetti su Il Corriere della Sera il 27 Gennaio 2023.

Un libro del critico teatrale Robert Hofler racconta alcuni retroscena del film di Sydney Pollack del 1973, che valse all’attrice la sua seconda nomination all’Oscar, rivelando inoltre che l’attore non voleva saperne di recitare con la collega

Vedendo la loro alchimia sullo schermo, è difficile credere che in realtà l’intesa fra Robert Redford e Barbra Streisand sul set di «Come eravamo» sia stata solo frutto del caso. A sostenere questa tesi è il critico teatrale Robert Hofler nel suo nuovo libro «The Way They Were: How Epic Battles and Bruised Egos Brought: a Classic Hollywood Love Story to the Screen», dove racconta alcuni retroscena del film di Sydney Pollack del 1973, che valse all’attrice la seconda nomination all’Oscar.

Lui non voleva lavorare con lei

Dagli estratti pubblicati dal Daily Mail, si scopre così che Redford non aveva alcuna voglia di lavorare con la Streisand, perché non la riteneva «un’attrice seria» per un ruolo drammatico, visto che «i suoi film precedenti erano stati dei musical e dei film più leggeri». Non bastasse, era pure terrorizzato dal fatto che lei fosse anche una cantante e temeva che si sarebbe messa a cantare nel bel mezzo del film. Insomma, a suo parere fra loro sul set non avrebbe mai funzionato e lo ha subito chiarito anche alla stessa Streisand. «Se vogliamo lavorare insieme, devi tenere presente che tutto ciò che ti dirò su di me sarà detto con intenzione e perché voglio che tu lo sappia. Non perché tu pensi di avere un qualche diritto di saperlo», sono le parole messe in bocca a Redford nel libro.

Lei follemente innamorata

Dal canto suo la Streisand era «follemente infatuata» dell’attore e tentò quindi in tutti i modi di conquistarlo, indossando persino un bikini per la loro prima scena di sesso. Per tutta risposta Redford - all’epoca felicemente sposato con la sua prima moglie, Lola Van Wagenen, madre dei suoi 4 figli - si infilò invece «due paia di mutande attillate» per proteggersi dalle eventuali avance dell’attrice e pretese che la scena non fosse troppo spinta. Sempre il libro rivela poi che l’attore si sarebbe rifiutato di dire la battuta «Stavolta andrà meglio» nella seconda scena di sesso del film, perché teneva che la gente avrebbe creduto che lui fosse un fallimento a letto anche nella vita reale. «Redford non è mai stato male a letto - spiega Hofler - quindi non poteva esserlo neanche il suo personaggio». A dispetto di tutte queste difficoltà, il film divenne però un successo al botteghino e si era persino parlato di un possibile sequel, ma ancora una volta fu Redford a mettersi di traverso.

Estratto dell'articolo di Mirella Serri per “la Stampa” il 23 gennaio 2023.

 Come mai in questi anni le più propense a denunciare le molestie sessuali sono state proprio le attrici? Se lo chiede Lucetta Scaraffia nel suo recente articolo su La Stampa, analizzando i dati dell'associazione Amleta secondo cui in Italia ben il 40% dei registi cinematografici ha insidiato l'altra metà del cielo. Come mai dunque proprio le attrici sono in prima linea nel Me Too italiano?

 Scaraffia non ha dubbi: le donne di spettacolo cercano tutti gli escamotage possibili per conquistarsi le luci della ribalta e denunciano i molestatori «per ovvie ragioni di pubblicità». Siamo proprio sicuri che sia così?

 (...)

Un gran numero di signore e signorine si sono negate alle proposte indecenti. Qual è stato il loro destino? Che carriere hanno fatto? Di quali privilegi hanno goduto? Non lo sappiamo. Sappiamo per certo che quelle che hanno ceduto alle violenze fisiche e/o psicologiche spesso e volentieri non hanno avuto nulla o quasi nulla in questo scambio osceno, e si sono dovute rendere conto che neppure il sesso estorto è una via sicura per procedere spedite alla conquista di quattrini, benemerenze e poltrone. Il potere è potere e, in quanto tale, è spietato, non è detto che rispetti i patti espliciti o sottintesi. Per rimanere nell'ambito delle «donne di servizio», quanti libri abbiamo letto e quanti film abbiamo visto con protagonista la povera collaboratrice ingravidata e abbandonata?

Stessa regola può valere per le professioniste che, concedendo le loro grazie al capo, ne hanno ricavato solo umiliazioni. Da anni le donne più consapevoli combattono perché le molestate rendano pubbliche le sopraffazioni e per allungare i tempi previsti dalla legge (oggi pochi mesi) per presentare gli esposti. Al contrario adesso Scaraffia esorta: ragazze rassegnatevi! La lotta dei sessi è lotta di classe, rimanete a casa come le Sante e le Madonne d'altri secoli e se qualcuno vi molesta siategli grate! Forse, ma non è detto, farete carriera.

Estratto da open.online il 21 gennaio 2023.

L’attrice di Laguna Blu e Pretty Baby Brooke Shields ha raccontato di essere stata violentata agli inizia della propria carriera a Hollywood.

 La star degli anni ’80 non ha svelato l’identità del carnefice, ma ha detto che poco dopo aver finito il college ha incontrato ha incontrato un uomo che già conosceva, che l’avrebbe invitata a un hotel con la scusa di un incontro di lavoro: la possibilità di fare un casting per una parte nel nuovo film dell’uomo.

 Ad un certo punto, riporta France 24, il presunto stupratore sarebbe andato in bagno. Avrebbe detto di voler chiamare un taxi per Shields, salvo poi riapparire completamente nudo e attaccarla.

 «Non ho posto molto resistenza, sono rimasta immobile, congelata», racconta l’attrice nel documentario che richiama il nome di uno dei suoi film più noti: Pretty Baby: Brooke Shields, presentato al Sundance film festival di Salt Lake City venerdì scorso. La sua denuncia si aggiunge a quella di molte donne dello spettacolo, che raccontano quanto fenomeni simili sarebbero diffusi in quell’ambito.

Sessualizzata fin da piccola

«Pensavo che il mio singolo “no” sarebbe stato sufficiente a fermarlo», spiega Shields. «Ma ad un certo punto tutto quello che riuscivo a pensare era “scappa e cerca di non morire“», aggiunge.

 Una volta riuscita a divincolarsi dall’uomo, Shields racconta di aver chiamato l’amico e capo della sua sicurezza gavin de Becker, che non ha avuto dubbi: «È stupro».

 L’attrice spiega che fino a poco tempo fa non ci voleva credere, e per questo non ha parlato della cosa fino ad ora. Il film verrà rilasciato sulla piattaforma di streaming Hulu in due parti.

 Nella prima viene esaminata la sessualizzazione subita dall’attrice tra i 10 e 14 anni. A 10 anni, Shields posò per un servizio fotografico di nudo. A 11 interpretò la parte di una bambina prostituta in Pretty Baby; a 14 recitò nel controverso film Laguna Blu, dove appare in altre scene di nudo.

Si fa presto a dire #MeToo: «In Italia la donna vittima è sempre carnefice». Simone Alliva su L’Espresso il 18 gennaio 2023.

La magistrata Paola Di Nicola Travaglini a L'Espresso: «Leggi che mancano e formazione professionale assente. Nei tribunali la dignità di chi ha subito violenza continua a essere gravemente calpestata»

Come un fiume carsico riemerge la questione dei femminicidi. Ribolle nelle cronache, illumina al neon la conoscenza che abbiamo del fenomeno di violenza di genere. L’Italia ha conosciuto cosa fosse un processo per stupro nel 1979, quando la Rete 2 entrò per la prima volta nell'aula di un tribunale. Un documento che svelò quali fossero le dinamiche di questo reato e i pregiudizi sul corpo della donna (l’avvocato degli imputati disse: «Se questa ragazza fosse stata a casa non si sarebbe verificato niente»). Lo stupro era ancora considerato un reato contro la morale pubblica. Solo nel 1996 la legge lo rese "reato contro la persona". Cosa è cambiato in questo tempo fatto di denunce anonime e nuove consapevolezze che bruciano sull’ondata del #MeToo, il fenomeno che ha scosso il mondo – ma non l’Italia- rivelando molestie e abusi sessuali contro le donne? Cosa abbiamo saputo decifrare, e imparare, dal tempo che abbiamo appena trascorso? Poco. Lo spiega a L’Espresso Paola Di Nicola Travaglini, ex consulente giuridico della commissione sul femminicidio e la violenza di genere del Senato e oggi in ruolo come consigliera di Cassazione: “La vittima è sempre carnefice”.

Dottoressa Di Nicola, facciamo chiarezza sulla questione della violenza di genere in Italia. Partiamo dal nervo scoperto del #MeToo: le denunce. Quanto tempo ha una vittima in Italia per denunciare una violenza?

«Per le violenze sessuali il termine, grazie al Codice Rosso (legge del 2019), è aumentato a un anno, prima era a 6 mesi. Per i maltrattamenti consumati in un contesto familiare non c’è un termine perché è un reato procedibile d’ufficio. Per lo stalking 6 mesi. I termini sono differenti a seconda del tipo di reato»

Un anno soltanto è abbastanza?

«È poco. Serve del tempo per maturare una consapevolezza. Spesso, questo reato, viene commesso da parte di persone conosciute: parenti, genitori, amici, compagni di scuola. Il tempo pesa differentemente a seconda della persona che subisce la violenza: dalla sua condizione sociale ed economica. E consideriamo che il contesto sociale, culturale e professionale non solidarizza quasi mai con le vittime ma con il carnefice, ritenendo che quella denuncia abbia sempre una natura strumentale»

Quale potrebbe essere la soluzione?

«È una questione complessa su cui c’è un grande dibattito in Italia e nel mondo. In Italia, dal punto di vista strettamente giuridico, la violenza sessuale è perseguita a querela (quindi su richiesta espressa della vittima). Poiché include il racconto della propria intimità e di una sfera come quella della sessualità così delicata, è necessaria la volontà espressa della vittima a denunciare. La donna si troverà ad affrontare quella che la Corte per i Diritti Umani ha definito “un calvario”, cioè il processo penale. Se io decido di denunciare devo essere determinata. Devo sapere che affronterò sfere di avvocati, giudici, persone che potrebbero non credermi e che mi metteranno sotto pressione».

Tuttavia terminato l'anno in cui la vittima può denunciare ci si trova davanti a un muro. Non sarebbe il caso di rendere questo un reato d’ufficio e non nella disponibilità della vittima?

«I reati procedibili di ufficio sono quelli che lo Stato ritiene talmente gravi da non lasciarli nella disponibilità della vittima, ad esempio: truffa, appropriazione indebita. Reati considerati meno gravi. Questo della violenza di genere è di grandissima gravità per lo Stato eppure lo Stato stesso rinuncia a perseguire d’ufficio. Ma lo fa perché rispetta questa difficoltà della vittima e la riconosce. Però, certo, è uno spazio troppo breve. Una soluzione potrebbe essere quella di aumentare in maniera significativa il lasso di tempo della denuncia, mettere la vittima in condizione di valutare e decidere consapevolmente se percorrere questa strada».

Lei ha nominato la paura. Quello della vittima nelle aule di giustizia ci rimanda un po’ ai tempi di Processo per Stupro. Il "calvario" consiste anche nel subire una serie di osservazioni totalmente irrilevanti: gli abiti che indossava, l'alcol che aveva ingerito.

«Sotto il profilo giuridico abbiamo tutti gli strumenti per contrastare il fenomeno della violenza, mettendo a vertice la dignità della persona offesa. Dal punto di vista concreto e culturale, invece, la dignità della vittima continua a essere gravemente calpestata da un atteggiamento che, dietro a un presunto diritto di difesa, ferisce con domande superflue, irrilevanti, inutili, non idonee ad accertare il fatto ma finalizzate esclusivamente a colpevolizzare la vittima. La donna diventa vittima con dolo, carnefice»

Un problema più culturale che giuridico. Si può risolvere con dei corsi di formazione?

«Direi: formazione obbligatoria per tutti coloro che entrano in contatto nelle istituzioni con le vittime di violenza di genere. Però deve essere una formazione non tecnica ma soprattutto culturale. Deve disvelare gli stereotipi e i pregiudizi che abbiamo nei confronti delle donne, viste come bugiarde che denunciano strumentalmente o che esagerano, messe volontariamente nella condizione di essere stuprate, picchiate, malmenate, perseguitate. Questi sono i pregiudizi che abitano le aule di giustizia, i commissariati, le stazioni carabinieri e gli studi professionali dell’avvocatura. E non dimentichiamo quelli nei confronti degli uomini: mossi dagli impulsi incontrollabili, raptus, gelosia. Sono pregiudizi che quando vengono rappresentati mostrano la totale incompetenza di chi li esprime».

Si legge nel codice penale: “Chiunque con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità costringe taluno a compiere o subire atti sessuali, è punito con la reclusione da sei a dodici anni”. La fattispecie non contempla attenuanti specifiche, sociali o di contesto: il giudice deve valutare se il rapporto sessuale sia il risultato di violenza, minaccia o abuso di autorità. Non è sempre facile: ci sono i casi di violenza chiara con referti medici che la certificano, ma anche quelli in cui la versione dell’imputato e vittima divergono sul fatto che il rapporto fosse consensuale o meno.

«Il nostro codice è costruito come lei ha indicato. Ma l’interpretazione della Corte di Cassazione è andata molto più avanti per cui per una violenza sessuale è sufficiente che l’atto sessuale non sia sorretto dal consenso della persona offesa. Qualsiasi atto sessuale commesso senza consenso, oggi è una violenza sessuale. Sebbene non ci sia nel codice penale la parola “consenso”. Questa è un’interpretazione a cui siamo arrivati nella Corte Di Cassazione sulla base della lettura delle convenzioni internazionali. Dobbiamo interpretare le norme del Codice Penale anche alla luce dell’evoluzione interpretativa e del fenomeno per come si esprime e si presenta. Devo dire che tutto questo vale molto in astratto. Nonostante l’interpretazione della Corte di Cassazione si continuano a leggere sentenze di primo grado o di appello che danno un’interpretazione differente e lontana».

Bisogna rimettere mano al Codice Penale?

«Sì. L’ex presidente della commissione femminicidio Valeria Valente, (senatrice del PD n.d.r) ha presentato un disegno di legge in cui viene riscritta la norma sulla violenza sessuale proprio in questi termini».

E invece in Italia il reato di molestie non esiste.

«Attualmente non è punito. Le molestie sessuali quando non sono violenza sessuale sono punite con una contravvenzione (L'art. 660 del Codice Penale n.d.r). Si riduce tutto a semplici molestie, pensiamo alle dieci telefonate del vicino di casa. Ma non abbiamo un reato sulle molestie sessuali, ad esempio: ricevere la fotografia su whatsapp dell’organo sessuale di una persona più volte o telefonate oltraggiose. Non si considera che anche se non c’è la violenza sessuale dietro queste molestie, resiste una forma grave di intimidazione e preoccupazione oltre che di lesione della dignità».

Tornando al fattore tempo, le aule di giustizia sono sempre più lente su questi reati

«Intanto il Codice Rosso prevede 3 giorni entro i quali la persona che ha denunciato deve essere sentita e deve partire l’attività di indagine. Quindi i tempi dell’indagine sono velocissimi. Il punto di caduta è nel giudicante. Il Pm fa indagini veloci, così come polizia e carabinieri ma quando si arriva davanti al giudice, lì si crea un blocco, cioè noi giudicanti non abbiamo dei termini perentori. Mentre il Pm deve dare priorità assoluta a questi reati. Al giudice non è posto nessun termine. Poiché è colui che deve avviare atti importanti come gli arresti domiciliari, senza obbligatorietà tutto diventa più complesso. Questo è qualcosa che richiederebbe un nuovo tempestivo intervento del legislatore. Bisogna accorciare i tempi»

Ritiene soddisfacente l'attenzione che dello Stato sui centri anti-violenza?

«Appena sufficiente. Sono stati aumentati i fondi, certamente, ma l’investimento dovrebbe richiedere un intervento radicale e importante. I centri di anti-violenza sono l’unico presidio reale di sostegno e di tutela nei confronti delle vittime. Spesso quando i carabinieri o la polizia invitano le donne ad andare nei centri, questi sono pieni, lontani, in difficoltà economica. Hanno dei fondi che vengono ripartiti prima nelle Regioni, successivamente le Regioni devono darli ai comuni che a loro volta li ripartiscono nei centri. Questa è una modalità di finanziamento ancora limitata, a gocce, ritardata rispetto a esigenze di immediatezza. C’è bisogno di un investimento importante sui centri anti-violenza ma anche sull’adeguatezza di tutti i centri. Sa, non tutti rispettano dei requisiti minimi che devono avere a fronte di una delle più difficili realtà culturali e criminali che si ritrovano ad affrontare quotidianamente».

Il principio del #MeToo è "bisogna credere a tutte le donne che denunciano". Chi critica questo fenomeno, sostiene che credere a prescindere equivale a utilizzare un principio di colpevolezza verso gli accusati. Si sacrifica la presunzione di innocenza, che ne pensa?

«Partiamo da un dato: le donne non denunciano in Italia e nel mondo. Una donna su tre è vittima di violenza e quindi un uomo su tre è autore di violenza. E se denunciassero tutte le donne vittime di violenza la macchina giudiziaria e le carceri non sarebbero in grado di sostenere l’impatto. In Italia dieci milioni di donne potrebbero denunciare. Il sistema crollerebbe. Abbiamo un fenomeno criminale, non perseguito perché non denunciato. La commissione femminicidio ha accertato che le donne che sono state uccise hanno denunciato solo nel 15 per cento dei casi. Quindi l’altro 85 per cento non aveva mai denunciato. E diciamo anche che i dati sono sottodimensionati. Fatta questa premessa, mi fa sorridere che si possa dire che quando una donna denuncia, c'è un uomo che subisce una falsa denuncia. E non dico che non sia possibile una denuncia fasulla. Il tema delle false denunce esiste, tanto che c’è un reato che si chiama calunnia e che punisce chi denuncia falsamente una persona sapendola innocente. Ma i dati che abbiamo a disposizione ci dicono che sulla violenza di genere siamo di fronte a un falso problema».

Perché l’ondata del #MeToo non ha mai investito realmente l’Italia?

«Perché è talmente radicata l’idea che le donne mentono che di fronte a un uomo il contesto sociale, culturale e professionale non difende la vittima ma tutela l’uomo denunciato. C'è una cappa di omertà che soffoca il fenomeno».

Le cronache dei femminicidi ci dicono che moltissime cose potevano essere fatte prima di arrivare al finale tragico.

«Colpa del ridimensionamento da parte dell'intero contesto della violenza. Siccome la violenza si consuma in uno spazio affettivo, viene considerata quasi sempre un conflitto di coppia. Eppure vediamo tutti i segnali. Il primo segnale della violenza – che può sfociare in un femminicidio - è la paura della vittima e la sottovalutazione. Chi è vittima di violenza viene manipolata, ridimensionata. Quando una donna ha paura lancia segnali alle amiche, ai genitori, ai colleghi di lavoro, ai ristoratori se si trova dentro un ristorante. In quel momento, chi le sta intorno deve immediatamente intervenire per sostenerla, preoccupandosi. Abbiamo interiorizzato questa idea che una violenza di coppia sia naturale, normale e appartenga a una relazione privata. Il modo di dire "tra moglie e marito non mettere il dito" racconta bene il nostro Paese. Si mantiene ancora oggi fermo un assetto discriminatorio e di potere di un uomo nei confronti di una donna».

Dagospia il 17 gennaio 2022. ME TOO ALLA PUMMAROLA! LE ATTRICI CIANCIANO DI 223 ABUSI EMERSI IN DUE ANNI E ANNUNCIANO NUOVE DENUNCE MA SI GUARDANO MOLTO BENE DAL FARE UN NOME (E NEANCHE MEZZO COGNOME) – LA LEGALE: “E’ UN SISTEMA CHE VEDE IL SESSO COME SOTTOMISSIONE E POTERE E NON COME LIBERA RELAZIONE. PER QUESTO SERVE AL PIÙ PRESTO UNA LEGGE CONTRO LE MOLESTIE” (MA GIA’ ESISTE) – L'APPELLO DI LAURA BOLDRINI: “FATE NOMI E COGNOMI”

Estratto dell'articolo di Viola Giannoli per “la Repubblica” il 17 gennaio 2022.

Duecentoventitré casi di molestie e violenze sessuali emersi spontaneamente in due anni, duecentosette con vittime donne, attrici e giovanissime allieve delle scuole di recitazione e delle accademie abusate da registi (41,6%), attori (15,7%), produttori (6,28%), insegnanti (5,38%), casting director, critici, tecnici, spettatori persino.

 Dodici interpreti che si sono già rivolte al tribunale, altre venti che hanno testimoniato per loro. E ora in arrivo ci sono nuove denunce.

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 Uno, dieci, cento, più di duecento casi raccolti, «un sistema che vede il sesso come sottomissione e potere e non come libera relazione. Per questo serve al più presto una legge sulle molestie», sottolinea l'avvocata di Differenza Donna, Teresa Manente. Questo prevede il disegno di legge a prima firma Valente, senatrice Pd, fermo in Parlamento. E se il Me Too, aperto già nel 2017 da Asia Argento, in Italia non ha ancora attecchito è perché «qui c'è un grosso equivoco: sessismo e misoginia sono considerati goliardia », spiega Boldrini, che lancia un appello: «Fate nomi e cognomi». 

Me Too, il report globale: "7 attrici su 10 hanno subito abusi". Le lettere di Agis e Uicd: "Provini solo con professionisti, fuori chi molesta". Viola Giannoli, Eugenia Nicolosi su La Repubblica il 15 Gennaio 2023.

Nei rapporti sull'audiovisivo anche i dati sul gender gap

Gli abusi di potere subiti dalle attrici e raccontati sulle pagine di Repubblica sono la parte emersa di un sistema ben più grande e nemmeno troppo nascosto che, numeri alla mano, alimenta e sostiene l'egemonia maschile. Su base mondiale è oltre il 73% delle donne dello spettacolo a riferire di aver subito discriminazioni e molestie.

Estratto dell’articolo di Eugenia Nicolosi e Viola Giannoli per “la Repubblica” il 15 Gennaio 2023.

[…] Su base mondiale è oltre il 73% delle donne dello spettacolo a riferire di aver subito discriminazioni e molestie. Si legge sul report Behind the Scenes , del Geena Davis Institute. Non tutte denunciano. Per il timore di ripercussioni (22%), di licenziamenti in tronco (18%) o perché «non cambierebbe nulla» (22%).

 Numeri «clamorosi», anche in Italia […] Ora, oltre alle interpreti, è il mondo delle organizzazioni che rappresentano produzioni e casting a ribellarsi alle molestie in scena e dietro le quinte. […] Davanti al fiume di testimonianze, l'Uicd ha diffuso un vademecum invitando a diffidare dei provini in sedi e orari inopportuni, senza professionisti e casting director. […]

Non solo: il presidente dell'Associazione generale italiana dello spettacolo, Francesco Giambrone, ha inviato una lettera a tutti gli associati per chiedere il rigoroso rispetto del codice etico che vieta «comportamenti (inclusi gesti, linguaggio o contatto fisico) sessualmente coercitivi, minacciosi, offensivi o volti allo sfruttamento», pena l'azione disciplinare, il risarcimento del danno e la chiusura dei legami con Agis. […]

Estratto dell’articolo di Adriana Marmiroli per “la Stampa” il 15 Gennaio 2023.

Marta Marangoni e Debora Zuin sono attrici molto attive sulla scena teatrale milanese –l'una anche regista […] l'altra formatasi alla Scuola del Piccolo in era Strehler, premio Eleonora Duse come attrice emergente nel 2005 - sono tra le fondatrici di Amleta, l'associazione che si prefigge di contrastare disparità e violenza di genere nello spettacolo. […]

 Il ministro Sangiuliano ha detto che negherà i finanziamenti ai teatri complici di molestie. Cosa ne pensate?

DZ: «Che è un passo avanti. Si tratta di vedere se passerà all'atto pratico. Un codice di condotta per i teatri in materia di molestie e violenze, in realtà esiste ed è stato firmato, ma non è mai stato attuato».

Marangoni: «Ci sono poi protocolli specifici, come quello degli "intimacy coordinator", che tutelano il nostro lavoro in una fase delicata come quella del set o delle prove, che non ci lasciano soli davanti a veri e propri abusi di potere».

 […] Cosa è stato denunciato?

MM: «Che personalità anche importanti praticano comportamenti eufemisticamente "inappropriati" da anni a ripetizione, protetti dall'omertà di chi sa. E da vulnerabilità e ricattabilità delle vittime».

DZ: «Si va dalla "palpata", che nella sua banalità è comunque difficile da gestire, a violenze sessuali o ripetute richieste di prestazioni. Ci sono provini che sono veri e propri adescamenti. In modalità notturna che dimostra la connivenza: qualcuno li avrà pure aperti quei teatri. Devono esserci regole precise per le audizioni».

Vostre esperienze dirette?

MM: «A me è accaduto di tutto e dappertutto, in Italia ma anche all'estero. Ho studiato recitazione a Barcellona e Berlino, e ovunque mi sono trovata in situazioni spiacevoli. Sempre da sola. Gli uomini sono bravissimi a sminuire, a fare quadrato. […] Denunciare non è mai semplice, anche dopo parecchio tempo […]».

 […] Come verrebbe giudicato oggi un mito come Strehler?

DZ: «[…] lui ha vissuto in un sistema che si nutriva di una certa mentalità; oggi certi comportamenti andrebbero visti in ben altra prospettiva. È importante discernere quanto una certa pressione è reiterata, ed è quindi abuso e ricatto, e quanto è seduttività di una personalità fascinosa. Ancora sopravvive un sistema patriarcale. Penso al coreografo Jan Fabre che teorizzava "no sex, no solo" (niente assolo di danza): osannato, premiato, da noi continua a lavorare. Questo dice molto della persistenza di una certa mentalità». […]

Estratto dell'articolo di Claudio Cerasa per “il Foglio” il 12 gennaio 2023.

Meno gogna, più “Posto al Sole”. Siamo abituati ormai a vivere da anni in una bolla mediatica all’interno della quale ogni accusa diventa una condanna, ogni sospetto diventa una sentenza e ogni testimonianza diventa una verità.

 […] La stagione del MeToo, iniziata nell’ottobre del 2017, ha permesso a moltissime donne […] di trovare il coraggio di denunciare gli abusi subiti […] e trovare il coraggio di reagire, di fronte a un abuso subìto, è un atto importante, meritorio, a volte persino eroico.

 Dal 2017 a oggi però il MeToo ha rappresentato anche altro e ha contribuito a mostrare al mondo anche cosa vuol dire maneggiare in modo molto disinvolto accuse non provate la cui sola evocazione genera uno sputtanamento micidiale di fronte al quale non esiste alcuna archiviazione possibile.

In Francia, qualche tempo fa, ad ammonire contro le derive del MeToo sono state Catherine Deneuve e Brigitte Bardot, che hanno invitato a porre un freno alla campagna denigratoria contro l’uomo seduttore e dunque predatore.

 […] Cinque anni dopo gli appelli francesi, anche l’Italia, negli stessi giorni in cui il MeToo promette di tornare di attualità grazie alle denunce portate avanti da alcune attrici italiane, ha in un certo senso un suo momento Deneuve grazie a una scelta molto coraggiosa, eroica, fatta da una delle serie tv più popolari d’Italia, che ha scelto di denunciare […] l’oscenità delle campagne costruite sulla base della presunzione di colpevolezza.

La fiction in questione è “Un Posto al Sole”, va in onda sui Rai 3 ogni sera dal 1996 dalle 20.45 alle 21.15, l’attuale amministratore delegato Carlo Fuortes si è quasi schiantato quando ha provato a cambiarle orario, e qualche giorno fa, in una sorprendente puntata […] ecco la svolta […],il momento Deneuve.

 Una ragazza di diciotto anni, Alice, racconta alla nonna di essere scampata a un brutale tentativo di  violenza sessuale. L’autore della violenza si chiama Nunzio, ragazzo fidanzato con cui Alice ha avuto una storia, e Alice mostra alcuni lividi sui polsi come prova della brutalità del suo amante.

La versione di Alice però cozza con quello che […] hanno visto i telespettatori, che sanno invece come sono andate le cose e sanno che Alice non ha subìto nessuna violenza ma è stata semplicemente respinta in modo brusco […]. L’effetto è clamoroso: una fiction in prima serata che mette in mostra l’oscenità della gogna, gogna che ti porta a non essere creduto neppure dai tuoi famigliari, e che prova a ricordare cosa si rischia a considerare un maschio predatore fino a prova contraria. Il coraggio di denunciare gli abusi subiti è encomiabile, ma il coraggio di denunciare gli abusi del circo mediatico non lo è da meno. Godiamoci, in prima serata, il nostro momento Deneuve.

Il figlio di Gabriele Muccino: «Sul set offese sessiste». Redazione Cronaca Online su Il Corriere della Sera l’8 gennaio 2023.

Su Instagram il post, poi rimosso, del 22enne assistente alla regia Silvio Leonardo Muccino: «Regista maleducata e arrogante». «A un ragazzo è stato negato il diritto di fare un tampone». «Battute imbarazzanti distribuite equamente tra tutti»

Parolacce, insulti grevi, offese sessiste. Tutto al limite delle molestie, tutto visto sul set. Uno sfogo su Instagram poi rimosso. È quello postato da Silvio Leonardo Muccino, nato nel 2000, assistente alla regia e figlio del regista Gabriele. Che nei giorni scorsi ha scritto. «Ho avuto il piacere e l’onore di lavorare con molti registi nella mia fin qui breve carriera», sono le parole apparse nel giorno dell’Epifania, su Instagram.

«Ne ho viste svariate. E non ho mai visto un regista rivolgersi in maniera più vergognosa, maleducata e arrogante — osserva Muccino, postando l’immagine di un tramonto — alla troupe come ho avuto modo di vedere in una recentissima esperienza di qualche giorno fa. Dagli assistenti agli operatori, dagli attori — anche i più giovani — finanche alle comparse, la maleducazione e le battute imbarazzanti erano distribuite equamente tra tutti. Ho sentito — prosegue Silvio Leonardo — chiamare un’attrice “russa di m...” davanti a tutti, un’altra essere invitata a mettersi “le mutande di ferro” e altre frasi, del più volgare e aggressivo livello, rivolte ad assistenti e al resto della troupe». Insomma: scene non distanti dalle denunce del #metoo.

E ancora: «Per non parlare di un ragazzo a cui è stato negato il diritto di fare un tampone». «Non c’era nulla di ironico in tutto questo — va avanti il 22enne — va oltre ogni possibile logica, buon senso e umanità ridicolizzare, a turno, i membri della troupe in un simile delirio di onnipotenza, squallido, che deve finire».

Ed ecco la chiusa, poi però rimossa assieme all’intero post: «Il Vecchio Cinema ne ha tante di storie di registi considerati dispotici e di aneddoti sul clima teso/litigioso/folle/duro legato alle manie di questo o quell’altro regista. Ma se questo spettacolo a cui si assiste, e che continua sotto traccia su produzioni in cui nessuno ha il coraggio, evidentemente, di dire cosa accade (quando è prassi ormai far firmare a tutti i membri della troupe dei documenti che attestano la sicurezza e il rispetto sul lavoro) allora mi chiedo dove sia il limite».

Dal “Corriere della Sera” il 4 gennaio 2023.

 I César Awards, i premi francesi più importanti assegnati in ambito cinematografico, hanno deciso di bandire dalla cerimonia, in programma il 25 febbraio a Parigi, chiunque sia indagato per reati sessuali.

 Sarà dunque escluso l'attore francese Sofiane Bennacer, protagonista del film di Valeria Bruni Tedeschi Forever Young (Les Amandiers), accusato di stupro e violenza sessuale. Il 25enne ha fermamente negato le accuse e con lui si sono schierate sia la regista, secondo cui è vittima di un «linciaggio mediatico», sia la sorella di Bruni Tedeschi ed ex première dame Carla Bruni.

 Gli organizzatori dei César hanno spiegato di aver introdotto la norma - che si applica a chiunque sia indagato o condannato per reati violenti, punibili con la reclusione, e in particolare quelli di natura sessuale - per rispetto nei confronti di eventuali vittime, anche nel timore di proteste se Bennacer, già rimosso a novembre dalle candidature, avesse partecipato.

 Nel 2020 il consiglio dell'Accademia che distribuisce i premi dovette dimettersi in seguito alla vittoria come miglior regista di Roman Polanski, ricercato negli Usa per violenza sessuale.

Michele Serra per “la Repubblica” il 5 gennaio 2023.

I due protagonisti del "Romeo e Giulietta" di Zeffirelli, allora adolescenti, girarono una scena di nudo. Correva l'anno 1968. Sono passati, dunque, 54 anni. Tanti ce ne sono voluti - una vita intera - perché i due, ormai sulla settantina, stabilissero che quella scena fu, per loro, un trauma gravissimo.

 Valutato dai loro avvocati in centinaia di milioni di euro. Escluso che, per rivestirsi, ci abbiano messo più di mezzo secolo, la domanda è come sia possibile uno strascico così lungo per un'esperienza così remota e, se posso permettermi, non così stravolgente.

 Conosco l'obiezione: la valutazione personale è insindacabile, ciò che per Tizio è una scampagnata per Caio, magari, è una violazione grave della propria sfera privata. Ma dovrà pure esserci, santo cielo, qualcosa che assomigli a un limite sotto il quale no, non è consentito recriminare a oltranza, piantare le grane più stravaganti e, immancabilmente, lanciare all'assalto un plotone di avvocati. Altrimenti vale tutto: anche la Venere di Milo può presentare, magari attraverso i suoi eredi, un esposto postumo lamentando di essere stata costretta a posare nuda.

Questi episodi si moltiplicano. Verrebbe da liquidarli come ridicoli, oppure ingegnosi pretesti per battere cassa. Non fosse che rivelano, anche, una ipersensibilità in materia di eros che non lascia immaginare niente di buono per il futuro del medesimo. La nudità non è una malattia, non è un affronto: come è possibile che due anziani signori, si suppone di buona cultura, siano ancora offesi perché, per esigenze cinematografiche, nonché per contratto, hanno dovuto levarsi gli slip negli anni in cui Mary Quant tagliava le gonne e l'intero Occidente cominciava a svestirsi?

Estratto dell’articolo di Alberto Crespi per  “la Repubblica” il 5 gennaio 2023.

È noto: si nasce incendiari e si muore pompieri. Da ragazzi si fanno cose delle quali, poi, ci si pente. Ma c'è modo e modo. Di recente, per esempio, Jamie Lee Curtis ha dichiarato che se potesse tornare indietro nel tempo non rifarebbe la scena di nudo in Una poltrona per due, che in tanti avrete rivisto la sera di Natale.

 Jamie Lee, all'epoca, era giovanissima ma ovviamente maggiorenne e già molto, molto intelligente. Oggi parla di quell'episodio in modo lucido: «Mi è piaciuto fare quella scena?

No. Sapevo cosa stavo facendo? Ovviamente sì. Era necessaria per il film? Secondo Landis, sì. Me l'hanno chiesto, ho accettato ma mi sono sentita a disagio. Oggi, se me lo chiedessero, non lo rifarei».

 A distanza di quarant' anni l'attrice ha tutto il diritto di non avere un bel ricordo di quel momento. Non risulta abbia fatto causa a nessuno - e qui scatta l'altro modo Olivia Hussey e Leonard Whiting hanno una settantina d'anni: avevano rispettivamente 15 e 16 anni quando, nel libertino '68, girarono Romeo e Giulietta di Franco Zeffirelli. Il regista chiese loro una scena di nudo, abbastanza casta.

Il film fu un successo mondiale e già all'epoca la scena fece scalpore perché, sarà bene ribadirlo, i due erano minorenni. Alla Hussey fu addirittura vietata la visione della scena - come avranno controllato? Seguendola al cinema e bendandola al momento opportuno? - e lei se ne uscì con una battuta molto carina: «Non capisco perché non possa vedere al cinema qualcosa che vedo nello specchio ogni giorno ». A distanza di 54 anni, i due ex ragazzi ci hanno ripensato e hanno fatto causa alla Paramount per una cifra intorno ai 500 milioni di dollari (bella pensione, eh?).

 Il loro avvocato, Solomon Gresen, sostiene che i due hanno vissuto disagi emotivi per anni, rinfocolati a ogni riedizione del film (che continua a essere popolarissimo). La notizia contiene una frase che è il nocciolo di tutto: i due sostengono di aver fatto quella scena senza consenso. Inutile girarci attorno: le scene di nudo con minori, per quanto caste, richiedevano già allora un consenso degli attori impegnati e dei loro genitori; o la Paramount esibisce tali documenti, o sono guai seri.

Siamo, come capite, su un crinale sottilissimo, in cui la cancel culture e il "politicamente corretto" incrociano risvolti personali impossibili da definire in termini giuridici. Il caso più famoso rimane quello di Maria Schneider in Ultimo tango: sul set la famosa scena del burro venne girata - ovviamente - senza alcuna vera violenza fisica subita dall'attrice: come hanno raccontato più volte Bernardo Bertolucci e Vittorio Storaro, Maria non sapeva dell'uso del burro nella scena, glielo dissero lì per lì, sul set; ma poi ovviamente la scena era finta e parlare ancora oggi di stupro è del tutto insensato.

 Tempo dopo, però, l'attrice dichiarò di essersi sentita sfruttata e traumatizzata, e come contestare simili affermazioni? L'aspetto della cancel culture invece si muove su altri livelli: è del tutto ovvio, per esempio, che uno scrittore come Shakespeare oggi verrebbe arrestato e le sue opere destinate al rogo mediatico (Otello? Per carità!), ma questo è un fenomeno culturale ampio, di cui si giudicheranno gli effetti nel tempo. […]

Traumi artistici. Anche Romeo e Giulietta hanno vissuto il loro MeToo, parola di Tony Marinozzi. Guia Soncini su L’Inkiesta il 5 Gennaio 2023.

Cinquantacinque anni dopo, i due ex giovani protagonisti del film di Zeffirelli si sono resi conto di aver girato controvoglia la più innocente scena di nudo mai comparsa su schermo

Ormai è una formula fissa, un po’ come cinque anni fa lo era l’attrice che improvvisamente si ricordava che il regista, il produttore, il coprotagonista trent’anni prima le avevano messo una mano su una chiappa. Finite le molestie sessuali, siamo passati ai traumi artistici.

Aveva cominciato il trentunenne che, quando aveva quattro mesi, comparì nudo sulla copertina d’un album dei Nirvana. Pare che la sua nudità di quattromesenne fosse riconoscibilissima, forse anche grazie ai tre decenni successivi passati a dare interviste sul suo unico momento di gloria: guardatemi, sono proprio io, quel pisellino penzolante in piscina è il mio.

Egli era da questa nudità imposta e commercializzata gravemente traumatizzato, epperciò aveva fatto causa. Adesso, sono gravemente traumatizzati Giulietta e Romeo, che già come personaggi non se la passavano benissimo quanto a equilibrio psichico.

A fare causa sono gli attori del film di Zeffirelli, il primo Shakespeare nella vita di molti italiani (il film uscì cinquantacinque anni fa, e ancora non era il periodo in cui Shakespeare era divenuto il soggettista preferito dai registi di cinema; il successivo “Romeo+Juliet”, quello con DiCaprio, è del 1996: sì, era più bello, con le musiche più paracule, più nel linguaggio di noi ventenni dell’epoca, ma non l’avevamo visto da piccini nel tv color).

Olivia Hussey quest’anno compie 72 anni, Leonard Whiting 73, probabilmente non hanno ancora capito se quella di cui si sente il verso fuori dalla finestra sia l’allodola o l’usignolo, ma hanno ormai l’età della nutrice e si sono trovati un portavoce con un nome così cinematografico che potrebbe stare in un ulteriore seguito del Padrino: Tony Marinozzi.

Variety riferisce le parole di Marinozzi, «business manager di entrambi gli attori», secondo il quale i due sono stati ingannati: «Si sono fidati di Franco. A sedici anni, come attori, hanno creduto che non avrebbe violato la loro fiducia. Franco era loro amico e, francamente, a sedici anni cosa fai? Mica ci sono alternative. Mica c’era il MeToo». Non vedo l’ora di vedere la serie giudiziaria tratta da questa denuncia, serie che spero vorranno intitolare “Francamente Franco”.

Non vedo altresì l’ora di vedere dove ci porta la nuova moda dei traumi da set retrodatati. Farà causa quell’attrice del “Tempo delle mele” che, nella scena in cui tutti i ragazzini erano al cinema, infilava una mano nella scatola delle Cipster del compagno di classe, e quello aveva fatto un buco sul fondo e la tredicenne si ritrovava un pisello in mano? Secondo me sono più milioni di danni di una banale scena di nudo, diamine.

Il fatto che di quell’attrice io non abbia mai saputo il nome è anche incentivo: quelle che hanno avuto uno straccio di carriera non fanno causa. Questo criterio renderebbe più probabile una causa retroattiva (in California hanno tolto la prescrizione per i reati sessuali, quale sarebbe questo secondo i deliranti codici puritani) di Phoebe Cates, che tutti abbiamo visto ignuda in “Laguna blu” e pochi hanno visto dopo, di quanto lo sia una causa di Brooke Shields, che una vita professionale dopo “Pretty Baby” ce l’ha avuta. (Però Cates era maggiorenne, e Shields no: meno male che Louis Malle è morto prima di rischiare accuse di pornografia minorile, e che noi rischiassimo di dover leggere cento editoriali americani sul fatto che i francesi sono i soliti pervertiti).

Dopo essere stati Romeo e Giulietta in un film di gran successo, Whiting e Hussey non hanno più combinato granché, e certo non può essere colpa di una qualche loro inadeguatezza. È che «sono stati per cinquantacinque anni preda di angoscia psichica e stress emotivo», giacché Zeffirelli, sul set, li convinse a non tenere le calzamaglie color carne (vorrei chiedere scusa a Maria Schneider per non aver finora preso sul serio il trauma del burro sul set di “Ultimo tango”: in confronto, sembra una vicenda d’una certa gravità).

C’è anche un avvocato con un nome più da romanzo di Grisham che di Puzo, Solomon Gresen, secondo il quale «Erano molto giovani e ingenui, negli anni Sessanta, non capivano cosa stava per capitare. All’improvviso si ritrovano famosi a livelli che non si sarebbero mai aspettati, e perdipiù erano stati violati in modi che non sapevano come gestire». Violati. Da una scena di nudo in un film (forse la più innocente scena di nudo mai comparsa su schermo), scena di nudo che cinquantacinque anni dopo si sono resi conto di aver girato controvoglia.

Esattamente come nel caso di “Nevermind”, ci sono le interviste passate – ma già ben adulte – in cui si parlava con toni gongolanti dei fatti che ora improvvisamente sono traumatici. Cinque anni fa, per il cinquantennale del film (era ancora vivo Zeffirelli), la Hussey commentò su Variety la scena di nudo: «Nessuno della mia età l’aveva mai fatto, fu girata con grande buongusto, serviva al film». Niente che non abbia detto ogni attrice scosciata parlando di «nudo artistico« e di esigenze della trama, ma con un’interessante aggiunta di cui nessuno deve aver avvisato Gresen: «Tutti pensano: erano così giovani che probabilmente non si rendevano conto. Ma noi due eravamo molto consapevoli».

Ma anche un appunto interessante sugli anni successivi: «Lo dicevo sempre a Franco, non voglio lavorare con altri registi, solo con te. Per te posso fare qualunque cosa perché tu mi capisci. Se avessi potuto, avrei lavorato solo con Franco». Almeno finché Tony non ti dice che puoi raccontare che non hai mai superato il trauma e chiedere cinquecento milioni di dollari; almeno finché Solomon non si accorge che «le immagini di nudo dei minorenni sono illegali e non possono essere rese pubbliche» (il set era in Italia: ai due ragazzini avranno pure dato da bere vino prima dei ventun anni, avvocato, allunghi la lista delle accuse).

Un classico è quell’opera che dice tutto quel che c’è da dire anche sulle polemiche che arriveranno settecento anni più tardi. Se posso prendere a prestito la chiusa d’un dramma inglese ambientato a Verona, quindi: «Andiamo: parleremo ancora di questi fatti dolorosi, perché tra coloro che vi parteciparono alcuni saranno perdonati, altri puniti. Certo non vi fu mai una storia più infelice di quella di Giulietta e del suo Romeo».

Il Caso Aerosmith.

Estratto da rollingstone.it il 6 aprile 2023.

La risposta di Tyler, depositata la scorsa settimana alla Corte Superiore della Contea di Los Angeles, arriva a tre mesi dalla causa intentata da Julia Misley (Julia Holcomb ai tempi della vicenda), la quale ha esporto denuncia verso l’artista accusandolo di violenza sessuale, molestie e danni morali per una serie di episodi accaduti negli anni ’70, quando era minorenne (ve lo abbiamo raccontato qui).

[...]La difesa da un lato afferma che si trattava di una relazione consensuale, dall’altro fa appello all’immunità garantita dal fatto che i genitori della ragazza avevano dato all’epoca la custodia di Julia a Tyler. N...] 

L’avvocato di Misley, Jeff Anderson, parla di gaslighting. Accusa Tyler di farsi scudo «della custodia per evitare di essere accusato di crimini sessuali» e che «[...] Non ho mai incontrato una difesa così odiosa e potenzialmente pericolosa come quella di Tyler e i suoi avvocati che sostengono che la custodia rappresenti una forma di consenso e di permesso per abusi sessuali».

 DAGONEWS il 6 aprile 2023.

Una volta si chiamavano groupie, ora si chiamano vittime di “aggressione sessuale”. Anche il cantante degli Aerosmith, Steven Tyler, finisce nel tritacarne del metoo: è stato accusato di aggressione sessuale, percosse sessuali e inflizione intenzionale di stress emotivo nei confronti di una ragazza, Julia Holcomb, che aveva 16 anni nel 1973.

 Ma la domanda, come sempre in questi casi, è sempre la stessa: perché si è svegliata dopo trent’anni? Nella causa, la donna sostiene che Tyler venne a conoscenza della sua vita familiare travagliata e in seguito convinse la madre a concedergli la tutela, permettendogli di "viaggiare con lei, aggredirla e fornirle alcol e droghe" mentre lei era adolescente. La donna sostiene di "essere stata impotente a resistere" al "potere, alla fama e alla notevole capacità finanziaria di Tyler, che l'ha "costretta e persuasa" a credere che la relazione fosse "una storia d'amore romantica".

La Holcomb accusa inoltre Tyler di aver insistito affinché lei abortisse dopo essere rimasta incinta di suo figlio all'età di 17 anni.  La notizia di questa causa arriva pochi giorni prima della scadenza del 31 dicembre per il Child Victims Act 2019 della California, che ha temporaneamente eliminato la prescrizione per consentire ai sopravvissuti ad abusi sessuali infantili di farsi avanti con le accuse. I rappresentanti di Tyler, oggi 74enne, per ora si sono trincerati dietro al no comment.

Barbara Costa per Dagospia il 16 aprile 2023.

“Aveva 16 anni e sapeva fare la porca”. Ci risiamo. Famoso alla sbarra per personali porcate passate – da mezzo secolo! – allora glorificate ma ora ritenute abominevoli. Steven Tyler, signore del rock (cognome all’anagrafe Tallarico, origini italiane, crotonesi, cattolico) è accusato di molestie sessuali da Julia Holcomb, sua fidanzata di 50 anni fa. Incolpato e denunciato. Nei giorni scorsi Steven Tyler, con la sua avvocata, ha respinto, in 24 punti, ogni accusa ricevuta. Finirà in tribunale?

Non lo so, io intanto vi do i fatti: nel 1973 Steven Tyler, 25enne cantante degli Aerosmith, si "fidanza" con Julia, 16 anni. Come si sono conosciuti? Julia va a un suo concerto, a Portland, e si comporta da groupie, sì o no? Lo ha seguito in hotel, tra loro ci sono stati rapporti intimi, e Steven le ha fornito biglietti aerei per averla in tour, e special pass per i backstage, come si fa – faceva? – con le groupie più amate. Tutto consensuale. Sembra. E però, io ho scritto che Steven "si fidanza" con Julia.

Perché, essendo Julia minorenne, Steven fa la cose in regola: al contrario di Jimmy Page, il chitarrista e leader dei Led Zeppelin, proprio nello stesso periodo invaghitosi di Lori, groupie 13enne portata da Page in tour di nascosto dalla polizia (ma non dalla madre, di Lori, a cui Page a voce chiede – e a voce ottiene – il "permesso" di frequentare la figlia), Steven Tyler si fa, con bei documenti firmati e nel rispetto della legge, affidare in custodia la 16enne Julia, e dai genitori di lei, entusiasti.

Julia diventa la fidanzata nonché a norma di legge "convivente mantenuta" della rockstar Steven Tyler, sotto la tutela della rockstar Steven Tyler, che nei '70s vive la vita pazza del rock, piena di alcool e droghe. Sapete con quale sicurezza vi sto raccontando tutto questo? Con quella che mi dà l’indubitabile fatto che Steven Tyler mai mai mai ha nascosto la sua storia con Julia, minore età e affidamento compresi. Basta farsi un accurato giro sul web e si ritrovano loro foto, del 1973, articoli stampa, del 1973, dove Julia è fotografata e presentata quale fidanzata di Tyler. 

Non solo. Steven Tyler ha esplicitamente parlato – e nei particolari – di Julia in due libri: "Walk This Way" (qui la protegge chiamandola Diana), biografia ufficiale degli Aerosmith, il cui coautore è Steven Davis, virtuoso giornalista musicale, pubblicata nel 1997 e straripubblicata (non in italiano), e soprattutto in "Does The Noise In My Head Bother You?", la sua stupefacente autobiografia che, se in italiano non tradotta, ha fatto il giro del mondo per le oscenità rivelate (come il totale speso per la droga, 20 milioni di dollari, circa, o il fatto che il quantitativo di cocaina da lui sniffato copre mezzo Perù). Né si può dire che la carissima Julia sia stata zitta.

La storia con Tyler è durata tre anni, e lei, dopo 30 (anni) è ripetutamente su ogni media riapparsa sposata, cristiana rinata, fervente religiosa e antiabortista convinta. Si è lagnata della sua relazione finita male con Steven Tyler in molte occasioni, la più ghiotta in "Look Away", documentario Sky del 2021: “Mi sono persa nella cultura rock and roll. Il mondo di Steven era musica e sesso e droga, ma non mi sembrava meno caotico della vita che mi ero messa alle spalle. Non potevo immaginarlo, ne sono uscita a pezzi”.

Le accuse di Julia – adesso ricalibrate in chiave MeToo – vertono su questo triste episodio: a 17 anni, è rimasta incinta di Steven. A dire di Julia, lui l’avrebbe persuasa ad abortire sulla base di tre ragioni: non siamo pronti a crescere un figlio, la nostra è una vita non compatibile coi bisogni di un bimbo, ma ben di più una da lui temuta malformazione del feto causata dai fumi inalati in un gravoso incendio domestico, e sommati alle droghe assunte da Julia, sebbene in gravidanza.

Julia ha abortito, e dopo 50 anni (!) innesta le sue rimostranze contro Tyler su questo: lei si proclama vittima, di lui, in quanto all’epoca del loro amore minorenne, e sostiene oggi che ogni atto sessuale avuto con Steven Tyler non era consensuale, era una violenza di lui esercitata su di lei, e che l’aborto e l’uso di droghe sono stati frutto della cattiva influenza di Steven Tyler. La versione di Steven Tyler è opposta.

La loro è stata una storia d’amore, vera, e pubblica, e gli errori commessi sono da spartirsi in due. Steven Tyler si sente – si sentiva? – così con la coscienza a posto, nei confronti di Julia, che nei libri sopra citati, l’ha sempre chiamata “la mia adolescente quasi moglie”. Mai ha negato la decisione – di tutti e due – di abortire. È tutto descritto nei suoi libri, e nel dettaglio. Un estratto: “Lei aveva a malapena l’età per guidare. Lei era sexy da morire. Vestiva come Little Bo-Peep. M’innamorai perdutamente. Julia era il desiderio del mio cuore, Julia era la mia complice in crimini passionali”. 

Chi ha ragione? 16 anni sono pochi per prendersi responsabilità delle proprie azioni? E i genitori di Julia, affidandola legalmente a un cantante palesemente riconosciuto svalvolato fuori di testa, che cavolo hanno pensato? Di levarsela di torno??? O di ricavarci che? E Julia, lei, che si aspettava da Steven Tyler??? Davvero ai tempi non l’ha cercato perché sedotta dalla sua aurea di rockstar maledetta, e pericolosa...? Un divo deve scontare oggi condotte 50 anni fa non giudicate col metro attuale? A soldi??? Per carità, io lo dico, che sono di parte, e in questo: io, se mi trovassi, sola, con Steven Tyler, m’aspetterei di tutto. E lo vorrei. Pure dallo Steven attuale, ri-ri-ri-ri-ri-ripulito 75enne. Ma io non sono minorenne. 

DAGONEWS il 30 dicembre 2022.

Una volta si chiamavano groupie, ora si chiamano vittime di “aggressione sessuale”. Anche il cantante degli Aerosmith, Steven Tyler, finisce nel tritacarne del metoo: è stato accusato di aggressione sessuale, percosse sessuali e inflizione intenzionale di stress emotivo nei confronti di una ragazza, Julia Holcomb, che aveva 16 anni nel 1973. 

Ma la domanda, come sempre in questi casi, è sempre la stessa: perché si è svegliata dopo trent’anni? Nella causa, la donna sostiene che Tyler venne a conoscenza della sua vita familiare travagliata e in seguito convinse la madre a concedergli la tutela, permettendogli di "viaggiare con lei, aggredirla e fornirle alcol e droghe" mentre lei era adolescente. La donna sostiene di "essere stata impotente a resistere" al "potere, alla fama e alla notevole capacità finanziaria di Tyler, che l'ha "costretta e persuasa" a credere che la relazione fosse "una storia d'amore romantica".

La Holcomb accusa inoltre Tyler di aver insistito affinché lei abortisse dopo essere rimasta incinta di suo figlio all'età di 17 anni.  La notizia di questa causa arriva pochi giorni prima della scadenza del 31 dicembre per il Child Victims Act 2019 della California, che ha temporaneamente eliminato la prescrizione per consentire ai sopravvissuti ad abusi sessuali infantili di farsi avanti con le accuse. I rappresentanti di Tyler, oggi 74enne, per ora si sono trincerati dietro al no comment.

"Molestata da minorenne". Nei guai il cantante degli Aerosmith. Storia di Ignazio Riccio su Il Giornale l’1 gennaio 2023.

Rischia grosso il celebre cantante degli Aerosmith Steven Tyler accusato da una donna di molestie sessuali che sarebbero avvenute negli anni Settanta, quando lei era minorenne. La 65enne Julia Misley, in passato nota con il cognome Holcomb, ha dichiarato che ha avuto una relazione con il frontman in età adolescenziale e lo ha citato in giudizio per aggressione sessuale e percosse. A riportare la notizia è stato il periodico di musica statunitense Rolling Stone che ha evidenziato come la donna denunciato Tyler in base a una legge del 2019 della California. Questa norma concede alle vittime adulte di aggressioni sessuali quando erano minorenni un periodo di tre anni per intentare una causa anche se il fatto risale a decenni fa. Misley ha aspettato l’ultimo giorno utile per procedere contro il cantante.

La denuncia

Nell’istanza presentata al tribunale è stato sostenuto che Tyler "ha usato il suo ruolo, il suo status e il suo potere di noto musicista e rockstar per avere accesso, adescare, manipolare, sfruttare e aggredire sessualmente" Misley per un periodo di tre anni. Alcuni degli abusi sono avvenuti nella contea di Los Angeles e la donna ha subito gravi danni emotivi e perdite economiche. Nei documenti si legge che Misley ha conosciuto il cantante degli Aerosmith nel 1973 in occasione di uno dei suoi spettacoli a Portland, nell'Oregon, e venne successivamente invitata nella stanza d'albergo di Tyler, al quale avrebbe riferito di avere 16 anni. All'epoca Tyler avrebbe avuto 25 o 26 anni. Il documento riferisce che il frontman ha compiuto "vari atti di condotta sessuale criminale" nei confronti di Misley. La donna sostiene anche di esser rimasta incinta nel 1975 a seguito di un rapporto sessuale con Tyler, e poi di esser stata costretta ad abortire.

Le accuse della Misley

Voglio che questa azione smascheri un'industria che protegge gli eccessi delle celebrità – ha dichiarato al periodico Julia Misley – per ripulire e ritenere responsabile un'industria che mi ha sfruttata e mi ha permesso di essere sfruttata per anni, insieme a tanti altri bambini e adulti ingenui e vulnerabili. Poiché so di non essere l'unica a subire abusi nell'industria musicale, sento che è giunto il momento per me di prendere questa posizione e portare avanti questa azione, di parlare e di essere solidale con gli altri sopravvissuti”.

Il Caso Weinstein.

Jennifer Newsom sconvolge le presidenziali Usa: "Ho finto l'orgasmo". Il 16 Settembre 2023 su Libero Quotidiano.

Jennifer Siebel Newsom, 48 anni, moglie del governatore della California Gavin Newsom, tra i possibili sfidanti democratici del presidente in carica Joe Biden alle prossime presidenziali Usa, ha portato la sua drammatica testimonianza davanti alla corte di Los Angeles. Lì sul banco degli imputati c'è l'ex produttore di Hollywood Harvey Weinstein, 70 anni, già condannato a New York a 23 anni di carcere per reati sessuali e stupro. La regista ha raccontato di aver conosciuto il mostro di Hollywood al Toronto Film Festival. Era il 2005, lei aveva 31 anni ed era un'attrice ancora poco affermata, mentre lui era il più potente dei produttori cinematografici. "A un certo punto - ha confessato - ho visto questa persona importante venire verso di me ed è stato come se tutti si fossero fatti da parte, tipo Mar Rosso".

Tempo dopo si sono rivisti. Weinstein l'aveva invitata a cena e lei era salita nella sua camera d'albergo. Una volta dentro, il produttore aveva preteso che rimanessero soli. "Si alzò all'improvviso - ha raccontato la Newsom - mi disse che si voleva mettere più comodo". Si era infatti ripresentato in accappatoio. "Ho visto che si stava toccando. Si è girato e ha provato ad afferrarmi", ha aggiunto, cominciando a piangere. "È stato l'inferno. Lui era enorme, io mi sentivo paralizzata, un sasso". La donna ha rivelato di essere rimasta vittima di un predatore, in cui lui l'ha braccata, immobilizzata, sbattuta sul letto, penetrata con le dita.

"Tremavo, mi sentivo come una bambola esplosa su cui lui si stava masturbando". A un certo punto, ha aggiunto, ha messo la mano sul pene per tentare di far cessare quell'incubo. "Volevo solo lasciare quel fott*** posto, scusatemi l'espressione", ha confessato. A un certo punto il legale le ha chiesto addirittura di "simulare un orgasmo" in aula per "mostrare come manifesta il piacere". Quasi come nel celebre film Harry ti presento Sally. "Io - ha aggiunto la Newsom - avevo fatto un po' di rumore perché volevo solo che finisse prima possibile. Lui mi aveva già stuprata. Questa è una cosa veramente schifosa, mi spiace". 

Estratto dell’articolo di Massimo Basile per “La Repubblica” – 15 novembre 2022

Ha raccontato il momento in cui venne violentata in una camera d'albergo, descritto con lucidità ogni dettaglio, come in una autopsia, sottoposta a un controinterrogatorio brutale, e alla fine è scoppiata a piangere. Jennifer Siebel Newsom, 48 anni, regista e moglie del governatore della California Gavin Newsom, ha portato la sua drammatica testimonianza davanti alla corte di Los Angeles dove è imputato l'ex produttore di Hollywood Harvey Weinstein, 70 anni, già condannato a New York a 23 anni di carcere per reati sessuali e stupro. […] 

Siebel Newsom ha raccontato di aver conosciuto il mogul di Hollywood al Toronto Film Festival. Era il 2005, lei aveva 31 anni ed era un'attrice con pochi ruoli nel cinema, mentre lui era il più potente dei produttori cinematografici. "A un certo punto - ha ricordato - ho visto questa persona importante venire verso di me ed è stato come se tutti si fossero fatti da parte, tipo Mar Rosso".

Si erano rivisti tempo dopo. Lui l'aveva invitata a cena, lei era salita nella sua camera d'albergo, al Peninsula Hotel. Una volta dentro, Weinstein o l'assistente avevano ordinato ai presenti di andare via. Lei gli aveva parlato dei suoi progetti, lui non era sembrato molto interessato. 

"Si alzò all'improvviso - ha raccontato - mi disse che si voleva mettere più comodo". Si era ripresentato in accappatoio. Lei lo aveva visto chinarsi su se stesso. Lui le aveva chiesto: "Mi puoi aiutare?". È stato a quel punto che è cominciato l'incubo: "Ho visto che si stava toccando. Si è girato e ha provato ad afferrarmi", ha aggiunto, cominciando a piangere. 

"È stato l'inferno. Lui era enorme, io mi sentivo paralizzata, un sasso". La donna ha raccontato di essere rimasta prigioniera in una specie di situazione da "gatto col topo", in cui lui l'ha braccata, immobilizzata, sbattuta sul letto, penetrata con le dita. 

Ha descritto con disgusto l'"ammasso di carne", i genitali "deformi", "simili a un pesce". "Tremavo, mi sentivo come una bambola esplosa su cui lui si stava masturbando". "Mi ha penetrata - ha continuato - temevo di prendermi qualche malattia". A un certo punto, ha aggiunto, ha messo la mano sul pene "per cercare di farlo finire". "Volevo solo lasciare quel fottuto posto, scusatemi l'espressione", ha confessato. 

[…] Dopo quell'episodio la regista aveva mantenuto contatti via e-mail. "Ho provato a dimenticare - ha spiegato - ma ogni tanto quella storia riemergeva. All'inizio provavo solo tristezza, poi è diventata rabbia". […] 

A un certo punto il legale le ha chiesto addirittura di "simulare un orgasmo" in aula per "mostrare come manifesta il piacere". "Non siamo a Harry ti presento Sally", ha risposto inorridita Siebel Newsom, riferendosi alla scena del film del 1989 in cui Meg Ryan finge un orgasmo in un affollato ristorante di Manhattan. 

"Io - ha aggiunto - avevo fatto un po' di rumore perché volevo solo che finisse prima possibile. Lui mi aveva già stuprata. Questa è una cosa veramente schifosa, mi spiace".

Da corriere.it l’8 aprile 2023.

Una ex modella ha intentato una causa affermando che un ex dirigente dello studio cinematografico Miramax l’ha violentata dopo averla attirata in un hotel con la promessa di un incontro con l’allora amministratore delegato della società Harvey Weinstein. La causa è stata intentata giovedì 6 aprile presso il tribunale dello stato di New York da Sara Ziff, 39 anni. La presunta aggressione di Fabrizio Lombardo, l’ex capo della Miramax in Italia, ha avuto luogo, secondo quanto afferma l’ex modella, nel 2001, quando lei aveva 19 anni. Ziff sostiene che all’epoca era un’aspirante attrice e aveva assistito a una proiezione privata di un film a New York con Lombardo, poco più che quarantenne.

L’aggressione sarebbe avvenuta successivamente in un hotel dove le era stato detto che si sarebbe incontrata con Weinstein per discutere della sua carriera. Miramax all’epoca era di proprietà della Walt Disney, che ha venduto lo studio cinematografico a un gruppo di investimento nel 2010. La causa vede Weinstein, Miramax e Disney come imputati, in quanto pur sapendo che Lombardo era un «pericolo per le donne che incontrava per lavoro», non hanno fatto nulla per impedirgli di perseguitare l’ex modella. Le parti chiamate in causa non hanno voluto commentare la vicenda. Le accuse secondo cui Weinstein avrebbe aggredito sessualmente modelle e attrici hanno contribuito ad alimentare il movimento #MeToo iniziato nel 2017.

L’ex mogul, che oggi ha 71 anni, è stato condannato per crimini sessuali a New York e in California a un totale di 39 anni di carcere. Secondo la causa intentata da Ziff, Lombardo e Weinstein erano «molto vicini»: l’ex produttore cinematografico è stato testimone di nozze di Lombardo nel 2003 (al matrimonio con Chiara Geronzi, ndr). Ziff accusa Lombardo di abusi sessuali e violenza di genere, e Weinstein e la sua società di vigilanza negligente. Chiede i danni (per ora non quantificati) per i mancati guadagni, e per stress e angosce emotive. La causa legale è stata intentata ai sensi dell’Adult Survivors Act (Asa), una legge approvata a New York nel maggio 2022, che estende fino a novembre 2023 i diritti delle vittime di reati sessuali di intentare azioni civili che altrimenti sarebbero andate in prescrizione.

Sara Ziff accusa di stupro l’ex Miramax Italia Fabrizio Lombardo, marito di Chiara Geronzi. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 9 aprile 2023.

Fabrizio Lombardo frequentava assiduamente una coppia di note "signore" all'epoca molto mondane della Capitale: Mara Venier e Sandra Carraro, moglie di Franco Carraro che all'epoca della sua presidenza della FIGC assunse Benedetta Geronzi. Secondo la causa avviata dalla Ziff, Fabrizio Lombardo e Henry Weinstein erano "molto vicini": infatti l’ex produttore cinematografico americano è stato testimone di nozze del matrimonio di Lombardo nel 2003 con Chiara Geronzi.

Fabrizio Lombardo 56anni, ex uomo di fiducia di Harvey Weinstein, per anni alla guida dell’ufficio italiano della Miramax, sposato con Chiara Geronzi giornalista del Tg5 (e figlia dell’ex potente banchiere Cesare Geronzi) è stato accusata di stupro da Sara Ziff, 39 anni, ex modella e fondatrice di Model Alliance, un gruppo di difesa di modelle e creativi della moda. Lo scrive il New York Times. “Ci sono voluti vent’anni per elaborare tutto questo”, ha dichiarato la donna al quotidiano newyorkese : “Per i primi anni non riuscivo a parlarne, figuriamoci fare causa. Quando è stata approvata la legge del 2022 ho cominciato a ripensarci“. 

La causa è stata intentata giovedì 6 aprile dalla Ziff dinnanzi al Tribunale dello stato di New York. La presunta aggressione di Fabrizio Lombardo avrebbe avuto luogo, secondo quanto afferma l’ex modella, nel 2001, quando lei aveva 19 anni. La Ziff sostiene che all’epoca era un’aspirante attrice ed aveva assistito a una proiezione privata di un film prodotto dalla  Miramax a New York invitata da Lombardo, che all’epoca dei fatti poco più che quarantenne. Il “dirigente”fiduciario” italiano di Weinstein l’avrebbe invitata alla proiezione con la scusa che dopo avrebbe potuto incontrare Harvey Weinstein, poi per un drink al Mercer Hotel di Soho, dove, le avrebbe detto, che ci sarebbero stati sia Weinstein che suo fratello Bob. All’arrivo in hotel Lombardo invece l’avrebbe condotta con una scusa in una penthouse dove non c’era nessun’altro, e quindi le avrebbe fatto delle avances pesanti, ma alle rimostranze ed il rifiuto di lei, l’avrebbe sbattuta su un letto e violentata.

In quel periodo era facile incontrare Lombardo anche durante le vacanze pasquali e natalizie nell’esclusiva isola di St. Barth, atollo francese nel mare dei Caraibi, dove si occupava di affittare “Villa Italia”, una villa di proprietà di Massimiliano Feruzzi, rampollo della famiglia Ferruzzi-Gardini, e dell’ex calciatore dell’ Inter Nicola Berti. Ma non solo, in quanto invitava nell’isola signorine “allegre” speranzose di sfondare nel cinema grazie agli incontri con Weinstein che finivano esclusivamente in un letto di un hotel.

La società di produzione cinematografica Miramax all’epoca era di proprietà della Walt Disney, che l’aveva rilevata dai fratelli Weinstein, e successivamente nel 2010 ha venduto la società ad un gruppo di investitori .

Dopo averne parlato alcuni anni dopo con delle amiche ,  Sara Ziff sporse denuncia nel 2017 alla polizia di New York senza che però la cosa avesse esito. Quell’anno Fabrizio Lombardo era stato accusato da quattro donne, tra le quali anche l’attrice Asia Argento, di aver “facilitato” il comportamento “predatorio” di Weinstein e, per di più, di essere stato assunto alla Miramax esclusivamente a questo scopo. Una versione che Lombardo aveva categoricamente negato in un’intervista al New York Times. Ora però questa volta gli toccherà convincere la procura ed il Tribunale di New York. E non sarà un’opera facile.

La causa vede come imputati oltre a Lombardo anche Weinstein, Miramax e Disney in quanto pur sapendo che Lombardo era un “pericolo per le donne che incontrava per lavoro”, non hanno fatto nulla per impedirgli di perseguitare l’ex modella. Le parti chiamate in causa non hanno commentato la vicenda. Le accuse secondo cui Weinstein avrebbe aggredito sessualmente modelle e attrici hanno contribuito ad alimentare il movimento #MeToo costituitosi nel 2017.

Fabrizio Lombardo frequentava assiduamente una coppia di note “signore” all’epoca molto mondane della Capitale: la nota conduttrice televisiva Mara Venier e Sandra Carraro, moglie di Franco Carraro che all’epoca della sua presidenza della FIGC assunse in federazione Benedetta Geronzi, sorella di Chiara, e felicemente coniugata con il senatore Bernabò Bocca, presidente di Federalberghi. Secondo la causa avviata dalla Ziff, Fabrizio Lombardo e Henry Weinstein erano “molto vicini”: infatti l’ex produttore cinematografico americano è stato testimone di nozze del matrimonio di Lombardo nel 2003 con Chiara Geronzi. Nelle accuse di abusi sessuali lanciate negli ultimi anni contro Weinstein, Lombardo è spesso comparso ai margini delle varie testimonianze, confermando la presenza costante nella vita del produttore. Nel 2018 fu anche menzionato nell’azione collettiva per molestie intentata contro la Weinstein Company.

Sara Ziff accusa Lombardo di abusi sessuali e violenza di genere, ed Henry Weinstein e la sua società di vigilanza negligente, chiedendo dei danni al momento non ancora quantificati per i mancati guadagni, e per stress e angosce emotive. A Milano una nota agenzia di modelle racconta di presunte violenze fisiche di Fabrizio Lombardo anche ad un’altra modella di nome Carmen. La causa legale della Ziff è stata intentata anche alle sussidiarie Buena Vista e Miramax, per abuso e negligenza ai sensi dell’Adult Survivors Act (Asa), una legge approvata a New York nel maggio 2022, che estende fino a novembre 2023 i diritti delle vittime di reati sessuali di avviare azioni civili che altrimenti finirebbero in prescrizione.

Henry Weinstein nel 2022 è stato condannato per crimini sessuali a New York e in California, e sta scontando 39 anni di prigione, dovendo rispondere di ben 7 capi d’accusa – 2 per stupro e 5 per aggressione sessuale – per una serie di episodi avvenuti tra il 2004 e il 2013. Ed alla fine è risultato colpevole in tre proicedimenti. I giurati hanno impiegato ben nove giorni per prendere una decisione, un chiaro segnale della difficoltà nel raggiungere su alcuni capi di accusa un verdetto unanime .

Sono oltre cento le donne uscite allo scoperto accusando di aver subito molestie e stupri da parte dell’ex produttore, che dal 2017 è diventato il simbolo di una cultura di violenze e abusi nelle stanze del potere, dando vita al movimento #MeToo, ma soltanto meno di una decina di loro sono riuscite a farsi ascoltare dalla magistratura.

I giurati delle corti che hanno processato Weinstein hanno concordato solo su un caso, quello di stupro, per un rapporto orale forzato e la penetrazione sessuale avvenuta nei confronti di una modella-attrice russa che viveva a Roma, identificata come “Jane Doe 1“, l’equivalente americano della “signora Bianchi” (cioè nomi di fantasia per tutelare la donna) che in realtà si chiama Evgeniya Chernyshova, nata in Siberia e al tempo dell’aggressione viveva in Italia con il marito da cui si è separata dopo lo stupro, (e che è nel frattempo deceduto) la quale ha voluto spontaneamente rivelare quanto le era accaduto: “Parte di me ha paura per il futuro, ma sono anche orgogliosa di quel che ho fatto. Se continuassi a nascondermi non potrei fare nulla. Sarei sola con il mio dolore”, ha detto testimoniando in aula di essere stata aggredita da Weinstein in una stanza d’hotel nel 2013, durante un festival del cinema a Los Angeles.

Dopo lo stupro ha raccontato di aver passato anni alle prese con la depressione: “Mi odiavo, ero mentalmente instabile“. A darle la forza di denunciare è stato un confronto con la figlia, all’epoca 16enne, a sua volta vittima di un’aggressione sessuale: entrambe hanno così deciso insieme di non restare più in silenzio.

La difesa dell’ex produttore aveva chiesto un nuovo processo asserendo che prove importanti sul caso della ‘Jane Doe n.1’ – messaggi su Facebook scambiati con un altro testimone, l’organizzatore del Festival Pascal Vicedomini, che ne minerebbero la credibilità, prove che non sono state ammesse durante il procedimento. Il tribunale di Los Angeles ha condannato il 70enne produttore premio Oscar, che sta scontando una pena di 23 anni per un altro caso di crimini sessuali giudicato a New York nel 2020. Un totale di 39 anni di detenzione che, salvo colpi di scena, fanno pensare a un fine pena mai.

Nel frattempo nessuno sa più come vive e cosa faccia di lavoro Fabrizio Lombardo, ma questo raccontano a Milano, chi lo conosce bene, non è una novità…Redazione CdG 1947

Da adnkronos.com il 19 dicembre 2022. 

L'ex produttore di Hollywood Harvey Weinstein è stato giudicato colpevole di stupro e di due accuse di aggressione sessuale nel processo in corso a Los Angeles, reati per i quali rischia fino a 24 anni di carcere. 

Weinstein si trova già in prigione, dove sta scontando una condanna a 23 anni dopo essere stato giudicato colpevole di stupro e aggressione sessuale nel processo di due anni fa a New York.

Il produttore 70enne è stato giudicato colpevole per le accuse mosse da da Jane Doe 1, il nome in codice dell'accusatrice, mentre la giuria del tribunale di Los Angeles non è riuscita a raggiungere un verdetto sulle accuse mosse da Jennifer Siebel Newsom, moglie del governatore della California Gavin Newsom, e da un'altra donna, identificata come Jane Doe 2. Assolto invece dalle accuse mosse da Jane Doe 3.

Estratto dell'articolo di Irene Soave per corriere.it il 25 febbraio 2023.

Sedici anni di carcere dal tribunale di Los Angeles, sommati ai 23 che gli aveva già comminato il giudice di New York: la matematica è semplice, e ha ribadito giovedì, alla fine del processo sulla West Coast cominciato a ottobre 2022, che l’ex sultano del cinema Harvey Weinstein, settantenne, finirà la sua vita in prigione. La donna che lo ha accusato — stupro e violenza privata, entrambe accuse di cui il giudice lo ha trovato colpevole — è potuta rimanere anonima un’udienza dopo l’altra, fino alla scelta, a sentenza avvenuta, di rivelare il suo nome.

Si chiama Evgeniya Chernyshova, 43 anni e due figli. Nata in Siberia, ha vinto un concorso per modelle all’età di 15 anni e alla fine si è trasferita in Italia, dove ha fatto la modella e l’attrice (Gli ultimi del Paradiso, 2010, Baciati dall’amore, 2011, una copertina di Vogue). Le prime molestie di Weinstein, ha raccontato, le avrebbe proprio subite a Roma: sapendola nello stesso hotel dove alloggiava, l’aveva invitata nella sua stanza. Lei aveva rifiutato. Ora Chernyshova vive a Beverly Hills e fa la designer floreale.

[…]

La scena che Chernyshova — prima nei panni di Jane Doe — ha raccontato ai giudici, è la sola che, nel processo di Los Angeles, è costata una condanna all’ex magnate: stupro, copulazione orale forzata, penetrazione con oggetto estraneo i reati accertati. Le altre quattro donne che hanno denunciato non hanno invece convinto la giuria.

 Chinese Theatre, tributo ad Al Pacino, 2013. Chernyshova ha 34 anni. Lui si presenta e sembra non ricordare di averla già vista a Roma. Si congedano, lei torna — sola — nella sua stanza al Mr. C Beverly Hills. Si toglie gli abiti da red carpet, infila una vestaglia. La reception chiama e avvisa: c’è un ospite al piano di sotto. Poi l’ospite strappa il telefono di mano alla centralinista. «Sono Harvey, e dobbiamo parlare», sbotta. Lei racconta: gli ho detto che potevamo parlare domani. Poco dopo sente bussare forte alla porta della sua stanza. «Sono Harvey Weinstein, apri. Dobbiamo parlare. Non intendo scoparti, ti voglio solo parlare».

Lei lo fa entrare per imbarazzo: «Pensavo ai rumori nel corridoio». Lui si fa largo, la pressa, lei piange e gli mostra le foto dei figli e di sua madre, in quel momento sotto chemioterapia. Lui non si ferma davanti a nulla. «E questa», racconta lei, «è la sola cosa di cui mi sono pentita negli ultimi 10 anni: aver aperto quella porta».

Weinstein attraversa la stanza, si siede, inizia a parlare. Poi diventa furente: «Qualcosa è scattato, come un cambiamento nei suoi occhi», ricorda ora lei. «Mi sono resa conto che qualcosa non andava». All’inizio Chernyshova ha incolpato il suo inglese stentato e ha pensato che forse non stava comunicando chiaramente. Ha mostrato a Weinstein la sua fede nuziale e ha parlato dei suoi figli, racconta, per esprimere in modo più enfatico che non disponibile e voleva che se ne andasse. Ma lui «si è aperto i pantaloni e sono diventata isterica».

L’aggressione in camera da letto, poi in bagno. «Dopo che Weinstein ebbe finito, disse che mi avrebbe inviato i biglietti per un evento, e se ne andò. Mi sentivo molto, molto sporca e come se dovessi morire».

 Segue un decennio di depressione; alcolismo; la separazione dal marito, e poi la morte di lui.

[…]

Weinstein, la modella Evgeniya Chernyshova esce allo scoperto: «Sono io l’accusatrice». Irene Soave su Il Corriere della Sera il 25 Febbraio 2023

Giovedì l’ex magnate è stato condannato a 16 anni di prigione in un processo a Los Angeles per lo stupro di una donna finora anonima. Che ora ha parlato: è l’ex modella siberiana Evgeniya Chernyshova

Sedici anni di carcere dal tribunale di Los Angeles, sommati ai 23 che gli aveva già comminato il giudice di New York: la matematica è semplice, e ha ribadito giovedì, alla fine del processo sulla West Coast cominciato a ottobre 2022, che l’ex sultano del cinema Harvey Weinstein, settantenne, finirà la sua vita in prigione. La donna che lo ha accusato — stupro e violenza privata, entrambe accuse di cui il giudice lo ha trovato colpevole — è potuta rimanere anonima un’udienza dopo l’altra, fino alla scelta, a sentenza avvenuta, di rivelare il suo nome.

Si chiama Evgeniya Chernyshova, 43 anni e due figli. Nata in Siberia, ha vinto un concorso per modelle all’età di 15 anni e alla fine si è trasferita in Italia, dove ha fatto la modella e l’attrice (Gli ultimi del Paradiso, 2010, Baciati dall’amore, 2011, una copertina di Vogue). Le prime molestie di Weinstein, ha raccontato, le avrebbe proprio subite a Roma: sapendola nello stesso hotel dove alloggiava, l’aveva invitata nella sua stanza. Lei aveva rifiutato. Ora Chernyshova vive a Beverly Hills e fa la designer floreale.

La violenza subita da Harvey Weinstein, oltre che in tribunale sotto il nome di Jane Doe 1, l’ha raccontata due volte. Nel 2017, anonimamente, al Los Angeles Times. E venerdì, a volto scoperto, all’Hollywood Reporter.

Settimana degli Oscar, 2013. Al Chinese Theatre di Hollywood va in scena un festival del cinema italiano, Los Angeles Italia, organizzato da Pascal Vicedomini. Weinstein ritorna alla carica.

La scena che Chernyshova — prima nei panni di Jane Doe — ha raccontato ai giudici, è la sola che, nel processo di Los Angeles, è costata una condanna all’ex magnate: stupro, copulazione orale forzata, penetrazione con oggetto estraneo i reati accertati. Le altre quattro donne che hanno denunciato non hanno invece convinto la giuria.

Chinese Theatre, tributo ad Al Pacino, 2013. Chernyshova ha 34 anni. Lui si presenta e sembra non ricordare di averla già vista a Roma. Si congedano, lei torna — sola — nella sua stanza al Mr. C Beverly Hills. Si toglie gli abiti da red carpet, infila una vestaglia. La reception chiama e avvisa: c’è un ospite al piano di sotto. Poi l’ospite strappa il telefono di mano alla centralinista. «Sono Harvey, e dobbiamo parlare», sbotta. Lei racconta: gli ho detto che potevamo parlare domani. Poco dopo sente bussare forte alla porta della sua stanza. «Sono Harvey Weinstein, apri. Dobbiamo parlare. Non intendo scoparti, ti voglio solo parlare».

Lei lo fa entrare per imbarazzo: «Pensavo ai rumori nel corridoio». Lui si fa largo, la pressa, lei piange e gli mostra le foto dei figli e di sua madre, in quel momento sotto chemioterapia. Lui non si ferma davanti a nulla. «E questa», racconta lei, «è la sola cosa di cui mi sono pentita negli ultimi 10 anni: aver aperto quella porta».

Weinstein attraversa la stanza, si siede, inizia a parlare. Poi diventa furente: «Qualcosa è scattato, come un cambiamento nei suoi occhi», ricorda ora lei. «Mi sono resa conto che qualcosa non andava». All’inizio Chernyshova ha incolpato il suo inglese stentato e ha pensato che forse non stava comunicando chiaramente. Ha mostrato a Weinstein la sua fede nuziale e ha parlato dei suoi figli, racconta, per esprimere in modo più enfatico che non disponibile e voleva che se ne andasse. Ma lui «si è aperto i pantaloni e sono diventata isterica».

L’aggressione in camera da letto, poi in bagno. «Dopo che Weinstein ebbe finito, disse che mi avrebbe inviato i biglietti per un evento, e se ne andò. Mi sentivo molto, molto sporca e come se dovessi morire».

Segue un decennio di depressione; alcolismo; la separazione dal marito, e poi la morte di lui. «Mi sono sempre odiata», racconta oggi l’ex modella. «Pensavo: c’erano un sacco di belle donne e star lì, e lui ha scelto te. Quindi sei tu che hai fatto qualcosa».

A spingerla a confessare è la figlia Maria. E’ ottobre 2017, ha 16 anni. Alle superiori viene molestata sessualmente. La madre insiste che denunci: la figlia litiga e le risponde «mamma, non puoi capire». «Di qui mi rispose che capiva eccome», racconta Maria all’Hollywood Reporter. Poi il patto tra le due: «Le ho detto che avrei denunciato il mio caso solo se lei avesse denunciato il suo». Poi mesi di indagini, a gennaio 2020 le prime accuse a Weinstein. Ora la sentenza e il 9 febbraio, poco prima della prescrizione per i reati in questione, una nuova denuncia dell’ex modella a Weinstein, questa volta civile, con richiesta di danni.

Lui in tribunale si è protestato innocente: «Imploro pietà». Anche Evgenyia Chernyshova ha rilasciato una dichiarazione al giudice: «Vivrò con questo trauma per tutta la vita. E’ giusto che ci viva anche lui».

Alessandra Baldini per l’ANSA il 23 Febbraio 2023.

 Salvo nuovi colpi di scena giudiziari, Harvey Weinstein resterà il resto della sua vita dietro le sbarre. L'ex re di Hollywood è stato condannato da un tribunale di Los Angeles a 16 anni di reclusione per aver aggredito e stuprato una ex modella e attrice russa che all'epoca viveva a Roma ed era venuta nella mecca del cinema per un festival cinematografico nei giorni che precedono gli Oscar.

 Oltre cento donne sono uscite allo scoperto accusando di molestie e stupri l'ex produttore, che dal 2017 è diventato il simbolo di una cultura di molestie sessuali endemica nelle stanze del potere dando vita al movimento #MeToo, ma meno di una decina sono riuscite a farsi ascoltare dalla magistratura. Due di queste a New York: Weinstein deve già scontare una condanna a 23 anni di carcere dopo il primo processo che si è concluso a a Manhattan nel 2020.

 "E' ansioso, deluso ma ottimista sulle sue chance di ricorso", aveva detto un portavoce dell'ex boss di Miramax prima dell'inizio dell'udienza al Clara Shortridge Foltz Criminal Justice Center di Los Angeles dove il 19 dicembre Weinstein era stato riconosciuto colpevole da una giuria di nove uomini e tre donne che all'unanimità avevano creduto al racconto della 'Jane Doe 1': la donna, che all'epoca aveva 34 anni, aveva accusato Weinstein di averla stuprata nella sua camera d'albergo durante l'edizione 2013 del Festival Los Angeles-Italia.

In dicembre i giurati avevano invece respinto le accuse di violenza sessuale di una massaggiatrice, mentre per altre due donne (tra cui Jennifer Siebel, la moglie del governatore della California Gavin Newson) non erano riusciti a trovare un accordo. Due mozioni procedurali erano oggi in agenda prima della lettura della sentenza e la giudice Lisa Lench oggi le ha respinte: la richiesta dell'avvocatessa Gloria Allred di far ascoltare in aula le altre tre accusatrici e quella degli avvocati dell'ex produttore che avevano chiesto un nuovo processo asserendo che prove importanti sul caso della 'Jane Doe n.1' - messaggi su Facebook scambiati con un altro testimone, che ne avrebbero minato la credibilità - non erano state ammesse durante il primo procedimento.

 La procura di Los Angeles in dicembre aveva raccomandato per Weinstein un minimo di 24 anni senza riduzioni di pena da scontare una volta esaurita la prima condanna: l'ex produttore, che ne compie 71 in marzo ed è in malferma salute, a quel punto sarà arrivato alla soglia dei 90. Restano comunque incertezze legali sul destino dell'ex tycoon sia a New York che in California: la Corte Suprema dello Stato di New York ha accettato di ascoltare un appello rispetto alla prima condanna mentre i magistrati della California devono ancora pronunciarsi sulla possibilità di portare di nuovo Weinstein in giudizio per i capi di accusa su cui la giuria non è riuscita a mettersi d'accordo.

 (ANSA il 23 Febbraio 2023) - "Sono innocente. Non condannatemi a una vita in prigione": prima della lettura della sentenza oggi in tribunale a Los Angeles, Harvey Weinstein ha implorato la clemenza della corte. "Non ho mai stuprato o aggredito sessualmente Jane Doe 1. Non l'ho mai conosciuta e lei non mi conosce. Sono in gioco soldi", ha detto l'ex produttore riferendosi alla ex modella e attrice russa ma all'epoca residente a Roma la cui testimonianza lo ha mandato per altri sedici anni dietro le sbarre. Weinstein, che nel 2020 a New York è stato condannato a 23 anni di prigione, ha detto di "non meritare" la nuova condanna: "Ci sono troppe cose sbagliate in questo caso".

Jodi Kantor: «Weinstein è in cella ma una cameriera molestata resta indifesa». Valeria Vignale su Il Corriere della Sera il 9 gennaio 2023.

Parla la giornalista del New York Times che con la collega Twohey fece lo scoop sulle violenze sessuali del produttore. Dal loro lavoro il romanzo ‘Anche io’ e il film ‘She Said’

Le giornaliste del «NewYork Times» Megan Twohey (a sinistra) e Jodi Kantor (foto Celeste Sloman for Universal Pictures)

Ha inchiodato Harvey Weinstein con lo scoop del New York Times che, il 5 ottobre 2017, ne rivelava molestie e violenze sessuali. Eppure pochi ricordano il nome di Jodi Kantor, 47enne giornalista vincitrice del Pulitzer, insieme alla collega Megan Twohey, per la prima inchiesta sul produttore di Hollywood condannato poi a 23 anni di carcere. Di quella rivoluzione d’ottobre restano impresse la viralità del movimento #MeToo e le attrici che ogni giorno si univano alle accuse, da Ashley Judd a Gwyneth Paltrow, più che la fatica delle reporter e il coraggio delle testimoni che hanno rotto il silenzio sul magnate. «Weinstein ci aveva anche spiato, facendo seguire me e Megan da ex agenti segreti fin sotto casa» racconta a 7 la reporter del New York Times, puntualissima all’appuntamento su Zoom.

«Paura? Nei momenti difficili mi sento galvanizzata e ancora più motivata ad andare fino in fondo». L’avventura professionale di Kantor e Twohey è raccontata come un thriller nel libro Anche io, in uscita da noi martedì 10 gennaio (ed. Vallardi) e nel film che ne è stato tratto: She Said - Anche io di Maria Schrader, con Carey Mulligan (Twohey) e Zoe Kazan (Kantor), al cinema dal 19 gennaio. Sposata con due figlie di 17 e 7 anni - «pensavo spesso al loro futuro ascoltando i racconti delle molestie» - Kantor ha altri episodi di cui andare orgogliosa nel curriculum. Ha seguito la campagna di Barack Obama e intervistato per prima la famiglia presidenziale, scrivendo nel 2012 il saggio The Obamas (ed. Little Brown and Company). Ha realizzato inchieste sui turni delle madri single da Starbucks, provocando una revisione dell’organizzazione, e sul lavoro tra gli impiegati di Amazon nel 2015, suscitando la risposta di Jeff Bezos e spingendo la società a istituire il congedo di paternità.

Come sottolineato nel libro, nel 2017 le donne avevano raggiunto posizioni di potere prima impensabili, eppure le molestie sessuali sul lavoro restavano diffuse e impunite. Cos’è cambiato a cinque anni di distanza?

«Potrei dire tutto e niente. O non abbastanza. Weinstein è stato condannato a 23 anni ed è in attesa di un altro processo. Il movimento #MeToo fondato da Tarana Burke nel 2006 si è esteso a tutto il mondo. In 22 Stati degli Usa sono state approvate leggi per prevenire o affrontare le violenze. E certi comportamenti maschili sono diventati inaccettabili. Eppure se possono provocare licenziamenti o distruggere carriere nelle grandi aziende, poco è cambiato tra i lavoratori a basso reddito. Non credo che una cameriera molestata mentre serve hamburger riesca a difendere il diritto di non esserlo».

Quali sono stati i momenti più delicati e le risorse indispensabili alla vostra inchiesta?

«È importantissimo avere tempo e contattare più persone possibile. E lavorare in squadra. All’inizio ero da sola e pur essendo riuscita a raccogliere le confidenze di attrici come Gwyneth Paltrow», che nel film ha prestato la voce per riprodurre la telefonata con Jodi; ndr, «nessuna accettava di esporsi pubblicamente. Ho chiesto aiuto a Megan, che aveva raccolto testimonianze simili su Donald Trump, e abbiamo puntato su un argomento forte: “Non possiamo cambiare la tua esperienza ma insieme potremmo usarla per proteggere altre persone”. Quando l’attrice Ashley Judd ha accettato di esporsi ho pianto, proprio come si vede nel film».

She Said è stato descritto come un Tutti gli uomini del presidente al femminile. Nel film di Alan Pakula del 1976, i giornalisti Bob Woodward (Robert Redford) e Carl Bernstein (Dustin Hoffman) erano eroi senza un privato, immersi solo nel Watergate. Di voi due il film mostra anche la vita familiare. Quanto ha contato essere donne e madri nell’indagine su Weinstein?

«Nel libro non si parla di amicizia femminile sul lavoro o empatia tra testimoni e madri ma nel lavoro quotidiano è difficile separare le due sfere e sono grata al film per aver mostrato lo sforzo di essere sul pezzo su entrambi i fronti, lo stesso di tante donne, che raramente i film mostrano. Penso alle telefonate importanti ricevute a casa con le mie figlie accanto. Allora la primogenita Talia, ora 17enne, era adolescente e la secondogenita aveva due anni. Oggi, scherzando, dico loro che mi hanno ispirato e allo stesso tempo ostacolato. Pensare al loro futuro di donne mi ha motivata. Oggi Talia sa tutto di Weinstein e siamo fiere una dell’altra».

Le attrici Carey Mulligan e Zoe Kazan che interpretano i ruoli di Megan Twohey e Jodi Kantor nel film «Shi said - Anche io», dal 19 gennaio nelle sale

Non aveva timori per la sua famiglia quando Weinstein la faceva seguire?

«No, al contrario do il mio meglio davanti alla prepotenza, e so che la si può sconfiggere solo unendosi. Tant’è vero che i costosi mezzi del produttore non hanno avuto efficacia rispetto alle donne coraggiose che hanno scelto di esporsi contro di lui. Per me sono più duri i momenti morti e allora cerco un’altra inchiesta. Più tosta è, meglio è. In questi anni difficili per la democrazia, sento che il mio mestiere ha più che mai un senso».

Tra social network e fake news, il mondo della notizia è radicalmente cambiato e manca l’accuratezza un tempo garantita da testate autorevoli. Anche il giornalismo investigativo è a rischio?

«Di sicuro è ancora più importante perché può essere l’ultima possibilità quando tutte le altre hanno fallito. La piaga delle molestie non era stata affrontata efficacemente né dai legislatori né all’interno delle aziende. Il giornalismo è un elemento indispensabile, ovviamente non l’unico, a una democrazia sana».

Le sue inchieste sul mondo del lavoro, da Starbucks ad Amazon, hanno fatto luce sulla discriminazione di genere: è un tema che le ha fatto scegliere questo mestiere?

«In realtà è maturato lavorando in ambiti maschili. Coprendo due campagne presidenziali mi sono resa conto che le donne, proprio perché restano ai margini, hanno punti di vista interessanti e ascoltarle fa capire i meccanismi del potere. E anche il caso di una donna licenziata dopo aver perso il figlio durante il parto, in un’azienda, mi ha fatto riflettere non solo sulla discriminazione ma sulle scelte gestionali».

Il #MeToo è passato anche attraverso eccessi mediatici. Il regista Woody Allen, per esempio, è stato additato pur non essendo mai risultato colpevole, come sosteneva Mia Farrow, di molestie alla figlia adottiva Dylan. (Fra l’altro il figlio, Ronan Farrow, ha vinto il Pulitzer per un’altra inchiesta su Weinstein uscita sul New Yorker dopo il Times ; ndr). Si poteva evitare?

«Attraversare i cambiamenti è sempre difficile e lo è stato anche per il #MeToo. Per me conta il lavoro giornalistico, verificare più volte fonti e documenti prima di rovinare carriere, reputazione o finanze altrui: la consapevolezza di questo potere fa tenere l’asticella alta».

Ha mai fantasticato di fare un’inchiesta altrove, fuori dagli Stati Uniti?

«Forse dovrei farla sulle catene di hotel di lusso, per capire come sarebbe prendersi una vacanza! Scherzi a parte, la magia di oggi è condividere la mia esperienza con lettori e spettatori di altri Paesi. Mi piacerebbe farlo venendo a Roma di persona».

Verdetto diviso su Weinstein, colpevole di tre capi d'accusa. Giuria crede a ex modella famosa in Italia, lui rischia 24 anni. Alessandra Baldini) (ANSA) su La Gazzetta del Mezzogiorno il 20 Dicembre 2022

Colpevole di uno stupro e due aggressioni sessuali: la giuria del processo di Los Angeles contro Harvey Weinstein si è' divisa sul totale di sette capi di imputazione e non hanno trovato l'unanimità sul fatto che l'ex produttore si fosse approfittato delle donne che lo avevano avvicinato e avesse cercato di fare sesso con loro senza averne il consenso. L'ex re di Hollywood sta scontando 23 anni di prigione dopo essere stato condannato a New York. "Siete le nostre eroine contro un mostro", ha mandato a dire alle donne che a Los Angeles si erano fatte avanti l'attrice premio Oscar Mira Sorvino. Weinstein rischiava fino a 60 anni di prigione e adesso si parla di una pena i 18 e 24 anni dietro le sbarre. Dopo quasi dieci ore in camera di consiglio, i giurati non hanno trovato l'accordo "contro ogni ragionevole dubbio" su un capo di imputazione per stupro e alti due per aggressione sessuale. Il verdetto ha concluso un processo cominciato a fine ottobre e che aveva visto le deposizioni di 44 testimoni tra cui la modella italo-filippina Ambra Battilana Guterres e di una delle accusatrici, Jennifer Siebel Newsom, l'attrice e documentarista sposata col governatore della California Gavin Newsom. Sia a New York che a Los Angeles, Weinstein aveva rifiutato l'offerta di testimoniare in sua difesa. Al processo nella mecca del cinema la giuria ha creduto in pieno alla testimonianza della 'Jane Doe 1', una modella famosa all'epoca in Italia, che aveva accusato Weinstein di averla stuprata in un albergo di Los Angeles nel febbraio 2013, i giorni del festival Los Angeles-Italia. L'ex produttore, che si era in tutti i casi dichiarato non colpevole, è stato invece scagionato dalle accuse di aggressione contro la massaggiatrice 'Jane Doe 3', che avrebbe confidato le molestie a un altro cliente famoso, Mel Gibson, mentre i giurati si sono divisi sulle altre due accusatrici una delle quali è la moglie di Newson. Su di lei il verdetto è stato di otto a quattro, non sufficiente a dichiarare l'unanimità. "Sono orgoglioso di lei per aver testimoniato", ha dichiarato il marito a verdetto annunciato. (ANSA).

Pietro Tidei.

Demba Seck.

Pietro Tidei.

Giuseppe Scarpa per “la Repubblica” - Estratti martedì 26 settembre 2023.

Prima è un chiacchiericcio, poi un pettegolezzo, infine una certezza. C’è un video hot che immortala il sindaco pd di Santa Marinella, Pietro Tidei, 77 anni, in atteggiamenti intimi con una donna in una stanza del Municipio, quando gli uffici sono ormai chiusi. Il filmino ha una genesi particolare e un epilogo devastante. La fine di questa storia travolge due persone e due famiglie che nulla hanno a che fare con un’inchiesta per corruzione. 

Un’indagine che, ad oggi, riguarda altri soggetti, ma che è entrata nelle vite di uomini e donne lontani anni luce dal lavoro dei pm di Civitavecchia che stavano cercando prove di mazzette e tangenti. Ma come è stato possibile tutto ciò? 

Il file “incriminato” è contenuto in un’inchiesta per corruzione che nasce proprio dalla denuncia di Tidei contro due consiglieri comunali, e il titolare di un noto ristorante della zona, l’Isola del Pescatore, accusati di fare assieme affari poco trasparenti.

Le videocamere installate dagli investigatori erano state piazzate con l’obiettivo di confermare le peggiori ipotesi — in parte provate, secondo i pm — di favori reciproci tra i due politici e il ristoratore. Tuttavia accade qualche cosa di particolare, la clip viene acquisita qualche settimana dopo la chiusura dell’inchiesta da uno degli indagati, il consigliere Roberto Angeletti, 61 anni. Il video si trasforma in un oggetto contundente da scagliare contro Tidei, come ritiene il sindaco, ma che ferisce anche altre persone. «Non si parla più di una corruzione che ho denunciato, ma di un mio fatto privato», accusa il primo cittadino. 

Secondo alcune fonti consultate da Repubblica , il file era stato indicato come non rilevante, ai fini dell’inchiesta per corruzione, da parte della stessa polizia giudiziaria (poiché riguardava soggetti che nulla avevano a che vedere con la contestazione) nell’atto conclusivo e definitivo di trasferirlo alla procura. Successivamente, negli atti della stessa inchiesta consegnata ai difensori degli indagati, l’intercettazione non veniva indicata poiché non era funzionale alla tesi accusatoria.

Tuttavia, come la legge permette, l’avvocato di Tidei ha potuto ascoltare tutte le intercettazioni, anche quelle ufficialmente non rilevanti, ma che spesso, per i legali, sono materiale prezioso per poter difendere a processo i loro clienti. I video sono stati perciò ritenuti rilevanti dall’avvocato del consigliere che ne ha chiesto l’acquisizione al pm. Il magistrato ha autorizzato l’estrapolazione e poi è successo il disastro. Angeletti avrebbe fatto circolare il file, accusa adesso la procura di Civitavecchia, che lo ha perquisito a caccia di prove con l’accusa di revenge porn. 

Il punto è che il file non poteva circolare. Il reale valore del video, ai fini del processo, non è stato ancora stabilito. Solo di fronte a un altro magistrato, il gip, nell’udienza stralcio se ne sarebbe potuto valutare l’effettivo impiego. In questa sede gli avvocati devono giustificare davanti al giudice delle indagini preliminari l’utilità dell’intercettazione. In caso di semaforo verde, il gip ne autorizza la trascrizione e l’intercettazione viene inserita nel fascicolo del processo. In caso di semaforo rosso, può essere disposta anche la distruzione.

(…)

Estratto da la Verità martedì 26 settembre 2023. 

(...)

In un altro video il sindaco cerca un factotum che lavori per lui in campagna, che gli curi le pecore, gli pulisca i pozzi, gli tagli la legna. E dalla chiacchierata emerge come la passione per l’altro sesso abbia messo nei guai il sindaco anche in un’altra circostanza.

Un concittadino gli propone una persona di sua conoscenza: «È un bravo ragazzo, lavoratore, ignorantello, ogni tanto beve (mima con il pollice, ndr)». Tidei la prende in ridere: «Eh, solo quello! Una sera me se ‘mbriaca me va là… mi violenta, a parte magari violenta mia (inc.) eh eh eh». 

L’interlocutore obietta: «Ma tanto mica dorme lì». Tidei vorrebbe accelerare: «Allora, io me voglio organizza’ in questo modo.

Cerco di daje una sistemazione lì, e lo sistemo. Lo sistemo fisso, mica lo sistemo peeee… dopo di che lui c’ha uno stipendio fisso». L’interlocutore spiega che il candidato «con le bestie e con i trattori sa fa’ tutto». Il sindaco è sempre più convinto: «Io je trovo una sistemazione, però, m’ha da di’ quanto vuole per ‘sta roba qui, in modo tale che… poi se lui volesse, io so’ in grado di daje pure ‘na casa. Je do ‘na casa, du’ camere… du’ camerette, ‘na cucina…». 

L’amico ribatte: «Ma tanto lui è solo». Il primo cittadino insiste: «Eh, solo. Mica starà solo per tutta la vita». L’altro uomo gli consiglia di non correre: «Cominciate, però, piano piano […] prima di infilarlo dentro casa, dagli un’inquadrata […] poi piano piano». 

Al sindaco viene in mente la brutta esperienza avuta con il fattore precedente, un certo B., originario dell’Albania: «È stato un mascalzone. Più che lui è stata la moglie. Una mandria di mascalzoni. Se rigirava mi moje… poi mi moje ci piagneva… comunque vabbè, mo’ va via e pazienza».

Qui Tidei inizia un monologo che molto poco de sinistra: «Io c’avevo B. che… “B. vie’ un po’ su” e quello veniva su e faceva. A me B. (inc) m’ha messo in mezzo a una strada. È proprio uno stronzo. Uno stronzo, non capisce niente. È andato dire a mia figlia “perché io conosco i segreti di tuo padre” […] l’ho mandato un paio di volta a una casetta, lì dove ogni tanto ci vo’ a tromba’, lì a Santa Severa, ma che cazzo... ma statte zitto. […]. Quindi B., s’era imparato a fa’ tutto, quando è venuto non sapeva fa’ niente oh. […]. L’hanno cacciato pure dalla Polizia perché rubava. Quindi voglio di’ non è che era uno… poi capirai, in Albania rubano tutti». 

Giacomo Amadori e François De Tonquédec per “La Verità” martedì 26 settembre 2023.

Il caso scoperchiato dalla Verità sta facendo parlare tutto il Paese. E come sempre, gli italiani si stanno dividendo in colpevolisti e innocentisti, a favore o contro il sindaco Pietro Tidei, l’arzillo settantasettenne che ha usato il municipio come pied-à-terre per i suoi incontri hot con almeno due donne. 

Consessi amorosi che sono stati ripresi dalle telecamere della Procura di Civitavecchia, sono stati messi a disposizione di un indagato e sono diventati argomento di gossip pruriginoso. Domenica mattina, a Santa Marinella, sarebbe avvenuto un incontro da mezzogiorno di fuoco. 

Infatti si sono ritrovati nello stesso locale il consigliere d’opposizione Roberto Angeletti, accusato dalla Procura di Civitavecchia di aver fatto circolare alcuni video hot del sindaco Pietro Tidei, e Vanessa, una delle presunte amanti del primo cittadino, immortalata dalle telecamere degli inquirenti mentre consumava un rapporto sessuale all’interno del municipio. 

Secondo lo stesso Angeletti la signora lo avrebbe preso in disparte e gli avrebbe detto: «Io le chiedo una cortesia, ho un marito ho dei figli..». L’uomo avrebbe giurato di non aver fatto girare lui i filmati.

Anche se la Procura gli ha contestato il reato di revenge porn. Vanessa, a proposito della trattativa portata avanti dal sindaco per ingaggiare il marito come consulente dell’amministrazione, ha spiegato ad Angeletti che lei e il compagno stanno ancora pagando un mutuo e che quindi quei soldi extra non sarebbero mai entrati nel loro bilancio famigliare. 

Ieri il marito della signora ha confermato questa versione con La Verità. Ci ha assicurato che alla fine non ha ricevuto nessun incarico. Ma ha confermato di aver ricevuto la proposta per far parte di un gruppo di studio sul rischio idrogeologico a Santa Marinella, una consulenza da oltre 50.000 euro: «Sì, si è parlato lungamente dell’argomento e delle possibili soluzioni perché, oltre i titoli certificati, sono riconosciuto nel territorio come tecnico esperto della materia, ma senza arrivare a concludere». 

A questo punto abbiamo domandato se avesse memoria di quale sia stata l’evoluzione della trattativa? E abbiamo ottenuto questa risposta: «Sì, confusa nei contenuti ed altalenante nei modi e nei tempi nonostante l’urgenza della tematica in esame». Una trattativa in cui la moglie non avrebbe avuto ruoli.

Nelle scorse ore abbiamo provato a contattare anche la presunta seconda amante di Tidei (la quale ha subito informato il sindaco) per raccogliere la sua versione. La donna ci ha liquidati così: «Non conosco i fatti e non so di che cosa stia parlando». Nel frattempo Tidei continua a rilasciare interviste a destra e a manca. 

A chi gli ha fatto notare che ha usato come garçonnière gli uffici comunali, ha specificato: «Sia chiaro fuori dall’orario di lavoro e con il Comune chiuso». Ma anche ammesso che «sicuramente» avrebbe dovuto evitare di avere rapporti sessuali un ufficio e che questa vicenda qualche grattacapo in famiglia glielo starebbe creando. Comunque ha annunciato che chiederà risarcimenti danni a raffica, in attesa di sapere dai pm «come sia stato possibile che quei video che riguardano» la sua «sfera privata, siano stati forniti a chi è indagato» ed è stato da lui denunciato: «Noi arriveremo sino al Ministero di Grazia e giustizia, non può finire così questa storia».

(…)

Ricordiamo a questi giuristi che l’ex portavoce di Gianfranco Fini, Salvatore Sottile, è stato condannato a pagare 6.000 euro per avere scarrozzato sull’auto blu la showgirl Elisabetta Gregoraci. 

Ma soprattutto riteniamo di interesse generale quanto emerge dalle intercettazioni consegnate ad Angeletti. 

(…)

Giuseppe Scarpa per “la Repubblica – ed. Roma” - Estratti martedì 26 settembre 2023. 

«Lei ha il video? Me lo faccia vedere. Devo sapere se è mia moglie. Io sono convinto che non sia lei, per me è solo un chiacchiericcio». 

Paolo, lo chiameremo così, è il marito della donna che avrebbe avuto un rapporto in un ufficio del Municipio di Santa Marinella con il sindaco Pietro Tidei. Il video hot è agli atti di un’inchiesta nata dopo la denuncia del primo cittadino per corruzione contro un paio di consiglieri comunali e il titolare di uno dei ristoranti più famosi della costa laziale, L’Isola del Pescatore. Del filmato, o della sua esistenza, questo non è chiaro, ne e è venuto a conoscenza tutto il paesino, alimentando pettegolezzi e distruggendo la vita di una famiglia, quella di Paolo. 

Lei ha chiesto chiarimenti a sua moglie?

«No, non l’ho fatto. Non credo sia lei quella ripresa dalle microcamere dei carabinieri». 

Ma lei conosce il sindaco?

«Sì, ma non lo frequento. Mia moglie lo conosce da anni». 

È vero che negli ultimi anni Tidei le ha offerto diversi incarichi?

«Sì, ma non si sono mai concretizzati». 

Come mai?

«Questo lo deve chiedere a lui, non a me. Mi ha offerto anche incarichi non legati alle mie professionalità». 

(...) 

Ma perché il primo cittadino le offriva tutti questi incarichi che non erano coerenti con il suo profilo professionale?

«Io mi sono fatto un’idea che è molto precisa». 

Quale?

«Vede, io sono un esponente di Rifondazione. Deve sapere che il mio partito non va molto d’accordo con il Pd di Tidei. Io credo che questo fosse un tentativo di zittire la pesante critica che da sinistra noi muovevamo alla sua amministrazione. E infatti lo staff di Tidei (Ermanno Mencarelli, dirigente dell’ufficio tecnico condoni) mi offrì poco tempo fa un altro incarico». 

Di nuovo?

«Sì e questa volta coerente con le mie competenze. Io avrei accettato solo consulenze collegate al rischio idrogeologico a Santa Marinella nei primi anni Ottanta per delle frane abbiamo avuto dei morti qui». 

Questa volta ha accettato?

«Sì. E lui mi ha presentato durante la campagna elettorale come quello che in una zona del paese si sarebbe occupato del problema». 

E poi?

«E poi vinte le elezioni è sparito. Mi dica la verità. Lei lo ha visto il video?».

No, non l’ho visto.

Estratto dell’articolo di Giuseppe Scarpa per “la Repubblica” lunedì 25 settembre 2023.

Uno si vuole rivolgere al ministro della Giustizia, l’altro alla procura di Perugia. Chi abbia ragione ancora non è chiaro. Ma uno scandalo è esploso in una cittadina del litorale laziale, Santa Marinella. Dove va in scena una guerra tra il sindaco dem e il più votato dei consiglieri di centrodestra. Il primo cittadino, il 77enne Pietro Tidei, accusa il rivale Roberto Angeletti di voler tentare un golpe per farlo dimettere. L’altro ribatte rinfacciando al sindaco di usare il Comune come una garçonnière. La vicenda in realtà è intricata.

Un fatto però è certo. Le microcamere piazzate dalla procura di Civitavecchia nel municipio di Santa Marinella filmano Tidei in due incontri intimi con altrettante signore tra la fine del 2021 e il 2022. I video hot finiscono, forse per errore — non è ancora chiaro — agli atti di un’inchiesta per corruzione nata dalla denuncia del sindaco stesso contro un ristoratore, che sarebbe stato favorito da alcuni consiglieri comunali suoi rivali. 

Tidei, ex deputato dem, […] va su tutte le furie: «Mia moglie è arrabbiatissima, è l’unica che può recriminare qualcosa nei miei confronti. Comunque non ricordo di aver avuto incontri con due signore ma solo con una, cui questa vicenda sta rovinando la vita visto che è impegnata. Scriverò a Nordio affinché vengano fatte delle verifiche, io sono finito nel fango per aver denunciato il malaffare. Non posso accettarlo».

Ma facciamo un passo indietro. L’inchiesta di Civitavecchia nasce su input di Tidei. Il primo cittadino […] punta il dito contro Fabio Quartieri, titolare dell’Isola del Pescatore, ristorante tra i più blasonati della costa […] Secondo Tidei, Quartieri starebbe tramando con un paio di consiglieri, tra cui Roberto Angeletti, suo arcinemico, esperto d’informatica e consulente di diverse procure per l’installazione di cimici. Il loro obiettivo sarebbe disarcionarlo dalla guida del Comune sfiduciandolo. Il motivo? Sempre Tidei ritiene di essere l’unico a dire no alle continue richieste del ristoratore per ampliare il suo locale. Parte l’indagine, i carabinieri piazzano le microcamere in municipio. 

L’obiettivo è semplice: ascoltare i consiglieri che ammettono tra loro di aiutare il titolare dell’Isola del Pescatore in questa sorta di golpe. Succede invece che in due occasioni, a Comune chiuso, dopo l’orario di lavoro, le videocamere riprendano il primo cittadino, in un’area a disposizione del consiglio comunale, mentre intrattiene rapporti sessuali.

[…] La procura di Civitavecchia non trova nulla sull’ipotetico tentativo di deporre il sindaco, ma scopre presunti episodi corruttivi tra due consiglieri comunali (uno è proprio Angeletti), e il ristoratore. In sintesi quest’ultimo, secondo i pm, offriva cene per essere informato su quanto accadeva in consiglio comunale sulle pratiche relative alla sua attività. La procura chiede l’arresto di Quartieri e Angeletti. E qui accade un primo fatto singolare: il gip nega l’autorizzazione, boccia l’inchiesta per «mancanza di accordi corruttivi» e scrive al pm, nell’ordinanza […]: «Non si comprende perché Tidei non sia stato indagato, considerato che gli unici atti del Comune in favore del Quartieri sono stati emessi proprio dal sindaco». 

I pm vanno avanti per la loro strada, Tidei rimane fuori dall’indagine mentre per Quartieri e Angeletti, ad aprile, i magistrati chiudono le indagini per corruzione. È in questa fase che Angeletti con il suo avvocato ritira il fascicolo completo con le accuse che lo riguardano per potersi difendere in previsione del processo. Qualcuno, si presume per errore, infila negli atti i due famosi video ripresi dalle microcamere che immortalano Tidei con le due donne.

I filmati nulla hanno a che vedere con l’inchiesta, ma finiscono comunque in mano al rivale del sindaco. A Santa Marinella inizia a circolare la voce degli incontri galanti del primo cittadino all’interno del municipio. La voce, alla fine, arriva anche a Tidei, che non ha dubbi su chi ne sia responsabile: Angeletti. Mercoledì i carabinieri, dopo una nuova denuncia del sindaco, perquisiscono il consigliere, accusandolo di revenge porn per aver fatto circolare i filmati piccanti. […]

Estratto dell’articolo di Mauro Evangelisti per “il Messaggero” lunedì 25 settembre 2023.

«Ma le sembra normale che la persona che io ho denunciato e che è indagata ha ottenuto dalla Procura quel video mentre il sottoscritto non può vederlo? Andrò fino in fondo, scriverò al ministro della Giustizia, Carlo Nordio». Pietro Tidei, sindaco di Santa Marinella, provincia di Roma […] 77 anni, storico esponente del Partito comunista nel litorale […] nel 2018 diventa sindaco di Santa Marinella e ottiene la conferma […] nel maggio scorso. […]

[…] Appare grave che un filmato sulla sua vita privata sia stato fornito a una persona indagata.

«Bravo. Esattamente. Qui addirittura si va verso la richiesta di rinvio a giudizio per corruzione. Come sia stato possibile che quei video, che riguardano la mia sfera privata, siano stati forniti a chi è indagato bisognerebbe chiederlo al magistrato. Noi arriveremo fino al Ministero di Grazia e Giustizia, non può finire così questa storia. Potrebbe succedere a qualsiasi cittadino». 

Lei non è indagato?

«Io non sono indagato, non lo sono mai stato in 50 anni. Io ho presentato una denuncia per corruzione». 

Perché c'erano le telecamere nascoste?

«Gli investigatori le avevano messe nella stanza attigua a quella del sindaco perché lì si riunivano spesso i consiglieri, anche quelli indagati. Avrebbero dovuto riprendere eventuali eventi legati all'ipotesi di corruzione». 

E lei però è stato ripreso per le sue attività private, rapporti con due donne.

«Sia chiaro, fuori dall'orario di lavoro e con il Comune chiuso».

E perché quei video sono stati forniti a uno degli indagati?

«Ripeto, chiediamolo al pm. Penso sia un problema di disattenzione, non ha valutato ciò che era afferente o non afferente all'inchiesta. Il legale ha chiesto il materiale e la procura ha dato tutto, non solo ciò che era collegato all'inchiesta. Gravissimo. Chiederò il risarcimento danni a tutti, a partire da chi ha usato in modo improprio questi filmati». 

Ma sono stati diffusi? Sono stati fatti girare?

«Sembrerebbe. Tanto è vero che poi sono stati sequestrati. Se li hanno sequestrati è perché pensavano che girassero».

Volevano ricattarla? Qualcuno è venuto a dirle che aveva in mano queste immagini compromettenti?

«C'erano voci, si diceva ci sono cose che girano, lascia perdere, dimettiti, ci vanno di mezzo persone innocenti...Tutte queste cazzate qui». 

Un problema.

«Sarebbero stati resi pubblici, sarebbero state coinvolte altre persone. Ma io ho presentato denuncia». 

Però lo ammetta: lei è stato ingenuo e inopportuno nell'usare gli uffici pubblici per dei rapporti di quel tipo. Se lo sarà detto: "dovevo evitare".

«Sì, sì. Sicuramente». 

[…] «[…] hanno cercato conniventi per firmare lo scioglimento del consiglio e mandare a casa il sindaco. Io ho denunciato tutto, fatti, misfatti e personaggi, mi sono preso le mie responsabilità. Che circolasse quel video l'ho saputo prima dal gossip, poi dalla stampa. Si sono inventate cose assurde, che fossero rapporti a tre».

Sono due rapporti distinti invece.

«[…] Questa vicenda è assurda. Riguarda anche un consigliere comunale che […] è una persona che mette di mestiere microspie per la procura, era un consulente. Ed è stato il suo avvocato a chiedere di accedere al materiale. Domanda: sapeva cosa trovare? Pensi che io sono vittima di un reato, ma non posso accedere agli atti come invece possono fare gli indagati». 

Questa storia l'ha messa in difficoltà in famiglia?

«Sono sposato, ho quattro figli, cinque nipoti. Difficoltà? Secondo lei? Ma le sembra giusto? Tutto assurdo. Pensi che hanno tirato fuori anche Renzi». […] 

Da open.online - Estratti mercoledì 27 settembre 2023.

La moglie dell’uomo a cui il sindaco di Santa Marinella Pietro Tidei aveva promesso 53 mila euro per una consulenza informatica parla per la prima volta. Ed ammette che è lei la persona ritratta nel video hot in cui fa sesso nella sala riunioni del comune con il primo cittadino della cittadina del litorale in provincia di Roma. Dice anche che l’ha dovuto confessare al marito. 

Che è un militante di Rifondazione Comunista della zona e ieri ha sostenuto che il sindaco gli ha offerto soldi per “tenerselo buono”. Ma anche che secondo lui non era la moglie la donna ritratta nel video. L’inchiesta nasce da una denuncia dello stesso Tidei nei confronti di alcune persone, tra cui alcuni consiglieri comunali, per una presunta corruzione. Il reato è stato successivamente derubricato dal pubblico ministero. 

«Gli ho detto tutto ieri»

La donna confessa oggi in un’intervista a Giuseppe Scarpa per l’edizione romana di Repubblica che al marito ha detto tutto «ieri. La pressione era insostenibile. Avrei voluto affrontare la vicenda in un altro modo. Avrò anche sbagliato ma questa è una macchina del fango».

La procura di Civitavecchia aveva fatto installare una serie di telecamere-spia all’interno del comune. Proprio per verificare la denuncia di Tidei. Gli investigatori avevano giudicato irrilevante ai fini dell’indagine quel materiale. Che poi però è finito nelle carte date a Roberto Angeletti, uno degli indagati, con l’autorizzazione della stessa procura. A quel punto Tidei presenta la denuncia: il video sta circolando. E il pm indaga Angeletti, che però si professa innocente. Anche se attualmente è indagato per revenge porn.

«Con Tidei è successo una sola volta»

La donna dice che adesso non ha intenzione di fare nulla. È rassicurata dal fatto che il video non circola in rete. Dice che il marito è una persona «perbene, che sta soffrendo». E racconta come è andata: «Ero lì per lavoro. Con Tidei ci conosciamo da tempo ed è successo quello che è successo. 

Un’unica volta, nessuna relazione, lo definirei uno scivolone e adesso sono impigliata in questa rete». Sostiene di non aver mai ricevuto incarichi dal comune: «Assolutamente no, è riscontrabile. Ho la mia professionalità, il mio lavoro, non ho bisogno di chiedere niente a nessuno. E nemmeno mio marito ha ricevuto alcun incarico». 

Il marito ha precisato che Tidei dopo la consulenza informatica gli aveva proposto un incarico afferente alle sue competenze, che invece aveva accettato. «Riguardava la riqualificazione complessiva del litorale di Santa Marinella, un progetto da 2 milioni di euro», ha detto. Concludendo poi che non se ne era fatto nulla dopo il voto alle elezioni.

Le dimissioni

La donna non risponde alla domanda sull’astio che potrebbe nutrire per Tidei dopo l’accaduto. E dice che non l’ha sentito e non vuole sentirlo. Aggiunge che dopo questo caos dovrebbe dimettersi: «Guardi io non avrei dovuto fare quello che ho fatto, ma anche lui non doveva farlo in una sede istituzionale». Il resto, dice, deve vederselo con suo marito (...)

Estratto dell’articolo di Fulvio Fiano per il Corriere della Sera giovedì 28 settembre 2023.

«Non so chi sia la donna che dice di aver avuto rapporti con me. Stanno cercando di ricattarmi e delegittimarmi, ci avevano già provato e li ho denunciati. Ora li denuncio di nuovo per aver messo in circolazione notizie false o inerenti a vicende solo private». 

Pietro Tidei, 77 anni, sindaco Pd di Santa Marinella, accetta di rompere il silenzio che si è imposto all’indomani della notizia dei video che lo ritrarrebbero in atteggiamenti intimi con due diverse donne agli atti di un’inchiesta, nata dalla sua denuncia, ora arrivata alla richiesta di processo per corruzione a carico di un imprenditore e tre consiglieri di opposizione. 

Gli aspetti da chiarire non sono pochi: a partire dai due incontri intimi nell’anticamera del suo ufficio. «Non li ho mai negati», ribadisce, preferendo il basso profilo per rispetto della moglie. Con la quale si è scusato, raccontandole tutto: «Sono stati giorni difficili».  

(...)

Ma è chiaro che il focus della vicenda si è spostato sulle relazioni del sindaco. Lui continua a ripetere che non conosce la donna che si è fatta avanti, anonimamente, per rivelare la loro presunta storia sui giornali: «Se voleva restare davvero nell’ombra non aveva che farlo». 

Quanto ai video, sostiene di non averli mai visti, a differenza di tanti in città che assicurano di conoscerne i dettagli. Chi frequenta il municipio fa invece notare come il salottino degli incontri sia sempre scuro e sarebbe dunque arduo distinguere i volti delle donne riprese. 

Anche sulla natura di questi incontri, inizialmente presentati come delle simil-orge, Tidei sottolinea che sono stati episodi separati, nei quali non si è andati oltre qualche effusione. «Una commedia degli equivoci — ripete a chi gli è vicino — sulla quale stanno ricamando in tanti». 

Tra chi lo ferma per fare battute («due donne alla tua età...»), chi sospetta della propria moglie e chi dai banchi di opposizione solleva il caso dei danni all’immagine di Santa Marinella. «Tutti parlano, in provincia va così». 

Martedì è stata sequestrata a Roberto Angeletti la pen drive nella quale conservava arbitrariamente copia dei video già sequestrati. A metà ottobre lui e due consiglieri rischiano il processo per una promessa di favori all’imprenditore Fabio Quartieri su abusi edilizi nel ristorante “L’isola del pescatore” e sulla trasformazione del residence Pino al mare in alloggi privati.

Nella sua denuncia il sindaco collega tutto ciò al tentativo di far cadere la sua giunta, «come già avvenuto quindici anni fa: anche allora c’era Angeletti in consiglio comunale, assieme a Quartieri».

Giuseppe Scarpa per “la Repubblica” - Estratti giovedì 28 settembre 2023.

Riunioni dentro l’ufficio del sindaco a luci spente, nel buio più totale, con il primo cittadino che confabula con il suo interlocutore di appalti e bandi per le spiagge. 

Altre in cui il sindaco nasconde il suo cellulare e quello dell’ospite nel suo bagno privato, mentre vanno a parlare in un’altra stanza. E poi storie di nuovi ricatti sessuali portati avanti dal fattore delle tenute di proprietà di Pietro Tidei, sempre lui, il sindaco della cittadina della costa laziale, ad appena un un’ora in auto da Roma. L’uomo, politico navigato, 77 anni, ex Pci, poi nei Ds, oggi nel Pd, due volte deputato, due volte primo cittadino di Civitavecchia, è adesso al secondo incarico a Santa Marinella. Comune che, a questo punto, si candida ad essere il più pazzo d’Italia. 

A far emergere nuovi e piccoli scandali ci hanno pensato i carabinieri che hanno imbottito il Municipio, 20 mila abitanti, di cimici e microcamere. Il risultato non è stato dei più lusinghieri per l’amministrazione. Tidei, che non è indagato, nei giorni scorsi ha gridato allo scandalo quando è stata data la notizia di un paio di video che l’immortalano mentre si intrattiene in incontri intimi, a Comune chiuso, con due donne (in giorni differenti) in una sala di solito utilizzata dal consiglio comunale.

(...)

Dall’indagine, però, emerge che non era solo Angeletti a disporre di informazioni riservate sulle scappatelle di Tidei. Lo stesso sindaco, come scrivono i carabinieri nella sintesi che precede la trascrizione di un’intercettazione, ammette di essere stato ricattato da un suo dipendente: «Tidei racconta che Basky andrà via, (l’uomo si occupa di gestire i terreni del sindaco ndr ). Quest’ultimo era uno stronzo, perché lo ricattava. Il sindaco sottolinea che Basky si era rivolto a sua figlia e le aveva detto che era a conoscenza di tutti i segreti del padre». Tidei sospetta «che l’operaio sapesse di come il primo cittadino utilizzasse una sua proprietà a Santa Severa “per andare a trombare”». 

Ci sono poi altri colloqui più imbarazzanti per il sindaco. Uno in particolare riguarda una richiesta, avanzata al direttore di una multi servizi, di bandire un concorso per far assumere una persona a lui vicina: «Fai un concorso per stabilizzarlo, è un impegno che io ho assunto con il nonno». I due dopo la chiacchierata, scrivono sempre i carabinieri, vanno a riprendesi i cellulari che avevano lasciato nel bagno per non essere ascoltati. 

Peccato che ci fossero le microcamere a osservarli e a registrare tutto. Stesso copione andato in scena quando un architetto chiese al primo cittadino: «Puoi mettere una buona parola» per l’assunzione della sorella a Ferrovie dello Stato? Tidei gli promette che si sarebbe occupato del caso «personalmente e non tramite Whatsapp», mandando «Sergio a Roma, il suo autista con un messaggio manoscritto », scrivono gli investigatori in una nota. 

«Queste intercettazioni — spiega Lorenzo Mereu, l’avvocato di Tidei — sono datate e risalgono a più di un anno fa. Sono state vagliate dalla procura che le ha ritenute non rilevanti per iscrivere notizie di reato a carico di Tidei, che per questi fatti non risulta essere indagato. Noi riteniamo che quei file — sottolinea il penalista — dovessero essere coperti dalla riservatezza come recita l’articolo 2069 del codice di procedura penale proprio perché del tutto irrilevanti per la posizione di tutte le parti coinvolte».

Estratto dell’articolo di Giacomo Amadori e Francois de Tonquedec per “La Verità” giovedì 28 settembre 2023.

La vulgata è che l’inchiesta sulla presunta corruzione al Comune di Santa Marinella, quella in cui sono stati filmati gli incontri hot del sindaco dem Pietro Tidei, sia partita da una denuncia dello stesso primo cittadino. Ma qualcosa in questa ricostruzione non torna. 

Infatti in alcune intercettazioni del 2021 […] Tidei parla con il luogotenente Carmine Ricci, il comandante della stazione dei carabinieri della locale stazione proprio di questa querela da presentare. Ma le captazioni sono già iniziate. E l’investigatore dispensa consigli al primo cittadino. Una stranezza evidenziata anche dal sito Etrurianews.

Dice Ricci il 21 dicembre 2021: «Veniamo a noi. Io voglio capire bene la questione.

E il sindaco inizia a raccontare dei presunti tentativi di far cadere la sua giunta da parte dell’imprenditore Fabio Quartieri, interessato a permessi che il Comune non concederebbe. Si parla anche di un soggetto immischiato con il clan Casamonica. 

Tidei sembra aver trovato un super testimone del tentativo di corruzione e si sente con il coltello dalla parte del manico, per questo vorrebbe fare marcia indietro. «Io adesso sto tranquillo con l’amministrazione, l’ho sventata ‘sta cosa qui». Ma intanto le cimici registrano. Ricci prova a insistere: «Io comunque sia farò due righe per questo volevo un attimo capire la situazione. Faccio due righe e comunque le trasmetto».

[…] Per l’investigatore occorre capire il peso «di questo Casamonica». Il primo cittadino vuole fermare la slavina: «Eh parlamo sinceramente marescia’, perché io non vorrei mo’ adesso la questione sta buona… ‘sta cosa qui riapre un casino… riavrei avuto intenzione di andare avanti se… effettivamente questi stavano… ma ormai so’ morti… perché hanno capito che non c’è…». Ricci lo asseconda: «Posso pure non trasmettere nulla». Tidei tira un sospiro di sollievo. «Questo ti chiederei per ora».

Il 16 marzo 2022 l’indagato Quartieri parla con un’altra persona. Sulla sua macchina c’è una cimice. L’interlocutore dice: «Poi ho saputo che ci sta un’indagine pesante contro i consiglieri…». Quartieri chiede quale sia la fonte e l’altro uomo risponde che sono i carabinieri di Santa Marinella. Il giorno successivo Ricci torna alla carica con Tidei e gli chiede di formalizzare la denuncia. Il sindaco è titubante. 

Inizia un vero e proprio tiraemolla: «Marescia’, io e lei me pare che se dobbiamo parla’ chiaramente» dice l’ex parlamentare. «Io ho massimo rispetto e fiducia in lei.

Gira voce che, “guarda che i carabinieri, la Procura, hanno messo le cimici dentro (inc)”». Ricci: «E chi lo dice?» Tidei: «Lo dicono in giro». 

Ricci: «Fateglielo dire. Meglio». Tidei: «No, perché dopo che hanno arrestato il marito della consigliera nostra, che […] se lamentava… dice per telefono, non so… che il sindaco non le aveva mai fatto piglia’ un lavoro, che lo faceva casca’ tutte ‘ste storie qui […] sembrerebbe, ma credo che siano chiacchiere, io poi dentro la Procura non ce sto, che abbiano aperto un filone di indagini pure su Santa Marinella, sul Comune […].  E dice i carabinieri so’ entrati nottetempo e hanno messo le cimici».

Ricci […] tenta […] di confondere le acque: «Siamo entrati quindici volte». Il militare continua: «Se pensano una cosa del genere, se la dicono è pure meglio. Quindi vuol dire che stanno buoni. Venendo al discorso nostro, quando la formalizziamo quella denuncia?». Tidei: «Di Fronti (Andrea, allora vicesindaco, ndr)? Perché?». Ricci: «Perché la dobbiamo formalizzare». Tidei: «Ho paura che dopo Fronti me se guasta e me manda a casa davvero». 

Il sottufficiale insiste: «Ci rifletta». L’ex deputato pd torna sull’argomento intercettazioni e riferisce quanto avrebbe saputo: «Stai attento ai carabinieri, l’altra volta ti sono venuti a mettere le microspie». Il luogotenente: «Sì, sì dappertutto». Ricci: «Parlamose chiaro lei è o non parte offesa in tutta questa vicenda?». Tidei: «Credo di sì». Ricci: «E allora?». Tidei: «Essì ma pure se sono parte offesa se poi me la piglio in culo?». E racconta che quando era sindaco di Civitavecchia, pur essendo «parte offesa», sarebbe stato costretto ad «andare a casa». Chiosa di Ricci: «Che le devo di’, ci rifletta».

Il fascicolo per corruzione è stato aperto nel 2021 e Tidei si convince a depositare la querela per tentata corruzione solo il 20 marzo 2022, tre giorni dopo la conversazione con Ricci. Nel frontespizio si legge che i fatti denunciati sarebbero avvenuti a Santa Marinella tra dicembre 2021 e febbraio 2022, quando le microspie lavoravano già a pieno regime. Il 17 marzo il primo cittadino è ancora spaventato dall’idea che possa esserci un fascicolo sull’attività della sua giunta. Quindi chi dice che le intercettazioni avrebbero penalizzato chi aveva dato il via all’inchiesta con la propria coraggiosa denuncia non ha capito che le captazioni erano già in corso. 

In uno dei video di marzo, Tidei offre al militare le chiavi della sua «alcova»: «Ma le vole le chiavi, se le vo’ tene’? Dovesse succede qualche cosa… (gli passa le chiavi, ndr) e…». Il sindaco gli chiede di farsene una copia e poi fa una battuta decisamente infelice: «Ve può servi’ pure per veni’ a mette qualche cimice…». Microspie che stanno già registrando l’incontro all’insaputa dei due. […]

L’investigatore si fa scappare una notizia: «Una cosa, in settimana mi sa che (inc) una bella ordinanza» poi abbassa il tono e non si capisce, alla fine aggiunge: «Gliel’ho anticipato…». E chiosa: «A volta abbiamo a che fare pure con questi personaggi». Forse si parla di pedofilia e Tidei si indigna: «È una cosa che odio. I ragazzini… sarà che c’ho quattro figli, cinque nipoti, ma i ragazzini è una cosa che a me…». Il sottufficiale rincara: «Tra l’altro (inc) denunciato (inc)». A Tidei scatta la sindrome professionale: «Pure? (inc) vent’anni de galera. Vabbè, ma è impegnato politicamente?». Il carabiniere lo esclude: «No, no».

Tidei a questo punto si preoccupa per il lavoro della consorte del comandante: «Ma sua moglie poi che ha fatto?». Il sottufficiale spiega: «Sta facendo il corso da Oss (Operatore socio-sanitario, ndr). Finisce a giugno». Tidei risponde da par suo: «Allora a giugno la sistemamo subito». 

Il maresciallo sembra frenare: «Si, vabbè, ma tanto di posti ce ne sono… (allarga le mani, ndr)». Sostiene che a indirizzarli nel mondo del lavoro sia direttamente la scuola riconosciuta dalla Regione.

Tidei non si arrende: «Oss posso… di Oss ne servono tantissime. Quante ne vuole di Oss. Ne sistemo uno o due al girono».

Il primo cittadino commenta che con Scienze infermieristiche sarebbe stato anche più semplice, ma anche così non sarà difficile: «Comunque quando finisce la Oss se lei la sistema per conto suo va bene, sennò la sistemamo noi. Io con gli Oss non c’ho probblemi. Se lo vole pija un caffè?». 

In un altro video i due sono in terrazzo e mentre rientrano stanno finendo di parlare di un procedimento relativo a un abuso edilizio. La confidenza cresce. Tidei torna sulla questione della consorte del carabiniere: «Poi io pensavo a quell’altra cosa… ma l’ha preso poi quel titolo? Oss…». Il luogotenente ribadisce: «No, finisce a giugno». Tidei: «Eh, si può risolvere bene quella questione. Risolto questo, ne parlavo con mia moglie, se fuori dal periodo dell’inchiesta, tutta ‘sta roba, onde evitare compromissione, se state una sera a cena a casa mia con la moglie». 

Il comandante non si sottrae: «Qual è il problema? Volentieri, grazie per l’invito». Tidei: «Se una sera vuole, ne parli con sua moglie, mia moglie è un’ottima cuoca». Ricci: «Aspettiamo che finisce…». Tidei: «Quando è disposto lei, io non voglio assolutamente comprometterla». Ma alla fine il più compromesso di tutti è stato Tidei, che oltre alle cene ha dimostrato di essere molto interessato anche ai dopocena galanti.

Estratto dell’articolo di Giacomo Amadori e François De Tonquédec per “La Verità” giovedì 28 settembre 2023. 

L’uso improprio della cosiddetta stanza Romeo (mai nome fu più azzeccato) del municipio di Santa Marinella, quella attrezzata con divano per gli ospiti, ha scatenato la curiosità dei media sui video hot del primo cittadino pd Pietro Tidei mentre armeggia con almeno due signore.

Ma i filmati pruriginosi sono solo la punta dell’iceberg di un sistema di potere che ruota intorno a un politico di lunghissimo corso […] che ha attraversato gli ultimi cinquanta e passa anni di storia repubblicana passando dalla militanza nel Pci a quella nel Pd, facendo il parlamentare (per due legislature) e il sindaco numerose volte, tra Santa Marinella e Civitavecchia. 

Una carriera in cui è riuscito, come il conterraneo e compagno di partito Esterino Montino, a mettere via una discreta fortuna, risultando, una decina di anni fa, tra i parlamentari più facoltosi della sinistra. 

Nel 2012 emerse che aveva dichiarato un reddito di 214.401 euro, battendo i colleghi di partito Enrico Gasbarra (138.538 euro) e Walter Veltroni (136.731 euro). All’epoca il deputato poteva contare anche sulla pensione di ex dirigente Enel e su quella di ex consigliere regionale. 

All’epoca ha anche dichiarato due immobili e un terreno a Civitavecchia, una casa in costruzione in Grecia, di cui risultava proprietario per un terzo, oltre ad altri sei fabbricati in comproprietà tra Civitavecchia (2), Allumiere (3) e Tolfa (1), oltre a un ulteriore terreno a Civitavecchia.

Nello stesso periodo è finito al centro di un’inchiesta giornalistica su uno degli immobili di maggior pregio dell'Isma (sigla dell'Istituto Santa Maria in Aquiro), una Ipab (istituzione di pubblica assistenza e beneficenza). L’appartamento, grande circa 130 metri quadrati, era situato nell’esclusiva via del Babuino di Roma, proprio all'angolo con piazza di Spagna. Qui si appoggiava durante la settimana lavorativa Tidei senior, mentre il contratto di locazione era intestato alla moglie. 

Ma in tanti anni di attività, il politico del Litorale Nord, oltre ad aver messo da parte qualche picciolo ha creato un vero e proprio sistema di consenso «clientelare», almeno stando ai video che lo ritraggono in azione nel suo ufficio.

Infatti in uno dei famosi filmati acquisiti dalla Procura di Civitavecchia […] è lui stesso a proclamare: «Io ne ho assunti 4mila, non è che ne ho assunto uno: 4mila!». […] 

Adesso spunta un altro dialogo interessante tra il primo cittadino e l’architetto Alessio Rosa, trentottenne dipendente Enel (la stessa azienda dalla quale proviene Tidei), da lì a poco candidato in una lista civica a sostegno della riconferma del sindaco. L’oggetto della conversazione è una raccomandazione. 

Rosa spiega subito che gli deve chiedere un «favore»: «Io ho mia sorella che ha già fatto l’assesment (valutazione, ndr) nel gruppo Ferrovie dello Stato e mo’ la devono chiama’ pe’ il colloquio… ci puoi mette una buona parola […]». 

[…] Rosa specifica: «Praticamente ha fatto l’assesment online e deve fare il colloquio orale». Il sindaco vuole sapere esattamente di quale società del gruppo stia parlando l’interlocutore. L’architetto mostra il cellulare e Tidei dice: «Damme la cosa precisa, quella che c’hai, che io la rigiro, no?». Il fratello apprensivo aggiunge che il primo step «è andato pure benino».

[…]. Il futuro candidato promette: «Pie’ se me sistemi ‘sta cosa, io…». Tidei si sente quasi sottovalutato: «Ma che te sistemo… a me me fate ridde quanno me… ma se era per me io l’avevo già sistemata… non è che…». Rosa lo asseconda: «Però Ezio, io a Ezio quando gli ho chiesto di me, uno e due, è venuto da te, ha parlato con Vittorio, con I. e loro mi hanno subito chiamato (verosimilmente in Enel, ndr)». 

Tidei: «Sì, sì... lo so. Io ne ho assunti 4mila, non è che ne ho assunto uno… 4 mila!». Rosa va in visibilio: «Ne hai assunti 3.999 più uno (l’architetto indica sé stesso, ndr)».

Tidei: «Ecco, 4mila! Però, poi, nun è che... uno che fa?

Chiede il favore, la cortesia, in maniera pulita. E se possibile, lo fanno, se non è possibile…». Il discorso passa alle successive elezioni, in cui Rosa avrebbe appoggiato il sindaco. «Ricàndidate te. Fronti (Andrea, ex vicesindaco, ndr) non lo candidiamo e me ce metto io. C’hai la parola mia, eh». Il sindaco chiama la segretaria Lorella, chiedendo una stampa di un file che le ha inviato. 

Dopo varie chiacchiere Tidei chiede a Rosa le generalità della sorella, una classe 1997, e altre informazioni, spiegando che è sua intenzione inviare quella nota personalmente e non tramite Whatsapp. Quindi contatta telefonicamente la segretaria di Bruno chiedendo l’indirizzo per far recapitare una busta, all’attenzione della signora.

[…] A quanto risulta alla Verità […], la raccomandazione non avrebbe avuto l’esito auspicato e successivamente l’architetto Rosa avrebbe comunicato, con rammarico, a Tidei la mancata assunzione della parente. 

Ma che il sindaco sia un po’ un Capitan Fracassa lo dimostra anche l’offerta di consulenze al marito di una delle sue presunte amanti. 

L’ingegnere, ieri, con Repubblica, ha ricondotto le proposte di Tidei alla sua attività politica di opposizione con Rifondazione comunista e non ai rapporti affettuosi del primo cittadino con la consorte. Quindi ha aggiunto che «poco tempo fa» gli sarebbe stato offerto un ulteriore incarico, «questa volta coerente con le sue competenze». 

Tidei durante l’ultima campagna elettorale lo avrebbe presentato come «quello che in una zona» di Santa Marinella «si sarebbe occupato del problema» del dissesto idrogeologico. Ma vinte le elezioni sarebbe «sparito». […]

Estratto dell’articolo di Giacomo Amadori e François De Tonquédec per “La Verità” sabato 30 settembre 2023.

L’affaire del video hot del sindaco pd Pietro Tidei di Santa Marinella si è arricchito di un’altra puntata. Venerdì 22, gli inquirenti hanno fatto sequestrare il cellulare del consigliere comunale d’opposizione Roberto Angeletti, che attraverso il suo avvocato aveva ottenuto copia dei filmati (compreso quello hard) realizzati di nascosto in municipio nell’ambito di un’inchiesta per corruzione in cui lo stesso Angeletti è indagato. 

L’uomo è il principale sospettato per la diffusione delle immagini (che ritraggono Tidei «intento a consumare un rapporto sessuale con due donne» si legge nel decreto di perquisizione) e per questo è stato iscritto anche per il reato di revenge porn. 

Ieri pomeriggio, i carabinieri del Nucleo di Civitavecchia hanno sequestrato pure il telefonino della sorella Bruna, una poliziotta in pensione. Angeletti aveva subito ammesso con gli investigatori di aver inviato diversi file, tra cui quello al centro della nuova inchiesta, alla parente, la quale lo avrebbe aiutato ad ascoltare e correggere le trascrizioni […].

[…] Adesso la Procura dovrà verificare che il video sia rimasto all’interno della ristretta cerchia, legittimamente in possesso del materiale e impegnata in indagini difensive. […] Intanto il clamore mediatico causato dalla vicenda ha convinto gli inquirenti di Civitavecchia a correre ai ripari e a chiedere immediatamente un’udienza stralcio per distruggere le intercettazioni non inerenti all’inchiesta per corruzione consegnate ad Angeletti, in un procedimento, lo ricordiamo, innescato dalle confidenze di Tidei al comandante della locale caserma dei Carabinieri. A rischio cancellazione sono le migliaia di ore registrate dalle telecamere fatte installare dagli inquirenti in tre stanze del Comune di Santa Marinella.

[…] Ma la Procura si trova nella morsa Italia viva-Forza Italia, partiti che sono scesi in campo per difendere Tidei da una presunta «barbarie». Lo stesso politico dem ha annunciato di volersi rivolgere al ministro della Giustizia Carlo Nordio. 

In prima fila in questa battaglia c’è Matteo Renzi, che ha arruolato nelle fila del proprio movimento Marietta Tidei, figlia del sindaco e che ha organizzato la festa nazionale di Iv proprio nel Comune di Santa Marinella. Una kermesse inaugurata da Tidei senior, il quale, dal palco sotto il Castello di Santa Severa, ha arringato la platea offrendo come modello e laboratorio politico per l’Italia l’esperienza della maggioranza che governa il suo paese: un Pd alleato con Iv, i centristi e alcuni fuoriusciti di Forza Italia.

A pungolare il fu Rottamatore è stato il sito Dagospia alle 11.10 di ieri, quando ha battuto questo flash, ricordando i legami politici e di amicizia del senatore con la famiglia del politico laziale: «Ma il noto parlamentare di Riad Matteo Renzi, non ha nulla da dire su Pietro Tidei?». L’ex premier, che alle grigie e sorde aule parlamentari preferisce i social, ha subito replicato, senza citare Roberto D’Agostino, e, al solito, ha usato le vite altrui per parlare della propria e frignare. 

[…] Nei video di Tidei, il sindaco parla anche di Renzi. «Marietta non può fare il sindaco» dice l’ex parlamentare. «Conviene andare più in alto» commenta un’interlocutrice. «Dice che Renzi le ha detto che la porta in Parlamento» spiega Tidei e riporta il proprio consiglio alla figlia: «Nun ce anna’ che te pija per culo». E la risposta di Marietta sarebbe stata questa: «Male che vada, vado alla Regione». Come in effetti è avvenuto e dove è diventata capo gruppo di Italia viva, dopo essere stata parlamentare Pd, al posto del padre.

Ma se Renzi, pungolato via Internet, è finalmente sceso in campo a difendere il suo anfitrione, dal Pd continua a non alzarsi una voce sui comportamenti da marchese del Grillo del loro sindaco. L’uomo che promette a tutti aiuti, posti di lavoro, raccomandazioni, interferenze, concorsi su misura e, forse, non mantiene, ma soprattutto che usa le sedi istituzionali come un motel è stato rimosso dal discorso politico della maggioranza, ma soprattutto dell’opposizione. 

Chiacchiericcio politico a parte, resta il fatto che migliaia di ore di video, in pratica un reality show sulla conduzione di una giunta comunale, rischiano di finire in un cestino, ancor prima di una seria valutazione del materiale.

Noi abbiamo già raccontato di alcuni dialoghi quanto meno politicamente scivolosi e, comunque, meritevoli di una verifica da parte degli investigatori di possibili notizie di reato. Ne aggiungiamo oggi uno che riguarda la gara per l’affidamento della spiaggia Perla del Tirreno, la più bella della località balneare. 

Qui, insieme con Tidei, il protagonista è l’ex assessore al bilancio Emanuele Minghella, oggi presidente del Consiglio comunale. Minghella: «Mencarelli (Ermanno, architetto e dirigente dell’ufficio tecnico condoni, reti informatiche e lavori pubblici, ndr) ha parlato con quelli per tre mesi, e quelli non hanno letto il bando?». Tidei: «Secondo me non lo hanno letto». 

Minghella: «Si sono parlati per tre mesi, almeno una volta alla settimana e hanno fatto ‘st’errore, ma guarda un po’». Tidei: «Io conosco Mencarelli, è un figlio di una buona donna che non finisce mai. Ma a Mencarelli questi qui gli mettono solo paura, non li vuole vedere manco scritti». Il dialogo prosegue e a un certo punto Minghella chiede: «E l’errore chi l’ha fatto?».

Tidei: «E chi l’ha fatto, Mencarelli? […]. Ma c’è un bando (urla, ndr), porco… leggete il bando, no?». Poi aggiunge: «Quelli hanno fatto un’offerta senza leggersi il bando. Ti devi leggere il bando se sei un imprenditore serio. Siccome, a quelli, gli è stata data rassicurazione da noi, troppa, e quelli manco il bando si sono letti». 

Minghella commenta, ma la voce è coperta da quella di Tidei, che risponde: «Come no, da noi, certo. Stavamo insieme quando ci abbiamo parlato». Ma il clima che si vive nel Comune di Santa Marinella, in questi giorni, dopo i nostri scoop, assediato dalle telecamere, non deve essere dei migliori. 

Tidei ne parla con una delle sue amiche in uno dei video sotto esame. Il dialogo parte da un esilarante equivoco. La donna ha mostrato una delle case di Tidei a una persona interessata all’acquisto. Ma la richiesta è stata ritenuta troppo esosa dall’aspirante acquirente. E allora per non lasciarla vuota il sindaco propone di metterci un letto per trasformarla in una garçonnière per lui e l’amante.

«Ci sono i letti quelli che si gonfiano, m’hanno detto che so’ tanto comodi» suggerisce la signora. Ma Tidei capisce tutt’altro: «Me gonfiano?». La donna prova a spiegarsi: «C’è sta un letto che se gonfia». Tidei: «Ah pensavo che me gonfiano de botte, “ti gonfiano, ci gonfiano”». Il discorso passa al riposino che il primo cittadino si è fatto all’ora di pranzo. «Sono andato a casa, sì, ma mi sono buttato un attimo sul letto perché mi faceva male la testa» spiega l’uomo. 

«Tu non devi lavorare troppo» gli consiglia l’amica. «Lavoro troppo? Ma non lavorano (i suoi collaboratori, ndr), non fanno un cazzo, ieri sera li ho dovuti strapazzare, stamani li ho strapazzati, ieri sera ho strapazzato praticamente a tutti. Mo’ questi si incazzano.

Mia moglie mi ha detto: “Adesso guarda che questi ti mandano a casa come è successo a Civitavecchia”». Per il primo cittadino quelli che lavorano con lui «non fanno veramente niente». «Chi pensi che faccia qualcosa?» chiede la donna. 

Risposta: «Ma nessuno… io credevo che Minghella che era uno che faceva, non fa niente… robette… tutte cosette così, stronzate. Io pensavo che era strategico e, invece, tutte cosette così…». 

[…] Ma mentre la discussione procede, insieme alle «effusioni», come le chiama Tidei, qualcuno bussa alla porta della sala Romeo. «Sì, chi è?» esclama il sindaco. Che evidentemente ha usato l’ufficio come un albergo mentre qualcuno si aggirava nei corridoi. 

Ora minaccia querele per diffamazione a destra e a manca, ma nel frattempo alla sbarra è finito lui. Ha infatti pesantemente offeso un giornalista, Cristiano Degni. Il primo cittadino, sui social, ha attribuito al cronista, colpevole di criticarlo, «ripetuti insuccessi anche professionali», «profonde insoddisfazioni» e lo ha accusato di essere «artefice di un’informazione distorta, capziosa, non veritiera, strumentale e soprattutto fondata su falsità». Tidei ha anche aggiunto il carico: «Credo che sia arrivato il tempo di rivelare, magari in un pubblico contraddittorio, alcuni accadimenti e comportamenti che lo riguardano, quali alcune sue richieste di denaro che forse dovrebbero essere note a tutti». Quest’ultima insinuazione ha convinto Degni a denunciare il politico e sei mesi fa il pm Alessandro Gentile ha disposto il rinvio a giudizio di Tidei.

Chi paga? Il caso del sindaco di Santa Marinella, la magistratura spara con il bazooka alle formiche: la vita di persone distrutta da audio irrilevanti. Andrea Ruggieri su Il Riformista il 28 Settembre 2023 

Io vorrei sapere come diavolo si fa. Come diavolo si fa a mancare così clamorosamente l’obiettivo dell’azione penale (accertare se vi siano reati e perseguirne gli autori) e a centrarne uno del tutto estraneo, direi quasi opposto, all’azione penale stessa: sputtanare una decina di persone estranee a un’inchiesta, senza che oltretutto la comunità ne tragga minimo beneficio in termini di accertamento di fatti consumati, o meni, da alcuni suoi membri. Perché nella vicenda, diventata tristemente di tendenza nell’Italia in cui il voyerismo è diventato norma di legge e metro di giudizio, che si consuma a Santa Marinella, dove il Sindaco Pietro Tidei è finito da denunciante a sputtanato, assieme a due donne con cui avrebbe avuto dei rapporti sessuali, ci sono di sicuro un colpevole e molte vittime.

Il colpevole è necessariamente il pubblico ministero che dirige l’ufficio da cui, senza dubbio, sono usciti i video che con l’inchiesta guidata dalla stessa procura c’entravano zero, perché penalmente irrilevanti. Le vittime sono quelle che vengono a vario titolo sputtanate. Perché dopo che il sindaco Tidei nel 2022 denuncia un tentativo di corruzione che coinvolgerebbe alcune persone che rivestono anche ruoli istituzioni e politici, la Procura inizia le indagini. Dispone quindi, tra gli altri mezzi di ricerca della prova, l’intercettazione ambientale che viene eseguita anche dentro alcuni locali del Comune di Santa Marinella. Tramite l’intercettazione ambientale vengono captati, come sempre, sia elementi utili di indagine, sia fatti totalmente inutili, che riguardano terzi estranei ai fatti. Tra i fatti del tutto inutili, i famosi video. Chiuse le indagini, il pubblico ministero mette a disposizione degli indagati i file di indagine da lui ritenuti utili e pertinenti al processo. Come diamine finiscono invece quei file, né utili né pertinenti, nel fascicolo, anziché dove dovrebbero finire per legge, cioè in uno speciale archivio da cui nemmeno gli avvocati degli indagati potrebbero estrarre copia?

Non voglio difendere il Sindaco di Santa Marinella (non lo conosco nemmeno) né una libertà di costume sua e di chi ci si intrattiene (che pure, sarebbe possibile), né censurare l’eleganza di chi non pratica astinenza negli uffici in cui lavora, né accusare le persone che egli ha denunciato. Voglio solo dire che trovo barbaro, ridicolo, e delittuoso che certi particolari penalmente irrilevanti ed estranei a un’inchiesta finiscano sui giornali di tutta Italia, con ciò causando, specie in un piccolo centro come Santa Marinella, una eco disastrosa che investe, rovinandole, vite e reputazioni del sindaco stesso e della sua famiglia, delle signore che frequenta nel video, e dei loro mariti e figli.

A contarle, appunto, una decina, messe all’indice per particolari privati che nessuno avrebbe mai dovuto conoscere, e tantomeno conoscere per mano della magistratura. Che dovrebbe occuparsi di reati, non di peccati. E che nella migliore delle ipotesi si dimostra di una negligenza, di una sciatteria, di una disattenzione che davvero fanno tremare i polsi, se pensiamo che è a gente come questa che vengono affidati il perseguimento di reati, ma anche, inevitabilmente, le reputazioni e vite di chiunque finisca sotto le loro grinfie. È vero, in Italia con la scusa dell’interesse pubblico, si è assistito per anni allo sputtanamento di tante persone a mezzo del sistema mediatico-giudiziario. Con la scusa che fossero elementi inscindibili dalle inchieste, nei fascicoli processuali per anni è finito di tutto. Tutto quanto fosse utile non tanto a perseguire reati, quanto a demolire la credibilità del malcapitato di turno, meglio ancora se avversario politico.

Ma questa storia per cui si spara con il bazooka alle formiche, in nome del diritto assoluto di qualche magistrato di sputtanare chi egli creda, intenzionalmente o -come sembra qui- anche solo colpevolmente, deve finire per sempre. A me frega zero se un sindaco ha un’attività sessuale, né se la ha con donne sposate. Non dovrebbe interessare nemmeno a un magistrato, o alla controparte processuale che, nel caso di specie, fa sapere, forse senza rendersi conto delle possibili conseguenze di una tale affermazione, di conservare un’altra pennetta, oltre quella che gli è già stata sequestrata, con le intercettazioni degli incontri del sindaco con le signore.

Sono particolari che non voglio nemmeno sapere. Tantomeno per mano di un magistrato, che così facendo getta nel disordine e nella disperazione una comunità, sputtanandone diversi suoi membri, anziché’ proteggerla da una eventuale corruzione, sempre che vi sia stata, cosa che egli dovrebbe semplicemente e velocemente accertare, in assoluta riservatezza. Lo stipendio, lauto, glielo paghiamo per questo. Non per spargere pettegolezzi che nemmeno al Grande Fratello, della cui divulgazione spero che egli risponda. Davvero il peggio del peggio, questa vicenda. Complimenti.  Andrea Ruggieri

Distrutta la sfera personale, quella affettiva. Intercettazioni selvagge contro sindaco Santa Marinella, contro i veri giustizialisti e contro i finti garantisti: l’editoriale di Matteo Renzi. Matteo Renzi su Il Riformista il 30 Settembre 2023 

Vorrei dare la solidarietà più totale a alla nostra amica Marietta Tidei e alla sua famiglia, costretta da giorni a subire una vergognosa aggressione mediatica. Tidei padre, sindaco di Santa Marinella, ha presentato una denuncia per corruzione. E la conseguenza è che i media da una settimana pubblicano sue vicende personali – che nulla hanno a che vedere con il processo – che causano naturalmente un grande dolore a lui e a tutta la famiglia. La sfera personale, quella affettiva, viene distrutta dalla pubblicazione selvaggia di intercettazioni irrilevanti. E la morbosità con cui qualche giornale segue questa vicenda dimostra il livello di violenza morale che viene esercitata dalla pubblicazione di intercettazioni irrilevanti sul piano processuale ma devastanti sul piano personale.

Mentre abbraccio Marietta e tutta la famiglia Tidei, confermo il mio impegno per combattere contro questo modo di intendere la giustizia. Ho dimostrato che i miei PM hanno violato la Costituzione e la legge e io ho rispettato la legalità: per farlo ho combattuto contro il fuoco amico di chi si professa garantista ma poi mi ha attaccato sugli avvisi di garanzia.

Oggi che ho vinto la mia battaglia, come sanno i lettori de Il Mostro, bene, oggi rilancio! Combatto e combatterò perché non ci sia mai più un caso Tidei. Non mollo di un centimetro: contro i veri giustizialisti e contro i finti garantisti.

Matteo Renzi (Firenze, 11 gennaio 1975) è un politico italiano e senatore della Repubblica. Ex presidente del Consiglio più giovane della storia italiana (2014-2016), è stato alla guida della Provincia di Firenze dal 2004 al 2009, sindaco di Firenze dal 2009 al 2014. Dal 3 maggio 2023 è direttore editoriale de Il Riformista

Corruzione e 'Sex gate'. Chi è Pietro Tidei il sindaco di Santa Marinella protagonista di un video hot: vittima delle intercettazioni non pertinenti al caso

Da un'inchiesta per corruzione ad una per revenge porn. Il primo cittadino che aveva denunciato dei presunti affari illeciti tra tre consiglieri comunali e un imprenditore, si è trovato coinvolto in uno scandalo a 'luci rosse'. Perché quelle intercettazioni non sono state stralciate e sono finite negli atti poi utilizzati dagli avvocati della controparte? Di chi è la responsabilità di quest'ennesimo uso sciagurato della giustizia? Andrea Aversa su L'Unità il 28 Settembre 2023 

Di sicuro Pietro Tidei avrebbe potuto consumare i suoi rapporti sessuali in altri luoghi. Farlo negli uffici comunali di cui è sindaco, non si è rivelata una scelta saggia (anche se in un’intervista a Il Corriere della Sera lui ha parlato di sole effusioni). Tuttavia il caso di Santa Marinella (in provincia di Roma), ha posto di nuovo la questione: l’uso delle intercettazioni. Soprattutto di quelle non pertinenti alle indagini. Facciamo un salto indietro nel tempo. Tidei, non indagato ed eletto con il Partito Democratico, aveva denunciato tre consiglieri comunali dell’opposizione e un imprenditore per presunti affari illeciti. Questo aveva fatto scattare un’inchiesta da parte della procura di Civitavecchia per il reato di corruzione.

Chi è Pietro Tidei il sindaco di Santa Marinella protagonista di un video hot

I magistrati avevano autorizzato la polizia giudiziaria di installare microcamere e microspie nel municipio, con lo scopo di ottenere prove certe ai fini dell’indagine. Solo che i dispositivi avevano registrato anche altro: i rapporti intimi che il primo cittadino, 77 anni, sposato e con quattro figli, avrebbe avuto con due donne diverse. Questi elementi erano stati dichiarati non pertinenti al caso e sarebbero dovuti essere stralciati. E invece erano presenti nel fascicolo dell’inchiesta e legittimamente la difesa della controparte ne è entrata in possesso.

Così, l’indagato Roberto Angeletti, è stato messo sotto indagine anche per il reato di revenge porn (ma il Consigliere comunale ha smentito, a Il Corriere della Sera, sia di essere indagato che di aver diffuso il materiale). Perché quel video è stato reso pubblico diventando oggetto delle principali notizie di cronaca e politica nazionale degli ultimi giorni. E così la vita privata di Tidei è stata spiattellata ai quattro venti. La gogna mediatica si è scatenata tirando in ballo le due donne protagoniste di quelle registrazioni a ‘luci rosse‘ e la famiglia del primo cittadino. Uno sputtanamento totale che ha messo da parte la vicenda dalla quale si era partiti (la presunta corruzione) e lasciato spazio al gossip.

Intercettazioni: dallo stralcio alla gogna

Per quanto la notizia di un sindaco che si diverta nei suoi uffici, sia un ghiotto bottino per i giornalisti, è necessario chiarire di chi siano state le responsabilità dell’accaduto. Come è possibile che quegli elementi da eliminare siano addirittura diventati pubblici? Se il ‘colpevole’ è stato il pm che nonostante la disposizione di stralcio le ha comunque inserite nel fascicolo, giustamente consegnato ai legali difensori dei presunti corrotti, allora le autorità competenti si muovano per chiarire i fatti e accertarne le responsabilità. Lo stesso discorso vale per gli operatori della polizia giudiziaria. Del resto la procura è infatti intervenuta disponendo il sequestro di video e registrazioni non pertinenti. Ma ormai era troppo tardi, la frittata era stata già fatta. Ora, per favore, risparmiateci lo scaricabarile. Perché questo uso della giustizia che colpisce il privato delle persone è davvero vergognoso. Andrea Aversa 28 Settembre 2023

Fulvio Fiano per corriere.it- Estratti lunedì 2 ottobre 2023.

Tutta la città ne parla ancora e ormai nessuno fa più finta di no. Anche perché chi doveva tacere, pure a propria tutela, non lo ha fatto. Quando ormai i buoi sono ben lontani dalla stalla il sindaco Pietro Tidei viene tenuto sotto controllo dai suoi familiari perché non apra più bocca (gli hanno fatto ritirare anche la partecipazione a una trasmissione tv di questa sera). 

Il consigliere d’opposizione Roberto Angeletti si è messo nei guai quando stava forse per uscirne e non risponde più al telefono e anche la donna finita al centro del gossip alimentato dal rivale sul primo cittadino è uscita allo scoperto. Bentornati a Santa Marinella, dove ancora si passeggia in strada con ciabatte e asciugamani ritornando dalla spiaggia e aspettando il prossimo colpo di scena, sicuri che arriverà.

V. C., ha squarciato il velo di dicerie che la circondava esponendosi su Facebook per respingere l’ipotesi che sia una delle donne incontrate dal sindaco in Comune (insieme a quella su presunti favori offerti da Tidei al marito). Al telefono con voce sofferente: «Che succede? Succede che basta sopportare queste voci. Io non ho avuto nessuna relazione con Tidei, andavo in Comune per lavoro e basta. Perché è uscito il mio nome? Perché sono mediatica, conosciuta, volevano colpirmi. Quanto ancora deve durare? La mia carriera è distrutta e non ho colpe». Le attenzioni su di lei erano nate anche per i sospetti sollevati dal suo stesso marito. Il post l’ha alleggerita? «Macché, sono stata una deficiente. Ma non tirate più in ballo la mia famiglia». 

(…) Parole chiarificatrici, e non semplici, Tidei dovrà però trovarle per la seduta del consiglio comunale che potrebbe essere indetta già questa settimana su richiesta delle opposizioni per avere spiegazioni sui suoi colloqui non limpidi (ma già valutati come non rilevanti dalla Procura) con amici, conoscenti, concittadini a cui sembra promettere favori e raccomandazioni.

Passaggi anche questi finiti nell’inchiesta per corruzione alla quale aveva aggiunto nell’ultima fase (e riluttante) la propria denuncia. Quanto ad Angeletti, insieme alla richiesta di processo pendente per corruzione, deve difendersi dall’accusa di revenge porn sul sindaco per aver diffuso i video. Con assoluta incoscienza ne aveva conservata una copia dopo il sequestro e ha ammesso di averli mostrati a sua sorella poliziotta per farsi aiutare nel coglierne meglio il senso. A novembre, forse tardi visto quello che ormai è uscito, il gip deciderà della loro distruzione.

Estratto dell’articolo di Hoara Borselli per “Libero quotidiano” lunedì 2 ottobre 2023.

[…] storie di paventate ritorsioni, presunti scambi di favori, presunte promesse di denaro, filmini hot che girano, latte di asina che insieme ad una pagnotta di allumiere saliranno sul banco degli imputati. Al centro c’è lui, il sindaco di Santa Marinella Pietro Tidei, c’è Fabio Quartieri proprietario del rinomatissimo ristorante “l’Isola del Pescatore” accusato da Tidei di aver cercato di corrompere Roberto Angeletti ed altri consiglieri comunali, con lo scopo di farlo cadere. 

Angeletti non solo è stato denunciato da Tidei e a giorni saprà se verrà rinviato a giudizio per «essere stato corrotto» da Quartieri, ma è ritenuto presunto responsabile della diffusione dei video hot che vedono il sindaco Tidei protagonista. Roberto Angeletti ha deciso di parlare con noi. 

Roberto, lei si trova al centro di questa vicenda per essere vittima di un presunto atto corruttivo e perché ritenuto dal sindaco Tidei, il possibile, se non l’unico responsabile della diffusione dei video hot che lo vedono coinvolto. Prima di iniziare mi dica se lei è veramente in possesso di quei video.

«Certo. Io ho quei video, li ho visionati, ma non solo quelli. Anzi, io credo che quelli siano la cosa meno grave di quello che ho avuto modo di vedere o ascoltare e che riguardano il sindaco Tidei».

Come ne è venuto in possesso?

«Dobbiamo fare un passo indietro. Nel marzo del 2022 io vengo denunciato da Tidei per un presunto atto corruttivo che aveva lo scopo di sollevarlo dalla sua carica di sindaco».

[…] «L’accusa, assolutamente infondata , è che Fabio Quartieri, il proprietario del ristorante l’Isola del Pescatore, avrebbe cercato di corrompere me, il consigliere comunale Massimiliano Fronti e il vicesindaco Andrea Bianchi, con lo scopo di far cadere Tidei dalla carica di sindaco».

Quale sarebbe stato il presunto atto corruttivo che la riguarda?

«Ho ricevuto in regalo da un amico un litro di latte d’asina ed una pagnotta di pane allumiere. Il tutto all’interno del ristorante di Fabio. Nonostante Quartieri non c’entri assolutamente nulla, il solo fatto che questo scambio sia avvenuto nel suo locale, è stato sufficiente per ritenerlo responsabile di corruzione. Quartieri il corruttore ed io il corrotto». 

Dovrà quindi rispondere di questo?

«La denuncia fatta da Tidei è più ampia e come le dicevo non riguarda soltanto me. Anche il consigliere comunale Fabrizio Fronti, il vicesindaco Bianchi e un dipendente della multiservizio Salomone Giuseppe. L’accusa è quella di aver messo in piedi un sistema criminoso per fare cadere Tidei. Sul decreto firmato dal magistrato c’è scritto che noi in un sistema criminoso firmavamo delibere di giunta a Favore di Fabio Quartieri».

Siete stati accusati di favorire con decreti ad hoc, l’amico Quartieri?

«Mi scusi, ma possibile che lo stesso pm, quando rivolge a noi queste accuse, non sappia che le delibere di giunta vengono firmate dagli assessori e le delibere di Consiglio vengono discusse da una maggioranza e poi in Consiglio decidi se votarle o meno?». 

Sa darsi una risposta sul perché Tidei fosse convinto che stavate agendo per farlo fuori?

«Quartieri lo sfiduciò una volta quando era consigliere. Tutto credo sia partito da lì. Ma non solo, dai video in mio possesso, e sicuramente verrà fuori, si sente l’attuale assessore ai servizi Sociali Pierluigi D’ Emilio, ai tempi consigliere comunale, dire al sindaco Tidei: “Fallo assessore Angeletti, così questo ce lo leviamo dal cazzo”».

Lei è certo di aver sentito questo?

«È tutto agli atti. C’è il video. Quello sarebbe stato il modo più semplice per mandarmi via. Mi dimettevo da consigliere, diventavo assessore e a quel punto si sa che il sindaco può decidere sugli assessori e mi avrebbe mandato immediatamente a casa. Il consigliere può mandare via il sindaco, il sindaco può mandare via l’assessore. Capito il gioco?». 

Glielo hanno chiesto poi se voleva diventare assessore?

«Certo che me lo disse. Ma non accettai». 

Torniamo alla storia dei video hot. Lei come ne è venuto in possesso?

«Una volta che mi è stata convalidata la denuncia e arrivata al domicilio ho attivato tutta la procedura giuridica per difendermi. Nel frattempo il pm ha chiesto le misure cautelari per tutti noi coinvolti. Il gip ha smontato tutte le accuse a mio carico, rigettandole al pm. A quel punto il pm, non concorde, si è appellato alla Corte d’Appello e invece delle misure cautelari in carcere mi hanno dato il divieto di dimora che non era esecutivo e avevo dieci giorni per fare ricorso alla Cassazione. Il giudice ha accolto il ricorso, rigettando senza rinvio. Ora il 12 ottobre saprò se sarò rinviato a giudizio. Dico questo per arrivare ai famosi video».

Come li ha avuti?

«Innanzitutto girava voce a Santa Marinella di questi video hot di Tidei . Se ne parlava ancora prima che il sindaco si autodenunciasse. Siccome era un mio diritto l’accesso agli atti che mi vedevano coinvolto, facendo tutto l’iter regolare che la legge ci consente, sono venuto in possesso di tutto quello che riguarda questa vicenda, 25 mila file fra video ed intercettazioni. E tra questi ci sono anche i famosi incontri di sesso di Tidei. Ma le ribadisco che per quanto ho visto e di cui ad oggi non posso parlare, ci sono contenuti che probabilmente lo imbarazzeranno di più di quegli atti sessuali». 

In che senso imbarazzarlo di più?

«Dico penalmente più rilevanti. Perché in fondo fare sesso mica è reato? Certo, farlo nella stanza Comunale... ma di quello mi interessa poco». 

Le interessa poco però si sostiene che lei possa esserne l’artefice della diffusione.

«Io quei video non li ho fatti vedere a nessuno. Dopo tre giorni dall’autodenuncia fatta da Tidei rispetto ai suoi video, ho ricevuto una perquisizione e quei video chiaramente non li ho più solo io. Ma già prima erano agli atti, quindi non sono l’unico. Non capisco il motivo dell’accusa nei miei confronti. Ricordo ancora, quando vennero a casa mia i carabinieri per perquisire il materiale dai pc che mi dissero: “Dai , senza che perdiamo tempo, dacci quella cosa”. Io risposi: “Ditemi voi cosa volete” . E loro: “Dove sono le scopate del sindaco ?” E così consegnai tutto». 

Teme il rinvio a giudizio?

«No, io spero che ciò avvenga. Lo spero perché sarebbe l’occasione per vedere Tidei sul banco degli imputati. Deve pagare per ciò che ha fatto, perché non si può rovinare così la vita delle persone. Io ho le spalle larghe. Ma chi non le ha?».

Estratto dell’articolo di Giacomo Amadori e Francois de Tonquedec per “La Verità” l'1 ottobre 2023.

Se il Pd, a livello nazionale tace, ci ha pensato, con un certo coraggio, il direttivo del circolo dem di Santa Marinella a prendere pubblicamente le difese del sindaco Pietro Tidei, l’arzillo settantasettenne che ha utilizzato le stanze del municipio per consumare rapporti sessuali con almeno due donne. 

Infatti nel loro comunicato si legge: «Il Partito democratico di Santa Marinella, riaffermando i principi di un’etica politica garantista, denuncia ogni tentativo da parte dell’opposizione, dei mezzi di informazione o dei canali social di usare a squallidi fini politici atti e materiali di inchiesta di nessuna rilevanza penale per il sindaco, acquisiti peraltro in modo poco chiaro. Invita perciò gli iscritti e la cittadinanza a prendere le distanze compatti da ogni illecita strumentalizzazione di fatti privati a fini politici».

Contemporaneamente è uscita allo scoperto la donna di cui a Santa Marinella parlano tutti da una settimana, la dirigente scolastica V.C., individuata in paese come una delle amiche del primo cittadino riprese nei video hot. 

La signora ha risposto punto su punto a tutte le insinuazioni che circolano nel borgo. Una piccola realtà dove le voci su una supposta storia extraconiugale tra il sindaco e la preside della scuola possono essere più che destabilizzanti, soprattutto in considerazione delle tante iniziative a cui sono costretti a partecipare entrambi. La signora, dagli sgargianti capelli rossi, ieri su Facebook ha pubblicato un post, per alcune ore visibile a tutti, che dovrebbe mettere la parola fine alla vicenda.

Il titolo è eloquente: «Adesso basta!». «Sono giorni che mi riportano che sui social e sui media si cerca di associare il mio nome e quello di altri in merito a delicati affari giudiziari e vendette rispetto alle quali sono assolutamente estranea. La gogna mediatica è partita e non si ferma», è l’incipit durissimo. Lo sfogo continua: «Non c’è più logica né rispetto per alcuno. 

Molti adorano giocare con parole e allusioni. Tutti sanno che ho costruito con preparazione e fatica la mia posizione e che lavoro senza sosta per rendere le scuole di Santa Marinella e Cerveteri fiore all’occhiello del territorio.

Sono vicina a tutti gli alunni e le famiglie, soprattutto le più deboli. Tutta la mia vita è stata dedicata all’impegno sociale, volontario: non mi interessano soldi né cariche, tra l’altro più volte da me rifiutate. È ovvio che sono la figura ideale per uno scandalo. Il vero problema è che la mia famiglia, semplice e che è sempre vissuta nel rispetto degli altri e per gli altri, sta vivendo un momento durissimo». 

Poi V.C. prende le difese del coniuge, l’ingegnere G.D. il quale, nei mesi scorsi, aveva ricevuto la proposta di una ricca consulenza da 53.000 euro da parte dell’amministrazione di Tidei. Ma la trattativa, «confusa nei contenuti e altalenante nei modi e nei tempi», sono parole di G.D., non si sarebbe concretizzata.

In piena campagna elettorale l’uomo aveva, però, accettato l’offerta, «questa volta coerente con le sue competenze». Sul sito della Sogei, società di informatica controllata dal ministero dell’Economia e delle finanze, dove è il tecnico è impiegato, nell’elenco degli incarichi autorizzati ai dipendenti nel 2023 si legge che G.D. può occuparsi di «analisi del rischio idrogeologico e pianificazione di interventi di mitigazione del rischio, su tutto il territorio comunale, con particolare attenzione dell’uso del suolo». 

Secondo Sogei il compenso lordo sarebbe «in corso di definizione». «Mio marito è uno stimato professionista, integerrimo e leale, non ha mai ricevuto un euro né un incarico di qualsiasi tipo da nessuno (e questo è facilmente dimostrabile)», ha scritto V.C.

sui social. «Il suo rigore morale è noto e comprovato».

Poi il discorso è passato al loro ragazzo, dopo che qualcuno aveva notato la recente assunzione del giovane, con laurea in filosofia e master alla Luiss, presso il gruppo Ferrovie dello Stato, società in cui Tidei vanta importanti conoscenze. 

In uno dei video registrati dalla Procura si sente la preside dire al sindaco: «Hai visto che ti ho mandato una mail de mi fijo…». Ma la signora smentisce ogni ipotesi di raccomandazione: «Mio figlio, posso dirlo con orgoglio, è sempre stato un’eccellenza in tutto: studio soprattutto ma anche sport e volontariato (ha preso il gene dell’impegno gratuito). A 24 anni ha potuto scegliere il lavoro tra tante proposte in virtù del suo curriculum accademico e per le sue innate competenze».

Poi arrivano le minacce: «Credo sia venuta l’ora di mettere fine a questa storia d’infamia e fin da ora, con il mio legale, valuterò attentamente e con determinazione la possibilità di querelare chiunque abbia arrecato o possa arrecare danno alla mia immagine. Non posso entrare, per le mie competenze legali, nel merito degli atti della Procura (che sembrano già divulgati illegalmente ed è previsto l’arresto per la diffusione) non ne sono a conoscenza, né posso visionarli perché estranea a qualsiasi ipotesi di coinvolgimento in fatti penalmente rilevanti. 

Per un semplice cittadino coinvolto in un circo mediatico è difficile difendersi. Farò ogni cosa in mio potere per far pagare chi sta divulgando informazioni arrecando danni enormi a persone che non sanno, neanche lontanamente, cosa sia una truffa, un’aula di tribunale o un atto illecito e che non hanno mai sguazzato nel mondo torbido dell’intrallazzo e del malaffare. Questa è la verità».

Due giorni fa Matteo Renzi era sceso in campo a difesa della privacy di Tidei. Ma non sappiamo se la preside avrà gradito, visto che vede il fu Rottamatore come il fumo negli occhi. Con l’arrivo del governo Draghi scrisse: «Il capolavoro di Renzi: fascisti e fantocci al potere». 

Pochi giorni prima aveva pubblicato un altro aspro giudizio («Renzi è un irresponsabile senza ritegno») e aveva stigmatizzato il «solito mercatino della politica tra fascisti e razzisti da una parte (vedi Salvini e Meloni), i centristi buoni per tutte le stagioni (vedi Forza Italia & co) e i finti democratici che si dicono di sinistra (Pd ed Italia viva) fino ai qualunquisti dell’ultima ora (M5s)». Il sindaco Tidei l’aveva bacchettata: «Analisi totalmente sbagliata. Te la spiegherò un’altra volta. Invece una domanda: ad oggi quale sarebbe per te la soluzione per fare uscire l’Italia da questa profonda crisi?».

Risposta: «Sei tu l’esperto!», accompagnato dall’emoticon che strizza l’occhio.

Ma in questi giorni, a Santa Marinella, non impazza solo il gossip. Le nostre inchieste, che hanno svelato alcuni retroscena più o meno discutibili della gestione del potere da parte di Tidei, hanno scatenato la popolazione del Comune dove il sindaco è stato rieletto al primo turno.

In paese c’è chi ci consiglia di studiare il patrimonio della famiglia, degno di autentico feudatario. Pietro ha intestati dieci fabbricati (senza contare quelli all’estero, tra cui risulta una villa sull’isola greca di Paxos) e nove terreni, la moglie, Maria Concetta Onori, 12 fabbricati (di cui uno a Budoni, in Sardegna) e 26 terreni. E i figli? Ezio, classe 1971, possiede sette fabbricati, Marietta (1975) uno, Sara (1978) due, Gino (1981) nove. 

Ma attraverso numerose società i Tidei conterebbero su molte altre proprietà. Il giornalista Franco Bechis aveva calcolato che fossero riconducibili alla famiglia oltre 130 immobili e più di 80 terreni.

I Tidei sarebbero dietro anche alla fiduciaria Refida con sede legale a Pesaro. E di questo ci sono almeno due indizi. In un’assemblea ordinaria dei soci della North wind, azienda impegnata nel settore dell’energia e considerata la capofila di un’articolata rete di aziende, la Onori partecipò in rappresentanza proprio della controllante Refida. 

L’altra traccia è questa: nel 2017 la North wind ha inviato 130.000 euro sul conto della Refida con causale «rimborso parziale finanziamento soci infruttifero». I soldi sono stati poi girati sul conto personale della Onori. L’operazione sarebbe stata realizzata «per esecuzione di istruzioni del fiduciante», cioè proprio la moglie di Tidei. […]

Estratto dell’articolo di Fabrizio Roncone per il “Corriere della Sera” l'1 ottobre 2023. 

[…] Si arriva dentro questa storia di corna e di politica, di sesso torbido e di ricatti, mentre c’è un bel sole a picco sulla spiaggia del paese: ombrelloni ancora aperti all’hotel Villa delle Palme (il preferito da Giorgia Meloni, paparazzata un paio di mesi fa) e bambini con i ghiaccioli, un mare turchese e sull’Aurelia il traffico d’una paciosa località balneare tornata di botto sulle pagine dei giornali e nei talk tv, e che dovete immaginare ad appena 60 chilometri da Roma e a 40 dalla felliniana Fregene — anche se qui le suggestioni sono diverse: letterarie ed eleganti quelle per Piero Chiara e altre di puro culto cinematografico, pensando a Lando Buzzanca e forse pure di più a Renzo Montagnani, commedie sexy anni Settanta e occhi appiccicati al buco della serratura.

Sindaco, che fa: tocca? Perché il protagonista assoluto di questo scandalo politicamente hardcore è il sindaco Pietro Tidei, di anni 77 (esatto: 77, non è un refuso). 

A lui bisogna poi aggiungere almeno due signore agé […] che non si capisce bene se siano entrate in azione contemporaneamente, per un moderno «threesome», o una per volta. 

Vicenda delicata. Anche perché «i congressi sessuali» (cit) sono avvenuti in una sala del municipio. E tutto è stato ripreso dalle cimici piazzate dai carabinieri su ordine della Procura: i lunghi video, racconta chi li ha visionati, sono very hot.

Se vi state un po’ perdendo, è comprensibile, ecco allora un piccolo riassunto di questa vicenda tirata fuori da La Verità (titolo in prima: «Il bunga bunga, intercettato, del sindaco Pd»), e su cui si sono avventati come piranha decine di cronisti (compreso il tipo che lavora per una tv locale, Lacoste verde zuppa di sudore e capelli appiccicati sulla fronte, di ritorno dalla farmacia Vergati. «Sono andato a chiedere se era vero il dettaglio del Viagra: ma mi hanno sbattuto fuori. Perciò, secondo me, è vero»). 

Partiamo dal personaggio principale: da questo Tidei […] che si muove sul litorale Nord del Lazio come un sultano. Prima avvocato dell’Enel con la tessera del Pci (in seguito Pds, Ds, Pd) e poi collezionando, negli anni, due mandati da deputato per lui (il suo reddito era tra i più alti di Montecitorio: circa 200 mila euro) e uno per la figlia Marietta, quindi tre volte sindaco di Civitavecchia e adesso al secondo giro da primo cittadino di Santa Marinella:

uno di quei politici che l’estate, mentre affronta un piatto di aragoste, si lascia omaggiare dagli elettori, signor sindaco di qua, signor sindaco felice sera, e poi brinda alla loro, una carezza al neonato e un occhietto ai genitori (ma più che ai papà, insinuano perfidi adesso i paesani, alle mamme). 

Tutti a credere che la sua grande passione fosse la politica. E invece.

Comunque: il feuilleton ha inizio con un tentativo di corruzione, dove la vittima sarebbe proprio lui, Tidei. Che si rifiuta di concedere dei «cambi di destinazione d’uso», in un’area dove ha forti interessi un imprenditore piuttosto noto nella zona, Fabio Quartieri, che è anche il proprietario dell’«Isola del Pescatore», un ristorante dove si mangia così e così, noto però perché vi si attovagliavano Totti e Ilary, prima di litigare per i Rolex, e che continua ad essere frequentato da un certo generone romano (però una volta comparve anche Angela Merkel, ordinando spaghetti alle vongole e cappuccino bollente).

Tidei presenta una denuncia […]: c’è un sistema di corruzione, e stanno cercando di mettermi in mezzo, per far cadere la giunta. Dito puntato su Roberto Angeletti, leader rivale del centrodestra, completo di codino e orecchino. 

La Procura di Civitavecchia […] fa riempire di micro-telecamere tutto il comune. Ne piazzano una anche nell’ufficio dove, spesso, si tengono riunioni informali tra consiglieri. Ma non solo: è anche il luogo dove Tidei riceve, diciamo così, le sue amiche. 

Stanza rettangolare, pareti gialle: siamo al secondo piano del municipio. Sulla destra, in corridoio, ci sono un divanetto e una poltroncina in stile Luigi XVI, più comodino, tipo camera da letto.

Un’impiegata, smorfia allusiva: «Il signor sindaco desidera far stare comode le sue ospiti...». Si sprofonda, inevitabilmente, nei doppi sensi. 

La scena si fa strepitosa. Al sindaco sono saltati i freni inibitori. Tutto tronfio ammette di essere lui l’uomo che, da solo, nonostante l’età, giganteggia nei filmati pornazzi, e poi riceve i cronisti in visita guidata: «Ecco, ci sistemavamo su quella poltrona...». 

Però giura pure di non conoscere la donna che l’altro giorno, anonimamente, ha ammesso di aver partecipato a uno degli incontri (eufemismo), suggerendogli, visto il pasticcio, di dimettersi. Fioriscono le ipotesi: il sindaco si era bendato in un gioco erotico? Tutto si svolgeva al buio tipo dark room? Oppure le donne gli si offrono davvero senza neppure presentarsi? 

[…] Il marito di una delle donne […] all’inizio sosteneva di «non essere proprio sicuro» che la signora ripresa insieme a Tidei fosse sua moglie […]. Il pover’uomo girava nei bar del paese bofonchiando: «Le somiglia, ma...». Ma poi è stata lei a confessare. Sì, ti ho tradito. Però, sembra, portandogli a casa una proposta di collaborazione con il comune da 53 mila euro (Tidei, genio).

Va bene: ma la seconda donna? […] Calma.  Ci sarebbe un mezzo appuntamento. Alle 16, davanti allo stabilimento Bartolini (chiuso), con il Castello di Santa Severa che compare, laggiù in fondo, dopo aver costeggiato palazzine di cemento armato e delizie in puro liberty: perché c’è stato un tempo in cui qui venivano in vacanza capi di Stato (Ciampi, Scalfaro, Cossiga) e prima ancora si ricordano lampi di jet set, all’uscita del paese c’è ancora la villa che fu di Roberto Rossellini ed Ingrid Bergman, e arrivavano Vittorio De Sica e Marlon Brando, Alberto Sordi e Monica Vitti.

Ora arriva una Fiat Cinquecento bianca. Il finestrino si abbassa e compare una donna sulla sessantina, cappello calato sui capelli, occhiali da sole. Gelida: «Sono io. Ma niente nome e niente cognome. Soprattutto, niente foto». È come parlare con un fantasma, signora. «Ma io devo dirle solo che il sindaco è una persona adorabile. E che, lo dico da donna, mi dispiace tanto per la moglie». Tira su il finestrino. Sento la fonte che mormora: «Arrivederci, professoressa». Professoressa?

Estratto dell’articolo di Hoara Borselli per “Libero quotidiano” l'1 ottobre 2023.

Nello scandalo che vede coinvolto il sindaco di Santa Marinella, Pietro Tidei, è stato tirato in ballo, per una vicenda di presunta corruzione, il titolare del notissimo ristorante di pesce che si trova a Santa Severa, “L’Isola del Pescatore”, Fabio Quartieri. 

Secondo Tidei la scatola nera di tutta la vicenda si concentra in una storia di presunta vendetta che Quartieri avrebbe macchinato nei suoi confronti, per via di negate sanatorie e concessioni legate all’attività. 

Fabio Quartieri ha deciso di consegnare in esclusiva a Libero la sua verità. 

Fabio, partiamo dall’inizio. Da quanto svolge l’attività nella ristorazione?

«Da 103 anni la nostra famiglia si occupa di ristorazione. Io sono amministratore del ristorante “L’Isola del Pescatore” dal 1992 e in più abbiamo un Hotel, sempre a Santa Severa, di cui anche lì sono amministratore, che è l’ Hotel “Pino al Mare”».

[…] Entriamo nel vivo della vicenda che la lega al sindaco Tidei. Da quanti anni vi conoscete?

«Tidei lo conosco da sempre, siamo cresciuti insieme, andava a scuola al liceo Classico con mio fratello Vittorio, si sono diplomati insieme. Noi lo abbiamo sempre reputato una persona di famiglia, un amico vero». 

Lei ha avuto anche un’esperienza politica legata a Pietro Tadei.

«Sì, io mi sono candidato con Pietro Tidei dal 2005 al 2008 in una lista civica a lui legata. Ho rivestito la carica di assessore allo Sviluppo di grandi progetti».

Lei quindi si riconosce politicamente in un’area politica di sinistra, essendosi candidato con un sindaco Pd...

«No, io e tutta la mia famiglia siamo da sempre persone di idee liberali di centrodestra ma avevo molto apprezzato il programma politico di Tidei, gli riconoscevo una grande capacità politica e veniva dall’essere stato un ottimo sindaco di Civitavecchia. 

Nutrivo una grandissima stima verso la sua persona, come uomo e come politico.

Ero convinto che insieme avremmo potuto sviluppare grandi progetti di crescita per il nostro territorio». 

E invece così non è stato?

«Il nostro percorso politico è terminato nel 2008 con un atto di sfiducia che io ed altri consiglieri di maggioranza e tutto il gruppo di minoranza abbiamo avanzato nei confronti del sindaco».

Per quale motivo lo avete sfiduciato?

«Perchè non c’era più un accordo politico con lui, soprattutto sui grandi eventi, rispetto ai quali spesso eravamo in conflitto». 

Questo episodio ha interrotto il vostro rapporto d’amicizia?

«No, in seguito a questo atto di sfiducia ci siamo chiariti, rappacificati per molti anni, fino a quel fatidico 21 Marzo del 2022 dove è successo inaspettatamente di tutto». 

A breve ci arriviamo a quel giorno. Andiamo passo per passo. Con Tidei siete stati anche soci in affari?

«Sì, siamo stati soci dal ’96 fino al 2008. Pietro Tidei non si è mai occupato di ristorazione ma i suoi figli Marietta ed Ezio per un periodo avevano lavorato all’“Isola del Pescatore”. Erano talmente entusiasti di quella esperienza che anche dopo la fine del rapporto lavorativo abbiamo deciso di aprire un locale insieme. Si trattava di uno stabilimento balneare a Tarquinia […]».

Perché avete deciso di interrompere questo rapporto di affari?

«Avendolo sfiduciato nel 2008, mi sembrava corretto non proseguire con la società. Nonostante ciò,[…] siamo rimasti in ottimi rapporti. Ricordo che gli ho prestato per tre anni un’auto elettrica, una delle prime che uscì. Tidei è stato forse il primo sindaco a girare con un’auto ecologica. Un rapporto veramente idilliaco, tanto che nel 2009 lui stesso mi premiò con una targa che riportava questa scritta “A Fabio Quartieri, l’imprenditore più dinamico e lungimirante del comprensorio, con stima e affetto Pietro Tidei”». 

Un rapporto che si è bruscamente interrotto quel fatidico 21 Marzo del 2022. Cosa è accaduto di così grave per interrompere questo grande rapporto di stima e amicizia?

«Mentre dormivo bello e sereno ho sentito suonare il campanello alle cinque di mattina. Mi sono affacciato alla finestra e ho visto una decina di carabinieri. Circa diciotto erano davanti all’“Isola del Pescatore”, altri sei davanti ad un’agenzia immobiliare di Santa Severa dove sono socio, altri davanti al Castello, altri davanti all’hotel “Pino a Mare” e in più altri in case di consiglieri comunali. Uno il vice sindaco Andrea Bianchi, l’altro Roberto Angeletti, oggi indicato come presunto responsabile della diffusione dei video hot di Tidei, e Massimiliano Fronti». 

[…] «Mi è preso un accidente. Ho subito pensato al peggio, ovvero che uno dei miei figli avesse fatto un incidente. […]». 

Fortunatamente nulla che riguardasse loro. Cercavano lei. Perché?

«Un fulmine a ciel sereno. Ero stato denunciato dal sindaco Pietro Tidei per tentata corruzione. Il tutto è nato da un messaggio sul telefono che ho inviato al consigliere Fabrizio Fronti con scritto “100mila grazie”. Un messaggio che è stato interpretato male. Quei 100mila grazie erano stati letti come 100mila euro». 

Per cosa doveva ringraziare Fronti?

«Fronti era stato indagato per un avvenimento che nulla c’entra con questa vicenda, tutto si è risolto e siccome era stato costretto a dimettersi, una volta tornato in consiglio comunale, quel messaggio significava che ero contento. Era un grazie per esserci ancora. Una persona verso cui nutro una grande stima e quindi quel messaggio era un modo per palesare la mia felicità». 

Quindi lei è stato denunciato perché il sindaco Tidei avrebbe interpretato quel suo slancio di felicità come una promessa di denaro, funzionale a far cadere il sindaco dalla sua carica. Così si legge. Giusto?

«Sì, sono stato accusato di voler corrompere Fronti per sfiduciare Tidei. La cosa assurda è che la giunta conta 21 consiglieri comunali, sette di minoranza e quattordici di maggioranza. Per sfiduciare un sindaco ne servono almeno 4. In sostanza avrei dovuto spendere circa 400mila euro. Una follia anche solo pensarla una cosa del genere. Infatti anche la sentenza di Cassazione ha confermato che non c’erano gli estremi per procedere all’arresto preventivo come era stato chiesto dal Gup». 

Immagino sia stato perquisito.

«[…] Setacciato tutti i pc, i telefoni, e non hanno trovato nulla se non che da delle intercettazioni mi è stato contestato un altro atto corruttivo».

Di cosa si tratta?

«Questa se non fosse vera ci sarebbe da ridere. Una storia dove sono terzo in causa, non coinvolto direttamente. Al consigliere Roberto Angeletti, oggi presunto responsabile della diffusione dei video hot, è stato regalato un litro di latte di asina e una pagnotta di pane allumiere da una persona che non ero io. 

Il solo fatto che questo dono sia stato consegnato all’interno del mio ristorante, mi è costato un’altra accusa di tentata corruzione. Ora per entrambi i due capi di accusa dovrò presentarmi il 12 Ottobre in tribunale dove si capirà se verrò rinviato a giudizio».  […]

Spunta un carabiniere nel caso del sindaco hot. Sarebbe di un ex militare il computer sequestrato nell'inchiesta sui video di Tidei a Santa Marinella. Lodovica Bulian su Il Giornale il 4 Ottobre 2023

Si complica l'intrigo di Santa Marinella, che ha travolto il piccolo comune del litorale romano, insieme con le vite delle persone e delle famiglie coinvolte. La Procura di Civitavecchia è in queste ore a caccia di chi possa aver diffuso un video intimo del sindaco Pietro Tidei che era contenuto agli atti di un'inchiesta per corruzione a cui lui era del tutto estraneo, e che è uscito forse per un errore dalla Procura. Video immortalato all'interno del municipio, dove erano piazzate le microspie degli investigatori che cercavano una presunta corruzione denunciata dallo stesso Tidei - aveva accusato due consiglieri comunali e un ristoratore locale.

La diffusione di quel filmato, denunciata nei giorno scorsi dal primo cittadino, configurerebbe il reato di revenge porn. Sarebbero in corso in queste ore altre perquisizioni per accertare se quel video sia passato attraverso più dispositivi e quali. Con un nuovo colpo di scena che arriva però dai dispositivi già sequestrati o di cui è stata fatta copia nei giorni scorsi. Sono stati acquisiti dai magistrati quelli di uno degli indiziati, Roberto Angeletti, 61 anni, l'uomo che aveva ottenuto legittimamente tramite il suo avvocato gli atti del fascicolo per corruzione, essendo indagato, tra cui era spuntato anche il video «hot» di Tidei. E sulla sorella Bruna, una poliziotta in pensione, a cui sono stati sequestrati telefono e pc.

Il colpo di scena emerge dall'atto che ha fissato il conferimento dell'incarico per la copia forse dei dispositivi della sorella di Angeletti. Perché stando a quanto si legge nella comunicazione, il pc in uso alla donna, non sarebbe di sua proprietà. La proprietà indicata nel documento della Procura è un'altra. Il pc sarebbe di R.B, un nome che corrisponde a quello di un ex maresciallo della stazione di Santa Marinella, non più in servizio lì da diversi anni. Se il nome corrisponde anche alla persona, c'è da chiedersi come mai il pc di un ex maresciallo dei carabinieri fosse in uso alla sorella di Angeletti, che per altro di mestiere fa il tecnico informatico. Resta però anche da capire se la proprietà sia effettivamente dell'uomo o se il nome non sia frutto di una dichiarazione che la stessa donna avrebbe fatto in sede di sequestro, ovviamente tutta da verificare.

Non è l'unico dettaglio anomalo in questa vicenda, che all'inizio sembrava solo un affaire di paese dalle sfumature boccaccesche. Ma che racconta invece risvolti ben più gravi, di come intercettazioni non rilevanti di persone non coinvolte nelle indagini rischino ancora di finire fuori dagli uffici giudiziari. Gli atti non penalmente rilevanti dovrebbero essere custoditi in un archivio digitale riservato della Procura. Gli avvocati degli indagati ne possono avere copia ma solo se autorizzati dal pm, quando quegli atti risultino rilevanti ai fini della difesa. Non certo il caso del video. Eppure Angeletti tramite il suo legale è stato autorizzato dal magistrato ad averne copia. Di mestiere Angeletti non fa solo il tecnico informatico, ma è stato anche consulente di varie Procure nell'installazione di microspie, come lui stesso ha spiegato in diverse interviste. «Io in Procura ero di casa», ha detto in una di queste. Molto ancora resta da chiarire.

Estratto dell’articolo di François de Tonquédec per “La Verità” il 3 ottobre 2023.

Le proposte di guadagni facili fanno gola a molti, in particolare ai vip […]. Negli ultimi tempi […] arrivano dal settore delle criptovalute. Ma spesso nascondono insidie e truffe. Anche Pietro Tidei, il settantasettenne sindaco di Santa Marinella salito agli onori delle cronache per gli incontri hot negli uffici comunali, stando a una registrazione video agli atti dell’inchiesta della Procura di Civitavecchia, si sarebbe fatto ingolosire dalla chimera dei rendimenti esorbitanti. 

L’8 febbraio dell’anno scorso, un uomo attende Tidei nel salottino accanto al suo ufficio in Comune, in cui a volte riceve i suoi ospiti. Il sindaco entra nella stanza ed esordisce così con il suo interlocutore: «Siccome adesso anche la mia famiglia lo vuole fare, non vorrei che mi ammazzano a me, un domani che esplode ‘sta bolla… perché sono tutti convinti, compreso mio genero…».

L’uomo vestito di nero lo rassicura: «Allora, io ho parlato…». Ma Tidei lo incalza, senza lasciarlo parlare: «Esplode e vi arrestano a tutti, ha detto». L’esperto, però, si mostra tranquillo e riprende da dove era stato interrotto e fa sapere: «Allora, io ho parlato con Ezio e con Gino…», ovvero con i figli del primo cittadino. 

Tidei precisa: «Hanno messo cinquemila euro, cinquemila ce li vuole mettere pure Sara, mia figlia». Il suo interlocutore tesse le lodi della società a cui la famiglia dovrebbe affidare alcuni risparmi: «Io spiegato che io […] personalmente la sto vedendo come un’opportunità di una società che mi sembra molto seria, che è in piedi da parecchi anni, che sta facendo questo progetto ormai da due anni e mezzo, in un settore altamente innovativo come quelli delle criptovalute».

Poi aggiunge: «Ci sono dei rischi? Assolutamente sì. È un investimento sicuro al 100%? No». Quindi descrive l’azienda: «È una grossa multinazionale, che lavora in un settore ad alta innovazione. Ad oggi la situazione è ancora in forte sviluppo, in forte crescita e questi sono piazzati molto bene». 

Tidei lo interrompe per sapere il nome esatto della società, che, spiega il misterioso interlocutore, si chiama «Hypertech group». Un nome che una rapida ricerca su Google, permette di collegare a Ryan Xu, fondatore di altre piattaforme di criptovalute e latitante, insieme a un suo socio, dall’inizio del 2021. 

[…] L’interlocutore di Tidei sembra mettere le mani avanti: «Chiaramente uno deve fare una valutazione… che ti ho detto a te? La stessa cosa che ho detto a loro: “Mettete i soldi che non vi servono. Perché i rendimenti sono molto alti, c’è una componente di rischio, ma c’è la possibilità di divertircisi parecchio». 

Tidei è perplesso: «Nel caso mio però voglio capi’ bene, perché a me non me risultano ‘sti 20.000 (la somma investita, ndr). Allora, io c’ho 20.000, tu dici, me ne so’ ripresi…». L’interlocutore annuisce, dicendo: «Tu avevi messo venti». Tidei, a detta del suo consulente, avrebbe più che triplicato il capitale iniziale: «Su quello più piccolino hai 2.553 dollari da prendere […] in quello più grande hai 67.551 dollari». 

Per questo, a un certo punto, l’esponente dem batte cassa con il suo interlocutore, che gli ha appena detto che al momento sta «reinvestendo» tutti i guadagni. «Per prendere questi soldi adesso che dovrei fare? Posso andare al bancomat, andare lì e prendermi i soldi?», chiede candidamente il politico dem.

Il «consulente» risponde: «Non 67.000, tu puoi prendere i rendimenti giornalieri che ti arrivano». Poi aggiunge: «Io ti sto reinvestendo tutto, se tu mi dici “smetti di reinvestire e prelevami 4.000”, sono circa 200 dollari al giorno, tra 20, 21, 22 giorni, io ti posso prelevare 4.000. perché adesso hai rendimenti disponibili zero». 

Tidei: «Ho capito, ma sto reinvestimento nun me da niente subito, no?». «Subito no ti da un aumento dei rendimenti giornalieri», spiega l’uomo, che poi entra nel dettaglio: «Per esempio, tu oggi investi. Questi 167 (il rendimento giornaliero, ndr), domani te danno 75 centesimi in più. Parte un nuovo contratto per 600 giorni». In pratica, stando al racconto, i soldi investiti sono bloccati in una sorta di moto perpetuo che rende impossibile recuperarli, e sarebbero disponibili solo i rendimenti. Tidei sembra confuso: «Questo non l’ho capito, comunque adesso…».

[…] Tidei prende appunti e chiede riservatezza: «Io te chiedo scusa, sai perché? Siccome tu stai a usa’ pure il nome mio, perché è venuto da me Mollica… è andato da mia moglie: “So che voi avete fatto una cosa…”». «Io il nome tuo non l’ho detto, si difende il «consulente» di Tidei. Il sindaco risponde: «A me non me frega niente, però siccome inizia a girare… sembra che dietro questa cosa ci sia Tidei…». Poi, preoccupato, aggiunge: «Se domani esplode ‘sta bolla, dicono: “Tidei ci ha fregato tutti ‘sti soldi”, capito qual è il problema?». Un rischio che un politico non può proprio correre.

Fulvio Fiano per il Corriere della Sera - Estratti il 3 ottobre 2023.

«A giorni presenterò un programma definitivo per i prossimi dieci anni. Questa vicenda non influirà minimamente sulla maggioranza». Una settimana fa, incassata una rinnovata fiducia all’unanimità, il sindaco di Santa Marinella Pietro Tidei si sentiva al sicuro, pur nella tempesta nata dalla rivelazione dei video che lo riprendono in intimità con almeno una donna nelle stanze del Comune. Un video che, a metà novembre, potrebbe essere distrutto su richiesta del pm.

(...)

E, a rileggere la storia politica dei protagonisti, la definizione di «regolamento di conti» non appare fuori luogo. Di Tidei si è già detto: secondo mandato alla guida della cittadina del litorale, un passato da sindaco di Civitavecchia e per due mandati in Parlamento. La precedente esperienza nel municipio di via Cicerone si interruppe per una mozione di sfiducia (nel 2008) firmata dagli amici di allora e rivali di oggi, anche in tribunale, Fabio Quartieri, ristoratore e imprenditore arcinoto in zona, e Roberto Angeletti, eccentrico consigliere d’opposizione.

Tidei rinfaccia ad Angeletti di volerlo far cadere di nuovo, stavolta dai banchi dell’opposizione e per questo, oltre alla presunta corruzione che coinvolgerebbe Quartieri, lo ha denunciato per minacce. Angeletti accusa Tidei di essere l’unico ad aver fatto favori a Quartieri e, in una intervista a Libero , adombra nuove possibili rivelazioni a suo carico: «Questo è solo l’inizio». 

Lo stesso gip invitava all’epoca il pm ad approfondire piuttosto le condotte del sindaco (sul quale però niente di penalmente rilevante è emerso). Tutti a tavola Il fatto è che sembra davvero difficile distinguere chi ha fatto favori a chi e in cambio di cosa. Nella richiesta di rinvio a giudizio per «asservimento della funzione» (ipotesi in cui è stata derubricata l’iniziale corruzione «pura») il pm contesta ad Angeletti di essersi messo a disposizione di Quartieri e delle sue istanze edilizie tra le altre cose in cambio di qualche cena gratis.

Una pratica, questa dello scrocco, che a sentire i racconti in città era comune non solo al sindaco (come rivendicato da Quartieri in un’altra intervista allo stesso quotidiano, ripercorrendo la loro lunga amicizia) ma anche ad altri santamarinellesi in vista, dall’ambito religioso a quello imprenditoriale. «Fiduciosi» sul non luogo a procedere per i loro assistiti in vista dell’udienza preliminare del 12 ottobre si dicono gli avvocati di Angeletti, Giacomo Satta, e quello di Quartieri, Salvino Mondello. «Il mio divorzio si è complicato perché mio marito sospetta che io sia una amante del sindaco», racconta una frequentatrice del municipio. L’annunciato consiglio comunale può essere una catarsi per tanti.

Estratto dell’articolo di Giuliano Ferrara per “il Foglio” il 3 ottobre 2023.

Il sesso perseguitato. Come sempre l’antesignano fu il Cav […] ora è un formidabile sindaco Pd ed ex deputato, il re di Santa Marinella, già primo cittadino di Civitavecchia […] ora nemico di incredibili personaggi con accenno di baffetti e lungo codino e larghi rayban […] che diffondono il revenge video di sue battaglie sessuali private, ha 77 anni, su suolo pubblico […]

Non si capisce. C’è il porno superlibero, i preservativi nelle scuole, la scelta educativa tra maschio e femmina sui moduli di iscrizione, derrate di cialis e di viagra in ogni farmacia, […] si celebra ovunque l’amplesso virtuale, ma quando diventa reale […] si trasforma in un atto degno di censura, irrisione, lazzi, frizzi, moraline varie, e una banale storia di piacere e di corna, due cose da sempre strettamente collegate, forse anche per i cornuti, eccola che diventa materia di processi mediatico-giudiziari. Ma lasciare in pace gli anziani, no?

Stornare lo sguardo voyeur da presunte minorenni e sicuri maggiorenni, da lap dance e divanetti municipali, non sarebbe più tollerante e umano e decente? Persecuzione e perversione sessuale del guardare si intrecciano con effetti maledettamente comici. Dannati, maledetti, capitani di industria, politici, amministratori di ogni genere e di ogni età prediligono il sesso e lo fanno pure strano […] la società li ripaga con le manette, con le accuse, con gli inseguimenti. 

[…] c’è qualcosa che non va, qualcosa di incomprensibilmente morboso e villano in questa caccia al sesso degli altri, compensativa del sesso proprio, sempre un po’ in panne. […] Quando toccò alle cosiddette Olgettine furono fuochi d’artificio, possenti cortei, raccolte di firme contro la furbizia levantina di signore esperte in seduzione degli adulti, ora che tocca alle signore Marinelline, in un delizioso contesto “de sinistra”, ecco, non si muove foglia. […]

Santa Marinella, i video sexy del sindaco Pietro Tidei: sospetti sulla poliziotta e sul maresciallo trasferito. Fulvio Fiano su Il Corriere della Sera il 5 ottobre 2023.

Nel pc sequestrato al carabiniere si cercano le immagini finite erroneamente nelle indagini. Il computer era a casa della sorella del consigliere rivale del primo cittadino, Angeletti 

Una ex poliziotta e un maresciallo dei carabinieri sono al centro degli sviluppi negli accertamenti sulla diffusione dei video che riprendono il sindaco di Santa Marinella, Pietro Tidei, in atteggiamenti intimi con due donne nelle sue stanze nel municipio. Si tratta di Bruna Angeletti, sorella del consigliere d’opposizione Roberto, che rischia il processo per corruzione ed è indagato anche per revenge porn, e di Roberto Bernardini, 53 anni, che per anni è stato in servizio nella caserma della cittadina del litorale romano.

«Una trappola»

A lui i carabinieri di Civitavecchia hanno sequestrato un pc che conterrebbe quei filmati (gli accertamenti sono in corso) e su di lui si concentrano le verifiche nate da una denuncia dello stesso Tidei su una presunta trappola per incastrarlo e costringerlo alle dimissioni. Una vendetta politica e personale nella quale Bernardini avrebbe un ruolo e un interesse perché fu sospeso dal suo incarico a Santa Marinella (anche) su una sollecitazione del sindaco ai suoi superiori, dopo che il maresciallo gli avrebbe fatto pressioni per ottenere un favore di natura strettamente privata.

Gli esami sul pc

Bernardini era ancora in carica quando furono avviate le indagini per corruzione nella quale sono finiti i video e avrebbe curato in prima persona il collocamento delle microspie. Nelle ultime ore sono stati ascoltati dai carabinieri di Civitavecchia gli altri militari in servizio a Santa Marinella allo scopo di ricostruire questi passaggi, mentre viene esaminato il pc. Se emergesse che contiene i file incriminati, anche l’indagine sul revenge porn ai danni di Tidei farebbe passi avanti, perché Angeletti (unico indagato qui) si è finora difeso spiegando di non aver mai inviato quei video, ma di averli solo visionati. Se invece li avesse condivisi, la circostanza andrebbe approfondita.

I video non rimossi

Il sequestro del pc di Bernardini, l’ultimo di una serie di strumenti tecnologici acquisiti nell’inchiesta, è importante anche perché avvenuto in casa della poliziotta oggi in pensione, alla quale era stato già sequestrato il telefono. Roberto Angeletti, per sua stessa ammissione, non solo aveva conservato quei video su una chiavetta usb anche dopo che gli erano stati sequestrati due telefoni e un pc, ma ha poi detto mostrato quelle immagini alla sorella Bruna per avere da lei una consulenza sul loro utilizzo. Risalendo questa catena fino al maresciallo, la procura di Civitavecchia sta ora cercando di chiarire i due dubbi chiave della vicenda.

La denuncia di Tidei

Il primo riguarda il come e perché quelle immagini, irrilevanti nell’inchiesta, siano rimaste nel fascicolo assieme ad altre intercettazioni su presunti favori e raccomandazioni del sindaco, pur prive di sbocchi penali. Si tratta di 4000 ore di girato, dalle quali Angeletti (consulente della procura ed esperto informatico), una volta entrato in possesso del fascicolo come suo diritto, ha potuto estrapolare i frame che inquadrano il sindaco. Sapeva già dell’esistenza di quelle immagini? Qualcuno lo ha guidato nella ricerca? E soprattutto: chi e perché ha piazzato quegli occhi elettronici nelle stanze di pertinenza del primo cittadino? Tidei aveva denunciato un giro di corruzione in comune, inserendosi in una indagine già avviata, e chiamava in causa insieme ad Angeletti e un altro consigliere, anche l’imprenditore Fabio Quartieri. Sarebbero stati tutti d’accordo per far cadere la sua giunta, che ostruiva questo patto illecito, e i video che lo imbarazzano sarebbero così parte di questo piano. 

Giacomo Amadori François de Tonquédec per la Verità – Estratti mercoledì 4 ottobre 2023.

Nell’inchiesta per revenge porn della Procura di Civitavecchia sulla presunta diffusione dei video hot del sindaco di Santa Marinella Pietro Tidei è entrato anche il computer di un ex comandante della stazione dei carabinieri del paese. 

La settimana scorsa, la polizia giudiziaria si è presentata con un decreto di perquisizione a casa di Bruna Angeletti, sorella del consigliere Roberto, indagato con l’accusa di aver fatto circolare i filmati hard. La signora, poliziotta in pensione, è una delle persone a cui il fratello ha chiesto aiuto per controllare il contenuto dei video dell’altra inchiesta che lo vede coinvolto (in questo caso per una presunta corruzione). 

Per tale motivo i magistrati hanno deciso di sequestrare anche i dispositivi elettronici della signora. La quale, nell’occasione, ha precisato: «Non detengo nessuna chiavetta Usb, né tanto meno personal computer. L’unico pc che avevo mi è stato prestato da R. B. e, dopo aver lavorato ad alcuni documenti per conto di mio fratello Roberto, gliel’ho riconsegnato». R. B., come detto, è stato comandante della stazione dei carabinieri di Santa Marinella. «È un amico di famiglia e il computer ce lo ha dato per fare le trascrizioni, non vedo il problema» ci ha spiegato Roberto Angeletti.

Dal verbale di perquisizione apprendiamo anche che R.B. ha consegnato «spontaneamente» il pc ai carabinieri e che ha confermato che «effettivamente lo aveva prestato a Bruna Angeletti e che questa glielo aveva restituito 10/15 giorni prima». 

La donna ha anche riferito che il fratello le aveva inviato, tramite Whatsapp, sul cellulare «vario materiale», ma aveva anche specificato che a suo giudizio non c’era il file ricercato dagli investigatori. Ovvero quello dove il sindaco è ripreso mentre consuma un rapporto sessuale con una cinquantasettenne in una delle stanze del Comune.

Ma mentre la Procura sta setacciando mezza Santa Marinella per impedire l’eventuale ulteriore diffusione del video a luci rosse e i media si concentrano sull’aspetto boccaccesco della vicenda o sulla possibile violazione della privacy del sindaco e delle sue amanti, nessuno sembra interessato al quadro che emerge dalle registrazioni sulla gestione del potere in Comune. Episodi che la Procura non avrebbe ritenuto penalmente rilevanti, ma che noi vogliamo condividere con i lettori affinché ognuno possa farsi un’opinione. Per esempio, oggi, ci concentriamo su una discussione che in altre Procure, magari troppo sospettose, avrebbe potuto far ipotizzare persino qualche reato.

Il 3 marzo del 2022, a solo un giorno dall’aggiudicazione della gara per la gestione durante la stagione estiva dello stabilimento La Perla del Tirreno, Emanuele Minghella, all’epoca assessore alle Attività produttive e allo sviluppo economico di Santa Marinella, si precipita dal sindaco Tidei. I due si chiudono, al buio, nel salottino che il primo cittadino usa per gli incontri riservati e Minghella inizia a parlare del bando: «Quando ci siamo visti da tuo nipote […] avevamo detto che facevamo un’offerta economica e un’offerta tecnica». «Invece», prosegue l’assessore, «lui ha fatto solo economica. A loro li ha fatti lavora’ sull’offerta tecnica, gli ha fatto fa’ un progetto di 70.000 euro per la messa in sicurezza della passeggiata. E, invece, poi ha valutato solo la parte economica». «Lui» è Ermanno Mencarelli, responsabile unico del procedimento (Rup), «loro» sono i titolari della Beach management con sede a Ostia.

Tidei ordina alla segretaria: «Fai venire Mencarelli, ma di corsa», specificando che quanto è successo è «gravissimo». Minghella prosegue: «Gli hanno fatto vede’ pure il progetto in mano, loro erano tranquilli, perché dicono “io offro questo, più 70.000 (del progetto, ndr), arrivo a 350.000 euro”». Quindi l’assessore attacca Mencarelli: «Li ha presi per il culo, perché poi non ha fatto quello che doveva fa’». Davanti all’ipotesi che il tecnico comunale abbia potuto favorire qualcuno Tidei è perplesso, ma Minghella rincara: «Io so per certo che questi (i vincitori, ndr) sapevano ogni cosa che succedeva, più di me». A quel punto il sindaco ipotizza che dietro alla ditta aggiudicataria, la Sophia srl di Catanzaro, ci siano i suoi nemici politici, quelli che ha accusato di corruzione e che, secondo lui, vorrebbero farlo cadere: «Quello è Crosti (gestore dello stabilimento in anni precedenti, ndr), Quartieri, questi qui, so’ sempre quelli». «Ermanno ci ha presi per il culo» attacca ancora un nervoso Minghella.

Tidei ribadisce che «è gravissimo», poi dice: «Io sono disposto a mandarlo via domani mattina». «Ci ha preso proprio per il culo pesantemente, così perdiamo proprio di credibilità» continua l’assessore.  

(...) L’assessore conclude: «Cerchiamo di concentrarci, se c’è un motivo per mandarli via…». Motivo che, però, non verrà trovato. Ieri abbiamo contattato l’ingegner Luca Palazzini, che in questa trattativa avrebbe rappresentato la Beach management. Il quale ci ha spiegato: «Io sono semplicemente un tecnico, un progettista e ho curato alcune cose richieste, sotto il profilo tecnico, che erano previste nel bando di gara. 

Ermanno Mencarelli era il Rup, quindi sia prima della gara, sia dopo, l’ho incontrato per avere delle delucidazioni, come previsto». Poi rifiuta sospetti di combine: «Non mi ha instradato nessuno. Quando faccio le gare raccolgo informazioni e rispondo al bando di gara».

Estratto dell’articolo di Giacomo Amadori per “la Verità” venerdì 6 ottobre 2023. 

«Io i comunisti li conosco bene. Ho vissuto sotto la dittatura di Enver Hoxha in Albania. In quei regimi gli uomini sono sfruttati e se ti metti contro ti uccidono. Tidei è un comunista come loro, uno sfruttatore […]». 

Bashkim Kurtaj per 13 anni ha fatto il factotum nella magione di Pietro Tidei, sindaco pd di Santa Marinella e giura che lui e sua moglie Mira hanno dovuto mandare giù molti bocconi amari. L’uomo, un ex poliziotto, ha 53 anni compiuti a settembre e dopo essersi trasferito a Londra con la famiglia (dove i figli studiano) è tornato da pochi mesi a Civitavecchia per lavorare in ospedale nella manutenzione. 

Ha la faccia da duro, ma quando racconta che cosa avrebbe subito, si commuove e prova a nascondere gli occhi lucidi con la mano callosa. Ma alla fine si scioglie in un pianto liberatorio, ripensando a quello che avrebbero subito i suoi figli a casa Tidei: «Papà, ma dobbiamo per forza vivere così, non c’è un altro modo?» gli avrebbe chiesto un giorno il figlio maggiore. Ma lui, giura, non riusciva a liberarsi del giogo dell’uomo potente pronto a sfoderare tutto il suo carisma per tenere a servizio un’intera famiglia.

«Si arrabbiava, urlava, se non rimaneva qualcuno sempre in casa a fare la guardia. Per questo a volte lasciavamo da soli i nostri figli minorenni. Tutti e quattro insieme saremo andati al mare 7-8 volte in dieci anni» giura Bashkim. 

Che per la famiglia Tidei avrebbe fatto da guardiano, autista, muratore, pastore, giardiniere, elettricista e molto altro ancora: «Zi’ Pietro, come lo chiamo ancora io, ha 40 ettari di terra e non c’è un centimetro che io non abbia toccato. Ma dentro a quella tenuta ho fatto di tutto. E tutto gratis». 

Tidei ribatte […] che in cambio gli concedeva un minuscolo alloggio e non gli faceva pagare le utenze. «Ha un incredibile coraggio. Vorrei che lei vedesse dove faceva vivere quattro cristiani: trenta metri quadrati composti da una cucina con un divano e una piccola camera da letto. Nella parete tra le due stanze c’era una finestrella, sempre aperta, per fare circolare un po’ d’aria».

Mentre non c’era nessuna apertura o lucernario sull’esterno. L’appartamentino era ricavato in fondo alla taverna di zi’ Pietro, in un angolino della casa. Ma come facevate a stare in una sola stanza? Gli occhi di Bashkim si bagnano di nuovo: «I miei figli per quasi dieci anni hanno dormito nell’intercapedine della casa». 

[…]  «Abbiamo fatto una vita da bestie» commenta Bashkim. Ma la sua rabbia è montata solo quando ha letto sul giornale quello che aveva detto Tidei di lui e della sua consorte, mentre veniva registrato dalle telecamere della Procura di Civitavecchia: «Bashkim è stato un mascalzone. Più che lui è stata la moglie. Una mandria di mascalzoni. Se rigirava mi moje… poi mi moje ci piagneva… comunque vabbè, mo va via e pazienza […]. L’hanno cacciato pure dalla Polizia perché rubava. Quindi voglio di’ non è che era uno… poi capirai, in Albania rubano tutti». 

«Mascalzone io? Quando ho letto quello che ha detto mi si è spaccato il cuore. Ero intontito, per alcuni minuti non sono nemmeno riuscito a trovare l’uscita dell’ospedale». Per questo ha deciso che fosse arrivato il momento di chiedere il pagamento di quasi tre lustri di lavoro non retribuito a casa del sindaco. «Mia moglie per cinque anni ha firmato contratti da 20-25 ore di lavoro settimanale, alternativamente con entrambi i coniugi Tidei, sempre come se fosse in prova.

In realtà lavorava 50-60 ore per tenere a posto la casa padronale e quelle delle figlie, in tutto una superficie di circa 400 metri quadrati. E ai Tidei quello che faceva non bastava mai. Mi ricordo una volta che la moglie iniziò a urlare come una pazza e mi disse che aveva litigato con Mira. Io corsi nella cameretta e la trovai che piangeva a dirotto. Ma quale litigio! Le loro non erano discussioni alla pari. Lei aveva solo paura di essere licenziata dalla padrona». 

I turni di lavoro sarebbero stati a volte davvero massacranti. «In occasione di alcune cene elettorali Mira iniziava a lavorare la mattina alla 8 e finiva quasi all’alba del mattino dopo. Ma non ha mai ricevuto nessuno straordinario […]. Anzi no. Una volta la signora le ha dato 10 euro».

Il salario per questi lavori era inferiore ai 900 euro mensili e l’alloggio non era compreso nel contratto e per meritarselo il marito impegnava tutte le sue ore libere per soddisfare le richieste di Tidei e famiglia, anche nei giorni festivi. 

Nei giorni scorsi Bashkim ha inviato al primo cittadino un audio di 20 minuti, un elenco infinito di lavori che non sarebbero mai stati retribuiti: la ristrutturazione completa di un appartamento dietro al ministero della Giustizia a Roma («quando pagava gli altri operai davanti a me, mi sanguinava il cuore»), delle case in Sardegna e al passo del Tonale («intestata a una parente di Tidei»), gli interventi nelle case di Santa Severa («la taverna si allagava ogni anno e bisognava rifare tutto»), di Tolfa, di Allumiere («lì i miei lavori li scalava dal suo affitto»), ma anche nelle abitazioni delle figlie Marietta e Sara: «Quasi gratis anche quelli, a parte una volta che Marietta mi ha pagato per una tinteggiatura esterna».

Il primo cittadino nel video della Procura ammette che il cinquantatreenne albanese era sempre a disposizione: ««Io c’avevo Bashkim che… “Bashkim, vie’ un po’ su” e quello veniva su e faceva. A me Bashkim m’ha messo in mezzo a una strada». 

Infatti nel marzo del 2022 l’operaio ha deciso di andarsene con la sua famiglia e i Tidei, il giorno dell’addio, non li avrebbero degnati di un saluto. Il sindaco, nel filmato, è andato giù duro: «È proprio uno stronzo. Uno stronzo, non capisce niente. È andato dire a mia figlia: “Perché io conosco i segreti di tuo padre”… l’ho mandato un paio di volta a una casetta, lì dove ogni tanto ci vo’ a tromba’, lì a Santa Severa, ma che cazzo vai a dire, scemo. Ma statte zitto».

Dopo aver letto queste frasi ingiuriose, Bashkim ha deciso di chiedere via messaggio 90.000 euro (cifra scesa poi a 30.000) per i lavori mai saldati e pubbliche scuse su un giornale di Civitavecchia. Tidei ha offerto 5.000 euro e un post su social, pur di non lavare i panni sporchi sui giornali: «Io sono disposto a farti un Facebook dove dico che tu sei una brava persona, tu e tutta la tua famiglia, per ridarti quella dignità che tu dici». 

Il testo pensato da Tidei, per l’esattezza, era il seguente: «Leggo con stupore su di un quotidiano che io avrai parlato male di Buskin (Bashkim, ndr) Kurtaj, della sua famiglia e del popolo albanese in una conversazione dalla quale sono state estrapolate volutamente frasi offensive.

Niente di più falso in quanto la famiglia di Buskin è stata una famiglia per bene e lavoratrice verso la quale ho il massimo rispetto, una vera amicizia e gratitudine per l’aiuto che tutti insieme hanno dato alla mia famiglia nei 12 anni di permanenza presso di noi. Tanto mi sono sentito in dovere di affermare per il rispetto loro e di tutta la comunità e il popolo albanese». 

Nei numerosi audio inviati a Kurtaj il sindaco ha anche dato del «mascalzone» a chi scrive e ha negato a ripetizione di aver pronunciato le parole da noi riportate fedelmente.

Quindi ha consigliato a Bashkim di denunciarci: «Io quelle cose non le ho dette perché è il giornalista che mi vuole far fare cagnara con tanta gente, con te e con i miei consiglieri…» ha sostenuto.

Nelle ultime ore, per convincere il suo ex factotum, Tidei ha tentato un’intrepida retromarcia, in cui mancava solo che giurasse di non chiamarsi Pietro: «Non ho detto che sei scemo, ho detto che sei una persona brava e lo ripeto ancora una volta, ho detto cose di cui mi sono pentito, non quella della Polizia e non quella che gli albanesi rubano. Io sono amico di persone importanti in Albania come potevo dire che gli albanesi rubano tutti? 

Questi mi ammazzano… cioè… mi ammazzano… questi si arrabbiano con me…». Poi torna sulle presunte scappatelle: «Antonio (il genero, ndr) un giorno mi disse che tu gli avevi detto: “Io di tuo suocero so un mucchio di cose. Sono pure andato a puli’ la casa dove lui va a fare quelle cose”». 

Dopo aver inviato diversi vocali, Tidei perde la pazienza: «Non ho capito se questo è un ricatto e ai ricatti io non ci sto […]. Se cerchi soldi allora puoi andare tranquillamente a denunciarmi».

In un climax crescente il sindaco prosegue: «Ah Basky, io non so se stai bene de testa, ma quello che hai fatto te l’ho pagato, tua moglie è stata regolarmente pagata, in cambio abbiamo dato la casa gratis, luce, gas, mi pare che quando ve ne siete andati avete fatto una dichiarazione che non avevate più nulla a pretendere». 

Quindi rivendica la regolarità delle buste paga di Mira (non certo di quelle del marito, che non c’erano), la liquidazione e i contributi pagati.

Poi ripensa ai lavori che l’albanese ha effettuato su e giù per l’Italia e azzarda: «Quello credo che è stato abbondantemente ricompensato dall’alloggio gratis che io ti ho fornito». Evidenzia come per 12 anni Kurtaj non abbia mai fatto denunce, non abbia mai parlato di sfruttamento, non si sia mai lamentato. 

Bashkim giustifica la scelta: «Volevo lasciarmi in bonis con un uomo che aveva visto crescere i miei figli e che era molto potente. Ma poi quando ho sentito quello che ha detto di me e di mia moglie non ci ho più visto. Mia figlia mi ha chiamato da Londra per chiedermi se fosse ancora possibile tornare a Civitavecchia dopo quello che aveva letto. La mia consorte si è messa a piangere, i miei parenti si sono sentiti tutti feriti.

Perché noi siamo persone per bene, non abbiamo mai fatto niente di illecito, siamo solo dei lavoratori». Adesso Tidei minaccia di portare gli audio dell’ex collaboratore ai carabinieri. «Chiedi 90.000 euro? Benissimo: vai dal giudice che stabilirà se te li devo, ma tieni presente che ci sono tre registrazioni che rimangono agli atti» e che «questa in Italia si chiama estorsione».

Per poi concludere, con un pizzico di classismo: «Fatti spiegare dal tuo avvocato che cosa significhi». Bashkim ribatte: «Io non faccio estorsioni, voglio solo i soldi che mi spettano da un uomo che si è dimostrato irriconoscente con me e con tutta la mia famiglia. Purtroppo nemmeno i suoi figli, che ho frequentato per tanti anni, hanno ritenuto, dopo l’uscita del vostro articolo con le offese di Tidei nei miei confronti, di farmi una telefonata e di scusarsi per le parole pronunciate dal padre. Sarebbe bastato un caffè per chiudere questa spiacevole vicenda».

Estratto dell’articolo di Giacomo Amadori per “La Verità” sabato 7 ottobre 2023.

L’accusa di presunto «sfruttamento» lanciata su questo giornale da Bashkim Kurtaj, cinquantatreenne albanese, nei confronti del sindaco dem di Santa Marinella Pietro Tidei ha suscitato scandalo in paese. Ma il politico pd, come sempre, ha deciso di usare Facebook per peggiorare la situazione. Soprattutto in considerazione degli audio in cui lui stesso ammette di aver barattato i servigi del suo vecchio factotum con la concessione di un piccolo alloggio. 

«In cambio abbiamo dato la casa gratis», «Hai fatto nel pomeriggio qualche cosa? Mi pare che quello andava abbondantemente ricompensato dall’alloggio gratis che ti ho fornito». E altre frasi così. Ieri sui social ha scritto un lungo post storpiando il nome del suo vecchio collaboratore, chiamato Buskin Kurtay anziché Bashkim Kurtaj. Il titolo del messaggio è: «Le bugie hanno le gambe corte» e prefigura clamorose denunce per associazione per delinquere.

Tidei ricorda che la moglie di «Buskin», Mira, «è stata assunta regolarmente» da sua moglie «come colf e successivamente per un breve periodo come salariata agricola (36 ore settimanali, contributi regolarmente versati)». Il post prosegue: «Per facilitare il lavoro, abitando la mia famiglia in campagna abbiamo messo a disposizione della famiglia Kurtay un alloggio di cui disponevamo per consentire a questa famiglia di abitare sul posto. […] Buskin, all’interno della casa e dell’azienda, si è fatto carico di portare la legna raccolta nell’azienda e provvedere all’allevamento di una decina di galline in proprietà comune. La famiglia Kurtay non ha mai pagato affitto, bollette per le utenze, né altro ancora, perché la disponibilità dell’abitazione si intendeva compensata da piccoli lavoretti a casa Tidei». 

L’ex parlamentare spiega anche perché non avrebbe mai regolarizzato il suo collaboratore: «Buskin ha sempre lavorato come dipendente della ditta addetta alle manutenzioni presso l’ospedale di Civitavecchia, un lavoro regolarmente retribuito […]. Per questo non poteva avere nessun rapporto di lavoro con il sottoscritto essendo lo stesso legato ad un altro regolare rapporto di lavoro».

Una versione che non deve aver convinto gli avvocati del primo cittadino, tanto che a un certo punto il post sarebbe scomparso, venendo sostituito da un altro meno dettagliato su mansioni e salari. In esso il sindaco la butta in caciara arrivando a parlare di un «disegno eversivo» per farlo cadere, di cui questo giornale si sarebbe reso complice. 

Bashkim ci ha spiegato di lavorare per una ditta privata e di fare turni di otto ore. Ma che per 12-13 anni, nel tempo libero (per 4-5 ore al giorno), compresi i due giorni di riposo settimanale, avrebbe fatto il factotum nella tenuta di Tidei e nelle altre sue proprietà. 

In più la moglie Mira aveva sì regolari contratti di lavoro da 25 ore settimanali, ma ne avrebbe svolte in realtà 50-60.

Per questo l’operaio ha chiesto a Tidei arretrati per 90.000 euro. Il sindaco ha dato mandato al suo avvocato Lorenzo Mereu di denunciare Bashkim per estorsione. 

Dai contratti di lavoro che La Verità ha potuto visionare, risulta che nel 2009 Mira è stata assunta dalla consorte del primo cittadino, Maria Concetta Onori, per un anno, per «lavoro domestico convivente» come «collaboratore generico polifunzionale» con mansioni di «pulizia e riassetto della casa, di addetto alla cucina, di addetto alla lavanderia, di assistente agli animali domestici nonché altri compiti nel livello di appartenenza». Il tutto per 812 euro al mese, tra stipendio base e superminimo.

Nel 2010 la Onori firma la proroga. Tra il 2011 e il 2012 scatta un nuovo contratto. Nel 2012 la donna cambia datore di lavoro e la nuova assunzione viene firmata da Tidei e il rapporto di lavoro dura 1 anno e 9 mesi. Nel 2014 arriva un altro contratto a tempo determinato, della durata di 12 mesi, siglato di nuovo dalla moglie del primo cittadino. 

Sempre la signora, nel 2015, con l’entrata in vigore del Jobs act, assume Mira a tempo indeterminato per 36 ore settimanali e il rapporto durerà 6 anni e 9 mesi. Il contratto prevede sempre il periodo di prova e il salario resta più o meno lo stesso di quando Mira lavorava ufficialmente 25 ore: 879,84 euro, la «retribuzione minima mensile» prevista dal contratto collettivo nazionale di lavoro. Alla fine la donna porterà a casa, per 12 anni e mezzo di lavoro, 12.750 euro di liquidazione. Nel contratto firmato con Tidei, dopo i primi accordi di lavoro «convivente», entra in gioco la casa.

Nelle carte è ben specificato quanto segue: «Ella svolgerà il presente rapporto di collaborazione domestica, non in regime di convivenza e la relativa indennità sostitutiva di vitto e alloggio le verrà erogata in natura con la concessione di un appartamento a uso abitativo con incluso il consumo delle utenze. Detto appartamento sarà indipendente, ma adiacente alla casa patronale. Lo stesso dovrà essere utilizzato da lei e dalla sua famiglia». Dunque, prima il contratto prevedeva la convivenza, dopo, invece, l’alloggio, quindi la concessione della casa (per Bashkim un «buco» malsano di soli 30 metri quadrati) era collegata al lavoro di Mira.

Adesso Tidei dice che quel tetto era il pagamento per Bashkim e che questi non poteva essere da lui assunto. Giancarlo Tortorici, avvocato romano esperto in diritto del lavoro, sorride amaro: «Di storie come quella del sindaco ne ho sentite tante. Ma in Italia non è proprio possibile utilizzare un lavoratore offrendogli in cambio una casa in affitto. Nel nostro Paese non vige il baratto. L’operaio poteva essere tranquillamente retribuito con regolare contratto di collaborazione anche se aveva già in essere un ulteriore rapporto di lavoro con una ditta privata […]».

Da laverita.info il 9 ottobre 2023.

Ecco un nuovo video dell'inchiesta di Civitavecchia. Stavolta si può osservare il sindaco di Santa Marinella Pietro Tidei (che non risulta indagato) impegnato nella preparazione di un possibile concorso ad hoc per un giardiniere, nipote di un «compagno» mancato da poco. In questo video l'interlocutore di Tidei è Bartolomeo Bove, in quel momento direttore generale della Multiservizi una partecipata del Comune. 

Il sindaco entra nella sala riunioni dicendo «c'ho un problemino, è una cosa stupida ma te la devo di'». Nel frattempo nasconde il telefonino in un armadio. Bove chiede: «Vuoi che metta anche il mio?» e allunga il cellulare. Nel dialogo Tidei suggerisce anche i nomi della commissione selezionatrice.

A quanto risulta alla Verità i componenti scelti sono stati poi altri. Non si conosce l'esito della procedura. Ecco un nuovo video dell'inchiesta di Civitavecchia. Stavolta si può osservare il sindaco di Santa Marinella Pietro Tidei (che non risulta indagato) impegnato nella preparazione di un possibile concorso ad hoc per un giardiniere, nipote di un «compagno» mancato da poco.

Estratto dell’articolo di Giacomo Amadori e François de Tonquédec per “La Verità” il 9 ottobre 2023.

Ogni volta che si muove il sindaco dem Pietro Tidei fa danni. Lui, uomo di sinistra, erede della storia del Partito comunista, per decenni caposaldo della difesa dei diritti dei lavoratori, con i suoi collaboratori ha dimostrato di essere peggio di un padrone delle ferriere. 

Nei suoi audio, che abbiamo riportato ieri e l’altro ieri, ma anche nei post che il politico  ha pubblicato su Facebook, il primo cittadino ha ammesso di aver pagato il lavoro del suo ex factotum Bashkim Kurtaj, offrendogli «in cambio» l’uso di un mini alloggio, in cui vivevano ammassate quattro persone. I figli, addirittura, erano costretti a dormire nell’intercapedine del muro esterno. 

Ma come ci ha spiegato l’avvocato Giancarlo Tortorici non è possibile retribuire un operaio in questo modo. Nelle ultime ore Tidei ha deciso di fare ancora qualche passo, probabilmente anche questi falsi, verso il bordo del precipizio, un burrone fatto di diritti dei lavoratori conculcati e frasi ed epiteti razzisti (come «zingaro» per riferirsi a personaggi di Ostia o con massime del tipo «tutti gli albanesi rubano») poco degni di uomo che si definisce di sinistra.

Tidei sui social ha raccontato come si sia concluso il rapporto di lavoro con i coniugi Kurtaj, Bashkim e Mira: «A seguito del deteriorarsi dei rapporti tra Mira e mia moglie […] sono state fatte delle riunioni insieme a questa famiglia, il commercialista ha contabilizzato l’entità della liquidazione (17.000 euro) regolarmente versata con assegno e di comune accordo hanno convenuto per il licenziamento della signora Mira». 

Una separazione che in un audio inviato a Bashkim, Tidei descrive così: «Tua moglie è stata regolarmente pagata con assegni, con bonifici e tutto, in cambio abbiamo dato la casa gratis, non hai mai pagato né luce, né acqua, né gas, niente e quindi me pare che quando ve ne siete andati avete fatto una dichiarazione che non avevate nulla più a pretendere […] che hai fatto? Hai fatto nel pomeriggio qualche cosa? E quello mi pare che andava abbondantemente ricompensato dall’alloggio gratis che ti ho fornito». 

In un altro file aggiunge: «Te ne sei andato in bonis, tua moglie c’ha le buste paga, c’ha la liquidazione pagata, i contributi. Tua moglie avendo preso lo stipendio regolare, come da contratto, non doveva avere la casa, la luce, l’acqua, il gas, quello evidentemente era per la vostra presenza lì e (per, ndr) lavorare nell’azienda».

Ieri Tidei ha fatto recapitare a un nostro collaboratore un atto di transazione stragiudiziale […] Per lui è la prova che la pratica Kurtaj sia stata felicemente chiusa nel marzo 2022. Oltre alla liquidazione di 13.733 euro, alla donna vengono riconosciuti 3.741 euro per le «tredicesime mensilità non erogate per le annualità 2009, 2010, 2011 e 2012». 

Riguardo «all’equo indennizzo, a titolo di totale risarcimento danno e quant’altro preteso per il rapporto di lavoro» la signora Kurtaj «riconosce quale maggior beneficio» l’aver avuto per 13 anni in uso l’appartamento e il non aver pagato le utenze. 

In realtà l’alloggio era già stato inserito nei precedenti contratti di lavoro, dove si legge: «La relativa indennità sostitutiva di vitto e alloggio le verrà erogata in natura con la concessione di un appartamento a uso abitativo con incluso il consumo delle utenze». Alla fine i Tidei pagano alla ex «collaboratrice generica polifunzionale» 17.474 euro, di cui 2.100 «compensati» a saldo di un debito che la donna aveva verso la moglie di Tidei, la quale aveva anticipato i soldi per l’acquisto di un’automobile usata.

L’accordo transattivo, che riporta solo il nome della donna e non quello del marito, prevede anche l’«espressa rinuncia a qualunque ulteriore reciproco diritto, anche per danni».

L’atto, però, non sarebbe stato firmato da Mira, bensì dal consorte, il quale avrebbe siglato le pagine con il suo cognome, Kurtaj. 

[…] 

 L’avvocato Tortorici commenta: «In tal caso il documento non ha alcuna efficacia giuridica a livello di transazione e conciliazione nei confronti della moglie. Quindi è da considerare “tanquam non esset” contro di lei.

Ed allora quella scrittura assume valore soltanto per dimostrare la prevaricazione psicologica nei confronti dei coniugi lavoratori e il maldestro tentativo di duplicare, con la concessione dell’abitazione, i pagamenti dovuti per le due attività svolte personalmente e singolarmente dai coniugi. Con una fava i Tidei volevano prendere due piccioni».

I lavori extra sono stati più volte ammessi in audio e messaggi dal primo cittadino: «Kurtaj molte volte mi ha accompagnato in aeroporto […]. Lo stesso Baskhim, all’interno della casa e dell’azienda, si è fatto carico di portare la legna raccolta nell’azienda e provvedere all’allevamento di una decina di galline in proprietà comune […]. La famiglia Kurtaj non ha mai pagato affitto, bollette per le utenze, né altro ancora, perché la disponibilità dell’abitazione si intendeva compensata da piccoli lavoretti a casa Tidei». 

Nonostante tutto ciò il sindaco ha avuto il coraggio di parlare sui social di «offese e calunnie» di Kurtaj, «per le quali oltre alla denuncia penale» sarebbe pronto a chiedere «il relativo risarcimento danni». E ha soggiunto anche questa volta con accenti razzisti: «L’ultima puntata di questi racconti ha visto protagonista un mio ex dipendente che interpreta la parte del “povero immigrato” che insieme alla sua famiglia e ai figli avrei vessato, sfruttato nel lavoro dei campi e persino trattenuto in una sorta di prigione senza porte senza finestre. Le sue lacrime bagnano le pagine della Verità che risulta ormai umida e appiccicaticcia».

Ma prima dell’uscita dei nostri articoli, il sindaco, a più riprese, aveva provato a convincere il vecchio collaboratore di non aver mai insultato né lui, né il popolo albanese e che a mettergli in bocca tali offese saremmo stati noi giornalisti «mascalzoni». 

Insulti che, purtroppo per Tidei, si sentono benissimo negli audio registrati dalla Procura di Civitavecchia. Per far capire a tutti, compresi gli elettori di Santa Marinella, quanto siano spericolate le smentite del loro primo cittadino abbiamo deciso di pubblicare sul nostro sito (laverita.info) sia le frasi pronunciate da Tidei su Bashkim, sia l’incredibile tentativo di negare la realtà dei fatti. Se il politico vale l’uomo siamo contenti di non essere amministrati da lui.

Fulvio Fiano per il “Corriere della Sera” - Estratti il 9 ottobre 2023.

«Domani devi venì a pija le botti... Lo sai, con scritto Borgogna so impossibili da avere... Le rubano». «Guarda è un pensierooo… è unico, Fabiè… unico come te guarda». Le botti da vino sono del 2011 («bellissime... no de più... invece de una me so sbajato… due…»), e l’entusiasmo con cui nel febbraio 2022 avviene questo scambio rivela, secondo la procura e i carabinieri di Civitavecchia, ben più di una condivisa passione da collezionisti. 

«Fabiè» è Fabio Quartieri, titolare del ristorante L’isola del pescatore e al centro di tanti altri interessi imprenditoriali. Il beneficiario del regalo è Giuseppe Salomone, dipendente dell’azienda comunale Santa Marinella Servizi srl: uno dei tre funzionari pubblici che, per l’accusa, erano asserviti a Quartieri assieme ai consiglieri comunali Roberto Angeletti e Fabrizio Fronti.

Gli episodi riportati nella richiesta di processarli per corruzione sono un prequel dello scandalo sui rapporti intimi intrattenuti dal sindaco Pietro Tidei all’interno del municipio. Le immagini di quegli incontri compromettenti sono finiti negli atti di indagine che non sono stati depurati dalle parti irrilevanti, mettendo in una posizione difficile, insieme al primo cittadino, anche gli inquirenti. 

«Tanto ti mando a casa» Quartieri avrebbe cioè «acquistato» i tre per aggirare i veti di Tidei ad alcuni suoi progetti e in ultimo puntava a farlo cadere. 

«Tanto ti mando a casa», urlava al sindaco nel marzo del 2022, al termine di un acceso consiglio comunale. In questa ottica, diversi aspetti vengono ora approfonditi: la mancata distruzione dei video, pur se penalmente irrilevanti, al momento di consegnarli agli indagati, la loro presunta diffusione da parte di Angeletti, la condivisione con sua sorella poliziotta e un ex maresciallo dei carabinieri locali, e infine, una circostanza finora non emersa.

Quartieri viene allertato sulle imminenti perquisizioni da un altro imprenditore a sua volta informato, dice, proprio dai carabinieri di Santa Marinella: «Ci sta un’indagine pesante contro i consiglieri, la prossima settimana, quindici giorni, potrebbe scoppià...».

Quartieri avvicina allora i testi «per redarguirli» e in almeno un caso l’intervento produce un loro ripensamento. 

Il prestito agevolato «Amico mio, ti ricordi quella delibera?», scriveva Quartieri a Salomone, che lo aiutava a reperire atti, gli faceva da consulente sugli abusi edilizi del ristorante e lo consigliava sul mancato pagamento della Tari. «Spero di esserti utile», si sincerava lui. E Quartieri: «Tranquillo, non dimentico, saprò contraccambiare».

Ad esempio facendogli avere un prestito da 20 mila euro a tasso agevolato dalla banca di cui è socio, per l’acquisto di un suv. Angeletti riceve invece il buffet per un’inaugurazione, pane con le sue iniziali e latte d’asina per una cena, astici e champagne a piacere e lavora per Quartieri senza sosta: l’inserimento del ristorante nel percorso dei bus turistici, la pulizia a spese del comune della sua spiaggia, il mantenimento a uso esclusivo dei clienti del parcheggio vicino al castello di Santa Severa, il via libera a dei fuochi d’artificio oltre a seguire da vicino il cambio di destinazione del residence Pino al mare che Quartieri vorrebbe trasformare in appartamenti. 

(...)

Demba Seck.

Estratto dell’articolo di Elisa Sola per "la Repubblica" sabato 11 novembre 2023.

«Racconto la mia storia non per me, ma per le altre. Le ragazze a cui potrebbe capitare quello che è accaduto a me. Io ho denunciato, subito. È quello che bisogna fare. E vado avanti a testa alta. Non mi vergogno di nulla. Non sono io quella che deve farlo.

Nessuno deve permettersi di giocare con il corpo e i sentimenti degli altri». 

Parla per la prima volta senza chiedere l’anonimato, Veronica Garbolino, 23 anni. È lei la ex ragazza di Demba Seck che ha denunciato per revenge porn il calciatore del Torino, dopo avere scoperto di essere stata filmata di nascosto durante un rapporto. Dopo undici mesi dalla querela, il gip di Torino ha archiviato l’indagine dopo che lei ha firmato un accordo economico con il giocatore. 

Inoltre, la procura di Milano indaga sul comportamento del pm che avrebbe, secondo la tesi dell’accusa, cancellato dal cellulare dell’attaccante granata i filmati intimi.

Veronica, perché rende pubblica la sua vicenda?

«Vorrei che leggendola, anche solo una ragazza trovasse il coraggio di denunciare. So che molte hanno subito quanto è successo a me e non lo fanno per imbarazzo. Altre hanno paura. Io lo sapevo già prima di denunciare che mi avrebbero affibbiato la parte della ragazza facile. Ma sono andata avanti».

Si riferisce allo stereotipo della ragazza immagine, che lei faceva nella discoteca in cui conobbe Seck?

«Anche. Le dicerie, comunque, mi scivolano addosso. Ho studiato al liceo economico sociale. Ho sempre lavorato. Sono andata da sola a denunciare Seck. L’importante è che chi ha commesso un reato paghi. Nel mio caso, purtroppo, non è andata così». 

Come si è sentita dopo avere saputo dell’archiviazione dell’inchiesta?

«Delusa. Speravo che un fatto del genere generasse un movimento anche a livello di opinione pubblica. Questa cosa mi ha segnata per sempre».

[...]

Ricorda il giorno della denuncia?

«È stato un bel momento. Il maresciallo di Ciriè, dopo avermi ascoltata, mi ha detto: Veronica, stai tranquilla che faremo tutto il possibile per farti avere giustizia. Con il pm invece è andata diversamente...». 

Le ricordo che il pm è innocente, fino a prova contraria.

«Sto solo raccontando che mi ha suggerito di non procedere oltre. Diceva che avrei potuto ottenere una lettera di scuse da Demba Seck, che il processo sarebbe stato pesante. Mi ha scoraggiato a lottare».

È per questo che ha firmato la transazione tombale con Seck?

«Non posso parlare di quell’accordo». 

Perché è andata negli Usa?

«Sentivo il bisogno di volare via. Qui a Los Angeles sono lontana da tutto».

Estratto dell’articolo di Elisa Sola per “la Repubblica” domenica 24 settembre 2023.

Prima, lo sfogo sulla prestazione sportiva: «Oggi ho giocato male». Poi, l’invio all’amico di un video che immortala un rapporto sessuale avvenuto con la ex. All’insaputa di lei. Girato di nascosto. «Ahahahha ». «Che animale». «Figa questa però ». 

E alla pioggia di messaggini su WhatsApp, l’attaccante del Toro Demba Seck risponde all’amico, con cui si sta organizzando per passare la serata: «Si fra». «Questa sera mangiamo ancora». Eccola, la chat del 18 settembre 2022 che prova il revenge porn. […]. L’ex, che non gli aveva mai dato il consenso per essere ripresa. 

Soltanto dopo la fine della relazione con Seck, […]L’attaccante le aveva mandato uno di quei video girati di nascosto. Lei aveva avuto paura. E lo scorso gennaio aveva denunciato tutto ai carabinieri, sperando che si trattasse soltanto di una minaccia. L’indagine ha fatto emergere che invece era realtà. Che i video erano stati spediti. […] 

Ora, questo caso rischia di essere archiviato, come richiesto dalla procura di Torino al Gip. La richiesta, che risale alla fine di luglio, è firmata dal pm Enzo Bucarelli, che risulta indagato a sua volta dalla procura di Milano per depistaggio e frode in processo penale. 

Riguardo al magistrato, agli inquirenti milanesi era arrivata una segnalazione in cui lo si accusava, forse perché tifoso del Toro, di aver cancellato durante una perquisizione i video incriminati di Seck. Va precisato che Bucarelli, in uno degli atti, aveva verbalizzato di avere eliminato i video perché a quel punto ai fini dell’indagine non sarebbe più stato utile conservarli.

La richiesta di archiviazione fa leva su una transazione economica che la ex di Seck ha firmato, la scorsa primavera, quando ancora non era a conoscenza di tutti gli elementi dell’inchiesta. Quando ancora non sapeva che ci fosse la prova della condivisione dei video. Solo le minacce di divulgarlo. La ragazza non può parlare con nessuno di questa vicenda. Fa parte dell’accordo. Così come farebbe parte di quest’ultimo rimettere la querela contro Seck. 

Tutto inizia in discoteca. Lei fa la ragazza immagine. «Un anno fa  […] Fino a settembre ci sentivamo in maniera sporadica su Istagram. Fino a quando non mi ha invitata a una sua partita, Torino Sassuolo, il 17 settembre 2022».

«Da quel giorno ci siamo incontrati altre volte — è quanto segue — . Mangiavamo fuori, dormivo spesso da lui. Lo accompagnavo agli allenamenti e facevamo sesso. Il 20 ottobre ho deciso di terminare questa frequentazione, perché avevo capito di essere stata presa in giro. Lui da me voleva soltanto sesso e io volevo una relazione diversa, perché iniziavo ad affezionarmi».

È novembre del 2022. Il calciatore tenta di incontrarla di nuovo. Per quattro volte. Il 22 gennaio Seck è in discoteca. […]«Seck mi ha mimato il gesto del taglio della gola minacciandomi — aveva riferito lei ai carabinieri — dicendo di non parlare di lui in giro».  

Il 24 gennaio la ragazza riceve dall’attaccante un messaggio: «Continua a parlare, mi raccomando». E dei video. In quei video c’è lei, ripresa mentre fa sesso. «Mi sono sentita pietrificata. Ero incredula. Impietrita, imbarazzata e scossa e terrorizzata», aveva detto ai carabinieri, aggiungendo: «Temo che possa mandare quei video in giro».

Estratto dell'articolo di Monica Serra per la Stampa domenica 24 settembre 2023.

Se a influire sulle sue azioni sia stato il tifo sfegatato lo potranno stabilire solo le indagini. Certo, a favore del pm Enzo Bucarelli non sembrerebbe deporre il grande Toro appeso alle pareti del suo ufficio, al sesto piano del palazzo di giustizia. 

Proprio sulla sua scrivania, tempo fa, è finito un esposto della ex fidanzata dell'attaccante senegalese del Torino, Demba Seck, che accusa il calciatore di revenge porn. E proprio per via della gestione dell'inchiesta, […] Bucarelli è stato iscritto nel registro degli indagati dalla procura di Milano, che ipotizza l'accusa di frode in processo penale e depistaggio. Un'accusa grave che, se confermata, può essere punita con pene fino a 12 anni di reclusione.

Tutto inizia con l'esposto presentato dalla ex del calciatore […] Non accettando la fine della relazione, l'attaccante ventiduenne avrebbe minacciato la ragazza di diffondere un video che immortalava momenti intimi della coppia. Un filmato […] che quest'ultima avrebbe depositato con l'esposto.

Aperto il fascicolo e avviate le indagini, Bucarelli ha deciso di perquisire l'appartamento del calciatore. […] da quel che emerge, ma è tutto da confermare, Bucarelli avrebbe avvisato l'agente di Seck. Tanto che all'arrivo di Gdf e carabinieri, in casa del calciatore del Toro sarebbero già stati presenti i suoi legali. 

Ma c'è di più. […]Con gli investigatori, a perquisire Seck si è presentato anche Bucarelli che, davanti agli occhi increduli di carabinieri e Gdf, avrebbe cancellato il video incriminato dal cellulare del calciatore. Non solo dalla memoria dello smartphone. Anche dalla cronologia delle chat, in cui il ventiduenne aveva già inviato ad alcuni amici il filmato.

Da quel che trapela, Bucarelli […] per giustificare la scelta, avrebbe sostenuto che non c'erano «esigenze investigative» perché quel video era già in possesso della procura, in quanto depositato dalla presunta vittima. Dopo la perquisizione, è stata la Guardia di finanza a presentare alla procuratrice vicaria, a capo del pool anticorruzione, Enrica Gabetta, una relazione di servizio, che raccontava l'accaduto. La aggiunta ha così trasmesso gli atti al procuratore generale Saluzzo.

Che, a sua volta, ha inviato tutto alla aggiunta Tiziana Siciliano, che nella procura milanese guida il pool reati contro la pubblica amministrazione. E, molto probabilmente, anche al procuratore generale di Cassazione, che deciderà se esercitare anche l'azione disciplinare contro il magistrato. […]

Elisa Sola per repubblica.it - Estratti lunedì 25 settembre 2023.

«È successo anche a me. Spero che questa ragazza mi contatti. Sono pronta a testimoniare per lei». C’è un’altra persona, oltre alla commessa di 22 anni di Torino, che sostiene di avere avuto una relazione con il calciatore del Toro Demba Sek, indagato per revenge porn dalla procura che ha tuttavia chiesto per lui l’archiviazione. 

Questa persona sostiene – anche lei – di essere stata ripresa dal giocatore senza consenso durante momenti di intimità. E ha scelto di pubblicare, mostrando volto e nome, un lungo video su TikTok. Un video dove, dietro di lei, sullo sfondo, compaiono screenshot di conversazioni su Whatsapp nelle quali non si vedono i nomi di mittente e destinatario. 

La “tiktoker” afferma che quei messaggi – anche intimidatori – siano stati mandati a lei dall’attaccante granata due anni fa, al termine della loro presunta relazione. Vero o no, tanto basta per infiammare il dibattito sul Metoo. Il suo video è stato inoltrato tremila volte soltanto su Tik tok. I commenti sono circa duemila. E la polemica sul revenge porn, reato odiosissimo ma molto diffuso specie tra i giovani, riesplode sui social. 

A garanzia di Seck va precisato che questa ragazza potrebbe essere inattendibile. Nessuno – per ora - ha verificato il contenuto delle sue accuse. Nemmeno la magistratura perché, come lei stessa dichiara, non è mai stata inviata una denuncia contro Seck (ora sarebbe comunque troppo tardi). 

(...)

Il video dell’altra presunta ex di Seck è stato pubblicato circa due settimane fa. E continua a dare vita a una serie di commenti. «Io ormai non posso più denunciarlo – dice la tiktoker - perché sono passati due anni dai fatti. Mi sento molto in colpa per non averlo fatto. Se lo avessi denunciato quando è successo, magari quella ragazza non avrebbe provato quello che ho provato anch’io due anni fa».

E ancora: «Per me è difficile parlarne ma ci tengo a farlo», afferma la tiktoker nella prima parte del video, nel quale Seck non viene mai citato ma allusioni e riferimenti a lui sono inequivocabili. «Circa due anni fa lo frequentavo – racconta la giovane – quando ci siamo lasciati mi ha detto che mi aveva fatto dei video intimi di nascosto, con me. Mi ha anche scritto che non li avrebbe mandati a nessuno, che sperava che io avrei apprezzato la sua sincerità. E che sperava che io fossi contenta di avere fatto quello che avevo fatto con lui, perché lui è uno che gioca in prima squadra e che diventerà famosissimo». 

La tiktoker prosegue. Spiega di avere chiesto i video intimi al giocatore ma di non averli ottenuti. «Avevo intenzione di denunciarlo dopo avere ottenuto più prove possibili – è la conclusione - ma mi sono resa conto che lui veniva trattato in modo diverso da tutti gli altri. Una volta, durante il lockdown, era in giro in centro senza mascherina ma i poliziotti anziché fargli la multa gli hanno detto “solo perché sei tu, ti lasciamo andare”. Ora che so che lui è stato accusato dalla sua ex fidanzata – dice – mi sento di spiegare che non lo avevo denunciato perché avevo paura. Io non ero nessuno, lui sì. Adesso però mi sento molto in colpa per non averlo fatto».

Estratto dell'articolo di Monica Serra per la Stampa giovedì 31 agosto 2023.

Se a influire sulle sue azioni sia stato il tifo sfegatato lo potranno stabilire solo le indagini. Certo, a favore del pm Enzo Bucarelli non sembrerebbe deporre il grande Toro appeso alle pareti del suo ufficio, al sesto piano del palazzo di giustizia. 

Proprio sulla sua scrivania, tempo fa, è finito un esposto della ex fidanzata dell'attaccante senegalese del Torino, Demba Seck, che accusa il calciatore di revenge porn. E proprio per via della gestione dell'inchiesta, […] Bucarelli è stato iscritto nel registro degli indagati dalla procura di Milano, che ipotizza l'accusa di frode in processo penale e depistaggio. Un'accusa grave che, se confermata, può essere punita con pene fino a 12 anni di reclusione.

Tutto inizia con l'esposto presentato dalla ex del calciatore […] Non accettando la fine della relazione, l'attaccante ventiduenne avrebbe minacciato la ragazza di diffondere un video che immortalava momenti intimi della coppia. Un filmato […] che quest'ultima avrebbe depositato con l'esposto.

Aperto il fascicolo e avviate le indagini, Bucarelli ha deciso di perquisire l'appartamento del calciatore. […] da quel che emerge, ma è tutto da confermare, Bucarelli avrebbe avvisato l'agente di Seck. Tanto che all'arrivo di Gdf e carabinieri, in casa del calciatore del Toro sarebbero già stati presenti i suoi legali. 

Ma c'è di più. […]Con gli investigatori, a perquisire Seck si è presentato anche Bucarelli che, davanti agli occhi increduli di carabinieri e Gdf, avrebbe cancellato il video incriminato dal cellulare del calciatore. Non solo dalla memoria dello smartphone. Anche dalla cronologia delle chat, in cui il ventiduenne aveva già inviato ad alcuni amici il filmato.

Da quel che trapela, Bucarelli […] per giustificare la scelta, avrebbe sostenuto che non c'erano «esigenze investigative» perché quel video era già in possesso della procura, in quanto depositato dalla presunta vittima. Dopo la perquisizione, è stata la Guardia di finanza a presentare alla procuratrice vicaria, a capo del pool anticorruzione, Enrica Gabetta, una relazione di servizio, che raccontava l'accaduto. La aggiunta ha così trasmesso gli atti al procuratore generale Saluzzo.

Che, a sua volta, ha inviato tutto alla aggiunta Tiziana Siciliano, che nella procura milanese guida il pool reati contro la pubblica amministrazione. E, molto probabilmente, anche al procuratore generale di Cassazione, che deciderà se esercitare anche l'azione disciplinare contro il magistrato. […]

Ci mancava soltanto il magistrato ultrà. Tony Damascelli l'1 Settembre 2023 su Il Giornale.

Com'è la storia dell'accecato dalla gelosia? Qui trattasi di uno accecato dal tifo per la squadra di pallone, il vecchio cuore granata ha creato problemi non a uno qualunque ma addirittura un magistrato

Com'è la storia dell'accecato dalla gelosia? Qui trattasi di uno accecato dal tifo per la squadra di pallone, il vecchio cuore granata ha creato problemi non a uno qualunque ma addirittura un magistrato, pubblico ministero, Bucarelli Enzo, il quale, come riporta La Stampa, è finito indagato dalla Procura di Milano con l'accusa di frode in processo penale e depistaggio, la pena prevista dal codice è di anni dodici. Ma che c'entra il Toro, nel senso di squadra granata di football? C'entra eccome, o meglio c'entra un suo calciatore, Demba Seck, senegalese di anni ventidue, pure lui accecato ma dalla gelosia al punto da filmare alcune scene private e intime con la sua fidanzata, la relazione si sarebbe interrotta e il calciatore, per vendetta e gelosia, avrebbe minacciato la ragazza di diffondere il video comunque a lei inviato. La stessa «ex» aveva deciso di denunciare l'accaduto, depositando il filmato e così facendo scattare le indagini.

La pratica è finito sulla scrivania del Bucarelli che, dicono, sia, nei corridoi del tribunale, un curvaiolo granata e nel suo ufficio brilla la fotografia della squadra, in un quadro appeso al muro. A questo punto il magistrato ultras è sceso in campo, anzi nell'appartamento del senegalese allertando il procuratore, non di giustizia, ma agente del calciatore che la vicenda stava prendendo una brutta piega. Non è finita, quando carabinieri e finanzieri si sono presentati nell'alloggio si sono trovati di fronte già schierati i legali di Demba Seck e, completare la scena, il Bucarelli medesimo.

Stando sempre al racconto de La Stampa, il magistrato avrebbe prelevato il cellulare del calciatore cancellando le immagini incriminate anche dalla memoria e dalla cronologia del telefono. Dinanzi allo sconcerto degli astanti, il magistrato ha spiegato come non esistessero esigenze investigative dal momento che il filmato in questione era già in possesso della Procura. Pensava, il Bucarelli, di avere chiuso la partita con quel golden gol ma gli ufficiali della Guardia di Finanza sono andati ai supplementari e hanno compilato la relazione dei fatti presentandola al capo del pool anticorruzione, Enrica Gabetta, da qui al procuratore generale Francesco Enrico Saluzzo e da costui a Milano, a conoscenza di Tiziana Siciliano a capo del pool reati contro la pubblica amministrazione, in ultimo il procuratore generale della Cassazione che potrebbe provvedere a una sanzione disciplinare. Torino si agita per un'altra storia buffa, dopo i pettegolezzi Seymandi-Segre, qui siamo dinanzi al togato con bandiera granata al vento, un po' troppo accecato dal tifo per un episodio erotico rivisto al Var e cancellato dall'arbitro. Roba da espulsione e squalifica. Senza appello.

Quando le ex si vendicano con la musica: cosa sono le "revenge song". L'ultima canzone di Shakira contro l'ex Piqué è solo uno dei tanti esempi di revenge song, il fenomeno musicale che vede i testi delle artiste riempirsi di frecciate e provocazioni contro gli ex. Novella Toloni il 19 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Da Shakira a Miley Cyrus, da Beyonce a Taylor Swift. Guai a fare infuriare una ex, soprattutto se è una cantante. Il passo da una hit a una revenge song è breve. Anzi brevissimo. Mettere in musica (e perché no in rima) tradimenti, bugie e questioni personali sembra essere di gran moda ultimamente, ma il fenomeno delle revenge song ha radici ben più lontane dell'ultimo brano, nel quale Shakira ne ha cantate quattro all'ex compagno, Gerard Piquè.

Taylor Swift

Il "la" al trend della vendetta musicale lo ha dato Taylor Swift, che nel corso della sua lunga carriera si è vendicata di fidanzati, manager, amici e addirittura colleghi (ne sanno qualcosa Katy Perry e Kanye West) scrivendo canzoni e interi album prendo di mira chi l'aveva ferita. Da a "Picture to Burn" (2006) in cui canta: "Sono solo seduta qui, pianificando la mia vendetta. Non c'è niente che mi impedisca di uscire con tutti i tuoi migliori amici". A "All Too Well" (2012), nella quale la cantante si vendicava dei tradimenti dell'ex Jake Gyllenhaal, punzecchiandolo sulla sua età: "Le tue amanti avranno sempre la mia età"). Fino a "Bad Blood" (2015) e "Look What You Made Me Do" (2017) scritte rispettivamente contro Katy Perry, Kim Kardashian e l'ex marito. Insomma, Taylor Swift ha fatto delle revenge song un suo marchio di fabbrica (non per niente è stata sopranominata la Queen of Revenge Pop), arrivando addirittura a dedicare un intero album - "Midnights" - al tema della vendetta.

Beyoncé

Anche la popstar Beyonce ha dedicato un album all'argomento, ma nel suo caso lo sfogo contro il marito Jay Z, è servito a metabolizzare e superare la crisi, visto che la coppia è sopravvissuta a "Lemonade". Nell'album del 2016, Beyonce si è presa gioco del rapper, colpevole di averla tradita in più di una occasione, in un viaggio catartico attraverso i testi di brani come "Déjà Vu", "Ring the Alarm" e "Irreplaceable", in cui sfogava tutta la sua rabbia. Celebre il video di "Hold up", nel quale la cantante americana veste i panni di una donna tradita, che sfacia l'auto del compagno fedifrago con una mazza da baseball.

"Fa sentire insignificanti...". Nuova stoccata di Shakira all'ex Piquè

Selena Gomez

Tra le popstar più rancorose, che hanno fatto delle revenge song un loro cavallo di battaglia, c'è anche Selena Gomez. E il destinatario della vendetta in rima è stato l'ex fidanzatino Justin Bieber. In "Lose you to love" (2019), l'artista accusa la popstar di averla presa in giro e di averla ridotta uno straccio: "Mi hai promesso il mondo e io ci sono cascata. In due mesi ci hai sostituito, come se fosse facile. Mi hai fatto pensare di essermelo meritato. Avevo bisogno di odiarti per amarmi. E ora è un addio per noi". Ma anche in "Look At Her Now" (2020) Selena ne ha cantate quattro a Justin: "Quando lui ebbe un'altra. Oh, Dio, quando l'ha scoperto... Certamente lei era triste. Ma ora è contenta di aver schivato un proiettile".

Miley Cyrus

Sono almeno due le canzoni "cattivelle" che Miley Cyrus ha dedicato all'ex marito, Liam Hemsworth. Subito dopo il loro divorzio, la cantante pubblicò "Slide Away", brano nel quale la cantante americana suggerica all'attore: "Vai avanti, non abbiamo più 17 anni. Non sono più quella di una volta". Una frase legata alla lunga relazione decennale della coppia. È nell'ultima canzone pubblicata dal titolo "Flowers", però, che Miley ha sparato a zero contro l'ex: "Adesso i fiori posso comprarmeli da sola. Posso parlare con me stessa per ore, dire cose che non capiresti, e prendermi per mano da sola quando vado a ballare".

Shakira

Shakira, dunque, è solo l'ultima delle cantanti che ha scelto la via della vendetta per trasformare la rabbia del tradimento in una rivincita personale. Prima con "Te felicito", uscita nell'aprile 2022, quando la loro rottura non era stata ancora ufficializzata, poi con "Monotonia". Ma in entrambi i brani, la colombiana non c'era andata giù pesante come nell'ultima hit da record, "Music Sessions Vol. 53", dove canta: "Io valgo due di 22. Hai scambiato una Ferrari con una Twingo. Hai scambiato un Rolex con un Casio... Allena un po' anche il cervello". E se la vendetta è un piatto che va consumato freddo, vuoi mettere pubblicare una canzone e vederla diventare una hit mondiale, che rimarrà nella storia della musica? Satisfaction, cantavano i Rolling Stones.

I Numeri.

L’Origine.

Non era stupro.

L’Opuscolo.

Cos’è l’immobilità tonica?

Il Maggiore consenziente.

Il Minore consenziente.

Le Scarcerazioni.

Lo Stupro femminile.

I Funzionari Onu.

Lo stupro dei volontari.

Lo stupro delle Strutture Socio Sanitarie.

Lo Stupro di Lecce.

Lo Stupro di Napoli.

Lo stupro di Palermo.

Lo stupor di Catania.

Lo stupro di Milano

Lo stupro di Bologna.

Ubaldo Manuali.

Johnny Kitagawa.

Philippe Garrel. 

Antonio Di Fazio.

Alberto Genovese.

Danny Masterson.

Conor McGregor.

Till Lindemann.

Gérard Depardieu.

Stefano Maria Cogliati Dezza.

Manolo Portanova.

Achraf Hakimi.

Robinho.

Dani Alves.

Lo stupro dei calciatori.

Lo Stupro di Porto Cervo.

Lo Stupro di Primavalle.

Lo Stupro di Lignano Sabbiadoro.

I Numeri.

Le violenze sessuali su bambine e ragazze in Italia continuano ad aumentare. Nell'ultimo anno i reati di questo tipo sono cresciuti del 27 per cento. «Se vogliamo invertire la rotta dobbiamo costruire una risposta organica, sistemica, diffusa che affronti di petto questa situazione inaccettabile». I risultati dello studio della Fondazione Terre des Hommes. Susanna Rugghia su L'Espresso il 06 ottobre 2023

La violenza di genere mostra i suoi effetti sui reati ai danni dei minori. L’89% dei crimini sessuali riguarda infatti bambine e ragazze. Lo conferma il dossier indifesa “La condizione delle bambine e delle ragazze nel mondo” 2023 della Fondazione Terre des Hommes, presentato al Museo Maxxi a Roma, in occasione della Giornata mondiale delle bambine. 

I dati, resi noti dalla Fondazione che da sessant’anni si occupa dei diritti di minori, sono stati elaborati dal Servizio Analisi Criminale della Direzione Centrale Polizia Criminale, e rilevano un aumento generale in Italia dei reati sui minori e un'impennata del 27% dei crimini sessuali.  

Il divario di genere non è solo confermato dal dato presente, ma negli anni è aumentato, soprattutto per quel che riguarda i crimini sessuali che dal 2012 sono cresciuti di quattro punti. Anche la prostituzione minorile riguarda soprattutto ragazze e bambine per il 65%. E vale lo stesso per altre fattispecie di reato: maltrattamento di familiari e conviventi minori (53%), detenzione di materiale pornografico (71%), pornografia minorile (70%), atti sessuali (79%), corruzione di minorenne (76%), violenza sessuale aggravata (86%). 

«Alla luce del nuovo, tristissimo, record nei dati e degli aumenti di violenza sessuale e sessuale aggravata, vicende come lo stupro di Palermo appaiono come una cartina di tornasole della cultura patriarcale, maschilista, prevaricatrice e violenta che riduce il corpo di una donna a un “pezzo di carne”, in violenze nate per essere mostrate e che sembrano volere imprimere il sigillo del potere maschile, individuale e di gruppo», ha dichiarato Paolo Ferrara, Direttore Generale di Terre des Hommes. 

Lo squilibrio a danno del genere femminile nei reati considerati “spia” delle violenze di genere è confermata anche sulla popolazione presa nel suo complesso: le ragazze e donne sono oltre l’82% di chi vive maltrattamenti contro familiari e conviventi e oltre il 92% sono violenze sessuali. A livello globale, secondo l’Organizzazione mondiale per la sanità, il 31% delle donne tra i 15 e i 49 anni ha subito almeno una volta nella vita violenza fisica o sessuale da parte di un uomo: si tratta di 736 milioni di donne e ragazze. Un dato enorme ma che rimane comunque fortemente sottorappresentato: una ricerca della Banca Mondiale in 44 Paesi stima che meno della metà delle donne che subisce violenza fisica o sessuale chieda aiuto o denunci. Questo non sorprende, visto che anche in Italia la convenzione di Istanbul (Convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica), entrata in vigore dopo 6 anni dalla firma lo scorso 1 ottobre, non è rispettata, e non è nemmeno stata votata dai deputati di Lega e Fratelli d’Italia all'Europarlamento. Nelle città mancano poi i centri antiviolenza e l’adeguato aggiornamento e preparazione per chi dovrebbe recepire le denunce di violenza di genere.  

«Se vogliamo invertire la rotta - ha aggiunto Paolo Ferrara -, dobbiamo costruire una risposta organica, sistemica, diffusa che affronti di petto questa situazione inaccettabile. Qualcosa in termini legislativi si è fatto, con l’introduzione del Codice Rosso, ma manca un piano di intervento di lungo periodo sulla parità di genere a scuola. Manca la volontà di introdurre, finalmente, materie come l’educazione sessuale e all’affettività, all’uso “etico” dei media digitali. E i ragazzi dovranno mettersi in gioco più di tutti: se la violenza di genere riguarda tutti e tutte, il violento è sempre o quasi sempre maschio».

L’Origine.

Violenza sessuale, 1 giovane su 5 dice che le ragazze possono provocarla con l’abbigliamento. Cosa ne pensate? Secondo uno studio di ActionAid e Ipsos: il 20% non riconosce come violenza toccare le parti intime senza consenso. Diteci la vostra rispondendo al nostro sondaggio. REDAZIONE ONLINE su La Gazzetta del Mezzogiorno il 10 Settembre 2023

Un teenager su 5 è convinto che le ragazze possano provocare la violenza sessuale se mostrano un abbigliamento o un comportamento provocante. E molti di più, 4 su 5, credono che una donna, se davvero non lo vuole, può sottrarsi a un rapporto sessuale. E' la fotografia scattata da un'indagine condotta da Ipsos per ActionAid su un campione rappresentativo di circa 800 ragazze e ragazzi tra i 14 e i 19 anni. Obiettivo: approfondire cosa pensano i giovani della violenza tra pari.

Chi subisce violenza? Le ragazze più dei ragazzi, analizzano i giovani nella ricerca realizzata attraverso i fondi 8x1000 dell’Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai. Sono loro a vivere con maggior frequenza atti di violenza tra pari, in qualsiasi forma si manifesti: molto più spesso dei coetanei maschi assistono a gossip, prese in giro, insulti, scherzi, esclusione di persone dai gruppi, a situazioni in cui le parti intime vengono toccate senza consenso, alla diffusione non consensuale di foto e video di situazioni intime.

Inoltre, rileva l'indagine, le ragazze rischiano più spesso di ricevere molestie verbali mentre camminano per strada, di essere toccate nelle parti intime, di essere vittime di scherzi o commenti a sfondo sessuale e della diffusione di foto/video che le ritraggono in situazioni intime. I ragazzi invece rischiano principalmente di essere picchiati e le persone transgender/fluide/non binarie di venire insultate.

E voi cosa ne pensate? Diteci la vostra rispondendo al sondaggio.

«Contiamo stupri e femminicidi e ci arrabbiamo. Ma è ora di parlare anche dei modelli culturali». Ci consoliamo con la retorica rassicurante delle belve, concentrandoci sul tema della sicurezza. Ma siamo incapaci di guardare alla crisi profonda delle relazioni che riguarda la nostra quotidianità. Loredana Lipperini su L'Espresso l'1 settembre 2023.

Contiamo, come sempre. Contiamo le donne morte ammazzate, mese dopo mese e anzi settimana dopo settimana. Sappiamo che al momento in cui scrivo questo articolo sono 75 nel 2023, e che i numeri ci dicono che una donna muore per mano di un uomo ogni tre giorni. Contiamo. Elenchiamo i nomi e l’età: Vera, 25 anni, impiccata in un casolare di Ramacca. Anna, 56, accoltellata a Piano di Sorrento, dopo due denunce al suo ex. Celine, 21, ancora per coltello, a Silandro. Mariella, 56, per pistola, a Troina. Sono solo le ultime storie. 

Contiamo gli stupri. A Palermo, sette contro una, «cento cani sopra una gatta». A Caivano, quindici contro due ragazzine, per mesi. Contiamo e continuiamo a stupirci e ad addolorarci e arrabbiarci e a leggere articoli ed editoriali dove si parla di pacchetti di norme. Abolizione della pornografia. Sicurezza. Si parla meno di educazione sentimentale, osteggiata da decenni in quanto induce pericolosamente al «gender». Meno di centri antiviolenza e case rifugio. Meno di formazione delle forze dell’ordine che accolgono le denunce, nonché di giudici e magistrati. 

Sappiamo che molti dei provvedimenti annunciati potrebbero servire (eppure abbiamo già leggi avanzate quanto poco applicabili per mancanza di strutture e personale), ma dovremmo anche sapere, e lo sappiamo, che serviranno fino a un certo punto. Perché se non si cambia la cultura di questo Paese, nulla cambierà. Cambiare la cultura significa smettere di considerare le donne con rassegnata compiacenza sognando i tempi andati (anche se non lo si dice, o lo si fa dire a un generale spuntato dal nulla), e capire quanto le relazioni siano cambiate, e quanto potrebbero ancora cambiare, e in meglio, se ci si decidesse ad affrontare seriamente il discorso invece di spettacolarizzarlo (vedi la serie Netflix sul caso Depp-Heard). 

Sappiamo, infine, che ci eravamo illuse: pensavamo di essere state capite e riconosciute, almeno nella maggior parte dei casi. Pensavamo che il cammino comune con gli uomini auspicato da Simone de Beauvoir nel 1949 fosse cosa fatta. Pensavamo che chi paragona le femministe a «moderne fattucchiere» fosse minoranza. Pensavamo che questo scavallare la soglia della violenza fosse frutto di un tempo diviso, di una generale condizione di frustrazione e rancore. Non è così o non è solo così. La sensazione di questi ultimi giorni è che il linciaggio della rete nei confronti degli stupratori e degli assassini non tocchi davvero la questione, e sia semmai rassicurante: loro sono diversi da noi. Sì, e no, perché l’immaginario è comune, e quell’immaginario non è stato ancora cambiato, ma solo scalfito, e quelle «comunità di dominio», come le ha chiamate Alessandra Dino sul Manifesto, sono ancora intatte.

Per capirlo, bisogna andare molto indietro nel tempo, fino al giorno in cui Ulisse naufraga sulla spiaggia dei Feaci. Riscuotendosi dal torpore, ode «un chiasso di donne», o «grida femminili» che gli «percuotono l’orecchio». Qualche giorno fa una brillante scrittrice marchigiana, Lucia Tancredi, mi ha parlato dell’aiscrologia, ovvero il linguaggio osceno che nell’antichità greca veniva attribuito alla voce delle donne. Aristotele lo scrive chiaramente: «La voce acuta della donna è una prova delle sue inclinazioni malvagie, poiché le creature giuste e coraggiose (i leoni, i tori, i galli e gli uomini) hanno voci potenti e profonde». Margaret Thatcher studiò a lungo per eliminare i toni alti dalla sua voce ed essere considerata autorevole (da «casalinga stridula» a «statista», per le cronache). E riprendersi la voce, ricordava tempo fa la scrittrice polacca Aleksandra Lipczak a proposito delle proteste contro la criminalizzazione dell’aborto, è un atto rivoluzionario. 

Bene, se si studiano i commenti che negli anni hanno espresso ostilità, se non odio, verso le donne autorevoli (Laura Boldrini, per fare un nome), in un numero notevolissimo di casi la critica riguardava il tono della voce. Troppo acuta, troppo stridula, troppo alta. C’è qualcosa di rivelatorio in questo fastidio, espresso non soltanto da odiatori abituali, ma da uomini colti e in carriera, come se la visibilità delle donne fosse stata accettata a malincuore, masticata amaramente e per convenienza, ma – almeno in larga parte – non davvero interiorizzata: e si dimentica che, piacciano o non piacciano le donne in questione, il ruolo pubblico che occupano dovrebbe essere riconosciuto. Di più: le donne di successo sono viste come coloro che sottraggono posizioni consolidate agli uomini. Neanche il tempo di riprendersi dal funerale di Michela Murgia ed è partita la schiera dei critici o degli scrittori o degli insegnanti che si affannavano a spiegare che non era una grande scrittrice e tanto meno un’intellettuale. A Vera Gheno un signore istruito e fin educato ha scritto che il genio femminile non è mai esistito, e che i bei tempi (ma questo lo ha scritto anche il plurivenduto generale) erano quelli in cui le donne stavano al posto loro. 

Se si reagisce, il ruolo della vittima viene ribaltato: non sono le donne a essere screditate (o stuprate, o ammazzate), ma gli uomini. Che non possono più dire niente (si vedano le reazioni alle proteste delle ragazze contro il catcalling). Che vengono censurati. Che vengono emarginati. O la cui vita, come dicono i giovani stupratori di Palermo, è stata rovinata. 

Ma non si dice mai che se esistono una sofferenza e una disillusione che vengono da lontano, all’interno di quel disagio si agita il rifiuto del cambiamento delle donne. Mancando una riflessione sulla crisi profonda delle relazioni, si va avanti, e quando non basta più il commento tossico su Facebook, si agisce nella vita reale. Specie se i modelli pubblici (politici, uomini dei media, intellettuali di ogni ordine e grado) manifestano verbalmente lo stesso disprezzo. 

C’è un romanzo in libreria in questi giorni che riassume benissimo la questione. È “Gli uomini” di Sandra Newman (esce per Ponte alle Grazie, traduzione di Claudia Durastanti). Immagina che in un tardo pomeriggio tutti i maschi spariscano, inclusi i bambini, persino i feti nel ventre delle madri. All’inizio, frammisto al dolore, c’è un vergognoso sollievo: «Le voci dei maschi da vivi, aspre e profonde. Il suono di un uomo dall’altra parte della casa. Suoni mascolini sullo sfondo, dimentichi di sé. Tutto via. (…) Non ci sono abbastanza donne in questo comitato. Un altro consiglio di amministrazione senza donne. I diritti dei maschi: tutto via. (…) La messinscena della ragazza. Che fa una voce da bambina. Che indossa scarpe rasoterra per assicurarsi che lui sia più alto. La sensazione soffocata di sentirsi parlare sopra. Un uomo che usa il falsetto per prenderti in giro. (…) Lui che inizia a far paura. Lui che prende a pugni il muro. Testa bassa e lascia che passi. Ti vergogni di averlo provocato. Tutto via». 

Ma appunto c’è il dolore. I padri i fratelli gli amici i figli i compagni. Gli uomini che ci sono cari, e che non vogliamo perdere e che vogliamo al nostro fianco sulla stessa strada. Gli uomini che stanno dicendo non che «non sono come quelle bestie», ma che il problema esiste. Il giovane cameriere che quest’estate, nelle Marche, ha usato il femminile sovraesteso per una tavolata di cinque donne e un uomo e lo ha dichiarato sorridendo, e senza affettazione. 

Allora, come si fa? Si lavora sull’immaginario. Vedendo Barbie di Greta Gerwig l’ho trovato, all’inizio, didascalico fino allo sfinimento. Ma alla fine di questo agosto penso che invece va bene così, se ragazze e ragazzi trovano in blockbuster la rappresentazione di un modello diverso. Che sia un film su una bambola o che siano le parole di Margaret Atwood ne “Il Racconto dell’ancella” («Ma se sei un uomo in un qualsiasi tempo futuro, e ce l’hai fatta sin qui, ti prego ricorda: non sarai mai soggetto alla tentazione del perdono, tu uomo, come lo sarà una donna»). 

Va bene tutto, finché non si parlerà più di «chiasso di donne», ma delle loro voci, e del loro essere nel mondo. Vive, e riconosciute.

La "questione giovanile". Stupri a Caivano e Palermo: per salvare il Sud meno retorica e musei antimafia. Violenze, bullismo, aggressioni: la gioventù sotto il Garigliano risente di politiche educative fallimentari, di cui il giustizialismo è il perfetto simbolo. Alberto Cisterna su L'Unità il 29 Agosto 2023

C’è nei fatti orribili di Palermo e Caivano qualcosa che si colloca oltre l’evidenza di un rapporto sempre più malato e deteriorato tra adolescenza e sessualità. È chiaro che questa è la chiave di interpretazione più diretta, e anche più semplice, per comprendere l’aggressione in branco di vittime inermi.

Tuttavia la giungla dei social, l’affievolimento delle relazioni parentali (con genitori, talvolta, ancora più dispersi e disorientagli dei figli nella costruzione di stabili punti di riferimento emotivi e sentimentali) non può bastare per spiegare perché anche il Sud d’Italia sia sempre più di frequente attraversato da fenomeni di aggressione a sfondo sessuale da parte di gang di ragazzini alla ricerca di crude conferme delle proprie devianze educative. Il Mezzogiorno del paese, soprattutto le regioni un tempo largamente controllate dalla criminalità mafiosa, necessitano urgentemente di un potente intervento pubblico che prenda in esame proprio la formazione delle giovani generazioni, i loro destini educativi e lavorativi.

In gran parte la “questione giovanile” al Sud può dirsi archiviata e dichiarata fallita dal clamoroso, incessante esodo dei ragazzi verso i poli universitari e le sedi lavorative del Nord e, in modo massiccio, del resto d’Europa. Ad andar via da due decenni ormai sono i giovani di tutte le classi sociali, alla disperata ricerca di un futuro che al Sud promette solo assistenzialismo, clientelismo, redditi di cittadinanza e bassa qualità dell’istruzione e del lavoro.

È una sfida, ripetesi in gran parte persa e di cui sono un doloroso riscontro il crollo dei mercati immobiliari nelle città meridionali, la rarefazione delle iscrizioni universitarie disseminate (per ragioni clientelari) in un pulviscolo di micro facoltà con un numero di docenti sproporzionato rispetto a quello degli studenti, il fallimento dei bonus immobiliari che solo l’insipienza di un ceto politico accecato dal giustizialismo ha potuto dirottare verso gli immobili “regolari” dei ricchi potentati, anziché verso la bonifica delle tante Beirut dell’incompiute dell’abusivismo edilizio. Un territorio devastato in cui, per la prima volta, la cronaca giudiziaria è cronaca di giustizia minorile.

Una svolta probabilmente inattesa per fronteggiare la quale si assiste ancora alla riedizione della patetica politica di allontanare bambini e ragazzi dalle famiglie in odor di mafia, mentre nelle nuove banlieue, assediate dallo spaccio a tappeto delle droghe, le genie si contaminano, i rampolli dei boss bullizzano e violentano insieme ai figli del nuovo proletariato assistito e marginalizzato. Palermo e Caivano, come le risse di strada a Catania o a Reggio Calabria, gli scontri coltello alla mano nei vicoli di Bari o di Napoli ci consegnano un quadro imprevisto e in parte incontrollabile con gli strumenti oggi a disposizione dello Stato.

Avviata alla vittoria la battaglia contro le mafie – messe all’angolo da una repressione capillare e senza tregua – le istituzioni scoprono tragicamente che l’assistenzialismo demagogico ha solo inseminato e fatto da volano a una generazione di adolescenti e di ragazzi vocati alla violenza, disincantati verso la scuola, privi di fiducia per l’avvenire che predano la società e danno la caccia ai più deboli, spesso fragili coetanee, se non bambine. Come agnelli in mezzo ai lupi i più esili soccombono, scompaiono, fuggono quando possono, abbandonando le macerie di una società che ha smarrito ogni condiviso progetto sociale, ogni prospettiva di crescita collettiva per affidarsi a una primordiale legge della giungla.

I predatori si aggirano nelle strade, nelle scuole, nei bar abbandonati a sé stessi, capaci di commettere ogni genere di gesto violento, ogni tipo di sopraffazione. C’è l’urgenza di una profonda riconversione anche degli apparati di polizia e giudiziari dello Stato nel Mezzogiorno d’Italia. Commissioni parlamentari e regionali, comitati, associazioni e tutto il variegato mondo che si occupa (e solo talvolta si preoccupa) della condizione giovanile al Sud pongano attenzione al rafforzamento delle istituzioni incaricate di prevenire e anche reprimere le devianze giovanili e lo Stato (con il suo ormai vacillante e sbrindellato Pnrr) destini fondi veri a questo scopo.

Si lascino pure marcire i beni di mafia (simulacri di macerie di cui la società spesso non sa che farsi, con il rischio di alimentare il solito assistenzialismo antimafia di una certa politica che dispensa stipendi e sistemazioni per quieto vivere) e si destinino quei fondi al rafforzamento delle politiche educative e scolastiche al Sud. Il Mezzogiorno non ha bisogno di retorici musei delle mafie, ma di gesti concreti che tentino almeno di evitare un’ecatombe generazionale. Forse si sono strappati i figli alle grinfie insanguinate delle cosche per lasciarli soccombere nella disperazione delle gang.

Alberto Cisterna 29 Agosto 2023

Le Caivano d'Italia, periferie a rischio. Linda Di Benedetto su Panorama il 2 Settembre 2023

Non solo il quartiere napoletano finito nelle cronache per gli ultimi episodi. Ci sono tante zone nelle città italiane in cui lo Stato fatica a far rispettare le proprie leggi

In Italia non esiste solo Caivano. Lo stupro delle due cuginette balzato su tutti i Tg nazionali ha mostrato soltanto una delle tante periferie d’Italia lasciate in mano alla criminalità dove lo Stato sembra aver rinunciato ad entrare. Ghetti in cui sono costrette a vivere in condizioni estreme migliaia di persone, stipate in palazzoni senza servizi e dove a dettare legge è la criminalità che sì è sostituita allo Stato. Sacche di degrado che rappresentano il fallimento delle politiche abitative per le fasce più deboli, asserragliate in casa per sopravvivere, ad abusi, omicidi, montagne di rifiuti, scarsa igiene, assenza di trasporti, ma soprattutto alla paura di essere aggrediti o addirittura uccisi. Un mondo sospeso quello delle periferie “maledette” che ritroviamo in tutte le regioni italiane. Le Caivano d’Italia Partendo dal Sud uno dei quartieri più degradati è il Librino a Catania noto alle cronache per lo spaccio di stupefacenti ed il traffico di armi. Sempre in Sicilia un altro simbolo del degrado è il quartiere Zen di Palermo che ospita 16mila abitanti. Lo Zen è una vera e propria centrale di spaccio. A Reggio Calabria invece ad essere “famosi” per criminalità, prostituzione, furti, immondizia e spaccio di droga sono i quartieri di Arghillà nord e di Archi cep denominati ghetti “enclave della ndrangheta”. In Puglia la situazione non migliora e nel quartiere Candelaro a Foggia sparatorie, omicidi e spaccio sono all’ordine del giorno. Sono nel 2022 ci sono stati 12 omicidi in stile narcos messicani ma non c’è stato nessun clamore mediatico.

Mentre in Campania non sono più Scampia e Secondigliano a preoccupare ma il quartiere Ponticelli con continui agguati, vendette e l'uso frequente di bombe. A Ponticelli infatti non è raro assistere a deflagrazioni nella notte in più punti del quartiere che costringono i cittadini a vivere nella paura. Anche nella capitale la situazione è critica. In alcuni quartieri di Roma la criminalità ha preso il controllo del territorio e da mesi è in atto una guerra tra clan per aggiudicarsi le piazze di spaccio che ha causato già diversi morti. Tra i quartieri più tristemente noti c’è Corviale che ha al suo interno l’edificio del Serpentone, luogo simbolo dedicato alle attività della camorra e della criminalità organizzata romana. Altra zona critica è il quartiere di Tor Bella Monaca in cui è possibile trovare ogni tipo di droga e dove il prete anti spaccio Don Coluccia solo pochi giorni fa, stava per essere investito a causa del suo impegno contro la criminalità. In Lombardia, Quarto Oggiaro, nella periferia di Milano, è da sempre nota per essere la sede delle principali attività criminose del capoluogo lombardo. E negli anni, nonostante i vari sforzi fatti, la situazione non è mutata completamente e sembra che proprio in questa zona la vendita della metanfetamina sia ai suoi massimi livelli. In Piemonte alle Vallette c’è lo “sfortunato” quartiere di Torino epicentro della delinquenza giovanile e di tante situazioni sociali difficili, di disagio e povertà economica. Mentre in Liguria il quartiere Begato di Genova è stato ribattezzato come il “Quartiere dei morti ammazzati” con il record di avere 1.723 persone seguite dai servizi sociali.

Non solo Caivano. Dal Nord al Sud: ecco i fortini dei clan che devono cadere. Periferie di Palermo, Torino, Foggia e pure Aosta: le zone dove le forze dell'ordine non entrano sono note ma adesso si promette un giro di vite Il ruolo delle mafie, delle baby gang e dei trapper. Massimo Malpica l'1 Settembre 2023 su Il Giornale.

Dal Nord al Sud, da Est a Ovest. Non c'è solo Caivano tra le zone franche alle quali Giorgia Meloni ha dichiarato guerra. Ogni angolo del Bel Paese ha le sue piazze di spaccio, i suoi angoli dove fervono attività illecite alla luce del sole, le sue strade dove si muore ammazzati nonostante lo Stato. Su tutto, ovviamente, c'è spesso il cappello delle mafie italiane - sia quando giocano in casa sia quando proiettano i propri interessi in territori un tempo vergini, come prova la crescente presenza della ndrangheta in Valle d'Aosta e delle organizzazioni criminali straniere. Del tutto intenzionate a mantenere questi pezzi di Italia fuori dalla portata delle forze dell'ordine e della legge.

Luoghi dove tutto è gestito in proprio da chi si è assicurato il controllo del territorio. Come accade nella borgata di Ciaculli, periferia Sud-Est di Palermo, famosa per il suo pregiato mandarino tardivo. Qui lo Stato è assente, in tutti i sensi: un singolo autobus collega il quartiere alla città. La mafia invece qui è stata di casa da tempi remoti: è del 1963 la «strage di Ciaculli», quando un'Alfa Romeo Giulietta ripiena di tritolo esplose uccidendo sette carabinieri. Anche se ora la borgata ospita il «giardino della memoria», dedicato alle vittime di mafia, appena un anno fa un blitz antimafia ha rivelato che qui le cosche si occupavano di governare tutto: oltre a spacciare droga, infatti, vendevano mascherine (rubate) durante l'emergenza Covid, imponevano la propria intermediazione ben retribuita nelle compravendite immobiliari del quartiere, e rivendevano anche l'acqua agli agricoltori della Conca d'oro per irrigare i campi, naturalmente dopo averla rubata agli acquedotti pubblici.

Anche la «quarta mafia», la «società foggiana» in forte ascesa, sa controllare il «proprio» territorio. Se il capoluogo è insanguinato da anni dagli omicidi della guerra tra clan, le sue piazze di spaccio sono spesso inaccessibili e «invisibili» per lo Stato. Pochi mesi fa, solo il lavoro di due agenti sotto copertura ha permesso di scoprire le decine di locali blindatissimi dedicati allo smercio degli stupefacenti nella vicina San Severo. Dove la droga veniva venduta in quartieri dai nomi eloquenti come «Fort Apache» - anche in «coffee-shop» dove i clienti potevano consumarla in loco, senza alcun timore che le forze dell'ordine potessero interrompere la «festa». Che, ovviamente, continua indisturbata altrove. Il tutto per non citare i «ghetti dei migranti» nella Daunia, vittime del caporalato e stipati in queste baraccopoli dove, parola della Dia, «è persistente una situazione di diffusa illegalità, caratterizzata da una costante commissione di delitti di varia natura, talvolta di estrema gravità».

E non c'è solo il Sud, non c'è solo la mafia. Anche la Dia ha sollevato l'allarme per le baby gang, per i comportamenti criminali messi in atto da ragazzi che spesso imitano i comportamenti dei boss e agiscono convinti che il branco garantisca l'impunità, come anche la storia di Caivano conferma. Di zone così, però, ce ne sono ovunque. Anche a Nord, a Torino, Borgo Vittoria. Quartiere settentrionale segnato da risse, furti e appunto dalle violenze delle baby gang, che anche l'ultima relazione della Dia indica come particolarmente attive «in Lombardia e Piemonte». Qui abitano, in un gruppo di case popolari considerate «off limits» per la polizia, anche alcuni dei minori arrestati per aver lanciato, a gennaio scorso, una bici elettrica su Mauro Glorioso, ragazzo palermitano finito in coma per quell'aggressione, e che non hanno mai nemmeno chiesto scusa per il folle gesto.

Ma sono tanti altri i luoghi dove lo Stato è ancora assente. Se davvero non devono esistere zone franche, come dice la premier, in queste aree la legalità dovrà rimettere piede. Per fermare gli orrori e l'omertà di Caivano, ma anche le gang di salvadoregni, di aspiranti baby-camorristi, di trapper italiani, lo spaccio e gli agguati a colpi di pistola in pieno giorno, in Sicilia come in Brianza, e gli affari di una ndrangheta sempre più radicata in tutto il Paese.

Estratto dell'articolo di ansa.it mercoledì 23 agosto 2023.

"Porteremo avanti in Parlamento il disegno di legge della Lega sulla castrazione chimica, chiedendo di calendarizzarlo in commissione per votare e approvare al più presto una proposta di buonsenso". 

Così il vicepremier e ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Matteo Salvini, sui social. "Se stupri una donna o un bambino hai evidentemente un problema: la condanna in carcere non basta, meriti di essere curato. Punto", conclude. […]

Cos’è la castrazione chimica che Matteo Salvini vorrebbe approvare in Parlamento. Simone Alliva su L'Espresso il 22 Agosto 2023 

Dopo lo stupro di gruppo denunciato da una donna a Palermo torna una battaglia storica della Lega. Criticata da costituzionalisti, femministe e studiosi. E lo stesso Carlo Nordio nel 2019 la definiva un “ritorno al medioevo”

È una battaglia storica della Lega. Una soluzione spiccia che da sempre, sottoposta a sondaggio, risulta di forte gradimento agli italiani: castrazione chimica per gli stupratori. Non stupisce quindi che, sull’onda della legittima indignazione per lo stupro di Palermo, Matteo Salvini torni a parlare di questa formula. «Porteremo avanti in Parlamento il disegno di legge della Lega chiedendo di calendarizzarlo in commissione per votare e approvare al più presto una proposta di buonsenso» ha annunciato sui social il vicepremier e ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti. «Se stupri una donna o un bambino hai evidentemente un problema: la condanna in carcere non basta, meriti di essere curato. Punto».

Così il leader del Carroccio, convinto che rendere impotente con un’iniezione chi si sia reso colpevole di stupro sia una buona soluzione, torna alla «tolleranza zero» lanciata sin dal 2005. All’epoca era stato l’allora ministro per le Riforme istituzionali Roberto Calderoli, attuale ministro per gli Affari regionali e le Autonomie. Poi è arrivata la raccolta firme del 2009 della Lega, terminata con un nulla di fatto. Nel 2019 invece, in occasione della discussione del cosiddetto “Codice rosso” (legge che ha introdotto alcune modifiche nella gestione dei casi di violenza di genere) Lega e Fratelli d’Italia presentarono un emendamento specifico, poi respinto.

Di cosa si tratta?

La soluzione drastica che incontra l’opposizione di molti medici, costituzionalisti e anche femministe consiste in una terapia farmacologica a base di ormoni, a volte associata a psicofarmaci, che ha l’effetto di ridurre la produzione e il rilascio degli ormoni sessuali, come il testosterone, e di inibire l’azione della dopamina, portando a un conseguente calo del desiderio sessuale. In Italia il trattamento è riservato a gravi malattie in prevalenza di natura tumorale e può avere effetti collaterali specifici come la riduzione della massa muscolare, effetti negativi sul metabolismo osseo, osteoporosi, anemia. A leggere il disegno di legge della proposta firmata da Roberto Calderoli e presentata il 29 aprile del 2019 il colpevole di stupro, con sentenza passata in giudicato, in alternativa al carcere: “Può sempre chiedere di essere ammesso volontariamente al trattamento farmacologico di blocco andro­ genico o al trattamento di castrazione chirur­gica di cui al presente articolo”, Insomma: castrazione su base volontaria.

I limiti 

L'attuale ministro della Giustizia, Carlo Nordio, nel 2019 si era pubblicamente opposto alla soluzione leghista senza mezzi termini: «Ritorno al medioevo». Dalle colonne del Messaggero scriveva che avrebbe sovvertito «completamente la struttura del nostro codice e della Costituzione» dove la pena ha una funzione retributiva e rieducativa: attribuire alla castrazione chimica una funzione retributiva significherebbe tornare «alla vecchia pena corporale» e per quanto riguarda la funzione rieducativa, essa si fonda «sul libero convincimento, non sull’effetto materiale di qualche molecola». Senza contare il rischio di incostituzionalità. L’articolo 32 della Costituzione dice chiaramente che “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.

Ma non solo. Come spiega al Corriere della Sera il segretario dell’associazione nazionale Funzionari di Polizia, Enzo Marco Letizia, «Il farmaco non incide sulla personalità e il soggetto può continuare ad avere fantasie sessuali e perciò aumentare la sua aggressività», afferma Letizia. «È un’utopia che lo stupratore segua il protocollo medico. Questo farmaco va somministrato per via orale tre volte al giorno e appena si sospende la somministrazione il testosterone viene prodotto in maggiore quantità con l’aumento della libido del violentatore». Della stessa opinione era Nordio: «Una volta esaurito il tempo di espiazione e “di cura” la pericolosità infatti riemerge, probabilmente potenziata dal noto effetto contrario conseguente all’interruzione della somministrazione del farmaco».

C’è poi un altro aspetto: il rischio di minimizzare la violenza sessuale e ricondurre la responsabilità della violenza non alla persona, ma al suo organo genitale. Su questo punto attacca dall’opposizione Cecilia D'Elia senatrice Pd, vicepresidente della commissione Bicamerale d'inchiesta sui femminicidi e portavoce nazionale della Conferenza delle democratiche: «Parlare di malati e per questo di castrazione chimica come fa Salvini, significa non aver capito nulla della violenza maschile contro le donne, che è un fenomeno strutturale radicato nella cultura patriarcale della nostra società di cui purtroppo sono imbevuti anche tanti giovani maschi 'sani' nel nostro Paese. Serve che la giustizia faccia il suo corso e aiuti le donne, ma soprattutto serve una rivolta culturale». 

Il ministro Salvini tuttavia insiste su: «Quello che c'è già in via sperimentale in diversi Paesi al mondo, il blocco androgenico, ovvero la castrazione chimica, secondo me in via sperimentale anche in Italia potrebbe servire come dissuasione nei confronti di chi non definisco neanche bestie».

Dimentica di dire tuttavia che il Consiglio Europeo ha già condannato questi Paesi, in quanto, oltre ad essere una pratica lesiva nei confronti dell’integrità corporea dell’individuo, la castrazione chirurgica viene attualmente vista più come una “punizione” che come una prevenzione della recidiva, in un’ottica quindi più riparativa che riabilitativa: “Nessuna pratica coercitiva di sterilizzazione o castrazione”, si legge nella risoluzione 1945 del 2013, “può essere considerata legittima nel ventunesimo secolo”. 

«Il nostro sistema non brilla di civiltà. Ma poiché credo che in politica l’errore sia il peggiore dei crimini, credo che questa iniziativa debba esser fermata. Perché, appunto, prima di ogni altra cosa sarebbe un errore, forse fatale» a dichiararlo era sempre l’attuale ministro Nordio. 

«Non ha a che fare con un impulso sessuale irrefrenabile che si può contrastare con dei farmaci – spiega Antonella Veltri, presidente della rete dei centri-antiviolenza D.i.Re al IlPost.it –  Lo diciamo da almeno trent’anni, ma le motivazioni della violenza maschile contro le donne stanno nella cultura. Serve un impegno responsabile, strutturale e trasversale da parte di tutti i soggetti coinvolti, in particolare su formazione e prevenzione. E servono finanziamenti». Prevenzione e formazione. Di tutto questo per adesso, dal Governo, neanche l’ombra. 

Il Sì&No del giorno. Giusta la proposta di castrazione chimica? “Sì, il fenomeno dello stupro va combattuto. E la legge è realtà anche in Francia e Germania”. Andrea Ostellari (Senatore Lega) su Il Riformista il 27 Agosto 2023 

Nel Sì&No del Riformista, spazio al dibattito sulla proposta di introdurre la castrazione chimica per i colpevoli del reato di stupro. Favorevole il senatore della Lega Andrea Ostellari, che evidenzia come ben 13 paesi europei, tra cui Francia e Germania, abbiano adottato la misura. Contrario l’avvocato Nicola Madia che punta i riflettori sulla funzione rieducativa della pena.

Di seguito il parare di Ostellari

Premessa ineludibile: lo stupro è uno dei reati più odiosi e violenti che esistano. Lascia conseguenze indelebili sulle vittime, ne condiziona la sfera intima e affettiva. Va combattuto con tutti gli strumenti a disposizione, a partire da quelli educativi e culturali. Detto questo, la castrazione chimica è l’unica arma in grado, da sola, di mettere fine alle violenze sessuali? No. Ma è una delle tante che abbiamo a disposizione e quindi che è necessario utilizzare.

Anzitutto per lanciare un messaggio forte e chiaro: lo stupratore, spesso, oltre al subdolo piacere fisico, trae dal gesto criminale che compie anche una soddisfazione di tipo diverso. Chi stupra si sente forte e virile. Far sapere a chi medita di compiere atti così efferati che uno dei rimedi proposti è la castrazione significa annientarne una delle perversioni. Se stupri vieni punito e rischi di perdere anche ciò che barbaramente hai provato ad affermare: la tua virilità.

Con grande responsabilità e coraggio, il vicepremier e segretario della Lega, Matteo Salvini, ha chiesto di accelerare la trattazione in Parlamento del disegno di legge Lega sulla castrazione chimica. Il testo è già depositato. Tuttavia, potrebbe integrare il ddl Roccella-Piantedosi-Nordio contro la violenza di genere, che arriverà a giorni alla Camera: in fase di esame, proporre la norma sulla castrazione chimica come emendamento della Lega o come emendamento governativo, se ci sarà condivisione, consentirebbe di accelerarne l’approvazione.

Per come è costruita, la proposta della Lega contempera punizione, esigenza di sicurezza delle donne, prevenzione di nuovi reati e cura dei soggetti che, dichiarati pericolosi dai giudici, si sottopongano a un percorso. Si inserisce in un contesto, quello del nostro sistema, che ad oggi non prevede pene pesanti per lo stupro. E anche di questo bisognerebbe parlare. Persino a sinistra, al di là delle solite prese di posizione strumentali, sono numerose le voci a favore del nostro provvedimento. Spiace se qualcuno storce il naso: ben tredici paesi europei, fra cui Francia e Germania, otto stati Usa e altre nazioni democratiche come Argentina, Australia, Nuova Zelanda e Israele hanno adottato la castrazione chimica in modo efficace e controllato, consentendo ai medici di monitorare l’esito delle scelte intraprese. Lo sgomento in caso di reati quali lo stupro o la pedofilia serve a poco: i cittadini chiedono e meritano risposte decise, non dichiarazioni incerte o distinguo. Qui si tratta di fermare un’escalation con mano severa.

Va poi confermato, ce ne fosse bisogno, che la castrazione chimica si eserciterà solo sotto controllo medico e su base volontaria, salvo eccezioni di cui possiamo discutere. Lo sforzo può e deve essere comune: la Lega mette sul piatto il suo contributo e dà il via alla discussione, certa che, come anticipavo, quello della castrazione chimica è uno e non l’unico degli strumenti capaci di contrastare questi reati terrificanti. Bene fa il ministro dell’Istruzione, Giuseppe Valditara, per esempio, a puntare sull’educazione dei giovani: il suo progetto, che dovrebbe inaugurarsi già da quest’anno, è quello di tenere degli incontri con gli studenti, nell’ambito dei quali invitare le vittime di abusi. Loro, meglio di chiunque altro, possono “testimoniare in modo diretto che cosa significa la violenza contro le donne”. A loro e alle persone a rischio, tuttavia, dobbiamo risposte concrete e la castrazione chimica è una di queste. Andrea Ostellari (Senatore Lega)

Il Sì&No del giorno. Giusta la proposta di castrazione chimica? “No, sono idee contrarie a qualsiasi basilare principio di civiltà”. Nicola Madia (Avvocato) su Il Riformista il 27 Agosto 2023 

Nel Sì&No del Riformista, spazio al dibattito sulla proposta di introdurre la castrazione chimica per i colpevoli del reato di stupro. Favorevole il senatore della Lega Andrea Ostellari, che evidenzia come ben 13 paesi europei, tra cui Francia e Germania, abbiano adottato la misura. Contrario l’avvocato Nicola Madia che punta i riflettori sulla funzione rieducativa della pena.

Di seguito il parere di Madia

L’art. 27 della costituzione prevede che le pene non debbano essere contrarie al senso d’umanità. Non soltanto, dunque, è vietata qualsiasi forma di violenza fisica o psicologica nei confronti del condannato, ma addirittura deve essergli assicurata una detenzione in condizioni tali da rispettare la sua dignità di essere umano. Spazi sufficienti per muoversi All’interno delle celle, servizi igienici idonei, accesso ad attività ricreative e risocializzanti in nome della funzione rieducativa della pena ecc. Se queste sono le “caratteristiche costituzionali” della pena, sconvolgono le proposte d’introduzione della castrazione chimica nei confronti dei condannati per delitti sessuali. Si tratta di proposte contrarie a qualsiasi basilare principio di civiltà giuridica e oserei dire morale. Di questo passo, in nome di sempre crescenti pulsioni demagogiche, si arriverà prima o poi a chiedere la legittimazione della tortura e della pena di morte. La tendenza è tanto più preoccupante in quanto coinvolge soggetti non condannati ma solo indagati e, al momento, costituzione alla mano, assistiti dalla presunzione d’innocenza.

Insomma, molti dei cantori della costituzione più bella del mondo, quella che molti ritengono un totem intoccabile, sono gli stessi che invocano riforme che ne mettono in discussione i principi supremi su cui si fonda. Alcune osservazioni finali da avvocato e professore di diritto penale. Siamo tutti pronti a puntare il dito ed emettere condanne sommarie prima e al posto del processo e senza conoscere nulla dei fatti. E questo, salvo quando l’accusa attinga noi stessi o qualche nostro stretto congiunto: a quel punto diventiamo improvvisamente garantisti e censori dei mali provocati dal giustizialismo mediatico e dalla malagiustizia.

Sarebbe meglio pensarci prima ed astenersi da giudizi affrettati, riflettendo con cautela prima di pronunciare sentenza definitive nell’agone mediatico. Spesso il tempo dimostra le nefandezze che questo modo d’agire produce. Anche quando l’accusa è infamante e i ruoli di aguzzino e vittima sembrano chiari, la Costituzione impone il dubbio e l’attesa dei verdetti della magistratura prima di esprimere qualsiasi giudizio.

Se poi accuse gravissime vengono confermate nei tre gradi di giudizio, sempre la Costituzione prescrive sanzioni improntate al senso d’umanità e calibrate per rispettare la dignità della persona, secondo un’ottica di recupero del condannato. Oggi, colla riforma Cartabia, la funzione rieducativa della pena si è arricchita dell’incentivo ad avviare percorsi di riconciliazione tra reo e vittima e tra reo e società. Si chiama giustizia riparativa e, lungi dal puntare all’annientamento della persona, mira, esaltando il dettato costituzionale, a promuovere un dialogo volto, da un lato, a prendere consapevolezza dei propri comportamenti, prodigandosi (sul piano emotivo, psicologico, morale e operativo, più che economico) per lenire le sofferenze provocate e ricucire le lacerazioni inferte al tessuto sociale, dall’altro, a lasciare emergere l’uomo che si cela dietro contegni orrendi. E questo, affinché, non solo le vittime, ma l’intera collettività, prendano coscienza che la società non è popolata da mostri, quanto, piuttosto, da “poveri” uomini (nel senso di miseramente umani e terreni) che commettono errori, anche gravissimo, da cui possono però emendarsi.

Chi non condivide quest’impostazione (ovviamente solo quando capita ad altri, ca va sans dire), invocando castrazione chimica e pene esemplari senza processo, si pone contro il nostro edificio costituzionale e non può contemporaneamente proclamarsi fautore dei valori di legalità costituzionale. Enzo Tortora docet e leggere le struggenti pagine scritte dalla figlia Gaia aiuta a capire! Nicola Madia (Avvocato)

Perché la castrazione chimica è incompatibile con la nostra Costituzione. Dopo lo stupro di Palermo Salvini rilancia il ddl. Ma già nel 2019 Carlo Nordio parlò di «un ritorno al Medioevo»: anche se disposto su base volontaria, il trattamento ormonale viola il principio della funzione preventiva e rieducativa della pena. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 23 agosto 2023

Già quattro anni il guardasigilli Carlo Nordio (all’epoca non era ancora a via Arenula) intervenne sul Messaggero per stroncare la legge sulla castrazione chimica «per pedofili e stupratori» presentata sempre da Matteo Salvini nel dicembre del 2018. Un vecchio pallino della Lega che, cavalcando l’onda della cronaca nera, la propose per la prima volta nel lontano 2005 su iniziativa di Roberto Calderoli.

«Un ritorno al Medioevo» scrisse Nordio sul quotidiano romano, smontando pezzo per pezzo il provvedimento del governo giallo-verde: alla fine l’emendamento di Lega e FdI al cosiddetto “Codice rosso” (che stabiliva una corsia preferenziale per i reati di violenza domestica e di genere) non riuscì a passare. Il leader leghista, in piena campagna per le elezioni europee, aveva invece promosso con decisione la sua idea, parlando di «una cura democratica e pacifica», sostenuto dall’allora ministra della pubblica amministrazione Giulia Buongiorno per la quale si trattava di «una proposta all’avanguardia» e per di più da applicare su base volontaria, in alternativa al carcere.

Nordio sottolineò con estrema precisione quanto questo particolare aspetto fosse incompatibile con i diritti sanciti e protetti dalla nostra Costituzione negli articoli 27 e 32: «Questa alternativa sovvertirebbe completamente la struttura del nostro codice e della Costituzione, dove la pena ha una funzione preventiva, retributiva e rieducativa. Si può concedere che la castrazione prevenga nuovi crimini; ma se le attribuiamo anche una funzione retributiva ciò significa che torniamo alla vecchia pena corporale».

Ci sono poi gli effetti: i governi che hanno adottato la castrazione chimica (13 in Europa, 12 su base volontaria, e la sola Polonia come provvedimento obbligatorio per gli stupratori di bambini e familiari) sostengono che la cura è reversibile e che, terminata la somministrazione ormonale, gli effetti spariscono. Ma la comunità scientifica su questo punto è fortemente divisa, molti oncologi hanno infatti segnalato i pesanti effetti collaterali (osteoporosi, anemia) subiti dai loro pazienti sottoposti allo stesso trattamento per limitare i danni dei tumori alla prostata e alla mammella.

In entrambi i casi, spiegò Nordio, si è davanti a una contraddizione giuridica insormontabile: «Se la “castrazione” è un surrogato della pena, dev’essere provvisoria, e di conseguenza è inefficace. Se invece è irreversibile, costituisce una menomazione permanente come l’amputazione di un arto, e quindi, incidendo su un diritto indisponibile, è manifestamente incostituzionale». Nordio non fu il solo a segnalare l’incompatibilità costituzionale del provvedimento, con lui diversi giuristi tra cui il giudice emerito della Consulta Sabino Cassese che parlò senza mezzi termini di «misura inumana e contraria alla dignità della persona».

Stupro, le origini della parola giù usata nel '200 (e quella strana ipotesi più plausibile). Massimo Arcangeli su Libero Quotidiano il 10 luglio 2023

L’origine di stupro, parola già duecentesca, è dal latino stuprum, d’incerta provenienza. L’ipotesi più plausibile è quella di un legame col verbo stupere (“stupire”, “colpire”, “intontirsi”, “fermarsi”, “ghiacciarsi”, ecc.), sebbene sia un po’ difficile da credersi.

Nessuno dei significati di stuprum – “onta” o “disonore”, “vergogna” o “turpitudine”, “adulterio” o “incesto”, “violenza” o “seduzione” – investe, tocca o rasenta l’area semantica della meraviglia o dell’ammirazione oppure l’altra, stavolta propinqua, dell’immobilità o dell’arresto, del ristagno o del congelamento: un moto di stupore, magari intenso a tal punto da rammentare l’urlo di Munch, può frizzarmi come se in quel momento fossi oggetto di un fermo immagine.

Di stupro, ancora oggi, si dovrebbero riscrivere certe definizioni: «Atto di violenza sessuale, rapporto carnale ottenuto e consumato con violenza o minaccia a danno di persona adulta o consumato (anche se in base a un apparente consenso) in danno di bambini e di infermi di mente.

– In partic.: secondo la morale cristiana medievale e nel diritto antico, rapporto sessuale con una donna vergine al di fuori del matrimonio, soprattutto se contro la sua volontà» (Grande Dizionario della Lingua Italiana, fondato da Salvatore Battaglia, diretto da Giorgio Bàrberi Squarotti, Torino, Utet, 1961 2002, 21 voll., s. v. stupro). Siamo sempre lì. Talora la vittima di uno stupro (occhio ai due corsivi della citazione, entrambi miei), quando non è complice, può comunque avere le sue colpe: se è in tenera età, o è un disabile mentale, potrebbe non essersi difesa al pari di un adulto o di una persona capace di intendere e di volere; se è una donna (illibata) l’atto sessuale potrebbe essersi consumato col suo consenso.

Nel secondo caso la definizione, debitrice del lontano passato, ha un puntuale riscontro nello Specchio de’ peccati del religioso Domenico Cavalca, educatore di gentili donzelle vissuto a cavallo fra Duecento e Trecento. Catalogava lo stupro tra le forme di lussuria, descrivendolo così: «quando l’uomo fa villania ad alcuna vergine e, se è per forza, allora si è vie peggio». Corsivo sempre mio.

(ANSA il 12 luglio 2023) I rapporti sessuali non consensuali verranno considerati come stupro. È una delle principali misure contenute nella posizione negoziale del Parlamento europeo approvata in plenaria senza votazione, in vista dell'avvio domani dei negoziati con il Consiglio dell'Ue. In particolare, il Pe chiede che il consenso venga valutato caso per caso e che l'elenco delle circostanze aggravanti includa le situazioni particolari della vittima come gravidanza, disagio psicologico, l'essere vittima di tratta o in strutture per richiedenti asilo.

Il mandato, elaborato dalle commissioni per le libertà civili e per i diritti delle donne, include una definizione di stupro basata sul consenso, norme più severe sulla violenza informatica e un migliore sostegno alle vittime. Nel testo viene chiesto di inserire un numero maggiore di circostanze aggravanti, come i reati che hanno provocato la morte o il suicidio delle vittime, quelli contro una figura pubblica e quelli basati sull'intenzione di preservare o ripristinare "l'onore".

Il mandato include anche norme più severe sulla violenza informatica. Gli eurodeputati chiedono inoltre una definizione ampliata di "materiale intimo" che non può essere condiviso senza consenso, per includere immagini di nudo o video non di natura sessuale e prevenire il fenomeno del 'revenge porn' che dovrebbe essere classificato come molestia informatica. Infine, il sostegno alle vittime. Il Parlamento europeo chiede infine che i Paesi membri garantiscano assistenza legale gratuita alle vittime, in una lingua a loro comprensibile, e raccolgano le prove il più rapidamente possibile grazie a un supporto specializzato. 

Stupro di gruppo a Palermo, gli uomini che cosa ne pensano? Cosa è cambiato dal 1979 quando per la prima volta un processo per violenza andò in tv? Storia di La27ora su Il Corriere della Sera lunedì 21 agosto 2023.

6-7 luglio 2023: nella notte, al Foro Italico, sul lungomare di Palermo, sette giovani di 17, 19, 20 e 22 anni picchiano e violentano in gruppo una ragazza 19 enne. In un video trovato nel cellulare di uno degli indagati si svelano le brutalità fatte dal branco.

Anno 1979: Fiorella, allora 18enne, denuncia la violenza carnale di quattro 40enni. Al processo, la difende l’avvocata Tina Lagostena Bassi. Quell’anno la Rai su Rete due trasmette in seconda serata il film-documentario Processo per stupro: oltre tre milioni di persone restano incollate davanti agli schermi. Per la prima volta si mostra un processo contro uomini accusati di violenza sessuale. Tutti e tutte vedono la banalità del male. Ma com’è possibile, esattamente 44 anni dopo, ritrovarsi sullo stesso scenario?

Siamo andate a cercare le differenze nelle frasi pronunciate intorno alle due vicende. Luglio 2023, i ragazzi palermitani scrivono nelle chat: «Voleva farsi tutti e le abbiamo fatto passare il capriccio». «Eravamo in cento cani sopra una gatta, una cosa così l’ho vista solo nei porno». E ancora: «Mi sono schifato un poco, però che devo fare, la carne è carne». Intanto nei gruppi Telegram, decine di migliaia di iscritti cercano i video dello stupro.

Aprile 1979, davanti al giudice, i legali degli indagati pronunciano: «Lei non dice che le hanno fatto violenza e non può dirlo, perché non ci sono i segni». «Una violenza carnale con fellatio può essere interrotta con un morsetto. L’atto è incompatibile con l’ipotesi di una violenza». E ancora: «“Avete cominciato con il dire «Abbiamo parità di diritto, perché io alle 9 di sera debbo stare a casa, mentre mio marito il mio fidanzato mio cugino mio fratello mio nonno mio bisnonno vanno in giro?” Vi siete messe voi in questa situazione. E allora ognuno purtroppo raccoglie i frutti che ha seminato. Se questa ragazza si fosse stata a casa, se l’avessero tenuta presso il caminetto, non si sarebbe verificato niente».

Se 44 anni fa la società è più propensa a giustificare molestie e violenze sessuali perché sono gli stessi avvocati a prendere le parti dei violentatori, oggi ci chiediamo verso quale direzione siamo andati e andate. Nel 1979 non tutte le persone tollerano questi comportamenti. Il 28 aprile di quell’anno, Giulia Borgese riporta sul Corriere della Sera le impressioni dei giovani dopo aver visto il film in tv. Commenta uno studente di 16 anni: «Mi sono vergognato di essere un maschio, sono stato male, non riuscivo ad addormentarmi, non credevo che fuori dal film ci potesse essere una simile realtà». Un suo compagno non la pensa uguale: «Però lei, quella ragazza lì un po’ se l’è voluta, diciamo la verità...».

Questa frase rimbalza oggi, nel 2023, spesso anche nei commenti di X (ex Twitter). Se davvero siamo diventati meno tolleranti nei confronti delle aggressioni, perché un gruppo di ragazzi si sente in diritto di picchiare e violentare una coetanea? A Palermo c’è chi sfila con dei manifesti: «Lo stupratore non è malato è figlio sano del patriarcato». «Se toccano una toccano tutte. Sorella non sei sola». E gli uomini? Che cosa ne pensano?

Repressione penale. La ricca giurisprudenza sulla violenza sessuale e il populismo di chi invoca misure draconiane. Cataldo Intrieri su L'Inkiesta il 22 Agosto 2023

Quando la politica arriva a chiedere la «castrazione chimica» per alcuni reati (Salvini dixit) dimentica che in Italia la giustizia è già fornita di leggi stringenti e tutele per le vittime. Il diritto penale non può risolvere un problema sociale

Qualche giorno fa una sentenza del Gup di Firenze che ha assolto due imputati di violenza sessuale è stata oggetto di violenta polemica. Secondo le cronache il giudice non ha creduto alla versione della vittima ma ha dato credito a quella proposta dalla difesa che ha sostenuto l’erronea percezione degli accusati circa il consenso della parte offesa. La condotta di violenza c’era ma difettava la consapevolezza degli imputati di stare agendo contro la volontà della parte offesa. È ciò che tecnicamente si definisce «errore sul fatto-reato», considerato una causa che esclude la punibilità del reo.

Quasi contemporaneamente da Palermo sono arrivate le agghiaccianti immagini di una violenza di gruppo contro una povera ragazza.

I due episodi associati hanno dato la stura alle consuete invocazioni di pene e leggi più severe, fino addirittura alla «castrazione chimica» proposta dal solito folcloristico Matteo Salvini.

È bene sapere che già oggi la violenza di gruppo è punita con una pena che va da otto a quattordici anni di galera, senza contare le aggravanti.

Coloro che vengono condannati per reati contro la libertà sessuale, inoltre, non hanno diritto a usufruire di benefici come le misure alternative alla detenzione in carcere per l’esecuzione della pena, se non dopo aver scontato almeno la metà della pena dietro le sbarre.

Non solo: i criteri di interpretazione delle norme che puniscono la violenza sessuale sono molto più restrittivi di quelli applicati agli altri reati

La Stampa ha pubblicato una lunga intervista con la giudice di cassazione Paola De Nicola Travaglini, esperta della materia e da sempre impegnata sul fronte della tutela delle vittime, che, nel criticare la sentenza del Tribunale di Firenze prima menzionata, ha ricordato la radicata giurisprudenza della Suprema Corte in materia, secondo cui il consenso della vittima è sempre presunto e costituisce, anzi, un requisito di legge: ciò esclude che l’imputato possa eccepire un errore di percezione sul consenso della donna, ai sensi dell’art. 5 del codice penale.

La norma in questione è quella racchiusa nel brocardo «la legge non ammette ignoranza», un atto sessuale senza verificare accuratamente e preventivamente che la donna presti non solo il consenso iniziale ma lo mantenga anche «in corso d’opera» può costituire uno stupro.

Secondo l’eloquente sintesi di De Nicola: «La donna non deve dimostrare nulla: deve solo dichiarare cosa è accaduto e se lo ha voluto o no».

Per dire come sono cambiate le cose, oggi Silvio Berlusconi non se la caverebbe più sostenendo di ignorare l’età della minorenne Ruby, protagonista delle «cene eleganti» di Arcore, in quanto una legge ad hoc vieta espressamente che si possa tener conto dell’esimente sull’ignoranza dell’età della vittima al fine di escludere la violenza sessuale su una minorenne.

Ancora: il processo penale presenta una particolare procedura protetta per i cosiddetti «soggetti vulnerabili» le vittime di particolari reati o che versano in condizioni di minorata difesa per età, condizioni di salute, atti discriminatori.

Una tale impostazione nasce dalla legittima esigenza di sottrarre le vittime di atti particolarmente gravi alla umiliante trafila di continue e pressanti verifiche giudiziarie (il cosiddetto fenomeno della «vittimizzazione secondaria»). Essi possono essere sentiti una sola volta, non in un pubblico dibattimento ma in un’udienza a porte chiuse, con l’assistenza adeguata di uno psicologo, protetti da interrogatori aggressivi, tramite il filtro del giudice.

Il profilo del possibile errore sul consenso della donna è significativo del doppio standard di giudizio: in genere l’errore sulla sussistenza del fatto illecito, a meno che non sia frutto di una condotta trascurata e negligente dell’accusato, costituisce in via generale una clausola che esclude la punibilità.

Prevale, in tema di reati contro la libertà sessuale, una tesi che sostiene la sostanziale insindacabilità della valutazione della donna sulla sua effettiva volontaria adesione basata sul presupposto che sia onere dell’accusato dimostrare in caso di denuncia di violenza il consenso altrui.

In tale ottica l’errore eventuale dell’uomo, ancorché in buona fede, è «inescusabile» sempre e comunque.

Tale impostazione peraltro è contraria a un illustre precedente della Corte Costituzionale, la sentenza 364/88 scritta da Renato Dell’Andro, allievo di Aldo Moro proprio in tema di errore sulla legge penale con la quale si incise sul dogma della inescusabilità dell’«ignorantia legis». La Consulta dichiarò la parziale incostituzionalità dell’art 5 del codice penale «nella parte in cui non esclude dall’inescusabilità dell’ignoranza della legge penale l’ignoranza inevitabile».

Nella sentenza, la Consulta ha rilevato che il postulato dell’assoluta irrilevanza dell’errore incolpevole sulla legge penale lede il principio di colpevolezza previsto dall’art. 27 della Costituzione «indispensabile, appunto anche per garantire al privato la certezza di libere scelte d’azione: per garantirgli, cioè, che sarà chiamato a rispondere penalmente solo per azioni da lui controllabili e mai per comportamenti che solo fortuitamente producano conseguenze penalmente vietate; e, comunque, mai per comportamenti realizzati nella “non colpevole” e, pertanto, inevitabile ignoranza del precetto».

È altresì significativo che il giudice costituzionale si sia interrogato sulla scia di diffuse critiche formulate all’epoca addirittura sulla compatibilità tra l’art. 5 del codice penale e la Carta fondamentale, vista «la strumentalizzazione che lo Stato autoritario aveva operato del principio dell’assoluta irrilevanza dell’ignoranza della legge penale… e la stridente incompatibilità dell’art. 5 c.p., qualificato come “incivile”, con la Costituzione».

Un vero paradosso che oggi la Cassazione invochi a tutela dei diritti della donna un principio espressione di uno Stato etico totalitario che umiliava il ruolo femminile.

Se questo è lo stato dell’arte è lecito chiedersi se servano veramente nuove e più draconiane misure quando già esiste un «doppio» forse «triplo binario» di giudizio con una evidente disparità del rispetto delle garanzie difensive, in particolare del principio dell’«oltre ogni ragionevole dubbio» e dell’«onere della prova» che colpisce gli imputati dei reati contro la libertà sessuale rispetto ad altri cittadini sottoposti a un processo penale per delitti di diverso tipo.

Con ciò non si vuole certo negare l’esigenza di stringenti tutele per le donne vittime di violenza quanto evidenziare che se il problema è culturale ed antropologico, non servono anni di galera in più: già fatto.

Il campo del diritto penale cui troppo spesso si delega la regolamentazione dei rapporti umani, compresi quelli più intimi, non può risolvere un gravissimo problema che affonda nell’educazione sbagliata di una società. Una corrente limacciosa di pregiudizi che affonda nell’animo di buona parte della popolazione e che il grande successo delle inqualificabili idee di un militare in libera uscita ha fatto venire a galla. Ritenere che sia solo un problema di repressione è un rimedio peggiore del male.

«Se non c’è consenso è stupro. Punto. E non conta nulla chi è drogato o ubriaco». «Se si ha di fronte una ragazza o un ragazzo che non è in grado di prestare il proprio consenso, non ci si può avvicinare con richieste sessuali». Parla la giudice Paola Di Nicola Travaglini, già consulente della Commissione sul femminicidio. È anche una questione culturale: «Da millenni il corpo delle donne è un teatro di guerra». Simone Alliva su L'Espresso l'11 luglio 2023.

Lontano da quello di cui si nutre il quotidiano dibattito sui social e in tv. Fuori dalle polemiche del giorno e dai casi quotidiani, per capire come lo Stato italiano affronta la questione dello stupro, una modalità consueta di possesso, una violenza che è un codice di racconto del nostra Paese, bisogna affidarsi a Paola Di Nicola Travaglini, giudice della Corte di Cassazione già consulente giuridica della Commissione parlamentare sul femminicidio. 

L’Italia registra un trend in crescita per le violenze sessuali: dal 2020, anno nel quale si è registrato il dato minore (4.497), l'incremento è stato significativo e si è attestato, nel 2022, a 5.991 eventi (+33% dal 2020). Un fenomeno allarmante che pure ancora oggi viene silenziato, ridotto, minimizzato da prese di posizioni, difese e pregiudizi: aveva bevuto troppo, era salita coscientemente a casa di lui, la deriva della conversazione pende verso il "se l’è cercata": «Da millenni il corpo delle donne è stato un teatro di guerra», specifica a L’Espresso la magistrata, Paola Di Nicola Travaglini e racconta come la voce delle donne venga silenziata anche nei codici che dovrebbero garantire sicurezza ai cittadini. Eppure la questione è molto semplice, ruota intorno alla questione del consenso. Una donna alterata, drogata, ubriaca poco importa: «Se si ha di fronte una ragazza o un ragazzo che non è in grado di prestare il proprio consenso, non ci si può avvicinare con richieste sessuali».

Dottoressa, nel Codice penale la parola “consenso” è assente. Insomma la parola delle donne sul consenso non è mai stata realizzata. Eppure la gran parte delle violenze avvengono senza alcuna minaccia.

«La parola consenso nel codice penale per la violenza sessuale non è prevista. Nel senso che è vista solo dalla parte dell’autore. La condotta della violenza sessuale è centrata sull’autore che commette un atto minaccioso violento o induttivo. Ed è curioso perché invece nella violazione del domicilio (Articolo 614 Codice Penale) è ribaltato, qui il centro della norma è la volontà della vittima: “Chiunque s'introduce nell'abitazione altrui […] contro la volontà espressa o tacita di chi ha il diritto di escluderlo […] è punito”. Questo è molto interessante perché proprio in relazione ad un delitto quale la violenza sessuale, in cui l’elemento cruciale è la volontà della vittima, ci si sposta sull’autore. E in un altro reato, di minore gravità, è la volontà che viene declinata». 

E questo come se lo spiega?

«La paura del legislatore e del codice è che si dia alle donne vittime il potere di rappresentare la loro volontà».

È una questione culturale.

«Certo, da millenni il corpo delle donne è stato un teatro di guerra. Nessuno ha mai chiesto alle donne il consenso. Il consenso femminile non appartiene al mondo del diritto nella storia dell’umanità: le donne venivano fatte sposare per evitare le guerre, le regine diventavano mogli per creare alleanze. Il corpo delle donne e l’utilizzo della violenza sessuale è stata sempre una questione politica».

Una questione politica e una questione culturale. Di violenza sessuale se ne parla, ancora male. Come se non avessimo gli strumenti per codificarla. Vorrei prendere un caso comune, che somiglia a molti altri casi, una persona denuncia per stupro un’altra persona. Entrambi però, sia vittima che aggressore erano incoscienti nel momento dell’atto. Si parla ancora di stupro?

«Il codice penale prevede che chi compie atti sessuali, a prescindere da violenza o minaccia, abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto, determina un abuso per assenza di consenso. Il delitto di violenza sessuale è composto da due parti: la prima è “chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, costringe taluno a compiere o subire atti sessuali è punito”. Ad esempio: esco da casa vengo violentata in mezzo alla strada, vado a scuola e il professore con abuso d’autorità compie atti sessuali su di me. La seconda parte dice: anche quando la persona che compie atti sessuali e abusa della condizione di inferiorità. Ad esempio se io abuso della condizione di inferiorità fisica o psichica, su una persona in sedia a rotelle che non si può muovere, su una persona malata che sta su una corsia ospedaliera in fin di vita, una giovane donna talmente ubriaca che non è in grado di reagire. Basta che il giudice accerti che la vittima fosse in fase di inferiorità fisica o psichica. È previsto come regola base. Poi c’è un’aggravante: è quella che prevede l’aumento di un terzo dalla pena quando la violenza è commessa con l’uso di armi o di sostanze alcoliche, narcotiche o stupefacenti».

Mi permetta di fare l’avvocato del diavolo: se l'aggressore fosse stato così alterato da non conoscere lo stato di alterazione della vittima?

«La condizione di alterazione o abuso di alcol per il codice penale non rileva quando riguarda l’autore. Perché il codice penale non può dare la licenza di commettere reati a chi consapevolmente si mette in quella condizione. Pensiamo al caso dell’omicidio stradale oppure altri reati. Se una persona si mette alla guida dopo aver assunto droga o alcol, è una bomba a orologeria. Per il codice penale la condizione di sottoposizione a questo tipo di sostanze “non rileva” perché il principio è che lo Stato si deve proteggere e deve proteggere cittadini e cittadine da situazioni che attraverso la riduzione delle capacità di non essere completamente all’erta e presenti a se stessi, condizione che può creare un pericolo per la collettività. Ma le dico di più. Per il codice penale è un’aggravante quando l’autore di un reato si trovi in una situazione abituale. Il caso della ubriachezza abituale e intossicazione da sostanze stupefacenti, determina l’aumento della pena (Articolo 94 del codice penale). L'abitualità è una modalità comportamentale di assumere alcolici in maniera spropositata. Se la donna invece è ubriaca non è in grado di prestare il consenso. Punto. Sostanzialmente si presume l’assenza di consenso nel delitto: non sono messa nella condizione di dare un consenso libero, autonomo e non condizionato».

Mi scusi se insisto: l’aggressore potrebbe non essere cosciente dello stato dell’altra persona se entrambi sono ubriachi.

«Un adulto se ne accorgerebbe. Questa cosa che gli uomini ritengono di essere confusi dal consenso o non consenso è ancora una volta una vittimizzazione secondaria. Perché io sto parlando di un reato. Io devo accertare se c’è consenso della vittima, non se lo hai capito o meno. Come scrive la Cassazione da ultimo in una sentenza di aprile 2023 “il dissenso è sempre presunto, salva prova contraria”. Pensi al caso della rapina, lei tutte queste domande oggi non me le farebbe».

Dice molto sullo stato culturale del Paese.

«Invertiamo la logica solo per questi reati. Se si ha di fronte una ragazza o un ragazzo che non è in grado di prestare il proprio consenso, non ci si può avvicinare con richieste sessuali».

Andrebbe riformato questo codice penale o ci sono sentenze che ci aprono la strada?

«La Corte di Cassazione da anni ritiene che il consenso debba essere libero e prestato in modo inequivoco. Quindi in realtà la magistratura ha fatto un’operazione interpretativa che non richiederebbe un intervento legislativo. Però molti giudici questo orientamento pacifico della Corte o non lo conoscono o non lo seguono. Se non lo scriviamo in modo chiaro ognuno andrà per la sua strada. Ricordo inoltre che la Convenzione di Istanbul, ratificata dall’Italia, all’articolo 36 parla di "atto sessuale non consensuale". Il consenso è l’elemento cardine, sarebbe opportuno modificare il codice penale perché avere una legge che lo scrive in modo chiaro, vuol dire che il Parlamento si assume la responsabilità di dire che il consenso delle donne è il perno della norma penale. I processi durerebbero un minuto: hai prestato il consenso come richiede la norma? No. Perfetto. Poi si verifica il resto. Il consenso è cosa delicata e complessa ma semplice da accertare: basta chiedere».

Non era stupro.

SE LO FA UNA DONNA E' NORMALE, SE LO FA UN UOMO E' MOLESTIA. Estratto dell'articolo di Daniele Prato per lastampa.it giovedì 30 novembre 2023.

È di Acqui il ragazzo misterioso che il mondo del web insegue da oltre 48 ore, per quel bacio inaspettato che Emma Marrone gli ha stampato sulle labbra lunedì 27 novembre durante il suo concerto ai Magazzini Generali di Milano. 

Lui è Paolo Ranieri, influencer, fashion e travel blogger, figurante tv, da anni presenza fissa fra il pubblico delle più importanti trasmissioni Rai e Mediaset, con un seguito su Instagram di 132 mila persone. […] Paolo che al concerto di Emma era presente da semplice fan.

[…] 

Un po’ emozionato, un po’ frastornato da un «lip kiss» arrivato a sorpresa, da ore Paolo si ritrova al centro dei gossip e dei commenti sulle pagine social, specie da parte dei fan di Marrone: «Saranno fidanzati?», «Beato lui!», «Di certo si conoscevano». «Invece no – assicura Ranieri –, Emma e io non ci conosciamo. È stato un suo gesto spontaneo che mi porterò nel cuore. La rivedrò martedì nella tappa di Torino del suo tour "In da club". Chissà se mi riconoscerà».

(ANSA il 25 ottobre 2023. ) Un 60enne di origine marocchina, ambulante, è stato assolto dall'accusa di stupro dal Tribunale di Busto Arsizio (Varese). A scagionare l'imputato è stato il Dna rilevato dai carabinieri sul luogo della presunta violenza e analizzato dal Ris di Parma. Il profilo genetico emerso dalle tracce biologiche non corrisponde a quello dell'ambulante che ieri è stato assolto per non aver commesso il fatto.

Lo riporta oggi il quotidiano La Prealpina. L'episodio sarebbe avvenuto nell'ottobre 2020 ai danni di una 19enne a Cassano Magnago (Varese). La giovane, secondo quanto ha denunciato, aveva fatto entrare in casa l'ambulante per valutarne la merce. Dopo qualche convenevole il 60enne l'avrebbe molestata. Il Dna, però, ha rivelato un'altra verità scagionando l'imputato che è stato assolto dopo tre anni durante i quali si è sempre dichiarato innocente.

Difendo un uomo accusato di abusi assolto da tutto ma fatto a pezzi. Sono forse una cattiva femminista? «La giustizia fai da te può trasformarsi in un’abitudine al linciaggio di massa, quando il sistema giudiziario viene gettato dalla finestra». Margaret Atwood su Il Dubbio il 16 ottobre 2023

PUBBLICHIAMO DI SEGUITO UN ESTRATTO DELL’EDITORIALE PUBBLICATO DALLA SCRITTRICE CANADESE MARGARET ATWOOD SU “THE GLOBE AND MAIL” IL 13 GENNAIO 2018

Sembra che io sia una “cattiva femminista”. Posso aggiungere questa alle altre cose di cui sono stata accusata dal 1972, per esempio di aver raggiunto la fama scalando una piramide di teste di uomini decapitati (un giornale di sinistra), di essere una dominatrice decisa a soggiogare gli uomini (uno articolo di destra, corredato da un’illustrazione di me in stivali di pelle con una frusta) e di essere una persona orribile che, con i suoi poteri magici di Strega Bianca, può annichilire chiunque sia critico nei suoi confronti nei ristoranti di Toronto. Sono così spaventosa!

E ora, sembra, sto conducendo una guerra contro le donne, in qualità di misogina-cattiva-femminista a favore dello stupro. Come si presenta una buona femminista agli occhi dei miei accusatori? La mia posizione fondamentale è che le donne sono esseri umani, con l’intera gamma di comportamenti sacri e profani che questo comporta, inclusi quelli criminosi. Non sono angeli, incapaci di fare del male. Se lo fossero, non avremmo bisogno di un sistema legale. Non credo neanche che le donne siano bambini, incapaci di agire o di prendere decisioni morali. Se lo fossero, saremmo tornati al XIX secolo, e le donne non dovrebbero avere possedimenti, carte di credito, accesso all’educazione superiore, o il controllo sulla propria riproduzione e il diritto al voto.

Nel Nord America ci sono potenti gruppi che spingono in questa direzione, ma generalmente non sono considerati femministi. (...) Supponiamo allora che le buone femministe che mi accusano, e la cattiva femminista che sarei io, convergano su questi punti. Su cosa siamo in disaccordo? E come ho fatto a finire nei guai con le buone femministe?

Nel novembre 2016 ho firmato - per questione di principio, come ho firmato numerose petizioni una lettera aperta in cui si chiedeva di ritenere la University of British Columbia responsabile per il suo processo fallito e il trattamento riservato a uno dei suoi ex impiegati, Steven Galloway, già capo del dipartimento di scrittura creativa, così come per il trattamento di coloro che si sono aggiunti come ricorrenti nel caso.

Diversi anni fa, l’università si espose pubblicamente sui media nazionali, prima che ci fosse un’inchiesta e prima ancora che l’accusato potesse conoscere i dettagli dell’accusa nei suoi confronti. Prima che lo scoprisse, Galloway dovette firmare un accordo di riservatezza. L’opinione pubblica – me compresa – si era convinta che quest’uomo fosse un violento stupratore seriale, e chiunque era libero di attaccarlo pubblicamente, dal momento che lui stesso non poteva dire nulla in propria difesa in base all’accordo firmato. Seguì una raffica di invettive. Ma in seguito, dopo un’inchiesta durata mesi, con molte vittime e interrogatori, il giudice ha stabilito che non c’era stata alcuna aggressione sessuale, secondo le dichiarazioni rilasciate da Galloway attraverso i suoi legali. Fu licenziato comunque. E tutti ne sono stati sorpresi, me compresa. (...)

I giustizieri – con una condanna senza processo – arrivano sempre come risposta a una mancanza di giustizia – o il sistema è corrotto, come nella Francia prerivoluzionaria, o non ve n’è alcuno, come nel selvaggio West – e così le persone prendono in mano la situazione. Ma una comprensibile e temporanea giustizia fai da te può trasformarsi in un’abitudine culturale al linciaggio di massa, in cui il sistema giudiziario è gettato dalla finestra per istituire al suo posto strutture di potere extralegali. Cosa Nostra, per dire, cominciò come resistenza alla tirannia politica.

Il MeToo è il sintomo di un sistema legale che si è inceppato. Troppo spesso le donne e chiunque abbia denunciato abusi sessuali non hanno ricevuto la giusta attenzione presso le istituzioni, quindi si è trovato un nuovo strumento: Internet. Le star sono cadute dal loro piedistallo. Questo è stato molto efficace, ed è stato visto come un segnale di risveglio collettivo. Ma cosa accadrà dopo? Il sistema legale può essere aggiustato, o la nostra società potrebbe sbarazzarsene.

Molesta la segretaria, ma è lui a denunciare la donna dopo le sue dimissioni: imprenditore condannato. L'episodio si è verificato a Roma, dove la vittima lavorava come segretaria presso una concessionaria d'auto. Federico Garau il 25 Settembre 2023 su Il Giornale.

Ha approfittato della propria posizione per molestare in più di un'occasione e anche pesantemente la sua segretaria, costretta a rassegnare le dimissioni per fuggire da quell'incubo: nel documento la donna aveva rivelato che alla base della sua decisione c'erano proprio quegli abusi compiuti nei suoi confronti. Apriti cielo: infastidito per quanto riportato nella lettera, A.E. ha deciso di denunciare l'ex dipendente per diffamazione, finendo, tuttavia, per essere condannato lui stesso per i reati di violenza sessuale aggravata e calunnia.

Cosa è accaduto

L'incredibile vicenda arriva da Roma, dove la vittima lavorava in una concessionaria d'auto di proprietà di A.E. Le molestie sono iniziate praticamente fin da subito, col titolare che si è fatto via via sempre più intraprendente: prima le battutine ambigue, poi i baci sul collo, fino ad arrivare alle fastidiose effusioni: la donna, che aveva bisogno di quel lavoro, ha sopportato a lungo in silenzio. Questo almeno fino al momento in cui il proprietario della concessionaria non si fa ancora più ardito e viscido, dandole una pacca sul fondoschiena. La misura è colma, e la ragazza decide di uscire da quell'incubo, presentando una lettera di dimissioni in cui venivano riportati anche i motivi alla base di quella decisione obbligata. Nel manoscritto, l'ex segretaria aveva messo nero su bianco la sua vicenda, parlando dei vari episodi di molestie sessuali subiti fino ad arrivare al culmine con quella pacca sul sedere.

Dopo aver preso visione della lettera, A.E. reagisce male e decide addirittura di adire le vie legali, denunciando l'ex dipendente per diffamazione. Tutelata dal legale Donata Sartori, l'ex segretaria decide di uscire allo scoperto e di denunciare l'uomo, accusandolo di molestie sessuali e calunnia. Chiamato a deliberare circa l'accusa di diffamazione ai danni dell'ex segretaria, il giudice di pace aveva archiviato l'accusa inviando gli atti in procura e dando quindi ragione alla ragazza. Per quelle molestie, il tribunale ha condannato il titolare della concessionaria a due anni di reclusione, ritenendolo colpevole dei reati di violenza sessuale aggravata e calunnia.

La sentenza

Le violenze ai danni della segretaria iniziano poco dopo la sua assunzione, datata marzo 2018. "Con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso anche in tempi diversi costringeva la vittima con violenza e contro la sua volontà, a subire atti sessuali", si legge nel capo di imputazione riportato da Il Messaggero. Il titolare la costringeva "ripetutamente a baciarlo, e in un'occasione, le toccava con violenza i glutei con la mano destra completamente aperta". Abusi a cui la donna non era mai riuscita a sottrarsi perché compiuti in modo repentino. I giudici hanno riconosciuto anche l'aggravante per "avere commesso il fatto con abuso di prestazioni di servizio, poiché l'indagato era il datore di lavoro della persona offesa".

La donna, che aveva bisogno di quel lavoro, sopporta fino all'episodio della pacca, dopo di che rassegna le proprie dimissioni mettendo nero su bianco le motivazioni che l'avevano spinta a prendere quella decisione. La scelta di non denunciare il datore di lavoro derivava dal timore di non essere creduta o di veder interpretare quelle molestie come semplici atti di goliardia. È A.E. a fare il primo passo due mesi dopo il licenziamento: nel novembre del 2018 parte la denuncia per diffamazione. Ebbene, a qualche anno dall'episodio della pacca, ecco arrivare un'altra sentenza in cui si dà ragione all'ex segretaria.

Quella notte non volevo e dissi di no al sesso: per questo fu uno stupro”. Andrea Vivaldi su La Repubblica il 20 Settembre 2023 

“La sentenza è vergognosa e non aiuta le donne a denunciare. Che dolore dover ripetere decine di volte le stesse cose ai giudici”. Intervista a alla ragazza che subì violenza da amici assolti perché “fraintesero il suo consenso” 

"Ho chiesto aiuto a un sistema giudiziario che, guardandomi negli occhi mentre ero in lacrime, cercando di mettere insieme i miei ricordi, mi ha chiesto quanti partner avessi avuto prima e dopo il fatto". Mentre parla Camilla (nome di fantasia) sono passati 5 anni da quella notte di metà settembre. All’epoca aveva diciotto anni. Si trovava a una festa in una casa di campagna nel Fiorentino.

Bari, caso Miniello: per la Cassazione «pazienti non costrette al sesso». La Cassazione ribadisce il no al carcere per il ginecologo Miniello chiesto dai Pm baresi. Respinto ricorso della procura. ISABELLA MASELLI su La Gazzetta del Mezzogiorno il 14 settembre 2023.

Non ci sono elementi per sostenere che Giovanni Miniello abbia commesso sulle sue pazienti violenza sessuale «per costrizione», annullando cioè la loro «capacità di autodeterminazione per indurle a consentire alle sue richieste». Sono nette le parole con le quali la Cassazione ha respinto il ricorso della Procura che insisteva perché il ginecologo barese, accusato di aver abusato di decine di ex pazienti durante le visite, proponendo anche loro rapporti sessuali come cura per il papilloma virus, andasse in carcere.

Arrestato il 30 novembre 2021 per violenza sessuale aggravata su due pazienti, per averle molestate durante le visite, dal 22 aprile 2022, revocato l’arresto, Miniello è stato sottoposto per un anno alla misura interdittiva. La Procura aveva impugnato i provvedimenti cautelari: prima i giudici baresi e ora la Cassazione hanno detto «no» ai pm. Stando alle dichiarazioni delle presunte vittime, alcune delle quali cristallizzate in un incidente probatorio, «Miniello indicò quale unica terapia davvero idonea a consentire la guarigione e a prevenire il rischio della insorgenza di tumori, quella consistente nell’avere “contatti” sessuali con persone vaccinate per specificare poi, in un secondo momento, che proprio lui era in grado di fornire una tale prestazione terapeutica. A questo proposito si deve osservare che, a differenza di quanto sostenuto dal pm, l’ordinanza impugnata - dice la Cassazione - ha escluso l’idoneità coercitiva di tale condotta, non solo e non tanto perché quella terapia alternativa non fu proposta come esclusiva e fu comunque prescritta anche una terapia farmacologica, ma soprattutto perché, alla presenza della paziente (in un momento in cui la stessa era spaventata dalla diagnosi che le era stata fatta e dall’indicazione delle possibili gravi complicanze della patologia diagnosticata), l’indagato non disse che era in grado di guarirla col proprio sperma e si limitò a indicare, in termini generici, che esisteva un metodo alternativo alla terapia farmacologica, che richiedeva non meglio specificati “contatti” con una persona vaccinata. Secondo il Tribunale, questa indicazione, pur formulata in un momento in cui la paziente era particolarmente fragile e spaventata dal timore di aver contratto una grave patologia e delle sue possibili complicanze, non era tale da far venir meno la capacità di autodeterminazione della vittima tanto più che, in concreto, alla paziente non fu chiesto di determinarsi in nessun senso».

I fatti contestati risalgono agli anni 2010-2021, in certi casi denunciati molto tempo dopo. La Cassazione si è pronunciata anche sulla tardività di alcune querele, ritenendo che «pur consapevoli della rilevanza penale di quanto subito, le donne decisero inizialmente di non denunciare e si risolsero a farlo solo quando vennero a sapere che altre si erano trovate nella medesima situazione»: troppo tardi perché oltre i sei mesi previsti all’epoca per legge.

Il processo nei confronti del medico è in corso da alcuni mesi (prossima udienza il 28 settembre). Miniello, assistito dagli avvocati Roberto Eustachio Sisto (Studio FPS) e Maria Cristina Amoruso, risponde di violenza sessuale, tentata e consumata, e di lesioni personali su venti donne. Sono costituti parti civili l’Ordine provinciale dei Medici, associazioni e centri antiviolenza baresi e 19 delle presunte vittime del ginecologo.

Estratto dell'articolo di Giuliano Ferrara per "il Foglio" mercoledì 30 agosto 2023.

Le libertà mentono, in qualche caso. I video mentono, spesso, in questo caso no. Il bacio di Luis Rubiales a Jenni Hermoso, e mi pare lo abbia capito anche Michele Serra che ne ha scritto imbarazzato da moralista e umoralista di primo livello, è espressione di un’emozione cerimoniale, non una molestia sessuale; il suo “afferrarla”, il saltello del suo corpo nell’aria tra le sue braccia, l’espressione del viso, la circostanza più che pubblica, da palcoscenico, tutto dice che il processo al capo del calcio spagnolo (ex) è una caccia alle streghe. 

Si può essere più sobri, distaccati, o prudenti se vogliamo, come capita ad altri dirigenti che si complimentano con il team del calcio femminile, anch’essi ripresi dalle telecamere, ma processare pubblicamente, licenziare e dannare con una gogna piena e chiara un maschio che festeggia una donna, una professionista, una calciatrice appena incoronata dal lauro dei Mondiali, e lo fa a quel modo, è una piccola e forse non tanto piccola barbarie.

Non c’è nel gesto espressione alcuna di libidine, di desiderio possessivo, di violazione dello spazio intimo di una donna, non c’è niente di niente di tutto questo. Che poi la Hermoso si dica imbarazzata e costretta nel ruolo, che le sue dichiarazioni possano sollevare un’ondata di riprovazione sociale e politica esagerata, falsa, quella sì priva di pudore e di vergogna, è solo un’aggravante oscura in tutta la storia di divinizzazione di un’etichetta che nulla ha a che fare con l’etica. 

Siamo ai riflessi pavloviani in materia di festeggiamenti ed emozioni: mi ha baciata, dunque è un porco. Se sei una brava donna solidale con le tue compagne “devi” dirlo, “devi” mettere le cose a posto, e consentire che gli automatismi dell’illibertà procedano e travolgano ogni cosa in nome della causa sacrosanta della autonomia e libertà assoluta del corpo femminile.

 Ed è un porco che conviene all’immagine simbolica e storica del machismo spagnolo, una persona che vale come un segnacolo ideologico e che “deve” essersi comportata male perché “deve” esprimere un progetto culturale, divenendone lo scandaloso obiettivo: siamo un paese di impronta franchista, machista, cattolico, in cui i diritti sono stati conculcati fino alla movida sociale di Zapatero e oltre, nella legislazione, nei comportamenti, e Dio ne guardi che cosa potrà avvenire della grande lezione della Cavalleria cervantina, che forse appartiene o apparterrà anch’essa tra poco al panorama di rovine di una cultura che si odia. 

E dunque è legittimo stravolgere la verità palmare che vien fuori da un video, figuriamoci l’invenzione del romanzo: in fondo Dulcinea del Toboso era una santificazione scorretta della femmina e Aldonza Lozano, la sua immagine realistica, brutta unta e agliosa, il rovesciamento della donna amata o di quella immagine nel dismorfismo percepito di sapore maschile. Intanto contro la festa en plein air, sul palco, innocente, si è ritenuto giusto estrarre dal cilindro del wokismo la pena per la colpa, e che serva di lezione esemplare. 

(...)

Da ilnapolista.it mercoledì 30 agosto 2023.

Nuova svolta nel caso Rubiales. A riportarla è il Mundo Deportivo che scrive che nella giornata di oggi “sono venute alla luce alcune immagini in cui si vedono Jenni Hermoso e diverse giocatrici che scherzano e ridono del bacio a stampo tra la calciatrice e Luis Rubiales”. 

Il bacio, diventando oramai infaustamente famoso, ha suscitato molta attenzione nell’opinione pubblica e politica spagnola e sta causando non pochi problemi al presidente della Federcalcio al momento sospeso.

Il Mundo Deportivo continua scrivendo che “già nel pullman dopo la partita, e durante la celebrazione, si vede a mostrare alle sue compagne di squadra l’immagine del bacio, un fatto che ha portato alla squalifica del presidente della RFEF. 

“Come Iker e Sara“, dice Hermoso mostrando una doppia immagine del suo bacio con Rubiales e del famoso bacio tra Casillas e Carbonerotras nella finale della Coppa del Mondo 2010.

“Non l’avete visto?” spiega la giocatrice a diverse delle sue compagne di squadra. “Eccitato, viene e mi ha preso così”, continua la Hermoso. Poi diverse giocatrici hanno iniziato a cantare “Bacio, bacio, bacio” quando Rubiales appare, nel pullman. Secondo le immagini pubblicate dal giornalista Alvise Pérez, l’intera scena si svolge in un’atmosfera di festa e divertimento.

No, quel bacio “mondiale” non è una violenza. Bufera sul presidente della Federcalcio spagnola: il bacio tra Luis Rubiales e Jenni Hermoso. Ma lei lo ha accettato. Max Del Papa su Nicolaporro.it il 22 Agosto 2023.

Ci si chiede cosa sia questo woke, se una ideologia di intolleranti nel nome della tolleranza o semplicemente un coacervo incontrollato di deliri inventati da squilibrati, fanatici o semplicemente opportunisti. Certo la casistica è quotidiana e ogni giorno più esorbitante, ogni giorno qualcosa o qualcuno che fa dubitare di essere ancora nel consorzio umano, di quelli bene o male provvisti di ragione, di senso della misura. L’ultima allucinazione corre in Spagna, dove il presidente della federazione calcistica Luis Ribiales bacia una giocatrice durante la premiazione dei vittoriosi Mondiali femminili: scoppia un cafarnao di ringhi, di muggiti via social, il solito puttanaio sul niente, ma con una cifra di pazzia in più.

In due parole, è la stessa “vittima” a ridimensionare, a riderci sopra, a dire che “è stato un gesto reciproco del tutto spontaneo per la gioia immensa che dà vincere un Mondiale. Io e il presidente abbiamo un ottimo rapporto, il suo comportamento con tutti noi è stato ottimo e quello è stato un naturale gesto di affetto e gratitudine”. Il banale buon senso che chiunque dovrebbe dire in questi casi dai 4 anni in più. Ma si arriva al parossismo per cui “la preda” non sente di essere stata abusata con tutti che le dicono, no, tu hai subito violenza, tu devi sentirti male. E non è negoziabile, non è discutibile, è l’imperativo categorico del woke che esalta la percezione insensata o truffaldina ma ne traccia i confini, si fa medico e giudice, psicologo e boia.

Tu “devi” sentirti violentata, perché così abbiamo deciso. Chi lo ha deciso? Per esempio il ministro, la ministra, fate vobis, Irene Montero che è una delle esagitate del femminismo woke, una del Podemos del nuovo vecchio comunismo rivoluzionario, eccola qua come svalvola: “Non diamo per scontato che il bacio senza consenso sia qualcosa ‘che accade’. È una forma di violenza sessuale che le donne subiscono quotidianamente e fino ad ora invisibile”. È una catasta di eunciati senza connesssione logica, come le carcasse di automobili impilate dagli sfasciacarrozze, una accozzaglia che di per sé non trova significato, che mette insieme è un costrutto senza costrutto. “Non diamo per scontato”, ma è lei che dà per scontato tutto, che in nome della sua personale allucinazione traccia una teoretica filosofica a dimensione universale, una episteme autoritaria ma priva di riscontri, logici come fattuali. Il bacio senza consenso come stupro quotidiano?

Con Montero altri che seguono la corrente, il ministro dello Sport, un eurodeputato che chiede “punizioni decise”, a quanto è dato capire di natura corporale: forse l’evirazione, forse la sedia elettrica. Poi uno va a vedere e ricorda che questa Irene Montero, “ministro dell’Uguaglianza”, uguaglianza marxista, in Spagna è autrice di una riforma che fa scarcerare i pedofili, che gliela fa passare franca: ha detto l’avvocato di uno condannato per abuso di minori: “Il miglior difensore del mio assistito si chiama Irene Montero ed è ministra dell’Uguaglianza”. Come funziona lo ha spiegato la testata cattolica Tempi: “[una riforma] secondo la quale «il consenso prestato da persone di età superiore ai sedici anni non costituisce reato (salvo che detto consenso sia prestato con violenza, intimidazione o abuso di posizione di superiorità o di vulnerabilità della vittima, cosa che non è avvenuta)».

La morale della favola è la seguente: un bacio stampato è presunzione di stupro senza prova contraria, nemmeno da chi lo ha ricevuto; un abuso pedofilo va interpretato, e alla fine si diluisce nel perdonismo. Tempi cita a sua volta el Mundo: “[Montero] ha svuotato il reato di abuso sessuale senza considerare tutte le conseguenze che ne potevano derivare”. Che è precisamente il modo di gestire il potere, insomma di fare politica, della sinistra comunista di ispirazione woke. Da parte sua, il presidente Federcalcio davanti al plotone di esecuzione ha farfugliato scuse stralunate, più scioccato che consapevole: “Non avevo capito, starò più attento”. Come sempre il posto, la conservazione del posto vale più della dignità ma qui non c’è da stare più attenti, un bacio non è la violenza di gruppo dei sette infami di Palermo anche se le Montero con tutti gli esagitati a contorno sosterranno sempre il contrario. Fatto sta che puoi erigere cattedrali sulla percezione ma le categorie, le distinzioni esistono, restano e l’innesto di nuovi attori sociali in contesti tradizionali chiede tempi lunghi di assimilazione.

L’enfasi sul calcio femminile piace a Infantino, piace alla Fifa perché apre nuovi spazi commerciali, nuovi affari televisivi e pubblicitari sotto l’egida del pluralismo politicamente corretto, ma i rituali del calcio sono maschili e lo sono i baci e le effusioni sbrigative e vagamente tribali: anche i rudi terzini e i centravanti spigolosi dopo un gol si sbaciucchiano senza ritegno. Luis Ribiales non è saltato addosso a una donna nel bel mezzo di una cerimonia, ha reagito come avrebbe fatto con un atleta uomo, a prescindere dal sesso, in un esubero di complicità e di esaltazione. Si arriverà a capire che una giocatrice non è un giocatore, che può essere ricevuta, celebrata secondo sfumature più adeguate, ma, nel frattempo, non sarebbe male se tutti si dessero una calmata. Ma ha senso aspettarsi raziocinio da un mondo che lo ha completamente perso?

Max Del Papa, 22 agosto 2023 

Rummenigge difende Rubiales dopo il bacio ad Hermoso: «Gesto normale». Redazione Sport il 22 agosto 2023 su Il Correre della Sera.

Karl Heinz Rummenigge, ex amministratore delegato del Bayern Monaco e oggi membro del comitato esecutivo Uefa, ha difeso Rubiales, ancora al centro delle polemiche

Dopo il bacio stampato sulla bocca di Jenni Hermoso durante la premiazione della Spagna campione del mondo, non accennano a placarsi le polemiche su Luis Rubiales, presidente della Federcalcio, anche lui a Sydney per assistere alla finalissima e a dir poco su di giri negli attimi immediatamente successivi al trionfo sull’Inghilterra. Nelle ultime ore è arrivata anche la dura reprimenda da parte di Pedro Sanchez, con il presidente ad interim del governo che ne ha condannato il gesto: « Inaccettabile, le sue scuse non sono sufficienti e non sono adeguate» . L’unico, fin qui, a ergersi in sua difesa è stato Karl Heinz Rummenigge, ex amministratore delegato del Bayern e ora membro del comitato esecutivo Uefa.

«Non credo che si debba esagerare con questa vicenda — le sue parole — quando diventi campione del mondo, ti emozioni. E quello che Rubiales ha fatto, con tutto il rispetto nei confronti delle giocatrici, è assolutamente normale. Ricordo che, quando noi del Bayern Monaco abbiamo vinto la Champions League nel 2020, ho baciato tutti i miei uomini, non sulla bocca, ma con gioia». Dichiarazioni, quelle di Rummenigge, che a loro volta hanno causato altre polemiche. Donata Hopfen, che è stata la prima donna a capo dell DFL (Deutsche Fußball Liga), ha dichiarato: «Se i due protagonisti in questione, Rubiales da una parte ed Hermoso dall’altra, non perseguono lo stesso intento, il comportamento dell’uomo è da considerarsi negativo. E, dal mio punto di vista, non è accettabile. Può essere invadente ed è così che è stato percepito». Anche Bernd Neuendorf, attuale presidente della federazione tedesca, ha detto la sua: «Ho immaginato di trovarmi in una situazione simile e non credo che mi sarei comportato così».

Estratto dell’articolo di Andrea Vivaldi per “la Repubblica” il 18 agosto 2023.

Sull’abuso non ci sono dubbi: «È accertato che ci siano stati degli atti sessuali non pienamente voluti» si legge nella sentenza.

Quella sera di metà settembre 2018 la ragazza, che aveva fumato cannabis e bevuto anche sotto la spinta del gruppo, fu costretta ad avere un rapporto sessuale da tre compagni di classe durante una festa. 

Ma gli imputati, per il tribunale di Firenze, avrebbero frainteso il consenso della coetanea. La loro fu una «errata percezione», ha spiegato il giudice che per questo ha assolto gli imputati dall’accusa di violenza di gruppo. Ritenendo che il loro non fu un comportamento «penalmente rilevante».

Era passata da poco la mezzanotte. La giovane, all’epoca 18enne, si trovava a una festa in una casa di campagna fuori Firenze. 

Con lei una decina di compagni delle scuole superiori. Uscì in giardino e si sdraiò a terra, le girava la testa perché aveva bevuto. Accanto a lei tre compagni (due maggiorenni e uno minorenne). Uno di loro, incoraggiato da un altro, «continuava a invitarmi a bere, però siccome non volevo e a un certo momento mi sono trovata supina, lui mi appoggiava la bottiglia alla bocca», racconterà pochi mesi dopo sporgendo denuncia e ripercorrendo quei minuti: «Gli dicevo smettila e gli levavo le mani dal mio corpo».

La giovane avrebbe cercato di allontanarsi, ma senza riuscirci frastornata dall’effetto di alcol e stupefacenti. I ragazzi durante il rapporto si sarebbero domandati se lei usasse la pillola anticoncezionale. «Io gli dicevo “no smettetela”, l’ho ripetuto più volte, sin da subito». Poi uno di loro «ridendo, ha detto “ma questo è uno stupro”». E un altro «gli ha risposto “no, no, stai tranquillo”», riporterà la studentessa. 

I minuti dopo furono quelli della disperazione: più invitati ricordano di averla vista rientrare piangendo. A un’amica disse: «Mi hanno stuprata, mi hanno stuprata».

La telefonata ai genitori, poi il rientro a casa in silenzio e sotto shock.

Nei mesi dopo la 18enne non riuscì a terminare la scuola e abbandonò all’ultimo anno senza diplomarsi.

[...]

Lo scorso marzo per due imputati è arrivata la sentenza di assoluzione, mentre per il terzo procede il tribunale minorile.

[...] gli imputanti avrebbero frainteso «l’apparente disinvoltura di comportamento» della compagna. Ci fu, per il giudice, una «situazione certamente equivoca», [...] «Ciò anche in relazione ai pregressi rapporti tra gli stessi» [...]

Urlava smettetela, ma il giudice assolve gli stupratori: «Valutarono male». Un’altra sentenza contro le donne. Continuano nelle aule di giustizia le pronunce che colpevolizzano le vittime. Simbolo di una giustizia incapace di affrontare la violenza di genere. E il caso di Firenze è solo l’ultimo di una lunga lista. Simone Alliva su L'Espresso il 17 Agosto 2023.

Non punibili «per errore sul fatto che costituisce reato». Lo stupro come errore di valutazione del consenso avrebbe portato tre ragazzi di 19 anni a stuprare una ragazza di 18 anni. Una sorta di leggerezza che ha portato all’assoluzione dei due imputati.

Le motivazioni della sentenza dello scorso marzo sono state pubblicate solo nei giorni scorsi. Processati con rito abbreviato dal gup di Firenze, il giudice spiega che «non essendo il delitto di violenza sessuale punito a titolo di colpa, non può essere considerato rilevante ai fini di una residua affermazione di responsabilità penale». Il gup quindi scrive che «l’errata percezione» dei tre ragazzi «se non cancella l’esistenza oggettiva di una condotta di violenza sessuale, impedisce di ritenere penalmente rilevante la loro condotta».

Anche se la ragazza implorava «Smettetela, smettetela». Anche se uno di loro, ridendo, diceva «Questo è uno stupro» e l’amico, gli rispondeva «No, no, vai tranquillo». L’epilogo di una violenza nata con una denuncia depositata nel 2019, e un processo di primo e ultimo grado che arriva a marzo 2023. Nel corso del processo era emerso che la ragazza aveva già avuto in passato rapporti con uno degli imputati, anche davanti ad altre persone. Ma non solo. Nelle motivazioni, il giudice si spinge anche a tratteggiare un profilo dei due imputati, considerati «condizionati da un’inammissibile concezione pornografica delle loro relazioni con il genere femminile, forse derivante di un deficit educativo e comunque frutto di una concezione assai distorta del sesso». 

Non è una sentenza shock ma è violenza di Stato, scrivono le attiviste femministe sui social. «Uno shock si ha quando siamo davanti a qualcosa di imprevedibile e raro. Queste sentenze non lo sono. Queste sentenze sono comunissime e rispecchiano in modo pateticamente accurato la cultura in cui viviamo. Quindi no, non sono "sentenze shock"», ribadisce Carlotta Vagnoli, scrittrice e transfemminista.

Un ritorno al passato quello delle sentenze che colpevolizzano le vittime: la colpa è ancora di chi ha subito la violenza perché ha provocato la bestia insita per natura nell’uomo, in quanto magari aveva i jeans stretti, o la minigonna o gli aveva sorriso.

È così da sempre, lo aveva spiegato a L’Espresso anche la magistrata Paola Di Nicola Travaglini: «La paura del legislatore è che si dia alle donne vittime il potere di rappresentare la loro volontà».

Prima di questa sentenza, a far discutere, era stata quella dei giudici del Tribunale di Roma che hanno assolto un bidello di un istituto scolastico della capitale finito sotto processo con l'accusa di violenza sessuale per avere toccato una studentessa nell'aprile 2022. Per il tribunale il toccamento, durato "tra i 5 e i 10 secondi", da considerarsi "quasi uno sfioramento", è avvenuto ma senza la volontà di molestare la minorenne. Ma non solo. Basta scorrere le sentenze degli ultimi sei anni, le motivazioni hanno un valore - chiamiamolo così - in sé e raccontano lo spirito del tempo.

“Troppo brutta per essere stuprata”

Nel 2017 la Cassazione assolve due ragazzi accusati di aver violentato una coetanea: siccome era poco avvenente non è credibile che possa essere stata stuprata. Così tre giudici della corte d’Appello di Ancona hanno assolto due giovani dall’accusa di violenza sessuale su una ventiduenne peruviana. I due imputati erano stati condannati in primo grado a cinque e tre anni di carcere. In secondo grado l’assoluzione decisa da una corte composta da tre donne. Che hanno motivato così la sentenza. All’imputato principale, secondo le giudici, «la ragazza neppure piaceva, tanto da averne registrato il numero di cellulare sul proprio telefonino con il nominativo ‘Vikingo‘ con allusione a una personalità tutt’altro che femminile quanto piuttosto mascolina». Quindi il commento tra parentesi: «Come la fotografia presente nel fascicolo processuale appare confermare».

Assolto per la “mancata reazione della vittima”. Non aveva urlato, né pianto

Disse “basta” ma non urlò. Con questa motivazione, il tribunale di Torino, ha assolto nel 2017 dalla accusa di violenza sessuale un operatore della Croce Rossa, denunciato da una collega per presunti abusi sul luogo di lavoro. La donna, che ora dovrà rispondere di calunnia, non avrebbe “tradito quella emotività che pur doveva suscitare in lei la violazione della sua persona”. L’uomo è stato dunque assolto perché “il fatto non sussiste”. La vittima “non grida, non urla, non piange e pare abbia continuato il turno dopo gli abusi”. Tra le colpe della vittima, si legge nei documenti, anche il non aver “riferito di sensazioni o condotte molto spesso riscontrabili in racconti di abuso sessuale, sensazioni di sporco, test di gravidanza, dolori in qualche parte del corpo”. Inoltre nella sua descrizione si sarebbe limitata a parlare di disgusto, ma non avrebbe saputo spiegare “in cosa consisteva questo malessere”.

Assolto perché la vittima avrebbe aspettato 20 secondi prima di opporsi

Siamo nel 2018, una hostess denuncia un sindacalista della Fit Cisl, a cui aveva chiesto aiuto in una causa di lavoro, per averle messo le mani addosso negli uffici del sindacato dell’aeroporto di Malpensa. La donna ha raccontato che l’uomo l’aveva palpeggiata. Ma nel 2022 le tre giudici del collegio giudicante, pur riconoscendo la «credibilità del racconto della donna» hanno deciso per l’assoluzione dell’imputato per «insussistenza del fatto». Il motivo? La hostess non avrebbe reagito tempestivamente ai palpeggiamenti, aspettando almeno venti secondi per fermare l’azione del sindacalista. Per questa ragione l’uomo è stato completamente assolto.

La porta socchiusa del bagno: “Un invito a osare”

Siamo nel 2019. La storia è di due ragazzi che si conoscono da circa cinque anni e si incontrano per le strade del centro. Si sono baciati occasionalmente, ma lei ha chiarito che si trattava di un fatto episodico e che non aveva «alcuna intenzione di iniziare una relazione sentimentale», si legge nella sentenza del gup. Dopo qualche bicchiere in un locale di Via Garibaldi dove il venticinquenne lavorava in passato, la ragazza va in bagno, lascia la porta socchiusa e chiede a lui di porgerle dei fazzoletti. A quel punto il ragazzo entra, tappa la bocca di lei con una mano e le sfila i pantaloni strappandone la cerniera. Per il gup è «violenza sessuale», ma non per la corte d’appello che nel 2022 ribalta la sentenza: dato che «si trattenne in bagno, senza chiudere la porta, così da fare insorgere nell’uomo l’idea che questa fosse l’occasione propizia che la giovane gli stesse offrendo. Occasione che non si fece sfuggire», argomentano i giudici. «Un invito a osare», per la Corte d’appello di Torino «Invito che l’uomo non si fece ripetere, ma che poi la ragazza non seppe gestire, poiché un po’ sbronza e assalita dal panico». Si legge nella sentenza dei giudici: «Non si può affatto escludere che al ragazzo, la giovane abbia dato delle speranze, facendosi accompagnare in bagno, facendosi sporgere i fazzoletti, tenendo la porta socchiusa». 

Denuncia il marito ma per il Pm l’uomo deve “vincere le resistenze”

Siamo a Benevento nel 2021. Una donna denuncia il marito per maltrattamenti e atti sessuali violenti. La donna parla «di pressione esercitata dal marito che la faceva sentire obbligata ad avere rapporti sessuali con lui», rapporti che avrebbe subito «per non svegliare il figlio». Inoltre, in una circostanza specifica, sarebbe stata minacciata con una lama. Ma secondo il magistrato «i fatti carnali devono essere ridimensionati nella loro portata» perché ci sono delle volte in cui un uomo «si trova a dover vincere quel minimo di resistenze che ogni donna, nel corso di una relazione stabile e duratura, nella stanchezza delle incombenze quotidiane, tende a esercitare quando un marito tenta un approccio sessuale», scrive il pm nella richiesta di archiviazione.

Estratto dell'articolo di Salvatore Stanizzi per ilgiornale.it il 14 luglio 2023.

Benjamin Mendy, ex difensore del Manchester City, è stato dichiarato non colpevole di aver violentato una donna e tentato di violentarne un'altra. L’assoluzione con formula piena dalle accuse mosse contro di lui da sei donne significa, di fatto, la parole fine su una vicenda che ha concluso anticipatamente la carriera dell’ex nazionale francese, il quale ha pianto davanti alla giuria mentre veniva letto il verdetto. 

Le sei donne lo avevano accusato di essere state aggredite sessualmente nella sua villa tra ottobre 2018 e agosto 2021, durante feste illegali tenute in violazione delle restrizioni per la pandemia da Covid-19. Nel corso di tutte le udienze Mendy si è sempre difeso asserendo di non aver compiuto i fatti a lui imputati e di aver sempre rispettato la volontà delle donne con le quali intratteneva rapporti, senza aver mai obbligato o costretto nessuna delle accusatrici ad avere rapporti sessuali con lui.

[…]

Mendy è stato arrestato per la prima volta nel novembre 2020 dopo che una giovane donna lo ha accusato di averla violentata poche settimane prima dopo averlo incontrato in un bar ad Alderley Edge, insieme all’ex Manchester United Jesse Lingard. Mendy è stato rilasciato subito dopo per poi essere nuovamente arrestato il 4 gennaio 2021 quando una seconda donna lo aveva denunciato alla polizia, accusandolo di averla aggredita sessualmente a una festa a casa sua il 2 gennaio 2021. 

È stato rilasciato su cauzione a condizione che non organizzasse feste a casa sua e continuasse a giocare per il Manchester City. Eppure il giudice ha avuto prova che Mendy ha continuato a invitare molte ragazze. […]

È stato durante una di queste feste, esattamente il 23 agosto 2021, che è piombata addosso a Mendy l’accusa più pesante, quella di una ragazza diciassettenne che lo ha accusato di stupro. Alla base della denuncia anche l’intercettazione di una chiamata fra i due, nella quale Mendy chiedeva alla ragazza se avesse preso la pillola dopo aver avuto un rapporto non protetto. Dal 26 agosto 2021 sono nuovamente scattate le manette per Mendy e da allora è stato sospeso e messo in congedo non retribuito dal Manchester City.

[…]

Estratto dell'articolo di Massimo Gramellini per il Corriere della Sera mercoledì 26 luglio 2023.

Mi piacerebbe prendere un caffè con la dottoressa Bonaventura del tribunale di Roma per approfondire la sua visione del mondo. Fu lei ad assolvere il bidello che aveva toccato il sedere di una studentessa nello stesso tempo impiegato da Jacobs per vincere i 100 metri alle Olimpiadi, sentenziando che sotto i dieci secondi il palpeggiamento è fugace, suppongo assimilabile a un gesto di cortesia.

Ora la giudice si rivela recidiva, perché dopo il bidello manda assolto anche il dirigente di museo accusato da un’impiegata di saltarle addosso negli sgabuzzini, sniffandole i capelli al grido di «Quanto mi arrapi».  

(...) Invece la magistrata sente il bisogno di aggiungere che «la ragazza era probabilmente mossa da complessi sul proprio aspetto fisico (segnatamente il peso)» che l’avrebbero portata a «ritenersi aggredita fisicamente». 

Per la giudice-psicanalista una donna sovrappeso è indotta a vedere molestie dove non ci sono: se il direttore di museo avesse sniffato i capelli a Margot Robbie in uno sgabuzzino gridandole «Quanto mi arrapi», lei lo avrebbe correttamente interpretato come un complimento alla sua marca di shampoo, senza farsi venire strane idee.

Sì, vorrei tanto approfondire la visione del mondo della dottoressa Bonaventura.

Soprattutto vorrei capire perché si ostini a tradurre questa visione non in saggi o romanzi, ma in sentenze.

Estratto dell'articolo di Paolo Russo per “la Stampa” mercoledì 26 luglio 2023.

La prima volta aveva fatto scandalo assolvendo il bidello dall'accusa di molestie sessuali perché la palpeggiata all'alunna era duratura soltanto 10 secondi, ora c'è ricascata perché la vittima di un altro palpeggiatore era «complessata a causa del peso».

Due sentenze a dir poco controverse e un'unica firma, quella della giudice Maria Bonaventura, presidente di sezione al Tribunale di Roma. 

Stavolta l'accusa di molestie sessuali è partita da una donna, dipendente di un museo della Capitale, che sarebbe anche lei stata palpeggiata da un suo dirigente. In questo caso nessuno ha cronometrato la palpata, ma la giudice ha comunque assolto l'imputato scrivendo nel dispositivo della sentenza: «non si può escludere che la parte lesa, probabilmente mossa dai complessi di natura psicologica (segnatamente il peso) abbia rivisitato inconsciamente l'atteggiamento dell'imputato nei suoi confronti fino al punto di ritenersi aggredita fisicamente».

Insomma la donna si sarebbe alla fin fine inventato tutto perché vittima di complessi legati alla propria obesità. C'è da dire che i musei capitolini hanno subito allontanato il direttore, ma in tribunale è stato tutto un minimizzare da parte delle colleghe, che hanno ridimensionato i fatti dipingendo l'imputato come uno che ama lo scherzo, il gioco. Insomma, la solidarietà tra donne in questo caso non si è vista. Ma non è la prima volta che accade quando a testimoniare è chi nel proprio lavoro dipende dall'imputato. Che tornerà però in tribunale, giacché la procura ha presentato ricorso. 

(...)

Estratto da open.online domenica 13 agosto 2023.

La giudice Maria Bonaventura del Tribunale di Roma, che a luglio pronunciò la sentenza di assoluzione dall’accusa di violenza sessuale del bidello, ritenuto innocente perché avrebbe toccato la studentessa «solo per una manciata di secondi», a febbraio ha condannato a 1 anno e 4 mesi un uomo per aver toccato il seno a una turista.

L’episodio risale al 22 gennaio 2022, quando il 44enne, uno dei centurioni romani che intorno al Colosseo e all’area archeologica intrattengono i visitatori, ha palpeggiato una donna durante una foto ricordo. La vittima era arrivata a Roma da Palermo e stava visitando i Fori imperiali quando si è avvicinata a un gruppetto di centurioni per chiedere una fotografia. Uno di loro, durante lo scatto, l’ha toccata velocemente.

La turista in un primo momento ha creduto si fosse trattato di un gesto involontario o maldestro, ma è stato lo stesso uomo a fugarle ogni dubbio: «Tanto hai poco seno», così la 21enne lo ha denunciato. Il Tribunale l’ha ritenuto colpevole di violenza sessuale, riconoscendogli le attenuanti proprio per la durata del gesto. […] 

 A differenza di quel caso, il centurione ha però ammesso l’intenzionalità del gesto, mentre per l’operatore scolastico i giudici hanno considerato l’episodio un atto accidentale.

Estratto dell'articolo di Romina Marceca per “la Repubblica” mercoledì 26 luglio 2023.

Sentenze scritte da giudici donne e «in cui le donne non vengono credute e ridotte quasi a imputate. Siamo oltre il diritto, si sta riducendo a coriandoli il Codice Rosso. Poi non lamentiamoci quando le denunce diminuiscono». Bo Guerreschi, la presidente della onlus “bon’t worry” che si occupa di violenze di genere, tra le mani rigira le decisioni emesse dalla quinta sezione collegiale del tribunale di Roma, presieduta da Maria Bonaventura. Tra queste, quella del bidello assolto per “palpeggiamento breve”. 

È infuriata: «Chiedo l’intervento del ministro della Giustizia Carlo Nordio. Spero che a breve invii gli ispettori, questi verdetti lasciano senza parole e mi fanno pensare che lottiamo per qualcosa che la giustizia ci nega». L’attivista interviene sulle polemiche rilanciate anche dal New York Times perché «questo è lo stesso collegio del processo per lo stupro di Capodanno 2021 in cui noi difendiamo la vittima, abusata da cinque giovani. Finirà che sarà giudicata come una poco di buono». 

Lei sostiene che il collegio ha “punito” la vostra assistita. Cosa è accaduto?

«Il 22 maggio Bianca (nome di fantasia, ndr ) è stata ascoltata per la prima volta in aula come testimone. Era stato richiesto, e accolto dal tribunale, che Bianca accedesse all’aula Aurora. Si tratta di un luogo protetto dentro il tribunale che permette alle vittime di essere interrogate senza lo stress di stare davanti ai giudici e agli imputati ».

Ma non è andata così.

«La difesa dell’unico imputato, Patrizio Ranieri, ha prodotto un’intervista rilasciata da Bianca a Repubblica e ha chiesto di sentire la vittima in aula. Non c’erano più esigenze di protezione, secondo l’avvocata di Ranieri. E la presidente ha detto, riferendosi all’articolo: «È inaccettabile, va bene». E ha revocato la sala. Bianca ha subito cinque ore di interrogatorio incrociando il suo violentatore, ha avuto diritto a una sola pausa per un bicchiere d’acqua. La presidente le ha anche vietato di parlare con il nostro difensore. Un trattamento assurdo». 

Vi siete opposti?

«Certo, ma l’opposizione è stata rigettata. Bianca ha pagato perché si è permessa di esprimere su un giornale cosa ha vissuto in questi anni sulla sua pelle. Adesso fremo ». 

Perché?

«Aspetto di essere sentita per rispondere a questo tribunale. Le sentenze che sto leggendo mi preoccupano molto. Sono orribili, non si possono accettare, sono indegne. Stiamo tornando indietro di decenni. Il messaggio che si trasmette è che le donne devono essere tolleranti. Noi abbiamo 1.300 casi e lo stupro di Primavalle aspetta giustizia da quasi 4 anni. Spero la ottenga». 

(...)

Lei ha deciso di proporre una chiamata alle armi di tutte le associazioni che si occupano di donne.

«È il momento di fare fronte comune. A fine settembre organizzeremo un summit in cui chiedo a tutte le associazioni di partecipare ma anche a magistrati e forze dell’ordine. Il Codice Rosso va riformulato da chi vive tutti i giorni nei tribunali e conosce difficoltà e vicende da vicino. E può proporre soluzioni concrete e attuabili». 

Le sentenze choc della giudice: dalla "palpata sotto i 10 secondi" alla vittima "complessata". La giudice che ha assolto il dirigente di un museo dall’accusa di molestie sessuali è la stessa che non ritiene reato la “palpata” sotto i 10 secondi. Nel 2021 derubricò un tentato omicidio in lesioni aggravate. Rosa Scognamiglio il 25 Luglio 2023 su Il Giornale.

La "palpata sotto i 10 secondi" non è reato. E non si può parlare di molestie se la parte lesa "probabilmente mossa da complessi di natura psicologica sul proprio aspetto fisico (segnatamente il peso) abbia rivisitato inconsciamente l'atteggiamento dell'imputato nei suoi confronti fino al punto di ritenersi aggredita fisicamente". Sono le motivazioni con cui la presidente della Sezione penale del Tribunale di Roma, la giudice Maria Bonaventura, ha assolto due imputati: uno dall’accusa di violenza sessuale aggravata e l’altro per molestie sessuali. Nel primo caso, si tratta dell’episodio contestato al bidello 66enne di un istituto professionale capitolino che aveva palpeggiato i glutei a una studentessa di 17 anni e nell’altro del dirigente di un museo accusato di aver molestato una giovane dipendente. Il magistrato non è nuovo, per così dire, alla linea soft. Nel 2021 non aveva riconosciuto il reato di tentato omicidio contestato a un coniuge maltrattante per aver inferto alcune coltellate alla moglie poiché aveva ritenuto che i fendenti "non erano stati penetranti fino agli organi vitali".

Molesta la dipendente, il giudice lo assolve: "Lei complessata". Lui "giocherellone"

La "palpata sotto i dieci secondi non è reato"

Una vicenda, quella della "palpata breve", che ha sollevato non poche polemiche. Al punto da spingere la procura a presentare ricorso contro la sentenza di assoluzione emessa dalle tre giudici della V sezione penale del Tribunale di Roma nei confronti del bidello 66enne. I fatti in breve: la mattina del 12 aprile 2022, il collaboratore scolastico aveva palpeggiato i glutei di una studentessa 17enne sulle scale della scuola. La ragazza aveva quantificato la durata del palpeggiamento tra i 5 e i 10 secondi. Il collegio, presieduto da Maria Bonaventura, aveva ritenuto che il toccamento era stato accidentale e dunque scevro da qualunque intenzione molesta da parte dell’imputato. Lo sfioramento "è durato tra i 5 e i 10 secondi - avevano messo nero su bianco le tre giudici - Pertanto appare convincente la tesi difensiva dell'atto scherzoso". E dunque il bidello era stato assolto perché "il fatto non costituisce reato".

La "palpata breve" non è reato. Assolto bidello accusato di molestie

Il caso del dirigente assolto dall’accusa di molestie

Sulla falsariga di quella precedente, anche la sentenza di assoluzione per il dirigente del museo capitolino accusato di aver molestato sessualmente una dipendente. La giovane, 20 anni, aveva denunciato il suo superiore che, in tre occasioni, si era fatto avanti con lei in modo piuttosto molesto. In una circostanza le aveva toccato fianchi, pancia e seno salvo poi baciarla contro la sua volontà. Ma per la giudice Bonaventura "non si può escludere che la parte lesa, probabilmente mossa da complessi di natura psicologica sul proprio aspetto fisico (segnatamente il peso) abbia rivisitato inconsciamente l'atteggiamento dell'imputato nei suoi confronti fino al punto di ritenersi aggredita fisicamente". In sintesi: la ragazza (per problemi inerenti alla percezione del suo aspetto fisico, per di più) ha frainteso l’atteggiamento del capo.

Caso "palpata breve": 90 mila firme contro l'assoluzione del bidello

Da tentato omicidio a lesioni aggravate

C’è poi un’altra sentenza emessa il 4 ottobre 2021 dal collegio composto dal presidente Maria Bonaventura e dalle giudici Giunti-Bracone. È il caso di un coniuge maltrattante che aveva aggredito la moglie con un coltello da cucina durante un’accesa discussione avvenuta la sera del 22 novembre 2020. L’accusa aveva chiesto una condanna per tentato omicidio nei confronti dell’imputato ma per le giudici "la scarsa forza impressa nell’azione di accoltellamento, tanto che i fendenti non sono stati penetranti fino agli organi vitali, e le modalità di accoltellamento mentre la vittima veniva bloccata, si pongono in contrasto con la volontà di provocare la morte" della donna. L’uomo era stato condannato a anni e sei mesi di reclusione per lesioni aggravate.

La palpata “era breve”, la ragazza “troppo brutta”, la porta “socchiusa”: le sentenze vergogna sul corpo delle donne. Il caso del bidello e del tocco nelle parti intime “da considerarsi quasi uno sfioramento" è l’ultimo di una serie di pronunciamenti che raccontano una giustizia incapace di affrontare la violenza di genere. Simone Alliva su L'Espresso il 13 luglio 2023.

Dove la storia si misura con la forza dei muscoli le donne soccombono. È così da sempre, lo aveva spiegato a L’Espresso anche la magistrata Paola Di Nicola Travaglini: «La paura del legislatore è che si dia alle donne vittime il potere di rappresentare la loro volontà». In passato è stato scritto nelle sentenze che hanno immortalato un tempo che sembrava scivolato via: la colpa era di chi aveva subito la violenza perché aveva provocato la bestia insita per natura nell’uomo, in quanto magari aveva i jeans stretti, o la minigonna o gli aveva sorriso. Un corso che sembrava interrotto da una presa di coscienza, delle donne, dei movimenti di liberazione. Poi qualcosa si è rotto. Qualcosa contro le ragioni del tempo è successo. Ci abbiamo provato, avete visto, ma abbiamo perduto.

Una resa, scritta nera su bianco, nell'ultima sentenza dei giudici del Tribunale di Roma che hanno assolto un bidello di un istituto scolastico della capitale finito sotto processo per l'accusa di violenza sessuale per avere toccato una studentessa nell'aprile 2022. Per il tribunale il toccamento, durato "tra i 5 e i 10 secondi", da considerarsi "quasi uno sfioramento", è avvenuto ma senza la volontà di molestare la minorenne. È qualcosa che riguarda le migliaia di donne vittime di violenza domestica, perseguitate da ex compagni, fidanzati respinti, sconosciuti ossessionati. Basta scorrere le sentenze degli ultimi sei anni, le motivazioni hanno un valore - chiamiamolo così - in sé e raccontano lo spirito del tempo.

“Troppo brutta per essere stuprata”

Nel 2017 la Cassazione assolve due ragazzi accusati di aver violentato una coetanea: siccome era poco avvenente non è credibile che possa essere stata stuprata. Così tre giudici della corte d’Appello di Ancona hanno assolto due giovani dall’accusa di violenza sessuale su una ventiduenne peruviana. I due imputati erano stati condannati in primo grado a cinque e tre anni di carcere. In secondo grado l’assoluzione decisa da una corte composta da tre donne. Che hanno motivato così la sentenza. All’imputato principale, secondo le giudici, «la ragazza neppure piaceva, tanto da averne registrato il numero di cellulare sul proprio telefonino con il nominativo ‘Vikingo‘ con allusione a una personalità tutt’altro che femminile quanto piuttosto mascolina». Quindi il commento tra parentesi: «Come la fotografia presente nel fascicolo processuale appare confermare».

Assolto per la “mancata reazione della vittima”. Non aveva urlato, né pianto

Disse “basta” ma non urlò. Con questa motivazione, il tribunale di Torino, ha assolto nel 2017 dalla accusa di violenza sessuale un operatore della Croce Rossa, denunciato da una collega per presunti abusi sul luogo di lavoro. La donna, che ora dovrà rispondere di calunnia, non avrebbe “tradito quella emotività che pur doveva suscitare in lei la violazione della sua persona”. L’uomo è stato dunque assolto perché “il fatto non sussiste”. La vittima “non grida, non urla, non piange e pare abbia continuato il turno dopo gli abusi”. Tra le colpe della vittima, si legge nei documenti, anche il non aver “riferito di sensazioni o condotte molto spesso riscontrabili in racconti di abuso sessuale, sensazioni di sporco, test di gravidanza, dolori in qualche parte del corpo”. Inoltre nella sua descrizione si sarebbe limitata a parlare di disgusto, ma non avrebbe saputo spiegare “in cosa consisteva questo malessere”.

Assolto perché la vittima avrebbe aspettato 20 secondi prima di opporsi

Siamo nel 2018, una hostess denuncia un sindacalista della Fit Cisl, a cui aveva chiesto aiuto in una causa di lavoro, per averle messo le mani addosso negli uffici del sindacato dell’aeroporto di Malpensa. La donna ha raccontato che l’uomo l’aveva palpeggiata. Ma nel 2022 le tre giudici del collegio giudicante, pur riconoscendo la «credibilità del racconto della donna» hanno deciso per l’assoluzione dell’imputato per «insussistenza del fatto». Il motivo? La hostess non avrebbe reagito tempestivamente ai palpeggiamenti, aspettando almeno venti secondi per fermare l’azione del sindacalista. Per questa ragione l’uomo è stato completamente assolto.

La porta socchiusa del bagno: “Un invito a osare”

Siamo nel 2019. La storia è di due ragazzi che si conoscono da circa cinque anni e si incontrano per le strade del centro. Si sono baciati occasionalmente, ma lei ha chiarito che si trattava di un fatto episodico e che non aveva «alcuna intenzione di iniziare una relazione sentimentale», si legge nella sentenza del gup. Dopo qualche bicchiere in un locale di Via Garibaldi dove il venticinquenne lavorava in passato, la ragazza va in bagno, lascia la porta socchiusa e chiede a lui di porgerle dei fazzoletti. A quel punto il ragazzo entra, tappa la bocca di lei con una mano e le sfila i pantaloni strappandone la cerniera. Per il gup è «violenza sessuale», ma non per la corte d’appello che nel 2022 ribalta la sentenza: dato che «si trattenne in bagno, senza chiudere la porta, così da fare insorgere nell’uomo l’idea che questa fosse l’occasione propizia che la giovane gli stesse offrendo. Occasione che non si fece sfuggire», argomentano i giudici. «Un invito a osare», per la Corte d’appello di Torino «Invito che l’uomo non si fece ripetere, ma che poi la ragazza non seppe gestire, poiché un po’ sbronza e assalita dal panico». Si legge nella sentenza dei giudici: «Non si può affatto escludere che al ragazzo, la giovane abbia dato delle speranze, facendosi accompagnare in bagno, facendosi sporgere i fazzoletti, tenendo la porta socchiusa». 

Denuncia il marito ma per il Pm l’uomo deve “vincere le resistenze”

Siamo a Benevento nel 2021. Una donna denuncia il marito per maltrattamenti e atti sessuali violenti. La donna parla «di pressione esercitata dal marito che la faceva sentire obbligata ad avere rapporti sessuali con lui», rapporti che avrebbe subito «per non svegliare il figlio». Inoltre, in una circostanza specifica, sarebbe stata minacciata con una lama. Ma secondo il magistrato «i fatti carnali devono essere ridimensionati nella loro portata» perché ci sono delle volte in cui un uomo «si trova a dover vincere quel minimo di resistenze che ogni donna, nel corso di una relazione stabile e duratura, nella stanchezza delle incombenze quotidiane, tende a esercitare quando un marito tenta un approccio sessuale», scrive il pm nella richiesta di archiviazione.

La «palpata breve» non è reato. Il bidello assolto a Roma perché durava solo «una manciata di secondi». Giulio De Santis su Il Corriere della Sera l'8 luglio 2023.

 Una manovra maldestra, «accidentale», tanto che «appare convincente la tesi difensiva dell’atto scherzoso» dicono i giudici. 

Mentre gli allievi salivano le scale, ha toccato i glutei di Laura (nome di fantasia) una studentessa di 17 anni per «una manciata di secondi». Ma senza indugiare nel toccamento. Una manovra maldestra, «accidentale», tanto che «appare convincente la tesi difensiva dell’atto scherzoso». Motivo per cui, scrive il tribunale, Antonio Avola, 66 anni, bidello dell’istituto Cine Tv Roberto Rosellini, deve essere assolto dall’accusa di violenza sessuale.

La formula utilizzata dai giudici della quinta sezione penale: «perché il fatto non costituisce reato». Terminologia che significa: il 12 aprile del 2022 il toccamento, «durato tra i 5 e i 10 secondi» come denunciato dalla studentessa, è avvenuto, ma senza l’elemento soggettivo, ossia l’intenzione da parte di Avola di molestare la giovane. 

Il pm  aveva chiesto la condanna   a 3 anni e 6 mesi 

Una ricostruzione opposta a quella del pm che aveva chiesto la condanna dell’imputato a 3 anni e 6 mesi di reclusione, ritenendo provata la volontà del bidello di palpeggiare Laura. Ora bisogna tornare indietro alla mattina del 12 aprile di un anno fa, quando Laura, mentre sta salendo le scale insieme a un’amica per andare in classe, avverte che i pantaloni le stanno calando. Proprio in quello stesso istante – come Laura racconta ai giudici - sente qualcuno da dietro che le mette le mani nei pantaloni, sotto gli slip. Poi quelle mani, prima le toccano i glutei, poi le afferrano le mutandine, e infine si sente sollevata di due centimetri. La ragazza si gira e vede il bidello. Allora si allontana, muta.

Manovra «maldestra ma priva di concupiscenza».

Avola – sempre secondo la versione della giovane - la insegue, per dirle: «Amo’, lo sai che scherzavo». Le parole della giovane non sono campate in aria. Come scrivono i giudici, esiste un riscontro esterno, la testimonianza dell’amica di Laura che ha riferito di aver visto il toccamento. Nel processo anche Avola – difeso dall’avvocato Claudia Pirolli - ammette di aver toccato i glutei di Laura, di averla sollevata, però «per scherzo» e senza mettere le mani sotto i pantaloni. Il racconto della ragazza – assistita dall’avvocato Andrea Buitoni - è creduto dai giudici. Tuttavia, per il collegio, l’azione «dura una manciata di secondi, senza alcun indugio nel toccamento». Una manovra «maldestra ma priva di concupiscenza».

Estratto da open.online sabato 8 luglio 2023.

Antonio Avola, collaboratore scolastico dell’istituto Cine Tv Roberto Rossellini, è stato assolto dall’accusa di violenza sessuale. Perché ha toccato i glutei di Laura, una 17enne che frequentava all’epoca l’istituto, ma non lo ha fatto abbastanza. I giudici sostengono che la manovra sia stata maldestra e accidentale. Tanto che appare convincente la tesi difensiva dell’atto scherzoso.

A raccontare la storia è l’edizione romana del Corriere della Sera. I giudici hanno assolto il bidello «perché il fatto non costituisce reato». Il 12 aprile del 2022 il toccamento, «durato tra i 5 e i 10 secondi» come denunciato dalla studentessa, è avvenuto. Ma senza l’elemento soggettivo, ossia l’intenzione da parte di Avola di molestare la giovane. Il pubblico ministero aveva chiesto una condanna a tre anni e mezzo di reclusione.

La storia parte il 12 aprile dell’anno scorso. Quando la ragazza sta salendo le scale insieme a un’amica per entrare in classe. A un certo punto sente che i pantaloni le stanno calando. E che qualcuno le mette le mani sotto gli slip. Le mani toccano i glutei, afferrano le mutandine. Lei si gira e vede il bidello. «Amo’, lo sai che scherzavo», dice lui a lei.  […]

Estratto dell’articolo di Clemente Pistilli per “la Repubblica - Edizione Roma” il 26 giugno 2023.

Il bidello è stato nuovamente condannato. Ma chi ha lasciato per venti anni il collaboratore scolastico, pedofilo recidivo, a lavorare a stretto contatto con i bambini l’ha fatta franca ancora una volta. 

La Corte dei Conti ha emesso una condanna nei confronti di un ultrasessantenne di Pozzuoli, che dovrà risarcire oltre 170mila euro al Ministero dell’istruzione, e ha assolto il dirigente dell’Ufficio scolastico regionale accusato di non aver controllato che il bidello, appunto, non avesse condanne penali.

Nel 2020 il collaboratore scolastico di origine campana e il Ministero sono stati condannati in sede civile a pagare 228mila euro ai genitori di un bambino di dieci anni, che nel 2008 subì abusi sessuali dal bidello all’interno dei bagni della centrale scuola Bonghi di via Guicciardini. Una vicenda per cui l’ultrasessantenne, sul fronte penale, ha anche avuto una condanna a sei anni di reclusione e che l’ha fatto finire definitivamente fuori dalla scuola. 

Esploso il caso, però, è emerso pure che il bidello era già stato accusato di abusi sessuali sui bambini, quando lavorava in Campania, e che nel 1991 aveva patteggiato la pena a un anno e nove mesi di reclusione. Nel 2000, nove anni dopo, il Tribunale di Sorveglianza di Napoli gli aveva concesso la riabilitazione e il collaboratore scolastico si era trasferito a Roma. […]

Nel 2005 ha infatti ricevuto un’altra denuncia, con l’accusa di abusi sessuali su una ragazzina di 12 anni nell’istituto Belli in zona Prati. Sospeso e poi fatto tornare a lavoro, nel 2007 il collaboratore scolastico è stato condannato a due anni e due mesi per violenza sessuale ai danni di un minore e all’interdizione perpetua da qualsiasi incarico presso le scuole di ogni ordine e grado.

Game over? Neppure per sogno. A quanto pare, semplicemente non facendo cenno alle precedenti condanne, nel 2008 il bidello ha potuto lavorare tranquillamente nella scuola Bonghi, dove ha abusato del bambino di dieci anni. Nessuno ha controllato e nessuno ha pagato per tale omissione. […]

Non c’è nessuna prova della “palpatina breve”. Ma le parole (di un giudice) sono importanti... Dal caso del bidello assolto al dirigente “graziato”: quando le sentenze diventano un facile slogan per suscitare l’indignazione della pubblica opinione ad andare di mezzo sono il processo e le presunte vittime di violenza. Complice anche un linguaggio “attaccabile”. Simona Musco su Il Dubbio il 26 luglio 2023

Il linguaggio è forse superficiale, inappropriato. Ma da nessuna parte, nella sentenza che ha assolto un operatore scolastico romano dall’accusa di aver infilato le mani negli slip di una studentessa minorenne, c’è scritto che non è violenza perché la palpata è durata meno di dieci secondi. È questo il primo caso che ha fatto finire sulla graticola la giudice Maria Bonaventura, presidente del collegio che ha assolto il bidello e poi il dirigente del museo accusato di molestie sessuali. La sua colpa: aver ritenuto non provate le molestie e averlo fatto pur essendo donna. E in virtù di quelle decisioni, ora, si invoca una punizione per la toga, pronta a coinvolgere il Csm per tutelare la propria onorabilità.

Di tali sentenze si è parlato per giorni, riassumendole sempre con slogan pronti all’uso per suscitare facile indignazione. Ma il punto, stando alle scarne quattro pagine della prima decisione incriminata, sarebbe un altro: «Non sono emersi elementi probatori sufficienti a formulare, senza alcun ragionevole dubbio, un giudizio di responsabilità dell'imputato», scrive la giudice. Che pure ritiene veritiere le dichiarazioni della ragazza, «pienamente credibili, in quanto dettagliate, prive di contraddizioni, logiche, coerenti, nonché prive di alcun intento calunnioso nei confronti dell'imputato», ampiamente confermate, poi, dalla testimonianza dell’amica che, in quel momento, si trovava con lei.

L’imputato avrebbe ammesso di aver toccato la ragazza «per scherzo», ma negando di aver infilato le mani nei pantaloni: dopo aver visto la giovane ridere e scherzare con le amiche mentre faceva il gesto di tirarsi su i pantaloni, «si limitava ad assecondarla nel movimento e, prendendola da dietro attraverso i passanti dei pantaloni, glieli alzava sollevandola leggermente da terra». Il tutto - questo il riferimento al tempo - sarebbe durato tra i cinque e i 10 secondi. Solo una volta vista la reazione della giovane l’avrebbe seguita per spiegarle che si trattava di uno scherzo. Nel corso della giornata, a seguito degli insulti ricevuti dagli altri ragazzi, avrebbe cercato la ragazza per darle spiegazioni, incrociandola al bar, dove, aggredito verbalmente dalle amiche, ha reagito tirando una testata contro il bancone.

Per la giudice, «la condotta posta in essere dall'imputato, quale descritta dalla persona offesa, integra sicuramente l'elemento oggettivo» della violenza sessuale - dunque non negata, in linea di principio - dato il repentino toccamento dei glutei. Ma quanto all'elemento soggettivo, si legge nella sentenza, «deve rilevarsi che la repentinità dell'azione, senza alcun insistenza nel toccamento, da considerarsi quasi uno sfioramento, il luogo e il tempo della condotta, in pieno giorno in locale aperto al pubblico e in presenza di altre persone, e le stesse modalità dell'azione poi conclusasi con il sollevamento della ragazza non consentono di configurare l'intento libidinoso o di concupiscenza generalmente richiesto dalla norma penale».

Da qui la convinzione che si trattasse di «un atto scherzoso, sicuramente inopportuno nel contesto in cui è stato realizzato per la natura del luogo e dei rapporti tra alunno e ausiliario», ma le modalità dell'azione «lasciano ampi margini di dubbio sulla volontarietà nella violazione della libertà sessuale della ragazza, considerato proprio la natura di sfioramento dei glutei, per un tempo sicuramente minimo, posto che l'intera azione si concentra in una manciata di secondi, senza alcun indugio nel toccamento. Inoltre, appare verosimile che lo sfioramento dei glutei sia stato causato da una manovra maldestra dell'imputato che, in ragione della dinamica dell'azione, posta in essere mentre i soggetti erano in movimento e in dislivello l'uno dall' altra, potrebbe avere accidentalmente e fortuitamente attivato un movimento ulteriore e non confacente all'intento iniziale». E solo di fronte al disagio della ragazza l’uomo si sarebbe reso conto «della natura inopportuna del suo gesto, andato oltre le proprie intenzioni, tanto da cercare di chiarire la situazione ed evitare ogni fraintendimento». A motivare l’assoluzione, dunque, «l'incertezza sulla sussistenza dell'elemento soggettivo» e non la durata del gesto.

La seconda sentenza, invece, include certamente una valutazione “psicologica” della presunta vittima: «Non si può escludere che la parte lesa, probabilmente mossa dai complessi di natura psicologica sul proprio aspetto fisico (segnatamente il peso) abbia rivisitato inconsciamente l’atteggiamento dell’imputato nei suoi confronti fino al punto di ritenersi aggredita fisicamente». Anche in questo caso parole inappropriate, dal momento che - come già chiarito dalla Cassazione - elementi come l’aspetto fisico della vittima sono «irrilevanti», in quanto «eccentrici» rispetto al tipo di reato. Ma a muovere le giudici è stato altro: le testimonianze delle colleghe della giovane che ha denunciato il suo superiore, che avrebbero sminuito i fatti, definendolo un «giocherellone».

Insomma, anche in questo caso non ci sarebbero stati sufficienti elementi a sostegno dell’accusa, rappresentata dal pm Antonio Calaresu, che nel 2021 aveva raccolto la denuncia della donna, che dopo il primo «quanto mi arrapi» pronunciato dall’uomo si sarebbe vista costretta a subire palpeggiamenti su «fianchi, schiena e pancia» e, in altre occasioni, anche sul seno, quando il dirigente si sarebbe spinto fino a «leccarla e a morderle le orecchie», infilandole «la lingua in bocca». Fatti confidati dalla donna alle colleghe, che però non hanno sostenuto la sua tesi. Innocente o colpevole che sia, per le giudici determinante è stata l’assenza di prove, come nel caso del bidello. E in tale situazione, per il sistema penale italiano non è solo possibile, ma doveroso assolvere.

Certo la cura del linguaggio potrebbe essere migliore, come insegna un altro caso, poi conclusosi con il ribaltamento della sentenza di assoluzione, che aveva destato ugualmente scalpore e “provocato” un’ispezione ministeriale (di cui poi non si seppe nulla): la presunta vittima fu di fatto etichettata come «tutt’altro che femminile» e «piuttosto mascolina». Le ragioni dell’assoluzione, poi ritenuta sbagliata, non erano quelle: per le giudici, la ragazza non era attendibile e ciò a prescindere dal proprio aspetto fisico. Ma quelle parole erano sbagliate, anche per il difensore degli imputati, che definì pericolosa per lo stesso processo quella terminologia. Al punto forse, ipotizzò, di «condizionare» i giudici della Cassazione, che spianarono la strada per la condanna finale degli imputati.

Estratto dell'articolo di Ilaria Sacchettoni per il “Corriere della Sera” giovedì 27 luglio 2023.  

«Ma tutto questo stupore da dove viene? Non ho mai “esondato” dalla mia sfera di competenza...».

Maria Bonaventura, giudice del Tribunale di Roma, risponde al telefono: è appropriato definire la vittima di uno stupro «complessata» per spiegare un’assoluzione?

E ancora: due differenti casi di donne aggredite sessualmente sono stati da lei archiviati con un’assoluzione alla quale è stato fatto ricorso, non c’è di che riflettere? Sospira la presidente della quinta sezione collegiale, una donna esperta e una magistrata di lunga militanza, quindi gentilmente, risponde: «Il mio ruolo mi conferisce autonomia e indipendenza ed è in ragione di questi due principi che ho pronunciato e motivato tutte le mie sentenze». 

Non è andata, forse, un pò al di là, dottoressa? Bonaventura ha prosciolto il dirigente di un museo che molestava una sua dipendente che lo aveva accusato di palpeggiamenti, mani ovunque perché non convinta della sua colpevolezza e basandosi sulle incerte testimonianze dei colleghi di lavoro della ragazza.

La giudice, però, ha aggiunto una chiosa all’assoluzione. Il fatto, cioè, che la giovane aggredita «abbia rivisitato inconsciamente l’atteggiamento dell’imputato» verso di lei «mossa dai complessi di natura psicologica sul proprio aspetto fisico (segnatamente il peso)». Motivazioni nelle quali sembra affacciarsi un giudizio improprio. 

(...) 

Ma non basta. Secondo l’associazione di donne «Bon’t Worry» di Bo Guerreschi, sempre Bonaventura sarebbe responsabile di una sorta di ritorsione nei confronti della giovane vittima del cosiddetto stupro di Capodanno, rea di aver rilasciato un’intervista a Repubblica e perciò ascoltata in un’aula senza tutela in quella che appare una sanzione.

Sembra un altro capitolo della serie donne che non amano le donne, ma la giudice preferisce non entrare nel merito: «La legge — ribadisce — prevede la possibilità di ricorrere. Sarà la Corte d’appello a esprimere il proprio parere a garanzia di tutti». 

Non la disturba il fatto che nell’uno e nell’altro caso i pm abbiano già annunciato o depositato ricorso. Infine declina la domanda che riguarda il linguaggio utilizzato, apparentemente impermeabile alle ragioni delle donne che, vittime di violenza sessuale, hanno trovato la spinta giusta per denunciare i propri aguzzini. 

Dietro questo argomento c’è la militanza di molte associazioni che ritengono questi comportamenti scoraggianti per quante vorrebbero denunciare. In questo modo, dicono, si alimenta la cultura del sommerso: le vittime tengono per sé il proprio dolore per paura della cosiddetta vittimizzazione secondaria. 

Su questo Bonaventura si chiude nel riserbo: «A mio avviso i giudici devono esprimersi attraverso le proprie sentenze. Ho comunque in serbo una denuncia al Csm al quale inoltrerò una mia relazione dettagliata». Poi saluta educata: il lavoro la chiama, deve tornare in aula. «Restiamo ancora una volta stupiti che si utilizzino le pagine dei quotidiani per contestare sentenze che andrebbero criticate nelle sedi deputate» commenta Gaetano Scalise, presidente della Camera penale di Roma.

Estratto da repubblica.it il 22 giugno 2023.

La più alta corte d'appello francese, la Corte di Cassazione, ha respinto definitivamente le accuse di stupro nei confronti del regista e produttore Luc Besson mosse dall'attrice belga-olandese Sand Van Roy. Il tribunale di Parigi ha respinto così il ricorso in appello presentato da Von Roy dopo che quello in primo grado, che sosteneva che l'attrice fosse stata aggredita sessualmente da Besson, era stato archiviato nel 2021.

Nel maggio 2018, Sand Van Roy aveva affermato di essere stata violentata da Luc Besson nell'hotel Le Bristol a Parigi. L'attrice belga-olandese, che ha avuto dei ruoli in Taxxi 5 e Valerian e la città dei mille pianeti di Besson, ha avuto una relazione intima con il regista per due anni.

(…) 

Besson aveva sempre sostenuto la sua innocenza. Il regista è stato interrogato dalla polizia il 2 ottobre e l'11 dicembre 2018 in relazione al caso, ma i pubblici ministeri hanno abbandonato la loro indagine nel febbraio 2019 per mancanza di prove. Dopo la denuncia iniziale di Sand Van Roy, altre otto donne si sono fatte avanti affermando di essere state aggredite o molestate dal regista nel corso degli anni. Nell'ottobre 2019 un giudice ha ordinato una seconda indagine sul caso Van Roy, ma nel 2021 il regista è stato prosciolto da ogni accusa.

(ANSA il 16 giugno 2023) - Dal processo non sono emersi "elementi certi per ritenere che i due imputati siano stati gli autori dei reati contestati". Lo scrive il Tribunale di Varese nelle motivazioni della sentenza con cui, lo scorso 7 marzo, ha assolto Anthony Gregory Fusi Mantegazza e Hamza Elayar, due giovani di 22 e 27 anni che erano stati arrestati con l'accusa di aver aggredito e violentato, la sera del 3 dicembre 2021, due donne di 22 anni. 

In particolare, erano accusati di due distinti episodi di abusi: il primo ai danni di una giovane che era su un treno regionale della tratta Milano Cadorna-Varese Nord; il secondo nei confronti dell'altra ragazza all'interno della stazione di Venegono Inferiore (Varese). La Procura per i due imputati aveva chiesto condanne fino a 9 anni e 1 mese. Dopo essere stati in carcere per circa un anno e 3 mesi, col verdetto sono stati scarcerati. 

 Gli avvocati Mauro Straini, Eugenio Losco e Monica Andretti, che hanno difeso il 22enne, avevano svolto indagini difensive per dimostrare, tra le altre cose, dall'analisi della "cronologia degli spostamenti dell'account google registrato" sul telefono del loro assistito, che il giovane al momento delle violenze era in un locale di Tradate (Varese). I giudici (Tacconi-Basile-Buffa) nelle motivazioni chiariscono che i racconti delle due giovani vittime "sono del tutto credibili e i reati contestati sussistono". 

Gli elementi delle indagini e del processo, però, come i "mancati riconoscimenti" degli imputati anche da parte dei testimoni e gli "accertamenti tecnici su un colbacco", che hanno escluso che fosse stato da loro indossato, non consentono di ritenerli responsabili "oltre ogni ragionevole dubbio".

Estratto dell’articolo di Massimo Basile per “la Repubblica” l'1 giugno 2023.

Quando la reporter del Financial Times Madison Marriage era entrata nella sala riunioni, aveva tra le mani uno scoop clamoroso: un commentatore di sinistra, Nick Cohen, aveva lasciato l’incarico al Guardian non per motivi personali, ma per sfuggire ad accuse imbarazzanti. 

Sette donne lo avevano accusato di molestie sessuali durate anni. Marriage non è una giornalista come tante, ma la classica cacciatrice di notizie, vincitrice di premi, un nome nel giornalismo britannico. Un boss della tecnologia, di cui lei aveva svelato le accuse di stupro, era stato incriminato grazie ai suoi articoli. Ma stavolta qualcosa è andato in modo diverso.

Il suo scoop non ha mai visto la luce e non per intromissione di un uomo. Ma di un’altra donna: la direttrice del quotidiano della City, Roula Khalafa, la prima donna alla guida del giornale. Sarebbe stata lei ad aver bloccato l’uscita dell’articolo. La storia è emersa sul New York Times e appare piena di dettagli. 

Khalafa avrebbe giustificato la sua scelta, riducendo la figura di Cohen a un personaggio minore, non degno di una «grande storia del Financial Times ». Quello che appare inusuale è un caso di censura, di cui la tradizione del giornalismo britannico sembrava immune, e che riguarda un tema molto sensibile: quello delle molestie alle donne, in pieno movimento #MeToo […] .

[…] adesso di Cohen se ne parla lo stesso senza che quell’articolo sia mai uscito. Ma chi è in realtà? Cohen è stato per vent’anni un commentatore per The Observer , la testata domenicale "sorella" del Guardian . Come giornalista […] ha vinto numerosi premi. Il suo libro, "What’s Left" era stato inserito nell’elenco dei candidati all’Orwell Prize, forse il premio giornalistico britannico più ambito. 

Viene descritto come un tipo influente, gentile, brillante. Ma con alcune ombre. A gennaio erano arrivate le dimissioni, ufficialmente per "motivi di salute". Secondo il Times , in realtà il giornale concluse una transazione economica per chiudere il rapporto. Sette donne hanno raccontato al Nyt che Cohen le avrebbe molestate o fatto richieste imbarazzanti, e tutto questo per vent’anni.

Quattro lo hanno denunciato anonimamente, temendo ritorsioni professionali. Il giornale newyorkese sostiene di aver fatto verifiche e di aver trovato conferma. Tra le accusatrici c’è la reporter britannica Lucy Siegle, che ha raccontato di essere stata palpeggiata nella sala riunioni, nel 2001. Altre cinque donne hanno raccontato episodi simili, avvenuti in un arco di tempo che va tra il 2008 e il 2015. Una ha aggiunto un dettaglio: Cohen, si sarebbe strusciato sulla gamba di lei e l’avrebbe baciata, mentre stavano discutendo di lavoro.

Un’altra ha raccontato di essere stata tempestata di foto esplicite nel 2018, mentre lavorava come collaboratrice. Il gruppo Guardian News & Media avrebbe aperto un’indagine sull’editorialista, ma solo dopo che Siegle aveva parlato della sua esperienza su Twitter, nel 2021. Raggiunto per telefono, Cohen ha commentato con un «Oh, dio» alle accuse che gli sono state lanciate. «Ritengo - aveva aggiunto - che avessi agito sotto effetto dell’alcol ». 

Al Guardian molte giornaliste sarebbero rimaste deluse dall’omertà dell’azienda. Al Financial Times hanno censurato la storia, ma non quella sulle molestie sessuali da parte di un manager di TikTok. Il mese successivo alla decisione di non pubblicare lo scoop su Cohen, il quotidiano ha pubblicato ventitré articoli riguardo condotte sessuali imbarazzanti da parte di gruppi lobbistici britannici. Del commentatore, neanche un cenno.

Torino, condannata per aver ucciso l'uomo che voleva violentarla, la Corte: «Aveva una via di fuga e lui non poteva più nuocere». Simona Lorenzetti su Il Corriere della Sera il 21 maggio 2023.

Il delitto è avvenuto a Ovada nel 2018. La giovane, una commessa di 30 anni, dovrà scontare 6 anni di carcere per aver investito il suo aggressore. In primo grado era stata assolta per legittima difesa 

Uccidere non era l’unica alternativa: Aurela P. aveva una via di fuga e quando ha investito l’uomo che aveva provato a violentarla era ormai in una situazione «protetta» all’interno dell’auto. L’aggressore non era più nelle condizioni di «nuocere». Così la Corte d’assise d’appello motiva la sentenza di condanna a 6 anni di carcere per la trentenne albanese che ha travolto e ucciso Massimo Garitta, 53 anni. In primo grado la donna era stata assolta per legittima difesa, ma in appello il verdetto è stato riformato. 

Il delitto risale al 31 dicembre 2018 e avviene a Ovada, in provincia di Alessandria. Quel pomeriggio la ragazza, commessa all’outlet di Serravalle, vuole acquistare della droga. Offre un passaggio a Garitta, un senza fissa dimora che incontra sotto la propria abitazione. Insieme si allontanano verso l’autostrada, poi imboccano una strada che porta in un campo. A quel punto Garitta aggredisce la donna e tenta di violentarla. Lei reagisce, lo colpisce con alcuni calci, riesce a divincolarsi e si getta fuori dall’auto. Anche lui, con i pantaloni ancora abbassati, scende e si allontana di qualche passo. La commessa coglie l’occasione, risale sulla vettura, ingrana la marcia e fugge: mentre fa inversione colpisce l’aggressore e lo travolge. 

La Corte non mette in dubbio il tentativo di violenza sessuale e lo stato psicologico della vittima. Ma rileva come le consulenze tecniche mostrino chiaramente che la donna poteva seguire una «traiettoria di fuga» diversa ed evitare l’investimento: «Avrebbe potuto uscire più velocemente dal piazzale effettuando inversione vicino all’uscita anziché inoltrarsi per 25 metri nella direzione opposta, ovvero verso il pedone». Ma a pesare, per i giudici, è «il sormonto» (averlo schiacciato con le ruote), avvenuto quando Garitta «è ormai caduto a terra ed è quindi inoffensivo»: «Esprime un’azione deliberata mirata contro un avversario che non è più in grado di nuocere, venendo così ad assumere il carattere di una vera e propria aggressione». Da qui la condanna a 6 anni in abbreviato, che tiene conto di alcune attenuanti, tra cui la «provocazione» per il tentativo di stupro.

«Tradimento sì, stupro no». Denuncia il fidanzato della cugina, ma da accusatrice diventa accusata. La giudice: ha mentito. Luigi Ferrarella su Il Corriere della Sera il 16 maggio 2023. 

Lui ha tradito la compagna con la parente di lei nel bar che la famiglia gli aveva dato in gestione. L'«amante» si sarebbe sentita in colpa, mentendo per giustificare a casa quanto accaduto. Il tribunale: «Calunnia» 

Stupratore o solo fedifrago? Se il bravo ragazzo, «cocco» di due famiglie e gestore del bar dei genitori della cugina della ragazza con cui è fidanzato, la tradisce proprio con la cugina dentro il bar, e poi come niente fosse il giorno dopo parte per le vacanze con la fidanzata, potrà essere variamente giudicato sul piano morale, ma non necessariamente deve essere un violentatore come lo accusa la cugina poi in preda ai sensi di colpa. E così, se il giovane entra in Tribunale da imputato di violenza sessuale ed esce assolto dalla giudice Fiammetta Modica, la cugina entra in Tribunale da vittima denunciante ed esce invece segnalata dalla giudice alla Procura per l’ipotesi di calunnia ai danni dell’uomo difeso dall’avvocato Davide Steccanella, sul quale avrebbe ricamato «una descrizione dei fatti mendace e strumentalmente volta alla demolizione dell’immagine dell’imputato». 

Ma il tema del sesso, «e della sua pratica più o meno “libera” o “anticonvenzionale” da parte di un soggetto (anche in relazione all’età, al genere e alle condizioni socio-culturali) è argomento ancora vischioso, che comporta spesso valutazioni di ordine morale e pre-giudizi da cui il ragionamento giuridico deve doverosamente affrancarsi, rifiutando altresì valutazioni di stampo eticheggiante su condotte individuali che non assurgono al rango del penalmente rilevante». 

Molto avrebbero pesato le dinamiche delle due famiglie nelle quali il ragazzo era apprezzato e benvoluto al punto da essere considerato egli stesso «uno di famiglia» al quale far gestire il bar dei genitori della cugina. Cioè proprio della ragazza che nel novembre 2021 lo denuncia di averla forzata a un rapporto sessuale nel bagno del bar chiuso dopo mezzanotte, e per giunta di averle lasciato per sfregio (a mo’ di prostituta) 40 euro nella borsetta. «Mi faceva la corte da un po’ ed è vero che siamo stati assieme — racconta invece l’uomo —, aveva bevuto e non escludo ciò possa aver contribuito a farle diminuire le inibizioni, ma sono certo che comprendeva perfettamente quanto stesse accadendo, tanto che prima di uscire mi disse “Non so come farò a guardarti negli occhi a Natale”, riferendosi al fatto che eravamo soliti passare le feste in famiglia». 

Nelle chat trovate sul telefonino della giovane, sommate alle smentite di altri dettagli, la giudice coglie il progressivo svilupparsi di un senso di colpa che si volge in falsa accusa: quella notte a una prima amica scrive «ho fatto un macello. Sono stata con lui, ora sto piangendo, sono una m…di persona, io non ci sto dentro, sto male»; poi chattando con una seconda amica diventa «ti spiego le dinamiche, io ero più sul no che sul sì, boh non so, sono state dinamiche strane, io sto male, vorrei sparire dalla faccia della terra»; e con un terzo interlocutore arriva al «mi ha obbligata, tenendomi per i capelli...». Sequenza, valuta la giudice, con cui «arricchisce, cinicamente a parere di chi scrive, il proprio racconto di elementi idonei a screditare l’uomo e, al contempo, a preservare una positiva immagine di sé, costruendo una versione di comodo incurante delle prevedibili conseguenze». lferrarella@corriere.it

Pavia, le due ragazze che hanno salvato la 24enne dallo stupro: «Abbiamo sentito gridare, l'aveva spogliata». Eleonora Lanzetti su Il Corriere della Sera il 10 Maggio 2023

Il racconto della studentessa che, insieme a un'amica, ha bloccato la violenza sessuale in pieno centro: «Lei urlava "aiuto", quell'uomo aveva una bottiglia di vetro in mano»

«Sono ancora davvero provata, ma sono contenta di aver aiutato quella ragazza a salvarsi dalla violenza di quell'uomo». A parlare è una delle due ragazze che martedì notte, intorno all'una, hanno bloccato l'aggressore che ha tentato di stuprare una 24enne in pieno centro. Grazie all'intervento provvidenziale delle due coraggiose amiche, che sono intervenute e hanno chiamato il 112, l'aggressore ha dovuto desistere ed è stato poco dopo arrestato.

La ragazza, studentessa universitaria a Pavia, era appena uscita dal cinema Politeama con un'amica. Si stavano incamminando verso piazza della Minerva a recuperare l'auto parcheggiata, quando poco prima del Tribunale, su corso Cavour, proprio all'angolo con via Porta Marica, hanno sentito delle urla. «La ragazza gridava disperata "aiuto". Ci siamo fatte coraggio e siamo entrate nella stradina dove abbiamo visto la ragazza semisvestita e l'aggressore con una bottiglia di vetro in mano, visibilmente su di giri. Abbiamo iniziato urlare anche noi per bloccarlo». 

Nel frattempo il trambusto attira l'attenzione anche di un uomo a spasso con il cane e di una residente del palazzo accanto al luogo della violenza. Arrivano a dare soccorso alle ragazze che intanto sono state a loro volta prese di mira dall'aggressore, che inveisce contro di loro. 

«Abbiamo dato l'allarme, descritto l'uomo alle forze dell'ordine, e abbiamo portato la ragazza in salvo, da una sua amica che la stava aspettando». Carabinieri e polizia braccano il 31enne e lo arrestano. Dopo svariate ore in Questura per il racconto della vicenda e il riconoscimento del responsabile della violenza, il peggio è passato per tutti. «Una notte da incubo. Non lo nego, sono molto provata e non mi sono ancora ripresa - ammette la studentessa pavese -. La ragazza era sotto choc ma fortunatamente è salva, e sta bene». 

Pavia, ragazza aggredita in centro mentre torna a casa: i passanti la salvano dallo stupro. Eleonora Lanzetti su Il Corriere della Sera il 10 Maggio 2023

La 24enne rientrava dopo una serata trascorsa con gli amici. È stata soccorsa da alcuni passanti, allertati dalle grida. L'aggressore ha poi tentato di picchiare anche loro e i carabinieri: 32anni, nigeriano, è ora in carcere 

Le urla hanno attirato l'attenzione dei passanti (in questo articolo il racconto delle due ragazze intervenute per prime) facendo fuggire il violentatore. Una ragazza di 24 anni, che stava tornando a casa dopo la serata trascorsa con gli amici, è stata avvicinata da uno sconosciuto che, stando alle prime ricostruzioni, avrebbe tentato di stuprarla. Le forze dell'ordine indagano per tentata violenza sessuale e per resistenza a pubblico ufficiale. È accaduto nella notte tra martedì 9 e mercoledì 10 maggio, intorno all'una, in pieno centro storico a Pavia, all'angolo tra corso Cavour e Piazza Botta. 

La giovane stava svoltando verso via Porta Marica, quando è stata afferrata dall'uomo. Ha tentato di liberarsi e si è messa ad urlare sperando di essere sentita da qualcuno. Alcuni passanti sono corsi in suo aiuto, facendo desistere l'aggressore e poi bloccandolo. L'uomo, a quel punto, ha aggredito anche loro e i carabinieri intervenuti. Alla fine l'autore dell'aggressione, un 33enne di origini nigeriane, è stato arrestato: è ora richiuso nel carcere di Torre del Gallo a Pavia.

Processo Miniello, il Tribunale del Riesame respinge i teoremi della procura di Bari : “il sesso come terapia non viola libertà della vittima”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 12 Aprile 2023

Il ginecologo Miniello è attualmente a processo per violenza sessuale nei confronti di 20 donne, ad alcune delle quali - secondo l'ipotesi accusatoria della Procura di Bari - avrebbe proposto rapporti sessuali come cura per il papillomavirus e per prevenire il tumore dell'utero, la cosiddetta terapia del sesso.

Il Tribunale del Riesame di Bari ha respinto entrambi i due ricorsi avanzati dalla Procura di Bari sostenendo che non sussistano i presupposti per la misura cautelare in carcere per il 69enne ginecologo barese Giovanni Miniello, arrestato e posto ai domiciliari il 30 novembre 2021 per violenza sessuale aggravata su due pazienti, accusato di averle molestate durante le visite ginecologiche. L’arresto era già stato revocato dal Gip il 22 aprile 2022 sostituito con l’interdizione dalla professione medico dalla quale peraltro era già stato sospeso dall’ Ordine dei Medici per 12 mesi. La procura di Bari aveva presentato appello anche contro questa decisione , ma i giudici dell’ Appello l’ha respinto confermando anche in questo caso da decisione precedentemente adottata del Gip del Tribunale di Bari.

Roberto Eustachio Sisto difensore del ginecologo barese Miniello, , ha espresso la propria “grande soddisfazione” per i due provvedimenti del Tribunale del Riesame che hanno rigettato le opposizioni presentate dalla Procura barese. I provvedimenti “dimostrano, ancora una volta, con pacatezza, l’assoluta necessità dell’accertamento giudiziario prima che il circo mediatico possa distruggere vite, famiglie, futuro”. L’ avvocato Sisto jr. (figlio del sottosegretario alla giustizia Onofrio Paolo Sisto) ricorda che “dopo l’intervento di otto diversi magistrati che hanno sancito l’insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, sono certo che con queste importanti ulteriori due decisioni possa, a ragione, dirsi chiusa la fase cautelare, così consentendo di affidare al dibattimento ogni approfondimento teso a dimostrare l’assenza di penale responsabilità del professor Giovanni Miniello“.

Il ginecologo Miniello è attualmente a processo per violenza sessuale nei confronti di 20 donne, ad alcune delle quali – secondo l’ipotesi accusatoria della Procura di Bari – avrebbe proposto rapporti sessuali come cura per il papillomavirus e per prevenire il tumore dell’utero, la cosiddetta terapia del sesso. Nel primo appello la Procura di Bari guidata da Roberto Rossi contestava la decisione adottata dal Gip Angelo Salerno di escludere i gravi indizi di colpevolezza quanto alla “terapia del sesso“, concedendo i domiciliari per i soli due episodi di violenza compiuti durante le visite ginecologiche, per la quale la Procura aveva chiesto il carcere per il ginecologo.

Il 30 dicembre 2021 il Tribunale del Riesame di Bari (collegio composto dai giudici Annachiara Mastrorilli, Marco Galesi e Marika Schilardi) aveva rigettato l’appello dei pm baresi, che hanno successivamente presentato ricorso in Cassazione, la quale ha disposto l’annullamento con rinvio. Il Riesame ha nuovamente esaminato l’appello della Procura, confermando il rigetto della richiesta di custodia in carcere, escludendo che “il rimedio terapeutico di tipo sessuale proposto dal ginecologo ad alcune pazienti possa ritenersi oggettivamente idoneo a violare la libertà di autodeterminazione sessuale della vittima” ritenendo tardive alcune delle querele presentate nei suoi confronti. Con la sentenza di oggi, il Tribunale del Riesame di Bari ha respinto anche l’appello dei magistrati della Procura di Bari contro la revoca degli arresti domiciliari dell’aprile 2022. Redazione CdG 1947

Torino, uccise l'uomo che voleva violentarla e ora la Corte d'Appello ribalta l'assoluzione: non fu legittima difesa. Simona Lorenzetti su Il Corriere della Sera il 15 Marzo 2023

La donna, 27 anni, investì il suo aggressore: condannata a sei anni di carcere. L'omicidio avvenne a Ovada la notte di Capodanno del 2019

Ha investito e ucciso l’uomo che voleva violentarla. Legittima difesa fu il verdetto della Corte d’Assise di Alessandria che decise di assolvere Aurela P., 27 anni, dall’accusa di omicidio volontario. Ora la Corte d’Assise d’Appello di Torino ha ribaltato la sentenza e pur riconoscendo all’imputata un ampio spettro di attenuanti l’ha condannata a sei anni di carcere. Viene così riscritta la storia della morte di Massimo Garitta, 57 anni, ucciso a Ovada la notte di Capodanno del 2019. 

L’imputata era una giovane commessa dell’outlet di Serravalle, la vittima un barbone dalla vita disordinata. Quel pomeriggio, intorno alle 18, Aurela P. fa salire l’uomo a bordo della propria auto, una Lancia Y: lui aveva bisogno di un passaggio, lei forse cercava un po’ di droga. Si dirigono verso l’autostrada, ma durante il tragitto lui l’aggredisce. A quel punto la ragazza imbocca una strada che sfocia in un campo: lottano e lei riesce a sfuggire all’aggressione scendendo dalla vettura. Garitta a sua volta la segue. Ed è in quel momento che la ragazza risale in fretta in auto, ingrana la marcia e fa inversione a U con l’intento di allontanarsi il più possibile. Mentre esegue la manovra,  l’imputata investe il 57enne. 

Per la difesa e i giudici di primo grado, l’uomo aveva cercato di intercettare la vettura per costringere la donna a fermarsi e portare a termine la violenza. Per l’accusa, Aurela P. lo ha ucciso senza che vi fosse un reale pericolo. La donna non ha denunciato l’accaduto, solo qualche giorno più tardi i carabinieri sono risaliti a lei: sulla giacca della vittima era impresso il marchio della marmitta della Lancia Y, una firma indelebile per gli investigatori. A quel punto l’ex commessa ha confessato. La sua narrazione aveva trovato conferma in una consulenza tecnica. 

I giudici della Corte d’Assise d’Appello hanno però letto in maniera diversa le prove raccolte: hanno riascoltato alcuni testimoni, riesaminato gli atti e richiamato in aula i consulenti tecnici che analizzarono le tracce lasciate dalla vettura. E infine hanno ribaltato il verdetto. 

«Non conosciamo le motivazioni della sentenza — spiega l'avvocato Marco Conti, che ha difeso la donna insieme al collega Giuseppe Cormaio —, ma non la possiamo condividere. Nonostante la pena sia molto bassa, è contestabile. La stessa Corte, negli approfondimenti tecnici, è arrivata a convergere con il nostro consulente sul fatto che l'auto procedesse a circa 10 chilometri all'ora. A questa velocità, considerato anche che la nostra assistita stava effettuando un'inversione a U per uscire dal campo, non è possibile ipotizzare che ci fosse la precisa volontà di provocare la morte dell'uomo». 

Aggiunge poi il legale: «La condotta alla guida era giustificata dalla necessità di fuggire. In primo grado questo è stato riconosciuto. Ci aspettavamo altrettanto in Appello. A chi scappa da uno stupro possiamo almeno concedere la mancanza di accortezza richiesta alla guida?». Se ne riparlerà in Cassazione. 

Dm per il “Fatto quotidiano” l’8 marzo 2023.

 Quasi un anno e mezzo di ingiusta detenzione con l’accusa (falsa) di stupro. Ieri, a distanza di oltre due anni dai fatti del 3 dicembre 2021, i due presunti responsabili delle violenze a due ragazze, avvenute in due episodi differenti, sono stati assolti per non aver commesso il fatto. Sono Hamza Elayar e il 22enne italiano Anthony Gregory Fusi Mantegazza.

La decisione del Tribunale di Varese è arrivata dopo una tortuosa fase istruttoria e solo grazie alle indagini di Mauro Straini, Eugenio Losco e Monica Andretti, legali di Mantegazza. Le violenze, per come testimoniato dalle vittime, sono avvenute, la prima su un convoglio Trenord della tratta Milano-Varese, la seconda all’interno della stazione di Venegono Inferiore. Due uomini con bici e una stampella.

 Nelle ore successive ai fatti i carabinieri, su segnalazione dei vicini, si recheranno nell’appartamento dove vive Fusi Mantegazza con il padre il quale affitta alcuni posti letto. Qui vengono ritrovati elementi importanti: la bici e una stampella in possesso degli stupratori e anche un cappello (colbacco) indossato, secondo le vittime, da uno dei violentatori. Mantegazza viene fermato. In un primo momento, anche a causa di stress, ammetterà di essere stato sul treno alle 21:49 del 3 dicembre.

Salvo subito ritrattare davanti al gip. L’analisi difensiva ribalterà la storia. In particolare in quel giorno sul cellulare di Mantegazza era attiva la geolocalizzazione. Un dato rilevantissimo che infatti lo colloca, durante l’ora delle violenze, in un bar del vicino comune di Tradate.

 Di più: Mantegazza risulterà presente nella stazione di Venegono ma molte ore prima delle 21:49. Su questa base già nell’aprile scorso i legali avevano chiesto la scarcerazione, negata dal gip. Ancora: sul cappellino tipo colbacco, sempre grazie alle indagini difensive, non è stato rinvenuto il Dna di Mantegazza, mentre è stato censito materiale genetico di un ceppo nordafricano. Per i due l’accusa aveva chiesto fino a nove anni.

L’Opuscolo.

Bufera sull'opuscolo antistupro "Niente sorrisi né minigonne". Distribuito dal Comune nelle scuole superiori, scatena l'indignazione: "Penalizza le potenziali vittime". Redazione il 14 Gennaio 2023 su Il Giornale.

In Friuli va in scena il mondo all'incontrario. Per farlo, usa un volantino distribuito dal Comune di Cividale del Friuli (Udine) nel quale vengono fornite indicazioni alle potenziali vittime di stupri e aggressioni. Consigli tipo: «Non fate sorrisi ironici o provocatori a sconosciuti», «Evitate di indossare oggetti di valore», «Ricordate che l'aggressore osserva e seleziona le vittime anche sulla base di alcuni particolari come i gioielli e l'abbigliamento eccessivamente elegante o vistoso». L'opuscolo è stato distribuito nelle scuole superiori ad uso e consumo delle alunne, indicando come sia meglio comportarsi e vestirsi per evitare il peggio. Le indicazioni - che hanno occupato una intera pagina de Il Gazzettino di Venezia - sono state contestate dagli studenti e nei corridoi del Convitto nazionale Paolo Diacono sono comparsi anche cartelli di dissenso, con i giovani che si sono riuniti in assemblea.

Le alunne stanno parlando anche con i loro docenti per verificare quali altre iniziative di protesta organizzare per ribadire la loro corale condanna a un'iniziativa di questo tipo anche perché sono convinte che «alla violenza ci si oppone con l'educazione, non con la colpevolizzazione delle vittime». «Protestiamo perché riteniamo inaccettabili le frasi contenute in questo opuscolo», ha detto Beatrice Bertossi, coordinatrice del Movimento studentesco per il futuro, «ma contestiamo anche l'opportunità stessa di un volantino rivolto alle potenziali vittime, quando è noto che la prevenzione delle violenze di genere deve partire innanzitutto dagli aggressori». I cartelli esposti a scuola recitano frasi come «Condanniamo la violenza patriarcale nelle scuole», «Giù le mani dai nostri corpi, la violenza non è mai giustificata», «Contro ogni oppressione, contro ogni oppressore». In una nota il Movimento studentesco per il futuro precisa che «la prevenzione non può ridursi a capovolgere il ruolo tra vittime e carnefici. Si deve invece investire il denaro pubblico nell'educazione attraverso corsi di educazione all'affettività e prendere posizione in modo netto e forte contro la cultura maschilista e patriarcale».

Contro i contenuti del volantino, per la parte sulla violenza di genere, si è schierata anche l'opposizione in consiglio comunale. «Siamo senza parole», è intervenuto il consigliere Alberto Diacoli a nome di Prospettica Civica, «davanti a un opuscolo in cui si colpevolizzano comportamenti che invece dovrebbero appartenere alla normale vita e alla libertà di ogni individuo». Sempre dai banchi dell'opposizione il consigliere regionale Furio Honsell (Open Fvg) è intenzionato a presentare un'interrogazione in Consiglio regionale «sull'opportunità da parte della Regione Friuli Venezia Giulia di produrre e distribuire materiali dai contenuti inaccettabili». «Alcune frasi contenute nell'opuscolo - continua Honsell - violano le pari opportunità e sono discriminatorie nei confronti di chi subisce e, quindi, implicitamente giustificano chi offende. Questo opuscolo andrebbe immediatamente ritirato e bisogna chiedere scusa per aver suggerito comportamenti degni di un regime fondamentalista».

Cos’è l’immobilità tonica?

Estratto dell'articolo di Jen Persy per nytimes.com venerdì 1 settembre 2023.

"Mi sono bloccata", ha detto la donna, ripensando al giorno in cui è stata violentata durante un'esercitazione militare qualche estate fa. 

[…] Quella notte, si addormentò e si svegliò con un uomo sdraiato accanto a lei, che la penetrava con il dito e poi procedeva rapidamente fino allo stupro.  

"Volevo urlare o spingerlo via. Non so nemmeno perché, ma il mio corpo semplicemente non reagiva." Ad un certo punto, dopo aver finito, lei ha ricominciato a muoversi di nuovo. L'uomo si è allontanato e lei si è riaddormentata, anche se non ricorda quando. Al mattino fece colazione e vomitò subito.

Non riusciva a capire la sua incapacità di rispondere all'aggressione. Sembrava in contrasto con la sua formazione: le ore che aveva trascorso imparando a sopravvivere e a combattere contro tutti i tipi di minacce. 

Si vergognava di se stessa per non aver fatto nulla. […]  Le settimane che seguirono lo stupro furono estenuanti: le esigenze di addestramento oltre allo stress dell'aggressione. È caduta in depressione e ha perso 20 chili. Aveva il terrore di addormentarsi. "Mi sentivo come se non potessi fidarmi del mio stesso corpo".

Quasi tutte le notti singhiozzava con le braccia attorno alle ginocchia. Dormiva sempre su un fianco, ma non si sentiva più sicura in quella posizione. Se si addormentava, era solo per un'ora o due prima di svegliarsi di nuovo in lacrime. Il suo cuore batteva forte e le sue lenzuola erano inzuppate di sudore. 

Quando amici e mentori hanno scoperto come aveva reagito durante lo stupro, sono rimasti sconvolti e confusi. “Non hai fatto niente? Non hai detto niente? Ti sei bloccata?” […] Mesi dopo l'aggressione, finalmente parlò con un consulente, che le spiegò che il "congelamento" poteva essere una normale risposta all'aggressione.  

[…] Esiste una lingua che le donne usano, un vocabolario ripetuto per descrivere ciò che sperimentano e pensano durante una violenza sessuale. Le varie forme di “congelamento” fanno spesso parte di quel vocabolario. Ma la parola ha così tanti riferimenti nel suo uso colloquiale che è difficile sapere esattamente cosa significhi per ogni persona che la pronuncia.

«Sono rimasta assolutamente paralizzata» ha detto Brooke Shields nel documentario "Pretty Baby", descrivendo come si è sentita quando è stata violentata. 

Parlando del suo stupro, l'attrice e modella norvegese Natassia Malthe ha detto ai giornalisti: «Ero come una persona morta». In un articolo per "Vice", la scrittrice Jackie Hong ha scritto del suo stupro: «Quando ha iniziato a tirarmi giù i pantaloni e la biancheria intima, il mio corpo sembrava congelarsi». In un episodio della serie di documentari "The Me You Can't See", Lady Gaga descrive il suo stupro a 19 anni: «Mi sono semplicemente bloccata». 

«Non sono una che urla» ha testimoniato E. Jean Carroll al tribunale distrettuale degli Stati Uniti di Manhattan descrivendo come Donald Trump ha abusato sessualmente di lei in uno spogliatoio di Bergdorf Goodman. Ha detto alla corte che era “troppo in preda al panico per urlare” […]

Tutte queste risposte, che spesso appaiono anormali, sono comuni ma fraintese. Quando un tribunale si stava preparando a condannare Harvey Weinstein per crimini sessuali, una delle sue vittime, Jessica Mann, si è impegnata a chiarire la propria versione del congelamento: «Così tante donne, me compresa, sono state in grado di trovare solo parole come 'mi sono arresa' o 'mi sono bloccata'». […]

Cos’è l’immobilità tonica? È una risposta estrema a una minaccia che lascia le vittime letteralmente paralizzate. Non possono muoversi o parlare. Per più di un secolo, gli scienziati hanno studiato fenomeni simili negli animali, e nel corso degli anni ha trovato diversi nomi: ipnosi animale, finzione di morte, morte apparente, tanatosi.

L’immobilità tonica è una strategia di sopravvivenza che è stata identificata in molte classi di animali – insetti, pesci, rettili, uccelli, mammiferi – e trae il suo potere evolutivo dal fatto che molti predatori sembrano programmati per perdere interesse per le prede morte.

È stato dimostrato che gli esseri umani sperimentano l'immobilità tonica nel contesto di guerre e torture, disastri naturali e incidenti mortali, e gli studi suggeriscono che è comune negli abusi sessuali.  

All’inizio degli anni ’70, le ricercatrici americane Ann Burgess e Lynda Lyttle Holmstrom osservarono questo comportamento, quello che fu presto definito “paralisi indotta dallo stupro”, nelle persone del Boston City Hospital. Nel corso di un anno, hanno documentato che 34 dei 92 pazienti con diagnosi di “trauma da stupro” hanno sperimentato il congelamento durante le aggressioni. […]

Alcuni anni dopo, gli psicologi Susan Suarez e Gordon Gallup sostenevano in un articolo del 1979 su The Psychological Record che l’immobilità tonica si è evoluta negli esseri umani, come in altri animali, come difesa contro i predatori. Hanno poi notato quanto spesso un uomo non venisse condannato per stupro proprio perché la vittima non resiste.  

[…] È statisticamente raro che qualcuno reagisca fisicamente durante una violenza sessuale. La resistenza verbale è più comune, ma anche questa è spesso più passiva di quanto le persone si aspettino. […] La prima risposta del cervello umano al pericolo è quasi sempre quella di interrompere ogni movimento per valutare meglio una minaccia. Nel giro di una frazione di secondo, si verificano altri cambiamenti fisiologici per preparare il corpo ad assumere comportamenti salvavita. A volte questo porta alla lotta o alla fuga, ma molto più comunemente nelle vittime di violenza sessuale, è il congelamento, durante il quale il cervello valuta l'aggressione generando potenziali opzioni di risposta. Le vittime sono immobili, con un battito cardiaco lento e attente alla minaccia.

[…] Jim Hopper, psicologo clinico e professore associato presso la Harvard Medical School, ha osservato che a volte le vittime sperimentano quello che lui chiama "congelamento scioccante", quando la mente di una persona rimane “vuota” per diversi secondi; le vittime potrebbero descriverlo con frasi come "Non riuscivo nemmeno a pensare" o "Non avevo idea di cosa fare". […] Potrebbero avere difficoltà a ricordare informazioni pratiche, come il fatto che ci siano persone nelle vicinanze che potrebbero sentirle urlare.

Hopper ha anche aggiunto una sfumatura cruciale: ad un certo punto durante lo stupro, la maggior parte delle vittime ritorna ad abitudini, solitamente passive o sottomesse, che sono state condizionate dalla cultura o dall’abuso. Molte donne, ad esempio, sono abituate a essere gentili con gli uomini, per evitare di offendere il loro ego ed evitare ritorsioni. «E queste sono in realtà tra le risposte cerebrali più comuni che le persone hanno quando subiscono una violenza sessuale - ha detto - Di solito non consideriamo queste abitudini involontarie, ma lo sono assolutamente».

[…]

Secondo Sunda TeBockhorst, una psicologa praticante del Colorado, alcune, non appena inizia l'aggressione, si sono ricordate di essersi chieste cosa avrebbero detto e pensato gli altri di loro: «La violenza sessuale è l'unico tipo di incidente in cui una vittima si incolpa dell'essere terrorizzata».

[…]

Nel 2012, Rebecca Campbell, psicologa della Michigan State University, ha presentato un'analisi di oltre 12 anni sui casi di violenza sessuale che erano stati esclusi dal sistema giudiziario. Il problema iniziava con la polizia: in sei giurisdizioni, in media l’86% dei casi denunciati non andava oltre la polizia. Di questi casi, la polizia ha detto a circa il 70% di non sporgere denuncia. Quando Campbell ha intervistato la polizia su questo argomento, ha appreso che non erano in cattiva fede, ma avevano una comprensione molto scarsa del comportamento delle vittime. Respinsero regolarmente le denunce di stupro perché non comprendevano le risposte fisiologiche comuni al trauma e presumevano che le vittime mentissero. I casi furono archiviati prima ancora che ci fossero delle indagini.

La polizia spesso segue una tecnica di interrogatorio che insegna loro a presumere che quando una dichiarazione non è dettagliata, o se ci sono lacune o incongruenze nel resoconto, la persona mente. E i pubblici ministeri spesso evitano di andare in tribunale se ritenevano di non poter sostenere una causa forte. […]

Con una maggiore conoscenza di come funziona il cervello, i comportamenti che vengono bollati come anomali, quelle che appaiono come discrepanze, riescono ad avere più senso. Alcune risposte al trauma possono cambiare ciò a cui le persone prestano attenzione e quindi il tipo di ricordi che hanno di un'esperienza. Una vittima potrebbe ritrovarsi concentrata su dettagli che gli investigatori potrebbero ritenere irrilevanti ma che il suo cervello elabora come importanti per la sopravvivenza, che si tratti del colore di un muro o di una canzone che suona in un corridoio o del disegno delle vene di una foglia su una pianta. Ma la vittima potrebbe non sapere il colore della maglietta che indossava il suo aggressore o anche se indossava un preservativo. Ciò di cui hanno maggiore ricordo sono le percezioni sensoriali.

Le percezioni sensoriali sono diverse a seconda delle risposte al trauma: una vittima che entra in uno stato di immobilità tonica, ad esempio, potrebbe avere muscoli rigidi o arti tremanti o potrebbe sentire molto freddo. Ma se nello stesso momento si è dissociata, non ricorderà quei dettagli perché non avrà avuto consapevolezza di ciò che stava accadendo al suo corpo in quel momento. […]

In molti stati, i pubblici ministeri devono ancora dimostrare che il contatto sessuale è stato forzato o ha incontrato resistenza verbale o fisica per dimostrare che la vittima non ha acconsentito.  

Veronique Valliere, psicologa forense, sottolinea: «Dobbiamo capire che il congelamento è involontario, da un punto di vista medico e scientifico. L’immobilità tonica non è diversa dall’avere un midollo spinale reciso, e ciò aiuterà a eliminare lo stigma, socialmente e legalmente».

[…]

Il Maggiore consenziente.

Estratto dell’articolo di Valentina Errante per “il Messaggero” il 18 Settembre 2023

Il consenso può venire meno anche all'improvviso, persino durante un rapporto sessuale, e allora si profila il reato di violenza. Mentre le molestie (anche se soltanto verbali) possono portare al licenziamento legittimo di un dipendente. 

La stretta della Corte di Cassazione in materia di reati contro la persona arriva con due diverse sentenze: la prima che conferma la condanna a dodici anni per un uomo di Busto Arsizio, accusato di violenza sessuale e maltrattamenti, la seconda che legittima il licenziamento del dipendente di una società, denunciato da una neoassunta, con contratto a tempo determinato, per i continui apprezzamenti a sfondo sessuale.

Per i giudici della Suprema Corte, poco importa cosa sia accaduto prima di un rapporto sessuale tra maggiorenni. La Cassazione stringe ancora di più il campo in materia di stupri e consenso da parte di una donna. 

Si legge nella sentenza: «Si rammenta che, in tema di reati contro la libertà sessuale, nei rapporti tra maggiorenni, il consenso agli atti sessuali deve perdurare nel corso dell'intero rapporto senza soluzione di continuità, con la conseguenza - precisano gli ermellini - che integra il reato di violenza sessuale la prosecuzione del rapporto nel caso in cui, successivamente a un consenso originariamente prestato, intervenga in itinere una manifestazione di dissenso». E i giudici sottolineano che tale manifestazione può «anche non essere esplicita, ma per fatti concludenti chiaramente indicativi della contraria volontà».

[…] Era stata una sofferta testimonianza in aula della vittima a rivelare i dettagli dei rapporti sessuali con il marito: la donna aveva riferito di essere stata costretta a proseguire nonostante l'espressa richiesta di smettere. 

Riguarda invece le molestie sul luogo di lavoro, la seconda sentenza della Corte. I giudici chiariscono che non occorre che ci sia un approccio fisico per integrare il reato di molestie, che può portare al licenziamento di un dipendente. 

La Cassazione ha confermato così la decisione della Corte di appello di Firenze che aveva già respinto il reclamo di un dipendente autore di molestie verbali nei confronti di una giovane collega neoassunta, con contratto a termine, e assegnata a mansioni di addetta al banco del bar. La lavoratrice aveva denunciato per due volte i comportamenti dell'uomo alla direzione aziendale: allusioni a sfondo sessuale, non gradite, che per la Corte erano idonee violare la dignità della donna.

Tanto da legittimare il licenziamento dell'uomo, che invano si era giustificato sostenendo che non vi fosse alcuna volontà offensiva e che tra i colleghi il clima era sempre stato goliardico. 

Nel giudizio la procura generale aveva sollecitato la conferma del licenziamento per giusta causa, considerando molestie «quei comportamenti indesiderati, posti in essere per ragioni connesse al sesso, aventi lo scopo o l'effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo». 

Per la Cassazione la discriminante è il «carattere indesiderato della condotta, pur senza che ad essa conseguano effettive aggressioni fisiche a contenuto sessuale». […] 

Il Minore consenziente.

Estratto dell'articolo di Andrea Galli per corriere.it sabato 9 dicembre 2023.

Dodici giudici dei tre complessivi gradi di giudizio, fino adesso alla definitiva sentenza della Cassazione, non hanno variato d’un solo giorno la condanna contro un 70enne reo di indicibili orrori contro la nipotina: 14 anni di pena erano, sono rimasti e così sarà per sempre. Troppo del resto evidenti, e insindacabili, le prove raccolte nel corso degli anni dagli inquirenti poiché gli abusi giacevano conservati nelle foto e nei video presenti nelle memorie del cellulare del nonno, che aveva iniziato le violenze quando la bambina aveva dieci anni. [...]

La frequenza cadeva almeno tre volte ogni mese, quando il 70enne si presentava nell’appartamento del figlio per prelevare la nipote e trasferirla nella propria abitazione, così che appunto stesse un po’ coi nonni. In realtà la destinazione non era nessuna casa bensì uno dei veicoli di proprietà dell’anziano, il luogo dove si è consumata la maggioranza degli orrori [...]

La piccola aveva presto cominciato a ritirarsi nel silenzio, comunicando ai genitori, con enorme fatica, di preferire evitare gli incontri con il nonno ma senza addurre ragioni particolari, e in ogni modo priva d’una minima protezione da parte del papà, figlio dell’anziano: anzi, al contrario, una volta scoperti dal primo gli abusi del secondo, lui ha cercato di coprire lo stesso padre facendo ricadere tutto sulla bambina. Come? Confermando le versioni del nonno relative a invenzioni della piccola, magari causate da «inesistenti malattie di natura neurologica». 

Nel frattempo, quest’agonia ha già registrato una condanna anche per il papà: due anni e otto mesi. [...] l’anziano, d’intesa con il figlio, «aveva tentato in ogni modo di eludere le indagini sbarazzandosi del telefono cellulare in uso all’epoca dei fatti, sminuendo l’accaduto e additando la reale responsabile» nella medesima vittima, ovvero la vittima, «screditandola e accusandola di essere posseduta dal demonio», e inoltre professandosi innocente e così ripetendo: «Vado in galera senza aver fatto niente. Che schifo». [...] L’anziano non avrebbe mai manifestato intenzioni d’un pentimento. 

[...] la bambina ha sempre manifestato enormi difficoltà nel riferire «le violenze subìte e le abituali costrizioni imposte dal nonno» il quale, in aggiunta, l’aveva più volte obbligata a riprendere lei stessa, con il cellulare, gli abusi. 

Decisive si sono rivelate le conversazioni telefoniche: «Nessun dubbio residuava sulla genuinità di quanto affermato dai soggetti intercettati, i quali, inconsapevoli che le conversazioni erano ascoltate, si scambiavano liberamente valutazioni e opinioni» […]

Estratto dell'articolo di Giulio Pinco Caracciolo per ilmessaggero.it giovedì 16 novembre 2023

Tira un sospiro di sollievo la mamma di una delle vittime dell’ex colonnello dell’Esercito. Lei, che non si è mai persa un’udienza, ascolta commossa le parole del giudice senza mai distogliere lo sguardo dall’imputato: «Paolo Nicastro Guidiccioni colpevole». Ieri mattina, nel tribunale di piazzale Clodio, è arrivata la condanna a 8 anni di reclusione per il 55enne romano che avrebbe abusato di due ragazzini, figli dei suoi amici d’infanzia. 

«Avrei preferito 10 anni come aveva richiesto il pm», commenta la mamma di Paolo (nome di fantasia). È lui, all’epoca 13enne, la prima delle vittime di Nicastro e quella che ha subito maggiormente le conseguenze di quegli abusi perpetrati nel tempo. «Quello che ha fatto quella persona è terribile, ma sono soddisfatta comunque per essere arrivati a una condanna di questo tipo - continua la donna - Mio figlio purtroppo si sforza di stare bene, ma dentro soffre ancora tantissimo». [...]

Un vuoto che assomiglia a una voragine nel cuore e nello spirito delle vittime di Nicastro, amici e compagni dello stesso destino costretti a subire morbose attenzioni da quell’uomo, amico dei genitori, che si faceva chiamare “zio”: amichevole e sorridente, con la scusa di qualche pacca sulla spalla tra maschi infilava le mani sotto la maglietta per toccare i pettorali. Mani che poi finivano dentro il costume durante quelle vacanze in un residence in Sardegna. 

[...] «Uno degli elementi più inquietanti emersi durante le indagini - spiega l’avvocatessa Perugini - è che lui non si è mai pentito per il trauma inflitto. A lui delle vittime non interessa, gli è sempre e solo importato salvaguardare la sua persona e il rapporto di fiducia (inevitabilmente venuto meno) con i genitori dei ragazzi, che all’epoca erano suoi amici d’infanzia». 

Oltre alla condanna a 8 anni di carcere il giudice ha disposto un risarcimento di 50mila e 40mila euro per le due vittime di Nicastro e 5mila euro per ciascun genitore. Ha imposto inoltre il divieto assoluto di avvicinarsi a luoghi frequentati da minorenni, una misura di sicurezza valida per due anni. […]

Estratto dell’articolo di Carlo Testa per corriere.it il 30 aprile 2023.

Decide di non denunciare l'uomo che aveva molestato sua figlia, una bambina di 10 anni, in cambio di 600 euro e finisce sotto inchiesta per favoreggiamento. Lei, una donna residente in un paese della provincia di Lecce, ha detto di aver taciuto perché temeva la reazione violenta del marito e ha patteggiato una condanna a otto mesi di reclusione (pena sospesa e non menzione).

Il caso non è chiuso perché l'uomo accusato delle molestie deve ancora essere giudicato con rito abbreviato con l'accusa di violenza sessuale aggravata. I fatti si riferiscono all'agosto del 2020. Secondo quanto emerso dalle indagini, il presunto molestatore avrebbe convinto la bambina a farsi il bagno insieme a Porto Cesareo, nota località turistica del Salento, e l'avrebbe costretta a subire atti sessuali. La bambina, una volta ripresa la scuola, si confidò con una insegnante e successivamente con la madre.  […] 

La donna - è emerso dalle indagini - non fornì alcuna indicazione utile per identificare il presunto molestatore in quanto aveva ricevuto da lui 600 euro affinché non lo denunciasse. […]

Lecce, per 600 euro non denuncia l'uomo che ha molestato sua figlia. Donna accusata di favoreggiamento, patteggia pena a 8 mesi. REDAZIONE ONLINE su La Gazzetta del Mezzogiorno il 30 Aprile 2023

Avrebbe deciso di non denunciare e sviare le indagini sull'uomo che aveva molestato sua figlia, che all’epoca aveva 10 anni, in cambio di 600 euro ed è finita sotto inchiesta per favoreggiamento. Ora la donna, che vive nella provincia di Lecce, ha patteggiato una condanna a otto mesi di reclusione (pena sospesa e non menzione).

L’uomo accusato delle molestie è invece a processo con rito abbreviato con l’accusa di violenza sessuale aggravata. La notizia è riportata da alcuni quotidiani locali.

I fatti risalgono al 2020. Secondo l’accusa il molestatore avrebbe sottoposto la bambina ad abusi sessuali mentre erano al mare a Porto Cesareo. La bambina si sarebbe poi confidata con una insegnante e successivamente con la madre. Quest’ultima però, convocata in caserma, avrebbe tentato di sviare le indagini accusando un altro parente mai identificato.

Questo perchè, secondo l’accusa, aveva ricevuto 600 euro dal molestatore affinché non lo denunciasse. Le indagini hanno poi individuato l’uomo che è ora a processo.

Estratto dell’articolo di Francesco Oliva per repubblica.it il 27 aprile 2023.

Un animatore e barman milanese è sotto inchiesta per una presunta violenza sessuale su una 12enne in un resort degli Alimini, una delle zone più rinomate del Salento. L'inchiesta è stata avviata dalla procura di Lecce dopo la denuncia della madre della bambina, depositata a distanza di tempo a Viterbo, nella zona in cui vive la famiglia. L'indagato ha 24 anni e risiede a Milano. In Salento era arrivato insieme ad altri ragazzi per fare da animatore in una struttura di lusso. […]

Tra gli ospiti della struttura c'era anche una 12enne. E, secondo il suo racconto - confermato nel corso dell'incidente probatorio - verso la fine della serata sarebbe stata convinta ad allontanarsi dal gruppo e portata nei bagni dall'animatore: lì il ragazzo la avrebbe costretta, approfittando della sua maggiore forza, a subire abusi che avrebbero lasciato anche segni fisici su di lei. 

La ragazzina ne avrebbe parlato con gli altri animatori il giorno seguente per poi confidarsi con la madre solo dopo un po' di tempo, al rientro dalla vacanza. La denuncia è stata così presentata a ottobre anche se si tratta di un reato comunque procedibile d'ufficio e il nome dell'animatore è stato iscritto nel registro degli indagati con l'accusa di violenza sessuale aggravata dall'età della persona offesa, al di sotto dei 14 anni. […] 

La denuncia nei suoi riguardi? "Un modo - ha detto - per dare le colpe a un'altra persona del fatto che fosse ubriaca” […]

Da open.online il 2 febbraio 2023.

Anche se l’allieva è minorenne il professore può avere una relazione con lei. È la decisione che ha preso un giudice di Reggio Emilia riguardo una storia che risale al 2019. Il docente 43enne conosce un’alunna di 14 anni. Nel 2020 la ragazza viene ricoverata per un aborto spontaneo. Nell’occasione racconta della sua relazione con il prof, che nel frattempo ha cambiato istituto. Due anni dopo il maestro è accusato di violenza sessuale dalla procura.

 Ma la minore viene sentita da uno psicologo e dice di amarlo. La stessa cosa sostiene lui. Il professionista non rileva disagi psichici nella minore. Non c’è un rapporto di sudditanza con l’uomo. Ma la relazione si interrompe con l’indagine. E la moglie di lui chiede il divorzio. Il docente, racconta La Stampa, acconsente al divorzio e decide di tornare con l’ex alunna. La frequentazione è durata almeno fino all’anno scorso. Lei intanto è diventata maggiorenne. I genitori si sentono rifiutati dalla ragazza. E sono pronti a chiedere la riapertura del caso se emergessero nuove prove contro il docente. Che intanto continua a insegnare.

Estratto dell'articolo di Giulio De Santis per corriere.it il 26 aprile 2023.

[...] Carlotta (nome di fantasia), 15 anni, non ha con sé i fazzoletti: «Mamma mi aveva detto di portarli. Ma me ne sono dimenticata», dice tra le lacrime al pm Antonio Verdi e al gip Valeria Tomassini durante l’incidente probatorio in cui ricorda l’approccio del mister avvenuto in una camera d’albergo il 10 agosto di due anni fa. Ora nei confronti dell’allenatore Orazio Ragusa, 27 anni, la Procura ha chiuso l’inchiesta con l’accusa di violenza su minore.

La violenza in un albergo a Prati

Il coach, alla guida della squadra giovanile «Unione nuoto Friuli», ha sempre negato le accuse. Invece ecco cosa sarebbe successo [...] attraverso le parole di Carlotta, friulana: «Sono circa le nove. L’allenatore scrive alla mia migliore amica per chiedermi di andare in camera da lui perché stiamo facendo tardi. È il mio coach, non avrei potuto dire “non vado”, insomma. Se lui mi chiede una cosa, è come se me la dicesse mamma»,[...] 

Le richieste dell'allenatore alla ragazza

«Appena arrivo nella camera –[...] il coach mi dice di andare a dormire perché avrei avuto la gara presto. Poi mi chiede di lasciargli il cellulare, per il timore che usassi durante la notte. Gli ho detto di no. Ma lui lo prende e lo poggia su un tavolino. A quel punto, ha cominciato a fare domande scomode sul mio fidanzato dell’epoca, ricorrendo a termini volgari. Mi sono rifiutata di rispondere. Poi mi ha chiesto di stendermi sul letto, perché voleva che dormissi lì. Gli ho detto no. Ma insomma avevo 14 anni. C’era persino la sua morosa in squadra. Allora mi chiede un abbraccio. Facciamo quest’abbraccio, ho pensato. Ma lui (difeso dagli avvocati Mario Stagliano e Maria Serbelloni, ndr) mi mette le mani ovunque. È allora che sono scappata».

Il ricordo di quei momenti la fa piangere. Per un motivo: «Mi fidavo, era stata sempre una brava persona». [...] «Non sono stata più la stessa, nell’attività sportiva e con gli altri. Mi sono chiusa, prima ero tanto estroversa». Al punto che «per mesi sono stata zitta, ho tenuto tutto dentro».

Estratto da open.online il 26 aprile 2023.

Una studentessa ventenne è stata aggredita sabato sera da un cittadino bengalese di 38 anni (arrestato dalla polizia) in via Principe Eugenio a Termini. Si è salvata grazie all’intervento di una famiglia, che è accorsa dopo aver sentito le urla. E oggi parla con il Messaggero di quello che le è successo: «Un animale non sarebbe arrivato a tanto. Mi mordeva sul viso, mi ha staccato la pelle dalla faccia.

Mordeva i miei denti che ho lavato per tutta la notte. Quel mostro mi stava sopra, mi stringeva le mani sul collo come per strangolarmi, ho ancora i lividi dopo giorni. C’è stato un momento, quando ho sentito chiudersi, pesantemente, il portone dietro di me, in cui ho pensato “Ecco è finita”. Quell’androne di un anonimo palazzo romano stava per diventare la mia tomba. E lui, intanto, mi spogliava…».

L’uomo che l’ha aggredita adesso è in carcere. «Deve rimanerci per sempre. È troppo pericoloso», [...] Il suo racconto è lucido: «Avevo un appuntamento in un locale con un amico in arrivo da Milano ed altre persone. Ero appena scesa dal treno e mi stavo dirigendo sul posto, a esattamente 15 metri da dove è scattata la mia trappola, seguendo la posizione che mi era stata inviata su WhatsApp.

Oramai gli spostamenti con i treni sono veloci, avevo calcolato di riprendere uno degli ultimi convogli in modo da essere a casa intorno alla mezzanotte […] All’improvviso mi ha sferrato un calcione pazzesco […]. Non ci ho capito più niente: mi ha riempito di calci e sbattuto contro il muro».

"Gravissimo degrado socio-culturale". Bimba abusata da padre e cugino, l’orrore nella famiglia calabrese: la madre costretta a vedere tutto. Redazione su Il Riformista il 24 Aprile 2023 

Per anni padre e cugino avrebbero abusato sessualmente di una bambina di 7 anni, affetta da disabilità intellettiva media. Per questo motivo i carabinieri di Crotone e quelli di Scandale in esecuzione dell’ordinanza applicativa della misura cautelare della custodia in carcere emessa dal Tribunale di Crotone, hanno arrestato i due: si tratta del padre della bambina e di un cugino, rispettivamente di 60 e 65 anni.

Gli abusi sarebbero stati commessi a Scandale, in un contesto familiare di “gravissimo degrado socio-culturale” emerge nell’ordinanza di custodia cautelare. Abusi che sarebbero iniziati quando la piccola aveva appena tre anni.

La madre, anche lei vittima di maltrattamenti fisici e verbali, avrebbe tentato più volte di fermare il marito nel corso del tempo e avrebbe assistito in più occasioni agli abusi sessuali che la piccola avrebbe subito anche dal cugino del genitore. Padre che, come viene descritto negli atti delle indagini, spesso era in stato di ubriachezza e si sfogava su moglie e figlioletta.

A far scattare le indagini dei carabinieri la segnalazione degli assistenti sociali del comune crotonese, preoccupati dai comportamenti inusuali della bambina sia nel contesto sociale, che in quello scolastico: da qui, le immediate indagini condotte dai militari della Sezione Operativa e della Stazione carabinieri di Scandale, sotto l’attenta direzione della Procura della Repubblica di Crotone, hanno disvelato una realtà a dir poco “raccapricciante” nella quale avrebbe vissuto, per anni, la bambina.

I racconti forniti dalle vittime, le intercettazioni telefoniche e ambientali e le testimonianze raccolte dagli inquirenti in un contesto caratterizzato “da palesi reticenze e omissioni volte a screditare la realtà dei fatti” sono confluite nell’inchiesta che ha permesso ai carabinieri di arrestare i due indagati e salvare la madre e la bambina, entrambe collocate in idonee strutture protette.

Le Scarcerazioni.

Claudio Marini violentò 12 donne ma torna libero: "Ha la lombosciatalgia". Libero Quotidiano il 14 gennaio 2023

È a piede libero Claudio Marini, finto regista incarcerato per aver adescato 12 donne con dei falsi provini. L'uomo, uscito di prigione perché scaduti i termini di custodia cautelare adesso, dopo il rinvio dell'ennesima udienza, potrà godersi la libertà. A "salvarlo" anche un certificato medico: lombosciatalgia. I fatti di cui è stato accusato risalgono al 2019. All'epoca il finto regista, che si faceva chiamare Alex Bell, aveva organizzato una struttura credibile per selezionare ragazze intenzionate a diventare attrici.

Ma non solo, perché il 50enne vantava studi associati e uffici professionali per casting, sale d'attesa gremite di gente, una segretaria (che non sapeva nulla) che si occupava di registrare i nomi. A denunciarlo per primo un'aspirante attrice di vent’anni che Marini aveva baciato prima di provare ad avere un rapporto intimo. Lo schema era sempre lo stesso ed è stato messo in pratica ben dodici volte.

Ora, grazie a cavilli, impedimenti e assenze, l'uomo originario di Frosinone può tornare libero. La dilatazione dei tempi ha infatti fatto scadere i termini della custodia cautelare: Marini è tornato libero nonostante l'accusa di violenza sessuale sia pesantissima. "Riteniamo inaccettabile che l'imputato a cui era stata applicata la misura cautelare del carcere sia da mesi libero per scadenza dei termini di misura cautelare: le leggi esistono e non sono applicate – hanno commentato da Differenza Donna – Ciò scoraggia la denuncia di tante giovani donne".

Lo Stupro femminile.

ANCHE LE DONNE VIOLENTANO. (ANSA mercoledì 18 ottobre 2023)  - Una 38enne è stata arrestata la scorsa notte dai carabinieri con l'accusa di violenza sessuale e furto in appartamento nei confronti di un anziano ultraottantenne. Secondo le indagini, coordinate dall'aggiunto Letizia Mannella e dal pm Alessia Menegazzo, la donna, cittadina romena, avrebbe messo in atto abusi sessuali nei confronti dell'uomo per poi portargli via soldi o oggetti di valore da casa. Non era la prima volta, stando a quanto denunciato dai figli dell'uomo, che la 38enne entrava in casa dell'anziano per raggirarlo con violenze.

 Stando alle indagini, sempre più spesso anziani restano vittime di episodi di questo genere. L'arresto dovrà essere convalidato dal gip Natalia Imarisio. Dopo la denuncia dei familiari dell'anziano, è stato eseguito un arresto in flagranza per le due accuse e il provvedimento è stato inoltrato dai pm all'ufficio gip per la convalida. Stando a quanto ricostruito nelle indagini, la donna, che aveva agganciato l'uomo tempo prima, riuscendo ad entrare in casa anche altre volte, avrebbe abusato dell'uomo anche se lui le chiedeva di smetterla.

I Funzionari Onu.

Estratto da corriere.it martedì 14 novembre 2023.

[…] E’ il più grande scandalo sessuale conosciuto nella storia dell’Organizzazione mondiale della sanità: l’abuso di oltre 100 donne congolesi da parte di operatori i dell’agenzia Onu.  Molestie e sfruttamento sessuale avvenuti tra il 2018 e il 2020, quando l’Oms era impegnata nella lotta all’epidemia di Ebola, mette in chiaro dopo un’indagine interna il rapporto realizzato a marzo da Gaya Gamhewage, direttrice dell’Oms per la prevenzione dei reati sessuali.

Ora l’agenzia Associated Press ha appreso che l’Oms ha versato 250 dollari ciascuno a 104 di queste donne . Un importo inferiore al rimborso spese di un solo giorno per alcuni funzionari delle Nazioni Unite che lavorano nella capitale congolese, […] 

Non solo: per ricevere il denaro, le vittime sono tenute a completare corsi di formazione destinati ad aiutarle ad avviare «attività generatrici di reddito». E questo per aggirare la policy delle Nazioni Unite che non prevede risarcimenti alle vittime di malcondotta dei funzionari: i soldi versati rientrano in un «pacchetto» di sostegno. Paula Donovan, che co-dirige la campagna Code Blue per eliminare quella che viene chiamata impunità per cattiva condotta sessuale nelle Nazioni Unite, ha definito «perverso» questo sistema di pagamento dell’OMS.

[…] 

L’Oms ha affermato che una decina di donne ha rifiutato la sua offerta. Nelle interviste, i beneficiari hanno detto all’Ap che i soldi ricevuti erano appena sufficienti, ma che desideravano ancora di più giustizia: quello che desideravano di più era che «gli autori del reato fossero chiamati a rispondere in modo che non potessero fare del male a nessun altro», si legge nei docunenti dell’Oms visionati da Ap.

LA VERGOGNA. L'Oms ha pagato 250 dollari a ogni donna che ha subito abusi sessuali dai suoi funzionari in Congo. Da un rapporto dell’Onu emerge il più grande scandalo sessuale conosciuto nella storia dell’Organizzazione mondiale della sanità. sarebbero più di cento le vittime: «È inaudito». Chiara Sgreccia su L'Espresso il 14 Novembre 2023

Alphonsine, 34 anni, ha raccontato di essere stata costretta a fare sesso con un funzionario dell’Organizzazione mondiale della sanità in cambio di un lavoro come addetta al controllo delle infezioni in una delle squadre per il contrasto all’Ebola operativa nella città di Beni, nel Congo orientale, tra il 2018 e il 2020.  

Come si legge in un rapporto interno dell’Oms, a cui l’agenzia di stampa Associated press ha avuto accesso, Alphonsine, che non vuole divulgare il suo cognome per paura di ritorsioni, non è la sola. Sarebbero state più di cento le donne abusate dai funzionari dello staff delle Nazioni Unite che erano nella Repubblica democratica del Congo per contrastare l’epidemia di ebola di cui il Paese è stato l’epicentro qualche anno fa. 

A ciascuna vittima, i membri dell’agenzia delle Nazioni Unite avrebbero dato circa 250 dollari. Un importo inferiore al rimborso che, per un solo giorno, alcuni funzionari percepivano per lavorare a Kinshasa, la capitale congolese. Che ai locali, che riescono a sopravvivere anche con meno di 2,15 dollari al giorno, bastano per coprire le spese di vita quotidiana di soli quattro mesi. 

Secondo il rapporto, redatto a Marzo da Gaya Gamhewage, direttrice dell’Oms per la prevenzione dei reati sessuali, i pagamenti alle donne non venivano effettuati liberamente. Per ricevere il denaro, dovevano completare corsi di formazione necessari per avviare «attività generatrici di reddito». Sembrerebbe per tentare di aggirare policy dalle Nazioni Unite secondo cui non si possono risarcire con il denaro le vittime di cattiva condotta dei funzionari, i soldi versati dovrebbero rientrare in un «pacchetto» di sostegno. 

Per Paula Donovan, che co-dirige la campagna Code Blue per eliminare l’impunità per cattiva condotta sessuale delle Nazioni Unite, i pagamenti dell’Oms alle vittime di abuso e sfruttamento sessuale sono «perversi. Va bene che le Nazioni Unite diano alle persone denaro iniziale in modo che possano aumentare i propri mezzi di sussistenza, ma combinare questo con un risarcimento per una violenza sessuale è inaudito. Richiedere alle donne di frequentare un corso di formazione prima di ricevere il denaro crea condizioni scomode per le vittime di reati in cerca di aiuto». 

Sembrerebbe, inoltre, che molte delle donne vittime di abusi non abbiano ancora ricevuto alcun risarcimento. La direttrice Gamhewage ha confermato ad Ap i risarcimenti, ma ha anche detto che i soldi non bastano per compensare i danni subiti dalle donne abusate: «Ovviamente, non abbiamo fatto abbastanza». E che l’Oms chiederà direttamente alle sopravvissute quale ulteriore sostegno desiderano.

Lo stupro dei volontari.

Estratto dell’articolo di corriere.it il 31 ottobre 2023.

Mentre lavorava come animatore in una struttura ricettiva della provincia di Perugia avrebbe abusato di una bambina di sei anni, approfittando di una pausa lavorativa. Per questo un trentatreenne di origini marchigiane è stato messo agli arresti domiciliari a seguito di una indagine avviata dai carabinieri coordinati dalla procura del capoluogo umbro. 

Sullo smartphone dell'uomo sono state in seguito trovate «un numero rilevante» di immagini pedopornografiche, come riferiscono gli inquirenti. È stato quindi accusato di violenza sessuale e detenzione di materiale pedopornografico. Secondo quanto reso noto dalla procura di Perugia i fatti risalgono allo scorso agosto.

La bambina, poi medicata in ospedale a Perugia, si trovava in vacanza con la famiglia e avrebbe riferito quanto accaduto al padre. Il quale, dopo avere allertato i carabinieri, ha sporto denuncia. I militari hanno inizialmente denunciato a piede libero l'uomo, sequestrando il suo telefono cellulare e altro materiale. Proprio grazie a successivi accertamenti tecnici sullo smartphone - emerge ancora dalla nota degli investigatori - sono state ritrovate le immagini pedopornografiche. 

Da tutti questi elementi derivano le considerazioni  del gip che ha ritenuto «elevatissimo, attuale e concreto il pericolo di specifica reiterazione criminosa». La personalità dell'indagato viene definita «negativa» e nel riguardo alla violenza denunciata si delinea una «inquietante spregiudicatezza e totale assenza di freni inibitori nel sottoporre ad atti sessuali minori in tenerissima età». Sono stati quindi disposti gli arresti domiciliari con controllo elettronico. […] 

Estratto dell’articolo di Ilaria Sacchettoni per il “Corriere della Sera” giovedì 2 novembre 2023.

È l’estate del 2023. Mentre in un’aula del tribunale di Ancona va in scena un tipico caso di pedofilia con la sua galleria di abusi quotidiani, sul lago Trasimeno i proprietari del camping «Cerquestra» decidono di assumere l’imputato di quel processo per un lavoro a stretto contatto con i bambini. 

Gabriele Priori, 33 anni, di Jesi, dagli arresti domiciliari dove ora si trova dopo aver abusato di una bimba di 6 anni, conferma: «Cercavo un lavoro a contatto con loro, i bambini. Ho bussato lì. Mi hanno contattato via mail, ho detto sì». Oggi nessuno vuol rispondere di questo corto circuito e dal centralino del camping invitano a rivolgersi a uno studio di avvocati perugini che squilla a vuoto.

Ora: c’erano già almeno due buoni motivi per escludere Priori da quell’incarico. Il primo è che già dal 2019 il giovane risultava indagato per una violenza sessuale nei confronti di una bimba di sette anni (6-7 pare sia l’età dalla quale è attratto). Il secondo è che dal 2020 esisteva un provvedimento cautelare di «divieto di avvicinamento ai plessi scolastici pubblici e privati». 

Vi sarebbe poi un terzo motivo che, nelle piccole località dove tutti si conoscono, può avere un peso: la denuncia in Procura di Pierino Priori, ex carabiniere tutto d’un pezzo e padre di Gabriele, che segnalava ai magistrati l’intenzione del figlio di sottrarsi a quel provvedimento svolgendo «supplenze» scolastiche.

Dunque sarebbe stata sufficiente una semplice telefonata ai carabinieri della zona chiedendo di verificare eventuali carichi pendenti del giovane che si voleva assumere come animatore del villaggio e la decisione sarebbe stata più ponderata. Nulla di tutto questo è stato fatto. E un’altra bimba, stavolta di sei anni, è stata abusata. 

[…] Ma lui, Priori, sembra perso nella trama di un film interiore, popolato di fantasie morbose dalle quali riemerge brevemente e confusamente: «Io ho il diritto di insegnare ai bambini, ho studiato e ho tutti i titoli. Sarebbe una violenza impedirmelo», dice il 33enne preoccupando Migliorelli.

Si torna dunque alla questione dell’istruzione. Perché la prima vittima di Priori, la bimba di sette anni, gli era stata affidata per motivi di studio. Lui la seguiva quasi quotidianamente per darle lezioni. Il dibattimento ha denunciato tutte le caratteristiche di un classico caso di pedofilia. Sui supporti informatici dell’imputato sono state rintracciate centinaia di foto di bambine (vestite) tratte dal web sotto alle quali comparivano i commenti di Priori («dolcissima»; «che bella»; «che begli occhi»).

Il giovane annotava compulsivamente ogni sua sensazione. Agli atti del processo risultano sequestrati trenta manoscritti/diari nei quali, per anni, Priori ha annotato la sua attività e le sue esperienze. Spiega Migliorelli: «Emergeva con evidenza il riferimento ossessivo ai bambini in una dimensione romantico-cavalleresca nella quale lui stesso si dipingeva come principe azzurro immerso in storie caratterizzate da una felicità infantile nei confronti di bambine che spesso avevano meno di dieci anni». […]

Estratto dell'articolo di Chiara Rai per “il Messaggero” il 5 giugno 2023.

«Lo ha violentato nella sede, con una mano gli tappava la bocca e intanto abusava di lui. È scioccato, sono disperata ho paura che faccia una sciocchezza». Durante una seduta con la sua psicologa, concitata, ha rotto un silenzio che giorno dopo giorno la stava lacerando perché il suo amico, il suo amore, le aveva confessato un segreto troppo doloroso da sopportare: una violenza sessuale subita dal presidente dell'associazione di volontariato dove lui prestava servizio, quella persona «perbene, stimata e gentile con tutti».

Una storia condita di particolari che la psicologa della ragazza, una giovane dei Castelli Romani, ha riportato agli uomini del commissariato di polizia di Marino. È da quel momento, […] che gli agenti dell'anticrimine hanno iniziato a indagare, fino a raccogliere prove, testimonianze e poi a mettere le manette al presidente della sede di una associazione nazionale di volontariato a Roma nel quartiere Appio Tuscolano, ai piedi dei Castelli.

Sono circa dieci al momento i casi di abusi su giovani volontari che gli agenti hanno ricostruito. L'uomo, 50 anni di Roma, […] avrebbe costretto i ragazzi con ricatti e pressioni psicologiche ad avere rapporti sessuali con lui, tutti maschi, dai 16 ai 18 anni. […] Gli abusi si sarebbero perpetrati almeno negli ultimi due anni ma gli inquirenti non escludono che l'uomo abbia potuto macchiarsi di violenze anche per un periodo più prolungato.

Diversi i ragazzi che hanno tracciato un profilo del carnefice. «Una persona insospettabile che guadagnava subito la fiducia dei giovani, particolarmente attratto dai ragazzi, quasi "piacione" ma con eleganza, addirittura magnetico». Un paio di ragazze più attente non hanno avuto simpatia della persona. «Era troppo gentile, troppo bendisposto ad ascoltare a fingersi amico e confidente e in fondo voleva solo appagare i suoi desideri morbosi e perversi», dicono.

I testimoni sentiti avrebbero raccontato che le violenze subite sarebbero avvenute perlopiù nella sede dell'associazione e che il presidente, sempre presente, avrebbe «costretto il ragazzino di turno ad avere rapporti anche più volte al giorno». […]  Secondo quello che è emerso dall'ascolto dei racconti dei ragazzi che hanno trovato il coraggio di parlare, è stata più la pressione psicologica che quella fisica subita, ovvero le violenze avvenivamo quasi sempre con la volontà da parte di quest'uomo di prestigio di dominare e costringere i ragazzi ad accettare la loro condizione di inferiorità e impotenza di fronte alle richieste sessuali. […]

Estratto dell’articolo di Valentina Errante per “il Messaggero” il 6 giugno 2023.

«Non mi ha mai costretto a fare nulla. A me piaceva. Stavamo benissimo insieme. Anzi è una persona che mi ha tanto aiutato». Parlano così le presunte vittime di Alessandro Angeli, l'educatore che avrebbe abusato dei ragazzi che frequentavano la sua associazione. Ma per la procura quel consenso era solo il frutto di abusi psicologici e di una manipolazione profonda, esercitata con sapienza su adolescenti fragili. 

L'uomo avrebbe convinto i giovanissimi, per la maggior parte sedicenni, che il superamento delle loro insicurezze e delle tante paure da adolescenti potesse avvenire soltanto «liberandosi» e consumando rapporti sessuali con lui: "la guida" del centro, dove i più grandi partecipavano a corsi motivazionali, contest musicali e a tante iniziative organizzate dall'associazione gestita da Angeli e ai campi estivi fuori Roma.

Per il pm Antonio Verdi sono almeno quattro le vittime di dell'educatore di 45 anni, una laurea in Scienze della Formazione e dell'Educazione all'Università salesiana e da tre giorni in carcere con l'accusa di violenza sessuale su minorenni. 

Responsabile dell'associazione di volontariato "Iqbal Masih", alla quale la protezione civile ha dato in dotazione i locali di via Taurianova, nel quartiere Appio Tuscolano, l'indagato avrebbe plagiato i ragazzi, approfittando del suo ruolo e dell'influenza che esercitava su di loro. Tanto che le presunte vittime non avevano preso coscienza del fatto che le orge, alle quali partecipavano con l'educatore, non fossero abusi.

Tra loro c'è anche una ragazza, che almeno in un'occasione avrebbe preso parte ai rapporti sessuali di gruppo. Mentre è al vaglio della procura pure la posizione dell'assistente di Angeli che, sembra, fosse a conoscenza di quanto avveniva sia al centro di via Taurianova, sia durante i campi estivi con i ragazzi. 

Ma Angeli avrebbe consumato rapporti sessuali con i giovani che si affidavano a lui anche nella sua abitazione a Marino. «Mi ha aiutato a superare i miei problemi sessuali. Non mi ha mai costretto a fare nulla», ha detto uno dei ragazzi ascoltato dal pm, che ha delegato alla polizia, alle indagini svolte in tempi record per impedire la reiterazione dei reati.

[…] A dare il via l'inchiesta, che è tutt'altro che conclusa e riguarda anche altre possibili vittime, è stata la volontà ferma dell'ex fidanzata di una delle giovanissime vittime. Il ragazzo le aveva confessato la sua esperienza con toni positivi «Mi ha liberato da tutte le mie paure» ed è a quel punto che la giovane amica lo ha convinto che si trattava invece di violenza sessuale e che fosse necessario rivolgersi a una psicologa.

Lo stupro delle Strutture Socio Sanitarie.

(ANSA il 24 gennaio 2023) Con le accuse di maltrattamenti e abusi sessuali nei confronti di 25 pazienti psichiatrici ricoverati nella struttura socio sanitaria Don Uva di Foggia ,15 tra operatori sanitari, infermieri e ausiliari sono stati arrestati e altrettanti sono stati raggiunti da misure cautelari (obbligo di dimora e divieto di avvicinamento alle vittime).

L'indagine, coordinata dalla Procura di Foggia, è stata condotta da carabinieri Nucleo Investigativo e del Nas. Le accuse sono di maltrattamenti aggravati, sequestro di persona, violenza sessuale, favoreggiamento personale nei confronti di almeno 25 pazienti ricoverati.

 Sono 25 le persone che, secondo gli investigatori, avrebbero subito abusi dagli indagati. Si tratta di degenti che si trovano in condizioni di incapacità e o di inferiorità fisica o psichica ricoverate nel reparto femminile di psichiatria di lunga degenza ed hanno tutte tra i 40 ed i 60 anni. Le indagini sono state avviate la scorsa estate. Perquisiti, oltre alle abitazioni dei 30 indagati, anche gli uffici ed i locali della struttura sanitaria oggetto di indagini. I vertici della struttura non risultano indagati.

Lo Stupro di Lecce.

Lecce, caccia al ragazzo brindisino che potrebbe aver violentato Julie. La 21enne francese in Erasmus suicida: sopralluogo della Scientifica. Oggi l’autopsia, inchiesta della procura. FABIANA PACELLA su La Gazzetta del Mezzogiorno il 25 Ottobre 2023

Due giorni di solitudine e pensieri, amplificati da un sabato sera piovoso. Sono il lasso di tempo durante il quale la studentessa francese di 21 anni, a Lecce con il progetto Erasmus dallo scorso settembre, ha maturato la volontà di farla finita impiccandosi con un laccio di scarpa all’anta dell’armadio della sua cameretta in un appartamento condiviso con altri in via Pappacoda.

Due giorni dopo essersi presentata in pronto soccorso per raccontare di una violenza sessuale, un rapporto non consenziente, non completo, che ha scosso il suo animo delicato, al peggio. Di quella visita c’è traccia nel certificato medico che è stato rinvenuto domenica sera, all’atto del ritrovamento della ragazza, sul comodino di quella stanza da letto. Gli investigatori, gli agenti della Squadra mobile di Lecce coordinati dalla Procura, sono sulle tracce di un ragazzo, un salentino della provincia di Brindisi, col quale si è consumato il rapporto (e con cui al momento in cui si legge l’articolo potrebbero aver già parlato, ndr).

Verificare la realtà dei fatti sarà difficile. Lei, Julie, non potrà più raccontare la sua versione, stabilire il consenso su quel rapporto tecnicamente è impresa ardua. Ma nulla va lasciato intentato.

È una brutta storia, da qualsiasi angolazione la si osservi. Reclama verità a gran voce.

Dalla notte in cui aveva deciso di raccontare cosa le era accaduto, la 21enne era stata invitata a sporgere denuncia. Attraverso l’attivazione del protocollo-Codice Rosa, percorso riservato a tutte le vittime di violenza e in particolare a soggetti fragili, avrebbe avuto la possibilità di parlare con una psicologa, le sarebbe stato fornito anche un numero di telefono da chiamare in caso di necessità.

Ma lei non aveva sporto denuncia né aveva contattato telefonicamente nessuno. Si è invece chiusa in se stessa. Come sarebbe stato possibile vincere quella riottosità e quell’imbarazzo, e consentirle di aprirsi ancora di più? È uno dei tanti interrogativi attorno a questa triste pagina d’autunno. Quanti dubbi, quanti se, quanto dolore attorno a una vicenda che trasuda amarezza, solitudine e anche difficoltà che talvolta è, se non impossibile, molto difficile portare alla luce.

Gli amici hanno compreso subito, non avendo più sue notizie dal weekend, che potesse esserle accaduto qualcosa collegato proprio a quell’episodio che aveva raccontato, per cui in qualche modo aveva chiesto aiuto ma davanti al quale era rimasta come annichilita. La descrivono delicata, sensibile, permeabile più di tanti coetanei agli scossoni emotivi.

A trovarla domenica sera sono stati i poliziotti e i vigili del fuoco, chiamati dagli amici preoccupati per un silenzio che durava da 18 ore. Avevano provato a chiamarla, a buttare giù la porta. Quando sono arrivati i soccorsi, era troppo tardi. Nel biglietto olografo lasciato sul letto - che pubblichiamo in questa pagina - scritto di getto prima dell’insano gesto, Julie saluta tutti, mamma, papà, il suo Pierre e gli amici. Parla dell’amore che le è stato donato ma, più di tutto colpisce un periodo: «Vi amo tutti, non è colpa di nessuno, non ce l’ ho con nessuno perché mi avete tanto amata,ma non ci riesco più, non riesco ad accettare ciò che mi è successo, è troppo difficile per me rimanere sola».

Una solitudine dell’animo in un momento per li difficile? Ciò che le era successo, era forse la violenza? Dubbi, ipotesi, tessere di un mosaico che le autorità stanno provando a mettere insieme col supporto dei racconti di chi, quella studentessa, la conosceva.

Ieri la Scientifica ha effettuato i rilievi nell’appartamento: sono stati sequestrati il diario su cui la ragazza ha scritto la sua lettera d’addio e il telefonino. Stamane sarà eseguita l’autopsia sul corpo della 21enne, come disposto dalla pm titolare del fascicolo, Rosaria Petrolo. Si spera possa emergere qualcosa di più, oltre alla quasi certezza sulla causa della morte e delle modalità, su cui in sostanza non ci sono dubbi.

Complesso anche avvisare i familiari. È strato rintracciato dapprima, con qualche difficoltà, il fratellastro della ragazza. Il sostegno e l’ospitalità alla famiglia saranno a carico dell’Università del Salento.

Si chiama Julie e studiava filosofia: ecco chi è la studentessa suicida dopo le violenze sessuali a Lecce. Claudio Tadicini su Il Corriere della Sera La Gazzetta il 24 Ottobre 2023

La ragazza 21 anni si trovava a Lecce nell'ambito del progetto Erasmus. Dopo il sopralluogo nella casa dove la ragazza si è uccisa, la polizia ha sequestrato il suo diario e il telefono

Le indagini sulla ventunenne francese suicida a Lecce dopo avere subìto una violenza sessuale proseguono nel massimo riserbo tra sequestri, nuovi sopralluoghi, ascolto di testimoni e accertamenti pure sui social network, attraverso i quali gli investigatori della squadra mobile stanno cercando di ricostruire le ultime ore della vittima e accertare se la causa scatenante dell'estremo gesto siano stati proprio i presunti abusi, di cui sarebbe rimasta vittima pochi giorni prima di farla finita. Martedì pomeriggio, la polizia Scientifica ha svolto un nuovo sopralluogo nell'appartamento di via Pappacoda, dove domenica sera Julie Tronet – originaria di Rang Du Fliers, un piccolo comune nella regione dell'Alta Francia – che si trovava in Italia nell'ambito del progetto universitario Erasmus, è stata ritrovata impiccata ad un'anta dell'armadio da uno dei conquilini con cui divideva l'abitazione in affitto. Il cellulare della ragazza e il diario contenente il messaggio d'addio indirizzato alla famiglia sono stati sequestrati, così come la stanza.

L'inchiesta

La procura di Lecce, coordinata da Leonardo Leone De Castris, ha aperto un'inchiesta. E domani mattina il pubblico ministero Rosaria Petrolo conferirà l'incarico di svolgere l'autopsia, che permetterà di accertare le esatte cause della morte della ventunenne e trovare riscontri agli abusi di cui sarebbe stata vittima, come la stessa ha riferito il 19 ottobre scorso ad alcuni medici in ospedale. Nel referto, che la giovane custodiva in stanza, si farebbe riferimento ad alcuni segni addebitati dalla giovane ad atti sessuali, cui sarebbe stata costretta contro la sua volontà. E che si sarebbero verificati proprio nella residenza universitaria che condivideva con altri tre inquilini, tutti studenti Erasmus come lei. Una violenza che la ventunenne non ha però denunciato alle autorità, rifiutando anche di sottoporsi ai successivi accertamenti consigliati dai sanitari.

Al vaglio degli inquirenti vi sono, come detto, anche i profili social sia della ragazza che dei suoi amici più stretti, per cercare di ricostruire il suo giro di frequentazioni, evidentemente nel tentativo di risalire all'identità del molestatore. Nessun messaggio, però, in cui Julie – studentessa di Filosofia e giunta a Lecce ai primi di settembre - annunciava i suoi drammatici propositi. La polizia sta proseguendo con l'ascolto delle testimonianze di coinquilini, amici, amiche e compagni di corso, cercando di ricostruire le ultime ore di vita della giovane.

Julie era una ragazza come tante altre, ma dalla psicologia fragile. Se avesse cercato un balsamo per le sue piaghe dell'anima, probabilmente lo avrebbe trovato rivolgendosi allo sportello di ascolto creato dall'Università del Salento durante le fasi acute della pandemia da Covid-19 e da allora rimasto operativo. Non è dato sapere se sia stata questa fragilità, culminata in un momento di grave sconforto, ad indurre la studentessa a togliersi la vita (questa è l'ipotesi più concreta, al momento). Ma certamente il rettore di UniSalento Fabio Pollice, che in segno di lutto ha disposto il rinvio a data da destinarsi di tutte le manifestazioni pubbliche dell'ateneo salentino, non si dà pace. E con la voce rotta dalla commozione, si rammarica: “Questa è una cosa che non doveva succedere. Se avesse

chiesto aiuto, noi le avremmo potuto dare tutto il sostegno di cui aveva bisogno. Teniamo i contatti con la famiglia residente in Francia tramite una nostra docente di lingua Francese e abbiamo anche acquistato i biglietti aerei per consentire ai congiunti della povera ragazza di raggiungere il Salento”.

Ieri è giunto anche il cordoglio del sindaco di Lecce, Carlo Salvemini: “Dobbiamo sapere ascoltare, sostenere e accompagnare le fragilità dei nostri ragazzi, per evitare che si sentano soli e sopraffatti di fronte ad alcune situazioni limite”.

Julie Tronet, la studentessa francese suicida a Lecce: indagato un 19enne brindisino, è stato tradito da un selfie. Antonio Della Rocca su Il Corriere della Sera giovedì 26 ottobre 2023.

Il giovane, iscritto nel registro degli indagati per istigazione al suicidio e violenza sessuale, ha dichiarato alla polizia di aver avuto un rapporto consensuale con la 21enne

C’è un indagato con l’accusa di istigazione al suicidio e violenza sessuale nel caso di Juliet Tronet, la 21enne studentessa francese morta suicida il 22 ottobre nell'appartamento in cui viveva da qualche settimana a Lecce. Si tratta di un 19enne di Ceglie Messapica, nel Brindisino, che avrebbe costretto la ragazza a un rapporto sessuale proprio nella casa di via Pappacoda, nel rione San Pio: un elemento che gli investigatori considerano importante è il selfie che il ragazzo si è scattato davanti alla porta dell'abitazione, pare, subito dopo la presunta violenza. Ed è sempre in questa casa che, qualche giorno dopo, la ragazza si è impiccata, forse in preda a un momento di forte angoscia, acuita da un rapporto intimo al quale l’avrebbe costretta proprio il giovane, su cui i poliziotti della questura di Lecce hanno concentrato le loro attenzioni. 

La violenza e il referto dell'ospedale

Non ci sarebbe stato un rapporto sessuale completo tra Julie e il ragazzo, conosciuto durante le serate della movida leccese. Ma comunque molto più di un semplice approccio, tanto da destabilizzare il già delicato equilibrio psicologico che, a quanto è dato sapere, condizionava da tempo la vita Julie Tronet, giunta a Lecce da poco attraverso il programma integrato di studio «Double Degree». Un progetto che le aveva aperto le porte dell’Università del Salento per poter affiancare alla laurea presso la École normale supérieure, quella che l’apposita convezione consente di ottenere dopo un corso di studi nell’ateneo salentino. Il 19 ottobre scorso Julie si sarebbe presentata al Pronto soccorso dell’ospedale Vito Fazzi di Lecce, dove i medici hanno stilato un referto che accerterebbe presunti abusi sessuali subiti. La studentessa, pur invitata a sporgere denuncia, avrebbe preferito non farlo, ma alle compagne di studi con cui aveva più confidenza, avrebbe svelato ciò che la tormentava: un atto sessuale che il giovane, ora finito nel mirino degli inquirenti, avrebbe da lei ottenuto con la forza. 

Le dichiarazioni dell'indagato

Il 19enne indagato è stato interrogato dalla polizia e agli investigatori avrebbe confermato il rapporto sessuale, escludendo, però, ogni tipo di violenza. «Il rapporto era consensuale», ha detto. Al momento il giovane, difeso dall'avvocato Aldo Gianfreda, ha rilasciato solo dichiarazioni spontanee ai poliziotti durante le fasi del sequestro del telefonino: non è stato quindi sottoposto ad interrogatorio. Secondo quanto riferito dal legale, i due si sarebbero conosciuti tra i locali della movida leccese il 18 ottobre. Con loro c'era anche una studentessa bielorussa che - ritiene la difesa - avrebbe assistito per strada al clima disteso tra il 19enne e la studentessa francese. Poi i due sarebbe saliti nell'appartamento dove viveva la 21enne. Prima di lasciare la casa il giovane si è scattato un selfie, chiarisce la difesa, «in assoluta buona fede».

Chi era Julie

I genitori della ragazza sono giunti ieri a Lecce, mentre oggi alle 19, su iniziativa degli studenti di UniSalento, nel Duomo si svolgerà una messa in suo suffragio. Julie aveva un amore infinito per i cani e le foto del suo lasciato in Francia erano postate sul profilo facebook e il cellulare. Sua madre, Nathalie, l’ha voluta ricordare pubblicando una fotografia mentre lo abbracciava. 

L'autopsia

In mattinata, il medico legale Alberto Tortorella ha eseguito l’autopsia sul corpo della studentessa: stando alle prime indiscrezioni sarebbe confermata l'ipotesi di morte per «asfissia acuta» provocata da «impiccamento». L’indagine della Procura si è avvalsa, tra l’altro, anche delle testimonianze degli amici di Julie. Gli stessi che, domenica sera, notando la sua strana assenza, avevano bussato alla porta del suo appartamento, uno dei tanti che l’Università del Salento mette a disposizione degli studenti dell’Erasmus nel rione San Pio. Nulla. Da dentro nessuna risposta, nessun rumore, nessuna voce. I giovani hanno dato l’allarme facendo intervenire la polizia, l’ambulanza del 118 ed i vigili del fuoco. Ma all’arrivo di questi ultimi, i ragazzi erano giù riusciti a sfondare la porta trovando Julie ormai priva di vita. 

La verità nel suo diario

L’attenzione degli investigatori si è concentrata sul diario al quale Julie affidava i suoi pensieri e forse le sue ansie, compresa quella che la tormentava domenica scorsa, tanto da indurla a togliersi la vita con un laccio legato al collo e l’altro capo fissato a un’anta dell’armadio. L’ultima pagina scritta prima di morire trasuda una profonda sofferenza. Un malessere interiore intenso, dirompente, drammatico. Gli investigatori l’hanno sequestrata come tutto il resto degli oggetti che si trovavano nell’appartamento. «Vi amo tutti, non è colpa di nessuno, ma non ci riesco più, non riesco ad accettare ciò che mi è successo, è troppo difficile per me rimanere sola», scrive Julie. E ancora: «Penso che è arrivato il momento di fermarmi qui, non ne posso più, mi dispiace mamma e papà. Non ce l’ho con nessuno perché mi avete tanto amata, ma non riesco più ...». L’ultimo saluto alla famiglia è stato questo. Un annuncio agghiacciante, di morte e di solitudine.

La mamma di Julie Tronet, la studentessa suicida dopo gli abusi: «Amava Lecce, non riesco a credere che si sia uccisa». Antonio Della Rocca su Il Corriere della Sera il 27 ottobre 2023.

I familiari della studentessa francese sono arrivati a Lecce: «Sognava di diventare ricercatrice. Diteci cosa le è accaduto»

«Dov’è il suo corpo? Quando potremo vederla per un’ultima volta? Cosa le è accaduto esattamente? E quando potremo leggere il messaggio che ha scritto per noi?». Sono tante le domande che i familiari di Julie Tronet, la studentessa francese 21enne trovata morta domenica scorsa nel suo appartamento di Lecce si stanno ponendo. A partire dalla domanda più importante e alla quale sarà più difficile dare una risposta: «Perché Julie si è uccisa?». 

L'incontro col rettore

Ieri, 26 ottobre, la madre e il fratello della studentessa Erasmus hanno incontrato il rettore dell’Università del Salento, Fabio Pollice, prima di effettuare il riconoscimento della salma di Julie. «Come è possibile che sia accaduta una cosa del genere e che noi non ne abbiamo avuto il minimo sentore — ha chiesto, tormentandosi, il ragazzo al rettore —. Mia sorella era una ragazza serena, solare, amava i cani, aveva tanti interessi. Non posso rassegnarmi. Era sì fragile, ma una morte così non si può accettare. Siamo sgomenti». 

Indagato un 19enne

Julie, secondo gli investigatori, si sarebbe suicidata impiccandosi con una cordicella legata all’anta di un armadio nell’appartamento messole a disposizione dell’università. Il motivo del gesto sarebbero gli abusi subiti da parte di un ragazzo di 19 anni del Brindisino che aveva conosciuto nei locali della movida leccese. Il ragazzo è indagato per violenza sessuale e per istigazione al suicidio. 

Gli studi e il sogno di diventare ricercatrice

«Julie era entusiasta di questa esperienza di studio a Lecce — ha detto la madre, Nathalie — la città le piaceva e ci aveva chiesto di raggiungerla quanto prima. Mia figlia era molto brava negli studi che seguiva con grande passione. Certamente era una ragazza con le sue fragilità, ma con problemi comuni a tanti della sua età. Era una persona molto sensibile, ma nessuno di noi, in famiglia, ha mai pensato— ha detto ancora — che potesse togliersi la vita. Amava la Filosofia e avrebbe voluto diventare una ricercatrice. Questo era il suo sogno. Un sogno semplice. Non c’è niente di peggio per una madre. Ora ho il cuore a pezzi». 

L’abbraccio tra Fabio Pollice ed i congiunti della studentessa è avvenuto in rettorato. UniSalento ha stabilito subito un contatto diretto con la famiglia tramite il consolato e poi si era fatta carico di acquistare i biglietti aerei. «Julie era arrivata a Lecce grazie al programma Double Degree — ha spiegato Nathalie — che, per effetto di una convenzione tra UniSalento ed École normale supérieure, frequentata da mia figlia, le avrebbe consentito di acquisire un doppio titolo di studio accademico». 

La versione del ragazzo indagato

Intanto, proseguono le indagini della squadra mobile di Lecce, coordinate dalla Procura salentina. Il diciannovenne sospettato delle molestie sessuali, sentito dalla polizia, avrebbe confermato il rapporto sessuale, escludendo, però, ogni tipo di violenza. Più precisamente, il sospettato ha scandito: «Il rapporto era consensuale». Non si è trattato, tuttavia di un interrogatorio, ma di dichiarazioni spontanee del diciannovenne rilasciate durante le procedure di sequestro del telefonino. 

Secondo quanto riferito dal suo legale, l’avvocato Aldo Gianfreda, i due si sarebbero conosciuti tra i locali della movida leccese il 18 ottobre: anche l’indagato frequenta l’università di Lecce. Con loro c’era anche una studentessa bielorussa che — ritiene la difesa — avrebbe assistito per strada al clima disteso che si era creato tra il 19enne e la studentessa francese. Poi i due sarebbe saliti nell’appartamento dove viveva Julie. Prima di lasciare la casa, il giovane si è scattato un selfie: circostanza che, secondo la difesa, chiarirebbe «la assoluta buona fede» del ragazzo.

Estratto dell'articolo di Francesco Oliva e Chiara Spagnolo per repubblica.it venerdì 27 ottobre 2023.

Un incontro tra studenti nei locali della movida leccese, lo scambio di battute, l’invito a casa: è iniziata come una normale serata tra ragazzi quella che, il 19 ottobre, per la 21enne francese Julie Tronet si sarebbe poi trasformata in un incubo. 

Nell’appartamento di via Pappacoda in cui era ospitata dall’Università del Salento (nell’ambito del programma di scambi Double Degree) si sarebbe consumata una violenza sessuale, che qualche giorno dopo potrebbe averla portata a decidere di togliersi la vita. Questa è l’ipotesi su cui sta indagando la Procura di Lecce, nel fascicolo per istigazione al suicidio e violenza sessuale a carico di un 19enne, anche lui studente, della provincia di Brindisi. Il ragazzo è stato ascoltato nei giorni scorsi dalla polizia e ha parlato invece di un rapporto sessuale consenziente.

La ragazza si era recata in ospedale dopo il rapporto e i medici avevano trovato riscontri al suo racconto, indirizzandola verso la possibilità di denunciare: una strada che però lei non aveva percorso. Nel telefono del ragazzo è stata trovata un selfie, che ha scattato nell’androne del palazzo in cui viveva Julie, prima di tornare a casa. 

Dal telefono di Julie, invece, i poliziotti erano risaliti all’identità del ragazzo, con il quale si era scambiata i riferimenti dei rispettivi profili instagram. Quando i due studenti si sono conosciuti era presente anche un’altra universitaria straniera, che nei giorni scorsi è stata ascoltata come persona informata sui fatti. 

[…]

Lo stupro di Napoli.

L'appello della donna. Cuginette stuprate a Caivano, mamma vittima scrive al Papa: “Matrimonio sbagliato e l’alcol ma ora voglio vedere miei figli”. Redazione su Il Riformista il 29 Novembre 2023

Ha scritto a Papa Francesco una lettera dove chiede di poter rivedere i figli dopo il trasferimento in comunità della bambina di poco più di 10 anni vittima delle violenze sessuali di gruppo insieme alla cuginetta coetanea. A parlare è “la mamma di una delle due bimbe coinvolte negli stupri di Caivano” avvenuti la scorsa estate. Rivolgendosi a Bergoglio, la donna ricorda l’accaduto: “Lei potrà immaginare quanto tutto quello che è successo sia stato devastante anche per me e per gli miei figli di cui mi hanno lasciato solo quello appena maggiorenne. Mia figlia si trova ora in una casa-famiglia da circa tre mesi, come anche gli due miei figli estranei all’orrore delle violenze. Il Tribunale dei minorenni, forse per il clamore mediatico che è seguito a questa orribile vicenda, ha però stabilito che anche gli altri miei due figli fossero collocati in una casa-famiglia. Ma non solo. È stato disposto il blocco totale dei contatti, sia fisici che telefonici, tra me ed i miei figli”.

Nella lettera, diffusa dall’Adnkronos, la donna riconosce di aver avuto “matrimonio sbagliato, subito le angherie e lo sfruttamento di mio marito nella consapevolezza che non potevo andare da nessuna parte con scarsa istruzione e senza un lavoro, senza neanche avere o sapere a chi poter chiedere aiuto. La disperazione non la si può spiegare a chi non l’ha provata” aggiunge. “Vivere in un contesto sociale dal quale sai di non poter andare via e che non ti concede alternative è difficile da comprendere per chi non ne fa parte. Per dimenticare le pene nell’ultimo periodo mi ero rifugiata nell’alcol” ammette la donna che poi aggiunge: “Ma non avevo davvero nulla altro per poter sopportare il degrado del luogo e la grettezza delle persone. Anche le Istituzioni si sono girate dall’altra parte – scrive ancora la donna – come la chiesa del paese; mai una parola di conforto, mai un abbraccio, nessun aiuto nonostante le mie richieste. Ora, solo grazie ai miei avvocati, sono riuscita a fuggire da Caivano, insieme al maggiore dei miei figli: ho fatto un percorso psicoterapeutico e medico che mi ha aiutato. Sono tornata dalla mia famiglia e vivo con mio padre e mia madre a Napoli. Non bevo più e mi sono allontanata da quell’inferno”.

La donna spiega che le viene impedito anche di chiamare i tre figli in comunità: “Sono indirettamente vittima delle violenze fisiche fatte a mia figlia e al contempo oggi sono vittima di un sistema giudiziario che, senza pensare anche i miei bisogni umani e di madre, mi impedisce finanche di telefonare ai miei bambini. Mi chiedo cosa ci sia di cristiano in questo forzoso allontanamento da loro – scrive ancora al Papa Francesco la madre della bambina abusata – Anche una madre detenuta può vedere i propri figli, quanto imposto a me è disumano. Ed io non ho nemmeno avuto mai una denuncia. I miei avvocati, Angelo Pisani ed Antonella Esposito, mi hanno difesa gratuitamente, hanno chiesto inutilmente a tutti di farmi almeno sentire in modalità protette i miei figli e mi stanno anche aiutando a scrivere in italiano questa lettera”.

I legali “hanno presentato due istanze al Tribunale per i minorenni proprio per chiedere almeno la revoca di questo blocco totale. In che modo la telefonata o l’abbraccio di una mamma può fare un danno ad un figlio? Quanto devo pagare la mia sfortuna pur non avendo commesso, anche secondo la Giustizia, alcun reato?”. “Io ho Fede. E la profonda convinzione che anche quello che ci sembra ingiusto nella vita quotidiana ha un suo disegno perfetto in Dio. Ho imparato che le cose negative spesso poi nel tempo si rivelano positive. Ed in questo riconosco appunto la Divina Provvidenza. Ho imparato a pregare affidandomi alla Sua volontà e non chiedendo più qualcosa che credo sia buono per me. Ma ora non sono così forte. E vacillo. Desidero parlare e vedere i miei figli – conclude – Se qualcuno un giorno deciderà che ho colpe e che devo pagarle sono pronta. Ho già pagato vedendo la mia bambina violentata. Ma non voglio che paghino anche i miei figli. Perché non riesco ad immaginare che anche questo possa essere buono. Santo Padre mi aiuti. Mi affido alle sue mani ed alla Sua Volontà. Chiedo aiuto per tutelare il diritto agli affetti e all’amore che lega una madre ai figli indipendentemente dalla povertà e/o dalle difficoltà di vita”.

Due cuginette di 13 anni violentate da 6 ragazzi: stupro di gruppo a Napoli. Francesca Galici il 25 Agosto 2023 su Il Giornale.

Non sono noti i dettagli dell'ennesimo episodio di violenza sessuale di gruppo, ma pare che il branco fosse formato da un solo maggiorenne e da altri 5 coetanei delle ragazzine

Ennesimo episodio di estrema gravità a Caivano, periferia della periferia napoletana, dove due cugine di appena 13 anni sarebbero state violentate da un gruppo di probabili coetanei. È successo nel Parco Verde, luogo purtroppo noto alla cronaca nera per numerosi crimini e reati, spesso efferati, che sono stati compiuti in questo quartiere profondamente degradato. Mentre l'opinione pubblica è ancora scossa per quanto accaduto a Palermo, questo nuovo caso travolge nuovamente le coscienze. Solo uno del gruppo di presunti stupratori è stato arrestato, l'unico maggiorenne.

Come riferisce il quotidiano Il Mattino, lo stupro è avvenuto ai primi di luglio, nei giorni dell'episodio di violenza di Palermo. Stando a quanto emerso, le due sarebbero state portate con l'inganno in un capannone, dove il gruppo giovanissimi, probabilmente della stessa età delle vittime tranne l'unico maggiorenne, ha abusato delle due cuginette. Le indagini hanno avuto inizio ad agosto quando i familiari delle vittime hanno presentato una denuncia ai carabinieri.

La conferma dell'avvenuto stupro sarebbe arrivata anche dalle visite mediche condotte in due ospedali della città. Mentre proseguono le indagini e l'unico maggiorenne è stato arrestato, per le due giovanissime è stato deciso l'allontanamento da Parco Verde. Vista la delicata situazione, le 13enni vivrebbero ora in una casa famiglia. Non si conoscono dettagli sull'età dei membri del gruppo ma se fossero coetanei delle vittime, quindi 13enni, non sarebbero nemmeno imputabili, perché non raggiungono l'età minima per poter affrontare un processo o essere detenuti in un istituto di pena.

A fronte della giovanissima età delle vittime e dei loro presunti aggressori, l'indagine è proceduta finora nel massimo riserbo per preservare quanto più possibile la tranquillità delle cugine. È emerso che si sta procedendo all'analisi di alcuni telefoni cellulari per cercare di ricostruire con esattezza la dinamica dei fatti. Nel 2014 le cronache sono state sconvolte dalla morte della piccola Fortuna Loffredo, 6 anni, violentata e fatta cadere da un terrazzo all'ottavo piano. Nello stesso anno si è registrata anche la morte di Antonio, 4 anni, misteriosamente precipitato da un balcone. Il Parco Verde di Caivano, a dispetto del nome, è un agglomerato spoglio di case popolari dove il verde pubblico non esiste ma è, anzi, una delle più grandi piazze di spaccio del Paese.

Le vittime aggredite nel Parco Verde. Orrore a Caivano. Ancora uno stupro di gruppo: in sei abusano di due cuginette 13enni. Due 13enni sono state vittima di violenza di gruppo a Caivano, nell’hinterland napoletano. L’aggressione è avvenuta al Parco Verde, dove le due vittime sono state abusate nei pressi di un capannone. Il branco responsabile dell’aggressione sarebbe composto di sei ragazzi. Redazione su Il Riformista il 25 Agosto 2023 

Due ragazzine, cugine fra di loro, minorenni – hanno appena 13 anni – sono state vittime di violenza da parte di un gruppo di adolescenti nel Parco Verde di Caivano, nell’hinterland napoletano. La vicenda, come si legge su “Il Mattino”, è avvenuta all’inizio di luglio.

Le due cugine, nel mese scorso, sarebbero state trascinate in un capannone. Il branco responsabile della violenza ai danni delle due minori sarebbe composto da sei ragazzi, probabilmente coetanei delle vittime.

Le indagini sono iniziate ad agosto, quando i familiari delle due cuginette hanno presentato una denuncia alle forze dell’ordine. Visite mediche hanno confermato i segni di abuso sui corpi delle due minorenni. Mentre uno dei responsabili sarebbe già stato fermato, le indagini proseguono, anche relativamente ai telefoni utilizzati dal branco.

L’episodio è avvenuto negli stessi giorni dello stupro di gruppo a Palermo, di cui è rimasta vittima una 19enne. Un episodio per il quale sono stati arrestati sette ragazzi, fra i quali un minorenne.

Il Parco Verde di Caivano è stato più volte teatro di degrado e violenza. Risale al 2016 l’omicidio della piccola Fortuna, di appena sei anni, gettata dall’ottavo piano del palazzo in cui viveva. Gli anni di abusi ai danni della bimba e la sua tragica morte scossero profondamente l’opinione pubblica, gettando un’ombra sul quartiere. Nel 2020, avvenne l’omicidio di Maria Paola Gaglione, uccisa dal fratello.

Stupro a Caivano al Parco Verde, due cuginette di 13 anni violentate da un gruppo di adolescenti. Gennaro Scala su Il Corriere della Sera venerdì 25 agosto 2023.

Coinvolti sei ragazzi: le ragazzine sarebbero state portate in un capannone con l'inganno. Ora sono state allontanate della famiglia. Fermato l'unico maggiorenne del gruppo 

Mentre l'opinione pubblica è ancora scossa dallo stupro di gruppo di Palermo, una nuova storia dell'orrore arriva da Caivano, provincia di Napoli, dal Parco Verde già tante volte al centro delle cronache. Due cuginette, di appena 13 anni, sarebbero state violentate da un gruppo di adolescenti. Il fatto, come riferisce oggi «Il Mattino» è avvenuto a inizio dello scorso luglio. Le due ragazzine, all'inizio del mese scorso, sarebbero state portate in un capannone. Il branco che avrebbe abusato delle cuginette sarebbe stato composto da sei ragazzi, forse tutti coetanei delle vittime. Le indagini hanno avuto inizio ad agosto quando i familiari delle vittime hanno presentato una denuncia ai carabinieri e nelle ultime battute hanno evidenziato aspetti ancora più inquietanti: sarebbero 6/7 gli episodi di violenza già accertati. Al momento si sa che l'unico maggiorenne del gruppo sarebbe già stato individuato e fermato.

Le ragazzine in casa famiglia

La conferma della violenza sarebbe avvenuta anche dalle visite mediche in due ospedali cittadini.  Nel frattempo per le due ragazze è stato deciso l'allontanamento dal Parco Verde e ora vivono in una casa famiglia. «La minore era ed è esposta, nell'ambiente familiare, a grave pregiudizio e pericolo per l'incolumità psicofisica», è il motivo per cui la Procura presso il tribunale dei minorenni di Napoli ha chiesto al giudice di convalidare la decisione dei Servizi sociali di allontanare una delle bambine violentate dalla sua famiglia e di collocarla in una «idonea struttura» (misura analoga risulta essere stata adottata anche per l'altra ragazza). Il pm parla di «stile di vita» delle ragazzine «frutto di grave incuria dei genitori». Le indagini sono andate avanti, in queste ultime settimane, nel più assoluto riserbo ma è trapelato che si sta procedendo all'analisi di alcuni telefoni cellulari per cercare di ricostruire con esattezza la dinamica dei fatti. Le due ragazze sarebbero state condotte in un capannone abbandonato della zona, a ridosso di una delle tante piazze di spaccio del rione popolare, con l'inganno, con la promessa di un gioco.

Il silenzio e poi la denuncia

Ma una volta lì le due cuginette hanno capito di essere cadute in una trappola. Il gruppo di ragazzini – almeno sei, secondo quanto dichiarato dalle vittime in sede di denuncia – era composto quasi interamente da minorenni, qualcuno si sospetta di neppure 14 anni. L’unico maggiorenne è finito a Poggioreale. Quella brutta storia, in un contesto tanto degradato, ha cominciato ad essere raccontata tra gli adolescenti del rione fino a che non è arrivata all’orecchio del fratello di una delle 13enni. È stato lui a informare i genitori che, a loro volta, hanno interrogato le ragazze che hanno ammesso tutto. Da quel momento è scattata la denuncia. Forse le ragazze non avevano parlato prima per paura, per una consuetudine che vede l’omertà come un comportamento abituale. Ma quando hanno iniziato a raccontare sembravano un fiume in piena. Per le cuginette il trasferimento in casa famiglia – su sollecitazione degli assistenti sociali - è stato disposto poco dopo la denuncia, al fine di allontanare le ragazzine da quel contesto pericoloso. 

Le indagini

L’inchiesta non è conclusa. Nei telefoni sequestrati per disposizione del Tribunale per i minori stanno lavorando in questi giorni i carabinieri, alla ricerca di tracce sulle chat dei ragazzini e di eventuale scambio di video o foto che potrebbero aver immortalato quel momento. Anche se cancellati, potrebbero aver lasciato una traccia digitale e potrebbero essere recuperati. Una storia che richiama alla mente l’orrore che portò alla morte della piccola Fortuna Loffredo di soli sei anni, violentata e uccisa il 24 giugno del 2014, lanciata dall’ottavo piano di uno dei palazzoni di cemento del Parco Verde. Fu quello il momento in cui l’Italia si accorse dell’esistenza di quel rione e delle condizioni di vita in cui versava, accendendo i riflettori sulle palazzine popolari. Dopo quasi dieci anni, al Parco Verde, si vive ancora nell’orrore. 

Don Patriciello: «Abbiamo abdicato alla fatica dell'educare»

Don Maurizio Patriciello, parroco del parco Verde di Caivano, da alcuni anni sotto scorta dopo le minacce ricevute per la sua attività nel quartiere, è addolorato: «Di questa vicenda se ne parlerà per qualche giorno, forse per qualche settimana», dice, «ma poi queste due povere ragazze si porteranno dentro questo trauma per tutta la vita, vivranno questo dolore con le loro famiglie», prosegue. «Se ci sono femminicidi, se ci sono casi di violenza brutale, che avvengono sia in quartieri degradati sia in quelli più agiati vuol dire che noi abbiamo sbagliato, abbiamo deciso di non educare», aggiunge. Poi sullo specifico del Parco Verde, un quartiere di Caivano sorto per dare una casa agli sfollati del terremoto del 1980 il sacerdote va all'attacco: «Mi dispiace dirlo ma questo è un quartiere che non doveva mai nascere: qui sono state ammassate tutte le povertà. E poi cosa si è fatto?». Il sacerdote rivolge anche un pensiero ai presunti stupratori. «Sono vittime della povertà educativa», e infine lancia l'allarme: «La pornografia è ormai una vera emergenza. Ma cosa si fa?»

Estratto dell’articolo di Flavia Amabile per “La Stampa” sabato 26 agosto 2023.

Gliel'hanno detto in amicizia, per fargli un favore. «Stanno girando dei video, ci sta pure lei...». Antonio è corso a casa dai genitori e dalla giovane, una ragazzina appena adolescente. Ha raccontato quello che gli avevano detto. 

Solo allora la ragazza ha ammesso che, sì, da diverso tempo lei e la cugina erano costrette a subire le violenze di un gruppo di ragazzi. Anni? Non molto più grandi di loro. E loro di anni ne hanno pochi: 13 da compiere a settembre la più piccola, 13 compiuti da non molto la più grande. Quante violenze hanno subito? Cinque, forse sei, e non avevano avuto il coraggio di dire nulla. Subivano in silenzio. E avrebbero continuato a subire se i video non avessero iniziato a circolare troppo arrivando anche a chi ha avuto il buon cuore di avvertire Antonio, nome di fantasia necessario in questa storia dove i protagonisti sono quasi tutti minorenni. 

Avevano paura di parlare le due cugine di questa storia cresciuta in mezzo all'abbandono. Come loro. Conoscono la legge non scritta che governa la terra dove sono nate, il Parco Verde di Caivano, provincia di Napoli. [...] Si sono convinte a raccontare solo quando il fratello e i genitori le hanno costrette. Hanno parlato di quel gruppo di ragazzini – si dice almeno sei quasi tutti loro coetanei – a parte un giovane di 19 anni. Le hanno convinte a seguirli lungo i marciapiedi sconnessi del parco. «Andiamo a fare un gioco» [...] Secondo quello che si racconta nel Parco, si sono infilate insieme ai ragazzini sotto gli inutili nastri della polizia municipale che recintano l'area di un centro sportivo sequestrato nel 2018 [...] 

Avevano paura di parlare le due cugine e la stessa paura hanno avuto all'inizio i genitori. Poi si sono decisi, sono andati a denunciare e la macchina della giustizia si è messa finalmente in movimento.  [...] Dopo la denuncia le due cugine sono state portate in una struttura per proteggerle innanzitutto dalla «grave incuria dei genitori». [...]

Antonio e. Piedimonte per “La Stampa” sabato 26 agosto 2023.

[...] Le piccole sono state visitate in due ospedali della città – il "Santobono" e il "Cardarelli" – e proprio dal racconto fatto ai medici è emerso che c'erano stati altri episodi di violenza: «Circa due o tre mesi fa, la ragazza non ricorda esattamente la data, un ragazzo di 19 anni a lei noto la conduceva in una casa abbandonata in un parco e, dopo averla minacciata, la obbligava ad abbassarsi i pantaloni e lo slip e la costringeva ad avere un rapporto contro la sua volontà».

Lo stesso giovane – l'unico maggiorenne sinora coinvolto, che alcuni fonti vogliono in stato di fermo – avrebbe guidato più volte la banda di minori, alcuni dei quali non ancora quattordicenni, tutti residenti nel Parco Verde. Al momento gli episodi ricostruiti sarebbero 6 o 7. Gli investigatori hanno già sequestrato i telefonini e stanno passando al setaccio sia le chat sia l'archivio di video e foto, in particolari gli esperti stanno lavorando sulle tracce digitali lasciate dai dati cancellati.

In una nota della Procura presso il Tribunale per i minorenni si legge che «le ragazze erano e sono esposte nell'ambiente familiare a grave pregiudizio e pericolo per l'incolumità psico-fisica». E sempre a proposito del difficile contesto, il pm ha scritto di uno «stile di vita frutto di grave incuria dei genitori». Si capisce così la scelta della Procura di chiedere la convalida della decisione dei servizi sociali di allontanare le bambine: entrambe si trovano in una struttura ad hoc lontano da Caivano.

Nell'inferno di Caivano gli abusi alle bimbe andavano avanti da mesi. Nel branco figli dei boss. Il numero dei ragazzi coinvolti potrebbe arrivare 15. Sequestrati i cellulari: è caccia ai video delle violenze. Rosa Scognamiglio il 26 Agosto 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 Lo stupro di gruppo

 Il sospetto: "Era già successo"

 Sequestrati i cellulari

 Il trasferimento delle cuginette nella casa famiglia

È un racconto dell'orrore quello che emerge dalle carte dell'inchiesta relativa allo stupro di gruppo avvenuto ai danni di due cuginette, entrambe tredicenni, nel "Parco Verde" di Caivano (Napoli). I ragazzi coinvolti, dei quali solo uno maggiorenne, potrebbero passare da sei a quindici. Non solo. Tra i componenti del branco ci sarebbero anche due figli di esponenti della camorra. I carabinieri, coordinati dalla procura minorile della città partenopea, hanno sequestrato i cellulari degli indagati e sono in corso accertamenti su tabulati ed eventuali video delle violenze. Gli investigatori non escludono che il gruppo di giovanissimi abbia abusato più volte e in più mesi delle due ragazzine.

“Stile di vita ha favorito il reato”. La relazione choc sullo stupro di Caivano

Lo stupro di gruppo

L'episodio più eclatante, da cui sono scaturite le indagini, risale allo scorso luglio. Le due cuginette sarebbero state abusate dal branco per una notte intera all'interno di un ex capannone che, un tempo, veniva utilizzato come "magazzino" dai pusher del "Parco Verde", già noto alle cronache per la triste vicenda della piccola Fortuna Loffredo. Stando a quanto trapela dagli accertamenti dei carabinieri, le ragazzine sarebbero state costrette a subire violenze e umiliazioni dai giovanissimi aggressori che potrebbero aver filmato l'orrore con gli smartphone. Il condizionale è d'obbligo dal momento che l'esistenza di eventuali video non è stata ancora confermata.

Il sospetto: "Era già successo"

Le indagini sono scaturite dopo la denuncia dei familiari delle due ragazzine. Nella fattispecie, il fratello di una delle due cuginette avrebbe ricevuto un messaggio sui social in cui qualcuno lo avrebbe informato delle violenze avvenute nel capannone abbandonato. Da lì sarebbe scattata la denuncia ai carabinieri di Caivano e successivamente l'informativa è stata trasmessa alla procura minorile del capuologo campano. Le giovanissime vittime, ascoltate in audizione protetta, con anche il supporto di assistenti sociali e psicologici, hanno confermato di essere state abusate e picchiate. C'è di più: le stesse avrebbero rivelato che le violenze sarebbero iniziate due o tre mesi prima dei fatti di luglio. Sarebbero almeno "sei o sette" - scrive il Corriere.it - gli episodi sui quali sono in corso accertamenti da parte dei militari dell'Arma.

Sequestrati i cellulari

Tra i componenti del branco ci sarebbero anche i figli di due esponenti di spicco della camorra locale. Al momento è stato fermato solo un 19enne, che ora si trova ristretto nel carcere di Poggioreale. Gli altri membri del gruppo sono tutti minorenni, forse coetanei delle vittime, e quindi non imputabili. A tutti gli indagati sono stati sequestrati i cellulari e sono in corso accertamenti sui tabulati telefonici. Non è eslcuso che l'inchiesta possa allargarsi passando da sei a quindici sospettati.

Il trasferimento delle cuginette nella casa famiglia

Per le due cuginette è stato disposto il trasferimento in una casa famiglia. Misura che la procura ha ritenuto necessaria a fronte di "una situazione di emergenza" e specificando che l'allontanamento è stato deciso per "mettere in sicurezza le minori". "Lo stile di vita delle minori - per i pm - è senz'altro frutto della grave incuria dei genitori che con ogni evidenza hanno omesso di esercitare sulle figlie il necessario controllo esponendole ai pericoli". L'avvocato Angelo Pisanu, che difende una delle vittime, ha espresso disappunto per il provvedimento del Tribunale: "È una beffa, - ha commentato - un trauma che si va ad aggiungere a un trauma. Andava spostato l'intero nucleo familiare, senza far diventare la vittima un fascicolo".

"Fate schifo". La mamma di una delle bimbe violentate a Caivano. Le due cuginette, violentate dal branco nel quartiere "Parco Verde", ora sono in una casa famiglia. Linda Marino il 24 Agosto 2023 su Il Giornale.

A poche ora della diffusione della notizia, in una intervista al quotidiano Il Messaggero, ha la forza di parlare la mamma di una delle cuginette, di 10 e 12 anni, abusate lo scorso luglio nel difficile quartiere del Parco Verde di Caivano, in provincia di Napoli. Le due bambine, violentate da un branco composto da un branco circa 15 ragazzini, ora si trovano in una casa famiglia e, per questo allontanamento, è ancora più forte il dolore delle loro rispettive famiglie. “In questo momento voglio solo due cose: che mia figlia torni da me, perché non sopporto la sua mancanza. E poi chiedo giustizia: chi ha fatto tutto questo male paghi le sue colpe e non resti impunito”.

La mamma di una delle due bambine, è distrutta dal dolore. Nella sua casa, riporta il quotidiano campano, è un via vai di parenti e amici venuti a dare conforto a questa famiglia. In queste ore le restano accanto il marito e i due figli maschi. Ieri ha incontrato anche l'avvocato Angelo Pisani, che l'assiste nei risvolti giudiziari del caso. “Sono sicura che mia figlia starà peggio di me, e io mi sento di morire, la rivoglio vicino a me. Pur sapendo i rischi che si corrono vivendo qui, in questo ambiente, non avrei mai potuto immaginare che fosse potuto succedere questo, che si fosse arrivati a tanto, che qualcuno potesse riuscire ad aggredirla fin sotto casa”. E ancora. “Lei è la mia vita. Da parte mia non è mai mancata alcuna attenzione, ho sempre avuto lo scrupolo anche di controllare le sue amicizie, e persino il modo di vestirsi, quando usciva. La donna continua a credere nella giustizia, seppure con la rabbia e il dolore dentro. “Devono essere puniti tutti. Una cosa è certa: io non riesco più a sopportare l'idea di dover continuare a vivere in questo posto. Qui c'è un inferno, e serve solo tanta luce”.

Si rivolge ai carnefici di sua figlia: "Guardatevi allo specchio e accorgetevi di quanto fate schifo e quanto siete vigliacchi". Per la donna è ancora presto per parlare di perdono. “Non riesco nemmeno a pensarci in questo momento. Ecco perché spero che possano pentirsi e che paghino, anche per evitare che altri facciano come loro”.

E alle mamme come lei, che hanno figli piccoli, consiglia: “Innanzitutto di andare via da questo schifoso inferno che non lascia via di scampo a nessuno”. Intanto, però, dalla relazione consegnata dagli assistenti sociali ai magistrati della Procura che hanno disposto l'allontanamento in una struttura protetta della bambina, emerge un duro atto di accusa nei suoi confronti. “Noi, io e mio marito con i miei altri due figli non abbiamo colpe. In questo degrado umano e sociale abbiamo fatto sempre il possibile per il bene di mia figlia, queste sono accuse che non meritiamo”. E conclude: “Io devo andare via dal Parco Verde: per il bene e futuro di mia figlia e per la nostra famiglia. E lo farò. Ma per evitare che si ripetano tali orrori tutti dovrebbero andar via di qui”.

Estratto dell'articolo di Stella Gervasio per repubblica.it sabato 26 agosto 2023.

Quando sua figlia, quell’angelo biondo di Chicca, all’anagrafe Fortuna Loffredo, venne abusata e lanciata dal tetto del palazzo, Mimma Guardato era una trentenne. Oggi è una donna che ha girato pagina per gli altri due figli, due maschi, a cui insegna che le donne, di qualsiasi età, vanno rispettate. Vive a Faenza, Mimma, con la madre, che allora le fu molto vicina: è stato don Patriciello, il parroco di Parco Verde ad aiutarla a scappare dagli orrori che avevano invaso la sua vita. 

Due nuove vittime di violenza a Caivano, dove lei ha vissuto la sua tragedia. Che cosa pensa?

«Altre due ragazzine, proprio come mia figlia. Non posso non essere addolorata. Sto rivivendo quei giorni pieni di atrocità. Se là dentro, in quell’inferno, non si combatte, non si sa che cos’altro può avvenire. [...] Lì non è cambiato niente. Dopo l’ultima udienza del processo per la mia bambina, ho preso i miei figli, ho fatto le valigie e me ne sono andata. E ora è tutto diverso: ero disoccupata, mentre qui lavoro in una grande impresa di pulizia. Stiamo bene. L’angoscia c’è sempre, ma dopo tanto dolore si deve ricominciare».

Non è più tornata a Caivano?

«Ci vado solo per andare al cimitero. Di quel palazzo degli orrori non voglio saperne più niente».

[...]

Come si trovano i suoi due figli?

«Uno ha 18 anni e andrà all’università, l’altro 13, è in terza media. Per il momento vogliono solo studiare. E chissà se in quel posto orribile ci sarebbero mai riusciti. Hanno l’accento del nord, Ora sentono parlare in napoletano solo me». 

Che cosa serve per salvare Parco Verde?

«Ci vuole lo Stato, che lì non c’è. Non si può lasciare uno come don Patriciello a combattere da solo».

I fratelli ricordano Chicca?

«Sempre. Non si aspettavano che potesse fare quella fine. Ma noi non ne parliamo quasi mai. Basta che ci guardiamo negli occhi. A loro devo nascondere la mia sofferenza».

Emergono i primi dettagli: le due cuginette stuprate e picchiate per mesi, in una piscina abbandonata. Caivano, 15 indagati per lo stupro di due tredicenni al Parco Verde. Sequestrati i cellulari dei sospetti: caccia ai video e alle chat. Le due bambine avrebbero subito violenze indicibili per mesi, nei locali di una piscina abbandonata. L’indagine è partita a causa delle immagini video di uno degli episodi di violenza reperite sul cellulare di un altro minorenne del luogo, un quartiere vittima di grave degrado, il Parco Verde di Caivano. I Pm: “Vicenda frutto della grave incuria dei genitori”. Redazione su Il Riformista il 26 Agosto 2023 

L’orrore avveniva nei locali abbandonati di una piscina del Parco Verde, un quartiere di Caivano, tristemente noto come “‘o Bronx”, per le condizioni di diffuso e pesante degrado ambientale. Il Parco Verde, lo ricordiamo, è lo stesso quartiere in cui il 24 giugno del 2014 trovò una morte orribile Fortuna Loffredo, di appena sei anni, una bambina abusata e poi uccisa in maniera brutale. Questo il contesto in cui si è protratta, per mesi, violenza ai danni di due minorenni, due bambine del posto, sottoposte a percosse e abusi sessuali.

E sono almeno quindici i giovani sospettati della violenza, al momento tutti identificati e con i cellulari sotto sequestro. Fra loro, anche figli di noti esponenti locali di clan camorristici, gestori delle piazze di spaccio del quartiere, un complesso di case popolari. Non tutti sarebbero maggiorenni: fra loro c’è un diciannovenne con precedenti simili.

Le due bambine sarebbero state costrette, per mesi, a tacere, a suon di minacce e schiaffi: veniva loro imposto il silenzio, se non volevano “finire male” o essere additate come “prostitute”. Un orrore dopo l’altro, per due cuginette tredicenni, dunque.

Alle spalle, come si evince dalle indagini, famiglie difficili e abbandono scolastico. Le due solo sporadicamente frequentavano la scuola locale. Dinanzi, il branco: giovani carnefici sui quali si è posata l’omertà dei residenti.

Secondo le prime ricostruzioni, la minore delle due – che sono cugine fra di loro – sarebbe stata costretta da alcuni mesi ad avere rapporti sessuali completi con un sedicente fidanzatino, appartenente al giro delle piazze di spaccio. La violenza andava avanti almeno dallo scorso gennaio, tuttavia non è ancora stato appurato il numero degli episodi di violenza.

A occuparsi del caso è la Procura dei minori di Napoli, in coordinamento con quella di Napoli Nord per i maggiorenni coinvolti. Gli inquirenti, al momento, avrebbero accertato che le due bambine venivano circuite dai componenti del branco – un numero di giovani cresciuto nei mesi – appena uscivano di casa. Con schiaffi e minacce costringevano le vittime a seguirli. Il luogo scelto, per l’appunto era l’ex complesso sportivo “Delphina”. E lì, fra detriti, lerciume, rifiuti e siringhe utilizzate dai tossicodipendenti della zona, avvenivano le violenze.

La sconvolgente vicenda è emersa allorché uno degli stupratori ha filmato un episodio di violenza, per poi condividere il video nelle chat del branco. Il video, dopo molte condivisioni, è arrivato sullo smartphone del fratello di una delle vittime.

E, da lì, la vicenda si è rapidamente evoluta: la denuncia dei familiari delle vittime, presso la locale stazione dei Carabinieri, l’ascolto delle due vittime in ambiente protetto, le tempestive indagini. In poche ore l’Arma ha identificato tutti i responsabili e messo sotto sequestro i cellulari. Il passo successivo è stato quello compiuto dalla Procura dei Minori, che ha disposto l’allontanamento delle vittime dal contesto familiare.

Una decisione presa in collaborazione con i servizi sociali, che hanno stabilito la situazione di pericolo per l’incolumità psicofisica delle minorenni. Secondo il Pm, le due tredicenni vivevano in “una situazione di chiara emergenza”. Lo stile di vita in cui le minorenni erano inserite, scrive ancora il Pubblico Ministero, ha favorito la perpetrazione dei reati, frutto di “grave incuria dei genitori che con ogni evidenza hanno omesso di esercitare sulla figlia il necessario controllo“.

La violenza al Parco Verde. Stupro delle 13enni a Caivano, fino a 15 persone nel branco: “Anche figli di camorristi”. Le molestie duravano da mesi, denunciate quando sono arrivate alle orecchie della famiglia. Le bambine trasferite in casa famiglia. La madre di una delle vittime: "Il Parco Verde è un inferno, non riesco più a vivere qui". Redazione Web su L'Unità il 26 Agosto 2023 

Secondo quanto emerge dalle indagini dei carabinieri il branco che avrebbe violentato le due ragazzine, cugine, di 13 anni nel Parco Verde di Caivano potrebbe arrivare a contare anche fino a 15 persone. Sembrerebbe sicuramente più numeroso delle sei che erano emerse ieri con la notizia riportata da Il Mattino. Da chiarire se questi fossero tutti coinvolti nell’episodio più grave, che si sarebbe verificato in un capannone abbandonato lo scorso luglio, o se sono stati considerati anche gli episodi di violenza precedenti. Le indagini sono coordinate dalla Procura minorile.

Le visite mediche cui sono state sottoposte hanno confermato le violenze. Le persone indiziate sarebbero grossomodo coetanei, tranne uno: un 19enne fermato e trasportato nel carcere di Poggioreale, è l’unico al momento. Alcuni avrebbero meno di 14 anni e quindi non sarebbero punibili. Sequestrati i cellulari di alcuni ragazzini. Gli investigatori sono a caccia dei possibili video delle violenze. Stando a quanto emerso finora sembra comunque che gli abusi si sarebbero verificati più volte e per diversi mesi sulle ragazzine. Almeno sei o sette volte. Sempre dallo stesso gruppo e nello stesso luogo secondo la ricostruzione de Il Corriere della Sera, un capannone abbandonato che in passato era stato utilizzato dai clan della criminalità organizzata per smerciare stupefacenti e nascondere armi. Secondo Agi ci sarebbero anche i figli di almeno due esponenti di spicco della camorra tra i componenti del branco.

Le due sarebbero state picchiate e minacciate prima delle violenze sessuali. La denuncia sarebbe scattata soltanto quando la voce delle violenze sarebbe arrivata ai familiari delle vittime. Le ragazzine hanno raccontato tutto ai genitori, ai carabinieri e agli assistenti sociali. Avrebbero parlato di molestie cominciate “due o tre mesi fa”. Erano terrorizzate dalle intimidazioni, dalla paura di subire ritorsioni.

Le due vittime non si trovano più a Caivano, sono state trasferite in una casa famiglia nell’hinterland napoletano. La Procura ha parlato di una “situazione di chiara emergenza” e di uno stile di vita “senz’altro frutto della grave incuria dei genitori che con ogni evidenza hanno omesso di esercitare sulla figlia il necessario controllo, esponendola a pericoli”. L’avvocato di una delle due famimglie, Angelo Pisani, ha criticato la decisione del Tribunale. “Andava spostato l’intero nucleo familiare”.

Al Messaggero e al Mattino la madre di una delle due vittime ha criticato la decisione della Procura: “In questo momento voglio solo due cose: che mia figlia torni da me, perché non sopporto la sua mancanza. E poi chiedo giustizia: chi ha fatto tutto questo male paghi le sue colpe e non resti impunito […] Da parte mia non è mai mancata alcuna attenzione, ho sempre avuto lo scrupolo anche di controllare le sue amicizie, e persino il modo di vestirsi, quando usciva. Devono essere puniti tutti. Una cosa è certa: io non riesco più a sopportare l’idea di dover continuare a vivere in questo posto. Qui c’è un inferno, e serve solo tanta luce. Abbiamo sempre avuto fiducia nelle istituzioni, che però qui al Parco Verde come politica sono sempre stati assenti”.

Redazione Web 26 Agosto 2023

Estratto dell'articolo di Marco Di Caterino per "Il Messaggero" domenica 27 agosto 2023.

La chiave di svolta nelle indagini sullo stupro di gruppo perpetrato nel Parco Verde di Caivano, con due ragazzine di dieci e dodici anni vittime del branco, potrebbe arrivare dalle analisi tecniche della decina di cellulari sequestrati dai carabinieri. Nelle memorie di queste "scatole nere", gli inquirenti cercano video, conversazioni in chat e lavorano all'ipotesi che uno dei filmatini sia stato venduto nel dark web, dove la richiesta di questo lurido materiale è enorme e può fruttare migliaia di euro.

Un passaggio fondamentale questo, visto che uno degli investigatori davanti a tanto scempio e crudeltà ha chiosato: «Quelli di Palermo (il riferimento è al branco responsabile dello stupro di una 19enne, ndr) rispetto a questi del Parco Verde sono stati meno aggressivi». 

In particolare, l'attenzione degli inquirenti sarebbe concentrata sui telefonini di quei due minorenni, figli di capi piazze di spaccio, attive una nel Parco Verde, l'altra nel complesso di edilizia popolare Iacp di via Atellana noto come "'o bronx". Figli di personaggi di spicco della criminalità organizzata, ragazzi che appartengono alla cosiddetta "borghesia delle piazze di spaccio», pieni di soldi, abiti firmati, spocchia da camorristi. [...]

Tutti sapevano e nessuno ha parlato. Tra i cellulari sequestrati, figurerebbe anche quello in uso alla mamma di una delle due ragazzine. Un atto finalizzato ad accertare eventuali responsabilità in tema di controllo genitoriale. E come era accaduto nove anni fa, quando fu uccisa Fortuna Loffredo, nel Parco Verde è scattato il coprifuoco per i bambini, ancora una volta i più penalizzati, ora costretti a stare in casa per la psicosi degli orchi, i cui nomi erano noti in tutto il quartiere.

[...]

Estratto dell'articolo di Gennaro Scala per il "Corriere della Sera" domenica 27 agosto 2023. 

I telefoni cellulari sequestrati per ordine della procura. Potrebbe essere lì la chiave dell’indagine sullo stupro ripetuto ai danni delle due cuginette di 11 e 12 anni a Caivano, in provincia di Napoli. Si tratterebbe di una decina in tutto. L’obiettivo è capire se in quei telefoni e nelle chat di messaggistica istantanea ci siano tracce di video girati nel momento delle violenze, filmati che potrebbero essere stati prodotti proprio durante le violenze.

I telefoni — ormai vere e proprie scatole nere dell’esistenza — potrebbero celare quei tasselli che mancano all’indagine partita dalla denuncia delle due cuginette, poco più che bambine. Denuncia che è nata dopo che il fratello 17enne di una di loro ha ricevuto un messaggio tramite i social in cui veniva sollecitato a fare attenzione alla sorella. Da lì l’allarme lanciato ai genitori, la denuncia e un effetto valanga che ha portato il Tribunale dei minori a trasferire le due bambine in una casa famiglia per preservare la loro incolumità. Se fossero rimaste lì avrebbero forse rischiato ritorsioni da parte dei coetanei accusati di aver abusato di loro.

[...] Secondo la ricostruzione, le due ragazzine venivano avvicinate appena scendevano di casa. Poche parole di circostanza spiccicate in dialetto: «Andiamo a farci un giro»; quello era il momento in cui le due cuginette capivano che sarebbero nuovamente finite in quell’autorimessa abbandonata, nei pressi della piscina abbandonata, in cui la loro infanzia era finita.

[...] I presunti stupratori avrebbero un’età compresa tra i 13 ai 19 anni. [...]

G.S. per il "Corriere della Sera" domenica 27 agosto 2023.

Era il 30 luglio quando il Tribunale di Napoli Nord ha disposto il sequestro probatorio dei telefoni cellulari di una delle due ragazzine abusate al Parco Verde di Caivano, ma anche di quello della madre.

Su questi ultimi dispositivi gli inquirenti starebbero cercando riscontri relativi all’attenzione che la famiglia aveva nei confronti della ragazzina e se il controllo fosse sufficiente a scongiurare rischi. [...] 

Questo è uno stralcio della relazione che i servizi sociali hanno stilato e inviato al pubblico ministero del Tribunale dei minori che ha poi confermato l’allontanamento da casa delle due ragazzine. Una decisione rispetto alla quale la madre di una di loro si è opposta, rivendicando il diritto di avere la figlia con sé. «Mia figlia è la mia vita — ha affermato la donna — non ho mai mancato nei suoi confronti, voglio che torni qui da me».

Sulla decisione del Tribunale si è posto in maniera critica anche l’avvocato della famiglia, Angelo Pisani, che ha ribadito che «i bambini non sono un numero, ma degli esseri umani che vanno sostenuti e rispettati. Togliere le bambine alla famiglia è stato per loro aggiungere dolore a dolore».

Nel dossier allegato alla decisione di affidamento a una casa famiglia per la 12enne si legge ancora: «La minore era ed è esposta, nell’ambiente familiare, a grave pregiudizio e pericolo per l’incolumità psicofisica». Misura analoga a quella adottata anche per la cuginetta.

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Parco Verde e i sommersi nel discount di Gomorra: miseria disorganizzata, povertà assoluta e disoccupazione cronica. Roberto Saviano su Il Corriere della Sera domenica 27 agosto 2023. 

La «banlieue» degli orrori nata dopo il sisma dell’Irpinia. Un self-service della malavita, tra regolamenti mortali di conti tra i boss e violenze sessuali su bambini in tenera età. E chi si ribella viene subito punito

Parco Verde è il territorio dove i clan si rivolgevano come se fosse un discount umano, alla ricerca di esecutori: un omicidio, un corriere, manodopera per un lavoro edile. E se per un omicidio, altrove, si dovevano sborsare 10 milioni di lire; qui ne bastavano 2; se un viaggio con palline di cocaina costava mediamente 3 mila euro, qui ne erano sufficienti 800. Questo è accaduto per decenni, fino a quando il sistema-Secondigliano è collassato, sotto al peso dell’attenzione internazionale, e la distribuzione della droga si è spostata altrove.

Un luogo a sé, con proprie regole e dinamiche

In quel momento Parco Verde ha iniziato a mutare percorso criminale. Ma dobbiamo arrivaci per gradi. Parco Verde è una città di migliaia di persone (tra 4 e 6mila). Un luogo a sé, con proprie regole, storia, dinamiche. Per chi non è meridionale il termine «parco» rimanda a distese di boschi e prati. Non c’entra nulla. Al Sud si usa il termine «parco» per descrivere condomini formati da più di una palazzina circoscritti da cancellate, circondati da vialetti che nella fantasia degli architetti dovrebbero richiamare appunto i parchi naturali. Parco Verde non è nemmeno questo: è solo un assedio di palazzine attaccate, generato dall’emergenza terremoto del 1980. Sì, proprio così: la Campania aveva trecentomila sfollati da alloggiare e con la Legge 219 arrivano i miliardi per costruire alloggi alternativi. Si scelse la periferia di Caivano, laddove c’era campagna (terra di pesche, fragole, mandorle): il nome «Parco» rappresentava l’ambizione di creare una comunità; mentre «Verde» era il colore delle palazzine. È diventata solo la banlieue più articolata e misera della Campania

Il disinteresse della politica e la miseria endemica

La politica si occupa poco di Parco Verde, solo nei momenti elettorali e c’è una ragione: con pochi pochissimi soldi compri migliaia di voti. Questo bacino deve rimanere sommerso e invisibile. Parco Verde è circondato dai clan, ma non ha prodotto famiglie egemoni, né capi. C’è una ragione, raramente descritta: i veri sovrani di qui stanno lontano da Caivano. Sono i Moccia di Afragola, borghesia criminale importantissima, una delle famiglie più potenti su Roma. I Moccia non hanno mai voluto che Parco Verde si sviluppasse. Il ghetto lo controlli se lo affami, altrimenti poi conquista tutto ciò che ha intorno. Miseria disorganizzata, povertà assoluta, disoccupazione cronica: tutti elementi che tengono bassi gli stipendi e difficile qualsiasi reale scalata criminale.

I clan contrapposti

Per anni quando la piazza di spaccio di Secondigliano cresceva esponenzialmente, Parco Verde era appunto il suo corrispettivo discount. Ma più i clan dell’Alleanza di Secondigliano si indebolivano, maggiore diventava l’influenza del mercato di Parco Verde, che negli anni ‘90 era governata da due schieramenti contrapposti. Uno autoctono «i paesani», ossia i caivanesi e l’altro che pretende di comandare in nome della reale radice etnica degli abitanti di Parco Verde «i napoletani» che erano stati portati lì dopo il terremoto.

Gli omicidi tra boss e le violenze sui bambini

Quando il boss capo dei paesani, «o’ zuopp» ossia Salvatore Natale, capì negli anni ‘90 il potenziale di Parco Verde cercando di renderne autonoma l’organizzazione, furono proprio i Moccia — secondo quanto dichiara un loro ex dirigente divenuto collaboratore di giustizia, Michele Puzio — a decretarne la morte. Ma nessuno si accorge di questo territorio con oltre 1500 ragazzini esposti ad arruolamenti criminali sino a quando accadono violenze sessuali su bambini. Giugno del 2014: Fortuna Loffredo, 6 anni, precipita dal palazzo dove abitava, sul suo corpo chiari segni di stupro; l’anno prima, Antonio Giglio, 4 anni, era morto cadendo dal settimo piano dello stesso palazzo di Fortuna. Vicende orrende. che tornano oggi con le stesse attenzioni. Ma anche questa volta poco cambierà.

Nuova piazza dello spaccio

Parco Verde nel frattempo ha ereditato le piazze di spaccio di Scampia, i nuovi capi hanno ottenuto un consenso allargato attraverso precise strategie. Durante la fase acuta del Covid, il boss Massimo Gallo furbescamente ha garantito al «Parco» cibo e assistenza, utilizzando i suoi affiliati per consegnare la spesa alle famiglie e si è reso disponibile a trovare posti di lavoro, a far ritrovare auto a chi ne aveva subito furto, ad abbassare il clima di conflitto tra bande.

Le minacce a chi reagisce

Ma in questo abisso c’è chi riesce a non farsi sommergere? Esiste. E bisognerebbe capire come provi a non cedere ai clan, a tenersi lontano dallo schifo. Uno di questi rari individui era un lavoratore di Parco Verde, che non sopportava che il proprio palazzo divenisse una piazza di spaccio. Si lamentava, provava a chiedere di spostare il commercio, ad organizzare una protesta di altri abitanti. Gallo, il boss, temeva che questo signore potesse denunciarlo: prima tentò di bruciargli la casa, poi gli pestò il genero, infine gli dette alle fiamme l’auto. Alla fine preparò pure una vasca piena di acido e dette l’ordine di ucciderlo e scioglierne il corpo. Arrivarono prima i carabinieri che lo stavano intercettando.

L’omertà della disperazione

In questi anni l’omertà si è declinata sempre nella stessa dimensione: pensare che raccontare queste dinamiche fosse un modo per infangare il territorio. Che infinita pena un Paese che crede che il nominare il male significhi diffonderlo. A Scampia illuminare l’orrore ha innescato una reale trasformazione; certo, c’è molto, moltissimo ancora da fare ma molto è cambiato. Mentre Parco Verde continua nel silenzio ad essere un luogo di disperazione da cui molti traggono profitto sul sangue dei disperati.

Estratto dell'articolo di Antonio E. Piedimonte per “La Stampa” lunedì 28 agosto 2023

Caivano, la caccia alle prove, gli abusi sessuali, il ringhio della camorra. Due Procure e due fascicoli giudiziari, stesso reato: stupro di gruppo. Per gli adulti procede la Procura di Napoli Nord per tutti gli altri la Procura dei minori di Napoli, che intanto ha disposto anche l'avvio di una indagine in merito alla fuga di notizie registrata nell'ambito degli accertamenti investigativi sulle presunte violenze alle due cuginette. 

Tutto quello che (per vie traverse) è trapelato è che investigatori e inquirenti stanno stringendo il cerchio sul branco di ragazzini che per mesi si è accanito su due cuginette di 10 e 12 anni nel famigerato Parco Verde di Caivano. E la ricerca di indizi e prove è sempre più concentrata sulle tracce digitali da recuperare in file cancellati e schede danneggiate, un'indagine cibernetica in un territorio segnato da ombre arcaiche. Telefonini e computer – strumenti di sopravvivenza per chi vive immerso nella realtà parallela del virtuale – usati per registrare eventi che riportano le lancette indietro nel tempo.

Pochi sono andati alla messa domenicale, a regnare è una desolazione che sembra rispecchiare altre desolazioni. E rimanda a più inquietanti scenari. In un'intervista al "Mattino" l'ex procuratore Francesco Greco – che coordinò l'inchiesta su Fortuna "Chicca" Longobardi (la bimba stuprata e uccisa) – ha spiegato perché la notizia delle violenze non lo ha sorpreso: «Emerse (all'epoca, ndr) una "emergenza Parco Verde", ed ebbi modo di dire, ripetendolo alla stessa Commissione Antimafia, che se non si fosse intervenuto subito, avremmo avuto altre tragedie simili». […] 

[…] il parroco del quartiere, don Maurizio Patriciello, ha lanciato un analogo invito-appello, ma alla premier Meloni.

Degrado, promiscuità, violenza. «Li state facendo incazzare un'altra volta… e mo' ci dobbiamo stare accorti tutti quanti», un anziano dà voce al pensiero di molti ma poi si ferma e si limita a un gesto di stizza accompagnato. Non dice altro ma fa capire che si riferisce ai clan – sempre più nervosi perché i riflettori della stampa stanno rovinando i lucrosi affari e anche perché tra i 15 indagati ci sono i figli di due ras – e al fatto che questa tensione si è già registrata in passato.

E i segnali furono chiari: prima una bomba davanti alla chiesa poi, più recentemente, il rogo di due piccoli bus che erano stati donati all'associazione "Un'infanzia da vivere" affinché i volontari potessero condurre i bambini del Parco al mare. Perché molti di loro il mare l'hanno visto solo in televisione e per i camorristi è molto meglio così. 

«Giornalisti e telecamere fanno saltare i nervi a chi comanda», spiegò il presidente dell'associazione, Bruno Mazza, che poi chiarì il suo pensiero con un icastico post: «La camorra è merda». […]

Estratto dell'articolo di Giuliana Covella e Marco Di Caterino per “il Messaggero” lunedì 28 agosto 2023

Tira una brutta aria nel Parco Verde. Viali deserti, nessuno per strada, nemmeno un bambino a giocare tra gli spelacchiati spazi verdi che interrompono l'angosciante monotonia di palazzoni tutti uguali. Deserta persino la messa delle 12, alla quale hanno partecipato solo una dozzina di fedeli. C'è il coprifuoco. 

Perché tra gli scellerati del branco che ha stuprato per mesi le due cuginette di 10 e 12 anni figurano i figli minorenni di due potenti capi spaccio. Ras che controllano la vendita di stupefacenti nel Parco Verde e nel "bronx", una sorta di succursale dello spaccio del Parco, distante da qui meno di mezzo chilometro.

Paura, ma anche "rispetto" di un ordine implicito che arriva da quei boss. Ordine che riguarda anche i componenti del mucchio selvaggio, tutti indagati a piede libero, ma in queste ore chiusi in casa. 

[…] 

La gente del Parco è tappata in casa, anche perché una accorta e lurida regia criminale fomenta e foraggia a suon di euro il "Parco Verde pensiero". Dal «sarà vero che è successo tutto questo» alle pesanti allusioni sulle famiglie delle due povere bambine, fino alla stoccata su chi «non sa e non riesce a proteggere i propri figli» per cui «merita questo ed altro».

Un copione già visto, collaudato al cento per cento, utilizzato dalla camorra per "spiegare" le ragioni di un omicidio, o nel caso anche lo stupro di due bambine, in un quartiere dove l'infanzia non è nemmeno negata, visto che qui non è mai esistita, qui dove si passa direttamente dalla prima infanzia ad una "adultizzazione" che si compie tra gli otto e i dieci anni. 

Insomma, in questo processo di auto-protezione di chi è costretto a vivere nel Parco Verde, e che scatta quando i riflettori illuminano questo posto di miserie umane, tutti già sanno che per le famiglie delle due cuginette, oltre al dolore, alla rabbia, allo "scuorno" subìto, si aggiunge la paura di una possibile vendetta o ritorsione da parte dalla camorra.

I due potenti capi spaccio, padri dei ragazzini stupratori, hanno al loro servizio decine e decine di affiliati pronti a tutto. Nel Parco, possono digerire un omicidio, arrivando quasi a giustificarlo, ma "guastare" (espressione gergale ad indicare casi di violenza sessuale sui bambini) per sempre due anime innocenti no. 

Lo sanno anche i familiari delle due vittime, che ora vivono nel terrore, temendo seriamente per la loro incolumità. Senza risorse finanziarie, senza nessun aiuto da parte dei servizi sociali, senza un briciolo di solidarietà, senza nessuno, con l'incubo di avere a che fare con la camorra, trovare una via d'uscita sembra impossibile. Un dramma in una tragedia. [...]

Estratto dell'articolo di Marco Di Caterino per il Messaggero martedì 29 agosto 2023. 

Lo stupro di gruppo di Caivano è un buco nero di densa melma di orrore e degrado, che ingoia le vite delle vittime, degli stupratori e dell'intero quartiere. 

(...) 

I RUOLI Come era chiaro dall'inizio di questa orribile storia, la svolta nelle indagini non potrà che avvenire dopo gli accertamenti tecnici sui dieci cellulari sequestrati agli indagati, otto minorenni e due maggiorenni. Un verifica dalla quale sia la procura di Napoli Nord che quella dei Minori di Napoli potranno determinare al di là di ogni ragionevole dubbio - in questo aiutati da un altro video che, a quanto trapela, ritrae tutti e dieci mentre sono in "azione" - il ruolo svolto da ogni singolo sospettato nella serie di stupri, due quali sono avvenuti nell'ex centro sportivo "Delphinia" e altri - incredibilmente - nella villa comunale di Caivano, intitolata ai giudici Falcone e Borsellino, e ubicata a poche decine di metri dalla sede della polizia municipale. Stupri avvenuti al calar della sera, in una zona meno frequentata, ma comunque a poca distanza da bambini e famigliole.

Intanto nel Parco Verde la tensione tra i residenti ha superato il livello di guardia. Ieri pomeriggio una troupe della Rai e i giornalisti di Mattino e Repubblica sono stati pesantemente minacciati, mentre sostavano presso la sede dell'associazione "Un'infanzia da vivere", fondata da Bruno Mazza. L'aggressore, un cinquantenne, immediatamente identificato dai carabinieri della compagnia di Caivano diretta dal capitano Antonio Maria Cavallo, si è materializzato a bordo di una Fiat Punto. Affiancando i giornalisti, con voce alterata ha gridato: «Vi conosco a uno a uno, e ho i numeri di targa delle vostre auto.Ve ne dovete andare subito, perché mi avete ucciso la vita» 

(...) 

Tensione anche nel complesso di edilizia popolare Iacp, dove abitavano le due ragazzine, ora ospitate in una struttura protetta su disposizione del tribunale dei Minori di Napoli, e dove abitava anche la piccola Fortuna Loffredo, abusata e morta il 24 giugno del 2014. Giovedì prossimo tutte le mamme che abitano nel rione manifesteranno sotto gli uffici degli assistenti sociali del Comune di Caivano, colpevoli a loro dire, di essersi completamente disinteressati dalle complicate situazioni familiari delle due cugine.

«Non ci stiamo a passare come persone che hanno girato la testa da un'altra parte dicono con toni accesi alcune donne siamo mamme e quando si tratta di bambini nessuna di noi fa i conti con omertà e silenzi. Saremmo anche noi colpevoli. Abbiamo segnalato più volte le difficoltà delle famiglie delle due bambine. Ma nessuno è intervenuto. Questa è una grave colpa».

LA CRISI E sul cielo del Parco Verde si addensano ancora giorni difficili. La presenza di giornalisti, la pressione investigativa ventiquattro ore su ventiquattro dei carabinieri, le annunciate visite della presidente del consiglio Giorgia Meloni, e della presidente della commissione parlamentare antimafia Colosimo e non per ultimo l'invito a Papa Francesco da parte del vescovo di Aversa Angelo Spinillo hanno di fatto bloccato l'intero sistema dello spaccio, con incassi a zero.

E senza soldi, la camorra precipita in crisi profondissime, capaci di destabilizzare l'asset dei clan vincenti, subito attaccati da chi vuole impadronirsi dell'affare milionario della piazza di spaccio più grande d'Europa.

Bruno Vespa, 'riparto da Caivano e da Giorgia Meloni'. L'11 settembre su Rai1 torna Cinque minuti, il 12 Porta a Porta. ROMA, 11 settembre 2023 Redazione ANSA 

Riparte da Caivano Cinque minuti, l'approfondimento condotto da Bruno Vespa che torna dal'11 settembre alle 20.30 su Rai1, subito dopo il Tg1.

Sarà anche il tema al centro, con la vicenda di Palermo, della prima puntata della 29/a edizione di Porta a porta, al via il 12 settembre in seconda serata sull'ammiraglia Rai.

"Mercoledì invece avremo a Cinque minuti e Porta a Porta Giorgia Meloni, la settimana dopo Giuseppe Conte e quella dopo Elly Schlein" dice il giornalista in conferenza stampa parlando dei suoi due programmi.

    L'11 a Cinque minuti, dove sarà ospite anche la preside della scuola del Parco Verde, "parla la madre della maggiore delle due cuginette di Caivano - aggiunge Vespa -. Spero di riuscire a dimostrare quanto sia incredibilmente disperata la situazione da quelle parti. Semmai riuscissero a bonificare Caivano varrebbe una legislatura. Basti pensare che in una famiglia entravano 1450 euro tra assegno unico e reddito di cittadinanza, più mille euro di stipendio del marito: di questi soldi in casa non entrava niente, tant'è che la bambina andava a cercare il cibo dai vicini. Chi li prendeva quei soldi? Quali debiti andavano a coprire? Parliamo di madri che si ubriacano per disperazione e depressione o molto assenti e infatti ho davanti una donna disperata che prega di essere portata via da lì". "Sappiamo che la maggiore delle due cuginette, che ha compiuto 13 anni lontano da mamma e papa, è stata 'usata' per tre, quattro anni, quindi già dai nove anni. Oltretutto stanotte la camorra si è rifatta viva sparando. Si parla di una situazione al di là dell'ordine pubblico - sottolinea Vespa -, serve una totale ricostruzione morale".

Stupro delle due cuginette al Parco Verde di Caivano, 9 arresti: sono 7 minori e 2 maggiorenni. Piero Rossano su Il Corriere della Sera il 26 settembre 2023.

Parco Verde di Caivano, accolte le richieste delle procure del Tribunale dei minori e di quello di Napoli Nord. I destinatari sono i componenti del branco che avrebbe abusato delle due bambine di 10 e 12 anni in più occasioni 

Ad una svolta le indagini sugli episodi di violenza sessuale ai danni di due cuginette di 10 e 12 anni nel Parco Verde di Caivano, in provincia di Napoli. In nottata i carabinieri hanno proceduto all'arresto di 7 minorenni e di due maggiorenni, accusati dei presunti stupri - sarebbero stati accertati 6/7 diversi episodi ripetuti per più settimane - consumatisi tra un centro sportivo caduto in disuso, il Delphinia, e altri luoghi della famigerata 167 nota anche come la più grande piazza di spaccio d'Europa e al centro dall'inizio di questo mese di numerose operazioni di polizia dopo la scoperta della vicenda. La prima scattata all'alba del 5 settembre, con l'impiego di 400 uomini di tutte le forze di polizia, e che ha portato la premier Giorgia Meloni a dichiarare: «Mai più zone franche in questo Paese». 

L'attenzione del governo: «bonifica» e commissario

Un blitz annunciato dal capo del governo e al quale ha fatto seguito l'adozione da parte del Consiglio dei ministri di una serie di misure di contrasto anche alla criminalità minorile raccolte nel cosiddetto «Decreto Caivano». Più segnatamente, per la sola Caivano il Governo ha quindi stanziato 30 milioni di euro interventi di «bonifica» e riqualificazione delle aree più degradate, nominando anche un commissario: Fabio Ciciliano. In precedenza, anche raccogliendo l'invido di don Maurizio Patriciello, parroco del Parco Verde e impegnato da anni per il riscatto di questo territorio, la premier Meloni si era personalmente recata in visita a Caivano assumendo altri impegni. 

Le misure cautelari notificate alle prime luci di oggi sono state firmate dal gip del Tribunale dei minorenni di Napoli su richiesta della locale Procura e da quello del Tribunale di Napoli Nord (con sede ad Aversa), competente per territorio, anche in questo caso su richiesta della Procura della Repubblica. Gli elementi che inchiodano i componenti del branco e scaturiti dalle indagini di queste settimane, alla base delle misure cautelari emesse, saranno illustrati dagli inquirenti a metà mattinata. L'intera vicenda, venuta alla luce il 25 agosto scorso, scaturisce dalla denuncia dei familiari di una delle due bambine, il cui fratello maggiore venne a conoscenza dei fatti attraverso un messaggio ricevuto sul cellulare. Una decina i telefonini sequestrati nelle prime fasi delle indagini, da subito anche al gruppo di giovanissimi sospettati delle violenze.  Ne è poi emerso un quadro che ha dato anche una dimensione di sistematicità alle violenze, uno scenario che gli inquirenti non hanno esitato a definire «sistema».

Ecco l'orrore di Caivano: stupri in videochiamata. Le vittime? "Sono pecore". Al Parco Verde 9 arresti, 7 sono minori. Le ragazzine derise e minacciate. Il gip: "Trattate come oggetti". Stefano Vladovich il 27 Settembre 2023 su Il Giornale.

Prese le belve di Caivano. Arrestati nove ragazzi fra i 14 e i 18 anni che per due mesi hanno violentato, picchiato, minacciato e soggiogato due cuginette di Parco Verde, Manuela e Nicole, 10 e 12 anni (nomi di fantasia), frazione del paese più degradato della Campania. Un'indagine delicata quella dei carabinieri di Caivano che ha portato ieri a nove misure cautelari, otto in carcere e una in una comunità, per 7 minori e due maggiorenni responsabili di violenze sulle due ragazzine. Dalla denuncia del padre di una e della madre dell'altra i militari raccolgono elementi tali da arrivare in un mese al branco, tutti giovanissimi con famiglie disastrate, figli di pregiudicati, estremamente violenti.

A coordinare le indagini due Procure, quella di Napoli Nord e il Tribunale dei Minori. Teatri degli abusi l'ex Isola ecologica di via Necropoli e il vecchio campo di calcio Faraone in via Diaz, la «capanna» degli orrori in «vico dei tossici» dove le ragazzine vengono stuprate, malmenate, filmate. Cinque i video che inchiodano gli stupratori trovati dai carabinieri nei loro cellulari. «I nove indagati - scrive il gip Umberto Lucarelli nell'ordinanza di custodia cautelare -, alcuni già con precedenti penali (lesioni, estorsioni, armi), accomunati da un comportamento brutale, crudele e dalla totale assenza di pietà nei confronti di due ragazzine indifese, minacciate e trattate alla mercé di cose». «Fatti gravi e reiterati - si legge ancora -, commessi con brutale approfittamento di vittime deboli e in tenera età, con modalità subdole ai limiti della crudeltà». Nove bestie feroci «prive di scrupoli e dalle personalità inquietanti, convinte di soggiogare ancora per chissà quanto tempo le vittime, certi che il senso di vergogna loro inculcato, attraverso la minaccia di diffondere i video delle violenze, avrebbe assicurato loro l'impunità».

È il 30 luglio quando nella caserma di Caivano si presentano i familiari di Manuela e Nicole. Nasce tutto dal fratello di Manuela. Il giorno prima riceve su Instagram un messaggio da un falso profilo: «Apri gli occhi con tua sorella, ha video sporchi». Il ragazzo avverte i genitori. Si scopre che anche la cugina Nicole è vittima di abusi. Il suo fidanzatino pretende sesso davanti altri ragazzi con la minaccia di postare i video in rete. La madre le dirà: «L'hai voluto tu». Anche per questo le vittime raccontano poco in famiglia. Si apriranno con una carabiniera che le ascolta per ore nella «stanza rosa» della caserma. Le ragazzine parlano di almeno sei rapporti consumati vicino la villa comunale. Le cuginette si spostano, i loro persecutori pure. Raccontano dell'ex centro sportivo Delphinia anche se i militari accerteranno che è il campo da calcio Faraone il luogo degli stupri. Qui avvengono altre 4 violenze. Nella «capanna di vico dei tossici» gli indagati fanno sesso a turno con le cuginette alle quali sottraggono i telefonini. «Zitte se li rivolete». «Lì dentro ci sono coperte usate come tende, separé» raccontano. I nove hanno tirapugni nei marsupi e quando le due provano a reagire le prendono per i capelli, costringendole a rapporti completi. Fra gli arrestati il fidanzato di Nicole, un 15enne che spaccia, facendosi far da palo da un amichetto di 9 anni.

Nella casupola di mattoni avviene di tutto. I rapporti vengono ripresi in videochiamata Whatsapp con il resto del gruppo, in sottofondo gridolini e risate. «Mo bast.. m fa mal...» grida una ragazza. Fra i capi di imputazione, oltre alla violenza sessuale continuata e aggravata, lesioni, minacce, rapina e, per uno degli imputati maggiorenni, il revenge porn.

Equilibri precari. L'orrore e una sola certezza, nonostante le passerelle "la videosorveglianza non c'è". Cuginette stuprate a Caivano, il messaggio anonimo su Instagram, la terza vittima, i video “sporchi” nella capanna e le minacce alle “pecore”: “Lo diciamo a papà”. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 26 Settembre 2023 

E’ partito tutto da un messaggio anonimo su Instagram che informava il fratello di una delle due cuginette baby-vittime di aprire gli occhi perché stavano girando alcuni video “sporchi” che ritraevano la ragazzina mentre subiva violenze sessuali di gruppo. Da lì è scattato l’allarme nelle due famiglie di Caivano che hanno ascoltato le due cugine di 10 e 12 anni (una delle quali anche con un lieve deficit che richiede il sostegno scolastico), per poi presentarsi alle 9 di sera in caserma dai carabinieri e denunciare l’orrore che andava avanti da due mesi (giugno e luglio 2023), e sempre nelle ore pomeridiane, in una “capanna” abbandonata che si trova in via Necropoli, il “vico dei tossici” dove – stando al racconto di uno dei minori arrestati per violenza sessuale che spiegava agli amici cosa stesse accadendo all’interno – “dentro sta il capraio con le pecore“. Violenze avvenute anche nel campetto comunale nella zona dei Cappuccini e nell’isola ecologica di Caivano.

E’ raccapricciante quanto emerge nell’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di sette minorenni ( tra i 14 e i 17 anni) e due maggiorenni (18 e 19 anni) per aver violentato le due cugine a Caivano, al termine di una indagine (condotta dai carabinieri e coordinata dalla procura per i minorenni di Napoli e dalla procura di Napoli nord) nata “dalle denunce presentate dal padre di una delle piccole e dalla madre dell’altra”. Sarebbero cinque i video delle violenze che gli investigatori hanno intercettato sui cellulari dei protagonisti, uno riprenderebbe addirittura lo stupro di gruppo nel corso di una videochiamata con amici. Un quadro agghiacciante quello che viene fuori nelle indagini partite tra fine luglio e inizio agosto, fatti “gravi e reiterati” quelli commessi con un “brutale approfittamento” di vittime “deboli e in tenera età“, con modalità “crudeli” scrive il gip del tribunale per i minorenni di Napoli Umberto Lucarelli. Branco, composto da due maggiorenni e sette minori, che era “convinto di poter soggiogare ancora per chissà quanto tempo” le due cuginette, puntando sul “senso di vergogna loro inoculato”. Vergogna soprattutto attraverso la minaccia di diffondere i video delle violenze e – contestualmente – di dirlo ai genitori delle due vittime.

La procuratrice di Napoli Nord, Maria Antonietta Troncone, ha spiegato che le due cuginette: “Sono state avvicinate dal gruppo di giovani che ha preteso rapporti sessuali insultandole, colpendole con calci e pugni, appropriandosi dei loro cellulari e minacciando di non restituirli. Sappiamo che avevano un tirapugni e qualcuno un coltellino. Non avevano la forza di rifiutarsi e avevano estrema paura dei ricatti e che i video girati potessero essere diffusi su qualche social. In ogni caso non avevano la forza, la maturità e la lucidità per sottrarsi alle violenze”. Secondo quanto riferisce Repubblica, oltre alle due cuginette ci sarebbe anche una terza vittima, riuscita poi a scappare dalla presa del branco dopo calci e pugni. 

Nel corso della conferenza stampa ad Aversa (Caserta), sede della procura di Napoli nord, gli inquirenti hanno sottolineato come “durante le attività di indagine veniva acquisita documentazione sanitaria, fatti sopralluoghi e sequestrati i telefoni cellulari in uso agli indagati, successivamente sottoposti ad analisi”. Le due cuginette, che inizialmente hanno raccontato solo in parte quanto accaduto perché spaventate, sono state nuovamente ascoltate e in questa fase avrebbero consentito di individuare in foto i presunti autori degli abusi, indicando in maniera precisa i ruoli che ciascuno degli indagati aveva assunto.

Una vicenda che nelle scorse settimane ha richiamato l’attenzione nazionale di media e soprattutto del governo Meloni, con passerebbe, blitz cinematografici e una, purtroppo, sola certezza: nonostante proclami, annunci e promesse, la verità la fotografa il gip di Napoli Nord Fabrizio Forte: “Nel comune di Caivano sono assenti impianti di videosorveglianza pubblica” e nei luoghi indicati dalle minorenni vittime degli abusi, “non sono presenti neppure sistemi di videosorveglianza privata, trattandosi di zone distanti dai centri abitati”.

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

L'inchiesta e gli arresti. L’orrore di Caivano, prima la richiesta sui social poi abusi e violenze ripresi in video chiamata: “Minacciate con un bastone”. L'inchiesta che ha portato all'arresto di nove persone, sette minorenni e due maggiorenni, è partita dopo la denuncia fatta da due madri di due giovani vittime. Oltre ai sospetti legati agli stupri subiti dalle figlie, c'era la paura della diffusione dei rispettivi filmati. Il Gip: "Contesto di crudeltà e brutalità". Redazione Web su L'Unità il 26 Settembre 2023 

Dopo averle chiesto su Instagram di fidanzarsi con lui, l’ha costretta a subire rapporti sessuali sotto la minaccia di un bastone: è uno degli episodi di cui sarebbe stata vittima una delle due bambine, di 10 e 12 anni, stuprate a Caivano, in provincia di Napoli. Le violenze sarebbero avvenute in un locale abbandonato di Caivano. I sette minorenni indagati sono destinatari di altrettante misure di custodia cautelare – sei in un carcere minorile e uno in comunità – emesse dal gip su richiesta della Procura per i Minorenni di Napoli e notificate all’alba di oggi dai carabinieri. Tre ragazzi hanno 14 anni, uno 15 e due 16 anni. Il settimo indagato ha compiuto 18 anni dopo i fatti contestati e per questo, se dovesse andare a giudizio, dovrà comunque comparire davanti a un giudice del tribunale per i minorenni. Altre due misure cautelari riguardano due maggiorenni.

Come è stata condotta l’indagine sugli stupri di Caivano

L’inchiesta è nata “dalle denunce presentate dal padre di una delle piccole e dalla madre dell’altra“, che hanno riferito ai Carabinieri “delle violenze che le figlie avrebbero subito nei due mesi precedenti e del timore di una possibile diffusione di video riproducenti gli abusi“. È quanto hanno riferito gli inquirenti (procura per i minorenni di Napoli e procura di Napoli Nord), che spiegano come in primo luogo sono state ascoltate le giovanissime vittime. Subito dopo, la Procura minorile ha delegato ai servizi sociali la verifica urgente delle condizioni familiari delle bambine, “ai fini della loro messa in protezione“. Le piccole sono state quindi nuovamente ascoltate e in questa fase avrebbero consentito di individuare in foto i presunti autori degli abusi, indicando in maniera precisa i ruoli che ciascuno degli indagati aveva assunto.

Le denunce

“Durante le attività di indagine, tuttora in corso di approfondimento – sottolineano gli inquirenti – veniva acquisita documentazione sanitaria, fatti sopralluoghi e sequestrati i telefoni cellulari in uso agli indagati, successivamente sottoposti ad analisi“. E così le indagini hanno consentito di acquisire “elementi univoci di riscontro alle dichiarazioni delle minorenni, essendo stati peraltro rinvenuti dei video riproducenti alcuni episodi di abusi sessuali descritti dalle vittime“. Le due procure hanno quindi chiesto ai rispettivi gip, che le hanno disposte, le nove misure cautelari: sette minorenni sono stati trasferiti in un Istituto penale minorile, uno in comunità e i due maggiorenni in carcere. Alcuni di essi e dei loro genitori, hanno precedenti penali e sono già noti alle forze dell’ordine.

Le testimonianze e i video

Secondo le procure, “l’esecuzione delle misure cautelari disposte dai Gip costituisce una conferma della validità indiziaria degli elementi acquisiti sino a questo momento, i cui esiti verranno corroborati da ulteriori attività in corso di esecuzione. La tempestività della risposta giudiziaria – viene aggiunto – è frutto dell’efficace interazione fra i due Uffici giudiziari e dell’operoso impegno investigativo della Compagnia Carabinieri di Caivano e della locale Stazione che hanno lavorato senza sosta insieme agli inquirenti per ricostruire le vicende“. Sarebbero stati innumerevoli gli episodi di violenza avvenuto tra giugno e luglio scorsi, avvenuti tutti in un immobile abbandonato di Caivano, che le ragazzine definiscono ‘capanna‘, in ‘vico dei tossici‘. Per il gip del tribunale per i minorenni di Napoli, Umberto Lucarelli, le azioni sono state eseguite con crudeltà e brutalità, sfruttando – in modo subdolo – la tenera età delle vittime. Queste ultime erano di continuo sottoposte a minacce e umiliazioni, fisiche e morali.

Il Prefetto Palomba

Gli arresti di questa mattina “sono un segnale importantissimo e l’attenzione non cesserà“. Lo ha detto all’Ansa il prefetto di Napoli, Claudio Palomba, parlando del blitz dei carabinieri di oggi nell’ambito dell’indagine sulle violenze ai danni delle due cuginette del Parco Verde. Il prefetto ha visitato il villaggio della legalità che è stato allestito lungo le strade del Parco Verde dalla polizia di Stato. L’attenzione proseguirà, ha detto ancora il prefetto “e si svilupperà anche su altri profili” con attività in favore dei giovani. Il prefetto ha anche assicurato che si proseguirà anche con il censimento delle abitazioni, “censimento dettagliato ovviamente differenziando quelle che possono essere delle situazioni di fragilità rispetto alle situazioni propriamente abusive. Faremo un lavoro che è stato fatto a Pizzofalcone, a Napoli“.

Il Questore Agricola

“Oggi è un giorno importante perché dal punto di vista repressivo si è data una svolta ad una vicenda dolorosissima“. È quanto ha detto il questore di Napoli, Maurizio Agricola parlando con i giornalisti a margine della visita al villaggio della legalità che la polizia di Stato – con alcune sue specialità – ha allestito lungo viale Margherita nel parco Verde di Caivano. “Noi siamo qui oggi per un’affermazione di legalità“, ha proseguito il questore “e per un’educazione alla legalità che è un’attività multidisciplinare“.

Don Patriciello

“In questo mese abbiamo visto cose che non si sono mai viste in Italia. Il 25 agosto ho scritto un messaggino alla Meloni. E nel giro di pochi giorni è venuta lei da noi, con tre ministri, due sottosegretari, il capo della polizia e ha fatto delle promesse che mi pare stia mantenendo“. Lo ha detto don Maurizio Patriciello parlando con i giornalisti al termine della visita al villaggio della legalità allestito lungo viale Margherita al parco Verde di Caivano. “Poi arriva il solito sapientone che dice che la repressione non basta – ha ripreso don Patriciello – e chi mai ha detto il contrario. Se il parco Verde è stata una delle più grandi piazze di spaccio d’Europa, la repressione serve“.

Non solo repressione

Ma poi “occorrono anche gli insegnanti, i servizi sociali: il numero degli assistenti sociali è così esiguo, come quello dei vigili urbani“. Don Patriciello ha poi detto “che nessuno ha la bacchetta magica anche perché questo quartiere è stato abbandonato per trenta anni“. Le vicende che hanno riguardato il parco Verde di Caivano “sono ferite indelebili“. Ha detto il parroco. “Pensate a tutte le famiglie coinvolte “, ha poi concluso.

Redazione Web 26 Settembre 2023

Estratto dell’articolo di Antonio E. Piedimonte per “La Stampa” mercoledì 27 settembre 2023.

Chi fossero lo sapevano da tempo, ieri mattina sono andati a prenderli. Nove componenti del branco di stupratori di Caivano sono stati portati via dagli uomini dell'Arma che hanno eseguito le ordinanze di custodia cautelare emesse dalla procura di Napoli Nord e da quella dei minorenni. Nel gruppo infatti ci sono due maggiorenni (uno lo è diventato dopo i fatti), mentre gli altri hanno tra i 14 e i 16 anni.

La vicenda che ha scosso l'Italia – e facendo luce sullo spaventoso degrado del già tristemente noto Parco Verde ha provocato persino l'intervento diretto del primo ministro Giorgia Meloni – aveva preso le mosse a fine luglio con la denuncia ai carabinieri delle violenze sessuali subite da due cuginette di 10 e 12 anni, N. e M., una delle quali affetta da quelle che nell'ordinanza vengono indicate come "immaturità affettiva" e "deficit cognitivo prestazionale" (tanto da avere necessità di sostegno scolastico).

Accolte nella camera nella caserma dedicata alle vittime, le bambine hanno raccontato l'intera vicenda a Francesca, maresciallo donna che ha saputo farle parlare con tranquillità di quei traumatici eventi. 

Entrambe tradite dai loro fidanzatini, i quali, grazie a un rapido quanto superficiale "corteggiamento" via Instagram avevano subito "catturato" le loro prede, e dopo averle violate le avevano cedute agli amici trascinandole in gorgo infernale.  […]

Non a caso uno degli stupratori, il quindicenne F.B., partecipa alle violenze dopo aver finito il turno di spacciatore e viene accompagnato da N., età nove anni, il suo collega di lavoro che fa il palo. Dalla lettura dell'ordinanza emerge tutta la brutale crudeltà del branco. 

Le bambine subiscono pressioni e minacce di ogni genere: dicono loro di non restituire i cellulari, che sarebbero andati in giro a raccontare quanto accadeva (a una dicono: «Chiamo tuo padre»), che avrebbero mostrato i filmati degli stupri. 

O più semplicemente le agitano davanti alla faccia un bastone e tanto basta anche perché le piccole sanno che si tratta di violenti che amano far del male: «Girano tutti con i tirapugni in tasca, picchiano gli altri ragazzi», raccontano. 

È la logica del branco, la vigliacca aggressione di gruppo, applicata agli abusi sessuali: quelli che non partecipano direttamente allo stupro e non sono impegnati a riprendere la scena, in attesa del loro turno fanno la guardia all'esterno della "capanna degli orrori", che al contrario di quanto emerso inizialmente non era lo stabile diroccato del centro sportivo ma un altro edificio pubblico anch'esso abbandonato: la casupola dell'isola ecologica di Caivano.  

Tra i luoghi usati per gli abusi anche gli spogliatoi di un campo di calcio abbandonato e il retro di un grande centro commerciale (in quel caso però non riuscirono nell'intento). Altri dettagli significativi emergono dagli audio delle registrazioni video – in tutto cinque quelli recuperati, oltre quello trasmesso in diretta con una video-chiamata su un social – come nel filmato girato il 30 giugno scorso, nel quale si vede uno dei ragazzi di spalle (poi identificato anche da un familiare come Pasquale Mosca) e si può udire il commento di chi sta facendo la ripresa, il quale rivolto agli altri membri del branco dice: «…sta il capraio con le sue pecore». Seguono volgarità e sghignazzi. «Gli stupratori ridevano» Questo è un altro punto che le bambine ripeteranno più volte nelle loro testimonianze: «Ridevano».  

Un particolare rimarcato anche dal gip Fabrizio Forte: «Deridevano le bambine». Il quale ha segnalato un altro dettaglio. Una delle bimbe, la più grande, ha detto che la «madre, allorquando era venuta a conoscenza di tali episodi (…) aveva reagito rimproverandola, dicendosi assai delusa da lei e sostenendo che, in qualche modo, l'aveva voluto lei». Mentre le piccole vittime proseguono il loro percorsi di recupero – come ha spiegato il procuratore dei minori di Napoli Maria de Luzenberger Milnersheim – […]

Lo stupro di Palermo.

Estratto dell'articolo di Ch. Ma. per Il Corriere della Sera mercoledì 6 settembre 2023.

«Mio zio ha qualche problema con me. E anche mio nonno. Succedono troppe cose brutte in famiglia». Un racconto dell'orrore, uno sfogo tra i banchi della sua scuola, dove forse si sentiva più al sicuro che a casa, una confidenza affidata all'insegnante di sostegno. E' così che la tragedia vissuta da due sorelline esce dalle mura domestiche. È così che parte l'indagine dei carabinieri di Monreale che oggi ha portato all'arresto di quattro persone: i loro genitori, il nonno e uno zio.

Questi ultimi avrebbero abusato delle due ragazzine, ripetutamente, nel corso di nove anni. La mamma e il papà, invece, secondo la tesi della Procura, hanno taciuto la drammatica verità, rendendosi loro complici. Le accuse sono di violenza sessuale, violenza sessuale di gruppo e lesioni personali con l'aggravante di aver commesso il fatto in danno di discendenti, con abuso di autorità e nei confronti di minori di 10 anni. 

La festa di compleanno

Oggi la più piccola delle vittime ha 13 anni - la sorella ne ha 19 - ma le violenze sarebbero iniziate quando ne aveva sei. […] aveva raccontato al papà quello che succedeva, questo non sarebbe servito a sottrarla alla violenza: «Quando papà mi ha chiesto perché piangevo gli ho raccontato che nonno e zio mi avevano fatto questo. Papà si arrabbiò moltissimo con tutti e due. Ma poi è successo di nuovo». Nemmeno la mamma avrebbe trovato la forza di denunciare.

Si sarebbe limitata a minacciare il nonno di farlo, sempre secondo quanto riferito dalla vittima a scuola: «Tutta la famiglia sa di questa cosa - la piccola ha raccontato - poi tra mia nonno e mia mamma c'è stata una discussione e la mamma ha detto al nonno che se lo avesse fatto qualche altra volta lo avrebbe denunciato. Il nonno non l'ho più visto dal mio compleanno. Quel giorno ho festeggiato il mio compleanno con torta, palloncini e i regali. C'era tutta la mia famiglia e i nonni, anche questo nonno».

La pillola

Uno scenario di omertà e degrado, ricostruito grazie alle parole di una delle due vittime, che ha raccolto tutte le sue forze e ha trovato il coraggio mancato ai suoi genitori, scegliendo di proteggersi da sola, chiedendo aiuto alle sue insegnanti, affidando loro anche i dettagli di un film dell'orrore durato troppo a lungo: «A nove anni temendo che fossi rimasta incinta», la mamma «spaventatissima per questa cosa mi ha dato la pillola (anticoncezionale, ndr) ma non potevo essere incinta perché ero piccola». 

Estratto dell’articolo di Riccardo Lo Verso per “Il Messaggero” il 7 Settembre 2023

Provincia di Palermo. Nel bagno di una modesta abitazione c'è una bimba di 9 anni. Entra il nonno, seguito dallo zio. Chiudono a chiave.

E abusano a turno della piccola. […] Quattro persone sono state arrestate dai carabinieri. Oltre al nonno e allo zio, accusati di violenza sessuale di gruppo, sono finiti in carcere anche i genitori di due sorelle che oggi hanno 13 e 20 anni. Il papà avrebbe abusato di loro, mentre la mamma non ha mosso un dito per fermare l'orrore di cui era a conoscenza.

Il campanello di allarme è suonato a scuola. La più piccola, lo scorso marzo, ha raccontato che i parenti facevano «brutte cose che non si possono raccontare». «Sono maniaci», ha aggiunto. Tre insegnanti, di cui una di sostegno, hanno avvertito il preside, che ha allertato i carabinieri. Gli abusi sono iniziati quando la bimba di anni ne aveva solo 6 e sono andati avanti fino a pochi mesi fa. [...] anche la sorella più grande ha subito le violenze del padre. L'hanno convocata e, dopo una iniziale ritrosia, ha confermato le accuse. Ora sono entrambe in comunità.

In casa, al mare e alla festa di compleanno. La vita delle due sorelle è stata scandita dagli abusi. «Mamma lo sa? Sì», nella risposta della più piccola c'è tutto il dramma della vicenda. «Al mio compleanno mio nonno mi ha dato un bacio in bocca, gli ho dato uno schiaffo ed è successo un casino», ha raccontato. 

Era la spia della morbosità. Un giorno del 2018 «eravamo tutti a mare. Il nonno si tuffa e io ho sentito da sotto qualcuno che mi toccava». Non erano al sicuro neppure a casa dei parenti: «Nel 2015 è stata la prima volta, stavo giocando con il mio tablet a casa di mia zia. C'era anche mio zio, che mi ha detto di andare con lui che mi avrebbe fatto un regalo. Mi ha portato in un posto strano fuori casa e mi ha spinta sul muro e mi ha tolto la maglietta. Io mi sono messa a piangere fortissimo». Ha cercato aiuto, ma rivolgendosi alle persone sbagliate: «A mamma e papà ho raccontato tutto il giorno dopo».

Nulla è cambiato: «Quello del 2016 era maggio. Quello del 2018 era luglio. Loro hanno chiuso la porta prima e poi mi sono svegliata perché mi sentivo toccare e mi sono trovata mio zio e mio nonno di sopra». L'epilogo è stato dei più drammatici. Anni dopo il padre che non ha protetto la figlia più piccola ha abusato della primogenita ventenne. «Papà nelle volte in cui mi chiedeva le prestazioni sessuali ed io rifiutavo - ha spiegato lei ai militari della compagnia di Monreale - cominciava a fare minacce del tipo che non mi avrebbe fatta uscire di casa, o mi obbligava a fare le faccende domestiche. Capitava che mentre lavavo i piatti mi fotografava il sedere e mi inviava le foto con il messaggio: Dai fammi entrare».

Quando la giovane cercava di resistere «lui reagiva picchiandomi, provocandomi un occhio nero e spezzandomi un dente che poi non mi ha fatto curare». Ad un certo punto i familiari hanno capito di essere finiti nei guai. Volevano convincere le sorelle a ritrattare. […]

Due sorelline violentate per anni in famiglia. Il nuovo orrore a Palermo. Storia di Redazione Interni su Avvenire mercoledì 6 settembre 2023.

La storia di abusi e di violenze inaudite comincia nel 2011, a Monreale. Protagoniste, di nuovo, due sorelline, che oggi hanno 13 e 20 anni. Nessun rischio preso muovendosi (fosse questo il punto) in qualche quartiere degradato, o frequentando cattive compagnie: i “lupi”, tanto per non allontanarsi dal dibattito che ha innescato tante polemiche nelle ultime settimane, non si muovevano là fuori, nell'ombra, ma in casa. Erano il nonno e lo zio: un orrore da non credere. E la mamma «sapeva - hanno raccontato le vittime agli inquirenti, dopo aver raccontato tutto a scuola, all'insegnante di sostegno, che ha segnalato i colloqui alla Procura minorile di Palermo -. A nove anni, temendo che fossi rimasta incinta, spaventatissima per questa cosa mi ha dato la pillola, ma non potevo essere incinta perché ero piccola».

È solo la punta dell'iceberg di una storia di cui il comando provinciale dei carabinieri ha rivelato particolari agghiaccianti: «Reiterati» gli episodi di violenza sessuale che sarebbero stati commessi a danno delle due bambine, una delle quali avrebbe iniziato ad essere abusata all'età di 6 anni. Abusi di cui tutta la famiglia sapeva, «poi tra mia nonno e mia mamma c'è stata una discussione e la mamma ha detto al nonno che se lo avesse fatto qualche altra volta lo avrebbe denunciato» il racconto, ancora, di una delle due sorelline. Che ricorda una festa di compleanno, la torta coi palloncini e i regali, e quel nonno che invece c'era, assieme agli altri. «Una volta mi ha trovato mio padre, mi ha chiesto perché piangevo e io gli ho detto che mio nonno e mio zio mi avevano fatto questo. Si è arrabbiato tantissimo con tutti e due, poi non l'ho detto più a nessuno. Poi però è successo di nuovo e di nuovo. Finché ho detto basta».

Video correlato: Abusate in famiglia, un altro orrore (Mediaset)

Ora per tanto male la Procura di Palermo ha eseguito quattro arresti: le accuse per nonno e zio, oltre che per i genitori, sono di violenza sessuale, violenza sessuale di gruppo e lesioni personali con l'aggravante di aver commesso il fatto in danno di discendenti, con abuso di autorità e nei confronti di minori di 10 anni. Il gip, accogliendo la richiesta della stessa procura, ha disposto la custodia cautelare in carcere per gli accusati, mentre le due sorelle sono state trasferite in una comunità. Sulla vicenda è intervenuto il sindaco di Monreale, Alberto Arcidiacono: «Proprio ieri eravamo scesi in piazza per manifestare la nostra volontà di condannare fortemente i gravi atti accaduti dello stupro di gruppo che si era verificato a luglio a Palermo, ed oggi apprendiamo la triste notizia che nella nostra città, si è verificato un grave atto di violenza in una famiglia, dove due sorelle sono state vittime di violenza» ha detto, chiedendo anche più fondi e poteri ai comuni per avviare progetti educativi nelle scuole dell'obbligo contro la violenza.

E oggi il Policlinico di Palermo ha diffuso dei dati allarmanti sull'aumento dei casi di violenza sessuale registrati al Pronto soccorso ostetrico dell'ospedale: dal primo gennaio al 31 agosto di quest'anno le vittime che hanno fatto ricorso alla struttura sono state 37, 12 in più rispetto allo stesso periodo del 2022. Valentina Triolo, medico legale dell'Unità operativa complessa, spiega che dei 34 casi del 2022, 14 riguardano violenze da parte di partner, ex partner, familiari, amici e conoscenti. L'età delle vittime varia dai 14 ai 50 anni. L'azienda ospedaliera ha strutturato un percorso che inizia al pronto soccorso ostetrico per poi essere seguito, così come prevede il protocollo messo a punto per questi casi, a livello multidisciplinare. «Qui - dice Triolo - le vittime trovano oltre l'assistenza medica, anche il supporto per la raccolta e conservazione delle prove fondamentali per la futura denuncia». Le donne accolte al pronto soccorso ostetrico vengono prese in carico dal ginecologo di turno in attesa del medico legale reperibile. Quindi inizia la presa in carico vera e propria, previa acquisizione del consenso informato da parte della vittima. È quanto avvenuto la notte del 7 luglio scorso, quando al Pronto soccorso si presentò la ragazza di 19 anni che denunciò di essere stata stuprata da sette giovani in un cantiere abbandonato del Foro Italico dopo una serata trascorsa nei locali della Vucciria dove era stata fatta ubriacare. Tutti i componenti del branco, compreso l'unico minorenne, sono in carcere con l'accusa di violenza sessuale di gruppo. Il Tribunale di Palermo martedì ha respinto l'ennesima richiesta di scarcerazione presentata dal legale di uno di loro.

Estratto dell’articolo di Lara Sirignano per il “Corriere della Sera” sabato 19 agosto 2023. 

Ha la forza di telefonare al fidanzato: «Amore, ti prego aiutami, è successa una cosa brutta», gli urla. Poi la linea si interrompe. Francesca (il nome è di fantasia, ndr ) rimane a terra in lacrime fino all’arrivo dei soccorsi. È l’una di notte del 7 luglio scorso. È una serata calda e il lungomare del Foro Italico di Palermo è ancora pieno di persone. 

La ragazza, 19 anni, viene portata al Policlinico. È terrorizzata, ma il suo racconto è lucido: dice d’essere stata stuprata da sette giovani. E fa un nome, Angelo, un conoscente di vecchia data. L’avrebbe incontrato qualche ora prima in un locale della Vucciria, nel centro storico. Lui era con la sua comitiva, lei con amici. Hanno bevuto e fumato marijuana. Poi Angelo le ha proposto di allontanarsi insieme agli altri. Francesca, frastornata, lo ha seguito nonostante abbia sentito uno del gruppo dire al barista: «Falla bere che a lei ci pensiamo noi».

Le videocamere della zona […] confermano le parole della vittima: si vede il gruppetto camminare verso una zona buia. Francesca viene tenuta a braccetto da due ragazzi perché è ubriaca e non si regge in piedi. Poi la comitiva sparisce dall’inquadratura. E restano le parole della vittima, che descrive scene di brutale violenza. Racconta d’essere stata circondata e stuprata una, due, tre volte, umiliata e insultata. «Dopo che mi hanno spogliato — dice — uno di loro mi ha tirato per i capelli... continuavano cambiandosi di posto...». 

[…] I medici a quel punto decidono di chiamare i carabinieri. La giovane ripete tutto agli inquirenti e a una psicologa. Di Angelo, che abita nel suo quartiere, fa anche il cognome e dopo qualche titubanza svela l’identità di un altro giovane del branco. Grazie alla denuncia e alle riprese delle videocamere, la Procura di Palermo, guidata da Maurizio de Lucia, individua e accusa dello stupro tre ventenni, tra i quali «l’amico» della vittima. Non avrebbe partecipato alla violenza, ma avrebbe adescato Francesca, l’avrebbe convinta a seguirlo e poi avrebbe ripreso tutto con il cellulare.

«A differenza degli altri non mi ha toccata — racconta la ragazza —, ma si è limitato a filmare la scena con il cellulare. Poco prima che io chiamassi il mio fidanzato, quando mi sono accasciata a terra, ho sentito che uno dei miei aggressori gli ha chiesto di condividere con lui il video e lui ha risposto di averlo già cancellato. Se n’è sicuramente liberato perché si è spaventato nel vedere le mie condizioni, tant’è che l’ho sentito commentare: “questo è uno stupro di massa”».

E invece il video i carabinieri lo trovano. Insieme a chat telefoniche che non lasciano spazio a dubbi. Come quella inviata da Angelo a un amico durante gli abusi: «Stiamo facendo un bordello», scrive mentre riprende la scena col cellulare. E il giorno dopo[…]: «[…] eravamo troppi e sinceramente mi sono schifato un poco, però che devo fare la carne è carne, ma ti giuro dopo che si è sentita pure male, piegata a terra, ha chiamato l’ambulanza l’abbiamo lasciata lì e siamo andati via. Voleva farsi a tutti, alla fine gli abbiamo fatto passare il capriccio». Ce n’è abbastanza. La denuncia, il video, le chat... Gli inquirenti arrivano agli altri quattro giovanissimi responsabili della violenza di gruppo e li arrestano. Del branco fa parte anche un minorenne.

Palermo, dopo lo stupro di gruppo i ragazzi sono andati in rosticceria. Poi la rabbia: «Ha denunciato? La prendo a testate». Storia di Lara Sirignano su Il Corriere della Sera sabato 19 agosto 2023.

«Mi ha fatto un nome, Angelo, uno che aveva già provato a violentarla, ma non c’era riuscito perché lei l’aveva rifiutato. So che la seguiva su Instagram. Mi ha detto che quella notte erano in sette, tutti giovani. Non so se li saprebbe identificare o se li ricorda, ma sicuramente Angelo c’era ed è lui che ha architettato tutto». Non ha dubbi il fidanzato di Francesca (il nome è di fantasia, ndr), la 19enne palermitana che, la sera tra il 6 e il 7 luglio, è stata abusata da un gruppo di ragazzi sul lungomare della città. «C’è Angelo dietro quel che è accaduto», ripete ai carabinieri. E lo stupro, ne è certo, era premeditato.

Le accuse

Accuse che avrebbero più di un fondamento, secondo gli investigatori. Angelo conosceva da tempo la vittima e l’avrebbe contattata nel pomeriggio sui social per invitarla a trascorrere insieme la serata. E lei avrebbe accettato presentandosi all’appuntamento con due amici. Una serata d’estate come tante, un gruppo di ventenni che si vedono in un locale nel cuore della movida. E tanto alcol. A raccontarlo è proprio Francesca che ai medici del pronto soccorso, dove arriva dopo lo stupro con un’ambulanza chiamata da alcuni passanti, riferisce tutti i drammatici momenti vissuti: lei, ubriaca e malferma che si allontana con la comitiva verso una zona buia del Foro Italico, gli abusi, le umiliazioni, gli insulti, lo scherno e la violenza di gruppo ripresa col cellulare.

La testimonianza

«Ho afferrato il telefono e ho chiamato il mio ragazzo», dice ai medici e poi ai carabinieri. «Non sono riuscita a dirgli altro se non che mi trovavo al Foro Italico e che avevo bisogno di un’ambulanza. A quel punto mi sono accasciata a terra con il cellulare in mano. Ero sonnolenta, sentivo un gran bisogno di dormire. Sono stata raggiunta da qualcuno che ha chiuso la chiamata e mi ha fatta alzare in piedi. Poi mi hanno riportata da Angelo, che era rimasto in disparte. Gli ho chiesto di chiamare aiuto, ma lui ha risposto che non lo avrebbe fatto perché non voleva che fossero coinvolte le forze dell’ordine. Se ne sono andati…»

I fermi

Una denuncia lucida che porta ai primi quattro fermi. I tre del branco ancora liberi — arrestati dopo ma già intercettati — a quel punto cominciano ad avere paura. Sanno che la ragazza ha parlato e pensano di vendicarsi. Angelo è già in carcere e ha cominciato a fare i nomi degli altri, tentando di limitare le sue responsabilità e dicendo di non aver partecipato alla violenza, ma di essersi limitato a guardare. I complici — tra loro c’è un minorenne — sanno di non avere scampo e vogliono vendicarsi di Francesca. «Ti giuro stasera mi giro tutta la via Libertà e mi porto la denuncia nella borsetta… le dico guarda che cosa mi hai fatto e poi le do una testata nel naso… le chiudo la narici con una testata», dice uno di loro registrato dalle «cimici» dei carabinieri. Parole, scrive il gip che ne ordinerà l’arresto, emblematiche di «una chiara volontà punitiva verso la ragazza, col fine di colpevolizzarla per la denuncia sporta».

Mancanza di pietà

E dalle intercettazioni telefoniche che li incastrano vengono fuori anche tutta la spregiudicatezza e l’assoluta mancanza di rimorso degli indagati che, dopo gli abusi, vanno in rosticceria a mangiare come se nulla fosse, lasciando la giovane a terra in lacrime. Un’indifferente brutalità raccontata dalle videocamere piazzate sul lungomare, le stesse che li avevano ripresi mentre raggiungevano il luogo dello stupro tenendo Francesca per le braccia, e che, dopo gli abusi, li filmano mentre vanno a cena. Di «elevatissima pericolosità sociale, di totale assenza di freni inibitori e di violenza estrema e gratuita ai danni di una vittima inerme, trattata come un oggetto, senza alcuna pietà» parla il gip che fa arrestare gli stupratori. In tre compariranno lunedì davanti a lui per l’interrogatorio di garanzia.

Estratto dell'articolo di ilmessaggero.it il 18 agosto 2023.

«Falla ubriacare, poi ci pensiamo noi». È iniziata così, a Palermo, la notte da incubo di una diciannovenne, violentata da sette giovani, finiti in manette a oltre un mese di distanza dai fatti, avvenuti la notte del 7 luglio. 

L'invito a far bere la ragazza era rivolto da uno degli indagati all'oste, un ambulante che vendeva alcol nel quartiere della Vucciria, sede di uno dei mercati storici del capoluogo siciliano che a sera viene preso d'assalto dal popolo della movida. La ragazza, poco dopo, è stata condotta dai sette, tutti giovani di età compresa tra i 18 e i 22 anni ad eccezione di uno all'epoca dei fatti minorenne, in una zona appartata del Foro Italico e ripetutamente violentata. [...]

I sistemi di videosorveglianza della zona hanno immortalato il gruppo; immagini crude che inchioderebbero i responsabili dello stupro collettivo. 

Si vedono chiaramente la ragazza, al centro, due che la sorreggono e gli altri cinque attorno mentre s'avviano sul posto dove sono avvenute le violenze, una zona appartata del Foro Italico. «Non avevo idea di dove mi stessero conducendo - ha raccontato la vittima ai carabinieri -. Mi hanno risposto: “lo sappiamo noi”». Durante il tragitto la ragazza ha cercato di attirare l'attenzione dei passanti: «Ho chiesto aiuto, ma nessuno ha compreso quello che stava succedendo». 

Una volta arrivati nella zona isolata del Foro Italico, nei pressi di un cantiere edile, si è consumata la violenza di gruppo. Il racconto è raccapricciante: «Ho gridato basta, basta, ma loro ridevano. “Tanto ti piace”, mi urlavano». Uno dei partecipanti ha anche filmato con il proprio cellulare la violenza, probabilmente per diffonderla; ma successivamente avrebbe cancellato il video per paura che la giovane potesse denunciarlo.

Dopo le violenze, la vittima è stata rivestita e abbandonata in strada. Alcuni passanti l'hanno soccorsa e hanno chiamato il fidanzato della ragazza, che si è subito precipitato per portarla in ospedale. 

[...] Dalle loro indagini si è arrivati agli arresti. Tre persone erano già finite in manette nei giorni scorsi, le altre quattro stamane. Tutti sono accusati di violenza sessuale di gruppo. Le indagini, condotte dai carabinieri di piazza Verdi, sono partite dopo la denuncia della vittima.

I sette arrestati sono finiti in manette in due riprese. I primi tre il 3 agosto, per ordine del Gip Clelia Maltese. Sono Angelo Flores, 22 anni; Gabriele Di Trapani, 19 anni e Cristian Barone, 18 anni. Gli altri sono stati arrestati stamattina dai carabinieri in esecuzione di un'ordinanza del Gip: Andrea Innocenti e sono Christian Maronia, 19 anni; Samuele La Grassa, 20 anni e Elio Arnao, 20 anni. Il settimo arrestato al momento dell'accaduto era ancora minorenne. Ha compiuto 18 anni meno di un mese fa.

[...]

«Mi sono accasciata per tre volte. Io non volevo avere rapporti sessuali, non mi muovevo, ho gridato, sono caduta a terra battendo anche la testa, ma non si fermavano e Angelo rideva. Ho iniziato a ripetere basta, basta, ma i ragazzi hanno continuato, scambiandosi di posto». Ad incastrarli anche un video e dei messaggi whatsapp, oltre a una fotografia sul cellulare.

«Ieri sera niente, se ci penso un po' mi viene lo schifo perché eravamo ti giuro 100 cani sopra una gatta, una cosa di questa l'avevo vista solo nei video porno, eravamo troppi, sinceramente mi sono schifiato un pò, ma che dovevo fare? La carne è carne, gliel'ho abbagnato pure io il discorso...», scrive all'indomani mattina uno degli indagati agli altri amici.

Secondo il racconto della ragazza, lo scorso 7 luglio si trovava alla Vucciria, con un'amica che poi è andata via. Quella sera ha bevuto diversi cocktail. E durante la serata ha incontrato un conoscente, Angelo Flores. È stato proprio lui a filmare lo stupro. «Mi puntava il telefono addosso con la torcia accesa, mentre lo fissavo mi chiedevo perché mi stesse facendo una cosa del genere... Io ero inerme, in ginocchio...», ha detto la ragazza poi ai carabinieri.

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Estratto dell’articolo di Riccardo Lo Verso per “il Messaggero” sabato 19 agosto 2023.

«Eravamo cento cani sopra una gatta, una cosa così l'avevo vista solo nei video porno», ha scritto in chat uno degli arrestati a un amico. A leggere le carte dell'inchiesta sullo stupro di gruppo c'è da rabbrividire. La ricostruzione parte con la paura della vittima, trattata come un oggetto dal branco. 

Lei quella sera era terrorizzata: «Dove stiamo andando?», chiedeva, stordita dall'alcol e dagli spinelli che le avevano fatto fumare. «Lo sappiamo noi», rispondeva uno degli arrestati mentre la conducevano, sorreggendone il passo traballante, verso il luogo dello stupro di gruppo. 

[…] Durante il tragitto «ho capito che Angelo (uno degli arrestati, ndr) aveva cattive intenzioni e gli ho detto: "Ma mi vuoi far stare sola con questi, ma sei pazzo?"». «Ero stonata, in piedi ma barcollavo - ha aggiunto nella denuncia - ho sentito dei forti dolori alla parte bassa del ventre e mi lamentavo, loro mi hanno derisa. Ho chiesto ad Angelo di chiamare un'ambulanza, ma lui ha risposto che non lo avrebbe fatto perché non voleva fossero coinvolte le forze dell'ordine».

[…] Il racconto è sempre più drammatico: «Mi sono accasciata per tre volte... Non volevo avere rapporti sessuali […], ho gridato, sono caduta a terra battendo anche la testa, ma non si fermavano e Angelo rideva. Ho iniziato a ripetere "basta, basta", ma i ragazzi hanno continuato, scambiandosi di posto». 

[…] Si sentono frasi inequivocabili: «Andiamo, forza che ti piace». La ragazza è in ginocchio, crolla in avanti. L'hanno violentata e filmata, come se fosse un macabro rito di cui conservare memoria. Magari da fare girare in chat come un trofeo. La diciannovenne ha bene in mente la luce del telefonino puntata dritta contro il suo volto. L'indagato riprendeva e nel frattempo scriveva a un amico: «Stiamo facendo un bordello». 

«Stai attento a questi video non è che spunta che l'avete stuprata», suggeriva l'altro. L'autore rispondeva: «Infatti adesso li sto eliminando tutti, li sto mandando solo a chi dovevo mandare li elimino perché non ne voglio sapere più niente di questa storia».

Gli investigatori hanno recuperato le immagini nella memoria del dispositivo. Le cimici piazzate nella caserma dei carabinieri il giorno della convocazione di due dei sette giovani hanno registrato altre frasi che hanno la forza di una confessione: «Le ho fatto male Lei non voleva, faceva "no, basta" I pugni che le davano e pure gli schiaffi, non respirava». La vittima ha riconosciuto subito i primi due indagati. Tra questi c'è l'autore del video che «già in passato aveva provato a usare violenza su di lei» ha raccontato il fidanzato della giovane. «Sono sicuro che la seguiva su Instagram. Ha architettato tutto».

La fanno ubriacare e la stuprano in sette. "Gridavo di smettere, ma loro ridevano". Tra gli arrestati anche un minorenne. La scena ripresa con un cellulare. Il branco all'ambulante: "Falla bere, poi ci pensiamo noi". Valentina Raffa il 19 Agosto 2023 su Il Giornale.

«Gridavo basta, basta, ma loro ridevano. Tanto ti piace, mi urlavano». È agghiacciante il racconto di una 19enne violentata a Palermo lo scorso 7 luglio da un gruppo di 7 giovani, tra cui un minorenne. I carabinieri hanno visionato le immagini di una telecamera di videosorveglianza che immortala il momento in cui la vittima, in stato di ebrezza, viene condotta in un luogo isolato del Foro italico, nel centro storico della città, e anche lo stupro di gruppo. Immagini terribili che confermano parola per parola la denuncia fatta dalla vittima che, incrociate alle dichiarazioni della 19enne, sono state fondamentali ai fini delle indagini che hanno portato all'arresto dei 7 aguzzini, sei dei quali hanno abusato a turno della giovane. Lo scorso 3 agosto erano già stati arrestati in tre, ieri sono finiti in manette gli altri tre maggiorenni (tutti comunque giovanissimi, il più grande ha solo 22 anni) e un minorenne, accusati di violenza sessuale di gruppo.

Tutto è accaduto al termine di una serata trascorsa dalla giovane in diversi locali della movida palermitana, tra il mercato della Vucciria e piazza Sant'Anna, in compagnia di un amico e degli amici di quest'ultimo. Tutti insieme pare abbiano bevuto e fumato. L'intento del gruppo era sin dall'inizio quello di farle alzare il gomito. «Falla bere, poi ci pensiamo noi», hanno detto i ragazzi all'ambiulante che vendeva alcol. Una volta che la vittima designata si è ubriacata, l'hanno condotta in un luogo isolato, vicino al mare, per abusarne sessualmente. Un video li incastra perché li immortala mentre due la sorreggono sotto braccio, tenendola al centro, gli altri cinque stanno attorno, quasi a coprire complici e vittima, anche perché passano in mezzo alla gente. Nessuno, però, si accorge che qualcosa non quadra. «Non avevo idea di dove mi stessero conducendo - ha dichiarato la 19enne ai carabinieri - Ma loro dicevano: lo sappiamo noi. Ho anche chiesto aiuto, ma nessuno ha compreso quello che stava succedendo». L'hanno violentata a turno in un cantiere edile vicino al mare, mentre l'amico della vittima riprendeva tutto con lo smartphone. E anche se poi, consapevole dello stupro di gruppo, l'ha cancellato per evitare di essere individuato e arrestato, il video sarebbe stato trovato dai carabinieri a casa di due degli arrestati. Dunque, prima di cancellarlo, lo ha inviato.

«Il mio amico non mi ha toccata, a differenza degli altri. Si è limitato a filmare la scena». Le parole della vittima, però, non scagionano affatto il ragazzo, che ha fatto comunque parte del branco. «Tanto ti pace», le dicevano ridendo, mentre lei cercava di sottrarsi allo stupro. Solo quando hanno finito, la 19enne è riuscita a chiedere aiuto a due passanti, che hanno chiamato il suo fidanzato ed è stata accompagnata al pronto soccorso, dove ha raccontato tutto ai medici che hanno chiamato i militari dell'Arma. «L'operazione scrivono i carabinieri del Comando provinciale di Palermo - testimonia come trovando il coraggio di non restare in silenzio e chiedendo aiuto alle Forze di Polizia, si possa combattere adeguatamente ogni forma di violenza contro le donne». Le indagini, infatti, sono scattate proprio grazie al coraggio della vittima che ha deciso di denunciare la violenza subita. L'inchiesta, coordinata dalla procura di Palermo e dalla procura per i minorenni di Palermo è stata condotta dai carabinieri del Nucleo operativo della Compagnia Piazza Verdi e della Stazione Brancaccio.

"I video li mando a chi devo": sullo stupro di Palermo l'ombra del revenge porn. Brevi ma significativi video hanno immortalato le violenze del branco a Palermo. Uno degli indagati ad un amico: "I video li sto mandando solo a chi li dovevo mandare e li elimino". Roberto Chifari il 19 Agosto 2023 su Il Giornale.

C'è anche l'ombra del revenge porn nello stupro dei sette ragazzi nei confronti di una 19enne del Foro Italico a Palermo: ovvero che abbiano agito con l'obiettivo di diffondere le immagini attraverso Whatsapp. I giovani sono stati arrestati in due momenti differenti alla violenza dello scorso 7 luglio: Angelo Flores, Gabriele Di Trapani e Cristian Barone appena una ventina di giorni dopo l'aggressione. La vittima li ha identificati facilmente; R. P., diventato maggiorenne pochi giorni dopo i fatti, Elio Arnao, Christian Maronia e Samuele La Grassa sono invece finiti in carcere ieri. La ragazza era in stato di ebrezza alcolica e sarebbe stata guidata in un’area isolata e lì violentata a turno da alcuni degli indagati. "L’operazione testimonia come trovando il coraggio di non restare in silenzio e chiedendo aiuto alle Forze di Polizia, si possa combattere adeguatamente ogni forma di violenza contro le donne", spiegano gli inquirenti. Per il gip "si coglie la consapevolezza dell'azione violenta e della realizzazione dei rapporti sessuali con modalità aggressive e violente - si legge nell'ordinanza - che avevano devastato fisicamente la ragazza ('la struppiò'), la quale, secondo i loro ricordi, aveva detto 'basta', non lesinando però i correi commenti - spavaldi e machisti - sul fatto che, nonostante le grida di dolore ella fosse in realtà eccitata".

"Mi toccavano e ridevano" 

I ragazzi filmavano e puntavano la fotocamera dei loro smartphone sulla vittima. "Nonostante i filmati siano parziali e di breve durata, e quindi non rappresentino l'intera evoluzione della violenza sessuale, si colgono numerosi elementi a sostegno dell'ipotesi accusatoria, pienamente lineare con quanto dichiarato dalla parte offesa che fin da subito aveva specificato delle video-riprese", spigano gli inquirenti. Nel racconto della ragazza si trovano molti riscontri con quello che è stato visionato dalle immagini degli smartphone e delle telecamere di videosorveglianza. "A mezzanotte e mezza - ha spiegato la ragazza agli inquirenti - sono andata alla Vucciria con un'amica e il fratello del suo ragazzo. Ho incontrato un amico, Angelo Flores o Fiorente con cui ho iniziato a parlare. Avevo già bevuto un cocktail e ho bevuto anche 7 shottini di Sambuca e poi un bicchiere di Montenegro. Questo amico Angelo era insieme ad un certo Cristian e altri 5 ragazzi di cui non so i nomi ma uno diceva di essere il cugino di Angelo. Uno di questi mi sembrava minorenne. Poi mi hanno fatto fumare. Due di loro mi hanno presa sottobraccio, uno più alto di me, l'altro, quello che diceva di essere il cugino di Angelo con i capelli scuri. Mi hanno fatto camminare dai Quattro Canti a scendere verso il mare. Ero sola - racconta - con questi ragazzi, in tutto sette. Due mi toccavano il seno e altri due le parti intime, mentre camminavamo e gli altri ridevano".

Le chat via Whatsapp 

Le intercettazioni hanno delineato un quadro grave. I ragazzi hanno parlato via chat. Uno dei messaggi inviati a Flores è il seguente: "Figghiò me lo mandi il video pure a me, quello di là del Foro Italico?" e l'indagato avrebbe provveduto ad inviare il filmato. Ma poi non solo diceva chiaramente chi era con lui la sera prima, ma commentava anche l'accaduto:"Ieri sera niente, se ci penso un po' mi viene lo schifo perché eravamo ti giuro 100 cani sopra una gatta, una cosa di questa l'avevo vista solo nei video porno, eravamo troppi, sinceramente mi sono schifiato un po', ma che dovevo fare? La carne è carne, gliel'ho abbagnato pure io il discorso...". E ancora: "Adesso li sto eliminando tutti, li sto mandando solo a chi li dovevo mandare e li elimino, perché non ne voglio sapere niente di questa storia".

L'associazione: "Non alla divulgazioni di dettagli sensazionalistici"

L'associazione Le Onde onlus interviene con una nota in merito al caso della 19enne vittima di uno stupro di gruppo a Palermo, da parte di sette giovani che sono stati arrestati. La violenza sessuale è un reato non solo grave "ma che colpisce nell'intimità chi la subisce, ancor di più se ciò accade in un contesto 'conosciutò - sottolinea la nota -. Dal racconto di altre giovani donne possiamo immaginare la tragedia che sta vivendo in questo momento la ragazza. Possiamo solo dirle: noi ci siamo". Roberto Chifari

Il branco voleva vendicarsi: progettava un raid punitivo sulla vittima di stupro. Subito dopo la terribile aggressione ai danni di una diciannovenne, 4 dei 7 giovani arrestati sono stati immortalati all'interno di un noto locale della Cala. Uno di loro meditava vendetta nei confronti della vittima dopo aver appreso di essere indagato.  Roberto Chifari il 19 Agosto 2023 su Il Giornale.

Volevano vendicarsi dopo avere saputo che i primi tre giovani che avrebbero preso parte allo stupro erano stati arrestati dai carabinieri. È quanto emerge dalle indagini sulla violenza di gruppo nei confronti di una 19enne avvenuta il 7 luglio scorso a Palermo. I quattro rimasti a piede libero avrebbero infatti progettato un raid punitivo per essere stati denunciati. Il 3 agosto scorso dopo gli arresti di Angelo Flores, 22 anni, Gabriele Di Trapani, 19 anni e Cristian Barone 18 anni, i militari intercettano le parole di Samuele La Grassa ed Elio Arnao, due dei sette arrestati ieri per la violenza di gruppo. Il gip nell'ordinanza di custodia cautelare la definisce "volontà punitiva" nei confronti della persona offesa. Una volontà che si aggiunge alle minacce fatte giungere alla ragazza affinché non rivelasse quanto accaduto al Foro Italico. I carabinieri, su ordine della Procura della Repubblica guidata da Maurizio de Lucia, convocano La Grassa e Arnao. I due discutono del rischio che Angelo Flores, anch'egli finito in carcere, il ragazzo che ha filmato lo stupro, avesse fatto i loro nomi. Su WhatsApp La Grassa srive: "Ti giuro stasera mi giro tutta la via Libertà e mi porto la denuncia nella borsetta... gli dico guarda che cosa mi hai fatto e poi gli do una testata nel naso"

I propositi di vendetta contro la vittima

Si terranno lunedì in tribunale a Palermo gli interrogatori dei sette giovani arrestati palermitani che secondo le indagini, condotte dai carabinieri del comando provinciale di Palermo, sono accusati di avere fatto ubriacare la giovane. Nelle tre distinte ordinanze di custodia cautelare che hanno portato in cella anche Angelo Flores, 22 anni, l'unico ragazzo che la vittima conosceva e che ha filmato col cellulare l'aggressione, Gabriele Di Trapani, 19 anni, Christian Maronia, 19 anni, Cristian Barone, 18 anni, Samuele La Grassa, 20 anni ed Elio Arnao, 20 anni, viene anche fuori che uno di loro avrebbero meditato vendetta nei confronti della giovane. Il gip Andrea Innocenti rimarca che si tratterebbe di "una chiara volontà punitiva verso la ragazza, col fine di colpevolizzarla per la denuncia sporta". 

Lo stupro e poi a mangiare in rosticceria

Dopo lo stupro i sette avrebbero lasciato la vittima per strada mentre loro sono andati a mangiare un pezzo di rosticceria in un locale sul lungomare della Cala. La giovane, visibilmente sotto choc, è stata aiutata da due passanti ed ha poi chiamato il fidanzato prima di andare in ospedale dove i medici hanno confermato le violenze. La terribile violenza sessuale di gruppo, infatti, è avvenuta nel cantiere che si trova al Foro Italico e le telecamere di sorveglianza hanno ripreso il branco con la vittima mentre ne esce e poi, dopo averla abbandonata per strada, mentre si dirige verso corso Vittorio Emanuele. Ad un certo punto, però, gli indagati si dividono e 4 di loro, compreso il minorenne, vengono ripresi mentre tornano indietro verso la Cala e vanno verso una nota rosticceria. È da poco passata l'1:33 del 7 luglio. I giovani vengono poi immortalati da vicino anche dalle telecamere che si trovano all'interno dell'attività commerciale.

Schifani: "Per reati di allarme sociale come questo allungare termini di custodia cautelare"

Il presidente della Regione Siciliana, Renato Schifani, intervenendo oggi pomeriggio a TgCom24, prosegue la linea del governo. Un ciclo di violenza che il governo vuole interrompere con le norme approvate in un consiglio dei ministri a giugno, nel disegno di legge sul femminicidio già a settembre in commissione giustizia della Camera. "Io sono un garantista - dice -, la mia posizione liberale è nota agli italiani, ma ritengo che in presenza di reati di allarme sociale in cui la prova è acquisita in modo inoppugnabile, sia sotto il profilo documentale sia sotto quello delle intercettazioni delle conversazioni tra questi ragazzi prima di essere ascoltati dalla forze dell'ordine, a cui va il mio totale plauso, occorrerebbe allungare o raddoppiare i termini della carcerazione preventiva. Lo dico assumendomi la piena responsabilità. Così si impedirebbe che con la scadenza dei termini possano essere presto rimessi fuori e magari ripetere così efferati comportamenti che sono esecrabili e offendono non solo la dignità di una persona, ma anche di una città, di una regione e di un un intero paese", conclude.

"Cento cani sopra una gatta". Le chat dell'orrore dello stupro di Palermo. L'orrore delle sette belve che hanno stuprato la giovane a Palermo. "Una cosa così l'avevo vista solo nei porno". Le chat choc: "Voleva farsi tutti, alla fine gli abbiamo fatto passare il capriccio". Francesca Galici il 19 Agosto 2023 su Il Giornale.

Lo stupro di Palermo segna un nuovo livello di vergogna difficilmente immaginabile. In carcere sono finiti in 7, di cui un minorenne al momento dei fatti e 6 maggiorenni: Angelo Flores, Gabriele Di Trapani, Cristian Barone, Christian Maronia, Samuele La Grassa, Elio Arnao. Hanno tra i 18 e i 22 anni. "Eravamo cento cani sopra una gatta, una cosa così l'avevo vista solo nei video porno", ha scritto uno degli arrestati in un messaggio successivamente alla violenza. Quel porno "pronto al consumo" nelle disponibilità di giovani e giovanissimi incapaci di gestirlo è motivo di emulazione, quasi di sfida, come dimostrano queste parole. Una gara tra loro in cui la ragazza è solo un mezzo per mostrare l'uno l'altro il proprio "potere".

"Lei diceva basta". Il racconto choc dello stupro a Palermo di uno degli indagati

La serata è trascorsa tra alcol e marijuana in un locale della Vucciria, che di giorno è un coloratissimo mercato e di notte si trasforma in una zona di movida sfrenata, oltre i limiti dell'immaginabile e del lecito. Il divertimento consumato bevendo "sette shottini di Sambuca uno dopo l'altro e fumando uno spinello", come riporta il Messaggero è l'anticamera di quanto sarebbe accaduto dopo. "Falla bere, che poi ci pensiamo noi", ha detto Angelo, uno degli arrestati, al barista del locale in cui si stava preparando l'assalto. La vittima ha incontrato il gruppetto di amici casualmente e hanno deciso di far serata insieme, senza immaginare cosa sarebbe successo.

Le immagini delle videocamere di sorveglianza della zona riprendono la prima parte: il gruppo si addentra in una zona buia, la ragazza è tenuta sotto braccio da alcuni di loro. È ubriaca, non si regge in piedi. Questi sono gli ultimi fotogrammi prima che la comitiva esca dall'inquadratura, poi c'è il racconto della ragazza a far emergere lo scempio, nonché un video che gli inquirenti sono riusciti a recuperare alla memoria dei telefoni. "Mi sono accasciata per tre volte... Non volevo avere rapporti sessuali non mi muovevo, ho gridato, sono caduta a terra battendo anche la testa, ma non si fermavano e Angelo rideva", spiega la ragazza. Poi, aggiunge: "Mi hanno spogliato, uno di loro mi ha tirato per i capelli continuavano cambiandosi di posto". Lei chiedeva aiuto, li implorava di smettere, ma la violenza è proseguita, come si evince anche dal video.

"La trattengono al solo scopo di portare avanti gli atti sessuali, quando pare accasciarsi in avanti viene prontamente afferrata dai fianchi. Viene accerchiata, girata, afferrata con forza per i capelli. Alle sue urla di dolore gli indagati ridono e la sbeffeggiano", scrive il gip nel suo verbale, raccontando il video dell'orrore. Il racconto della ragazza ha trovato perfetta coincidenza nel video recuperato dai carabinieri e nel referto dell'ospedale, in cui vengono rilevati "segni di afferramento e un'escoriazione alle ginocchia compatibile con il racconto della paziente". Ma anche in altri messaggi che si sono scambiati gli aguzzini: "Eravamo troppi e sinceramente mi sono schifato un poco, però che devo fare la carne è carne, ma ti giuro dopo che si è sentita pure male, piegata a terra, ha chiamato l’ambulanza l’abbiamo lasciata lì e siamo andati via. Voleva farsi a tutti, alla fine gli abbiamo fatto passare il capriccio". Basta questo, che è una confessione in piena regola, per far scattare le manette e portare alla luce una storia di degrado giovanile, che dovrebbe portare a serie riflessioni.

Hanno pestato, stuprato e umiliato la 19enne: chi sono le sette belve di Palermo. Sono sette i ragazzi indagati per violenza sessuale di gruppo: tre sono stati arrestati il 3 agosto mentre gli altri ieri. Uno è minorenne. Lorenzo Grossi il 19 Agosto 2023 su Il Giornale.

I loro messaggi choc e i dialoghi inequivocabilmente agghiaccianti hanno allibito l'intera opinione pubblica. Sette giovani palermitani sono arrestati ieri per la violenza sessuale di gruppo ai danni di una ragazza di 19 anni. "Ma compà, ve lo immaginate se spuntiamo nel telegiornale?", commentavano ridendo tra loro nei dialoghi - riportati integralmente dal Giornale di Sicilia - mentre erano nella sala della polizia giudiziaria in attesa di essere interrogati.

"Lei diceva basta". Il racconto choc dello stupro a Palermo di uno degli indagati

I nomi dei presunti autori dello stupro hanno cominciato a circolare poco dopo gli arresti, avvenuti tra il 3 agosto scorso e le più recenti ore. Gli indagati per questa violenza sessuale di gruppo sono: Angelo Flores, 22 anni, Gabriele Di Trapani, 19 anni, Cristian Barone, 18 anni, Christian Maronia, 19 anni, Samuele La Grassa, 20 anni, Elio Arnao, 20 anni. Questi ultimi tre erano stati arrestati sedici giorni fa per ordine del Gip Clelia Maltese A questi si aggiunge quello del minore indagato (iniziali R.P.), in carcere come gli altri ma il cui nome non è stato al momento divulgato. In realtà quest'ultimo ha compiuto la maggiore età poco meno di un mese fa. Tutti questi sono nomi che rimarranno ben impressi nella mente degli abitanti di Palermo (e non solo) che nelle scorse ore sono venuti a conoscenza di una storia orribile che però merita di essere ascoltata e che si spera abbia la possibilità di risvegliare le coscienze su una violenza sempre più diffusa anche tra i giovanissimi.

"Cento cani sopra una gatta". Le chat dell'orrore dello stupro di Palermo

Dopo che questi nominativi sono stati ufficialmente individuati, adesso si comincia ad avere più contezza dell'intera dinamica dei fatti, anche tramite le chat dei ragazzi. A incontrare la ragazza al mercato della Vucciria - che si trova nella tradizionale zona della movida della città - sarebbe stato Angelo Flores; quindi sarebbero arrivati gli altri e, a quel punto, sarebbe scattato il piano. Overro fare ubriacare la vittima per poi approfittare di lei. Nel momento in cui sei dei partecipanti la violentavano a turno e contemporaneamente, Flores avrebbe ripreso tutta la scena con un cellulare, probabilmente con l'intenzione di diffondere le immagini successivamente. Dopo di che lo stesso Angelo Flores avrebbe cancellato il file video compromettente per paura che la ragazza potesse denunciarlo.

"Falla ubriacare". Orrore in centro a Palermo: la stuprano in 7

Alcuni messaggi, che gli autori dello stupro di gruppo si sono scambiati, sono inequivocabili: "Ieri sera se ci penso un po' mi viene lo schifo. Eravamo 100 cani sopra una gatta, una cosa di questa l'avevo vista solo nei film porno", ha scritto uno di loro nella chat comune. Si tratta di una delle tante frasi oscene. "Quello che la struppiò (le fece molto male, ndr) è stato Cristian (Barone, ndr)", diceva Samuele La Grassa aggiungendo altri particolari gravissimi: "Vedi che... oltre a questo, i pugni...". Elio Arnao completava il concetto: "Minchia c'era che non ansimava più, faceva ahia ahia...". La Grassa: "I pugni ci davano e pure gli schiaffi... Non respira...". I ragazzi si giustificavano in modo ripugnante anche davanti alla madre di La Grassa ("Era molto profonda e aperta") mentre Maronia tentava di giustificarsi: "Era eccitata, non è vero...", per poi profetizzare "ora ci mettono tutti nella stessa cella". Lo stesso Maronia, tra i vari messaggi ritrovati nei telefonini, avrebbe riconosciuto che "lei non voleva, faceva: no, basta!". Un'affermazione che suona tremendamente come un'ammissione di colpevolezza.

Estratto da corriere.it domenica 20 agosto 2023. 

Domani mattina (lunedì) tre dei sette giovani arrestati con l’accusa di violenza sessuale di gruppo, si presenteranno davanti al gip per difendersi. […] dovranno spiegare cosa è successo la notte del 7 luglio quando, come ricostruito dai carabinieri, hanno fatto ubriacare una ragazza di 19 anni e dopo averla condotta nella zona del cantiere abbandonato del collettore fognario, l’hanno violentata.

Uno «stupro di massa» come documenta il titolo del video girato da Angelo Flores che con il cellulare ha ripreso la violenza nei confronti della vittima inerme. Davanti al gip […] dovranno chiarire diversi aspetti della vicenda. In particolare gli inquirenti stanno cercando alcuni cellulari che sarebbero stati fatti sparire. 

Nel corso di una conversazione captata in caserma dai carabinieri due dei ragazzi arrestati, Samuele La Grassa ed Elio Arnao, parlano infatti della necessità di nascondere i telefoni, uno dei quali sarebbe stato «seppellito» sotto terra forse perché conteneva altri video compromettenti: «Poi me lo scrivi su WhatsApp dove lo hai messo», chiedeva La Grassa ad Arnao che rispondeva: «Cosa, il telefono? Neanche in una pianta è... era in un magazzino pure in un punto sotto terra. Lo sappiamo soltanto io e Francesco. Te l’ho detto, devi sempre avere qualcosa nascosta». […]

"Lo abbiamo messo sotto terra". Caccia ai telefoni dello stupro di Palermo. Negli smartphone che gli investigatori stanno cercando, sarebbero contenuti altri filmati che inchioderebbero ulteriormente i giovani. Domani il Gip interrogherà tre dei sette arrestati. Linda Marino il 20 Agosto 2023 su Il Giornale.

I carabinieri sono a caccia dei telefoni cellulari dei ragazzi che la notte del 7 luglio hanno stuprato una diciannovenne a Palermo, dopo averla stordita con alcol e uno spinello. Sui loro dispositivi si sta concentrando l’attenzione degli investigatori. In particolare, sarebbe stata intercettata la conversazione in caserma tra due degli arrestati, Samuele La Grassa ed Elio Arnao, che parlano di telefoni nascosti e di uno “seppellito” sotto terra nel luogo dove è avvenuta la violenza. “Poi me lo scrivi su WhatsApp dove lo hai messo", chiede La Grassa ad Arnao, che risponde: "Cosa, il telefono? Neanche in una pianta è... era in un magazzino pure in un punto sotto terra. Lo sappiamo soltanto io e Francesco. Te l'ho detto, devi sempre avere qualcosa nascosta". La violenza di gruppo, avvenuta in un cantiere abbandonato del Foro Italico, si sarebbe consumata dopo che la giovane aveva trascorso una serata nel mercato storico della Vucciria, noto anche come zona della movida del capoluogo siciliano. Lì la giovane si sarebbe fidata di un amico, Angelo Flores, che l’avrebbe fatta frastornare per poi darla in pasto ai suoi amici.

Il branco era composto da sette giovani, di cui un minorenne. Alcune telecamere di sorveglianza hanno ripreso i momenti in cui la ragazza veniva trascinata a forza verso il cantiere abbandonato. Una volta arrivati lì, stando al racconto della 19enne, i giovani sarebbero stati accecati da una violenza inaudita, riversati sul suo corpo inerme che chiedeva aiuto e diceva “basta”. Dopo lo stupro, la ragazza è stata abbandonata, a terra e in lacrime, mentre gli "aguzzini" sono andati in rosticceria. È stata lei a chiamare il fidanzato, che l'ha raggiunta e chiamato l'ambulanza.

Domani il giudice per le indagini preliminari interrogherà tre dei sette arrestati, che, assistiti dai loro legali, dovranno provare a difendersi dalle accuse contestate. Dalle indagini compiute fino ad ora pare che la giovane sia stata violentata a turno dai componenti del branco, ma non è tutto. Durante lo stupro, le sarebbero stati dati calci e pugni, ma nessuno dei suoi lamenti è riuscito a fermare la furia del branco.

Angelo Flores ha ripreso lo stupro con il proprio smartphone per poi dare persino un titolo, “lo stupro di massa", al video e girarlo agli amici. In quel telefono ci sono, appunto, i video, che come ha messo a verbale la giovane, Flores registrava puntandole il telefono addosso con la torcia accesa. “Mentre lo fissavo mi chiedevo perché mi stesse facendo una cosa del genere. Io ero in ginocchio”, ha raccontato la ragazza ai carabinieri durante la denuncia. Nel dispositivo è stata trovata anche una fotografia in cui la vittima è ritratta nuda, distesa a terra.

Intanto Palermo, ancora sotto choc per una vicenda che ha suscitato rabbia e sconcerto, è scesa in piazza per mostrare solidarietà alla giovane e si è svolto un corteo per le strade del centro storico della città. Quelle stesse percorse dalla vittima insieme ai suoi aguzzini, tra l'indifferenza delle persone che assistevano alla scena. "Ho provato a chiedere aiuto - ha raccontato ai carabinieri, ma nessuno è venuto in soccorso". La manifestazione, alla quale hanno preso parte centinaia di persone, è stata promossa con un tam tam sui social dall'associazione "Non una di meno". "Era importante vedersi, riconoscersi fra alleati e alleate contro un sistema violento e patriarcale, discutere l'accaduto e farsi sentire!" spiegano gli organizzatori. Il corteo per esprimere solidarietà "alla giovane donna stuprata e a tutte coloro subiscono quotidianamente violenza di genere" è stato contrassegnato da striscioni e slogan come "Ti rissi no! (nel dialetto siciliano “ti ho detto di no”, ndr )", "L'indifferenza è complicità", e ancora "Lo stupratore non è malato è figlio sano del patriarcato". "È stato un momento - sottolineano le promotrici della manifestazione - in cui ci siamo riconosciute come sorelle e ci siamo riappropriate delle strade e della città senza paura alcuna per dire che siamo libere di viverci come vogliamo e che respingiamo qualsiasi forma di militarizzazione dello spazio pubblico. Non importa quanto e cosa si è bevuto, cosa indossiamo, dove andiamo, a che ora ci muoviamo per le vie della città, che atteggiamenti abbiamo. Il sesso senza consenso è stupro".

Violenza sessuale di gruppo a Palermo: cosa rivela il referto medico stilato dopo la prima visita a cui si è sottoposta la 19enne. Ilaria Minucci su Notizie.it Pubblicato il 20 Agosto 2023

A seguito della violenza sessuale di gruppo avvenuta a Palermo ai danni di una ragazza di 19 anni, è stato diffuso il referto medico stilato a seguito della prima visita alla quale la vittima è stata sottoposta dopo lo stupro. I dettagli sui traumi riportati dalla giovane assalita dal branco.

Violenza di gruppo a Palermo, il referto medico

“La paziente al mio arrivo era scioccata, disorientata. Riferiva dolore in una zona compatibile con una possibile violenza”. È raccontato dal medico che per primo ha visitato la ragazza di 19 anni vittima dello stupro di gruppo a Palermo. L’aggressione sessuale, compiuta da sette ragazzi, si è consumata nella notte tra il 6 e il 7 luglio al Foro Italico.

“Non voleva riferire il nome del ragazzo col quale si doveva incontrare alla Vucciria. Mi ha anche riferito di avere detto al barman: ‘Non sentirli, non continuare a darmi da bere’, e poi ha raccontato della violenza”, ha continuato il medico, parlando con gli investigatori che si stanno occupando dell’agghiacciante caso.

I dettagli

Stando a quanto segnalato dal Giornale di Sicilia, il referto medico stilato dopo la visita alla quale è stata sottoposta la 19enne conferma che la paziente abbia subito uno stupro. Nel documento, infatti, vengono riportate le numerose ferite individuate su tutto il corpo della ragazza, la presenza di escoriazioni alle ginocchia, di segni di “afferramento”, di episodi di pianto, di stato ansioso, di disorientamento e di “lesività” evidenti riscontrate durante la visita ginecologica che risultano essere compatibili con una violenza.

“Le lesioni riscontrate sono compatibili con quanto raccontato dalla ragazza e sono compatibili con una violenza”, si legge nel verbale del medico che per primo ha visitato l’adolescente. E ha precisato: “Se anche non ci fossero lesioni sessuali, questo non vorrebbe significare l’incompatibilità di uno stupro, ma semplicemente che lo stato di ubriachezza incide nelle capacità di autodifesa e di opposizione”.

Estratto dell'articolo di corriere.it lunedì 21 agosto 2023.

«C’ero anche io quella notte». Davanti al gip non ha neppure provato a difendersi. Il minorenne che ha partecipato allo stupro di gruppo della 19enne violentata da sette ragazzi al Foro Italico, a Palermo, la notte tra il 6 e il 7 luglio ha confessato. 

Parole che confermano quanto gli investigatori già sapevano. Nel cellulare di uno dei giovani del branco — sono stati tutti arrestati — era stato trovato un video che lasciava pochi dubbi sulle responsabilità del minore. L’atteggiamento collaborativo dell’indagato, però, ha spinto il gip a disporne la scarcerazione e l’affidamento in una comunità.

In disaccordo con la decisione del magistrato la Procura dei minori diretta da Claudia Caramanna che impugnerà provvedimento. Il video sequestrato, girato da uno dei sette e le accuse della vittima che ha denunciato gli abusi, svelerebbero la particolare brutalità usata dal ragazzo che, dunque, secondo i pm, deve restare in carcere.

[...]

"Lei era consenziente": l'ultimo affronto dello stupratore di Palermo. Emergono nuovi dettagli sulla violenza di gruppo perpretata ai danni di una coetanea di 19 anni da parte di 7 giovani, la notte del 7 luglio scorso. Oggi gli interrogatori degli ultimi tre arrestati. Roberto Chifari il 21 Agosto 2023 su Il Giornale.

Al Tribunale di Palermo si sono tenuti gli interrogatori per tre dei sette indagati per lo stupro. I primi tre del gruppo erano finiti in carcere all'inizio di agosto: qualcuno ha deciso di collaborare, qualcuno invece ha scelto di non rispondere alle domande del giudice. Le indagini proseguono perché i carabinieri battono due piste, quella dei video registrati e salvati sugli smartphone spariti e quella della ricerca di nuovi elementi per definire il quadro probatorio.

"Nessuna violenza di gruppo, lei era d'accordo"

Tra gli indagati Gabriele Di Trapani ha deciso di parlare davanti ai giudici del tribunale del Riesame ed ha respinto tutte le accuse. Non solo: ha scaricato tutta la colpa sulla vittima. Secondo la testimonianza dell'indagato sarebbe stata la vittima a voler lasciare la Vucciria proponendo di andare al Foro Italico. Sarebbe stata lei, pienamente consenziente, a decidere di appartarsi perché era perfettamente consenziente al rapporto sessuale di gruppo. Per avvalorare questa tesi ha aggiunto che sarebbe stata la diciannovenne a chiedere ad un certo punto di deviare il percorso per non essere vista dal fidanzato, che lavora in un locale del centro storico, mentre era con gli indagati. Che la ragazza fosse - a dire dell'arrestato - d'accordo a consumare il rapporto emergerebbe, sempre secondo la sua versione, dal video girato durante l'aggressione.

Gli smartphone seppelliti

Si cercano alcuni smartphone dei ragazzi, proprio perché oltre il video di Angelo Flores, l'altro indagato che avrebbe girato il video poi mandato in chat, ci sarebbero altri video che potrebbero fare luce sulla vicenda. Durante un'intercettazione nella caserma dei carabinieri Samuele La Grassa ed Elio Arnao parlano della necessità di nascondere i telefoni, uno dei quali sarebbe stato seppellito sotto terra. Ed è uno degli elementi più inquietanti della vicenda, oltre il raid punitivo del gruppo dopo che i primi 4 furono arrestati i primi di agosto, perché mostra la volontà e la condotta criminale dei ragazzi. "Poi me lo scrivi su WhatsApp dove lo hai messo", chiedeva La Grassa ad Arnao. Lui rispondeva in maniera netta via chat: "Cosa, il telefono? Neanche in una pianta è… era in un magazzino pure in un punto sotto terra. Lo sappiamo soltanto io e Francesco. Te l’ho detto, devi sempre avere qualcosa nascosta". Il ritrovamento dei cellulari, secondo gli investigatori, servirebbe proprio a ritrovare altri video che potrebbero delineare meglio le responsabilità individuali.

La scarcerazione del minorenne

Il Gip del tribunale dei minorenni di Palermo Alessandra Puglisi ha preso atto delle ampie ammissioni rese da uno degli indagati minorenni e ha revocato l'ordine di custodia cautelare che aveva colpito il ragazzo, disponendo il suo trasferimento in comunità. Il giovane è uno dei sette coinvolti nello stupro di gruppo e che, fra il 3 e il 18 agosto, sono finiti in carcere: si tratta di sei maggiorenni e di un diciassettenne, che nel frattempo ha compiuto la maggiore età. Il giovane era però ancora minorenne il 7 luglio scorso, il giorno in cui furono commessi gli abusi ai danni di una ragazza di 19 anni, trascinata in un cantiere del Foro Italico e sottoposta a violenze di ogni genere dagli indagati, tutti di età compresa fra 17 e 22 anni.

Il legale del minorenne: "Chiarita la sua posizione" 

"Ha raccontato per filo e per segno quello che è successo quella notte. È chiaro che ci sono molte cose che saranno oggetto di approfondimento e in questa fase non sia opportuno rivelare - dice l'avvocato Pietro Capizzi che assiste il giovane -. Ci sono indagini e interrogatori in corso degli altri maggiorenni e al momento è preferibile non dire altro". Un video trovato dai carabinieri in uno dei cellullari degli arrestati lascia pochi dubbi sulla presenza del ragazzo, che frattanto ha compiuto 18 anni. "In base al suo racconto - osserva l'avvocato Capizzi - ci sono i presupposti per un percorso di recupero da qui la decisione del gip di attenuare le esigenze cautelari alla luce del racconto fatto che il gip ha ritenuto credibile". Abusi che, di fronte al giudice il ragazzo ha confessato, anche perché incastrato dalle indagini dei carabinieri: da qui la scarcerazione disposta dal Gip Puglisi ma anche il ricorso al tribunale del riesame, in sede di appello, da parte della Procura dei minorenni, convinta che abbia solo ammesso quel che non poteva negare. I pm chiederanno dunque al Riesame di riarrestare il giovane, che comunque - anche nel caso in cui l'appello dovesse essere accolto - potrà fare a sua volta ricorso in Cassazione e dunque resterà fuori per almeno 3-4 mesi. Il video recuperato dal nucleo investigativo dei carabinieri mostrerebbe però che il minorenne è stato tra i più violenti.

Stupro, il branco fa quadrato . "La ragazza era d'accordo". Il minorenne confessa: «C'ero anch'io». Scarcerato, i pm fanno ricorso. Gli altri si difendono, confermato l'arresto. Valentina Raffa il 22 Agosto 2023 su Il Giornale.

È stato tra i più violenti nello stupro di gruppo ai danni di una 19enne compiuto lo scorso 7 luglio in un cantiere edile isolato della zona del Foro Italico a Palermo, ha pure parzialmente ammesso di aver preso parte alla violenza sessuale, ma è stato scarcerato. Il giovane, che a luglio era ancora minorenne, si trova adesso in una comunità. Lo ha deciso il gip del tribunale per i minorenni di Palermo, Alessandra Puglisi, dopo la sua confessione. I fatti di cui si è macchiato sono troppo gravi secondo la procuratrice per i minorenni Claudia Caramanna, che ha già annunciato ricorso. «Deve stare in carcere».

Il tribunale del Riesame, intanto, ha confermato il carcere per Angelo Flores e Gabriele Di Trapani, due dei 7 ragazzi del branco, in accoglimento della richiesta della procura, e deve pronunciarsi sull'istanza di scarcerazione presentata dai legali di Cristian Barone, un altro degli indagati. Sono i primi tre arrestati il 3 agosto dai carabinieri. Uno aveva respinto le accuse parlando di rapporto consenziente, gli altri avevano fatto scena muta. Del gruppo hanno fatto parte anche Samuele La Grassa, Elio Arnao e Christian Maronia, arrestati il 18 agosto con l'allora minorenne. Compariranno oggi davanti al gip per l'interrogatorio di garanzia. A inchiodarli tutti alle loro responsabilità c'è un video girato da Flores che al gip ha ammesso di essere lì quella sera sostenendo però di non avere preso parte attiva allo stupro. Ma ha ripreso col cellulare la violenza ed evidentemente non ha fermato i compagni di merenda. Le chat rivelano altro: «Questa è una p..., ce la siamo fatta tutti». E ha pure inviato il video ad almeno due del branco, cancellandolo poi per non essere beccato. Due degli arrestati parlano della necessità di far sparire i cellulari, uno dei quali sarebbe stato «sepolto» sotto terra. Ed ora è caccia al video della violenza su Telegram.

Gli inquirenti stanno cercando di ricostruire gli invii effettuati. I video potrebbero essere più d'uno. Sarebbe Flores l'anello debole del gruppo, tant'è che, dopo l'arresto, avrebbe fatto rivelazioni importanti agli inquirenti ed è stato l'unico ad avere risposto alle domande del gip Clelia Maltese, rivelando i nomi dei complici. Dalle chat è tangibile qualsivoglia mancanza di empatia nei confronti della vittima, anche quando vengono descritti dettagli dello stupro e delle condizioni in cui era stata ridotta la 19enne. «Dopo si è sentita pure male. L'abbiamo lasciata lì e siamo andati via». Si sono recati in una rosticceria, come nulla fosse. Le frasi scambiate sono di una gravità inaudita e testimoniano uno sprezzo per la ragazza, vista come oggetto sessuale da possedere e, quindi, nella mentalità traviata che serpeggia tra questi giovani, anche meritevole di essere oggetto del loro divertimento. Ma c'è di più. Dalle testimonianze acquisite dagli investigatori, lo stupro ha tutta l'aria di essere stato premeditato. Mentre trascorrevano la serata nei locali della movida palermitana, tra la Vucciria e piazza Sant'Anna, infatti, il gruppo l'ha fatta ubriacare deliberatamente. «Dopo ci pensiamo noi», avrebbero detto a un barista, la cui posizione potrebbe essere al vaglio, ma non trapela nulla. Dopo i primi tre arresti, i complici, ancora a piede libero, hanno tramato una spedizione punitiva ne confronti della ragazza perché li aveva denunciati. «Mi faccio tutta via della Libertà - dice uno, intercettato - Quando la becco le dico: Hai visto cosa mi hai fatto? e la prendo a testate». Palermo ha fatto sentire la propria indignazione, scendendo in piazza, sabato sera, su iniziativa dell'associazione «Non una di meno» per prendere le distanze dagli stupratori e dall'indifferenza. «Lo stupratore non è malato, è il frutto sano del patriarcato» è uno degli striscioni. Mentre si attende che la giustizia faccia il suo corso, il popolo ha già emesso una sentenza di condanna per i 7, le cui foto girano sui social. È partito un passaparola per rendere pubblici i loro indirizzi e organizzare spedizioni punitive.

Estratto da open.online lunedì 21 agosto 2023.

«Conosco persone, donne, che da uno stupro non si sono riprese mai più. Che scattano in piedi appena sentono un rumore alle loro spalle, che non sono più riuscite nemmeno ad andare al mare e mettersi in costume da bagno come se non avessero nemmeno la pelle. Vogliamo salvare e recuperare un branco? Ok, sono d’accordo. Ma come salviamo una ragazza di 19 anni che d’ora in poi avrà paura di tutto? Perché la responsabilità sociale la sentiamo nei confronti dei carnefici e non in quelli della vittima?». 

Ermal Meta tiene il punto dopo aver scatenato le polemiche sui social commentando con toni durissimi la violenza sessuale ai danni di una 19enne, compiuta da un branco di sette giovani a Palermo (uno dei quali, questa mattina, ha confessato l’abuso). E l’artista prosegue: «Se c’è una qualche forma di responsabilità collettiva nei confronti dei carnefici, allora dovremmo provare a sentirci responsabili anche per quella ragazza e per tutte le vittime di stupro perché è a loro che dobbiamo veramente qualcosa, sono le vittime che vanno aiutate a ricostruire la propria vita».

Ermal Meta ha quindi aggiunto: «Per quanto riguarda le pene esemplari credo che siano assolutamente necessarie per un semplice motivo: nessun atto criminale viene fermato dalla paura della rieducazione, ma da quella della punizione. Ovviamente siamo tutti garantisti finché la “bomba” non ci cade in casa». In molti hanno accusato il cantautore di aver usato toni troppo duri e poco garantisti nei confronti dei sette giovani arrestati.

Nelle scorse ore aveva scritto (...) Lì in galera, se mai ci andrete, a ognuno di voi “cani” auguro di finire sotto 100 lupi in modo che capiate cos’è uno stupro». Il messaggio aveva suscitato centinaia di risposte, tra chi sostiene che la linea dura di Ermal Meta sia corretta e chi, come la giornalista Francesca Barra, lo accusa di “macchiarsi dello stesso crimine”

«Tutto parte in famiglia. Non si può deresponsabilizzare il singolo attraverso la collettività. Sbagli? Paghi. Punto» A chi ha parlato di «responsabilità collettiva» per quanto accaduto, Meta ha replicato: «Di orribile c’è quello che hanno fatto, di orribile c’è il trauma che quella ragazza probabilmente si porterà dietro per molto tempo, di orribile c’è la madre di uno di loro che cerca di far passare per una poco di buono la vittima, di orribile c’è la mancanza totale di empatia, di orribile c’è filmarla, deriderla, lasciarla per strada come uno straccio e poi minacciarla, di orribile c’è la totale mancanza di umanità. Non è la collettività ad averli portati a compiere uno scempio del genere, ma una loro precisa e lucida scelta». 

E Meta osserva (...) TUTTO parte in famiglia. Non si può deresponsabilizzare il comportamento del singolo attraverso la collettività. Sbagli? Paghi. Punto».

"Io, stuprata a 15 anni": le vittime di violenza scrivono a Ermal Meta. Storia di Redazione Tgcom24 martedì 22 agosto 2023.

"Sono stata stuprata a 15 anni". Inizia così una delle testimonianze di vittime di violenza sessuale che stanno scrivendo al cantante Ermal Meta, dopo che l'artista ha preso posizione sui social network contro gli stupratori di Palermo. E' stato lo stesso cantautore a condividere i messaggi che sta ricevendo nelle sue Storie di Instagram. Tra i commenti c'è anche quello di Elena Sofia Ricci, che racconta un episodio accadutole quando era bambina.

Il post delle polemiche  Ermal Meta ha iniziato a ricevere le testimonianze delle vittime di stupro dopo che, nelle scorse ore, ha scritto sui social: "Lì in galera, se mai ci andrete, a ognuno di voi 'cani' auguro di finire sotto 100 lupi in modo che capiate cos’è uno stupro". Una frase che ha suscitato un mare di polemiche. Poi però, sono arrivati i primi messaggi delle vittime.

"Un male necessario"  Nel condividerle con i suoi follower, il cantante ha scritto: "So di avere postato cose che fanno male, ma è un male necessario, reale. Sono persone quelle che mi hanno scritto, persone reali, di un paese reale, con fardelli reali, da portare con sé in ogni momento della loro vita. Provate a leggerli. Quando avrete finito di indignarvi per le mie parole, provate a mettervi nei loro panni. Chissà se arderete della stessa passione. Questo è il paese reale".

Le testimonianze  Le storie condivise da Ermal Meta sono tutte anonime. In una si legge: "Caro Ermal, sono stata stuprata il 26 dicembre del 2000- Dopo 23 anni non riesco ancora a confessarlo a mio marito, provo vergogna". Una donna, stuprata dallo zio a 5 anni, ha raccontato che "vorrei dire a quelle persone che parlano, parlano, parlano che vivere con un trauma così non è facile, lavarti fino a farti uscire il sangue dalla pelle perché ti senti sporca è un orrore". 

"Servono leggi stringenti"  C'è poi anche la straziante testimonianza di una donna, che racconta della sua amica che, nonostante un marito e una figlia amatissimi, non ce l'ha fatta più a sostenere l'enorme dolore che lascia uno stupro. Una mattina, dopo aver portato la bimba a scuola, è tornata a casa e si è impiccata. Ermal Meta ha scritto: "Mi sembra chiaro che servano leggi stringenti per far sentire le donne che subiscono abusi e molestie in grado di denunciare senza alcuna remora, senza sfiducia e senza paura. Se per questo volete crocifiggermi, non stancatevi a tirarmi su che sulla croce ci salgo da solo".

Il post di Elena Sofia Ricci  Tra i commenti al post, c'è anche quello dell'attrice Elena Sofia Ricci, che ha scritto: "La tua anima bella non può essere fraintesa. A 12 anni tentai di proteggermi con un disegno che avevo fatto, un foglio di carta colorato, dall'abuso di un signore molto grande e molto stimato che conosceva bene la mia famiglia. Ho potuto parlarne solo pochi anni fa. Segni che restano per sempre".

Estratto da ansa.it mercoledì 23 agosto 2023.

"Sarebbe un grande rimedio, finalmente, evirare il maschio portatore di fallo fallace a scopo sanitario e ascetico. Allora, questo genere di maschi, ripuliti da superflui pezzi di carne, canterebbero al cielo melodie soavi con le loro voci bianche...". Così la regista teatrale e drammaturga italiana Emma Dante in un'invettiva sui social contro gli stupri e non solo di gruppo come quello che ha sconvolto Palermo, la sua città, e l'Italia tutta.

"A che serve quel coso moscio, quel pezzetto di carne che pesa meno di un etto, quella protuberanza fastidiosa che a volte si mette a destra e a volte a sinistra, quel naso brutto senza narici, quella piccola sporgenza imbarazzante, quell'illusione di centro del bacino, centro del maschio, centro del mondo, quel palloncino che si gonfia con la pompetta della libido e diventa arma tagliente, pugnale penetrante, esaltazione dell'io, pene immondo che insozza la poesia di corpi sublimi fatti di vallate e promontori. Perché non asportarlo subito quel pungiglione velenoso? " provoca l'artista che riceve centinaia di commenti in rete e anche molte condivisioni del testo.

 Rivolta agli uomini che commentano la regista aggiunge di aver scritto questo messaggio "per farvi emergere, per farvi indignare... ma la cosa davvero incredibile è che tutti i portatori di fallo si sono indignati, indistintamente, con gli occhi iniettati di sangue, senza leggere in profondità il senso del mio messaggio che era rivolto agli assassini, a quelli che del pene fanno un'arma contro i deboli, donne e bambini. 

Un mese fa a Palermo una ragazza è stata stuprata da 7 uomini. Io credo che questa ragazza sia stata assassinata anche se resta viva, mentre questi uomini tra qualche mese saranno di nuovo a piede libero col miccio teso!".

Estratto dell'articolo di Adriana Marmiroli per “La Stampa” mercoledì 23 agosto 2023.

«A che vi serve quel coso moscio, quel pezzetto di carne che pesa meno di un etto, quella protuberanza fastidiosa, centro del maschio, centro del mondo, quel palloncino che si gonfia con la pompetta della libido e diventa arma tagliente, pugnale penetrante, esaltazione dell'io, pene immondo che insozza la poesia di corpi sublimi fatti di vallate e promontori?». 

Ieri ha scritto queste parole su Facebook la regista Emma Dante e il web (maschile) è esploso.  

(...) 

Più pesante proprio Emma Dante: «Perché non asportarlo subito quel pungiglione velenoso? Sarebbe un grande rimedio, finalmente, evirare il maschio portatore di fallo fallace a scopo sanitario e ascetico. Allora, questo genere di maschi, ripuliti da superflui pezzi di carne, canterebbero melodie soavi con le loro voci bianche...». 

I fatti di Palermo l'hanno colpita e ferita, ci ha pensato per giorni. E ieri «è sbottata». «Quello stupro - dice a La Stampa - è come un omicidio. Che vita avrà mai più questa ragazza? Lei sarà come morta dentro, mentre i suoi carnefici riprenderanno presto la loro vita. Un reato come lo stupro va equiparato all'omicidio». 

(...)

Si aspettava le reazioni? Molti uomini si sono offesi.

«Quando gli tocchi quel coso lì, che hanno tra le gambe, impazziscono, non capiscono più nulla. La mia era solo una provocazione, anche se con parole violente. Rivolta a un certo tipo di maschio e dall'utilizzo che fa del suo pene. Mi pareva chiarissimo. Poi ho visto e letto e ho messo un titolo, ho contestualizzato: "Agli stupratori". Be' non è cambiato nulla». 

Insomma, nessun proclama o invito alla guerra dei sessi?

«Non potrei mai avvallare una cosa violenta come la castrazione. Né voglio la guerra dei sessi. Anche se le risposte che ho ricevuto mi dicono che forse, invece, è in corso». 

Cosa l'ha più colpita?

«Oltre alle immagini, la sorte di questa ragazza che penso morta dentro. Mentre i suoi violentatori già si stanno trincerando dietro agli avvocati e alle solite scuse. Li vedo: tra pochi anni in giro con il loro miccio teso. C'è una letteratura violenta e pericolosa che li protegge, figlia di una realtà distorta. È come se si fosse rimasti ancorati a quando lo stupro era offesa al pudore, alla famiglia, alla società. E infatti si poteva "riparare" con il matrimonio. Immagina la vita di una donna costretta a vivere con colui che l'ha violentata?» 

Nessuna possibilità di invertire questa "cultura"?

«Quella della violenza maschile (ogni tipo di violenza) contro le donne è questione culturale. La famiglia e la scuola dovrebbero intervenire educando: da bambini ma ancora di più da adolescenti. Bisognerebbe istituire a scuola l'ora di educazione sessuale, in cui non si insegna la riproduzione ma gli svariati e illimitati piaceri che può regalare la sessualità consenziente in tutte le sue forme». 

(...)

DAGOREPORT mercoledì 23 agosto 2023.

Nel giugno scorso, alla Scala, per “Rusalka” la regista palermitana Emma Dante aveva creato una sirena tutta sua, non bella e senza coda, con al posto della coda una raggiera di tentacoli che si agitavano pericolosamente. 

Chi seduce una sirena così? Nessuno. Infatti, la sirenetta diventata piovra si presenta in scena su una carrozzella. Sapete perché? “Rusalka si è fatta invalida, priva di quelle gambe necessarie a far parte del mondo degli uomini, quelle gambe che piacciono agli uomini”, spiega Emma Dante. Insomma, un Tafazzi al femminile pronta a menomarsi pur di non essere femmina. 

Non darla mai vinta a quegli stronzi dei maschi, sino a tagliar loro il cazzo (partendo dagli stupratori, poi si vedrà: si aprano le cliniche), è il mantra di Emma Dante. Tanto i maschi non servono nemmeno per fare bambini. “Avrei potuto diventare madre per vie naturali, ma non ci sono riuscita... Volutamente non mi sono sottoposta a pratiche di fecondazione assistita, tanto meno alla maternità surrogata: il mondo è pieno di bambini che aspettano di avere genitori e ci sono tanti potenziali genitori che vogliono avere figli”: ha adottato un bambino russo. Lo ama.

Ma le donne che uccidono i figli come Medea… beh, per quelle Emma cerca sempre una giustificazione (“Verso Medea”, luglio 2007, Palazzo Venezia a Roma): “Quante volte si legge, drammaticamente, nella cronaca nera di donne che uccidono i propri bambini. Cose terribili, che non sono spiegabili se non riflettendo sul fatto che queste madri non riescono evidentemente a integrarsi nel contesto in cui vivono, non accettano il loro habitat, se ne sentono estranee e ciò scatena una reazione insensata, che non è codificabile rispetto al comune alfabeto sociale e civile”: in questo caso la colpa è della società. 

Le donne sono delle sante, sempre. Nei “Dialoghi delle Carmelitane” di Poulenc messo da lei in scena nel dicembre dell’anno scorso a Roma le sedici suore salgono sul patriarcale patibolo di Place de la Concorde e cadono sotto la ghigliottina del boia (maschio) con grande crudeltà. L’homo sapiens maschio uccide. E se le Carmelitane hanno rinunciato alla loro femminilità, e il loro letto è tomba e ghigliottina, in “Misericordia” (Piccolo Teatro, dicembre 2019) Arturo è figlio di una donna vittima di femminicidio: “La madre è stata ammazzata a calci, pugni, morsi... massacrata dal suo uomo a mani nude, come purtroppo accade spesso tra le mura domestiche.

Molte vittime di violenze spesso non denunciano per paura. Alcune mogli, fidanzate, compagne arrivano a giustificare i loro aguzzini, pensano che la prepotenza dei loro mariti, fidanzati o compagni sia dettata dall’amore. Agghiacciante. Il femminicidio è una grave piaga sociale e non va mai accantonato, dimenticato, mai abbassare la guardia. Va sempre denunciato. Ecco perché affronto questo tema nel mio teatro”. E dopo la denuncia viene oggi la proposta di evirazione. 

Emma è per la Cancel-culture, per riscrivere le fiabe a modo suo. Nel dicembre del 2018

propone un suo “Hans e Gret” alla Casa del Teatro Ragazzi e Giovani di Torino dove i due fanciulli sono vittime di una violenza domestica. Quando mette in scena “La scortecata” di Giambattista Basile, un’opera del Cinquecento (nel 2018 a Roma) una delle due sorelle chiederà a un barbiere di scorticarla “da capo a piedi” e quello farà “macello di quel torsolo, che piovigginava e piscettava tutta sangue e di tanto in tanto, salda come se la stesse radendo, diceva: Uh, chi bella vuol sembrare pena deve pagare”. Sangue, morte e uomini assassini: del resto anche in “Pupo di zucchero”, sempre da Basile, era tutto un accatastarsi di bare per colpa dei maschi.

Del resto, nel 2015 Emma riscrive anche la “Cenerentola” di Rossini con cui debutta al Teatro dell’Opera. La sua è una Cenerentola malmenata, figlia del sopruso. “È una favola che ha elementi violenti – racconta - essendoci questo rapporto familiare difficile, complesso, conflittuale col patrigno e anche con le sorellastre, e lei che viene spogliata dei suoi averi da queste creature perfide. Si intravede una violenza domestica su di lei”. 

Patriarcato, maschi che mette a nudo, cioè nudi sul palcoscenico del Piccolo, ma come “Bestie di scena” (2017): “Agli attori (maschi ndr) che lavorano con me chiedo di partire sempre dalla propria animalità fino ad arrivare alla perdita della vergogna. Ecco, i miei attori sono animali da palcoscenico, non nel senso di talentuosi mattatori come indicherebbe la lingua italiana, ma, come è in francese, bestie, nella loro totale nudità e sincerità”. L’uomo è una bestia, cioè il maschio è una bestia. Da evirare.

Estratto dell'articolo di Luca Beatrice per “Libero quotidiano” giovedì 24 agosto 2023.

Sfruttando l’omonimia con il più importante autore italiano di tutti i tempi, Emma Dante, regista di teatro e di cinema, ha pubblicato una solenne invettiva contro gli stupratori di Palermo, peraltro la sua città, facendo molto discutere e provocando non poco sconcerto. 

(...)

Così ha scritto in un post: «A che vi serve quel coso moscio, quel pezzetto di carne che pesa meno di un etto, quella protuberanza fastidiosa che a volte mettete a destra e a volte a sinistra, quel naso brutto senza narici, quella piccola sporgenza imbarazzante, quell'illusione di centro del bacino, centro del maschio, centro del mondo, quel palloncino che si gonfia con la pompetta della libido e diventa arma tagliente, pugnale penetrante, esaltazione dell’io, pene immondo che insozza la poesia di corpi sublimi fatti di vallate e promontori? Perché non asportarlo subito quel pungiglione velenoso? Sarebbe un grande rimedio, finalmente, evirare il maschio portatore di fallo fallace a scopo sanitario e ascetico. Allora, questo genere di maschi, ripuliti da superflui pezzi di carne, canterebbero melodie soavi con le loro voci bianche». 

Modi eleganti e forbiti per dire che il maschio bastardo e stupratore andrebbe evirato, che la fallocrazia è criminosa e ripugnante, traducendo in immagini piuttosto efficaci ciò che diversi politici, non proprio della sua parte, hanno espresso ripetutamente di fronte a casi del genere. Con Emma Dante la misura della castrazione chimica è diventata di sinistra, tanto per dar ragione a chi pensa che il mondo vada all’incontrario. 

E proprio a sinistra sono imbarazzati di fronte a un’uscita così potente. Diversi intellettuali interpellati sulla questione hanno voluto precisare che il problema va visto in un contesto più ampio, a cominciare dalla scuola (che gestiscono loro, fallimento totale) e dalla cultura (stessa musica, pure peggio). Tralasciando i commenti sui social, anche il cantante Ermal Meta si era espresso in modo molto violento ma essendo un maschio la notizia è sembrata meno rilevante, qualcuno deve aver fatto notare a Emma Dante di aver trasceso nei toni, prestando il fianco a possibili equivoci. La regista si è in parte corretta: «Non potrei mai avvallare una cosa violenta come la castrazione. Né voglio la guerra dei sessi. Anche se le risposte che ho ricevuto mi dicono che forse, invece, è in corso».

Peccato, questa spiegazione forse richiesta ha rovinato il tono poeticamente violento dell’invettiva. Da femminista convinta e militante, Emma Dante ha più volte espresso nei propri lavori teatrali il forte contrasto tra uomini e donne, spesso ha proposto letture rovesciate di favole e parabole, però fino a ora non si era mai spinta così avanti. La memoria mi porta fino a Valerie Solanas, l’attivista americana che nel 1967 pubblicò SCUM, il manifesto in cui auspicava la caduta del governo, l’eliminazione del sistema monetario e la distruzione del sesso maschile. Ben pochi le diedero retta e allora lei per passare alla storia aspettò il suo ex amico Andy Warhol di fronte alla Factory e gli sparò contro diversi colpi di pistola. Salvo per miracolo, lei arrestata, le più fanatiche in America la ritengono un’anticipatrice del femminismo radicale.

Disse che non avrebbe voluto ucciderlo, ma punirlo in quanto maschio sì. Meglio insomma non esagerare con i termini, perché qualcuno potrebbe equivocarti o prenderti alla lettera. Mi pare che dietro la legittima indignazione della donna di cultura non si riesca a nascondere la sempre più evidente contrapposizione tra sessi, pessimo costume che passa nel linguaggio, in ciò che si può dire oppure no, nel fanatismo che peggiora invece di aiutare a risolvere, nella conclamata mancanza di dialogo, soprattutto nelle fasce più deboli e ignoranti della società. Alla Penisneid freudiana che soggiace preferirei la certezza della pena: almeno vent’anni di galera, se bastano, nessuna attenuante, nessun perdonismo. Nonostante la rabbia, la legge del taglione non appartiene a tanti uomini dotati di cosi mosci e fastidiose protuberanze.

Estratto dell'articolo di Estratto Marina Terragni per “il Foglio” giovedì 24 agosto 2023

[...] Storie come quelle di Palermo, ragazza trascinata come un agnello da sette coetanei fino allo stupro finale di gruppo rigorosamente filmato; ma anche gli abusi collettivi su due dodicenni il Capodanno scorso in una villa del Fiorentino, filmetto pure qui; o le violenze di un altro Capodanno in una villetta di Primavalle, il branco addosso a una sedicenne che finirà poi in un gorgo di depressione e autolesionismo. Ecco: di queste storie non capiremo niente se non diventeremo consapevoli di come il cyberporn stia cannibalizzando da troppo tempo il libero e gioioso immaginario perverso-polimorfo di bambine e bambini dai 10 anni in su per imporre una sessualità fatta di dolore fisico, umiliazioni e sottomissione “consensuale”.

“Pensavo che se non ti piacevano le cose hardcore – strapparsi i capelli, sculacciare – era perché eri noiosa a letto. Allora ho fatto finta che mi piacessero”, ha raccontato una ragazza al Guardian. “Quando gli uomini sullo schermo fanno un sacco di cose violente alle donne con cui fanno sesso l’effetto è sempre lo stesso: le donne inarcano la schiena e gemono più forte. Il porno prende qualcosa che prima era considerato di nicchia e continua a mostrarlo e rimostrarlo in un contesto mainstream finché non viene normalizzato”. Non è una festa nemmeno per i giovani maschi, alle prese con immagini di punizioni, snuffing (soffocamento) e clip di morte (“trombata e uccisa”): più lontano possibile dall’amore. 

C’è gente che si vuoterebbe le tasche per poter dare un’occhiata al video di Palermo: solo se filmi allora è vero, la scena del sesso diventa un set, la carne è virtuale e ha bisogno di prove di realtà. Ma c’è anche gente che dopo la porno-scorpacciata del lockdown non ne è più uscita: dipendenza, consumo ossessivo-compulsivo, depressione, indifferenza alla banale tenerezza dei corpi reali, disfunzioni erettili.

[...] Hai voglia a proporre educazione affettiva e sessuale a scuola e a richiamare quei poveri disgraziati dei genitori alle loro responsabilità: il grooming della porno-industria è troppo pervasivo e potente, l’autodifesa domestica non basta.

L’arma potrebbero essere le Age Verification Law, leggi che introducono l’obbligo di verifica dell’età per accedere ai siti porno.

[...]

Estratto dell’articolo di Michela Allegri per “il Messaggero” lunedì 21 agosto 2023.

La prima sentenza ad arrivare è quella sui social, dove i sette giovani arrestati per lo stupro sul lungomare del Foro Italico di Palermo, da giorni, vengono ricoperti di insulti, mentre le loro foto sono state diffuse con inviti all'azione. Minacce di morte e accuse vengono rivolte anche ai loro parenti ed è partito il passaparola per rendere pubblici gli indirizzi di casa e organizzare azioni punitive.

[...] La parola "stupro" è stata per 24 ore al primo posto nei trend di X (l'ex Twitter), e anche su TikTok e Instagram i post più condivisi e visualizzati sono quelli che contengono i nomi e i cognomi, insieme alle fotografie, degli aggressori. 

Gli stessi aggressori che, vantandosi dopo avere violentato in sette una diciannovenne, hanno diffuso via chat il video degli abusi, commentando con frasi agghiaccianti: «Eravamo cento cani sopra una gatta, una cosa così l'avevo vista solo nei video porno». Dopo avere lasciato la vittima riversa in terra, in lacrime e ferita, invece di chiamare un'ambulanza come lei aveva supplicato di fare, sono andati a fare uno spuntino in rosticceria.

Adesso, mentre Angelo Flores, Gabriele Di Trapani, Cristian Barone, Christian Maronia, Samuele La Grassa e Elio Arnao sono finiti in carcere insieme a un minorenne, sui social è partito il processo parallelo a quello che si svolgerà in tribunale. Il cantante Ermal Meta scrive: «Lì in galera, se mai ci andrete, ad ognuno di voi "cani" auguro di finire sotto cento lupi». Tanti utenti si scagliano contro la madre di uno degli arrestati che nelle intercettazioni si riferiva alla vittima definendola «una poco di buono».

Commenta una ragazza: «È tutto racchiuso in questa frase, tutto. Come fai a proteggere tuo figlio dopo che ha stuprato in massa?». Mentre i commenti più pesanti sono nelle pagine TikTok di alcuni indagati. C'è chi invoca la «pena di morte», chi scrive «da genitore farei giustizia con le mie mani», «ti lascerei una pallottola in mezzo agli occhi», «questo è il primo dei sette che fanno fuori». E chi minaccia: «Vi stiamo cercando per tutta Palermo, siete finiti». 

All'orrore dello stupro, avvenuto lo scorso 7 luglio, si è aggiunto un altro orrore. «In un gruppo Telegram con più di 10mila membri si chiede se sia disponibile il video dello stupro di Palermo», denuncia un utente Instagram, pubblicando gli screenshot delle richieste: «Chi ha il video di Palermo? Scambio bene», scrive un ragazzo. 

[...]

[...] video girato da Angelo Flores: è stato lui a riprendere la violenza con il cellulare. Fondamentali anche le intercettazioni. Nel corso di una conversazione captata in caserma dai carabinieri, due dei ragazzi arrestati, Samuele La Grassa ed Elio Arnao, parlano della necessità di nascondere i telefoni, uno dei quali sarebbe stato «seppellito» sotto terra, forse perché conteneva altro materiale compromettente. «Poi me lo scrivi su Whatsapp dove lo hai messo», dice La Grassa. 

E l'altro risponde: «Cosa, il telefono? Neanche in una pianta è... era in un magazzino pure in un punto sotto terra. Lo sappiamo soltanto io e Francesco. Te l'ho detto, devi sempre avere qualcosa nascosta». A Palermo, ancora sotto choc per la vicenda, i cittadini si sono mobilitati: sabato sera si è svolto un corteo per le stesse strade del centro storico percorse dalla vittima e dagli indagati tra l'indifferenza delle persone presenti. [...]

Stupro di gruppo a Palermo, gli uomini che cosa ne pensano? Cosa è cambiato dal 1979 quando per la prima volta un processo per violenza andò in tv? Storia di La27ora su Il Corriere della Sera lunedì 21 agosto 2023.

6-7 luglio 2023: nella notte, al Foro Italico, sul lungomare di Palermo, sette giovani di 17, 19, 20 e 22 anni picchiano e violentano in gruppo una ragazza 19 enne. In un video trovato nel cellulare di uno degli indagati si svelano le brutalità fatte dal branco.

Anno 1979: Fiorella, allora 18enne, denuncia la violenza carnale di quattro 40enni. Al processo, la difende l’avvocata Tina Lagostena Bassi. Quell’anno la Rai su Rete due trasmette in seconda serata il film-documentario Processo per stupro: oltre tre milioni di persone restano incollate davanti agli schermi. Per la prima volta si mostra un processo contro uomini accusati di violenza sessuale. Tutti e tutte vedono la banalità del male. Ma com’è possibile, esattamente 44 anni dopo, ritrovarsi sullo stesso scenario?

Siamo andate a cercare le differenze nelle frasi pronunciate intorno alle due vicende. Luglio 2023, i ragazzi palermitani scrivono nelle chat: «Voleva farsi tutti e le abbiamo fatto passare il capriccio». «Eravamo in cento cani sopra una gatta, una cosa così l’ho vista solo nei porno». E ancora: «Mi sono schifato un poco, però che devo fare, la carne è carne». Intanto nei gruppi Telegram, decine di migliaia di iscritti cercano i video dello stupro.

Aprile 1979, davanti al giudice, i legali degli indagati pronunciano: «Lei non dice che le hanno fatto violenza e non può dirlo, perché non ci sono i segni». «Una violenza carnale con fellatio può essere interrotta con un morsetto. L’atto è incompatibile con l’ipotesi di una violenza». E ancora: «“Avete cominciato con il dire «Abbiamo parità di diritto, perché io alle 9 di sera debbo stare a casa, mentre mio marito il mio fidanzato mio cugino mio fratello mio nonno mio bisnonno vanno in giro?” Vi siete messe voi in questa situazione. E allora ognuno purtroppo raccoglie i frutti che ha seminato. Se questa ragazza si fosse stata a casa, se l’avessero tenuta presso il caminetto, non si sarebbe verificato niente».

Se 44 anni fa la società è più propensa a giustificare molestie e violenze sessuali perché sono gli stessi avvocati a prendere le parti dei violentatori, oggi ci chiediamo verso quale direzione siamo andati e andate. Nel 1979 non tutte le persone tollerano questi comportamenti. Il 28 aprile di quell’anno, Giulia Borgese riporta sul Corriere della Sera le impressioni dei giovani dopo aver visto il film in tv. Commenta uno studente di 16 anni: «Mi sono vergognato di essere un maschio, sono stato male, non riuscivo ad addormentarmi, non credevo che fuori dal film ci potesse essere una simile realtà». Un suo compagno non la pensa uguale: «Però lei, quella ragazza lì un po’ se l’è voluta, diciamo la verità...».

Questa frase rimbalza oggi, nel 2023, spesso anche nei commenti di X (ex Twitter). Se davvero siamo diventati meno tolleranti nei confronti delle aggressioni, perché un gruppo di ragazzi si sente in diritto di picchiare e violentare una coetanea? A Palermo c’è chi sfila con dei manifesti: «Lo stupratore non è malato è figlio sano del patriarcato». «Se toccano una toccano tutte. Sorella non sei sola». E gli uomini? Che cosa ne pensano?

Perché lo stupro di gruppo di Palermo riguarda tutti (uomini compresi). Storia di Alessandro Trocino su Il Corriere della Sera il 22 agosto 2023.

Dobbiamo sentirci coinvolti moralmente e politicamente nello «stupro di gruppo» di Palermo? Quell’orrendo delitto interroga noi uomini, maschi, anche noi che nulla abbiamo a che spartire con quella bestialità, noi che siamo culturalmente lontani anni luce da quella violenza? La società degli uomini liberi e rispettosi si può dire innocente, può chiamarsi fuori? E ha senso colpevolizzare una categoria, auto colpevolizzarsi? Siamo davvero tutti responsabili? Alla sensazione di rabbia che segue ogni stupro, ogni femminicidio, si sovrappone la sensazione di impotenza. Perché nulla sembra cambiare, in una società che invece è radicalmente cambiata. Sono passati molti anni da quando i magistrati giustificavano le violenze, come si vide nel «Processo per stupro» del 1979, trasmesso dalla Rai. Allora si accusavano le donne di indossare abiti troppo provocanti, si assolvevano imputati perché indossavano jeans stretti, «impossibili da sfilare senza la fattiva collaborazione» della donna, si colpevolizzavano le ragazze per aver bevuto, invece di considerare un’aggravante l’approfittare delle condizioni di debolezza di una vittima.

Il sentire comune e il dibattito pubblico sembrano aver lasciato da parte le antiche ambiguità, la corrività di un tempo, la diseguaglianza strutturale e odiosa tra uomo e donna. Eppure stupri e femminicidi continuano. Il caso di Palermo colpisce perché è una , fatta da ragazzi che hanno dimostrato di non provare alcuna umanità ed empatia. Sono indifferenti al dolore della vittima e sicuri dell’impunità. Le reazioni pubbliche sono scontate: si chiedono pene più gravi (lo ha fatto Ermal Meta), come se la sanzione più alta fosse davvero un deterrente; si immagina polemicamente cosa sarebbe successo se i sette italiani fossero stati nordafricani o albanesi; si accusano i social perché alterano la percezione della realtà. In definitiva, si circoscrive la questione a sette «bestie» isolate, a un caso così mostruoso da non essere prevedibile, né evitabile, da imputarsi piuttosto a un’anomalia ripugnante. Ma evidentemente non è così. Sono persone che vivono nella società, hanno madri e padri, sorelle e fidanzate. C’è un barista al quale uno dei sette ha detto «falla ubriacare che ci pensiamo noi» e lui ha fornito l’alcol necessario. Ci sono i passanti che hanno visto una ragazza in difficoltà e non hanno fatto nulla. Ci sono gli amici degli stupratori, che si sono passati il video. C’è una società che consente quello scempio. Lo incoraggia o perlomeno lo tollera, avallandolo. C’è una cultura tossica maschile che resiste agli anticorpi del progresso e della civiltà. C’è una logica di branco, di gregge, che favorisce l’omertà, la sopraffazione, l’impunità. Non c’è niente di imponderabile, di assurdo, nello stupro di Palermo.È il risultato di un atto con responsabilità individuali ma anche di una tara culturale che va estirpata, innanzitutto proprio attraverso la cultura. Insegnando l’educazione sessuale e sentimentale a scuola, favorendo la trasmissione di valori di apertura, mettendo al bando ogni discriminazione delle identità sessuali, incentivando un’alfabetizzazione valoriale collettiva, responsabilizzando la politica a favorire l’effettiva eguaglianza tra i sessi e lo sviluppo culturale. Trovando pene alternative per chi si rende colpevole di questi crimini, che non consistano solo nel restarsene in carcere a marcire. E poi non lasciando solo alle donne quella battaglia, come se non riguardasse tutti. Non è questione di colpevolizzare tutti gli uomini, di colpevolizzarsi ma di occuparsene. Di capire perché c’è un pezzo di società che è ancora immersa nella ferocia della sopraffazione dei sessi. Di capire come fare a intervenire più efficacemente anche sulla prevenzione, per contrastare revenge porn e cyberbullismo e, non ultimo, di capire perché c’è un disegno di legge contro la violenza sulle donne che è stato approvato il 7 giugno dal Consiglio dei ministri e che da allora giace alla Camera, evidentemente perché non considerato una priorità.

Estratto dell'articolo di Lara Sirignano e Armando Di Landro per corriere.it martedì 22 agosto 2023.

È stata una strategia difensiva orchestrata fin dal weekend dell’arresto, per arrivare a una confessione con tanto di giustificazione di fronte al magistrato? Christian Maronia è uno dei sette ragazzi palermitani arrestati per lo stupro di gruppo al Foro italico del capoluogo siciliano, a luglio.

[…] dopo il suo arresto su un profilo TikTok intestato a lui compaiono post particolari: video in cui si vede un ragazzo che canta, o che balla, che non parla del caso, accompagnato però da scritte che fanno riferimento alla vicenda dello stupro di gruppo.

Da quanto risulta i nuovi post sono stati pubblicati dai familiari è…] Per esempio: «Quando tutta Italia ti incolpa per una cosa privata ma nessuno sa che sei stato trascinato dai tuoi amici». Oppure: «Con che coraggio la gente insulta gli innocenti». «Per colpa di certe persone non potrò vivere». Concetti, quelli dei video, che a quanto pare sono emersi anche durante l’interrogatorio di garanzia sulla custodia cautelare, questa mattina (22 agosto) in carcere. Maronia avrebbe ammesso di essere stato presente allo stupro di gruppo, specificando però che, in base a quanto gli aveva detto uno degli amici, la ragazza sarebbe stata consenziente. Uno dei conoscenti, appunto, l’avrebbe tratto in inganno. 

Pronunciando certe parole e ricostruendo la vicenda Christian Maronia è esploso in lacrime di fronte ai magistrati: «Mi sono rovinato la vita». «Sono addolorato per ciò che è successo — ha aggiunto — chiedo scusa alla ragazza e alla sua famiglia. Sono tornato per aiutarla. Ma mi era stato detto che lei era consenziente».

[…] È spuntato per esempio un profilo che farebbe riferimento ad alcuni video del minorenne coinvolto, rilasciato dal carcere su decisione del giudice. Con la scritta incollata sopra un video: «Qualche ragazza vuole uscire con noi stasera?». Sarebbe, nel caso di un profilo vero, una gravissima provocazione. Ma si tratterebbe di un post non attribuibile al minore indagato. 

Dopo Maronia, hanno risposto al gip anche Samuele La Grassa ed Elio Arnao, gli altri due ragazzi indagati per lo stupro della 19enne palermitana. La Grassa ha raccontato di non aver avuto rapporti sessuali con la vittima. «Mi sono fatto trascinare dagli altri, li ho seguiti e non ho nemmeno capito cosa stava accadendo. Ma io non l’ho toccata», ha detto, confessando, però, di aver ripreso col cellulare la violenza.

«Non dovevo andare e non dovevo lasciarla lì, avrei dovuto aiutarla», ha aggiunto, ammettendo di non essere intervenuto in soccorso della giovane, abbandonata per strada dopo gli abusi. Oltre a la Grassa a riprendere lo stupro era stato anche un altro dei sette indagati, Angelo Flores, l’amico della vittima che l’aveva adescata su Instagram e invitata a passare la sera con lui e i suoi amici. Sulla stessa linea di La Grassa, Arnao. «Ho fatto una cazzata», ha detto al gip.

«Nessuno di noi pensava si trattasse di una violenza – ha spiegato – sapevamo che la ragazza in passato avesse fatto queste cose. È stata lei a indicare il percorso, da dove prendere per non farsi vedere dal suo fidanzato. Ci ha portato lei al Foro Italico. Lei stessa ha indicato i due con cui iniziare. Ma noi abbiamo sbagliato. E’ stato un errore, un grave errore”.

Estratto dell'articolo di lastampa.it mercoledì 23 agosto 2023.

Minacce di morte sui social ai sette giovani palermitani arrestati con l’accusa di violenza sessuale di gruppo su una ragazza di 19 anni – violenza poi ripresa in un video – e i genitori hanno deciso di denunciare tutto alla Polizia. 

I familiari si sono presentati in commissariato per presentare una querela per le numerose minacce ricevute su Instagram, Facebook e Tik Tok. Ma anche per denunciare la violazione dei profili social dei figli. Indaga la Polizia postale. Intanto i sei giovani ora in carcere avrebbero fatto sapere, per bocca dei propri legali, di essere stati minacciati in carcere.

E di essere preoccupati per le possibili ritorsioni che potrebbero subire tra le mura del carcere "Antonio Lorusso" di Pagliarelli. Così hanno chiesto di essere allontanati dalla struttura. E infatti verranno trasferiti dal carcere palermitano dopo le minacce ricevute dagli altri detenuti. Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria comunica «l'immediato allontanamento da questo istituto dei detenuti». 

La ragione – come fa sapere il Dap – è che i sei arrestati fra il 3 il 18 agosto non sono bene accetti dagli altri detenuti, anche se stanno in sezioni dove vi sono persone accusate degli stessi reati: la permanenza in isolamento non garantisce comunque chi avrebbe abusato, in gruppo, di una diciannovenne. La loro presenza dunque «è destabilizzante per l'ordine e la sicurezza». E questo perché, pur nelle sezioni protette, dove hanno il divieto d'incontro, c'è la necessità di garantire l'isolamento di ben sei persone. Cosa non facile. Da qui la richiesta di "valutare" l'allontanamento di Elio Arnao, Christian Barone, Gabriele Di Trapani, Angelo Flores, Samuele La Grassa e Christian Maronia.

I familiari dei sette arrestati per la violenza di gruppo al Foro Italico di Palermo nei confronti di una ragazza di 19 anni, si sono presentati in commissariato a Palermo per denunciare le minacce nei loro confronti sui social e la violazione dei profili dei figli su tutte le più importanti piattaforme. 

Al momento si tratta di denunce contro ignoti.

Le famiglie hanno chiesto alla polizia anche di identificare gli autori dei commenti ma anche e soprattutto chi ha realizzato i profili fake dei propri parenti. Nel mirino dei familiari ci sono anche i responsabili della composizione fotografica con tutti i sei indagati che già il giorno degli arresti, venerdì scorso, erano state pubblicate su Facebook e condivise da migliaia di persone. Le indagini passano adesso alla polizia postale che dovrà passare al setaccio tutti i social dove sono presenti migliaia di post e di commenti sulla vicenda.

Estratto dell’articolo di Armando Di Landro per il “Corriere della Sera” mercoledì 23 agosto 2023.

[…]

A dare un’idea della dimensione di questa esistenza social, in grado di costruire una sorta di mondo parallelo e reale, è il caso dello stupro di gruppo al Foro italico di Palermo. A partire dal suo squallido inizio: il filmato di 20 minuti che il conoscente principale della vittima gira durante la violenza. […] 

Nel giro di due o tre giorni, dalla notizia sull’esistenza del video, in Telegram si è scatenata la caccia al filmato: nessun argine, crea curiosità ed è un pezzo ricercato, da rivendere, da moltiplicare. «Pago bene, quel video…» si legge in una delle chat. […] 

[…] Così accade l’impensabile: le parole che uno degli indagati, Christian Maronia, decide con i suoi legali di pronunciare di fronte al giudice delle indagini preliminari nell’interrogatorio di garanzia, vengono anticipate di qualche ora su un profilo social a lui intestato, con dentro la sua faccia.

Ma come fa a gestirlo, se è in carcere? Sono i suoi amici a curarsene. Scrivono che è stato «trascinato dagli altri del gruppo», che per «colpa di altri la vita è rovinata» e ancora: «Con che coraggio si insultano gli innocenti», come se fosse lui a parlarne in prima persona, recuperando suoi video precedenti da usare come immagini.

[…] I genitori sottolineano tramite i legali che quel profilo non è opera loro, forse di amici, come a dire che è una questione generazionale, roba da ragazzi. 

[…] dietro un video, una tastiera o uno schermo touch è facilissimo sentirsi amici di qualcuno o condottieri di una battaglia che non è la propria.

E c’è quindi chi inventa un profilo falso, un fake, con dentro la faccia di quel minorenne, riprendendo un vecchio video in cui cammina per la strada con un amico, ma incollandoci sopra una scritta che per alcuni minuti è sembrata ai quotidiani online una notizia sconcertante: «C’è qualche ragazza che stasera vuole uscire con noi?». 

[…] deve entrare in azione la polizia postale per arginare il fiume delle invenzioni, delle provocazioni, per distinguere ciò che è vero e ciò che è falso […]

Estratto dell'articolo di Viviana Daloiso per “Avvenire” mercoledì 23 agosto 2023.  

A migliaia cercano online il video dell’aggressione alla ragazza di Palermo. L’indignazione al centro antiviolenza della città: «Una vittimizzazione secondaria di massa». Le storie delle altre giovani che subiscono violenza Al centro antiviolenza Le Onde onlus di Palermo sono giorni difficili. 

Alla struttura la segnalazione sul caso della ragazza stuprata dal branco a luglio, che la legge prevede sia fatta dalla polizia tutte le volte che viene presentata una denuncia come la sua, non è mai arrivata. «E speriamo che non sia sola, che sia seguita da chi l’ha accolta, visto che è stata soccorsa dal punto di vista sanitario» spiega la presidente Elvira Rotigliano. Qui di giovani donne segnate dalla violenza ne passano a centinaia ogni anno: oltre 700 le telefonate di soccorso registrate nel 2022, 220 le vittime aiutate a uscire dalla spirale degli abusi nello stesso anno. 

Ma, ciò che più preoccupa, un’impennata di casi di stupro: 20 le ragazze che da gennaio hanno denunciato le violenze sessuali subite dal proprio partner, sistematicamente. Più altre 8 che invece hanno vissuto l’incubo della vittima del branco: uno stupro subito per strada, una volta sola, ad opera di uno sconosciuto o di un conoscente, magari un compagno di scuola, o un vicino.

[…] Le foto dei profili Facebook dei giovani finiti nell’inchiesta sono state postate e condivise con migliaia di visualizzazioni. Commenti pieni d'odio in ogni piattaforma da Facebook, a Twitter, a Instagram e TikTok ma anche curiosità morbosa. Su Telegram in poche ore si sono formati tre gruppi, due pubblici e uno privato, che inizialmente contavano tra 12mila e 14mila iscritti (ma che adesso si sono dimezzati) con l'unico obiettivo di trovare il video dello stupro di gruppo di cui è stata vittima la ragazza di 19 anni.

Per non parlare di notizie e profili fake. Sempre su TikTok e Instagram sono spuntati falsi profili dei ragazzi arrestati, come quello del minorenne scarcerato e affidato a una comunità, che inneggia alla libertà ritrovata: «Il carcere è di passaggio si ritorna più forti di prima», o ancora «c’è qualche ragazza che vuole uscire con me?». «Ci sembra di non essere mai arrivati così tanto in basso – è il commento di Rotigliano –: siamo di fronte a una vittimizzazione secondaria di massa, per cui questa ragazza a cui andrebbe garantita protezione e sostegno, oltre che tutta la privacy, è invece esposta al pubblico ludibrio e al giudizio senza alcun ritegno». 

Vittima tre volte: del branco, del sistema e della solitudine che la porterà sicuramente lontana dai posti dove ha sempre vissuto, dove potrebbe essere riconosciuta (se non lo è stata già) e dove sarà impossibile ricostruirsi una vita. […] 

L. Sir. per il “Corriere della Sera” mercoledì 23 agosto 2023.

 Le accuse hanno retto. E ieri mattina è arrivata la conferma del carcere anche per Christian Barone, tra i primi tre ad essere arrestati per lo stupro della 19enne palermitana violentata la notte tra il 6 e il 7 luglio. Una decisione analoga a quella presa per i due coindagati, Angelo Flores e Gabriele Di Trapani, che pure rimangono dietro le sbarre. La linea di difesa adottata, che punta tutta sul consenso della vittima, non sembra aver fatto presa sul Tribunale del Riesame, che nei prossimi giorni dovrà decidere anche sulla libertà degli altri tre accusati: Samuele La Grassa, Elio Arnao e Christian Maronia.

Arrestati a distanza di un mese dai complici, comparsi ieri davanti al gip per l’interrogatorio di garanzia, tra le lacrime hanno giurato che la ragazza sapeva bene cosa stesse facendo. […] Maronia è stato il primo ad essere interrogato dal giudice. Cappellino, scarpe da ginnastica e tuta, si è presentato in tribunale accettando di rispondere. Ma davanti al gip è crollato in un pianto a dirotto. «Mi sono consumato (rovinato, ndr ) e chiedo scusa alla ragazza», ha detto. Su un punto però, che cozza con il presunto pentimento, è rimasto fermo: «Lei ci stava». Ha tenuto, invece, a ribadire di non aver partecipato alla violenza Samuela La Grassa. Il video girato da uno degli indagati e trovato dai carabinieri conferma che non avrebbe preso parte allo stupro. Ma è certo che abbia assistito senza muovere un dito. «Ho seguito gli altri, non sapevo cosa stesse succedendo, mi sono fatto trascinare. E ho capito la gravità dei fatti solo dopo. Mentre tutto accadeva ero pietrificato», ha detto al gip. A differenza degli altri, la vittima non l’aveva mai vista prima.

Non ha potuto negare di aver avuto un rapporto con la giovane il terzo interrogato: Elio Arnao, netto nel sostenere — a dispetto di quanto emerge dal video — che la 19enne avesse scelto liberamente cosa fare. Anzi, Arnao è andato oltre dicendo che la vittima li aveva invitati «a darsi da fare». Una tesi condivisa con il più giovane degli indagati, all’epoca dello stupro ancora minorenne. Il ragazzo, che ha compiuto da poco 18 anni, nei giorni scorsi è stato scarcerato. Il gip ha visto nelle sue ammissioni, una rivisitazione critica del suo comportamento.

«Il ragazzo è incensurato — ha scritto il magistrato — e ha rappresentato una versione dei fatti dalla quale, comunque, emerge un principio di resipiscenza». Ma in cosa sarebbe consistita la consapevolezza dell’errore non è chiaro. Tanto che la procura dei minori ha impugnato la scarcerazione. 

Estratto dell’articolo di Simona Pletto per “Libero quotidiano” mercoledì 23 agosto 2023.  

«Mi era stato detto che la ragazza era d’accordo a un rapporto sessuale di gruppo»... «Ma io credevo fosse consenziente»... «Eravamo cento cani sopra una gatta. Una cosa così solo nei film porno l’avevo vista...». Giovani stupratori incoscienti crescono. Vuoi per strategia difensiva, vuoi per un reale distacco dalla realtà amplificato dai social, fatto sta che quasi tutti i sette ragazzi arrestati venerdì scorso a Palermo con l’accusa di violenza sessuale di gruppo nei confronti di una 19enne, negli interrogatori, hanno dichiarato di non essere stati consapevoli di ciò che stavano facendo, o meglio di aver creduto che la vittima stordita appositamente prima con massicce dosi di alcol - in fondo «pareva che ci stava...».

In realtà, la 19enne li implorava di smettere, di finire quell’orrore. Invece loro ridevano e abusavano di lei. A turno. La parte peggiore sarebbe stata ripresa in un video del cellulare di due indagati. Come se conservare un ricordo di quella sofferenza fosse una sorta di ‘premio’ da concedersi. 

Al termine dell’incubo, i sette hanno lasciato la 19enne a terra, incapace di muoversi. Poi due ragazze l’avrebbero soccorsa. «Dai, che finiamo nel telegiornale», avrebbe detto uno degli indagati in una delle intercettazioni in mano agli inquirenti. Come se fossero legittimati dal fatto che la ragazza fosse ubriaca, inconsapevoli – o incuranti – del fatto che il sesso senza consenso è reato.

[…] «Mi sono rovinato la vita. Mi era stato detto che la giovane era d’accordo», ha aggiunto, confermando questa sorta di sconcertante “incoscienza” rispetto all’accaduto. Ha infine scaricato la colpa: «Ad organizzare tutto è stato Flores». 

Estratto dell'articolo di Lara Sirignano per il “Corriere della Sera” mercoledì 23 agosto 2023.  

[…] «Ci ha chiesto lei di avere rapporti, era consenziente», dice. Maronia, però, deve fare i conti con le intercettazioni che rendono la sua posizione tra le più delicate: «Lei non voleva, faceva “no basta”!» si sente in una sua conversazione con altri due indagati, registrata dai carabinieri. Una frase che, secondo gli inquirenti, proverebbe che il ragazzo sapeva bene che Francesca quel rapporto non lo voleva. «Non la conoscevo — si giustifica ancora lui con il giudice —. Era la prima volta che la vedevo, ma Angelo mi aveva detto che era una che ci stava».

Angelo è Angelo Flores, il personaggio chiave del gruppo. Ventidue anni, dell’Arenella, un quartiere popolare a due passi dai Cantieri Navali, lo stesso da cui viene la vittima. Erano amici lui e la ragazza. Anzi, secondo il giudice che ne ha disposto l’arresto, Francesca provava qualcosa per lui. È Flores a contattarla il pomeriggio del 6 luglio. È lui, secondo quanto raccontano gli altri indagati, a organizzare la serata assicurando che l’amica sarebbe stata disponibile. Lui e Francesca si danno appuntamento in un locale della Vucciria per la sera. 

La ragazza si fida. «Angelo era insieme a un certo Cristian e altri cinque di cui non so i nomi — racconta nella denuncia —. Poi mi hanno fatto fumare. Due di loro mi hanno preso sottobraccio. Mi hanno fatto camminare dai Quattro Canti a scendere verso il mare. Ero da sola con questi ragazzi, in tutto sette. Due mi toccavano il seno e altri due le parti intime, mentre camminavamo e gli altri ridevano. Siamo arrivati al Foro Italico e vi era un’apertura e mi hanno fatto entrare lì. Dopo che mi hanno spogliato».

Angelo non partecipa allo stupro, ma filma tutto. «Non mi ha toccata, ma si è limitato a filmare la scena con il telefono cellulare», racconta la 19enne. Francesca è certa che il video sia stato cancellato. «Se n’è sicuramente liberato perché si è spaventato nel vedere le mie condizioni». E invece, dimostreranno le indagini, quel filmato, che è la prova principale dell’accusa, Flores lo ha salvato. 

 Nelle immagini dello stupro lui non c’è, perché sta registrando, ma si sentono chiare la sua voce e le sue parole mentre incoraggia gli altri con espressioni volgari in dialetto ad abusare sessualmente della ragazza. Un’incitazione subito raccolta dai complici che adesso però, dopo aver seguito il loro «leader» la notte dello stupro, lo scaricano.

Dal più giovane degli indagati, all’epoca dei fatti minorenne, scarcerato dal gip che ha trovato nella sua confessione «una rivisitazione critica» del comportamento tenuto, a Samuele La Grassa, il quale in lacrime dice, «io non l’ho toccata, ho solo seguito gli altri e sono rimasto in disparte». Fino a Elio Arnao e Gabriele Di Trapani. È Flores, per loro, l’ispiratore della violenza. 

(ANSA giovedì 24 agosto 2023) - Torna in carcere il minorenne accusato, insieme ad altri sei ragazzi, della violenza di gruppo ai danni di una 19enne avvenuta il 7 luglio scorso a Palermo. Secondo quanto si apprende si tratterebbe di un aggravamento della misura cautelare che nei giorni scorsi il Gip gli aveva revocato, affidandolo a una comunità e sostenendo che il giovane avesse compiuto una "rivisitazione critica" del suo comportamento. Contro il provvedimento di scarcerazione aveva presentato ricorso la Procura per i minorenni.

Estratto dell’articolo di Armando Di Landro e Lara Sirignano per corriere.it giovedì 24 agosto 2023. 

[...] È Angelo Flores, 23 anni, che nella ricostruzione della Procura di Palermo ha avuto il ruolo di regista, o meglio di ispiratore, dello stupro di gruppo della 19enne palermitana violentata al Foro italico, a Palermo, la notte del 7 luglio.

Conosceva da tempo la ragazza, erano vicini di casa nel quartiere Arenella, ed è stato l’aggancio del branco per arrivare alla giovane.

È lui a filmare 20 minuti di violenza ed è rimasto a guardare senza battere ciglio, anzi ridendo mentre la vittima si accasciava a terra e incitandola a non lamentarsi. Di quel video girato puntando addosso all’amica la torcia del cellulare non ha cancellato nemmeno uno spezzone, rendendo il dramma ancora più acuto ma dando anche agli inquirenti la possibilità di ricostruire tutto [...] 

«Mi fidavo di lui» dice Francesca (nome di fantasia) agli investigatori dopo i fatti di quella notte. «Perciò mentre lo guardavo mi veniva da chiedermi perché mi stesse facendo questo, c’era un rapporto pregresso tra noi. Mi spronava ma io avevo le gambe mosce mi diceva oh oh… lui rideva», racconta la ragazza rivivendo l’orrore di una sera iniziata incontrando i sette in un locale della Vucciria di Palermo, meta della movida palermitana. Quello di Angelo Flores, Florentes per gli amici, è il primo nome che Francesca, inizialmente titubante nel rivelarne l’identità, fa ai carabinieri arrivata al pronto soccorso dopo la violenza.

«Lui non mi ha toccata, si è limitato a filmare», dice quasi a volerne attenuare le colpe. E a confermare il ruolo del ragazzo è anche il fidanzato della 19enne. «Mi ha detto un nome: Angelo che in passato ha provato a usare violenza su di lei ma non era riuscito perché rifiutato ma sono sicuro che la seguiva su Instagram. Lei mi ha detto la tale violenza è stata fatta nella totalità da sette persone giovani e non so se li saprebbe identificare o se li ricorda ma sicuramente c’era Angelo che è colui che ha architettato tutto», spiega agli inquirenti. Uno stupro che doveva essere una vendetta verso la ragazza che gli aveva detto di no? [...] Di certo Francesca non si aspettava il tradimento di Angelo. «Gli ho detto: mi fai stare sola con questi, sei pazzo?», racconta. 

[...] Angelo Flores sta emergendo come un duro che di fronte alla realtà, quella dell’arresto, ha cambiato registro. Anche il suo profilo TikTok tradisce la volontà di scimmiottare chi duro è stato davvero, per esempio quando mima con le labbra le parole di una canzone che mette in sottofondo, scritta dal rapper canadese Tory Lanez, 31 anni, tra gli artisti più importanti sulla scena, fondatore di un’etichetta discografica per l’autoproduzione.

Ma non c’è solo la scena artistica di ultima generazione, a sorpresa su TikTok spunta anche Marco Risi, con Ragazzi Fuori: Flores mima la risposta di Natale (Francesco Benigno) , uno dei minorenni siciliani protagonisti del film, appena usciti dalla casa di detenzione, che sulla spiaggia dice: «Minchia tre anni...che non faccio il bagno», provocato dagli altri amici che gli hanno chiesto: «Da quanto?». «E scommettiamo che me lo faccio?». Una citazione curiosa, forse con la volontà di mitizzare quelli che nel film erano dei pregiudicati fin da giovanissimi.

[...]

I post del minorenne accusato dello stupro di Palermo e rimandato in cella: «Le cose belle si fanno con gli amici». Lara Sirignano su Il Corriere della Sera giovedì 25 agosto 2023.

Si vantava su TikTok dopo la scarcerazione. Il gip: «Aveva finto di ravvedersi»

Riempire di post i social è stata la prima cosa che ha fatto dopo aver lasciato il carcere. Ripreso in mano il cellulare, prima ancora di arrivare alla comunità in cui, su decisione del gip che l’aveva scarcerato, avrebbe dovuto iniziare un percorso educativo, il più piccolo dei sette ragazzi accusati dello stupro di una 19enne palermitana avvenuto a luglio, ha creato un nuovo profilo TikTok e ha ricominciato a scrivere. Cosa avesse detto al giudice nell’interrogatorio di garanzia per convincerlo del suo ravvedimento, non si sa, ma le decine di frasi postate a poche ore dalla liberazione raccontano totale mancanza di scrupoli, arroganza e volgare compiacimento di sé.

I messaggi

«La galera è il riposo dei leoni», ha scritto l’indagato, diventato maggiorenne pochi giorni dopo gli abusi. E ancora «le cose belle si fanno con gli amici», chiara allusione alla violenza del branco. O, pavoneggiandosi per i messaggi ricevuti da diverse ragazze dopo l’arresto: «come farò a uscire con tutte?». Gli screenshot con la bulimica presenza su TikTok del giovane sono finiti in una relazione destinata alla procura dei minori insieme alle chat trovate nel cellulare dell’indagato: messaggi che dimostrano che sapeva bene che la vittima non era consenziente. «Compare, l’ammazzammo, è svenuta più di una volta — diceva il giovane aggressore a un amico, il giorno dopo la violenza — Ci siamo divertiti».

Nuovo arresto

Per il pm ce ne è abbastanza per richiedere un nuovo arresto. E stavolta il gip, che giovedì ha firmato il secondo ordine di carcerazione, è d’accordo. «Abbiamo fatto un macello, lei si è sentita male ed è svenuta più volte», si legge in un altro messaggio. «Però è brutto così», risponde al minorenne l’interlocutore, molto impressionato dai racconti degli abusi. «Macché, è troppo forte», replica il ragazzino dimostrando, a parere del giudice, che «lungi dall’avere iniziato un percorso di consapevolezza, ha continuato a usare il telefono per vantarsi delle sue gesta, cercare consenso sui social e manifestare adesione a comportamenti criminali».

Finto ravvedimento

Anche sul ravvedimento mostrato nel primo interrogatorio e, in qualche modo condiviso, come se fosse stato frutto di una strategia comune, dai sei complici ventenni, il gip ha un’opinione ben precisa: è stato solo un mezzo usato per uscire di prigione. «Anche se fosse solo rimasto in disparte a guardare, senza aiutare la ragazza, meriterebbe la galera. Mi fa schifo», commenta un amico del violentatore. I due si conoscono dall’infanzia e le loro famiglie si frequentano da anni. «I genitori sono distrutti — fa sapere attraverso la voce della madre — Dicono di aver creato un mostro. Se lo avessi davanti lo prenderei a pugni».

Trasferiti dopo le minacce

E, mentre il minorenne tornava in cella, i sei complici lasciavano l’istituto di pena Pagliarelli di Palermo, in cui erano reclusi dall’arresto. Gli altri detenuti non li volevano e l’hanno fatto capire chiaramente con insulti e tentativi di aggressione. Tanto che il Dipartimento per l’Amministrazione penitenziaria, temendo il peggio, ha deciso di trasferirli altrove.

#iononsonocarne

L’enorme eco mediatico e social dello stupro di Palermo intanto continua a mobilitare personaggi dello spettacolo e della politica. Una serie di volti noti — da Alessio Boni a Maria Grazia Cucinotta, da Alessandro Preziosi a Caterina Baliv o, passando da Maria Elena Boschi e Nicoletta Romanoff —, hanno rilanciato l’hashtag #iononsonocarne. La frase scritta in rosso sulle mani, o sovraimpressa sul volto di chi la condivide, è una campagna ideata da F, settimanale di Cairo Editore, e lanciata sulla pagina Instagram di Fab!. Fa riferimento a un messaggio inviato nella chat da Angelo Flores, il leader del branco che, parlando con un amico, tentava di giustificare lo stupro proprio con le parole «la carne è carne».

La chat dell'orrore dopo lo stupro: "Troppo divertente. L'abbiamo ammazzata". I vocali di R. P., minorenne all'epoca dei fatti, ricostruiscono i dettagli dell'aggressione al Foro Italico: "Abbiamo combinato un macello, lei è svenuta più di una volta..." Roberto Chifari il 25 Agosto 2023 su Il Giornale.

Ad inchiodarlo stavolta sono state le chat di gruppo su cui i carabinieri proseguono le indagini della violenza di gruppo, perpetrata ai danni di una loro coetanea la notte del 7 luglio. Messaggi che il giovane ha scambiato con un amico la sera della violenza, alle 2.12, che inquadrano perfettamente la situazione attuale. Non è facile tradurli nel contesto dialettale ma serve però ad inquadrare l'indole del ragazzo. "Cumpà l'ammazzammu! ti giuro a me matri, l'ammazzammu, ti giuro a me frati, sviniu... Sviniu chiossai di na vota... (Compare, l'abbiamo ammazzata! Ti giuro su mia madre l'abbiamo ammazzata, ti giuro su mio fratello è svenuta. E' svenuta più di una volta, ndr)".

Sulla scorta di queste conversazioni avvenute subito dopo i fatti, la Procura ha chiesto e ottenuto un aggravamento della misura cautelare. Così torna in carcere il minorenne, ai tempi dei fatti, accusato dello stupro. "Tali nuovi e sopraggiunti elementi investigativi tratteggiano la personalità di un giovane che, lungi dall'aver avviato un percorso di consapevolezza del gravissimo reato commesso avendo ottenuto condizioni di maggiore libertà con l'inserimento in comunità, ha continuato ad utilizzare il telefono cellulare e/o altro dispositivo informatico per vantarsi delle sua gesta e per manifestare adesione a modelli comportamentali criminali", ha scritto il gip del tribunale dei minorenni di Palermo, Antonina Pardo nel provvedimento. Il giovane aveva lasciato il carcere sabato scorso, dopo aver confessato davanti al gip Alessandra Puglisi, che aveva disposto per lui il collocamento in comunità sostenendo che il giovane avesse compiuto una "rivisitazione critica" del suo comportamento.

"Ficimu un macello: n'addivertemmu in 7, troppi cianchi!"

In alcuni messaggi vocali scambiati con un amico la stessa notte della brutale violenza racconta l'orrore andato in scena nel cantiere abbandonato al Foro Italico. "Cumpà, ficimu un macello, n'addivertemmu, troppi cianchi (Compare, abbiamo fatto un macello, ci siamo divertiti, troppe risate, ndr)", spiega al suo interlocutore, al quale, con un linguaggio crudo e volgare, racconta cosa hanno fatto in sette. "Ficimo un macello. Siamo stati un quarto d'ora compà e in un quarto d'ora lei si è sentita male ed è svenuta più di una volta", aggiunge. "Però così è brutto", replica il suo amico e lui, che - ammette - quella ragazza "neppure la conoscevo", risponde: "ahah troppo forte, invece". Messaggi choc finiti oggi nell'ordinanza con cui il gip ha ricostruito la notte di violenza e orrore.

Il vanto sui social

"Chi si mette contro di me si mette contro la morte" e "le cose belle si fanno con gli amici", sono alcune delle frasi pubblicate sui social. Che per gli esperti e per la rete sono fake, ma per gli inquirenti avrebbe scritto lo stesso indagato. Addirittura avrebbe attivato un secondo profilo e avrebbe postato: "Sto ricevendo tanti messaggi da ragazze, ma come faccio a uscire con tutte? Siete troppe" e ancora: "Ah e volevo ringraziare a chi di continuo dice il mio nome, mi state facendo pubblicità e hype". Sono emersi così, nuovi elementi dunque grazie alle indagini dei carabinieri e alla perizia tecnica commissionata dall'accusa sul telefono dell'indagato. Che ha continuato a postare su Tik Tok, anche quando era stato spedito in una comunità di recupero. "Arriviamo a 1000 follower così potrò fare la live e spiegarvi la situazione com'è andata realmente", scriveva R.P. che nel provvedimento della gip - si legge "la chat rivela la tua totale insensibilità rispetto all'atrocità commessa, considerata fonte di divertimento e il suo disprezzo per la vittima". Tutto questo, secondo la gip - induce a ritenere che"le parziali ammissioni dell'indagato in sede di interrogatorio di garanzia hanno avuto una valenza assolutamente strumentale volta unicamente ad ottenere l'attenuazione della misura".

"Nessun pentimento, ma ricerca di fama sui social"

Si vantava delle sue gesta, senza avere il minimo rimorso di quello che era successo. Il giudice ritiene che "sussiste alto rischio di commissione di altri reati della stessa specie di quello per cui si procede avuto riguardo alla personalità di R. P. il quale non solo non ha avviato alcun autentico percorso di revisione critica del suo operato ma ha anche dimostrato di essere assolutamente incapace di una sia pur minima autoregolazione emotiva ricercando sui social fama e notorietà per quanto orribilmente accaduto e compiacendosi del successo ottenuto con le ragazze che lo hanno contattato".

Estratto dell’articolo di Riccardo Lo Verso per “il Messaggero” giovedì 24 agosto 2023.

[...] I sei giovani detenuti (il settimo e più piccolo si trova in una comunità) per la violenza sessuale di gruppo subita lo scorso 7 luglio da una ragazza di 19 anni sono stati aggrediti verbalmente sin dal loro arrivo nel carcere palermitano Alberto Lorusso.

L'asticella degli insulti si è alzata ogni giorno di più. Meglio non correre rischi e trasferire i detenuti altrove, mantenendo il massimo riserbo sulle località prescelte.

Il penitenziario è un microcosmo che rispecchia il sentimento che dilaga nel mondo esterno, dove la vicenda ha provocato disgusto e rabbia. Una rabbia che a volte degenera nell'odio social.

Ed è per questo che la direzione del carcere Pagliarelli ha chiesto di valutare l'immediato «allontanamento per prevenire possibili azioni destabilizzanti per l'ordine e la sicurezza» di tutti e sei i maggiorenni arrestati. Alla richiesta verrà dato seguito nelle prossime ore. Giusto il tempo necessario al Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria di individuare in quali carceri trasferire gli arrestati. 

La presenza di Angelo Flores, Elio Arnao, Christian Maronia, Samuele La Grassa, Gabriele Di Trapani e Cristian Barone non è gradita agli altri detenuti. La nota della direzione li definisce genericamente «invisi» alla popolazione carceraria. [...] 

 I rischi sono stati messi nero su bianco in una relazione di servizio della polizia penitenziaria. Da qui la richiesta urgente della casa circondariale inviata al provveditorato regionale dell'amministrazione penitenziaria e alla Procura della Repubblica di Palermo. «Atteso che l'elevato clamore mediatico della vicenda ha determinato la piena conoscenza dei fatti anche da parte della restante popolazione detenuta, ragion per cui (i sei indagati, ndr) sono invisi alla stessa si legge nella nota del carcere inclusi i detenuti delle sezioni protette ove sono allocati con divieto d'incontro, che con non poche difficoltà si riesce a garantire, atteso che i detenuti coinvolti nella vicenda sono 6».

[...] A denunciare il clima di odio che si respira in carcere sono stati i legali degli indagati che oggi incontreranno i loro clienti. I parenti degli arrestati hanno deciso di passare all'azione. Si sono presentati in commissariato e hanno presentato denuncia contro ignoti per i messaggi di minacce e gli insulti ricevuti da quanto si è diffusa la notizia che i loro figli e fratelli sono stati arrestati. Bersaglio di invettive e offese. La richiesta è diretta: identificare gli autori dei commenti, chi ha aperto i profili fake dei parenti arrestati per divulgare vecchi video con frasi di sfida, chi ha postato le foto degli indagati "dandole in pasto a milioni di persone". Le indagini passano adesso alla polizia postale. Non sarà facile setacciare i social network e orientarsi fra migliaia di post e commenti sulla vicenda.

Estratto dell’articolo di Lara Sirignano per il “Corriere della Sera” giovedì 24 agosto 2023.

[...] La Rete — divisa tra il disprezzo per il gruppo dei giovani sotto accusa e la caccia perversa, stigmatizzata dal ministro Salvini, al video girato da Angelo Flores, il leader he ha filmato le violenze col cellulare — ha preso di mira anche genitori e fratelli dei ragazzi. Centinaia le minacce di morte e i commenti volgari denunciati alla polizia, che dovrà anche provare a risalire a chi, nei giorni scorsi, ha realizzato i profili fake dei presunti stupratori e a chi ha postato le loro foto dandole in pasto a milioni di persone e alimentando un odio ormai virale. Il caso ha avuto un’eco enorme [...] 

[...] La strategia difensiva potrebbe ora mirare a screditare la 19enne. Agli atti del procedimento sarebbe stata depositata una vecchia consulenza del Tribunale dei minori (Francesca, orfana di madre e cresciuta senza padre, ha passato anni in una comunità) in cui si insinuano dubbi sulla sua affidabilità. Una valutazione a cui risponde la perizia disposta dalla Procura di Palermo guidata da Maurizio de Lucia che, invece, pur sottolineando la fragilità emotiva della giovane, elemento che per l’accusa aggrava le condotte degli indagati, ne ribadisce l’assoluta idoneità a testimoniare.

Il narcisismo social ha peggiorato tutto: l'analisi di Feltri. Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 27 agosto 2023

 Gli ultimi fatti di cronaca relativi alle violenze sessuali di gruppo avvenute sia a Palermo che a Caivano impongono riflessioni e provvedimenti urgenti che, a mio avviso, non possono consistere nella castrazione chimica, misura che incontra un largo consenso popolare ma che pure ha il carattere della vendetta e non realizza quel principio della giustizia riparativa sul quale dovrebbe poggiare il nostro ordinamento. Sarebbe più utile intervenire sul piano educativo e culturale, iter sicuramente più lungo e complicato, ma anche più efficace per costruire una società in cui le nostre figlie e le nostri nipoti non siano mai più adoperate alla stregua di oggetto sessuale da parte di un branco di delinquenti, sempre più spesso minorenni, il che è alquanto inquietante.

Si tratta di un fenomeno di epoca recente e lo posso confermare io stesso, avendo alle spalle ben sessant’anni di attività all’interno delle redazioni, dove cominciai occupandomi dapprima di musica e cinema e subito dopo proprio di cronaca nera. Nel Novecento e agli albori del nuovo millennio questi crimini compiuti dal gruppo, dove ciascun individuo – è opportuno specificarlo – ha una responsabilità penale individuale che non può assolutamente scaricare sulla comitiva, erano rarissimi. Negli ultimissimi anni, invece, il loro susseguirsi è incalzante, tanto che è anche lievitato il numero dei minorenni autori di questo genere di delitti i quali si trovano all’interno delle comunità sparse sul territorio nazionale. Insomma, lo confermano dati e statistiche, non è semplicemente una nostra percezione.

Mi sono chiesto, dunque, per quale ragione oggi si verifichino più di ieri. Il dilagare della pornografia, secondo me, non è una motivazione determinante, quantunque sia naturalmente convinto che certi contenuti possano deviare la sessualità di creature in sviluppo e, quindi, l’accesso tramite il telefonino ai siti vietati ai minori dovrebbe essere reso impossibile, ma sappiamo che, al contrario, esso è molto agevole.

C’è un dato ricorrente, se ci pensiamo bene, al di là della condivisione del delitto e della violenza di carattere sessuale, nonché di quello della giovanissima età sia delle vittime che degli stupratori: l’elemento che emerge con prepotenza ritengo che sia la natura prettamente esibizionistica dell’azione criminale. 

E' su questo che dovremmo focalizzarci per comprendere le cause che ci hanno condotto ad una simile deriva umana e civile e di qui eliminarla. Si stupra per filmare l’abuso e per poi fare girare il video sugli iPhone degli amici o per caricarlo sui social network. E' questo l’obiettivo fondamentale della violenza in sé, cosa agghiacciante, in quanto ne deriva che i soggetti autori della tortura non nutrono la benché minima consapevolezza della assoluta gravità delle loro azioni, tanto che queste rappresentano un motivo di vanto, di riconoscimento sociale, la prova del loro valore e non della loro miseria, la dimostrazione del loro essere maschi e non l’inconfutabile segno di mancanza di virilità, dal momento che chi ricorre alla forza non è per ciò stesso più uomo bensì per ciò stesso meno potente, ovvero un vigliacco, la realizzazione dell’esatta antitesi del concetto di mascolinità.

L’esibizionismo imperante, alimentato dai social network dove ciascuno quotidianamente tenta con ogni mezzo di apparire e farsi notare per godere del suo momento di popolarità, che sia negativa o positiva poco importa, è divenuto tanto malato da indurre sempre più frequentemente i ragazzi a macchiarsi di reati così orribili come la violenza sessuale di branco. Basti considerare che il minorenne accusato di avere partecipato allo stupro di Palermo che, nel frattempo, ha compiuto i 18 anni, è stato dapprima scarcerato in quanto il Gip ne aveva sottolineato la resipiscenza, ovvero una sorta di lucida coscienza del proprio errore unita alla volontà di intraprendere un percorso di rieducazione, e poi arrestato di nuovo proprio perché il neo-maggiorenne in questione ha caricato su TikTok numerosi video in cui si compiaceva di avere preso parte alla sevizia. 

Stupri a Caivano e Palermo, Ricolfi: “Se le istituzioni rinunciano a esercitare l’autorità, si vive in una società più tollerante e meno repressiva”. Edoardo Sirignano su L'Identità il 26 Agosto 2023

“Se i genitori non fanno più i genitori, se la scuola diventa ostaggio delle famiglie, se le istituzioni rinunciano a esercitare l’autorità, certo che si vive in una società più tollerante e meno repressiva”. A dirlo il sociologo Luca Ricolfi.

Inferno nel parco verde di Caivano. Vittime sono delle bambine di 10 e 12 anni.

Sembrava che il caso di Palermo fosse stato l’ultima storia di stupri. Siamo in un Paese

malato?

Sì, ovviamente. Ma in Europa, e più in generale in occidente, sono tanti i paesi in cui i femminicidi, o gli stupri, o entrambi i reati sono più frequenti che in Italia. Anche le civilissime Svezia, Norvegia, Finlandia, Danimarca, Olanda hanno numeri inquietanti.

Come la mettiamo?

Già, come la mettiamo? Forse è giunto il momento di farci la domanda cruciale: non siamo ancora abbastanza civili, o è il nostro tipo di civiltà che rende endemica la violenza sulle donne?

Lei come risponde?

Propendo per l’idea che la nostra civiltà, che si basa sempre più su un mix sbilanciato fra diritti e doveri (tutto a favore dei diritti individuali), sia sempre meno capace di contenere le pulsioni individuali. Abbiamo un bel criticare il patriarcato, ma dimentichiamo che il padre non è solo il maschio-bianco-eterosessuale prepotente che sottomette la povera femmina indifesa, ma è anche il super-io che limita le richieste dell’es. Siamo in una “società senza padre”, come aveva profetizzato Alexander Mitscherlich fin dall’inizio degli anni ’60 con il suo libro omonimo (Verso una società senza padre, uscito nel 1963), e questo significa necessariamente due cose complementari, che non possono andare l’una senza l’altra: più libertà, ma anche meno freni.

Quali sono, a suo parere, i motivi che spingono i giovani verso comportamenti così inspiegabili?

Veramente io non li trovo inspiegabili. Direi anzi che sono spiegabilissimi, e sono solo la punta dell’iceberg. A quel che risulta da alcune indagini statistiche, per ogni stupro denunciato ve ne sono almeno 10 non denunciati. Senza contare tutti i casi di prevaricazione sessuale, ai confini dello stupro. La spiegazione ovviamente non può essere condensata in una formula, ma credo che il fattore più importante, la matrice di tutto, sia la completa mancanza di una “educazione sentimentale”, per usare un termine ottocentesco. Dove per educazione sentimentale intendo un percorso lungo e accidentato di avvicinamento al sesso, un percorso che aveva nel pudore e nell’arte del corteggiamento i suoi caposaldi. Quello che la mia generazione e quella successiva non paiono aver compreso è che la liberazione da ogni inibizione e da ogni autorità ha ottime ragioni dalla sua parte, ma ha anche un costo. Se i genitori non fanno più i genitori, se la scuola diventa ostaggio delle famiglie, se le istituzioni rinunciano a esercitare l’autorità, certo che si vive in una società più tollerante e meno repressiva, ma non ci si può stupire che una frazione della gioventù sia senza freni, e lo sia molto precocemente. E non importa dove: può essere nei quartieri chic di una grande città, come in una periferia degradata ostaggio della criminalità organizzata.

Quanto influiscono i social?

Direi che sono decisivi. I media, piuttosto ingenuamente, parlano della scuola e dell’università come luoghi di competizione sfrenata, dove l’ansia da prestazione divorerebbe una gioventù fragile e infelice, tentata dal suicidio. Non si accorgono che la competizione c’è, ma non è per ottenere buoni voti, bensì per eccellere nel gruppo dei pari, massimizzando il numero di like, facendo circolare video più o meno spinti (il cosiddetto sexting), compiendo gesta clamorose: atti vandalici, risse di strada, scippi, stupri individuali e di gruppo. Ragazzi e ragazze sono sottoposti a una pressione mostruosa per evitare lo stigma di compagni e amici, l’incubo di non essere nessuno.

I ragazzi di oggi sono più violenti di quelli di ieri?

Probabilmente sì, ma io userei un altro termine: direi più spregiudicati.

Le istituzioni cosa possono fare rispetto a quanto si sta verificando?

Qui voi vi aspettate la ricetta del sociologo. Ma, proprio come sociologo, vi rispondo: quasi nulla. Inutile aumentare le pene, se poi lo stupratore non finisce in carcere, o ci resta poco. Patetico dire che deve cambiare la mentalità, che è un problema culturale, che bisogna educare. Educare? Adesso ce ne accorgiamo? C’è bisogno di uno stupro di gruppo per farci accorgere che non lo facciamo più da mezzo secolo?

Non le sembra che il dibattito politico affronti questioni marginali, ignorando le problematiche vere del Paese?

Non credo che le questioni affrontate dalla politica siano marginali, semmai il problema è che le “problematiche vere” (compresa la violenza sulle donne) sono troppe.

Estratto dell’articolo di Tommaso Coluzzi per fanpage.it mercoledì 23 agosto 2023.

Lo stupro di Palermo, secondo la ministra della Famiglia, è (anche) colpa del porno. Eugenia Roccella, intervenendo ieri pomeriggio al meeting di Rimini, ha lanciato la sua proposta, nei giorni in cui si continua a parlare dei terribili fatti avvenuti nella città siciliana. La ministra ha parlato di una campagna di sensibilizzazione, certo, ma ha anche lasciato intendere che lo stupro di gruppo è avvenuto per via di un'influenza negativa della pornografia. 

"Stiamo preparando una campagna nelle scuole, ma il caso di Palermo è stato lampante su questo – ha detto la ministra della Famiglia – c'è un problema proprio di una sfida educativa che dobbiamo vincere e che richiede forse anche altri strumenti, per esempio un intervento sul controllo nei confronti della fruizione da parte dei minori del porno". Va detto che la pornografia, ovviamente, è già vietata ai minori di diciotto anni, ma anche che aggirare i filtri online – se e quando esistono – è un gioco da bambini, neanche da ragazzi. 

[…] Durante il suo intervento al meeting, poi, Roccella è anche tornata su una sua vecchia affermazione riguardante le donne: "Le donne dicono che vogliono due figli, ma poi non li fanno perché c'è un problema di libertà e di difficoltà di conciliare quello che oggi sono le aspirazioni delle donne ma non solo – ha detto – Io sono stata accusata su una cosa che riguardava lo Spritz. 

Avevo detto c'è un'alternativa tra lo Spritz e i figli, fra uno stile di vita per raccogliere le possibilità di divertimento che può offrire la contemporaneità e i figli. Noi vogliamo che le donne possano avere i figli e anche lo Spritz". 

Dal “Corriere della Sera” mercoledì 23 agosto 2023.

«Siamo un branco di falliti. Qualcosa è andato male nel nostro progetto genitoriale ed educativo». Queste le frasi pronunciate dalla professoressa palermitana Giovanna Corrao in un video appello diventato virale che ha superato i 4 milioni di visualizzazioni. La docente, che insegna letteratura, bacchetta le famiglie puntando il dito contro «i vili e ipocriti» che lasciano i «figli da soli davanti ai cellulari».

Estratto dell’articolo di open.online sabato 26 agosto 2023.

La proposta della ministra per Famiglia Eugenia Roccella, ovvero vietare ai più giovani l’accesso ai video pornografici, ha guadagnato un inaspettato sostenitore: Rocco Siffredi, la star italiana del genere. 

A Hoara Borselli su Libero, spiega nel dettaglio il suo punto di vista: «Finalmente si è capito qual è il problema! È da una vita che lo dico. Perché la politica si pone il problema solo adesso? Perché hanno permesso la proliferazione di siti pornografici in rete accessibili e gratuiti, fruibili con facilità da ragazzini giovanissimi, trasmettendo loro messaggi distorti sulla sessualità? Ho scritto alla ministra, dopo la sua dichiarazione».

[…] 

Alla base delle atroci notizie riguardo violenze sessuali di gruppo (prima a Palermo e poi, più recentemente, a Napoli), secondo Siffredi, ci sarebbe anche «un’autostima completamente azzerata»: «I ragazzi pensano da soli di non essere in grado di soddisfare sessualmente la donna e quindi ricercano supporto e si muovono in branco. Ma questo non è da imputare solo alla pornografia, bensì a chi non dà la possibilità di spiegare loro che quello che vedono nei film hard è finzione. Qui sta il vero problema».

«La verità – prosegue Siffredi – è che i ragazzi non si sentono rappresentati da nessuno che possa spiegare i pericoli che incontrano in rete. Si trovano a navigare in un oceano di pescecani senza che nessuno possa dirgli come difendersi». 

Aiuterebbe, insomma, una maggior consapevolezza. In particolare, sapere che «ciò che vedono nei film è pura finzione. Che agli attori maschi vengono fatte punture. Che per garantire loro quell’erezione che può durare ore, gli vengono iniettate sostanze micidiali. Che le donne, le attrici, per non sentire dolore derivante dalla rigidità del membro dopato, vengono anestetizzate. Voglio dire ai ragazzi che quello che viene riprodotto nei film pornografici non rappresenta la realtà. Che persino le eiaculazioni sono finte: viene fatta l’iniezione di una sostanza bianca nell’uretra dei maschi».

Bisogna dunque «impedire ai più giovani di assimilare per vero ciò che vedono», ma non solo: «Blocchiamo tutti i siti porno in rete. Se necessario, mi offro come portavoce e accetterei anche la chiusura del mio sito. Per aiutare i giovani questo e altro. Io mi sento un po’ responsabile di ciò che sta accadendo, più come padre che pornostar. Perché noi non siamo educazione sessuale. Non nasciamo per quello, nasciamo come intrattenimento». Un campo in cui «anche se c’è violenza c’è sempre consenso. Il sesso estremo piace». 

E riguardo la castrazione chimica per gli stupratori, invocata da ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Matteo Salvini? Siffredi, su questo punto, «dice no»: «Non è questa la soluzione risolutiva. Stiamo parlando di ragazzi di vent’anni e dobbiamo sperare in un loro recupero, non nella castrazione. Una volta che ne abbiamo castrati dieci, venti, trenta, cosa abbiamo risolto? Nulla. Non può essere la soluzione». […]

Stupri e pornografia online: siamo sicuri che ci sia una correlazione? Dopo i fatti di Caivano e Palermo la ministra Roccella propone il divieto per i minori. Ma forse servirebbe di più un “esercito di insegnati elementari”, come ha suggerito don Patriciello. Chiara Lalli su Il Dubbio il 5 settembre 2023

“Qualcuno potrebbe dirmi dove posso trovare Anna Gunn così l’ammazzo?”. Mi viene in mente ascoltando e leggendo i commenti agli stupri, al porno da vietare ai minorenni, ai divieti e Rocco Siffredi che dà ragione a Eugenia Roccella che è d’accordo con don Maurizio Patriciello, parroco di San Paolo Apostolo di Parco Verde. Anna Gunn è un’attrice e la sua colpa è stata interpretare la moglie di Walter White nella serie Breaking Bad. È lei stessa a raccontarlo in un pezzo sul New York Times, “I Have a Character Issue”. Sono passati dieci anni ma la questione principale è sempre la stessa: la capacità di distinguere la realtà dalla finzione.

Due premesse che sono ovvie ma non si sa mai: la violenza e lo stupro sono moralmente orrendi e farsi alcune domande su come contenerli e ridurli non significa giustificare violenti e violentatori. È solo che sembra di ascoltare rimedi soltanto di superficie e di posizionamento politico, rimedi affrettati e senza che ci siano dati affidabili o dubbi riguardo alle soluzioni coercitive. Se penso alla proposta di limitare il porno (qualsiasi cosa significhi, sia porno sia limitare) agli adolescenti, mi chiedo: come si fa e, soprattutto, servirebbe? E poi: la violenza sessuale è davvero aumentata (e cambiata rispetto al passato) e cosa c’entra la pornografia?

Sembra verosimile immaginare delle conseguenze per la facilità con cui si accede oggi al porno, a differenza di anni fa in cui o facevi l’ormai classica scena di infilare Orgasmo sotto a millemila altre cose tra cui la rivista della fede e Newsweek (è ovviamente Woody Allen nel Dittatore dello stato libero di Bananas) o ti arrivava un VHS di contrabbando una volta ogni sei mesi se eri fortunato. Ma quali sono queste conseguenze? E sono tutte negative? E pensare di tornare al bel tempo che fu è possibile? Perché sembra un luddismo pornografico più nostalgico che sensato.

Sembra anche verosimile che molto del pubblico del porno potrebbe avere qualche difficoltà nel distinguere una ammucchiata messa in scena (sottotitoli: attori, finzione, consenso – almeno così dovrebbe, poi gli abusi e i registi stronzi ci sono ovunque) dalla realtà (snuff movie compresi). Questo non significa che guardo una gang bang e dopo dieci minuti esco di casa per riprodurre quello che ho visto con persone non consenzienti, anzi forse la soddisfazione di una fantasia potrebbe avere un effetto benefico e contenitivo delle azioni brutali.

Ma quello che ascoltiamo e vediamo ha delle conseguenze, soprattutto su cervelli non ancora formati, e bisognerebbe provare a capire quali sono e perché uno stimolo su alcune causa (più spesso concausa) un comportamento violento e su altri non ha alcun effetto. E come distinguere una correlazione da una causazione. La risposta non può che essere molto complicata da trovare perché è complicato isolare le variabili.

L’altra difficoltà è capire quali sono le intenzioni e come si dimostra il consenso. Una azione, così come un rapporto sessuale, può essere la stessa ma la valutazione morale diversissima. Lo stupro non dipende dalla violenza materiale ma dall’assenza del consenso, la brutalità del rapporto sessuale non è una condizione né necessaria né sufficiente (sottotitoli: può piacermi qualunque forma di sesso e se sono d’accordo è una mia scelta; può esserci abuso anche senza violenza fisica).

La interpretazione semplicistiche sono un po’ ridicole, come dire che guardi Don Matteo e ti fai prete. Ma sono rassicuranti, si capisce. E allora cosa si fa? Se lo sapessi non starei qui a farmi domande, però almeno cerchiamo di non sprecare tempo e soldi in soluzioni coercitive e moralistiche, sbagliate e inutili.

D’altra parte la stessa Roccella aveva scritto (sul suo profilo il 27 agosto scorso): «Non è solo una questione di controllo e di divieti, è una questione educativa. Oggi ne hanno parlato, fra gli altri, Luca Ricolfi e Annamaria Bernardini de Pace. Si tratta di capire cosa offriamo ai nostri ragazzi, di cosa nutriamo gli anni della loro formazione come persone, come interpretare la genitorialità in un mondo sempre più complesso nel quale il gruppo dei pari sembra prendere sistematicamente il sopravvento sulle relazioni “verticali”».

Insomma, più che cercare di bloccare l’accesso al porno servirebbe un “esercito di insegnati elementari”, come ha suggerito Patriciello citando Gesualdo Bufalino.

Da adnkronos.com sabato 2 settembre 2023.  

"Il porno alimenta la violenza? Non sono d'accordo, semmai è il contrario". Così all'Adnkronos l'attore e regista hard Rocco Siffredi, commentando un articolo di Lilly Gruber nel quale la giornalista, dalle colonne di 7, il settimane del Corriere della Sera, individua nella pornografia dilagante online, il colpevole, almeno parziale, dell'aumento dei casi violenza contro le donne e dei recenti stupri - come quello di Caivano o Palermo - commessi sempre più da ragazzi giovanissimi. 

"Il problema alla base di questo fenomeno è che il sesso, oggi, è accessibile anche ai minori e in modo indiscriminato. Bisognerebbe fare educazione sessuale ai più giovani, ma anche un'educazione tecnologica in modo che tutti sappiano cosa vedere o non vedere sul proprio telefonino. Non è vero però che il porno incita alla violenza contro le donne o alla strumentalizzazione del corpo femminile; semmai è la violenza insita nella società odierna che si riversa di conseguenza anche sul porno", precisa Siffredi. 

"Io faccio l'attore porno da quarant'anni - prosegue ancora il colosso di Ortona, come viene chiamato nel suo ambiente, - e negli anni ho visto questo mondo cambiare. Quando ho cominciato, negli anni '80, il sesso lo si faceva in modo normale. Negli anni '90, poi, abbiamo iniziato a girare le prime scene di rapporti anali, ma di violenza ce n'era poca, quella è subentrata negli anni Duemila, con l'avvento di internet. All'epoca, noi attori avevamo un copione, c'era una storia dietro alle scene di sesso. Oggi non è più così. Oggi ci sono piattaforme che si basano sulla raccolta delle preferenze degli utenti, come delle banche dati, che poi a seconda di ciò che le persone vogliono vedere preparano poi dei contenuti". 

E tra questi, sembrerebbe che le richieste di scene di sesso molto forti, come quelle di gang-bang et similia, siano in forte crescita. "Io ho sempre considerato l'industria del porno lo specchio del sentire della società. E se c'è un aumento della richiesta di questo tipo di scene è perché c'è un aumento di violenza. Ormai molti registi porno - non tutti per fortuna, ma alcuni sì - hanno smesso di preoccuparsi del benessere delle attrici; ad esempio, la donna soffre per una tripla penetrazione anale?

Le si fa una punturina per anestetizzare. Non ci si rende conto che così, quello che si anestetizza, insieme a tutto il resto, è la coscienza dei nostri giovani, lasciati soli con in mano un telefono che gli apre un mondo che non sono in grado di gestire e comprendere. I video porno non dovrebbero sostituirsi all'educazione sessuale. Purtroppo nella nostra società lo fanno".

Da “7 e mezzo” – la rubrica delle lettere di Lilli Gruber su “Sette – Corriere della Sera” sabato 2 settembre 2023.

Cara Lilli, sette giovani tra i 17 e i 22 anni hanno violentato a Palermo una coetanea, che però ha trovato il coraggio di denunciare subito. Molte donne che sono state uccise dai maschi si erano recate presso le nostre Istituzioni denunciando la loro pericolosa situazione, invano.

Carlo De Lucia 

Cara Lilli, il Tribunale di Firenze ha definito due giovani che hanno stuprato una ragazza, «non punibili in quanto avrebbero agito condizionati da una visione pornografica delle loro relazioni col genere femminile, forse derivati da un “deficit educativo”». Si può commettere qualsiasi reato?

Marilena Dossena 

Risposta di Lilli Gruber: 

Cari lettori, trovo anch’io stupefacente che un tribunale abbia considerato “l’immaginario pornografico” come una circostanza attenuante in un crimine come lo stupro. Se un immaginario distorto bastasse a cancellare un reato, dovremmo mandare assolti ladri che abbiano guardato troppi film di Arsenio Lupin o assassini che abbiano giocato a troppi videogiochi violenti.

È un punto di svolta negativo: il consumo via internet della pornografia di massa, la forma più degradante della relazione tra i sessi, andrebbe invece considerato un’aggravante in tutti i sensi. Che si tratti di un veleno sociale sempre più insidioso lo dimostrano i fatti di Palermo, che mimano un altro nefasto classico: la gang bang (lo stupro di gruppo), tra le richieste più frequenti degli utenti di siti pornografici. Nelle intercettazioni il riferimento è esplicito: una cosa così l’abbiamo vista solo nei film porno, dicono.

[…] Questi fatti di cronaca ci segnalano la presenza inquietante di un “colpevole mascherato” che si chiama la pornografia dilagante online, accessibile ovunque, a tutti, anche ai giovanissimi. E che sdogana e incoraggia in maniera subdola e pericolosa l’oggettivazione del corpo delle donne e i diversi modi di “utilizzarlo”. Perciò combattere la violenza contro le donne significa combattere la tolleranza verso questo pensiero e il silenzio sull’industria di massa che lo favorisce e lo diffonde.

Estratto dell’articolo di Gianluca Nicoletti per “La Stampa” martedì 29 agosto 2023.

La claustrale immagine ufficiale della ministra per la Famiglia, la Natalità e le Pari Opportunità sta circolando ovunque, accoppiata al sorriso sornione dell'obelisco d'Italia Rocco Siffredi.

«Anche Rocco è d'accordo con me sullo stop della pornografia ai minori», ha dichiarato fiera Eugenia Roccella, come se fosse una sua vittoria personale. 

Quasi lei fosse Cappuccetto Rosso che ha fatto ravvedere il Lupo Cattivo. È proprio il mondo a rovescio.

Naturalmente è Rocco ad essersela pappata, giocandosi pro domo sua la surreale associazione tra gli stupri di gruppo consumati da minorenni e la pornografia on line. Che poi alla fine è l'unica a esistere; cassette e dvd del genere zozzone si trovano oramai solo nelle bancarelle dell'usato, per auto sollazzi umbratili di attempati umarells, cocciutamente luddisti.

Ho raccontato ieri proprio su La Stampa la storia, di una macelleria di gruppo ai danni di una giovane donna avvenuta a Mazzarino nel 1988, tra i 15 suoi aguzzini ben 11 erano minorenni. Al tempo per vedere immagini che si avvicinassero al porno bisognava avventurarsi nei cinemini a luci rosse e i ragazzini nemmeno potevano entrare. 

Lo schema dei tanti maschi contro una donna era anche allora una parte nascosta, però silenziosamente tollerata, della cultura in cui erano cresciuti. È chiaro che se si presentano a distanza di pochi giorni due casi simili a questo schema base qualcosa bisogna pur dire, la maniera più semplice per tirarsi fuori da ogni corresponsabilità è sicuramente ipotizzare che la colpa sia attribuibile alla disgregazione dei modelli familiari tradizionali, alla sessualizzazione della società, alla caduta dei valori, in sintesi al dilagare della pornografia in Internet.

[…]

In questo smisurato contenitore di milioni di corpi aggrovigliati chiaramente esiste anche la categoria dello stupro di gruppo (rape, rough sex, brutal fucking, teen forced) o l'ammucchiata asimmetrica (gang bang, bukkake). È chiaro che tutto questo per Rocco Siffredi rappresenti concorrenza sleale. È il crollo del mercato del porno d'autore, di cui è stato per anni un onestissimo imprenditore e gloria nazionale nel mondo. 

La ministra Roccella ha detto che lo ringrazierà in privato per l'adesione alla sua iniziativa, è giustificata nel non sapere che una delle invenzioni più epicamente memorabili di Rocco fu la celeberrima "toilet fuck", in cui prende da dietro la partner Sidonie Lavour, le infila la testa nel water e tira lo sciacquone. Forse nemmeno ha seguito le recenti ampie cronache sulla giovanissima Maria Sofia Federico, che allo scoccare dei 18 anni è corsa ad arruolarsi nella "Siffredi Hard Academy" prima vera università del porno, diventandone la star. Va tutto bene, guai a chi fa del moralismo, però risparmiamoci di far passare un attacco alla concorrenza sleale per una battaglia a difesa della dignità della donna.

Interroghiamoci pure, come da più parti si chiede, su quello che offriamo ai nostri ragazzi, smettiamo però di pensare che il gigantesco flusso produttivo di pornografia di ogni tipo possa essere "tecnicamente" interdetto ai più giovani. Ci arriveranno sempre, ci arriveranno comunque ed è impensabile che si possa tornare ai tempi felici in cui il massimo supporto onirico all'autoerotismo maschile era il catalogo del Postalmarket, nelle consuntissime pagine degli articoli "intimo femminile". 

[…] Forse qualcosa potrebbe cambiare se a quei ragazzini qualcuno si fosse preso la briga di spiegare a scuola che le ammucchiate, che trovano a bizzeffe in rete, sono solo fiction, irrealtà, favole per adulti alla stregua dei film di zombie o di super eroi. Le donne non lo sognano per niente. Non ci sono altre soluzioni immediate al riemergere ciclico della tribalità dei maschi, a meno che qualcuno spieghi loro da piccoli, in modo credibile, che civilizzarsi è faticoso, ma potrebbe dare veramente grandi soddisfazioni.

Estratto da repubblica.it martedì 29 agosto 2023.

“L’unica cosa da fare quando si è con una ragazza ubriaca è riportarla a casa. Insegnatelo ai vostri figli”, è questa la frase che da giorni centinaia di utenti condividono sui social a commento dello stupro di Palermo. Frase che Massimiliano Orrù, il comandante della polizia di San Gavino Monreale, paese a Sud della Sardegna, ha pensato di commentare con una sua personale opinione sui fatti. Scrive su Facebook commentando il post condiviso di un’amica: “I genitori dovrebbero insegnare alle figlie a non scimmiottare i maschi ubriacandosi”. Il comandante ha subito rimosso il post dal suo profilo, ma ormai in molti avevano già fatto gli screenshots dei commenti, che hanno subito generato l'onda di polemiche.

Il dibattito finisce poi sul perché sia accettabile o meno ubriacarsi per maschi e femmine, riferendosi sempre alla cronaca dello stupro della 19enne, fatta ubriacare dai coetanei per poi essere violentata. Orrù risponde: “Bere? A noi uomini fa bene ogni tanto… a voi donne invece malissimo. Restate donne e non cercare di fare gli uomini. Siete femmine non maschi”.

(...)

Sulle dichiarazioni del comandante prende le distanze il sindaco di San Gavino Monreale, Carlo Tomasi: “Sono in forte imbarazzo - dice Tomasi - le parole del comandante rischiano di danneggiare un'amministrazione da sempre impegnata per difendere i diritti di tutti e delle donne in particolare".

A commentare la frase di Orru c’è anche il centro antiviolenza Feminas: “Questi commenti sarebbero già gravi se pronunciati da chiunque, risultano ancora più inaccettabili quando fatti da un rappresentante delle istituzioni che tende a giustificare o sminuire una violenza sessuale attribuendone le colpe alla vittima".

Estratto dell'articolo di Giacomo Salvini per “il Fatto Quotidiano” martedì 29 agosto 2023.

“Forse dovremmo essere più protettivi nel dialogo e nel lessico. Se vai a ballare, tu hai tutto il diritto di ubriacarti – non ci deve essere nessun tipo di fraintendimento e nessun tipo di inciampo – ma se eviti di ubriacarti e di perdere i sensi, magari eviti anche di incorrere in determinate problematiche perché poi il lupo lo trovi”. 

Il rientro dalle vacanze di Andrea Giambruno, compagno della premier Giorgia Meloni e anchorman di Rete 4, si fa notare per un’altra uscita discutibile che rischia di mettere in imbarazzo la premier: dopo le polemiche estive relative al suo negazionismo sul cambiamento climatico (“È luglio, ha sempre fatto caldo”) e le sue accuse al ministro della Sanità tedesco Lauterbach in vacanza in Italia (“Se fa troppo caldo, stai a casa tua nella Foresta Nera”), ieri Giambruno ha preso posizione anche sui casi di stupro di Palermo e Napoli con parole tipiche della logica del victim blaming, cioè la tendenza a colpevolizzare la vittima.

[…] Tra gli ospiti ci sono l’avvocata Annamaria Bernardini De Pace, il condirettore di Libero Pietro Senaldi, l’avvocata Ebla Sahmed e l’imprenditore Gianfranco Librandi. Lo spunto è la lettera inviata dal padre di una ragazza violentata a Roma e inviata alla vittima di Palermo con la chiosa: “Sei sola, gli altri non comprendono”. 

Bernardini De Pace interviene per spiegare che serve un cambio di approccio nell’educazione dei genitori verso le ragazze introducendo un meccanismo di “autotutela preventiva” passando dal “coraggio” della denuncia al “piacere” della denuncia.

Ma è sul concetto di “autotutela” che Giambruno si sofferma chiedendo un approfondimento a Senaldi. Senaldi dice di non voler essere frainteso e condanna i violentatori. Poi però aggiunge: “Le ragazze hanno il diritto di non essere violentate ma purtroppo la realtà non rispetta i diritti – dice il giornalista –, quindi non devono perdere conoscenza e devono frequentare contesti meno pericolosi possibili” […] 

Qui interviene Giambruno che condivide le parole di Senaldi (“stai parlando più da padre che da giurista”) e aggiunge: “Hai ragione, perché uno a sua figlia magari dice: non salire in macchina con uno sconosciuto perché è verissimo che tu non debba essere violentata, perché è una cosa abominevole. Ma se eviti di salire in macchina con uno sconosciuto magari non incorri in quel pericolo”.

A quel punto, dopo aver definito “bestie” gli stupratori, Giambruno passa la parola a Librandi spiegando che se “eviti di ubriacarti e perdere i sensi, eviti di incorrere in determinate problematiche”. Il resto della trasmissione si trascina stancamente tra accuse alle famiglie e richiesta di modificare le norme sulla pornografia. Ma il danno ormai è fatto. 

Estratto dell'articolo di Felice Naddeo per corriere.it il 05 settembre 2023

Inquadratura con doppia immagine, puntata del 4 settembre di Diario del Giorno su Rete 4. Nel riquadro a sinistra il primo piano di Benedetta Scuderi, ambientalista, originaria di Agropoli e co-portavoce della federazione dei Giovani Verdi Europei. In quello a destra Andrea Giambruno, conduttore della trasmissione e compagno della premier Giorgia Meloni. 

Il tema della puntata è la morte dell’orsa Amarena, uccisa con una fucilata a San Benedetto dei Marsi, in Abruzzo. Ma stavolta a caccia ci va la Scuderi. E il bersaglio è proprio Giambruno. Finito nel mirino dell’ex candidata alla Camera di Alleanza Verdi e Sinistra per le parole della scorsa settimana sugli stupri: «Se vai a ballare hai tutto il diritto di ubriacarti – aveva detto il giornalista - ma se eviti di ubriacarti e di perdere i sensi, magari eviti anche di incorrere in determinate problematiche, perché poi il lupo lo trovi».

I chiarimenti di Giambruno – «non ho mai giustificato uno stupro e non ho detto che la ragazza se l'è cercata» – evidentemente non sono bastati a placare la Scuderi. Che in trasmissione, alla domanda se la morte di Amarena fosse colpa del Governo, ha risposto caustica: «Potremmo dire che è responsabilità dell’orsa perché se non fosse uscita di notte da sola non avrebbe incontrato il cacciatore, o il lupo, e quindi queste cose non sarebbero successe». […]

Scuderi, sarcasmo a parte, lei è stata cattivella con Giambruno.

«Direi che io sono stata abbastanza cattivella con lui. Ma lui, con quelle parole, lo è stato con il genere femminile e il femminismo». 

Ma almeno un pochino è pentita? Magari vuole chiedergli scusa?

«Assolutamente no. Non sono pentita e lo rifarei. Io non ho detto nulla di offensivo. E Giambruno non si è pentito della cosa tremenda che ha detto. Io l’ho pungolato con una battuta. E confesso che mi sono divertita».

Ma perché ha parafrasato le parole di Giambruno visto che si parlava dell’orsa Amarena?

«Una piccolissima risposta per dare soddisfazione alle ragazze e alle donne che hanno subito un abuso. Quando hanno ascoltato le parole di Giambruno si sono sentite colpevoli nonostante siano vittime: non devi bere e non devi portare gonne corte […]». 

Passi la polemica, ma perché chiamare in causa anche la Meloni se le parole sono di Giambruno.

«Già da giornalista non doveva dire quelle cose. Anche se non fosse stato legato alla premier, aver fatto quelle dichiarazioni in una trasmissione nazionale è sbagliato. Di sicuro c’è stata maggiore attenzione per il suo rapporto con la presidente del Consiglio. Ma l’errore di fondo è che c’è un evidente conflitto di interessi. Il compagno della Meloni dovrebbe evitare di fare trasmissioni politiche. E’ libero di condurre tutte le puntate che vuole, ma non quelle che riguardano il Governo. Poi è stato lui a chiedere se l’uccisione dell’orsa Amarena è colpa del Governo». 

Mica crederà anche lei al fatto che la Meloni influenza Giambruno?

«Una cosa è l’influenza effettiva, diretta. Altro è quella indiretta: Meloni è la sua partner, di sicuro parlano e c’è contaminazione di idee. Altrimenti che coppia sarebbero. Diciamo che probabilmente sarebbe auspicabile che lo influenzasse. Perché, ad esempio, se io fossi premier direi sicuramente al mio compagno di non dire certe cose».

Estratto dell’articolo di Tommaso Rodano per “Il Fatto Quotidiano” mercoledì 6 settembre 2023.

Benedetta Scuderi è la giovane donna che ha spettinato Andrea Giambruno, conduttore e compagno della premier, con la semplicità di una battuta in diretta. […] 

Dica la verità, se l’era preparata.

«No, le assicuro, non c’era premeditazione.

Ma come, prima della trasmissione aveva pure scritto su Twitter che stava andando “nella tana del lupo”. Era solo una battuta su una trasmissione non certo amica. Ovviamente avevo voglia di prendere le distanze dalle parole di Giambruno sulle vittime di violenza, ma non potevo sapere che mi avrebbe fatto quella domanda... me l’ha offerta su un piatto d’argento (ride)».

[…]

Nessuna ritorsione del Giambruno?

«Non credo. Cioè, poco dopo hanno mandato la pubblicità. Ero convinta che sarei rimasta in collegamento, invece mi hanno detto: “Ciao Benedetta, grazie”. Non penso sia stato strategico, magari eravamo stretti con i tempi. Ho il sospetto che non sarà più invitata. (Ride) Ce ne faremo una ragione. Almeno mi sono tolta uno sfizio, se il prezzo è non essere più chiamata... pace».

[…]

La politica-spot, innaffiata dalle battute virali, è davvero utile o serve altro?

«[…] La battuta a Giambruno è una minuscola soddisfazione, non per me, ma spero per tutte le vittime di abuso colpevolizzate. È come dire: guarda che noi ci siamo, non stiamo zitte; non ci interessa il tuo potere di giornalista o di compagno della premier, queste cose non le dici, perché ti facciamo fare una figuraccia. Serve a determinare una posizione – di tante persone che credono in queste lotte – e a combattere una narrazione». 

Cos’è che le è parso così grave, nella narrazione della destra di governo?

L’imprinting culturale l’abbiamo capito dal primo giorno: con tante crisi vere in corso, Meloni si occupava della norma “anti-rave”. Mi fanno paura le battaglie contro le coppie omogenitoriali, le parole della ministra Roccella contro chi ricorre all’aborto, il corteggiamento di Vannacci; è una cultura che cancella non le parole, ma le esistenze degli altri. E poi i negazionismi infantili sul cambiamento climatico.

[…]

Quanto è comprensiva la destra se a stuprare non sono i neri …Richiamare le ragazze a non ubriacarsi se non vogliono essere violentate: come mai quando l’aggressore è bianco si rimbrottano le vittime? Iuri Maria Prado su L'Unità il 31 Agosto 2023

Pressappoco l’orizzonte sicuritario di destra a contrasto della violenza sulle donne si presenta così: gli stupratori, ci mancherebbe, li mettiamo in galera a vita e mannaggia che non possiamo evirarli, ma le donne non siano sventate e scostumate. A ben guardare, ma anche a guardarci solo distrattamente, assomiglia parecchio all’ordine sociale talebano: chi attenta alle virtù della donna, proprietà del maschio con titolo a governarne la vita (padre, marito, fratello) va impiccato, ma la donna stia a casa e non giri scoperta.

E dicevo poco fa che questo è solo pressappoco l’ordinamento agognato e propugnato da certo sicuritarismo della cara destra dio-patria-famiglia, generosamente fiancheggiato dall’esercito di opinionisti, psicologi, terapeuti, sociologi e venditori di pentole e materassi in puro lattice adunati a spiegare che non c’è più religione e che le ragazze devono essere virtuose: “pressappoco”, nel senso che questo appello al ripristino delle care attitudini domestiche e timorate delle figliole è formulato quando lo stupro è fatto dal ragazzetto bianco e battezzato, ma inopinatamente scompare quando il delitto è compiuto dall’immigrato, dal clandestino, dall’africano (l’avvocato gli spiega che scrivere “dal negro” può essere fastidioso, e quindi se ne astengono, pur con disappunto).

Non si è notato? Il richiamo al dovere delle fanciulle di stare attente, di non girare troppo svestite, di non darsi alle canne e all’alcol, e sotto sotto (ma neanche troppo sotto) il suggerimento che dopotutto bisogna che le figlie d’Italia non vadano a cercarsela, risuona sempre e comunque salvo che in un caso: e cioè quando sono vittime della violenza con pelle scura. Lì certe invocazioni delle antiche e buone abitudini casalinghe delle ragazze, certe requisitorie contro la minigonna, certe allusioni alla buona teoria che per sottrarsi alla fellatio coatta “basta un morsetto”, incomprensibilmente (per modo di dire) cedono il posto alla pretesa di castrazione senza tante storie, perché la leggiadrìa svestita e gli sculettamenti incriminano la fanciulla che “provoca” il maschio normale, mica il “negro” che non deve azzardarsi a toccare le nostre donne.

Si tratta di un ordine sociale di tipo iraniano, con gli stupratori bensì impiccati (perché ci vuole certezza della pena, accidenti), ma con le donne opportunamente uniformate al dovere della ritenutezza: strade libere di stupratori, d’accordo, ma anche di femmine provocatrici. E, appunto, fintanto che non si discuta dello stupro commesso dall’immigrato, quello che con le donne assume un atteggiamento violento e irrispettoso su cui la giustizia, questa volta, deve esercitarsi a prescindere dalla lascivia della vittima che vale ad attenuare la responsabilità dello stupratore di casa nostra ma non viene in conto quando la violenza è commessa da quello sceso dal barcone, quello che “lo manteniamo in hotel e poi va in giro a rubare e stuprare!”. Una donna nell’Italia di questa destra deve augurarsi di essere vittima di un immigrato se non vuole che le rinfaccino le gambe scoperte, il bicchiere di troppo e in definitiva di essere una sgualdrinella. Iuri Maria Prado 31 Agosto 2023

Caramelle dagli sconosciuti. Giambruno, gli stupri e il discorso pubblico fondato sulle clip. Guia Soncini su L'Inkiesta il 31 Agosto 2023.

Il signor Meloni non ha capito che viviamo in un’epoca dove prendono una tua frase, la isolano, e ti fanno sembrare il mostro di Firenze. Invece di difendersi come ha fatto avrebbe dovuto uscire dalla trance e ricordarsi che cosa era stato detto in diretta 

«Un pasto senza vino si chiama colazione»: è la scritta sulla vetrina d’un ristorante milanese davanti al quale mi trovo a passare mentre sul mio telefono passano post di chiunque sul caso di Bellicapelli Giambruno, ormai ufficialmente colpevolizzatore di stuprate.

Ne parlano Chiara Ferragni e gli editorialisti, ne parlano le femministe dei cancelletti e i maschi femministi, quelli che dicono tutte le cose giuste ma proprio tutte, finché non si spazientiscono e gli scappa una frase che svela che per loro lo stupro è comunque un premio alla bellezza.

Tweet a caso: «Giambruno potrebbe avere ragione; infatti se somigli alla Meloni e ti vesti e parli come lei, non vieni violentata neppure se ti chiudono in gabbia piena di mandrilli». Se una frase così l’avessero scritta della Boldrini, ce ne saremmo indignate per anni, ma non divaghiamo.

Guardo la scritta in vetrina e mi chiedo brevemente se il problema sia il vino. Siamo pur sempre lo stesso paese che si è indignato perché l’Unione europea voleva segnalare sulle bottiglie che l’alcol è una tossina. Tu tossina al nostro patrimonio nazionale non glielo dici capitoooo.

Il problema dev’essere il vino, come voce di fatturato, per il ristorante milanese e per tutti quelli che hanno passato gli ultimi giorni invasati nella delirante puttanata del momento: che sia scellerato, orrendo, colpevolizzante delle vittime dire che se ti ubriachi poi non hai il controllo della situazione, e se non hai il controllo della situazione tutto può succedere.

Dev’essere il vino, perché io negli anni Novanta c’ero, quando s’inventarono come droga-dello-stupro il GHB, un narcotico che non solo risultava insapore se te lo mettevano nel cocktail ma era anche impossibile da trovare nelle analisi se il giorno dopo andavi in ospedale a dire credo mi abbiano stuprata ma non mi ricordo niente.

Io c’ero, e nessuno mai per nessuna ragione ha pensato di dire a noialtre ragazze di allora che certo che dovevamo bere dai bicchieri che ci venivano offerti dagli sconosciuti, perché dirci di stare attente sarebbe stato colpevolizzarci, noi dovevamo bere cose di dubbia provenienza e poi stava ai maschi non stuprarci. Non ce lo dicevano perché in discoteca bevevamo crema di whisky e non Barbera?

Nessuno ci ha mai detto neanche, nei decenni precedenti, che era disdicevole raccomandarci di non accettare caramelle dallo sconosciuto fuori da scuola, perché in quelle caramelle probabilmente c’era la droga e saremmo finite come Cristiana F. Sospetto fosse una leggenda metropolitana, quella dello sconosciuto che ti regala la droga fuori da scuola, ma sono sicura di non avere mai mai mai sentito un adulto dire come vi permettete di spaventare le ragazzine, dovete invece rieducare gli spacciatori a non spacciare.

Era un secolo meno scemo o è solo che la diffidenza suggerita non toccava un patrimonio nazionale come il vino? È solo una delle molte domande che ho sulla vicenda Giambruno, che da tre giorni sta monopolizzando l’attenzione di quel coacervo di scemenza che è la comunicazione socialgiornalistica (due piani ormai indistinguibili).

La prima domanda che vorrei fare a tutti coloro che si stanno indignando è: dov’è la società di cui parlano? Dov’è la società che dice alle donne che se le stuprano è colpa loro? (Usano sempre «colpa», mai «responsabilità», perché hanno smesso d’andare a messa ma non d’essere culturalmente cattolici).

Dov’è questo tic di cui parlate, di non responsabilizzare mai i maschi? È con voi nella stanza adesso? Perché nella conversazione collettiva non c’è, non so come dirvelo senza svelarvi che non siete lucidi.

Non dubito che ci siano contesti degradati in cui lo stupro non è considerato immorale (questo è il punto in cui mi si obietta che quelli del Circeo, ventenni con precedenti penali, erano però di buona famiglia). La ragazza di Palermo (che spero qualcuno convinca a rinunciare ai social, perché non mi sembra una china dalla quale le può venire qualcosa di buono) ieri ha pubblicato su Instagram i messaggi di un tizio che le ha scritto cose come «intanto il cazzo l’hai preso» e «se non mettevi quelle foto non ti stupravano».

Ma la conversazione collettiva è – ma davvero c’è bisogno di dirlo? – tutta dal lato sensato delle cose, e anzi ha appunto queste derive assurde per le quali guai a dire alle ragazze di rendersi meno vulnerabili, è un’inaccettabile vessazione (se avessi una figlia, andrei a prendere a testate sul naso gli adulti che tentano di convincerla di queste assurdità, invece di dirle ragazza, senti ammé, non andare mezza nuda nelle banlieue, perché là fuori c’è di tutto e non fidarsi è meglio).

Ma torniamo a Giambruno, e al programma che nessuno ha visto, neanche lo stesso Giambruno. In Diario del giorno – un programma che sulla app di Mediaset non si trova col titolo né col nome di Giambruno ma solo facendo un giro assurdo dai palinsesti settimanali: sarà incapacità nella programmazione informatica o un tentativo aziendale di limitare il guaio? – lunedì Giambruno ha detto la frase che tutti hanno sentito, al tredicesimo minuto della puntata.

I dodici minuti precedenti non li ha sentiti Chiara Ferragni, e fin lì mi pare normale (è il 2023, abbiamo smesso di meravigliarci del ritaglio commentato come fosse l’intero, e degli articoli non letti dei quali si commenta il titolo).

Non li ha sentiti nessuno di quelli i cui articoli ho letto in questi giorni, e la ragione per cui ne sono certa è che gli articoli raccontano una conversazione diversa da quella che è avvenuta.

Ma soprattutto non li ha sentiti Giambruno, che probabilmente conduce in stato di trance (forse per quello parla a scatti come fosse alla sua prima diretta), e che quindi in tutte le sue precisazioni, fino all’intervista di ieri a Candida Morvillo, non ha detto l’unica frase che avrebbe dovuto dire in propria difesa. Qualcosa come: io veramente stavo riassumendo, nelle mie mansioni di conduttore, il punto di vista appena espresso dal direttore Pietro Senaldi e dall’avvocato Annamaria Bernardini De Pace; e, se foste in buona fede, che stessi riassumendo lo avreste capito dal tono anche solo vedendo il ritaglio del pezzettino in cui parlavo io.

La Bernardini aveva invocato «insegnamenti di autotutela in via preventiva» (e anche parlato della denuncia come «dovere» e non come «coraggio»: se la sentono le femministe dell’Instagram, parte il secondo tempo dello scandalo).

«Adesso non possiamo sperare che tutti gli uomini improvvisamente si redimano», aveva detto la Bernardini; e, prima di sintetizzare, Giambruno aveva passato la parola a Senaldi, che aveva esordito in modo interessante, per poi passare a dire che conosceva il pensiero della Bernardini e cioè che ci sono dei contesti pericolosi: «Mi spingete su un terreno dove è facile essere fraintesi, e premesso che io non voglio essere frainteso».

Senaldi, più sveglio di Giambruno, sa che viviamo nell’ecosistema del soundbite, dove prendono una tua frase, la isolano, e ti fanno sembrare il mostro di Firenze. Ma anche Senaldi tenerone, che pensa vorremo fraintendere lui, quando abbiamo invece a portata l’assai più ghiotto fraintendimento del tizio che divide la vita con la presidente del Consiglio.

In quei minuti di televisione è stato ripetuto non so quante volte «certo che è un tuo sacro diritto non essere violentata» (hanno applicato tutta la premessite del mondo, Giambruno e i suoi ospiti, invano), e io mi sono ricordata della mia adolescenza di perpetua sbronza, in cui niente di terribile mi è mai successo (almeno credo): un mezzo miracolo, a ripensarci.

Non riesco a figurarmi cosa la me sedicenne avrebbe pensato di adulti che le avessero detto ma certo, beviti un altro mezzo litro di tequila e vai ad agitare il culo tra sconosciuti in discoteca, è un tuo inalienabile diritto. Probabilmente niente: sarei stata troppo ubriaca per capire. Ma avevo sedici scemissimi anni: non avevo bisogno d’incoraggiamento, per mettermi nei guai.

Chissà se tutti coloro che continuano a ripetere che non è giusto che il diritto di ubriacarsi sia prerogativa dei soli maschi (ma veramente? il diritto di ubriacarsi? ma cos’avete, sedici anni anche voi?) ci credono davvero. O se invece il punto è solo che Bellicapelli sta con la Meloni e siamo determinati a dargli tutte le colpe del mondo.

Anche quella del più banale buonsenso, giacché ha ragione la Bernardini: in attesa del mondo ideale in cui non esisteranno più delinquenti, ragazza mia, cerca di mantenere uno straccio di controllo della situazione, invece di affidarti a un possibile mezzo miracolo. E ora scusate, devo andare a prepararmi a una giornata di «Soncini difende Giambruno»: credo di poterla superare solo con un coma etilico.

«Mi hanno stuprata. Li ho denunciati, ma ho dovuto lasciare casa mia». Anna Maria Scarfò ha fatto condannare i suoi aguzzini ed è stata tutelata dallo Stato. Eppure è dovuta andare via dal suo paese perché considerata colpevole di "essersela cercata". Francesca Barra su L'Espresso il 5 Settembre 2023 

«Mi hanno stuprata dodici uomini, per tre anni, quando ne avevo 13: mi hanno distrutto la vita. Ho denunciato e sono stati tutti condannati, ma sono stata io a dover lasciare il mio paese per sempre. Era il 1999 e oggi sono adulta, sono mamma, ma ogni volta che ascolto un caso di cronaca, come quello della ragazza violentata a Palermo, a cui va tutta la mia vicinanza, mi rivedo nelle vittime, rivivo ogni cosa. Sento che non c’è giustizia perché chi ha subito paga per una vita intera e loro sono fuori troppo presto per rendersi conto di ciò che hanno fatto. Noi donne che denunciamo siamo forti e ci spronano a essere coraggiose, ma dobbiamo fare i conti con la realtà, l’omertà, le accuse miserabili di “essercela cercata”. Ma io non cerco vendetta, non sono come loro ed è l’unica cosa che mi consola: sentirmi ogni giorno diversa da chi usa violenza. Ho creduto e voglio credere ancora che qualcosa possa cambiare con pene più giuste». 

Anna Maria Scarfò viveva a San Martino, frazione di Taurianova, in Calabria. Condivideva la stanza con la sua sorellina, aveva tanti sogni, quando arrivò nella sua vita un ragazzo e iniziò a fidarsi di lui, gli affidò i suoi sentimenti, ignara della trappola: non c’era traccia di amore, di tenerezza e di spensieratezza in quel ragazzo, che diventò invece la porta per un inferno senza fine. 

Durante gli anni di violenza provò a chiedere aiuto, ma trovò solo muri, coltelli pronti ad affondare nei suoi sensi di colpa: temevano solo lo scandalo, le ripercussioni della denuncia sul contesto sociale. Nessuna traccia di empatia, pietà, cura. Un giorno scoprì di potercela fare da sola e accadde quando il gruppo di stupratori minacciò di accanirsi anche sulla sorellina; allora trovò la forza di denunciare, di affrontare le donne dei suoi stupratori, i pregiudizi, gli insulti, l’isolamento. Anna Maria si affidò alla giustizia, affrontò i processi e fece condannare i suoi violentatori. «Incontrai il padre di uno di loro dopo la denuncia. Mi consegnò una lettera, mi chiedeva perdono. Ho risposto che io non devo perdonare, io non odio. Devono chiedere perdono a Dio». Diventò per tutti la «malanova», come il titolo del libro scritto da Cristina Zagaria sulla sua storia. «Andava in giro con i pantaloncini corti, li ha provocati, ha rovinato la reputazione del paese». Sono alcune delle frasi che ho raccolto e commenti apparsi sui social, a cui si aggiunsero intimidazioni. Sporcarono i panni stesi dalla madre di sangue, le uccisero il cane. Poi altre minacce e l’ingresso nel programma protezione per stalking. 

«Lo Stato mi ha tutelata e mi ha resa la donna che sono. Ma il passaggio dalla protezione alla vita reale è difficile, nessuno ti prepara. Sono riuscita a formarmi una famiglia, ho una bimba e lavoro. Malgrado sia passato tanto tempo ho voluto mostrare al mio compagno dove sono cresciuta e sono tornata in Calabria l’anno scorso, ma ho respirato la stessa aria. Sento di essere non accettata. C’è tanto da fare a livello culturale». Anna Maria ha sete di riscatto dall’etichetta «malanova», non vuole essere considerata un’eroina, ma essere utile. «Non ho realizzato i sogni che avevo, me li hanno tolti. Il diritto alla felicità che spetta a un’adolescente non tornerà più, anzi: non l’ho conosciuto. Sono passata dallo stupro all’amore e ancora oggi per chi mi sta accanto non è facile. So che la mia famiglia ha cambiato vita per me, pur non avendomelo mai fatto pesare. Oggi ho un obiettivo, però, e non me lo ruberà nessuno: vedere crescere mia figlia felice e avere un’associazione tutta mia per aiutare altre donne».

«Come non parlare di stupro in televisione: la mia esperienza di ospite in un programma Rai». Valentina Mira è una giornalista e scrittrice. È stata intervistata da Filorosso su Rai 3 per parlare del suo libro sulla violenza sessuale. E spiega come si sia cercato di manipolare il suo intervento per giustificare una narrazione centrata sulla pornografia del dolore. Valentina Mira su L'Espresso l'8 settembre 2023.

Questo intervento è stato pubblicato in origine su Valigia Blu, che ringraziamo.

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Se si parla di giornalisti e stupro, la prima cosa da dire è che i giornalisti stuprano. FNSI, Federazione Nazionale Stampa Italiana, 2019: esce un rapporto che rileva che l’85% delle giornaliste aventi contratto (senza contare dunque le precarie, più ricattabili ancora) ha subito molestie da capi o da colleghi. Non solo il dato è fuori scala, anche in rapporto agli altri ambiti lavorativi (che contano il 50% di molestie), ma alla presentazione dello studio all’ordine dei giornalisti di Roma, in presenza del responsabile di uno sportello creato ad hoc, Stefano Romita, e di colleghe come Tiziana Ferrario, si menzionano tra le testimonianze anonime anche dei casi di stupri veri e propri avvenuti nelle redazioni. Ero presente, e in quel momento lavoravo per un giornale in cui i ricatti sessuali e la manipolazione erano all’ordine del giorno, anche nei confronti di persone con disabilità - che, tuttavia, hanno saputo difendersi meglio di altre, compresa me, fuor di stereotipo. 

Questa introduzione per dire che, se i giornalisti sono i primi a molestare e stuprare, non possiamo sorprenderci per le modalità sessiste che vengono scelte di continuo per parlare di violenza di genere. Se i 7 denunciati per stupro di Palermo si riferivano a sé stessi come a dei “cani”, il first lady Andrea Giambruno parla di “lupi”: ne riprende le parole e le nobilita. 

Dire che quella è una metafora da stupratori è un fatto. Dire che se una donna beve non può sorprendersi se viene violentata è un ragionamento violento. Come tante, anch’io in queste settimane ho provato del dolore fisico (Tlon ha parlato, non a torto, proprio di “corpo di dolore”) nel sentire come venivano raccontati svariati casi di violenza di genere. Con eminenti eccezioni, tra cui proprio Valigia Blu. Tante le cose che non vanno bene nella narrazione della vicenda di Palermo e di quella di Caivano, così differenti, così accumunate dalla voglia di capri espiatori. La mostrificazione dei protagonisti e del loro contesto, l’antimeridionalismo (una forma di razzismo, niente di nuovo dal modo di trattare gli omicidi di Pamela Mastropietro e Desirée Mariottini), l’idea che siano eccezioni. Il Bronx. I lupi. 

La bonifica. La scelta di Giorgia Meloni di presentarsi a Caivano usando proprio questa parola d’ordine, “bonificheremo”, lei che è erede dell’MSI (Movimento Sociale Italiano), che a sua volta fu erede del PNF (Partito Nazionale Fascista), è un ammiccamento molto chiaro a una parte politica che vorrebbe poter fare saluti romani en plein air. Il problema? Li fa già, e se li chiami fascisti ti fa anche causa, vincendo. È successo all’editore Mattia Tombolini, di Momo edizioni, una casa editrice che chi ha avuto la fortuna di conoscere sa che perla rara sia nel sistema librario italiano: lo ha denunciato un sindaco che appartiene esattamente a quella parte politica, che i saluti romani li postava perfino sui social. 

La scelta della parola “bonifica” da parte del Presidente Meloni non è solo un ammiccamento a ciò che non vogliono che si nomini, ma ha un altro leggerissimo problema: se Mussolini la usava per parlare di paludi, lei la usa per parlare di persone. Che la violenza di genere intersecata ad altri problemi (in termini di lavoro, di possibilità, di trovare forme di aggregazione che non siano la chiesa o le cose da cui si propone di salvarti, compreso PornHub) si affronti militarizzando a favor di telecamere i posti e non con cura e intelligenza, con dei piani a tutto tondo che nascono dalle esigenze dei cittadini, senza sovradeterminarli come fossero dei bambini cattivi da punire, è uno dei tanti danni che questo governo sta facendo. 

È in questo contesto che ho deciso di dire di sì all’invito fattomi dalla trasmissione Filorosso su Rai3, con il tramite di un autore della stessa casa editrice con cui è uscito il mio primo libro, X. Carmine Gazzanni si sarebbe dovuto occupare di un servizio in cui intervistava chi con le persone uscite da situazioni di violenza lavora, e anche alcune di loro. Lo ha fatto, e conoscendo il suo tipo di giornalismo, l’ha fatto magistralmente. Il servizio non è mai andato in onda. Mentre veniva deciso che la voce delle donne vittime di violenza non era quella che interessava, come donna vittima di violenza intervistavano me. Il modo in cui è andata questa esperienza - che annovero nella top ten delle cose più spiacevoli che mi sono capitate nella vita - grida vendetta, per cui, invitata da Valigia Blu, di cui da sempre apprezzo puntualità e professionalità, ho pensato che fosse una buona occasione per parlare liberamente, senza tentativi di mettermi a tacere (di nuovo). 

La condizione che avevo posto alla trasmissione, anche sentendo la mia agente letteraria, era di non essere presentata come una vittima ma come una scrittrice. Avevo inoltre informato - e visto che sono malfidata, ribadito direttamente alla conduttrice in sala trucco - che sono una collega. Anch’io lavoro nel giornalismo, peraltro proprio per un’emittente pubblica, come lei: nel mio caso si tratta della Radiotelevisione svizzera. Oltre a scrivere per il Fatto Quotidiano, e averlo fatto per 14 anni su una quantità gigantesca di giornali (tra i più noti, Manifesto e Corriere della Sera). La famosa gavetta, che sembra evitabile a chi punta sull’assecondare giochi di potere, io l’ho fatta tutta. Mentre lavoravo mi laureavo in Giurisprudenza. Questa premessa per dire che io e Manuela Moreno siamo colleghe. Che sono una professionista che lavora nel suo stesso settore. Quindi le modalità con cui si è svolto qualcosa che avevamo concordato non sarebbe avvenuto (pornografia del dolore e rivittimizzazione, infantilizzazione) sono ancora più spiacevoli. 

Ora vi racconto la Rai che prova a costringere, stavolta non riuscendoci, una professionista a entrare in uno stampino a forma di vittima. A che pro? Assurgere al suo ruolo nel teatrino presepico di una puntata interamente ambientata a Caivano, in cui ognuno doveva servire a legittimare le politiche di governo. C’erano varie attrici, vari giornalisti, Vittorio Sgarbi a piedi nudi, Elsa Fornero, il prete più famoso d’Italia, e una decina di liceali di Caivano (a differenza di Sgarbi, erano vestiti eleganti, peccato che li abbiano fatti sedere per terra, più funzionali a una coreografia non decisa da loro, che prevedeva anche che la conduttrice li raggiungesse a più riprese, maternalistica, sedendosi al loro fianco e strumentalizzandone le parole quando interpellati). 

Prima del mio turno ha parlato Francesco, uno di loro. Ha detto cose giuste: si è rifiutato - con grande maturità - di rispondere alla domanda sulla sua “storia difficile” (in sostanza ha schivato la pornografia del dolore), e ha detto che tende a non fidarsi. Questo è diventato qualcosa che “lo rende unico” (parole della conduttrice): un ragazzo che dice di non fidarsi di nessuno, “unico”. Certo, la narrazione dell’eccezionalità. Sempre funzionale alla mostrificazione. Francesco faceva bene a fidarsi ancora meno. E anche io. Dopo di lui è arrivato il mio turno. La coreografia prevedeva che io fossi seduta su una panchina rossa, perché se dall’altra parte ci sono i lupi era importante sottolineare che questa - io - doveva essere Cappuccetto Rosso. Sono stata presentata come “Valentina”. Solo Valentina. Nessun cognome. Nessuna identità. X. 

“Voglio introdurre Valentina” - pausa a effetto - “Valentina è una ragazza molto timida, quindi cercheremo di parlare insieme, ma datemi una mano anche a supportarla”. In un colpo ero diventata: Valentina (priva del cognome, una per rappresentarle tutte, una per rappresentare la vittima perfetta, lacrimevole e funzionale, speravano). Una ragazza (ho quasi 33 anni, qualche ruga, qualche capello bianco che copro tingendoli, sono una donna). Molto timida e bisognosa di supporto dal pubblico. E sì che timida lo sono, ma non pensavo potesse sostituire il mio cognome e la mia professione. Nemmeno pensavo di avere bisogno di supporto per parlare, visto che ho fatto un centinaio di presentazioni del mio libro nei contesti più disparati, non solo in Italia ma anche in Svizzera e in Germania. 

La conduttrice continua: “Per la prima volta in esclusiva con noi racconta la sua storia”. Io non ho mai detto che avrei raccontato la mia storia. E non c’è alcuna esclusiva. Il libro è uscito due anni fa. La mia storia pubblicamente l’ho raccontata lì, quello era lo spazio che ritenevo degno della complessità che riguarda la violenza di genere, non un quarto d’ora in televisione. Quarto d’ora che si ridurrà della metà (8 minuti, per l’esattezza). La conduttrice vede poi il libro sulla panchina e ricorda magicamente che ho un cognome. Non dice comunque il titolo del libro. Dice tuttavia che “ci torneremo tra un attimo”. Spoiler: non lo farà mai. Non si parlerà di libri. È sangue che vogliono: il mio. Nel documento che mi ha mandato la persona della Rai che ha letto il libro in quella redazione per preparare le domande, ci sono persino dei suggerimenti per le risposte. Una di queste? Si legge: sangue. 

Non gliene darò neanche una goccia. 

Nella trasmissione si dimostrano più interessati a scoprire se scopo oppure no (“è stato difficile amare dopo?”) che a fare informazione. Come se fosse rilevante ai fini del racconto di più di 40mila stupri l’anno, solo qui in Italia. Ma non sono andata impreparata. Sapevo che avrebbero provato a rendermi Cappuccetto Rosso (l’aveva già fatto due anni fa, a Cartabianca, Bianca Berlinguer con Luce Scheggi, dal vivo persona straordinaria, la cui presenza è stata sprecata e vessata con domande rivittimizzanti, inutili, poste in modo aggressivo). Se proprio mi tocca fare Cappuccetto Rosso, mi ero detta sapendo, meglio fare come quella della storia di Roald Dahl, che tira fuori la pistola e si difende da sé.

Insomma, per farla breve. L’intervista prevede domande come: 

Qual è il ricordo più difficile di quella sera? (La sera dello stupro, chiaro).

Voglio sapere cosa è rimasto dentro di te a distanza di tempo: è una ferita ancora aperta?

È stato difficile amare dopo? 

Visibili online sono anche i due tentativi di invadere perfino il mio spazio fisico. Vengo invitata a mostrare la mano dove ho un tatuaggio, e dalla mia faccia stavolta emerge tutto l’imbarazzo conto terzi del suo trattarmi come una bestia allo zoo. La telecamera indugia sulle mie mani - cosa che avevo, anche questa, posto come condizione di ciò che non doveva succedere, e l’avevo fatto proprio parlando del trattamento che era stato riservato a Luce Scheggi. Il fatto che io abbia frequentato per qualche tempo proprio la Scuola di giornalismo della Rai, quella di Perugia, prima di abbandonarla un anno prima, fa sì che io sia stata edotta su queste tecniche. Anche il pubblico dovrebbe esserlo, quindi ecco qui cosa insegnano: inquadrare le mani della “vittima”, della persona che sta raccontando una storia “toccante”, zoomare sul viso in caso di lacrima. Il problema è che io non stavo raccontando nessuna storia “toccante”. Stavo portando dati, statistiche, parlando di sentenze, di leggi. Ho rifiutato ogni domanda personale con gentilezza ferma. Avrei voluto poter parlare senza essere interrotta con aggressività ogni tre secondi, ma sono rimasta su quella strada, quella del fare informazione: lo vedi, nonna, Cappuccetto Rosso non si perde mica. Va a vedere che il lupo sei proprio tu, nonna. La vecchia Rai che prova a condurti dove non vuoi. 

Verso la fine di questi pochi minuti a trattenere il fiato per dire più cose possibile, perché ogni parola che sfonda la barriera televisiva arriva a più gente e a quelle come me non è mai dato rompere il silenzio senza rischi, la conduttrice mette la sua mano sulla mia. La tolgo evitando moti di stizza troppo evidenti: ho scelto di essere elegante, oggi. Cerca un innecessario contatto fisico dopo che, alla fine di questa apnea, dico che “sono un po’ agitata in questo momento”. Quello che intendo - e dai messaggi ricevuti in privato, direi che il pubblico l’ha capito molto bene - è che mi rode il culo. Nessuno vorrebbe essere trattato così, e far pensare che è questo il modo in cui trattare una persona a cui, ieri o dieci anni fa, qualcuno ha fatto violenza, è il peggior disservizio che si possa dare alla collettività che, ahinoi, è obbligata anche a pagare per vedere una delle sue tante rappresentanti trattate in questo modo. Da una donna. Sembra che il marchio della Rai voluta da questa maggioranza sia regalarci un bel po’ di violenza, ma mascherandola con affettazione materna. Peccato che io una madre ce l’abbia già, e che anche lei sia disgustata dal trattamento riservato a sua figlia. 

Invito tuttavia a guardare il video voi stessi, valutando ogni domanda per quella che è, ogni interruzione, il tono aggressivo, la rimozione del mio cognome e della mia professione, della mia identità, l’impreparazione della conduttrice che ho dovuto correggere un attimo dopo rispetto a un commento ignorante sui dati, l’uso invadente delle telecamere. Tacerò della trasmissione nel suo complesso, sperando che una volta cresciuti, o prima, i ragazzi strumentalizzati abbiano la fortuna di incrociare persone che non hanno nessuna intenzione di farli passare per “eroi” o per dei poveretti con una storia “unica”. Quando la conduttrice ha detto che magari Francesco, uno di loro, poteva aver ragione a non fidarsi degli adulti: quello è stato un raro attimo di verità. Se gli adulti osano trattare così altri adulti, dai minori dovrebbero essere solo tenuti a distanza.

Tutte le sparate contro la Meloni sulla violenza sulle donne. Da Rula Jebreal a Mara Carfagna è tutto un coro di indignazione per le parole e i provvedimenti assunti dal governo in materia di violenza contro le donne: ecco tutti gli attacchi uno dietro l'altro. Lorenzo Grossi il 10 Settembre 2023 su Il Giornale.

Il decreto Caivano licenziato dal governo in Consiglio dei ministri è stata un'occasione, per non pochi esponenti dell'opposizione, per sparare contro Giorgia Meloni. Il presidente del Consiglio si era semplicemente limitato a interpretare - su una domanda specifica di un giornalista - le parole di Andrea Giambruno sulle violenze sessuali di gruppo a Palermo e Caivano: nessuna giustificazione per chi commette uno stupro, ma solo un saggio consiglio che qualsiasi genitore suggerirebbe ai propri figli: "Occhi aperti e testa sulle spalle". Niente da fare, però: nonostante la chiarezza del messaggio, il capo dell'esecutivo è finito immediatamente nel mirino della critiche di oppositori politici, giornalisti e opinionisti.

L'attacco preventivo di Rula

Addirittura gli attacchi sono stati preventivi, se pensiamo all'esternazione di Rula Jebreal su un primo bilancio dell'esecutivo entrato in carica lo scorso ottobre in tema di ordine pubblico: "A nemmeno un anno dall'insediamento del governo Meloni - ha detto la giornalista - i crimini di genere sono aumentati: questo lascia intuire quanto il progetto politico di legge e ordine non fosse mirato a tutelare le donne, ma a cautelare e normalizzare il patriarcato politico, in cui le donne vengono considerate come oggetti". Praticamente la colpa degli stupri di Palermo e Caivano sarebbe da attribuire tutta alla Meloni e ai suoi ministri. Senza dimenticare che, stando a quello che sostiene la giornalista palestinese, "la cultura dello stupro dilaga": ma quale "cultura" esattamente?

Lo sdegno del Pd

Nel marasma dei commenti indignatissimi a quello che è stato detto durante la conferenza stampa di Giorgia Meloni, emerge soprattutto Marco Furfaro, deputato Pd fedelissimo della Schlein. "È inaccettabile perché in questo Paese quando qualcuno viene picchiato o ammazzato, nessuno si azzarda a dire che quell'uomo non doveva mettersi in una situazione di pericolo, e giustamente. Avviene solo se riguarda le donne", è il suo grido durante l'ultima puntata di In Onda, su La7. "Sotto sotto non è che c'è la difesa dello stupro ma c'è ancora una cultura maschilista che rispetto alle donne in particolare colpevolizza la vittima. Giambruno o non Giambruno - ha proseguito Furfaro a In Onda - la presidente del Consiglio non doveva dire quelle cavolate, io voglio un'Italia in cui non mi devo difendere dal lupo, ma si combattono i lupi".

Sì al "Codice Rosso" contro le violenze. Vota pure il M5S ma non Pd e sinistra

Secondo Elly Schlein "nessun abbigliamento o birra bevuta, nessuna condizione o atteggiamento della donna può giustificare una violenza. Se pensate che le donne non possano bere una birra perchè rischiano di più - ha proseguito la segretaria nazionale - cosa possamo dire a quella donna stuprata mentre correva in parco. Che non bisogna più andare a correre? Che sarebbe meglio coprirci integralmente e non uscire di casa? Che non bisogna più andare a correre? Che sarebbe meglio coprirci integralmente e non uscire di casa?". Naturalmente niente di questo era stato pronunciato dalla Meloni.

Non è stata da meno Chiara Braga, secondo la quale che non "saranno libere le donne se sono ancora altre donne ad addossare loro la responsabilità di una violenza. Le parole sono pietre e diventano massi quando a pronunciarle è la presidente del Consiglio donna per difendere il suo compagno". La capogruppo del Partito Democratico alla Camera dei Deputati fa poi un unico minestrone quando sceglie di inserire nel calderone delle critiche politiche anche quella relativa al rdc. "Cancellano il reddito di cittadinanza, azzerano fondi del Pnrr per le periferie. L'unica risposta del Governo a povertà e disagio sociale è ordine e sicurezza. Il decreto reprime, colpisce i minori senza costruire reti sociali e solidali. Cercano voti a destra e dimenticano il Paese".

Lucarelli contro la Meloni

Qualsiasi elemento a cui aggrapparsi si rivela utile per scagliare qualche frecciata velenosa nei confronti della Meloni. Sui propri profili social Selvaggia Lucarelli ha riproposto - pro domo sua - le frasi della premier per sostenere che quest'ultima lancia "messaggi alle potenziali vittime anziché ai potenziali aggressori". Questo perché "il centro della discussione dovrebbe essere la condotta degli stupratori". Condotta che, però, era stata più volte condannata dal capo del governo (come ovvio che fosse) anche durante la conferenza stampa di ieri: gli stupratori sono stati definiti espressamente degli "animali" ed è stato altresì sottolineato che qualsiasi "No" di una donna deve sempre valere come tale, senza "se" e senza "ma".

L'insoddisfazione di Carfagna

Tutto questo, comunque, non può bastare. Ecco, dunque, che nel delocatissimo tema delle violenze contro le donne, Mara Carfagna esprime tutta la sua insoddisfazione per la presunta lentezza con la quale "agisce il governo sul tema della violenza sulle donne": "È trascorso quasi un anno dall'inizio della legislatura - evidenzia l'ex ministra del Sud - le donne continuano a morire e l'unica risposta che sono riusciti a dare è un ritocco al Codice Rosso". L'importantissimo disegno di legge, che velocizza tutte le procedure giudiziarie dopo le denunce delle vittime, è stato votato anche da Movimento Cinque Stelle e proprio Terzo Polo non convince del tutto la Carfagna, la quale si interroga: "Hanno usato i decreti persino per i rave o la lotta al granchio blu: 80 femminicidi in un anno sembrano meno urgenti?". Naturalmente nessuno la pensa così (men che meno a Palazzo Chigi); ma ogni occasione diventa buona per strumentalizzare politicamente tutto quello che viene annunciato dal centrodestra. Lorenzo Grossi

 Contenuti ricci. Il femminismo retrogrado di Lilli Gruber e lo stravolgimento della Costituzione. Guia Soncini su L'Inkiesta l'11 Settembre 2023

La giornalista chiede al fidanzato di Giorgia Meloni di fare un passo indietro sul lavoro come prima di lui hanno fatto le mogli di uomini delle istituzioni. Ma vogliamo davvero tornare ai coniugi che restano a casa a fare la calza per favorire chi della coppia è in carriera? Siamo sicuri che alle donne convenga tornare all’epoca di Betty Draper?

Quando siamo diventate così retrograde? Vivo nel secolo nel quale vivete voi, nel mondo in cui vivete voi, possiedo come voi un telefono che si connette a internet, e come il vostro ha tutte le sue brave app social: questa domanda me la faccio tutti i giorni.

Ogni giorno mi affaccio su quell’abisso culturale che è la gente che accende la telecamera del telefono e ci parla dentro, e m’interrogo su cosa sia andato storto nell’emancipazione femminile.

Credo dipenda dall’esserci trovate, dalla mia generazione in poi, la pappa pronta. Quand’è nata mia madre le donne non avevano neppure diritto di voto. Quando sono nata io non solo potevamo votare ma pure abortire, divorziare, e si dava per scontato avessimo un lavoro.

Sui giornali di quand’avevo sedici anni io c’erano “Una donna in carriera” e Marisa Bellisario. Sui social che guardano le sedicenni di oggi ci sono adulte per le quali la cosa più importante sono i canapé del banchetto di nozze, per organizzare i quali mettono in pausa la loro vita per otto mesi, una cosa che puoi fare solo se una vita non ce l’hai, o meglio: se scambi l’avere marito e figli per un orizzonte, una vita, un’ambizione.

L’altro giorno sul telefono m’è comparsa una che piangeva e si truccava, si truccava e piangeva, e mentre piangeva e si spennellava la faccia spiegava che lei era costretta da questa zozza società a truccarsi, perché nessuno guarda i video in cui non ti trucchi, e se lei voleva che prestassimo attenzione ai contenuti che si ammazzava di lavoro per produrre doveva fornirceli mettendosi l’ombretto, un po’ come le mamme che mescolano le verdure agli altri cibi per farle mangiare ai figli.

(Ovviamente anche far mangiare le verdure ai figli è lavoro usurante, nell’internet del secolo fiacco, quello in cui sono defunte le bisnonne che lavavano i panni al fiume, ma prima o poi risorgeranno per prenderci a calci. I video di madri che raccontano la preparazione del pranzo che il puccettone deve portare a scuola come se stessero raccontando un po’ la scissione dell’atomo e un po’ l’andare in guerra verranno studiati dagli storici, che penseranno sia un gigantesco scherzo).

Insomma la tizia che si sacrificava truccandosi pur di educarci è una creatrice di contenuti, che è il nome che si sono date le analfabete che accendono la telecamera del telefono. Sono ormai, come tutti, abituata alla definizione di «contenuti» per qualunque puttanata, e non mi meraviglio facilmente; ma confesso d’aver avuto un sussulto quando sono andata a controllare le sue gesta e ho scoperto che questa creatrice di analfabetismi non ci rieducava sulle vessazioni patriarcali, non ci rieducava sul fatto che avere uno stipendio è più importante che avere delle bomboniere invidiabili, non ci rieducava in nessuno dei settori in cui mi pare le abitanti di questo secolo siano più bisognose di rieducazione.

I contenuti che creava la creatrice di analfabetismi che si disperava nel mio telefono erano: insegnarci ad amare i nostri ricci. Lo so: cosa parlo io, che mi faccio stirare da parrucchieri da trentotto anni e coi soldi spesi in messe in piega potrei essere proprietaria d’un palazzo o forse d’un intero quartiere.

Però almeno non ho mai pianto disperata mentre mi stiravano (a volte una lacrimuccia se scoppiava un temporale sulla mia costosa piega appena fatta, ecco), almeno sono consapevole che i capelli sono una puttanata che sta alle fissazioni femminili come il calcio sta a quelle maschili, almeno so che è un tema di fotogenia e non di intelletto, almeno non ho mai pensato di fare di «sapete, io sono riccia» la mia identità professionale.

L’anno scorso Camille Paglia, la cui nonna è di Ceccano, mi ha detto che gli americani avrebbero dovuto imparare dagli italiani e venire a patti col fatto che il mondo è pericoloso, invece di frignare: «Sono stata cresciuta col codice comportamentale degli emigranti dalla campagna italiana, che diceva: la vita è pericolosa. La frase che la mia nonna materna ripeteva a chiunque uscisse di casa era: fai attenzione!».

Ci ripenso spesso in queste settimane di dibattito giambruniano (chi glielo doveva dire, a Giambruno, che saremmo stati talmente smaniosi di prendercela con qualcuno da arrivare a imparare il suo cognome). Penso che, come le dissi in quella conversazione, Paglia confonda l’Italia col Novecento: siamo noialtre vegliarde che siamo consapevoli di com’è fatto il mondo, mica gli italiani, che come tutto l’occidente si sono ormai americanizzati.

Ma forse neanche essere vegliarde basta, determinate come siamo a un revisionismo autobiografico che immagini un mondo mai esistito. Mi è venuto il dubbio vedendo Lilli Gruber, sul palco d’una sagra culturale estiva, dire che è inconcepibile una società in cui si dica alle figlie d’essere prudenti, che a lei i genitori dicevano di divertirsi. Gruber ha dieci anni meno di Paglia, è del 1957. È stata ragazza nel pieno degli anni di piombo: veramente i genitori non le dicevano di stare attenta?

Nello stesso intervento, Lilli Gruber diceva che Giambruno avrebbe dovuto fare un passo indietro, come prima di lui hanno fatto le mogli di uomini delle istituzioni. Il concetto è scivoloso: gli uomini delle istituzioni sono molti più che le donne, vogliamo dire a tutte le mogli di uomini con un ruolo istituzionale che devono essere Betty Draper e non osare avere una carriera? Betty Draper viveva in un’epoca in cui le donne americane non potevano aprirsi un conto in banca senza l’autorizzazione del marito: è quello il nostro orizzonte femminista?

(Google dice che il marito di Lilli Gruber fa il giornalista. Si è messo in aspettativa quando lei era parlamentare europea? Chiedo davvero, non ne ho idea. Non credo che nel novero di «quando si rappresentano le istituzioni» in cui Gruber include la presidenza del consiglio non ci sia il parlamento, no?).

Gli esempi scelti, poi, sono bizzarri. «La moglie di Rutelli», cita Gruber senza che nessuno su quel palco la contraddica, e io giuro che non so di cosa parli. Non solo Barbara Palombelli non ha mai smesso di fare la giornalista, ma sono abbastanza vecchia da ricordarmi com’eravamo prima di diventare retrograde: se qualcuno avesse detto alla Palombelli che – giacché il marito era sindaco o ministro o vicepresidente del consiglio – lei doveva rinunciare al suo lavoro per fare la massaia o creare contenuti sui suoi capelli, non solo lei avrebbe sbranato il latore del suggerimento, ma noi tutte le avremmo dato ragione, ne avremmo difeso il diritto alla carriera, avremmo gridato al maschilismo del concetto.

D’altra parte abbiamo passato due turni elettorali americani a fingere di trovare presidenziabile Hillary Clinton solo perché ci sentivamo in colpa per averla, un secolo fa, ritenuta un pochino responsabile d’aver coperto per ambizione il dongiovannismo del marito. Pensavo avessimo imparato dall’errore di posizionamento in epoca clintoniana a non colpevolizzare più i coniugi delle azioni dei coniugi. E invece eccoci qua a chiedere conto alla moglie di cos’ha detto il marito (e a farci dare lezioni sulla libertà di stampa da Giorgia Meloni: che umiliazione).

Altro esempio gruberiano: Michelle Obama. Ha rinunciato, dice la Gruber, alla propria carriera di avvocato. Ma fare la first lady è un mestiere. Previsto dall’istituzione americana, non da quella italiana (la nostra costituzione è piena di difetti, ma è stata scritta prima dell’americanizzazione dell’occidente). Oltretutto, mi pare che Michelle Obama sia più determinata a fare la creatrice di contenuti che l’avvocato, a giudicare dal chiaraferragnismo con cui ha fatturato autobiografie e altre amenità da quand’è uscita dalla Casa Bianca.

Uno dei miei aneddoti preferiti sulla mia asinaggine scolastica è quel settembre in cui, agli esami di riparazione, la prof di storia mi disse che doveva farmi una domanda di educazione civica, e come tutti io educazione civica neanche mi ricordavo esistesse, mai avevo aperto il libro, niente sapevo.

Mi chiese su cosa fosse fondata la repubblica italiana, e io le dissi tutte, tutte, tutte. Forse persino il bel canto, la pasta al dente, la mamma. Tutte, tranne il lavoro. Ogni volta che lo racconto, concludo: avevo ragione io. Che diavolo significa, «fondata sul lavoro». In questo paese di sfaccendati, poi: sarà fondato sul lavoro il Giappone.

Non so quando siamo diventate retrograde, ma so che siamo pronte per una revisione costituzionale. Giambruno può porre le basi per un’eccezione culturale. L’Italia è una repubblica fondata sul lavoro, a meno che tu non abbia figli o matrimoni in comune con qualche esponente delle istituzioni, nel qual caso non ci limiteremo a giudicare la tua carriera, ma decideremo tu non abbia diritto di averne una.

Certo, una volta su mille ci andrà di mezzo la carriera d’un uomo, ma cosa vuoi che sia un Giambruno da rimandare in cucina oggi, con tutte le Palombelli di cui potremo liberarci nei prossimi centodiciassette governi.

Care ragazze, meglio poco vestite che senza cervello. Sono sorpreso per il polverone che hanno sollevato qualche giorno addietro le dichiarazioni di Angelina Mango. La ragazza, tramite un post pubblicato sui social network, ha confessato di essere terrorizzata all'idea di uscire di casa da sola quando fuori è buio. Vittorio Feltri il 10 Settembre 2023 su Il Giornale.

Sono sorpreso per il polverone che hanno sollevato qualche giorno addietro le dichiarazioni di Angelina Mango, cantante di 22 anni la quale così mi è stato riferito gode di ampia popolarità tra i giovani. La ragazza, tramite un post pubblicato sui social network, ha confessato di essere terrorizzata all'idea di uscire di casa da sola quando fuori è buio. Nello specifico, ella ha spiegato che, essendo costretta a recarsi in farmacia, ha preferito non indossare i cosiddetti leggins, capo di abbigliamento aderente, prediligendo un tutone largo, a suo avviso anti-stupro, allo scopo di scampare alla violenza sessuale.

Sia chiaro: non mi meraviglia che le signore di ogni età temano aggressioni carnali per strada, nelle periferie come in centro. Del resto, ogni dì le cronache ci consegnano drammatici episodi di questo tipo e si ha come l'impressione che sia più che concreto il rischio di incappare nel maniaco di turno, nello stupratore seriale, nel criminale pronto a saltare addosso. O forse dovrei dire «nei delinquenti di turno», considerato che tali delitti vengono perpetrati sempre di più in gruppo. Ad ogni modo, ciò che mi ha stupito è altro. È stata fatta passare da una donna l'idea errata che lo stupro possa dipendere dall'indumento vestito, per cui se ti infili la tuta e ti copri da cima a fondo sei immune dal rischio di essere molestata e violata, mentre se metti la gonna o il pantalone aderente la possibilità c'è e aumenta. Pensiamo a cosa sarebbe accaduto se a diffondere un concetto simile fosse stato un uomo. Questi sarebbe stato accusato di essere il maschio tossico, di propagandare il patriarcato, di giustificare la violenza sessuale, di colpevolizzare le donne vittime. Sarebbe stato massacrato, mentre Angelina Mango viene lodata e applaudita.

Il giornalista Andrea Giambruno è stato criticato e osteggiato per avere espresso qualcosa di inoppugnabile: se una fanciulla si ubriaca, avendo scientificamente l'alcol il potere di stordirci e di renderci totalmente vulnerabili, quindi alla mercé di chiunque, si pone in una condizione di fragilità di cui un potenziale aggressore, ovvero il lupo, potrebbe approfittare. Tuttavia, Angelina Mango non suscita obiezioni allorché afferma che la tuta è più sicura della calzamaglia. Perdonatemi, ma ravviso sessismo nella seconda affermazione piuttosto che nella prima. Il ragionamento di Giambruno non contiene alcuna discolpa nei riguardi del mostro. Trattasi semplicemente dell'avvertimento che qualsiasi genitore responsabile fornirebbe alla propria figlia, anzi ai propri figli. Il ragionamento di Mango, di contro, reca il germe della colpevolizzazione o autocolpevolizzazione della vittima: «Hai messo i leggins e te la sei andata a cercare, perché con addosso un sacco della spazzatura nessuno ti avrebbe guardata e assalita». E questo è falso. Siamo certi che siano sempre e solo i maschi a veicolare sessismo e pregiudizio o sono forse anche e sovente le femmine a farlo?

Ricapitolando: se incroci un tizio con pessime intenzioni, questi farà di tutto per realizzare i suoi propositi criminali, a prescindere da come sei vestito, da quanti anni hai, da quale sia il tuo aspetto, dalla larghezza del maglione o dall'aderenza della maglietta che hai addosso o dalla sua trasparenza o dal suo spessore. Vero anche che, se non sarai lucido a causa dell'assunzione di alcol o droghe, sarà più agevole per il malintenzionato portare a segno il suo obiettivo, poiché sarai più indifeso. Ed essere indifesi ovviamente non sarà mai una colpa, una colpa è avvalersi semmai della condizione di temporanea o permanente debolezza altrui. Se avessi una figlia adolescente o dell'età di Angelina Mango, le direi: sentiti libera di vestirti come ti pare ma evita di sbronzarti perché in questo mondo ciò che ti fotte non è l'assenza del tessuto ma l'assenza del cervello.

Gli anticasta di sinistra ce l'hanno con Sainz. "È andato a cercarsela". Francesco Maria Del Vigo il 6 Settembre 2023 su Il Giornale.

I progressisti ribaltano la realtà: il pilota "colpevole" di indossare un orologio costoso

Era solo una questione di ore. Lo sapevamo. E infatti così è stato. Puntuale come una cartella esattoriale è arrivata la nuova polemica progressista, in questo caso ancor più odiosa e ipocrita perché venata di quel pauperismo peloso che molto spesso alloggia negli attici più radical chic dei centri storici. La storia è arcinota, ma la riassumiamo brevemente: domenica 3 settembre, il pilota della Ferrari Carlos Sainz non fa nemmeno in tempo a festeggiare il terzo posto ottenuto al Gran Premio di Monza quando, attorno alle otto di sera, nel cuore della Milano della moda, viene avvicinato da tre ragazzi. All'inizio sembrano normalissimi fan a caccia di un selfie, ma bastano pochi secondi - nel vero senso della parola - per capire che lo scenario è totalmente diverso. In men che non si dica i malintenzionati sottraggono allo sportivo l'orologio che porta al polso. Segue un breve inseguimento durante il quale - trucchi del mestiere - il pilota ha la meglio e recupera il suo prezioso segnatempo. Finisce qui la colluttazione fisica, ma inizia contestualmente quella social e pure un po' sociologica. Dobbiamo partire dal presupposto che - non stiamo citando Vannacci, non si preoccupino le vestali del politicamente corretto - il mondo va leggermente al contrario, perché altrimenti la discussione sarebbe stata: ma è possibile che nel centro storico della «capitale morale», della città più moderna, più inclusiva, più ricca e più Europea d'Italia si venga scippati tranquillamente alle venti di una placida domenica settembrina come nel Bronx degli anni Ottanta? Purtroppo non solo è possibile, ma è la quotidianità alla quale ci sta abituando l'amministrazione illuminata del sindaco Beppe Sala. Dunque la galassia progressista rovescia in modo surreale il quesito: non si vergogna Sainz ad andare in giro con un orologio da più da alcune centinaia di migliaia di euro? Ecco, parliamone: sì, lo sportivo aveva al polso un Richard Mille RM 67-02 Alexander Zverev, un ricercato segnatempo della prestigiosa casa orologiera che del cavallino rampante è anche sponsor. Un oggetto per pochissimi, costosissimo e di lusso. Abbastanza per mandare in tilt la sinistra che si balocca con quel marxismo moralisteggiante e puritano che applica, sempre e solo, agli altri. Perché si può discutere il buongusto di quell'orologio, ma non la liceità di poterlo indossare a proprio piacimento, a meno che non si abiti ancora in Unione Sovietica. Con i polpastrelli tremuli di bacchettoneria, la prima a twittare e poi cancellare, è l'ex volto del Tg1 Tiziana Ferrario: «Mi stupisce che ci sia un uomo che gira con 500 mila euro al polso senza provare alcun imbarazzo. Essere una persona di successo che guadagna tanto non comporta l'esibizione della propria ricchezza questione di etica. #ItalianGP #Sainz». Eccolo lì lo stigma: «l'esibizione della ricchezza». Il commento social provoca una pioggia di critiche, tanto che la giornalista si vede costretta a precisare e poi rimuovere il commento, ma la toppa è peggio del buco e risponde così a chi le fa notare che molto probabilmente il pilota indossava l'orologio per questioni di sponsorizzazione: «Diciamo che in genere non amo l'ostentazione di oggetti supercostosi. Mi pare inopportuno. Farlo per guadagno, senza comprarlo, mi pare ancora peggio. Ma vedo di essere in minoranza. Pazienza!». E pensare che Fidel Castro portava al polso addirittura due Rolex, chissà cosa ne pensavano Ferrario e compagni. Francesco Maria Del Vigo

Vittorio Feltri per Libero Quotidiano - Estratti il 7 Settembre 2023

L’ipocrisia della sinistra comporta anche questo: si può essere ricchi sfondati purché non lo si mostri. No, non è un codice di eleganza, bensì una morale falsa, tesa a giudicare l’opulenza come qualcosa di turpe, soltanto allorché la ricchezza appartenga agli altri. Quando è la propria, è cosa buona e giusta. 

La giornalista della Rai Tiziana Ferrario si è espressa su Twitter riguardo la disavventura capitata al pilota della Ferrari Carlos Sainz, il quale, la sera del 3 settembre, è stato derubato del suo orologio, dal valore di mezzo milione di euro, nei pressi dell’hotel Armani, a Milano, da una banda di immigrati di nazionalità marocchina.

(...) 

La giornalista ha preso di mira la vittima del reato, ossia Carlos Sainz, colpevole di andarsene in giro con un orologio di pregio, anzi reo di averlo acquistato, spudorato e svergognato com’è. 

Non ci sarebbe mai passato per la testa di mettere sul banco degli imputati la persona che subisce un danno, un crimine, invece Ferrario lo ritiene opportuno e si stupisce di come un individuo possa uscire di casa con un gioiello di tale valore senza provare alcun imbarazzo. 

DELINQUENTI Insomma, non sono i delinquenti, secondo la giornalista, a doversi vergognare, bensì coloro che onestamente si guadagnano da vivere e che si concedono qualche frivolezza, o qualche piacere, che possono permettersi con i loro stessi quattrini e senza ledere il prossimo. Occorre spiegare alla cronista che il pilota non ha compiuto alcun delitto per potere comprare quell’orologio, non ha rubato, non ha frodato, non ha ucciso, non ha sfilato l’oggetto dal polso di qualcuno che passeggiava in centro.

Egli, semplicemente, essendo capace di ricavare profitti importanti mediante il suo mestiere, che non è disonesto né vale meno di quello di un volto televisivo, dispone delle risorse economiche per potersi concedere determinati valori. Il pilota è da ammirare per tale capacità, non da disprezzare. 

Semmai andrebbero disprezzati i delinquenti o quanti, pur potendo lavorare, si girano i pollici e campano sulle spalle altrui. Ferrario ha applicato a Sainz l’inaccettabile paradigma della minigonna: «Se indossi la minigonna e vieni violentata, te la sei andata a cercare, vergognati». 

Eppure una donna è libera di indossare ciò che le pare, come Sainz è libero di portare un orologio da 500 mila euro e pure di acquisirlo.

A dovere avvertire disagio semmai deve essere la signora del video per le sue affermazioni, che ha in seguito cancellato da Twitter, per poi ripensarci ancora e tentare di spiegarsi, peggiorando di molto la già penosa figura. La giornalista, arrampicandosi sugli specchi, ha cercato di fare passare il suo ragionamento bizzarro come un concetto di giustizia sociale. 

A chi le ha fatto notare che uscire di casa con un gioiello addosso non debba suscitare imbarazzo, non trattandosi di un crimine, ella ha risposto: «Non si gira con un orologio da 500 mila euro al polso. È questione di etica», e ancora «capisco che non ve ne freghi niente delle disuguaglianze nel nostro Paese e nel mondo. Siete dalla parte di chi ostenta ricchezza e oggetti costosi. La discrezione, il basso profilo, il buon gusto li ritenete fuori moda, ma soprattutto non sapete cosa siano. Conta apparire, mostrare, esibire. La povertà vi fa schifo, siete per la ricchezza».

L’ETICA In effetti, la miseria fa schifo pure a me, come a chiunque, sono anche io di quel club, ma sono convinto che faccia schifo anche alla giornalista che ci fa dotte e non richieste lezioni di moralità. Sono sicuro che pure lei preferisca essere ricca piuttosto che povera. Del resto, possedere un nutrito conto in banca non è una colpa, piuttosto lo considero un merito, quando ciò è frutto del proprio lavoro, è evidente. 

Si dia il caso che i calvinisti, ad esempio, lo reputassero indice di elezione da parte del Signore. E non è un crimine neppure decidere come spendere i propri denari. Gradiremmo tutti farlo senza che Ferrario ci metta il becco deplorando le nostre preferenze, commiserandoci, invitandoci a vergognarcene.

La maestra di eleganza, che incita alla sobrietà, trascura che si può indossare un prezioso solo per il gusto di farlo e non per ostentare uno status e che talvolta nulla è più signorile del tacere anziché redarguire gli altri per la loro innocente condotta. Ciò che non è etico, cara Ferrario, è rapinare. 

Dagospia il 6 Settembre 2023. "A CHE CAZZO SERVE METTERSI UN OROLOGIO DA 500 MILA EURO?" – A "LA ZANZARA" CRUCIANI TORNA SUL FURTO DI MILANO A SAINZ E "COLPEVOLIZZA" LA VITTIMA: "SE GIRI CON UN OROLOGIO COSÌ COSTOSO CHE CAZZO TI ASPETTI? E' CHIARO CHE C'È SEMPRE QUALCUNO CHE PENSA DI FOTTERTELO" – PANDEMONIO NEI COMMENTI: “GIAMBRUNO, SEI TU? ECCO UN ALTRO FENOMENO DEL “TE LA SEI CERCATA”, “IL LUPO LO TROVI”. LA VERITA’ E’ CHE UNO PUO’ METTERE CIO’ CHE VUOLE. SAINZ NON STA COMMETTENDO NESSUN REATO"

«Eh però pure tu». Il dibattito sullo stupro e i cani di Pavlov con la dialettica da croccantini. Guia Soncini su L'Inkiesta il 5 Settembre 2023

Solo per questo reato c’è bisogno di ribadire almeno cento volte l’ovvietà che la colpa è di chi lo commette. Il club dei giusti ha le sue regole, compresa quella scemenza di «e allora perché non dite di non bere anche ai maschi?» 

Io non vorrei scrivere di nuovo di Bellicapelli Giambruno, a meno che non fosse per arrecare sollievo alla nazione comunicando che egli ha cambiato parrucchiere e il peggio è passato.

Io non vorrei scrivere di nuovo della scemenza su cui ci stiamo incistando da una settimana, ovvero la gravissima assoluzione immaginaria degli stupratori da parte d’un conduttore di cui nessuno di noi aveva mai guardato i programmi – poi sua moglie ha fatto carriera.

Io non vorrei di nuovo soffermarmi sulla demenza del ceto medio pavloviano che non ha argomenti se non ripetere che non è stato ripetuto abbastanza che la colpa dello stupro è degli stupratori. Ma tu pensa. Meno male che ce l’hanno specificato. Pensavo che la colpa delle rapine fosse dei banchieri, che se ti mozzano un orecchio fosse d’uopo stigmatizzare la famiglia Getty, e che quando c’è un omicidio si mettesse in galera il cadavere.

Se dici alle donne che se si ubriacano poi non hanno il controllo della situazione stai dicendo che sono corresponsabili del delinquente che le ha stuprate, devi invece dire che lo stupro è sbagliato. Eh, ma in quello studio televisivo hanno ripetuto un milione di volte che le donne, sobrie o sbronze che siano, hanno comunque il diritto di non essere stuprate, e non è bastato. Quindi?

Non sarà proiezione?, mi domando baloccandomi col kit del piccolo psicanalista. Perché io non vedo altri reati per i quali ci sia bisogno di ribadire ogni volta che i reati sono colpa di chi li commette. È una cosa che diamo per scontata, come la forza di gravità o il fatto che dai rubinetti delle case esca l’acqua. Per lo stupro, invece, se ripeti meno di cento volte al minuto che condanni fermamente gli stupratori allora stai colpevolizzando la vittima. Non sarà che chi ha così bisogno di sentirselo ripetere non è tanto convinto?

Eppure, per tutti gli altri reati vige l’«eh però pure tu». Se ti rubano il Rolex a Napoli: eh però pure tu che vai a Napoli con un orologio costoso (qui è dove dicono che ho pregiudizi antimeridionalisti, approfittiamo che non ci disturbino mentre s’indignano e proseguiamo).

Se ti rubano la bici (specifichiamo per fingerci equi: a Milano): eh però pure tu che non l’hai legata. Se il commercialista dei Parioli ti fotte i risparmi: eh però pure tu come facevi a credere a quei tassi d’interesse. Eccetera.

Una scrittrice ha, nel segreto della sua bacheca Facebook (segreto da me prontamente violato), raccontato che «se stavi a casa non ti succedeva» potrebbe campeggiare sul suo stemma di famiglia. E io mi sono ricordata che fino a qualche anno fa ci piaceva moltissimo citare quel Pascal che diceva che tutti i guai dell’uomo derivano dalla sua incapacità di starsene nella sua stanza da solo. Poi è arrivata la pandemia ed è diventato screanzato dire quanto si sta bene a casa perché eh ma tu non pensi alla sofferenza di chi a casa non vorrebbe starci.

Scrive la scrittrice che non nominerò per non rovinarle la reputazione: «A volte mi diverto a raccontare ai miei cari un qualche accadimento implausibile, qualcosa come “non ci crederai, sono andata alla posta per pagare un bollettino, poi sono uscita, ho attraversato la strada E UN PIANOFORTE A CODA MI È CADUTO SULLA TESTA”. Lo faccio perché mi diverte sentire le reazioni che non sono mai ovvie, tipo ma come fai a essere qui tra noi se un pianoforte ti è caduto sulla testa, sono invece nell’ordine: ma proprio a quell’ora dovevi andare alla posta?; ma proprio a quell’ufficio postale dovevi andare?; ma non lo sai che i bollettini li puoi pagare comodamente col cellulare?».

C’è una ragione per cui tengo innominata la scrittrice, ed è che – come lei che si guarda bene dallo scrivere questa cosa in pubblico – conosco le regole reputazionali dello scemissimo mondo in cui viviamo. Regole secondo cui se osi dire che «eh però pure tu» è la risposta su cui si fonda la metà delle nostre conversazioni come minimo sei giustificatrice di stupri, colpevolizzatrice di vittime, e meloniana.

Puoi invece, collocandoti saldamente nel club dei giusti, dire macroscopiche puttanate quali «e allora perché non dite di non bere anche ai maschi?». Lo chiedono seriamente, questi smarriti cani di Pavlov con la dialettica da croccantini. Si chiedono e ci chiedono davvero che differenza di rischio ci sia tra una donna ubriaca e un uomo ubriaco.

Leggete il labiale: le donne non stuprano gli uomini. Un uomo ubriaco sul mio divano è un problema perché devo chiamargli un taxi, è un problema perché se lo sbatto fuori di casa poi ho lo scrupolo che lo rapinino, è un problema perché già gli uomini hanno un senso dell’umorismo discutibile ma da sbronzi peggiora. Ma non rischia di venire stuprato. Indovinate perché? Bravi: perché a venire stuprate sono le donne. Quindi, in un dibattito sullo stupro, perché dovrei dire agli uomini di non bere? Semmai dovrei dirgli di bere, così poi non gli tira.

Alla fine del secolo scorso, un sabato pomeriggio mi svegliai da una pennichella e nella mia camera da letto c’era uno sconosciuto. Era un ladro che era entrato in casa vedendo tutto buio e pensando l’appartamento fosse vuoto, aveva percorso tutte le stanze cercando invano qualcosa da rubare (ladro romano: non riconosceva le borse costose), ed era arrivato all’ultima stanza in fondo, cioè la mia camera da letto.

Mi prese un discreto colpo, e per settimane non parlai d’altro. I romani non erano più turbati di tanto: per loro che ti entri un ladro in casa è ordinaria amministrazione, e in effetti a me in diciassette anni di Roma è successo quattro volte (città civilissima, invero inspiegabili i cinghiali).

Mi diedero consigli pratici. Devi lasciare, mi spiegarono, contanti nell’ingresso: li vedono subito, appena entrano, li prendono e se ne vanno senza disturbarti oltre.

Ero giovane e pensai che fossero suggerimenti premurosi, sebbene irrealizzabili per la me ventiequalcosenne perennemente squattrinata. Ero giovane e non c’erano i telefoni con le telecamere: persi la preziosa occasione d’accusarli di stare colpevolizzando la derubata, che non era stata abbastanza accorta da lasciare i soldi nell’ingresso, e insomma un po’ se l’era cercata. Ero giovane e avevo solide ragioni anagrafiche per essere scema: gli adulti di adesso che scusa hanno?

Andrea Giambruno, uno studio gli dà ragione: sinistra sbugiardata. Antonio Rapisarda Libero Quotidiano l'1 settembre 2023

L’equazione che dà ragione ad Andrea Giambruno e al suo consiglio “da padre” a tutti i giovani – come hanno ricordato nei giorni scorsi su queste colonne Alessandro Sallusti e Pietro Senaldi – l’ha fornita sul Fatto Quotidiano (lo stesso giornale da cui è partita, scherzi della “coerenza”, la campagna contro il giornalista e compagno di Giorgia Meloni) una storica firma come Giovanni Valentini: «Più alcol e droghe uguale più stupri». Nessun assist, è chiaro, alla cosiddetta vittimizzazione secondaria delle donne, spesso ragazzine, che subiscono gli imperdonabili abusi sessuali. Semplicemente una prima risposta, scientifica e a 360°, a uno degli interrogativi che proprio l’ex direttore de l’Espresso si è posto con comprensibile preoccupazione: «Perchè tanti uomini arrivano a violentare o addirittura a uccidere tante donne, le loro stesse compagne o ex compagne?».

IL DOSSIER

A fornirla, assieme ad altre, un importante dossier sul tema – “La violenza è solubile in alcol” – a cura di Valentina Guerrisi e Giada Caprini, team di avvocati dello studio legale Roberto De Vita. Uno studio, irrobustito dalle ricerche effettuate dall’Oms (nel 2021) e dall’American Addiction Centers, che per lo stesso Valentini «getta una luce sinistra sulla connessione fra l’abuso di alcolici o di sostanze stupefacenti e la violenza sessuale». Non solo per lui, dato che ieri anche Il Messaggero ha riportato ampi stralci della ricerca titolando proprio sulla scia di ciò che è stato messo in evidenza (scatenando una grottesca e strumentale crisi isterica da parte della sinistra) dal conduttore del Diario del giorno: «I rischi aumentano se c’è abuso di alcol». 

Che cosa ci dice il report? Prima di tutto che vi è una relazione «sempre più stretta» tra l’uso/abuso di droghe e sostanze alcoliche «e l’aumento di fenomeni di violenza»: tanto da diventare oggetto di numerose ricerche sociali nel corso dell’ultimo decennio. Il fenomeno – spiegano le due legali – si è ulteriormente acuito nel corso della stagione del Covid, «anche a causa dell’incremento del cosiddetto “marketing dell’alcol”»: le piattaforme digitali, si legge, raccolgono informazioni sul pubblico che vengono utilizzate per indirizzare singoli utenti ed influenzare le preferenze, gli atteggiamenti e i comportamenti. A ciò si aggiunge una sempre maggiore facilità nella reperibilità e nel consumo di sostanze stupefacenti. Una strategia “di mercato” che ha aumentato «l’accettabilità del loro consumo» coinvolgendo purtroppo sempre più giovani. Il risultato? L’insorgenza, proprio in età precoce, «di comportamenti di abuso che, nella maggior parte dei casi, sfociano in atti di violenza, soprattutto di tipo sessuale», affermano le ricercatrici.

I rischi derivanti dall’abuso di alcol e droghe non riguardano “direttamente” solo i maschi. Gli studi riportati da Guerrisi e Caprini hanno riscontrato una forte connessione: «Un’indagine in dieci Paesi dell’Europa centrale e meridionale – annota il report – ha rilevato che sia l’aggressione sessuale che la vittimizzazione sessuale sono associate al bere in combinazione con il sesso». Il passaggio seguente entra nel dettaglio e interessa proprio le donne: quando parla di una serie di collegamenti «tra l’uso di sostanze e il rischio di subire un’aggressione sessuale». All’aumento di vulnerabilità che ne deriva, infatti, si aggiunge nella maggior parte dei casi «una condizione di “incapacitazione”». 

VULNERABILI

Che significa? Che l’effetto delle sostanze può abbassare le inibizioni e il livello di attenzione, «mettendo a rischio la capacità di riconoscere situazioni pericolose e di prendere decisioni consapevoli». A ciò va aggiunto un inquietante corollario: «In alcuni casi, gli aggressori possono utilizzare droghe o alcol per rendere le vittime incapaci di resistere o proteggersi da un’aggressione sessuale. Questa pratica – così viene riportato – è spesso indicata come “stupro indotto”». Ricerca, questa dello studio De Vita, che avvalora ancor più quanto sostenuto da Andrea Giambruno che aveva, appunto, evidenziato proprio gli eventuali ed ulteriori gravi pericoli derivanti dal consumo incontrollato di alcol e stupefacenti. Tesi – stravolte poi ad arte dagli avversari che speravano con ciò di mettere in cattiva luce la figura di Giorgia Meloni – che hanno scatenato l’increscioso linciaggio mediatico-politico nei suoi confronti. 

Alessandro Sallusti contro la Gribaudo: "Giambruno? Anche un cretino pure di sinistra lo sa". Alessandro Sallusti su Libero Quotidiano il 30 agosto 2023

Il Comitato di salute pubblica della sinistra riedizione dell’organo esecutivo del terrore durante la Rivoluzione francese - ieri ha emesso la sua quotidiana condanna a morte. Andrea Giambruno, giornalista di Mediaset nonché compagno di vita di Giorgia Meloni, deve essere ghigliottinato per aver pubblicamente asserito, a proposito di stupri e violenze, che “se i giovani non si ubriacassero e drogassero difficilmente finirebbero nelle braccia del lupo”. La sentenza, scritta a più mani sinistre, è firmata dalla vice presidente del Pd, Chiara Gribaudo, con un irrevocabile “Giambruno è ripugnante” e successive richieste a Mediaset di un suo licenziamento per comportamento offensivo verso le donne violentate.

Non conosciamo lo stato alcolico della Gribaudo al momento della sentenza, sappiamo solo che convive fisicamente con la sua capa Elly Schlein, che è nata a Cuneo e che quindi, secondo il grande Totò, dovrebbe essere donna di mondo come tutti quelli che a Cuneo ci hanno fatto almeno tre anni di militare. Per questo è strano che una di Cuneo pensi che i genitori e i giornalisti (Giambruno è entrambe le cose) non debbano mettere in guardia i loro ragazzi dai rischi di bere troppo e impasticcarsi. Certamente fuori da Cuneo anche un cretino, pure se di sinistra, sa che quando perdi il controllo e la ragione la possibilità di finire nelle fauci del lupo, o di diventare tu stesso lupo, aumenta a dismisura come ha banalmente ricordato Giambruno.

Se invece di starnazzare a vanvera Gribaudo e soci avessero letto ieri mattina il “loro” Fatto Quotidiano, avrebbero trovato una interessante e documentata paginata firmata da Giovanni Valentini, mito del giornalismo di sinistra, già direttore dell’Espresso e vice della Repubblica, dall’eloquente titolo iper-super-mega giambrunesco: “Più alcol e droghe uguale più stupri”. Non importa che due pagine prima sullo stesso giornale si spernacchiasse Giambruno perla sua “uscita discutibile e imbarazzante” - è noto, il diavolo fa le pentole ma scorda i coperchi - è che questi comunisti arrivano addirittura a voler impedire al compagno della Meloni di dire una cosa talmente di buon senso che pure loro pensano e scrivono con toni ben più duri sui loro giornali perché anche l’orologio rotto due volte al giorno azzecca l’ora. E mò signorina Gribaudo come la mettiamo? È ripugnante anche il suo amico Valentini? Chiede al Fatto di licenziarlo? Un consiglio: si vergogni, chieda scusa e torni a Cuneo a imparare come gira il mondo, ma soprattutto cosa dire ai ragazzi e alle ragazze dallo sballo facile.  

Giambruno, anche Travaglio gli dà ragione: cosa spunta sul Fatto. Daniele Dell'Orco su Libero Quotidiano il 31 agosto 2023

Se un qualunque soggetto legato direttamente o indirettamente a Giorgia Meloni, al governo di centrodestra, a chiunque non corrisponda alle prerogative di pensiero progressiste, dicesse a voce troppo alta che il nostro pianeta è tondo, la sinistra diventerebbe automaticamente terrapiattista. Ad Andrea Giambruno, che non è un politico e non è un intellettuale di destra ma ha la “macchia” di essere il compagno del presidente del Consiglio, è capitato di dire durante la trasmissione che conduce che «se eviti di ubriacarti e perdere i sensi, eviti di incorrere in determinate problematiche» come il rischio di finire tra le braccia di uno stupratore. Il virgolettato è importante perché gli attacchi immediati contro Giambruno accusato di «victim blaming», cioè di colpevolizzare la vittima di violenza sessuale anziché il carnefice, si basano sulla distorsione totale di una verità a dir poco fattuale: l’eccesso di alcol è statisticamente legato a doppio filo agli episodi di stupro. Ciò non significa sollevare gli stupratori dalle loro responsabilità morali e soprattutto penali, ma equivale, con o senza statistiche alla mano, a dire ai propri figli e alle proprie figlie che l’abuso di alcolici contribuisce ad accentuare pericoli di vario genere. Tra cui questo.

NEGARE L’OVVIO

Ma pur di attaccare Giambruno, e quindi la Meloni, la sinistra nega l’ovvio. Anzi no, non lo nega, ne rivendica la paternità logica. Giambruno, da genitore oltre che da essere pensante, non può permettersi di dirlo. Loro invece sì. Basta dare un occhio al Fatto Quotidiano per accorgersi dell’assurdo cortociruito. Ieri il foglio diretto da Marco Travaglio ha riservato un taglio basso al giornalista, attribuendogli un virgolettato mai pronunciato («se non ti ubriachi, non ti stuprano») e definendo «nuova perla» quella di Giambruno a riprova che qualsiasi cosa dica non va mai bene a prescindere. Ebbene, già il pezzo sconfessa il titolo perché il senso del ragionamento di Giambruno è ben diverso. Ma il Fatto non si limita a questo, e qualche pagina dopo ospita un lungo approfondimento firmato da un totem della sinistra, Giovanni Valentini (già direttore de L’Epresso e vicedirettore di Repubblica) dal titolo: «Più alcol e droghe uguale più stupri». Ma che grande scoperta!

Esattamente ciò che dice Giambruno, ma con il packaging lessicale e narrativo tipico della sinistra, quindi lecito. Valentini cita degli studi a supporto di questa strabiliante correlazione, come un dossier dello Studio legale Roberto De Vita, penalista e docente all’Accademia Ufficiali della Guardia di Finanza. Il legame, come sostengono le avvocatesse Valentina Guerrisi e Giada Caprini, si sarebbe ulteriormente acuito «nel corso della recente pandemia, a causa dell’incremento del cosiddetto “marketing dell’alcol”, a cui si è unita una sempre maggiore facilità nella reperibilità e nel consumo di sostanze stupefacenti. Questa avrebbe favorito l’insorgenza in età precoce di comportamenti che, nella maggior parte dei casi, sfociano in atti di violenza, soprattutto di tipo sessuale».

PAROLA AGLI ESPERTI

Ma non è tutto, perché l’alterazione, che indubbiamente contribuisce solo a rivelare la bassezza che contraddistingue uno stupratore anche da sobrio, aumenta sensibilmente anche il rischio corso dalle vittime potenziali che diventano più vulnerabili: «L’effetto delle sostanze può abbassare le inibizioni e il livello di attenzione, mettendo a rischio la capacità di riconoscere situazioni pericolose e di prendere decisioni inconsapevoli». Anche questa sembra la scoperta dell’acqua calda, e agli studi citati dagli avvocati nel loro dossier è possibile aggiungere, tra i tanti, quello del National Sexual Violence Resource Center (NSVRC) americano, che, prendendo in esame l’ambiente dei college universitari (dove si esagera spesso col “binge drinking”, cioè bere fino al blackout) ritiene che almeno il 50% delle aggressioni sessuali subite dagli studenti (ad opera di altri studenti) sia legato all’abuso di alcol. In sostanza: l’alcol rende una bestia ancora più bestia, ma allo stesso tempo può anche rendere una preda facile ancora più facile; evitare di stordirsi non equivale ad essere al sicuro ma ad avere una chance in più di salvezza. Il Fatto quindi, per attaccare Giambruno, gli dà ragione.

Da ilgiornaleditalia.it mercoledì 30 agosto 2023.

Enrico Mentana ha attaccato con un post al vetriolo il conduttore di "Diario del Giorno" Andrea Giambruno, reo di aver espresso il suo pensiero in merito ai recenti casi di stupro che stanno scatenando il dibattito italiano. Vittorio Feltri, storica firma di Libero ed il Giornale, è intervenuto per dire la sua sul post del direttore di Tg La7. 

Enrico Mentana si è inserito nel dibattito pubblico italiano, replicando alle frasi di Giambruno: "Ok, la linea è questa: se esci di casa non puoi poi lamentarti che son venuti i ladri. Se vai allo stadio a fare il tifo non puoi sorprenderti perché dei violenti ti menano. Se esci col portafogli per fare la spesa e te lo rubano, beh te la sei cercata. Se sei donna e vai in giro la sera in minigonna o senza reggiseno, se sei ancora fuori dopo mezzanotte, o se ti bevi un bicchiere di troppo, poi non stupirti se ti violentano.

Ma se segui questa logica, e fai il giornalista in tv, che tu sia single o maritato, quando dici una fesseria col botto, e mezzo mondo ti salta addosso, sai bene a chi dare la colpa". 

Vittorio Feltri, incredulo davanti alla bufera che si è scatenata sul compagno della Meloni, ha replicato così a Mentana: "Ero lì con Giambruno. Ha detto cose giuste, i miei figli non li ho fatti bere fino a 20 anni. Mentana qualche volta lo vedo ma non lo leggo mai perché mi dà sui nervi. 

Dice stupidaggini, le cretinate le diciamo tutti ma lui di più. Sono anche io stupito di fronte a queste affermazioni, oggi ero lì col compagno della Meloni, mi interrogavo su cose normali, c'erano due ospiti in studio, tra cui la moglie di Collovati... dicono delle cazzate che non stanno nè in cielo nè in terra".

"Io sono convinto - continua Feltri - che gli stupri siano dei fenomeni di un bullismo esagerato che si trasferisce sui telefonini perché filmano tutte le chiavate che fanno... io quando ero giovane le chiavate me le tenevo per me".

Estratto da ilgiornaleditalia.it giovedì 31 agosto 2023.

Un polverone, quello sollevatosi in questi giorni a seguito delle parole del cronista Andrea Giambruno, marito della Premier Giorgia Meloni, che in diretta su Rete 4 aveva sottolineato come il fatto di essere ubriachi […] aumenti il pericolo di cadere vittima di abusi.

Esplosa in poche ore la polemica […], l'occasione si era fatta ghiotta per decine tra i più importanti "intellettuali" del Paese, pronti a far sapere al mondo quale fosse la propria posizione in merito. Tra questi - "ovviamente", scrive qualche utente sui social definendola la "classica radical chic" - non era mancata Chiara Ferragni. 

[…] Un'accusa netta ad Andrea Giambruno, […] pronunciata […] sul proprio profilo Instagram: 

"Ci tengo a ricordare ad Andrea Giambruno e ad altri colleghi giornalisti che non abbiamo problemi con i lupi; e neppure con i giganti buoni, mostri, cani e bestie varie. Il nostro problema sono gli uomini, come loro". Parole […] che hanno fatto alzare qualche sopracciglio. 

A lasciare interdetti molti, in particolare, sarebbe la generalizzazione fatta da Ferragni nei confronti dell'intero genere maschile, accusato di rappresentare "Il problema". […] Il genere maschile resta, per l'influencer, "Il problema".

[…] A commentare l'uscita da più voci considerata infelice, è stato Vittorio Feltri […], lasciando ben poco spazio alle interpretazioni riguardo a quale sia un sentire diffuso attorno alle parole dell'influencer: "Ma che c***o dice Ferragni, se una si ubriaca o si droga è chiaro che se incontra lo stron** rischia". 

Una frase che, nuovamente, sottolinea l'approvazione di Feltri nei confronti della frase di Giambruno. 

Riguardo alla generalizzazione nei confronti dell'intero genere maschile individuato come problema, poi, il commento è tagliente: "Dà delle bestie a tutti gli uomini e scade nell'insulto gratuito, non c'è molto altro da dire".

Ad accompagnarlo, una battuta: "Se noi siamo bestie loro cosa sono? In vita mia sarò andato a cena con almeno 12mila donne. Nessuna mi ha mai offerto". Il giornalista conclude dicendo di non conoscere Chiara Ferragni, ma solo il marito, Fedez

Giampiero Mughini per Dagospia giovedì 31 agosto 2023.

Caro Dago, non che non sia un grande tema quello degli uomini se e quando diventano "lupi" alle donne, siano esse ubriache o no, il che ovviamente non fa grande differenza. E con tutto questo non riesco a entrarci a piedi giunti nella questione che oppone - mi pare - l'influencer Chiara Ferragni e il giornalista un tantino di "destra" Andrea Giambruno. 

E' talmente ovvio che un uomo che valga l'essere uomo mai e poi mai dovrebbe neppure sognarsi di sfiorare con un dito una donna seppure ubriaca e malcerta di sé. Mai mai e poi mai. E questo per rispetto di sé, per elementare rispetto di sé. La Ferragni - mi pare - intende invece che già il fatto di esser uomo lo mette (ci mette) nella condizione di minacciare la donna in quanto tale, di costituire una minaccia dei suoi diritti e delle sue libertà. Mi sento offeso da una tale affermazione. Passi. 

Appunto passi, non voglio aggiungere banalità a banalità. Da quando avevo vent'anni mai in un solo particolare ho ritenuto gli uomini costitutivamente "diversi" dalle donne. Eravamo tutti delle persone, e gli uomini e le donne, e ciascuno/ciascuna lo era a modo suo. Non esistono gli Uomini e le Donne con l'iniziale maiuscola. Esiste, Tizio, Caia, Sempronio, Luisa, e ciascuno/ciascuna di loro era un romanzo diverso. 

Ho scritto più volte che nella mia giovinezza ho incontrato delle donne che più stronze erano e più mi piacevano. Detto questo, la volta che più mi sono divertito nella mia giovinezza è stato leggere di quel gran consesso di Lotta continua (che pure è stato il groupuscule più vitale della mia generazione) in cui le donne si ribellarono agli uomini che volevano relegarle a far funzionare il ciclostile e per giunta scopavano male. Ne è finita la storia politica di Lotta continua, è stato il più grande happening della mia generazione.

Per quel che mi riguarda, la sola volta che ho avuto un'oncia di potere sono stati i tre anni in cui ero presidente del Centro universitario cinematografico di Catania, un'istituzione culturale a quel tempo poderosa. Quando mi dimisi perché dovevo andare a studiare a Parigi, proposi come mio successore Silvana che era brava, intelligente, colta e tutto quanto. 

Che fosse una donna, non mi ci ero soffermato un solo istante. E' sotto le lenzuola che  quella differenza conta eccome, tutto il resto delle volte niente affatto. E invece quando le Donne si mettono ad esaltare le Donne, io mi addormento dalla noia. 

Tutto il contrario quando lessi per la prima volta il capitale libro di Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel, la cui prima e commovente edizione è dell'estate 1970. Vedo che adesso lo ha ripubblicato per i tipi della Nave di Teseo l'onnisciente Elisabetta Sgarbi. 

E' un libro drammatico in cui l'autrice, che era una critica d'arte pienamente compiuta e affermata, si gioca il tutto per tutto e della sua vita e della sua professione con il rivendicare la bruciante particolarità dell'esser donna in un mondo che eccome se cinquant'anni fa non era volgarmente "maschilista". Chi di voi, uomo o donna non l'avesse letto, ve lo raccomando. Da leggere assieme a un altro libro straziante, il Vai pure di alcuni anni dopo, la registrazione del confronto della Lonzi con il suo uomo, lo scultore Pietro Consagra, confronto che si chiude con la rottura del loro rapporto. "Adesso vai pure", gli dice la Lonzi ed è l'ultima riga del libro.

Il coraggio intellettuale, la novità di pensiero, la solitudine, il rischiare i rapporti primari a cominciare da quello sentimentale. Ecco chi è stata Carla Lonzi. Non adesso, di cui leggo che Michela Murgia aveva 600mila follower e la sua "luce" illuminava il mondo. Altri tempi.

Cos’ha detto Meloni su Giambruno e le polemiche per le frasi sugli stupri. Storia di Monica Guerzoni su Il Corriere della Sera giovedì 7 settembre 2023.

Giorgia Meloni e Andrea Giambruno non sono la stessa persona. E lei, la premier, non intende rispondere di quel che il compagno, conduttore Mediaset, afferma nell’esercizio della sua libera professione. Il capo del governo invoca la libertà di stampa per il padre di sua figlia e, per sé stessa, la libertà di tenersi alla larga dalle uscite televisive del giornalista, presenti e future.

C’è voluta la domanda in conferenza stampa di un giornalista del Fatto quotidiano perché il capo del governo provasse a mettere la parola fine alle polemiche suscitate da Giambruno. Ultima quella scatenata dalla frase sugli stupri che si può sintetizzare così: «Se vai a ballare e non ti ubriachi il lupo lo eviti». Giacomo Salvini le chiede se sia d’accordo e Meloni, senza perdere la calma e anzi ringraziando per la domanda, risponde: «Vorrei capire qual è la lettura che voi date del concetto di libertà di stampa. Per come la vedo io, un giornalista non dice in tv quel che pensa la moglie». E qui, oltre alla presa di distanza sul merito, c’è una richiesta di metodo. Meloni chiede ai giornalisti di non essere più chiamata in causa per quel che il compagno afferma «durante l’esercizio della sua professione» e di non attaccarlo solo in quanto «vuole bene a me». E poi, sperando di chiuderla una volta per tutte: «Non ritengo di dover essere io a dirgli quel che deve dire...». «Penso che Andrea Giambruno abbia detto in modo frettoloso e assertivo una cosa diversa da quella interpretata dai più. Non è una giustificazione per stuprare le ragazze, ma per dire «state attente, occhi aperti»: questo ci vedo io», ha aggiunto Meloni durante la conferenza stampa al termine del Consiglio dei ministri.

 Dagospia lunedì 28 agosto 2023. Riceviamo e pubblichiamo

Carissimi lettori, carissime lettrici, 

mi è capitato di leggere un post de Il Fatto Quotidiano che riportava una dichiarazione della ministra cattolica oltranzista della famiglia Eugenia Roccella. In essa affermava, tra le altre cose, che gli stupri avvengono per colpa della pornografia, facilmente accessibile ai ragazzi “specie minorenni”. 

Ora, cara ministra Roccella non so se Lei ha mai visto un film porno “specie d’autore”, assolutamente e completamente diverso dai filmati su internet. Indubbiamente la visione di un porno, “specie come lo si produce oggigiorno”, che fa anche rima, ovvero con solo ed esclusivamente scene di sesso meccanico, con genitali maschili e femminili conditi da bocche che si muovono a destra e a manca senza né capo né coda, influisce sulla forma mentis dei ragazzi e delle ragazze, da un sondaggio risulta che li guardano anche loro, ma non può di certo essere la causa principale di uno stupro. 

Un semplice film hard non credo possa provocare tanta euforia alla maniera di Genny Savastano o di Annalisa Sangue Blu di Gomorra, quello sì provoca euforia e adulazione tanto da emularne i personaggi. 

Le ricordo che chi fa porno lo fa in scienza e coscienza, “ed eventuali scene di stupro, vengono precedute da avvisi sulla loro pericolosità in modo da sconsigliarne la messa in pratica”, ergo senza alcuna costrizione. 

Prendersela con il porno è semplicemente un atto propagandistico e strumentale di chiaro stampo ipocrita, “Leo La Russa docet”. Piuttosto, si pensi a come introdurre la disciplina dell’educazione al buon sesso nelle scuole, ribadisco, dall’ultimo anno della scuola dell’obbligo, coronato dalla riapertura delle case di tolleranza, legge Merlin, e a come far recuperare ai nostri ragazzi e alle nostre ragazze un anno di servizio di leva. La cosa non dispiacerebbe, perché no. 

Infine, sarebbe cosa buona e giusta, oltre che doverosa, introdurre pene certe per chi commette atti di stupro e violenze sessuali varie, ivi compreso il femminicidio: la “castrazione chimica sarebbe un’ottima soluzione” a mio a personale avviso. 

Concludo questo mio post con un aneddoto. Quando, negli anni ‘80 e ‘90, noi ragazzi frequentavamo i cine-porno ci divertivamo a suon di solenni gesta autoerotiche, e mai ci saremmo sognati di afferrare una ragazza per strada e violentarla. Quando avevamo bisogno di donne ci recavamo dalla prostituta di turno. 

Mimmo Lastella, scrittore hard 

P.S. Gomorra uccide, il porno no. 

Caro Rocco Siffredi, visto che sei d’accordo con la ministra affinché si chiudano i siti porno gratis, proponile di finanziare la produzione di film hard d’autore con trama da vendere su piattaforme televisive e siti dedicati. Alla fine, potrebbe essere una buona, ulteriore soluzione

  Violenza Palermo, Paolo Crepet: "Il nodo è l'assenza della famiglia". Elena Ricci su Il Tempo il 23 agosto 2023

Fatta ubriacare e poi abusata, ripetutamente, per diverse ore, da sette ragazzi tra i 17 e i 22 anni. L’orribile storia dello stupro di gruppo commesso a Palermo ai danni di una 19enne a luglio, filmata durante le violenze, porta a porsi degli interrogativi, a chiedersi il perché, dove sia l’errore. Su questo lo psichiatra e scrittore Paolo Crepet non ha dubbi: raggiunto telefonicamente da Il Tempo, ha spiegato che la colpa è nella mancanza di educazione e nel fallimento delle istituzioni deputate a garantirla e, in tutto questo, giocano un ruolo fondamentale anche la famiglia e il contesto socioculturale attuale, oltre all’ambiente in cui si cresce.

«Provare attrazione sessuale, soprattutto nell’età in cui questa è normale per via dello sviluppo e della pubertà, non significa diventare stupratori. Se un ragazzo o una ragazza, oggi sono precoci dal punto di vista sessuale, non vuol dire che commettano violenza. Il problema della violenza è un altro, a questa ci si arriva mediante il condizionamento dell’ambiente famigliare e culturale che circonda i giovani: chi cresce in un ambiente sano e sereno ha sicuramente meno devianze violente rispetto a chi cresce in un contesto difficile». Crepet punta il dito contro il «liberi tutti» e l’assenza della famiglia nella vita dei giovani, sempre più assorbiti dai social, da tutto quello che questi propinano e dalla mania ossessiva di pubblicare qualsiasi cosa.

I ragazzi che hanno stuprato la 19enne a Palermo hanno filmato le violenze e dopo l’arresto, alcuni di loro hanno commentato anche la vicenda sui social a loro discolpa. Uno di loro, Christian Maronia, ha scritto di essersi rovinato la vita per essersi lasciato trascinare dal gruppo. Nelle chat WhatsApp successive alla violenza, si chiedevano come sarebbe stato se i loro nomi fossero apparsi nei notiziari nazionali: «Ma compà, ve lo immaginate se spuntiamo nel telegiornale? Nel telegiornale non ci spuntiamo?» scrivevano, assorbiti dall’idea di apparire e minimizzando i fatti, sostenendo che quanto accaduto fosse normale perché a loro dire, la 19enne sarebbe stata consenziente nel consumare un rapporto sessuale di gruppo.

«Oggi qualcuno forse si meraviglia della volgarità che circola in rete o dei testi dei nuovi musicisti intrisi di violenza? - si domanda Crepet – No, perché oggi la violenza e la volgarità fanno tendenza, soprattutto sui social e i social sono fonte di profitto. Potremmo tradurre tutto questo in un solo concetto: “mancanza di futuro”. Il futuro, l’identità i giovani la cercano sui social, con i followers, il traffico e i guadagni che questi generano e ovviamente genera più traffico un video in cui si pesta qualcuno o si abusa di una ragazza, anziché un video in cui un giovane declama una poesia o parla di cultura».

Una modernità che corre dunque, insieme alla quale corrono anche i giovani che vogliono sentirsi sempre più adulti. Infatti lo stesso Crepet, proprio sul punto, è uno dei prom o t o r i dell’idea di abbassare il raggiungimento della maggiore età a 16 anni. In una intervista sempre sulle nostre colonne disse infatti: «I ragazzini oggi conducono una vita da adulti e se vogliono fare gli adulti, come tali, è giusto che si assumano le loro responsabilità. Per questo è da tempo che propongo di portare la maggiore età a 16 anni e la punibilità penale a 12 anni anziché 14». Per arginare la violenza, secondo Crepet, si dovrebbe dire “no” a una molteplicità di cose: «Bisogna dire no alle droghe, alle mafie, ai cartelli sud americani, agli alcolici, ma in ballo ci sono troppi interessi, per la maggior parte economici, quindi è più comodo fare finta di nulla. Bisogna dire no anche a chi somministra e vende alcolici ai minorenni. L’altra sera in Puglia una quindicenne è finita in coma etilico, sicuramente non sarà stata l’unica in Italia. Quando ero ragazzo capitava di bere qualcosina alle feste, ma non sono mai tornato a casa a 4 zampe, oggi farsi la foto a 13 anni col drink e postarla sui social, fa figo, così come drogarsi o filmare una violenza di gruppo».

Chiamiamolo stupro "collettivo" e non di un "branco". Cristina Brasi su Panorama il 23 Agosto 2023

La terribile vicenda che ha visto 7 ragazzi violentare una minorenne mostra un nuovo modo ed un approccio mentale diverso dietro le azioni di questi gruppi

Quando si parla di stupro collettivo viene spesso utilizzata l’accezione “branco”. L’uso di tale termine crea un costrutto di delegittimazione del singolo individuo, in quanto si va a richiamare un’immagine di un’entità a sé, e non quella di un gruppo formato da singoli soggetti, in grado di ragionare e di agire responsabilmente per conto proprio. Si tratta di uno specifico fenomeno definito “deindividualizzazione” o “deindividuazione”, ossia la perdita di autoconsapevolezza e di autocontrollo che si sperimenta in determinate situazioni in cui l’individuo si trova ad agire all’interno di dinamiche sociali e di gruppo. I meccanismi che sottostanno allo stupro collettivo riguardano precisi fenomeni di deresponsabilizzazione, di contagio emotivo tra membri e di giustificazione ideologica per mezzo della deumanizzazione della vittima. Questa tipologia di violenza scaturisce dall’attivazione di un comportamento primitivo di dominio e di predazione del maschio sulla femmina, dove sesso e aggressione risultano essere connessi. Quello che però consente di far meglio comprendere questi meccanismi alla base dello stupro collettivo, è il “contagio emotivo”, tipico del gruppo e della folla anonima. Le emozioni negative di rabbia, aggressività, prevaricazione si amplificano in modo incontrollato all’interno del gruppo stesso. In queste circostanze i singoli individui agiscono in virtù delle regole deliberatamente create e condivise all’interno del gruppo, tralasciando temporaneamente i valori e le convinzioni morali personali. Basta così che un elemento del gruppo inizi una violenza per far eccitare gli altri soggetti che si comporteranno mimeticamente allo stesso modo, in un crescendo sfrenato di brutalità. Alcuni individui, per età e caratteristiche personali, sono maggiormente incapaci di opporsi al contagio emotivo: sono quei soggetti poco autonomi, molto conformisti e dipendenti dal gruppo, poco abituati alla riflessione personale e alla scelta in autonomia. Alcuni di essi non sono in grado di riconoscere le emozioni che stanno provando, le agiscono solamente. In questa condizione la vittima e la sua sofferenza non vengono né viste né tantomeno colte, rendendo impossibile ogni condivisione empatica, che porterebbe a bloccare l’aggressione. Le azioni di predazione sulla donna possono essere vissute come atti per mostrare agli altri la propria mascolinità, che va, nella fattispecie, a identificarsi con la sessualità predatoria e impersonale. Non ci sono solo la diffusione del senso di responsabilità e il venire meno dei freni inibitori, questi comportamenti sono il risultato dell’interazione di molti fattori quali la giustificazione culturale della sopraffazione sessuale maschile, il carente sviluppo di capacità di autoregolazione e di riflessione su di sé, il mancato controllo dell’impulsività, un’insufficiente capacità di rappresentazione del vissuto altrui e di condivisione emotiva, una scarsa autonomia personale e dipendenza conformistica dal gruppo, l’incapacità di coniugare sesso e relazione personale in un rapporto egualitario. Queste dinamiche riguardanti prevalentemente i gruppi giovanili, devono essere lette e analizzate in un contesto educativo e sociale del tutto particolare, basato sul soddisfacimento immediato dei bisogni individuali e sempre meno collettivi, in un surplus di beni di facile accesso e in cui i genitori non sono in grado di tollerare la frustrazione dei propri figli. L’avere tutto e subito non consente di sviluppare il desiderio, e di tollerare l’attesa. Ci si trova così ad avere un consumo scevro da emozioni, con la conseguenza di far sentire i figli da una parte padroni del mondo e, dall’altra, di essere anestetizzati a causa del bombardamento sensoriale che va ad inibire il processo di rielaborazione delle informazioni. Per tali ragioni, se non si inizierà a ragionare seriamente sulla modifica dello stile educativo genitoriale, gli stupri collettivi tenderanno ad aumentare forti di un senso di legittimizzazione culturale. Creiamo infatti previsioni su quello che faranno le persone sulla base di ciò che abbiamo incontrato nel mondo. Queste previsioni possono basarsi sull’esperienza diretta, così come sulle rappresentazioni nella società e nella cultura. Le nostre menti funzionano come “elaboratori di testi predittivi” al fine di creare stereotipi. Si tratta di verità passate, mezze verità e mancate verità che abbiamo acquisito per cavarcela più in fretta nella vita. Il sessismo è quindi legato alle convinzioni relative alla natura fondamentale delle donne e degli uomini e ai ruoli che dovrebbero svolgere all’interno della società. Le supposizioni sessiste su donne e uomini, che si manifestano come stereotipi di genere, possono classificare un genere come superiore rispetto a un altro, andando così a giustificare condotte violente come lo stupro. Tale pensiero gerarchico può essere consapevole e ostile oppure può essere inconsapevole, manifestandosi sotto forma di pregiudizi inconsci. Gli stereotipi vengono trasmessi e accolti spesso in modo inconsapevole, è quindi importante capire come funziona il meccanismo di trasmissione per poter cambiare i contenuti dei messaggi educativi.

TikTok è TikTok. Lo stupro di Palermo, le scritte sulle mani e il nostro fesso esibizionismo. Guia Soncini su L'Inkiesta il 24 Agosto 2023.

Nel secolo più stupido della storia dell’uomo, durante il quale non si distingue più tra una tragedia e un like, la fiaccolata e il cancelletto sono diventati la modalità espressiva per dissociarsi da chi commette un reato (come se non fosse ovvio disapprovare la violenza di uno stupratore)

Cosa dobbiamo fare per risolvere, o almeno attutire, la tendenza di questo secolo a trasformare tutto in puttanate socializzabili? C’è una cura, una via d’uscita, un modo per tornare a distinguere tra tragedie e like?

Mentre scrivo questo articolo, il sindaco di Bologna marcia in testa a una fiaccolata a un anno dall’uccisione di una poveretta ammazzata dal suo ex sotto casa. È una fiaccolata contro gli ex? È una fiaccolata per sconsigliare di mettersi con uomini che poi ti ammazzano? È una fiaccolata perché il comune di Bologna è specializzato in simbolismi gratuiti?

Ma non è mica solo il comune di Bologna. Mentre scrivo questo articolo, ho Instagram pieno di gente che si scrive sulle mani – speravo che questa imbarazzante trovatina di scriversi sulle mani l’avessimo esaurita col disegno di legge Zan – un cancelletto che dice «io non sono carne».

È la risposta (vabbè) della società civile (vabbè) alla trascrizione di uno degli stupratori di Palermo, che ha detto che faceva tutto un po’ schifo ma, oh, «la carne è carne». Sto cercando di immaginare i delitti d’un secolo meno scemo di questo affrontati in questo modo, gente che risponde, che ne so, alle frasi di Pacciani, di Unabomber, di Priebke, di un qualsivoglia brigatista tenendoci a dire al proprio pubblico che ah, no, io con questo criminale proprio non sono d’accordo. La notizia sarebbe se lo fossi, pulcino.

Naturalmente la fiaccolata e il cancelletto hanno un’altra cosa in comune, oltre a essere le modalità espressive del secolo più stupido della storia dell’uomo: rispondono a violenze dei maschi sulle femmine, che per qualche ragione esoterica non vengono mai trattate come reati ma sempre come interruzioni dell’equilibrio poetico.

Sono, anche, l’unico genere di reati in cui si torna a parlare di uomini (quelli che hanno per natura una muscolatura più possente, e quindi possono ammazzarti o violentarti se gli gira) e donne (quelle cui bisognerebbe far fare corsi di autodifesa fin dalle elementari, ma comunque sempre alla legge della giungla staremmo: il giorno che uno più forte decide di sopraffarti, lo fa).

Se in sette ne violentano una, o se uno ammazza la sua ex, come per magia ci dimentichiamo le adesioni fideistiche alle neoreligioni per cui non esistono uomini e donne ma solo percezioni, per cui una muscolatura maschile non è pericolosa se s’accompagna al gusto d’indossare i tacchi alti, per cui si usano senza mettersi a ridere parole da setta come «cis» e «trans».

Ha senso parlare dello stupro di Palermo? Me lo chiedo da giorni. Cosa dobbiamo dire? Cosa si può dire che non sia assurdo e non sia un cancelletto e non sia un’iperbole che butta tutto in vacca e non sia neanche uno di quegli inviti alla sensibilizzazione del maschio fin da piccino, come stessimo parlando di buone maniere e non di reati, come i reati uno li compisse perché non li sa tali?

Lo rimarco casomai servisse: non è normale che in sette violentino una ragazza. Non lo è in nessuna delle molteplici accezioni della parola «normale».

Non è normale perché non deve accadere, ma non è normale anche perché, di norma, non accade. È per questo che è una notizia: perché non succede abitualmente. Se la risposta è «noi donne non ci meravigliamo, perché abbiamo tutte paura di uscire la sera», se la risposta è una simulazione di persecuzione perpetua in cui ogni giorno c’è uno stupro di gruppo, non so bene che progressi pensiamo di fare. Ammesso che dei progressi siano possibili.

È colpa del porno sul telefono? Non ne ho idea (come tutti), ma il porno c’è sempre stato, anzi prima aveva il gusto del proibito, dovevi procurartelo di straforo, adesso ce l’hai in tasca a tutte le ore, l’eccesso di disponibilità non dovrebbe renderlo meno impattante sulla fragile psiche degli scemi, cioè dei ventenni?

Il porno c’è sempre stato ma non c’è sempre stato il telefono con la telecamera con cui tutti si riprendono, rapinatori e stupratori, spacciatori e fedifraghi, evasori fiscali e latitanti, tutti quelli che dovrebbero far di tutto per non lasciare tracce fanno di tutto per lasciarne, e questo forse dovrebbe spiegare in che modo essere perpetuamente su un palco a tariffa fissa mensile abbia guastato i cervelli degli abitanti di questo secolo.

Su TikTok c’è un ragazzo di Palermo che conosce i sette ma non è uno di loro. Non è uno dei due i cui account pare siano falsi ma, per ragioni che attengono all’esibizionismo in questo secolo, sembrano veri. Questo ragazzo non c’entra, e ha fatto un video per dirlo, per dire che li conosce ma non è uno di loro.

Sotto al video c’è un commento che lo scagiona, lo lascia una ragazza che ha lo stesso nome della vittima, dice «Lui non c’entra niente», e a quel punto il ragazzo fa un secondo video attorno al commento (su TikTok puoi tenere appiccicato in mezzo al nuovo video il commento cui stai rispondendo, lasciato da qualcuno sotto a un qualche video precedente).

E tutte le militanti (vabbè) che sull’Instagram ci spiegano la vittimizzazione secondaria e come vanno fatti i giornali, che non va pubblicata l’immagine della telecamera di sicurezza, che la poverina sarà sotto shock e non vorrà tutta quest’attenzione, tutte queste volontarie della sociologia un tanto al chilo non hanno neanche loro capito cos’è successo agli esseri umani, e che viviamo in un mondo in cui forse (sarà davvero lei?) una ragazza che è stata stuprata interviene nelle conversazioni social sul suo stupro, commenta i video di uno a torso nudo e col cappellino che ha per questo secolo scimunito la notiziabilità che una volta aveva un editoriale in prima pagina (e che adesso ha un cancelletto che ti scrivi col rossetto su una parte di corpo).

Gli account dell’ex minorenne, quello dei sette che parrebbe fare video sbruffoni ma pare siano video vecchi che qualcuno ripubblica facendoli sembrare nuovi, quegli account lì possono sembrare veri perché non hanno niente di diverso da come un diciottenne accusato di stupro si muoverebbe nel mondo di oggi. C’è un post in cui il forse millantatore, sempre conciato come ogni scemo della sua età (cappellino con visiera e sopra cappuccio della felpa), esorta a farlo arrivare a mille follower, così finalmente gli si attiva l’opzione di fare video in diretta e può spiegare com’è andata davvero. Neanche per un secondo mi sembra inverosimile che, nel 2023, un diciottenne accusato di stupro abbia come priorità fare la live su TikTok – e a voi?

In cima all’account che forse è della vittima c’è un post fissato, quello che resta sempre in cima alla pagina. È un video identico a milioni di video che milioni di ragazzine mettono on line: c’è lei che agita il culo in favore di telecamera. La me di qualche anno fa avrebbe pensato che fosse la prova che non era lei: vuoi che un avvocato, un genitore, un adulto qualunque non le dica di levarlo, ché di certo i difensori dei sette lo useranno come prova della di lei disponibilità?

La me del 2023 guarda quel video e pensa solo che, se scrivo che se accusi qualcuno di stupro è prudente non avere un account pubblico in cui ci sbatti il culo in faccia, arriveranno le militanti neofemministe a sbraitare che questo è victim blaming. Figlie del loro tempo: capaci solo di concentrarsi sulle puttanate.

Estratto dell’articolo di Francesco Patanè per “la Repubblica” venerdì 25 agosto 2023.  

Ha comunicato con l’esterno mentre era in comunità, si è vantato di quanto è accaduto con le sue ammiratrici, ma soprattutto il suo pentimento non è reale. Per questi motivi la gip del tribunale per i minorenni ha deciso di togliere R.P., il più giovane degli accusati dello stupro di Palermo, dalla struttura di recupero in cui era stato mandato a inizio settimana e di rimandarlo in custodia cautelare nell’istituto di detenzione minorile Malaspina di Palermo.

[…]

Nell’interrogatorio di garanzia il ragazzo aveva confessato di aver abusato della 19enne la notte del 7 luglio al Foro Italico di Palermo. Tanto era bastato al primo gip per toglierlo dalla detenzione più dura. 

Cambiato il giudice (il primo è andato in ferie) è cambiata anche la valutazione. Ed è sui motivi, spiegati in cinque pagine di ordinanza, che si consumerà la battaglia con la difesa. La gip Antonina Pardo ha preso in esame i nuovi elementi raccolti negli ultimi giorni, ovvero i video su TikTok pubblicati il 22 agosto quando il ragazzo era in comunità e alcune chat sul telefono del ragazzo sequestrato il giorno dell’arresto.

Resta il mistero dei video: per gli esperti e per la rete sono fake, contenuti vecchi di anni modificati, ma secondo gli inquirenti a confezionare i filmati è stato l’indagato. In uno di questi scrive: «Sto ricevendo tanti messaggi da ragazze, ragazze ma come faccio a uscire con tutte siete troppe… Ah volevo ringraziare a chi di continuo dice il mio nome, mi state facendo solo pubblicità». 

A parte questo, a pesare sulla nuova decisione del gip è stato soprattutto l’esame più attento dei messaggi e dei commenti dopo lo stupro, scritti agli altri presunti violentatori che proverebbero il falso pentimento nell’interrogatorio […] In una chat con un altro protagonista dello stupro ci sono infatti una serie di messaggi vocali (inviati il giorno dopo lo stupro) che confermano la recita davanti ai magistrati: «Cumpà l’ammazzammu! » e ancora «Cumpa ficimu un macello, n’addivertemma».

E poi sempre più nei dettagli di quanto successo «in un quarto d’ora… si è sentita male ed è svenuta più di una volta». Frasi che sdegnano anche l’amico che pure ha partecipato allo stupro. Non il minore che gli risponde: «Ahaha troppo forte, invece». […]

Estratto dell’articolo di Niccolò Zancan per "La Stampa" venerdì 25 agosto 2023.  

[…] Quartiere popolare dell'Arenella, quello della vecchia tonnara di Palermo. […] Il padre dice: «Se Angelo ha sbagliato, è giusto che paghi». La madre dice: «Però ci vorrebbe un po' di pietà anche per noi genitori». Questa è la casa di Angelo Flores, l'unico ragazzo del branco che conosceva la vittima. È stato lui a coinvolgere gli altri. È lui che punta la torcia del telefono durante lo stupro. Sempre lui che, secondo gli atti dell'inchiesta, fa il video. E quando la vittima crolla a terra sotto le violenze, la rimprovera per farla rialzare: «Ohhhh! Ohhhh!». Ed è sua anche quella frase scambiata nei giorni successivi con un amico su WhatsApp, considerata dal gip una confessione.

«Stiamo facendo un bordello. Se ci ripenso mi viene lo schifo. Perché eravamo, ti giuro, cento cani sopra una gatta, una cosa così l'avevo visto solo nei video porno. Eravamo troppi. Ma che dovevo fare? La carne è carne». Il padre è un muratore. La madre è una casalinga. Hanno altri due figli più piccoli. La famiglia nel quartiere è conosciuta. «Davvero, è gente perbene. Il padre ha avuto dei guai di salute, la moglie è venuta a chiedere aiuto per il bambino piccolo. Qualche vestito, un paio di scarpe. Ma sempre con estrema gentilezza. Vi assicuro che i genitori sono persone serie». Fuori dal cortile, di fronte alla madonna, c'è una «carnizzeria» chiusa da trent'anni.

Il portone successivo è quello di un'associazione gestita dalla signora Francesca Troia. Raccoglie abiti usati e giocattoli, cibo e medicinali per chi ne ha bisogno. «Il ragazzo portava il cane qui davanti. Era educato. Sembrava uguale a tutti gli altri, perché ormai i ragazzi sono dei cloni. Non volevo credere alle mie orecchie quando ho saputo che proprio lui era coinvolto in quella cosa tremenda. Da donna, posso dire soltanto questo: lui e gli altri sono delle merde. Non ci sono altri termini. Non chiedo punizioni esemplari come stanno facendo in tanti, ma giustizia sì, la chiedo eccome». Secondo lei, qual è la parola all'origine di tutto? «Ignoranza è la prima. Cattiveria è la seconda. Non tirate in ballo l'alcol o altre giustificazioni. Perché non esistono».

Questo vecchio quartiere è un reticolato di piccole vie strette che portano al mare. Era la spiaggia dei pescatori. Adesso è un lido di città, a cui tutti scendono portandosi la sdraio di plastica sotto braccio. Anche Angelo Flores scendeva ogni pomeriggio. Ha la terza media. Ha messo in fila pochi lavoretti saltuari, di cui l'ultimo come cameriere in un villaggio turistico. È lui che portava Balto a fare i bisogni, quando il padre stava male. È lui quello pieno di crocifissi sul petto. Sempre lui, con angeli e pistole tatuati, mentre canta su TikTok: «Hello bitch, suck my dick». «Ciao put***a succhiamelo». Un vicino di casa, Salvatore Alparone, pensionato di Arenella: «Se anche quella ragazza fosse stata una prostituta, loro erano in sette. Dico sette». Ma non era una prostituta.

«Sì ma, dico, se anche fosse stata una prostituta…». Un altro vicino: «Siamo rimasti tutti ammutoliti. Persino il padre, che all'inizio aveva provato a difendere il figlio, ora lo ammazzerebbe con le sue mani. Credetemi, è fulminato dal dolore e dalla vergogna» 

[…] Un ragazzo seduto sullo scooter: «A Palermo non si parla d'altro. Quello che hanno fatto quei sette è schifoso. E se pure vogliono sostenere che la ragazza fosse d'accordo, resta schifoso». […] L'unico che la conosceva è questo ragazzo di Arenella, il ragazzo che nessuno sa spiegare. «Non ha mai fatto niente di male nel quartiere, non è mai stato violento» dicono in spiaggia. «Come potevamo capire?».

Il 7 luglio è la notte dello scempio. La zona è quella dei locali. Pieno centro, quartiere dalla Vucciria. Il primo a unirsi è il cugino Gabriele Di Trapani, anche lui con il crocifisso al collo e una massima sul profilo: «In questa vita mangi o vieni mangiato». Arriva da un'altra periferia, la stessa di tutti gli altri. È il quartiere di via Montalbo, zona di spaccio e anche di famiglie mafiose. Sono figli di ambulanti, figli di disoccupati. Due di loro sono stati segnalati per rissa. Alcuni frequentano la scuola professionale di via Don Orione.

[…] Da quando i sette sono stati arrestati, i genitori sono subissati di insulti e di minacce di morte. Ieri qualcuno ha pubblicato su Telegram i numeri di telefono dei padri e delle madri. È una spirale che non si ferma. Dopo gli stupratori, i giustizieri. […] Notte di Palermo. Notte di vergogna. Notte di sconfitta. Notte che nessuno sa dire. Il basso della famiglia Flores è deserto. Non è rimasto neanche il cane Balto. Il telefono del padre è sempre staccato. «Credo che per ragioni di sicurezza abbiano dovuto allontanarsi dal quartiere», dice il vicino. È come se il male a Palermo fosse un contagio.

La vittima di Palermo: “Ora basta, non giudicate una ragazza violentata”. La 19enne vittima di violenza sessuale rompe il silenzio sui social: “Chiudete la bocca, le ragazze come me a rischio suicidio”. Il Dubbio il 26 agosto 2023

“Sinceramente sono stanca di essere educata, quindi ve lo dico in francese, mi avete rotto i c... con cose del tipo 'ah ma fa i video su TikTok con delle canzoni oscene', 'è normale che poi le succede questo'". È quanto scrive in un post sui social la ragazza 19enne violentata a Palermo lo scorso 7 luglio in un cantiere abbandonato al Foro italico.

"Me ne dovrei fregare, ma non lo dico per me, più che altro se andate a scrivere cose del genere a ragazze a cui succedono cose come me, e fanno post come me, potrebbero ammazzarsi. Sapete che significa suicidio? Già sapevo che qualcuno avrebbe fatto lo scaltro, ma io rimango me stessa e manco se mi pagate cambio, perciò chiudetevi la boccuccia, piuttosto che giudicare una ragazza stuprata", prosegue la giovane che ha accusato sette giovani di averla stuprata. 

Intanto il prefetto di Palermo Maria Teresa Cucinotta condanna il “gravissimo episodio”, ma invita a non “colpevolizzare la città”. “Dobbiamo, però, favorire il cambiamento culturale perché è molto grave che i ragazzi giovani, addirittura uno all'epoca dei fatti minorenne, manifestino questa cultura maschilista e arretrata. Il lavoro che si deve fare è soprattutto culturale. Abbiamo una scuola eccellente in questa città con la quale lavoriamo, ecco, va implementato questo aspetto educativo e culturale”, spiega il prefetto a margine del comitato per l'ordine e la sicurezza convocato dopo i fatti. 

“Dobbiamo essere vicini alle persone e alle famiglie - ha aggiunto il prefetto -. Anche questi ragazzi, che dovranno essere sanzionati, vanno aiutati. Si deve andare avanti, sviluppare le mentalità migliori, condannare e favorire il superamento di questa cultura così ancorata a canoni maschili drammatici come mostrano tutti gli episodi di femminicidio, che purtroppo questa estate sono stati parecchi”. 

La violenza al Foro Italico. Stupro di gruppo a Palermo, la vittima 19enne: “Stanca di essere giudicata, c’è chi si ammazza”. Lo sfogo della ragazza che ha denunciato gli abusi. "Se andate a scrivere cose del genere a ragazze a cui succedono cose come me, e fanno post come me, potrebbero ammazzarsi. Sapete che significa?" Redazione Web su L'Unità il  26 Agosto 2023

Lo sfogo della minorenne arriva su TikTok: lo stesso social sul quale su alcuni dei profili attribuiti agli indiziati si erano lette parole terribili e provocatorie, la stessa rete dove si è scatenata la caccia al video delle violenze. A parlare questa volta è lei, la 19enne vittima dello stupro di gruppo a Palermo nella notte dello scorso 7 luglio, al Foro Italico. Abusata e abbandonata sotto l’effetto di alcolici. Un caso che ha convogliato un’attenzione mediatica morbosa e per il quale sette giovani sono indagati e privati della libertà.

“Sinceramente sono stanca di essere educata, quindi ve lo dico in francese, mi avete rotto i c… con cose del tipo ‘ah ma fa i video su TikTok con delle canzoni oscene’, ‘è normale che poi le succede questo'”, ha scritto la ragazza che ha trovato il coraggio di denunciare. Uno sfogo contro le parole di vittimizzazione secondaria che le hanno rivolto in questi giorni. Su alcuni social era emerso anche il suo nome. Su alcuni canali Telegram era scattata la caccia al video che uno degli indiziati avrebbe girato al momento delle violenze

“Me ne dovrei fregare, ma non lo dico per me – ha aggiunto la ragazza – più che altro se andate a scrivere cose del genere a ragazze a cui succedono cose come me, e fanno post come me, potrebbero ammazzarsi. Sapete che significa suicidio? Già sapevo che qualcuno avrebbe fatto lo scaltro, ma io rimango me stessa e manco se mi pagate cambio, perciò chiudetevi la boccuccia, piuttosto che giudicare una ragazza stuprata”.

Anche il ragazzo che all’epoca dei fatti contestati era minorenne e che era stato scarcerato dal gip alla luce di una presunta “resipiscenza” è stato incarcerato di nuovo. Anche alla luce di alcune sue esternazioni provocatorie sui social. Gli altri hanno chiesto e ottenuto il trasferimento dal carcere Pagliarelli di Palermo dov’erano stati trasferiti per via delle minacce e intimidazioni subite. Il caso è stato esasperato sui social dove diversi profili attribuiti agli indiziati sono emersi dopo gli arresti. Con affermazioni ingiuriose e terribili. La Polizia Postale ha negato la veridicità degli account. Almeno della maggior parte di questi.

Redazione Web 26 Agosto 2023

Palermo, l’amica la offende per aver denunciato gli abusi subiti. Lei replica: «Piango per te». Lara Sirignano su Il Corriere della Sera domenica 27 agosto 2023.

La ragazza dello stupro, rimasta a vivere nel suo quartiere, è tutelata dai carabinieri. Nella stessa zona abita anche Angelo Flores, l’amico che avrebbe architettato la violenza 

I carabinieri non l’hanno lasciata mai sola. La chiamano ogni giorno, la ascoltano, le stanno accanto e la fanno sentire al sicuro, perché Francesca (il nome è di fantasia), la 19enne che a luglio ha denunciato di essere stata violentata da sette ragazzi, è rimasta a vivere nel suo quartiere, un rione popolare affacciato sul mare di Palermo. Lo stesso in cui abitano anche le famiglie di Angelo Flores, l’amico che avrebbe architettato lo stupro e che l’ha filmato col cellulare, di Gabriele Di Trapani, il ventenne che ha fatto ubriacare la vittima, e di Christian Barone, l’unico dei sette che ha scelto di non rispondere al gip dopo l’arresto. Francesca, scrivono i magistrati, è stata «raggiunta, seppure indirettamente, da espresse minacce di morte da parte di persone vicine agli indagati, che le hanno fatto sapere di essere pronte a gesti violenti nei suoi confronti». E nonostante ciò, non ha lasciato la sua casa.

«Capita che con le giovani vittime di abusi si instaurino rapporti particolari – spiega uno degli investigatori che si è occupato della vicenda — e che le ragazze si rivolgano a noi per consigli e problemi». E il legame con chi l’ha aiutata la giovane palermitana lo rivendica, pubblicando su Instagram una foto scattatta in caserma, con indosso un cappellino dell’Arma. Un gesto che in un quartiere come il suo diventa un atto di coraggio.

Francesca, che ora ha accanto anche un avvocato, come tutti i coetanei parla attraverso i social che le hanno costruito attorno una sorta di rete di protezione. I video che aveva pubblicato prima dello stupro sono stati commentati da migliaia di persone di ogni età e di ogni parte d’Italia. Giovani che la incitano a non arrendersi e andare avanti, ragazzi che la rassicurano: «Gli uomini non sono tutti come loro».

I commenti

«Ho letto che hai perso la mamma. Io sono mamma e come me ci sono miliardi di mamme che ti sono vicine, un bacio piccola, sii forte», si legge in un commento. E ancora: «Un abbraccio dal padre di due ragazzini. Mi impegnerò ancora di più a educarli al rispetto delle persone», scrive un giovane uomo. I post vengono da tutto il Paese, perché la storia ha avuto un’eco enorme anche grazie al web che, almeno stavolta, non ha mostrato la faccia feroce.

E chi ha provato a fare commenti critici sul look della ragazza, una diciannovenne che come tante coetanee si mostra in bikini, o ha insinuato che, in fondo, la violenza se l’è meritata, è stato subito zittito. Sabato, a rispondere agli immancabili odiatori della Rete ci ha pensato anche Francesca che continua a rivendicare il diritto di essere se stessa e di scegliere come vivere. «Mettiamo caso che abbia avuto diverse relazioni, questo giustifica le persone con cui non volevo farlo ad abusare di me? A lasciarmi agonizzante?», sbotta dicendosi «stanca di essere educata».

«Me ne dovrei fregare — scrive — ma non lo dico per me di non sparare stronzate. Più che altro se andate a scrivere cose del genere a persone a cui succedono vicende come la mia, potrebbero ammazzarsi». Parole rivolte alle tante donne che, uscendo allo scoperto, proprio sui social, le hanno raccontato pubblicamente di aver vissuto storie analoghe. «È accaduto anche me», le dicono, confessando di non aver avuto il suo stesso coraggio o di aver atteso anni prima di denunciare.

Gli insulti

Chi sembra non aver condiviso la scelta della diciannovenne di fare i nomi dei suoi stupratori è invece la ragazza che era con lei la sera della violenza. In pochi giorni il popolo della Rete è risalito al suo nome e al suo profilo e l’ha riempita di insulti, accusandola di aver lasciato che l’amica si allontanasse da sola con gli indagati. Lei, in risposta, ha pubblicato un post con espressioni molto volgari nei confronti dei carabinieri, definiti «infami», e anche contro la stessa Francesca, per la denuncia che ha fatto. «Dopo tutto quel che dici torno sempre a piangere per te anche se tu non versi una lacrima», le ha scritto la vittima, pregando comunque i suoi follower di non continuare ad offenderla.

Ma la solidarietà che ha raggiunto la giovane palermitana non è solo virtuale. Sono state tante le iniziative organizzate per manifestarle vicinanza. L’ultima, sabato notte, quando l’associazione Non una di meno ha attraversato la Vucciria, il quartiere della movida in cui la vittima ha trascorso la serata prima dello stupro, da giorni blindato da decine di agenti.

Estratto dell’articolo da corriere.it lunedì 28 agosto 2023

Quella che segue è una lettera scritta dal padre della ragazza vittima dello stupro di Capodanno a Roma alla 19enne violentata dal branco a inizio luglio a Palermo 

Cara ragazza, anonima, di Palermo, sono il padre della vittima del noto “stupro di Capodanno” di Roma, e scrivo per appoggiarti. Devi reagire contro chi, sui social, ha farneticato che a «una come te» è «normale» che capiti. Ma ti scrivo anche per avvertirti: sei sola, perché gli altri non comprendono. Vittima di uno stupro di gruppo? La gente non capisce. Prendo quindi la penna, sei tu che mi hai dato il coraggio. Scrivo per spiegare anche per te a tutti — a ognuno di noi se pensa «ma in fondo se l'è voluta» — il calvario di un essere spezzato nella sua dignità. […] 

Il prezzo da pagare a esporsi in un processo per stupro è enormemente superiore a ogni possibile vantaggio personale: si fa per le figlie ei figli di tutti gli altri, in un mondo che consiglia il silenzio perché è una macchia essere vittime. 

Anche questo è uno stupro collettivo, e tu che ti sei esposto un po' di più probabilmente già lo sai. Mia figlia aveva 16 anni quando è stata drogata e stuprata da almeno cinque individui. È inequivocabile, il referto ospedaliero certifica gravi lesioni.

Ma per noi, come temo sarà anche per te, l'evidenza non basta: il gioco processuale sarà a dimostrare che tu, come lei, volevate esattamente quello che vi è successo. Uno stupro è un puzzle di tradimenti, dobbiamo raccontare a tutti cosa significano nel quotidiano: il tradimento di chi ti usa come un oggetto e poi il tradimento di chi vede in te, vittima che ha deciso di esporsi per tutti, una scocciatura di cui abbandonare così come eri solo un contenitore usa e getta di sperma. 

Pensavi di aver lasciato tua figlia minorenne in un luogo sicuro, dalla famiglia della sua migliore amica. Non immagini che l'adulto a cui l'hai affidata, senza avvisarti, la porta a una “festa” proibita in tempo di covid. Finché piomba una chiamata da una caserma dei carabinieri, prendi la macchina e corri oltre i limiti di velocità — multatemi se volete — e varchi quel portone di ferro per trovare un esserino annichilito, prostrato dall'enormità del sopruso.

[…] Poi cerchi di circondarla di affetto e sostegno senza capire qualcosa di misterioso che cerca disperatamente: smentire a sé stessa l'evidenza. Non è possibile, sono i miei amici! non mi hanno abbandonata agli stupratori, non mi hanno filmata mentre abusavano di me, non hanno mandato whatsapp di insulto perché erano stati chiamati a deporre! Non hanno davvero riso quando qualcuno sbandierava come un trofeo la maglietta sporca del mio sangue. Ma poi la verità piomba come un martello. 

Arrivano le fobie: mia figlia, cara ragazza di Palermo, è una tua coetanea normale, ma non riesce a entrare in un centro commerciale e corre di nuovo in casa perché si sente addosso tutti gli sguardi. I suoi amici non capiscono perché non accetta mai di andare a casa di qualcuno, ma si può raccontare cosa le è successo l'ultima volta che l'ha fatto?

[…] Servono i medici: “Stress post traumatico”, è ovvio, ma in qualità di fragilità si evolve non è scontato. Ancora meno lo sono le soluzioni: e allora si tenta un tipo di terapia e poi un'altra e una ragazzina deve sperimentare l'Efexor, il Prozac o il litio; la terapia risolutiva per l'ansia di una persona consapevole non è stata trovata. […] 

nei momenti più bui mia figlia aveva evocato il desiderio di farla finita, e la notte si sente più sola; lo sai che ha fissato il vuoto dalla finestra come una tentazione. E poi gli psicofarmaci e il loro suadente stordimento — Confortably Numb direbbero i Pink Floyd — sono un canto della sirena troppo forte davanti al logorio incessante dell'anima, e si deve vigilare che non ne prenda 10 invece di 2 di pillole; non lo fa, ma il dubbio ti tortura. Conquista la Maturità e anzi la competitiva ammissione a un collegio universitario di merito.

Vuole studiare anche per proteggere altri da quello che è successo a lei: sceglie giurisprudenza, per diventare Procuratore. Ma la prima notte nel collegio, da sola fra estranei, la riassale la paura paralizzante. Ora non c'è scelta: ospedale psichiatrico. Duri mesi ipermedicata, ma è forte. Chiede di essere non solo una paziente ma anche una collaboratrice: impara molto e termina la degenza. Ormai l'anno accademico è perso, e vuole imparare di più: entra volontaria in un rifugio per donne vittime di violenza. Così la mia laurea in giurisprudenza avrà un altro significato. Così sarò un buon Procuratore! Poi il processo: una dura deposizione, ma nulla in confronto alla crudeltà delle testimonianze degli “amici”.

Se la tua denuncia li espone, fa scoprire uno spaccio gestito da giovani di buona famiglia, sei scomoda. Meglio minimizzare, ovvio: così, quelli che l'avevano portata dai Carabinieri in seguito a un'ovvia violenza, dichiarano che sembrava consenziente. Quelli delle droghe, compresa la “sigaretta bagnata” che l'ha stordita, depongono che il suo sport abituale era avere rapporti multipli. Mi chiede, ingenua, come possono inventarsi i facili costumi, visto che non li vedeva da un anno e proprio quello del lockdown? Gli stupratori — con la coerenza dei vigliacchi — non scelgono la ragazza più “provocante”, ma quella più indifesa. […]

Palermo, la ragazza violentata accusa gli hater «Mi state portando alla morte». Storia di Lara Sirignano su Il Corriere della Sera martedì 29 agosto 2023. 

Ha avuto il coraggio di denunciare chi l’ha stuprata. È rimasta a vivere nel quartiere dei suoi violentatori nonostante le minacce da parte di chi non le ha perdonato di essersi rivolta ai carabinieri. A chi le contestava di essersela cercata ha risposto rivendicando il diritto di essere libera. Ma ha solo 19 anni e alle spalle un abuso e una vita difficile. Dietro al trucco pesante e all’aria da donna fatta c’è una ragazza sola, senza famiglia, vissuta per tanto tempo in comunità. Fragilità esplose ieri davanti all’ennesimo giudizio della Rete che l’accusa di «essersela cercata». È un grido di aiuto quello di Francesca, il nome è di fantasia, violentata a luglio in un cantiere abbandonato sul lungomare di Palermo. «Sono stanca, mi state portando alla morte. Io stessa, anche senza questi commenti, non ce la faccio più. Non ho voglia di lottare né per me né per gli altri. Non posso aiutare nessuno se sto così».

Il post

Un post in neretto scritto sopra il commento di un adolescente che, con volgarità e disprezzo, nega che la 19enne palermitana abbia subito una violenza. «Ma quale stupro, perché la difendete? — ha scritto il ragazzino — Era consenziente». Una tesi, quella del rapporto consensuale, che hanno sostenuto anche i sette autori della violenza. Tutti, pur tra le lacrime e chiedendo scusa, hanno ribadito, infatti, ai magistrati che Francesca quel rapporto l’aveva voluto. «Non serve a nulla continuare — risponde al commento lei —. Pensavo di farcela ma non è così». E ancora: «Se riesco a farla finita porterò tutti quelli che volevano aiutarmi sempre nel mio cuore». Una frase che preoccupa molto gli inquirenti. Francesca sente ora di non avere la forza d’essere d’esempio per chi ha subito l’orrore che ha subito lei. In tante nei giorni scorsi le hanno scritto per raccontarle di essere state vittime di abusi. Commenti pubblici di chi non ha avuto paura di esporsi. E per loro sabato era uscita allo scoperto accusando gli odiatori del web di spingere le vittime a gesti estremi. «Se andate a scrivere cose del genere a ragazze a cui succedono cose come queste potrebbero ammazzarsi. Sapete che significa suicidio? », aveva scritto su Instagram.

La stanchezza

Ora a mostrarsi impaurita e stanca è lei. Uno psicologo la sta aiutando e gli inquirenti hanno deciso di trasferirla in un’altra città. La Procura non la farà testimoniare al processo contro i sette stupratori. Francesca ripeterà il racconto delle violenze nel contesto protetto dell’incidente probatorio davanti al gip. Al cospetto del Tribunale del Riesame, invece, comparirà oggi Christan Maronia, uno degli indagati. Il suo legale ha presentato istanza di scarcerazione. Hanno già chiesto la revoca della custodia cautelare Angelo Flores, l’amico della ragazza che la sera della violenza l’ha adescata e ha filmato gli abusi, Christian Barone e Gabriele Di Trapani, il ventenne che ha fatto ubriacare Francesca fino a stordirla. I giudici hanno respinto tutte le istanze. L’unico a cui è stata data una chance è il più piccolo, ancora minore la notte dello stupro. Scarcerato perché, per il magistrato, aveva mostrato segni di ravvedimento, si è messo a pubblicare video in cui si vantava di quello che aveva fatto. Ed è tornato in cella.

Violenza di gruppo, un altro avvocato rinuncia alla difesa. A Enna e Catania due nuove denunce. Storia di Lara Sirignano su Il Corriere della Sera mercoledì 30 agosto 2023.  

Gli indizi della sua colpevolezza sono gravi e le esigenze cautelari ci sono tutte. Al termine di una camera di consiglio di poche ore è arrivato il verdetto. Christian Maronia, uno dei sette ragazzi accusati dello stupro di Francesca (il nome è di fantasia), la 19enne fatta ubriacare e violentata, a luglio, dietro alle lamiere di un cantiere abbandonato sul lungomare di Palermo, non potrà lasciare il carcere. Un esito abbastanza scontato con una sorpresa in apertura di udienza: il legale del giovane, Alessandro Musso, ha comunicato la rinuncia al mandato. «È venuto meno il rapporto di fiducia col cliente», ha fatto sapere. La stessa cosa aveva fatto, a pochi giorni dall’arresto del ragazzo, il primo penalista scelto dalla famiglia, che aveva mollato il cliente dopo la nomina. La difesa di Maronia, che ha una delle posizioni più delicate nella vicenda, è stata affidata ora a un terzo professionista che, solo dopo aver studiato il fascicolo, deciderà se accettare.

Resta il balletto dei legali che va letto anche alla luce del clima pesante che si è creato attorno alla storia. L’eco mediatica e social e la dura reazione dei detenuti del primo carcere in cui sei dei sette indagati sono finiti, che ha spinto la direzione a trasferire per motivi di sicurezza gli accusati, potrebbe avere indotto i due penalisti a dare forfait. Intanto, dalla Sicilia arrivano altre due storie drammatiche: una 17enne ha denunciato di essere stata stuprata a Valguarnera, un piccolo paese dell’Ennese, mentre a Catania una adolescente avrebbe subito abusi da parte di un familiare per dieci anni. L’uomo, ieri, è stato arrestato. In carcere si trovano anche tutti gli accusati dello stupro di Palermo. Segno che la linea difensiva del gruppo, che alle lacrime di pentimento alterna il classico «la ragazza era consenziente», non convince. Il tribunale, infatti, aveva confermato il carcere per Angelo Flores, il «leader» della banda accusato dalla vittima di averla adescata e di aver filmato la violenza con il cellulare, Gabriele Di Trapani, che ha fatto ubriacare la ragazza, e Christian Barone, l’unico dei sette ad aver scelto la strada del silenzio davanti ai magistrati. Una chance, invece, era stata data al più piccolo degli accusati che, la notte degli abusi era ancora minore. Vedendo nelle sue parole un segnale di ravvedimento il gip l’aveva scarcerato e affidato a una comunità. Ma l’indagato, che in chat con amici, dopo lo stupro, aveva confessato di aver sentito la vittima implorarlo di fermarsi, lasciata la cella, ha preso a postare video sui social vantandosi delle sue «imprese». «Le cose belle si fanno con gli amici», aveva scritto.

Altro che pentimento, ha commentato il giudice davanti a cui la Procura dei minori aveva impugnato la scarcerazione. E a tornare liberi, nelle prossime settimane, ci proveranno anche gli ultimi due indagati: Elio Arnao e Samuele La Grassa, i due 20enni che, intercettati, raccontavano le loro «prodezze» ridendo della vittima che, in stato confusionale, non riusciva neppure a reggersi in piedi durante gli abusi. Il tribunale dovrà decidere sulle loro richieste di scarcerazione. Un verdetto su cui non potranno non pesare le parole del gip che nell’arrestarli ha sottolineato l’assoluta consapevolezza di entrambi «del diniego espresso dalla vittima». Intanto non si arresta il dibattito, anche politico. La deputata della Lega Laura Ravetto chiede che l’educazione contro la violenza sulle donne venga inserita in modo organico nelle scuole.

Stupro di Palermo, uno degli avvocati rimette il mandato: ecco perché. Intanto, all’esito della Camera di Consiglio, il tribunale del Riesame ha confermato la misura del carcere per uno dei sette indagati. Il Dubbio il 31 agosto 2023

Il tribunale del Riesame di Palermo ha respinto l'istanza di scarcerazione presentata dal difensore di Christian Maronia, uno dei sette giovani arrestati con l'accusa di violenza sessuale aggravata nei confronti di una ragazza di 19 anni, la notte del 7 luglio in un cantiere abbandonato del Foro Italico a Palermo. L'udienza si è tenuta oggi nel tribunale di Palermo.

In avvio di udienza l'avvocato Alessandro Musso ha rimesso il mandato dopo che i familiari senza consultarlo gli hanno affiancato un secondo legale, l'avvocato Giovanni Farina. Come per gli altri tre arrestati ad inizio luglio, Angeo Flores, Christian Barone e Gabriele Di Trapani, il Riesame ha confermato la custodia cautelare in carcere. Il 5 settembre è in programma l'udienza davanti al Riesame per Samuele La Grassa e l'8 settembre per Elio Arnao.

Estratto dell'articolo di Riccardo Lo Verso per livesicilia.it giovedì 31 agosto 2023.

[…] Pochi giorni prima dello stupro di gruppo al Foro Italico di Palermo la vittima diciannovenne ha subito un altro tentato di violenza da parte di due ragazzi. Ha vissuto un’altra notte da incubo. Ha raccontato di essersi liberata dalla loro morsa spruzzandogli dello spray al peperoncino negli occhi.

[…] Tre uomini che transitavano in via Roma in sella a due scooter si sono fermati e hanno iniziato ad inveire contro la ragazza. “Indegna, ti ammazzo”, urlava uno di loro, arrivato allo scontro fisico con il fidanzato della diciannovenne. Era uno dei uomini che un mese prima avevano tentato di violentarla.

La ragazza conosceva solo uno dei due. Li aveva incontrati casualmente nella zona della stazione centrale. Le hanno offerto un passaggio “ma in realtà anziché accompagnarmi a casa si sono fermati” su dei gradini non lontano dal teatro Politeama, lungo la strada che conduce al porto. “Stasera devi t… sennò ti ammazzo”, le avrebbe detto uno dei due, probabilmente il più grande. 

Poi “mi ha presa di forza e mi ha buttato a terra mentre l’altro ragazzo si è semplicemente avvicinato non per soccorrermi, mi sono difesa, ho preso lo spray al peperoncino e l’ho spruzzato. I due ragazzi si sono alzati la maglietta per tamponarsi il viso ed ho sentito il ragazzo robusto che diceva che se ti rivedo ti ammazzo e se ne sono andati con lo scooter”.

Il fidanzato ha spiegato ai carabinieri di avere saputo della vicenda dalla diciannovenne, che però non ha voluto rivelargli i particolari. Era stato lui a darle lo spray al peperoncino da conservare nella borsa e da usare contro i malintenzionati. Il caso è affidato agli stessi carabinieri che hanno identificato e arrestato i sette giovani per lo stupro al Foro Italico.

Estratto dell’articolo di Riccardo Lo Verso per livesicilia.it giovedì 31 agosto 2023.

Gli scatti descrivono la notte dell’orrore. Il fascicolo fotografico fa parte degli atti dell’inchiesta della Procura di Palermo sullo stupro del Foro Italico. È la cronologia dei momenti chiave. La prima tappa è alla Vucciria. È qui che inizia tutto. Angelo Flores, uno dei sette arrestati, conosce la vittima. Vivono nello stesso quartiere. È Flores a contattarla il pomeriggio del 6 luglio. Si danno appuntamento, via Instragram, in un locale della Vucciria per la sera dell’indomani. La ragazza si fida. In una delle piazze più affollate nelle notti palermitane Angelo si allontana dal gruppo e fa ritorno in compagnia della diciannovenne.

“Angelo era insieme a un certo Cristian e altri cinque di cui non so i nomi – racconta nella denuncia la ragazza -. Poi mi hanno fatto fumare”. Fumo e alcol in un angolo della città dove l’illegalità è dilagante. “Falla bere… poi ci pensiamo noi”, avrebbe detto uno degli indagati al barista del chiosco abusivo che serviva uno shottino dopo l’altro. […] Sono trascorsi 47 minuti dopo la mezzanotte. […]

“Due di loro mi hanno preso sottobraccio. Mi hanno fatto camminare dai Quattro Canti a scendere verso il mare. Ero da sola con questi ragazzi, in tutto sette – prosegue il racconto della ragazza -. Due mi toccavano il seno e altri due le parti intime, mentre camminavamo e gli altri ridevano”. Ed ecco descritto il secondo scatto. Gli indagati non ci ci stanno. 

C’è chi dice che è stata la ragazza a proporre di fare sesso di gruppo, a chiedere di spostarsi al Foro Italico, a condurli nel cantiere abbandonato. Nella fotografia si vede la diciannovenne alla testa del gruppo, tenuta sottobraccio da due indagati. La scena è stata ripresa dalla telecamera dell’istituto Nautico, 57 minuti dopo la mezzanotte. È giovedì, il tratto di corso Vittorio Emanuele è deserto.

“Siamo arrivati al Foro Italico e vi era un’apertura e mi hanno fatto entrare lì. Dopo che mi hanno spogliato…”: così inizia il racconto dello stupro. All’una e 24 una telecamera inquadra il branco che si allontana dall’angolo buio del cantiere dove si è consumata la violenza di gruppo. La foto immortala il momento descritto dalla vittima: “Ricordo che mi sono allontanata dal gruppo camminando lungo il rettilineo che va verso la strada e ho telefonato al mio ragazzo. Sentivo dei forti dolori… alcuni ragazzi mi hanno derisa… quando il mio ragazzo ha risposto al telefono non sono riuscita a dire altro se non che avevo bisogno dell’ambulanza”.

Era senza forze, “mi sono accasciata a terra con il cellulare in mano… sono stata raggiunta da qualcuno che ha chiuso la chiamata e mi ha fatto alzare in piedi. Mi hanno riportata innanzi ad Angelo che era rimasto in disparte. Gli ho chiesto di chiamare un’ambulanza, ma lui ha risposto che non lo avrebbe fatto perché non voleva che fossero coinvolte le forze dell’ordine. Poco dopo se ne sono andati, Angelo mi ha aiutato a superare il buco dopodiché lo hanno attraversato anche di tutti gli altri”. Infine si è accasciata su una aiuola dove è stata soccorsa da due donne.

Estratto dell’articolo di L. Sir. per il “Corriere della Sera” giovedì 31 agosto 2023. 

Gli indizi della sua colpevolezza sono gravi e le esigenze cautelari ci sono tutte.

[…] Christian Maronia, uno dei sette ragazzi accusati dello stupro di Francesca (il nome è di fantasia), […] non potrà lasciare il carcere.

[…]

Intanto, dalla Sicilia arrivano altre due storie drammatiche: una 17enne ha denunciato di essere stata stuprata a Valguarnera, un piccolo paese dell’Ennese, mentre a Catania una adolescente avrebbe subito abusi da parte di un familiare per dieci anni. L’uomo, ieri, è stato arrestato. 

In carcere si trovano anche tutti gli accusati dello stupro di Palermo. Segno che la linea difensiva del gruppo, che alle lacrime di pentimento alterna il classico «la ragazza era consenziente», non convince. 

[…] a tornare liberi, nelle prossime settimane, ci proveranno anche gli ultimi due indagati: Elio Arnao e Samuele La Grassa, i due 20enni che, intercettati, raccontavano le loro «prodezze» ridendo della vittima che, in stato confusionale, non riusciva neppure a reggersi in piedi durante gli abusi. Il tribunale dovrà decidere sulle loro richieste di scarcerazione. […]

Estrtto dell'articolo di Lara Sirignano per il "Corriere della Sera" giovedì 31 agosto 2023. 

[…] Firmata la denuncia Francesca, che ha fatto nomi e cognomi di almeno tre dei responsabili degli abusi, viene accompagnata nel quartiere in cui vive con la zia dopo la morte della madre, l’Arenella, un ex borgo di pescatori sul mare di Palermo, lo stesso in cui abitano i suoi stupratori e le loro famiglie. In casa racconta tutto e sarà la zia ad aiutarla a trovare un legale. I primi arresti arrivano a poche ore dalla violenza. In cella finiscono in quattro. Qualche settimana dopo toccherà agli altri.

Nel rione la voce si sparge in un attimo. E arrivano le intimidazioni. I familiari degli indagati la minacciano di morte. È lei a raccontarlo ai carabinieri che non la lasceranno mai più sola. 

Il timore di ritorsioni, ma anche la volontà di allontanarla da un quartiere a rischio e da amicizie non sane, spinge gli inquirenti a consigliarle di trasferirsi in una casa-famiglia. Francesca, che in una struttura protetta ha vissuto anni dopo la morte della madre e l’abbandono da parte del padre, in principio accetta. E in comunità trascorre le prime settimane dopo lo stupro. Assistita da una psicologa, seguita dai responsabili del centro, in continuo contatto con i carabinieri con cui ha instaurato un rapporto che «mostra» sui social fotografandosi col cappellino dell’Arma. Un gesto che non piace alla sua più cara amica, la ragazza che la sera degli abusi l’ha lasciata sola con i sette e che si allontana da lei. 

«Non ha colpa, lasciatela stare», scrive la vittima tentando di difenderla dagli insulti della Rete che l’accusa di aver abbandonato l’amica nelle mani dei violentatori. Ed è sui social che in breve tempo riescono a scoprire l’identità della vittima che si sposta presto il caso di Francesca. In migliaia le si stringono attorno da tutta Italia. 

Lei si sente più forte e decide di tornare nel quartiere. Le mancano gli amici e la sua casa. Ed è lì che prova a riprendere una vita normale. Esce con gli amici, pubblica le foto delle sue serate in riva al mare, canta su TikTok le canzoni che ama, risponde, a volte, ai tanti che le dimostrano affetto. Ma l’equilibrio della 19enne, che ha alle spalle abusi e una vita difficile, salta davanti alla ferocia del web che la critica per i video postati e arriva ad accusarla di aver provocato i suoi violentatori.

Francesca risponde, sempre sui social che poi sono il suo mondo, con durezza e rivendicando il diritto di essere quel che vuole. Poi piomba nello sconforto. «Mi state uccidendo», scrive. Gli inquirenti hanno paura che possa fare un gesto estremo e tornano a proporle la comunità, unica chance per una nuova esistenza. Francesca accetta, prende le sue cose e va in una casa-famiglia. Da due giorni è lì. Lontana da Palermo, ma non dalla Rete. Dove continua a difendersi dalle critiche di chi dice che in fondo se l’è cercata.

PALERMO, DUE FOTO COME PROVA LA RAGAZZA: «CON LO SPRAY MI SALVAI DA UN’ALTRA VIOLENZA». Lara Sirignano per il “Corriere della Sera” venerdì 1 settembre 2023.

[…] L’immagine del gruppo, ripresa da una videocamera di sorveglianza di un locale della Vucciria in cui tutto è cominciato, è ora agli atti dell’indagine per stupro aperta dalla Procura dopo la denuncia della vittima. Si tratta di un frame finora inedito, pubblicato dal quotidiano online Livesicilia, di fondamentale importanza per gli investigatori perché conferma le parole di Francesca che agli inquirenti ha raccontato da subito tutte le fasi degli abusi.

Il gruppo viene filmato poco dopo da una seconda telecamera, stavolta in corso Vittorio Emanuele, la strada che taglia in due la città e porta al mare: sono passati dieci minuti. I sette e la 19enne camminano verso il Foro Italico per sparire poi in una zona non coperta dalla videosorveglianza. Torneranno sotto l’occhio di una telecamera all’una e 24 minuti quando verranno filmati mentre, alla spicciolata, si allontanano dal lungomare per andare a mangiare in una rosticceria.

Cosa sia accaduto nella mezz’ora trascorsa lo dice ai carabinieri la vittima che ricostruisce nei particolari la violenza e racconta che, mentre almeno in cinque la costringevano ad avere rapporti sessuali, il maggiore della comitiva, Angelo Flores, le puntava addosso la torcia del cellulare e riprendeva tutto. Nella terza immagine, finita agli atti insieme alle altre due, Francesca e Angelo non ci sono. La 19enne spiega che Flores, che si era rifiutato di chiamare un’ambulanza nonostante lei gli avesse detto di star male, si era attardato perché l’aveva aiutata a scavalcare la recinzione: non era nell’inquadratura.

[…] È il 14 luglio. Dalla violenza sono trascorsi sette giorni. Francesca torna in caserma per aggiungere alcuni particolari e viene fuori che un mese prima di quella notte altri due ragazzi avrebbero tentato di abusare di lei. «Non ricordo il nome di uno dei due… l’ho conosciuto un mese fa quando in compagnia di M.R. hanno tentato di usarmi violenza nella zona del Politeama vicino a dei gradini — dice ai carabinieri — Ero alla stazione e si erano offerti di portarmi a casa a bordo di uno scooter, io ho accettato ma loro, in realtà, anziché accompagnarmi si sono fermati».

«R. mi ha detto “stasera devi avere un rapporto con noi se no ti ammazzo” — prosegue il racconto — A quel punto mi ha preso di forza e mi ha buttata a terra, mentre l’altro si è avvicinato, ma certo non per soccorrermi». Francesca però riesce a difendersi. «Ho preso lo spray al peperoncino e ho spruzzato a entrambi, loro si sono alzati la maglietta per tamponarsi il viso e ho sentito quello robusto che diceva “se ti rivedo ti ammazzo”». Un racconto preciso, come quello della notte del Foro Italico.

Estratto dell’articolo di Riccardo Lo Verso per livesicilia.it venerdì 1 settembre 2023. 

È il 4 agosto scorso. La diciannovenne vittima dello stupro di Palermo si presenta in caserma. Racconta ai carabinieri di essere stata minacciata da una ragazza. Vuole che ritiri la denuncia. Il gancio è stata l’amica con cui è uscita la sera iniziata alla Vucciria e culminata con la violenza di gruppo al Foro Italico. Per un periodo hanno anche vissuto insieme. Poi, la lite. 

“Sono innocenti”

L’amica le passa il telefono. Una voce femminile l’accusa di avere “fatto arrestare i suoi amici che sono innocenti. Dice che mi deve ammazzare, devo levare subito la denuncia”. La diciannovenne è preoccupata: “Ho paura che qualcuno possa anche solo disturbarmi e che possano fare del male al mio ragazzo”. Sino al 4 agosto, giorno della denuncia, gli arrestati erano tre: Angelo Flores, Gabriele Di Trapani e Cristian Barone. Christian Maronia, Samuele La Grassa, Elio Arnao e Riccardo Parrinello sarebbero stati arrestati successivamente con una seconda ordinanza di custodia cautelare chiesta e ottenuta dalla Procura di Palermo. 

Clima pesante

La vittima non si tira indietro. Aggiunge che all’indomani del 7 luglio, giorno dello stupro, “sia Angelo Flores che Gabriele Di Trapani hanno cercato di contattarmi a mezzo Instagram. Angelo con un tentativo di chiamata a cui non ho risposto, Gabriele con un messaggio con la scritta ‘Hei'”. Furono i primi segnali del clima pesante che si è formato attorno alla ragazza e che secondo il giudice per le indagini preliminari ha aggravato le esigenze cautelari. 

[…] Sui social però è arrivata anche tanta solidarietà. Per ultimo il cantante Sfera Ebbasta ha postato un video in cui saluta la ragazza chiamandola per nome: “Ciao un bacio, fai la brava, ci vediamo presto”. La diciannovenne lo ha molto apprezzato: “Oggi non mi sono sentita bene, poi è arrivato questo”. […]

Estratto dell'articolo di Lara Sirignano per corriere.it giovedì 21 settembre 2023.

Ha cercato di sfilarsi, ha raccontato di essersi «limitato» a riprendere tutto col cellulare, ma — ha ripetuto più volte al gip — «ai rapporti non ho partecipato». Caduta ogni spavalderia, dismesso il ruolo di capo della banda Angelo Flores, 22 anni, ha dato la sua versione della notte in cui Francesca (il nome è di fantasia ndr), una 19enne palermitana, è stata stuprata in un cantiere abbandonato del Foro Italico. Angelo, in carcere come gli altri sei ragazzi coinvolti, conosceva la vittima e con lei aveva avuto una breve relazione.

«Eravamo lì, alla Vucciria, che stavamo ballando tranquilli e si presenta lei con una sua amica… — spiega al magistrato nel corso dell’interrogatorio di garanzia — Già la conoscevo e praticamente lei si avvicina dicendo “che fa ci mettiamo a bere?”. Beviamo un cocktail, due cicchetti, io ero con Barone, Di Trapani ed Elio Arnao. C’era Cristian Maronia e Samuele La Grassa»

La vittima, che dopo gli abusi ha denunciato tutti, racconta invece che furono gli “amici” di Angelo a farla ubriacare. «Uno di loro disse al barista “falla bere che poi ci pensiamo noi”», ha detto ai carabinieri. Francesca fu poi portata in un luogo appartato e violentata, mentre Flores riprendeva tutto col cellulare. 

«Quella sera è stata una cosa sbagliata, io non ho partecipato, gli altri partecipavano», ha tentato di difendersi il ragazzo. E, secondo il copione che vuole la vittima colpevole di aver provocato i suoi stupratori, ha aggiunto: «Lei ha cominciato a toccarsi (sic) un pochettino a tutti, che era ubriaca, e diciamo che è successo quello che è successo. È successo che abbiamo fatto. Cioè l’hanno fatto, l’hanno fatto i ragazzi. Io ero lì. Non stavo facendo assolutamente niente perché sinceramente ero sconvolto. Sette ragazzi sopra una ragazza», ha sottolineato. 

Parole che cozzano con quel che venne fuori dalle intercettazioni disposte dalla Procura di Palermo dopo la denuncia. Non sapendo di essere ascoltato, infatti, Angelo commentava: «Ieri sera, se ci penso un po’ mi viene lo schifo perché eravamo cento cani sopra una gatta, una cosa così l’avevo vista solo nei video porno, eravamo troppi e sinceramente mi sono schifato un poco, ma però che devo fare la carne è carne…».

Al gip Flores ha raccontato anche gli attimi dopo gli abusi: «La ragazza si è sentita male e io ho provato ad aiutarla, ho preso il telefonino che le era caduto a terra». Dice che voleva che chiamasse il suo ragazzo. «Gli ho detto non posso chiamare il tuo ragazzo perché se sente parlare me quello si incazza con me». 

Quindi «si è seduta in una panchina, gli altri se ne sono voluti andare, io ho aspettato altri 5 minuti. Ho detto: “Ora sei a posto sicuro? Me ne posso andare?”. Lei “Sì tranquillo”. Me ne sono andato. Si è fermata la persona, le ha chiesto come stava… poi ci ha denunciati. Io l’ho lasciata sola dopo che tutti l’avevano lasciato sola».

Un racconto che contrasta con la versione della 19enne, che ha raccontato come Flores si sarebbe rifiutato di chiamare un’ambulanza nonostante lei glielo avesse chiesto.

[…]

Estratto dell’articolo di Lara Sirignano per il “Corriere della Sera” sabato 23 settembre 2023.

Ridevano ricordando la sera dello stupro. Ridevano vantandosi di avere violentato l’amica. «Figghiò me lo mandi pure a me il video, quello di là al Foro Italico?» chiedeva uno dei complici ad Angelo Flores, il più grande del gruppo, che conosceva da tempo la vittima e l’aveva attirata in trappola. Le indagini svelano particolari sempre più terribili della notte del 7 luglio, quando sette ventenni palermitani, dopo averla fatta ubriacare, hanno portato una 19enne (Francesca il nome di fantasia) in un cantiere abbandonato del Foro Italico e abusato di lei. Mentre gli altri la violentavano, Flores li riprendeva col cellulare.

Due filmati di 20 e 23 secondi che avrebbe poi condiviso con il resto della banda e con due amici della comitiva estranei alla violenza. Il cellulare di Angelo, che con la vittima aveva avuto una relazione sentimentale mesi prima, si sta rivelando una fonte preziosa per i pm […] nel telefonino, oltre ai filmati dello stupro divenuti una delle prove principali a carico dei sette, sono stati trovati tre video con i rapporti sessuali tra Flores e Francesca e tra la ragazza e un terzo e messaggi in cui Angelo racconta con orgoglio la violenza.

Mentre filmava gli abusi il leader del gruppo mandava chat vocali ad amici, una sorta di cronaca dell’orrore tra risate e sghignazzi. «Niente cucì (cugino ndr) — uno dei commenti inviati — qua stiamo facendo un bordello». Frase che mal si concilia con la tesi difensiva dell’indagato che ha sostenuto di essersi «limitato» a riprendere lo stupro col cellulare ma di aver ben chiaro quanto fosse sbagliato quel che avevano fatto subire alla vittima. «In sottofondo si sentono le urla della ragazza e diverse voci di ragazzi», scrive nella sua relazione il consulente tecnico descrivendo gli audio. […]

Estratto dell'articolo di Ida Artiaco per fanpage.it giovedì 19 ottobre 2023
"Ero con una amica, mi ha proposto di andare in Vucciria e lì ho incontrato A.. Lo conoscevo da prima perché c'era una frequentazione. Mi sono fidata, mi ha fatto il lavaggio del cervello perché quando lo vedevo impazzivo". 

Comincia così il racconto di Francesca, nome di fantasia, la 19enne vittima dello stupro di gruppo consumatosi a Palermo, nella zona del Foto Italico, lo scorso luglio. Una vicenda grottesca, che ha visto indagati 7 giovani quasi due mesi dopo. Uno di loro era minorenne all'epoca dei fatti. 

La ragazza è stata intervistata a volto coperto da Mario Giordano nel corso della trasmissione Fuori dal Coro [...] 
"Io quello che ho saputo dai giornali è che a quanto pare si era messo d'accordo con gli altri per fare una cosa simile, perché gli avevo detto che in settimana saremmo usciti e lo aveva detto ai suoi amici" [...] 
"Io ho sempre portato contenuti sui social, anche provocatori. Di fatto non li ho tolti nonostante sapessi si potesse generare odio. Volevo rimanere me stessa. Perché devo nascondere quella che sono? La gente purtroppo molto spesso segue degli stereotipi".

[...] "Questa società è gestita da ciò che i giovani vedono. Se vedono certi comportamenti vanno a replicarli e se hanno vuoti interiori si sfogano con droga e alcol. Anche in me li ho trovati questi vuoti, come la perdita di mia mamma e una vita che non mi ha mai riservato cose belle. Molto spesso è meglio rimanere bambini. C'è molto cyberbullismo e vittimizzazione secondaria che io ho vissuto in prima persona. Ho avuto traumi passati che sono riuscita a superare e questa cosa voglio trasferirla agli altri dimostrando che si può andare avanti. Mi sento vittima della violenza dei social ma non mi voglio fermare perché so che voglio portare un messaggio".

Avanti popolo, parla Asia violentata dal branco a Palermo: "Mi fidavo di Angelo". Il Tempo l'01 novembre 2023

Ad Avanti Popolo, in onda martedì 31 ottobre su Rai3, per la prima volta ha parlato a volto scoperto la ragazza vittima della violenza di gruppo a Palermo, intervistata da Nunzia De Girolamo.  “Io mi fidavo di Angelo, si dimostrava dolce con me, non lo potevo pensare minimamente. Gli avevo raccontato tutta la mia vita, di mia madre malata di sclerosi multipla che se n’è andata quando avevo 14 anni, di mio padre violento, del ragazzo che mi aveva abbandonata e di un altro che mi alzava le mani - ha detto Asia - Lui mi diceva che non mi avrebbe mai abbandonata né mi avrebbe mai fatto del male, che mi avrebbe trattata da principessa”, ha detto la giovane in un’intervista esclusiva.

“Adesso passo degli alti e bassi, la notte non dormo come prima. Soprattutto la sera ho dei momenti in cui i pensieri arrivano di più, ti risalgono in mente, più che altro piango. Quando mi sento più triste, più debole, i messaggi negativi sui social mi colpiscono in pieno. Ho pensato anche a gesti estremi, soprattutto nella seconda comunità dove sono stata mandata dopo questo fatto, ho provato a farla finita. Quando mi sento più forte, penso semplicemente che siano ignoranti e che non riescono a capire la mia vita perché non hanno indossato le mie scarpe e quindi non possono cogliere realmente chi sono. Rileggendoli oggi mi fanno rabbia, come se dessero il consenso ai maschi di fare certe cose solo perché vedono qualcosa di provocatorio, dando adito ad istinti così. Ma dai social ho ricevuto anche tantissimo sostegno da molte persone, che mi hanno fatta sentire più forte, per questo li uso ancora”, ha detto la giovane.

Nella lunga intervista ha ripercorso quell’orribile notte: “Quando ci siamo diretti verso il Foro Italico, mi sentivo le gambe mollissime, cercavo di fare segnali per cercare di far capire, di farmi aiutare. C’era un sacco di gente che mi vedeva ma nessuno si è chiesto perché mi stessero toccando, tenendo, perché fossero così tanti dietro di me. Nessuno si è fermato. Mi ricordo la torcia puntata di Angelo che mi filmava con il cellulare, i dolori, i calci. Chiedevo ai ragazzi di smetterla e lui rideva”.  

“Sono qui perché in quello in cui uno crede ci si mette la faccia. E io credo in ciò che sono, perché non ho la minima colpa, non ho sbagliato. È giusto così. Alle persone che mi criticano dico che mi fanno schifo, perché un uomo che ha cento donne viene apprezzato, mentre le ragazze se hanno cento uomini devono stare per forza con il centunesimo anche se non vogliono, e comunque vengono sempre giudicate delle poco di buono. Non sono libere di avere la propria intimità, o sono costrette ad averne con tutti”, ha aggiunto Asia, che nonostante tutto pensa al futuro e coltiva nuovi sogni: “Voglio un lavoro per essere autonoma, vorrei iscrivermi all’università e studiare psicologia per capire questi casi. Quello che mi manca di più? Avere qualcuno che quando piango mi abbracci”, ha concluso.

Stupro di Palermo, la vittima va in tivù: "Non dormo. Ho provato a farla finita". "Credo in ciò che sono e per questo ho deciso di metterci la faccia". Paola Fucilieri l'1 Novembre 2023 su Il Giornale.

«Credo in ciò che sono e per questo ho deciso di metterci la faccia. Mi sono dovuta allontanare da Palermo, la notte non dormo, appena scende il sole arrivano i brutti pensieri e piango. Quello che hanno scritto sui social, giudicandomi, mi ha fatto molto male: nell'ultima comunità dove sono stata hanno chiamato i carabinieri perché ho tentato di togliermi la vita».

Lunghi capelli ricci, occhioni scuri incorniciati da folte ciglia, guance rosse di fard. In realtà si chiama Asia, anche se in questi mesi l'avevamo chiamata tutti con un nome di fantasia, Francesca. Parliamo della 19enne che nella notte tra il 6 e il 7 luglio è rimasta vittima della violenza di sette giovani, di cui uno minorenne, in un cantiere abbandonato sul lungomare di Palermo, al Foro Italico. Ieri sera la ragazza ha accettato di raccontarsi per la prima volta, mostrandosi a volto scoperto davanti alle telecamere nel programma condotto su RaiTre da Nunzia De Girolamo, «Avanti Popolo». E ha ricostruito e denunciato quanto successo in quella terribile notte durante la quale uno degli aggressori, il minorenne Riccardo, aveva anche filmato parti dell'assalto, inoltrando il video mentre la violenza era ancora in corso.

Racconta di una infanzia difficile, Asia, di un padre violento che l'ha abbandonata intorno ai tre anni, di una madre che l'amava, che ballava con lei nonostante fosse malata di una grave forma di sclerosi multipla che se l'è portata via quando lei, Asia, aveva solo 14 anni.

«Quindi sono stata in comunità - continua la 19enne - Quando sono uscita ho vissuto con un ragazzo, ma poi i genitori hanno detto di non potermi più tenere: lui mi abbandonò in piazza Indipendenza a Palermo promettendomi di tornare a prendermi. L'ho aspettato tre giorni, non l'ho più rivisto».

Da allora Asia dice di cercare in un uomo «una figura paterna, una persona che mi dia calore». Crede di trovarla nell'amico Angelo Flores che poi si scoprirà essere stato «l'organizzatore» dello stupro di luglio. «Lui sapeva tutto di me, diceva che non mi avrebbe mai fatto male. Mi proteggeva, quando pioveva mi copriva, mi dava la sua giacca... Ero ossessionata da Angelo, mi ero innamorata. E la sera della violenza mi ero affidata a lui completamente» confessa Asia a De Girolamo.

«Quella sera avevo bevuto e non mi reggevo in piedi, Angelo e i suoi amici mi tenevano per le braccia, ma la gente che mi vedeva passare con quei ragazzi in quello stato non si è chiesta se stavo male. (...) Il mio futuro? - conclude Asia prima di farsi abbracciare stretta da De Girolamo-. Voglio un lavoro, frequentare psicologia all'università e magari vivere a Milano».

Lo stupro di Catania.

«Il preside abusava di noi nel suo ufficio a scuola». Le alunne lo fanno arrestare. Storia di Lara Sirignano su Il Corriere della Sera lunedì 16 ottobre 2023.

Ha aspettato mesi prima di parlare. Poi si è fatta coraggio e ha raccontato ai familiari gli abusi sessuali subiti dal preside della scuola, un liceo in provincia di Catania. I genitori l’hanno convinta a rivolgersi ai carabinieri che l’hanno ascoltata per ore. Una testimonianza ricca di particolari quella della vittima, che non si è limitata però a raccontare le «attenzioni» morbose del dirigente scolastico: «Lo ha fatto anche con altre», ha svelato agli inquirenti la 15enne, dando loro i nomi di altre sei studentesse, tutte minorenni. Ieri i militari dell’Arma hanno notificato al preside 61enne, che insegnava educazione fisica, una ordinanza di arresti domiciliari con le accuse di violenza sessuale e tentata violenza sessuale. Una misura cautelare che si aggiunge alla decisione presa a giugno dalla Regione, evidentemente al corrente dell’inchiesta, di non rinnovare al docente l’incarico di dirigente, che era a scadenza annuale.

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Il velo è stato sollevato a maggio scorso, ma tra i corridoi le voci sulle strane convocazioni in presidenza di alcune studentesse giravano da un po’. Nessuno però aveva mai scelto la strada della denuncia. Perché le violenze cessassero c’è voluta una ragazzina di 15 anni che ha raccontato d’aver subito per mesi una sorta di assedio cominciato con like messi dal professore alle sue foto su Instagram e proseguito con ripetute richieste di incontri con il pretesto di discutere del suo rendimento scolastico. Ma, chiusa la porta dell’ufficio, il docente faceva altro: abbracci, frasi amorose, richieste di «bacini», frasi come «ti mordo se non studi» e tentativi di approcci sessuali, non riusciti solo per la reazione della ragazza. Sarebbe stata proprio un’avance più ardita delle altre a spingere la 15enne a rivolgersi ai carabinieri e a rivelare loro tutto, compreso l’essere a conoscenza di storie simili alla sua. Almeno sei.

Le audizioni

Il resto lo hanno fatto gli investigatori che hanno sentito le altre studentesse coinvolte in presenza di una psicologa. I loro racconti sono stati tutti molto simili a quelli della amica. Le alunne chiamate in ufficio e il preside, una volta rimasti soli, che diceva «vi sculaccio se non studiate» e le avrebbe palpeggiate. In una occasione, durante un abbraccio, avrebbe spinto la mano della minore contro le sue parti intime. Testimonianze decisive a cui si sono aggiunte indagini tecniche: microspie piazzate nei luoghi degli abusi che avrebbero confermato le accuse. Dopo l’arresto, il preside è comparso dal gip e ha scelto di avvalersi della facoltà di non rispondere, rilasciando dichiarazioni spontanee. «Capisco che il modo, molto confidenziale, che ho da 40 anni a scuola, si possa essere prestato a interpretazioni diverse da quello che ero il mio intento: stare accanto ai ragazzi», ha detto al giudice. L’indagato è assistito dall’avvocata Pia Giardinelli che non rilascia commenti: «Mi auguro soltanto che su questa vicenda cali presto l’assoluto silenzio mediatico».

Estratto dell’articolo di Lara Sirignano per il “Corriere della Sera” martedì 17 ottobre 2023.

Ha aspettato mesi prima di parlare. Poi si è fatta coraggio e ha raccontato ai familiari gli abusi sessuali subiti dal preside della scuola, un liceo in provincia di Catania. I genitori l’hanno convinta a rivolgersi ai carabinieri che l’hanno ascoltata per ore. Una testimonianza ricca di particolari quella della vittima, che non si è limitata però a raccontare le «attenzioni» morbose del dirigente scolastico: 

«Lo ha fatto anche con altre», ha svelato agli inquirenti la 15enne, dando loro i nomi di altre sei studentesse, tutte minorenni. Ieri i militari dell’Arma hanno notificato al preside 61enne, che insegnava educazione fisica, una ordinanza di arresti domiciliari con le accuse di violenza sessuale e tentata violenza sessuale. Una misura cautelare che si aggiunge alla decisione presa a giugno dalla Regione, evidentemente al corrente dell’inchiesta, di non rinnovare al docente l’incarico di dirigente, che era a scadenza annuale.

Il velo è stato sollevato a maggio scorso, ma tra i corridoi le voci sulle strane convocazioni in presidenza di alcune studentesse giravano da un po’. Nessuno però aveva mai scelto la strada della denuncia. Perché le violenze cessassero c’è voluta una ragazzina di 15 anni che ha raccontato d’aver subito per mesi una sorta di assedio cominciato con like messi dal professore alle sue foto su Instagram e proseguito con ripetute richieste di incontri con il pretesto di discutere del suo rendimento scolastico.

Ma, chiusa la porta dell’ufficio, il docente faceva altro: abbracci, frasi amorose, richieste di «bacini», frasi come «ti mordo se non studi» e tentativi di approcci sessuali, non riusciti solo per la reazione della ragazza. Sarebbe stata proprio un’avance più ardita delle altre a spingere la 15enne a rivolgersi ai carabinieri e a rivelare loro tutto, compreso l’essere a conoscenza di storie simili alla sua. Almeno sei. 

Il resto lo hanno fatto gli investigatori che hanno sentito le altre studentesse coinvolte in presenza di una psicologa. I loro racconti sono stati tutti molto simili a quelli della amica. Le alunne chiamate in ufficio e il preside, una volta rimasti soli, che diceva «vi sculaccio se non studiate» e le avrebbe palpeggiate. In una occasione, durante un abbraccio, avrebbe spinto la mano della minore contro le sue parti intime. […]

Estratto dell’articolo di Salvo Palazzolo per “la Repubblica” martedì 17 ottobre 2023.

[…] Il professore Santo Digeronimo, 61 anni, aveva attenzioni morbose per la studentessa, fra abbracci, baci e proposte scabrose. Fino a quando, a maggio, la ragazza ha trovato il coraggio di denunciare: un giorno si è presentata alla stazione dei carabinieri del suo paese e ha chiesto di parlare con il comandante. 

Così, è iniziato un lungo racconto, liberatorio, che nei giorni scorsi ha portato all’arresto del preside, con le accuse pesanti di violenza e tentata violenza sessuale. Non solo nei confronti della quindicenne, ma anche di altre sei studentesse del liceo artistico. […] 

E poi ha convinto le compagne, una ad una, a raccontare le violenze che proseguivano, ormai da mesi, nella stanza del preside. Questa storia potrebbe non essere finita qui. Ecco perché i carabinieri della Compagnia di Caltagirone, diretti dal capitano Giorgia De Acutis, rivolgono un appello a farsi avanti ad altre, eventuali, vittime. Peraltro, a settembre, il preside è stato rimosso dall’incarico ed è tornato a fare il professore di educazione fisica, anche se nello stesso liceo. Adesso, dopo l’arresto, la scuola prova a riconquistare serenità.

Ma l’inchiesta resta comunque una ferita profonda in una piccola comunità come quella di Grammichele. Com’è possibile che sia accaduto tutto questo senza che nessuno se ne sia accorto? Il preside, interrogato dal giudice delle indagini preliminari, si è avvalso della facoltà di non rispondere. Ma, poi, chiuso il verbale, ha fatto delle dichiarazioni spontanee. «Faccio da quarant’anni il docente — ha detto — . E qualche atteggiamento di confidenza nei confronti delle alunne si prestava forse a interpretazioni alternative. Ma non c’era alcuna intenzione di fare nulla alle ragazze». L’ormai ex preside continua a parlare di un «equivoco ».

Però i verbali delle sette vittime ricostruiscono episodi precisi, dettagliati. «Mi ha chiesto dei bacini», ha raccontato una studentessa. «Mi ha proposto di darmi dei morsi», ha detto un’altra vittima. «Mi ha baciata sul collo — ha messo a verbale un’altra ragazza finita nel vortice di questa brutta storia — ma l’ho subito respinto». A una studentessa il preside ha detto che «l’avrebbe sculacciata se non avesse studiato». […]

Lo stupro di Milano.

Estratto dell’articolo di Filippo Ceccarelli per repubblica.it domenica 9 luglio 2023.

I figli sono la benedizione di Dio, i figli sono la Provvidenza, i figli so’ piezz’ ‘e core. Però anche: chi non ha figlioli non ha né pene né duoli, figlioli e guai non mancano mai. Si trova la più vasta e contraddittoria gamma di proverbi in tema nel benemerito dizionario di Carlo Lapucci (Mondadori, 2007), compreso il motto secondo cui i figli scontano le colpe dei padri, vedi le malattie ereditarie, la cattiva fama e la perdita del patrimonio, come accade fin dai tempi della Tragedia greca e della Bibbia – anche se lì nessun genitore risulta aver colpevolmente battezzato i propri figli Geronimo, Cochis e Apache.

Vero è che anche Umberto Bossi, chiamando gli ultimi suoi due innocenti Roberto Libertà ed Eridano Sirio, qualche rischio se l’è assunto; anche se i guai più seri gli sono arrivati a causa di Renzo, detto il Trota, catapultato in politica con un eccesso di capricci suoi e di chi lo proteggeva. Ma al di là delle lauree albanesi e della fantasia onomastica è pur vero, anzi è verissimo che anche le colpe dei figli ricadono sui padri, tanto più, viene da pensare, quando questi ultimi sono potenti e fin troppo felici di esserlo, e allora sul più bello, al culmine dell’arroganza e della vanità: zòt, ecco il fulmine del figlio che ti inguaia e ti sistema per le feste.

Su questo Ignazio La Russa potrà utilmente confrontarsi, magari a cena o anche solo per un caffè, con Beppe Grillo, gemello di disgrazia filiale senza più limiti di schieramento. Può suonare lievemente ironico, ma più che la politica c’entra la vita e il destino; e se in questi ultimi due casi si tratta di vicende tristi e drammatiche, è pur vero che il Presidente del Senato e l’Elevato del Vaffa la loro bella passeggiata nella storia patria se la sono fatta, e forse pure troppo, mentre Ciro e Leonardo Apache, per come sono messi a poco più di vent’anni, vai a sapere.

(…) 

In questo senso l’esempio primigenio va recuperato nell’affare Montesi (1954 e seguenti), antenato e modello di tutti gli scandali d’età repubblicana; allorché durante successione di De Gasperi la carriera di Attilio Piccioni, segretario dc del 18 aprile, venne bloccata e stroncata perché il figlio Piero, che componeva musica jazz e aveva una relazione con Alida Valli, finì in galera per la morte della povera Wilma (Montesi, appunto) senza che alcuno abbia mai dimostrato che avesse conosciuto quella giovane e sventuratissima donna.

Secondo caso, anche più crudele e lacerante, quello di Marco Donat Cattin, figlio di Carlo, influente ministro, di cui nella primavera del 1980 in modo abbastanza avventuroso si venne a sapere che non solo aveva parte attiva nel terrorismo (Prima linea, uno dei gruppi più sanguinari), ma che il governo guidato da Cossiga avrebbe fatto in modo di farlo scappare all’estero. La storia è ovviamente più intricata anche perché c’era chi da tempo sapeva e taceva, o aspettava il momento giusto; ma di sicuro, oltre a dimettersi, Carlo Donat Cattin smise di essere figura chiave della nuova maggioranza Dc.

Dopo di che, nel paese del familismo amorale, si potrebbe compilare un lungo elenco di più lievi traversie causate da figli discoli o potenzialmente nocivi. Con l’avvertenza che non è possibile né giusto fare di tutt’erba un fascio; mentre su di un altro piano è forse utile riconoscere che il ruolo di figli di padri e madri ingombranti, se qualche vantaggio materiale procura, è spesso scomodo, faticoso e tale da spingere a compiere qualche scemenza in più. Si aggiunga il fatto che, in quel campo di veleni e trabocchetti, la famiglia si colloca nell’area della vulnerabilità dell’uomo o della donna impegnati in politica, che cento occhi stanno addosso ai figli della gente che conta e che la crescente disponibilità di mezzi tecnologici aumenta a dismisura i rischi.

Se ne può chiedere conferma, per quanto riguarda la Prima Repubblica, ai figli del presidente Leone (“i tre monelli” delle intemerate di Mino Pecorelli e del libro di Camilla Cederna); così come ai figli di Ciriaco De Mita e a quelli di Bettino Craxi. Rispetto alla Seconda, tenendosi prudentemente sul vago e per pura vocazione documentaria gli osservatori più diligenti hanno trovato traccia di: raccomandazioni telefoniche eseguite dal figlio del celebre e severissimo Pm divenuto politico; euforiche frequentazioni di figlie di magnati (con costoso acquisto di relative foto); singolari esuberanze edilizie ispirate a super eroi e altre stranezze da parte di figlio di alte cariche municipali; raid menacciuti di ulteriore figlio di sindaco.

Si omettono i nomi con la più viva speranza che abbiano tutti messo la testa a posto. Si raccomanda infine un supplemento di riflessione su un breve e simpatico adagio, pure estratto dall’inesauribile giacimento della sapienza popolare: trulli trulli, chi li fa se li trastulli.

La vita privata del nuovo Presidente del Senato. Chi è la moglie e chi sono i figli di Ignazio La Russa: Laura De Cicco e Geronimo, Lorenzo Kocis e Leonardo Apache. Vito Califano su Il Riformista il 13 Ottobre 2022

Ignazio La Russa è stato eletto oggi, alla prima chiama, Presidente del Senato. Il fondatore di Fratelli d’Italia, oltre a essere un volto storico della destra italiana, è anche un volto noto al grande pubblico: noto negli ambienti della destra giovanile come “La Rissa”, tifosissimo dell’Inter, appassionato di romanzi di fantascienza, dal marcato accento siciliano, dal temperamento fumantino.

L’ex ministro della Difesa, che da oggi ricopre la seconda carica dello Stato, è sposato e ha tre figli. Due con la moglie: Laura De Cicco. Sulla vita privata il senatore è sempre stato molto riservato, perciò poco si sa della donna con la quale ha avuto Lorenzo Kocis e Leonardo Apache. Solo una volta la donna ha rilasciato un’intervista alla rivista settimanale Chi in cui lasciava trapelare qualche aspetto della relazione.

“Io non sono molto gelosa però sulla sua fedeltà non metterei la mano sul fuoco. Invece Ignazio da bravo siculo è abbastanza geloso. Mi telefona spesso per sapere dove sono e cosa sto facendo. Ora che è più preso, però ha dovuto limitare le chiamate, e un po’ mi dispiace“, si leggeva sul giornale. Dal matrimonio sono nati Lorenzo Kocis e Leonardo Apache, che hanno 27 e 19 anni.

Il primo, Lorenzo Kocis, è laureato in Giurisprudenza. L’anno scorso è stato eletto nel parlamentino del Municipio 1, il Consiglio di zona del centro di Milano. Il secondo si chiama Leonardo Apache La Russa, in arte Larus, ha 19 anni e nel 2019 ha intrapreso la carriera di trapper. “Se lo acchiappo con la droga lo ammazzo”, diceva all’Agi il padre commentando una parte del testo di Sottovalutati in cui il figlio canta “Sono fatto”. 

Ignazio La Russa inoltre è padre di Geronimo, nato dalla sua precedente relazione con Marika Cattare, presidente di Aci Milano. Il fratello è Romano La Russa, ex europarlamentare di Alleanza Nazionale ed ex assessore alla protezione civile della Regione Lombardia, attualmente alla Sicurezza. L’altro fratello, Vincenzo La Russa, è avvocato ed è stato parlamentare della Democrazia Cristiana.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Da repubblica.it venerdì 7 luglio 2023.

Il figlio di Ignazio La Russa, il 19enne Leonardo Apache La Russa, nel video del suo brano "Sottovalutati". Un testo con volgarità e insulti alle donne e riferimenti all’uso di droghe, nello stile trap. Una canzone che aveva anche spinto il padre a commentare: "Se lo acchiappo con la droga lo ammazzo"

Il più giovane dei figli. Chi è Leonardo Apache, il figlio terzogenito di La Russa: aspirante rapper, nome d’arte Larus.  Redazione Web su L'Unità il 7 Luglio 2023

Ha 19 anni e ha già scritto e pubblicato alcuni brani rap. Leonardo Apache La Russa, 19 anni, è il terzogenito di Ignazio, dopo Geronimo e Lorenzo Cochis, tutti nomi scelti per omaggiare gli antichi capi americani. Geronimo, nato nel 1980 è il maggiore, figlio della relazione con Marika Cattare. Lorenzo Cochis e Leonardo Apache, nati rispettivamente nel 1995 e nel 2005, sono figli di Laura De Cicco, attuale moglie di Ignazio La Russa.

Il figlio più piccolo di La Russa studia tra Londra e Milano, dove frequenterebbe il liceo artistico e aspira a diventare rapper, conosciuto sotto il nome d’arte Larus. Ha inciso diverse canzoni, quella che ha avuto più successo si intitola Sottavalutati, scritta e interpretata con Apo Way, in cui rimava: “Sono tutto matto, sono tutto fatto, sono tutto pazzo, ma ti fo**o anche senza storia”. Parole che non piacquero al padre che in un’intervista alla radio spiegò: “Tranquilli, non è fatto, il concetto di fatto ha un significato diverso. Comunque, i padri sono sempre gli ultimi a saperlo. Se lo acchiappo con la droga lo ammazzo”, come riportato dal Corriere della Sera. “Mi disse che senza parolacce le canzoni rap non hanno senso – spiegò ancora il presidente del Senato -, e concluse con un ‘papà non sai un c…o dei rapper’”.

Repubblica ricorda che quel testo non piacque affatto alla famiglia La Russa che però sottolineò che quel mondo era assolutamente distante da quello reale del giovane Leonardo Apache. “Scemenze da ragazzi” liquidò la mamma, che però aggiunse. “Quei testi non mi piacciono per niente, sono forti, volgari, senza senso. Ma visto che non fa niente di sconveniente e il rap lo diverte, proibirglielo sarebbe sbagliato”. E il “sono fatto”? “Quella parola gli serviva soltanto per la rima. Sulla questione canne noi siamo molto rigidi e lui lo sa bene. Non penso, o almeno spero, che se le faccia”.

Dal passato il Corriere della Serra ricorda un litigio via social con Fedez a suon di stories su Instagram poi cancellate. Il giovane La Russa avrebbe scritto al cantante di smetterla di attaccare il padre. Fedez aveva risposto: “Ci mancavano solo i figli di politici che fanno la trap. Già a dirlo mi vengono i conati”.

Redazione Web 7 Luglio 2023

Estratto dell’articolo di Emanuela Minucci per lastampa.it venerdì 7 luglio 2023.

Forse nel secondo nome, Apache, è già scritto tutto. Per avere 19 anni infatti, il terzogenito del presidente del Senato Ignazio La Russa, ha all’attivo già parecchie liti e un profilo – non solo social – che dir turbolento è poco. Il giovane – fratello di Geronimo e Lorenzo Cochis tutti battezzati con nomi da capo indiano – in arte si fa chiamare Larus (perché il padre non voleva che usasse il nome vero) ed è un trapper.

Basta ascoltare una sua canzone – l’unica che ha conquistato per il momento una certa popolarità – del 2019, «Sottovalutati», e realizzato in duo con l’amico «Apo Way, riporta frasi non proprio tranquillizzanti, come «sono fatto», «se lo acchiappo con la droga lo ammazzo». E pure «ma ti fotto pure senza storie»: passaggio che, riascoltato oggi, alla luce delle accuse mosse da una giovane milanese di violenza sessuale, mette i brividi.

Estratto da open.online venerdì 7 luglio 2023.

Leonardo Apache La Russa, il figlio 19enne del presidente del Senato Ignazio La Russa, è accusato di stupro. Una ragazza di 22 anni si è presentata alla procura di Milano per raccontare una serie di abusi. Che sarebbero avvenuti in seguito a una serata in discoteca. Leonardo è il terzogenito del presidente del Senato. Gli altri due si chiamano Lorenzo Kocis e Geronimo. 

È figlio di Laura De Cicco. L’inchiesta, scrive il Corriere della Sera, è coordinata dalla pubblica ministera Rosaria Stagnaro e coordinata dall’aggiunta Letizia Mannella. Secondo la difesa del giovane non c’è stata invece «nessuna costrizione». Lei ha detto di essersi svegliata nuda e in stato confusionale nel letto del 19enne. L’avvocato che la assiste è Stefano Benvenuto.

Il rapper

Del figlio di La Russa Leonardo si parlò qualche tempo fa sui giornali perché era un rapper con il nome d’arte di Larus. In un video in cui canta un brano dice: «Sono tutto matto / Sono tutto fatto».  

(...) 

L’indagine per stupro

Il Corriere racconta che l’accusa a Leonardo La Russa è simile a quella di tante altre. La ragazza era a una serata in discoteca con amici. Dice di aver perso il controllo di sé stessa e di essersi risvegliata con la sensazione di aver subito una violenza sessuale. L’avvocato di lei dice: «È una questione delicata. Non rilascio dichiarazioni per rispetto della legge penale». Il tutto sarebbe accaduto il 18 maggio scorso. Lei ha 22 anni e viene da una famiglia benestante milanese. 

Era uscita a mezzanotte con un’amica per andare in una discoteca del centro vicino al Duomo: «Mentre ballavamo mi ero accorta della presenza di un mio compagno di scuola di liceo (…) Leonardo La Russa, figlio di Ignazio La Russa. Ci salutammo e da quel momento non ricordo più niente». Ma ricorda di aver bevuto due drink prima di risvegliarsi nel letto di Leonardo. 

Il mattino dopo

Il mattino dopo la ragazza dice che si trovava «in assoluto stato confusionale». Dice che era «nuda nel letto con a fianco Leonardo La Russa». Il racconto riprende dal mattino dopo quando, intorno a mezzogiorno, si sveglia «in assoluto stato confusionale», «nuda nel letto con a fianco Leonardo La Russa», nudo anche lui. «Gli ho chiesto immediatamente spiegazioni del perché fossi lì in quanto non mi ricordavo nulla della serata», sostiene la ragazza. Che, «spaventata» chiede «cosa fosse successo, come siamo arrivati a casa, dove fossimo». Leonardo, secondo la giovane, risponde così: «Mi disse “siamo venuti qui dopo la discoteca con la mia macchina”». E poi «aveva avuto un rapporto con me sotto effetto di sostanze stupefacenti». 

L’amico e l’amica

Infine, le rivela anche che un suo amico, che stava dormendo (lei non lo ha mai visto) in un’altra stanza, aveva «avuto un rapporto con me a mia insaputa», dopo che entrambi l’avevano spogliata. A quel punto lei scrive all’amica che l’ha accompagnata in discoteca. Le chiede: «Non mi ricordo nulla, raccontami di ieri, sono stata drogata?». La risposta: «Penso ti abbia drogata. Non mi ascoltavi, poi sei corsa via perché non ti ho più trovata». E ancora: «Stavi benissimo fino a prima che ti portò il drink», «ho provato a portarti via non riuscendovi». L’amica le dice di averla notata «euforica». E aggiunge di averla vista baciare il figlio del presidente del Senato.

L’entrata in scena di Ignazio La Russa

Il racconto procede. La ragazza si sente presa dalla vergogna. Chiede di riavere i vestiti. Che erano rimasti al piano di sotto. Descrive così l’appartamento a due piani in cui vive Leonardo.

A un certo punto entra in scena anche il presidente del Senato: «Intorno alle 12.30 Ignazio la Russa si affacciò alla camera vedendomi nel letto. Se ne andò via». Vuole andarsene, ma Leonardo la ferma: «Mi disse “pretendo un bacio, se no non ti faccio uscire”. A quel punto si avvicinò e mi baciò contro la mia volontà. Non dissi nulla per paura». Lei annota l’indirizzo e va a prendere la metropolitana. Chiama la madre che la convince ad andare alla clinica Manganelli. Qui le riscontrano un’ecchimosi al collo e una ferita a una coscia. Risulta anche positiva alla cocaina. Ma l’ha assunta prima di andare in discoteca. 

La versione di Leonardo La Russa

Dice di avere per tutto il giorno nausee e capogiri. Il giorno dopo il figlio di La Russa le manda un messaggio su Instagram: «Io per paura non risposi». Una quarantina di giorni dopo formalizza la denuncia. Adriano Bazzoni, l’avvocato che difende Leonardo La Russa, dice che non ha letto ancora le carte dell’accusa. Ma aggiunge anche che «in base a quanto ci state dicendo, sembra che la giovane si riferisca a una notte nella quale ad avviso di Leonardo non vi fu alcuna forma di costrizione: è stata d’accordo nel trascorrere il dopo discoteca con il mio assistito, liberamente andando con lui a casa sua, passando la notte e rimanendo con lui fino a mezzogiorno successivo, per poi salutarsi normalmente». 

E conclude: «Leonardo è molto scosso ed esclude che la ragazza possa aver detto qualcosa del genere nei suoi confronti, così come esclude di aver avuto rapporti insieme ad una terza persona. Quanto a quello che la ragazza avrebbe consumato, non solo esclude di averglielo offerto, ma, qualora si vedesse attribuire questo tipo di condotta, si vedrebbe costretto a sporgere denuncia».

Estratto da ilmessaggero.it venerdì 7 luglio 2023.

Il figlio 19enne del presidente del Senato Ignazio La Russa, Leonardo Apache, denunciato da una ragazza per violenza sessuale. La denuncia è stata presentata Milano. Sul caso indaga la procura. A dare la notizia è il Corriere della Sera. […] Dopo aver bevuto un drink, stando alla denuncia, la ragazza non ricordava più nulla e si sarebbe ritrovata il giorno dopo nuda nel letto con il giovane.

Agli inquirenti ha raccontate che Leonardo Apache le avrebbe detto che «aveva avuto un rapporto con me sotto effetto di sostanze stupefacenti» e che anche un suo amico, che lei non ha mai visto, aveva avuto un rapporto con lei a sua insaputa. 

La ragazza avrebbe quindi scritto all’amica con cui era andata in discoteca, chiedendole cose fosse successo e lei le aveva risposto: «Penso ti abbia drogata, non mi ascoltavi». Dopo essere uscita dalla casa la giovane è andata alla Mangiagalli dove le sono stati riscontrati un livido sul collo e una ferita alla coscia.

Circa 40 giorni dopo i fatti, la denuncia a cui, interpellato dal Corriere, replica Adriano Bazzoni, l’avvocato milanese incaricato dalla famiglia. «Nessuna violenza. Sembra che la giovane si riferisca a una notte nella quale ad avviso di Leonardo non vi fu alcuna forma di costrizione». 

«Dopo averlo a lungo interrogato ho la certezza che mio figlio Leonardo non abbia compiuto alcun atto penalmente rilevante. Conto sulla Procura della Repubblica verso cui, nella mia lunga attività professionale ho sempre riposto fiducia, affinché faccia chiarezza con la maggiore celerità possibile per fugare ogni dubbio». Lo afferma il presidente del Senato Ignazio La Russa in una nota. 

«Di sicuro lascia molti interrogativi una denuncia presentata dopo quaranta giorni dall'avvocato estensore che - cito testualmente il giornale che ne dà notizia - occupa questo tempo "per rimettere insieme i fatti".

Lascia oggettivamente molti dubbi il racconto di una ragazza che, per sua stessa ammissione, aveva consumato cocaina prima di incontrare mio figlio. Un episodio di cui Leonardo non era a conoscenza. Una sostanza che lo stesso Leonardo sono certo non ha mai consumato in vita sua», aggiunge. 

Poi, la precisazione: «Mi dispiace essere frainteso. Lo dico sinceramente. Io non accuso nessuno e men che meno la ragazza - afferma il presidente del Senato in una nota - Semplicemente, da padre, dopo averlo a lungo sentito, credo a mio figlio. […]».

È risultata positiva alle benzodiazepine, ma non si sa se solo in quantità compatibile con l'uso abituale di tranquillanti su prescrizione medica, o in quantità superiore da fare ipotizzare che sia stata «stordita», la 22enne che ha denunciato Leonardo Apache La Russa, ora indagato dalla Procura di Milano con l'ipotesi di violenza sessuale. 

Da quanto si è saputo le analisi effettuate alla Mangiagalli, l'ospedale dove la giovane si è recata dopo la presunta violenza, hanno rilevato presenza di cocaina e di benzodiazepine dovute ai tranquillanti che lei ha detto di prendere.

Sul punto verranno fatti accertamenti per capire l'esatta quantità di sostanze che la giovane aveva in corpo. […] La ragazza sarà sentita tra domani e dopodomani dai pm milanesi. Sulla vicenda la Procura ha aperto una inchiesta in cui il figlio del presidente del Senato, Ignazio La Russa, è indagato. Il giovane respinge le accuse e parla di rapporto consenziente.

La Russa e il figlio denunciato: «Io l’ho interrogato a lungo». Poi le chiamate agli avvocati e la decisione di scrivere la nota. Marco Galluzzo venerdì 7 luglio 2023 su Il Corriere della Sera.

La difficile giornata del senatore: «Mi spiace per entrambi i ragazzi» 

Al telefono, alle cinque del pomeriggio, il presidente del Senato risponde con voce stanca e la promessa di non aggiungere una parola di più rispetto alla nota, l’ultima, che ha dettato alle agenzie di stampa.

Poi però almeno un minimo si scioglie: «È chiaro che mi dispiace, e per entrambi i ragazzi, per questa ragazza, per tutti, è una brutta vicenda. Sto solo cercando di fare il padre e mi sono incazzato con mio figlio perché ha portato a casa una ragazza che nemmeno conosceva bene, l’ho interrogato su tutto quello che è successo, d’ora in poi parlerà soltanto il nostro avvocato...».

Ignazio La Russa non ha avuto una giornata semplice. È la seconda carica dello Stato e suo figlio è accusato di aver violentato una ragazza. Che ci fosse un’indagine in corso il presidente di Palazzo Madama lo sapeva almeno da quattro giorni e dunque per lui non è stata una sorpresa quando la notizia è diventata pubblica, insieme ai primi dettagli dell’inchiesta.

Ma a destare stupore e suscitare polemiche sono state piuttosto proprio le prime parole di papà La Russa, dettate alle agenzie e in sostanza assolutorie del figlio: «Dopo averlo a lungo interrogato ho la certezza che mio figlio Leonardo non abbia compiuto alcun atto penalmente rilevante. Conto sulla Procura della Repubblica verso cui, nella mia lunga attività professionale ho sempre riposto fiducia, affinché faccia chiarezza con la maggiore celerità possibile per fugare ogni dubbio».

Parole che scatenano molte reazioni politiche, da parte dell’opposizione, e che di sicuro possono apparire stonate rispetto alla figura istituzionale che in questo momento La Russa ricopre. La seconda carica dello Stato continua in questo modo: «Di sicuro lascia molti interrogativi una denuncia presentata dopo quaranta giorni dall’avvocato estensore che, cito testualmente il giornale che ne dà notizia, occupa questo tempo “per rimettere insieme i fatti”. Lascia oggettivamente molti dubbi il racconto di una ragazza che, per sua stessa ammissione, aveva consumato cocaina prima di incontrare mio figlio — prosegue La Russa —. Un episodio di cui Leonardo non era a conoscenza. Una sostanza che lo stesso Leonardo sono certo non ha mai consumato in vita sua».

C’è infine una postilla domestica che per La Russa padre ha anch’essa rilievo: «Inoltre, incrociata al mattino, sia pur fuggevolmente da me e da mia moglie, la ragazza appariva assolutamente tranquilla. Altrettanto sicura è la forte reprimenda rivolta da me a mio figlio per aver portato in casa nostra una ragazza con cui non aveva un rapporto consolidato. Non mi sento di muovergli alcun altro rimprovero».

Passano poche ore e le parole del presidente del Senato, esponente di Fratelli d’Italia, diventano oggetto di critica feroce da parte del Pd e del resto delle opposizioni. Alla fine Ignazio La Russa sente il bisogno di chiarire, correggere il tiro, forse anche di fare marcia indietro rispetto a qualche parola di troppo contenuta nella prima nota.

«Mi dispiace essere frainteso. Lo dico sinceramente. Io non accuso nessuno e men che meno la ragazza. Semplicemente, da padre, dopo averlo a lungo sentito, credo a mio figlio. Sottolineo il mio rispetto per gli inquirenti e il desiderio che facciano chiarezza il più celermente possibile. Leonardo ha nominato un suo difensore e da ora toccherà a quest’ultimo decidere se e quando intervenire».

Lo stesso avvocato di cui parla, al termine di una giornata certamente faticosa, al telefono con il nostro giornale. Quando promette che d’ora in poi su questa vicenda non dirà più una parola. Anche se non sarà facile.

La denuncia di una ragazza: “Violentata dal figlio di La Russa dopo la serata in discoteca”. Indaga la procura di Milano. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 7 Luglio 2023

La narrazione di questa vicenda, così come l’ha raccontata la giovane ragazza, è molto simile al racconto di altra violenze sessuali che si ripetono continuamente all’ombra delle movide: serata in discoteca con gli amici, perdita di controllo di sé stessi e risveglio con la drammatica sensazione di aver subito un abuso sessuale

Leonardo Apache Larussa figlio 19enne terzo genito del presidente del Senato Ignazio La Russa, è stato denunciato da una ragazza per violenza sessuale. La denuncia è stata presentata a Milano e sul caso indaga la procura. A dare la notizia è il Corriere della Sera.  La denuncia è stata depositata da una ragazza di 22 anni alla Procura di Milano che ha aperto un’inchiesta affidata al pm Rosaria Stagnaro e coordinata dal procuratore aggiunto Letizia Mannella. I presunti abusi sarebbero avvenuti dopo una serata in discoteca a Milano. Il figlio di Larussa si difende: “Non c’è stata nessuna costrizione”. L’ avvocato Stefano Benvenuto che assiste la giovane ragazza a sua volta non commenta: “È una questione delicata. Non rilascio dichiarazioni per rispetto della legge penale”.

La narrazione di questa vicenda, così come l’ha raccontata la giovane ragazza, è molto simile al racconto di altra violenze sessuali che si ripetono continuamente all’ombra delle movide: serata in discoteca con gli amici, perdita di controllo di sé stessi e risveglio con la drammatica sensazione di aver subito un abuso sessuale. Dai racconti sembra di riassistere alla vicenda che ha coinvolto il figlio di Beppe Grillo accusato anch’egli per avere abusato di una ragazza insieme a degli amici. 

Qualche tempo fa sui media si parlò del figlio Leonardo di La Russa perché era un rapper con il nome d’arte di “Larus“. In un video in cui canta un brano dice: “Sono tutto matto / Sono tutto fatto“. All’epoca suo padre spiegò: “Fa il rapper per hobby. Non è fatto, il significato è diverso. Comunque, i padri sono sempre gli ultimi a saperlo, ma se lo acchiappo con la droga lo ammazzo”. Aggiungendo: “Lui mi ha detto che se in queste canzoni non ci si mette le parolacce non hanno senso. Gli ho chiesto: perché? Lui mi ha risposto: “Papà, non sai un c… dei rapper”. Io sono un liberale. Ho le mie idee e non voglio imporle a nessuno, neanche a mio figlio“»”. Gli altri figli di La Russa, Lorenzo è laureato in giurisprudenza ed è stato eletto consigliere nel municipio 1 di Milano. Geronimo, figlio di Marika Cattare, è anche lui avvocato e presidente dell’ ACI Milano e Monza. 

La denunciata violenza sessuale sarebbe accaduto lo scorso 18 maggio. La ragazza ha 22 anni e viene da una famiglia benestante milanese. Era uscita a mezzanotte con un’amica per andare in una discoteca del centro vicino al Duomo, ed ha dichiarato agli investigatori: “Mentre ballavamo mi ero accorta della presenza di un mio compagno di scuola di liceo (…) Leonardo La Russa, figlio di Ignazio La Russa. Ci salutammo e da quel momento non ricordo più niente“. Ricorda solo di aver bevuto due drink prima di risvegliarsi “in assoluto stato confusionale” e di essersi trovata nuda nel letto di casa Larussa accanto al giovane Leonardo nudo anche lui.

“Gli ho chiesto immediatamente spiegazioni del perché fossi lì in quanto non mi ricordavo nulla della serata”, racconta la ragazza che, “spaventata” chiede “cosa fosse successo, come siamo arrivati a casa, dove fossimo”. Leonardo Larussa, secondo la giovane, risponde così: “Mi disse “siamo venuti qui dopo la discoteca con la mia macchina” riferendole che “aveva avuto un rapporto con me sotto effetto di sostanze stupefacenti”.

Leonardo Larussa, secondo il racconto della ragazza, le avrebbe rivelato che anche un suo amico, che stava dormendo (lei non lo ha mai visto) in un’altra stanza, “aveva avuto un rapporto con me a mia insaputa”, dopo che entrambi i ragazzi l’avevano spogliata. A quel punto la ragazza scrive un messaggio all’amica con cui si era recata in discoteca: “Non mi ricordo nulla, raccontami di ieri, sono stata drogata?”. Questa la risposta: “Penso ti abbia drogata. Non mi ascoltavi, poi sei corsa via perché non ti ho più trovata” aggiungendo “Stavi benissimo fino a prima che ti portò il drink, ho provato a portarti via non riuscendovi“. L’amica le spiega di averla notata “euforica” ed aggiunge di averla vista baciare il figlio del presidente del Senato. 

Il racconto della ragazza continua, riferendo di sentirsi presa dalla vergogna. Chiede al figlio di Larussa di riavere i suoi vestiti che erano rimasti al piano di sotto, e descrive l’appartamento a due piani in cui vive Leonardo. A un certo punto nel racconto entra in scena anche il presidente del Senato: “Intorno alle 12.30 Ignazio la Russa si affacciò alla camera vedendomi nel letto. Se ne andò via“. La ragazza voleva andarsene, ma Leonardo la ferma: “Mi disse “pretendo un bacio, se no non ti faccio uscire” ed a quel punto si avvicinò e mi baciò contro la mia volontà. Non dissi nulla per paura“. Lei scrive l’indirizzo dello stabile da cui era riuscita ad uscire e va a prendere la metropolitana. Chiama la madre che la convince ad andare alla clinica Manganelli. Qui le riscontrano un’ecchimosi al collo e una ferita a una coscia. Risulta anche positiva alla cocaina.

La ragazza riferisce di avere avuto per tutto il giorno nausee e capogiri. Il giorno dopo il figlio di La Russa le manda un messaggio su Instagram: “Io per paura non risposi”. Una quarantina di giorni dopo presenta la denuncia. L’ avvocato Adriano Bazzoni, che difende Leonardo La Russa, afferma che non ha letto ancora le carte dell’accusa ed aggiunge anche che “in base a quanto ci state dicendo, sembra che la giovane si riferisca a una notte nella quale ad avviso di Leonardo non vi fu alcuna forma di costrizione: è stata d’accordo nel trascorrere il dopo discoteca con il mio assistito, liberamente andando con lui a casa sua, passando la notte e rimanendo con lui fino a mezzogiorno successivo, per poi salutarsi normalmente”. Una perfetta ricostruzione difensiva.

Il legale di Leonardo Larussa aggiunge: “Leonardo è molto scosso ed esclude che la ragazza possa aver detto qualcosa del genere nei suoi confronti, così come esclude di aver avuto rapporti insieme ad una terza persona. Quanto a quello che la ragazza avrebbe consumato, non solo esclude di averglielo offerto, ma, qualora si vedesse attribuire questo tipo di condotta, si vedrebbe costretto a sporgere denuncia”.

La ragazza e le amiche che erano con lei non sono ancora state convocate in Procura. Le indagini sono alla stadio iniziale e dal Palazzo di Giustizia milanese trapela un certo disappunto per la fuga di notizie che rende l’inchiesta più complicata. 

La difesa di Ignazio Larussa

“Dopo averlo a lungo interrogato ho la certezza che mio figlio Leonardo non abbia compiuto alcun atto penalmente rilevante“. Sono le prime dichiarazioni di Ignazio La Russa dopo la notizia che il suo terzogenito, Leonardo Apache, è indagato per violenza sessuale.  La nota del presidente del Senato continua: “Conto sulla Procura della Repubblica verso cui, nella mia lunga attività professionale, ho sempre riposto fiducia, affinché faccia chiarezza con la maggiore celerità possibile per fugare ogni dubbio“. “Di sicuro lascia molti interrogativi una denuncia presentata dopo quaranta giorni dall’avvocato estensore che – cito testualmente il giornale che ne da notizia (cioè il Corriere della Sera, ndr) – occupa questo tempo “per rimettere insieme i fatti”.

“Lascia oggettivamente molti dubbi il racconto di una ragazza che, per sua stessa ammissione, aveva consumato cocaina prima di incontrare mio figlio. Un episodio di cui Leonardo non era a conoscenza. Una sostanza che lo stesso Leonardo sono certo non ha mai consumato in vita sua. Inoltre, incrociata al mattino, sia pur fuggevolmente da me e da mia moglie, la ragazza appariva assolutamente tranquilla. Altrettanto sicura è la forte reprimenda rivolta da me a mio figlio per aver portato in casa nostra una ragazza con cui non aveva un rapporto consolidato. Non mi sento di muovergli alcun altro rimprovero“.

Redazione CdG 1947

I "dubbi" sulla ragazza. La Russa padre-magistrato, assolve il figlio accusato di violenza sessuale: “L’ho interrogato, nessun atto penalmente rilevante”. La retromarcia del Presidente del Senato dopo la polemica: "Mi dispiace essere frainteso. Lo dico sinceramente. Io non accuso nessuno e men che meno la ragazza”. Redazione su L'Unità il 7 Luglio 2023

Difende a spada tratta, convinto e senza dubbio alcuno della sua innocenza. Travolto dall’indagine per violenza sessuale nei confronti del terzogenito Leonardo Apache, di 19 anni, il presidente del Senato Ignazio La Russa veste i panni di avvocato e padre per difendere il figlio.

In una nota la seconda carica dello Stato dice di “averlo interrogato a lungo” , in una sorta di indagine preliminare domestica, e dopo aver ascoltato i fatti raccontati da Leonardo “ho la certezza che mio figlio Leonardo non abbia compiuto alcun atto penalmente rilevante. Conto sulla Procura della Repubblica verso cui, nella mia lunga attività professionale ho sempre riposto fiducia affinché faccia chiarezza con la maggiore celerità possibile per fugare ogni dubbio”.

Anzi, La Russa ‘senior’ di dubbi ne avanza sulla 22enne, ex compagna di liceo di Lorenzo Apache, che ha sporto denuncia nei confronti del figlio, che l’avrebbe drogata e violentata il 18 maggio scorso dopo una serata in una nota discoteca di Milano. Per il presidente del Senato “lascia molti interrogativi una denuncia presentata dopo quaranta giorni dall’avvocato estensore che – cito testualmente il giornale che ne dà notizia – occupa questo tempo “per rimettere insieme i fatti”. Lascia oggettivamente molti dubbi il racconto di una ragazza che, per sua stessa ammissione, aveva consumato cocaina prima di incontrare mio figlio. Un episodio di cui Leonardo non era a conoscenza. Una sostanza che lo stesso Leonardo sono certo non ha mai consumato in vita sua”.

La Russa conferma invece quanto riferito dalla 22enne e dall’articolo pubblicato oggi dal Corriere della Sera che riportava la vicenda, ovvero che l’esponente di FdI si si sarebbe affacciato nella camera di suo figlio Leonardo, per poi andarsene non appena vista la ragazza ancora a letto. “Incrociata al mattino, sia pure fuggevolmente da me e da mia moglie, la ragazza appariva assolutamente tranquilla – spiega però La Russa – Altrettanto sicuro è la forte reprimenda rivolta da me a mio figlio per aver portato in casa nostra una ragazza con cui non aveva un rapporto consolidato. Non mi sento di muovergli alcun altro rimprovero”.

L’intervento di La Russa viene invece stigmatizzato duramente dalla segretaria del Partito Democratico. Per Elly Schlein, impegnata ad Enna per un incontro sul tema dell’autonomia regionale, è “disgustoso che il Presidente del Senato colpevolizzi una donna che denuncia una violenza”.

Affermazioni, quelle nella difesa di ufficio di La Russa nei confronti del figlio 19enne, rispetto alle quali Schlein rileva che “al di là delle responsabilità del figlio, che sta alla magistratura chiarire, è disgustoso sentire dalla seconda carica dello Stato parole che ancora una volta vogliono minare la credibilità delle donne che denunciano una violenza sessuale a seconda di quanto tempo ci mettono, o sull’eventuale assunzione di alcol o droghe, come se questo facesse presumere automaticamente il loro consenso. Il presidente del Senato non può fare vittimizzazione secondaria“. “È per questo tipo di parole che tante donne non denunciano per paura di non essere credute. Inaccettabile da chi ha incarichi istituzionali la legittimazione del pregiudizio sessista“, aggiunge la leader Dem.

Di fronte alla levata di scudi, La Russa è quindi costretto a fare una parziale retromarcia e a rilancia un grande classico della politica italiana: il fraintendimento. “Mi dispiace essere frainteso. Lo dico sinceramente. Io non accuso nessuno e men che meno la ragazza”, dice il presidente del Senato tentato di correre ai ripari. “Semplicemente, da padre – prosegue La Russa – dopo averlo a lungo sentito, credo a mio figlio. Per il resto, sottolineo il mio rispetto per gli inquirenti e il desiderio che facciano chiarezza il più celermente possibile. Leonardo ha nominato un suo difensore e da ora toccherà a quest’ultimo decidere se e quando intervenire“.

Chi è Leonardo Apache

Ha 19 anni e ha già scritto e pubblicato alcuni brani rap. Leonardo Apache La Russa, 19 anni, è il terzogenito di Ignazio, dopo Geronimo e Lorenzo Cochis, tutti nomi scelti per omaggiare gli antichi capi americani. Geronimo, nato nel 1980 è il maggiore, figlio della relazione con Marika Cattare. Lorenzo Cochis e Leonardo Apache, nati rispettivamente nel 1995 e nel 2005, sono figli di Laura De Cicco, attuale moglie di Ignazio La Russa.

Il figlio più piccolo di La Russa studia tra Londra e Milano, dove frequenterebbe il liceo artistico e aspira a diventare rapper, conosciuto sotto il nome d’arte Larus. Ha inciso diverse canzoni, quella che ha avuto più successo si intitola Sottavalutati, scritta e interpretata con Apo Way, in cui rimava: “Sono tutto matto, sono tutto fatto, sono tutto pazzo, ma ti fo**o anche senza storia”.

Parole che non piacquero al padre che in un’intervista alla radio spiegò: “Tranquilli, non è fatto, il concetto di fatto ha un significato diverso. Comunque, i padri sono sempre gli ultimi a saperlo. Se lo acchiappo con la droga lo ammazzo”, come riportato dal Corriere della Sera. “Mi disse che senza parolacce le canzoni rap non hanno senso – spiegò ancora il presidente del Senato -, e concluse con un ‘papà non sai un c…o dei rapper’”.

Redazione  7 Luglio 2023

"Forte reprimenda perché ha portato a casa una ragazza con cui non aveva rapporti consolidati”. La Russa difende Leonardo Apache: “L’ho interrogato, nulla di penalmente rilevante. La ragazza ha preso cocaina, lui no”. Il legale delle 22enne rilancia: “Si faccia chiarezza sulla droga”. Redazione su Il Riformista il 7 Luglio 2023 

Ha la “certezza” che il figlio, Leonardo Apache La Russa, “non abbia compiuto alcun atto penalmente rilevante“. Avanza dubbi sulla versione della ragazza perché “per sua stessa ammissione, aveva consumato cocaina prima di incontrare mio figlio” e “di sicuro lascia molti interrogativi una denuncia presentata dopo quaranta giorni dall’avvocato estensore che – cito testualmente il giornale che ne da notizia – occupa questo tempo “per rimettere insieme i fatti”.

Ignazio La Russa dice di “averlo interrogato a lungo” dopo la vicenda riportata dal Corriere della Sera. In una nota il presidente del Senato offre la sua versione sul presunto coinvolgimento del terzogenito, 19enne, in un caso di violenza sessuale, partito dalla denuncia di una ragazza di 22 anni. “Conto sulla Procura della Repubblica verso cui, nella mia lunga attività professionale ho sempre riposto fiducia, affinché faccia chiarezza con la maggiore celerità possibile per fugare ogni dubbio”.

La seconda carica dello Stato aggiunge di aver rivolto al figlio una “forte reprimenda” per “aver portato in casa nostra una ragazza con cui non aveva un rapporto consolidato” e sottolinea “Non mi sento di muovergli alcun altro rimprovero”. Tornando all’assunzione di cocaina, precisa: “Per sua stessa ammissione, aveva consumato cocaina prima di incontrare mio figlio. Un episodio di cui Leonardo non era a conoscenza. Una sostanza che lo stesso Leonardo sono certo non ha mai consumato in vita sua”.

Ragazza che “incrociata al mattino, sia pur fuggevolmente da me e da mia moglie, appariva assolutamente tranquilla” spiega La Russa. Dal canto suo la giovane ha raccontato che il 18 maggio intorno a mezzanotte era in una discoteca nel centro di Milano con una amica e lì ha incontrato Leonardo Apache La Russa, che in passato era stato suo compagno di scuola.

E, dopo un drink, ha riferito di non ricordare nulla di quando successo, ma di essersi svegliata confusa e nuda nel letto del ragazzo intorno a mezzogiorno. Alla richiesta di spiegazioni “mi disse: siamo venuti qui dopo la discoteca con la mia macchina‘” e che “aveva avuto un rapporto con me sotto effetto di sostanze stupefacenti‘ e che un suo amico, che stava dormendo” – lei ha precisato di non averlo mai visto – in un’altra stanza, aveva “‘avuto un rapporto con me a mia insaputa”.

Il legale della giovane: “Si faccia chiarezza sulla cocaina”

Immediata la controreplica del legale della 22enne, l’avvocato Stefano Benvenuto: “Dopo aver preso contezza dell’articolo apparso sul giornale ‘Corriere della Sera’ e dopo aver letto le dichiarazioni del presidente del Senato rilevo quanto segue: senza entrare nel merito della vicenda coperta da segreto istruttorio, la domanda che mi pongo da normale cittadino e non da avvocato come possa una ragazza aver assunto cocaina e non ricordare nulla fino all’indomani, laddove la cocaina è nota essere sostanza eccitante e non che provochi sonnolenza. La domanda a cui dovranno rispondere i magistrati è se la ragazza abbia assunto sostanze stupefacenti che hanno provocato un tale stordimento e in caso affermativo da chi siano state offerte”. E conclude: “Per noi l’attenzione è massima a tutela del diritto di difesa di una semplice ragazza che ha raccontato fatti che, se provati, costituirebbero una inammissibile offesa alla dignità femminile. Mi schiero sempre verso La ricerca della verità”.

Le reazioni politiche

“Al di là delle responsabilità del figlio, che sta alla magistratura chiarire, è disgustoso sentire dalla seconda carica dello Stato parole che ancora una volta vogliono minare La credibilità delle donne che denunciano una violenza sessuale a seconda di quanto tempo ci mettono, o sull’eventuale assunzione di alcol o droghe, come se questo facesse presumere automaticamente il loro consenso. Il Presidente del Senato non può fare vittimizzazione secondaria. È per questo tipo di parole che tante donne non denunciano per paura di non essere credute. Inaccettabile da chi ha incarichi istituzionali La legittimazione del pregiudizio sessista”. Lo afferma in una nota la segretaria del Pd Elly Schlein.

(ANSA venerdì 7 luglio 2023) - "Dopo averlo a lungo interrogato ho la certezza che mio figlio Leonardo non abbia compiuto alcun atto penalmente rilevante. Conto sulla Procura della Repubblica verso cui, nella mia lunga attività professionale ho sempre riposto fiducia, affinchè faccia chiarezza con la maggiore celerità possibile per fugare ogni dubbio". Lo afferma il presidente del Senato Ignazio La Russa in una nota.

(ANSA venerdì 7 luglio 2023) - "Di sicuro lascia molti interrogativi una denuncia presentata dopo quaranta giorni dall'avvocato estensore che - cito testualmente il giornale che ne dà notizia - occupa questo tempo "per rimettere insieme i fatti". Lascia oggettivamente molti dubbi il racconto di una ragazza che, per sua stessa ammissione, aveva consumato cocaina prima di incontrare mio figlio. Un episodio di cui Leonardo non era a conoscenza. Una sostanza che lo stesso Leonardo sono certo non ha mai consumato in vita sua". Lo afferma il presidente del Senato Ignazio La Russa in merito alla notizia di un'indagine a carico del figlio Leonardo denunciato per violenza. 

"Inoltre - prosegue il presidente di palazzo Madama nella nota - incrociata al mattino, sia pur fuggevolmente da me e da mia moglie, la ragazza appariva assolutamente tranquilla. Altrettanto sicura è la forte reprimenda rivolta da me a mio figlio per aver portato in casa nostra una ragazza con cui non aveva un rapporto consolidato. Non mi sento di muovergli alcun altro rimprovero"

(ANSA venerdì 7 luglio 2023) - "Mio figlio mi ha detto che quella ragazza era una sua compagna di scuola che non vedeva da tanto tempo. E che durante la serata gli ha raccontato tante cose della sua vita a dimostrazione che era lucida". 

Lo ha detto Il presidente del Senato Ignazio La Russa, incrociato fuori da un ristorante vicino al suo studio nei pressi del Palazzo di Giustizia di Milano, ribadendo di "essere tranquillo" per l'inchiesta in cui suo figlio Leonardo Apache è indagato per violenza sessuale in seguito alla denuncia della 22enne.

"E' dispiaciuto - ha aggiunto - perchè non si aspettava una cosa simile". Inoltre La Russa ha spiegato di aver "visto fuggevolmente" la mattina dopo la ragazza. "Ho aperto la porta, - ha affermato - l'ho vista, era tranquilla e poi se ne è andata". Quanto all'amico del figlio presente in casa ha sottolineato che "dormiva in un altro piano, era uno dei due ospiti che studiano con mio figlio", mentre l'altro non c'era e "non ne sa niente". Il Presidente del Senato ha tenuto a precisare che la giovane "per sua ammissione aveva assunto sostanze stupefacenti prima di incontrare" suo figlio.

Estratto da repubblica.it venerdì 7 luglio 2023.

“Disgustoso”. Elly Schlein interviene dopo le parole pronunciate da Ignazio La Russa in difesa del figlio Leonardo Apache, accusato di violenza sessuale.  

(...) 

La Russa ha contestato i tempi della denuncia da parte della ragazza: “Presentata dopo quaranta giorni dall'avvocato estensore che, cito testualmente il giornale che ne dà notizia, occupa questo tempo per rimettere insieme i fatti”, ha evidenziato il presidente del Senato. E sulla ragazza che ha dichiarato di aver subito violenza La Russa ha sollevato dubbi: “Per sua stessa ammissione, aveva consumato cocaina prima di incontrare mio figlio. Un episodio di cui Leonardo non era a conoscenza. Una sostanza che lo stesso Leonardo sono certo non ha mai consumato in vita sua”.

Affermazioni rispetto alle quali Schlein rileva che "al di là delle responsabilità del figlio, che sta alla magistratura chiarire, è disgustoso sentire dalla seconda carica dello Stato parole che ancora una volta vogliono minare la credibilità delle donne che denunciano una violenza sessuale a seconda di quanto tempo ci mettono, o sull'eventuale assunzione di alcol o droghe, come se questo facesse presumere automaticamente il loro consenso. Il presidente del Senato non può fare vittimizzazione secondaria. 

È per questo tipo di parole che tante donne non denunciano per paura di non essere credute. Inaccettabile da chi ha incarichi istituzionali la legittimazione del pregiudizio sessista"

La Russa jr accusato di molestie Il padre: “Ci ho parlato, non è così”. Rita Cavallaro su L'Identità il 7 Luglio 2023 

“Dopo averlo a lungo interrogato ho la certezza che mio figlio Leonardo non abbia compiuto alcun atto penalmente rilevante. Conto sulla Procura della Repubblica verso cui, nella mia lunga attività professionale ho sempre riposto fiducia, affinché faccia chiarezza con la maggiore celerità possibile per fugare ogni dubbio. Di sicuro lascia molti interrogativi una denuncia presentata dopo quaranta giorni dall’avvocato estensore che – cito testualmente il giornale che ne dà notizia – occupa questo tempo “per rimettere insieme i fatti”. Lascia oggettivamente molti dubbi il racconto di una ragazza che, per sua stessa ammissione, aveva consumato cocaina prima di incontrare mio figlio. Un episodio di cui Leonardo non era a conoscenza. Una sostanza che lo stesso Leonardo sono certo non ha mai consumato in vita sua. Inoltre, incrociata al mattino, sia pur fuggevolmente da me e da mia moglie, la ragazza appariva assolutamente tranquilla.

Altrettanto sicura è la forte reprimenda rivolta da me a mio figlio per aver portato in casa nostra una ragazza con cui non aveva un rapporto consolidato. Non mi sento di muovergli alcun altro rimprovero”. È la lunga nota del presidente del Senato, Ignazio La Russa, a difesa del suo terzogenito, Leonardo Apache, indagato dai magistrati meneghini per violenza sessuale a seguito della querela sporta da un’ex compagna di liceo, un 22enne della Milano bene, che sostiene di essere stata stuprata dal figlio del numero uno di Palazzo Madama. Il presunto stupro, ricostruito dal Corriere, sarebbe avvenuto il 18 maggio scorso, quando la giovane, dopo aver assunto cocaina durante una serata all’insegna dello sballo, aveva incontrato in una discoteca a due passi da piazza Duomo il suo ex compagno di scuola, il rapper esordiente di 19 anni, nome d’arte Larus. La ragazza, che era in compagnia di un’amica, ha raccontato di aver accettato un drink offertole da Leonardo e che, dopo averlo bevuto, è entrata in uno stato confusionale. Non ricorda null’altro di quella notte, giura, e anche se non lo dice esplicitamente, con la sua ricostruzione allude alla probabilità che in quel cocktail ci fosse la droga dello stupro, la sostanza stupefacente troppo spesso usata dai giovanissimi.

Il terribile sospetto che sia stata vittima di violenza sessuale ha assalito la 22enne soltanto la mattina, quando, intorno a mezzogiorno, si era risvegliata svestita e confusa nel letto di Leonardo Apache, anche lui nudo. Allora avrebbe chiesto spiegazioni e lui le avrebbe risposto che “aveva avuto un rapporto con me sotto effetto di sostanze stupefacenti”, racconta la giovane. Non solo, oltre a Leonardo “ha avuto un rapporto con me a mia insaputa” anche un amico del rapper, che dormiva in un’altra stanza e che lei non ha mai visto. A quel punto avrebbe mandato messaggi all’amica con cui era uscita la sera prima: “Non mi ricordo nulla, raccontami di ieri, sono stata drogata?”. E anche l’altra ipotizza che in quel drink ci fosse la droga: “Penso ti abbia drogata… stavi benissimo fino a prima che ti portò il drink”. La descrive “euforica” e ricorda di averla vista baciare Leonardo in discoteca, per poi perdere del tutto le tracce dell’amica. Messaggi che avevano convinto la 22enne di essere stata violentata in casa La Russa. La vittima, inoltre, nella denuncia ha parlato anche del presidente del Senato, raccontando che “intorno alle 12.30 Ignazio la Russa si affacciò alla camera vedendomi nel letto. Se ne andò via”. E che, prima di lasciare l’abitazione, Leonardo pretese un bacio “contro la mia volontà”.

Uscita dal palazzo, si era annotata l’indirizzo e aveva chiamato in lacrime la madre, la quale l’aveva convinta ad andare alla clinica Mangiagalli, dove i medici del servizio antiviolenza avrebbero riscontrato ecchimosi al collo e una ferita alla coscia. È lì che è stata sottoposta pure ai test antidroga, che hanno accertato la positività alla cocaina, assunta volontariamente prima della serata in discoteca. Assistita dall’avvocato Stefano Benvenuti, la 22enne ha formalizzato la denuncia dopo quaranta giorni e ora Leonardo Apache La Russa è indagato per violenza sessuale nell’inchiesta del pm di Milano Rosaria Stagnaro, coordinata dall’aggiunto Letizia Mannella. Il rapper nega ogni addebito e sostiene che si è trattato di un rapporto consensuale. L’avvocato Adriano Bazzoni, difensore del figlio del presidente del Senato, ha sottolineato che attende di leggere le carte ma “sembra che la giovane si riferisca a una notte nella quale ad avviso di Leonardo non vi fu alcuna forma di costrizione: è stata d’accordo nel trascorrere il dopo discoteca con il mio assistito, liberamente andando con lui a casa sua, passando la notte e rimanendo con lui fino a mezzogiorno successivo, per poi salutarsi normalmente”. Il penalista ha precisato che la ricostruzione contenuta nella denuncia è “fumosa” e che “è pacifico che lei ha assunto sostanze prima di incontrare Leonardo”. Riguardo al drink, La Russa jr “non solo esclude di averglielo offerto, ma, qualora si vedesse attribuire questo tipo di condotta, si vedrebbe costretto a sporgere denuncia”, ha concluso Bazzoni. La vicenda, seppure dai contorni diversi, ricorda il caso di Ciro Grillo, il figlio del leader dei pentastellati Beppe, a processo per uno stupro di gruppo.

La Russa? "Ha solo letto il Corriere", Senaldi smaschera il gioco della sinistra. Il Tempo il 07 luglio 2023

Lo scontro sulla giustizia infiamma il dibattito politico con le parole di Ignazio La Russa sulle indagini che riguardano il figlio su una presunta violenza sessuale che si aggiungono alle polemiche su Daniela Santanchè e per l'imputazione coatta ad Andrea Delmastro per le rivelazioni sul caso Cospito. Se ne parla a Controcorrente, il talk show di Rete 4 condotto da Veronica Gentili. Pietro Senaldi viene chiamato a commentare il primo caso, in relazione alle parole del presidente del Senato che secondo il Pd, come detto da Elly Schlein, offendono le donne: "È veramente disgustoso vedere la seconda carica dello Stato utilizzare parole che tendono a minare la credibilità delle donne che denunciano a seconda di quanto tempo ci mettono per farlo". 

Il condirettore di Libero non è dello stesso avviso: "La Russa non ha fatto altro che leggere l'articolo del Corriere della sera che ha dato la notizia" dell'indagine su Leonardo Apache La Russa "e ha dato adito a tutti questi dubbi. Che la ragazza ha assunto cocaina prima di incontrare in modo casuale il figlio di La Russa l'ho letto sul Corriere, che la ragazza dice non ricordare niente l'ho letto sul Corriere..." afferma il giornalista.  Allora perché le polemiche sulle dichiarazioni del presidente del Senato? "O uno non può parlare... Diciamoci la verità, perché La Russa non può parlare? Perché la notizia è finita in prima pagina perché riguarda il figlio di La Russa. Se sei il presidente del Senato ti possono tirare le pietre e non puoi dire niente, non è correttissimo", spiega Senaldi. 

Poco prima Antonio Padellaro del Fatto quotidiano aveva affrontato il caso della ministra del Turismo affermando che il nodo vero sono i problemi delle sue aziende. Per Senaldi il discorso non regge perché il punto vero, sugli imprenditori che fanno politica, non è il bilancio dei loro risultati economici: "Capisco che dall'altra parte", ossia a sinistra, "ci sono imprenditori che vanno male, non fanno politica come frontman, ma poi si fanno risolvere i problemi dal Pd, e fanno scrivere sui loro giornali che gli altri sbagliano..." Ma perché dobbiamo fare sempre 1-1, se sei convinto che Santanchè sia l'imprenditrice migliore del mondo..." è la replica di Padellaro. "Per essere eletto in Parlamento devi raccogliere i voti, punto", taglia corto Senaldi. 

La Russa jr, il giallo dello stupro. La denuncia prima al «Corriere» che alla Procura. Giacomo Amadori su Panorama l'8 Luglio 2023

Querela consegnata a una corrispondente locale del quotidiano: «Agganciata in discoteca, mi ha offerto un drink e mi sono trovata nuda a casa sua». Il cofondatore di Fdi: «Dubbi su questa versione, lei aveva assunto cocaina». La Schlein: «Vergogna»

La denuncia per violenza sessuale presentata nei giorni scorsi da una ventiduenne milanese contro Leonardo Apache La Russa, ventunenne figlio del presidente del Senato Ignazio, potrebbe far pensare a un accerchiamento giudiziario nei confronti degli esponenti di Fratelli d’Italia (in ordine Andrea Delmastro, Daniela Santanché e La Russa). Ma forse ad attaccare il socio di maggioranza del governo sono soprattutto i media che amplificano ogni sospiro che provenga dalle Procure, ma anche da altri luoghi. Il caso di questo presunto stupro, rivelato ieri dal Corriere della sera, a noi ricorda da vicino quello del figlio di Beppe Grillo, Ciro. In quella storiaccia noi, in beata solitudine, abbiamo evidenziato per mesi tutto ciò che non tornava nelle accuse della presunta vittima.

Inchiesta su La Russa junior, la ragazza era positiva alle droghe. Luigi Frasca su Il Tempo il 09 luglio 2023

Gli sviluppi dell’inchiesta in cui è indagato Leonardo Apache La Russa, figlio del presidente del Senato Ignazio, avranno un primo snodo importante nelle dichiarazioni che metterà a verbale la ragazza che lo ha denunciato di avere abusato di lei il 18 maggio scorso dopo una serata nel club milanese Apophis. Il confronto coi magistrati avverrà domani o, al più tardi, martedì, fanno sapere in ambienti giudiziari, mentre è iniziato l’ascolto dei primi testimoni presenti in discoteca. La giovane ha spiegato di avere assunto cocaina prima della discoteca, circostanza poi ribadita nell’esposto presentato pochi giorni fa dal suo legale Stefano Benvenuto. E le analisi a cui è stata sottoposta in effetti evidenziano la presenza nel suo organismo di tracce di stupefacente, di benzodiazepine e di hashish in quantità che sono ancora da determinare.

Il referto dei sanitari, dai quali emergono anche un’ecchimosi e una ferita alla gamba, è stato inviato alla procura. L’ex compagna di scuola di Leonardo ha scritto nella denuncia di essersi ritrovata dopo una serata di eccessi «nuda» nel letto a casa dei La Russa e che il ragazzo le disse di avere avuto un rapporto sessuale «sotto effetto di sostanze stupefacenti» sia con lui sia con un suo amico, il dj della serata, mentre lei era «incosciente». L’identificazione del dj è in corso da parte della squadra mobile. La legge considera violenza sessuale quella compiuta da chi «induce taluno a subire o compiere atti sessuali abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto». Per il momento non è previsto l’ascolto del figlio di La Russa.

Estratto dell'articolo di G. Gua. per il Corriere della Sera sabato 8 luglio 2023.  

Avvocato Stefano Benvenuto, ha sentito la sua assistita dopo la querela in cui accusa Leonardo Apache La Russa di averla violentata?

«No perché è sconvolta e voglio lasciarla tranquilla per il momento. Ora sto dedicando tutte le mie attenzioni professionali a questa vicenda». 

È stata già chiamata dagli inquirenti per testimoniare?

«Non ancora. Credo che avverrà presto». 

Il presidente del Senato Ignazio La Russa, padre di Leonardo, ha detto che il racconto della sua assistita lascia «molti interrogativi» a partire dal fatto che ha dichiarato di aver assunto cocaina.

«Senza entrare nel merito dell’inchiesta coperta dal segreto, la domanda che mi pongo da normale cittadino e non da avvocato è come possa una ragazza aver assunto cocaina e non ricordare nulla fino all’indomani. La cocaina è nota perché provoca eccitamento, non sonnolenza. Ciò a cui dovranno rispondere i magistrati è se abbia assunto a sua insaputa sostanze diverse dalla cocaina che le hanno provocato un tale stordimento da non farle ricordare nulla e, in caso affermativo, chi gliele abbia date e se ci sia no il coinvolgimento di Leonardo La Russa. 

(...)

Secondo il senatore non ci sarebbe stato alcun reato.

«Non spetta alla seconda carica dello Stato stabilire se un elemento possa costituire o no un reato. Questo è compito esclusivo della magistratura alla quale, ribadisco ancora una volta, affido l’analisi di questo caso».

Sempre il presidente del Senato ha confermato che il 19 maggio si affacciò alla porta e vide il figlio e la ragazza in camera da letto.

«Mi ha dato un grande assist, in quanto riconosce e conferma che la ragazza era in casa sua. Questo semplifica tutto, perché ora il presidente del Senato è testimone primario di questo processo. Non solo ha dichiarato che la ragazza era in casa sua, ma anche che era nel letto con suo figlio dove è finita non si sa come, visto che non si frequentavano assiduamente. Sta venendo a galla la verità».

La giovane ha anche parlato di un bacio che avrebbe dovuto dare contro la sua volontà .

«Che costituisce di per sé un reato di violenza sessuale per giurisprudenza consolidata» . 

Estratto dell’articolo di Paolo Berizzi per repubblica.it sabato 8 luglio 2023.

Apache, il trapper “sottovalutato” (dal titolo di un suo pezzo). Geronimo, il “presidente” collezionista di poltrone amante della velocità. Cochis, il “politico”. Se fosse un romanzo sarebbe “tre piccoli indiani”. Sottotitolo: figli vivaci di padre gagliardo. Oppure – un po’ per scherzo me nemmeno troppo - gioventù “bruciata” e maturità dorata. Volendone emendare i tratti per renderla più presentabile, la storia dei La Russa jr sembra la continuazione di una tradizione di famiglia un po’ spericolata. Che vede nel padre, Ignazio Benito la Russa, il più autorevole interprete.

Esuberanza giovanile, testa calda, azzardi, inciampi. Surfando sopra le righe, e sempre nell’orbita del potere. L’attualità impone di partire dal più piccolo dei La Russa Bros: lui, Leonardo Apache. Il terzogenito che fa brutto con la trap. L’“artistoide” di casa (Geronimo dixit) che adesso la casa la sta facendo tremare. Ma non più per il volume della musica politically uncorrect. Accusato di avere violentato una 22enne, a “Larus” – nome d’arte – tocca subire il contrappasso che, ironia del caso, gli sbatte addosso direttamente dal suo brano più conosciuto. “Sono tutto fatto, sono tutto matto, ti fotto pure senza storie”, canta insieme a Apo Way, un altro trapper, ne “I sottovalutati”. 

(...)

L’eredità politica del presidente del Senato, al momento, pare risiedere nel destino di Lorenzo Cochis. L’anno scorso è stato eletto nel parlamentino di zona in centro città ed è chiaramente capogruppo di FdI. Molto meno istintivo e fumantino del padre. Guai però a toccargli il tema auto e automobilisti. Una fissa, in famiglia. Geronimo La Russa, 43 anni, figlio di primo letto di Ignazio, è avvocato e presidente dell’Automobile Club di Milano. A 14 anni volantinava per il Fronte della Gioventù, a 25 è nel cda della Premafin di Ligresti che dei La Russa è stato la vera fortuna. Poltrone, poltrone. 

Anche al Milan, grazie all’amica Barbara Berlusconi con cui fonda la onlus Milano Young (La Russa è anche in H14, la holding dei tre berluschini, Barbara, Eleonora, Luigi). In un’intervista Geronimo raccontò di un’adolescenza molto agitata e con «un po’ di problemi». Spericolato, gli piace correre con qualunque cosa a motore, macchine, motorini, barche. «Il sabato sera si usciva tutti insieme, in discoteca, oppure in giro a fare casino».

Qualche casino, in effetti, l’ha combinato. Molti anni fa dopo un incidente in auto insieme ad amici saltò fuori della droga: per lui non ci fu alcuna conseguenza. Negli anni ’90 GL faceva parte di un gruppo di fighetti che si imbucavano alle feste per vandalizzarle. 

Li chiamavano i “vandali del sabato sera”. 15 marzo 1997: compleanno di Carolina Vecchioni, figlia del cantautore. I vandali portano via gioielli, soprammobili e maglie Lacoste. «Sì, arrivai con una ventina di amici – raccontò La Russa -. Ci furono dei furti. Anche tre miei amici, è stato accertato. Non li frequentai più». Tra le persone a lui più vicine, l’europarlamentare FdI Carlo Fidanza che ha recentemente patteggiato 1 anno e quattro mesi per corruzione. Quando chiesero a Geronimo se aveva mai fatto il saluto romano rispose così. «Una volta, quando mi sono vestito da Balilla a Carnevale. E un’altra volta quando mi mascherai da Giulio Cesare». 

Estratto dell’articolo di Sandro De Riccardis per repubblica.it sabato 8 luglio 2023.

Un incontro casuale all’Apophis club, tra le vibrazioni della musica techno e le luci laser che bucano le ombre della giovane borghesia milanese. Disposta a pagare cinquecento euro per una “membership”, nove mesi di ingressi riservati in uno dei posti più esclusivi nel cuore della città. Tra dj set e bicchieri a 25 euro di alcolici “premium”, il 18 maggio scorso Leonardo “Apache” La Russa, 21 anni, incontra una vecchia amica del liceo, di un anno più grande, arrivata nel piccolo locale in stile londinese con una sua amica. 

I due si riconoscono subito, si salutano e iniziano a bere insieme. In consolle, quella sera, c’è uno dei due amici di Leonardo arrivati da Londra. Poi, per la ragazza, il buio. Si risveglia nuda e in stato confusionale a casa di Leonardo, in quella che è anche l’abitazione del padre, il presidente del Senato Ignazio La Russa. Per questo – a differenza del cellulare della ventiduenne e dell’amico di Leonardo, in casa quella notte – il telefono di Leonardo, ora indagato per violenza sessuale, non è stato sequestrato. In attesa di sentire – oggi o domani – la ragazza e per evitare possibili problemi giuridici legati al ruolo e alle garanzie proprie della seconda carica dello Stato. 

Quando si sveglia a casa La Russa la ventiduenne dice di non capire dove si trova. «Gli ho chiesto spiegazioni, non ricordavo nulla», mette a verbale nella denuncia di lunedì scorso. Leonardo le dice di essere «tornati a casa dalla discoteca» e «di aver avuto un rapporto sessuale consensuale». Ma la giovane sprofonda nel panico. Contatta subito l’amica lasciata nel locale. «Dove sono? – le scrive su WhatsApp –. Perché mi hai lasciato sola?». «Penso ti abbia drogata. Stavi benissimo finché non hai bevuto il drink. Scappa via!», è la risposta. «Aiutami!», scrive ancora la presunta vittima.

E ricorda: «Ho chiesto di riavere i miei vestiti, che erano al piano di sotto, per andarmene». Capisce di trovarsi dai La Russa perché, a mezzogiorno, «Ignazio La Russa si è affacciato in camera e, vedendomi nel letto, è andato via». Qualche giorno dopo, Leonardo la contatta su Instagram. Una telefonata a cui lei non risponde. «Avevo paura». Queste e altre chat verranno ora analizzate dagli investigatori. Poi contatta la madre e insieme si recano al centro Antiviolenze della clinica Mangiagalli. Dopo quaranta giorni, l’avvocato Stefano Benvenuto deposita la denuncia, e il procuratore aggiunto Letizia Mannella, a capo del pool “soggetti deboli”, e il pm Rosaria Stagnaro iscrivono Leonardo La Russa per violenza sessuale.

Le indagini, coordinate dal capo della procura Marcello Viola, sono delicate e complesse. Difficile, dopo il tempo trascorso dai fatti, avere elementi utili dalle telecamere. La squadra mobile, diretta da Marco Calì, dovrà accertare se quella notte c’è stata una violenza sessuale o un rapporto consensuale. Gli esami alla Mangiagalli hanno individuato, oltre a un’ecchimosi e una ferita a una gamba, anche positività alla cocaina e la presenza di benzodiazepine, anche se non è possibile accertare se dipenda da sostanze che potrebbero essere state sciolte nei cocktail o dall’uso abituale – ammesso dalla stessa ragazza – di tranquillanti prescritti dal medico. 

Le indagini devono verificare se il consumo di cocaina, con i tranquillanti e l’alcol, possa avere provocato la perdita di sensi. L’avvocato della ragazza si dice certo «che il rapporto sessuale non è stato consensuale», mentre per il legale di La Russa, Adriano Bazzoni, il suo racconto è «fumoso». «È pacifico – dice – che trascorrere la serata insieme e andare a casa di La Russa è stata una scelta condivisa». 

Estratto dell’articolo da open.online.it sabato 8 luglio 2023.

È l’Aphopis Club la discoteca di Milano in cui la ragazza che poi lo ha denunciato per stupro ha incontrato Leonardo Apache La Russa. La notte era quella tra giovedì 18 e venerdì 19 maggio scorsi. Mentre la denuncia, inviata via Pec dall’avvocato Stefano Benvenuto risale al 29 giugno. Oggi alcuni giornali ne raccontano nel dettaglio il contenuto. Mentre La Verità sostiene che il testo fosse nella disponibilità del Corriere della Sera già in quei giorni. 

La ragazza sostiene che Leonardo ha anche ammesso di aver avuto rapporti sessuali con lei a sua insaputa. E ha dichiarato di aver fumato cannabis e sniffato cocaina per due volte durante la serata. Oltre all’assunzione di farmaci come Xanax e Fluoxetina. Mentre alla clinica Mangiagalli le è stata riscontrata la presenza di benzodiazepine nel sangue.

Il racconto della serata

Dal racconto della denuncia è possibile ricavare un racconto coerente della serata e di quello che è successo il mattino seguente. La storia si dipana in 23 punti. «A mezzanotte con la mia cara amica M. sono andata alla discoteca Apophis Club. Quando siamo arrivate ci siamo messe a ballare e ci ha raggiunto anche un’altra ragazza. Mi sono accorta della presenza di un mio compagno di scuola del liceo: Leonardo Apache, figlio del politico Ignazio La Russa. Ci siamo salutati. Da quel momento non ricordo più nulla», racconta la ragazza come riporta La Stampa. L’Apophis è un club membership only, ovvero si accede tramite iscrizione. Si trova in via Merlo.

La scena successiva si svolge in una casa di Milano: «Mi svegliai in assoluto stato confusionale, non ricordandomi cosa avvenne la sera prima, nuda nel letto con a fianco Leonardo La Russa». A quel punto «chiesi espressamente cosa era successo, come eravamo arrivati a casa, dove fossimo». Allora Leonardo Apache le risponde: «Supino nel letto con me, anche lui nudo, mi disse, “siamo venuti qui dopo la discoteca, con la mia macchina”». E la ragazza racconta anche dell’altro ragazzo: «Mi confermò (Leonardo, ndr) che sia lui sia il suo amico avevano avuto un rapporto con me a mia insaputa». L’altro ragazzo si sarebbe fermato a dormire in un’altra stanza. L’altro ragazzo, N., fa il deejay.

[…]

La clinica Mangiagalli e il bacio

«Lei stessa mi invitò a recarmi al Pronto soccorso, prodigandosi nell’accompagnarmi, chiesi aiuto anche a lei». E ancora: «Parlai anche di questi episodi a mia madre e lei stessa mi accompagnò all’Ospedale Mangiagalli». Il racconto poi torna alla mattina in casa di Leonardo: «Dopo aver sentito da lui cosa avvenne, dopo che lo stesso mi ha dichiarato di avere avuto un rapporto con me certamente sotto effetto di sostanza stupefacente (infatti non ricordo nulla di quanto avvenuto dalla discoteca al mio risveglio), presa dalla vergogna ho richiesto i miei vestiti, che non erano nella stanza».

A quel punto Leonardo sarebbe sceso al piano di sotto. «Capii di essere in un immobile a due piani, la camera aveva un letto a una piazza e mezza». Infine, i saluti: «Leonardo sulla porta, per farmi uscire, mi disse, “pretendo un bacio, se no non ti faccio uscire”, a quel punto si avvicinò e mi baciò contro la mia volontà. Non dissi nulla per paura». 

La comparsa di Ignazio La Russa

Poi la ragazza racconta la comparsa di Ignazio La Russa, peraltro confermata dal presidente del Senato. Si sarebbe affacciato in camera e l’avrebbe salutata «vedendomi nel letto». Poi «se ne andò via». Lei dice di aver percepito in casa anche una voce di donna. Dovrebbe essere quella della moglie di La Russa (e madre di Leonardo) Laura De Cicco. La ragazza dice di non sapere se fossero arrivati in mattinata o se fossero già presenti in casa. In compenso descrive l’immobile: «Molto grande, con corridoi e altre stanze. Ricordo vagamente di essere stata nel salotto».

Torna sul bicchiere offerto: «L’unico dato certo che posso riferire è che Leonardo mi ha dato un drink, mi ha portato a casa sua, senza che io fossi nelle condizioni di poter scegliere cosa fare, mi ha ammesso di aver avuto rapporti sessuali, lui e l’amico, sempre a mia insaputa; la mia amica mi ha riferito che dopo l’assunzione di quella bevanda alcolica non era più in grado di parlare normalmente; mi disse che ero stata drogata». 

L’uscita dalla casa

La ragazza si veste ed esce di casa. Si appunta l’indirizzo dell’abitazione. Chiama l’amica che la raggiunge e la convince a dire tutto alla madre. Che la porta alla visita con procedura di stupro alla Mangiagalli. Il referto riscontra una «ecchimosi superficiale di 2,5 e 1,5 centimetri a livello della cute del collo e un graffio non sanguinante di cinque centimetri a livello della faccia laterale della coscia sinistra». 

Il giorno successivo Leonardo la contatta via Instagram perché non ha il suo numero di cellulare. Lei non risponde […] il cellulare del ragazzo non è stato ancora sequestrato. L’altro amico non è indagato. Ma il suo telefono, insieme a quello della ragazza, è stato invece “acquisito” dai magistrati. La delega ad indagare per la squadra mobile è arrivata ieri.

L’avvocato e lo scoop

Giacomo Amadori su La Verità sostiene anche che la denuncia fosse in possesso del Corriere a ridosso della presentazione in Questura. Da prima che finisse sul tavolo delle pubbliche ministere che indagano: Letizia Mannella e Rosaria Stagnaro. Benvenuto è un civilista esperto di trust, di diritto societario e di famiglia. Il Fatto invece ipotizza che il telefono non sia stato sequestrato perché non intestato al ragazzo, ma al padre. Bisogna in ultimo ricordare che il codice penale in Italia punisce la violenza sessuale sia per costrizione che per induzione. Ovvero anche chi agisce approfittando della condizione di menomazione della presunta vittima. La ragazza testimonierà nelle prossime ore in procura.

M . Ser. per “La Stampa” sabato 8 luglio 2023. 

«L'unico dato certo che posso riferire è che Leonardo mi ha dato un drink, mi ha portato a casa sua, senza che fossi nelle condizioni di scegliere, ha ammesso di aver avuto rapporti sessuali con me, lui e il suo amico, sempre a mia insaputa. La mia amica mi ha riferito che dopo aver bevuto il drink che mi ha dato lui non ero più in grado di parlare normalmente: mi ha detto che ero stata drogata». 

[...]

Che ai medici dell'Svs ha dichiarato «di aver fumato cannabis e sniffato cocaina due volte nella serata» prima di incontrare La Russa jr. E di assumere alcuni psicofarmaci: «Xanax e Fluoxetina». Per questo, solo accertamenti più approfonditi potranno aiutare a capire se sia stata o meno «drogata», come ripete più volte nella denuncia. Due pagine, con referto allegato, in cui l'avvocato Stefano Benvenuto mette in fila in 23 punti il racconto della presunta vittima, che Leonardo La Russa respinge con forza attraverso l'avvocato Adriano Bazzoni: «Non c'è stata alcuna costrizione».

Racconta invece la ventiduenne, che sarà sentita dalle pm nelle prossime ore: «A mezzanotte con la mia cara amica M. sono andata alla discoteca Apophis Club. Quando siamo arrivate ci siamo messe a ballare e ci ha raggiunto anche un'altra ragazza. Mi sono accorta della presenza di un mio compagno di scuola del liceo: Leonardo Apache, figlio del politico Ignazio La Russa. Ci siamo salutati. 

Da quel momento non ricordo più nulla». Almeno fino a quando, la mattina dopo, la ragazza si è svegliata «in assoluto stato confusionale, nuda nel letto». Così, «spaventata», avrebbe chiesto spiegazioni al diciannovenne: «Gli ho chiesto cosa è successo, come siamo arrivati a casa, dove siamo. Leonardo, supino nel letto con me, anche lui nudo, mi ha detto: siamo venuti qui dopo la discoteca, con la mia macchina». Sarebbe stato proprio lui a confessarle «che sia lui, sia il suo amico N.

che fa il dj, avevano avuto un rapporto con me a mia insaputa» per poi aggiungere che anche N. «si era fermato a dormire in un'altra stanza dell'appartamento». Lei però non lo ha visto. «Mi avevano spogliata. Scioccata, tremavo e scrivevo alla mia amica mentre ero nel letto, chiedendo il perché fossi da sola a casa di Leonardo e dove si trovasse lei: non mi ricordo nulla, raccontami di ieri, sono stata drogata». Ricostruisce ancora la vittima: «Lei mi ha risposto: non mi ascoltavi, penso ti abbia drogata, poi sei corsa via perché non ti ho più trovata. 

Stavi benissimo fino a prima del drink . Mi ha detto anche che ha provato a portarmi via ma non ci è riuscita».

Così, la ragazza ricostruisce che «presa dalla vergogna» ha chiesto a La Russa jr i vestiti, che non erano nella stanza, ma «al piano di sotto in sala». E aggiunge: «A quel punto Leonardo sulla porta mi ha detto "pretendo un bacio, se no non ti faccio uscire", si è avvicinato e mi ha baciata contro la mia volontà. Non ho detto nulla per la paura». Poi racconta di «aver visto, intorno alle 12,30, anche Ignazio la Russa, che si è affacciato alla camera e mi ha trovata nel letto. Se n'è andato e ho sentito la voce di una donna, penso la madre di Leonardo. Non so a che ora erano arrivati in casa».

[...] 

In Onda, Bindi va allo scontro con il governo: incapaci, disprezzano le istituzioni. Luca De Lellis su Il Tempo l'8 luglio 2023

Rosy Bindi ne ha per tutti. Da Ignazio La Russa e la vicenda dell’autoassoluzione del figlio accusato di stupro, alle aspre critiche rivolte verso un governo, parole sue, “che sta raccogliendo la peggiore eredità di Silvio Berlusconi e assolutamente incapaci di governare”. Durante il programma di La7 In Onda, trasmesso sabato 8 luglio, l’ex presidente del Partito Democratico si è scagliata anzitutto contro la seconda carica dello Stato, rea di aver portato avanti un atteggiamento “maschilista”. Di più, perché Bindi ha ammesso: “Credo che il maschilismo a La Russa gli appartenesse anche precedentemente all’elezione di Berlusconi (del 1994, ndr)”.

Il presidente del Senato, dopo aver di fatto scagionato suo figlio da ogni possibile responsabilità, ha rivisto la sua versione sostenendo soltanto di credere a ciò che racconta il suo Leonardo. Ma le dichiarazioni non hanno convinto l’ex presidente della Commissione parlamentare antimafia: “Avrebbe fatto prima a tacere. Non può permettersi, vista la sua carica, di diventare avvocato e prendere le difese del figlio mostrando ancora una volta questo desiderio di impunità che sta caratterizzando la classe dirigente di questo momento”. E ancora: “Ha assunto un’abitudine sbagliata. Prima fa delle affermazioni, poi spiega, poi smentisce se stesso, ma intanto lancia dei messaggi sempre pericolosi e stavolta ha oltrepassato il segno”.

L’ospite dei conduttori Luca Telese e Marianna Aprile è scatenata, si sofferma ancora su quella che secondo lei è stata “un’assoluta mancanza di rispetto” da parte di La Russa “nei confronti delle donne, che in ogni parte del mondo subiscono violenza. Nel nostro Paese ne muore una ogni 3 giorni”. Poi un appello al premier Giorgia Meloni: “Spero che, in quanto donna, possa spendere una parola di richiamo esplicita nei confronti della seconda carica dello Stato”. Per concludere, un’ultima stoccata rivolta verso un esecutivo che sta assumendo “atteggiamenti di disprezzo delle istituzioni e soprattutto di attacchi alla magistratura come si sta ripetendo quando viene sfiorato qualcuno di questo governo”. E, ormai, “tra fatti familiari, imprese e altre cose varie”, chiosa Bindi, “credo che si stia calpestando la dignità di questo Paese”.

Il caso del giovane. Di cosa è accusato Leonardo Apache La Russa, la presunta violenza e le reazioni politiche. A denunciarlo una 22enne milanese. L’incontro in discoteca, un drink, “poi non ricordo più nulla”, ha riferito la giovane, “mi sono svegliata nel suo letto e lui mi ha detto di aver avuto un rapporto con me sotto effetto di stupefacenti”. Angela Stella su L'Unità l'8 Luglio 2023

A poco più di due anni dal video in cui un Beppe Grillo furioso si scagliava contro la magistratura e rendeva pubblica l’accusa di violenza sessuale di gruppo a suo figlio Ciro e tre suoi amici, ieri sotto i riflettori mediatici è finito Leonardo Apache La Russa, uno dei figli del presidente del Senato Ignazio La Russa.

Il Corriere della Sera ha dato notizia di una denuncia a suo carico per violenza sessuale da parte di una 22enne milanese La ragazza ha raccontato che il 18 maggio intorno a mezzanotte era in una discoteca nel centro di Milano con un’amica e lì ha incontrato Leonardo, che in passato era stato suo compagno di scuola. E, dopo un drink, ha riferito di non ricordare nulla di quando è successo, ma di essersi svegliata confusa e nuda nel letto del ragazzo intorno a mezzogiorno. Alla richiesta di spiegazioni «mi disse ‘siamo venuti qui dopo la discoteca con la mia macchina’» e che «aveva avuto un rapporto con me sotto effetto di sostanze stupefacenti» e che un suo amico, che stava dormendo in un’altra stanza, aveva «avuto un rapporto con me a mia insaputa».

Uscita dalla casa di La Russa, ha preso l’indirizzo e ha chiamato la madre che l’ha convinta a farsi visitare alla clinica Mangiagalli dove le hanno riscontrato una ecchimosi al collo, una ferita alla coscia e positività alla cocaina che aveva assunto prima di andare in discoteca. La 22enne ha avuto nausee e capogiri. Ha presentato denuncia dopo 40 giorni. Il legale incaricato dalla famiglia La Russa, dopo aver premesso di non aver visto le carte, ha spiegato che quella notte ad avviso di Leonardo non vi fu alcuna forma di costrizione e che la ragazza era «d’accordo nel trascorrere il dopo discoteca con il mio assistito». Ma allora perché lo accuserebbe? «Leonardo – ha risposto il legale – è molto scosso ed esclude che la ragazza possa aver detto qualcosa del genere nei suoi confronti, così come esclude di aver avuto rapporti insieme ad una terza persona. Quanto a quello che la ragazza avrebbe consumato, non solo esclude di averglielo offerto, ma, qualora si vedesse attribuire questo tipo di condotta, si vedrebbe costretto a sporgere denuncia».

Non si è fatta attendere la reazione di La Russa padre che da avvocato penalista si è trasformato in pubblico ministero verso il figlio: «Dopo averlo a lungo interrogato ho la certezza che mio figlio Leonardo non abbia compiuto alcun atto penalmente rilevante. Conto sulla Procura della Repubblica verso cui, nella mia lunga attività professionale ho sempre riposto fiducia, affinché faccia chiarezza con la maggiore celerità possibile per fugare ogni dubbio». Aggiunge di aver rivolto al figlio una «forte reprimenda» per «aver portato in casa nostra una ragazza con cui non aveva un rapporto consolidato» e ha dichiarato: «Non mi sento di muovergli alcun altro rimprovero».

Afferma invece di avere «molti interrogativi» sul racconto della ragazza: «per sua stessa ammissione, aveva consumato cocaina prima di incontrare mio figlio. Un episodio di cui Leonardo non era a conoscenza. Una sostanza che lo stesso Leonardo sono certo non ha mai consumato in vita sua». E ha contestato anche la denuncia «presentata – ha detto Ignazio La Russa – dopo quaranta giorni dall’avvocato estensore che, cito testualmente il giornale che ne dà notizia, occupa questo tempo per rimettere insieme i fatti». Una domanda sorge spontanea: chi ha fatto trapelare la notizia? La procura o la parte offesa? Non lo sapremo mai ma quanto accaduto potrebbe convincere la maggioranza di Governo a spingere l’acceleratore sulla riforma del segreto d’indagine.

Sulla vicenda si è espressa la Segretaria del Partito Democratico Elly Schlein: «Al di là delle responsabilità del figlio, che sta alla magistratura chiarire, è disgustoso sentire dalla seconda carica dello Stato parole che ancora una volta vogliono minare la credibilità delle donne che denunciano una violenza sessuale a seconda di quanto tempo ci mettono, o sull’eventuale assunzione di alcol o droghe, come se questo facesse presumere automaticamente il loro consenso. Il Presidente del Senato non può fare vittimizzazione secondaria. È per questo tipo di parole che tante donne non denunciano per paura di non essere credute. Inaccettabile da chi ha incarichi istituzionali la legittimazione del pregiudizio sessista».

Per Riccardo Magi, deputato di +Europa, «ognuno è innocente fino al terzo grado di giudizio e capisco anche il dolore di un padre nel leggere certe accuse. Ma Ignazio La Russa non è solo un padre, è anche il presidente del Senato. Soprattutto non è un magistrato, né un organo inquirente. Per questo nella nota che ha diffuso è alquanto preoccupante che abbia già chiuso il caso: ha interrogato il figlio, ne ha decretato l’innocenza, mentre la testimonianza della ragazza non è attendibile perché ‘drogata’. Per il ruolo che svolge, sarebbe stato meglio un dignitoso silenzio.  Questa è invece un’ingerenza intollerabile da parte della seconda carica dello Stato verso chi sta svolgendo le indagini».

Silenzio invece dal centro destra. Per onor di cronaca ricordiamo cosa disse Salvini dopo il video di Grillo: «Mi disgustano le parole del padre, che mette sul banco degli imputati la ragazza che ha denunciato lo stupro e non il figlio, fermo restando che fino al giudizio tutti sono innocenti». La stessa Giorgia Meloni disse: « Mi ha colpito devo dire il modo in cui Grillo ha minimizzato su un tema pesante, come quello che è la vicenda della presunta violenza sessuale».

Angela Stella 8 Luglio 2023

Caso La Russa, il silenzio di Meloni. Ma in passato difendeva le donne vittime di violenza. Matteo Pucciarelli su La repubblica su il 9  Luglio 2023

La premier aveva preso posizione anche contro Beppe Grillo che difese suo figlio Ciro come ora sta facendo il presidente del Senato nei confronti di Leonardo Apache

È sempre la stessa storia, più o meno: garantisti e pacati con gli amici, forcaioli ed esagitati con tutti gli altri. Vale anche per Giorgia Meloni e il delicato tema della violenza sessuale. Quando in passato le notizie di cronaca – con indagini spesso ancora tutte da fare – riguardavano presunti molestatori stranieri e Fratelli d’Italia stava all’opposizione, era un tripudio di “vermi” (testuale: “branco di vermi magrebini”, agosto 2017), “bestie”, “animali” e altri epiteti; né ci si faceva troppi problemi a invocare la castrazione chimica oppure in alternativa una pena di 40 anni di carcere. 

Estratto dell’articolo di Marco Travaglio per “il Fatto quotidiano” il 17 luglio 2023.  

[…]Zac! “La castrazione chimica per pedofili e stupratori è una storica battaglia della destra, dimenticata nel decreto sicurezza del governo. Per questo Fratelli d’Italia l’ha ripresentata con un suo emendamento” (Giorgia Meloni, FdI, 3.11.2018). 

“Per far approvare la castrazione chimica chiamiamola ‘scelta temporanea di azzeramento della libido'” (Ignazio La Russa, FdI, Secolo d'Italia, 5.4.2019). 

Pare che, a scanso d’equivoci, Leonardo Apache abbia fatto sparire da casa tutte le forbici. […]

Meloni attaccava Grillo, oggi tace su La Russa.

In Onda, La 7, condotto da Luca Telese e Marianna Aprile, minuto 15:00

Giorgia Meloni 25 maggio 2021: “Ritengo vergognoso e inaccettabile che la denuncia di stupro fatta da una giovane donna finisca in pasto alla curiosità generale perché pubblicata e diffusa su giornali e televisioni.

E’ quello che sta accadendo con il caso che riguarda il figlio di Beppe Grillo. Una gogna indegna di una società civile, a prescindere dall’esito giudiziario della questione.

E’ una forma di intimidazione e di avvertimento a non denunciare, come dire: “attenta che se denunci uno stupro finisci sputtanata in mondo visione”. Solidarietà alla ragazza e a tutte le donne che hanno dovuto subire questo schifo.

Giampiero Mughini per Dagospia sabato 8 luglio 2023.

Caro Dago, mi pare fosse Arrigo Benedetti - il grande giornalista che aveva imparato da Leo Longanesi a usare le foto nella comunicazione giornalistica - a dire che laddove gli articoli di un giornale si "guardano", le foto invece si "leggono". E cioè che una foto azzeccata è persino più pregnante di un articolo ben scritto. 

Vedo sui giornali di oggi una foto in primissimo piano di Ignazio La Russa e di suo figlio Leonardo Apache (quello che è accusato di avere stuprato una ragazza) con sullo sfondo le tombe del cimitero dove riposano i caduti i Salò, ossia i fascisti che sono morti combattendo dalla parte della Repubblica di Salò. 

Ecco, non vorrei che qualcuno "leggesse" questa foto più o meno così. Se padre e figlio si fanno fotografare con sullo sfondo quelle tombe, di uomini caduti combattendo dalla parte dei tedeschi e dunque dalla parte sbagliata, allora quel giovanotto non può che essere colpevole del reato che gli viene addebitato.

Mi spiego meglio.

Dato che in Italia la gran parte del discorso pubblico è influenzato dalle appartenenze ideologiche, niente di più facile che nell'opinione di molti il giudizio sul destino processuale del figlio del presidente del Senato sia condizionato dal marchio politico di La Russa padre. Mi sbaglio? Non credo. Ne incontro pochi, pochissimi anzi, i cui giudizi siano liberi dal loro orientamento ideologico. Quel tale è un fascista, allora è un pezzo di merda. Quel tale è un compagno, allora è un sant'uomo. O viceversa, naturalmente. Ne sta parlando uno che ormai da anni non ha alcun pregiudizio ideologico al quale far sottostare i suoi giudizi su cose e persone. Come per chiunque altro la mia idea sul figlio di La Russa è che sia innocente sino a prova contraria, sino al momento in cui verrà dimostrato che ha agito con prepotenza nei confronti di una ragazza che non ci stava e non voleva farlo. Semplice, no? 

E poi c'è un'altra cosa, forse ancora più decisiva. Nel vedere le tombe dei caduti di Salò io non provo affatto una sensazione tipo "Ben gli sta, se l'erano cercata quei gaglioffi". La mia idea, al contrario, è che la memoria dei caduti dell'una e dell'altra parte della guerra civile 1943-1945 debba essere una memoria condivisa, la memoria di un lutto comune a tutti gli italiani, la memoria di una tragedia in cui degli italiani ci provavano gran gusto a uccidere altri italiani. Né i fascisti i Salò erano necessariamente e senz'altro tutti dei gaglioffi che volevano arrecare danno agli ebrei. 

Lo sappiamo benissimo, dopo aver letto quel magnifico romanzo di Carlo Mazzantini, A cercare la bella morte, che tra di loro c'erano molti italiani per bene. Erano degli italiani per bene Giovanni Gentile, ucciso dai gappisti fiorentini; Aldo Resega, il commissario federale di Milano ucciso mentre stava tornando a casa senza scorta perché lui l'aveva rifiutata e che nel suo testamento aveva implorato che non ci fosse rappresaglia ove fosse caduto per mano di un agguato partigiano; Igino Ghisellini, il commissario federale di Ferrara il cui assassinio provocò la mostruosa rappresaglia che Giorgio Bassani ha raccontato in un suo libro famoso. Era un italiano per bene mio padre, che era stato un fascista convinto e che nella Firenze dell'agosto 1944 avrebbe potuto essere intercettato da partigiani che non si sarebbero comportati da "cristiani" a dirla con il Curzio Malaparte de La pelle, il suo romanzo del 1949.

E' stata una guerra civile, almeno nella nostra memoria attenuiamone l'orrore col portare pari rispetto alle vittime dell'una e dell'altro parte. Ecco perché a vedere le tombe dei caduti di Salò, il mio è un lutto sincero.

Da ilgiornale.it sabato 8 luglio 2023.

Una Zanzara nella Zuppa. Cioè Nicola Porro e Giuseppe Cruciani e la loro irriverente lettura dei quotidiani. Dal palco del Teatro Petruzzelli di Bari, in occasione della Ripartenza 2023, evento arrivato alla sua quinta edizione, la seconda giornata di lavori si apre con la rassegna stampa quotidiana da parte del vicedirettore del Giornale e del conduttore di Radio24. 

(...)

Da nicolaporro.it sabato 8 luglio 2023.

Nell’ultima puntata della Zanzara, Giuseppe Cruciani ha commentato alcune delle notizie più discusse dei giorni scorsi. Iniziamo con la prima “cartolina” del conduttore, che riguarda Ignazio La Russa. “Il figlio di Ignazio La Russa è stato accusato di violenza sessuale e se ne occuperanno i giudici. Ma perché il presidente del Senato si mette a parlare difendendo il figlio dicendo che la donna ha assunto cocaina? Qual è il collegamento tra la cocaina e lo stupro? Nessun collegamento. Quindi, errore da matita blu per La Russa. La questione è molto semplice: anche se tuo figlio è implicato in una storia grave, tu non devi parlare. Consiglio anche di comunicazione molto semplice”, ha esordito Cruciani.

Successivamente, il conduttore di Radio24 ha commentato le polemiche su Vittorio Sgarbi e la questione dell’inclusività nel linguaggio. “Sgarbi è stato bastonato nei giorni scorsi perché vittima di parole italiane, ormai entrate nel gergo comune. Alcuni le chiamano volgarità, altri maleducazione. Mentre veniva esaltato un ragazzo che, durante il tema di italiano alla maturità, ha stuprato la lingua italiana mettendo la schwa, le lettere invertite per l’inclusività. Io vado al manicomio per queste cose qui. Uno esaltato, l’altro bastonato per aver utilizzato parole italiane, ormai entrare nella Treccani. Questo è il punto.”

Caso La Russa, scontro di fuoco tra Cruciani e Porro: caos sul palco. Il Tempo l'08 luglio 2023

Il celebre conduttore di Quarta Repubblica Nicola Porro e il conduttore radiofonico Giuseppe Cruciani hanno offerto al pubblico di Bari una lettura dal carattere irriverente delle ultime notizie di politica e di attualità. Il palco del Teatro Petruzzelli, in occasione della Ripartenza 2023,evento arrivato alla sua quinta edizione, è diventato il luogo di una rassegna stampa dalle tinte forti. 

Nell’ultima puntata de La Zanzara, Giuseppe Cruciani ha commentato alcune delle notizie più discusse dei giorni scorsi. Nel mirino del conduttore radiofonico il caso di Leonardo Apache La Russa: “Il figlio di Ignazio La Russa è stato accusato di violenza sessuale e se ne occuperanno i giudici. Ma perché il presidente del Senato si mette a parlare difendendo il figlio dicendo che la donna ha assunto cocaina? Qual è il collegamento tra la cocaina e lo stupro? Nessun collegamento. Quindi, errore da matita blu per La Russa. La questione è molto semplice, anche se tuo figlio è implicato in una storia grave, tu non devi parlare. Consiglio anche di comunicazione molto semplice”. 

A Bari, invece, Giuseppe Cruciani ha messo subito in difficoltà Nicola Porro, che lo ha invitato a prendere parte al suo evento La Ripartenza. "Tu stai con La Russa o no? So che abbiamo idee diverse": così, in maniera diretta, il conduttore de La Zanzara si è rivolto al suo interlocutore. "Sai cosa mi fa inc***e? Non sono i fatti...", ha detto Cruciani. "No i fatti li dico io - lo ha interrotto Porro -. L'avvocato di una ragazza ha denunciato per violenza sessuale il figlio di La Russa. Leonardo Apache è andato in discoteca, poi una ragazza è andata a casa di La Russa, c'erano anche Ignazio e sua mamma, e si è svegliata la mattina senza ricordarsi più nulla".

"Quando bevi e poi non ti ricordi più nulla il sospetto è che ti abbiano dato la droga dello stupro. Ma dalle analisi effettuate alla Mangiagalli è emerso che la ragazza avesse assunto cocaina". "Vabbè, stai già assolvendo Apache..." l'ha provocato Cruciani. "Te lo dico prima che mi rompi i cog***i. Lo stesso problema c'era con il figlio di Beppe Grillo. Il problema non è solo quello che ha fatto o non fatto il figlio, ma le parole dei padri". "Stamattina ero infastidito, perché ho dovuto dare ragione purtroppo, devo fare uno sforzo titanico, a quei giornali che dicono che La Russa ha fatto semplicemente una caz***a, doveva stare zitto". 

“Assalto fallito”. 

Garantismo? No, si chiama familismo...Grillo e i 5 stelle contro la donna che ha denunciato lo stupro: “È stata solo una ragazzata”. Angela Azzaro su Il Riformista il 20 Aprile 2021 

La rabbia di Beppe Grillo che ieri, in un video, è intervenuto in difesa del figlio accusato di stupro insieme ad altri tre amici, fa pensare – in prima battuta – che dopo anni e anni finalmente il capo dei forcaioli abbia scoperto il garantismo. Se la prende con i giornalisti che da due anni trattano il figlio da stupratore anche se su di lui pesa un’accusa e non una condanna: «Non ha fatto nulla – ha gridato – arrestate pure me».

A dire il vero mai accusato fu trattato più con i guanti dalla stampa nazionale di Ciro Grillo: pochi articoli, molto sobri, nessun linciaggio. A tal punto da far venire il sospetto che la notizia fosse tenuta un po’ nascosta. Ma tanto è bastato perché il capo dei grillini si inalberasse e chiedesse per il figlio un diverso trattamento. Lo stesso trattamento che in questi decenni non è stato concesso a persone accusate di reati meno gravi e per questo messe sulla graticola, umiliate e offese insieme alla loro famiglia, con grande godimento del movimento Cinque stelle che su questa cultura politica ha costruito la sua fortuna. Benvenuto Grillo, verrebbe da dire, nel mondo di chi ha perso il sonno, di chi non ha più futuro, per colpa del processo mediatico. Di chi si è suicidato perché messo alla gogna, di chi ha perso tutto per colpa dei manettari che grazie a te hanno trovato casa, hanno costituito un partito e hanno governato il Paese. Benvenuto nel mondo dei diritti…

Ma a sentire bene le urla di Grillo, non si tratta di garantismo. Il comico non chiede di applicare l’articolo 27 della Costituzione (non si è colpevoli fino a sentenza definitiva…) e ha una strana idea della custodia cautelare che lui considera come una sentenza anticipata: se fosse stato colpevole il figlio sarebbe stato già in galera, ancora prima del processo. Quindi se non ci è finito – è il suo ragionamento – allora vuol dire che non è colpevole. Un abominio dal punto di vista del diritto, che la dice lunga su come lui e i suoi accoliti giudichino gli arresti preventivi e conoscano (male) la legge. Grillo, non nuovo a veri e propri deliri di onnipotenza, però non ha fatto il garantista, e non lo ha fatto perché si è sostituito direttamente al giudice, ha valutato lui le carte e ha deciso che Ciro non ha commesso il fatto. È stata una ragazzata, avevano il pisello di fuori, si stavano divertendo, ha detto. E la ragazza era consenziente. La prova? Ha denunciato solo dopo otto giorni. Di tutte le fesserie sparate ieri dal comico, questa è la più grave di tutte.

Spesso le donne che subiscono violenza hanno paura a denunciare, sanno che poi le accuse gli si ritorcono contro. Diventano loro “le poco di buono”, quelle che “l’hanno data”, che prima ci stanno e poi si pentono. Altre volte è difficile denunciare perché doloroso il ricordo, perché si vuole rimuovere, perché si vorrebbe che non fosse mai accaduto. A volte si ha paura che sotto processo finisca chi denuncia. Esattamente come sta accadendo questa volta grazie a Grillo, che sul banco degli imputati manda la ragazza. Sembra di essere tornati indietro di decenni, quando il film documentario Processo per stupro nel 1979 entrava nelle aule giudiziarie facendo vedere quanti pregiudizi pesassero sulle donne che denunciavano chi le aveva violentate. Il giudice le processava, la società le additava. Ma sono passati decenni, tante lotte, tanti cambiamenti. Non per il capo dei Cinque stelle, non per chi in questi anni ha alimentato la cultura della violenza verbale, del linciaggio, delle manette.

A differenza di molti altri giornali, anche sul figlio di Grillo Il Riformista non ha sparato a zero. Potevamo in tante situazioni dare un diverso risalto alla notizia. Ma noi siamo garantisti sempre, crediamo davvero alla presunzione di innocenza, crediamo veramente che non si è colpevoli fino a sentenza definitiva. E anche in questo caso sarà un tribunale a decidere. Ma il ragionamento con cui Grillo ha difeso il figlio è gravissimo. È la difesa della cultura dello stupro che non possiamo accettare a prescindere da quello che accadrà in sede processuale. Non puoi dire a una donna che siccome ha denunciato in ritardo allora mente. Perché stai recando offesa a tutte quelle donne che hanno avuto il coraggio di non stare zitte, di ribellarsi alla cultura patriarcale.

Purtroppo crediamo non si tratti di uno sfogo. Altrimenti non si capirebbero la solidarietà di Paola Taverna («da mamma gli sono vicina») o di Alessandro Di Battista («coraggio, hai parlato da padre»), senza dire una parola sulla donna che ha denunciato. Si chiama esaltazione della cultura familista, la stessa che del resto ha regolato i rapporti all’interno del movimento Cinque stelle. Dovevano fare la rivoluzione e parlano dello stupro come se fosse una “ragazzata”. Dovevano cambiare il Paese e si danno le pacche sulle spalle davanti a un’accusa così grave. Dovevano mettere le manette a tutti, ma quando ci vanno di mezzo loro, si scoprono garantisti. Se questa non è la fine dei Cinque stelle, che altro deve ancora accadere?

Angela Azzaro. Vicedirettrice del Riformista, femminista, critica cinematografica

La Russa, tutti i segreti dell’inchiesta. Fabio Amendolara su Panorama il 10 Luglio 2023

Oltre a Xanax e cocaina la ragazza avrebbe assunto anche altre sostanze come Quetiapina (calmante) e Stilnox (sonnifero). È arrivata in ospedale «lucida» e in «buone condizioni generali». Le lesioni di cui si è parlato «non sono lesioni da stupro conclamato». I presunti violentatori avrebbero usato il preservativo.

La storia del presunto stupro che sarebbe stato commesso da Leonardo Apache La Russa, ventunenne terzogenito del presidente del Senato Ignazio, ogni giorno registra qualche scoop orientato, che cerca di condurre l’opinione pubblica, come continua ad accadere nel caso di Ciro Grillo, verso una condanna anticipata dell’ipotetico giovane stupratore. Ieri i cronisti del Corriere della Sera, probabilmente persuasi dalle buone argomentazioni dell’avvocato Stefano Benvenuto, legale della presunta vittima, hanno sparato questo titolo: «Lesioni come per una violenza. La visita in clinica dopo la notte». Nel pezzo si leggeva: «Tre lesioni sono state accertate dai medici della clinica Mangiagalli di Milano dopo la visita ginecologica» della presunta vittima. Una fonte anonima «che lavora all’inchiesta» avrebbe aggiunto: «Potrebbero essere compatibili con una violenza sessuale». Ma i nostri interlocutori vicini all’inchiesta, invece, sono convinti che non esistano lesioni da stupro conclamate.

Estratto dell’articolo di Giacomo Amadori e Fabio Amendolara per “La Verità” domenica 9 luglio 2023.

Il procedimento contro il ventunenne Leonardo Apache La Russa si incentrerà tutto sulla capacità della ventiduenne milanese che lo accusa di stupro di esprimere un valido consenso al rapporto sessuale che i due avrebbero consumato sotto il tetto di casa La Russa.

Nessuno nega, nemmeno il presidente del Senato, che la ragazza fosse nel letto del trapper la mattina del 19 maggio, dopo la festa privata che si era svolta nell’Apophis club, esclusiva discoteca milanese.

La giovane dice di aver dimenticato tutto dopo aver bevuto il drink che l’ex compagno di scuola, incontrato casualmente alla festa, le aveva offerto.

«Ha avuto un rapporto con me certamente sotto l’effetto di sostanza stupefacente (infatti non ricordo nulla di quanto successo dalla discoteca al mio risveglio)» ha denunciato la donna. 

Una dichiarazione che non può non tenere conto di quanto rilevato dagli esami del sangue e delle urine effettuati il 19 maggio alla clinica Mangiagalli di Milano, prelievi previsti dal protocollo per i sospetti casi di violenza sessuale.

La ragazza ai medici dell’associazione Donna aiuta donna ha dichiarato di aver fumato cannabis e sniffato cocaina due volte prima di incontrare La Russa jr e ha raccontato di assumere psicofarmaci come Xanax, un ansiolitico, e fluoxetina, un antidepressivo (che possono essere utilizzati negli attacchi di panico).

E, in effetti, nel sangue della ragazza sono state trovate tracce di benzodiazepine, sostanze calmanti e ipnoinducenti contenute, per esempio nello Xanax.

Ma non è stata trovata traccia della cosiddetta droga dello stupro, il Ghb, o di inibitiori della volontà simili.

Eppure l’avvocato Stefano Benvenuto, estensore della denuncia, ieri con Il Corriere della Sera, l’aveva buttata lì: «La cocaina è nota perché provoca eccitamento, non sonnolenza. Ciò a cui dovranno rispondere i magistrati è se (la sua cliente, ndr) abbia assunto a sua insaputa sostanze diverse dalla cocaina che le hanno provocato un tale stordimento da non farle ricordare nulla e, in caso affermativo, chi gliele abbia date e se ci sia o no il coinvolgimento di Leonardo La Russa». 

Un’ipotesi che sembra adombrata nella denuncia, laddove si legge: «Tu stavi benissimo fino a prima che ti portò il drink». […] In Procura, tra i magistrati che hanno in mano il fascicolo, c’è chi sostiene che anche le benzodiazepine mescolate all’alcol possano dare gli stessi sintomi della droga dello stupro. Ma al momento siamo a livello di chiacchiere da bar o poco più e la parola deve passare agli esperti. 

«Può avere quell’effetto», conferma alla Verità Donata Favaretto, tossicologo forense dell’Università di Padova, e aggiunge: «La benzodiazepina può portare amnesia retrograda, ovvero fa sì che chi la assume non ricordi esattamente cosa le è successo. Poi, ovviamente, bisognerebbe capire in che quantità sia stata assunta questa sostanza». 

Nella vicenda che coinvolge Ciro Grillo e tre suoi amici, la presunta vittima non è ricorsa immediatamente ai controlli medici, impedendo di individuare la presenza di droga o alcol nel sangue immediatamente dopo il rapporto sessuale con i quattro amici.

Ma anche lei, come la coetanea finita nella stanza di La Russa jr, ha denunciato un black out. 

Nel processo Grillo, l’avvocato Giulia Bongiorno, che assiste la presunta vittima, ha ingaggiato come consulente il professor Enrico Marinelli, il quale ha specificato che l’assunzione di alcol, pur non quantificata, «scemava grandemente la sua capacità decisionale, annullava la sua capacità di autodeterminazione ovvero la facoltà di scelta autonoma e indipendente dell’individuo che rappresenta uno dei principi fondamentali della libertà individuale e sessuale». 

Quindi citava il caso di blackout […] Ma in nessuno dei due casi c’è la prova dell’uso di queste sostanze.

Insomma oggi Grillo e La Russa senior si trovano dalla stessa parte della barricata, mentre la Bongiorno dall’altra. Un bel rimescolamento politico.

Anche perché i due padri hanno entrambi assolto i figli prima dei giudici.

Certo, analisi alla mano, la posizione di Leonardo potrebbe risultare persino più delicata di quella di Ciro. Anche se alcune cose non tornano. Per esempio è difficile credere che uno stupratore porti a casa dei genitori la vittima, ma soprattutto che confessi la violenza senza troppi giri di parole. 

Nel racconto della ragazza Leonardo avrebbe ammesso di aver abusato di lei: «Mi confermò che sia lui e sia il suo amico di nome Nico avevano avuto un rapporto con me a mia insaputa. Leonardo mi dichiarò che Nico si era fermato a dormire in un’altra stanza nel medesimo appartamento. Mi avevano spogliato».

[…]

Adesso i magistrati e la Squadra mobile di Milano dovranno sentire «Nico», anche se la ragazza, pur essendo a conoscenza del doppio stupro, ha denunciato solo «il figlio del politico Ignazio La Russa».

Pare che il secondo uomo sia stato individuato dai poliziotti che, però, non avrebbero fretta di sentirlo, anche perché potrebbe presto essere iscritto sul registro degli indagati. 

[…]

Quando abbiamo chiesto come mai non avessero identificato compiutamente «Nico» nella denuncia, l’avvocato Benvenuto è stato sibillino: «Se lei mi chiama esattamente domani potrò darle un elemento nuovo».

Gli inquirenti, tra lunedì e martedì, sentiranno la presunta vittima e le due testimoni da lei indicate nella querela, la migliore amica e un’altra partecipante alla festa 

[…]

La ventiduenne è figlia di genitori separati. La madre fa la giornalista ed essendo del mestiere potrebbe non aver subito passivamente l’operazione mediatica portata avanti dal Corriere della Sera insieme con l’avvocato Benvenuto ancor prima che iniziassero le indagini vere e proprie affidate alla polizia venerdì pomeriggio.

Ignazio La Russa venerdì ha confermato di aver trovato la presunta vittima nel letto del figlio: «Incrociata al mattino, sia pur fuggevolmente da me e da mia moglie, la ragazza appariva assolutamente tranquilla». 

L’avvocato Benvenuto ha festeggiato queste dichiarazioni: «Mi ha offerto (La Russa, ndr) un grande assist, in quanto riconosce e conferma che la ragazza era in casa sua. Questo semplifica tutto, perché ora il presidente del Senato è testimone primario di questo processo. Non solo ha dichiarato che la ragazza era in casa sua, ma anche che era nel letto con suo figlio dove è finita non si sa come, visto che non si frequentavano assiduamente. Sta venendo a galla la verità». […]

Estratto dell'articolo di Monica Serra per "La Stampa" domenica 9 luglio 2023.

 Quella notte c'era anche un altro ragazzo a casa La Russa. Si chiama N. e fa il dj. «È un amico di mio figlio Leonardo», ha confermato venerdì il presidente del Senato, Ignazio La Russa. «Come mio figlio, vive, studia e lavora a Londra. Era nostro ospite da un paio di giorni». 

La ventiduenne che ha denunciato di aver subito presunti abusi sessuali nel letto a una piazza e mezza di La Russa jr non ha visto N., non se lo ricorda. Quando la mattina di sabato 19 maggio, «spaventata» e «nuda», dopo una serata in discoteca, si è risvegliata a casa di Leonardo Apache La Russa, è stato lui a confessarle la presenza di N.: «Gli ho chiesto spiegazioni – si legge nella denuncia –. Mi ha detto: "Siamo venuti qui con la mia macchina, mi ha confermato che sia lui, sia il suo amico di nome N., avevano avuto un rapporto con me, a mia insaputa.

E che N. si è fermato a dormire in un'altra stanza dello stesso appartamento. Mi avevano spogliata. Ero scioccata».

La ragazza è confusa: «Non ricordavo nulla».

Neanche di questo N. E scrive all'amica che era con lei la sera prima mentre è ancora nel letto del diciannovenne: «Non mi ascoltavi – le avrebbe risposto – penso ti abbia drogata, poi sei corsa via perché non ti ho più trovata. Stavi benissimo fino a quando hai bevuto il drink che ti ha portato Leonardo».

La ventiduenne prova a ricostruire nelle settimane successive, prima di decidere di depositare la denuncia: «Giorni dopo, la mia amica M. che era con me in discoteca mi ha detto che la sera dei fatti era stata organizzata da Leonardo e che tale N. era il dj della serata». Ma il dato al momento non torna. Almeno in base all'evento pubblicizzato dalle pagine social del locale, a pochi passi dal Duomo di Milano. E l'identità di N. non è chiara. 

Come non è chiaro se possa o meno aver preso parte ai presunti abusi. La Squadra mobile della Questura di Milano lo identificherà e ascolterà nei prossimi giorni anche per stabilire se e quale eventuale ruolo abbia avuto. Come conseguenza della querela e per effettuare gli accertamenti, l'unico nome che le pm Letizia Mannella e Rosaria Stagnaro hanno iscritto nel registro degli indagati per violenza sessuale è quello di Leonardo Apache La Russa. 

[…] Ai medici ha dichiarato di «aver consumato cannabis e sniffato cocaina due volte nella serata prima di arrivare all'Apophis club di via Merlo con l'amica M.». Una volta nel locale, avrebbe «bevuto due drink: mi sentivo bene ma non ricordo che cosa sia successo dopo». Sarebbe stata, infatti, l'amica M. a raccontarle «di averla vista in compagnia di un ragazzo di nome Leonardo che le offriva un drink». Dopo, di aver notato che «lei si comportava in maniera euforica. Di averla vista baciarsi con Leonardo», prima di sparire.

Al risveglio a casa del ragazzo, la ventiduenne non ricordava nulla. Da qui il dubbio paventato dall'avvocato, Stefano Benvenuto, che «al di là della cocaina che normalmente dà eccitazione, la ragazza possa aver assunto qualcos'altro, magari contro la sua volontà». Lo stabiliranno esami più specifici sui campioni raccolti dalla Mangiagalli, che hanno attestato la presenza nel sangue di benzodiazepine. Anche se è stata la stessa ragazza a dichiarare l'utilizzo di psicofarmaci: «Xanax e Fluoxetina». 

È sempre lei a raccontare: «Ricordo di aver visto intorno alle 12,30 anche Ignazio la Russa, che si è affacciato nella camera». Un dato confermato dal presidente del Senato, che «così per noi è diventato un testimone importante», aggiunge l'avvocato Benvenuto. E ancora, racconta la presunta vittima, mentre stava per uscire «Leonardo sulla porta ha preteso un bacio. Si è avvicinato e mi ha baciata contro la mia volontà. Non ho detto nulla per la paura».

Estratto dell’articolo di open.online.it domenica 9 luglio 2023.  

Oggi il Corriere della Sera entra nei dettagli della refertazione della clinica Mangiagalli. Le lesioni «potrebbero essere compatibili con una violenza sessuale» afferma alla testata una fonte che lavora all’inchiesta della Procura di Milano. Il racconto è ritenuto «credibile». I pm dovranno accertare cosa è successo nell’ appartamento su due piani della famiglia La Russa nei pressi di corso Buenos Aires. L’esame ginecologico, come detto, ha accertato le tre lesioni.

La questione della compatibilità è molto sdrucciolevole. Tra l’altro, spiega la testata, non sarebbe neppure un tema risolutivo per l’esito dell’inchiesta, perché il reato di violenza sessuale può essere commesso anche senza costrizione ma per induzione. Gli investigatori della Mobile di Milano acquisiranno i tabulati dei telefonini per verificare comunicazioni e movimenti delle persone coinvolte.

Non sarebbe stato ancora formalmente identificato l’altro giovane che avrebbe avuto rapporti con la ragazza, anche se il suo nome di battesimo è nella querela. Saranno acquisite anche le registrazioni delle telecamere fuori e dentro la discoteca e nei pressi dell’abitazione dei La Russa.

La chat con le amiche

Sempre il Corriere precisa che sono tre le ragazze — due amiche e una conoscente — dalle quali gli inquirenti potranno trarre, o come testimoni oculari di alcuni momenti cruciali o come interlocutrici nella mattina successiva di alcune chat, elementi utili a verificare l’attendibilità del racconto della 22enne. Una in particolare spiega alla ragazza che dopo il cocktail non era più in sé. «Non mi ricordo nulla. Raccontami di ieri, sono stata drogata?».

Domanda alla quale l’amica avrebbe risposto: «Non mi ascoltavi, penso ti abbia drogata. Non mi ascoltavi, poi sei corsa via perché non ti ho più trovata. Tu stavi benissimo fino a prima che ti portò il drink». Stando alla denuncia, la giovane spiega che questa «mia amica mi ha anche detto che aveva provato a portarmi via non riuscendovi», «mi ha riferito che dopo l’assunzione di quella bevanda alcolica da parte di Leonardo non ero più in grado di parlare. Mi disse che ero stata drogata», e «mi scrisse di scappare». Ed è sempre questa l’amica che ha chiamato la giovane, in lacrime, appena uscita verso le 13 e 15 da casa La Russa.

Estratto dell’articolo di Giuseppe Guastella e Luigi Ferrarella per il “Corriere della Sera” il 10 luglio 2023.

«Dopo quasi due mesi sono ancora impaurita», ma la paura di cui parla la 22enne che ha denunciato di aver subìto violenza sessuale dal terzogenito di Ignazio La Russa nella casa del presidente del Senato dopo una serata in discoteca a Milano non è tanto di rivivere psicologicamente il dramma, quanto un timore per certi versi più difficile da scrollarsi di dosso: «Ho paura di essere finita in una cosa più grande di me. Ma ho detto solo la verità, voglio affrontare questa vicenda sino alla fine».

E ribadisce al suo legale […] di aver denunciato «perché penso si debba avere il coraggio di affrontare le conseguenze di una violenza senza vergognarsene». Dai tanti, lunghi messaggi che scambia dal letto stesso in cui l’ha lasciata Leonardo La Russa la mattina del 19 maggio, si comprende con chiarezza che a convincerla di essere stata drogata è il racconto dell’amica con la quale era andata a ballare.

Chat che documentano tre circostanze: lei sembra davvero non ricordare nulla; l’amica è una testimone diretta di quello che è successo in discoteca; e se la ragazza prende coscienza di aver avuto rapporti sessuali con il figlio di La Russa, è perché proprio il giovane glielo avrebbe rivelato quella mattina. 

«Amo (amore, ndr) mi sono risvegliata da La Russa... (...) ma che problemi ho... o mi hanno drogata. Non mi ricordo bene, non va bene, faccio troppi casini. Non sono normale, raccontami di ieri»: è da poco passato mezzogiorno e la 22enne si è appena svegliata nuda nel letto.

Non ricorda nulla, ma il 19enne, dichiarerà dopo, le ha detto che avevano avuto un rapporto sessuale sotto effetto di stupefacenti dopo che si erano incontrati la sera nella discoteca Apophis di Milano. «Mi sto prendendo male, ma davvero, troppo. Cosa è successo? Amo mi sono svegliata qui da lui e non ricordo nulla. Aiuto...» scrive all’amica. È solo il primo messaggio della chat che proseguirà finché non si recherà di pomeriggio nel centro anti violenze della clinica Mangiagalli. Leonardo è fuori dalla stanza quando l’altra le chiede a bruciapelo: «Tu sei da lui ora?», «Avete fatto sesso?», «scappa, scherzi, va’ via subito», quasi le «urla».

Le racconta che a un certo punto della serata l’aveva vista perdere il controllo di sé stessa. «Amo penso che lui ti abbia drogata, ma tu non mi ascoltavi ieri» perché «sei corsa via e non ti ho più trovata». La ragazza è sconvolta: «Dio santo, davvero? Cosa è successo? Non ricordo nulla». 

Stava «benissimo» […]. Almeno «fino a quando lui ti ha offerto il drink, tu eri stata normale, eri stranormale. Avevamo fatto delle strisce (probabilmente di cocaina, ndr) anche lì all’Apophis», ma «non è quello che ti ha fatto diventare strana», perché «è dopo il drink che sei diventata strana strana. Lo continuavi a baciare», e «io ti ho chiesto se lui ti piacesse o meno, e tu mi fai “Sì lo amo” (...) Poi hai urlato “facciamo una botta”, io ti ho spiegato che l’abbiamo finita assieme (forse si riferisce ancora alla droga, ndr)». Ricorda solo le «strisce» che avevano consumato, il resto è buio totale.

È questo uno dei punti cardine dell’inchiesta del pm Rosaria Stagnaro e dell’aggiunto Letizia Mannella: la giovane, che già era sotto effetto della coca che aveva assunto volontariamente, è stata drogata anche con una sostanze versata di nascosto nel suo bicchiere? […] L’amica ha […] tentato di portarla via dal club, ma non c’è stato verso. «Ti ho detto che volevo andare a casa e ti ho chiesto di accompagnarmi fuori» e «alle tre ho chiamato un taxi, ti ho anche chiesto se volessi tornare con me, ma dicevi di voler stare con lui». Da quel momento l’ha persa di vista. 

«Amo, mi ha drogata, per forza», si convince in quel momento la 22enne. Nella querela depositata dall’avvocato Benvenuto, la giovane afferma di aver cominciato allora a tremare: «Ho paura, me ne sto andando», messaggia all’amica che, evidentemente molto preoccupata, le consiglia: «Amore tu ora torna esattamente a casa tua».

«Perché mi succedono ste cose?», si chiede lei mentre l’altra la interroga con crudezza: «Pensi ti abbia stuprata?». Perché «c...o ti ha sicuramente drogata. Comunque, che m...a, sempre odiato». La risposta è ancora una volta la stessa «Non mi ricordo nulla amore, ma niente proprio», mentre si fa strada il timore per quello che potrebbe succedere dopo: «Lascia stare. Che non esca la cosa», «spero non mi abbia vista nessuno». 

[…] «Che vergogna, amo mi dovevi portare via», dice la 22enne quasi rimproverando l’amica, che infatti reagisce: «Amore ci ho provato, ma sai che sei più forte di me. Sei letteralmente scappata correndo via», […] «te l’ho detto più di una volta ma non ragionavi proprio», «non so come spiegarlo, non eri tu. Amore posso solo immaginare, che m...a». Lei quasi crolla sullo schermo del cellulare: «Mi viene da piangere», «aiuto cosa mi ha fatto…».

«Spero lo denunci», le dice l’amica. «L’abbiamo fatto, da come dice (Leonardo, ndr)», ma «non mi ricordo nulla». Sembra ancora titubante su cosa deve fare: «Denuncio… come?». L’altra: «Ti ha per forza drogata», «non può essere c (forse: cocaina, ndr). Non ti fa quell’effetto. Non era mai successo tutte le altre serate», commenta dimostrando che le due «strisce» della sera prima non sarebbero state un caso isolato.

[…] «Mi ha drogata. Mi ricordo tutto perfettamente fino a un certo punto (...). Ma ti rendi conto... Che vergogna. Sto uscendo. Non ho parole... Inizia pure a girarmi la testa… Sono terrorizzata, sto aspettando (che Leonardo) mi porti le mie cose», «vestiti e cose varie. No, me ne vado». La chat si interrompe. Riprende alle 15.18 quando la 22enne sta andando alla Mangiagalli: «Vado in ospedale. Sta venendo mia madre a prendermi». E l’amica le dà l’ultimo consiglio: «È giusto che denunci la cosa, però stai veramente attenta, suo padre è il presidente del Senato».

Estratto dell’articolo di Andrea Galli per il “Corriere della Sera” il 10 luglio 2023.  

A domanda, ci risponde. «Sì, sono un’amica di entrambi». «No, da quando è uscita la notizia non ho sentito nessuno dei due, mi è sembrato poco opportuno». Qui parla senza che ci sia prima un nostro quesito: «In ogni modo Leonardo lo conosco bene, davvero bene, abbiamo frequentato insieme l’università a Londra, e con me, così come con tutte le altre, non ha mai superato il confine, se intende quello che dico: uno che sta al suo posto, che non va contro le volontà delle donne...».

Altri interrogativi. Il primo: la droga. «Leonardo e la droga? Ma no, impossibile, le due cose non c’entrano nulla. O almeno, io adesso mi sto riferendo al nostro comune vissuto, ignoro come siano andati i fatti nella sua abitazione, e non mi permetto di avanzare sospetti in una oppure nell’altra direzione, però con la droga non l’ho mai visto». Dopodiché: lei era in quel locale, giusto? «No». Ma viene collocata lì. «Eh, forse c’ero, forse non c’ero. Guardi, non mi ricordo». E ancora: chi è il ragazzo che ha dormito nell’appartamento di Leonardo e avrebbe partecipato alle violenze? «Non ho idea. Glielo giuro».

Il Corriere ha cercato le tre amiche della coetanea che ha denunciato Leonardo Apache La Russa per stupro. Quelle appena lette sono le frasi della ventenne che, nel parziale ordine cronologico stilato dagli investigatori, è stata la seconda a comparire con il suo ingresso nell’esclusivo club Apophis [...] : è stata lei a ricordare alla coetanea l’eventualità del versamento di droga nel suo bicchiere; era stata appunto lei, in precedenza, a condividere frammenti della serata prima dell’arrivo all’Apophis e magari, ma è una mera ipotesi, anche condividere, oppure essere una spettatrice dell’evento, l’assunzione di sostanze stupefacenti. 

Saranno magistrati e poliziotti ad aggiungere elementi al fascicolo, a cominciare dalle deposizioni di queste tre ragazze. E risulta scontato che quel tema, l’ipotetica droga nel calice, e magari versata da La Russa, necessiterà di ramificati dettagli. Sull’argomento non intende pronunciarsi la terza ventenne, la quale, sempre nella scansione temporale degli investigatori, è entrata in scena per ultima.

Ovvero con la chat in cui era stata informata dalla coetanea delle ore trascorse a casa di Leonardo, e con il suo invito ad andare in Mangiagalli per la visita. Di più: si era proposta di raggiungere l’amica e accompagnarla di persona nella clinica. [...]

 Da repubblica.it il 10 luglio 2023.

Il disorientamento e la paura per essersi risvegliata in un luogo a lei sconosciuto, la camera da letto di Leonardo La Russa, e di trovarselo accanto nel letto, la mattina dopo l’incontro all’Apophis, la discoteca in centro a Milano. 

La ventiduenne che ha denunciato il figlio del presidente del Senato, ora indagato per violenza sessuale, è in preda al panico e inizia a scrivere all’amica con cui era arrivata nel locale, la sera del 18 maggio scorso, ma che poi non ha più visto, restando con il vecchio amico che non vedeva da tanto tempo e con cui ha bevuto un paio di cocktail, prima di sprofondare in uno stato di “amnesia completa”. 

(...) 

 “Amo.. – è il primo messaggio della ventiduenne - mi sono risvegliata da La Russa, ma che problemi ho.. o mi hanno drogata... Non mi ricordo bene, non va bene, faccio troppi casini. Non sono normale, raccontami di ieri”. La ragazza non riesce a ricordare nulla della sera prima. E’ da poco passato mezzogiorno. Scrive ancora: “Mi sto prendendo male, ma davvero, troppo. Cosa è successo? Amo mi sono svegliata qui da lui e non ricordo nulla. Aiuto...”. L’amica cerca di capirne di più. “Tu sei da lui ora? Avete fatto sesso?”. “Scappa, scherzi, va via subito” le dice.

Il sospetto su possibili sostanze versate nei drink del locale arriva proprio dall’amica. “Amo penso che lui ti abbia drogata, ma tu non mi ascoltavi ieri, eri corsa via e non ti ho più trovata”. “Dio santo, davvero? Cosa è successo? Non ricordo nulla”, reagisce la presunta vittima. E l’altra cerca di spiegarle cos’ha visto sulla pista da ballo del club. “Stavi benissimo, fino a quando lui ti ha offerto il drink, tu eri stata normale, eri stranormale. Avevamo fatto delle strisce (forse di cocaina, ndr) anche lì all’Apophis”. 

Ma, dice ancora l’amica, “non è quello che ti ha fatto diventare strana, è dopo il drink che sei diventata strana strana. Lo continuavi a baciare – scrive ancora - io ti ho chiesto se lui ti piacesse o meno, e tu mi fai “Sì lo amo”. Poi hai urlato “facciamo una botta”, io ti ho spiegato che l’abbiamo finita assieme (il riferimento potrebbe essere al consumo di droga, ndr). 

L’amica cerca di far ricordare alla presunta vittima qualche dettaglio. “Ti ho detto che volevo andare a casa e ti ho chiesto di accompagnarmi fuori, alle tre ho chiamato un taxi, ti ho anche chiesto se volessi tornare con me, ma dicevi di voler stare con lui”. Poi le strade delle due si sono divise.

Al mattino la ventiduenne è in preda alla paura. “Amo, mi ha drogata, per forza”, si convince. E decide di abbandonare la casa. “Ho paura, me ne sto andando”. “Amore tu ora torna esattamente a casa tua”. E ancora: “Pensi ti abbia stuprata, Perché ti ha sicuramente drogata. Comunque, che m...a, sempre odiato”. “Non mi ricordo nulla amore, ma niente proprio - è ancora la risposta della ventiduenne – Lascia stare. Che non esca la cosa”, dice “spero non mi abbia vista nessuno”, “Che vergogna, amo mi dovevi portare via”. A quel punto l’amica spiega nuovamente cos’è successo la sera prima. “Amore ci ho provato, ma sai che sei più forte di me. Sei letteralmente scappata correndo via”, “Io ti volevo portare a casa mia”, “te l’ho detto più di una volta ma non ragionavi proprio”, “non so come spiegarlo, non eri tu”.

“Amore posso solo immaginare, che m...a”. Lo sconforto prende il sopravvento: “Mi viene da piangere”, “aiuto cosa mi ha fatto…”. “Spero lo denunci”, risponde l’amica. “L’abbiamo fatto, da come dice, non mi ricordo nulla”. Si fa subito avanti l’idea di denunciare Leonardo La Russa. “Denuncio… come?”, scrive. “Ti ha per forza drogata, non può essere c (probabilmente il riferimento è alla droga ndr). Non ti fa quell’effetto. Non era mai successo tutte le altre serate”, risponde l’altra. 

“Vado in ospedale”, si decide la ventiduenne. E ancora all’amica: “Mi ha drogata. Mi ricordo tutto perfettamente fino a un certo punto. Ma ti rendi conto... Che vergogna. Sto uscendo. Non ho parole... Inizia pure a girarmi la testa. Sono terrorizzata, sto aspettando che mi porti le mie cose, vestiti e cose varie, me ne vado”.

Nel pomeriggio la ventiduenne riscrive. “Vado in ospedale. Sta venendo mia madre a prendermi”. Un messaggio a cui l’amica risponde chiedendole di essere prudente. “È giusto che denunci la cosa, però stai veramente attenta, suo padre è il presidente del Senato”. Questa settimana in procura si comincerà a ricostruire i fatti di quella notte, con le prime convocazioni di testimoni. Prima però sarà la denunciante a dover essere sentita. Poi toccherà alla prima testimone oculare dell’incontro tra la ventiduenne e Leonardo La Russa, insieme a altri amici e avventori nel locale.

Dagonews il 10 luglio 2023.

Lo scandalo che ha coinvolto Leonardo Apache La Russa, accusato di stupro, ha acceso le vipere milanesi che si sono messe a sibilare l’una con l’altra per saperne di più. Pare che la ragazza, presunta vittima della violenza, appartenga a una famiglia dell’alta borghesia milanese. 

La posizione sociale e la disponibilità economica, potrebbero spingere i genitori della 22enne a non lasciarsi intimorire da un processo contro il figlio del presidente del Senato…

Ha destato scalpore la notizia del mancato sequestro del telefono di Leonardo Apache La Russa, a differenza degli smartphone della presunta vittima e dell’amico di Leonardo immediatamente presi in carico dall’autorità giudiziaria.

Secondo Sandro De Riccardis di “Repubblica”: “il telefono di Leonardo, ora indagato per violenza sessuale, non è stato sequestrato in attesa di sentire la ragazza e per evitare possibili problemi giuridici legati al ruolo e alle garanzie proprie della seconda carica dello Stato”.

Sempre sul telefonino del giovane La Russa, Davide Milosa sul “Fatto Quotidiano” scrive:

“Da capire se non sia stato trovato oppure non fosse intestato a lui o ancora, la Procura attende di sentire prima la ragazza per poi fare un accesso mirato e senza rischi di essere respinta, visto che La Russa jr vive a casa del padre. 

E questo anche perché la querela, secondo fonti inquirenti, lascerebbe alcuni punti oscuri. 

Di certo l’anomalia del mancato sequestro è evidente. In mano gli investigatori hanno il telefono della vittima e quello di un amico di La Russa presente in casa, quest’ultimo non indagato. I telefoni non sono stati sequestrati ma solo acquisiti”.

A parte il fatto che, oggi, per ottenere dati e informazioni presenti su uno smartphone non è necessario disporre fisicamente del dispositivo. Basta un bravo hacker in grado di accedere al cloud o un trojan infilato nel telefono. Gli investigatori possono accedere alle informazioni nel telefono di Leonardo Apache in molti modi. Qualcuno si chiede se lasciare il dispositivo al ragazzo sia stato un modo per indurlo a comunicare liberamente, con l’obiettivo di registrare eventuali “passi falsi”…

Da repubblica.it domenica 9 luglio 2023.

La Rai sta valutando di sospendere il nuovo programma di Filippo Facci. Doveva essere una delle nuove trasmissioni della stagione di Rai2, dal titolo “I Facci vostri”, ma l’editorialista di Libero è finito nel mirino di Viale Mazzini dopo le polemiche per le affermazioni del giornalista sulla ragazza che ha denunciato il figlio di Ignazio La Russa, Leonardo Apache, per violenza sessuale. A denunciare quanto scritto dal giornalista sul quotidiano è stato Sandro Ruotolo, responsabile Informazione del Pd. “Conviene alla Rai, al servizio pubblico, affidare un programma a Filippo Facci” che su Libero parla della vittima come di “una ragazza di 22 anni era indubbiamente fatta di cocaina prima di essere fatta anche da Leonardo Apache La Russa? Può la tv pubblica essere affidata a chi fa vittimizzazione secondaria?". 

Poi domanda: "E che dice il comitato etico della Rai? Il servizio pubblico può consentire una lettura del genere sulle donne? Pensateci bene dirigenti di viale Mazzini. Il servizio pubblico è di tutti ma non può esserlo dei sessisti, dei razzisti e del pensiero fascista".

Travolto dalla polemica, Facci fa un passo indietro, parlando con l’Ansa: “"Riscriverei quella frase? No, perché conta un solo fatto: che la frase non ha portato niente di buono e che ha fatto malintèndere un intero articolo. La professionalità innanzitutto, l'orgoglio personale poi”. Il giornalista parla di una polemica "costruita sul nulla" e afferma che da giorni si cercava un incidente per investirne la Rai, "colpevole – dice – di avermi proposto una collaborazione per ora non formalizzata". E rivendica che "chiunque abbia letto l'articolo interamente, e sottolineo chiunque ha convenuto che il mio articolo fosse equilibrato ed equanime".

[…]

Estratto dell’articolo di Filippo Facci dell'8 Luglio per “Libero Quotidiano” domenica 9 luglio 2023.  

una ragazza di 22 anni era indubbiamente fatta di cocaina prima di essere fatta anche da Leonardo Apache La Russa (una famiglia, una tribù) e che perciò ogni racconto di lei sarà reso equivoco dalla polvere presa prima di entrare in discoteca, prima di chiedere all’amica «sono stata drogata?» anche se lo era già di suo.

Il resto è un confronto epocale tra maschio e femmina che la Costituzione mette sullo stesso piano, ma la giurisprudenza, ultimamente, un po’ meno. Restano dettagli off the records, tipo che la denuncia era su un giornale prima ancora di essere nella disponibilità cartacea dell’accusato, e che il racconto di lei, per emblematico che sia, sembra un format da movida milanese: il ricordo, quello vivido, è solo di aver bevuto due drink con un ragazzo e poi di essersi svegliata nel letto di lui l’indomani a mezzogiorno; quella che sta in mezzo è l’auto-ricostruzione mnemonica di una 22enne fondata su «sensazioni», in grado, in ogni caso, di finire sulla prima pagina del più diffuso quotidiano nazionale. 

Poi è vero, tra il fatto e la denuncia sono passati quaranta giorni – l’ha fatto notare Ignazio La Russa, nel ruolo di padre – ma per la nostra giurisprudenza significa poco: è lo stesso genere di perplessità, pur istintiva, che aveva avuto Beppe Grillo nello scagliarsi contro l’accusatrice di suo figlio Ciro, la quale aveva denunciato uno stupro dopo più di una settimana, solo una volta tornata a Milano, solo prima di proseguire la vacanza per un’altra settimana; le sentenze italiane però spiegano che uno stupro non implica comportamenti codificati, tipo rinunciare al prendersi un po’ di tempo per decidere se denunciare o no.

LA NORMALITÀ DEL MALE I problemi sono altri. Uno è che, di mezzo, non c’è soltanto la millesima generazione sconosciuta e ultralight, svagata, lontana dai nostri tabù e dal gravoso concetto di «reato»: di mezzo c’è quella normalità del male che sono le droghe da discoteca di oggi – in continua evoluzione – e la scarsa conoscenza che spesso ne hanno giudici, periti e giornalisti; sul Corriere, ieri, c’era un elenco delle «nuove droghe» con una castroneria dietro l’altra: le benzodiazepine per dormire erano definite «droga dello stupro» (ma vale solo per il Rivotril, un antiepilettico, non certo per i diffusissimi Tavor, Xanax, Lexotan, Valium, En) con menzione d’onore per la star mediatica degli ultimi anni, il Ghb, un derivato aminoacidico presente nelle tabelle delle sostanze psicotrope da 22 anni e che è piuttosto difficile che «non faccia ricordare niente fino al giorno dopo» (amnesia anterograda) perché, nel caso, bisogna assumerne una tonnellata e finire in uno stato comatoso che è tipico dei vecchi anestetici.

Nella tabella delle «droghe sintetiche» del Corriere non compare giustamente la cocaina (che non è sintetica) anche se è l’unica droga che di sicuro ha fatto la sua comparsa, visto che la ragazza l’ha assunta prima di entrare in discoteca- come appurato da un esame tossicologico fatto alla clinica Mangiagalli. Ma anche qui bisogna vedere, perché le sostanze da taglio della cocaina – che neppure i medi spacciatori conoscono – possono essere anfetaminiche o anestetiche, quindi avere effetti opposti e reattività diverse all’alcol, che pure, il Corriere, spiegava essere «la sostanza più spesso effettivamente correlata a casi di violenza sessuale».

Dunque a seconda del tipo di cocaina – stiamo parlando di schifezze illegali, ricordiamolo – si avrà una reattività diversa con eventuali «droghe dello stupro», che pure, per ora, sono esistite soltanto nelle ricostruzioni mnemoniche fatte dalla ragazza: «Raccontami di ieri, sono stata drogata?» chiede lei all’amica, una volta svegliatasi nel letto di Apache La Russa, «penso ti abbia drogata», risponde l’amica. Ma l’unica certezza sarebbe stata questa: «Ti era drogata da sola, anzitutto».

LE DIVERGENZE Il resto fa parte di una proiezione che non possiamo sapere quanto vera e quanto fantasticata: «Non mi ascoltavi, poi sei corsa via», le ha riferito ancora l’amica, «stavi benissimo fino a prima che ti portò il drink», le ha riferito ancora l’amica, prima di vederla baciare Leonardo La Russa in discoteca, altra certezza. Sappiamo che il giorno dopo lei fu «spaventata» e «presa dalla vergogna», e che, a suo dire, nel salutarla, Leonardo la «baciò contro la mia volontà», però lei non disse nulla «per paura». 

Il racconto di lui è più banale: lei venne spontaneamente a casa di lui, passarono la notte assieme e, a mezzogiorno del giorno dopo, si salutarono senza problemi.

La banalità del bene. È pieno di vecchi film dove lui o lei si svegliano in letti sconosciuti, ricordando a malapena il proprio nome ma non che cosa abbiano fatto e con chi:nei vecchi film c’era sempre di mezzo una sbronza, e la verità la sapeva soltanto lo spettatore. Oggi invece si parla di Ghb, e la sgradevole sensazione è che la verità possa essere drogata e stuprata dalla politica

Carmelo Caruso per ilfoglio.it domenica 9 luglio 2023.

La Rai starebbe per fermare la striscia di Filippo Facci, editorialista di Libero. Facci è presente nel prossimo palinsesto Rai con un suo programma, una striscia su Rai 2, chiamata "I Facci del giorno", ma un articolo di Facci, sul caso del figlio La Russa, starebbe per fare saltare tutto. Il Pd, Fnsi, Usigrai, da stamane si stanno scagliando contro Facci, responsabile, a parere del Partito democratico, di posizioni che vanno ben oltre il tono "ironico e dissacrante". 

A sollevare le proteste un passaggio dell'articolo ritenuto offensivo nei confronti della ragazza che ha denunciato il figlio del presidente del Senato. Questo è il passaggio: "Una ragazza di 22 anni era indubbiamente fatta di cocaina prima di essere fatta anche da Leonardo". I vertici Rai stanno ragionando in queste ore

Estratto da liberoquotidiano.it domenica 9 luglio 2023.  

I "sinceri democratici" del Pd vogliono censurare Filippo Facci, firma di Libero e presto su Rai 2 con la conduzione della striscia quotidiana I facci vostri. Già, perché secondo Sandro Ruotolo, responsabile informazione del Pd nonché vecchia conoscenza di santoriana memoria, Filippo Facci semplicemente non può condurre sul servizio pubblico. 

(…)

"Che dice il comitato etico della Rai? Il servizio pubblico può consentire una lettura del genere sulle donne? Pensateci bene dirigenti di viale Mazzini. Il servizio pubblico è di tutti ma non può esserlo dei sessisti, dei razzisti e del pensiero fascista", conclude Sandro Ruotolo la sua intemerata.

Mail di Filippo Facci a Dagospia domenica 9 luglio 2023.

Caro Dago,

i weekend estivi con poche notizie sono disperanti, perché costringono a occuparsi anche di spiacevoli sconfitte professionali, e una mi vede nel ruolo di protagonista. La comparsa invece è Sandro Ruotolo, senatore e responsabile informazione del Pd in cattivissima fede,  il quale mi ha attribuito quattro reati sanzionati dal Codice di procedura Penale, ossia: 1) Razzismo; 2) Sessismo; 3) Apologia del fascismo; 4) «Vittimizzazione secondaria» di una presunta stuprata. 

Questi reati deriverebbero tutti dal seguente passaggio di un mio articolo pubblicato sabato su Libero: «Una ragazza di 22 anni era indubbiamente fatta di cocaina prima di essere fatta anche da Leonardo Apache La Russa».  

E’ un passaggio stilistico, può non piacere, e la mia sconfitta professionale e il mio dispiacere derivano proprio da questo: dal fatto che ne abbiano fatto un caso senza aver letto l’articolo da cui il passaggio è estrapolato. Chiedo anche a te: tu l’hai letto? Non che lo pretenda. 

E infatti la mia sconfitta professionale deriva tipicamente dalla pretesa che i più ti leggano per intero prima di esprimersi, e che magari conoscano i tuoi trascorsi, addirittura i tuoi libri, che abbiano cognizione di causa prima di attribuirti degli odiosi reati: che insomma non ti trasformeranno in carne da cannone per alimentare le polemichette politiche di cui divieni vittima secondaria. 

Riscriverei quella frase? No, perché conta un solo fatto: che la frase non ha portato niente di buono e che ha fatto malintèndere un intero articolo. La professionalità innanzitutto, l’orgoglio personale poi. Stammi bene.

Estratto da open.online il 10 luglio 2023.

Che sia la solidarietà tra polemisti o una genuina convinzione, per Filippo Facci arriva oggi un’altra difesa «d’autore» dopo l’ondata di polemiche per quanto scritto domenica sul caso del presunto stupro commesso da Leonardo Apache La Russa: quella di Vittorio Sgarbi. 

Il giornalista è da ieri nell’occhio del ciclone per l’articolo pubblicato sull’edizione del 9 luglio di Libero, nel quale commentava cinicamente il caso e in particolare la posizione della 22enne milanese, che fin da subito ad amiche e medici del pronto soccorso ginecologico ha ammesso di aver assunto sostanze stupefacenti la sera dell’incontro in discoteca con La Russa jr.

«Le sofisticate scienze forensi non impediscono che alla fine si scontri una parola contro l’altra, e che, nel caso, risulterà che una ragazza di 22 anni era indubbiamente fatta di cocaina prima di essere fatta anche da Leonardo Apache La Russa», scriveva nell’articolo Facci. […] 

Facci «ha utilizzato un participio passato (“fatta”, ndr) riferito alla ragazza nella maniera in cui abitualmente si usa nel linguaggio comune tra le persone», ragiona Sgarbi a margine della conferenza stampa di presentazione del festival “ContemporaneaMente Gualdo Tadino”. 

Il sottosegretario alla Cultura afferma di aver «letto con attenzione» l’articolo discusso e ammette di aver trovato quel gioco di parole «non di buongusto» alla luce delle indagini in corso. Facci, insomma, «poteva risparmiarselo». Ma una volta chiarito ciò, Sgarbi punta il dito contro un problema ai suoi occhi di ordine più generale.

Ogni volta che si affronta la materia sessuale «mi sembra ci sia una paura delle parole, emerge una sessuofobia». Oltretutto, continua il sottosegretario all’Ansa ricordando la parziale ritrattazione dell’articolo, Facci «ha spiegato che la frase non l’avrebbe più scritta. È una battuta forse sbagliata ma è anche vero che nella seconda parte dell’articolo ha citato il capo d’imputazione contro il figlio di La Russa». 

Quanto alle richieste d’intervento del comitato etico della Rai sulla posizione del futuribile neo-conduttore, Sgarbi contrattacca tirando in ballo un’altra ben nota voce: «Saviano che ha un contratto sicuro ha detto “bastarda” alla Meloni. È vero che è un termine dal connotato politico, ma non è una gran parola. Perché il peso dell’uso del termine “fatta” è maggiore?».

Nulla di male quindi in una collaborazione di Facci con la Rai, lo incalza l’agenzia di stampa? «No, tranne che sul piano estetico: dovrebbe pettinarsi in modo diverso», è la chiosa di Sgarbi. […]

Giampiero Mughini per Dagospia il 10 luglio 2023.

Caro Dago, ti avevo scritto di recente che il più delle volte io preferisco il silenzio quando ci sono di mezzo delle gigantesche risse fondate sul nulla e che per tuttavia occupano pagine di giornali. 

Mi sto riferendo alle accuse mosse a Filippo Facci - che un tempo era un mio aguzzo disistimatore e con il quale siamo poi divenuti amici e spesso sodali - che in merito alla faccenda dello stupro di cui viene accusato Leonardo Apache La Russa aveva usato un'espressione non felice nel definire la ragazza accusante "fatta di cocaina prima ancora che fatta" dal ragazzo che lei accusa. 

Di certo un'espressione non felicissima, altrettanto certo che Filippo non è né "un sessista", né "un razzista", nè un "fascista" per come lo stanno accusando dei tipi che evidentemente non hanno mai letto un suo libro, e forse neppure per intero l'articolo in questione. Mi pare roba da selvaggi o da barbari impiccare qualcuno (sia esso di destra, di sinistra o di centro) a una frase, di ciascuno devi raccontare la storia e la personalità complessiva: a quella devi fare riferimento se vuoi giudicarlo.

Ebbene se fai riferimento alla storia intellettuale di Filippo e ai suoi libri, ti è facile capire che mai e poi mai lui voleva dire che la ragazza se l'era cercata. Perché di questo si tratta. 

E' facilissimo da capire eccezion fatta per quelli che di libri ne leggono uno al mese e quindi non sono abituati a penetrarne il significato. E forse neppure abituati a penetrare il significato di un articolo se letto per intero. Quanto alla valutazione di Facci e di quel suo articolo mi sto sbagliando? Non è che siete obnubilati dall'odio di parte, dall'essere di una parte diversa da quella di Facci e ammesso che lui ne abbia una? Provateci a dimostrarmelo. Sono qui che vi aspetto, col sorriso sulle labbra.

La Russa jr colpevole per la stampa senza processo Leonardo. Federico Novella su Panorama il 10 Luglio 2023

Il tribunale popolare sembra aver deciso, ma forse sarebbe il caso di fermarsi un attimo per riflettere e capire che il caso del presunto stupro è una vicenda delicata che dovrebbe essere trattata con prudenza e non come una guerra tra tifoserie opposte

Forse sarebbe il caso di fermarsi un momento e riflettere. Il caso La Russa sta sfuggendo a tutti di mano: quella che è una vicenda delicata che dovrebbe indurre pazienza e prudenza, si è già trasformata in una guerra tra opposte tifoserie. Bisognerebbe avere l’accortezza di separare il caso giudiziario dai suoi riflessi politici, ma a leggere i giornali sembra di capire che la sentenza nei confronti di Leonardo Apache La Russia sia stata già emessa dal tribunale del popolo. Come niente fosse, la stampa pubblica le chat private della ragazza coinvolta, hanno già la verità in pugno, il verdetto è già stato vergato. Dovrebbe essere interesse di tutti una celere ricostruzione dei fatti, per capire se la presunta vittima è davvero vittima, e il presunto colpevole è davvero colpevole: ma a tratti sembra quasi che certi giornalisti parteggino apertamente per la ragazza, ancor prima di conoscere i dettagli incontrovertibili di quanto sia successo quella notte a Milano. Si racconta in maniera generica di accertamenti medici, aggiungendo che tali esami farebbero propendere per una violenza effettivamente subita. Si confondono i fatti con le opinioni. Nessuno che ricordi alcune semplici verità: le prove si raccolgono nei processi, e non sui giornali, e prima ancora i processi devono essere chiesti e concessi da un giudice terzo. Secondo assioma: tutti sono innocenti fino alla sentenza definitiva, tutti, anche i figli dei presidenti del Senato. Come si diceva, nella foga di voler crocifiggere, si mescola il piano giudiziario, quello in cui sul tavolo c’è una denuncia al vaglio della procura, con quello politico. E in questo caso nel banco degli imputati allestito in fretta dalla folla mediatica ci è finito il padre dell’accusato, vale a dire Ignazio La Russa. Il quale, anziché mantenere un basso profilo e limitarsi ad attendere gli eventi nutrendo fiducia nella magistratura, è intervenuto (poi ritrattando) con un comunicato rumoroso e controproducente. Certamente una gestione più avveduta a livello comunicativo avrebbe evitato un’ulteriore dose di partigianeria su tutta questa storia. Ma ciò non toglie che il principio di fondo resta immutato. Al di là della polemica politica, non è accettabile una condanna a priori. In nessun caso. Non era accettabile per Ciro, il figlio di Beppe Grillo accusato di violenze durante una vacanza in Sardegna da una sua amica; non è accettabile neanche oggi nel caso di La Russa. Sembra che trent’anni di guerra tra politica e giustizia non abbiamo insegnato niente a nessuno. Le stesse storture, le stesse connivenze, gli stessi giudizi e pre-giudizi, avvelenano il clima. Chi farà il primo passo per uscire dalla barbarie e entrare nella civiltà?

Estratto dell’articolo di Rosanna Scardi per bergamo.corriere.it il 7 aprile 2023.

Paura per essersi sentita impotente e rabbia per l’indifferenza di chi poteva aiutarla e, invece, le ha voltato le spalle. La ragazza di 21 anni, che ha subìto violenza sessuale sul treno del passante milanese che collega Varese a Treviglio, tra le fermate del metrò di Porta Garibaldi e Porta Vittoria, è ancora sconvolta. Per guarire le ferite psicologiche ha scelto di raggiungere i genitori nella loro casa in Toscana alla ricerca di un po’ di serenità.

 (...)

Come sta?

«Non smetterò di viaggiare, ma quanto accaduto ha impattato molto sul modo in cui considero la realtà; ora ho un’idea negativa di cosa significhi essere su un treno o in metrò. Mi è rimasto il trauma legato a “quel” posto, la metropolitana di Milano, nel tratto in cui ho subìto l’aggressione. Ed è cambiata la mia percezione del pericolo: ora so che qualcosa di brutto può accadere e travolgerti quando non te lo aspetti».

  Colpisce sapere che, nel vagone, lei e l’aggressore non eravate soli.

«È così. Insieme con noi c’era un giovane sui trent’anni. Credo che abbia visto la scena iniziale o intuito quali fossero le intenzioni dell’altro passeggero. C’è stato un attimo in cui ho incrociato il suo sguardo, ma è andato via. Ha pensato di lavarsene le mani. E ha la coscienza sporca tanto quanto il mio aggressore».

 Ha mai pensato di poter essere vittima di violenza?

«Ora vivo e lavoro in Germania e lì non mi è mai successo niente. In Italia invece sono frequenti le molestie o il cat calling in strada. Un episodio grave di violenza sessuale mi capitò quando avevo 14 anni. In quel caso il responsabile era un ragazzo maggiorenne, che non sono mai riuscita a denunciare. Adesso ho compiuto un grande passo denunciando perché subito dopo quella prima volta non ce l’avevo fatta».

 Allora che cosa la fermò?

«Paradossalmente un centro che assiste le donne vittime di violenza. Mi ero informata, avevo coinvolto i miei genitori, ma i professionisti di quel centro mi sconsigliarono caldamente di sporgere denuncia. Mi dissero che non avevo prove che il fatto fosse successo, che non valeva la pena tentare; poi mi sono fatta forza e mi sono recata io dalle forze dell’ordine, ma era passato troppo tempo. Limitare il tempo entro cui sporgere denuncia è terribile: la vittima ha bisogno prima di processare quanto subìto».

 Ora la denuncia c’è.

«Ho presentato denuncia alla Polfer di Treviglio. Il pensiero che l’aggressore potrebbe fare quello che ha fatto a me ad altre donne o ragazze mi inquieta. Ed è molto probabile che lo rifaccia. Ho voluto fare il possibile per poter mettere al sicuro altre donne; è un obbligo morale».

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Natalia Aspesi insulta La Russa: "Pochi capelli e sempre unti, fa paura ai bimbi". Alberto Busacca su Libero Quotidiano il 12 luglio 2023

Stupro, violenza, sessismo. Parole tornate purtroppo al centro del dibattito pubblico. E che hanno scatenato un appassionato confronto tra donne. Che, per fortuna, è andato anche oltre le accuse di Elly Schlein sulla «destra patriarcale» e sul «maschilismo tossico». Ieri, sulla Stampa, si sono “scontrate” Lucetta Scaraffia e Annalisa Cuzzocrea. «Uomini e donne sono diversi», ha scritto la Scaraffia, «le ragazze sono oggettivamente più in pericolo di subire una violenza. Non è piacevole, lo so, dover ammettere che girare sole a notte fonda, magari non troppo sobrie, candida una ragazza a diventare vittima di qualche giovanotto, magari anche lui non troppo sobrio. Ma è così, c’è poco da fare.  È impossibile creare una società in cui le giovani donne possano muoversi con la stessa libertà dei giovani maschi. Si tratta semplicemente di fare i conti con la realtà, il resto è utopia. Le ragazze dovrebbero tenerlo bene a mente, e i genitori, magari, ricordarglielo la sera quando escono».

Queste parole non sono piaciute per niente alla Cuzzocrea. «Non voglio», ha replicato, «abusare di termini come vittimizzazione secondaria. La legge dice chiaramente che non si può approfittare sessualmente di una persona che è in “condizioni di inferiorità psichica o fisica”. Se non c’è il consenso, è stupro. Bisogna partire da questo, non invertire il paradigma. Partire cioè da quel che dobbiamo insegnare ai nostri figli maschi: se ti ritrovi con una ragazza che non ha coscienza di quel che fa, per quanto possa piacerti, la porti a casa sua, non tua. È perbenismo? È utopia? Io penso siano le basi del vivere civile». Già, ma nelle due posizioni c’è una differenza sostanziale: la Scaraffia vuole insegnare alle donne come difendersi da sole, mentre nel ragionamento della Cuzzocrea la donna finisce paradossalmente per mettere ancora il suo destino nelle mani dei maschi, sperando di incontrarne uno che la riaccompagni a casa se non dovesse più essere in sé. Certo, dovrebbero farlo tutti, ma come si può escludere di trovare invece qualcuno con delle brutte intenzioni?

Più “radicale” il pensiero della scrittrice Dacia Maraini. Che a Coffee Break, su La7, rispondendo al giornalista Marco Ventura, secondo cui lo stupro ai danni della ragazza che ha denunciato il figlio di Ignazio La Russa «è tutto da dimostrare», ha commentato: «Non capisco perché se io denuncio di essere stata rapinata, nessuno mette in dubbio che sia vero e nessuno pensa che io abbia avuto piacere nel subire una rapina. E invece nello stupro bisogna dimostrare che non si è stati consenzienti. Questa è una cosa gravissima». È vero che, come ha detto la Maraini, dopo la denuncia la donna è «costretta ad affrontare situazioni sgradevolissime», ma qual è l’alternativa? Considerare ogni denuncia vera a prescindere? Così, però, le persone accusate non avrebbero più la possibilità di difendersi... E chiudiamo con Natalia Aspesi, che su Repubblica ha definito Ignazio La Russa «un uomo con un’aria e una voce da far paura, e pochi capelli sempre unti e spettinati, che se li vede un bambino diventa subito comunista». Insomma, se non lo avesse scritto con la tipica ironia della Aspesi, se non lo avesse scritto su Repubblica e se non lo avesse scritto riferendosi a un uomo di destra, qualcuno, magari del Pd, avrebbe gridato al body shaming... 

Caso La Russa, qualcuno ricorda cosa vuol dire garantismo? Piccolo promemoria per chi ritiene che il doveroso garantismo nei confronti del figlio della seconda carica dello Stato vada sostenuto cancellando qualsiasi garanzia per la ragazza che lo ha denunciato. Simona Musco su Il Dubbio il 10 luglio 2023

«Fratelli d’Italia chiede che ci sia, perché lo riteniamo assolutamente doveroso e necessario, una conferenza di capigruppo affinché si possa insieme esprimere la vicinanza di tutto il Parlamento italiano ad una giovane donna vittima in questo momento anche soltanto dell'arroganza e del sessismo verbale di un leader politico». Correva l’anno 2021, il partito di Giorgia Meloni era all’opposizione. Dai banchi della minoranza Ylenia Lucaselli puntava il dito contro Beppe Grillo, reo di vittimizzazione secondaria nei confronti della giovane che ha denunciato il figlio del comico per violenza sessuale.

Guai a prendersela con la ragazza, insisteva FdI, indignata per quel sessismo che voleva la giovane troppo disinibita, troppo qualcosa, e quindi, comunque, colpevole. Un copione che oggi viene recitato in senso inverso: la 22enne che ha denunciato il figlio del presidente del Senato era fatta di cocaina, quindi è inattendibile. O, come minimo, un filino spudorata, quasi quasi le sta bene. Lo stesso presidente del Senato ha interrogato (sic) il figlio e quindi il processo può dirsi chiuso: il giovane è senz’altro innocente, lei moralmente riprovevole. L’intellighenzia di destra si è subito schierata: era fatta e poi è stata fatta da La Russa, dice un raffinatissimo Filippo Facci, secondo cui il giusto e doveroso garantismo nei confronti del giovane figlio della seconda carica dello Stato va sostenuto cancellando qualsiasi garanzia per la ragazza che lo ha denunciato. Poche ore dopo, sommerso dalle critiche, quella frase se la rimangia: «Non la riscriverei», dice, ma solo perché noi non l’abbiamo capita.

Ma anche i giornali di sinistra non vogliono sfigurare, pubblicando il profilo di La Russa jr in perfetto stile lombrosiano, col sottotesto che lo vuole difficilmente innocente, perché nei testi delle sue canzoni inneggia alle droghe e racconta le donne non proprio come esseri con pari dignità degli uomini. Ci saremmo aspettati anche una didascalia con scritto: guardate che faccia. E immancabili sono le chat che raccontano il dramma interiore, slegato da qualsiasi contesto, da qualsiasi contraddittorio. Non c’è via di mezzo: ci dev’essere comunque un colpevole.

Ed è solo la contingenza a stabilire chi sia: se al potere c’è una forza politica e il presunto colpevole è di quella forza politica allora tutti addosso alla presunta vittima, che all’improvviso si ritrova dall’altro lato della barricata. Per le sue abitudini, per i suoi vestiti - grande classico -, perché è salita in casa di un uomo a notte fonda. Tocca ricontrollare i calendari per essere sicuri di non aver fatto un balzo indietro nel tempo. C’è chi addirittura sostiene che se pubblico dev’essere il nome del presunto colpevole, pubblico dovrebbe essere anche quello della presunta vittima. E al diavolo tutte le norme deontologiche, che in questa storia sono le grandi assenti, sotto qualsiasi punto di vista.

Non sappiamo cosa rimarrà di questa storia: magari, semplicemente, La Russa jr non è colpevole e la ragazza non ha provato ad incastrarlo. Oppure la storia è vera. O chissà: sarà la giustizia a stabilirlo. Ma nel frattempo, di sicuro, per entrambi è arrivata la sentenza. Perché il garantismo, troppo spesso, è solo una parola vuota, anche per chi ogni giorno si appella alla Costituzione. E finora nessuno sembra averne capito davvero il senso.

Vittorio Feltri a valanga su La Russa jr: "Sessismo rovesciato, la ragazza..." Il Tempo il 13 luglio 2023

Una presa di posizione destinata a creare polemiche quella di Vittorio Feltri che in un lungo articolo spiega che oggi "il maschio è la vera vittima del sessismo". Si parla naturalmente dell'indagine a carico di Leonardo Apache La Russa, figlio del presidente del Senato Ignazio La Russa, accusato da una ragazza di violenza sessuale. Una vicenda dai contorni ancora poco chiari e su cui indagano gli inquirenti. Il direttore editoriale di Libero nel suo articolo afferma che il 19enne "è stato accusato da una ragazza di averla stuprata. Può darsi che sia vero, ma il reato va accertato e non solo sospettato su basi fragili". Perché scrive così? Feltri ricorda che "la fanciulla afferma di essere stata drogata. A me risulta che gli stupefacenti vengano assunti volontariamente", e "inoltre la fanciulla in persona si è recata a notte fonda in casa del suo presunto violentatore. Si è spogliata e nuda come un verme si è infilata nel letto del giovanotto. Cosa pensava di fare in quello stato: di recitare il rosario col suo amico? Io a certe stupidaggini non credo", è il commento che chiude l'articolo di Feltri destinato a far discutere dopo le polemiche su Filippo Facci. 

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In precedenza Feltri afferma che "in tv così come sui giornali divampa la criminalizzazione del genere maschile, che sembra composto da soggetti incapaci di tenere l’uccello nelle mutande e pronti ad approfittare di qualsiasi donna si presenti indifesa alla prima occasione". Una "rappresentazione viziata dalla cultura di sinistra che difende solo i maschi omosessuali", argomenta il direttore che rimarca: "si è innocenti fino al terzo grado di giudizio. Eppure, nei casi di presunto stupro, si è colpevoli soltanto perché una donna si è dichiarata vittima".

Insomma, è un "sessismo rovesciato", commenta Feltri, "se per la parità siamo, e lo siamo tutti, sarebbe ora che il genere femminile si assumesse le sue responsabilità e con questo non intendo sostenere che una ragazza la violenza sessuale se la vada a cercare o se la sia meritata, lungi da me l’esprimere un concetto tanto primitivo e mostruoso. Però converrete che, quantunque l’uso e l’abuso di alcol e droghe da parte della presunta vittima non costituiscano un’attenuante a carico del presunto autore del presunto delitto, bensì un’aggravante, in quanto lo stato di alterazione implica che il presunto reo abbia approfittato della condizione di debolezza altrui, è evidente che, se una ragazza si stordisce introducendo determinate sostanze, sarà più agevole che ella si ritrovi in situazioni quantomeno spiacevoli". Affermare che tutti "i maschi siano tutti porci e le femmine tutte sante" è "semplicistico" e "ipocrita", perché "il diritto non distingue tra maschio e femmina, esiste la persona".

Estratto dell'articolo di Andrea Galli per il "Corriere della Sera" il 12 luglio 2023.

Dopo aver parlato con noi in una pausa dalla lettura di un libro, dice di essere «a disposizione della Procura». È una delle ventenni che, nella denuncia per violenza sessuale presentata dalla coetanea contro Leonardo Apache La Russa, figura quale «testimone». Al momento, una delle quattro «testimoni». Come avvenuto con le precedenti ragazze, il Corriere protegge le identità. Sia le loro sia quelle delle famiglie, indipendentemente da chi siano. 

Iniziamo dall’evento all’interno dell’Apophis che risulta descritto nella chat tra la stessa presunta vittima e una sua amica. In quella chat si raccontava dell’ipotetico versamento di droga nel bicchiere. 

«Quella notte ero nel locale, ma non ho assistito a nessun fatto». Non sarebbe però così sulla droga. In generale. La ragazza afferma con nettezza che «si sa». Cioè, a suo dire si sa che in posti del genere non risulterebbe difficile procurarsi sostanze stupefacenti.

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La ventenne fa capire che un eventuale sistema di circolazione della droga potrebbe essere di un livello differente, più «protetto». Quasi che tutto debba avvenire, sempre beninteso ammesso che avvenga, per mano magari di clienti che introducono dosi e pasticche. Oppure per mano di altri soggetti privi dell’interesse del ballo che accedono con l’unico obiettivo di piazzare dosi e intascare soldi. 

(...)Quanto a La Russa e alla presunta vittima, «conosco entrambi. Tra noi ragazzi ci conosciamo tutti, però non significa che le frequentazioni siano assidue. Le amicizie hanno come collante i canali social e poi si sviluppano di persona quando ci si incrocia in giro».

Cosa può riferirci di entrambi?

«Conosco più lui». E prima di quella notte aveva contezza di comportamenti strani, equivoci, prevaricatori di Leonardo Apache? «No». Senta, l’Apophis che locale è? «Ha aperto da poco. Un club. Piccolo. Musica techno. Come in ogni discoteca, uno sceglie come comportarsi… 

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Estratto da open.online il 12 luglio 2023.

«Quando mi sono svegliata nel suo letto mi sono ritrovata in un luogo sconosciuto. Ho avuto tanta paura». La ragazza che accusa Leonardo La Russa di stupro ha confermato la versione della denuncia nelle tre ore davanti alle pm di Milano Letizia Mannella e Rosaria Stagnaro. Ha ripercorso le ore tra il 18 e il 19 maggio scorsi. 

Ha raccontato l’inizio della serata all’Apophis. Confermando il blackout dopo i due drink offerti dal figlio del presidente del Senato. E le parole sulla presenza del dj Nico, che nel frattempo è stato identificato. Successivamente, gli investigatori diretti da Marco Calì hanno ascoltato le tre amiche chiamate a testimoniare. Due erano presenti nel locale. Un’altra con cui ha parlato il giorno seguente. Ma ora bisognerà colmare i buchi. In particolare quelle tre ore tra l’uscita dall’Apophis e l’arrivo a casa.

I pm

«Dopo avermi offerto da bere, Leonardo mi ha portato a casa. La mattina dopo mi ha detto di aver avuto un rapporto sessuale con me, ma io non avevo nessun ricordo, non ero nelle condizioni di scegliere cosa fare», è la versione della ragazza riportata oggi da Repubblica. E ancora: «È stato un incubo. Quando mi sono svegliata nel suo letto mi sono ritrovata in un luogo sconosciuto.

Ho avuto tanta paura. Ho preso subito il cellulare e ho chiesto aiuto alle mie amiche». Poi il dialogo con La Russa jr: «La mattina dopo mi ha detto che anche il suo amico aveva avuto un rapporto sessuale con me, ma io non ero cosciente, non ricordavo niente. E non ricordo di averlo visto». Dice anche di non ricordare nulla di quanto successo nel locale e che le è stato raccontato dalle amiche. «La prima immagine che ho avuto è stata il giorno dopo, a casa di La Russa».

Il bacio

Poi c’è la scena del bacio. Prima Leonardo le ha recuperato i vestiti. Poi «era sulla porta, e per farmi uscire mi disse: “Pretendo un bacio, altrimenti non ti faccio uscire”, quindi si avvicinò e mi baciò contro la mia volontà. Non dissi nulla per la paura». Infine, la conferma di aver visto Ignazio La Russa e di aver sentito una voce di donna che poteva essere quella di sua moglie. La ragazza, ex compagna di liceo del terzogenito dell’esponente di Fdi, lo aveva già raccontato nella querela, depositata dal legale Stefano Benvenuto il 29 giugno e arrivata sul tavolo dei magistrati il 3 luglio. 

Le chat tra le ragazze sono state decisive nella ricostruzione: «Amo.. mi sono risvegliata da La Russa, ma che problemi ho… o mi hanno drogata… Non mi ricordo bene, non va bene, faccio troppi casini. Non sono normale, raccontami di ieri. Amo mi sono svegliata qui da lui e non ricordo nulla. Aiuto…». 

Verso il Duomo

La testimone ha spiegato agli investigatori lo stato di euforia dell’amica. Un atteggiamento che l’ha sorpresa. «È stato dopo il drink», ha confermato. L’ha vista l’ultima volta alle 3 mentre correva verso il Duomo. Dice che successivamente si è offerta di accompagnarla alla clinica Mangiagalli. Anche un’altra giovane ha parlato con i pm della vicenda. 

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 Estratto dell'articolo di Luigi Ferrarella e Giuseppe Guastella per corriere.it il 12 luglio 2023.  

Ha da poco confermato a verbale le sue accuse, quando la ragazza 22 enne milanese che ha denunciato Leonardo La Russa per violenza sessuale rimette insieme i pensieri. Al termine di oltre tre ore di testimonianza e dopo giorni in cui è finita al centro dell’attenzione, decide di dire la sua: «Colpevolizzare una donna che si espone per far valere i suoi diritti è una doppia umiliazione, ancora prima di poter raccontare apertamente la mia versione».

Poco prima delle 11 di ieri raggiunge la Questura per essere sentita come testimone dal pm Rosaria Stagnaro, dall’aggiunto Letizia Mannella che dirige il dipartimento che si occupa dei reati sessuali e dagli uomini della squadra mobile guidata da Marco Calì. È tesa. Le domande non possono che partire dall’inizio della vicenda che l’ha coinvolta. Da quando il 18 maggio ha deciso con una amica di fare «serata» nella discoteca-club Apophis a qualche centinaio di metri dal Duomo dove incontra Leonardo Apache La Russa, il 19 enne terzogenito del presidente del Senato che conosce dal liceo. La giovane aveva già assunto cocaina e due farmaci, uno dei quali è un tranquillante. Risulterà positiva alla cannabis.

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Tra la denuncia, il racconto fatto alla Mangiagalli e la chat è possibile ricostruire quello che secondo le amiche sarebbe accaduto. Tre delle quali sono state ascoltate ieri fino a tarda sera dagli inquirenti per acquisire tutti i possibili elementi che chiariscano cosa è successo dentro e fuori la discoteca fino a casa del presidente del Senato. Come le tre ore di buco nel racconto tra le tre di note, quando l’amica la vede correre fuori dal locale correre verso il Duomo in stato confusionale, e le sei del mattino, ora alla quale sarebbero andati a casa in macchina secondo quanto le dice Leonado La Russa.

Passaggi che gli inquirenti cercheranno di ricostruire anche dalle immagini delle telecamere di sorveglianza, ammesso che a quasi due mesi di distanza le registrazioni non siano state cancellate. La ragazza attraversa un momento difficile: «Una donna non deve avere paura di vivere la sua vita ed essere giudicata prima dei fatti rispetto alle scelte che prende», dichiara al Corriere della Sera tenendo a ringraziare il suo avvocato «per il lavoro che sta facendo anche per le donne che non hanno avuto coraggio». Sfogo comprensibile, come pure non può non esserlo il disagio del giovane che lei accusa, solo espresso in maniera diversa attraverso la scelta del silenzio da parte del suo difensore Adriano Bazzoni. Perché il fatto che la donna che denuncia venga colpevolizzata e finisca vittima due volte non può bastare di per sé a confermare che dica il vero.

E nemmeno si può immaginare che il denunciato, per il solo fatto di essere accusato di violenza sessuale, venga condannato a priori. Di certo la giovane si è assunta una grande responsabilità, di cui le va dato atto, che la espone, se si dovesse provare che ha detto il falso, al rischio di essere accusata di calunnia ai danni del figlio di La Russa, il quale rigetta con sdegno il sospetto di essere stato lui a drogarla e sostiene che tra loro ci sia stato solo un rapporto consensuale.

(ANSA il 12 luglio 2023) I rapporti sessuali non consensuali verranno considerati come stupro. È una delle principali misure contenute nella posizione negoziale del Parlamento europeo approvata in plenaria senza votazione, in vista dell'avvio domani dei negoziati con il Consiglio dell'Ue. In particolare, il Pe chiede che il consenso venga valutato caso per caso e che l'elenco delle circostanze aggravanti includa le situazioni particolari della vittima come gravidanza, disagio psicologico, l'essere vittima di tratta o in strutture per richiedenti asilo.

Il mandato, elaborato dalle commissioni per le libertà civili e per i diritti delle donne, include una definizione di stupro basata sul consenso, norme più severe sulla violenza informatica e un migliore sostegno alle vittime. Nel testo viene chiesto di inserire un numero maggiore di circostanze aggravanti, come i reati che hanno provocato la morte o il suicidio delle vittime, quelli contro una figura pubblica e quelli basati sull'intenzione di preservare o ripristinare "l'onore".

Il mandato include anche norme più severe sulla violenza informatica. Gli eurodeputati chiedono inoltre una definizione ampliata di "materiale intimo" che non può essere condiviso senza consenso, per includere immagini di nudo o video non di natura sessuale e prevenire il fenomeno del 'revenge porn' che dovrebbe essere classificato come molestia informatica. Infine, il sostegno alle vittime. Il Parlamento europeo chiede infine che i Paesi membri garantiscano assistenza legale gratuita alle vittime, in una lingua a loro comprensibile, e raccolgano le prove il più rapidamente possibile grazie a un supporto specializzato. 

«Se non c’è consenso è stupro. Punto. E non conta nulla chi è drogato o ubriaco». «Se si ha di fronte una ragazza o un ragazzo che non è in grado di prestare il proprio consenso, non ci si può avvicinare con richieste sessuali». Parla la giudice Paola Di Nicola Travaglini, già consulente della Commissione sul femminicidio. È anche una questione culturale: «Da millenni il corpo delle donne è un teatro di guerra». Simone Alliva su L'Espresso l'11 luglio 2023.

Lontano da quello di cui si nutre il quotidiano dibattito sui social e in tv. Fuori dalle polemiche del giorno e dai casi quotidiani, per capire come lo Stato italiano affronta la questione dello stupro, una modalità consueta di possesso, una violenza che è un codice di racconto del nostra Paese, bisogna affidarsi a Paola Di Nicola Travaglini, giudice della Corte di Cassazione già consulente giuridica della Commissione parlamentare sul femminicidio. 

L’Italia registra un trend in crescita per le violenze sessuali: dal 2020, anno nel quale si è registrato il dato minore (4.497), l'incremento è stato significativo e si è attestato, nel 2022, a 5.991 eventi (+33% dal 2020). Un fenomeno allarmante che pure ancora oggi viene silenziato, ridotto, minimizzato da prese di posizioni, difese e pregiudizi: aveva bevuto troppo, era salita coscientemente a casa di lui, la deriva della conversazione pende verso il "se l’è cercata": «Da millenni il corpo delle donne è stato un teatro di guerra», specifica a L’Espresso la magistrata, Paola Di Nicola Travaglini e racconta come la voce delle donne venga silenziata anche nei codici che dovrebbero garantire sicurezza ai cittadini. Eppure la questione è molto semplice, ruota intorno alla questione del consenso. Una donna alterata, drogata, ubriaca poco importa: «Se si ha di fronte una ragazza o un ragazzo che non è in grado di prestare il proprio consenso, non ci si può avvicinare con richieste sessuali».

Dottoressa, nel Codice penale la parola “consenso” è assente. Insomma la parola delle donne sul consenso non è mai stata realizzata. Eppure la gran parte delle violenze avvengono senza alcuna minaccia.

«La parola consenso nel codice penale per la violenza sessuale non è prevista. Nel senso che è vista solo dalla parte dell’autore. La condotta della violenza sessuale è centrata sull’autore che commette un atto minaccioso violento o induttivo. Ed è curioso perché invece nella violazione del domicilio (Articolo 614 Codice Penale) è ribaltato, qui il centro della norma è la volontà della vittima: “Chiunque s'introduce nell'abitazione altrui […] contro la volontà espressa o tacita di chi ha il diritto di escluderlo […] è punito”. Questo è molto interessante perché proprio in relazione ad un delitto quale la violenza sessuale, in cui l’elemento cruciale è la volontà della vittima, ci si sposta sull’autore. E in un altro reato, di minore gravità, è la volontà che viene declinata». 

E questo come se lo spiega?

«La paura del legislatore e del codice è che si dia alle donne vittime il potere di rappresentare la loro volontà».

È una questione culturale.

«Certo, da millenni il corpo delle donne è stato un teatro di guerra. Nessuno ha mai chiesto alle donne il consenso. Il consenso femminile non appartiene al mondo del diritto nella storia dell’umanità: le donne venivano fatte sposare per evitare le guerre, le regine diventavano mogli per creare alleanze. Il corpo delle donne e l’utilizzo della violenza sessuale è stata sempre una questione politica».

Una questione politica e una questione culturale. Di violenza sessuale se ne parla, ancora male. Come se non avessimo gli strumenti per codificarla. Vorrei prendere un caso comune, che somiglia a molti altri casi, una persona denuncia per stupro un’altra persona. Entrambi però, sia vittima che aggressore erano incoscienti nel momento dell’atto. Si parla ancora di stupro?

«Il codice penale prevede che chi compie atti sessuali, a prescindere da violenza o minaccia, abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto, determina un abuso per assenza di consenso. Il delitto di violenza sessuale è composto da due parti: la prima è “chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, costringe taluno a compiere o subire atti sessuali è punito”. Ad esempio: esco da casa vengo violentata in mezzo alla strada, vado a scuola e il professore con abuso d’autorità compie atti sessuali su di me. La seconda parte dice: anche quando la persona che compie atti sessuali e abusa della condizione di inferiorità. Ad esempio se io abuso della condizione di inferiorità fisica o psichica, su una persona in sedia a rotelle che non si può muovere, su una persona malata che sta su una corsia ospedaliera in fin di vita, una giovane donna talmente ubriaca che non è in grado di reagire. Basta che il giudice accerti che la vittima fosse in fase di inferiorità fisica o psichica. È previsto come regola base. Poi c’è un’aggravante: è quella che prevede l’aumento di un terzo dalla pena quando la violenza è commessa con l’uso di armi o di sostanze alcoliche, narcotiche o stupefacenti».

Mi permetta di fare l’avvocato del diavolo: se l'aggressore fosse stato così alterato da non conoscere lo stato di alterazione della vittima?

«La condizione di alterazione o abuso di alcol per il codice penale non rileva quando riguarda l’autore. Perché il codice penale non può dare la licenza di commettere reati a chi consapevolmente si mette in quella condizione. Pensiamo al caso dell’omicidio stradale oppure altri reati. Se una persona si mette alla guida dopo aver assunto droga o alcol, è una bomba a orologeria. Per il codice penale la condizione di sottoposizione a questo tipo di sostanze “non rileva” perché il principio è che lo Stato si deve proteggere e deve proteggere cittadini e cittadine da situazioni che attraverso la riduzione delle capacità di non essere completamente all’erta e presenti a se stessi, condizione che può creare un pericolo per la collettività. Ma le dico di più. Per il codice penale è un’aggravante quando l’autore di un reato si trovi in una situazione abituale. Il caso della ubriachezza abituale e intossicazione da sostanze stupefacenti, determina l’aumento della pena (Articolo 94 del codice penale). L'abitualità è una modalità comportamentale di assumere alcolici in maniera spropositata. Se la donna invece è ubriaca non è in grado di prestare il consenso. Punto. Sostanzialmente si presume l’assenza di consenso nel delitto: non sono messa nella condizione di dare un consenso libero, autonomo e non condizionato».

Mi scusi se insisto: l’aggressore potrebbe non essere cosciente dello stato dell’altra persona se entrambi sono ubriachi.

«Un adulto se ne accorgerebbe. Questa cosa che gli uomini ritengono di essere confusi dal consenso o non consenso è ancora una volta una vittimizzazione secondaria. Perché io sto parlando di un reato. Io devo accertare se c’è consenso della vittima, non se lo hai capito o meno. Come scrive la Cassazione da ultimo in una sentenza di aprile 2023 “il dissenso è sempre presunto, salva prova contraria”. Pensi al caso della rapina, lei tutte queste domande oggi non me le farebbe».

Dice molto sullo stato culturale del Paese.

«Invertiamo la logica solo per questi reati. Se si ha di fronte una ragazza o un ragazzo che non è in grado di prestare il proprio consenso, non ci si può avvicinare con richieste sessuali».

Andrebbe riformato questo codice penale o ci sono sentenze che ci aprono la strada?

«La Corte di Cassazione da anni ritiene che il consenso debba essere libero e prestato in modo inequivoco. Quindi in realtà la magistratura ha fatto un’operazione interpretativa che non richiederebbe un intervento legislativo. Però molti giudici questo orientamento pacifico della Corte o non lo conoscono o non lo seguono. Se non lo scriviamo in modo chiaro ognuno andrà per la sua strada. Ricordo inoltre che la Convenzione di Istanbul, ratificata dall’Italia, all’articolo 36 parla di "atto sessuale non consensuale". Il consenso è l’elemento cardine, sarebbe opportuno modificare il codice penale perché avere una legge che lo scrive in modo chiaro, vuol dire che il Parlamento si assume la responsabilità di dire che il consenso delle donne è il perno della norma penale. I processi durerebbero un minuto: hai prestato il consenso come richiede la norma? No. Perfetto. Poi si verifica il resto. Il consenso è cosa delicata e complessa ma semplice da accertare: basta chiedere».

Estratto dell’articolo di Federica Zaniboni per “il Messaggero” sabato 15 luglio 2023.

[…] tra chi è stato chiamato a rispondere alle domande di inquirenti e investigatori, spunta un primo racconto che apparirebbe in contrasto con la denuncia presentata dalla ragazza di 22 anni che accusa l'ex compagno di scuola [Leonardo La Russa]. Nonostante lei stessa abbia dichiarato di non avere alcun ricordo delle ore trascorse nella discoteca di Milano, una conoscente ha spiegato che non sembrava «particolarmente alterata». 

L'amica della 22enne che era con lei nel locale, però, la mattina seguente le aveva scritto in chat di averla vista perdere lucidità dopo avere bevuto un paio di drink. Da qui, il sospetto che il terzogenito del parlamentare di Fratelli d'Italia possa averla «drogata» prima di violentarla a casa sua a fine serata. Dagli esami a cui è stata sottoposta alla Clinica Mangiagalli il giorno dopo, è risultata positiva sia alla cocaina che alla cannabis e alle benzodiazepine.

[…] È dunque fondamentale […] raccogliere le testimonianze di quante più persone possibili per chiarire, tra gli altri aspetti, in quali condizioni fosse la giovane quella notte. Oltre a tre amiche di lei, sono già stati ascoltati anche la madre e il titolare dell'Apophis, e alcuni ragazzi che potrebbero avere visto o sapere qualcosa. 

Intanto, nel cellulare di Leonardo verranno cercati eventuali contatti avuti a partire dal 19 maggio, quando la presunta vittima si è svegliata a casa La Russa senza sapere cosa fosse accaduto. Lei stessa, in sede di denuncia, aveva dichiarato che Apache aveva tentato di chiamarla su Instagram il giorno dopo, ma lei non aveva risposto «per paura».  […]

Luigi Ferrarella e Giuseppe Guastella per corriere.it sabato 15 luglio 2023.

La Procura di Milano ha sequestrato il telefono cellulare di Leonardo Apache La Russa [...]. Non è stata, invece, sequestrata la sim dell’apparecchio. 

Il decreto di sequestro è stato notificato nel tardo pomeriggio di ieri allo stesso Leonardo La Russa che poi, accompagnato dalla madre e dall’avvocato Adriano Bazzoni, si è presentato negli uffici della Squadra mobile e ha consegnato il telefono dopo averlo recuperato a casa. 

Il cellulare è stato sequestrato perché [...] era in «uso personale ed esclusivo» al ragazzo e, quindi, potrebbe contenere nella sua memoria elementi utili alle indagini, come foto, traffico Internet e messaggi. Tra cui la chiamata via Instagram che il ragazzo, il giorno dopo la presunta violenza, avrebbe fatto alla 22enne la quale, come lei stessa ha dichiarato, non avrebbe risposto per paura.

[...] la sim [...] non è stata toccata perché è intestata allo studio legale associato tra i cui avvocati c’è anche un parlamentare, cioè il padre, Ignazio La Russa, presidente del Senato. Se dovesse essere necessario acquisire sim o tabulati telefonici, la Procura chiederà l’autorizzazione al Senato prevista dall'articolo 68 della Costituzione. [...]

Estratto dell’articolo di Andrea Siravo per “La Stampa” sabato 15 luglio 2023. 

[...] Sono serviti giorni di studio per venire a capo del nodo giuridico attorno al numero di telefono associato allo smartphone che risulta intestato allo studio legale del padre. Alla fine in procura è stato valutato troppo lungo e dispendioso l'iter della richiesta alla giunta delle autorizzazioni del Senato per avere anche la scheda.

Ieri, all'ora di pranzo, sotto lo studio a due passi da Palazzo di Giustizia, Ignazio La Russa[…]  è stato di poche parole: «Sono sereno. Della vicenda del telefono se ne occupa l'avvocato Adriano Bazzoni. Chiedete a lui. Mi va dato atto che su questa cosa non ho più detto una parola». 

 A rompere, invece, un silenzio che si prolungava da giorni è stato il suo staff con una lunga nota. «Non risulta più tollerabile la condotta di chi si sostituisce ai pm con pretese di indagine e richieste istruttorie». Tuttavia, per «tutelare l'onorabilità» della sua famiglia dalla «speculazione politica» – pur confermando di avere «piena fiducia nell'operato dei Magistrati della Procura di Milano» – la seconda carica dello Stato «si è vista costretta» a incaricare un altro legale, l'avvocato Vinicio Nardo […] per raccogliere «tutti gli elementi che da giorni esulano dal normale esercizio del diritto di cronaca e di critica». 

Un attacco al mondo dell'informazione tacciato di aver ripetutamente pubblicato «le foto di un altro figlio del Presidente, col nome del fratello, nonché ricostruzioni artefatte a fini suggestivi della vita giovanile dei fratelli La Russa e dello stesso Leonardo (definito' "trapper'' per avere messo in rete solo nell'anno 2019, due canzoni col testo non suo, mentre è ormai al terzo anno di università)». Ma anche i talk show che hanno ospitato «esponenti privi di ogni conoscenza dei fatti ma forti delle loro convinzioni ideologiche […]». C'è poi «l'operato delle associazioni di sinistra che affiggono manifesti e preannunciano flash-mob politici e diffamatori». Un riferimento ai poster incollati la scorsa notte in giro per Milano […]

Estratto dell’articolo di Davide Milosa e Valeria Pacelli per “il Fatto quotidiano” sabato 15 luglio 2023.

[…] Ieri, prima che Il Fatto desse la notizia […], fonti della Procura confermavano di volere arrivare in modo rapido alla chiusura del cerchio. Non rispetto all’indagine, ma alla possibilità di sequestrare il telefono. Ipotizzando anche una richiesta alla Giunta per l’autorizzazione a procedere del Senato, come stabilito dalla carta costituzionale. Ora il sequestro c’è stato.

[…] Secondo alcuni giuristi l’articolo 68 della Costituzione non poteva essere applicato al caso specifico, per un motivo: la consapevolezza che quel telefonino […] era in un uso al figlio e non al politico. E dunque il sequestro sarebbe possibile. Anche perchè altrimenti si potrebbe pensare che se un parlamentare decidesse di acquistare dieci schede sim e distribuirle a suo piacere ci si ritroverebbe di fronte a un’immunità diffusa. 

[…] Detto questo, i punti sul caso, anche dopo il sequestro sono vari. […] A partire, ad esempio, dalla scorta del presidente, presente nella notte tra il 18 e il 19 maggio davanti alla sua casa, dove vive Leonardo Apache. In quella serata in un club di via Merlo a Milano va in scena una serata. La presunta vittima […] incontra il figlio del presidente del Senato. Così dice nella querela, confermata anche davanti ai pm e alla Squadra mobile. 

Qui, spiega, lui le offre un drink. Dopodiché nulla ricorda. Se non, per quello che le direbbe il ragazzo, di essere rientrata alle 6 del 19 in casa La Russa. Si legge nella denuncia nella parte in cui la ragazza riferisce le parole del ragazzo: “Siamo venuti qui dopo la discoteca, con la mia macchina, mi confermò che sia lui e sia il suo amico avevano avuto un rapporto con me a mia insaputa”. 

Per questo, allo stato, sarebbe molto utile interrogare la scorta del presidente. E per due motivi: il primo, capire se la ragazza fosse realmente in stato confusionale […], il secondo per capire se realmente La Russa jr in auto con lei e un amico è rientrato alle 6 […]. L’amico resta poi forse la pistola fumante. Proprio lui, tale Nico - che secondo la querela avrebbe abusato della 22enne - al momento non risulta ancora identificato. Un dato rilevante perché se lo fosse potrebbe essere indagato, anche a sua tutela, modificando il reato in violenza di gruppo.

Estratto dell’articolo di Pier Luigi Pisa per repubblica.it sabato 15 luglio 2023.

Cosa è possibile scoprire in un telefono se manca la Sim? È quello che tutti si domandando dopo il sequestro - da parte della procura di Milano - del cellulare di Leonardo La Russa. 

Nell'era degli smartphone, il ruolo delle Sim è ampiamente sopravvalutato. Quella piccola scheda a cui è associato il nostro numero di telefono, […] che presto scomparirà in favore delle eSim, le schede virtuali, consente a un telefono di usare la rete cellulare per effettuare chiamate e inviare Sms. E dispone di una piccola memoria su cui salvare altri numeri di telefono. 

In passato, […] si usava in effetti memorizzare i propri contatti sulla Sim, che faceva anche da "rubrica". Quando cambiavamo telefono, bastava semplicemente passare la Sim dal vecchio al nuovo. I numeri, in fondo, erano tutto ciò di cui avevamo bisogno.

Oggi, invece, è più facile che la nostra rubrica telefonica si trovi sul dispositivo che usiamo. Perché è qui che i nuovi numeri vengono memorizzati di default […] . Col passare degli anni, infatti, le persone hanno iniziato a trasferire da un telefono all'altro non solo i loro numeri, ma anche fotografie, video, indirizzi e-mail e cronologia delle chat di app di messaggistica istantanea come WhatsApp. La rubrica telefonica, insomma, è diventata semplicemente una parte dell'archivio digitale che ci accompagna da un dispositivo all'altro. Lo smartphone, insomma, sa tutto di noi, Sim o non Sim.

[...] Sia WhatsApp sia Telegram continuano a funzionare[...]. […] La Sim […] è cruciale infatti solo in fase di registrazione al servizio. In seguito non è più richiesta. Se venisse a mancare, sarebbe comunque possibile accedere alle proprie conversazioni, comprese quelle passate. E si potrebbe effettuare qualsiasi operazione: dalla ricerca di messaggi - usando una parola chiave - a quella di contenuti multimediali come foto e video. 

Anche le app più popolari, come Instagram, Facebook, TikTok e Twitter resterebbero accessibili nel caso in cui una Sim venisse estratta dal telefono. In questo caso sarebbe sufficiente connettersi a una rete wi-fi. […] 

Senza Sim inoltre, se si usa un telefono Android, si potrebbe comunque utilizzare Google Maps per rivedere tutti gli spostamenti che abbiamo fatto in passato. Questa particolare funzione, attiva quando si abilita la cronologia delle posizioni nelle impostazioni, permette di fare un salto indietro nel tempo e di ricordare quali luoghi abbiamo visitato in un determinato giorno. […]

Estratto dell’articolo di Daniele Alberti per repubblica.it sabato 15 luglio 2023. 

Dopo l'affissione dei manifesti vicino ai locali notturni di corso Como, accanto allo studio legale di Porta Romana del presidente del Senato, Ignazio La Russa con la scritta "El violador eres tu", il movimento si dà appuntamento alle 18.30 in piazza 25 aprile per un presidio e un flash mob con la parole d'ordine: "Puntiamo il dito contro i violadores!".

Estratto dell’articolo di Giovanni Sallusti per “Libero quotidiano” sabato 15 luglio 2023. 

Cronaca di una giornata surreale, che ha avuto perlomeno il merito di chiarire dove si aggirino oggi istinti autoritari. Ieri mattina Milano si è svegliata con qualche poster in più, affisso dalle attiviste di Non una di Meno […]. 

I manifesti sono comparsi sotto lo studio legale dei La Russa in Porta Romana, vicino ai locali notturni di corso Como e anche all’Apophis club invia Merlo, dove Leonardo Apache e la ragazza che lo ha denunciato per stupro si sono incontrati. In primo piano ci sono il volto di Leonardo e quello del padre Ignazio, entrambi coperti da scritte incollate in stile anni ’70 […] 

La più evidente recita: «El violador eres tu», lo stupratore sei tu. Non si capisce subito se la sentenza teppista si rivolga al ragazzo o per ipotetica catena della colpa anche al padre, quel che si capisce è che le signore non sono esattamente ispirate dai principi garantisti di Cesare Beccaria. 

Infatti il post con cui poi rivendicano l’eroica azione esordisce così: «Sì tu, La Russa junior, che hai stuprato una ragazza.  Fare sesso con una persona che non è presente a se stessa, che non è in grado di parlare, è stupro». 

Evidentemente, quella sera […] nella camera in questione […] c’era anche un’esponente di Non una di Meno: non si spiegano altrimenti le certezze in […] la cui acquisizione in teoria è il motivo per cui si tiene quel noioso dettaglio chiamato processo.

Ma non salta soltanto la presunzione d’innocenza, bensì la stessa responsabilità individuale: «Sì tu La Russa padre, perché violador è un presidente del Senato che colpevolizza una ragazza stuprata». Conta nulla che lui, in quello che è stato indubbiamente un eccesso istituzionalmente sgrammaticato di impeto paterno, abbia comunque detto il contrario: «Non accuso la ragazza, credo a mio figlio».

Quello che conta è il teorema, e il teorema fila alla perfezione: politico di destra usa «il suo potere istituzionale e di maschio bianco, etero, ricco» per proteggere «uno dei nostri bianchissimi giovani» (giuro, nel comunicato successivo queste talebane usano il superlativo cromatico per sottolineare una delle colpe principali dei protagonisti, la pigmentazione ideologicamente sbagliata). 

Ma il veleno squadrista (perché di questo si tratta) sta in coda al post. «Vogliamo cacciare La Russa da ogni incarico pubblico». L’avversario non esiste, esiste un nemico che non può fare politica in nessun modo, non può ricoprire alcun ruolo né dare rappresentanza alle proprie idee.

È già fortunato, Ignazio, che non propongano di spedirlo in Siberia. «Vogliamo chiusi i locali della famiglia e lo studio legale». Il nemico non può nemmeno esercitare la propria libertà economica, non può lavorare né guadagnare, come l’ebreo sotto il Reich o il kulako sotto il Soviet. 

«Vogliamo requisiti i loro soldi e devoluti ai centri anti -violenza». Qui siamo all’esproprio puro (non più proletario, ma femminista-chic), […], in un’allucinata caricatura matriarcale del totalitarismo. La stessa che è andata in scena ieri sera in piazza XXV aprile  […] al «presidio contro il sistema di potere economico e patriarcale» incarnato dai La Russa, dove le Erinni dell’ultra-femminismo hanno ripetuto tutte le follie di cui sopra, Non una di Meno. 

Il “dress code” di convocazione  […] consigliava «bende nere» da mettere sugli occhi. Forse un lapsus freudiano, l’ammissione involontaria che no, il fascismo in questa storia non sta a casa La Russa.

Leonardo La Russa insultato da Repubblica: "Paffuto, impacciato. E quel fisico..." Ignazio Stagno su Libero Quotidiano il 15 luglio 2023

“Chi sa cos’è il body shaming alzi la mano”. Così Repubblica ci spiegava la derisione dell’aspetto fisico altrui a giugno del 2020. Sono passati fiumi di inchiostro da parte del quotidiano progressista in tutti questi anni che hanno (giustamente) sottolineato l’importanza di mettere un freno al body shaming capace di provocare ansia e stress nelle vittime, come ha rivelato uno studio canadese. 

Ma a quanto pare la regola non vale se di mezzo c’è il figlio di Ignazio La Russa, Leonardo Apache. Paolo Berizzi, su Repubblica, lo presenta così: «La storia di “Larus”, come si fa chiamare Leonardo Apache da quando ha iniziato a rappare, è quella di un adolescente paffuto e un po’ impacciato; non uno con il fisico del ruolo, diciamo». Commenti e opinioni sull’aspetto fisico di questo 19enne, finito sui giornali per una accusa di stupro, che sconfessano tutte le battaglie di Repubblica contro il body shaming. Ma su questo filone dell’insulto che vale solo se nel mirino c’è qualcuno di destra o figlio di un esponente conservatore, bisogna anche registrare le parole di Natalia Aspesi che ha così parlato del presidente del Senato mentre si indignava per le parole di Ignazio La Russa sulla presunta vittima dello stupro del figlio: «Signora Meloni c’era davvero bisogno che mettesse sulla poltrona della seconda carica dello Stato un uomo con una voce da far paura e con pochi capelli sempre unti e spettinati», spiega la penna di Repubblica. Ma non chiamatelo body shaming.

E l’insulto, il dileggio sul fisico dell’avversario politico è abbastanza frequentato dalle parti progressiste. Basti pensare alle parole usate per attaccare l’ex ministro (oggi presidente del Cnel) Renato Brunetta: “Energumeno tascabile” per Massimo D’Alema, “mini-ministro” per Furio Colombo, “una seggiola” per Dario Fo, “sua altezza” per Marco Travaglio. E che dire poi degli attacchi reiterati al Cavaliere. Bersaglio preferito soprattutto da Beppe Grillo che lo definì uno “psiconano”. E Giuliano Ferrara? Sempre da Grillo venne etichettato come un «container di merda liquida». E ora gli eredi di Beppe, con la pochette, stringono accordi con la sinistra che si è sempre intestata il rispetto verso l’avversario e quel bon ton delle parole che resta solo teoria sugli scaffali. Inutile poi ricordare quante volte sia stata offesa e insultata Giorgia Meloni per la sua voce: «Urla come una pescivendola», disse Mr.

Alan Friedman. Ma negli anni passati a finire nel mirino dei maestrini di sinistra fu anche Mara Carfagna, insultata (un paradosso) per la sua bellezza. L’attore Neri Marcorè, a Ballarò scivolò su una pietosa gaffe: «Meno male che c’è la Carfagna, che qualcosa ci tira su». E lei diede una lezione a tutti, presente in studio chiese e ottenne le scuse dell’attore e anche del conduttore Giovanni Floris. Insomma chi dà lezioni su come bandire il body shaming alla fine è il primo a sferrare colpi bassi. Chissà seRepubblicaporgerà mai le sue scuse al giovane La Russa. Staremo a vedere. Intanto magari torna utile ricordare quanto spiegava proprio il quotidiano diretto da Maurizio Molinari qualche tempo fa: «Depressione, disturbi dell’alimentazione e autolesionismo possono colpire chi è ferito nella propria immagine, ma lo stress che ne deriva può portare a un incremento cronico della produzione di cortisolo, l’ormone dello stress, con conseguente aumento del rischio di disturbi cardiovascolari e metabolici». Memoria corta? O forse quando l'obiettivo è ghiotto le valvole dell'odio si aprono senza freni? Il dubbio resta. 

Estratto dell'articolo di Marco Travaglio per “il Fatto quotidiano” domenica 16 luglio 2023.

Un minuscolo rettangolino di plastica rischia di incenerire il pochissimo che resta di uno dei rarissimi pregi della destra postfascista: quello che i fessi chiamano “giustizialismo” e che invece è (anzi era) solo legalitarismo. Quello che portò il giovane Borsellino a iscriversi al Fronte della Gioventù e a frequentarne le feste fino al 1990. 

Quello che nel 1992 portò il Msi dalla parte del pool Mani Pulite e contro l'immunità parlamentare (abolita nel '93 a furor di popolo su pressione soprattutto di Lega e Msi). Quello che, dopo troppi compromessi, tornò in mente a Fini nel 2010, quando ruppe con B. sulla lotta alla mafia e all'impunità. 

Il rettangolino di plastica è la scheda sim dello smartphone consegnato l’altroieri da Leonardo Apache La Russa ai pm milanesi […]. La sim è intestata alla società che controlla lo studio legale La Russa, […] di cui il presidente del Senato è azionista.

Con un’interpretazione molto generosa dell'articolo 68 della Costituzione, la Procura ha ritenuto che la sim […] non potesse essere sequestrata senza il permesso del Senato, anche se la usava solo Leonardo. 

E anche se l'immunità rimasta […] copre solo i parlamentari e solo per intercettazioni, misure cautelari e processi per opinioni e voti espressi nell’esercizio delle funzioni: non gli oggetti a essi riferibili in uso ad altri. Altrimenti che si fa se un eletto compra un’auto e la presta a qualcuno che investe un passante e lo ammazza o fa una rapina in banca? 

[...] Ma ora, se scopriranno che sullo smartphone manca qualcosa di utile all’indagine che può essere memorizzato solo sulla sim, chiederanno al Senato l'autorizzazione a sequestrarla. E ad acquisire chat su (o con) Ignazio e tabulati telefonici.

Quindi è possibile che il Senato, trasformato in Fort Apache e presieduto dal padre dell'indagato, debba presto votare su una o più richieste dei pm che indagano sul figlio. Con lunga scia di imbarazzi per Meloni e FdI, ma anche per Lega e FI. Sarà dura intonare il coretto della persecuzione giudiziaria, trattandosi di verificare la denuncia di una ragazza che sostiene di essere stata stuprata. 

Non da un parlamentare sacro e inviolabile, ma da un cittadino comune. Che farà a quel punto il partito che fino all’altroieri, per bocca di Meloni, Santanchè e pure La Russa, invocava per gli stupratori 40 anni di galera e la castrazione chimica? Riusciranno i nostri eroi a mettersi nei guai da soli un'altra volta, o già oggi La Russa padre e figlio correranno in Procura per cacciare la sim?

Estratto dell’articolo di Maddalena Loy per “la Verità” il 17 luglio 2023.

Cocaina e cannabis, ma anche antidepressivi (Fluoxetina), calmanti (Quetiapina), sonniferi (Stilnox) e benzodiazepine (Xanax): sono questi gli psicofarmaci assunti dalla ragazza che ha accusato Leonardo La Russa di violenza sessuale. Caso isolato? Affatto: gli ultimi dati disponibili sul consumo di psicofarmaci tra i ragazzi sono sempre più allarmanti.

Nell’ultimo anno quasi 300.000 adolescenti ne hanno fatto uso senza prescrizione medica. Secondo uno studio del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr), il 10,8% della popolazione tra i 15 e i 19 anni, un giovane su dieci, ricorre a psicofarmaci per «uso ricreativo». 

Non sono, dunque, medicine prescritte dal medico per curare patologie specifiche o disturbi emotivi, ma «psicofarmaci dello sballo» dedicati ai momenti di evasione e spesso consumati insieme con alcool o cannabis per amplificarne gli effetti. I giovani li consumano anche per aumentare le performance scolastiche e la soglia di attenzione, migliorare l’aspetto fisico e l’autostima, sentirsi in forma e ottimizzare sonno e umore.

[…] È quasi raddoppiato anche il numero di adolescenti che ne fanno un uso abituale: dall’1,1% del 2021 all’1,9% dello scorso anno. Una vera dipendenza, associata anche ad altre sostanze psicoattive (tabacco, energy drink, benzodiazepine e sostanze stupefacenti) che favoriscono lo sviluppo di comportamenti pericolosi. La tipologia di psicofarmaci senza prescrizione medica maggiormente utilizzata è quella dei farmaci per dormire (5%), seguita da quelli per l’umore e le diete (1,7%) e dalle medicine per l’aumento dell’attenzione (1,2%). Ma dove e come si riforniscono i ragazzi?

Secondo lo studio, il 42% di loro dichiara di rifornirsi dall’armadietto dei medicinali di casa. Un problema tutto italiano, poiché in molti Paesi europei i medicinali sono venduti esattamente secondo ricetta medica: su prescrizione di 10 compresse, il farmacista vende blister da 10. In Italia, invece, anche se il medico prescrive 10 compresse, le farmacie vendono di default scatole da 20 o 40 compresse. Risultato, le confezioni spesso restano nell’armadietto quasi piene, fino a scadenza.

Il 28% dei giovani le cerca anche su Internet: i ragazzi comprano online psicofarmaci e sciroppi a base di codeina o antistaminici e li mischiano con bevande energetiche come la taurina per preparare «cocktail da sballo» come il purple syrup. Il 22%, infine, li trova «per strada», dove si è sviluppato una sorta di mercato nero che sfugge al controllo di adulti e medici.

Una conferma alle dinamiche di approvvigionamento degli psicofarmaci da parte degli adolescenti era già emersa nel corso del processo per lo stupro di Capodanno 2020 a Roma, nel quartiere di Primavalle. Nelle chat diffuse in aula, una delle ragazzine, prima di recarsi alla festa, comunicava alle amiche di non trovare il Rivotril (farmaco benzodiazepinico). 

L’amica quattordicenne la rassicurava: «Le pasticche di Xanax e Rivotril ve le regalo, tanto è Capodanno. Le ho portate da casa, senza dire altro».  […]

(ANSA il 18 luglio 2023) – E' stato identificato ieri sera da investigatori e inquirenti l'amico di Leonardo Apache La Russa, anche dj della serata del 18 maggio scorso, che sarebbe stato in casa La Russa la mattina successiva in cui la 22enne, come ha denunciato, avrebbe subito abusi dal figlio del presidente del Senato Ignazio e anche dall'altro giovane, sempre stando alla sua denuncia.

Stando a quanto anticipato da 'La Verità', si tratta di un ragazzo di 24 anni. Fonti giudiziarie hanno confermato che ieri sera si è arrivati alla nuova identificazione. A quanto si è saputo, il giovane potrebbe essere presto iscritto nel registro degli indagati. 

La 22enne nella denuncia ha scritto di avere "ricordi della notte vaghi in quanto drogata. L'unico dato certo che posso riferire - ha messo nero su bianco - è che Leonardo mi ha dato un drink, mi ha portato a casa sua, senza che io fossi nelle condizioni tali da poter scegliere" e poi "ha ammesso di aver avuto rapporti sessuali, lui e l'amico, sempre a mia insaputa". 

Nell'anticipazione de 'La Verità' di oggi è stato anche indicato il nome del dj. Da fonti giudiziarie sono arrivate conferme sul punto, anche se allo stato non risulta indagato. La ragazza aveva fatto riferimento a tale "Nico" e anche per questo negli ultimi giorni investigatori e inquirenti hanno avuto problemi ad identificare l'altro giovane che avrebbe passato La notte, dopo La serata in discoteca, nella casa della famiglia La Russa.

Nelle scorse ore, nelle indagini condotte dalla Squadra mobile e coordinate dall'aggiunto Letizia Mannella e dal pm Rosaria Stagnaro, si è arrivati alla precisa identificazione. Anche grazie ad una serie di elementi raccolti nell'inchiesta, tra cui le testimonianze che proseguono da giorni, anche in relazione a quella serata nel locale esclusivo nel cuore di Milano, La discoteca Apophis. 

Da quanto si è appreso, è probabile che gli inquirenti, anche a garanzia per gli accertamenti, nelle prossime ore iscrivano il giovane nel registro degli indagati. Da valutare se contestare anche a lui l'accusa di violenza sessuale o a entrambi quella di violenza sessuale di gruppo, perché le indagini dovranno chiarire, oltre che si ci siano stati o meno gli abusi nei confronti della ragazza in stato di incoscienza, come lei ha sostenuto, anche se siano avvenuti nel caso in fasi diverse.

Estratto dell’articolo di Fabio Amendolara per “La Verità” il 18 luglio 2023. 

Continua la caccia al «secondo uomo» che ha dormito a casa di Leonardo Apache La Russa e che avrebbe abusato insieme con il figlio del presidente del Senato della ventiduenne conosciuta quella notte. Nei giorni scorsi la seconda carica della Stato aveva spiegato che nell’appartamento «erano ospiti altri due amici» di suo figlio e che il contesto era sereno, trattandosi di «italiani che studiano e lavorano a Londra».

Quanto al ragazzo presente in casa aveva sottolineato che «dormiva in un altro piano» e che «era uno dei due ospiti» che studiano con suo figlio, mentre l’altro non c’era e «non ne sa niente». La presunta vittima, a proposito del secondo ipotetico stupratore, ha riferito che Leonardo gli aveva detto che si chiamava «Nico». […] In realtà dj Nico non esisterebbe. In casa La Russa c’era, invece, uno dei tre dj che hanno animato la serata che si è svolta tra il 18 e il 19 maggio all’ Apophis club di Milano. Verranno presto convocati dagli inquirenti. 

Uno di loro, però, probabilmente si dovrà presentare accompagnato da un legale. Per la serata al quale era stato dato come titolo «Eclipse», eclissi,in consolle c’erano Tommy Gilardoni, Luca Valenti e Roy Ventura, alias di Andrea Picerno.

Quest’ultimo, classe 1996, si presenta come un «giovane dj italiano di base a Firenze». Sui social si mostra con capelli lunghi, foto davanti alle boutique del lusso e con una Vespa rossa vintage. Orologi classici al polso e pantaloni sorretti dalle bretelle. 

Alla consolle, però, è sempre in t-shirt. Valenti, nato nel 2000, milanese, è un giovane bocconiano, anche se, a dispetto dell’età, vanta una lunga esperienza ai piatti: sul suo sito Web afferma di aver cominciato a smanettare con i dischi «all’età di dieci anni».

«Le mie chiavette», sostiene, avrebbero animato «molti dei più esclusivi eventi milanesi, italiani ed esteri» da Zurigo a Saint Moritz, da Forte dei Marmi, alla Costa Smeralda.

Il terzo uomo è Tommy Gilardoni da Como, classe 1999. È l’unico che su Internet risulta lavorare a Londra, in particolare all’Omeara club. È quello su cui si trovano meno notizie, ma, a quanto ci risulta, sarebbe proprio lui l’uomo che ha dormito insieme con La Russa jr e la presunta vittima. 

Ieri abbiamo provato a contattarlo ripetutamente e gli abbiamo chiesto di confermarci o negarci la sua presenza nell’abitazione del presidente del Senato a metà maggio, ma il giovane, dopo aver sentito che eravamo giornalisti ha sempre rifiutato la chiamata. 

Ieri abbiamo contattato anche Picerno, il quale, al contrario del collega, ci ha rinviato al suo avvocato. E la conversazione con il legale, Tommaso Signorini, è risultata molto interessante. Ecco che cosa ha detto alla Verità. Il suo cliente era a casa di La Russa? «No» è stata la prima risposta. Abbiamo insistito: quindi era Tommasoni? «È uno di quelli che erano a Londra» ha tagliato corto l’avvocato.

Ma perché Picerno ha un difensore? «Lo sono per altre cose e mi ha chiesto di gestire questa situazione perché l’hanno subissato di chiamate per questa cosa, perché era uno dei dj della serata. Ma lui di questa storia sa poco e la ragazza non la conosceva...

ha, invece, conosciuto La Russa». 

Quella sera o precedentemente? «Credo quella sera, perché è stato ingaggiato per questa festa che ha organizzato La Russa, credo...». 

Che cos’altro sa? «Per esempio che a Picerno avevano offerto di andare a dormire da La Russa, ma che lui non c’è andato, perché era da un altro suo amico... quindi ha fatto bene, però, forse, per la ragazza è stato un male... se ci fosse stato lui, conoscendo il ragazzo, non sarebbe successo quello che è successo... perché Picerno è molto serio. Fa il dj, ma ha anche una società, una partita Iva, credo come geometra, è una persona per bene».

Picerno ci può aiutare ad avere informazioni sul «secondo uomo»? «Penso che lui non voglia dare dettagli di questa cosa, perché dice che questo di Londra lo conosce...». Adesso il giovane dj d’Oltremanica rischia di essere iscritto sul registro degli indagati per violenza sessuale. Occorrerà vedere se singola o di gruppo.  [….]

Leonardo La Russa e l'inchiesta per violenza sessuale: indagato anche l'amico dj Tommy Gilardoni. Giuseppe Guastella su Il Corriere della Sera il 18 luglio 2023. 

Il ragazzo, 24 anni, avrebbe dormito a casa di La Russa jr e consumato un rapporto con la giovane 22enne che poi ha denunciato solo il figlio del presidente del Senato. Ma la presunta vittima non ha ricordi del dj 

C’è un secondo indagato nell’inchiesta della Procura di Milano partita dopo che una 22enne ha denunciato di essere stata violentata da Leonardo La Russa, figlio del presidente del Senato Ignazio La Russa. Si tratta di Tommy Gilardoni, 24 anni, identificato come il dj che avrebbe dormito in casa La Russa la notte tra il 18 e il 19 maggio scorsi e che, secondo la ricostruzione fatta dalla ragazza in base a quanto le ha riferito Leonardo, avrebbe avuto un rapporto sessuale con lei a sua insaputa perché stordita e non presente a sé stessa.  

L’iscrizione nel registro degli indagati è per l’ipotesi di reato di violenza sessuale, segue quella del 21enne Leonardo La Russa e, come la precedente, è stata fatta a garanzia del giovane dal pm Rosaria Stagnaro e dall’aggiunto Letizia Mannella per poter eseguire una serie di accertamenti. Come l’esame dei cellulari sequestrati durante le indagini da fare alla presenza dei difensori e dei tecnici nominati dalle persone indagate. L’obiettivo è di stabilire cosa sia accaduto nel club-discoteca Apophis a qualche centinaio di metri dal Duomo dove la 22enne e La Russa si sono incontrati, quali fossero le condizioni della giovane quando è uscita dal locale e chi si trovava nell’appartamento della famiglia La Russa dopo la serata.  

I pm hanno deciso di circoscrivere l’ipotesi alla violenza sessuale senza aggravare il reato in quello di violenza sessuale di gruppo perché al momento questa vicenda non è ancora definita nei suoi contorni. Quando la ragazza ha presentato la querela con il suo legale, l’avvocato Stefano Benvenuto, ha riferito la ricostruzione dei fatti alla quale era arrivata grazie ai  ricordi dell’amica che l’aveva accompagnata all’Apophis e che poi l’ha lasciata alle 3 di mattina in stato confusionale. È arrivata così alla conclusione di essere stata drogata. L’amica le ha anche detto che era caduta in uno stato confusionale subito dopo che aveva bevuto un drink che le aveva offerto Leonardo La Russa. 

La vittima ha anche dichiarato  che la mattina successiva, quando si è svegliata nel letto con a fianco il 21enne senza ricordare nulla di quello che era accaduto, il ragazzo stesso le aveva confidato che avevano avuto un rapporto sessuale sotto l’effetto di stupefacenti e che la stessa cosa era accaduta tra lei e un altro ragazzo: «Mi confermò che sia lui che il suo amico di nome Nico avevano avuto un rapporto con me a mia insaputa. Leonardo mi dichiarò che Nico si era fermato a dormire in un’altra stanza del medesimo appartamento». Lei però non ha mai visto questo «Nico» nell’appartamento a due piani dei La Russa nei pressi di corso Buenos Aires.

Grazie al lavoro di investigazione della Mobile e ai primi testimoni gli inquirenti hanno identificato formalmente «Nico» in Gilardoni, che al momento si troverebbe all’estero. La presenza del giovane e di un altro ragazzo in casa il 19 maggio è stata confermata, peraltro, da Ignazio La Russa che la mattina del 19 maggio aveva anche visto il figlio e la ragazza in camera da letto  intorno alle 11.30. 

  IGNAZIO E LEONARDO APACHE LA RUSSA il 19 luglio 2023.

A Milano non si sparla d’altro. L’accusa di stupro al figlio della seconda carica dello Stato ha sconvolto i salotti del danè sotto la Madunina. Le voci, i commenti, le maldicenze si rincorrono e alimentano il tam-tam su una brutta storia i cui contorni sono ancora da definire.  

Si vocifera che, all’indomani della notte violenta in casa La Russa, la 22enne fanciulla si sia sottoposta a una visita medica, la quale avrebbe rilevato graffi sulle gambe ed ecchimosi su altre parti del corpo. Ma soprattutto sarebbero state rilevati su di lei tracce biologiche appartenenti a due persone.  

Dopodiché, il padre ha impiegato 40 giorni per convincere la figlia, che non ne voleva sapere di finire sbattuta sui giornali, a sporgere denuncia contro La Russa Jr. 

“Oggi - come scrive l’Ansa - è stato iscritto per violenza sessuale anche il dj 24enne Tommy Gilardoni, amico del figlio dell'esponente di Fratelli d'Italia. Anche lui sarebbe rientrato a casa La Russa quel mattino del 19 maggio, dopo aver suonato, tra l'altro, nel corso della serata in discoteca, in cui si alternavano tre dj”. 

Un nome, quello di Gilardoni, che lavora in un club di Londra e che anche al momento si troverebbe all'estero, a cui i pm sono arrivati grazie alle analisi dei telefoni, dal momento che Leonardo Apache, come indagato, si è avvalso della facoltà di non rispondere alla domanda degli inquirenti di rivelare il nome dell’amico che era con lui la notte tra il 18 e il 19 maggio.  

“Gli inquirenti - si legge sempre sull’Ansa - hanno deciso di contestare anche a Gilardoni l'accusa di violenza sessuale e di non optare per un'imputazione di abusi di gruppo a carico suo e di Leonardo Apache, anche perché le indagini dovranno appurare non solo se la ragazza sia stata violentata in stato di incoscienza, come lei ha raccontato, ma anche se quelle violenze siano avvenute in fasi diverse”.

“La 22enne - prosegue l’Ansa - nella denuncia arrivata il 3 luglio sul tavolo dell'aggiunto Letizia Mannella e del pm Rosaria Stagnaro, ha scritto di avere "ricordi della notte vaghi" perché "drogata".  

L'unico "dato certo", ha messo nero su bianco, "è che Leonardo mi ha dato un drink, mi ha portato a casa sua, senza che io fossi nelle condizioni tali da poter scegliere" e, quando lei si è svegliata, lui "ha ammesso di aver avuto rapporti sessuali, lui e l'amico, sempre a mia insaputa". 

Gli investigatori hanno raccolto altri elementi utili all'inchiesta, tra cui l'analisi di alcuni contatti telefonici e le testimonianze di ragazzi che erano presenti alla festa del 18 maggio all'Apophis. 

Il locale, che è un club a ingressi molto selezionati, sarebbe il punto di ritrovo della gioventù danarosa di quella che fu la Milano-bene. Infatti si insinua che nel giro dei clienti del club ci siano anche figli e nipoti di personaggi molto noti nel mondo dell’imprenditoria…

Estratto dell’articolo di Luigi Guastella per corriere.it il 19 luglio 2023.   

La vittima ha anche dichiarato che (...) non ha mai visto questo «Nico» nell’appartamento a due piani dei La Russa nei pressi di corso Buenos Aires. 

Grazie al lavoro di investigazione della Mobile e ai primi testimoni gli inquirenti hanno identificato formalmente «Nico» in Gilardoni, che al momento si troverebbe all’estero. La presenza del giovane e di un altro ragazzo in casa il 19 maggio è stata confermata, peraltro, da Ignazio La Russa che la mattina del 19 maggio aveva anche visto il figlio e la ragazza in camera da letto  intorno alle 11.30.

Estratto dell'articolo di Giacomo Amadori per la Verità il 19 luglio 2023.  

(…) Per la Cassazione un abuso commesso da due persone è violenza di gruppo, ma non vi è certezza che, in quel frangente, gli eventuali rapporti sessuali non siano avvenuti separatamente. Infatti in questo caso non è semplice ricostruire la dinamica dei fatti, anche perché la ragazza ha confermato davanti agli inquirenti di non ricordare nulla della notte incriminata. 

Gilardoni al momento si trova a Londra, dove vive e lavora. E allora noi abbiamo contattato il padre Massimo. Il quale, come già Beppe Grillo e Ignazio La Russa, ha difeso con convinzione il figlio, lasciandosi andare a giudizi anche discutibili sulla ragazza. Ma se le sue parole non sono condivisibili, sono certamente dettate dallo stato d’animo di un genitore che si vede crollare il mondo addosso. 

Gilardoni senior, 58 anni, ha gestito per anni un vivaio a San Fedele Intelvi (Como) e anche adesso continua a lavorare. Quando lo raggiungiamo sul telefonino sta guidando il suo furgone. 

Buonasera signor Gilardoni, Tommaso è suo figlio?

«Sì è mio figlio…».

Vorrei sapere qualcosa in più su di lui… perché dovrebbe essere il dj che ha animato la festa a cui ha partecipato Leonardo La Russa…

«Non so niente… non sono al corrente…». 

Ma suo figlio vive a Londra, giusto?

«Sì, mio figlio sta a Londra». 

Lui era il dj dell’Apophis club di Milano la sera del 18 maggio… «Aaaaah, non lo so…». Ma non lo vede suo figlio?

«No, perché sta a Londra, come faccio a vederlo, io vivo in provincia di Como?». 

Ma quando è venuto in Italia a maggio non vi siete incontrati? Non le ha detto che aveva dormito a casa di Ignazio La Russa?

«Non le so rispondere, dico la verità… e poi al telefono, io non la conosco neanche, al cellulare mi potrebbe chiamare chiunque… ha tutte le ragioni di questo mondo, ma mi dispiace… al telefono mi chiamano 50 persone al giorno tra una cosa e l’altra…». 

Allora le faccio una sola domanda: lei ritiene che suo figlio possa avere fatto una cosa come quella di cui è accusato?

«Non so di che cosa lo accusino…».

Violenza sessuale…

«Non penso proprio possa aver fatto una cosa del genere, è un ragazzo con la testa sulle spalle, non penso proprio».

(…) 

Ci sarà una convocazione, un avviso di garanzia, lui adesso è stato appena individuato come partecipante a quella nottata ed è stato iscritto sul registro delle notizie di reato… la ragazza sostiene che Leonardo le avrebbe detto che anche suo figlio avrebbe fatto sesso con lei… non ha seguito la storia?

«Non sono informato dei rapporti sessuali che ha mio figlio. È certamente un piacione, però, non so altro…». 

Da quanti anni è a Londra?

«Sa che non mi ricordo, le dico la verità… forse due…». 

Studia con La Russa jr in Inghilterra?

«Non so i contatti che possa avere con questo ragazzo qua…». 

È iscritto a economia a Londra?

«Studiava economia…». 

Adesso fa solo il dj?

«Il dj e so che ora stanno aprendo delle start-up, cose così…».

Mi sembra di capire che sia un ragazzo in gamba.

«Molto in gamba, con la testa sulle spalle perché noi siamo una famiglia perbene, per questo mi risulta strana questa storia, mi creda…».

Le credo…

«So che mio figlio è sempre circondato da bellissime ragazze, anche io sono uno a cui piacciono le donne, mi sembra strano che lui possa avere fatto una cosa del genere… è un giovane molto preparato, molto avanti, so che non fa uso di sostanze stupefacenti, è un ragazzo cresciuto con i sani principi, perché noi siamo ancora una famiglia con i sani principi. 

Le posso far vedere la lettera che mi ha mandato per il mio compleanno in cui mi ringrazia per il modo in cui l’ho educato, per questo mi sembra strano che lui possa aver fatto una cosa del genere… sa però che al giorno d’oggi le ragazze prima magari fanno sesso e poi si accorgono con chi lo hanno fatto ed è un attimo che vanno a denunciare le persone, però, non lo so…».

È una dichiarazione un po’ forte… comunque la giovane ha raccontato di aver sniffato cocaina…

«Addirittura? Bene… sono contento… aaaaaah, al giorno d’oggi…».

Ha assunto anche psicofarmaci e questa potrebbe essere stata una miscela pericolosa… «Questa poi è andata a casa di La Russa, che non è proprio l’ultimo arrivato, ha fatto sesso e poi si è pentita e lo ha denunciato, può essere andata così».

Dice di essersi svegliata nuda nel letto di Leonardo Apache, di non ricordare nulla se non quello che le ha raccontato il figlio del presidente del Senato… poi lo ha querelato. «Immagino, immagino, va bene…». 

Il suo ragazzo è soprannominato anche Nico?

«No, no». 

(...)

Lei non sapeva che fosse amico di La Russa jr?

«Mi ha nominato questo ragazzo qua che faceva anche lui qualcosa, il dj a Londra…».

Che cosa le ha detto di Leonardo?

«Forse che è andato a dormire da lui una sera ed è finita lì…».

E non le ha raccontato della ragazza?

«No, no, no, mi sembra una cosa strana. Ma di questa storia non ero a conoscenza… mi scusi ma adesso mi stanno venendo un po’ di palpitazioni…».

Estratto dell’articolo di Alessandro Allocca e Sandro De Riccardis per “la Repubblica” giovedì 20 luglio 2023. 

Evocato, immaginato, cercato, confuso con altri. E alla fine identificato come il “secondo uomo” di casa La Russa, la notte in cui Leonardo porta nell’abitazione del padre presidente del Senato la ragazza che lo denuncerà per violenza sessuale. 

Anche Tommaso Gilardoni, uno dei dj della serata all’Apophis di Milano, quel 18 maggio era lì. Da due giorni è entrato formalmente nell’inchiesta della procura di Milano da indagato.

Contro di lui — giova ricordarlo — ci sono al momento le parole della ragazza che ha denunciato Leonardo e che ha raccontato come proprio il giovane La Russa le avesse detto la mattina dopo, quando si era svegliata nuda nel suo letto, che anche un altro amico aveva avuto rapporti con lei. E gli inquirenti, per ora, non lo hanno ancora ascoltato.

Un fantasma a Milano, questo dj Tommy, 24 anni, origini comasche. 

Ma molto più a suo agio nella mondanità internazionale, tra Londra e Parigi, con una rete di contatti […] con quello che un tempo si sarebbe chiamato il “jet set”, oggi forse i “rich kids”. Uno per tutti? L’amico e compagno di avventure in moto Rocco Ritchie, figlio del regista inglese Guy e di Madonna.

Ecco le tracce del dj lombardo nella capitale francese, dove partecipa all’evento di lancio di una nuova collezione di rossetti del brand Isamaya. È il 3 marzo scorso e Tommy è sempre dietro la consolle, sorridente e con la cuffia da dj calata sugli occhi a fianco del creativo Tom Burkitt. 

I due sono amici da tempo: nell’agosto di tre anni fa, l’italiano compare anche sui profili social dell’inglese. Sempre in completo nero, la camicia bianca aperta sul petto e un bicchiere di vino bianco. 

Stesso dress code a Parigi, dove Tommy è il dj dell’evento insieme al collega Wolfram Amadeus, star austriaca dell’elettronica. Gilardoni si accompagna invece alla influencer e modella americana Jordan Grant. Si fanno fotografare in posa, abbracciati.

Se è spesso a Parigi, Gilardoni ha scelto per vivere Londra. Qui sta provando a far diventare la sua passione per la musica un business: il 15 novembre scorso ha costituto una piccola società, domiciliata tra le strade chic del quartiere di Marylebone. 

Una sfida che non gli sta andando male […]. A Londra sembra ben inserito in un circuito che si muove tra arte, musica e mondanità. 

Compare anche tra i testimonial di Onda, una “comunità globale che si riunisce sotto un insieme di valori condivisi, per amplificare il nostro impatto sul mondo, promuovere connessioni significative e contribuire al bene superiore”.

Qualsiasi cosa voglia dire. «Amo Onda per la sua incredibile capacità di farmi sentire a casa ovunque io vada. Questa straordinaria comunità mi mette in contatto con persone affascinanti in luoghi unici in tutto il mondo», racconta il dj sul sito della società fondata dall’imprenditore Luca Del Bono. Un businessman italo-britannico che, afferma un profilo su Vogue Italia, è amico di Re Carlo. 

Ironia della sorte, Tommy partecipa all’ultimo Onda’s summer celebration proprio nei giorni in cui la presunta vittima delle violenze sta decidendo di denunciare Leonardo, avviando così l’indagine che ora vede coinvolto il dj. L’evento è del 28 giugno, sono trascorsi un mese e dieci giorni dalla notte a casa La Russa. 

Lui, intanto, è dietro la consolle, come il 20 maggio al club londinese Omeara, o in pista con gli amici, ospite di feste in locali e club, tra i quali l’esclusivo Annabel’s. Su Instagram scorrono le sue immagini anche con il ben più celebre Rocco Ritchie. […]

Il tutto documentato con una serie di foto e video, datati 26 giugno, in cui Tommy incita in un italianissimo «Dai, dai» il figlio della popstar. 

Sul medesimo profilo, Gilardoni è tra i protagonisti di uno scatto del fotografo Robin Hunter Blake. La sua macchina fotografica aveva già immortalato il dj italiano nell’ottobre 2021 in giacca, cravatta, pochette e occhiali scuri, e poi a bordo di uno yacht nelle acque di Ibiza ad agosto dello scorso anno. Una storia in apparenza dorata che adesso sbatte duramente contro l’indagine della procura di Milano. 

Lo stupro di Bologna.

Estratto dell’articolo di Andreina Baccaro da corriere.it il 7 aprile 2023.

Accerchiata dal branco e abusata, mentre altri coetanei riprendevano tutto con il telefonino. È quanto denunciato da una 15enne bolognese, che il 18 settembre scorso, al Parco Nord durante la Festa dell’Unità, è stata costretta a subire un rapporto sessuale con un adolescente da un gruppo di ragazzini tra cui c’erano anche delle ragazze.

 La vicenda, raccontata dal Resto del Carlino, è stata denunciata ai carabinieri della stazione di Corticella e sarebbe avvenuta nella zona delle giostre del Parco Nord. Per quei fatti, sono stati identificati cinque minorenni, tra cui anche le ragazzine. e un maggiorenne.

In base alle indagini e agli accertamenti svolti dai militari, cui la 15enne si è rivolta, la giovane sarebbe stata avvicinata dai coetanei in maniera amichevole, a tarda sera al Parco Nord, per trascorrere la serata insieme. Poi, in una zona appartata, la situazione sarebbe degenerata e la ragazza sarebbe stata abusata da un adolescente davanti agli altri componenti del gruppo, che hanno ripreso tutto con i telefonini. […]

Lo stupro alla Festa dell'Unità, il branco, i video della violenza: "Facci vedere..." Orrore su una 15enne a Bologna. Lo stupratore, un maggiorenne africano, l'ha violentata mentre il branco lo incitava e riprendeva la scena con il cellulare. Francesca Galici l’8 Aprile 2023 su Il giornale.

Il Pd tace davanti alla notizia dello stupro avvenuto lo scorso settembre durante la festa dell'Unità di Bologna, quando una 15enne è stata stuprata dal branco. Che paradosso per i compagni sapere che, mentre dal palco si riempivano la bocca di belle parole sull'uguaglianza dei diritti e su quelli delle donne, a poca distanza un gruppo di coetanei di origine africana della ragazzina la violentava sessualmente. Elly Schlein non parla, e non lo fa nemmeno Stefano Bonaccini in qualità di governatore della Regione Emilia-Romagna. Tace anche Matteo Lepore, sindaco della città, eppure il caso esiste e non può, e deve, essere insabbiato.

L'orrore durante la Festa dell'Unità: 15enne stuprata dal branco

La notte tra il 17 e il 18 settembre la 15enne italiana ha dovuto subire le peggiori angherie ma solo ora che il gip ha spiccato il divieto di avvicinamento per l'unico maggiorenne coinvolto si è avuta notizia del fatto. Un divieto che per il momento risulta inutile, spiega il quotidiano Libero, dal momento che il ragazzo ha ben pensato di trasferirsi in un altro Paese. Chissà se proprio in conseguenza ai fatti della festa dell'Unità, nella speranza di farla franca. Gli altri personaggi coinvolti, tutti minorenni, sono in Italia. Hanno cognomi stranieri ma sono connazionali di seconda generazione e tra loro compaiono anche delle ragazzine.

A effettuare materialmente la violenza sarebbe stato proprio il maggiorenne, come si evince dai video che venivano girati durante lo stupro, mentre tutti attorno a lui lo incitavano, quasi come fosse una corrida o un gioco. In uno dei due si vede la vittima bullizzata. La ragazzina si è poi rivolta ai carabinieri, raccontando i dettagli di quella serata da incubo, con il terrore di subire ulteriore vergogna in caso di diffusione del video. Stando alla ricostruzione della giovane vittima lontano dalle persone, il gruppo avrebbe iniziato un gioco tipico degli adolescenti.

Una sorta di "gioco della bottiglia" che, però, è degenerato fino al punto che la 15enne è stata costretta a compiere degli atti sessuali con uno dei ragazzi. "Dai, facci vedere se sei capace di... Secondo noi non sai fare...", così parte la "sfida". La vittima viene strattonata per un braccio e costretta a compiere atti sessuali con uno dei partecipanti a quel folle "passatempo", un amico del maggiorenne. Attorno a loro le urla di incitamento che fanno da contraltare a quelle di paura della vittima.

I militari hanno iniziato sin da subito le indagini, coordinate dalla pm Francesca Rago, con l'obiettivo di ricostruire la dinamica esatta degli eventi e per accertare le responsabilità delle varie persone coinvolte. Essendoci coinvolti dei minori è stata coinvolta anche la procura dei minori. Sono tutti accusati di violenza sessuale di gruppo, aggravata dal fatto che la vittima è una minorenne.

Violentata alla Festa dell'Unità di Bologna, FdI accusa il Pd: «Silenzio imbarazzante», la replica: «Bassa propaganda». Mauro Giordano su Il Corriere della Sera l’08 aprile 2023

Il centrodestra: «Elly Schlein dica qualcosa, queste cose vanno denunciate anche se succedono alla festa di partito». La risposta: «La famiglia della 15enne si è rivolta noi e ce ne siamo occupati con riserbo e rispetto »

«Lascia attoniti la notizia di una 15enne stuprata durante la festa dell'Unità di Bologna, mentre si intonavano le note di "bella ciao". Un branco di coetanei della giovane l'ha derisa, vessata e alla fine filmata mentre si consumava la violenza. Ci stringiamo attorno alla ragazza e alla sua famiglia, nel rispetto del loro dolore, ma pretendiamo che si faccia quanto è necessario per far luce e punire i responsabili. Per questo chiediamo che si faccia sentire anche la voce del Partito democratico e del suo segretario Schlein che, in quanto donna, dovrebbe avere maggiore sensibilità sul tema. Gli orrori di tali violenze vanno senza se e senza ma denunciati, da tutti, anche se si verificano in luoghi "sacri" come la festa dell'Unità». Lo dichiara Elisabetta Gardini, vice capogruppo di Fratelli d'Italia alla Camera. «Siamo sconvolti per la notizia che arriva da Bologna» dice a sua volta Alice Buonguerrieri, deputata di Fdi, stigmatizzando come lo stupro sarebbe avvenuto «tra le risate degli amici, che nel frattempo filmavano il tutto. Impossibile restare in silenzio e non manifestare tutta la nostra solidarietà e vicinanza alla ragazza e alla sua famiglia. La richiesta unanime - sottolinea - è che venga fatta immediata chiarezza e che i responsabili, tutti, vengano puniti. Lo stesso dovrebbe fare il Partito democratico e il neosegretario Schlein affinché violenze del genere non accadano mai più», conclude. 

La replica del Pd: «Ce ne siamo occupati con rispetto e riserbo»

Da parte del Pd di Bologna non c'è alcun «silenzio di comodo» sulla violenza subita, dopo il fatto «la famiglia della ragazza si è subito rivolta alla direzione della Festa per chiedere aiuto» e trovare i responsabili. «E questo è ciò che è stato fatto», con un atteggiamento di «doveroso riserbo e rispetto» per la vittima. A precisarlo è lo stesso Pd di Bologna, che replica così alle accuse mosse dal centrodestra sulla vicenda. «Leggiamo non senza stupore e amarezza su alcuni giornali della destra accuse mosse al Pd di Bologna per la terribile notizia della violenza sessuale verificatasi negli spazi dove si tiene la Festa dell'Unità- scrivono i dem sui social- l'accusa che ci viene mossa va dal silenzio di comodo a quello, addirittura, di voler nascondere la cosa, come se peraltro fosse possibile». La federazione vuole dunque «chiarire una cosa. Per noi una violenza sessuale è una violenza sessuale. Ovunque questa avvenga. E non mancheremo mai di denunciare, di esprimere la nostra solidarietà e la vicinanza fattiva a chi ne è vittima, così come la più ferma condanna per chi la commette. Come abbiamo sempre fatto, come facciamo». Il Pd di Bologna ci tiene però a sottolineare che nelle ricostruzioni della vicenda fatte in questi giorni «manca un passaggio: la famiglia della ragazza si è subito rivolta alla direzione della Festa per chiedere aiuto, trovare i ragazzi e consegnarli ai carabinieri, che ringraziamo. E questo è ciò che è stato fatto». Dunque, contrattaccano i dem, «trasformare il doveroso rispetto e riserbo, in questa fase, nei confronti di chi ha subito violenza in un atto di silenzio connivente è vergognoso. Non vogliamo trasformare in argomento di bassa propaganda e polemica politica una vicenda come questa».

Fratelli d'Italia incalza il Pd: «Non deve minimizzare l'accaduto»

Ma dal centrodestra proseguono gli attacchi. «Sconvolge ed indigna profondamente lo stupro di una 15enne a Bologna da parte di un coetaneo di origini africane, mentre gli amici filmavano», interviene Tommaso Foti, capogruppo di Fratelli d'Italia alla Camera definendo «ancora più sconcertante il silenzio degli esponenti della sinistra felsinea. Non vogliamo pensare che questo atteggiamento - scrive in una nota - sia dettato dalla volontà di "insabbiare" questa terribile ed inaccettabile violenza. In attesa che la magistratura chiarisca le dinamiche dell'accaduto, la politica si faccia sentire e non cerchi di minimizzare una violenza abominevole sotto ogni profilo». «Nella rassegna stampa quotidiana leggo di uno stupro avvenuto alla festa dell'Unità di Bologna, dove una ragazza avrebbe subito violenze da un coetaneo mentre sarebbe stata ripresa e derisa», interviene la deputata Daniela Dondi che aggiunge: «La Schlein, presunta paladina di tutti i diritti, prenda le distanze dall'accaduto uscendo allo scoperto, così come i suoi colleghi di partito che non hanno proferito parola». 

Il bolognese Galeazzo Bignami: «Gravissimo quanto accaduto»

«Gravissimo quanto accaduto» e «sorprende l'assordante silenzio del Partito Democratico e della segreteria Schlein che in queste ore non hanno ritenuto di dedicare una parola a questa storia», gli fa eco Galeazzo Bignami invitando la segretaria, «che per anni ha anche amministrato il territorio dalla Regione Emilia-Romagna» a «rompere il muro di silenzio e a dire una parola». «Sono passati nel più totale silenzio ben 200 giorni da quando alla Festa dell'Unità una povera ragazza di soli 15 anni è stata stuprata», evidenzia la senatrice di Fratelli d'Italia, Domenica Spinelli, stigmatizzando «il silenzio delle tante donne dem e della stessa Elly Schlein».

L'accusa delle donne di centrodestra a Elly Schlein

E di «assordante silenzio da parte di una sinistra che crea imbarazzo» parla anche Antonella Zedda, vicecapogruppo in Senato di Fdi chiedendo alla segretaria del Partito democratico «di condannare con fermezza quanto è successo al Parco Nord, senza se e senza ma».

Estratto dell’articolo di Fausto Carioti per “Libero quotidiano” l’8 aprile 2023.

Immaginiamo che a un evento pubblico organizzato da Fratelli d’Italia o dalla Lega un gruppo di adolescenti maschi, alla presenza di qualche coetanea complice, abbia stuprato una quindicenne. Che la violenza sia stata ripresa dai cellulari, come nei migliori riti tribali di quest’epoca idiota, e che per sette mesi non si sia saputo nulla di cotanto orrore. Cosa sarebbe successo quando la notizia sarebbe finalmente diventata pubblica?

Non occorre sforzare la fantasia, è un copione facile da immaginare. Ci sarebbero stati presidi transfemministi sul luogo dello stupro. In parlamento e sui giornali che grondano retorica dei diritti civili tutt* avrebbero preteso di conoscere la verità: chi sono i responsabili? Chi li ha coperti? Perché ovviamente ci sarebbero state coperture: come è possibile che una notizia simile esca dopo 200 giorni? 

Chi ha avuto interesse ad insabbiarla sinora, consentendo a uno dei responsabili di scappare all’estero? Ci sarebbe stato il diluvio degli hastag dell’indignazione: #NonUnaDiMeno, #IlCorpoDelleDonne, #SeNonOraQuando. Sarebbero stati messi sotto processo i massimi dirigenti del partito organizzatore. Michela Murgia, Laura Boldrini ed Elly Schlein avrebbero avuto nuove meravigliose opportunità per discettare sul legame indissolubile tra mascolinità tossica e destra italiana.

Solo che la storia vera è un po’ diversa. Non per la povera vittima quindicenne, che c’è stata, né per le modalità dello stupro o per il lungo silenzio che è seguito. Ma per altri aspetti. Intanto, la violenza è avvenuta alla Festa dell’Unità, dedicata dal Partito democratico, come ormai è regola, ai valori dell’inclusione e dell’integrazione. E non in un posto qualunque, ma al Parco Nord di Bologna, la città simbolo della Schlein e di ciò che resta del Pd. Almeno uno degli autori dello stupro, il maggiorenne che è fuggito all’estero, ha nazionalità italiana, ma un cognome di origine africana: un immigrato di seconda generazione. 

Tanto basta a fare tutta la differenza del mondo. Nessun* accusa gli organizzatori della Festa dell’Unità e tantomeno punta il dito sui vertici del Pd. Le transfemministe guardano altrove, niente flash mob o presidi indignati, di interrogazioni parlamentari neanche l’ombra. Quei duecento giorni di silenzio non sono motivo di scandalo. 

Tacciono le Murgia e le Boldrini. Elly Schlein, che ha costruito la propria identità politica sulla intersezionalità, ovvero l’idea (copiata dagli Stati Uniti, manco a dirlo) che i diritti degli immigrati, delle donne e di ogni altra categoria discriminata sono la stessa cosa, perché identici sono i «sistemi oppressivi» che la minacciano, non ha nulla da dire nel caso di una ragazzina stuprata da un immigrato di seconda generazione: mancano gli strumenti, a lei come alle altre. E allora sopire, troncare, femministe molto reverende: troncare, sopire.

Ubaldo Manuali.

Estratto dell’articolo di Marco Carta per "La Repubblica - Edizione Roma" venerdì 22 settembre 2023.

Un lavoro da netturbino per portare a casa lo stipendio. E il chiodo fisso del mondo dello spettacolo. Ubaldo Manuali, l’uomo accusato di aver drogato e violentato tre donne e di aver poi diffuso video privati, sognava una vita da star. E per un attimo ha pensato di avercela fatta dopo anni di comparsate fra Cinecittà e studi televisivi.  

Da Tiberio Timperi, a Roberta Lanfranchi, ex moglie di Pino Insegno. Ma anche Gigi d’Alessio e Claudio Amendola. C’è anche uno scatto con il disturbatore tv Alessandro Paolini, condannato per tentata violenza su minori. Sono tante le foto insieme ai vip che il 59enne ha condiviso sui suoi social. 

Il punto di svolta per Manuali doveva essere il 2013, quando venne scritturato per il film Tutti a Ostia Beach, la storia di quattro ragazzi che prendono in gestione uno stabilimento da uno strozzino. Manuali non è uno dei protagonisti, ma il suo nome compare anche sulla locandina insieme alla star Alvaro Vitali.

Il film è il punto più alto della sua carriera di attore che non prenderà mai il volo. Al netturbino non restano che i ricordi, come lo scatto realizzato dietro le quinte con Alvaro Vitali, che mima lo sguardo da “Pierino”. Ubaldo Manuali nell’immagine indossa una maglietta che stona con le accuse che gli vengono contestate. C’è scritto “Fermi con le mani”, come la canzone di Fabrizio Moro dedicata a Stefano Cucchi. 

Non è un caso: Moro, infatti, è uno dei punti di riferimento nel netturbino che arrotondava nel tempo libro esibendosi come sosia del cantante. Come nel febbraio 2018 quando Ubaldo Manuali venne invitato a esibirsi per la Befana del poliziotto organizzata dal sindacato di polizia Consap. Sono due le foto da che campeggiano sulla locandina della giornata, promossa anche dalla Nazionale Italiana All Star Sosia, squadra amatoriale di calcio di cui il netturbino è uno dei terzini. […]

Estratto dell'articolo di Raffaella Troili per “il Messaggero” martedì 19 settembre 2023.

L'approccio facile su Facebook, la conoscenza su messenger, quindi gli incontri dal vivo. Uno spritz condito di diazepine poi una volta inermi, lo stupro e a seguire filmati e foto fatti a loro insaputa e mandati agli amici. Così Ubaldo Manuali, netturbino belloccio di 59 anni, l'aveva finora passata liscia. 

Fino a quando una delle vittime, stordita, si è presentata all'ospedale San Pietro di Roma nei primi mesi del 2023: grazie a lei, l'uomo è stato arrestato, accusato di violenza sessuale e diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti. 

Manuali, originario di Riano e dipendente di una ditta comunale di smaltimento rifiuti di Fiano, alle porte di Roma, è stato arrestato dalla polizia di Viterbo al Casilino nei pressi dell'abitazione di una sua attuale compagna. Avrebbe violentato almeno tre donne, tutte intorno ai 40 anni, dopo averle drogate e le ha fotografate con il telefono cellulare, una volta completamente in stato di incoscienza.

I fatti sono avvenuti a Capranica, Riano e Mazzano Romano, nel periodo compreso tra settembre 2022 e gennaio 2023. Di fatto, nessuna ricordava nulla, ma una volta rintracciate dagli investigatori si sono riconosciute in quelle foto e nei video accompagnati da messaggi inequivocabili trovati nel telefono del netturbino. 

Il provvedimento, emesso dal giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Viterbo ed eseguito dai poliziotti della squadra mobile di Viterbo e dal Commissariato Flaminio Nuovo della Questura di Roma, scaturisce da un'indagine coordinata dalla Procura della Repubblica di Tivoli ed iniziata dai poliziotti romani in seguito alla denuncia di una delle vittime. 

La donna che si è presentata in ospedale. E che ha scoperto il macabro vaso di Pandora. Romana, del 75, per via dei farmaci assunti non si sentiva bene, era in evidente stato confusionale, dalle analisi i medici hanno confermato quanto lei già temeva: una presunta violenza sessuale. E hanno allertato le forze dell'ordine. Agli investigatori ha raccontato di aver conosciuto su Facebook quell'uomo, dai capelli lunghi, a volte raccolti in un codino, «piacione, ci sapeva fare, lo avevo invitato a casa, dopo esserci frequentati un po'». Dai messaggi virtuali erano passati agli incontri. Come emerso, Manuali somministrava alle vittime sedativi ipnotici (in particolare il Lormetazepan trovato in casa a Riano e nella sua auto). 

Il suo intento era filmare le donne prive di sensi, in slip, prone o comunque in posizioni equivoche, per questo le drogava. Una volta risaliti a lui e sequestrato il telefonino, gli investigatori hanno ricostruito con foto e messaggi le precedenti violenze, anche gli invii fatti agli amici corredati di commenti ironici e sprezzanti. […] 

 Una delle tre ha raccontato di essersi ritrovata il giorno dopo a casa con quell'uomo che non aveva invitato, «ero confusa, non sapevo cosa era successo». Altre volte, invece, il netturbino era andato via. «Ma come mai? Siamo usciti e poi mi ritrovo a casa da sola?», ha chiesto un'altra, ignara, al suo aguzzino. Nessuna sapeva di esser stata filmata, né di aver consumato un rapporto sessuale. 

«Ma che è successo?», ha scritto una vittima a Manuali. «Ero anche imbarazzata, perché mi sono addormentata. Non lo ho più rivisto».  Tutte si sono fidate di quell'amicizia nata sui social e di quell'uomo affascinante e dai modi gentili. Separato, una figlia, era molto conosciuto sia a Riano che Fiano. 

«Ho scoperto di esser stata stuprata, se lo avessi saputo avrei denunciato», ha ammesso una di loro. Essendo emersi altri episodi nella Tuscia, la Procura di Tivoli ha inviato per competenza territoriale il fascicolo ai colleghi di Viterbo che hanno richiesto la misura cautelare. E delegato ulteriori atti di indagine alla squadra mobile di Viterbo. Dopo l'interrogatorio di garanzia davanti al gip - nel quale l'indagato ha respinto le accuse e ha parlato di rapporti consensuali - è stata disposta la misura dei domiciliari. È…]

Estratto dell'articolo Raffaella Troili per “il Messaggero” martedì 19 settembre 2023. 

«Ho scoperto di esser stata stuprata. Se lo avessi saputo lo avrei denunciato subito». Umiliate, doppiamente, dalla violenza e da quelle immagini: filmate e fotografate stese nude sul letto o in biancheria intima, mentre dormivano, a pancia in giù, indifese e inermi.

L'orrore nell'orrore, a loro insaputa. Le vittime di Ubaldo Manuali, il netturbino 59enne di Riano arrestato a Roma, ricordano poco e niente dello stupro avvenuto mentre erano stordite per via dei cocktail a base di diazepine somministrati loro da quell'uomo conosciuto su Facebook. […] 

Una donna non ricordava nulla. «Poi ho visto le immagini, ero io...». Originario di Riano, lavorava a Fiano per una ditta comunale di smaltimento rifiuti. Al momento dell'arresto era ospite di una donna, forse una recente compagna, al Casilino. Ma è a Riano e a Fiano che era conosciuto da tutti proprio per il suo fare sbruffone e "piacione". Non passava inosservato. Anche sui social. 

 Per questo riusciva ad adescare facilmente su Facebook giovani donne piacenti. «Pian piano era nata un'amicizia virtuale, mi ero fidata», ha raccontato la donna che ha denunciato dopo esser arrivata in stato confusionale in ospedale. E così le altre: «Siamo diventati amici prima in rete, poi ci siamo incontrati di persona». Tutte ricordano poco e niente, nessuna sapeva di esser stata violentata, filmata e fotografata. […]

Estratto dell'articolo di Chiara Rai per “il Messaggero” martedì 19 settembre 2023.

«La mattina, si vedeva in giro a lavorare per Riano, sorridente, sembrava un attore, faceva il piacione per scherzare e consapevole di essere un conquistatore quasi compulsivo infatti s'impettiva tutto quando vedeva una bella ragazzetta che avrebbe potuto essere sua nipote». […] Quel netturbino con la vocazione del macho che ha detta di molti nella cittadina sulla valle Tiberina, «si atteggia come un ragazzetto che non si arrende all'idea di essere arrivato alla soglia dei sessant'anni». 

Lavora da diversi anni nella ditta che gestisce la raccolta dei rifiuti per il comune di Riano. In Municipio lo conoscono tutti e sono rimasti sorpresi dalla notizia dell'arresto, di lui sanno poco tranne quello che chiaramente si nota a occhio nudo: un uomo in forma a cui piace apparire. Così dicono tutti conoscenti: «È un uomo che sembrava più un narciso che la persona di cui si parla ma non rimaniamo sorpresi più di tanto dalla notizia del suo arresto. Dava l'idea di una persona in cerca sempre di nuove occasioni».

Palestrato col capello lungo e scuro, lo sguardo da tenebroso e la barba non troppo marcata: «Indossa spesso gli occhiali da sole vecchio stile - racconta un suo coetaneo che lo vede in giro - veste con roba che sembra da ricchi ma in realtà, tempo fa si è lamentato che la ditta dove lavorava non gli dava abbastanza soldi e lui era preoccupato perché ha una figlia che frequenta l'università. Certo con i vizi e il tenore che sfoggia non si capisce come faccia ad avere uno stipendio modesto, quando l'hanno arrestato abbiamo pensato che fosse per qualche altro problema». […] 

«Noi lo riteniamo esageratamente vanitoso ma da tempo non certo adesso che è stato arrestato con gravissime accuse - dicono alcuni ragazzetti che lo hanno visto in giro - perché sembra come quelle persone in preda alla sindrome di Peter Pan». Negli ultimi tempi in paese si è visto sempre meno. 

Qualcuno azzarda a pensar male: «Sembrava sempre più schivo, preoccupato - dicono dei vicini di casa - ma abbiamo pensato avesse fatto qualche scappatella andata male. Da quando si era separato, la sua vita era tutta un'avventura».

Federica Pozzi per  “il Messaggero” martedì 19 settembre 2023.

Diciannove i tavoli tematici al lavoro, dall'advertising all'intelligenza artificiale, dai diritti umani alla cybersecurity a media e comunicazione. Si è svolto ieri, per il secondo anno, al Museo nazionale etrusco di Villa Giulia, "State of privacy", organizzato con l'Università degli Studi di Roma Tre e l'Università degli Studi di Firenze. 

Un confronto e un dialogo tra il Garante della Privacy con tutte le componenti della società civile e la politica, per fare il punto, e sensibilizzare, sul tema sempre più caldo della protezione dei dati personali. […]

Stanzione ha sottolineato il pericolo rappresentato in questo senso dai social: «Vittime e autori di questo dramma - ha detto - sono i ragazzi che con le nuove tecnologie intessono un rapporto quasi osmotico al punto da voler riprodurre online la propria vita anche a prezzo di quella degli altri come nel caso del bimbo travolto dall'auto in corsa di alcuni YouTuber nella loro ricerca spasmodica di un like in più». 

Cosa fare quindi per invertire questa rotta? «Bisogna ricostruire nei giovani una consapevolezza comune degli effetti sulle relazioni della digitalizzazione. Il rapporto impari con la tecnica e la sua potenza geometrica, la persona, soprattutto ma non soltanto minorenne, scopre nuove vulnerabilità per cui può proteggerla solo la consapevolezza, ancor più con la diffusione come si è dimostrato nell'ultimo anno dell'intelligenza artificiale».

E ancora, sostiene Stanzione: «Il rischio è che le tecniche divengano sempre più opache mentre le persone sempre più trasparenti secondo l'idea dell'uomo di vetro cara a sistemi tutt'altro che democratici. La protezione dei dati può rappresentare un fattore di corretto indirizzo dell'intelligenza artificiale, non bloccandone lo sviluppo ma impedendone derive incompatibili con il privato della persona».  […]

Estratto dell’articolo di Marco Carta per “la Repubblica - Edizione Roma” giovedì 21 settembre 2023.

«Lo vedevo che maneggiava con gli alcolici e i tranquillanti e mi sono insospettita. Faceva cose strane. Per questo l’ho lasciato» . Emma, il nome è di fantasia, è una delle donne entrate in contatto con il netturbino di Riano Ubaldo Manuali, arrestato per violenza sessuale e diffusione illecita di video e foto private. 

A differenza delle tre donne vittime di violenza agli atti dell’indagine, ha deciso di non denunciare l’uomo, che ha frequentato per diversi mesi, e la sua posizione è stata stralciata. «Si può dire che noi abbiamo avuto una relazione ma le cose non andavano bene. Litigavamo spesso. Lui maneggiava gli alcolici, faceva cose strane. Una sera ai Castelli abbiamo discusso proprio perché lui aveva fatto qualche magheggio con le birre».

In un’occasione, Emma si sarebbe sentita male nella casa che l’uomo aveva preso in affitto a Saxa Rubra. Dopo una lite furiosa, la donna sarebbe finita in coma etilico. Il netturbino di 59 anni l’ha poi riaccompagnata a casa, dove ad attenderla c’era la figlia. «Mi sono preoccupata, mamma era completamente addormentata. Sembrava drogata».  

Nei confronti del netturbino, che aveva recitato con Alvaro Vitali nel film Tutti a Ostia Beach, sono stati disposti gli arresti domiciliari con il braccialetto elettronico. Mentre si aspetta l’esito dell’esame del Dna sui tessuti della prima vittima, che ha fatto partire un’indagine. La donna, dopo aver trascorso una notte con Manuali, si era risvegliata in uno stato di torpore. 

«Io non avevo nessuna intenzione di avere un rapporto sessuale quella sera» , le parole della vittima che si era recata all’ospedale San Pietro, dove è stata trovata positiva alle benzodiazepine. A somministrargliele sarebbe stato Manuali, come emerso poi nelle indagini della procura di Tivoli. 

Avrebbe sciolto nell’alcool una dose potentissima di Alprazolam, un farmaco che gli era stato prescritto dopo un incidente al ginocchio. La sostanza, mischiata all’alcol, aveva immediatamente effetto. Al primo sorso chi beveva cadeva subito in uno stato di torpore. […]

DANDOLO FLASH giovedì 21 settembre 2023 - PATRIZIA GROPPELLI, NEO MOGLIE  DEL DIRETTORE DE “IL GIORNALE” ALESSANDRO SALLUSTI, OSPITE DI “MORNING NEWS” A CANALE5 HA AVUTO UNO SLANCIO GARANTISTA VERSO IL NETTURBINO ROMANO ARRESTATO CON L'ACCUSA DI AVER SEDATO E VIOLENTATO ALCUNE DONNE CONOSCIUTE IN RETE - LA PATTY INVITA LE DONNE A NON "CERCARSELA" E AD EVITARE DI INCONTRARE UOMINI VIA SOCIAL. E LO RIBADISCE A GRAN VOCE ANCHE IN UNA STORIES APPENA POSTATA – “LUI E’ UN PASTICCIONE, UNO CHE VOLEVA FARSI BELLO CON GLI AMICI”

Estratto dell’articolo di Fulvio Fiano,Rinaldo Frignani per il “Corriere della Sera” sabato 23 settembre 2023.

[…] «Ogni volta che uscivamo insieme si vantava con me di aver avuto mille donne. Era ossessionato dalla propria bellezza, dal mettersi in mostra. Ma poi mi scattava foto in continuazione e mi ripeteva “Guarda che io sono un uomo serio, sono loro che mi cercano”». Stefania Loizzi, una delle vittime delle violenze del netturbino Ubaldo Manuali, ricorda tutto. Fatti e sensazioni vissuti dalla fine del 2020 al 14 gennaio scorso quando in ospedale ha scoperto di essere stata drogata dal 59enne di Riano, alle porte della Capitale, arrestato dalla polizia per altri tre stupri e sospettato di averne commessi altri.

«[…] Con lui non c’è stato mai nulla di romantico: i suoi occhi, il suo sguardo, non mi sono mai piaciuti, ma un’amica mi aveva assicurato che era una persona perbene. Non era così». 

E oggi, come se l’inchiesta che l’ha portato in carcere avesse levato un tappo sul suo passato, molte donne si stanno facendo avanti per denunciare esperienze e sospetti nel loro rapporto con Manuali […] sulla bacheca di uno dei sei profili social del netturbino aspirante attore. «Anche a me aveva invitata a casa sua. Meno male non ci sono mai andata!», racconta Annalisa.

Altre allegano gli articoli su di lui sotto ogni suo post, quasi a mettere in guardia chi lo ha conosciuto. Gli investigatori della Squadra mobile di Viterbo e del commissariato Flaminio Nuovo indagano per risalire a casi analoghi a quelli già fissati nell’ordinanza del gip, che motivava il carcere, poi trasformatosi in domiciliari con obbligo del braccialetto, con il rischio che Manuali abusi di altre donne.

Lui è ai domiciliari a Cerveteri, a casa di parenti, dove per un periodo ha vissuto da ragazzo. Che avesse numerose relazioni non era un segreto, come sottolineato anche dalla figlia, con l’intento di difenderlo: «Mio padre non avrebbe mai fatto una cosa del genere, non ne avrebbe avuto bisogno. Chiunque sia andata a letto con lui, sono sempre state consenzienti». Parole simili vengono riportate in capo alla ex moglie e alla compagna, in casa della quale, sulla Casilina a Roma, è stato arrestato.  

«Mi aveva colpito il fatto che fosse una persona molto religiosa — continua con lucidità Stefania Loizzi —, mi aveva perfino confidato di essere stato miracolato quando il furgone su cui lavorava ha preso fuoco e lui ha perso un piede nell’incendio. Chissà se era vero. Ogni tanto mostrava un tesserino, credo fosse da poliziotto, ma mi aveva detto di fare il netturbino». 

I sospetti sull’amico hanno cominciato a essere troppi, al punto che «nel 2021 ho bloccato il suo profilo — ricorda ancora la vittima di Manuali —: è successo dopo aver scoperto, curiosando sulla sua pagina Facebook, il post di una donna che gli aveva scritto: “Non ti vergogni, brutto schifoso, di quello che hai fatto?”. […] Una l’ho conosciuta e l’ho rimproverata: perché non hai denunciato? perché accettare tutto in silenzio? È quello che pensava, sapeva di farla franca».

E con lui anche gli amici ai quali Manuali ha mostrato i video delle violenze. «Mi domando ancora come abbiano fatto a tacere davanti a uno schifo del genere - conclude -. Non li ho mai conosciuti. Mi diceva di averne tanti, in tre anni non ne ho visto uno: ora potrei denunciare anche loro». 

Estratto dell'articolo di Romina Marceca per "La Repubblica - Ed. Roma" 22 settembre 2023.

Stefania Loizzi sta cercando di scalare la montagna della paura. È sopraffatta, non riesce a dormire al buio, a camminare da sola in strada la sera. «Tutta colpa di quell’uomo maledetto che si chiama Ubaldo Manuali. Ha rovinato la mia vita in meno di un anno», racconta. 

Il netturbino che ha drogato e stuprato almeno altre due donne è ai domiciliari perché Stefania Loizzi, ex banconista di una gelateria, prima vittima del netturbino romano, non ha perso tempo. «L’ho denunciato subito e metto la mia faccia sul giornale per tutte quelle donne vittime come me. Non dobbiamo avere paura dei nostri “No”. Dobbiamo mostrarci perché siamo le vittime, non i carnefici. [...]». 

Come vi siete conosciuti?

«Mi ha chiesto l’amicizia su Facebook a fine 2020. Ho visto che in comune avevamo un’amica. Sono una persona molto diffidente e ho chiesto informazioni a lei. La mia amica mi ha detto che era una persona tranquilla, simpatica». [...] 

La prima volta che vi siete visti?

«Mi ha portato dei rosari e dei santini. Ci vedevamo ma sempre fuori. Lui faceva sempre foto, io non volevo. Poi mi ha detto che gli interessavo come persona e gli ho risposto che potevamo essere solo amici, lui ha accettato. Sono passati dei mesi senza vederci». 

La sera del 14 gennaio 2023 l’ha drogata e violentata

«Quella sera mi ha chiamato, avevo un braccio ingessato per una frattura, avevo perso da poco mia mamma. Era un brutto periodo. Prima mi ha detto che passava a prendermi e che cenavo a casa sua. Non volevo, non mi andava, poi ho accettato». 

Lui ha preparato una trappola

«Sì, mi ha richiamata dicendo che portava la cena a casa mia: dall’antipasto al dolce, fino al vino. Ero giù, ho accettato. Una volta a casa mia ha aperto il prosecco per fare un brindisi. Ho bevuto e mi ricordo solo che ero andata in cucina a prendere le patate. Poi, il buio». 

Al risveglio?

«Mi sono svegliata di notte, stavo malissimo. Non riuscivo a vedere bene. Ho trovato una sua mano sulla faccia, ho reagito male e gli ho detto: “Schifoso, che fai nel mio letto?”. Lui mi ha risposto che mi ero sentita male e che non voleva lasciarmi sola. Ho avuto la forza di voltarmi e ho visto che era senza pantaloni ma sono crollata». 

Cosa ha fatto dopo?

«La mattina seguente sono andata dal medico curante, che ringrazio dal profondo del mio cuore, e gli ho detto cosa era accaduto. Lui mi ha detto “Oddio, mi stai sconvolgendo” e mi ha consegnato un foglio urgente per il pronto soccorso. Nel mio sangue i medici hanno trovato la droga dello stupro. Pensavo che mi avesse drogata per derubarmi. Invece mi ha violentata in casa mia. Provo troppo schifo». 

Ha anche filmato

«Purtroppo sì. Ho visto alcune foto ma c’è anche un video che ha girato ai suoi amici del calcetto. Si faceva grande con i suoi amici che mi fanno schifo tanto quanto lui perché avrebbero dovuto denunciare. L’ho fatto io, invece, lo stesso giorno della visita. E se tornassi indietro lo rifarei di nuovo». 

Lui ha ripulito tutto

«Sì ma il suo Dna c’era in casa mia, la scientifica ha portato via tutto. È stato uno schifoso, ha bivaccato in casa mia». [...]

Fulvio Fiano per il "Corriere della Sera - edizione Roma" martedì 26 settembre 2023.

Ubaldo Manuali ha una «spiccata capacità criminale», mossa da una «maniacale perversione che l’ha portato a conservare i video delle violenze sulle donne che strumentalizza per soddisfare i suoi impulsi sessuali». 

Il 59enne netturbino ha una «totale incapacità di autocontrollo rispetto alle proprie perversioni», manifestata dal fatto che «stordisce anche la donna con cui aveva avuto rapporti consenzienti e questo al fine di superare il suo rifiuto ad essere filmata e ad avere rapporti di altra natura». 

È inoltre «abile a far credere alle sue vittime, pur di fronte ad espliciti sospetti, non solo che non le abbia abusate ma che addirittura le abbia aiutate mentre non si sentivano bene». Sono le parole con cui il gip di Viterbo Simona Poli motiva l’arresto del «Keanu Reeves di Riano». «Manuali — si legge nelle 22 pagine di ordinanza — è incurante delle conseguenze che la somministrazione di narcotici può avere sulla salute delle vittime».

[…]

Stefania Loizzi, la donna che per prima l’ha denunciato, racconta nel verbale: «Ha versato il vino dandomi le spalle. Erano le 22 e mi sono risvegliata alle 4.40 con la sensazione che ci fossero i termosifoni accesi. Sulla poltrona c’era una divisa da netturbino che lui prima non aveva e gli ho chiesto “Che c... ci fai qua?”. Alle 5 mi sono accorta di avere il pigiama, ma non ricordo di averlo indossato. Solo alle 10 mi sono svegliata davvero. Sono andata dal parrucchiere e lui mi ha consigliato di andare da un medico».

Nel corso della perquisizione vengono ritrovati due flaconcini di Loretazepam in casa e nell’auto di Manuali: «Li uso per dormire, ho dolore a un ginocchio», dice lui. Gli vengono sequestrati anche un altro telefono e il pc. E un distintivo di polizia amministrativa, che usava per mentire sulla sua vera professione. Dallo smartphone emerge un video del 2018. C’è una donna stesa nuda su un asciugamani in terrazzo e Manuali le chiede, quasi beffardo: «Che, stai in letargo? C’hai sonno?». Poi abusa di lei in vario modo, descrivendo le sue azioni e accompagnandole con frasi come «tira fuori la lingua, sono il tuo ragazzo! Stiamo a fà l’amore, capito?».

Un anno dopo, c’è un’altra probabile vittima. Viene rintracciata e racconta: «Mi fece bere vino, mi sembrava buono. “E che, mica ti dò roba cattiva”, mi diceva lui. Poi mi ritrovai a gambe aperte e lui vicino a me. “Stavamo facendo sesso?” gli chiesi. E lui “Macché, stavi a sognà”». La donna va a ritroso: «Ci vedemmo a un chiosco di Grottaferrata, lo vidi che trafficava con le birre e le buttai a terra “Che c’hai versato?”. Poi ci rivedemmo, mi offrì un limoncello e mi ritrovai a casa mia». La donna non ricorda più nulla. […] 

Chi ha denunciato è invece la seconda delle tre donne su cui si basa l’arresto. «L’ho conosciuto online, avevamo rapporti sessuali e lui chiedeva sempre di farmi dei video. Io rifiutavo. Un giorno ci siamo visti a un bar di Vetralla. Lo Spritz aveva un colore strano, mi disse che forse ci avevano messo l’aperol. Mi risvegliai alle 6, nuda e con lui in boxer. Non riuscivo a tenere gli occhi aperti, disse che mi ero sentita male.

Gli chiesi scherzando se mi avesse drogato e lui: “Così mi offendi”. Mi sentii in colpa e chiesi scusa». Il giorno dopo gli scrive in chat: «Ero fuori di testa, sennò non ti avrei fatto entrare. Non deve ricapitare più e vorrei che ti ricordassi cosa c’era nello Spritz. Potresti averlo fatto apposta, daje, ammettilo». Lui le dice che hanno fatto sesso consenziente ma lei sospetta: «Ho partecipato? Mi hai fatto video? Non devono girare, non sono sprovveduta... ma non credo che tu sia il tipo». […]

Estratto dell’articolo di Marco Carta per repubblica.it l'1 ottobre 2023. 

Un video porno finito sulla rete e guardato da migliaia di utenti. Nel passato di Ubaldo Manuali, il netturbino di Riano arrestato lo scorso 12 settembre per aver narcotizzato e violentato tre donne, c’è anche il cinema hard amatoriale. 

A rivelarlo è un amico […] nel corso di un’intervista alla trasmissione Quarto grado, in cui ha citato un preciso episodio che risale a qualche anno fa. Manuali si trovava in palestra quando sarebbe stato avvicinato da un conoscente […] : “Ubaldo, c’è un video sulla piattaforma di un sito conosciuto, dove tu hai fatto un video porno”. All’uomo il netturbino avrebbe risposto senza vergogna: “Eh, ma l’ho fatto tanti anni fa’”. 

La circostanza è estranea agli atti dell’inchiesta. Ma conferma però l’indole da voyeur del netturbino, che sognava anche di sfondare del cinema, grazie a una somiglianza con l’attore americano Keanu Reeves.dendo poi i video nella chat degli amici per vantarsi. “Lui una volta ci ha inviato un video - racconta uno degli amici di Manuali - c’era una signora sdraiata sul letto, sembrava come se avessero appena fatto l’amore. Ha detto ‘mi sono fatto questa’. Mi ricordo ancora, questa signora sul letto, sul cuscino, sembrava stesse riposando”.

L’amico di Manuali, interrogato dai poliziotti del commissariato Flaminio Nuovo, ha affermato di non sapere che l’uomo mischiasse un potente narcotizzante per stordire le donne nel video. “Noi amici non sapevamo di queste cose, non è che Ubaldo ci veniva a dire ‘gli do le gocce per addormentarle e poi abuso di loro. […]”. 

Dopo l’esplosione dell’inchiesta giudiziaria, che ha portato all’arresto del netturbino, altre donne si sono rivolte alle forze dell’ordine. Al momento sono sette le donne che hanno sporto denuncia […]

Estratto dell’articolo di Rosa Scognamiglio per ilgiornale.it mercoledì 18 ottobre 2023.

Se ripenso a quello che è accaduto mi vengono ancora i brividi. Non avrei mai immaginato che un uomo sarebbe arrivato a tanto". Non si dà pace Stefania Loizzi, 48 anni, la donna che per prima ha denunciato Ubaldo Manuali, il netturbino 59enne di Riano arrestato lo scorso settembre con l'accusa di aver stuprato alcune donne dopo averle stordite con un farmaco narcotico disciolto nei drink. 

Oltre al reato di violenza sessuale, all’indagato viene contestata anche la diffusione illecita di video e immagini dal contenuto sessualmente esplicito. Secondo gli investigatori Manuali avrebbe filmato le vittime, rese inermi con le benzodiazepine, durante gli abusi. "Dopo la mia denuncia, e le successive indagini, alcune donne mi hanno contattato sui social. A quanto pare, non sono stata l'unica a finire nella sua trappola", racconta la 48enne a ilGiornale.it.

Signora Loizzi, come ha conosciuto Ubaldo Manuali?

"Mi inviò una richiesta di amicizia su Facebook, qualche anno fa. Notai che avevamo alcuni conoscenti in comune e, prima di accettare, chiesi ad un'amica se fosse una persona perbene. Non so, il suo sguardo non ispirava fiducia. Ad ogni modo, questa amica mi rassicurò del fatto che fosse un uomo tranquillo e a posto. Dunque decisi di accettare la richiesta di amicizia e così cominciammo a chattare".

Cosa le raccontava?

"Manuali sin da subito si vantava di questa presunta somiglianza con Keanu Reeves. Diceva che era desideratissimo da molte donne, che lo fermavano per strada proprio per via della somiglianza con il famoso attore. Io misi subito le cose in chiaro, precisando che non mi interessava avere relazioni sentimentali. Anche perché era morta da poco mia madre e stavo attraversando un momento difficile". 

E lui?

"Mi disse che ero una donna seria e non aveva intenzione di andare oltre un rapporto di amicizia. Cosa che all'inizio fece, - evidentemente faceva parte del copione - mostrandosi sempre gentile, carino e disponibile". […]

Le andrebbe di spiegare quello che è successo?

"Un giorno mi telefonò per chiedere se mi andasse di cenare da lui. Gli risposi che non avevo molta voglia, che ero da sola in casa e mi sarei arrangiata. Dopo il primo tentativo andato a vuoto richiamò. Disse che sarebbe venuto da me con la spesa e avrebbe pensato a tutto lui. Nonostante non fossi molto convinta della proposta, perché non è mia abitudine accogliere gli uomini in casa, decisi di accettare. […]" 

Poi cosa accadde?

"Lui arrivò con le pietanze e due bottiglie di vino. Mentre ero indaffarata in cucina, Manuali mi offrì un calice di prosecco: 'Dai brindiamo', furono le sue parole. Io gli dissi che non avevo nulla per cui brindare ma lui, poco dopo, si fece di nuovo avanti col bicchiere. Feci un sorso e poi non ricordo più nulla, caddi in un sonno profondo". 

Quando si risvegliò?

"Verso le cinque del mattino aprii gli occhi per qualche secondo, ma non ero molto presente a me stessa. Avevo il pigiama addosso ed ero distesa sul letto con lui accanto che aveva i pantaloni sbottonati. Gli chiesi cosa ci facesse così, a casa mia, a quell'ora della notte". 

Cosa le rispose?

"Disse che era rimasto lì perché temeva non stessi bene e non voleva lasciarmi sola. Poi non ricordo altro perché mi addormentai di nuovo". 

E poi?

"La mattina mi svegliai con uno strano malessere, facevo fatica a essere lucida e stare in piedi. Decisi di recarmi dal mio medico, feci la strada a zig zag rischiando anche di andare a sbattere con l'auto. Quando il dottore mi visitò capì subito che c'era qualcosa che non andava e mi sollecitò ad andare immediatamente al pronto soccorso". 

Cosa emerse dagli accertamenti ospedalieri?

"Che c'erano tracce notevoli di benzodiazepine nel sangue. Se avessi avuto una patologia seria, cardiaca o di altro tipo, avrei potuto morire. Fu il momento in cui realizzai cosa era successo e decisi di denunciare Manuali". 

A lui raccontò qualcosa?

"Il giorno dopo mi scrisse un messaggio per chiedermi come stavo. Gli risposi dicendo che ero stata male e gli chiesi cosa mi avesse fatto. Lui ribatté che stavo male forse 'per via di un batterio'. Da quel momento non l'ho né più visto né sentito". […]

Johnny Kitagawa.

Estratto da lastampa.it giovedì 31 agosto 2023.

Accuse di abusi sessuali perpetrati per decenni su giovani aspiranti artisti dall'ex magnate della musica giapponese, la Johnny & Associates. È la conclusione di un'indagine esterna istituita dalla stessa agenzia, il cui compito era di far luce sui presunti crimini commessi dal defunto fondatore Johnny Kitagawa, a partire dagli anni '70 fino a metà degli anni 2010. 

Il rapporto della commissione, composta da un avvocato, uno psichiatra e uno psicologo - incaricata dalla stessa agenzia per approfondire le indagini, ha citato resoconti dettagliati di abusi tratti da interviste con 41 presunte vittime, oltre che funzionari dell'azienda.

Nonostante il lungo periodo intercorso, la controversia che ha riguardato una delle figure più influenti dell'industria dell'intrattenimento giapponese è diventata di interesse mediatico solo dopo un documentario della Bbc trasmesso quest'anno. 

Nei racconti, molti dei testimoni hanno descritto atti sessuali a cui sono stati costretti a partecipare e descritto gli effetti traumatici negli anni come conseguenza degli abusi. […] 

Il rapporto della commissione ha raccomandato che l'attuale presidente, la nipote di Kitagawa, Julie Fujishima, si dimetta con effetti immediati perché si presume fosse a conoscenza da tempo dei misfatti, trascurando di condurre un'indagine. […] 

Philippe Garrel. 

Estratto dell'articolo di Anais Ginori per repubblica.it giovedì 31 agosto 2023.

Nuove accuse di molestie sessuali nel cinema francese. Questa volta è il regista Philippe Garrel che appare in un’inchiesta di Mediapart, sito d'inchiesta che ha più di tutti lavorato al #MeToo nel settore. Cinque attrici accusano il regista di aver fatto avance durante dei provini. 

 Anna Mouglalis, diretta da Garrel ne La jalousie dieci anni fa, ha raccontato che un anno dopo, durante una sessione di preparazione di un altro film, si sarebbe sdraiato nel suo letto, chiedendole di venire accanto a lui.

“Avevo avuto un mancamento e ho sentito il bisogno di coricarmi” ha commentato il regista settantenne a Mediapart. Altre attrici accusano l'uomo di ricatto sessuale per ottenere una parte. “Non posso fare il film se non vado al letto con te”, avrebbe detto Garrel all'attrice Marie Vialle quasi trent'anni fa. Proprio a causa della prescrizione di molti fatti, nessuna delle attrici intervistate ha voluto sporgere denuncia. 

“Leggendo tutte queste testimonianze, mi rendo conto della differenza tra ciò che immaginavo all'epoca e ciò che ho fatto passare loro” ha commentato il regista con Mediapart. “Ho acquisito nuova consapevolezza sulla cultura che mi ha plasmato – ha aggiunto Garrel - e mi sono rimesso in discussione”.

Il nuovo film del regista 75enne, ricompensato alla Mostra di Venezia nel 1991 e nel 2005, esce nelle sale francesi tra due settimane. Le grand chariot era stato presentato all'ultimo festival di Berlino. Nel cast anche due suoi figli: l'attore e regista Louis Garrel, molto legato al cinema italiano, e Lena Garrel che ha firmato qualche giorno fa una petizione su Libération criticando la ‘cultura dello stupro’ ancora presente nei festival. […]

Antonio Di Fazio.

Estratto dell'articolo di Cristina Bassi per “il Giornale” il 6 giugno 2023.

È stata ridotta di oltre sei anni in Appello la pena per Antonio Di Fazio, l’ex manager imputato a Milano per sei episodi di violenza sessuale con uso di benzodiazepine per stordire le vittime. In secondo grado ieri è stato condannato a nove anni di carcere, mentre il gup gli aveva inflitto, con il rito abbreviato, 15 anni e mezzo. 

Il sostituto pg Laura Gay aveva chiesto una condanna a 12 anni di reclusione. La Corte d’appello ha riconosciuto la continuazione tra i reati contestati a Di Fazio, difeso dagli avvocati Andrea Soliani e Mauro Carelli. Al contrario di quello che aveva deciso il gup Anna Magelli con la sentenza dell’8 aprile 2022. Per l’avvocato Carelli, la rideterminazione «è un primo passo per arrivare a una pena adeguata ad altri casi di violenza. Da una nostra valutazione dovrebbe essere la metà». Il manager farmaceutico in appello è stato inoltre assolto dal reato di sequestro di persona nei confronti della studentessa 21enne che per prima lo aveva denunciato nella primavera del 2021. È intervenuta invece la prescrizione per i reati di maltrattamenti, stalking e violenza sessuale nei confronti dell’ex moglie, a sua volta vittima dell’uomo. I fatti in questo caso risalgono al 2012.

(...) Quindi - ha aggiunto l’avvocato - non ci resta che ricorrere alla Cedu e fare causa allo Stato, che non ha protetto né la mia assistita né suo figlio per tutti questi anni in cui ha chiesto aiuto alle autorità». Le motivazioni della sentenza saranno depositate tra 60 giorni. Anche la difesa comunque ha annunciato il ricorso in Cassazione. 

Di Fazio era stato arrestato nel maggio del 2021. L’inchiesta era partita dalla denuncia della studentessa della Bocconi, secondo l’accusa narcotizzata e violentata dopo essere stata attirata dall’uomo nel suo appartamento, in cui erano presenti l’anziana madre e il figlio adolescente, con la scusa di uno stage formativo.

Agli atti dell’inchiesta erano finite anche le decine di foto che l’uomo conservava nel telefonino e che ritraevano le vittime semi nude e prive di sensi durante gli abusi. I suoi gravi «disturbi della personalità», avevano spiegato l’aggiunto Letizia Mannella e il pm Alessia Menegazzo titolari dell’inchiesta condotta dai carabinieri, sono la «chiave di lettura» e «il filo rosso» che collega le violenze messe in atto con lo stesso «schema». 

Il manager avrebbe prima creato una «zona comfort» per indebolire le vittime, anche usando il pretesto di uno stage nella sua azienda, e per legarle a sé anche attraverso un rapporto sentimentale. Poi, avrebbe somministrato loro benzodiazepine e, infine, avrebbe «dato sfogo alle sue perversioni». In primo grado il gup era andato oltre i nove anni chiesti dalla Procura, perché appunto aveva deciso di non applicare la «continuazione» tra i reati, ma aveva condannato Di Fazio, facendo la somma delle pene inflitte «spacchettando» i singoli episodi.

Alberto Genovese.

Collo-Shock: Chiamatela Terrazza Abominio Di Sentimento non c’è neanche l’ombra. Redazione su L'Identità il 28 Maggio 2023 

di CATERINA COLLOVATI

In principio giovane imprenditore, genio del web… poi la metamorfosi in orco sadico e libidinoso, infine peccatore ravveduto e “sinceramente” pentito. Ma per far credere a questo ravvedimento le parole, forse qualche lacrima, non bastavano. Come fare allora? Ma certo! Un bel matrimonio “riparatore” che riparasse le crepe nella onorabilità dell’ormai ex mostro. Le donne, per Alberto, erano un tempo strumento di piacere folle e violento, oggi invece forse, sempre strumento, ma per ottenere uno sconto. Poiché si prospetta per lui un nuovo processo, per altre due violenze, provare ad alleggerire la pena già comminata è d’obbligo: sposato = ravveduto. Ravveduto = libero in anticipo?

La sposa? Un’ex fiamma di gioventù, persa chissà dove, ma, come scrive Stephen King, “A volte ritornano”. E perché ritornano? Qualche idea ce l’avrei ma qui mi taccio. Il male da sempre affascina, si sa. Oppure pecunia non olet? Chi può dirlo? In virtù della riforma Cartabia, che per snellire i processi non esita ad affievolire le pene, il dottor Genovese, rinunciando all’Appello, ha di fatto imboccato il percorso dell’uscita dal carcere.

Degli otto anni e mezzo inflittigli per aver ridotto due modelle a “bambole di pezza” imbottendole di droghe di ogni tipo, si passa ai sei anni, sottraendo i due già scontati, siamo giunti ai quattro anni effettivi che oggi con il ravvedimento e matrimonio annesso potrebbero diventare meno ancora all’interno di una comunità per tossicodipendenti, profumatamente pagata, ma qui, sappiamo bene che Genovese è ancora un simil Paperon dei Paperoni, non certo il tipico carcerato squattrinato e dunque lontano da qualsivoglia progetto di recupero. Non avrò mai pietà per un tale soggetto, un uomo che per sua stessa ammissione amava le sedicenni anoressiche così da manipolarle meglio. Bastavano una borsetta di Chanel infiocchettata sul letto delle torture con manette e quintali di droga: cocaina, ketamina, MDMA, e quei “basta”, “basta slegami” sussurrati e (inascoltati) negli audio che lui stesso, per il gusto della perversione registrava, sono qualcosa di orribile per chi ha avuto accesso agli atti. Per non parlare dei file ritrovati nei computer dell’ex guru delle startup che lui archiviava con il titolo Bibbia 3., dove di religione non c’era nulla, bensì erano solo immagini pedopornografiche per le quali si sta per aprire un nuovo processo alla chiusura delle indagini di altri giudici.

Qui si tratta di violenza sessuale con protagoniste altre fanciulle, più accuse di intralci alle indagini che coinvolgerebbero anche il fido pr Daniele Leali, il quale sarebbe accusato di aver tentato per conto di Genovese di comprare il silenzio della diciottenne che per prima denunciò l’orrore di Terrazza Sentimento. Terrazza Abominio sarebbe stato il nome più appropriato. Invece Genovese la ribattezza Sentimento, il sentimento nulla aveva a che fare con ciò che realmente accadeva in quel luogo malefico.

Lui, Alberto Genovese, un nerd napoletano, complessato e bruttino da giovane che sbarca al nord, a Milano. Studia alla Bocconi, emerge, ha testa, trasforma le idee in startup che da startup diventano oro. Purtroppo il successo gli dà alla testa ed è così che l’oro diventa cocaina e l’imprenditore lascia il posto al rapace senza scrupoli che trasforma le ragazze in oggetti da tortura. Fin quando una di loro ha il coraggio di dire basta, ma non solo sussurrato negli audio, questa volta, lo grida in Procura e finisce così la parabola del mago del web.

Una domanda da donna mi sorge spontanea: dopo l’altare si passa al talamo… con che coraggio la neo signora Genovese s’infilerà in quel letto?

Estratto dell'articolo Gianluigi Nuzzi per “la Stampa” il 25 maggio 2023.

[…] Alberto Genovese, l'enfant prodige delle start up condannato a 8 anni e 4 mesi di galera per aver abusato di Aurelia, studentessa e modella appena maggiorenne, e di un'altra ragazza a Ibiza, si sposa. Convola a nozze con un'ex fidanzata, D., 46 anni, manager di successo nel panorama della consulenza aziendale, persona integra, sana e da sempre innamorata di quel lato di Genovese mai raccontato, finito a frantumi come la loro storia già interrotta dopo quattro anni di fidanzamento serio senza l'immondizia che lui accumulerà in seguito nella sua vita.

Ecco, questo matrimonio è una scommessa esistenziale, si spinge ben oltre la classica promessa di fedeltà per tutta la vita. Genovese può contare ora su pochissime persone, la sorella, la mamma e appunto lei, D., che negli anni del delirio e degli abissi stava a fianco, magari a lato, combattendo come poteva una battaglia disperata per arginare, frenare la discesa negli inferi di chi sentiva come e più di un amico. Ma Genovese era tossico. 

[…] il matrimonio cristallizza un altro gradino in risalita che segue quelli compiuti nei lunghi soggiorni in diverse comunità con incarichi sempre di maggior responsabilità assolti riscuotendo la soddisfazione di medici e terapeuti. A iniziare dalla Narconon Gabbiano di Oliveto Lario, comune di 1.200 abitanti in provincia di Lecco, dove si applicano terapie naturali senza somministrazione di farmaci e psicofarmaci.

In parallelo, arriva la svolta nell'esecuzione della pena: l'imprenditore, con gli avvocati Antonella Calcaterra e Salvatore Scuto, chiede di lasciare il carcere di Bollate per riprendere il percorso terapeutico e scontare gli ultimi 4 anni della condanna che gli restano in una struttura di recupero. 

Tra riti alternativi e sconti, Genovese non tornerà quindi più in carcere? Rinunciando all'appello grazie alla legge Cartabia ha già goduto di un sesto di riduzione della pena, al quale aggiungere un ulteriore sconto per il rito abbreviato. Saranno ora i giudici a decidere ma il parere favorevole della procura generale aumenta le possibilità che la richiesta venga accolta.

Senza però dimenticare che l'imprenditore attende anche l'esito dell'indagine bis per altre presunte violenze, con la procura ordinaria che proprio in questi giorni sta limando la richiesta di rinvio a giudizio, in attesa che Genovese venga sentito, probabilmente già entro metà giugno. 

Tra le parti offese proprio di questo procedimento c'è Ylenia, giovanissima modella abusata per l'accusa da Genovese e che potrebbe costituirsi parte civile. Anche lei, come Aurelia, è andata in televisione a raccontare le violenze patite, mettendo faccia, nome e cognome.

Qualche settimana fa ha consegnato il suo cellulare per farlo analizzare come richiesto dai difensori dell'imputato e di Sarah Borruso e autorizzato dal gip per meglio analizzare i fatti. Ma la notizia arriva dalla sua vita privata. Ylenia ha lasciato Milano, si è fidanzata, è diventata mamma. 

[…] 

Le storie di carnefice e vittima si intrecciano sui social e nei notiziari. E forse meriterebbe più di una riflessione il fatto che, se da una parte Genovese ha accesso a percorsi di recupero per disintossicarsi e cercare quella strada di reinserimento sociale previsto dai codici, le vittime spesso sono abbandonate al loro destino.

Aurelia, ad esempio, dopo aver rifiutato 155 mila euro di risarcimento, chiedendone un milione e mezzo, si è vista quantificare dai giudici una somma di provvisionale assai contenuta, di soli 50 mila euro. […] 

«La riforma Cartabia con la rinuncia all'appello di Genovese - spiega Luigi Liguori, difensore della ragazza - prevede che gli appelli per le statuizioni civili vengono trasferiti alle relative corti, facendo prova tutto quanto stabilito nel giudizio abbreviato penale.

Ma essendoci il ricorso della Borruso, dovremo attendere se il procedimento si sdoppierà o meno. Insomma, per vedere la somma che le spetta, Aurelia rischia di dover attendere anni e anni mentre quei denari le servono ora per ricostruirsi prima come persona e poi mettere le basi per il futuro che merita». Insomma, un tempo davvero insopportabile e che, al contrario, dovrebbe essere celere e certo.

Alberto Genovese e la moglie D., 46 anni, due lauree: «Ci conosciamo fin da ragazzi, ero a Ibiza ma mai stata alle feste». Giuseppe Guastella su Il Corriere della Sera il 24 maggio 2023.

Parla la donna che ha sposato l'ex re delle startup: «Mai stato violento». Il tracollo dopo aver venduto Facile.it per 200 milioni di euro. «A Villa Lolita io al pc in smart working, lui feste e droga fino all'alba» 

Nasce molti anni fa, quanto erano ancora ragazzi, forse addirittura bambini,  il rapporto tra Alberto Genovese, 45 anni, e la donna che ha sposato a dicembre mentre era in detenzione domiciliare in una comunità dove stava seguendo un programma di disintossicazione dalla dipendenza dalla cocaina. «Ci conosciamo da molti anni», dichiara lei al pm milanese Rosaria Stagnaro che la interroga il 20 novembre 2020 due settimane dopo che Genovese era stato arrestato per le violenze a «Terrazza Sentimento». La donna, D., 46  anni, ribadisce  più volte di non aver mai avuto a che fare con le feste a base di alcol e droga finite in almeno due casi con giovanissime donne drogate e violentate dal padrone di casa.

I 4 anni ancora da scontare

D. è una protagonista chiave del percorso che Genovese sta intraprendendo  per uscire dagli inferi in cui è precipitato e che passa attraverso la richiesta di lasciare il carcere di Bollate per essere trattato psicologicamente e clinicamente negli ultimi 4 anni di pena che gli restano da scontare in una struttura specializzata, come chiesto la Tribunale di sorveglianza dai suoi nuovi legali, gli avvocati Antonella Calcaterra e Salvatore Scuto.

La relazione «tradizionale»

Tra i due in passato c’è stato un forte legame sentimentale. «Io molti anni fa ho avuto una relazione con Alberto durata circa quattro anni. Il nostro è stato un rapporto normale», di tipo «tradizionale», precisa la donna, rispondendo al pm che le chiede se sapeva che l’ex re delle startup si dedicasse al sesso estremo con le donne. Dopo che la loro relazione era terminata, continuarono a frequentarsi come amici, anche quando l’imprenditore di origine campana cominciò la relazione con Sarah Borruso, finita con lui a processo e condanna a 2 anni e 5 mesi per una violenza sessuale di gruppo a Villa Lolita di Ibiza.

Le «distanze» da Sarah Borruso

Genovese e Borruso «qualche volta in modo goliardico – mette a verbale D. - hanno raccontato di aver avuto alcuni rapporti sessuali con altre persone, ma io ho trovato questi argomenti sempre particolarmente sgradevoli e non ho mai voluto fare domande in merito», puntualizza, marcando le distanze con le abitudini e pratiche che avrebbero fatto precipitare nel baratro la coppia Genovese-Borruso.

Due lauree e un incarico di rilievo

Due lauree, un lavoro di rilievo in ambito economico e fiscale internazionale, D. sembra aver rappresentato per Alberto Genovese sempre un punto di riferimento, estraneo all’ambiente di cui amava circondarsi nelle feste a base di alcol e droga a Terrazza Sentimento e ad Ibiza. Nella richiesta alla Sorveglianza, ma anche dagli atti del processo finito con la condanna a 8 anni, 4 e 10 giorni, è evidente che nella vita dell’uomo c’è stato un prima ed un dopo. 

Il momento chiave: la cessione di Facile.it

Il confine è rappresentato dalla cessione di Facile.it., la sua startup più fortunata che gli avrebbe fatto incassare 200 milioni di euro, ma gli avrebbe anche stravolto l’equilibrio psichico immettendolo nel trip della droga che assumeva in quantità inumane.

Il patto tacito

In questo quadro, «io avevo una sorta di patto con Alberto: volevo stargli e restargli vicina, ma assolutamente lontana da queste dinamiche». Infatti, «so che Alberto col suo gruppo faceva delle feste, fino a notte inoltrata, ma io non vi partecipavo perché poi al mattino lavoravo, oltre a non gradire il tipo di festa e le persone coinvolte».

A Ibiza in pandemia, in smart working

Nell’estate 2020, durante la pandemia, D. era ospite di Genovese ad Ibiza. «Sono stata in vacanza sia a luglio che ad agosto con Alberto ed un gruppo di suoi amici. A luglio siamo stati in una villa molto lussuosa che aveva affittato ad Ibiza, mentre ad agosto ci siamo spostati a Formentera, in un ambiente più tranquillo e contenuto». D. aveva il suo lavoro, che svolgeva a distanza con il pc. «Ad Ibiza la casa era talmente grande e dispersiva che io ero alloggiata in una zona sopraelevata e distanziata (...). Alberto con il suo gruppo faceva delle feste fino a notte inoltrata, ma io non vi ho partecipato perché poi al mattino lavoravo, oltre a non gradire qual tipo di festa e le persone coinvolte o invitate. Era un mondo da cui tenevo le giuste distanze». 

Quella notte a Villa Lolita

Nella villa c’era un viavai continuo: «Ho visto alcune ragazze molto giovani arrivare e trattenersi nella villa, ospiti di Alberto (…), credo che facessero quel genere di feste che tutti immaginano, con musica techno che andava avanti fino all’alba, ma io ero nel mio alloggio ed avevamo un bodyguard per evitare che i partecipanti alla festa venissero anche davanti alle nostre stanze. Avevano semplicemente scelto di passare l’estate lì piuttosto che stare a Milano, a casa in smart working». D. ricorda che una ragazza si sentì male, anche se non la vide mai, e che all'epoca associò la cosa all’abuso di droga. Era la vittima della violenza di gruppo a Villa Lolita.

Terrazza Sentimento e il «gioco finito male»

Qualche giorno dopo il 10 ottobre 2020, giorno della feroce violenza a Terrazza Sentimento su una modella di 18 anni, Genovese invita D. a cena con altre persone. «Ad un certo punto lui ha detto a tutti che aveva avuto un problema alla fine della festa dei giorni precedenti. Ha parlato di un gioco finito male con una ragazza che si era sentita male, che c’era stato l’intervento della polizia a seguito della denuncia della ragazza e che gli avevano sequestrato la casa. Nell’imbarazzo dell’argomento - aggiunge D. a verbale – non ho ritenuto di fare troppe domande, ma gli ho chiesto di poter parlare con i suoi legali per avere chiarimenti. La sua ricostruzione appariva frammentata e poco credibile. Nella mia testa ho creduto che avesse fatto del sesso con un ragazza, che quel gioco fosse finito male e che qualcosa fosse andato storto a letto con la ragazza e che la casa gli fosse stata sequestrata per la droga». D. non ha potuto parlare con gli avvocati prima del 6 novembre, quando Genovese è stato rinchiuso a San Vittore. Ci tiene, però, a precisare che nonostante lui le avesse parlato di qualcosa andato male con la modella, «l’idea che ci fosse stata effettivamente violenza non mi ha mai sfiorata. Non ho mai visto Alberto come un uomo violento».

Le confidenze all'amica

Nei giorni precedenti all’arresto, l’uomo si confidò con D.: «Mi ha detto che aveva risolto con la ragazza, che la ragazza era tranquilla, che le aveva fatto un regalo. Mi sembra ricordare che parlasse anche di qualcosa regalato alla madre della ragazza che era molto dispiaciuta per quello che era successo. Ricordo che lui mi ha detto che lei sarebbe andata in vacanza con lui ad Istanbul». Nulla di tutto questo si è verificato. Forse Genovese si riferiva al tentativo di far arrivare alla vittima 18enne alcune migliaia di euro, passo che gli è costato l’accusa di aver tentato di comprarne il silenzio. 

Tentativo per il quale è indagato anche Daniele Leali, l’amico e collaboratore di Genovese il cui nome compare nel secondo filone delle indagini per il quale si va verso il rinvio a giudizio. D., in un secondo verbale, precisa che quando le fu detto che «con la ragazza  che aveva denunciato Alberto» il «problema si sarebbe risolto» lei, preparata in diritto, disse che «non era assolutamente così e che se anche avesse ritirato la denuncia ci sarebbe stato comunque un processo penale».

«Cambiava argomento»

La tensione e il disagio aumentavano tra loro. «Non sono riuscita a chiedergli nulla in più in quelle circostanze, perché lui non mi prestava attenzione per un tempo ragionevole e voleva sempre cambiare argomento (…) e devo dire di aver sottovalutato la vicenda e che non ho mai creduto che Alberto sarebbe stato accusato di un reato così terribile».

Il crollo finale

Le condizioni complessive di Alberto Genovese erano andate peggiorando prima dell’arresto. «Negli ultimi mesi la situazione è lentamente degenerata: lui ha cominciato a farsi trovare sempre più spesso in condizioni evidentemente alterate dall’assunzione di stupefacenti». Forse proprio per questo nell'ultimo periodo «la frequentazione si era fatta più assidua, il suo stato di difficoltà certamente più evidente e la necessità di avermi vicino forse era aumentata (…). Come tutte le persone che gli vogliono bene speravamo in un evento che lo fermasse, ma certamente non pensavamo che sarebbe mai potuta accadere una cosa del genere».

Danny Masterson.

Condanna a 30 anni di carcere per l'attore Danny Masterson per stupro. Alessandro Ferro il 7 Settembre 2023 su Il Giornale.

Sono risultate valide le accuse di due donne che hanno dichiarato di essere state stuprate dall'attore americano Danny Masterson. "Gratitudine a loro che hanno raccontato le loro esperienze"

L'attore americano Danny Masterson dovrà scontare 30 anni di carcere per aver violentato due donne. Il 47enne di Albertson, New York, avrebbe provato a sottrarsi alla condanna per essere un esponente di spicco Chiesa di Scientologist. Nel momento della sentenza la moglie, Bijou Phillips, è scoppiata in lacrime.

La testimonianza delle vittime

L'attore della sere tv che andava in onda nei primi anni Duemila, That '70s Show, era già stato dichiarato colpevole lo scorso mese di maggio durante un nuovo processo perché la prima giuria non era stata in grado di dare un verdetto definitivo l'anno precedente. L'attore ha ricevuto la condanna dopo che tre donne hanno testimoniato di aver subito molestie sessuali nella sua abitazione di Hollywood tra il 2001 e il 2003 quando si trovata sulla cresta dell'onda quanto a popolarità. "Signor Masterson, non è lei la vittima. Le sue azioni 20 anni fa hanno portato via la scelta e la voce di un'altra persona", avrebbe dichiarato il giudice nel momento in cui pronunciava la sentenza come si legge su Usmagazine. "Le sue azioni di 20 anni fa erano criminali, è per questo che oggi è qui".

Secondo le testimonianze, Masterson è stato dichiarato colpevole di aver stuprato due delle tre donne che lo hanno accusato: in un solo caso le accuse (della terza donna) non sono state ritenute valide e per questo motivo dichiarate nulle dai pubblici ministeri. L'attore si trova in custodia penitenziaria per il pericolo concreto che possa fuggire. Una prima accusa per lo stesso reato gli era stata già rivolta nel 2017 al culmine del movimento #MeToo quando negò le accuse affermando che gli incontri erano avvenuti in maniera consensuale. Le nuove accuse nei suoi confronti sono arrivate dopo tre anni di indagini portate avanti dal dipartimento di polizia di Los Angeles.

"Vogliamo esprimere la nostra gratitudine alle tre donne che si sono fatte avanti e hanno coraggiosamente condiviso le loro esperienze. Il loro coraggio e la loro forza sono stati fonte d’ispirazione per tutti noi”, dichiarò all’epoca il procuratore distrettuale della contea di Los Angeles, George Gascón. "Anche se siamo delusi dal fatto che la giuria non abbia condannato su tutti i fronti, rispettiamo la loro decisione. I verdetti emessi dalla giuria in questo caso sono stati senza dubbio difficili da raggiungere e ringraziamo i giurati per il loro servizio".

L'attore ha una figlia di 9 anni, Fianna, avuta con la moglie Bijou Phillips che ha sposato nel 2011. "Fin dal primo giorno ho negato le accuse oltraggiose contro di me. Le forze dell’ordine hanno indagato su queste accuse più di 15 anni fa e hanno stabilito che erano prive di fondamento”, dichiarò nel 2017 Masterson a Us Weekly. Come riportano i media americani, invece, Masterson non ha rilasciato alcuna dichiarazione durante la sua sentenza rimanendo seduto in silenzio mentre le due donne, in modo alternato, hanno esortato il giudice a condannarlo con una punizione esemplare.

Conor McGregor.

L'ex campione MMA. Conor McGregor accusato di stupro da una donna: “Violentata in bagno durante le finals NBA”. La star delle arti marziali miste accusata negli Stati Uniti, nega ogni accusa. Antonio Lamorte su L'Unità il 16 Giugno 2023

Conor McGregor è stato accusato di stupro, una violenza sessuale che si sarebbe consumata ai danni di una donna nei bagni dello stadio Kaseya Center durante le NBA Finals tra Miami Heat e Denver Nuggets, negli Stati Uniti. “Siamo a conoscenza delle accuse e stiamo conducendo un’indagine”, affermano i Miami Heat, i padroni di casa della partita. L’ex campione di MMA ha negato tutte le accuse, non è la prima volta che finisce al centro delle cronache mondiali per presunti o verificati episodi violenti lontano dall’ottagono.

La donna che lo ha accusato ha raccontato di aver incontrato McGregor mentre stavano uscendo dall’arena. Un addetto alla sicurezza dell’atleta si sarebbe avvicinato a lei dicendole che McGregor aveva chiesto di incontrarla in bagno. La donna avrebbe accettato l’invito e il lottatore l’avrebbe costretta a praticargli del sesso orale per poi baciarla con forza cercando di concludere l’atto sessuale con violenza. La donna sarebbe riuscita a scappare alla fine. Il suo legale ha annunciato di aver ottenuto alcuni video di quel giorno che mostrerebbero parte di quanto accaduto.

La legale dell’atleta, Barbara Llanes, ha replicato immediatamente. “Le accuse sono false. Il signor McGregor non si lascerà intimidire”. McGregor, 34 anni, – vera e propria stella delle MMA, l’atleta che ha portato le arti marziali miste a un nuovo livello di attenzione mediatica – è stato in passato protagonista di episodi controversi. A New York nel 2018 aveva aggredito un pullman che trasportava dei figther lanciando su un vetro una transenna. A Roma nell’ottobre 2021 era stato accusato dallo showman Francesco Facchinetti di averlo colpito con un pugno.

È stato campione dei pesi leggeri e dei pesi piuma, il primo lottatore nella storia della UFC a detenere due titoli mondiali, il terzo a vincere la cintura in due diverse categorie di peso. Nel 2021, la rivista Forbes lo ha incoronato al primo posto nella classifica degli atleti più pagati al mondo, con un patrimonio complessivo di 180 milioni di dollari. La sera della presunta aggressione, aveva già fatto discutere per un siparietto sul parquet del Kaseya Center: McGregor aveva preso a pugni una mascotte dei Miami Heat, in quella che però sembrava una scenetta preparata. Antonio Lamorte 16 Giugno 2023

Till Lindemann.

Rammstein, archiviata indagine sugli abusi sessuali: non ci sono le prove. Storia di Federico Garau su Il Giornale martedì 29 agosto 2023.

La vicenda che ha visto come protagonista Tim Lindemann, frontman del gruppo tedesco Rammstein, si è chiusa con l'archiviazione delle indagini da parte della procura di Berlino. Il cantante della rock-band era stato accusato di violenza sessuale e di violazione della legge sugli stupefacenti, ma le prove presentate agli inquierenti non sono state considerate sufficienti per proseguire con l'inchiesta. Stando a quanto riferiscono i quotidiani tedeschi, dunque, non sussistono elementi che confermerebbero i reati contestati a Lindemann. Gli inquirenti non avrebbero in mano nulla per dimostrare che il cantante dei Rammstein abbia somministrato farmaci che inducessero confusione nelle vittime né che abbia costretto le stesse a compiere atti sessuali contro la loro volontà.

Cosa dicono gli inquirenti

Il pm del foro tedesco ha spiegato che le presunte vittime non si sono rivolte direttamente alle forze dell'ordine per denunciare lo stupro, ma si sarebbero limitate a parlare con i giornalisti, anche dopo l'avvio dell'inchiesta.

Quanto alle accuse mosse dalla testimone Kayla Shyx, una delle prime a essersi dichiarata vittima di Lindemann, queste "sono rimaste troppo vaghe durante gli interrogatori, soprattutto perché la donna non è stata in grado di descrivere la propria esperienza di incidenti penalmente rilevanti".

L'adescamento e le presunte vittime

Secondo quanto riferito dalle presunte vittime, l'adescamento sarebbe avvenuto via internet. Le giovani hanno raccontato di essere state contattate sui social e invitate a partecipare ai concerti. In altre occasioni, invece, le ragazze sarebbero state selezionate proprio durante le esibizioni. In ognuno dei casi, le prescelte venivano portate alle feste post-concerto e lì sarebbero avvenuti gli abusi. Una delle giovani ha addirittura affermato che per accedere al party esclusivo fosse necessario essere disposte a fare sesso. Altre presunte vittime, invece, hanno dichiarato di essere state drogate.

Il caso Shelby Linn

È stata al 24enne irlandese Shelby Linn ad accusare per prima Tim Lindemann. La ragazza ha raccontato di essere stata contattata via Instagram per assistere al concerto dei Rammstein a Vilnius. Durante un party pre-esibizione sarebbero stati offerti dei drink e lei ne avrebbe bevuto uno, subendone gli effetti. La giovane ha dichiarato di ricordare poco di quei momenti. Durante l'intervallo del concerto, stando alla sua versione, sarebbe stata portata in una stanza proprio sotto al palco, e lì il cantante dei Rammstein le avrebbe chiesto di avere un rapporto sessuale. La Linn avrebbe rifiutato e, stando a quanto affermato successivamente dalla ragazza, Lindemann non avrebbe approfittato di lei.

Estratto dell'articolo di Gianmarco Aimi per mowmag.com il 16 giugno 2023.

[…] In Germania è scoppiato il caso Till Lindemann, il cantante e frontman dei Rammstein […] accusato dopo numerose denunce (finora almeno dodici, ma continuano ad aumentare) di violenze e di abusi sessuali avvenuti durante gli after party organizzati dopo i concerti della famosa band metal. […] 

noi di MOW siamo in grado di ricostruire anche l’esperienza diretta di un uomo, italiano, che ha preso parte a uno di quei festini per ore accompagnato da un’amica che in seguito, vedremo in quali circostanze, si è sentita male e ha rischiato la vita[…]

 “Ho partecipato come ospite, insieme a una amica, a un concerto dei Rammstein meno di un anno fa. […] Finito lo spettacolo veniamo accompagnati nei camerini e passiamo un paio d’ore a chiacchierare, e fin qui tutto bene. Alle 2 di notte la persona che ci aveva invitato decide di andare a dormire e noi due rimaniamo all'after party. In quel momento scopriamo che della band è rimasto soltanto Till Lindemann e, stranamente, veniamo scortati in una stanza dove sono presenti 30-40 ragazzine, alcune in abiti molto succinti, e dove il clima è strano”.

[…]  “Rispetto a prima le ragazze non sembrano divertirsi e anche noi ci sentiamo in imbarazzo. Scopro, parlando con alcuni dell’entourage, che sono state reclutate tramite Instagram da una donna, che è proprio l’addetta a questa attività. […] ricordo di averla vista prima del concerto, all’ingresso, e che era lei a pubblicare prima di ogni evento delle Stories dove chiedeva alle fan della band chi fosse presente a quel live e di contattarla se avessero voluto partecipare all’after party. Infatti, tra le file per l’ingresso nella venue, c’era una fila dedicata solo a quelle ragazze. Non solo, ho capito perché l’addetta alla selezione teneva in mano lo smatphone con Till Lindemann collegato in diretta video. […]”.

[…] “Quando Till entra nella stanza porta anche una tinozza piena di vodka e birre, invitando tutti a bere. Tutti accettano, tranne me. […] La mia amica, invece, ha bevuto un cocktail con la vodka che, come mi spiegarono, era preparato dallo stesso Till. A quel punto, il cantante inizia a spaccare bicchieri e bottiglie contro i muri e penso: ‘Ma cosa gli prende?’. […] Mi faccio da parte per evitare il contatto con lui, non sapendo quali sia le sue intenzioni, e vedo in un angolo un ragazzo con uno zainetto e, forse, quella è una delle cause del suo comportamento”.

[…] “Dallo zaino continuava ad estrarre buste di cocaina o di marijuana e le distribuiva alle ragazze. Non mi ha stupito più di tanto, visto che conosco l’ambiente della musica e i vizi di certi artisti, però le quantità erano davvero enormi”. […]

 “A un certo punto Lindemann raggruppa tutte le ragazze, dalle 30 alle 40, e comincia a inscenare un trenino. Nel frattempo, alcune di loro si sentono male, tanto che sono dovuti intervenire i soccorsi e le hanno portate via in ambulanza. D’un tratto, una di loro poco più che maggiorenne, si avvinghia al mio braccio, piange e mi dice: "Don't leave me alone" (“Non lasciarmi sola, ndr). Io le faccio cenno di sì, ma certo la situazione non mi rende sereno. Intanto Till scopa ormai senza ritegno davanti a tutti e con più ragazze. Ne prende tre, le sdraia su un tavolo, e le penetra a turno, tanto per dare un’idea delle scene. Io devo aver avuto un’espressione veramente esterrefatta, visto che mi si è persino avvicinato un membro dello staff che ha cercato di rassicurarmi dicendo: “Tranquillo, a volte è anche peggio…”. 

[…]  “Noi siamo entrati alle 2 e dopo le 4 ce ne siamo andati, ma Lindemann continuava ancora a offrire da bere i cocktail preparati da lui e se non accettavi si incazzava, a spaccare le cose presenti in sala e a fare sesso di fronte a tutti, a turno o in gruppo con le ragazze che sembravano non opporre nessuna resistenza”. […] 

“Dopo le 4 la mia amica mi dice di non sentirsi bene e la vedo in faccia che c’è qualcosa che non va. Chiedo allo staff di andarcene e ci accompagnano in furgone al nostro hotel. Lì, però, la mia amica è peggiorata. Non sembrava una semplice ubriacatura, anche perché aveva bevuto solo un bicchiere di quell’intruglio contenuto nella tinozza portata da Lindemann. Le sono stato accanto tutta la notte, ho temuto per la sua vita. Lei, oltre che scioccata per quello a cui aveva assistito, stava malissimo. In seguito ci ha messo tre giorni per riprendersi e mi ha detto di non ricordare nulla di quello che era successo all’after party. Questo mi ha insospettito su ciò che potevano contenere quei cocktail”.

[…] “il resto del gruppo è rimasto fino alle 2 di notte e poi si è dileguato: “Come se sapesse che cosa sarebbe accaduto in seguito e non condividesse le modalità con cui di 'divertiva' Lindemann”. Non a caso, ha anche sottolineato: “Dalle 2 in poi sono stati sequestrati tutti i cellulari delle persone presenti, soprattutto delle ragazze. A noi due no, forse perché eravamo ospiti diretti della band e quindi più ‘rispettabili’, quindi ci hanno solo raccomandato di non tirare fuori gli smartphone dalle nostre tasche o ci avrebbero accompagnati all’esterno”. 

[…]  “un conto sono le follie da rockstar, un’altra cosa violenze e abusi. Io non posso condannare nessuno, ma aiutare a capire cosa succedeva a quei party sì, perché mi è sembrato tutto molto più che estremo”. […]

Estratto dell'articolo di Tonia Mastrobuoni per “la Repubblica” il 16 giugno 2023.

Il più grande scandalo del rock tedesco scoppia quando Shelby Lynn posta sui social foto di enormi lividi violacei che si è ritrovata sui fianchi e sulle braccia dopo un concerto a Vilnius della band Rammstein. È il 25 maggio. E la 24enne nordirlandese dice di non sapere come se li sia procurati: “Ero troppo fuori di testa, sotto l’influenza di qualcosa. Sono foto della fine e della mattina dopo #rammstein”. La ragazza ricostruisce poi la serata attraverso alcune interviste successive.

Da fan sfegatata del più famoso gruppo rock tedesco, ha trovato sul web notizie su festini post concerto.

Contatta lo staff e viene immediatamente invitata a una pre-party. Lì le offrono dell’alcol e la prima fila del concerto. In alcuni video che lei stessa posta il giorno dopo, è palesemente fuori controllo già durante lo show. […]Quando Till Lindemann, il frontman della band, entra nello stanzino, lei gli spiega che “se sei qui per il sesso, io non lo voglio fare.Il sesso per me è qualcosa di speciale”. Lui si infuria, le intima di rimanere nell’angusta saletta tutta arredata di nero: “No, tu rimani qua dentro!” le urla. Poi tutto si annebbia, tutto si confonde. […] 

[…] Ormai le testimonianze rovesciate su tutti i social da una valanga di ragazze da ogni angolo del mondo lasciano pochi dubbi su Lindemann. Tanto che la procura di Berlino ha aperto un’indagine.

Denuncia dopo denuncia, sta emergendo uno schema ributtante. […] Dietro l’aura da maledetto, dietro l’icona gotica del rock, si nascondeva un maniaco. E non che il cantante non l’abbia dichiarata, la sua malata predilezione per donne inermi. In una poesia, il frontman dei Rammstein ha ammesso di preferire le donne stordite da Rohypnol. 

Il frontman sessantenne avrebbe costruito un vero e proprio sistema per attirare le groupies, neutralizzarle con la cosiddetta “droga dello stupro” e abusare di loro. Complice una “direttrice del casting”, Alena Makeeva, ex collaboratrice di Marilyn Manson, che le avrebbe adescate. Lui, sulle accuse, tace. […]

I racconti sui blackout, sugli stupri, sulle ragazze che si sono risvegliate dallo stordimento da droghe con Lindemann nel loro letto o addirittura sopra di loro sono troppi per essere inventati. Testimonianze corredate di video e foto dei festini, screenshot degli scambi di messaggi con Makeeva. E molte delle vittime, una volta uscite allo scoperto, sono state talmente riempite di insulti, minacce, sono state talmente derise che a nessuno può venire il dubbio che lo abbiano fatto per il warholiano quarto d’ora di notorietà.

[…]

Gérard Depardieu.

Estratto dell'articolo di Stefano Montefiore per corriere.it venerdì 8 dicembre 2023.

Gérard Depardieu è accusato di violenze e molestie sessuali da 16 donne; di queste, due l’hanno denunciato, e se le indagini in corso porteranno a un processo il grande attore francese rischierà 15 anni di carcere. Ma accanto all’iter giudiziario e al suo esito c’è la questione dell’immagine di Depardieu, che sembra già compromessa in modo irreparabile dopo la puntata di ieri sera di «Complément d’enquête», la trasmissione d’inchiesta in onda ogni giovedì sulla rete del servizio pubblico France 2.

In particolare, sono stati diffusi alcuni video registrati durante il viaggio che Depardieu ha compiuto in Corea del Nord nel 2018, accompagnato dallo scrittore e regista Yann Moix che lo filmava per produrre un documentario. Depardieu parla continuamente di sesso con qualsiasi interlocutrice femminile, in particolare fa apprezzamenti espliciti e volgari sulle interpreti, che o non reagiscono o provano timidamente a rispondere per rimetterlo al suo posto, invano. All’epoca 69enne (oggi ha 74 anni), obeso al punto da spostarsi in sedia a rotelle per i tragitti più lunghi, Depardieu risulta disgustoso per una logorrea pornografica che non risparmia neppure una bambina di 10 anni.

Ogni volta che Gérard Depardieu si trova davanti a una donna emette versi gutturali e grugniti, mima la salivazione e fa commenti sugli organi sessuali delle accompagnatrici, vantando più volte le dimensioni della propria erezione. Alla fine, la sua imitazione della lingua coreana al limite del razzismo, davanti al personale dell’albergo, diventa uno dei momenti meno fastidiosi del filmato. 

Durante una visita a una scuderia, Gérard Depardieu comincia a sentenziare che le donne cavalcano per piacere sessuale: «Le donne amano cavalcare. Hanno il clitoride che sfrega contro il pomo della sella. Vengono spesso, sono delle gran putt…». Poi guarda una bambina di 10 anni in sella a un cavallo al passo e dice «vedrai se si mette a galoppare… Vedi già come si struscia».

(ANSA 1 ottobre 2023) "Non posso più permettere quello che sento, che leggo su di me da qualche mese". Ma "di fronte al tribunale mediatico" mi resta "soltanto la mia parola": è quanto scrive in una "lettera aperta" al quotidiano Le Figaro, l'attore francese Gérard Depardieu, sotto inchiesta per "stupro" e "violenze sessuali", negando di aver mai violentato una donna. L'attore, 74 anni, ha visto diversi suoi spettacoli interrotti o disturbati dalle proteste di militanti femministe.

 Per questo, dopo aver osservato il silenzio sulle accuse che gli sono state mosse, ha deciso di uscire allo scoperto. "Credevo di potermene fregare - scrive Depardieu - ma no, non è così. Tutto questo mi colpisce. Peggio ancora, mi spegne. Oggi non posso più cantare canzoni di Barbara (la celebre artista francese, cantautrice ed attrice, ndr) perché una donna che voleva cantarle con me mi accusa di stupro. Vi dico, finalmente, la mia verità. Mai, nel modo più assoluto, ho abusato di una donna". 

Ed ecco la sua versione: "una donna è venuta da me una prima volta, con il passo leggero, salendo nella mia stanza di sua volontà. Oggi afferma di essere stata stuprata. C'è tornata una seconda volta. Fra noi non c'è stata mai né costrizione, né violenza, né proteste. Lei voleva cantare con me le canzini di Barbara al Cirque d'Hiver. Le ho detto di no. E lei mi ha denunciato".

La donna, attrice, è Charlotte Arnould, era forse "sotto l'influsso" di qualcuno o qualcosa? Si chiede Depardieu. Ma risponde: "tutto siamo sotto l'influenza di qualcuno o qualcosa. Io stesso sono influenzato: dal mio DNA, dalla famiglia, dalla società, dal denaro, dallo spettacolo, dall'alcool, e dal cinema". "Per tutta la mia vita - scrive ancora - sono stato un provocatore, esagerato, a volte volgare. Davanti al tribunale mediatico, al linciaggio che mi viene riservato, posso opporre soltanto la mia parola".

"Non sono né un violentatore, né un predatore - continua - sono soltanto un uomo, ma sono anche una donna, che canta. E che canta una donna, Barbara. Vedere che a concerti dopo concerti, degli estremisti, senza riguardo, mostrano cartelli calunniosi, sporcare, vandalizzare, interrompere urlando le canzoni di Barbara, questa donna profondamente femminista, significa seppellirla un'altra volta. Ormai, non posso più far sentire la sua voce".

Dagospia il 3 ottobre 2023. DAGOTRADUZIONE DELLA LETTERA DI GÉRARD DEPARDIEU A “LE FIGARO”

Non posso più tollerare ciò che ho sentito, ciò che ho letto su di me negli ultimi mesi. Pensavo di non darci peso, ma in realtà no, tutto questo mi colpisce. Ancora peggio, mi spegne. Voglio finalmente dirvi la mia verità. Mai, in nessun caso, ho abusato di una donna. Fare del male a una donna sarebbe come colpire lo stomaco di mia madre. 

Una donna è venuta a casa mia una prima volta entrando volontariamente nella mia camera. Oggi afferma di essere stata violentata lì. È tornata una seconda volta. Tra di noi non c'è mai stata costrizione o violenza.

Durante tutta la mia vita sono stato provocatorio, eccessivo, a volte volgare. Ho fatto spesso ciò che nessuno osa fare: testare i limiti, sfidare certezze e abitudini. Se pensando di vivere intensamente il presente ho ferito, scioccato qualcuno, non ho mai pensato di fare del male e vi prego di scusarmi se mi sono comportato come un bambino che vuole divertire il pubblico. 

Ma non sono né uno stupratore né un predatore. Sono solo un uomo... ma sono anche una donna, che canta e canta una donna, Barbara. Vedere concerto dopo concerto degli estremisti, senza discernimento, sventolare striscioni diffamatori, sporcare, vandalizzare, interrompere urlando le canzoni di Barbara, questa donna profondamente femminista, è seppellirla nuovamente.

Estratto dell’articolo di Anais Ginori per “La Repubblica” il 3 ottobre 2023.

La Francia si divide su Gérard Depardieu, il “mostro sacro” del cinema come veniva chiamato Oltralpe il grande divo. In una lettera inviata al Figaro, Depardieu denuncia un «linciaggio orchestrato dal tribunale mediatico» di cui sarebbe vittima in seguito a una denuncia per stupro e diverse testimonianze che lo accusano di molestie. […] 

Il riferimento è all’attrice Charlotte Arnould, che lo ha denunciato per due presunti stupri risalenti al 2018, avvenuti nella casa parigina del divo francese. […] Il 16 dicembre 2020 Depardieu è stato indagato per “stupro” e “violenza sessuale” dopo la denuncia di Arnould. L’indagine, chiusa per la prima volta dalla procura di Parigi nel giugno 2019, è stata riaperta un anno dopo. Carine Durrieu Diebolt, avvocata dell’attrice, si è detta «scioccata e indignata». «Non sarà certo questa - ha commentato - la verità che verrà accertata dai tribunali».

Nell’aprile scorso, 13 donne hanno testimoniato con Mediapart, sito molto attivo nel MeToo del cinema, rivelando presunti abusi commessi tra il 2004 e il 2022. A luglio si sono aggiunte due donne, che hanno parlato sotto anonimato con France Inter. 

Molte delle accusatrici per adesso non vogliono fare denuncia e subire il tormentato percorso giudiziario. «Non sono né un predatore né uno stupratore», dice ancora Depardieu. Le Monde ha pubblicato un’inchiesta a puntate quest’estate intitolata: “Il crepuscolo di un’icona del cinema inseguita dai suoi stessi eccessi”. «Il suo comportamento nei confronti delle donne, a lungo tollerato dal mondo del cinema - scrivevano i giornalisti - gli è valso gravi accuse e un isolamento sempre più totale».

I festival lo invitano sempre di meno. L’attore, 74 anni, è stato assente dalla promozione del suo ultimo film “Umami”, e ieri il regista premio Oscar Michel Hazanavicius ha confermato che, «di comune accordo », l’attore non lavorerà più nel suo nuovo progetto. 

Il “mostro sacro”, già criticato per le sue amicizie con Vladimir Putin e altri autocrati, sta diventando sempre meno sacro. Costretto anche a vendere all’asta gran parte della sua collezione di opere d’arte. Poche le voci in sua difesa. Non parlano Catherine Deneuve, né l’ex moglie Elisabeth Depardieu e l’ex compagna Carole Bouquet. […]

Estratto dell’articolo di Daniele Priori per “Libero quotidiano” il 19 luglio 2023.

Più che Il sapore della felicità, titolo del suo ultimo film, presto in uscita anche in Italia, la parabola di Gerard Depardieu, attore 74enne, noto come il divo del cinema francese più celebre al mondo, ha i colori oscuri di un mesto tramonto. 

Contro lo storico interprete del Conte di Montecristo, infatti, ci sono le parole di ben quattordici donne (anche se una sola, ad oggi, lo ha denunciato) che lo accusano, in buona sostanza, di essere uno spudorato predatore sessuale. 

[…]  L’attore […] è costretto a vivere senza quasi più mostrarsi in pubblico. A meno che non voglia rischiare di divenire oggetto di pesanti contestazioni ad opera delle femministe che aderiscono al movimento #metoo. Al resto ci pensano la stampa e i produttori che, tranne eccezioni sempre più rare, si adeguano ai diktat delle campagne social e cercano di evitare di collaborare con lui.

Tanto che è iniziata esattamente questa settimana sul quotidiano Le Monde addirittura un’inchiesta a puntate intitolata proprio «il crepuscolo di un’icona del cinema inseguita dai suoi stessi eccessi». 

Reportage giornalistico che esce con un tempismo perfetto se si considera che, proprio in questi giorni, arriva nelle sale (senza la possibilità per l’attore di fare alcun tipo di promozione) il film nel quale Depardieu interpreta il ruolo di Gabriel, miglior chef stellato di Francia, con due ossessioni: una influencer che lo perseguita (particolare abbastanza affine agli ultimi tratti biografici del grande attore) e l’Umami (titolo originale del film) ovvero una zuppetta di nodles giapponesi grazie alla quale un suo collega nipponico aveva sconfitto a inizio carriera il cuoco francese.

[…] 

Singolare […] il fatto che proprio l’inchiesta di Le Monde si soffermi quasi più sul gossip che sulla reale portata dei fattacci dei quali l’attore viene accusato. La ragazza 27enne che l’ha denunciato, ha raccontato di un Depardieu che, dopo vari tentativi molesti, si è calato le braghe di fronte a lei, mostrando il suo sesso per poi inseguirla, mettendola spalle al muro in un corridoio. 

Testimonianze anche scabrose di palpeggiamenti su natiche e inguini o baci strappati senza consenso di cui, secondo Le Monde, ci sarebbero addirittura prove video. Nonostante tutto ciò, come detto, solo una è stata la denuncia che ha generato un procedimento prima archiviato, poi ripreso in mano nel quale tuttavia, Depardieu si è sempre difeso sostenendo che la ragazza autrice della querela fosse in realtà consenziente.

Giovandosi della testimonianza a suo favore dell’attrice Fanny Ardant la quale in aula ha sostenuto che l’accusatrice fosse in realtà in cerca di un ruolo, mentre altre donne a lui vicine, dalla sua ex moglie Elisabeth Depardieu come dall’ex compagna Carole Bouquet e dall’amica Catherine Deneuve che si sono ben guardate dal deporre a processo. 

[…] ad oggi incontra la solidarietà pubblica del solo Michelle Houellebecq, scrittore corsaro, finito ultimamente in una singolare storia (forse un raggiro) che lo vede comparire in un filmato pornografico amatoriale. Provocazione di un collettivo di artisti olandesi dal quale Houellebecq ha preso le distanze. Sentendosi del tutto compreso solo da Depardieu.

Estratto dell'articolo di Anais Ginori per repubblica.it il 18 luglio 2023.

“Gérard Depardieu, il crepuscolo di un'icona del cinema inseguita dai suoi stessi eccessi”. Dopo Mediapart, sito che per primo ha dato voce alle donne che accusano Depardieu di violenze e molestie sessuali, ora è Le Monde a inaugurare una lunga inchiesta sul più famoso attore francese vivente. […] 

“Il suo comportamento nei confronti delle donne, a lungo tollerato dal mondo del cinema - prosegue l'articolo - gli è valso gravi accuse e un isolamento sempre più totale”. […] I festival, scrive Le Monde, lo invitano sempre di meno. Un tempo nell'ambiente si “rideva del suo comportamento rabelaisiano" notano ancora i giornalisti. “Oggi i produttori temono che sia "poco #metoo"”. 

Depardieu, 74 anni, non è più un intoccabile, come lamentano le vittime che lo hanno denunciato negli ultimi mesi: tredici donne a cui è si aggiunta qualche giorno fa anche un'assistente alla regia che ha testimoniato su  France Inter su fatti che risalirebbero a circa otto anni fa. […]

Molte delle accusatrici per adesso non vogliono fare denuncia e subire il tormentato percorso giudiziario. Al momento esiste una sola inchiesta scaturita dalla testimonianza dell'aspirante attrice Charlotte Arnould, che lo ha denunciato per un doppio stupro avvenuto nel 2018. L'attore si difende sostenendo che erano rapporti consenzienti, che la giovane donna "non ha opposto resistenza", aggiungendo di aver visto nei suoi occhi "un misto di stupore e complicità". L'inchiesta viene prima archiviata e poi riaperta. Lo scandalo comincia a montare con la pubblicazione in aprile delle altre testimonianze raccolte da Mediapart.

Lentamente Depardieu - già criticato per le sue amicizie con Vladimir Putin e altri dittatori - diventa un impresentabile. Poche le voci in sua difesa. Non parlano Catherine Deneuve, né l'ex moglie Elisabeth Depardieu e l'ex compagna Carole Bouquet. “Solo Fanny Ardant, sua partner in La signora della porta accanto (1981) di François Truffaut, ha testimoniato contro Charlotte Arnould, sostenendo che la giovane donna era in cerca di un ruolo” osserva Le Monde che ripercorre la lunga omertà nell'ambiente cinematografico. “Ci sono molte riprese, e anche servizi televisivi, in cui l'attore fa gesti osceni alle comparse o bacia una truccatrice” scrivono Bacqué e Blumenfeld. Immagini a lungo passate sotto silenzio.

Nel frattempo però è arrivato il MeToo, che dilaga nel cinema francese. I vari progetti di nuovi film vengono cancellati. La sua tournée di concerti prevista in questi mesi, con le canzoni di Barbara, è accompagnata da proteste di femministe. Alcune sale decidono di annullare le date. La casa di produzione del suo ultimo film Umami decide a maggio di non farlo partecipare alla promozione.

Gérard Depardieu, nuove accuse per violenza sessuale. Ma le giovani attrici hanno paura a esporsi. Storia di Stefano Montefiori su Il Corriere della Sera il 10 luglio 2023.  

 Una nuova testimonianza contro Gérard Depardieu, 74 anni, già indagato per violenza sessuale dopo la denuncia di Charlotte Arnould nel 2018 e accusato da altre 13 donne nel giornale Mediapart nell’aprile scorso. Questa volta a parlare, alla radio France Inter, senza svelare la propria identità, è una donna che ha fatto l’aiuto regista sul set di una serie tv con Depardieu come protagonista. La donna, 27enne all’epoca dei fatti, spiega di avere accettato quel lavoro perché ne aveva bisogno, anche se conosceva la reputazione di Depardieu e aveva già sperimentato in precedenza i suoi commenti a sfondo sessuale.

Le riprese cominciano, e «Depardieu si permette osservazioni sul mio fisico davanti a tutta la troupe. Poi si mette a fare proposte sessuali esplicite, arriva a propormi denaro, e prende l’abitudine di allungare le mani». Le cose trascendono un giorno che all’aiuto regista viene chiesto di restare in una stanza con Depardieu, per essere certi che l’attore non entri nell’inquadratura durante una ripresa difficile. «Si è tirato giù i pantaloni mostrandomi il sesso, ho lasciato la stanza ma mi ha trattenuta nel corridoio e mi ha bloccata contro il muro. Appena mi sono ripresa dallo choc sono andata a chiudermi in un’altra stanza».

La donna dice di essersi decisa a parlare dopo avere letto le testimonianze delle 13 donne raccolte da Mediapart la scorsa primavera, ma come loro per adesso non presenterà denuncia perché teme ritorsioni professionali e Depardieu «è considerato un intoccabile» nel mondo del cinema. I legali dell’attore per adesso non si sono ancora pronunciato sull’ultimo caso, ma finora Depardieu ha sempre negato di avere commesso qualsiasi atto penalmente perseguibile. Le accuse più circostanziate, le sole pronunciate davanti ai gendarmi e poi ai giudici, sono quelle di Charlotte Arnould, amica di famiglia di Depardieu, che a fine agosto 2018 si è presentata alla gendarmeria di Lambesc, nel sud della Francia, denunciando di essere stata violentata in due occasioni nel grande appartamento della star nel VI arrondissement di Parigi. Arnould, all’epoca 22enne, si era rivolta a Depardieu per chiedergli aiuto nella recitazione e nella carriera di attrice. La procura di Parigi in un primo momento ha archiviato il cas o che però nel 2020 è stato riaperto e affidato a un giudice istruttore che il 16 dicembre ha messo sotto inchiesta Depardieu per «violenze e aggressioni sessuali».

Nel maggio 2021 l’attore ha chiesto l’ annullamento dell’inchiesta ma la sua domanda è stata respinta nel marzo 2022 e le indagini continuano. Le tante accusatrici dicono di non rivolgersi alla giustizia perché scoraggiate dal precedente di Charlotte Arnould, che dice di «vivere un inferno da cinque anni» e di essere stata costretta a rinunciare alla carriera di attrice. Depardieu è un monumento del cinema francese che, secondo loro, gode di una sostanziale impunità nonostante tutti conoscano i suoi eccessi, perché la sua sola presenza nel cast porta i finanziamenti necessari ai film. Da un lato la parola di giovani donne sconosciute all’inizio della carriera e quindi in una situazione professionale precaria; dall’altra un gigante senza il quale molti film non si potrebbero girare. Depardieu continua a proclamarsi innocente

Estratto dell'articolo di Concetta Desando iodonna.it il 13 aprile 2023.

Già indagato dallo scorso anno per stupro e aggressioni sessuali, Gérard Depardieu finisce di nuovo nell’occhio del ciclone per nuove accuse di abusi. A puntare il dito contro l’attore 74enne, uno dei simboli del cinema francese, è il sito d’inchiesta Mediapart, che ha svelato le testimonianze di 13 donne che lo accusano. Ma lui, come già in passato, torna nuovamente a negare gli abusi, respingendo fermamente tutte le accuse. […]

 Le parole di Sarah Brooks

Tra le testimonianze riportate nell’inchiesta, compare anche quella di Sarah Brooks. L’attrice ha conosciuto Depardieu nel 2015 sul set di Marseille, la prima serie francese di Netflix, che per lei – all’epoca ventenne – era la prima esperienza cinematografica. A Mediapart la Brooks ha raccontato che durante lo scatto della foto di gruppo, Depardieu le infilò una mano negli short.

Lei gli tolse la mano «una prima volta», ma lui insisté, proseguendo la molestia. «Gliel’ho tolta una seconda volta e ho detto ad alta voce: c’è Gégé (diminutivo di Gérard, ndr) che allunga le mani nei miei pantaloncini». Lui, imperturbabile, le avrebbe quindi risposto: «E allora? Pensavo che volessi sfondare nel mondo del cinema». E a quel punto «Tutti si sono messi a ridere. Io stavo malissimo: è stato davvero umiliante».

 Considerato intoccabile

[...] cast e produzione hanno dato poco peso all’accaduto come se l’attore fosse un «mostro sacro» intoccabile.

 L’unico a intervenire, secondo Mediapart, è stato invece il regista Fabien Onteniente, che ha confermato di aver richiamato Depardieu per i suoi atteggiamenti sul set di Turf.

Gérard Depardieu nega

Da parte sua, l’attore franco-russo (Depardieu ha ottenuto la cittadinanza onoraria russa nel 2013 direttamente da Vladimir Putin) continua a negare, e attraverso i suoi legali smentisce nuovamente, come già in passato, «l’insieme delle accuse di carattere penale».

Gérard Depardieu, nuove accuse di molestie sessuali da 13 donne. L’attore nega. Storia di Redazione Spettacoli su Il Corriere della Sera il 12 aprile 2023.

Nuove accuse di molestie sessuali contro Gérard Depardieu: ad accusare l’attore francese, 74 anni, sono 13 donne che sostengono di essere state palpeggiate o di aver ricevuto commenti di carattere sessuale fra il 2004 e il 2022. A rivelarlo è un’inchiesta del sito francese Mediapart che spiega anche come gli abusi sarebbero avvenuti sui set di film o produzioni televisive e in luoghi pubblici. Un rappresentante legale di Depardieu, che è già indagato per stupro e aggressioni sessuali, ma si è sempre dichiarato innocente, ha fatto sapere che l’attore «nega formalmente ogni accusa di carattere penale».

Nell’inchiesta di Mediapart vengono citate le testimonianze di 13 donne sul set di 11 film o telefilm, ma anche il racconto di alcuni testimoni. Nessuna di loro, dice il sito, ha voluto denunciarlo in modo formale: «Alcune hanno rinunciato, altre non ci hanno nemmeno pensato. Motivo? La sensazione che le loro testimonianze peserebbero poco dinanzi a questo monumento del cinema francese. E che potrebbero anche segnare la fine della loro carriera».

Tra le testimonianze, quella dell’attrice Sarah Brooks, con Depardieu sul set di «Marseille», prima serie francese di Netflix, nel 2015. L’attrice, all’epoca ventenne, ha raccontato che al momento di scattare una foto con l’insieme della produzione, Depardieu le infilò una mano negli short, facendo «un grosso rantolo bizzarro». Aggiunge di aver tolto la mano dell’attore «una prima volta», ma lui ha insistito infilandola nuovamente «nelle mutande» della giovane e cercando di palparle il sedere. «Gliel’ho tolta una seconda volta e ho detto ad alta voce: c’è Gégé (Depardieu) che allunga le mani nei miei pantaloncini». A quel punto lui avrebbe risposto: «E allora? Pensavo che volessi sfondare nel mondo del cinema?».

«Tutti si sono messi a ridere - continua l’attrice nella testimonianza alla giornalista Marine Turchi - io stavo malissimo: è stato super umiliante». Simili testimonianze sono arrivate da altre attrici o figuranti e tutte sono concordi nel dire che ogni volta cast, registi o produzioni varie, hanno prestato poco se non zero ascolto alle vittime, come se Depardieu fosse intoccabile. Ad eccezione del regista Fabien Onteniente, che conferma di aver richiamato all’ordine l’attore dopo alcuni palpeggiamenti sul set di «Turf».

Estratto dell’articolo di Emanuela Minucci per la Stampa il 12 aprile 2023.

La notizia campeggia a titoli cubitali sui giornali francesi, e il primo a riprenderla è stato Le Figaro: l’attore Gerard Depardieu (73 anni), l’attore preferito da Truffaut è accusato da ben tredici donne di violenza sessuale. A rivelarlo, ieri sera, il sito investigativo Mediapart disegnando l’identikit di un Weinstein transalpino.

 Le terribili accuse si aggiungono all'incriminazione dell’attore per stupro in seguito a una denuncia presentata da Charlotte Arnould. L’attrice ha appena consegnato la sua storia alla giustizia, denuncia di essere stata abusata per due volte nell’agosto 2018.

 Secondo quanto riferito da Mediapart altre tre vittime hanno testimoniato in tribunale di aver subito molestie sessuali, ma non hanno sporto denuncia. Un’altra ragazza di 24 anni ha raccontato di essere stata aggredita dall’attore durante le riprese del film «La casa grande». Nella sua deposizione ha spiegato: «È diventato aggressivo, ha cercato di togliermi le mutandine. Ho capito che non stava interpretando il suo personaggio. Se non l’avessi fermato, avrebbe funzionato».

Scrive Le Figaro: «Secondo i media online, le violenze sono avvenute sul set di undici film e in luoghi all'aperto. Secondo quanto riferito, tre di queste donne hanno testimoniato in tribunale senza sporgere denuncia». E ancora: «Alcuni si sono arresi, altri non ci hanno nemmeno pensato. In questione, la sensazione che la loro parola peserebbe poco contro il monumento del cinema francese. E che potrebbe anche firmare la fine della loro carriera». Alcune attrici hanno preferito restare anonime, altre hanno deciso di apparire sotto pseudonimo.

(...)

Stefano Maria Cogliati Dezza.

Estratto dell’articolo di Emiliano Bernardini e Valentina Errante per “il Messaggero” il 18 febbraio 2023.

Per due volte ha tentato il suicidio ed è stata ricoverata, dopo avere trovato il coraggio e la forza di sottrarsi a quel medico che anziché aiutarla a superare i problemi, la violentava e l'ha resa dipendente dalle benzodiazepine. Parla a fatica, Clara (il nome è di fantasia) la 27enne soggiogata e abusata dallo psichiatra Stefano Maria Cogliati Dezza, 72enne, condannato in primo grado a quattro anni e sei mesi.

 «Tutto è cominciato per via del mio maledetto peso. Da anni soffrivo e soffro di disturbi alimentari. All'epoca pesavo 85 chilogrammi. Mi vergognavo del mio corpo e non volevo uscire di casa, ecco perché ho deciso di andare da uno psichiatra».

 «[…] Io avevo anche tentato il suicidio, mi vergognavo a tal punto che non avevo altri pensieri. Ero ossessionata. Mi alzavo per mangiare anche di notte».

Come e da chi le era stato consigliato Cogliati Dezza?

«È uno psichiatra molto conosciuto, tutti ne parlavano bene. [...]».

 Invece è stato un incubo dal quale non riusciva a uscire.

«Andavo una volta al mese. Il professore mi aveva promesso che sarei dimagrita, e in effetti in pochi mesi sono arrivata a 55 chili scarsi. Non facevo diete ma mi dava dei farmaci. Il problema è che sono passata da essere sovrappeso a quasi anoressica. [...]».

 L'approccio è stato da subito sessuale o è stato un crescendo?

«Direi che da subito è stato un approccio sessuale, anche se io non lo avevo capito. Mi faceva spogliare [...], mi toccava e mi chiedeva costantemente delle foto per vedere i miglioramenti e il dimagrimento del mio corpo. Facevamo anche delle videochiamate e lui mi incentivava a dimagrire. […]  Inizialmente erano rapporti orali poi ha cominciato a legarmi e a picchiarmi con un bastone».

Il tutto avveniva sempre nel suo studio?

«Sì, aveva una stanza con un letto dove mi legava. Aveva molta dimestichezza con i nodi e le legature, si vedeva che non erano improvvisate. Poi mi colpiva col bastone. All'inizio io mi lamentavo perché mi faceva male e allora ha iniziato a farmi delle punture. Non so affatto cosa mi abbia iniettato. So che tornavo a casa con dei lividi che cercavo in ogni modo di nascondere.

 Oltre alle percosse mi faceva colare della cera calda sulla schiena e mi pinzava con delle mollette in varie parti del corpo. Io cercavo di chiedergli perché e lui rispondeva: vogliamo continuare a dimagrire? Io non avevo fissato un limite di peso. Mi ero completamente affidata a lui, tanto che spesso mi faceva fare sedute extra».

Quando è arrivato il momento in cui non ce l'ha fatta più a tenere tutto dentro?

«Più volte avevo provato a dire ai miei genitori che non volevo più andare, ma loro [...] non capivano e io non avevo la forza di svelare nulla. In quel periodo ho continuato ad avere pensieri suicidi. Un giorno, però, si sono accorti dei lividi che avevo sulle gambe e sulle braccia. Inizialmente avevano pensato a qualche brutta malattia del sangue. Quando la situazione è diventata insostenibile, mi volevo suicidare. Aveva detto che voleva appendermi a un gancio. Io ho avuto tanta paura. Era un'escalation di violenza esagerata. E allora ho raccontato tutto a mio padre».  […]

 Estratto dell'articolo di  Giulio De Santis per roma.corriere.it il 17 febbraio 2023.

Con una terapia ad hoc, prima, ha consentito a una paziente di dimagrire. Poi, una volta carpita la fiducia, Stefano Maria Cogliati Dezza, 71 anni, psichiatra, ha spinto la donna ad avere rapporti intimi estremi, come farsi frustare o passare la cera calda sulla schiena. Pratiche così dolorose da imporre iniezioni per abbassarle la soglia del dolore, mentre la stupra.

 È la ricostruzione della procura che ha convinto il gup Valeria Tommassini a condannare il medico a 4 anni e sei mesi di reclusione con l’accusa di violenza sessuale al termine del rito abbreviato. Il gup ha anche riconosciuto le aggravanti come l’uso di strumenti di offesa contestato dal pm Alessia Natale che aveva chiesto una condanna a sei anni e sei mesi di reclusione.

La vicenda risale al dicembre del 2019. La paziente, 25 anni, ha dei problemi a perdere peso. […] Inoltre la giovane soffre anche di un disturbo bipolare che complica la situazione. Allora decide di rivolgersi a uno psichiatra, Cogliati Dezza, in passato direttore sanitario della Casa di Cura Villa Giuseppina, dal 2014 riconvertita dalla Regione Lazio in struttura residenziale psichiatrica. […]

 Lui la lega al letto, la benda, la frusta, le cola sulla schiena la cera calda. Pratiche che le provocano sofferenza fisica. Allora il medico le fa delle iniezioni che le abbassano la soglia del dolore, anche se solo negli intervalli di tempo in cui il medico la stupra. Il legame va avanti da dicembre 2019 all’ottobre del 2020, quando la giovane ritrova la lucidità e con l’aiuto del padre, decide di denunciare il medico. […]

Estratto dell’articolo di Edoardo Iacolucci per roma.corriere.it il 17 febbraio 2023.

Il giorno dopo la condanna a 4 anni e mezzo in primo grado per abusi su una venticinquenne, lo psichiatra Stefano Maria Cogliati Dezza, 71 anni, se ne è andato a giocare un bel doppio al circolo Tennis Parioli, uno dei più prestigiosi della Capitale. […]

 Ma il tam tam della sentenza vola di bocca in bocca tra i soci: «Hai letto? Quattro anni per violenze... - sussurra una cinquantenne parlando al telefonino, mentre a pochi metri da lei si sente il rumore di dritti e rovesci -. Incredibile...».

Lo psichiatra è molto stimato nel circolo, tanto da far parte del collegio dei probiviri con altri quattro soci.

[…] «È un uomo estremamente elegante: saluta con il baciamano. Pensi che si scusa quando fa punto sulle palle corte», fa notare un’altra appassionata tennista over 60 mentre ha appena finito di giocare e va verso gli spogliatoi.

 «Non c’è volta che non ti offra qualcosa quando si passa dalle parti della club house», aggiunge sorridendo un altro socio seduto al bar. Tra gli iscritti al Parioli qualcuno, dopo avere letto della sentenza avrebbe auspicato «le dimissioni dal circolo».

Ma molti non la pensano così: «Si devono aspettare tutti e tre i gradi di giudizio: a volte la verità processuale è diversa da quello che realmente è accaduto. Io non posso sapere se questo sia o no il caso. Ma per come lo conosco, non avrebbe dovuto ricorrere a questi espedienti con le donne. È un uomo meraviglioso, molto amato». […]

Gli articoli no-sense. Lo psichiatra condannato in primo grado che osa giocare a tennis, la lezione di garantismo del circolo Parioli al Corriere. Redazione su Il Riformista il 17 Febbraio 2023

Vieni condannato in primo grado, sei a piede libero in attesa che si completi l’iter giudiziario ma per il Corriere della Sera non dovresti uscire di casa, men che meno giocare a tennis nel circolo dove sei iscritto. E’ il caso dello psichiatra Stefano Maria Cogliati Dezza, 71enne residente a Roma che frequenta il circolo Tennis Parioli. Il professionista il giorno dopo la condanna a 4 anni e mezzo in primo grado per presunti abusi su una ragazza di 25 anni si presenta al circolo per un doppio con gli amici.

Una cosa normale, che rientra nella quotidianità e nelle abitudini delle persone, ma che sorprende il prestigioso quotidiano edito da Cairo. “Lo psichiatra Cogliati Dezza condannato per stupro, il giorno dopo va a giocare a tennis al Parioli” è il titolo dell’articolo. E quindi? La presunzione d’innocenza fino a condanna definitiva dove sta? Che deve fare Cogliati Dezza: rinchiudersi in casa dopo il primo grado di giudizio aspettando Appello, ed eventualmente, Cassazione? E se poi tra qualche anno dovesse essere assolto?

Addirittura nell’articolo ci sono le testimonianze dei membri del circolo, di cui lo psichiatra fa parte del collegio dei probiviri con altri quattro soci. Testimonianze che impartiscono una lezione di garantismo allo stesso quotidiano milanese. Ovviamente c’è anche qualche giustizialista che auspicava le dimissioni dal circolo dopo la condanna in primo grado.

La maggioranza ricorda però al giornalista del Corriere, che il giorno dopo si è presentato al circolo per intervistare lo psichiatra che ha osato giocare a tennis, che “si devono aspettare tutti e tre i gradi di giudizio: a volte la verità processuale è diversa da quello che realmente è accaduto. Io non posso sapere se questo sia o no il caso. Ma per come lo conosco, non avrebbe dovuto ricorrere a questi espedienti con le donne. È un uomo meraviglioso, molto amato”. Altri ricordano addirittura (come osano!) la Costituzione: “Come per Berlusconi, bisogna aspettare la fine dei processi. La Costituzione si rispetta. Qui c’è solamente una condanna di primo grado. Così lo rovini un uomo, se alla prima sentenza è già colpevole come se fossimo già al terzo grado. Molte volte si è visto come cambiano i verdetti”.

Addirittura lo statuto del circolo Tennis Parioli prevede che per la radiazione dal club c’è bisogno di una condanna passata in giudicato. Di che stiamo parlando quindi? Chiedetelo al Corriere…

Manolo Portanova.

(ANSA domenica 24 settembre 2023) "Da madre conosco i sacrifici che Manolo ha fatto per raggiungere il calcio professionistico, per raggiungere il suo sogno e non merita di vivere tutto questo. E' un ragazzo di sani principi. Non lo dico solo io che sono la madre, ma credo che qualsiasi persona che l'abbia conosciuto o abbia avuto occasione di parlarci anche per pochi minuti lo confermerebbe. Per cui sì, è innocente, ma non secondo me, è innocente in assoluto".

Antonia Langella, madre di Manolo Portanova, centrocampista della Reggiana condannato in primo grado a sei anni per violenza sessuale di gruppo e al centro delle polemiche per il suo arrivo ai granata in estate, difende il figlio calciatore, in un'intervista alla Gazzetta di Reggio. Per il processo si attende l'appello, a Firenze. "Premesso che credo nella giustizia, e sono certa che la verità è sempre destinata ad uscire, come è ormai noto la difesa di Manolo ha presentato tantissimi elementi di prova a sostegno della sua innocenza - prosegue la madre - che, se letti con serenità avrebbero portato sicuramente a un esito completamente diverso".

Da donna cosa pensa di quello che è accaduto in quella stanza? "Ho visto i video e da donna ho motivo di ritenere che in quella stanza non sia avvenuta alcuna violenza". Cosa vorrebbe dire alla ragazza coinvolta? "Credo che prima ancora delle mie parole, dovrebbe ascoltare la propria coscienza". 

A Manolo "mi sento di dire che sono orgogliosa di come sta reagendo davanti a tutto questo. A farlo andare avanti è unicamente la forza di chi sa di essere innocente". Langella ringrazia la Reggiana per aver creduto nel figlio e avergli dato la possibilità di giocare e lavorare ed è convinta per l'appello: "Se si vorranno leggere le carte processuali con meticolosità e senza pregiudizio, allora l'esito dovrà necessariamente essere diverso".

Estratto dell'articolo di Giuseppe Leonelli per corrieredibologna.corriere.it il 24 luglio 2023.

Dopo il ricorso alla sentenza di condanna in primo grado con rito abbreviato a sei anni di reclusione per violenza sessuale di gruppo (quando giocava al Siena), si attende che la Corte di Appello fissi l'udienza, ma verosimilmente il processo di secondo grado non si aprirà prima di un paio d'anni e per una sentenza definitiva occorrerà aspettarne probabilmente altrettanti. Fino ad allora per la giustizia italiana il calciatore Manolo Portanova resta un imputato, per definizione innocente e, mancando i presupposti per misure restrittive, può continuare a svolgere la sua professione. 

La sospensione

Una professione nel suo caso particolarmente esposta a livello mediatico, quella di calciatore appunto, oggi ingaggiato dalla Reggiana Calcio che lo ha rilevato dal Genoa. Del resto in Liguria il 23enne centrocampista napoletano, difeso dall'avvocato Gabriele Bordoni del Foro di Bologna, era stato sospeso proprio dopo la sentenza di condanna del 6 dicembre 2022. 

Le reazioni

Ma se dal punto di vista legale non vi sono limiti oggettivi al ritorno sui campi da gioco di Portanova, resta una questione di opportunità sulla quale a Reggio Emilia, dove la squadra della città è appena stata promossa in serie B, si è aperto un acceso dibattito. Nette le prese di posizioni contrarie di associazioni femministe, attivisti e sindacati, mentre i vertici della Reggiana hanno preferito il silenzio. Anche il padre della ragazza che ha denunciato il calciatore e con lui altre tre persone tra le quali un minorenne, non nasconde la sua amarezza.

«Non vorrei più vedere giocare colui che ha leso mia figlia», commenta, sottolineando come quanto accaduto rappresenti una ferita non rimarginabile che la ragazza deve affrontare ogni giorno. «Detto questo capisco che la legge preveda che la punizione venga applicata dopo la sentenza definitiva». Una posizione sottoscritta dall’avvocato della famiglia, Jacopo Meini: «Coi tempi della giustizia attuali difficilmente si potrà giungere a una sentenza definitiva prima di quattro o cinque anni e in questo lasso di tempo sarà difficile per la famiglia continuare a vedere l'imputato calcare i campi da gioco. Purtroppo al momento questa è la situazione e non mi risulta che nemmeno la giustizia sportiva possa intervenire».

(…)

Estratto dell'articolo di Margherita Grassi per corriere.it il 19 luglio 2023. 

Stava facendo discutere già prima del suo arrivo, il calciatore Manolo Portanova e ora che il suo ingaggio è ufficiale il dibattito aumenterà, anche se la Reggiana Calcio ha scelto parole particolari per annunciarlo: «AC Reggiana 1919 comunica di aver raggiunto l'accordo per il trasferimento a titolo temporaneo dal Genoa FC del calciatore Manolo Portanova per la stagione 2023 – 2024 e che, pertanto, in attesa del perfezionamento dello stesso, verrà aggregato al club granata con nullaosta da parte del club ligure. L’autorizzazione sarà valida fino al perfezionamento del contratto, che dovrebbe avvenire nelle prossime settimane». […]

Sulla vicenda sono intervenuti la parlamentare reggiana del Pd Ilenia Malavasi e i sindacati, segno del fatto che il dibattito vada ben oltre il rettangolo di gioco. Il motivo è presto detto: su Portanova pende una condanna a 6 anni per violenza sessuale di gruppo. Una condanna in primo grado, contro la quale il calciatore ha fatto ricorso, con l’Appello previsto per novembre. Nel frattempo Portanova è stato sospeso dalla sua squadra, il Genoa, e non è stato voluto a Bari proprio per le proteste dei tifosi. […]

La prof tifosa alla società: «Rivoglio i soldi dell'abbonamento»

Ha fatto molto discutere la lettera che un’insegnante di una scuola superiore di Reggio, Liusca Boni, ha reso nota sui social, una lettera inviata alla Reggiana tramite la quale chiede la restituzione dei soldi dell’abbonamento: «[…]il calcio è spesso stato un'occasione di dialogo con i miei studenti. Perché da sempre convinta che sia uno sport portatore di valori e regole modello anche per la scuola.

Per questo motivo sono rimasta incredula alcuni giorni fa quando le voci di mercato hanno accostato la figura del giocatore del Genoa, Manolo Portanova, ai nostri colori e alla nostra città. […] Viviamo in un Paese che non è a misura di donne, con una magistratura che ancora emette sentenze che riconoscono attenuanti ad assassini perché "innamorati" di donne "disinibite". È sentenza di questi giorni. Rimango in attesa di sapere come avere la restituzione dei soldi dell'abbonamento. In nessun caso intendo, con i miei soldi, pagare lo stipendio di un condannato in primo grado per stupro di gruppo».

Estratto dell’articolo di Nicola Binda per gazzetta.it il 31 gennaio 2023.

I tifosi del Genoa l’avevano presa malissimo, quelli del Bari sembrano essere della stessa idea. La notizia di mercato non è come tutte le altre e la discussione che scatena è molto profonda. 

Al centro di tutto c’è Manolo Portanova, il centrocampista condannato a sei anni di reclusione per violenza sessuale di gruppo. Dal giorno della sentenza - era il 6 dicembre – non ha più giocato, anche se in teoria avrebbe potuto farlo, essendo in stato di libertà. 

La Procura Figc ha aperto un fascicolo su di lui per valutare se ci fossero stati gli estremi per squalificarlo in base all’art. 4 del Codice di Giustizia Sportiva (rispetto dei principi di correttezza e lealtà dei tesserati), ma non c’è stato seguito. 

Il Genoa nel frattempo avrebbe voluto convocarlo, ma la tifoseria si è opposta. Portanova ha continuato ad allenarsi e ha deciso con la società che sarebbe stato meglio cambiare aria. Così è nata la possibilità di andare al Bari, disponibile ad accoglierlo in prestito per sei mesi: un’operazione avviata bene e che oggi dovrebbe essere ufficializzata. Condizionale obbligatorio, visto che il clima attorno a lui non è cambiato: non appena è circolata la voce del trasferimento, sui social anche i tifosi baresi hanno manifestato la loro disapprovazione. 

La condanna era seguita a un episodio del 2021, quando Portanova e altre persone avrebbero abusato di una ragazza, a Siena.  

Il reato per il quale Portanova è stato condannato in primo grado è gravissimo, l’oblio è sembrata la scelta più opportuna. Cosa che ha sicuramente rasserenato il clima attorno a lui. Il Bari però ha voluto puntare sul calciatore, sull’atleta, che indiscutibilmente sarebbe un valore aggiunto per la squadra di Michele Mignani. 

E gli ha voluto dare questa possibilità, decidendo di ingaggiarlo per rimetterlo in campo per questi sei mesi e poi farlo rientrare in estate alla casa madre. Ma era proprio il caso? Certo, fino a quando la sentenza non sarà definitiva, è giusto avere rispetto per un ragazzo di 22 anni, e lasciargli svolgere il suo mestiere. Ma vista la delicatezza del problema e il tipo di reato per il quale ha subito la condanna di sei anni, forse sarebbe stato meglio lasciarlo nell’ombra e puntare su qualcun altro. 

(...) 

Una riflessione che sa di stop

La rivolta del web ha quindi indotto al Bari a una riflessione più approfondita. Il giocatore, pare bloccato da Polito da giorni, sarebbe arrivato in prestito sino a fine campionato. A questo punto, a qualche ora dalla fine del mercato, è assai probabile che rimanga nel limbo delle trattative possibili e mai concluse.

(ANSA il 7 marzo 2023) - La ragazza abusata, per cui il calciatore Manolo Portanova venne condannato in rito abbreviato a 6 anni per violenza sessuale di gruppo, la notte fra il 30 e il 31 maggio 2021 "manifestò la propria volontà di voler avere un rapporto sessuale solo con Manolo e di non volerne uno di gruppo con i quattro ragazzi", volontà espressa "in modo ripetuto e inequivocabile"; "il suo dissenso è stato sin da subito, e per tutta la durata del rapporto sessuale di gruppo, evidente e manifesto", anche così è "raggiunta la prova della responsabilità penale degli imputati".

Lo scrive il giudice di Siena Ilaria Cornetti nelle motivazioni. La ragazza invece, ricostruisce il giudice Ilaria Cornetti, dovette subire abusi sia da parte di Manolo Portanova e anche da altri tre giovani, fra cui lo zio del calciatore, Alessio Langella, condannato alla stessa pena nello stesso processo. La violenza si consumò in un appartamento del centro di Siena dove la giovane era stata invitata.

Scrive il giudice Cornetti anche che in quella vicenda la ragazza affermò di non voler rapporti di gruppo con i quattro ragazzi "dall'inizio alla fine del rapporto sessuale di gruppo, e lo ha fatto sia con Manolo (con cui era già stata chiarissima le settimane precedenti) che con William, Alessio ed Alessandro", "ha chiesto di rimanere sola con Manolo" ma gli altri sono entrati nella stanza, prima uno, poi gli altri due, quindi lei "si è bloccata, ha cercato di capire cosa stesse succedendo, ha chiesto e ha chiesto ancora che se ne andassero" via ma è stata abusata e "bloccata" con le braccia.

Nella sequenza dei fatti, il giudice aggiunge che la ragazza ha domandato se un'amica poteva essere ancora nell'appartamento, quindi "ha colpito Manolo sulla pancia", "infine - spiega sempre il giudice - ha rinunciato a reagire e passivamente, come un automa, ha fatto quello che le è stato chiesto di fare ed ha subito quanto i quattro ragazzi hanno posto in essere".

Estratto da corriere.it il 31 marzo 2023.

Denunciò Portanova per stupro, la vittima: «Mi hanno chiamata anche poco di buono»

«Oltre a ciò che ho dovuto subire nella notte fra il 30 e il 31 maggio 2021, mi ritrovo oggi di fronte a qualcuno che tenta di affossare la mia persona e di mettermi in cattiva luce. Purtroppo oltre ad un tribunale giudiziario ne esiste anche uno mediatico e sociale, molto crudele, del quale con sincerità posso affermare che siamo vittime tutti. Non sono stata io a voler dare clamore a questa orribile vicenda. Però il fatto sta nel voler portare alla luce la verità».

È quanto scrive, in una lettera inviata a La Nazione, la studentessa 22enne che ha denunciato di essere stata vittima di una violenza sessuale di gruppo a Siena, vicenda per la quale il calciatore Manolo Portanova è stato condannato in primo grado a 6 anni di reclusione insieme a suo zio Alessio Langella. Per la stessa accusa si è aperto in questi giorni il processo a un loro amico, Alessandro Cappiello mentre per un quarto accusato procede la magistratura minorile.

[…] «Negli ultimi anni - scrive la ragazza nell'apertura della sua lettera - ho scoperto di avere tanti nomignoli: Chiara, Sara, Claudia, Marta, quella di Portanova, sicuramente una poco di buono, la stuprata e chi più ne ha più ne metta. Ho scelto di scrivere, una scelta un po' tarda potreste pensare ... ma sapete, non è mai facile esprimere se stessi e il proprio dolore quando si è in mezzo ad una burrasca giudiziaria».

[…] «Denunciare una violenza sessuale significava dover affrontare anni di svalutazioni, di insulti, anni in cui avreste provato a dire che era un gioco e che ero d'accordo. Denunciare significava affrontare processi, udienze, dover leggere articoli su articoli di giornale, dover affrontare le calunnie più malvagie...».

Portanova e la condanna per stupro di gruppo: «No a giudizi mediatici, ora le prove della mia verità». Aldo Tani su Il Corriere della Sera il 10 marzo 2023.

Portanova rompe il silenzio dopo la condanna a 6 anni per violenza sessuale di gruppo: «Sto rinunciando ad un sogno di un bambino»

«Fino a qualche settimana fa l'unico scopo era indossare la maglietta più bella del mondo, ora sto rinunciando ad un sogno di un bambino». Manolo Portanova questa volta non affida ai social le proprie esternazioni. Il tutto è condensato in una conferenza stampa che si è svolta a Genova. Un appuntamento che arriva a pochi giorni di distanza dalla pubblicazione della sentenza di condanna per violenza sessuale di gruppo. Sei anni di pena per il calciatore del Genoa, così come per lo zio, Alessio Langella, ritenuti responsabili dal Tribunale di Siena di una violenza ai danni di una ragazza di 22 tra il 30 e il 31 maggio 2021: entrambi condannati con rito abbreviato. 

«Penso che il nostro silenzio sia durato troppo. Ad oggi quello che posso dirvi è che continuo a chiedermi perché stia succedendo tutto questo – ha spiegato il giocatore -. Soffro per tutto quello che sento, che leggo e per tutte quelle persone che ne fanno parte e sono coinvolte in questa vicenda». E ancora: «Anche se avrei diritto di giocare purtroppo questa vicenda non è solamente in tribunale ma soprattutto mediatica. Oggi non porteremo ipotesi ma prove che non sono state guardate e se ne occuperà il mio avvocato». «Nell'ambito di un processo sono prontissimo a rispettare l'avversario a patto che l'avversario lo faccia con me - ha detto Portanova - Invece abbiamo letto una sentenza in cui nessun nostro elemento è stato minimamente considerato e contraddetto».

Al suo fianco il padre Daniele: «A livello penale al primo grado siamo stati sconfitti, però la costituzione dice che ci sono altri due gradi di giudizio. Mentre a livello penale, a livello mediatico mio figlio è già stato condannato prima. Anche se può dar fastidio a qualcuno, noi dobbiamo dire la nostra». 

La parola è quindi passata all’avvocato Gabriele Bordoni, che ha lamentato la mancata considerazione delle prove portate dalla difesa. Nel procedimento sono implicati anche il fratello di Manolo, William, all’epoca minorenne, e un loro amico, Alessandro Cappiello, che ha scelto il rito ordinario.

Nei giorni scorsi sono uscite le motivazioni della sentenza di primo grado. Secondo il giudice di Siena Ilaria Cornetti la ragazza abusata la notte fra il 30 e il 31 maggio 2021 «manifestò la propria volontà di voler avere un rapporto sessuale solo con Manolo e di non volerne uno di gruppo con i quattro ragazzi», volontà espressa «in modo ripetuto e inequivocabile». «Il suo dissenso è stato sin da subito, e per tutta la durata del rapporto sessuale di gruppo, evidente e manifesto», anche così è «raggiunta la prova della responsabilità penale degli imputati».

Achraf Hakimi.

Estratto dell'articolo di sportmediaset.mediaset.it il 28 febbraio 2023.

Bufera sul Psg e sull'ex Inter, Achraf Hakimi. Stando infatti a quanto riportato da Le Parisien, l'esterno marocchino sarebbe stato accusato di violenza sessuale da una giovane donna presso la stazione di polizia di Nogent-sur-Marne, comune a sud-est di Parigi. La giovane, una 23enne, avrebbe raccontato di essere stata contattata via social da Hakimi a metà gennaio. Sabato 25 febbraio lo avrebbe raggiunto nella sua casa a Boulogne su un Uber prenotato dallo stesso calciatore e lì di essere stata stuprata.

 La donna ha raccontato che, una volta nell'abitazione, Hakimi la avrebbe baciata sulla bocca, le avrebbe sollevato i vestiti, le avrebbe baciato il seno nonostante le sue proteste e sarebbe andato ancora oltre.

La giovane sarebbe poi riuscita a liberarsi dal marocchino spingendolo via con il piede e, una volta scappata, avrebbe poi inviato un sms a un amico che sarebbe corso a prenderla. Hakimi, fuori per infortunio da due gare, sarebbe stato solo in casa perché moglie e figli erano in vacanza a Dubai.

Estratto da leggo.it il 15 aprile 2023

La storia d'amore tra Achraf Hakimi, ex giocatore dell'Inter e del Real Madrid, attualmente al Psg, e Hiba Abouk, attrice spagnola, è arrivata alla fine. Una storia che da favola si è trasformata in un incubo, soprattutto in tempi più recenti, dopo le accuse di stupro rivolte all'esterno marocchino: una ragazza, alla fine dello scorso febbraio, ha infatti accusato Hakimi di averla stuprata nella sua casa di Parigi, mentre moglie e figli erano in vacanza a Dubai.

[…] Ma ciò che adesso più sta facendo parlare è un piccolo particolare che riguarda non la vicenda giudiziaria in sé, ma il divorzio: Hiba Abouk avrebbe infatti tutta l'intenzione di chiedere una bella fetta del patrimonio di Hakimi, uno dei calciatori più pagati della Ligue 1 (8 milioni più 2 di bonus ogni anno). Ma in realtà Hakimi […] potrebbe non doverle dare un euro.

 Il terzino ispano-marocchino infatti risulterebbe nullatenente. Non è uno scherzo: a suo nome non c'è nulla, né soldi in banca, né immobili. Tempo fa infatti Hakimi aveva scelto di intestare tutto a sua madre, la signora Fatima, che stando a quanto dice il suo avvocato gestisce le sue finanze e i suoi affari. […]

Robinho e lo stupro.

Da corrieredellosport.it il 16 giugno 2023.

Dal Brasile rimbalzano le conversazioni tra Robinho e i suoi amici utilizzate dalla Procura italiana nell'indagine che lo vede coinvolto nel presunto stupro in una discoteca milanese nel 2013. Vicenda per la quale l'ex milanista è stato condannato a nove anni di carcere. Negli audio, del 2014, gli amici riconoscono di aver avuto rapporti sessuali di gruppo con una donna e parlano di strategie per difendersi da possibili accuse.

"Anche se mi chiamano per qualcosa, non c'è problema. Vado lì e dico: innanzitutto, la storia risale a un anno fa. In secondo luogo, non ho nemmeno toccato quella ragazza", dice Robinho, la cui preoccupazione principale era che il caso finisse sulla stampa: "Ho paura di... Se non appare sulla stampa, è fantastico. Immaginate: Gli amici di Robinho violentano una ragazza in Italia". 

Nonostante smentisca i fatti, gli audio chiariscono che c'è stata una relazione di gruppo e che la donna era incosciente a causa dell'assunzione di alcol. "Ho dormito con lei, ho avuto un rapporto orale e me ne sono andato. Gli altri sono rimasti lì. La telecamera non mi avrebbe ripreso mentre dormivo con la ragazza". Robinho parla ad uno degli amici, che dice: "Robinho dorme con lei, lei ha rapporti con Alex, è vero zio. Come fa la ragazza, che era ubriaca, a ricordarselo?" 

L'ex milanista, consapevole che la partenza per il Brasile avrebbe salvato le persone coinvolte a causa della mancata estradizione di cittadini brasiliani in altri paesi, commenta: "Chi l'ha toccata è in Brasile. Vai dietro a quelle persone che sono in Brasile. Lì, in Brasile. quelli che hanno dormito con la ragazza. Io non mi sono sdraiato, tu non ti sei sdraiato" Ancora: "Che sono andato a letto, zero possibilità. Finirà nel nulla", insiste l'ex giocatore del Real Madrid. Un amico risponde: "Fermati perché ho visto che gli hai messo il tuo p*** in bocca". "Non è niente!" risponde Robinho.

Nordio scrive al Brasile: «Sconti lì la condanna». Andrea Pasqualetto su Il Corriere della Sera il 19 Febbraio 2023.

L’ex attaccante del Milan e i 9 anni di pena. La richiesta del ministro dopo il no all’estradizione. Lui: «Sono innocente, il mio errore è stato solo quello di tradire mia moglie». La nuova vita «casta» del re del dribbling

Di Robinho ricordi il piede fatato, il dribbling, il sorriso. Pelè, esagerando un po’, l’aveva indicato suo erede: «L’ho visto toccare la palla, mi è venuta la pelle d’oca, ricorda me stesso alla sua età». Ma qui si parla di una brutta storia: stupro. Il fatto è del 22 gennaio 2013, il luogo un locale milanese della Bicocca, la vittima una ragazza di origini albanesi. La giustizia italiana ha condannato l’ex campione brasiliano a nove anni di reclusione per violenza sessuale di gruppo, sentenza passata in giudicato il 19 gennaio dello scorso anno. E Roma ora vorrebbe che la scontasse. Problema: Robson de Souza Santos per tutti Robinho non è in Italia ma nella sua villa al mare di Guarujà, Stato di San Paolo, e da lì non intende schiodarsi. L’Italia ci aveva provato con un mandato d’arresto internazionale e una richiesta di estradizione firmate lo scorso anno dalla ministra Marta Cartabia, e respinte in novembre dal Brasile allora guidato da Jair Bolsonaro: «L’articolo quinto della Costituzione prevede che nessun cittadino brasiliano sia estradato, salvo eccezioni che qui non ricorrono».

Il ministro brasiliano: si può fare

Ci riprova oggi il ministro della Giustizia Carlo Nordio in un altro modo: chiedendo l’esecuzione della condanna nel suo Paese, in un carcere di laggiù. La domanda è stata inviata lo scorso 31 gennaio attraverso i canali diplomatici e il destinatario è l’ambasciata italiana a Brasilia che la trasmetterà al loro Ministero della Giustizia e della sicurezza pubblica, lo stesso che ha alzato disco rosso sull’estradizione. Con due differenze sostanziali: l’atto è diverso e il presidente pure. A Bolsonaro, con il quale l’ex attaccante del Milan si era apertamente schierato, è subentrato Lula. Ci sarà un cambio di rotta? Una nuova sensibilità? È presto per dirlo. «Al momento non abbiamo avuto alcuna risposta», fanno sapere da via Arenula. Un segnale c’era stato in gennaio, quando il ministro della Giustizia brasiliano, Flávio Dino, si era detto possibilista: «Può scontarla qui ma la questione dev’essere trattata dall’organo centrale per le cooperazione giudiziaria. È legale, non politica».

«Sono innocente»

Il difensore italiano di Robinho, l’avvocato Franco Moretti, non vuole esprimersi: «Non ne so nulla». Ricorda tuttavia qual è la posizione del suo cliente rispetto alla sostanza della vicenda: «Si è sempre protestato innocente, nei confronti di quella donna non c’è stata alcuna forma di costrizione e induzione». Un paio d’anni fa Robinho era tornato sulla storiaccia con una dichiarazione: «L’unico errore che ho fatto è stato tradire mia moglie». Lei è Vivian Guglielmetti, una connazionale di chiare origini italiane, che gliel’ha perdonata. Sono sposati dal 2009, anno nel quale rimase coinvolto in un’altra violenza sessuale, questa ai danni di una studentessa di 18 anni. Successe a Leeds, ai tempi del Manchester. Ma va detto che in quel caso fu prosciolto.

La nuova vita

Ora, a 39 anni, vive con la moglie e i tre figli a Guarujà ed è sparito dalla circolazione. Si è ritirato dal calcio giocato nel 2020, chiudendo la carriera lì dove l’aveva iniziata: Santos. In mezzo ci sono 18 anni di grandi squadre, Real, Manchester, quattro anni di Milan. Di Robinho, che si definisce «seguace di Cristo», c’è qualche traccia in rete dove posta immagini rassicuranti. Lui e Vivian, lui e i figli, lui e Pelè, lui e la fede cristiano-evangelica. Ma su tutto aleggia il fantasma della condanna. Destino nel quale ha un compagno di sventura, l’amico Ricardo Falco, per il quale le autorità italiane chiedono lo stesso trattamento. Non è una consolazione.

Dani Alves.

Dani Alves, la ragazza racconta la violenza: «Mi ha insultata, colpita e costretta». Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera l'11 Maggio 2023

La testimonianza di 20 minuti alla polizia della ragazza che ha denunciato Dani Alves: «Ha gettato la mia borsa sul pavimento, mi ha strappato i vestiti e chiuso la porta a chiave» 

Un racconto di 20 minuti. Un filmato raccolto dalla telecamera personale di uno degli agenti dei Mossos d’Esquadra nel quale la ragazza di 23 anni spiega agli inquirenti le fasi della violenza subita, il 30 dicembre scorso, da Dani Alves nel bagno di un locale di Barcellona, il nightclub Sutton. Come mostrato durante El Programa de Ana Rosa su Telecinco, la ragazza fornisce i primi dettagli dell’episodio. È molto provata, uno dei poliziotti le suggerisce di farsi forza e dirigersi in questura per sporgere denuncia dopo la visita in ospedale per il trattamento previsto da protocollo per casi del genere.

Il racconto della vittima

«Sono andata in bagno di mia spontanea volontà. Ci siamo scambiati qualche bacio poi ho detto che volevo andarmene», è questo l’inizio del drammatico racconto della vittima che in parte aveva già anticipato a ridosso della denuncia a La Vanguardia . Dani Alves, che ora si trova in carcere dopo aver fornito diverse versioni sull’accaduto, al rifiuto della donna è passato al contrattacco: «Lui mi ha detto di no e ha chiuso la porta a chiave. Ha iniziato a insultarmi dicendomi “sei la mia piccola p…” e ha anche iniziato a colpirmi. Ha gettato la mia borsa sul pavimento e mi ha afferrato per i vestiti». Una ricostruzione agghiacciante degli attimi di terrore vissuti dalla 23enne. Fatta appunto in questo filmato che il 13 gennaio scorso è stata visionata dall’Unità Centrale per le Violenze Sessuali. Ed è stato uno degli elementi probatori che ha portato all’arresto del giocatore il 20 gennaio. «Nessuno mi crederà perché dalle telecamere si vedrà che in quel bagno ci sono entrata volontariamente».

La denuncia e l’arresto

Successivamente la ragazza ha denunciato agli inquirenti anche altri dettagli di quei 17 minuti nei quali lei lo implorava di smettere. Nelle scorse settimane il giudice che si occupa del caso ha deciso di non concedere il beneficio della libertà provvisoria su cauzione (sia pure con le restrizioni previste dalla legge). Il brasiliano, quindi, resta in carcere nell’attesa di arrivare a processo: rischia una condanna fino a 12 anni di carcere. Alla moglie aveva scritto una lunga lettera, e lei dopo aver deciso di lasciarlo va comunque a trovarlo per testimoniargli il suo affetto. Tutto è iniziato alle 4:57 del 31 dicembre, quando cioè la polizia è stata contattata telefonicamente. A denunciare Dani Alves non fu solo la vittima, ma anche le amiche di quest’ultima, che avrebbero assicurato di essere state toccate dal brasiliano senza il loro consenso. Secondo il rapporto, gli agenti si presentarono al locale tra le 5:11 e le 5:41. Alle 5:46 Daniel Alves andò via, mentre alle 6:01 la ragazza fu trasferita all’Hospital Clinic, specializzato in violenze sessuali. Dani Alves avrebbe poi raccontato quattro diverse versioni dei fatti, mentre la vittima ha mantenuto sempre la stessa. Una telecamera di sicurezza del nightclub, inoltre, lo riprese mentre lasciava il posto ignorando la vittima, che in quel momento piangeva disperata venendo consolata dallo staff del locale.

Estratto da rainews.it il 17 aprile 2023.

Dani Alves […] è tornato davanti al giudice che si occupa del suo processo, e ha offerto la sua quarta versione dei fatti relativi alla notte del 30 dicembre nella discoteca Sutton di Barcellona. 

Il giocatore brasiliano ex Barcellona, Juve e Psg si trova in carcere nella Ciudad Condal dallo scorso 20 gennaio, a seguito dell'accusa di stupro da parte di una ragazza di 23 anni che sostiene di essere stata violentata nel bagno di una discoteca la notte del 30 dicembre.

Ma l'ex giocatore, ha prima negato di conoscere la vittima, poi ha ammesso di averla incontrata ma affermando che non fosse successo nulla e infine ha dichiarato che si era trattato solo di sesso orale. Per cercare di giustificare in qualche modo il continuo cambio di rotta, […] Dani Alves prima ha detto di aver agito così per proteggere la vittima, poi per cercare di nascondere l’infedeltà alla moglie, Joana Sanz che nel frattempo ha annunciato la separazione dal calciatore. 

 I legali del brasiliano hanno tirato fuori le immagini delle telecamere della discoteca che mostrano la ragazza entrare in bagno dopo il calciatore senza alcuna costrizione. Ora la parola passa ai giudici che già lo scorso 21 febbraio avevano negato la libertà su cauzione considerando l'alto rischio di fuga e l'esistenza di prove "gravi" e "numerose" contro il calciatore. L'ex campione brasiliano afferma che il rapporto sessuale c'è stato ma era consensuale.

Da corrieredellosport.it il 24 gennaio 2023.

Tradito da un tatuaggio. È quanto sarebbe successo a Dani Alves, accusato di aver aggredito sessualmente una ragazza di 23 anni nei bagni di una discoteca a Barcellona (nella notte del 30 dicembre) e finito in prigione dopo che il giudice istruttore ha firmato un provvedimento di custodia cautelare provvisorio nei suoi confronti.

 "Nella sua deposizione davanti al giudice - scrive 'El Mundo' -, la vittima ha spiegato che il brasiliano ha un tatuaggio a forma di mezzaluna sull'addome e che era molto visibile durante tutta la relazione non consensuale. Ha detto di averlo visto nel momento in cui il giocatore ha cercato di costringerla a un rapporto orale e lei ha resistito".

 Le tre versioni del brasiliano

Quando poi è toccato a Dani Alves testimoniare, lui ha inizialmente risposto che era "seduto sul water - scrive ancora il giornale spagnolo - e che la ragazza gli se è avventata addosso dopo essere entrata". A quel punto il giudice gli ha chiesto come poteva la donna aver notato il tatuaggio se lui non si era alzato e indossava la camicia. Dani Alves così si è corretto dicendo di "essersi alzato" e ha infine affermato che c'era stata una "relazione consensuale".

 Cambi di versione che, uniti all'alto rischio di fuga del calciatore (per le sue capacità economiche e per il fatto che il Brasile non ha accordi di estradizione con la Spagna), avrebbero così portato il giudice a optare per la carcerazione preventiva senza cauzione. Il 39enne terzino ex Juventus intanto, che è reduce dai Mondiali disputati in Qatar con il Brasile e si è visto rescindere il contratto dai messicani Pumas, ha deciso insieme alla sua famiglia di cambiare avvocato.

Estratto da corrieredellosport.it il 27 gennaio 2023. 

Emergono nuovi e clamorosi dettagli sulla vicenda che ha portato all'arresto di Dani Alves[…] arrestato con l'accusa di violenza sessuale[…].I quotidiani spagnoli stanno ricostruendo ciò che è accaduto in discoteca attraverso le testimonianze dei presenti.

 Dani Alves e la querelante, sono rimasti chiusi in bagno per sedici minuti. Uno dei responsabili del locale, che ha soccorso la ragazza, ha raccontato di averla vista in lacrime e sconvolta: "Le chiedevo cosa fosse successo e le dicevo di calmarsi, ma era in stato confusionale".

Il quotidiano El Periódico, riferisce che prima di andarsene, e dopo l'aggressione sessuale, Dani Alves ha chiesto un ultimo drink al bar, mentre La Vanguardia scrive che, per lasciare il locale, è passato davanti alla ragazza che piangeva, ignorandola completamente.

Test Dna positivo: si aggrava la posizione di Dani Alves. Storia di Federico Garau su Il Giornale il 10 febbraio 2023

Si aggrava la posizione di Dani Alves, attualmente detenuto dietro le sbarre del Centro Penitenciario Brians 1 di Barcellona dopo le pesanti accuse di stupro.

Secondo quanto riportato dal quotidiano El Periodico, è risultato positivo il test del Dna effettuato sulle tracce rinvenute sui vestiti della presunta vittima e sul pavimento del locale dove sarebbe avvenuta la violenza. Stando alle ultime notizie, dunque, vi sarebbe corrispondenza, cosa che peggiora nettamente lo stato in cui si trova l'ex Pumas, che aveva invece presentato domanda per ottenere la libertà provvisoria.

La bufera sul calciatore

Il caso è scoppiato dopo le dichiarazioni di una ragazza di 23 anni che ha raccontato di aver subito violenza sessuale da parte di Alves nella notte tra il 30 e il 31 dicembre nella discoteca Sutton di Barcellona. Dani Alves, giocatore dei Pumas (Messico), si trovava nella capitale della regione spagnola della Catalogna dopo aver ottenuto un permesso speciale. Subito dopo la diffusione della notizia, il club messicano ha deciso di rescindere il contratto.

La giovane ha riferito di essere stata soccorsa dalla sicurezza della discoteca e dai Mossos d'Esquadra, per poi ricevere assistenza presso l'Hospital Clínic, un centro specializzato proprio per le vittime di abuso. Alle autorità, la 23enne ha raccontato di essere stata portata in un bagno del locale con l'inganno. Lì sarebbe avvenuta la violenza, durata ben 17 minuti.

Il terzino brasiliano ha inizialmente dichiarato di non aver mai incontrato la ragazza, per poi cambiare versione. Lo scorso 20 gennaio ha consegnato di sua spontanea volontà un campione di Dna al fine di allontanare le accuse. Gli esiti del test, tuttavia, lo avrebbero smentito.

Le indagini e il test positivo

Subito dopo la denuncia di stupro, la 23enne è stata sottoposta agli esami del caso. Da lei sono stati raccolti dei campioni biologici intravaginali. Tracce biologiche sono state prelevate anche dai suoi slip. In entrambi i casi è stato trovato dello sperma. Allo stesso tempo, la polizia locale ha effettuato un sopralluogo all'interno del locale della presunta violenza per eseguire un'ulteriore raccolta di campioni biologici.

Tutti questi campioni, compartati al materiale genetico fornito dal calciatore brasiliano, hanno dato una positività.

Si aggrava, dunque, la posizione di Dani Alves, che in merito alla vicenda ha già fornito diverse versioni, fatto che non aiuta di certo. Al momento, dunque, le porte del carcere restano chiuse. La procura di Barcellona, così come gli avvocati che tutelano la vittima, escludono la possibilità di un rilascio per il timore che possa verificarsi una fuga.

Dani Alves, parla la ragazza che lo accusa di violenza sessuale: «Quei 17 minuti in bagno». Storia di Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera il 23 gennaio 2023.  

È terrificante il racconto della donna di 23 anni che accusa Dani Alves di violenza sessuale. Il calciatore ora è in carcere a Barcellona. «Ho resistito, lo imploravo di smettere ma lui era più forte di me». Lo ha ribadito più volte nel corso della deposizione fatta durante la denuncia per abusi sessuali formalizzata il 2 gennaio nei confronti del terzino destro brasiliano, che in Italia ha indossato la maglia della Juventus . Adesso il giocatore rischia una condanna fino a 12 anni di carcere in base alla legge modificata di recente in Spagna: nel nuovo codice penale infatti è stata eliminata la distinzione tra aggressione e violenza dando un peso di rilievo al consenso della vittima.

Gli inquirenti stanno facendo chiarezza sulla vicenda. Da quanto ricostruito, la donna si trovava nel locale con sua cugina e una sua amica e sono state invitate da un gruppo di conoscenti messicani nell’area riservata dove già si trovava Dani Alves. L’incontro non è stato piacevole avendo descritto il giocatore, inizialmente non riconosciuto, come «insistente e fastidioso». Successivamente, come raccontano i media spagnoli, lui le avrebbe preso con decisione la mano portandola all’altezza dell’inguine. Un gesto che Dani Alves avrebbe compiuto per due volte e in entrambe le occasioni la 23enne si era ritratta con decisione. Poi la violenza in bagno durata 17 minuti. Ed è il punto cruciale del caso. Gli inquirenti vogliono capire perché la donna si trovasse lì: «Non sapevo cosa ci fosse dietro quella porta, pensavo ci sarebbe stata un’altra zona vip — ha ammesso la vittima a La Vanguardia, quotidiano catalano —. Solo entrando, gli ho detto che volevo andarmene, e lui mi ha detto che non potevo». Nella sua denuncia la ragazza è entrata nei particolari dell’aggressione, raccontando di essere stata violentata, nonostante lei avesse cercato di opporre resistenza. Poi Dani Alves le ha intimato di restare lì, cosa che lei, terrorizzata, ha fatto per alcuni minuti. Subito dopo è uscita e in lacrime e ha raccontato tutto alle amiche. Infine, allontanandosi dal locale ha salutato il buttafuori e questi vedendola in difficoltà le ha chiesto cosa fosse successo.

Dani Alves e l’arresto. I Mondiali in Qatar a 39 anni, gli amici immaginari, la lite con Maradona e la gaffe delle scarpette

Di fronte alle parole della donna è scattato il protocollo per le violenze sessuali. La 23enne, che ha dato sempre la stessa versione dei fatti (mentre Dani Alves l’ha cambiata tre volte), ha rinunciato al risarcimento che le sarebbe stato proposto. Intanto, il brasiliano è rinchiuso in carcere in una cella singola e non ha incontrato nessuno detenuto.

"Ha abusato di me", Dani Alves fermato in Spagna. Storia di Luigi Guelpa su Il Giornale il 21 gennaio 2023.

Dani Alves, il calciatore più titolato della storia del calcio, si trova a dover disputare la partita più difficile della sua carriera. L'ex stella di Juventus, Psg e Barcellona è stato infatti arrestato ieri sera con l'accusa di stupro. Il tribunale di Barcellona ha accolto la richiesta avanzata dalla Procura di detenzione preventiva, per altro senza cauzione.

I fatti risalgono alla notte del 30 dicembre scorso. Alves, 39 anni, che aveva appena firmato un nuovo contratto con i Pumas di Città del Messico, e che si trovava a Barcellona in vacanza, avrebbe violentato una ragazza di 23 anni alla discoteca Sutton, club del quartiere di Ciudad Condal. La giovane, che era nel locale con alcuni amici, sostiene che il calciatore brasiliano ha iniziato a molestarla nella zona Vip della discoteca, per poi seguirla in bagno. La ragazza ha raccontato di essere stata prima schiaffeggiata, poi costretta a praticare ad Alves del sesso orale, e penetrata contro la sua volontà. A quel punto, sempre secondo la ricostruzione della ragazza, il calciatore brasiliano, in compagnia di due amici, si sarebbe affrettato a lasciare il locale. La donna ha riferito quanto accaduto al personale di sicurezza della discoteca, che ha attivato il relativo protocollo e avvisato i Mossos d'Esquadra. I poliziotti l'hanno trasferita all'Hospital Clínic, dove è stata visitata alla ricerca di tracce biologiche che potessero aiutare a dimostrare l'accaduto. Il referto medico include alcune ferite compatibili con la lotta, particolari che hanno pesato parecchio nella decisione dei magistrati.

La notizia ha iniziato a circolare il 2 gennaio, giorno in cui la donna è apparsa davanti al giudice, tant'è che lo stesso calciatore si è affrettato a negare la ricostruzione dei fatti nel corso della trasmissione «Y ahora Sonsoles», su Antena 3. «Mi trovavo in quel locale con molte altre persone per divertirmi. Non so chi sia questa signorina, non l'ho mai vista in vita mia, ma soprattutto sono un cattolico praticante, e certe cose neppure me le sogno». L'atleta verdeoro aveva già negato qualsiasi coinvolgimento il 5 gennaio davanti al giudice. Poi era tornato a Città del Messico, giocando l'8 gennaio una gara di campionato con i Pumas, ma la sera stessa era stato avvisato dal suo entourage di far ritorno in Spagna.

E si arriva quindi a ieri mattina, quando è stato fermato a Barcellona dalla polizia catalana. I Mossos d'Esquadra lo hanno convocato alle 10 in una stazione di polizia nel quartiere di Les Corts e fermato. Il calciatore è stato quindi portato in tribunale per essere ascoltato intorno alle 15 dal giudice e successivamente arrestato. Per il reato, secondo la giustizia spagnola, rischia fino a 15 anni di detenzione. La moglie, l'ex modella Joana Sanz, lo difende a spada tratta e per mostrare la sua vicinanza ha postato su Instagram una foto delle mani di entrambi intrecciate e la parola «together».

Estratto dell'articolo di Pierfrancesco Catucci per corriere.it il 23 gennaio 2023.

Dani Alves è ancora in carcere, nel settore riservato alle persone in custodia cautelare, dopo l’arresto di venerdì mattina. Ha trascorso due notti, cercando di difendersi dall’accusa di molestia sessuale . Il gip non ha convalidato la richiesta di libertà su cauzione formulata dalla difesa perché «sussiste la possibilità di fuga», anche alla luce delle sue possibilità economiche. Alves ha infatti il doppio passaporto brasiliano e spagnolo e, in caso di trasferimento in Brasile, la Spagna non avrebbe con il Paese sudamericano un accordo di estradizione. In più, il calciatore ha anche la residenza in Messico (nonostante il Pumas lo abbia licenziato subito dopo l’arresto).

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 Le tre ricostruzioni discordanti

L’esterno avrebbe fornito tre versioni discordanti nel tentativo di ricostruire quanto accaduto la notte tra il 30 e 31 dicembre nella discoteca Sutton di Barcellona. Secondo la vittima, il giocatore l’avrebbe costretta ad entrare in un bagno situato in un privè del locale. Dani Alves conferma di essere stato lì, ma solo per poco tempo e nega l’aggressione. Il giudice istruttore, però, ritiene che il suo racconto vada in contraddizione con le prove raccolte dai Mossos, che hanno interrogato diversi testimoni, tra cui il personale di sicurezza della discoteca, raccolto diversi campioni biologici dalla toilette in cui si sarebbe consumata la violenza e visionato i filmati delle telecamere di sicurezza. Secondo il telegiornale del canale catalano TV3 Dani Alves avrebbe raccontato in una prima versione di non conoscere la ragazza, poi di averla vista ma che non sarebbe successo nulla, infine che sarebbe stata lei a saltargli addosso.

Il licenziamento dal Pumas

Immediatamente dopo l’arresto è arrivata la rescissione unilaterale del contratto da parte dei Pumas, il club di Città del Messico che lo aveva accolto a luglio. 

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Dai palleggi in cortile al bagno privato: la vita in carcere di Dani Alves. Storia di Emanuele Fragasso su Il Giornale il 27 gennaio 2023.

Continua la permanenza in carcere per l’ex fuoriclasse brasiliano Dani Alves, accusato da una 23enne di averla molestata. Il calciatore si trova in attesa di un primo processo presso il penitenziario di Brians, a quaranta chilometri da Barcellona, città dove ha giocato per moltissimi anni con la maglia blaugrana. Proprio a Barcellona - in un noto night club della zona marittima e della movida - si sarebbe consumata la violenza sessuale. “Mi ha messo la mani sotto gli slip senza il mio consenso”, avrebbe raccontato la ragazza che ha denunciato il calciatore ai militari, ancora sotto choc per l’accaduto.

Non si è integrato in carcere

Da quanto si apprende dai principali quotidiani iberici, Alves farebbe molta fatica ad ambientarsi in carcere e a seguire i rigidi orari dettati dall’istituto penitenziario catalano. L’ex esterno al momento è costretto a dividere la cella con un conterraneo, un brasiliano di nome Coutinho, da non confondere con il calciatore ex Liverpool ed Inter. Coutinho - che si trova in carcere da molto più tempo - starebbe istruendo Dani Alves su come comportarsi fra le sbarre. Sembra che entrambi evitino di uscire negli orari concessi dalla propria cella, per avere meno rapporti ravvicinati possibili con gli altri detenuti. Soltanto qualche volte è stato visto l’ex esterno verdeoro palleggiare nel cortile, mentre una folla di carcerati si era avvicinata per guardarlo. Alcuni detenuti, i più giovani, si sarebbero in quell’occasione avvicinati timidamente ad Alves per chiedergli un autografo, che lui avrebbe concesso di buon grado. Nel carcere l’allerta è massima in questi giorni. Per questioni di privacy nessuno può scattare delle foto al detenuto, che denuncerebbe immediatamente la struttura dove aspetta l’inizio del processo. Non si sanno ancora chi sono gli avvocati incaricati da Dani Alves, che dovranno difenderlo in tribunale. Se le accuse si rivelassero vere, il calciatore dovrebbe scontare molti anni di carcere.

Una carriera distrutta

Intanto emergono nuovi particolari sulla vita privata del brasiliano, distrutta completamente dopo le indagini. Dani Alves è stato licenziato nei primi di gennaio dal Pumas, squadra messicana dove stava per concludere la propria carriera costellata di successi sportivi. Già le prove erano sufficienti per arrestarlo, ma l’uomo si trovava in Messico e bisognava farlo tornare a Barcellona. La polizia catalana ha quindi aspettato che il calciatore tornasse da solo nella capitale della Catalogna, dove sembra avere diversi business avviati e dove si trova l’anziana suocera, deceduta il venti gennaio di quest’anno, per poi convocarlo in caserma con una scusa e convalidare l’arresto in attesa di un processo.

Lo stupro dei calciatori.

In Generale.

Verona.

Livorno.

In Generale.

Estratto dell'articolo di Gabriele Romagnoli per “la Stampa” lunedì 7 agosto 2023. 

Una storia universale è quella di Dani Alves. Un calciatore così unico da aver vinto (Messi permettendo) più di ogni altro: 43 trofei. Ma incorso in un'accusa di violenza sessuale per la quale è stato rinviato a giudizio e rischia fino a dieci anni di carcere. […] Per una coincidenza che non determina la generalizzazione, ma dà comunque da pensare, è addirittura possibile creare una regolare formazione da 11 con gli accusati di questo reato, aggiungendovi anche le riserve in panchina e l'allenatore.

Per dire: in porta può essere schierato l'israeliano Boris Kleiman, che in un locale si avvicinò a una diciassettenne belga in gita, stordita dall'alcol, e cercò di spingerla a un rapporto, finché intervennero i compagni di scuola. 

A centrocampo, addirittura un campione del mondo, l'argentino Thiago Almada, un caso ancora aperto: presunto stupro durante una festa, che avrebbe commesso insieme con il collega Miguel Brizuela e l'unico arrestato e detenuto, l'oscuro allenatore Juan Jose Acuna.

In attacco, il celebre Robinho, lui sì già condannato per violenza in una discoteca a Milano, insieme con quattro complici, ma mai estradato dal Brasile. Nella rosa figurano figli d'arte: Portanova ([…], poi Apolloni e Lucarelli. Addirittura un «blocco» (o un branco): quello composto da 5 calciatori della Virtus Verona (Casarotto, Manfrin, Merci, Onescu, Visentin) poi sparpagliati in altre squadre. […]Per la panchina, un candidato fresco fresco: Bruce Mwape, tecnico della nazionale femminile dello Zambia, deferito alla Fifa per molestie […] 

È uno dei punti dolenti: le società che impiegano questi atleti non hanno un atteggiamento comune. Le federazioni si rimettono, in attesa di una sentenza definitiva, alla loro discrezione e presunta sensibilità. 

Come è stato fatto notare di recente proprio nel caso Portanova: «La materia non è di nostra competenza». Così c'è chi sospende (il Cittadella lo fece subito con Casarotto, poi anche con Visentin) e chi no (la Virtus Verona mantenne in organico Manfrin). Il Velez soltanto temporaneamente con Thiago Almada. In Inghilterra sono più severi, ma l'esclusione di Benjamin Mendy da parte del City dopo l'assoluzione da sette accuse di stupro potrebbe far cambiare verso. Al di là delle sentenze, che cosa ci dice di universale il caso Dani Alves per tutti questi analoghi, riguardanti calciatori e non?

Al di là delle sentenze, che cosa ci dice di universale il caso Dani Alves per tutti questi analoghi, riguardanti calciatori e non?

L'intervista di due ore rilasciata dal carcere a una televisione spagnola andrebbe studiata come un manuale di sopraffazione inconsapevole. 

Il pluricampione entra nel locale con alcuni amici e viene scortato al tavolo vip. Qui, racconta, «come d'uso» il gestore manda loro delle ragazze. […] Siccome però le prescelte non li entusiasmano l'occhio cade su un trio appena entrato con altrettanti giovani messicani «che - dice Alves – mi avevano riconosciuto» e, da bravi valvassini, cedono la loro compagnia femminile ai signori del luogo. Bevono, ballano, la situazione si fa incandescente. 

La conclusione non può avvenire in un luogo dove Alves, sposato, potrebbe essere fotografato. Va in bagno e invita una delle ragazze a seguirlo. […] Quello che si consuma è, per sua ammissione, un «rapporto unilaterale», per così dire: lui seduto sulla tazza, lei inginocchiata tra le sue gambe, intrappolata, mani in testa. Fatto, finito, lui torna al tavolo, è tardi, la famiglia lo aspetta, si alza, vede la stessa ragazza in un angolo, sconvolta, esce. «Se qualcosa non andava, perché non mi hanno fermato?».

Che cosa non andasse in questa sequenza, non lo capisce. È lo stesso deficit che porta il padre del dj presente in casa La Russa la notte della presunta violenza a considerare che suo figlio piace, ha soldi, è conosciuto, può avere tutte le ragazze che vuole, perché dovrebbe forzarle? Che indusse Chad Evans e Clayton McDonald dello Sheffield United, accusati di stupro nel 2011, a difendersi in questa maniera: «Avremmo potuto avere qualsiasi donna in quel locale. Siamo calciatori, siamo ricchi, questo piace alle donne. Piace anche avere due calciatori in una volta sola». […]

Di nuovo, senza voler colpevolizzare un'intera categoria: se tre o più indizi portano a una prova, che cosa dimostrano 13 vicende simili? Questo vale sia per le azioni che per la reazione alle stesse. Ci sono troppe circostanze che la legge dovrebbe semplicemente considerare limite invalicabile senza consentire la discrezionalità, invocata da chi crede che tutto sia a sua discrezione: l'uso di alcol e droghe, la molteplicità dei partecipanti maschi al rapporto. Le due cose, sommate, già dovrebbero cancellare la possibilità del consenso, data l'inferiorità del soggetto. […]

Verona.

Violentata dopo la partita, condannati 5 giocatori (sei anni a testa). Laura Tedesco su Il Corriere della Sera il 31 Gennaio 2023.

Verona, il gup ha accolto le richieste della Procura. La vittima era una studentessa universitaria

«Colpevoli». Uno dopo l’altro, di ritorno a Verona dopo una partita del campionato di calcio di serie C pareggiata a Cesena, avrebbero abusato di una giovane universitaria dopo averla invitata a partecipare a «un gioco a carte alcolico». L’avrebbero indotta a bere tanto, troppo - secondo l’accusa - per potersi rendere conto con lucidità di quanto le stava accadendo. In quattro si sarebbero dati il cambio approfittando di lei, mentre il quinto compagno di squadra li filmava con i cellulari. Cinque calciatori ritenuti  ugualmente responsabili, secondo il giudice che li ha condannati a sei di reclusione ciascuno, di stupro di gruppo. «I ragazzi intorno a me erano nudi dalla cintola in giù..», a quel punto «ho chiesto “ma quanti caz... siete”?». Ricordi frammentati ma drammatici, quelli della studentessa universitaria che li aveva denunciati: «Nessuna costrizione, lei era lucida e consenziente» si sono invece sempre difesi gli sportivi, che all’epoca dei fatti giocavano in serie C nella Virtus Verona.

La condanna per tutti e cinque

La vicenda risale alla notte tra il 18 e il 19 gennaio del 2020 e da allora, in questi tre anni di indagini e udienze, i calciatori hanno sempre fatto muro proclamandosi innocenti. Ma lunedì al termine del giudizio abbreviato la gup Paola Vacca li ha condannati esattamente alla pena sollecitata dalla pm Elisabetta Labate, decretando sei anni di reclusione per Edoardo Merci (centrocampista veronese di 23 anni, che ora gioca con la compagine universitaria americana Central Arkansas Bears); Gianni Manfrin (29enne di Este, tuttora in forza alla Virtus Verona in serie C); Stefano Casarotto (26enne centrale di Dolo, che ora milita con la Luparense Fc in serie D); Guido Santiago Visentin (difensore 23enne argentino, attualmente in campo con l’As Cittadella in serie B); Daniel Onescu (29enne romeno che gioca in D con i colori della squadra Dolomiti Bellunesi), l’unico - quest’ultimo - a non aver avuto rapporti con la ragazza, seppure presente ai fatti filmandoli con i cellulari. Sono comunque stati dichiarati tutti responsabili di violenza sessuale aggravata «perché commessa abusando delle condizioni di inferiorità fisio-psichica della parte offesa, in stato di alterazione per la smodata assunzione di sostanze alcoliche». Quel pomeriggio, lo spettacolare 3-3 in trasferta a Cesena conquistato con la Virtus nell’incontro di campionato valido per la 22esima giornata del campionato di serie C. Poi, durante il viaggio di rientro a Verona, l’invito sui social che la vittima avrebbe ricevuto dall’amico di università «di cui mi fidavo e che con me non ci aveva mai provato». 

Il gioco alcolico trasformatosi in trappola

In serata, quel «gioco di carte alcolico» a cui sarebbe stata «indotta a partecipare a stomaco vuoto». Avrebbe mandato giù «complessivamente tre birre da 66 cl oltre a un bicchiere di gin lemon, forse anche due». Con quell’alcol in corpo «non mi sentivo bene», ma «dopo un po’», quando ha «iniziato a realizzare quello che stava accadendo», la vittima sosteneva di aver reagito: «Ho chiesto loro di fermarsi, anche perché mi trovavo in uno stato di totale abbandono». Versione opposta, invece, dalle difese (avvocati Alessandro Avanzi, Roberto Canevaro, Luca Bronzato, Eleonora Puttini) secondo cui si sarebbe trattato di una «piacevole serata» tra ragazzi, con la ventenne che avrebbe partecipato a quei rapporti «in modo del tutto consenziente» e senza essere sottoposta ad alcun abuso. «Non vi è stata alcuna forma di violenza fisica nel senso proprio del termine, circostanza peraltro accertata al Pronto Soccorso» sostenevano i legali dei calciatori, che hanno annunciato «ricorso in appello dopo aver esaminato le motivazioni del verdetto», il cui deposito è previsto tra 60 giorni. Inoltre, a detta del pool difensivo, «dalle immagini registrate con i telefonini non si evince alcun dissenso esplicito da parte della persona offesa». 

La giovane, risarcita, ha ritirato la querela

Quest’ultima non era presente in aula: con una mossa a sorpresa, alla vigilia del processo, ha ritirato la querela e revocato la costituzione di parte civile dopo essere stata risarcita dagli imputati. Proprio in virtù della transazione in extremis a favore della vittima, la gup Vacca ha concesso loro l’attenuante del risarcimento equivalente all’aggravante: tenendo conto anche dello sconto di pena di un terzo previsto dal rito abbreviato, sono stati tutti condannati a sei anni di reclusione oltre all’interdizione perpetua dai pubblici uffici. «Una mazzata» per tutti gli imputati, ma particolarmente per Visentin del Cittadella: tra cinque mesi, a Belluno, lo attende un secondo processo che lo vede accusato nuovamente di stupro di gruppo. A soli sette mesi di distanza avrebbe abusato di un’altra ragazza durante una festa in villa per il Ferragosto del 2020: una presunta violenza che, anche in quel caso, avrebbe commesso con altri due calciatori

Livorno.

Estratto da corriere.it il 26 giugno 2023.

Sono ritornati liberi Mattia Lucarelli, figlio dell'ex attaccante Cristiano, e Federico Apolloni, i due calciatori 23enni con l'obbligo di dimora a Livorno e il divieto di non uscire di casa dalle 20 alle 8 dopo essere stati per una ventina di giorni agli arresti domiciliari per violenza sessuale ai danni di una 22enne studentessa americana. 

A revocare la misura cautelare con cui dal 13 febbraio scorso è stato imposto ai due ragazzi, incensurati, di non lasciare la città toscana è stato il gup Roberto Crepaldi che ha ritenuto siano venute meno le esigenze cautelari: in oltre 4 mesi non hanno violato le prescrizioni e non hanno avuto alcun comportamento tale da far pensare a una possibile reiterazione del reato.

Per i due calciatori alla fine di settembre, davanti al giudice Crepaldi, si aprirà l'udienza preliminare. La difesa ha dato mandato ai propri consulenti di accertare lo stato di alterazione della ragazza, la quale la notte della violenza aveva bevuto: l'intenzione è stabilire quanto fosse ubriaca e se quindi fosse o meno in grado di dare il consenso.  […]

(ANSA il 20 Gennaio 2023) - Mattia Lucarelli e Federico Apolloni, i due calciatori 23enni arrestati per violenza sessuale, hanno abusato dello "stato di inferiorità psichica" della studentessa americana che quella sera dello scorso marzo aveva bevuto "dei drink" e che aveva "vuoti di memoria, intervallati da flash", come lei stessa ha raccontato ad investigatori ed inquirenti. E' quanto risulta dall'ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip di Milano Sara Cipolla. Provvedimento in cui la denuncia e i racconti della giovane vengono definiti dal giudice credibili e attendibili.

 (ANSA il 20 Gennaio 2023) - "Emerge invero nitidamente dai video che riprendono la violenza e dagli ulteriori atti di indagine, in particolare le intercettazioni ambientali, l'incapacità degli indagati di comprendere appieno il disvalore delle proprie condotte, e la conseguente possibilità che gli stessi reiterino nei propri comportamenti delittuosi, convinti della propria innocenza". E' scritto nell'ordinanza di custodia cautelare che ha portato agli arresti domiciliari Mattia Lucarelli, figlio dell'ex attaccante del Livorno, e il suo compagno di squadra Federico Apolloni, accusati di violenza sessuale di gruppo nei confronti di una studentessa americana.

Estratto dell'articolo Da iltirreno.it il 20 Gennaio 2023.

Mattia Lucarelli, figlio 23enne dell’ex attaccante Cristiano, è agli arresti domiciliari con l'accusa di violenza sessuale di gruppo nei confronti di una studentessa americana […] secondo quanto ricostruito dalla procura non sarebbe stato da solo: ai domiciliari anche un altro giocatore del Livorno, il 22enne Federico Apolloni.

[…] la giovane, dopo una serata trascorsa in discoteca, avrebbe accettato un passaggio in auto da cinque giovani, ma invece di riaccompagnarla a casa l’avrebbero condotta in un appartamento: qui la ragazza sarebbe stata costretta a subire le violenze.

 Dopo qualche giorno dagli abusi subiti […] la giovane è riuscita a contattare la polizia e a denunciare i suoi aggressori, venendo poi sentita dai pubblici ministeri della procura di Milano. L’attività di indagine ha consentito di risalire all’identità dei cinque, anche con quanto estrapolato dai telefoni cellulari della vittima e dei presunti autori della violenza. […]

Estratto da leggo.it il 21 gennaio 2023.

Cristiano Lucarelli interviene a difesa di suo figlio Mattia, calciatore del Livorno, dopo l'arresto con l'accusa di violenza sessuale.

 «Eccomi. Pensavate che mi nascondessi, che scappassi, che non ci mettessi la faccia? Mi dispiace deludervi, ma la faccia ce l'ho sempre messa per tante cose, figuriamoci se non ce la metto per una cosa che ho creato io, per un ragazzo che ho educato e cresciuto io, trasmettendogli dei grani valori, dei valori di orgoglio, tolleranza, contrarietà alla violenza, soprattutto verso le donne», ha detto su Instagram Lucarelli, ex attaccante e ora allenatore.

[…] «[...] Questa è solo una misura cautelare dovuta […] al fatto che Mattia e l'altro indagato sono stati intercettati, senza saperlo, in una telefonata dove parlavano di un'ingiustizia, di uno scherzo, che non credevano a cosa stavano leggendo: da qui non si evinceva l'ammissione di colpevolezza, non si evincevano cenni di pentimento. Ma se io non ho commesso il fatto, perché durante una telefonata dovrei sentirmi colpevole?». […]

 L'intercettazione

«Se questa chiama la polizia c'inc... tutti». Sono le parole che il calciatore Federico Apolloni, arrestato per violenza sessuale insieme al compagno di spogliatoio Mattia Lucarelli, avrebbe pronunciato in uno dei video registrati dai giovani nella casa in zona viale Libia a Milano dove hanno violentato, secondo l'accusa, una 22enne studentessa americana. […]

Estratto dell'articolo di M.Ser. per “la Stampa” il 23 gennaio 2023. 

«È stato bellissimo, dovremmo rifarlo». Nei ricordi sbiaditi dall'alcol della studentessa ventiduenne americana ci sono anche queste parole. Mattia Lucarelli, il calciatore 23enne del Livorno, ora ai domiciliari per violenza sessuale di gruppo con il compagno di squadra Federico Apolloni, le ha usate per salutare la ragazza la mattina del 27 marzo scorso. […]

 Quando è stata agganciata dai ragazzi all'uscita, già non si reggeva in piedi. Racconterà il responsabile della sicurezza della discoteca[…] Cercava un taxi, un passaggio e ha trovato Lucarelli e i suoi quattro amici. Di quella notte, quando il 4 aprile formalizzerà la denuncia negli uffici della Squadra mobile di Milano, la vittima ricorderà solo flash «forse a causa di qualcosa che mi hanno fatto bere, ma ovviamente non ricordo».

Tutte le volgarità e le risate che i ragazzi si sono scambiati in auto prima di arrivare nella casa di Lucarelli, dove si sono consumate le violenze, […] sono nei video sequestrati dagli investigatori: «Se puta caso entri in casa è la fine… Io spero succeda qualcosa prima che tu entri in casa» e altre parole irripetibili e oscene che descrivono puntualmente la violenza di gruppo che gli indagati stavano per compiere. E che la vittima neanche capiva, perché non conosce l'italiano.

Poi, con la telecamera del cellulare accesa, sono arrivati gli abusi: «Non volevo assolutamente avere rapporti sessuali quella sera con nessuno di loro, tantomeno avere un rapporto sessuale di gruppo. […] Muovevo la testa, continuavo a dire di no che avevo un ragazzo. E loro mi hanno detto: "Se ti ama comunque dov'è lui? "».

[…] Un amico che le è stato accanto racconta di come […] : «Lei non voleva essere in quel luogo ma lo era perché quelle persone glielo avevano imposto». E ancora, mette a verbale un'amica della ragazza: «[…] Mi ripeteva che era come se il suo corpo non le appartenesse più, qualcun altro se ne era impossessato senza il suo consenso».

Estratto dell’articolo da corriere.it il 24 gennaio 2023.

Una serata dal «clima goliardico» in cui «la ragazza è sempre stata d'accordo e non ci sono stati momenti in cui non lo fosse». Sono due degli aspetti su cui sono concentrati Mattia Lucarelli e Federico Apolloni nei rispettivi interrogatori di garanzia davanti alla gip Sara Cipolla, dopo essere finiti lo scorso venerdì agli arresti domiciliari con l'accusa di violenza sessuale di gruppo ai danni di una ragazza americana.  […]

  «Siamo innocenti, ma siamo pentiti per le parole offensive e volgari rivolte a quella ragazza straniera» hanno detto i calciatori in propria difesa. Mattia Lucarelli è arrivato in tribunale con il padre Cristiano, ex calciatore e allenatore. […]

Il difensore ha aggiunto che «la Procura e anche noi faremo ora accertamenti per trovare» un video che scagionerebbe i due calciatori, perché potrebbe mostrare «rapporti consenzienti». Si tratterebbe di un video realizzato quella sera con un cellulare e poi cancellato per non farlo trovare alla fidanzata di uno dei due giovani.

Da ansa.it il 3 marzo 2023.

Come "risulta dai video" si sono "mostrati del tutto indifferenti rispetto alle evidenti condizioni di alterazione" della ragazza, "privi di qualunque empatia" e hanno scelto "di abusare" per il "proprio divertimento" della "inferiorità psicofisica" della giovane, che aveva bevuto ed è stata anche "ridicolizzata e fatta oggetto di volgarità e frasi violente" in una "lingua a lei non nota".

Lo scrive il Tribunale del Riesame di Milano sul caso di Mattia Lucarelli, figlio dell'ex attaccante Cristiano, e Federico Apolloni, i due calciatori 23enni arrestati il 20 gennaio scorso per violenza sessuale ai danni di una 22enne studentessa americana.

Presunto stupro di gruppo che risale, stando all'inchiesta della Squadra mobile e del pm Alessia Menegazzo, alla notte tra il 26 e il 27 marzo dell'anno scorso e per il quale altri tre loro amici sono indagati.

 I giudici (Pendino-Alonge-Ambrosino), che hanno confermato i gravi indizi di colpevolezza a carico dei due arrestati e la attendibilità delle dichiarazioni della giovane, hanno deciso, però, di revocare gli arresti domiciliari e di disporre come misura cautelare l'obbligo di dimora a Livorno, con prescrizione di non uscire di casa dalle 20 alle 8, per i due calciatori, difesi dal legale Leonardo Cammarata.

Misura che appare, scrivono, "sufficiente e adeguata, tenuto conto della peculiarità del caso concreto (avvenuto a Milano, dopo una serata trascorsa in un locale notturno), dell'assenza di precedenti e di segnalazioni di rilievo, dell'inserimento in un rassicurante contesto familiare".

I giudici, mettendo in fila tutti gli atti delle indagini - dalle dichiarazioni della ragazza a quelle dei testimoni fino ai video realizzati quella notte dai giovani - spiegano che la studentessa, fin dal momento dell'incontro con loro, "versava in una condizione di inferiorità psicofisica". Condizione che, secondo la "costante giurisprudenza", renderebbe "del tutto ininfluente finanche la prova (che si sarebbe dovuta trarre dal video)", di cui aveva parlato la difesa, della "partecipazione attiva e del consenso" della ragazza. Un eventuale "consenso che in condizioni di 'normalità' mai sarebbe stato prestato". I giovani, secondo il Riesame, avevano "il chiaro progetto" di abusare di lei "con l'intento di filmare a sua insaputa tutto" per il "gusto di immortalare il momento e poter rivedere e rivivere le proprie 'prodezze'".

 C'era l'aspettativa, come emerge dai video, che "ciascuno avrebbe avuto il proprio 'turno', senza mai neppure contemplare l'eventualità di rapportarsi" con la ragazza "come partner alla pari".

Caso Lucarelli, la difesa dei calciatori: «Serata goliardica, lei era consenziente. Non c'è stata violenza». Pierpaolo Lio su Il Corriere della Sera il 25 gennaio 2023.

Sono ai domiciliari con l'accusa di avere stuprato una studentessa americana. Il gip ha respinto la richiesta di revoca per ulteriori esigenze investigative

«È stata una liberazione». Al settimo piano del Palazzo di giustizia, Mattia Lucarelli e Federico Apolloni hanno appena finito 90 minuti ciascuno di confronto con il gip Sara Cipolla e la pubblica accusa, i pm Alessia Menegazzo e Letizia Mannella. E al termine, per entrambi c’è un senso di sollievo per aver potuto dire «per la prima volta» la loro versione, anche se in serata arriverà la decisione del giudice, che rigetta la richiesta di revoca della misura cautelare. 

Nonostante durante gli interrogatori di garanzia i due calciatori abbiano insistito sul fatto che «non c’è stata violenza, la ragazza era consenziente, e non ci sono stati momenti in cui non lo fosse», sintetizza la posizione comune il loro avvocato Leonardo Cammarata, mentre i due 23enni — compagni di squadra al Livorno e ai domiciliari da venerdì scorso con l’accusa di violenza sessuale di gruppo ai danni di una 22enne studentessa americana (per cui risultano indagati anche altri tre giovani) — dribblano sia all’andata che al ritorno la schiera di fotografi e giornalisti che li aspettano. E abbiano ribadito insieme che a scagionarli ci sarebbe quel sesto video, la clip mancante che proverebbe la loro innocenza. 

È la stessa sequenza che sarebbe stata registrata con un cellulare quella notte tra il 26 e il 27 marzo scorso e poi cancellata «per non farla trovare alla fidanzata», già al centro di una conversazione intercettata dagli investigatori durante le indagini tra Lucarelli Jr e il padre Cristiano, ex bomber e bandiera livornese, ieri presente in procura al suo fianco e che poi in serata su Instagram parlerà di una giornata «importantissima» perché «è stato fatto un primo passo verso la verità». «Ma quel video l’avete recuperato?», chiedeva in quell’occasione papà Cristiano al figlio Mattia, che rispondeva: «No guarda, te lo giuro scagiona. Ti pareva che se c’era una cosa che ci scagionava era facile reperirla? Lo cancellò per non avere problemi in futuro, si fece lì per lì e lo ha cancellato per non avere problemi dopo, perché appunto vai mai a sapere cosa può succedere se lo trovano».

 «Hanno preso nota, e faranno accertamenti informatici senza clamore mediatico» per provare a ripescarlo dalla memoria del telefonino, spiega ora l’avvocato Cammarata. Ma i nuovi accertamenti richiesti dalla difesa si estendono anche al materiale già in possesso degli investigatori, in particolare ai dialoghi catturati negli altri cinque filmati: «Abbiamo chiesto anche una rilettura più approfondita delle trascrizioni, che in alcuni punti risulterebbero incomprensibili». 

Nei video recuperati nell’inchiesta si sente la studentessa chiedere di andare a casa, mentre i giovani si caricano tra loro: «Questa la si tr... in dieci». «I due ragazzi sono pentiti per le loro frasi volgari — ha affermato sempre ieri il legale — ma hanno detto che quella sera il clima era goliardico e che la ragazza era sempre d’accordo». Le indagini della squadra Mobile, diretta da Marco Calì, erano scattate dopo la denuncia della 22enne, che aveva raccontato dei presunti abusi: «ubriaca», rimasta sola dopo aver perso di vista l’amica, la giovane in cerca di un passaggio verso casa era stata avvicinata dai cinque all’uscita dalla discoteca «il Gattopardo» e portata nell’appartamento di Lucarelli Jr nei dintorni di piazzale Libia, dove sarebbe stata violentata.

Cristiano Lucarelli sull’arresto del figlio: “Quello che temevamo è il processo mediatico”. Il video-denuncia dell’ex bomber del Livorno: “Calmi con i commenti, siamo alle indagini preliminari”. Oggi l’interrogatorio del figlio Mattia, ai domiciliari insieme a un compagno di squadra per violenza sessuale di gruppo. Redazione su Il Dubbio il 24 gennaio 2023

«Se prima ero convinto che mio figlio fosse innocente, dopo avere letto gli atti rafforzo ancora di più l’idea. Inviterei con i commenti a stare calmi, non c’è ancora una sentenza di primo grado, siamo alla fase delle indagini preliminari. Purtroppo si è buttato sul campo del processo mediatico ed era quello che ci spaventava, perché si tratta di un argomento sensibile e si rischia di dare giudizi affrettati». Sono le parole dell’ex calciatore Cristiano Lucarelli, che in un video pubblicato sul suo profilo Instagram commenta l’arresto del figlio Mattia, finito ai domiciliari con l’accusa di violenza sessuale di gruppo ai danni di una ragazza americana nella notte tra il 26 e il 27 marzo 2022 a Milano.

«Ci ho messo sempre la faccia, figuriamoci per una cosa che ho creato io. Un figlio che ho educato io e al quale ho sempre trasmesso dei grandi valori di tolleranza, contrari a ogni forma di violenza, soprattutto contro le donne», sottolinea l’ex bomber del Livorno. Il quale spiega che la misura cautelare disposta nei confronti del figlio è motivata sulla base di una telefonata tra i due indagati, intercettati, in cui però non «si evince l’ammissione di colpevolezza». 

L’interrogatorio di garanzia, Mattia Lucarelli: “È stata una liberazione”

Questa mattina Mattia Lucarelli, 23 anni, è arrivato accompagnato dal padre Cristiano in tribunale a Milano per essere sottoposto all'interrogatorio di garanzia davanti al gip Sara Cipolla dopo la misura cautelare eseguita lo scorso venerdì. Il giovane calciatore del Livorno è agli arresti domiciliari, insieme al compagno di squadra Federico Apolloni, mentre altri tre ventenni sono indagati, per aver abusato di una 22enne studentessa americana. Il giovane, assistito l’avvocato Leonardo Cammarata, si è sempre dichiarato innocente. 

«Siamo innocenti, ma siamo pentiti per le parole offensive e volgari rivolte a quella ragazza straniera», avrebbero detto i due ragazzi al gip secondo quanto riferisce l’avvocato Cammarata. «È stata una liberazione poter raccontare la nostra versione». Mattia ha risposto per circa 90 minuti alle domande, stesso tempo anche per Federico, accompagnato dal padre e dal fratello. 

I fatti

Una prima versione dei fatti è contenuta nell’ordinanza di custodia cautelare del gip di Milano, accolta per il rischio di reiterazione del reato. All’uscita della discoteca Il Gattopardo di via Piero della Francesca, i ragazzi avrebbero adescato la giovane coetanea e «approfittato della stato di alterazione della vittima per portarla in un appartamento a lei sconosciuto – si legge nell’ordinanza – filmarla a sua insaputa, cercando di non farsi scoprire, trattenendola e abusando di lei in gruppo in spregio alle manifestazioni di dissenso». «Potrebbero verosimilmente in altre occasioni approfittare di una ragazza ubriaca fuori da una discoteca per adescarla - scrive il gip - e portarla presso l'abitazione di uno dei due ragazzi, abusare della stessa e riprenderla a sua insaputa». Possibilità definita «assai probabile».

Tesi completamente rigettata dai legali dei due calciatori. A LaPresse l'avvocato Cammarata ha annunciato ricorso al tribunale del Riesame contro le misure cautelari scattate quasi un anno dopo i fatti e parla di vicenda «ancora tutta da chiarire». La ragazza statunitense sarebbe stata sentita in tre diverse occasioni: la prima in Questura qualche giorno dopo la notte incriminata, la seconda dai pm il 2 novembre, la terza durante un incidente probatorio a dicembre, fornendo versioni non sempre identiche. Ha raccontato di avere “vuoti di memoria” e ricordi a “flash” e non aver mai voluto alcun rapporto sessuale con nessuno dei ragazzi né tantomeno di gruppo.

Per gli investigatori della squadra mobile milanese, diretta da Marco Calì, non ci sono dubbi sulla ricostruzione: la giovane è arrivata al locale in taxi per passare la serata con un'amica, si è unita al tavolo di un gruppo di amici universitari per bere qualche drink - ma non da essere ubriaca a fine serata, ha riferito - e poi avrebbe accettato il passaggio dai 5 indagati conclusosi in stupro all'interno di una casa del centro città. I ragazzi sono stati individuati grazie a testimonianze, comparazioni di profili social, traffico telefonico, analisi dei filmati sui cellulari e in particolare intercettazioni ambientali. Nelle quali avrebbero mostrato «incapacità di comprendere appieno il disvalore delle proprie condotte», scrive il gip. Da quanto si apprende nelle intercettazioni sarebbero contenute volgarità su quella che nell’ordinanza viene definita come “violenza” compiuta con “modalità allarmanti” che “denotano spregiudicatezza”.

La ragazza americana che accusa Lucarelli junior e Federico Apolloni di stupro: «Erano in cinque. Ero ubriaca, Mattia rideva». Pierpaolo Lio su Il Corriere della Sera il 22 Gennaio 2023.

Le accuse ai danni dei calciatori Mattia Lucarelli e Federico Apolloni. Il racconto della presunta vittima, 22 anni: ero ubriaca, l’ultimo ricordo è il divano. Indagati tre giovani

«Non ricordo come è successo, ma ricordo una strana sensazione, come se mi stesse per capitare qualcosa quando mi hanno detto di mettermi seduta sul divano». Alcune ore dopo, la coinquilina la sentirà rientrare a casa. Sono le 7 del mattino del 27 marzo scorso. Esce dalla sua stanza e trova l’amica accasciata sul pavimento. È in lacrime, sotto choc, spaventata. Continuerà a piangere per giorni. «Non volevo, non volevo», ripete ossessivamente. Delle ore precedenti, la ragazza, una studentessa statunitense di 22 anni, ha ricordi confusi: «Posso avere solo dei flash, dei piccoli flash di quello che è successo». Uno è quello di un volto, di un giovane che sarà identificato in Mattia Lucarelli, 23enne difensore del Livorno, all’epoca in forza alla Pro Sesto, figlio della bandiera livornese Cristiano, «che mi guardava e rideva di quello che accadeva». È lo stesso che al termine della presunta violenza — per cui è da venerdì ai domiciliari, come l’amico e compagno di squadra Federico Apolloni, anche lui 23enne, mentre altri tre giovani sono indagati — la riaccompagna in macchina a casa: «Mi ha detto che siccome era stato bellissimo, avremmo dovuto rifarlo».

Come la giovane, da un’uscita in compagnia di altri studenti stranieri, sia poi finita in quell’appartamento nei dintorni di piazzale Libia, a Milano, dove avrebbe subito la violenza del gruppo, la 22enne non sa ancora spiegarselo. «Io non mi ricordo come sono salita sulla macchina dei ragazzi né perché. Probabilmente perché tutti i taxi che io e la mia amica cercavamo ci annullavano la corsa. In quel momento ero molto ubriaca e non riesco a ricordare nulla», anche se dice di sospettare che durante la serata qualcuno possa averle fatto bere «qualcosa». Salita in auto con il gruppo appena incrociato, «io volevo andare a casa, non mi sono resa conto che mi stavano portando in un posto diverso», racconterà agli investigatori della squadra mobile, guidati da Marco Calì, e ai magistrati Letizia Mannella e Alessia Menegazzo. «Non volevo andare in casa di quei ragazzi, anche perché avevo un ragazzo. Mi ci sono ritrovata».

L’amica che aveva passato con lei quella prima parte di serata alla discoteca «il Gattopardo», e che poi la perderà di vista, la ricorda «in un evidente stato confusionale: faceva fatica a parlare e a dire cose sensate». Durante il viaggio, nei video girati dai ragazzi, si sente la statunitense dire «Oh, know I no home» («Lo so che non sono a casa») e «I should go home» («Dovrei tornare a casa»).

Una volta in casa, il gruppo si ritrova in un soggiorno in cui «c’era poca luce». «L’ultima cosa che ricordo è che loro mi hanno detto di sedermi sul divano». Loro «erano cinque, quindi ero abbastanza spaventata». Un altro video mostra quei frangenti: un ragazzo prova a palpeggiarla, scatenando la reazione della studentessa che gli si scaglia contro urlando «I’m not a fu..ing object» («non sono un oggetto»). «A un certo punto, mi sono ritrovata sul divano», prosegue la sua ricostruzione: con lei ci sono Lucarelli Jr e Apolloni. Gli altri tre, afferma la 22enne, si erano chiusi in un’altra stanza. È il momento in cui capisce che le sta per accadere qualcosa: «Sono rimasta congelata (...). Io gli ho detto che ho un ragazzo, ho detto di no e che questo non poteva succedere perché ho detto di no».

Martedì sono in programma gli interrogatori di garanzia dei due arrestati. Intanto in serata, papà Cristiano torna via Instagram a difendere il figlio. E puntualizza: «Quei benedetti video li abbiamo consegnati noi spontaneamente alla polizia» perché «all’interno ci sono elementi d’innocenza, non di colpevolezza». 

Mattia Lucarelli accusato di violenza sessuale di gruppo, i video choc: «Qui parte lo stupro». Lei diceva: «Non sono un oggetto». Cesare Giuzzi su Il Corriere della Sera il 21 Gennaio 2023.

Milano, la denuncia di una ragazza americana: ai domiciliari il figlio di Cristiano Lucarelli e Federico Apolloni, 23 anni, anche lui calciatore del Livorno. La presunta vittima ripresa con il cellulare: «Non bloccarmi, non sono un oggetto»

«Ma quel video l’avete recuperato?». 

«No guarda, te lo giuro scagiona. Ti pareva che se c’era una cosa che ci scagionava era facile reperirla? Lo cancellò per non avere problemi in futuro, si fece lì per lì e lo ha cancellato per non avere problemi dopo, perché appunto vai mai a sapere cosa può succedere se lo trovano». 

In realtà, quel video che doveva scagionare Mattia Lucarelli, 23 anni, difensore del Livorno in serie D, non è mai stato trovato. A chiedere con insistenza di quelle immagini è il padre Cristiano, ex bandiera del Livorno alias «mister miliardo» (dopo il rifiuto di una cessione milionaria), bomber di Atalanta, Lecce, Torino, Parma, Napoli, e oggi allenatore. 

«Quanti video c’hanno loro?», chiede intercettato al figlio Mattia: «E abbiamo cinque, sei video penso». 

Papà: «Anche dei momenti clou...». 

Di video in effetti ce ne sono molti, tutti finiti nelle mani degli investigatori, che sono costati a Lucarelli jr e al compagno Federico Apolloni 23 anni, l’accusa di violenza sessuale di gruppo che li ha portati ai domiciliari su ordine del gip milanese Sara Cipolla. 

Su Instagram in serata papà Cristiano ha difeso il figlio: «Pensavate che scappassi, che mi nascondessi? Che non ci mettessi la faccia? Ho trasmesso dei grandi valori a a mio figlio, se prima ero convinto della sua innocenza dopo aver letto gli atti rafforzo ancor più l’idea. E inviterei a stare calmi, e ovviamente s’è buttata nel campo del processo mediatico che era quello che ci spaventava. Si rischia di dare giudizi affrettati». 

Le indagini della squadra Mobile, diretta da Marco Calì, e coordinate dai magistrati Letizia Mannella e Alessia Menegazzo, scattano pochi giorni dopo il 27 marzo. Quando una 22enne americana chiama la polizia dicendo di essere stata abusata da un gruppo di cinque ragazzi (tre amici sono indagati) conosciuti alla discoteca Gattopardo di Milano. Era «ubriaca» e in piena notte, dopo che un’amica è andata a casa, la vittima accetta un passaggio dai 5 ragazzi. 

Tutto viene immortalato nei video realizzati con i telefonini. 

Lei non si regge in piedi, loro invece sono su di giri: «Questa la si tr... in dieci»; «Qui parte lo stupro eh». 

La ragazza viene portata in un appartamento che Lucarelli usa come appoggio a Milano nei dintorni di piazzale Libia (all’epoca giocava a Sesto San Giovanni). Lei nei video fa fatica perfino a salire le scale. Più volte chiede di essere portata a casa: «I should go home» (dovrei andare a casa) e urla di non essere toccata: «Don’t stuck me... I’m not a fucking object» (non bloccarmi, non sono un oggetto). 

I cinque però non si fermano: «Ragazzi, se lei supera questa porta qui è finita». Poi uno di loro (Apolloni) inizia ad avere un rapporto sessuale, mentre Lucarelli si avvicina al viso sfilandosi i pantaloni. Gli altri tre partecipano meno attivamente alla violenza. 

I ragazzi posizionano un telefonino dietro la borsa della ragazza per riprendere la scena di nascosto: «Se questa chiama la polizia c’inc... tutti». «In due occasioni — scrivono gli investigatori — si sente la vittima dire che deve tornare a casa: i ragazzi non rispondono». 

La giovane, che dirà di ricordare solo piccoli flash di quella notte, ha la certezza di aver rifiutato più volte rapporti: «Sono rimasta congelata. Ho detto che ho un ragazzo, questo non poteva succedere perché ho detto di no. Stavo comunque muovendo la testa continuando a dire di no, che avevo un ragazzo».

Tre amici si allontanano e lei resta sola con Apolloni e Lucarelli. Poi è quest’ultimo ad accompagnarla a casa, ormai all’alba. 

Per il gip c’è il rischio di reiterazione e «incapacità degli indagati di comprendere appieno il disvalore delle proprie condotte, convinti della propria innocenza». 

Una tesi respinta dal legale di Lucarelli, l’avvocato Leonardo Cammarata: «Sono molto colpito dal fatto che le esigenze cautelari nascano dal fatto che nelle intercettazioni i due indagati si professassero innocenti».

Estratto dell'articolo di Rosario Di Raimondo per Repubblica il 25 Gennaio 2023.

Hanno cercato di respingere l’accusa di violenza sessuale di gruppo: «Siamo innocenti, lei era d’accordo», hanno detto davanti al giudice […] Mattia Lucarelli e Federico Apolloni, 23 anni, che per gli inquirenti hanno stuprato una studentessa ventenne nel marzo di un anno fa a Milano, restano ai domiciliari. […] Ora la difesa prepara il ricorso al Riesame e punta a scovare un video di quella notte che, a dire dei legali, scagionerebbe gli indagati.

 I giocatori sono arrivati ieri al settimo piano di Palazzo di Giustizia accompagnati dai rispettivi padri. Alle 10,30 è stato il turno di Lucarelli. […] Subito dopo è entrato Apolloni, che ha parlato di «liberazione per aver potuto dire la mia per la prima volta». Il primo ha risposto per due ore, il secondo per un’ora e mezza. […]

Il rapporto è stato «consensuale», hanno detto invece loro durante l’interrogatorio. Le frasi volgari e irripetibili pronunciate e registrate dai video, secondo gli arrestati facevano parte di un «clima goliardico» […] «[…] “Scherzavamo, la ragazza non capiva perché straniera e noi ci siamo lasciati andare”» […]

 Che parla poi di un video misterioso. Girato in casa, dai contenuti espliciti, che per la difesa dimostrerebbe un rapporto consensuale. Lo evoca Lucarelli, intercettato, parlando col padre: «Ma quel video lo avete recuperato?», gli chiede Cristiano. «No guarda, te lo giuro, scagiona. Federico lo cancellò per non avere problemi in futuro», la risposta del figlio[…] Ma a diversi mesi dalle perquisizioni di settembre, questo file non si trova. […] Secondo la linea difensiva, «la ragazza è sempre stata d’accordo». Nonostante i diversi «no» della vittima.

L’inchiesta […] svela infatti un’altra realtà. Ci sono i verbali della ventenne, le testimonianze di chi l’ha vista tornare a casa sconvolta, i video nei quali dice in inglese di voler andare via, di non voler essere trattata come un «oggetto» e dai quali si evince che era in uno stato di «temporanea incapacità psichica». E alcune frasi degli stessi indagati: «Se questa chiama la polizia c’inc... tutti». […]

INGIUSTIZIA – IL CONSENSO E LA VIOLENZA. Redazione L'Identità il 25 Gennaio 2023

DI ELISABETTA ALDROVANDI

Una serata in discoteca a Milano, tra musica ad alto volume e alcol. A volte, troppo alcol. Una ragazza straniera conosce cinque giovani, balla, beve e si diverte. A un certo punto chiede loro di riportarla a casa. Ma questi la conducono in una casa che hanno a disposizione. Dove, stando al racconto di lei riportato nella denuncia successivamente presentata, due di loro l’avrebbero violentata per tutta la notte. Le violenze sarebbero dimostrate da video fatti coi telefoni cellulari e da messaggi scambiati. I fatti risalirebbero al marzo 2022, ma solo nei giorni scorsi le forze dell’ordine hanno proceduto con gli arresti e la notizia è uscita sui giornali.

Il giudice per le indagini preliminari, nel disporre gli arresti domiciliari per i due ragazzi, ha scritto che “emerge invero nitidamente dai video che riprendono la violenza e dagli ulteriori atti di indagine, in particolare le intercettazioni ambientali, l’incapacità degli indagati di comprendere appieno il disvalore delle proprie condotte, e la conseguente possibilità che gli stessi reiterino nei propri comportamenti delittuosi, convinti della propria innocenza.”

Insomma, stando a quanto spiega il magistrato, dal materiale probatorio raccolto e dal racconto attendibile della vittima si evincerebbe la consumazione di uno stupro di gruppo, ma ciò nonostante i ragazzi arrestati insisterebbero nel sostenere la loro innocenza, non riconoscendo nessuna violenza in quei comportamenti. Ragazzi descritti nell’ordinanza di concessione degli arresti domiciliari come pericolosi socialmente e da personalità connotate da spregiudicatezza, il che fa supporre, scrive il giudice, che potrebbero ripetere innumerevoli volte le condotte di cui sono accusati. Ora, caso specifico a parte, che dovrà essere deciso nelle aule di tribunale non sui giornali, un problema si pone in tutta la sua forza: quello del consenso. Ossia, il fatto che per consumare un rapporto sessuale è necessario che via sia la volontà di compiere l’atto, che deve essere validamente espressa.

Può, una persona alterata dall’uso di alcol o sostanze stupefacenti, manifestare un valido consenso? Evidentemente no. E allora, da lì può nascere la violenza sessuale. Ossia, quando una persona compie atti sessuali con un’altra consapevole che questa non può esprimere un valido assenso all’atto sessuale, perché non in grado, in quel momento, di essere pienamente in grado di capire che cosa sta facendo (o subendo). La diminuzione della lucidità determinata dall’assunzione di alcol o droga non può essere un paravento da utilizzare per fare sesso senza preoccuparsi che la persona coinvolta nell’atto sia consenziente o meno, ma anzi, in molti casi rappresenta un elemento che aggrava la pena prevista, qualora le sostanze siano somministrate dall’autore delle violenze allo scopo di diminuire le resistenze della vittima. Non a caso, la stessa Corte di Cassazione, in una recente sentenza del 2022, sancisce che perché vi sia violenza sessuale è sufficiente che l’imputato si renda conto che la persona con cui compie atti sessuali non abbia chiaramente manifestato il consenso. Quindi, al di là delle personali interpretazioni e della percezione di ciascuno, per evitare il rischio di finire nei guai dopo incontri occasionali e promiscui bisogna evitare atti sessuali se non si è lucidi ed evitare di farlo con persone in evidente stato di alterazione da alcol o sostanze stupefacenti, anche se assunte volontariamente dalla persona stessa. Consiglio ovvio, ma a quanto pare poco chiaro, e soprattutto ignorato. Non serve insegnare solo grandi valori, ai figli. Ogni tanto si faccia leggere loro un po’ di diritto, che è sempre utile.

Lo Stupro di Porto Cervo.

Giacomo Amadori per “La Verità” - Estratti venerdì 24 novembre 2023.

La giovinezza di Silvia, la ragazza che accusa di stupro Ciro Grillo e tre suoi amici, è costellata di episodi dolorosi. In aula, a Tempio Pausania, pochi giorni fa, la ventitreenne ha raccontato del suo rapporto tormentato con il proprio corpo e con il cibo, ingurgitato e vomitato, o dei digiuni prolungati. 

Dell’uso di droghe come la cocaina, che sarebbe stata assunta, però, solo dopo l’esperienza traumatica con i quattro imputati. Poi, incalzata dalle domande (legittime) delle difese ha dovuto scavare nel suo passato, ripescando avvenimenti che forse avrebbe preferito dimenticare. Dalle brume dei fiordi della Scandinavia è riemerso il drammatico ricordo di un precedente (presunto) stupro, mai denunciato. 

Il fatto sarebbe avvenuto mentre la ragazza si trovava in Norvegia con il padre, nativo di Oslo, per completare le scuole superiori, dopo aver lasciato Milano e il liceo classico alla fine del terzo anno per problemi con una materia a lei particolarmente ostica. 

Noi siamo stati i primi a svelare questa storia e adesso gli avvocati delle difese, approfondendo l’episodio, vogliono probabilmente mettere in discussione l’attendibilità della testimone a causa delle reiterate e, per certi versi, contraddittorie accuse di violenza.

A Oslo la giovane sarebbe stata tradita dal suo migliore amico, il coetaneo di origine nicaraguense David Enrique Bye Obando, figlio di un giornalista ed ex parlamentare norvegese. Il resoconto della vicenda, considerando anche la giovane età della presunta vittima, non può che colpire. 

Il 7 novembre scorso Silvia ha giustificato così la mancata querela: «Io ero comunque più piccola (aveva 17 anni e mezzo come David, ndr), in Norvegia avevo solo mio padre e in piu non l’avevo nemmeno detto a lui; inoltre, un mese dopo è venuta a mancare mia nonna, quindi sono dovuta rientrare in Italia e diciamo che il tutto l’ho abbastanza messo da parte, perché comunque dovevo stare vicino ai miei genitori, c’era altra sofferenza insomma». 

La studentessa ha deciso di non denunciare anche per un altro motivo: «Non sapevo come si agisse, non sapevo nemmeno troppo il termine violenza a cosa si riferisse, perché quella era avvenuta con quello che reputavo il mio migliore amico. Cioè io, ingenuamente, non sapevo nemmeno che quella potesse essere una violenza, siccome era una persona cosi vicina. Adesso lo so, però, al tempo non sapevo nemmeno come definire il tutto».

Lo stupro sarebbe avvenuto tra maggio e giugno del 2018. «Eravamo con la mia classe a fare un camping in Norvegia...» racconta Silvia, «i professori ci avevano accompagnato, poi loro se ne erano andati, noi siamo rimasti li, abbiamo tutti bevuto, tranne questo ragazzo, David, perché lui non si sentiva comodo a bere con persone che non conosceva. Io e David eravamo migliori amici in Norvegia». 

A metterli in quella situazione imbarazzante sarebbe stato il caso. «Io non ero sicura fino all’ultimo di andare al camping perché avevo gli allenamenti di nuoto» continua la ragazza. «Avevano chiesto a tutti di mettersi a coppie per le tende e io ero rimasta fino all’ultimo senza mettermi con qualcuno, quindi ho chiesto a David: “Ti va se segniamo insieme i nostri nomi, poi nel caso, quando siamo li, ci cambiamo, cosi siamo liberi?”. “Okay”. La serata, si beve, si ride, qualsiasi cosa, poi e successo che...». Silvia tentenna: «Devo spiegare tutto? Oppure vado direttamente al punto?».

Le domande non si fermano e la ricostruzione della presunta vittima prosegue: «Beh, io ho provato ad andare dalle mie amiche, ma loro stavano gia dormendo, non sono riuscita a entrare in quella tenda, allora ho detto: “Vabbè, me ne torno a dormire in quella (di David, ndr)”». E mai scelta fu più sbagliata, almeno a volere credere alla ragazza. «È successo che mentre io stavo dormendo, lui mi ha penetrato e quando poi mi sono svegliata, mi sono accorta che ero da un lato, mi facevano tanto male le parti intime, ho provato a girarmi e lui mi ha coperto il volto e poi l’ho visto finire sul sacco a pelo». 

Uno dei difensori degli imputati, Antonella Cuccureddu, chiede delucidazioni e Silvia conferma di essere stata violentata nel sonno: «C’è stato un rapporto mentre io dormivo». Il botta e risposta si fa incalzante. Avvocato: «Dentro il sacco a pelo?». Testimone: «Avevamo due sacchi a pelo, lui aveva aperto da un lato il mio e ha fatto questo mentre io dormivo».

Avvocato: «L’ha svestita?». Testimone: «Mi ha tirato giù i pantaloni». Il legale va avanti: «Lei con chi ne ha parlato di questo fatto? Con molte persone? Poche?». Silvia risponde tutto d’un fiato. I ricordi si accavallano, la turbano. Rammenta di essersi confidata con le sue due migliori amiche: «Io ne ho parlato con May, ma prima con Shaira […] non sapevo cosa fosse successo, ero molto confusa al riguardo, nel senso che io stavo dormendo e il mio migliore amico mi fa questo e, quindi, ero totalmente scossa. 

Una volta tornata a casa, ne ho parlato con Shaira e lei mi ha detto: “Ma vogliamo andare dai medici e dalla Polizia”? Io non sapevo nemmeno perché dovessi andare e ho detto: “Sono viva, sono okay, mi e successa questa cosa brutta, però, non vedo perché...”. Nessuno mi ha mai spiegato: devi andare dalla Polizia, devi andare in ospedale.

Quindi le ho detto di no, mi sono messa la cosa alle spalle… successivamente ne ho parlato anche con May, perché lei era venuta in Italia…». La Cuccureddu le chiede se quell’esperienza le abbia lasciato dei segni e Silvia rivela: «All’inizio avevo un po’ di problemi a dormire, ma poi subito dopo sono tornata in Italia… comunque anche il fatto di lasciare per l’estate la Norvegia… poi appunto e morta mia nonna… quindi non ha influito tantissimo quanto questa vicenda…». 

Il confronto con il presunto stupro al centro del processo è inevitabile:

«Per me sono due cose completamente diverse, siccome in una stavo dormendo, l’altra l’ho proprio vissuta con gli occhi aperti». Il difensore insiste, domandando se avesse sentito il bisogno di parlarne con uno psicologo. 

Risposta: «Allora, io non ho avuto l’esigenza, ma al mio compleanno, sempre nel 2018, l’ho detto a mia madre, mi sono confidata con lei e lei mi aveva consigliato di parlare, di vedere qualcuno. Io ho visto una dottoressa una volta o forse due, pero, non mi piaceva, non vedevo perché dovessi andare e non l’ho più sentita, preferivo parlare con una persona vicina, tipo un’amica. Mi sentivo scomoda .Era anche molto più adulta di me. Era un po’ anziana, quindi non mi sentivo comoda».

Estratto dell’articolo di Mattia Feltri per “la Stampa” mercoledì 15 novembre 2023. 

Una corale disapprovazione ha accolto il monologo di Beppe Grillo, domenica sera da Fabio Fazio, specialmente nella parte in cui se l'è presa con Giulia Bongiorno, avvocato della ragazza per lo stupro della quale il figlio di Grillo è accusato e sotto processo. Non devo sforzarmi più di un po' per unirmi alle moltitudini sdegnate: Grillo è uno persuaso di avere in tasca la soluzione per tutto, e se tutto va a monte non è mai colpa sua. […]

non riuscendo a cambiare i destini dell'umanità, cerca di cambiare quelli del figlio, e coi soliti sistemi: strilli e sputazzi. […] però non saprei quale attenuante invocare per Giulia Bongiorno che […] s'è messa fuori da un tribunale a svelare quanto era successo durante un'udienza a porte chiuse. E se è a porte chiuse è proprio per evitare alla ragazza la giostra mediatica a cui invece la sottopone proprio l'avvocato.

Del resto è così che si amministra la giustizia oggi in Italia. Ed è oltremodo curiosa l'assenza di stupore per Bongiorno, presidente della Commissione giustizia e senatrice della Lega, cioè di un partito di maggioranza, che difende in giudizio l'accusatrice del figlio del garante dei Cinque stelle, cioè di un partito di opposizione. Sarebbe come minimo una questione di opportunità, ma mentre lo scrivo sento il ridicolo travolgermi.

Estratto dell’articolo di Roberto Gressi per il “Corriere della Sera” mercoledì 15 novembre 2023.

La domanda è di quelle insidiose. Può un avvocato, che è anche un tuo avversario politico, essere protagonista in un processo che riguarda tuo figlio? Il processo è quello che si svolge a Tempio Pausania, il politico è il fondatore dei Cinque Stelle, Beppe Grillo, imputato per stupro è Ciro Grillo, l’avvocata è Giulia Bongiorno, senatrice leghista e presidente della commissione Giustizia. «È inopportuno, così si mischia tutto», ha sostenuto in tv Beppe […] 

Giulia Bongiorno, che si è già scontrata con Grillo che l’ha accusa di «fare comizietti davanti al tribunale», non crede minimamente di essere in conflitto di interessi e ha una certezza: «È stata proprio l’esperienza maturata nei processi con donne vittime di violenza a permettermi di dare un contributo decisivo alla scrittura di leggi in favore delle donne. Penso per esempio a quella sullo stalking e al Codice rosso.

Il confronto con le donne mi ha permesso di scoprire delle lacune che ho cercato di colmare attraverso il mio lavoro in Parlamento. Avrei saputo scrivere quelle leggi se non avessi maturato questa esperienza sul campo? Credo di no». 

[…] 

Gian Domenico Caiazza, già presidente delle Camere penali, la vede così: «L’incompatibilità non c’è, ha una funzione parlamentare e non di governo. Poi certo, lei ha un peso, un prestigio. Ma l’opportunità non può essere codificata. La domanda sul conflitto tra due politici che si avversano è suggestiva, ma nel caso di specie l’inopportunità proprio non la vedo, semmai è Grillo che chiede trattamenti speciali per suo figlio, e che certamente li considererebbe inaccettabili per altri. E non vale soltanto per Beppe Grillo, direi la stessa cosa anche per il figlio di Ignazio La Russa». 

[…]

Il Parlamento per altro è ricolmo di avvocati, pare 114 in questa legislatura, si fa notare, e a nessuno si chiede di rinunciare alla professione. «La mia notorietà non dipende dalla carica parlamentare; piuttosto le mie competenze sono al servizio della collettività. Ho iniziato a lavorare a 28 anni nel processo Andreotti — insiste Bongiorno — e ho prestato il mio patrocinio in tanti processi che hanno avuto ampia risonanza ben prima di essere parlamentare». 

Giuseppe Conte si tiene alla larga dalle polemiche sul tema, e già aveva avuto occasione di prendere le distanze dal garante quando si era esibito in un video di difesa del figlio: «Ho un ruolo politico, penso che la politica non debba mischiarsi ai processi in corso».

Considerare la frase del leader dei Cinque Stelle, per estensione, come riferita anche all’opportunità che Giulia Bongiorno si astenesse dal partecipare al processo, sarebbe davvero una forzatura. Né l’accusa di Beppe Grillo ha trovato qualcuno disposto a rilanciarla, nemmeno nella sua parte politica c’è chi evoca un conflitto di interessi. 

Giulia Bongiorno respinge anche la sola ipotesi: «Se si estremizzasse il concetto di conflitto di interessi, si arriverebbe all’assurda e illiberale conseguenza di dover ammettere solo parlamentari di professione, perché chiunque svolga un’attività o una professione è un potenziale portatore di interessi della categoria alla quale appartiene». […]

Bongiorno dopo l'attacco in tv di Grillo sul processo al figlio Ciro: «Ha trasformato il dolore della mia assistita in uno show, è gravissimo». Storia di Redazione Online su Corriere della Sera lunedì 13 novembre 2023.

«Il 19 aprile 2021, il signor Grillo ha tentato di ridicolizzare in un video la ragazza che ha denunciato suo figlio, unitamente ad altri, per violenza sessuale, mettendo in dubbio – tra l'altro – la credibilità della denuncia solo perché sporta dopo 8 giorni dai fatti. Ieri invece, in un monologo-show all'interno di una trasmissione televisiva, ha ritenuto di attaccare me perché, dopo una drammatica udienza, commentata come da prassi anche dai difensori degli imputati, ho riferito che la mia assistita ha dichiarato in aula di essere devastata e di aver tentato il suicidio».

Così la presidente della Commissione Giustizia del Senato, Giulia Bongiorno, ai microfoni del Tg1, dopo che Beppe Grillo ieri sera, durante la trasmissione di Fabio Fazio alla Tv Nove, l'aveva attaccata in quanto legale difensore della giovane donna che accusa di stupro il figlio di Grillo e altri suoi tre amici. «Ho riferito che la mia assistita in Aula ha dichiarato di essere devastata e di aver tentato il suicidio. Un dolore immenso. Ecco, questa sofferenza è stata trasformata da Grillo in una farsa inserendola in uno show. Questo è gravissimo. Gravissimo. Perché la donna è stata massacrata due volte» ha aggiunto Bongiorno.

«È un avvocato, presidente della commissione Giustizia, è una senatrice della Lega che fa comizietti davanti ai tribunali dove c'è una causa a porte chiuse» ha dichiarato ieri sera il comico e garante del Movimento 5 Stelle nel corso di Che tempo che fa.

Nell’ultima udienza del processo al Tribunale di Tempio Pausania Bongiorno aveva detto (e questo è il riferimento di Grillo): «Quella di oggi è stata un’udienza nella quale gli avvocati degli imputati, facendo il loro lavoro, hanno fatto una serie di domande di caccia all’errore. Come spesso capita in questi processi, è come se la persona offesa che ha denunciato qualcosa di grave fosse improvvisamente sul banco degli imputati e, quindi, ci sono una serie di domande su come è vestita, sulle precedenti frequentazioni, sulla scuola cattolica, dirette a tratteggiare una personalità che la mia assistita ha sempre respinto».

Lunedì sera Matteo Salvini, ospite di Rete4 ha attaccato Grillo e le accuse lanciate alla Bongiorno: «L’avvocato Bongiorno difende i diritti e la dignità di una ragazza che denuncia di essere stata stuprata. Grillo si sciacquasse la bocca, per rispetto non della Lega ma di una ragazza che ha denunciato di aver sofferto uno dei crimini più orrendi, paragonabile a un omicidio»

Estratto dell'articolo di Giacomo Amadori per “La Verità” martedì 14 novembre 2023.

Da tempo ha perso il sorriso. È torvo e cupo. Un umore che traspare persino dal colore degli abiti (neri) sfoggiati nella sua ultima intervista televisiva, concessa al conterraneo Fabio Fazio, domenica sera. […] 

Sarà l’età (settantacinque anni suonati), sarà la sensazione di non riuscire a salvare il figlio Ciro dalla tagliola di un processo penale, divenuto mediatico, troppo mediatico. Ma, offuscato dall’amore paterno, nel giro di un anno e mezzo è riuscito a mettere d’accordo tutti […] contro di lui.

In principio, era il 19 aprile 2021, fu il famoso video con cui aveva goffamente tentato di salvare il figlio commentando il filmato del rapporto sessuale su cui si incentra il processo: «Si vede che c’è la consensualità, che c’è un gruppo che ride, ragazzi di 19 anni che si stanno divertendo, che sono in mutande e saltellano col pisello così perché sono quattro coglioni. Non sono quattro stupratori».

Tutti, giustamente, considerarono l’uscita fuori luogo. E a reti unificate ci fu la condanna del comico-padre-politico. Con Fazio, chi gli vuole bene e vuole bene a Ciro gli aveva consigliato prudenza, ma Beppe non si è trattenuto.

Il suo inner circle gli aveva suggerito di toccare l’argomento solo su precisa domanda. Ma Fazio, il non impavido Fazio, si era ben guardato dall’affrontare la questione e allora Grillo si è dato la risposta da solo: «La Bongiorno è un avvocato, presidente della commissione Giustizia, è una senatrice della Lega che fa comizietti davanti ai tribunali, dove c’è una causa a porte chiuse. È inopportuno. Ormai si mischia tutto». 

[…] Persino il Fatto quotidiano ha stigmatizzato l’uscita, «dopo la dolorosissima testimonianza della ragazza» al processo. […] Il coro di biasimo si è alzato unanime.

A Genova, a Nervi, qualcuno ha tentato una timida difesa. Un amico di Beppe, scuotendo la testa, si è lasciato andare, quasi con tenerezza, a una constatazione definitiva: «È pazzo, ingovernabile». 

[…] Grillo è e resta incontrollabile. Ma forse è questa la sua cifra, il marchio di fabbrica che lo rende unico. Certo Ciro rischia di finire sotterrato da tanto padre, nonostante stia cercando di ripartire studiando con profitto alla facoltà di Giurisprudenza.

A inizio mese l’avvocato Bongiorno aveva dettato la linea ai giornali, riportando i passi salienti della drammatica testimonianza, a porte chiuse, della sua assistita. Passaggi privatissimi come il tentato suicidio, i disturbi alimentari, il sesso disordinato post traumatico. Poi aveva accusato i colleghi delle difese di fare domande fuori luogo e di mettere la persona offesa sul banco degli imputati.

Adesso Grillo, con un secondo autogol, ha prestato il fianco a nuove polemiche. Non certo utili al figlio. Per esempio la Bongiorno ha diramato un comunicato, in cui ha prontamente ricordato la gaffe del 2021, quando, a suo dire, Grillo aveva «tentato di ridicolizzare in un video la ragazza» che aveva denunciato suo figlio. 

Poi il dispaccio si è concentrato sulla performance di domenica: «In un monologo-show all’interno di una trasmissione televisiva, ha ritenuto di attaccare me perché, dopo una drammatica udienza (commentata come da prassi anche dai difensori degli imputati), ho riferito che la mia assistita ha dichiarato in aula di essere devastata e di aver tentato il suicidio».

La nota prosegue: «Il signor Grillo quindi ha cercato di trasformare in show persino il dramma che questa ragazza sta vivendo, ridacchiando, gridando e definendo “comizietto” il mio intervento». A questo punto è arrivata l’accusa di sessismo: «Forse ha usato il diminutivo “comizietto” perché non mi ritiene in grado, in quanto donna, di tenere un vero comizio, ma quel che è davvero grave è che con questa tecnica della ridicolizzazione si finisce per massacrare per la seconda volta chi ha denunciato».

Il riferimento è, di nuovo, alla cosiddetta «vittimizzazione secondaria» di una ragazza che la Bongiorno ha già stabilito in via definitiva essere stata stuprata. Anche se i video agli atti sollevino più di un dubbio. 

«Rimane da capire a quale scopo il signor Grillo sia tornato ad attaccare ridacchiando e gridando. Vuole intimidirci? Vuole provare a mettere pressione al Tribunale?» ha concluso la Bongiorno. 

Da una parte un «pazzo», dall’altra un legale che non scorge conflitto d’interessi nel suo presenzialismo mediatico in un procedimento che la vede contrapposta al nipote (l’avvocato Enrico Grillo) e al figlio (Ciro) del garante di un movimento politico con cui, il suo partito, ha governato per un anno, prima che volassero gli stracci.

Lei adesso, come ha sottolineato il comico genovese, presiede, in quota maggioranza, la Commissione giustizia del Senato e fa parte del partito che ha espresso il laico che guida il Consiglio superiore della magistratura. Eppure la Bongiorno paventa possibili condizionamenti del Tribunale. Il piccolo Tribunale di Tempio Pausania. 

Ma, ove mai il Collegio giudicante fosse influenzabile dal mondo esterno, sarebbe più in soggezione nei confronti di un comico quasi pensionato che non si è mai presentato in aula o di fronte a un avvocato che nell’ambito della Giustizia ricopre un ruolo da assoluta protagonista? Grillo dovrebbe stare zitto, ma, forse, la Bongiorno dovrebbe ammettere a sé stessa che quando parla, le toghe non possono vedere solo l’avvocato.

Estratto dell’articolo di Gianfranco Pellegrino per editorialedomani.it lunedì 13 novembre 2023.

Ho vissuto larga parte della mia vita nell’epoca berlusconiana. E per molto tempo la mia mente è stata occupata da riflessioni sul conflitto d’interessi, che ha mutato forma, nella mia testa e nella vita politica del paese. Questa fastidiosa nozione mi è ritornata in mente leggendo le angoscianti dichiarazioni della sua cliente riportate dall’avvocato Giulia Bongiorno, nel processo a carico di Ciro Grillo per un presunto stupro di gruppo.

[…] L’imparzialità serve sempre, nell’amministrazione della giustizia. […]  È la capacità di considerare il peso e la rilevanza di tutti gli interessi in gioco, di mettersi nei panni di tutti. È per questo […] che il padre di una persona accusata di stupro può e deve tacere, senza per questo venire meno ai suoi doveri genitoriali.

[…] Ma la capacità di vedere e tutelare gli interessi di tutti è necessaria soprattutto quando la giustizia serve a proteggere la dignità umana […]. E l’imparzialità è necessaria non solo a chi giudica, ma anche a chi concorre al giudizio rappresentando le parti. Pur se un avvocato rappresenta gli interessi di una parte, la base e la giustificazione della sua presenza nel processo stanno sempre nell’obiettivo di assicurare l’interesse pubblico alla giustizia.

La brillante difesa di un imputato o il successo di un’accusa giova non solo a una delle parti, ma alla società in generale. La senatrice Giulia Bongiorno rappresenta la parte civile al processo che vede imputato Ciro Grillo, il quale, com’è noto, è figlio di chi ancora rappresenta l’ispiratore di uno dei movimenti politici del paese, in questo momento all’opposizione. 

La senatrice Bongiorno appartiene alla maggioranza politica. Il suo impegno a favore delle donne e della parità di genere è noto. Si può capire che per chi l’ha scelta questo sia garanzia. E garanzia, ovviamente, sono le enormi abilità che Bongiorno ha dimostrato […]. E anche la capacità di lavoro della senatrice è commendevole, dato che è anche presidente dalla Commissione Giustizia.

Ma è qui che il conflitto si manifesta. Può una persona con un profilo professionale di questo tipo tenere le propria mente e la propria azione sgombra dall’influsso degli altri interessi che rappresenta nella sua attività politica, e guardare con la sua azione all’interesse non solo del suo cliente ma anche della società in generale? Non credevo durante la lunga era berlusconiana alle soluzioni esclusivamente legislative del conflitto di interessi e non ci credo neanche ora.

[…] Ma la sensibilità civica, invece, avrebbe le armi per farlo. La capacità di discernere quale cliente rappresentare e quale no, per esempio, sarebbe una dote auspicabile nei professionisti che si occupano di questioni delicate e di rilevante funzione pubblica, come gli avvocati. 

La capacità di evitare di trovarsi all’incrocio di interessi opposti e la sensibilità di evitare anche solo la tentazione di una rappresentanza surrettizia di certi interessi sarebbe una dote non solo auspicabile, ma anche necessaria in chi occupa una funzione politica, rappresentando interessi anch’essi di parte, ma all’interno di un sistema che mira nel suo complesso a tutelare il bene pubblico.

Processo a Ciro Grillo, Giulia Bongiorno e il rispetto delle istituzioni. Il fatto che l’accusa sia sostenuta dalla Presidente della Commissione giustizia aiuta a inquinare ancora di più un processo che già è molto complicato. Piero Sansonetti su L'Unità il 9 Novembre 2023

Giulia Bongiorno, parlamentare della Lega, è anche presidente della commissione Giustizia della Camera. Giulia Bongiorno ha accettato di essere l’avvocata di parte civile nel processo contro il figlio di Beppe Grillo, cioè del fondatore del partito che ha fatto saltare tutti gli equilibri politici in Italia.

E che, rompendo l’alleanza con la Lega, spinse la Lega fuori dal governo – dove l’aveva collocata Grillo – collocandola all’opposizione. Non so se il ruolo di presidente della Commissione parlamentare sulla Giustizia sia compatibile con l’esercizio della professione di avvocato.

E soprattutto non so se è compatibile con un processo che deve restare un processo esclusivamente agli imputati, e che non dovrebbe in nessun modo riguardare il padre di uno degli imputati. Sappiamo che non sarà così.

E il fatto che l’accusa sia sostenuta dalla Presidente della Commissione giustizia aiuta a inquinare ancora di più un processo che già è molto complicato. Un po’ di rispetto delle Istituzioni non farebbe male. Piero Sansonetti 9 Novembre 2023

Avvocata e senatrice: il conflitto di interessi di Giulia Bongiorno. GIANFRANCO PELLEGRINO, filosofo, su Il Domani l'08 novembre 2023

La senatrice Giulia Bongiorno rappresenta la parte civile al processo che vede imputato per stupro Ciro Grillo, il quale, com’è noto, è figlio di chi ancora ispira uno dei movimenti politici del paese, in questo momento all’opposizione. La senatrice Bongiorno appartiene alla maggioranza politica. Ma è qui che il conflitto si manifesta. 

Giacomo Amadori per “la Verità” - Estratti giovedì 9 novembre 2023. 

«Per Ciro Grillo si mette male eh?». Così ieri mattina un magistrato ha commentato con chi scrive l’andamento del processo al rampollo del comico-politico, accusato, insieme con tre amici, di violenza sessuale di gruppo nei confronti di due ragazze milanesi. La toga era arrivata a quella conclusione dopo aver letto la rassegna stampa di giornata. 

Un giudizio che dimostra come la mossa dell’avvocato Giulia Bongiorno di portare in aula la presunta vittima, ribattezzata dai media «Silvia», a testimoniare in un’audizione non protetta, non sia stato un autogol come, forse un po’ superficialmente, aveva pensato anche qualche difensore, ritenendo che un controesame senza paletti avrebbe potuto far emergere in modo incontrovertibile le contraddizioni nella versione della ragazza e dato la possibilità di valutare «l’attendibilità e la credibilità della testimone».

Ieri gli avvocati della difesa hanno ribadito di essere disponibili a rinunciare al controesame e di essere pronti a vedere in aula le circa sette ore di video denuncia registrate in una caserma milanese dei carabinieri nell’immediatezza dei fatti. Ma la Bongiorno, portando sui banchi di Tempio Pausania la sua assistita, le ha consentito di ricostruire le ore del presunto stupro in modo diverso rispetto a quanto riferito nel 2019. 

Una versione «depurata» dalle contraddizioni, senza punti oscuri, che ha potuto tenere conto dei materiali trovati sui cellulari degli imputati e su quelli delle parti civili.

Un resoconto, per dirla con uno dei legali, «aggiustato» grazie a un elemento subentrato a indagini in corso, il black out conseguente all’ubriacatura da vodka che la giovane sarebbe stata costretta a ingurgitare durante la serata incriminata.

Ma qualcosa non torna. Nel luglio del 2019, quando la studentessa ha denunciato per la prima volta la violenza di gruppo, la presunta vittima non fece riferimento al buio che avrebbe occupato la sua mente, ma anzi descrisse l’aggressione con dovizia di particolari, il racconto di uno stupro di gruppo con lei immobilizzata dal branco. Poi, quando, nel febbraio del 2020, il procuratore Gregorio Capasso, che aveva visto i video dove la ragazza aveva un ruolo attivo nell’atto sessuale, le aveva chiesto dove tenesse le mani e, allora, la teste aveva fatto riferimento per la prima volta al black out.

Adesso la ventitreenne ha alternato ricordi lucidissimi, per esempio sul numero di scalini saliti, ad amnesie totali. 

Per questo il controesame si annuncia lunghissimo e faticosissimo, con momenti di tensione perché la Bongiorno si sta opponendo a molte delle domande dei colleghi, sostenendo che la ragazza avrebbe già risposto. In realtà i quesiti tengono conto delle discrepanze tra quanto detto il 26 luglio 2019 e il 7 novembre 2023 e si basano sulla trascrizione della video denuncia di quattro anni fa. 

Un esempio su tutti? Due giorni fa la giovane ha affermato di aver appreso che uno dei suoi presunti stupratori era il figlio di Beppe Grillo solo in caserma, mentre in una chat del 24 luglio 2019, quindi prima della sua querela, con l’amica norvegese Shaira C., sino a oggi inedita, scriveva altro.

L’interlocutrice spiegava di non aver potuto sentire i messaggi audio di Silvia e allora questa spiegava: «Comunque, si trattava del fatto che forse avrei denunciato l’accaduto alla polizia. È semplicemente fastidioso perché queste persone conoscono il mio amico e non voglio metterlo in una brutta situazione.

Inoltre questi ragazzi appartengono a famiglie ricche e potenti, alcuni erano figli di politici e merda... ma questo non mi interessa davvero perché non giustifica le loro azioni... voglio dire, sono ancora una persona e cazzo merito rispetto. E visto che la cosa è già successa in modo simile in passato (con il suo “migliore amico”, ndr)… non so se questa volta voglio lasciar perdere. Perché mi ha fatto davvero male e, se posso dire, mi ha anche ucciso psicologicamente... in quel momento e soprattutto dopo. Quindi volevo chiederti cosa pensi che dovrei fare. Non so nemmeno come lavora la polizia qui Perché so che in Norvegia prendono le cose molto sul serio, soprattutto per questi casi...».

A proposito della presunta violenza subita dal «migliore amico» (una storia svelata in anteprima dalla Verità nei mesi scorsi), ieri la ragazza ha raccontato che David, durante un campeggio fuori Oslo, avrebbe approfittato di lei aprendo il suo sacco a pelo e togliendole i pantaloni mentre era addormentata e che si sarebbe accorta dell’abuso sessuale solo alla fine dell’amplesso. Ma ha pure puntualizzato che all’epoca aveva scelto di non denunciare. L’amico ha sempre negato la versione di Silvia. (…)

Eppure la complessità dei rapporti con l’altro sesso della presunta vittima era già emersa prima della serata in Sardegna, tanto che in un file audio risalente al 28 luglio 2019 ascoltato ieri la stessa lamentava: «La sfiga madornale è il fatto che magari mi faccio gente in diverse serate, poi me li ritrovo lì, tutti insieme allo stesso tavolo e son tipo “Ah guarda il gruppetto che mi sono fatta a luglio” magari, o a giugno o a marzo, sempre così, ma che cazzo di sfiga». Ma in aula la giovane, ieri, avrebbe esclamato: «Mica mi sono fatta tutta Milano». O qualcosa del genere. E anche sui disturbi alimentari, l’amica A.M. aveva raccontato di non aver salvato delle foto di Silvia «per non metterla in imbarazzo perché stava perdendo molto peso in maniera preoccupante e non era seguita da alcun specialista».

La stessa testimone aveva pure sostenuto che la presunta vittima «è una ragazza “un po’ troppo influenzabile” e che, mentre le conoscenze femminili la rispettano, i ragazzi pensano che sia “una ragazza più facile di altre”». 

(…) In effetti la ragazza, quattro anni fa, mentre si sfogava con l’amica Mia, esprimeva questo concetto. Nello stesso tempo si lamentava di essere usata e buttata «via come spazzatura» anche da quelli che considerava «amici», e pensava di rivolgersi a uno psicoterapeuta: «Magari, chi lo sa, mi aiuterà a tornare nella strada giusta […]. Hai ragione, sto accumulando così tanti episodi e altro che non riesco più a gestirli e diventa sempre più difficile capire perché cose così accadano e come evitarle […]».

Di certo la consulente della Procura, la psicologa Cinzia Piredda, dopo aver esaminato la studentessa, ha sottolineato «la difficoltà da parte di S. a esprimere la propria volontà e rispondere con un diniego alle richieste poste dagli altri». Con questa mole di prove a disposizione, che metteva in discussione la credibilità di Silvia, a partire dai video che nei prossimi giorni verranno mostrati in aula («Ovviamente sconvolgenti» li ha definiti la Bongiorno), la parte civile ha deciso di accettare il rischio, evidentemente calcolato, di un drammatico confronto tra la presunta vittima e i legali dei giovani che accusa di stupro. Ma forse questa, seppur non priva di controindicazioni, era la mossa più intelligente per superare le incoerenze del racconto di Silvia e ottenere una sentenza di condanna. Che il tribunale mediatico ha già emesso.

Grillo jr, la difesa processa la vittima. Pressing e domande scabrose, la ragazza crolla in udienza. Ma conferma tutte le accuse. Luca Fazzo il 9 Novembre 2023 su Il Giornale.

Bisogna credere molto nei diritti della difesa per accettare quanto avviene ieri nell'aula del tribunale di Tempio Pausania dove vengono processati i quattro giovanotti genovesi - tra cui Ciro Grillo, figlio di Beppe - accusati di stupro di gruppo. Si sapeva che il controinterrogatorio di Silvia, la coetanea italo-norvegese che accusa i quattro di averla violentata a turno, sarebbe stato impegnativo, faticoso, duro. Ma quanto accade ieri fa dire a Giulia Bongiorno, difensore della ragazza, che «in Italia capita spesso che la persona che ha denunciato improvvisamente sia sul banco degli imputati».

E sul banco degli imputati Silvia ieri ci si è sentita davvero, sottoposta a raffiche di domande di cui è difficile capire la rilevanza. Perché ha lasciato la scuola cattolica? Con quanti ragazzi è andata a letto? Al Billionaire ha baciato Ciro Grillo? «È per verificare la sua credibilità», spiegano i difensori degli imputati. Ma la sensazione è che invece si voglia trarne un profilo psicologico di Silvia, l'immagine di una ragazza sessualmente disinvolta, come se questo aiutasse a capire cosa accadde davvero la notte del 16 luglio 2019, nella villa di Beppe Grillo in Costa Smeralda.

Lei, Silvia, un po' regge e un po' crolla. Come già il giorno prima ha momenti di difficoltà, scoppi di pianto che costringono il giudice a sospendere l'udienza. Ma riesce ad arrivare in fondo. Ed è pronta a tornare in aula il 14 e 15 dicembre, quando le domande dei difensori arriveranno alle fasi finali di quanto accadde a casa Grillo, a ridosso dell'alba.

Sarà anche più dura di ieri, ma è una sua scelta, lo ha voluto lei. I legali dei ragazzi ieri spiegano ai giornalisti che se fosse stato per loro l'interrogatorio di Silvia si sarebbe potuto evitare, bastava che i suoi difensori dessero l'okay ad acquisire i verbali riempiti durante le indagini preliminari. Vero. Ma c'è una spiegazione. «Sin dall'inizio - spiega Giulia Bongiorno - loro volevano evitare che lei venisse in aula. Ma lei ha fatto una denuncia per fatti gravissimi ed è evidente che li vuole ribadire davanti al tribunale. Loro volevano evitare questo, invece lei li ha ribaditi per due giorni di fila». È stato, dice la Bongiorno, un passaggio doloroso ma necessario per mettere il proprio racconto all'esame diretto del tribunale chiamato a giudicare, per dare ai giudici il polso concreto della sua attendibilità. È un racconto che è entrato nei dettagli cruciali dello stato di lucidità o di incoscienza in cui la ragazza si trovava al momento dei rapporti sessuali: «Lei - racconta ancora Giulia Bongiorno - ha detto che quella sera ha bevuto tantissimo, che non ha mangiato nulla, e che alla fine dopo avere bevuto è stata costretta a bere mezza bottiglia di vodka mischiata a qualcos'altro senza aver mangiato, mentre la temevano con forza. E che a quel punto non ha capito più nulla. Durante le violenze ha visto nero».

Di quei momenti esiste un video, sequestrato sul telefono di uno dei giovani. I difensori degli imputati chiedono che sia proiettato in aula la prossima volta, Silvia non lo ha mai visto e non ha la forza di guardarlo. Il video dura pochi secondi, è esplicito su quanto sta accadendo, ma - secondo chi l'ha visto - non fa capire nulla sul tema decisivo: Silvia era brilla ma lucida, o era un corpo senza volontà?

Giuseppe Filetto per la Repubblica - Estratti mercoledì 8 novembre 2023.

C’è un prima e un dopo in quello che racconta Silvia in aula, al processo a Tempio Pausania contro Ciro Grillo ed i suoi tre amici genovesi, tutti accusati di stupro di gruppo e di violenza sessuale. Il prima, precedente il 17 luglio 2019: «Ho avuto un solo fidanzato, Nik, ma dopo non ho più dato importanza al sesso». Tant’è che la ragazza in aula ha fatto ascoltare un messaggio audio inviato alla sua amica Mei qualche giorno dopo l’accaduto: «Facevo una netta differenza tra il bacio (forse si riferiva a quello dato a Ciro in discoteca, ndr) e il sesso. Per me era sacro, ora non lo è più».

Il dopo: «Oggi faccio atti di autolesionismo, mi graffio e mi procuro tagli, ho disturbi alimentari. Mangiavo e vomitavo, pesavo 53 chili (è alta un metro e ottanta, ndr). Ho tentato più volte il suicidio, di notte andavo sui binari contro i treni in corsa...». È uno dei drammatici passaggi in cui Silvia (nome di fantasia) racconta la notte di alcol e sesso del 17 luglio 2019 nella villetta di Cala di Volpe in uso alla famiglia di Beppe Grillo. Descrive nei dettagli il primo stupro subito da parte di Francesco Corsiglia. Più tardi — secondo la ragazza, all’epoca appena maggiorenne — Ciro Grillo, figlio del fondatore dei 5S, Vittorio Lauria ed Edoardo Capitta, tutti ventenni, l’hanno costretta a bere mezza bottiglia di vodka che «aveva un sapore e un colore strano»:

«Troppe contraddizioni nelle sue deposizioni – ripete Gennaro Velle, uno degli avvocati che difendono i quattro imputati –: troppe cose non convergono con quanto dichiarato da lei stessa durante gli interrogatori precedenti ed anche con le dichiarazioni rese nel processo dalla sua amica». L’amica è Roberta, studentessa milanese che si trovava in Sardegna in vacanza con Silvia. 

Tra le incongruenze, quella del bacio dato a Ciro Grillo in discoteca, prima dello stupro. Secondo le difese lei in aula avrebbe dichiarato di non ricordarselo, mentre la sua amica (vittima pure lei di violenza sessuale e testimone) il 22 settembre scorso ha confermato che quel bacio c’è stato. Così come lo ha ribadito Alex Cerato, l’altro amico presente al Billionaire di Porto Cervo. «Questo processo si basa sulla credibilità della ragazza», sottolinea Velle. Cioè della principale vittima. E le controrepliche di oggi (secondo giorno di deposizione di Silvia) da parte delle difese puntano ad evidenziare tutto ciò. Perciò mostrano in aula una chat tra lei e una sua amica. Che porta la data del 28 luglio di quell’anno. Undici giorni dopo lo stupro. Secondo le difese nel messaggio vocale ci sarebbe da una parte la prova che Silvia ha mentito, dall’altra che sarebbe una ragazza con precedenti relazioni.

Per Giulia Bongiorno, che la difende insieme a Dario Romano, «C’è un tentativo di screditarla, di trasformarla da vittima a imputata: è molto comune in Italia, capita spesso. Si vedrà durante l’udienza appena iniziata quale piega prenderà questo processo. Certo che comunque «E’ una ragazza devastata», afferma la senatrice della Lega.

(…)

Processo Ciro Grillo, la ragazza in aula: «Dopo lo stupro volevo farmi mettere sotto da un treno». Giusi Fasano su Il Corriere della Sera l'8 novembre 2023.

La ragazza tra le lacrime: «Costretta a bere, ero paralizzata: non potevo nemmeno urlare»

Ciro Grillo, 22 anni, figlio del comico Beppe, attualmente a processo per violenza sessuale di gruppo assieme a tre coetanei di Genova

Pare di vederla, Silvia. Sola, di corsa lungo i binari per cercare il coraggio di buttarsi sotto il treno. Oppure mentre manda giù qualche droga che la faccia vomitare, mentre si procura dei tagli perché il male emotivo trovi la via per andarsene attraverso quello fisico. Ieri la Silvia di tutto questo era in aula per la prima volta a rispondere alle domande del procuratore capo Gregorio Capasso. È stato il racconto di un dramma, di mesi neri e di dettagli finora sconosciuti.

«Dopo lo stupro mi volevo suicidare, correvo sui binari per farmi mettere sotto da un treno, mi procuravo dei tagli, volevo farmi del male», ha raccontato. E poi i problemi alimentari: «Mangiavo e dopo prendevo qualcosa per vomitare, per non ingrassare». «Qualcosa» vuol dire sostanze stupefacenti. Molte. Adesso quella fase è in parte superata ma questa ragazza che sembra un fuscello — alta un metro e ottanta e nemmeno 55 chili — va ancora avanti a psicofarmaci per non cedere ai demoni della sua angoscia. «Prendo alte dosi di antidepressivi», confessa in aula. «Una vita devastata», per dirla con l’avvocata Giulia Bongiorno che la difende e che a fine udienza se n’è andata con gli occhi lucidi: «Per un legale queste giornate sono forse le più difficili, le più complicate, le più dolorose».

Ieri è stato il giorno più emotivo dall’inizio del processo per violenza sessuale di gruppo contro Ciro Grillo e i suoi tre amici genovesi : Edoardo Capitta, Vittorio Lauria e Francesco Corsiglia. La ragazza che li accusa, e che abbiamo sempre chiamato Silvia anche se il suo nome è un altro, ha ripercorso un pezzetto dopo l’altro la versione dei fatti che mise a verbale nel pomeriggio del 26 luglio 2019. Quel giorno andò dai carabinieri del Comando Milano Porta Garibaldi e raccontò che nove giorni prima, il 17 di luglio, l’avevano stuprata in quattro , ripetutamente, nella casa dove quei ragazzi erano in vacanza , in Costa Smeralda.

Lei e la sua amica Roberta avevano conosciuto i quattro la sera prima in discoteca, al Billionaire di Briatore, e poi avevano accettato il loro invito a casa. Roberta dormiva sul divano e non si è accorta di nulla mentre i ragazzi scattavano fotografie a sfondo sessuale accanto a lei. Silvia invece ha sempre sostenuto di essere stata violentata prima da uno dei ragazzi, poi costretta a bere e infine stuprata da tutti, ripetutamente. «Fui costretta a bere della vodka da una bottiglia» ha ripetuto anche ieri ai giudici. «Aveva un sapore e un colore strano. Vittorio mi afferrò la testa con la forza e mentre con una mano mi teneva il collo con l’altra mi forzava a bere. Da lì in poi il black-out». Quello è, nel racconto di Silvia, la linea di confine fra ricordi nitidi e flash disordinati. «Ero come paralizzata, non sentivo più il mio corpo, non sentivo le braccia, non riuscivo a muovermi né a urlare...».

In aula è stato ascoltato un audio in inglese che lei mandò a una sua amica norvegese il giorno dopo i fatti. Diceva che sì, la sera al Billionaire aveva baciato Ciro Grillo ma «guarda che io faccio una netta differenza fra bacio e sesso. Per me il sesso è sacro. Lo faccio solo con chi amo». Una difesa preventiva, chiamiamola così, davanti alla tesi degli imputati che dicono «lei era consenziente». Della sua vita sentimentale Silvia dice che «ho avuto solo una storia bella nella mia vita, con Nick», che «dopo la violenza è cambiato tutto anche nei sentimenti, nelle relazioni con gli uomini, nella vita di tutti i giorni...».

Se già ieri per lei non è stata una passeggiata, oggi l’aspetta una giornata forse ancora più dura. Stavolta a fare le domande saranno gli avvocati degli imputati. Che promettono delicatezza e rispetto ma che non potranno fare a meno di mettere in evidenza eventuali lacune o contraddizioni che ritengono di aver rilevato nella sua ricostruzione. Antonella Cuccureddu e il suo collega Gennaro Velle, difensori di Francesco Corsiglia, parlano per esempio di contraddizioni «insanabili» fra quello che aveva raccontato in aula Roberta un mese fa e quel che invece ha detto ieri Silvia. L’avvocata Cuccureddu aggiunge che sono «contraddizioni molto marcate ed evidenti» e che «riguardano diversi aspetti, dalla scelta di seguire i ragazzi a casa fino a quando se ne sono andate». E a proposito di «contraddizioni marcate» ce n’è una evidente fra le stesse avvocate. Giulia Bongiorno: «Giornata drammatica, la ragazza parlava singhiozzando». Antonella Cuccureddu: «Non è stato drammatico. Era lucida e tranquilla, c’è stato solo qualche momento di cedimento». Purtroppo l’udienza è a porte chiuse.

Processo Ciro Grillo “costretta a bere, ero paralizzata e non avevo la forza per reagire”. Il black out della vittima dopo la vodka. Redazione su Il Riformista il 7 Novembre 2023

“Non avevo la forza di reagire. Mi hanno costretta a bere una bottiglia di vodka, da lì in poi il black out”. La ragazza italo-norvegese sta proseguendo il suo racconto nel processo a porte chiuse per violenza sessuale di gruppo che vedi imputati Ciro Grillo, Edoardo Capitta, Vittorio Lauria e Francesco Corsiglia. La principale accusatrice ha ripercorso, rispondendo prima al pm e poi alla sua avvocata Giulia Bongiorno, la serata del 16 luglio 2019 e la notte del 17 trascorsa nella villa della famiglia Grillo a Porto Cervo: è qui che sarebbe stata costretta a bere una bottiglia di vodka che le avrebbe causato una sorta di black out.

Un crollo emotivo della ragazza italo-norgevese, all’epoca dei fatti 19enne, ha convinto i giudici ad interrompere la sua deposizione. La studentessa ha cominciato a raccontare la serata del 16 luglio 2019 trascorsa al Billionaire, avrebbe detto che tutti avevano bevuto molto, poi però si è bloccata quando la ricostruzione ha toccato la notte tra il il 16 e 17 agosto trascorsa nella villetta di Porto Cervo della famiglia Grillo, dove si sarebbe consumata la violenza. La ragazza non è riuscita a trattenere la lacrime, e l’udienza ha subito uno stop.

Quindi è stato chiesto di far proseguire la deposizione proteggendo la teste con un paravento, ma l’istanza è stata respinta. La giovane sta così nuovamente rispondendo alle domande del pm Gregorio Capasso. Nel frattempo sono state fissate altre due udienze: dopo quelle già previste per il 13 e 14 dicembre, quando proseguirà l’esame della ragazza italo-norvegese, si andrà al 31 gennaio e all’1 febbraio 2024.

La sparata di Beppe Grillo in difesa del figlio

Beppe Grillo, aveva pubblicato un video su Facebook difendendo il figlio Ciro dall’accusa di stupro ai danni di una ragazza italo-svedese 19enne nella villa di famiglia in Sardegna, nell’estate 2019, sta terremotando il ‘partito’. Accanto alla difesa e alla solidarietà di Alessandro Di Battista e Paola Taverna, molti altri deputati e senatori in privato hanno provato imbarazzo per il video del co-fondatore, con le urla disperate in difesa dell’innocenza del figlio Ciro, addossando le responsabilità dell’intera vicenda alla presunta vittima dello stupro, parlando di “ragazzi che si divertono e ridono in mutande e saltellano con il pisello” e di una denuncia che, se presentata 8 giorni dopo il fatto, prova l’innocenza dei figlio e dei tre amici.

Tommaso Fregatti per “la Stampa” - Estratti martedì 24 ottobre 2023.

«Per quei ragazzi non ero una persona, ma solo un oggetto. Si sono comportati come se non avessi un nome. Ero semplicemente un divertimento per loro, qualcosa che dimostrava il loro potere maschile su di me». Dopo dieci ore di interrogatorio davanti ai giudici di Tempio Pausania in Sardegna con gli avvocati degli imputati che la incalzano alla fine, Roberta crolla. Lei è una delle due vittime degli abusi sessuali per cui sono sotto processo Ciro Grillo, figlio di Beppe, leader del Movimento Cinque Stelle, e i suoi tre amici (Vittorio Lauria, Francesco Corsiglia ed Edoardo Capitta). 

I quattro sono accusati di una violenza sessuale di gruppo ai danni di una studentessa italo-norvegese di 21 anni, Silvia, e di abusi su Roberta a cui gli studenti hanno scattato foto hard mentre dormiva sul divano del salotto. 

(,...)«Quando ho saputo che mi sono state scattate foto hard mentre dormivo - spiega - mi sono sentita come se al mondo non ci fosse sicurezza, come se fosse una cosa che potrebbe succedere tante altre volte».

E ancora, prosegue Roberta: «Chi commette questi atti sente di avere il potere sulla vittima. Per loro non ero una persona in quel momento, ero un oggetto. Non era rilevante che avessi un nome, ero semplicemente il loro divertimento e questo atto dimostra che loro sentissero di avere il potere». 

Roberta prosegue: «Il potere che è dato dal loro essere maschi, ragazzi di vent'anni, magari anche con i soldi». Inevitabile che una vicenda del genere abbia avuto ripercussioni nella vita della giovane milanese: «È qualcosa a cui penso spesso. Cioè penso che vorrei uscire con un ragazzo, mi interessa qualcuno, ma ho sempre quel pensiero in testa: come fai a sapere che non è uno che farebbe una cosa così?

Questo non mi esce dalla testa mi rimane sempre perché non puoi sapere chi potrebbe fare una cosa del genere». In aula, Roberta racconta ai giudici anche come ha saputo delle immagini hard che i quattro le avevano scattato passando da testimone oculare (aveva trascorso la serata con l'amica Silvia che ha denunciato la violenza di Ciro e dei suoi amici) a vittima anche lei degli abusi: 

«All'inizio nonostante avessi saputo delle fotografie che mi avevano scattato - sottolinea Roberta - nella mia testa ho fatto finta che non esistessero. Poi andando avanti la vicenda giudiziaria mi, sono dovuta fare forza e ho dovuto ammettere che era tutto vero. Sono stati momenti difficili».

Processo a Ciro Grillo, oggi e domani parla la testimone chiave: «Quando mi sono svegliata ero sola, sul divano in sala». Giusi Fasano su Il Corriere della Sera venerdì 22 settembre 2023.

La parola passa in aula all’amica della ragazza che denunciato lo stupro

Sono le 10 del mattino, 27 agosto 2019. Una ragazza che abbiamo sempre chiamato Roberta, anche se non è il suo vero nome, sta rispondendo alle domande dei carabinieri della Compagnia Duomo di Milano. Si parla di una presunta violenza sessuale avvenuta in Sardegna all’alba del 17 agosto 2019.

«Quando mi sono svegliata ero sola, sul divano in sala», racconta Roberta . «Saranno state le 12,30- 13. Mi sono alzata e sono andata a cercare Silvia (lei dice il nome reale dell’amica che noi chiamiamo Silvia, ndr). L’ho trovata nella prima stanza a destra, nel letto, nuda, ed era sola. L’ho svegliata, l’ho vista molto confusa e sconvolta, aveva tutto il trucco colato, si guardava attorno, credo che non riuscisse a capire dove si trovasse. Mi è capitato di vederla ubriaca in altre occasioni, ma mai in quello stato, quindi in quel caso non mi è sembrato che fosse per gli effetti dell’alcol. Le chiedevo che cosa fosse successo, soprattutto avendola vista nuda nel letto, lei inizialmente non mi rispondeva. Poi glielo chiedevo di nuovo e alla fine mi rispondeva: mi hanno violentata. Chi?, ho chiesto. E lei: tutti. Le chiedevo cosa voleva che facessi. E lei: andiamo via di qui».

È una testimonianza, quella di Roberta. Non un interrogatorio. Lei è una testimone di fatti successi fra la sera del 16 luglio 2019 e la mattina del 17. E non immagina minimamente che il processo contro le persone accusate di aver violentato la sua amica Silvia sarà anche il suo processo. Perché Roberta scoprirà soltanto un anno dopo - il 28 luglio del 2020 - che, mentre lei dormiva sul divano, i ragazzi accusati di aver violentato Silvia hanno scattato fotografie e hanno girato un video a sfondo sessuale accanto a lei.

Oggi e domani Roberta sarà sentita in udienza a Tempio Pausania , dove si sta celebrando il processo per violenza sessuale di gruppo contro i quattro ragazzi genovesi che quel luglio 2019 erano in vacanza in Costa Smeralda. Sono Ciro Grillo (figlio di Beppe, garante e fondatore del Movimento cinque stelle) e i suoi amici Edoardo Capitta, Vittorio Lauria e Francesco Corsiglia, all’epoca tutti diciannovenni. Roberta dovrà ricostruire in aula la serata del 16, quando lei e Silvia conobbero Ciro e gli altri. Dovrà rievocare quel che accadde al Billionaire di Briatore, dove la compagnia passò parte della serata, poi l’nvito a casa dei quattro, lei che si addormenta sul divano e, il mattino dopo, il racconto di Silvia che accusa tutti aver abusato di lei dopo averla fatta bere.

«Mi sono addormentata da sola sul divano in sala» aveva detto prima ai carabinieri e un anno dopo al procuratore di Tempio Pausania, Gregorio Capasso. «Ricordo di essermi svegliata tre volte. In una occasione ho sentito Ciro che urlava con qualcuno, era molto irritato perché avrebbe voluto un rapporto con Silvia e invece stava succedendo a Corsiglia. L’altra persona cercava di calmarlo: tanto è brutta, ne trovi un’altra domani. Una seconda volta, mentre dormivo, si è avvicinato Ciro e mi ha chiesto se ero sicura di voler dormire sul divano o se volessi andare con lui. Ho risposto che stavo benissimo e che volevo solo dormire, e si è allontanato senza insistere». E infine la terza volta: «Non ricordo se ero già sveglia o se mi ha svegliato Silvia. Ero sdraiata sul divano, lei era accanto a me, in accappatoio e stava piangendo. Le ho chiesto cos’era successo ma lei piangeva singhiozzando e non mi ha risposto. Continuava a piangere ma mi ha detto: non preoccuparti, va tutto bene, sto bene. Le ho chiesto più volte cosa fosse successo ma lei diceva che andava tutto bene. Poi si è allontanata, e credo di essermi riaddormentata subito. Saranno state le 8.30. Non ricordo di essermi più svegliata fino alla tarda mattinata, intorno alle 12.30-13».

In questi quattro anni le strade di Silvia e Roberta si sono divise. Dell’amicizia profonda di quell’estate restano ricordi. E immaginiamo che fra oggi e domani, dentro e fuori dall’aula del tribunale di Tempio, Roberta riaprirà la scatola di quei ricordi e ripenserà alla sua amica Silvia al di là delle parole e delle immagini del 16 e 17 luglio.

Processo Ciro Grillo, l’amica della vittima in aula: «Mi disse: mi hanno violentata tutti, ora mi sento solo un corpo». Giusi Fasano su Il Corriere della Sera sabato 23 settembre 2023.

A Tempio Pausania il secondo giorno di audizioni. La ragazza ha tenuto il punto: «Silvia era nella prima stanza, completamente nuda. L’ho vista confusa e sconvolta. Quella notte non eravamo nè sobrie, nè ubriache, ma eravamo lucide» 

Due giorni di domande. Roberta (nome di fantasia) ha tenuto il punto su tutto. Ha risposto con lucidità e ha ricordato i dettagli che aveva già descritto nel suo primo verbale davanti ai carabinieri. «Quando mi sono svegliata saranno state le 12:30/13:00, mi sono alzata e sono andata a cercare Silvia. Lei era nella prima stanza a destra, nel letto, completamente nuda. L’ho visto molto confusa e sconvolta e non mi è sembrato che fosse per via dell’alcol perché l’ho vista ubriaca in qualche occasione, ma mai in quello stato. Le ho chiesto più volte cosa fosse successo e lei alla fine mi ha detto “mi hanno violentata”. Chi, le ho chiesto io. E lei: “Tutti”».

Parole già messe a verbale, appunto, ma ripetute come risposte alle domande degli avvocati di Silvia, Giulia Bongiorno e Dario Romano. La questione che a loro più interessava era proprio questa: lo stato emotivo di Silvia quella mattina e la conferma del racconto che fece all’amica.

Tutto questo nel Tribunale di Tempio Pausania, dove è in corso il processo contro Ciro Grilllo (figlio di Beppe Grillo) e gli amici Edoardo Capitta, Vittorio Lauria e Francesco Corsiglia. Sono accusati tutti di violenza sessuale di gruppo e le due presunte vittime sono Silvia e Roberta.

Roberta però quella notte dormiva sul divano. Tre dei ragazzi hanno scattato fotografie a sfondo sessuale accanto a lei e quindi, nel suo caso, fu quella la violenza. Silvia invece denuncia uno stupro di gruppo. I fatti sono del 16-17 luglio 2019 e il processo ha chiamato in causa ieri e oggi Roberta. Gli avvocati dei ragazzi hanno insistito con lei sullo stato di sobrietà della compagnia la sera del 16 e la notte tra il 16 e il 17. «La mia assistita ha detto che avevano bevuto qualcosa, ma non erano nè sobrie nè ubriache», ha spiegato l’avvocato di Roberta, Vinicio Nardo. Antonella Cuccureddu, avvocata di Corsiglia assieme a Gennaro Velle, sostiene che Roberta «ha detto che avevano bevuto, ma che erano entrambe lucide e ha aggiunto che nessuno ha tenuto comportamenti che facessero sospettare la non lucidità». In questi due giorni di esame in aula Roberta si è soffermata sullo stato d’animo dell’amica Silvia: «Dopo i fatti era solo un corpo e non le interessava più niente di sé stessa». «Aveva mostrato interesse per qualcuno dei ragazzi?», le è stato chiesto. «Aveva detto che non era interessata a nessuno di loro, non le piaceva nessuno», ha risposto Roberta.

Il processo si tiene a porte chiuse. Fuori dall’aula alcuni dei legali dei ragazzi raccontano anche del tentativo di far entrare in questo processo un secondo procedimento aperto a Genova proprio contro Corsiglia: un caso recente e lieve, ancora tutto da definire. È stata chiesta l’acquisizione degli articoli di stampa relativi a quel caso, ma il Tribunale l’ha respinta.

 Estratto dell’articolo di Giuseppe Filetto per genova.repubblica.it venerdì 22 settembre 2023.

Di quella notte a Cala di Volpe, nella villetta in uso alla famiglia di Beppe Grillo, ricorda soprattutto di essere stata svegliata tre volte, mentre dormiva sul divano e dopo aver rifiutato “di andare in camera con uno di loro” e respinto le varie avance. Roberta, l’amica di Silvia (entrambi i nomi sono di fantasia), è la seconda vittima di violenza sessuale subita da Ciro (figlio del fondatore dei Cinque Stelle) e dai suoi tre amici genovesi, Francesco Corsiglia, Edoardo Capitta e Vittorio Lauria, all’epoca tutti ventenni.

Appunto in quella notte tra il 16 e il 17 luglio del 2019. Roberta è la persona offesa che oggi sarà sentita in aula a Tempio Pausania. Qui, nel cuore della Gallura, da più di un anno sono a processo i quattro giovani, imputati di stupro di gruppo verso Silvia, studentessa italo-norvegese, e di violenza sessuale su Roberta. 

A quest’ultima – difesa dagli avvocati Vinicio Nardo e Fiammetta Di Stefano del Foro di Milano – coi loro telefonini hanno scattato foto oscene, a sua insaputa, mentre dormiva.    

In aula, oggi, potrebbero sorgere delle contestazioni da parte dei difensori degli imputati: derivanti dall’assegnazione del giudice Marcella Pinna all’Ufficio Gip e di una sua eventuale sostituzione. D’altra parte, è la seconda volta che succede: si è già avuta la surroga di un altro componente del collegio giudicante, di Nicola Bonante trasferito al tribunale di Bari e sostituito da Alessandro Cossu. Gli avvocati (Andrea Vernazza, Gennaro Velle, Alessandro Vaccaro, Enrico Grillo ed Ernesto Monteverde del Foro di Genova; Mariano Mameli ed Antonella Cuccureddu del Foro di Sassari) vogliono (ri)chiedere al presidente Marco Contu la rilettura in udienza di tutti gli atti finora trattati e le deposizioni delle decine di testimoni già interrogati. 

Al netto di colpi di scena, la studentessa milanese in quei giorni appena maggiorenne come la sua amica, dovrebbe riavvolgere il nastro della sua memoria e cristallizzare cosa ha già detto ai carabinieri della Compagnia Milano Duomo il 27 luglio del 2019, dieci giorni dopo la notte di sesso ed alcol in Costa Smeralda; poi ripetuto al procuratore capo di Tempio Pausania, Gregorio Capasso, ed alla sostituta Laura Bassani il 28 luglio del 2020.  Di quella notte iniziata al Billionaire di Flavio Briatore a Porto Cervo, l’amica di Silvia, oltre che parte offesa, è anche unica testimone presente nell’appartamento. E nei verbali racconta: «Mentre cucinavo la pasta, Corsi (Francesco Corsiglia, ndr) si avvicinava a mi diceva “dai che ti aiuto” e capivo che era un approccio per restare da solo con me». Dopo arriva l’invito di Edoardo Capitta. «Ma ho rifiutato di dormire in camera con lui per evitare situazioni ambigue», precisa Roberta.

Alle sei del mattino la studentessa non vede più la sua amica, che nel frattempo si è appartata in camera con Corsiglia, e si addormenta sul divano. Poi per tre volte viene svegliata. La prima, sente Ciro Grillo urlare: «Io me la sono portata a casa perchè me la volevo s…, invece se la sta s… lui». E l’altro (non si sa se sia Capitta o Lauria) gli dice: «Tanto era brutta, ne troviamo un’altra domani». 

Il sonno di Roberta è interrotto altre due volte. «Nel primo caso Ciro mi ha chiesto se volessi andare con lui, gli rispondevo che stavo benissimo lì e lui si allontanava senza insistere». La seconda volta svegliata da Silvia, in accappatoio, che piangeva: «Le ho detto cosa è successo, lei mi ha risposto “tutto bene, non è successo niente”, saranno state le 8 e mezza». Poco prima si sarebbe consumata la violenza sessuale da parte di Corsiglia. 

Prima di mezzogiorno, Capitta, Grillo Junior e Lauria compiono gli abusi su Roberta. Lei lo scoprirà un mese più tardi, ad indagine esplosa dopo la denuncia presentata ai carabinieri di Milano da Silvia e da sua mamma. La donna (italiana, mentre il papà è norvegese) prima l’ha fatta visitare dai ginecologi della Clinica Mangiagalli.

Roberta non sa delle foto oscene e nella villetta di Cala di Volpe, tra le 12.30 e le 13, si sveglia e cerca l’amica. «L’ho trovata completamente nuda sotto il lenzuolo, nel letto della prima stanza, da sola, era molto confusa e sconvolta, con il trucco colato sul viso per il pianto». Le domanda cosa è successo. «Mi hanno violentata», risponde Silvia. L’amica incalza: «Chi?». E l’altra: «Tutti insieme». I quattro, però, sostengono di avere avuto rapporti sessuali consensuali 

La studentessa italo-norvegese (difesa dall’avvocato e senatrice della Lega Giulia Bongiorno e dal suo collega Dario Romano) ha detto agli inquirenti di essere stata costretta a bere una bottiglia di vodka “dall’odore strano”, poi di essere stata stuprata prima da Corsiglia, tenuta ferma sotto la doccia. L’indomani da Ciro, Capitta e Lauria, tutti insieme. Anche se Roberta dice di non avere notato segni particolari sul corpo di Silvia.

(...)

 Estratto dell’articolo di Giuseppe Filetto per genova.repubblica.it venerdì 15 settembre 2023. 

«Ti prego, non mi denunciare, sono già nei casini per un’altra questione». L’altra questione è quella dello stupro di gruppo, quella che coinvolge anche il figlio di Beppe Grillo. Questa la supplica di Francesco Corsiglia alla ragazza che una notte dello scorso luglio ha chiamato i carabinieri per segnalare che il giovane le aveva sollevato il top sulla pista da ballo dell’Estoril.  

Lei, una 19enne, nuotatrice, genovese (di cui per ovvie ragioni non viene rivelato il nome), di fronte a quella frase di supplica non ha desistito. Anzi, forse per lei è stato un assist, ha rincarato la dose. Al cospetto dei militari ha confermato le molestie e l’indomani ha presentato formale denuncia alla caserma di Forte San Giuliano.

Corsiglia dal giorno dopo risulta indagato di violenza sessuale, anche se il pm Federico Panichi gli contesta la lieve entità. Il giovane ha ricevuto la notifica dell’Acip (Avviso Conclusioni Indagini Preliminari), seppure il suo avvocato Gennaro Velle – lo difende nel processo a Tempio Pausania per lo stupro di gruppo verso una ragazza italo-norvegese, del quale sono anche imputati gli amici Ciro Grillo, Edoardo Capitta e Vittorio Lauria - l’altro ieri ha assicurato di non avere ricevuto nulla, lamentando che “in un Paese civile non è normale sapere le cose dagli organi di informazione”. 

Ieri, però, il procuratore capo Nicola Piacente ha chiarito che Corsiglia vive all’estero (in Spagna) e quindi la notifica, essendo un maggiorenne, non è stata fatta ai genitori, bensì ad un legale nominato d’ufficio. Quest’ultimo avrebbe dovuto informarlo. 

In ogni modo, le molestie risalgono alla notte tra il 29 e il 30 luglio. Corsiglia, rientrato dalla Spagna a quanto risulta per passare un paio di giorni a Genova, quella sera era in discoteca. Qui ha conosciuto Alessia (nome di fantasia) che gli avrebbe confidato di avere un pearcing al seno. 

A quel punto l’infelice sbruffonata di sollevarle il top. Come risposta Corsiglia ha ricevuto un sonoro ceffone, lui ha tentato una reazione, mentre gli amici di lei gli si sono scagliati contro. Ne è nato un parapiglia, subito però sedato dai buttafuori. Non è finita. La ragazza ha fatto intervenire i carabinieri, che secondo il verbale di denuncia inoltrato alla Procura l’avrebbero trovata in evidente stato di agitazione. L’indomani la denuncia formale. 

Nessun palpeggiamento, come era trapelato in un primo momento da fonti investigative. Per la legge, comunque, è violenza sessuale, seppure la contestazione della Procura contempli la “modalità attenuata” (ex articolo 660 del codice penale equiparato alla molestia sessuale). Un’imputazione che, comunque, complica non di poco la posizione giudiziaria del giovane, oggi 23enne. Corsiglia, figlio di un noto cardiologo genovese, nell’estate del 2019 si trovava in Sardegna, in vacanza. Insieme a Ciro, Edoardo e Vittorio, tutti suoi coetanei. 

Nella notte tra il 16 e il 17 luglio, nella villetta di Cala di Volpe, in uso alla famiglia del fondatore del M5S, prima avrebbero stuprato Silvia (pure questo nome inventato) appena maggiorenne, poi fatto violenza sessuale alla sua amica Roberta, studentessa milanese con lei in vacanza in Costa Smeralda. Tutto documentato da foto e video prodotti e conservati nei telefonini dei giovani.

(…)

L’ennesimo esempio di disinformazja giudiziaria. Il giudice lascia il processo per avvicinarsi a casa e nessuno se ne frega: più interessi che diritti (dell’imputato). Gian Domenico Caiazza su Il Riformista l'8 Luglio 2023 

La cronaca giudiziaria di questi giorni, attenta solo ai processi che fanno audience, segnala l’abbandono di uno dei giudici del processo a Ciro Grillo. Seguono corrucciate previsioni di allungamento dei tempi, e di possibili speculazioni difensive che – pensate un po’ – potrebbero chiedere la ripetizione della istruttoria. Questa annosa questione, ben oltre il singolo caso di cronaca, è l’ennesimo esempio di disinformazja giudiziaria.

C’è qualcuno di voi che, da imputato, accetterebbe l’idea che il giudice – il quale abbia seguito tutta la istruttoria dibattimentale dalla quale dipende più o meno la tua vita – se ne vada bellamente prima di concludere il processo? E che costui venga sostituito da un giudice che non sa nulla del processo, e che se ne farà una idea leggendo i verbali? Io non credo. E infatti il codice impone la ripetizione della istruttoria, come è ovvio e giusto che sia, e come ciascuno di voi pretenderebbe che fosse. Ma la magistratura italiana da sempre aborre questo elementare principio di civiltà giuridica: si perde tempo, dicono.

E – detto fatto – a sezioni unite riscrive la norma, che grazie a quella spericolata interpretazione non è più la regola, ma una cervellotica ed improbabile eccezione, ignota al legislatore. Almeno la Corte costituzionale pone un freno (si eviti la ripetizione solo se c’è la videoregistrazione delle udienze precedenti), e la riforma Cartabia riscrive la norma a ricalco su quella decisione del Giudice delle Leggi. La magistratura, tuttavia, scalpita e fa rullare i tamburi, perché le videocamere nelle aule non ci sono (ed è vero), ma non accetta che, in attesa, i processi si ripetano.

Ora, il punto è questo: qualcuno si è mai chiesto perché accade tutto ciò? Perché, insomma, si pone il problema del giudice che va via? Sappiate che la risposta è semplicissima. Lo fa per ragioni di carriera: vuole cambiare sezione, vuole andare al grado superiore, vuole avvicinarsi a casa, vuole raggiungere il coniuge. Tutto legittimo, beninteso. Ma lo scandalo sta nella odiosa prevalenza di questi interessi, legittimi ma corporativi, sul sacrosanto diritto dell’imputato (ma anche delle parti offese!) a vedersi giudicato dallo stesso giudice che ha raccolto la prova.

Dovrebbe accadere almeno che il trasferimento venga eseguito solo quando il giudice abbia esaurito la trattazione dei processi che ha iniziato. Lo dice anche la più ignorata circolare dello stesso CSM. Ma non accade: e quindi parte la grancassa mediatica contro i soliti avvocati che cercano pretesti per perdere tempo, calpestando il principio della ragionevole durata del processo. Pensino a non intralciare la speditezza dei processi, chè l’Europa ci guarda! Così funziona la giustizia penale nel nostro Paese, così venite informati dai media, così si formano le vostre opinioni sulla giustizia penale.

Gian Domenico Caiazza. Presidente Unione CamerePenali Italiane

Estratto dell'articolo di Giuseppe Filetto per genova.repubblica.it il 12 maggio 2023.

Dovrebbe essere la giornata conclusiva di Alex Cerato, studente di Milano, oggi in aula a Tempio Pausania testimone contro i quattro ragazzi genovesi imputati di stupro di gruppo nei confronti di Silvia e di violenza sessuale verso Roberta (entrambi nomi di fantasia), amiche dello studente. 

Ciro Grillo, il figlio del Garante dei Cinque Stelle, Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria nella notte tra il 16 e il 17 luglio del 2019 avrebbero abusato delle due ragazze. I fatti nella villetta di Cala di Volpe, in Costa Smeralda, in uso alla famiglia Grillo. Ma i quattro giovani sostengono di essere stati protagonisti di un rapporto consensuale con Silvia, mentre lei ha denunciato lo stupro dopo essere stata costretta a bere vodka.

[…] 

L'udienza di oggi, però, è attesa soprattutto per la presenza di Cinzia Piredda, la psicologa "ingaggiata" dalla Procura di Tempio Pausania, che ha stilato una perizia sulle condizioni emotive della vittima al momento degli interrogatori prima ai carabinieri di Milano, poi ai pm della cittadina della Sardegna dove si sono svolte le indagini ed ora è in corso il processo. 

L'udienza è a porte chiuse (come tutte le precedenti) ma la psicologa è chiamata a ripercorrere quanto da lei descritto nella relazione. Ovvero, "la difficoltà da parte della .... (vittima, ndr) ad esprimere la propria volontà e rispondere con un diniego alle richieste poste dagli altri...".

Questo si legge nelle quattro pagine stilate da Piredda. E queste difficoltà - si descrive sempre nella perizia -  emergono in diversi momenti del racconto di Silvia. Quando, seduta sotto il gazebo, i ragazzi l'avrebbero costretta a bere vodka "poco prima del secondo rapporto sessuale". 

Quando "chiede a Roberta di andare via, dopo il primo rapporto sessuale" con Francesco Corsiglia, "ma la sua richiesta non viene accolta dall'amica". Quando racconta al pm "di un precedente rapporto sessuale non consenziente con il suo migliore amico in Norvegia nel maggio 2018... emerge la difficoltà a negarsi ad un rapporto sessuale non desiderato". 

La perizia si presta a diverse interpretazioni, sia della difesa (gli avvocati Gennaro Velle, Andrea Vernazza, Alessardo Vaccaro, Ernesto Monteverde ed Enrico Grillo tutti del Foro di Genova, e di Mariano Mameli ed Antonella Cuccureddu del Foro di Sassari), sia della parte civile (l'avvocata Giulia Bongiorno e il suo collega Dario Romano): da una parte le difficoltà della ragazza sarebbero la prova-provata che i quattro giovani avrebbero agito verso un soggetto debole; dall'altra, l'assenza di reazioni viene vista come una sorta di silenzio-assenso. 

[…]

Intanto, il giudice Marco Contu oggi, in accordo con il pm, ha deciso di ascoltare Silvia, la studentessa italo-norvegese, in aula nel prossimo autunno, fra i mesi di ottobre e novembre.  Le date non sono state stabilite con precisione, anche perché la calendarizzazione delle udienze è in preparazione.

Estratto dell’articolo di Giuseppe Filetto per repubblica.it il 12 aprile 2023.

Alex Cerato è l'amico di Silvia e Roberta (entrambi nomi di fantasia) chiamato oggi a testimoniare a Tempio Pausania. Lui che la sera del 16 luglio del 2019 le aveva fatto conoscere alla comitiva genovese: Ciro Grillo, figlio del fondatore dei 5S, e i suoi tre amici Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria, imputati di stupro di gruppo nei confronti della prima ragazza e di sola violenza sessuale verso la seconda. Tutti all'epoca poco più che ventenni.

 Alex a Milano ha frequentato lo stesso liceo delle due studentesse e nell'estate di quell'anno era con loro, appena maggiorenni, in Costa Smeralda, al Billionaire di Porto Cervo. Le aveva accompagnate lui ed era con loro anche quarantotto ore dopo, quando "Silvia non era più la stessa", quando "Silvia era sconvolta". […]

Il giovane, prima il 28 agosto di quell'anno ai carabinieri di Milano, dopo il 28 luglio del 2020 al procuratore capo di Tempio Pausania Gregorio Capasso, aveva raccontato: "Mentre eravamo al Billionaire io e Roberta abbiamo visto Silvia e Ciro Grillo baciarsi". Poi: "Ne ho parlato subito con Roberta, perché quei quattro tipi avevano un atteggiamento che non mi piaceva. Io non li conoscevo personalmente, li conosceva un nostro amico". Però: "Verso le tre e mezzo me ne sono andato. Le ho lasciate lì con loro".

Alex, due giorni dopo, chiama Silvia e le chiede se il bacio con Grillo Jr ha avuto un seguito: "Alla fine hai fatto sesso con Ciro?". Gli risponde di sì. Aggiungendo: "Prima mi hanno fatto bere mezza bottiglia di vodka". E ancora Alex ricorda: "Silvia mi ha fatto capire che aveva avuto rapporti anche con qualcuno degli altri".

 […] la presenza in aula di Alex è attesa […] per avere conferme sulla versione fornita dalla vittima. […] Nel verbale, che ormai fa parte degli atti dell'inchiesta e del processo, Alex racconta: "Dopo che Silvia e Ciro si sono baciati, ne ho parlato subito con Roberta, perché quei quattro facevano gli sbruffoni. Quel Ciro aveva gli occhiali da sole nonostante fosse notte e fossimo al chiuso".

Alex, comunque, va via tranquillo: le due ragazze gli avevano detto che avrebbero preso un taxi per rientrare al bed & breakfast di Palau. Così non è stato. E' arrivato l'invito a trascorrere la notte a Cala di Volpe. Qui Silvia prima ha un rapporto sessuale solo con Corsiglia, più tardi lo stupro di gruppo da parte di Grillo, Lauria e Capitta. Lei dice di essere stata costretta, loro sostengono si sia trattato di un rapporto consensuale. Non basta: quando Silvia, sfinita, crolla e si assopisce, Roberta dorme ancora sul divano e i tre le avvicinano i genitali al volto, scattano foto e girano un video. 

[…] Qualche giorno dopo Cerato incontra i quattro ragazzi genovesi al "Zamira Lounge" di Porto Cervo. Chiede conto di come si erano comportati con la sua amica, cercando di capire meglio i fatti. "Ciro mi ha risposto, ridendo, 'l'abbiamo trattata come dei veri getlemen […]".

Da ansa.it l’8 marzo 2023.

"La deposizione della teste di oggi ci dà un riscontro dell'autenticità su quanto dichiarato dalla mia assistita".

 Così al telefono con l'ANSA Giulia Bongiorno, l'avvocata che tutela Silvia, la ragazza italo-norvegese presunta vittima di una violenza sessuale di gruppo contestata a Ciro Grillo e altri suoi tre amici genovesi.

     La legale non era presente oggi in Tribunale a Tempio ma ha voluto comunque commentare il racconto di una delle migliori amiche di Silvia, che aveva raccolto le sue confidenze dopo i fatti della notte tra il 16 e il 17 luglio 2019, a Porto Cervo, contestati ai quattro imputati.

La deposizione di Adelaide Malinverno, amica d'infanzia di Silvia con la quale ha mantenuto un rapporto confidenziale molto stretto, è tuttora in corso. All'inizio la teste ha detto di ricordare poco, poi però, quando il procuratore Gregorio Capasso le ha rinfrescato la memoria rileggendo in aula il verbale con le dichiarazioni rese ai carabinieri della compagna di Milano Duomo, ha confermato le confidenze ricevute Stando al suo racconto, Silvia l'avrebbe chiamata la notte stessa delle presunte violenze dicendo di averle subite mentre si trovava in uno stato di incapacità totale, offuscata dall'abuso di alcol.

Davanti ai giudici, la teste avrebbe inoltre confermato di aver visto le foto dei lividi sul corpo di Silvia, immagini mandate a lei dalla stessa italo-norvegese tramite Snapchat ma non agli atti del processo perchè il social dopo un po' le cancella automaticamente.

 Al Tribunale di Tempio Pausania si sta svolgendo la settima l'udienza del processo per stupro di gruppo su due ragazze, la notte tra il 16 e il 17 luglio del 2019 a Porto Cervo, che vede imputati Ciro Grillo e tre suoi amici genovesi, Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria.

Doveva essere il giorno della testimonianza di due tra i migliori amici di Silvia, la giovane italo-norvegese che ha denunciato la violenza sessuale, ma uno dei due, Alex Cerato, non si è presentato: ha fatto avere ai giudici una richiesta di impedimento a causa di impegni legati alla sua carriera universitaria che non gli hanno permesso di spostarsi da Milano. Presente invece l'altra amica di Silvia, Adelaide Malinverno, che avrebbe raccolto le confessioni della giovane nei giorni successivi allo stupro.

Estratto dell'articolo di R. C. per il “Corriere della Sera” il 9 marzo 2023.

«E allora adesso siamo noi che lo chiediamo: facciamo un processo a porte aperte».

Gli avvocati di Ciro Grillo e dei suoi tre amici genovesi sott’accusa per violenza sessuale di gruppo, ieri hanno dichiarato guerra a distanza alla loro collega, Giulia Bongiorno.

 (...)

 Ieri, a processo in corso (da sempre a porte chiuse), i legali hanno saputo di alcune agenzie di stampa che riportavano un commento di Giulia Bongiorno (non presente in aula) sull’unica teste convocata per la giornata in aula, a Tempio Pausania. È una ragazza (Adelaide) che all’epoca era una delle migliori amiche di Silvia (ora non sono più in contatto) e con la quale Silvia si era confidata subito dopo i fatti. Ieri ha in sostanza confermato quel racconto.

 «La deposizione della teste di oggi ci dà un riscontro dell’autenticità su quanto dichiarato dalla mia assistita», era il commento di Bongiorno. Ma quel che ha fatto infuriare gli avvocati dei ragazzi è il seguito, cioè: il fatto che la teste avrebbe confermato in aula che Silvia le confidò di essere ubriaca quando fu violentata. «Mai detta una cosa del genere» ha chiarito poi l’avvocata.

Ma ormai la polemica era scoppiata e al presidente del tribunale i legali degli imputati hanno chiesto ufficialmente di aprire le porte ai media per questo processo.

 Non succederà, data la delicatezza del caso e il tipo di reati contestati. Ma ci saranno di sicuro altre scintille. Per la cronaca: la ragazza ha parlato di Silvia «offuscata» dall’alcol. Il suo racconto davanti ai giudici per le parti civili «è una conferma di quanto già detto a verbale», per i legali degli imputati è «una conferma dei nostri dubbi». Per esempio uno: Adelaide descrive lividi di Silvia visti in fotografie arrivate via Snapchat, app che distrugge le immagini dopo la visualizzazione. «Come ha fatto a vedere così bene i lividi che descrive in così pochi secondi?», si chiedono. Per approfondire questo e altri mille punti ci sono volute 7 ore d’aula. Prossima udienza: 12 aprile.

Lo Stupro di Primavalle.

Estratto dell’articolo di Giulio De Santis per il “Corriere della Sera - Edizione Roma” lunedì 7 agosto 2023.

Nella notte del lungo calvario patito da Sara (nome di fantasia), l’allora sedicenne violentata la notte di Capodanno del 2020, c’è un «mister X» rimasto lontano dall’inchiesta, ma che potrebbe aver avuto un ruolo fondamentale negli stupri subiti dalla giovane. È un maschio, il suo campione di Dna, non corrispondente a quelli dei ragazzi già coinvolti nell’inchiesta, è stato rinvenuto sugli slip di Sara.

«Mister X» ha anche un nome, in termini tecnici: «2.2».

Così l’ha chiamato il tenente colonnello dei carabinieri Filippo Barni, vice comandante della sezione biologia del reparto investigazione, quando è stato sentito nel processo dove è imputato Patrizio Ranieri, per ora l’unico degli accusati di violenza sessuale di gruppo che siede davanti a giudice. […] 

Tuttavia se quel Dna, rinvenuto sugli slip, non è dei cinque indagati/imputati, allora a chi appartiene? Che cosa non è stato ancora raccontato? Domande che consentono alle difese dei ragazzi accusati di sollevare dubbi: «Non è mai stato approfondito il ruolo dei ragazzi arrivati alla festa dopo mezzanotte. Eppure in alcune intercettazioni si ascoltano queste persone cercare di influenzare le indagini – osserva l’avvocato Fabrizio Gallo, difensore di Ralli –. In ogni modo la dichiarazione del tenente colonnello esclude responsabilità del mio assistito». Chi sono questi ragazzi cui si riferisce l’avvocato Gallo?

Si tratta di 5 giovani, maggiorenni (mai nessuno coinvolto per le violenze subite da Sara) arrivati alla festa verso mezzanotte con una Smart. In un’informativa dei carabinieri, viene notato come l’identificazione di questi ragazzi, appartenenti al gruppo denominato «Primavalle», sia stata difficoltosa perché avrebbero tentato di influenzare le deposizioni di altri. 

Nel processo di loro ha parlato innanzitutto Martina, la migliore amica di Sara, e non ne ha dato un ritratto rassicurante: «Uscendo, verso mezzanotte, ho visto entrare dei ragazzi che mi hanno fatto paura, erano brutti. Era la loro faccia. Temevo che il mio ragazzo ci litigasse». Uno di loro, Gabriel Petrazzi, 21 anni, incensurato, è indagato (solo) per minacce e porto abusivo di armi, perché avrebbe intimorito con una pistola Simone Ceresani, il nipote dell’ex premier Ciriaco De Mita, dicendogli «te la scarrello addosso».

Anche Ceresani, 23 anni, assistito dall’avvocato Matteo Melandri, è stato sentito nel processo a Ranieri, difeso dall’avvocato Valentina Bongiovanni, ricordando uno degli episodi tra i più significativi del supplizio sopportato da Sara: «Patrizio, il ragazzo con la maglietta sporca del sangue di Sara, in mia presenza ha insultato la ragazza, dicendole che non valeva un c..., che era una t..., una p.... Sara è rimasta in silenzio, allora la mia ragazza “Pugile” (la figlia della showgirl, all’epoca minorenne, ndr ) l’ha difesa in modo vigoroso. E Patrizio ha smesso».

Estratto dell'articolo di Giulio De Santis per il “Corriere della Sera – ed. Roma” lunedì 31 luglio 2023.

«Dei ragazzi hanno avuto dei rapporti con Sara (nome di fantasia, come tutti quelli che seguiranno nell’articolo, ndr) che non era consenziente. Me l’ha detto lei». A riferire ai giudici la confessione scioccante della vittima - avvenuta il giorno dopo la festa di Capodanno del 2020 dove l’allora sedicenne sarebbe stata stuprata da cinque giovani diversi - è Martina, all’epoca la sua migliore amica. 

Quella rivelazione agghiacciante Martina la ricorda dopo aver raccontato in Tribunale i momenti in cui le violenze sessuali avrebbero forse potuto essere evitate: «Eravamo sotto al portico, era poco dopo mezzanotte.  Sara era brilla, ho insistito perché venisse via con me, ma lei si vergognava a farsi vedere così dai miei genitori. Non avrebbe dovuto vergognarsi di papà e mamma... Io dovevo andare via perché il mio fidanzato stava male. Perché ricordo bene quel momento, giudice? Perché poi è successo quel che è successo, come mi ha raccontato Sara».

Questo passaggio chiave arriva a circa metà della lunga testimonianza di Martina nel processo in cui è imputato (finora è l’unico) Patrizio Ranieri - difeso dall’avvocato Valentina Bongiovanni - con l’accusa di aver violentato Sara nel bagno della villetta a Primavalle dove si è tenuta la festa. 

Prima di questo momento Martina, che durante la deposizione ha voluto la mamma in aula per stare tranquilla, è parsa titubante davanti giudici. Ricorda, in una prima fase, di «aver visto Sara abbastanza bene, si vedeva che era un po’ brilla, ma stava bene». Poi, all’improvviso, rievoca l’istante in cui lei e Sara sono sotto al portico.

[…] È da questo istante che l’allora migliore amica di Sara diventa un fiume in piena: «Certo che quei momenti li ricordo molto bene.  È dopo che è successo quel che è successo. Cioè, dei ragazzi hanno avuto dei rapporti con Sara, ma lei non era in grado di giudicare se voleva farlo oppure no. Me l’ha detto Sara. Lei aveva solo ricordi vaghi, però si sentiva addosso quello che le era accaduto». 

E ancora: «Stavamo a casa mia il pomeriggio dopo la festa e le ho visto i segni sul corpo, i lividi sulla schiena e sulle gambe. È scoppiata a piangere, ha fatto capire a me e al mio ragazzo che aveva avuto dei rapporti non consenzienti. Poi con la madre del mio fidanzato è stata precisa. Quel giorno Sara era strana, aveva un comportamento inusuale. La mia amica è sempre stata una ragazza molto solare, che porta allegria, felice. Quel pomeriggio non riusciva a esprimersi, non riusciva a parlare... Con il passare dei giorni l’ho vista stare male, quando ha cominciato a ricordare». 

È verso la fine della deposizione che emerge, in modo velato, qualche tormento dentro Martina, forse qualche senso di colpa per non aver convinto l’amica a seguirla quando erano sotto il portico: «Quel pomeriggio del primo gennaio del 2020 ho chiamato Sonia e Carlotta e mi sono arrabbiata perché avevo affidato Sara a loro, quando sono andata via. Invece l’hanno lasciata sola». 

[...]  

Nella stessa udienza è stata sentita anche Sonia, detta «Pugile», figlia di una showgirl, indagata per aver ceduto cocaina durante la festa, forse gelosa di Sara (come ha raccontato Sara stessa ai giudici, ndr ) perché il fidanzato si era presa una cotta per lei: «Durante la festa sono stata importunata da un ragazzo (un minorenne, indagato con l’accusa di aver stuprato Sara, ndr). Per me Sara ha avuto dei rapporti consenzienti, però io non stavo lì, non so che è successo. A un certo momento, Sara è diventata silenziosa, aveva perso allegria».

Estratto dell'articolo di Giulio De Santis per il “Corriere della Sera - edizione Roma” il 24 luglio 2023.

«Quando mi sono svegliata, avevo dolori dappertutto. Alle gambe, ai piedi, alla testa, alla cute. Poi ho scoperto che avevo graffi su pancia, glutei e spalle». È l’alba quando Sara (nome di fantasia, come tutti quelli dei minorenni) riapre gli occhi, e il risveglio è traumatico. Il suo corpo le racconta che qualcosa di tremendo le è stato fatto. Allora scuote l’amica che ha dormito accanto a lei per cercare sostegno: «Carlotta, aiutami per favore». 

Il ricordo del risveglio apre, dopo una pausa, la seconda parte della deposizione di Sara davanti ai giudici che stanno processando Patrizio Ranieri, accusato con altri ragazzi di averla stuprata a Capodanno del 2020. Il suo corpo, devastato da lividi e graffi, testimonia il calvario di quella notte. 

Ma Carlotta non aiuta Sara. «Non mi ha proprio voluto ascoltare», ha detto la 19enne ai giudici. Quell’implorazione caduta nel vuoto fa affiorare la solitudine davanti alla quale si è trovata la giovane appena ha riaperto gli occhi. Ed è questo l’altro risvolto del calvario, che lei tratteggia con ricordi «vividi» in aula.

«Porto Carlotta in bagno, le dico accompagnami a casa, mi hanno affidata a te. Martina (la migliore amica di Sara,ndr) se n’è andata, Sonia se n’è andata, io non so che fare, mi fa male tutto, guarda i lividi che ho… Ma Carlotta non mi ha sentito, forse ha pensato che erano i postumi della serata e mi ha detto solo “chiama il papà di Martina e fatti venire a prendere”. Insomma, non mi ha voluto proprio ascoltare e io mi sono sentita intrappolata. Non sapevo che fare, avevo voglia di sparire, di andarmene da quel posto il prima possibile…». 

(...) Volevo andare via con lei e il suo ragazzo, ma Martina mi ha affidata a Sonia e Simone…». 

La fine dell’incubo è lontana. «Quando è andata via Martina, la situazione ha continuato a peggiorare sempre di più, ho perso proprio la memoria, come se avessi avuto un blackout… Sono andati via anche Sonia e Simone, affidandomi a Carlotta. Non sono riuscita a dire niente, ed ero dispiaciuta, che non fossi in grado di dire loro “rimanete qui”. Dentro di me dicevo “non è una cosa buona che vanno via”, e cosi è stato…».

Finalmente un po’ di luce nella notte dell’orrore. «E’ venuto il papà di Martina a prendermi, penso che abbia capito che mi fosse successo qualcosa, gli ho detto che ero caduta dalle scale e mi sono messa a piangere. Ma non è stato invasivo, non mi ha fatto domande, mi ha detto solo “fai una doccia, prendi vestiti puliti, se vuoi abbiamo qualcosa da mangiare, poi dormi, tranquilla…”. 

Sentivo dolore, confusione, ero in uno stato di choc che non so descrivere. Ho pensato, mi faccio una doccia, l’acqua calda mi calma, ma mi sono messa sotto l’acqua ma non ho toccato sapone, non ho toccato il mio corpo, l’acqua mi è scivolata addosso. Non riuscivo a guardarmi, vedevo solo su, verso l’acqua che scorreva. Sentivo dolore fisico. Mi sono sentita schifata anche da me stessa perché le conseguenze erano sul mio corpo…».

Ma con il passare delle ore il dolore aumenta. «Ho accennato a Martina e il suo ragazzo, “mi è successo qualcosa di brutto, guardate le ferite, sento dolore, mi hanno fatto qualcosa”, non gli ho detto tutto esplicitamente, però mi hanno dato conforto». E poi ancora l’orrore: «Ho avuto un rapporto a tre con Laura e il suo ragazzo Flavio Ralli? Non lo ricordo, l’ho saputo dopo, me l’ha detto Laura. Che ha aggiunto: ”Stavamo male tutte e due, ci ha voluto coinvolgere, ci ha manipolate”. Lui era molto duro con Laura, che non è la persona più forte del mondo, è fragile e so che Flavio le fa pressione per farle fare cose non voleva…».

(...)

Estratto dell’articolo di Federica Pozzi per “il Messaggero” il 30 maggio 2023.

«Non l'abbiamo lasciata lì da sola, più volte le ho detto di andare via. Se l'avessimo vista stare male saremmo intervenute». Così in aula una delle amiche di Bianca (nome di fantasia), la vittima dello stupro della notte di Capodanno di tre anni fa in una villetta a Primavalle, l'ha smentita. 

Bianca aveva raccontato di essersi trovata sola in mezzo a persone che non conosceva ma le amiche sostengono il contrario. Continua il processo che vede seduto al banco degli imputati Patrizio Ranieri, uno dei cinque ragazzi accusati dall'allora minorenne di violenza sessuale di gruppo.

Ieri a piazzale Clodio sono stati ascoltati dai giudici quattro testimoni presenti alla festa, tra loro due amiche della vittima, una è la figlia di una soubrette e poi Simone Ceresani, nipote dell'ex premier Ciriaco De Mita, entrambi finiti tra gli indagati per avere portato la droga alla festa. 

[…] «Siamo arrivate alla festa prima di cena, c'era pizza e alcool», racconta una delle ragazze. E ancora: «C'erano sigarette intrise di cocaina». L'altra amica della vittima, figlia della soubrette, ha ammesso davanti al Tribunale: «Avevamo anche il Rivotril» così come era emerso dalle indagini.

Ma entrambe le testimoni sono d'accordo sul fatto che la loro amica, Bianca, fosse solo alterata dall'uso di alcool e sostanze stupefacenti e sottolineano: «Se l'avessimo vista stare male saremmo intervenute». E c'è di più. «È lei che ha preso per mano Patrizio e lo ha portato via», racconta ancora la testimone, per la quale Bianca era consenziente. 

Anche il terzo testimone, Simone Ceresani, è convinto del fatto che fosse in grado di capire cosa stesse succedendo e in aula racconta: «Era capace di intendere e di volere. Era ubriaca ma non ha perso il controllo. L'ho vista sempre camminare sulle sue gambe».

Sulle droghe il nipote di De Mita dice di non avere visto Bianca sniffare, anche se ammette: «Girava droga». Confermando poi le parole della vittima ha affermato che è vero che «Ranieri a fine serata la insultava».

[…] «Vedo me che arrivo con le amiche a Primavalle, beviamo, parliamo e c'è la musica. Poi finiamo tutti su un letto. C'è chi si fa di coca e di canne. Fumo uno spinello anch'io, mi offrono una sigaretta alla cocaina. Ma c'era dell'altro dentro perché ho sentito il cervello bruciare, ero incosciente», il racconto di Bianca a La Repubblica la scorsa settimana. 

«Io sul divano, tutti attorno mi dicono "Sgualdrina". Dopo, il buio. E il risveglio", aveva aggiunto. E nella stessa intervista la vittima aveva parlato delle sue amiche. «Mi hanno detto che se non avevano più il cellulare e dovevano subire tutte quelle domande era per colpa della mia denuncia». E di Simone Ceresani: «È stato fondamentale in questo percorso. Lui si faceva di Md, tutti si fanno di ecstasy». Gli accusati all'epoca avevano tutti tra i 17 e i 20 anni. […]

Estratto dell'articolo di Romina Marceca per “la Repubblica – Edizione Roma” il 14 gennaio 2023.

Tre Dna maschili ma nessuno corrisponde al profilo genetico dei cinque accusati dello stupro di Capodanno nella villetta di Primavalle. È il risultato della perizia richiesta dal giudice per le indagini preliminari nell'inchiesta sulla violenza sessuale nei confronti di Bianca, sedicenne ai tempi della festa dell'orrore nel primo San Silvestro dell'era Covid.

 […] Il risultato potrebbe mettere a rischio il processo. Di certo c'è che Bianca è stata violentata ma, a quanto pare, ci sono altri aggressori che erano a quella festa e sono ancora sconosciuti. Quei Dna non corrispondono a nessun nome e cognome.

Sui vestiti, sulla biancheria intima, sugli oggetti e nei tamponi forniti ai laboratori del Racis dei carabinieri sono saltati fuori i Dna di cinque persone: tre sono maschili, uno è femminile, il quinto è quello di Bianca. I reperti finiti in laboratorio sono quelli sequestrati all'indomani della denuncia ai carabinieri da parte della ragazza.

[…]  Le tracce biologiche trovate sono quelle di sperma, capelli e peli. Manca la maglietta sporca di sangue mostrata con spavalderia da Patrizio Ranieri, già alla sbarra con giudizio immediato, e mai ritrovata. Il sangue trovato sui reperti appartiene a Bianca che, visitata in ospedale il giorno dopo, ha riportato 40 giorni di prognosi. E, nel referto, ci sono anche i lividi sul corpo della giovane che era sotto effetto di droga e alcol. […]  Il Dna femminile sconosciuto potrebbe appartenere all'amica di Bianca accusata di averla costretta a un rapporto a tre con Flavio Ralli, uno degli indagati.

 Il risultato della perizia è del 31 ottobre ma, proprio nei giorni scorsi, agli indagati sono arrivati gli avvisi di conclusione delle indagini. La procura ordinaria ha chiuso le indagini per violenza sessuale e lesioni nei confronti di Flavio Ralli, anche per l'episodio in cui è coinvolta la seconda minorenne che sarebbe pure vittima, e Claudio Nardinocchi. 

Tre gli indagati per spaccio di droga, hashish e cocaina: Marco Palmieri, che avrebbe ceduto a Bianca e a una sua amica una sigaretta impregnata di cocaina, Simone Maria Ceresani, nipote di Ciriaco De Mita, che avrebbe ceduto cocaina a tre partecipanti alla festa, e Marco Chiappini che avrebbe spacciato hashish. Infine, l'indagine si chiude per minacce e detenzione illegale di armi nei confronti di Gabriel Petrazzi, 20 anni, accusato di aver intimidito Ceresani con una pistola […]

Anche la procura per i minorenni ha tirato la linea sulle indagini. Gli accusati sono altri sei e rischiano di finire alla sbarra con accuse pesanti. C'è la pugile, la figlia di una nota soubrette, che è accusata di spaccio di droga, l'amica di appena 14 anni che avrebbe portato il Rivotril, la terza amica accusata del rapporto a tre. E, poi, i due ragazzini di 17 anni accusati dello stupro insieme a Ranieri, Nardinocchi e Ralli. Infine, tra gli indagati anche il ragazzino che mise a disposizione la villetta. L'accusa per lui è di favoreggiamento

Lo Stupro di Lignano Sabbiadoro.

Stupro di Lignano Sabbiadoro, la procura chiede l'archiviazione per i 5 ragazzi: "La giovane era consenziente". Luana de Francisco su La Repubblica il 23 Dicembre 2022.

Stravolto l'impianto accusatorio iniziale sull’episodio che, nell’estate del 2021, sconvolse il clima vacanziero della località di mare friulana. L'avvocato della presunta vittima ha presentato opposizione, si attende la decisione del gip

Il pm ha voluto sentirla più e più volte, nel corso delle indagini preliminari. Le ha chiesto perché si trovasse là, cosa fosse successo e in che rapporti fosse con quei cinque ragazzi. E alla fine, nel tirare le somme, ha ritenuto di escludere l’ipotesi di una violenza sessuale di gruppo. Perché – ha motivato nella richiesta di archiviazione al gip del tribunale di Udine – deve presumersi un consenso, anche se non di piena consapevolezza, da parte della giovane. È un epilogo che stravolge il castello accusatorio iniziale quello proposto dagli inquirenti sull’episodio che, nell’estate del 2021, sconvolse il clima vacanziero di Lignano Sabbiadoro.

Era il 10 agosto, quando una neodiplomata di 18 anni del posto raccontò di essere stata stuprata in un appartamento della località di mare friulana da un gruppo di amici, tutti italiani e residenti tra Veneto (due residenti ad Albaredo D’Adige, in provincia di Verona), Lombardia (uno di Busto Arsizio, in provincia di Varese, e uno di Melegnano, poco distante da Milano) e Piemonte (di Sezzadio di Alessandria), all’epoca d’età compresa tra i 17 e 21 anni e senza precedenti.

La ragazza si rivolse ai genitori, in lacrime, e il padre non ci vide più: con indosso ancora gli infradito, lasciò la spiaggia e corse verso l’appartamento. “Volevo vederli in faccia e capire cosa fosse successo”, spiegò a Repubblica. Entrò aprendo la porta a spallate, dopo avere suonato e bussato invano, ma non li trovò. “Si erano chiusi nel bagno – disse –. Piagnucolavano, supplicandomi di andare via e minacciandomi di chiamare la polizia e allora ho capito di trovarmi di fronte a persone insignificanti”.

Ora, di fronte alle conclusioni del magistrato inquirente, è il suo legale, l’avvocato Paolo Viezzi, a pretendere che la vicenda non si chiuda così. Conscio del periodo “delicatissimo” passato in questi mesi dalla giovane e convinto della necessità che i fatti vengano ulteriormente scandagliati, ha presentato opposizione. E il gip, dopo l’udienza celebrata ieri in camera di consiglio, si è riservato la decisione. Lo scorso giugno, di fronte ad analoga istanza della Procura dei minori di Trieste per la posizione dell’unico minorenne coinvolto, il giudice delle indagini preliminari aveva respinto e ordinato l’avvio di nuove indagini. Opzione, questa, che la famiglia della giovane confida venga assunta anche a Udine. E contro la quale si sono ovviamente spesi i difensori degli indagati, a propria volta sostenitori della tesi che i rapporti fossero avvenuti con il consenso della ragazza. Proprio come dimostrerebbe un video di sette minuti girato (sulle oltre due ore e mezzo di permanenza della ragazza nella casa) dal quale il pm non avrebbe percepito alcun segnale di dissenso.

Stando alla ricostruzione originaria della Squadra mobile di Udine, la violenza si era svolta in due tempi. La ragazza sarebbe entrata in casa con tre amici e dagli stessi abusata e poi ci sarebbe stato un secondo rapporto sessuale che avrebbe coinvolto altri due ragazzi. Finché, in base a quanto raccontato poi dalla stessa persona offesa, a un certo punto se n’era andata. E, dopo essersi confidata con un amico bagnino, aveva trovato il coraggio di dirlo ai genitori.

Stupro di gruppo a Lignano, il pm non ha dubbi: "Rapporti consenzienti, le prove nei cellulari". Una 18enne venne violentata da cinque giovani conosciuti sulla spiaggia. Il padre aveva cercato di farsi giustizia da solo. Lo sgomento della famiglia. Antonio Borrelli il 24 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Rapporto sessuale consenziente o stupro del branco? Continua a far discutere il caso di Lignano Sabbiadoro, consumatosi in una casa vacanze nell'estate di un anno fa. Era l'agosto del 2021 quando una 18enne denunciò di essere stata ingannata e aggredita da tre ragazzi, per poi essere raggiunta da altri due e venire violentata dal gruppo. A un anno e mezzo dai fatti il pm offre nuovi elementi per chiarire il giallo e la risposta potrebbe essere contenuta nelle chat e nei video sui cellulari dei ragazzi: il magistrato ha infatti chiesto l'archiviazione delle accuse nei confronti dei giovani - tutti di età compresa tra i 18 e i 21 anni oltre un minorenne - perché la ragazza avrebbe dato il consenso al rapporto sessuale.

Secondo la procura di Udine che ha portato avanti le indagini in questi lunghi mesi, nei cellulari dei cinque indagati ci sarebbero messaggi e video che proverebbero che la ragazza sarebbe stata consenziente. Da qui la richiesta avanzata dal pubblico ministero al gip - alla quale si è fermamente opposta la parte offesa chiedendo alla Procura nuove indagini e soprattutto la riapertura del caso - di archiviare ogni tipo di accusa nei confronti del gruppo. Il giudice per le indagini preliminari si è riservato sulla decisione, ma intanto il colpo di scena della richiesta di archiviazione ha già riscosso clamore.

Secondo le ricostruzioni tutto accade l'11 agosto della scorsa estate quando la vittima (come da lei riportato alle forze dell'ordine) viene invitata da uno dei ragazzi del gruppo, incontrato sul lungomare di Lignano, in un appartamento poco distante. Lei si fida e li segue ma dopo aver varcato la soglia di casa il branco la aggredisce e costringe a un rapporto sessuale. La 18enne resta in quella casa circa un'ora, ma appena esce si precipita a raccontare tutto all'amico bagnino che la convince a parlarne col padre in spiaggia. Il racconto innesca in lui una furiosa reazione d'impeto: il genitore corre verso l'appartamento e sfonda la porta a spallate. «Volevo vederli in faccia. Uno a uno - raccontò a caldo in quelle concitate ore - Si sono chiusi a chiave in una stanza. Li sentivo piagnucolare... conigli. Poi hanno gridato aiuto, sì, pazzesco, loro chiedevano di essere aiutati dopo quello che avevano fatto a mia figlia. Le loro grida hanno richiamato alcuni condomini. Ho desistito, distrutto, vinto, incredulo». Prima che sulla vicenda calasse il lungo silenzio rotto soltanto nelle scorse ore, il padre disse: «Adesso mi affido ai magistrati».

Interrogati dalla polizia, i cinque confermarono di aver avuto rapporti con la ragazza, ma a detta loro «lei ci stava, era d'accordo». Totalmente diversa la versione della 18enne, che parlò di «una trappola»: solo uno di loro avrebbe consumato con lei un rapporto completo protetto, ma anche gli altri quattro avrebbero partecipato alle presunte violenze. Per il gruppetto, però, non scattò alcuna misura cautelare e tutti fecero rientro nelle rispettivamente città di origine, mentre i loro smartphone vennero sequestrati. Proprio da quei cellulari passati al setaccio dalla Squadra mobile di Udine e dalla Procura friulana sono ora emersi quegli elementi che hanno portato alla richiesta a sorpresa del pm. La ragazza friulana, però, non fa alcun passo indietro e ribadisce: «Sono stata violentata».

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Come funziona il segnale di aiuto contro la violenza che ha salvato una ragazza a Milano. Una 19enne ha chiesto un intervento utilizzando il gesto della mano: un simbolo che è stato riconosciuto da una dipendente del fast food che ha allertato il 112. Ecco come fare. Chiara Sgreccia su L'Espresso il  23 novembre 2023

Un gesto rapido, silenzioso. Che vale per tutti. Una richiesta di aiuto che chiunque si senta in una situazione di pericolo, prossima vittima di violenza, può fare: la mano aperta con quattro dita alzate, il pollice piegato sul palmo. E poi le dita si chiudono. La mano diventa simile a un pugno. Ma il pollice è stretto, intrappolato, tra le dita e il palmo. Un gesto facile che, se visto da dietro, dall’aggressore, potrebbe facilmente essere confuso con un «ciao».

The signal for help, il segnale d’aiuto è stato lanciato a aprile 2020, dal Canadian Women's Foundation. Durante la pandemia, quando molte donne erano chiuse in casa con i loro aggressori e non avevano né spazio né modo di allontanarsi. Efficace anche durante una videochiamata, ad esempio, per denunciare una situazione di abusi senza fare rumore.  

Il gesto antiviolenza, soprattutto grazie ai social, si è diffuso velocemente in tutto il mondo. Conoscerlo è importante sia per salvarsi, sia per salvare. Come è successo a Milano nella notte tra martedì 21 e mercoledì 22 novembre: quando una diciannovenne dopo un concerto, durante una passeggiata in centro, vicino al Duomo, ha conosciuto un gruppo di ragazzi con cui è rimasta. Uno di loro, di 23 anni, all’inizio amichevole secondo quanto ha riferito la ragazza, l’ha convinta a proseguire la passeggiata fino a Piazza della Scala. Dove ha cambiato atteggiamento: ha iniziato ad abbracciarla, baciarla, toccarla. Quando i due sono passati davanti a un Mc Donald che stava per chiudere, la ragazza ha attirato l’attenzione di una dipendente, guardandola negli occhi ha fatto, con la mano, il segnale di aiuto. La dipendente ha capito e ha chiamato il 112. Che ha inviato gli agenti che li hanno raggiunti. 

Non solo The signal for help. A supporto di chi necessità aiuto c’è anche 1522, il numero antiviolenza e stalking, gratuito, attivo 24 ore su 24. Promosso dal dipartimento per le Pari Opportunità, gestito dall’associazione Differenza Donna, grazie al lavoro di operatrici specializzate, mediatrici culturali, avvocate, che parlano in 11 lingue diverse. Perché non c’è un protocollo fisso da seguire ma la necessità di rispondere a ogni donna in base alla situazione che sta vivendo.

I Numeri.

VIOLENZA DI GENERE. Numero femminicidi 2023: perché circolano dati così diversi? La Ventisettesima Ora, Elisa Messina su Il Corriere della Sera martedì 5 dicembre 2023.

Sono 110? Oppure 88? O addirittura 40? Quanti sono stati davvero i femminicidi in Italia dall’inizio del 2023 fino al momento in cui scriviamo?

Giunti quasi alla fine di un anno in cui, forse più di ogni altro anno, siamo stati portati a riflettere sulla violenza maschile sulle donne, questa domanda non ha una risposta unica. Nella giornata internazionale contro la violenza sulle donne, a Milano sono stati letti i nomi di 107 donne uccise. Davanti al ministro dell’Interno Piantedosi, Nunzia de Girolamo, il 25 novembre ha parlato di «109 femminicidi» e il ministro non ha eccepito. Ci sono poi letture sorprendentemente diverse, come quella fatta dal prefetto di Padova Francesco Messina (l’ex capo dell’Anticrimine), secondo il quale (dichiarazione del 25 novembre), non sarebbero più di 40. Nel sito del Ministero dell’Interno, il report sugli omicidi volontari (aggiornato ogni settimana e l’ultima versione è del 4 dicembre) conta 109 donne uccise di cui 90 ammazzate in ambito familiare/affettivo.

Alla data del 25 novembre le vittime in ambito familiare-affettivo erano 87, quindi un numero diverso da quel 106 letto e scritto nelle tante celebrazioni ufficiali contro la violenza. E 88 vittime conta il nostro database della 27esimaOraL’Osservatorio del movimento femminista «Non una di meno», aggiornato però all’8 novembre, allarga ulteriormente il tiro e conta 110 vittime suddivisi però in «94 femminicidi, 1 trans*cidio, 9 suicidi e 6 morti in fase di accertamento indotti o sospetti indotti da violenza e odio di natura patriarcale».

Come è possibile che su un dato apparentemente così oggettivo e terribile ovvero la conta delle donne vittime di delitti di genere, ovvero, uccise in quanto donne, da uomini, ci possa essere discordanza?

Tutto dipende dal fatto che non esiste una banca dati istituzionale dedicata ai femminicidi perché «giuridicamente» il femminicidio non esiste nel nostro Codice Penale. Ma non esiste ancora neppure una definizione istituzionale di femminicidio condivisa dai 27 paesi dell’Unione europea come sottolinea anche l’Eige, l’agenzia europea per l’uguaglianza di genere. Quindi diventa difficile dare il numero “ufficiale” di delitti la cui definizione criminologica e giuridica ancora non c’è. In Italia e in Europa.

Spieghiamola ancora meglio. Il Codice Penale non identifica il femminicidio come un preciso reato: è un omicidio (articolo 575) ma non esiste come «fattispecie di reato» come, per esempio, l’omicidio stradale.

Dal 2013 a oggi, una serie di decreti hanno introdotto pene più severe per i delitti di donne che avevano una relazione qualificata (quindi soprattutto familiare o affettiva) con l’omicida. Esiste, per questi casi, l’ipotesi di delitto aggravato. Ma non esiste all’interno del nostro sistema di leggi penali la parola «femminicidio». Così come non esiste la definizione giuridica di «delitto di genere» che poi è la stessa cosa. Il report settimanale del Ministero dell’Interno non usa la parola femminicidio ma si intitola «Monitoraggio e analisi dell’andamento dei reati riconducibili alla violenza di genere».

Come se ne esce?

In assenza di definizioni giuridiche dobbiamo cercare le definizioni statistiche. Come spiega l’Istat nel suo rapporto annuale sul Benessere equo e sostenibile (Bes): «vengono definiti omicidi di genere, comunemente detti femminicidi, quelli che riguardano l’uccisione di una donna in quanto donna. Le variabili necessarie per identificare un femminicidio sono molte e riguardano sia la vittima, sia l’autore sia il contesto della violenza».

Facendo poi riferimento alle definizioni date dalla Commissione statistica delle Nazioni Unite l’Istat precisa che esistono tre tipologia di «gender-related killing»: gli omicidi di donne da parte del partner, quelli da parte di un altro parente o di un’altra persona, sia conosciuta sia sconosciuta, che però avvenga attraverso un modus operandi o in un contesto legato alla motivazione di genere. Tra queste sono comprese, per esempio, anche le donne vittima della tratta, del lavoro forzato, dello sfruttamento della prostituzione. Le donne che sono state private illecitamente della libertà, che sono state violentate prima dell’uccisione. Un altro discrimine che ci permette di parlare di femminicidio è la differenza di posizione gerarchica tra la vittima e l’autore; se il corpo è stato abbandonato in uno spazio pubblico; se la motivazione dell’omicidio costituiva un crimine d’odio di genere (cioè se vi era un pregiudizio specifico nei confronti delle donne da parte degli autori).

L’Istat precisa poi che in Italia, al momento non sono disponibili tutte queste informazioni, ma che «in futuro si potranno rilevare grazie alla collaborazione inter-istituzionale con il Ministero dell’Interno, rinforzata dalle richieste della Legge 53/2022 che obbliga l’Italia a misurare la violenza di genere».

L’Eige, l’agenzia europea per la parità di genere, seguendo la linea data dalla commissione statistica delle Nazioni Unite, ha steso un rapporto sul tema facendo una comparazione tra le raccolte dati e gli indicatori usati nei vari Paesi Ue e nel Regno Unito. E arriva a concludere, per esempio, che, oltre ai casi di delitti compiuti da partner o ex partner, sono da considerare femminicidi «l’uccisione di donne e bambine per i cosiddetti motivi d’onore e altre uccisioni conseguenti a pratiche dannose, l’uccisione mirata di donne e ragazze nel contesto di conflitti armati, nonché i casi di femminicidio collegati a bande, alla criminalità organizzata, a traffici di droga e alla tratta di donne e ragazze. E anche i delitti commessi contro donne a causa del loro orientamento sessuale o identità di genere».

A questo punto è evidente che la definizione statistica e sociologica si muove su binari diversi rispetto a quelli usati dal report del Viminale. Il rapporto della Polizia infatti, distingue, tra le 109 donne uccise dal primo gennaio al 4 dicembre, i delitti commessi in ambito familiare affettivo (90) e tra questi, quelli commessi da partner o ex partner (58). Ovvero conta gli omicidi di donne che avevano una relazione, per così dire “qualificata” con l’autore del delitto. Ma non rientrerebbero tra le 90, per esempio, le prostitute uccise da un cliente occasionale, che invece, sulla base delle classificazioni statistiche delle Nazioni Unite e dell’Eige dovrebbero rientrare a pieno nella definizione del delitto di genere, o quelle uccise in ambito lavorativo.

Ma del resto la Polizia di Stato non può che rifarsi al nostro contesto giuridico. Per questo, anche durante le celebrazioni del 25 novembre praticamente ovunque si è citato il numero complessivo delle donne uccise (107 al 23 novembre, 109 al 4 dicembre) e nessuno (ministro compreso) ha eccepito. E quel «40 femminicidi al massimo» di cui parla il prefetto di Padova (ex direttore dell’anticrimine)? Messina fa, probabilmente, un distinguo sulle motivazioni del delitto compiuto da partner o ex partner, basandosi solo sulle motivazioni affettive ed escludendo, per esempio, quelle economiche/ereditarie.

Come vediamo il problema di definizione resta.

Ma allora, 109 donne uccise vanno intese 109 presunti femminicidi? In un certo senso si. Ed è per questo che, soprattutto in occasione del 25 novembre, si considera il dato delle donne uccise tout court. Poi subentrano però una serie di distinguo che, come abbiamo visto, rispondono a classificazioni ma soprattutto ad approcci diversi: c’è quello giuridico/penale e quello statistico/sociologico.

Esiste anche una definizione “politica”? Volendo cercare una prima definizione in ambito politico-istituzionale nel nostro Paese, la troviamo nel dossier realizzato dalla prima Commissione parlamentare italiana sui femminicidi: «Uccisioni di donne da parte di un uomo determinate da ragioni di genere». Le parlamentari si sono basate sulle dichiarazioni della Convenzione di Istambul, ovvero la convenzione del Consiglio d’Europa «sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica» ratificata anche dall’Italia nel 2013, in cui si definisce la violenza di genere come «una manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi, che hanno portato alla dominazione sulle donne e alla discriminazione nei loro confronti da parte degli uomini e impedito la loro piena emancipazione». La violenza di genere, ovvero quella contro le donne in quanto donne, in quest’ottica, non è quindi un’emergenza ma un fenomeno strutturale per via di stereotipi sedimentati nella nostra società che ne influenzano l’organizzazione e legittimano la disuguaglianza tra i generi. Questo è, precisano le senatrici rifacendosi alla Convenzione, il sottobosco della violenza di genere e della sua più estrema manifestazione: il femminicidio.

Per concludere, quando si parla di femminicidio non si può prescindere dal contesto di discriminazioni e pregiudizi sociali in cui questo avviene. E l’Enciclopedia Treccani, citando i più importanti studi sul tema, arriva a precisare che il termine femminicidio «indica sempre la motivazione patriarcale alla base di questi omicidi e altre forme di violenza sulle donne». Ecco a cosa ci riferiamo quando, accademicamente, si usa la parola «patriarcato».

La definizione politica, dunque, esiste e si aggiunge a quella statistica e ne delinea il contesto.

Tirando le fila di tutti questi ragionamenti dobbiamo concludere che finché gli approcci al femminicidio saranno diversi, vedremo conteggi diversi.

In attesa di una definizione giuridica del delitto di genere, ogni conteggio difforme da quello del Viminale può essere definito ideologico come quello dell’Osservatorio di «Non una di Meno», ma forse questo è un modo troppo facile per liquidare il problema. E che, oltretutto, presta il fianco a letture strumentali e divisive di un tema che, invece richiede unità.

Seguire le linee date dall’Agenzia europea di cui parlavamo sopra per introdurre un database specifico sui delitti di genere non ha nulla a che vedere con l’ideologia. Come ha ricordato il papà di Giulia Cecchettin nel suo intenso discorso al termine del funerale della figlia: «Alle istituzioni politiche chiedo di mettere da parte le differenze ideologiche per affrontare unitariamente il flagello della violenza di genere». Non lasciamo che questo appello cada nel vuoto.

Estratto dell’articolo di Claudio Plazzotta per “Italia Oggi” venerdì 1 dicembre 2023.

Il sensazionalismo dei media e la sterile polemica politica stanno seminando fake news a go-go. E lo fanno da anni. Sia sul tema della sicurezza in generale, sia sui femminicidi in particolare. Come già scritto su ItaliaOggi dell’11 febbraio 2023, in Italia ormai da tanti anni non esiste un tema legato alla sicurezza: analizzando i dati Istat, ovvero gli unici numeri oggettivi e incontestabili, infatti, ci si rende conto che nel 2022 in Italia sono stati commessi in tutto 322 omicidi (196 uomini e 126 donne). 

Uno dei dati più bassi in Europa: l’Italia è il terzo paese più sicuro del Vecchio continente dopo Norvegia e Svizzera, secondo una indagine Eurostat. Vero è, invece, che l’Italia era molto insicura in passato: nel 1991, ad esempio, gli omicidi furono 1916 (di cui 220 donne), e nel 1982 i morti ammazzati erano stati 1983.

[…] In queste settimane si sta scatenando […] una […] campagna, tutta mediatica, legata ai femminicidi. Ma è un fenomeno che esiste davvero? Anche in questo caso, guardiamo ai dati Istat: nel 2002 in Italia ci furono 187 omicidi di donne, nel 2003 salirono a 192. Da lì in poi, e quindi negli ultimi 20 anni, si assiste a un calo tendenziale costante, arrivando ai 148 del 2014, ai 123 omicidi femminili del 2017, e i 111 del 2019. C’è stata una lieve ripresa nel 2020 (116), nel 2021 (119) e nel 2022 (126), fenomeno che già era capitato in passato […]

[…] Perciò, studiando i numeri oggettivi, emerge che è falso che si uccidano più donne che in passato, anzi, se ne uccidono meno. Vero è, invece, che il calo generalizzato degli omicidi in Italia negli ultimi 40 anni ha riguardato soprattutto gli uomini, mentre il dato sul target femminile è certamente sceso, ma molto meno. […]

L'ultima crociata di sinistra: accusare chi nega il patriarcato. "Il Fatto" cerca invano di taroccare i dati sul femminicidio, Pd e Arcigay contro chi obietta e difende il genere maschile. Francesco Giubilei il 26 Novembre 2023 su Il Giornale.

Vietato dire che il numero di femminicidi in Italia sono meno di altri paesi europei, vietato anche sostenere che mettere sul banco degli imputati tutti gli uomini in quanto tali non aiuta a contrastare un fenomeno come la violenza sulle donne, pena essere accusati di negazionismo del patriarcato.

Si tratta di un modus operandi che non è nuovo ed è già emerso sui temi ambientali. Chiunque non è d'accordo con la visione di Greta Thunberg, con gli eco teppisti di Ultima Generazione o con le follie green europee, viene etichettato come negazionista climatico. Lo stesso avveniva nel periodo del covid se si provava a muovere qualche critica liberale allo strumento del green pass.

Su Il Fatto quotidiano di ieri Selvaggia Lucarelli ha firmato un surreale articolo intitolato «Femminicidi, truffa negazionista sui dati» in cui cerca (non riuscendoci) di smontare i dati che attestano come i femminicidi siano più nei paesi del Nord Europa che in Italia. La Lucarelli, pur di negare l'evidenza, arriva a scrivere: «il numero dei femminicidi in un Paese non può essere l'unico parametro con cui si misurano i traguardi di eguaglianza ottenuti dalle donne».

A suo giudizio «c'è una cosa che abbiamo imparato in questi giorni è che quando i negazionisti del patriarcato sono in difficoltà con le parole ricorrono ai numeri» aggiungendo «si cita una classifica che renderebbe l'Italia il paradiso dell'emancipazione femminile».

A finire nel mirino di Selvaggia Lucarelli è anche il direttore de Il Giornale Alessandro Sallusti per aver sostenuto correttamente che «nel civile Nord Europa dove il patriarcato non esiste, per esempio in Svezia e Norvegia, ci sono più femminicidi che in Italia».

Se l'articolo de Il Fatto quotidiano è l'emblema del nuovo strumento utilizzato per cercare di tacitare chiunque non sia d'accordo con una narrazione che accusa tutti gli uomini in quanto tali per la violenza contro le donne, iniziano a diffondersi numerose accuse di «negazionismo del patriarcato».

Ad essere tacciato di questo nuovo ipotetico reato di opinione è stato il consulente del Ministero dell'Istruzione Alessandro Amadori finito al centro della polemica per un suo libro pubblicato qualche anno fa. Non è scampato all'accusa neanche il consigliere regionale dell'Emilia Romagna della Lega Matteo Montevecchi, colpevole di aver sostenuto che «non è l'inesistente patriarcato a produrre queste violenze». Il presidente di ArciGay Rimini lo ha attaccato scrivendo: c'è un orrore sottile e profondo rappresentato dal negazionismo di Montevecchi che pur di salvare le tradizioni medievali del maschilismo tossico contorce una vicenda tragica».

Per la segreteria regionale del Pd siciliano anche organizzare l'accensione dell'Albero di Natale diventa un'occasione per accusare di negazionismo: «siamo di fronte al negazionismo e alla distrazione di massa. Succede a Mazzarino, provincia di Caltanissetta, dove l'amministrazione comunale invita la cittadinanza a partecipare all'accensione delle luminarie e dell'albero di Natale, con musica e cotillon. Una festa, quasi un mese prima, mentre nel resto d'Italia e nel mondo si celebra la giornata internazionale contro la violenza sulle donne».

A questo punto non resta che attendere la proposta di qualche esponente politico che vorrà introdurre il reato di negazionismo del patriarcato. D'altro canto, dopo l'idea di Bonelli di un nuovo reato di negazionismo climatico, ci si può aspettare di tutto. Ma non diamo suggerimenti.

Estratto dell’articolo di Maurizio Belpietro per “la Verità” venerdì 24 novembre 2023.

Ma davvero c’è qualcuno che pensa che basti un’ora di educazione sentimentale a settimana per evitare che un ragazzo di 22 anni uccida a coltellate una coetanea perché lo ha lasciato? 

Se c’è chi lo pensa, è la prova che dalla banalità del male siamo passati alla banalità del bene o meglio alle banalità di chi crede che il bene si possa insegnare come la matematica o la fisica. 

Chiunque sia dotato di buon senso può leggere i dati degli omicidi che hanno a che fare con la sfera dell’affettività, e che hanno come vittima una donna, e confrontarli con quelli registrati in Paesi in cui a scuola si fa lezione sessuale e si educano gli alunni ai rapporti fra maschio e femmina.

Il nostro Alessandro Rico […] lo ha fatto, scoprendo che in Europa il maggior numero di femminicidi si concentra là dove la donna risulta più emancipata e i rapporti tra uomo e donna fanno parte del programma scolastico. Lo so che a sinistra sono cifre che si preferisce ignorare. Ma le statistiche fuori dall’Italia smontano la narrazione che vuole il nostro Paese intriso di cultura patriarcale e dunque colpevole di condannare le donne a una vita di soprusi e, talvolta, a una morte violenta. 

Il maggior numero di omicidi dovuti a relazioni sentimentali tossiche si registrano là dove le donne hanno conquistato ruoli importanti, dove non esistono differenze di genere, e se ci sono non hanno un peso così rilevante, le famiglie sono gay, queer e non so cos’altro.

Sono i Paesi più progrediti - o per lo meno considerati tali - ad avere un numero doppio di femminicidi rispetto a quelli registrati in Italia. Lì le ore di educazione sentimentale e la distruzione della famiglia patriarcale non sono servite a nulla. Questo ci deve rallegrare? No, perché anche una sola donna assassinata da un uomo che diceva di amarla è una sconfitta. Però, guardare che cosa succede altrove ci aiuta a capire e soprattutto a non farci influenzare da chi non ha come obiettivo di difendere Giulia Cecchettin e le altre vittime, ma usarle a fini politici. 

[…]  non serve spiegare ai bambini di sei anni l’affettività, dato che le pulsioni e i conflitti che possono generarsi in una coppia si registrano molto più in là negli anni, con lo sviluppo di una vita sessuale piena. O, si dirà: ma se cominci presto a dire ai bambini che non devono pensare di dominare una bambina e neppure di possederla, da adulti metteranno in pratica l’insegnamento.

Un’idea semplicemente stupida, perché sarebbe come sostenere che educando i bambini a non uccidere il prossimo si aboliscono gli omicidi, e spiegando sin dalla più tenera età che rubare è un reato cresceremo una società perfetta, senza furti. […] 

L’aggressività è connaturata alla natura umana e spesso si scatena in modo devastante. Dunque, c’è un solo insegnamento da trarre ed è che le donne, appena hanno sentore di rapporto malato, di un amore che rischia di trasformarsi in odio, devono darsela a gambe e farsi aiutare. Non vuol dire […] colpevolizzare le vittime. Significa evitare che finiscano ammazzate ed è più utile di tante lezioni di maestrine che si impancano in tv a spiegare ciò che non sanno.

Ps. L’ultima che ho sentito, riguardo alle morti nei Paesi in cui le donne sono più emancipate, è che l’Italia è arretrata anche in questo. Siccome sono meno libere, si sostiene che da noi ci sono meno assassini. L’unica considerazione possibile di fronte a ciò è che siamo passati dalla società patriarcale a discutere di una società di cretini.

Quali sono i veri numeri dei femminicidi in Italia. Valeria Casolaro su L'Indipendente il 24 Novembre 2023

Dopo la morte di Giulia Cecchettin per mano dell’ex fidanzato Filippo Turetta, in molti hanno sentito la necessità, su organi di stampa, blog e quant’altro, di dire la propria opinione in merito al fenomeno dei femminicidi. Tra chi cerca di gonfiare i numeri come escamotage per attirare l’attenzione sul fenomeno (mossa, tuttavia, assai controproducente) e chi cerca di minimizzare, le informazioni in circolazione sono confusionarie e contraddittorie. In parte, la causa di ciò è anche dovuta al fatto che in Italia la legislazione non fornisce una definizione univoca e inequivocabile di femminicidio. Stabilire se l’omicidio di una donna rientri o meno nella casistica è in gran parte affidato alla sensibilità dei “soggetti rilevatori”. Nemmeno a livello europeo esiste una definizione coerente tra tutti i Paesi membri, motivo per il quale la comparazione della casistica italiana con quella di altri Stati è fondamentalmente fuorviante e priva di senso.

La difficoltà nel definire un omicidio di una donna nella categoria specifica dei femminicidi sta dunque nel fatto che in Italia non esiste la fattispecie di reato specifica. Per questa ragione, spiega un documento del Senato, “il numero di femminicidi accertati differisce a seconda del soggetto rilevatore e dei criteri di classificazione seguiti”. Il Servizio Studi della Camera dei Deputati scrive chiaramente, il 13 ottobre 2023, che “L’ordinamento italiano non prevede misure volte a contrastare specificamente ed esclusivamente condotte violente verso le donne, né prevede specifiche aggravanti quando alcuni delitti abbiano la donna come vittima. Per il nostro diritto penale, se si esclude il delitto di mutilazioni genitali femminili, il genere della persona offesa dal reato non assume uno specifico rilievo, e conseguentemente non è stato fino a pochi anni fa censito nelle statistiche giudiziarie”.

Di fatto, fino al 2015 (quando fu lanciato il Piano straordinario contro la violenza sessuale e di genere) non esisteva un sistema integrato di raccolta ed elaborazione dati (la ratifica della Convenzione di Istanbul, d’altronde, è avvenuta solamente nel 2013). Sono, dunque, nemmeno dieci anni che il fenomeno viene monitorato con una certa sistematicità. L’Istat ha poi iniziato a rilevare dati attinenti al Sistema di Protezione delle donne vittime di violenza solamente a partire dal 2017. Tuttavia, qualsiasi definizione del termine (da quella fornita dall’Accademia della Crusca a quella contenuta nei comuni dizionari, fino a quella fornita dall’European Institute of Gender Equality) identifica il femminicidio come legato a questioni di genere, ovvero l’omicidio di donne o bambine proprio a causa del loro genere. Secondo le Nazioni Unite, i criteri per identificare un femminicidio sono numerosi e vengono individuati all’interno di tre ambiti principali: gli omicidi avvenuti per mano di un partner o un ex partner, quelli commessi da altri membri della famiglia e, infine, quelli commessi da altri soggetti, ma entro modalità e contesti specifici – si valuta, ad esempio, se la vittima ha subito altre violenze in precedenza da parte dell’autore dell’omicidio, se si trovava in una condizione di sfruttamento di qualche tipo, se vi è stata violenza sessuale prima e/o dopo l’omicidio, se il corpo è stato abbandonato in un luogo pubblico e così via. Come specifica l’Istat in un documento di quest’anno, in Italia queste informazioni non sono disponibili (anche se dovranno esserlo nel prossimo futuro, dal momento che la misura del fenomeno della violenza di genere è resa definitivamente obbligatoria nel nostro Paese dalla legge 53/2022).

Dai dati disponibili, tuttavia, si sa che nel 2021 sono stati 104 i presunti femminicidi su 119 omicidi di donne totali: per i restanti casi non è stato possibile appurare con certezza se alla base vi fosse una motivazione di odio di genere (si tratta di donne rapinate, uccise da conoscenti per problemi di vicinato o da sconosciuti per moventi vari). Il numero ammonta poi a 101 nel 2019 e 106 nel 2020. Nel 2022, sono 104 in tutto le donne uccise in ambito famigliare, da partner o ex partner. Nel 2023, le donne uccise al 19 novembre scorso (dati del ministero dell’Interno) sono 106, 87 delle quali in ambito familiare o affettivo. Di queste, 55 sono state uccise da un partner o da un ex partner. Per quanto riguarda il 2022, nello stesso periodo, le donne uccise erano 109, delle quali 91 in ambito famigliare o affettivo. Di queste, 53 sono morte per mano di un partner o un ex.

Volendo parlare di dati certi, invece, ciò che sappiamo senza ombra di dubbio è che lo scorso 26 luglio è stata resa operativa per la prima volta una commissione bicamerale, che per il momento si è limitata ad audizioni di tipo conoscitivo e di ricognizione sul tema, senza che ancora siano stati prodotti disegni di legge, relazioni o documenti di alcun tipo. Sappiamo, inoltre, che rispetto al 2022 il fenomeno degli omicidi di donne avvenuti in ambito famigliare, da partner o da ex non è affatto in calo rispetto all’anno passato (basta confrontare i dati appena forniti). E in particolare, volendo ampliare il contesto della violenza di genere, ciò che sappiamo con certezza è che nel 2022 si è registrato il dato peggiore degli ultimi anni in materia di violenza sessuale, con 5.452 donne vittime di stupro. Non da ultimo, va tenuto bene a mente che questi numeri non costituiscono che la punta dell’iceberg: i casi non denunciati (per motivi più disparati, che possono andare dalla paura al senso di colpa) sono, potenzialmente, incredibilmente maggiori.

L’opacità che dichiaratamente contraddistingue il tema dei femminicidi rende difficile operare delle stime precise. E mentre sui giornali l’attenzione del pubblico viene distratta dal racconto morboso di ogni dettaglio della morte della povera Giulia (con totale sprezzo e noncuranza del lutto della famiglia) e dalla fiction costruita dai media sull’intera vicenda, si perde del tutto l’opportunità di aprire una discussione costruttiva sul tema. Sulla necessità di introdurre una volta per tutte il reato di femminicidio. Sull’urgenza di educare meglio tanto la società quanto le istituzioni stesse al tema. Sul fatto che, nel mezzo di questa infodemia generalizzata che confonde le carte in tavola e lancia fumo negli occhi, il governo sullo sfondo ha tagliato del 70% i fondi destinati alle vittime di violenza. Ma tranquilli, ci verranno comunque distribuiti dei comodi opuscoli informativi per educarci meglio al tema.

Sarebbe ora di intavolare una vera discussione sul tema della violenza di genere e dei femminicidi. Affinchè vicende come quella di Giulia non si ripetano mai più. [di Valeria Casolaro]

IL CASO GIULIA CECCHETTIN. Femminicidi, la bufala sui dati. Il prefetto di Padova interviene smontando i numeri sulle uccisioni delle donne in Italia usciti in questi giorni. Nicolaporro.it il 23 Novembre 2023

Eh niente, c’è voluto il Prefetto di Padova, che ieri ha detto che i femminicidi sono 40 e non 105, perché mi svegliassi dal torpore e andassi a ricontrollare i numeri. Confesso, anche io, presa dal tam tam sul caso Giulia Cecchettin e soprattutto non essendomene dovuta occupare per lavoro, fino ad oggi non mi ero davvero soffermata sui numeri che leggevo. Sentivo spesso parlare di queste “105 donne uccise in Italia” e pensavo si trattasse di femminicidi.

Ma andando a controllare sul sito femminicidioitalia.info/lista/recente, ecco che in effetti il numero che compare è 39… non 105. Intendiamoci: 39-40 sono sempre troppi sia chiaro. Ma i numeri devono essere dati correttamente altrimenti finiamo con le solite operazioni mediatiche scorrette. Già, perché andando a rileggere i titoli dei giornali di questi giorni con il senno di poi, ecco che si può notare la furbata. Quella di mettere le cose insieme. Nello stesso articolo o dibattito in cui si parla di femminicidi e del caso di Giulia, ecco che vengono richiamate le “105 donne uccise” in Italia nel 2023. Il che è assolutamente vero, nessuno può negarlo, ma tra queste rientrano ad esempio casi come quello della dottoressa della guardia medica uccisa la settimana scorsa in Calabria durante un agguato e che sicuramente femminicidio non è.

È chiaro dunque che se questa casistica viene inserita in un articolo che parla di femminicidi, arrivare a pensare che il numero citato sia quello del reato in oggetto, è piuttosto normale. Anzi, matematico direi. Del resto l’obiettivo è evidentemente questo: trarre in inganno il lettore. Un’operazione estremamente scorretta da parte di chi anziché confondere le acque, dovrebbe informare. Anche il Corriere riporta “l’omaggio del Sindaco Sala alle 105 donne uccise quest’anno, da Giulia Tramontano a Sofia Castelli” e non a caso, due casi di femminicidio conclamato vengono inseriti nello stesso titolo in cui si riportano le 105 donne uccise che però non sono tutti femminicidi.

Gonfiare un numero, scambiando una casistica con un’altra non è certo il modo giusto per portare l’attenzione sul tema. Anzi, se mai, è controproducente. Alla lunga però. Sono convinta infatti che dato il livello di sciacallaggio sul caso della povera Giulia cui abbiamo tutti assistito in questi giorni, pur di dare benzina alle proprie battaglie ideologiche, saranno in tanti quelli che preferiranno far finta di nulla.

Francesca Ronchin, 23 novembre 2023

Autrice del libro IpocriSea, le verità nascoste dietro i luoghi comuni su immigrazione e Ong (Aliberti, 2022). Lavora per la RAI. Suoi scritti sono apparsi su Corriere della Sera, La Verità, Panorama, Analisi Difesa e altri.



 

Ivan Grozny Compasso 22 novembre 2023 su Padovaoggi.it

Violenza sulle donne, per il Prefetto i femminicidi sono in calo: «Sono 40, non 105»

Francesco Messina mette in discussione il dato numerico sulle vittime, dando una spiegazione tecnica: «Anche con quello di Giulia sono 40. L'anno scorso 51. La Bibbia in questo senso è la convenzione di Istanbul»

«I femminicidi in Italia sono 40. Gli omicidi di donne sono 105, ma il femminicidio è l'omicidio di una donna per motivi di genere. E i femminicidi sono 40». Sono le dichiarazione rese dal Prefetto Francesco Messina, in occasione di un appuntamento dedicato al superamento della violenza di genere in collaborazione con l'Università, di cui parliamo a parte. Il Prefetto ha insistito su questo dato. «Gli omicidi di donne sono 40, ricordiamo bene la differenza perché altrimenti si rischia di essere discriminatori nei confronti degli omicidi di uomini». 

«Ricordiamo bene la differenza e quella che è l'indicazione di cos'è un femminicidio, e la bibbia in questo senso è la convenzione di Istanbul (Trattato internazionale contro la violenza sulle donne e la violenza domestica, approvata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa il 7 aprile 2011 ed aperta alla firma l'11 maggio 2011 a Istanbul , n.d.r.). E i femminicidi in Italia, purtroppo anche quello di Giulia, sono 40. E sono in diminuzione rispetto all'anno scorso, che sono stati 51. L'emersione è importante ma ci vuole competenza a trattare il fenomeno. Massima attenzione ci vuole, a valutare se stiamo andando nella strada giusta. Questo è il tema. Massima attenzione alla definizione tecnica del reato», ha ribadito il Prefetto di Padova. «Certo, c'è anche il tema della donna succube ancora presente nella nostra società, che accetta di subire e non denuncia. Ma questo è un tema d'altro tipo ma è quello che purtroppo incide nel non raggiungimento della parità di genere. E' questa la partita importante, la parità di genere e le pari opportunità». Infine lo ha ribadito ancora una volta: «Io, mutuando la mia esperienza in Polizia porto un contributo che è molto tecnico. Quindi i femminicidi sono 40».  Ivan Grozny Compasso22 novembre 2023

Tina Marinari, coordinatrice delle campagne di Amnesty International Italia. 22 novembre 2023 su Padovaoggi.it

Amnesty replica al Prefetto Messina: «Far rientrare solo 40 casi sui 106 vuol dire non cogliere le radici del femminicidio»

«Pensare di far rientrare solo 40 casi di donne uccise sui 106 denunciati dalle organizzazioni che difendono i diritti delle donne vuol dire non cogliere le radici profonde che si celano dietro questo crimine», dichiara senza mezzi termini Tina Marinari, coordinatrice delle campagne di Amnesty International Italia. «Le donne che sono state uccise sono donne che hanno alzato la voce, che hanno reclamato la propria indipendenza e autonomia sui propri corpi, sulle proprie scelte nei confronti di uomini che le circondavano», evidenzia con fermezza Marinari. «Questo è un crimine sempre e, come sancisce la Convenzione di Istanbul, è una manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi, è una violazione dei diritti umani», ci tiene a precisare, in modo che non ci siano fraintendimenti. 

Le parole del Prefetto di Padova, Francesco Messina, pronunciate durante la presentazione di un evento organizzato in collaborazione con l'Università di Padova, proprio contro la violenza di genere, non potevano non fare discutere, visto anche il momento in cui sono state pronunciate. La morte di Giulia Cecchettin ha davvero scosso l'intero paese. Seguita giorno dopo giorno, con l''ansia ma anche con la speranza di non essere costretti a raccontare di un nuovo femminicidio, la sorte della studentessa ha tenuto tutti col fiato sospeso, e l'epilogo ha scatenato una partecipazione collettiva che non ha eguali. Per questo probabilmente, le parole del Prefetto Messina, che ha voluto fare un distinguo tecnico, come da lui definito, non potevano non creare reazioni. «I femminicidi in Italia sono 40. Gli omicidi di donne sono 105, ma il femminicidio è l'omicidio di una donna per motivi di genere. E i femminicidi sono 40», ha detto durante la conferenza stampa, il Prefetto Francesco Messina. 

Un concetto, quello espresso dal Prefetto di Padova, che non trova affatto d'accordo la coordinatrice delle campagne di Amnesty International Italia: «Il femminicidio è il culmine estremo di un continuum di violenza contro le donne, è l’uccisione di una donna o ragazza a causa del suo genere, e fa riferimento ad un’ampia gamma di atti violenti che rientrano in questa categoria», ha risposto facendo riferimento ai distinguo portati dal Prefetto, sulle casistiche in cui le decedute sono donne a seguito di atti violenti», ha specificato Tina Marinari. 

Uccise dagli ex dopo la denuncia: ecco perché la strage continua. Eugenia Nicolosi su L'Espresso l'8 Settembre 2023 

Marisa Leo, la donna che è stata uccisa a colpi di arma da fuoco dall'ex convivente, in una immagine che la ritrae con la sua bambina, in una foto tratta da Facebook.

Ieri l’ok del Parlamento alla riforma per garantire celerità nelle indagini. “Non basta: serve accompagnare chi fugge e investire nell’educazione” 

L’ultima è stata trovata ieri, nel Trapanese. E Marisa Leo è appunto l’ultima, ma di una lista iniziata lo scorso 4 gennaio con Giulia Donato e che oltre a loro due conta altre 77 donne. Nel 2022 ne sono state uccise oltre 90, 70 nel 2021. Andando indietro, nell’anno del Covid e dei lockdown, 74. Il numero delle vittime della violenza di genere in Italia ha lievissime flessioni dal 2013, ma nessun calo nonostante misure e Codici rossi. Le denunce aumentano, ma sono ancora poche e, spesso, vengono ritirate o non bastano a salvare vite. Come nel caso di Marisa, uccisa malgrado il suo impegno anti-violenza e la scelta di chiedere aiuto.

Non emergenza ma endemia

I numeri in Italia restano «da genocidio», si legge su un report di Istat. E anche se precisare che i colpevoli sono, nell’80% dei casi, i partner, gli ex o familiari non fa più notizia, sottolinearlo è bene, perché «dietro a un numero così alto, e ad alcune dinamiche costanti c’è una molteplicità di ragioni», secondo Antonella Veltri, presidente di Di.re., Donne in rete contro la violenza. In Europa il nostro Paese è terzo per il numero assoluto di donne uccise dai partner. «Non è un’emergenza — aggiunge Veltri — è un fenomeno endemico».

La sfiducia nella giustizia

Un primo filo per sbrogliare la matassa è quello che parte dalle denunce e dall’iter che innescano. O dovrebbero innescare. Veltri racconta che «su 21mila donne che ogni anno si rivolgono ai centri solo il 27% denuncia: c’è una sfiducia totale nel sistema giudiziario». Tanto che lo scorso 11 novembre, per la quarta volta solo nel 2023, l’Italia è stata bacchettata dalla Corte europea dei diritti umani per inadempienza nella protezione delle vittime: una donna è stata giudicata “ostile” perché rifiutava di partecipare agli incontri dell’ex maltrattante con i figli che hanno insieme.

Misure blande o inefficaci

Ma Veltri definisce alcuni casi «agghiaccianti» e prova delle «enormi distinzioni nella protezione, a seconda della preparazione di forze dell’ordine, avvocatura e magistratura: spesso il maltrattante ha la facoltà di muoversi e va girare attorno alla casa della donna che lo ha denunciato». Ma capita anche che «il violento venga condannato a una pena breve, che quindi viene sospesa come avesse rubato una mela. Appena può corre dalla ex per vendicarsi», racconta un’assistente sociale di Palermo, che spiega anche che «a volte le misure non sono punitive, ma cautelari: il braccialetto elettronico per esempio viene staccato quando inizia il processo, il maltrattante ottiene gli arresti domiciliari e il Tribunale non verifica dov’è la casa della ex. Facciamo due più due».

Chi rinuncia alla difesa

Ma questo, appunto, quando — e se — una denuncia c’è. Marisa Leo, l’ultima vittima di un sistema che non sostiene le donne, l’aveva ritirata. Ogni storia è diversa ma Veltri pensa che dietro a ogni rinuncia ci sia una moltitudine di elementi: «Stereotipi pressanti, minacce, assenza di reddito, forze dell’ordine che minimizzano, parenti che giudicano. Perciò gli interventi devono essere multidimensionali».

La via giudiziaria non basta

Ha avuto ieri l’ok definitivo alla Camera il disegno di legge per «l’avocazione delle indagini per i delitti di violenza domestica o di genere»: se la vittima non viene ascoltata entro tre giorni il procuratore riassegna il fascicolo, per avviare un’azione più rapidamente. La prima firmataria è la leghista Giulia Bongiorno, che dice: «Le donne allo Stato chiedono velocità». Ma la norma, che pure è un rafforzamento del Codice rosso, per molti non basta: «Occorre investire sull’educazione a partire dalle scuole», commenta la segretaria del Pd Elly Schlein. E per la senatrice dem Valeria Valente, «anche sulla cultura delle famiglie e sulla formazione degli operatori: servono risorse e strumenti operativi».

Più aiuti per ricominciare

Concorda chi con quelle risorse e quegli strumenti lavora ogni giorno. Fabio Ruvolo, che con la cooperativa Etnos gestisce tre case rifugio per vittime e un centro di recupero per uomini maltrattanti, spiega che «i rifugi non sono sufficienti: alcune vittime vanno a casa di amici, altre tornano dall’ex perché finanziariamente non autonome e spesso scoraggiate dai primi interlocutori, di solito le forze dell’ordine, che non sanno dare informazioni».

Una rivoluzione culturale

Da presidente della Commissione d’inchiesta sul femminicidio, Valente aveva anche detto che c’è un 64% di vittime che resta sommerso. Da una parte la cultura, dall’altra l’assenza di prospettive: il 37% delle italiane non ha un conto corrente e il Reddito di libertà, istituito nel 2020 per le vittime di violenza, è passato da 3 milioni di euro a 1,8, in un Paese in cui, osserva Veltri, «una delle forme di violenza più acuta è quella economica: ecco perché gli interventi devono essere multidimensionali». Perché, racconta Ruvolo, «sia uomini che donne non riconoscono la violenza: i primi arrivano convinti che la loro rabbia sia stata provocata dalla vittima, le seconde si colpevolizzano per la violenza subita. Sono tutti vittime di un patriarcato e di un maschilismo sistemici».

Femminicidi, la strage senza fine. Linda Di Benedetto su Panorama il 13 Giugno 2023

La scia di sangue si allunga ogni giorno: storie drammatiche di vite spezzate senza che le norme riescano a mettere un argine. Ecco la dimensione del fenomeno nel 2022 e in questo inizio di 2023

Dopo la morte di Giulia Tramontano, la 29enne uccisa al settimo mese di gravidanza con 37 coltellate dal suo compagno, sono 7 le donne vittime di femminicidio in poco più di una settimana. A restare uccisa dal suo ex infatti è stata anche la poliziotta Pierpaola Romano, 58 anni freddata da tre colpi di pistola a Roma. Poi è stata la volta della giovane Maria Brigida Pesacane, la 24enne uccisa a Sant’Antimo in Campania pochi minuti dopo il cognato, Luigi Cammisa, entrambi freddati dal suocero, Raffaele Caiazzo, tormentato dalla convinzione che genero e nuora avessero una relazione. A Catania invece Piero Maurizio Nasca ha investito la moglie, Anna Longo 56 anni, rimasta ferita e un’amica della donna, Cettina ‘Cetty’ de Bormida, 69 anni morta sul colpo nell’impatto con l’auto. Stessa sorte è toccata a Mariangela Formica, 54 anni che era andata a trovare i genitori nella loro villa estiva, nelle campagne di Monopoli, nel barese ma è morta investita dal padre. Il suo corpo, senza vita, è stato ritrovato nel vialetto esterno alla casa. L’elenco prosegue con la morte di Floriana Floris, 49 anni uccisa nell’astigiano dal suo compagno Paolo Riccone con 30 coltellate e con l’omicidio-suicidio di ieri avvenuto a Reggio Emilia Le due vittime sono Paolo Ravazzini 62 anni e la moglie Rosa Moscatiello 60 anni. Infine a morire per mano del suo compagno è stata Simona Lidulli, 64 anni, trovata morta a casa in via Consolini, a Roma mentre lui, Valerio Savino, 66enne, è stato trovato senza vita nel parcheggio del centro commerciale I Granai, dove si sarebbe suicidato all'interno di un'auto. Savino, ha lasciato sui social un post sulla sua pagina Facebook, con scritto: «La mia vita e quella di Simona finiscono qui». Una scia di sangue che vede aumentare i numeri di un fenomeno tenuto sotto costante monitoraggio del Ministero dell’Interno.

I numeri dei femminicidi nel 2022 Nel 2022, in Italia, ci sono stati 322 omicidi. Tra le vittime 126 erano donne e di queste 104 sono state uccise in ambito familiare o affettivo, 61 ad opera di un partner o ex partner. Mentre nel periodo che va dal primo gennaio 2023 al 4 giugno 2023 sono stati commessi 138 omicidi di cui vittime 41 donne uccise in ambito affettivo/famigliare e 24 per mano di partner/ex partner, a cui si aggiungono altri 6 femminicidi ancora non registrati per un totale di 29 donne vittime di femminicidio in 6 mesi. Un dato che vede un aumento proprio in quest’ultima settimana. Nello stesso periodo del 2022 le donne uccise sono state 25 e analizzando gli omicidi dei due periodi messi a confronto si nota un aumento del numero degli omicidi, che da 126 passano a 138 (+10%). Per quanto riguarda i delitti commessi in ambito familiare/affettivo, si evidenzia un incremento nell’andamento generale degli eventi, che passano da 59 a 64 (+8%), è un aumento del numero delle vittime di genere femminile, che da 44 diventano 47 aggiornati alla data di oggi.

Femmicidio, la mattanza senza fine. Nel 2023 già 47 vittime. Ecco i loro nomi e le loro storie. Gli ultimi dati ufficiali a disposizione sono quelli aggiornati dal Dipartimento di pubblica sicurezza nel report settimanale pubblicato sul sito del Viminale: 8 donne vengono ammazzate ogni mese. Redazione su L'Espresso il 29 Giugno 2023

Le agghiaccianti cronache degli ultimi mesi (e degli ultimi anni) riguardo l’uccisione di donne per mano degli uomini non lasciano spazio a dubbi: il femminicidio rappresenta in Italia un’emergenza sociale che non può (e non deve) più essere ignorata. Un tema che si ripete all’infinito, una coazione a ripetere: una mattanza.

L’ultima vittima Michelle Maria Causo. Aveva solo 17 anni. Il suo corpo è stato buttato accanto a un cassonetto dell'immondizia nel quartiere Primavalle, a Roma. A lanciare l'allarme, un passante che si era insospettito: il carrello della spesa nel quale vi era la busta dell'immondizia grondava sangue. La polizia sospetta di un coetaneo nato a Roma e originario dello Sri Lanka interrogato per tutta la notte in Questura dagli uomini della Squadra Mobile diretta da Stefano Signoretti.

Secondo i dati del Dipartimento di Pubblica sicurezza, dall'1 gennaio al 25 giugno di quest'anno, in Italia si sono registrati 157 omicidi, con 57 vittime donne, di cui 47 uccise in ambito familiare/affettivo; di queste, 27 hanno trovato la morte per mano del partner/ex partner.Di seguito alcuni nomi e le storie delle donne che hanno perso la vita quest'anno, vittime di femminicidio.

4 gennaio

A Genova, nel quartiere di Pontedecimo, muore Giulia Donato, 23 anni, uccisa dall'ex compagno. Il suo corpo viene ritrovato dalle forze dell'ordine dopo l'allarme lanciato dalla sorella. Secondo le ricostruzioni, il trentaduenne, una guardia giurata, era arrivato a casa dell'ex fidanzata armato della propria pistola d'ordinanza. Prima le ha sparato, poi si è suicidato con la stessa arma da fuoco.

13 gennaio

Martina Scialdone, 34 anni, viene ammazzata a Roma, in zona Furio Camillo tra i quartieri Tuscolano e Appio Latino. La vittima è stata raggiunta da un colpo di pistola sparato dall'ex compagno Costantino Bonaiuti, 61 anni.

14 gennaio

A Bellaria Igea Marina (Rimini) Oriana Brunelli, 70 anni, muore ammazzata dall'ex amante Vittorio Cappuccini, 80 anni. Secondo quanto ricostruito, i due avevano una relazione extraconiugale. Lui, ex vigile, l'ha uccisa con tre colpi di pistola e dopo si è tolto la vita.

15 gennaio

A Trani, Teresa Di Tondo, 44 anni muore ammazzata dal marito con diversi colpi di arma da taglio. Il marito, 52 anni, dopo averla uccisa, è uscito in giardino e si è impiccato.

1 febbraio

A Castiglione delle Stiviere in provincia di Mantova, Yana Malayko, 23 anni, era scomparsa nella notte tra il 19 e il 20 gennaio. Il suo corpo viene ritrovato a Lonato del Garda, in provincia di Brescia, in aperta campagna. La 23enne è stata ammazzata da Dumitru Stratan, un 33enne con il quale aveva avuto una relazione, terminata a dicembre 2022.

6 febbraio

A Lecco Antonia Vacchelli, 86 anni, viene ammazzata dal marito Umberto Antonello, ex ferroviere, che l'ha strangolata a mani nude. L'uomo ha confessato di averla ammazzata perché non sopportava l'idea 'di vederla soffrire'. Ai giudici ha spiegato che averla ammazzata, per lui, era un 'gesto d'amore'.

11 febbraio

A Riposto, in provincia di Catania, Melina Marino, 48 anni, e Santa Castorina, 50 anni, vengono trovate senza vita a Riposto, in provincia di Catania. Qualche ora più tardi Salvatore La Motta, 63 anni, ergastolano in regime di semilibertà e in permesso premio, si presenta armato davanti alla caserma dei carabinieri e si è suicidato. Secondo quanto ricostruito, Melina Marino aveva una relazione con La Motta e aveva deciso di lasciarlo: la confessione resa alla sua amica avrebbe spinto il 63enne ad ammazzare anche Castorina.

19 febbraio

A Merano (Bolzano), Sigrid Gröber, 39 anni, originaria di Brunico, muore nella notte tra il 18 e il 19 febbraio all'ospedale di Merano in provincia di Bolzano, dove poco prima era stata ricoverata in gravissime condizioni. Ad ammazzarla il compagno Alexander Gruber, 55 anni. Secondo l'autopsia, la donna è morta in seguito alle lesioni riportate per i calci e i pugni ricevuti dal compagno.

25 febbraio

Siamo a Capodardo, frazione di Fermo. Giuseppina Traini, 85 anni, uccisa a coltellate dal marito Giovanni Petrini, 87 anni. L'uomo è stato arrestato con l'accusa di omicidio.

4 marzo

Giarratana (Ragusa). Costantina dell'Albani, 52 anni, è stata uccisa di notte nella casa di famiglia dove stava accudendo l'anziana madre. La vittima è stata colpita con diverse coltellate dal cognato Mariano Barresi, 66 anni, arrestato dai carabinieri.

7 marzo

A Rosarno (Reggio Calabria), Iulia Astafieya, di 35 anni, di nazionalità ucraina, è stata uccisa dal compagno, Denis Molchanov, suo connazionale, a Rosarno, in provincia di Reggio Calabria. L'uomo è stato fermato nella notte dalla polizia reggina, dopo alcune ore di ricerche. Ad avvisare gli inquirenti, secondo quanto riferito a LaPresse da fonti investigative, il proprietario della casa nella quale la vittima risiedeva con il compagno.

10 marzo

Giosa Mare (Messina). Maria Febronia Buttò, 61 anni, è stata uccisa a coltellate dal marito Tindaro Molica Nardo, 65 anni, che, dopo averla ammazzata, ha utilizzato la stessa arma per suicidarsi.

28 marzo

Tuoro sul Trasimeno, (Perugia). Francesca Giornelli muore strangolata dal compagno Lamberto Roscini che dopo si è impiccato. Il femminicidio, avvenuto nella casa dove i due abitavano a Tuoro sul Trasimeno, in provincia di Perugia, è stato confessato dall'uomo in alcuni biglietti scritti prima di suicidarsi.

30 marzo

A Terni, Zenepe Uruci, 56 anni, viene ammazzata dal marito Xhafer Uruci, 62 anni nella propria abitazione. La coppia, originaria dell'Albania, da tempo viveva nel quartiere Borgo Rivo. La donna, vittima da anni di maltrattamenti da parte del marito, è stata uccisa a coltellate. L'uomo, arrestato dalla polizia con l'accusa di omicidio volontario, è morto suicida nella cella del carcere dove era rinchiuso.

13 aprile

Ad Arezzo, Sara Ruschi, 35 anni, e la mamma, Brunetta Ridolfi, 76 anni, vengono uccise dal compagno della giovane, Jawad Hicham, di 38 anni, nella loro abitazione di Arezzo. L'uomo ha aggredito le due donne con un coltello da cucina: la suocera è deceduta sul colpo mentre la compagna è morta in ospedale. Il duplice omicidio è avvenuto davanti ai due figli della coppia, uno di 16 anni che poi ha chiamato la polizia, e la più piccola di soli 2 anni.

6 maggio

A Savona, Safayou Sow, 27 anni cittadino della Guinea, si è presentato con una pistola semiautomatica e ha ucciso la ex compagna, Danjela Neza, 29enne di origini albanesi dopo la fine della loro relazione. L'uomo si è costituito.

27 maggio

A Senago Giulia Tramontano era incinta di 7 mesi quando è stata ammazzata dal suo compagno, Alessandro Impagnatiello, 30 anni che poi confessa l'omicidio. Era stato lui a denunciare la scomparsa della ragazza, 29enne nata a Sant'Antimo, in provincia di Napoli, il 28 maggio. Il suo corpo senza vita è stato ritrovato 3 giorni dopo. Giulia Tramontano è stata uccisa a coltellate la sera del 27 maggio: tra il 37 e i 40 colpi quelli che le ha inferto il compagno. Impagnatiello portava avanti una relazione parallela con una collega, ma era stato scoperto da entrambe.

1 giugno

A Roma, Pierpaola Romano ha 58 anni ed è una poliziotta. Un suo collega, Massimiliano Carpineti, la uccide con la pistola d'ordinanza. Il corpo dell'assassino viene ritrovato nella sua auto qualche ora più tardi: si è tolto la vita utilizzando la stessa arma. I due erano amanti, Pierpaola Romano aveva deciso di mettere un punto alla loro storia quando aveva scoperto di essere malata di cancro. Carpineti non ha accettato la fine della loro relazione e l'ha uccisa.

9 giugno

Siamo a Incisa Scapaccino (Asti). Floriana Floris, 49 anni, viene ritrovata senza vita nella sua abitazione. Sua figlia, nata da un precedente matrimonio, non riusciva a sentirla da qualche giorno e ha lanciato l'allarme. Ad ammazzarla con 30 coltellate l'attuale compagno della donna, Paolo Riccone, 50 anni, che ha tentato invano il suicidio. Sotto interrogatorio da parte dei carabinieri e della magistratura, l'uomo ha confessato.

19 giugno

A Rimini, Svetlana Ghenciu, 47 anni, e Gioacchino Leonardi, 50 anni, sono stati trovati morti nel corso del tardo pomeriggio del 19 giugno 2023 all'interno dell'abitazione in cui risiedevano a Borgo Marina di Rimini. A ritrovare i corpi dei due, il figlio 16enne della coppia, rientrato a casa dopo un paio di giorni.

28 giugno

Michelle Maria Causo ha solo 17 anni. Il suo corpo viene abbandonato accanto a un cassonetto dell'immondizia, nel quartiere Primavalle, a Roma. Per la sua morte c'è un fermato, un 17enne, sentito in questura per molte ore prima del provvedimento cautelare.

Femminicidi in Italia, Giulia Tramontano è solo l’ultima di una lunga lista: quante sono le vittime dall’inizio del 2023? I dati sui femminicidi in Italia diventano sempre più allarmanti e sempre meno sono le denunce da parte delle vittime: da maggio 2020 le donne uccise da partner o ex partner sono vertiginosamente aumentate. Marianna Piacente il 7 Giugno 2023 su Notizie.it

ARGOMENTI TRATTATI

Il diritto di uccidere

Gli anni passati: un’altalena in salita

2023: verso il collasso

Femminicidi: istruzioni per l’uso. Si sente spesso parlare delle donne come di eroine che sono in grado di sopportare dolori fisici che gli uomini non proveranno mai, come quello del ciclo mestruale o della gravidanza. Si sente parlare di loro come di riferimenti per i figli e per gli uomini, che sono invece meno. Semplicemente meno. Quanta verità, ma quanta retorica. L’elogio alla donna sa di fregatura, di un’illusione che si cerca di vendere al sesso debole – che poi perché «debole» non si è mai capito – per poter continuare a manipolarlo muovendo i fili di un mondo che della donna ha tutt’altra considerazione.

Il diritto di uccidere

Mariti, compagni, padri, fratelli, amici, conoscenti. Anche loro non credono che le (loro) donne possano essere al loro pari, anzi trovano addirittura giusto toglierle di mezzo di tanto in tanto. I dati sui femminicidi sono sempre più allarmanti ed è bene farsi qualche conto (finché si riescono a contare). Tornando indietro di appena tre anni, troviamo una data emblematica: maggio 2020, l’inizio della fine. Otto donne uccise, assassinate dagli uomini con cui abitavano. Dopo pochi mesi lo scoppio della pandemia (acceleratore della violenza), L’Ong Plan International ha pubblicato un report sulla condizione delle donne durante la quarantena: niente di buono, purtroppo. Eh sì, perché la casa non sempre è il luogo sicuro nel quale rifugiarsi dal mondo crudele e pericoloso. E mentre il mondo intero se ne stava in quarantena per salvarsi dal Covid-19, molte donne costrette a stare in casa rischiavano di morire ogni minuto.

Gli anni passati: un’altalena in salita

Dopo una lieve flessione dei dati sulla violenza di genere già nel 2021, nel primo trimestre del 2022 l’Istat ha registrato meno chiamate ai centri di aiuto (da 4.310 a 2.966), precisamente il 30% in meno rispetto all’anno precedente. Ma poi ecco di nuovo un peggioramento: l’ultimo report pubblicato dal Viminale in occasione del Comitato per l’ordine e la sicurezza (15 agosto 2022) ha evidenziato cifre di nuovo in aumento: in 365 giorni i femminicidi in Italia erano stati 125, più di uno ogni tre giorni.

2023: verso il collasso

L’omicidio di Giulia Tramontano a Milano da parte del compagno e l’assassinio di una agente di polizia da parte di un collega alla periferia di Roma portano a 47 il numero delle donne uccise dall’inizio del 2023: di queste, 39 sono vittime di femminicidi, quasi otto al mese (22 quelle ammazzate per mano del partner o dell’ex partner). Tanti casi, poche denunce. Secondo l’Istat, in Italia «è elevata la quota di donne che non parlano con nessuno della violenza subita. […] I tassi di denuncia riguardano il 12,2% delle violenza da partner e il 6% di quelle da non partner». Ciò peggiora una situazione evidentemente destinata ad aggravarsi. Ancora.

La Giustizia.

"Le mani al collo della moglie? È comunque un tentato femminicidio". Antonio Borrelli il 10 Dicembre 2023 su Il Giornale.

È tentato femminicidio, anche senza ferite. È una sentenza che potrebbe fare scuola, quella pronunciata dalla Corte di Cassazione, e che sembra testimoniare un crescente rigore nei confronti della violenza di genere. Il caso risale al maggio del 2021, quando un 40enne di Travagliato, nel Bresciano, afferra per il collo la moglie, dopo averla spinta contro il muro. La violenza si scatena entro le mura di casa al culmine dell'ennesima lite in famiglia, dopo che la donna scopre una relazione a distanza del marito con un'amante conosciuta sul web nelle settimane di lockdown: lui solleva da terra la moglie stringendole il collo, al punto che la donna ha la vista offuscata e perde conoscenza. A scongiurare il peggio è il figlio della coppia, che riesce a far allentare la presa e a far respirare la madre. Per il giudice, che nel novembre di due anni fa ha condannato il 40enne a dieci anni di carcere, l'aggressione avrebbe potuto avere conseguenze letali, se non fosse intervenuto il ragazzino. Pur ammettendo la violenza, l'uomo aveva comunque impugnato la sentenza di secondo grado tentando di dimostrare di non avere mai provato a ucciderla. Per i giudici a contare sono però i «potenziali effetti dell'azione», così la Corte ha respinto la difesa dell'uomo spiegando che «la scarsa entità (o anche l'inesistenza) delle lesioni provocate alla persona offesa non sono circostanze idonee a escludere di per sé l'intenzione omicida, in quanto possono essere rapportabili anche a fattori indipendenti dalla volontà dell'agente, come un imprevisto movimento della vittima, un errato calcolo della distanza, una mira non precisa o l'intervento di un terzo». Proprio come nel caso di Brescia, con il figlio ad interrompere l'aggressione.

Un'altra storia di violenza e segregazione arriva dalla provincia di Agrigento, dove una 19enne incinta viveva rinchiusa in casa a chiave dal marito, picchiata, accusata e mortificata a più riprese. Il 25enne è stato condannato dalla prima sezione penale del tribunale di Agrigento a tre anni e sei mesi e dovrà ora risarcire con 15mila euro la madre di sua figlia che si è costituita parte civile nel processo.

L'assist della Procura per scarcerare Dimitri, il femminicida "obeso". Decisiva l'"infermità fisica grave". Ma i dolci possono essere vietati e il fumo anche. La legale: vita a rischio. Luca Fazzo il 14 Novembre 2023 su Il Giornale.

Perché Alfredo Cospito no e Dimitri Fricano sì? Un bombarolo anarchico che stava digiunando fino a rischiare la morte, un femminicida che la vita la rischia a furia di mangiare. Ma il primo è rimasto al carcere duro, il secondo è a casa da qualche giorno per motivi di salute. La scarcerazione di Fricano ha sollevato un mare di polemiche. E il paragone con Cospito è sorto spontaneo, per il semplice motivo che entrambi i malanni per cui i due hanno chiesto di lasciare la cella sono conseguenze di loro scelte. Così i giudici decisero di tenere in cella l'anarchico, parlando di «patologia autoinflitta». Se esce Cospito, fu un po' il ragionamento, qualunque altro detenuto potrà seguire il suo esempio.

Perché allora Fricano ha potuto tornare a casa, grazie alla decisione del Tribunale di sorveglianza di Torino, su parere favorevole (dettaglio non irrilevante) anche della Procura? Per capirlo bisogna addentrarsi nei meandri della legge sull'Ordinamento penitenziario, che all'articolo 47 ter stabilisce il diritto a differire l'esecuzione della pena di «chi si trova in condizioni di grave infermità fisica». In questi casi scatta la detenzione domiciliare, durante il quale la pena continua a essere scontata. Se l'infermità cessa, si torna in carcere.

Il problema è che la formula usata dal codice, «grave infermità fisica» è talmente vaga da venire interpretata con manica più o meno larga dai diversi tribunali. Così accade che detenuti in condizioni quasi estreme vengano tenuti in cella, e a volte ci muoiano, e che il differimento venga invece concesso a condannati malconci ma non troppo. Nel caso di Fricano, il quadro clinico era sicuramente preoccupante, a partire dal peso che aveva raggiunto i duecento chili e lo rendeva incapace di muoversi e di lavarsi da solo. Aveva sfondato le reti del letto e per un periodo il materasso era rimasto appoggiato sul pavimento.

«Peggio per lui», «impari a mangiare meno»: commenti crudeli ma inevitabili, ai quali si aggiunge il ricordo della crudeltà con cui l'uomo nel 2017 uccise la sua fidanzata al culmine di un banale litigio. La realtà, dice al Giornale il difensore Alessandra Guarini, è che «la decisione del tribunale non toglie nulla alla gravità del crimine orrendo di cui Fricano è reo confesso. Si prende solo atto che Fricano non è grasso perché gli piace mangiare, la sua obesità è la conseguenza di una patologia che si porta dietro sin da ragazzo, e che oggi è totalmente incompatibile con la vita carceraria. In carcere Fricano è a rischio di sopravvivenza».

Alcuni degli argomenti con cui i giudici hanno sostenuto la incompatibilità del 35enne con la vita carceraria possono sembrare discutibili: è vero che in prigione non sono disponibili diete light, ma Fricano si abbuffa in modo compulsivo anche di dolciumi comprati allo spaccio interno (il famoso «sopravvitto»), che gli potrebbero agevolmente venire tolti; fuma in modo compulsivo, e in carcere sarebbe teoricamente vietato; incontra barriere architettoniche insormontabili, ma anche questo forse sarebbe risolvibile spostandolo di carcere.

Ma il dato cruciale che ha convinto i giudici è che, aldilà dei singoli problemi, è che Fricano non è autosufficiente. Per farlo uscire però hanno dovuto superare un altro scoglio non da poco: ritenere che non sia pericoloso socialmente, che non rischi di tornare a delinquere. È questo, davanti al delitto brutale e immotivato che ha commesso, che colpisce nella decisione. A meno che non sia il peso stesso dell'uomo, secondo il tribunale, a impedirgli di uccidere ancora.

Estratto da today.it martedì 14 novembre 2023.

Il caso continua a fare discutere. Deve scontare una pena complessiva di 30 anni per l'omicidio della fidanzata Erika Preti: ma Dimitri Fricano non è più dietro le sbarre. E' agli arresti domiciliari perché obeso e super fumatore. La decisione è del tribunale di sorveglianza di Torino per il quale le condizioni di salute del 35enne di Biella non sono compatibili con la detenzione carceraria. 

L'uomo è stato intercettato dalle telecamere di "Pomeriggio Cinque", il programma tv di Canale5: "Io non vivo più da sei anni e chiedo scusa ai genitori di Erika, già l'ho fatto anche dal carcere e in sede di giudizio. Sono uscito di testa e sono diventato duecento chili", dichiara Fricano da un paese del Biellese. 

Fricano nel giugno del 2017 uccise con 57 coltellate Erika Preti, 28 anni, poco prima di andare in spiaggia durante una vacanza a San Teodoro, in Sardegna, perché la donna l'aveva rimproverato perché stava facendo troppe briciole […]

Lui di quelle coltellate dice però di non ricordare nulla: "Non so cos’è successo. Le 57 coltellate? Quelli sono numeri che non si sa neanche se sono reali". Dimitri Fricano poi parla di Erika con la quale è stato dieci anni prima di ucciderla: "Io vivevo per la mia fidanzata e avrei pagato oro perché fossi morto io. Purtroppo, è andata al contrario". 

Il tribunale di sorveglianza ha stabilito che Fricano, oggi 35enne, deve seguire una dieta adeguata e la cucina del carcere non riuscirebbe a fornire i pasti adeguati per il detenuto che ha raggiunto i 200 chili e ha problemi di mobilità. 

"Vivo su una sedia a rotelle, non mi sono lavato per anni perché non ce la facevo, non ce la facevo a uscire dalla cella. Non è che hanno mandato a casa un 30nne perché obeso e fumatore, io sono a rischio vita in ogni secondo della giornata", conclude Fricano.

Il detenuto per la giustizia italiana "non è in grado di assolvere autonomamente alle proprie necessità quotidiane e ha bisogno di un’assistenza che non è possibile dispensare in istituto". Nel carcere sono presenti barriere architettoniche che gli impediscono di muoversi liberamente. E la cucina non è in grado di fornire pasti ipocalorici necessari a una dieta per una persona obesa. 

Ai microfoni di Canale 5 non si è sottratto il padre dell’assassino. "Sono delle tragedie. Nella tragedia c'è chi finisce male, ma anche mio figlio non è che finito bene. Non ha capito niente e voleva morire lui al suo posto". L’uomo si è poi soffermato su quella tragica mattina: "Non era per delle briciole, sembra che abbiano fatto una litigata – ha detto il padre di Fricano –.

Ma quando uno esce fuori, esce fuori, non è che dice 'te ne do una, due ma adesso ci penso', io non lo so cosa è successo perché non c'ero". Atti di violenza precedenti? "Mai, chiedo scusa umilmente io ai genitori di Erika. Non era come una figlia ma come due figlie. Di più di una figlia, di più, perché eravamo contenti di questa ragazza, è stata dieci anni con noi. È stata una disgrazia, non è stato un femminicidio, è stata una lite tra ragazzi. Punto e basta". 

Li hanno ascoltati in diretta i genitori di Erika, che vivono nello stesso paese. "È vergognoso - il commento di Fabrizio Preti - che un assassino, condannato a 30 anni, possa andare a casa perché obeso. Non posso pensare ora di poterlo incontrare per strada o dal medico. Quell'uomo deve tornare in carcere, quello è il suo unico posto".

Da “Pomeriggio 5 – Mediaset” martedì 14 novembre 2023.

«Io vivevo per la mia fidanzata e avrei pagato oro perché fossi morto io. Purtroppo, è andata al contrario.».  Sono le parole di Dimitri Fricano, che oggi, ai microfoni di Pomeriggio Cinque – il programma condotto da Myrta Merlino su Canale 5 - parla per la prima volta in televisione dopo la sua scarcerazione. L’uomo era stato condannato a trent’anni di carcere per aver ucciso la sua fidanzata Erika Preti ma qualche giorno fa il Tribunale di sorveglianza di Torino ha deciso che il trentacinquenne di Biella proseguirà la detenzione ai domiciliari per motivi di salute. 

Questa l’intervista:

Dimitri Fricano: Io non vivo più da sei anni e gli chiedo scusa ai genitori e gliel’ho già chiesto scusa anche in carcere, in sede di giudizio. Io sono uscito di testa e sono diventato duecento chili. 

Ti manca la tua fidanzata? 

Dimitri Fricano: Io vivevo per la mia fidanzata e avrei pagato oro perché fossi morto io. Purtroppo, è andata al contrario. 

Ma ti ricordi di quello che hai fatto? 

Dimitri Fricano: Non so cos’è successo. 

Non ti ricordi le cinquantasette coltellate? 

Dimitri Fricano: Quelli sono numeri che non si sa neanche se sono reali. 

Quindi tu dici che sei ingrassato e hai fumato tanto perché non vivi più da quando l’hai uccisa? 

Dimitri Fricano: Io non vivo più, sono ossessionato da questa cosa.

Dimitri, sappiamo e ti vediamo che non stai bene. 

Dimitri Fricano: Vivo su una sedia a rotelle, non mi sono lavato per degli anni perché non ce la facevo, non ce la facevo a uscire dalla cella. Non è che hanno mandato a casa un trentenne perché obeso e fumatore, io sono a rischio vita sine qua non est, cioè a rischio vita in ogni secondo della giornata. 

Dopo Dimitri, a rispondere alle domande dell’inviata anche il padre di Dimitri: 

Padre di Dimitri Fricano: Sono delle tragedie! Nella tragedia c’è chi finisce male, ma anche mio figlio non è che finito bene. Non ha capito niente e voleva morire lui al suo posto e lei lo vede come le vuole bene. […]

Estratto dell'articolo da "Il Giornale" mercoledì 15 novembre 2023.

«Avrei voluto morire io al posto di Erika. Io non vivo più da quel giorno. Quel giorno sono uscito di testa. Vivevo per lei. Vivo su una sedia a rotelle, posso morire in ogni momento, sono un rischio vita continuamente». Sono le parole di Dimitri Fricano, che nel giugno 2017 ha ucciso con 57 coltellate la fidanzata Erika Preti, 28 anni, a San Teodoro (Sassari), durante un litigio prima di una gita in barca. Condannato a 30 annidi carcere, nei giorni scorsi ha ottenuto gli arresti domiciliari per le condizioni di salute, una grave forma di obesità.

Fricano ha parlato con l'inviata Mediaset per «Pomeriggio 5» mentre entrava in casa con il padre in un paese in provincia di Biella. Le sue dichiarazioni sono state ascoltate in diretta dai genitori di Erika, che vivono nello stesso paese. «È vergognoso - ha detto Fabrizio Preti - che un assassino, condannato a 30 anni, possa andare a casa perché obeso.

Non posso pensare ora di poterlo incontrare per strada o dal medico. Quell'uomo deve tornare in carcere, quello è il suo unico posto». L'inviata di Mediaset ha intervistato anche il padre di Dimitri: «È stata una tragedia - ha detto - e in una tragedia c'è chi finisce bene e chi finisce male. Mio figlio stesso ha detto che avrebbe voluto morire lui al posto di Erica. Era uscito di testa e quando uno esce di testa c'è poco da fare. Non è stato un femminicidio, è stata una lite tra ragazzi». 

[…]

Un meccanismo psicologico contorto e difficile da dimostrare. Infatti i giudici vogliono vederci più chiaro e chiedono di sentire nella prossima udienza i testimoni e i numerosi carabinieri intervenuti in seguito alle richieste di aiuto della donna. E quando alla luce delle nuove dichiarazioni viene richiesta e accordata la revoca della misura cautelare in carcere, Alessandra chiede che l'imputato torni subito a vivere a casa con lei: «Lui non ha fatto nulla. Se c'è qualcuno che deve chiedere scusa sono, ti prego amore perdonami».

L’aspetto giuridico e l’aspetto sociale.

Toghe contro toghe a Brescia: l’Anm sta col pm che ha “giustificato” la violenza. Il sindacato dei magistrati e la Camera penale difendono il magistrato per il quale i maltrattamenti alla moglie sono un “fatto culturale”. Ma il procuratore si dissocia: «Siamo contrari a qualunque forma di relativismo giuridico». Giovanni Maria Jacobazzi su Il Dubbio il 14 settembre 2023

Come era facilmente prevedibile, non si placano, pur essendo passati alcuni giorni, le polemiche a seguito della decisione del pm di Brescia di chiedere l'archiviazione nei confronti di un cittadino del Bangladesh accusato di aver maltrattato e minacciato la moglie, costringendola anche ad avere rapporti sessuali contro la sua volontà. Per il pm bresciano Antonio Bassolino sarebbe manca «l'abitualità» della condotta e gli episodi incriminati sarebbero maturati «in un contesto culturale che, sebbene inizialmente accettato dalla» moglie dell’uomo poi «si è rivelato intollerabile, rifiutando il modo di vivere e le tradizioni della comunità bengalese di cui l'imputato era fieramente latore.

In altri termini - aveva aggiunto Bassolino nella richiesta di archiviazione, a fronte di una imputazione coatta da parte del gip - l'intolleranza della convivenza» per la donna «è maturata nell'ambito di una differenza culturale già esistente tra i due ma per lungo tempo tenuta sopita» dalla moglie, «la quale aveva creduto di poter accettare l'impianto culturale della famiglia di origine per ragione legate all'affetto e al rispetto nei confronti della famiglia e della madre». Al bengalese, islamico di stretta osservanza e verosimilmente per nulla integrato nel contesto sociale occidentale, sarebbe così mancata la «coscienza e volontà di annichilire e svilire la coniuge, atteso che la disparità fra l'uomo e la donna è un portato della sua culturale che la medesima aveva persino accettato».

Frasi che avevano immediatamente determinato da parte del consigliere laico del Csm Enrico Aimi (FI) la richiesta di apertura di una pratica per valutare la condotta del magistrato proprio «per la gravità delle asserzioni del pm che parrebbe giustificare, se non autorizzare, la violenza domestica». Per Aimi, tale condotta «è assolutamente inaccettabile, soprattutto in questo momento storico in cui assistiamo quotidianamente a forme di sopruso e maltrattamenti a danno di donne». Il procuratore di Brescia Francesco Prete aveva immediatamente preso le “distanze” dal suo sostituto, sconfessandone di fatto l'operato. La procura, si legge in una nota, «ripudia qualunque forma di relativismo giuridico, non ammette scriminanti estranee alla nostra legge ed è sempre stata fermissima nel perseguire la violenza, morale e materiale, di chiunque, a prescindere da qualsiasi riferimento “culturale”, nei confronti delle donne». Prete, dopo aver ricordato che il pm in udienza è libero ed indipendente, esercitando le sue funzioni «con piena autonomia» e che pertanto le conclusioni da egli rassegnate in aula «non possono essere attribuite all’ufficio nella sua interezza», aveva voluto tranquillizzare l'opinione pubblica ribadendo che tutti i magistrati del suo ufficio agiscono sempre «nel rispetto della legalità, secondo i parametri fornitici dalla Costituzione e dalla legge». A difendere il collega dalla gogna mediatica che lo aveva investito, invece, la locale sezione dell'Associazione nazionale magistrati. Per l’Anm, «con queste modalità è stata gravemente minata innanzitutto la dignità umana e professionale del singolo magistrato coinvolto, la cui cifra personale, culturale e professionale è stata indebitamente messa in discussione».

«Le critiche si propagano al suo ufficio giudiziario di appartenenza e alla magistratura in generale», aveva aggiunto l'Anm, stigmatizzando poi «le ormai consuete acritiche condanne provenienti dalla politica, che sempre più frequentemente invoca, quale rimedio per ogni male giudiziario (reale o presunto), ispezioni ministeriali negli uffici interessati e sanzioni disciplinari, a prescindere dalla sussistenza dei presupposti di legge, e ciò avviene ogni qualvolta le valutazioni compiute dai magistrati non coincidano con le aspettative dell’opinione pubblica prevalente, slegate dalla compiuta conoscenza dei fatti concreti e, spesso, dei termini delle questioni giuridiche implicate». Concetto ribadito anche dalla Camera penale di Brescia, che vede dietro «l’opportunismo propagandistico il preludio di nuove legislazioni emergenziali, che non rispondo ai reali bisogni della società e della giustizia». Per i penalisti, è «inammissibile ogni intervento della funzione politica volto a cavalcare reazioni emotive legate ai fatti di cronaca, a promuovere campagne di opinione e a imporre condizionamenti alla celebrazione del giudizio penale, soprattutto con una totale mancanza di approfondimento rispetto ai primi titoli sensazionalistici fondati su notizie parziali». Vedremo cosa accadrà prossimamente.

Brescia, maltratta la moglie ma il pm chiede l’assoluzione: “Viene dal Bangladesh. È la sua cultura”. Lo sfogo della donna: "Era un matrimonio combinato, mi trattava da schiava". Può una cultura diversa essere una giustificazione alle violenze in Italia? Edoardo Martini il  12 Settembre 2023 su La Nazione

Il pubblico ministero di Brescia ha chiesto l'assoluzione per l'uomo che ha maltrattato la sua ex moglie per via della sua cultura

È polemica per la posizione del pm della Procura di Brescia che ha chiesto l’assoluzione per l’ex marito di una donna nata in Bangladesh, ma cresciuta in Italia, che nel 2019 ha trovato il coraggio di denunciare le violenze subite dall’ex coniuge.

Secondo il giudice il marito non sarebbe da considerare colpevole in quanto il comportamento dell’imputato sarebbe frutto dell’impianto culturale

La motivazione del pm di Brescia

Secondo il pubblico ministero: “La compressione delle libertà morali e materiali della parte offesa da parte dell’imputato sono il frutto dell’impianto culturale e non della sua coscienza e volontà di annichilire e svilire la coniuge per conseguire la supremazia della medesima, atteso che la disparità tra l’uomo e la donna è un portato della sua cultura e che la medesima parte offesa aveva persino accettato in origine”.

“Sono stata trattata da schiava, picchiata e umiliata”

A scagliarsi contro le parole del magistrato è stata prima di tutto la donna, vittima per anni di violenze, denunciate nel 2019: “Dove è la giustizia e la protezione tanto invocata per le donne, tra l’altro incoraggiate a denunciare al primo schiaffo? Oppure il fatto che io sia una bengalese tra le tante, mi rende di meno valore dinanzi a questo pm?”.

Ha raccontato: “Da quando avevo quattro anni ho vissuto a Brescia e nel 2013, dopo la morte di mio padre, i miei zii mi hanno costretta a sposare un cugino a cui sono stata venduta per 5mila euro. Avevo 17 anni, studiavo alle superiori, oppormi non è servito.

Dopo il matrimonio siamo tornati in Italia – racconta sempre la donna – in casa di mia mamma fino alla nascita della prima figlia. Poi siamo andati a vivere da soli. Non potevo dire nulla, altrimenti ricevevo urla, insulti e botte.

Con la bimba di circa un anno e mezzo mi ha portato in Bangladesh per una vacanza. Lui è tornato in Italia e mi ha costretto a restare là. Nel frattempo ho scoperto di aspettare la seconda figlia. Mi diceva che nessuno mi avrebbe voluta con due figli. Così con le botte, gli insulti. Ero una schiava”.

Gli spunti di riflessione

Il punto è questo. È possibile giustificare i maltrattamenti declassandoli a mero frutto culturale? Ammesso pure che certe dinamiche appartengano ad altre culture, non dovrebbero essere giudicate in base alle leggi del paese in cui esse avvengono? In questo caso quelle italiane?

Anche in Italia, dopotutto, la prevaricazione (fisica e morale) dell’uomo sulla donna è figlia di una cultura patriarcale. Eppure anni e anni di battaglie femministe, ancora in corso, hanno avuto e hanno tutt’ora l’obiettivo di cambiare questa cultura, di eliminare certi retaggi.

“Sono stata trattata da schiava, picchiata, umiliata”, lo sfogo della donna  

La sentenza a ottobre

La Procura tra l’altro, dopo la denuncia della donna, aveva già chiesto l’archiviazione del caso, ma il gip aveva imposto l’imputazione coatta dell’ex marito.

Il pm si è mostrato fermo sulle sue posizione anche in aula: “Le condotte dell’uomo sono maturate in un contesto inizialmente accettato dalla parte offesa, che l’ha trovato intollerabile proprio perché cresciuta in Italia e con la consapevolezza dei diritti che le appartengono, interrompendo il matrimonio e rifiutando il modo di vivere delle tradizioni bengalesi delle quali, invece, l’imputato si è fatto fieramente latore”.

La sentenza finale è prevista per ottobre, ma intanto la donna si è costituita parte civile contro il marito  

La sentenza è prevista per ottobre e, intanto, la donna si è costituita parte civile contro il marito. “Aspetto con fiducia la sentenza perché non posso pensare e credere che in una nazione come l’Italia si possa permettere a chiunque di fare del male ad altri impunemente solo perché affezionato a una cultura nella quale la donna non conta nulla e l’uomo può su di lei tutto anche porre fine alla sua vita”.

“Solo per una questione di obbedienza culturale. Ciò in Italia non può accadere“, questo lo sfogo della donna in un’intervista al Giornale di Brescia.

Le reazioni della politica

Intanto la politica si mobilita. La vicepresidente dell’Europarlamento, la dem Pina Picierno, che considera “assurda” la richiesta di archiviazione perché il magistrato considera la “mentalità abusante e schiavista un retaggio culturale” chiede al ministro della Giustizia Carlo Nordio di mandare gli ispettori in Procura.

Mentre il ministro Roberto Calderoli bolla come “pericoloso” il messaggio del pm in un momento in cui “stiamo affrontando una battaglia culturale, oltre che normativa, per arginare questa strage”.

Per la collega alla Famiglia Eugenia Roccella “Da noi una donna non può avere meno diritti e tutele se nasce in una famiglia portatrice di una diversa cultura: l’appartenenza non può essere una condanna esistenziale”.

I precedenti

Nel 2021 un telepredicatore islamico, arrestato nel 2019 per maltrattamenti e lesioni ai danni della moglie di 20 anni più giovane, fu assolto in primo grado, sempre a Brescia. In quel caso il pm chiese quattro anni, ma fu la corte a decidere di non punire l’imputato.

Il tutto rimanda al 2007, quando in Germania furono riconosciute le attenuanti in un caso di violenza sessuale. In quella situazione l’imputato ebbe uno sconto di pena perché, dissero i giudici, “si deve tener conto delle sue impronte culturali ed etniche: è un sardo”.

Brescia, il procuratore si dissocia dal pm che ha chiesto l’assoluzione per “motivi culturali”.  “Questo Ufficio ripudia qualunque forma di relativismo giuridico”, scrive il magistrato dopo le polemiche sul caso di una donna bengalese che aveva denunciato il marito per maltrattamenti. Il Dubbio il 12 settembre 2023

Il procuratore di Brescia, Francesco Prete, interviene sul caso del pm del suo ufficio che, secondo quanto riferito dal Giornale di Brescia, ha chiesto l’archiviazione per un cittadino bengalese accusato di maltrattamenti dall’ex moglie, perché si tratterebbe di un reato

“culturalmente orientato”.

“Questa Procura della Repubblica ripudia qualunque forma di relativismo giuridico, non ammette scriminanti estranee alla nostra legge ed è sempre stata fermissima nel perseguire la violenza morale e materiale di chiunque a prescindere da qualsiasi riferimento ‘culturale' nei confronti delle donne”, scrive il procuratore. “In merito agli articoli di stampa relativi alle conclusioni rassegnate dal pm nel processo a carico di Hasan Md Imrul faccio presente che queste, in base alle norme del codice di procedura penale, non possono essere attribuite all'ufficio nella sua interezza, ma solo al magistrato che svolge funzioni di udienza”, precisa il procuratore. Il riferimento legislativo è “all'articolo 53 del codice di procedura penale ('nell'udienza il magistrato del pubblico ministero esercita le sua funzioni con piena autonomia') e all'articolo 70 dell'ordinamento giudiziario”. Prete scrive quindi che “le richieste di ispezioni ministeriali” chieste da diversi esponenti politici “ci lasciano assolutamente tranquilli, essendo tutti i magistrati dell'ufficio sicuri di avere sempre agito nel rispetto della legalità, secondo i parametri fornitici dalla Costituzione e dalla legge”.

Il caso

Il caso riguarda una 27enne italiana di origine bengalese che nel 2019 ha denunciato il marito per maltrattamenti. La procura di Brescia prima ha proposto l'archiviazione e poi - dopo che il gip ha ordinato l'imputazione coatta - l'assoluzione dell'uomo, perché - scrive il pm nelle conclusioni depositate dalle parti - “i contegni di compressione delle libertà morali e materiali della parte offesa da parte dell'odierno imputato sono il frutto dell'impianto culturale e non della sua coscienza e volontà di annichilire e svilire la coniuge per conseguire la supremazia sulla medesima, atteso che la disparità tra l'uomo e la donna è un portato della sua cultura che la medesima parte offesa aveva persino accettato in origine”. “La cultura di origine non può essere una scusa. Sono stata trattata da schiava”, ha affermato sempre a Il Giornale di Brescia la donna. Il processo arriverà a sentenza ad ottobre.

Estratto dell’articolo di Lucia Landoni per repubblica lunedì 11 settembre 2023.

Va assolto dal reato di maltrattamento nei confronti della moglie perché è un fatto culturale. E’ il senso delle parole utilizzate dal pubblico ministero di Brescia nel caso di una donna 27enne originaria del Bangladesh e cittadina italiana, madre di due figlie, vittima di presunti maltrattamenti fisici e psicologici da parte del marito, poi diventato ex. 

La vicenda, raccontata dal Giornale di Brescia, ha avuto inizio nel 2019, quando la donna ha trovato “il coraggio di denunciare dopo anni di urla, insulti e botte, sotto la costante minaccia di essere riportata in Bangladesh definitivamente”. 

Il comportamento dell’uomo – un cugino al quale lei sarebbe stata “venduta per cinquemila euro” per un matrimonio combinato (celebrato in patria) alla morte del padre, come ha spiegato al quotidiano bresciano – sarebbe però dovuto secondo il pm al contesto culturale bengalese.

“I contegni di compressione delle libertà morali e materiali della parte offesa da parte dell'odierno imputato sono il frutto dell'impianto culturale e non della sua coscienza e volontà di annichilire e svilire la coniuge per conseguire la supremazia sulla medesima, atteso che la disparità tra l'uomo e la donna è un portato della sua cultura che la medesima parte offesa aveva persino accettato in origine” si legge nelle conclusioni depositate dalle parti in vista della conclusione del processo, che arriverà a sentenza tra qualche settimana, a ottobre.

Fin da subito la Procura aveva chiesto l’archiviazione del procedimento, ma il gip ha detto no, ordinando l’imputazione coatta per lo straniero nato e cresciuto in Bangladesh alla luce del fatto che “sussistono senz’altro elementi idonei a sostenere efficacemente l’accusa in giudizio nei confronti dell’ex marito”. 

I presunti maltrattamenti denunciati dalla donna rientrerebbero però secondo il pubblico ministero nei reati culturalmente orientati, cioè quei comportamenti sanzionati dalle leggi italiane, ma tollerati secondo le tradizioni (o addirittura le norme) di altri Paesi. […]

I maltrattamenti denunciati dall’ex moglie? “Frutto della cultura di origine”, dice il pm. La procura di Brescia chiede l’archiviazione per l’imputato del Bangladesh. Il gip aveva ordinato l’imputazione coatta. Giovanni Maria Jacobazzi su Il Dubbio l'11 settembre 2023

Un provvedimento che “stride” con la giurisprudenza del tribunale di Brescia, peraltro diffuso dagli organi d’informazione prima ancora che sia avvenuta la discussione (prevista per il mese prossimo), è stata commentata da alcuni avvocati bresciani dopo aver appreso dai media cittadini che la locale Procura si appresta a chiedere l’archiviazione per un cittadino del Bangladesh, accusato di aver maltrattato la moglie.

La donna di 27 anni di origini bengalesi e cittadina italiana, madre di due figlie, sposatasi in patria secondo un matrimonio combinato, aveva denunciato il marito, nel frattempo diventato ex, per maltrattamenti fisici e psicologici. Costretta a lasciare gli studi e a restare chiusa in casa, come racconta il Giornale di Brescia, la donna aveva trovato il coraggio di denunciare dopo anni di “urla e botte”, passati sotto la “costante minaccia di essere riportata in Bangladesh”. 

La Procura aveva chiesto l’archiviazione del procedimento, negata invece dal gip che aveva ordinato l’imputazione coatta, dal momento che «sussistono senz’altro elementi idonei a sostenere efficacemente l’accusa in giudizio nei confronti dell’ex marito».

«I contegni di compressione delle libertà morali e materiali della parte offesa da parte dell’odierno imputato sono il frutto dell’impianto culturale e non della sua coscienza e volontà di annichilire e svilire la coniuge per conseguire la supremazia sulla medesima, atteso che la disparità tra l’uomo e la donna è un portato della sua cultura che la medesima parte offesa aveva persino accettato in origine», ha invece puntualizzato la Procura bresciana, diretta da Francesco Prete, secondo cui i maltrattamenti rientrerebbero nel campo dei reati “culturalmente orientati”: condotte sanzionate dall’ordinamento ma tollerate dalle leggi o dalle tradizioni del Paese di provenienza.

«Le condotte dell’uomo sono maturate in un contesto culturale che sebbene inizialmente accettato dalla parte offesa si è rivelato per costei intollerabile proprio perché cresciuta in Italia e con la consapevolezza dei diritti che le appartengono e che l’ha condotta ad interrompere il matrimonio. Per conformare la sua esistenza a canoni marcatamente occidentali, rifiutando il modo di vivere imposto dalle tradizioni del popolo bengalese e delle quali invece, l’imputato si è fatto fieramente latore», ha quindi aggiunto la Procura, insistendo nell’archiviazione.

Una interpretazione che, come detto, “stride” con la giurisprudenza del tribunale di Brescia, il quale in una recente sentenza aveva condannato un egiziano violento nei confronti della figlia femmina. «I soggetti provenienti da uno Stato estero - scrisse il presidente Roberto Spanò - devono verificare la liceità dei propri comportamenti e la compatibilità con la legge che regola l’ordinamento italiano. L’unitarietà di quest’ultimo non consente, pur all’interno di una società multietnica quale quella attuale, la parcellizzazione in singole nicchie, impermeabili tra loro e tali da dar vita ad enclavi di impunità».

Il genitore, islamico di stretta osservanza, era stato avvisato da alcuni parenti che vivono in Egitto e che su Tik - Tok avevano visto il volto della figlia 16enne senza velo. Una volta tornata a casa la giovane era stata prima insultata e poi colpita selvaggiamente al volto. Il padre, non contento, le aveva quindi strappato anche il cellulare dalle mani lanciandoglielo addosso e minacciandola di ucciderla. Una amica aveva allora chiamato il 112 e la ragazza era stata trasferita in una struttura protetta.

La vicenda a Brescia. Maltratta la moglie ma il pm chiede l’assoluzione: “E’ un fatto culturale, lei sapeva”. La donna: “Trattata come schiava”. Redazione su Il Riformista l'11 Settembre 2023 

I maltrattamenti in famiglia non vanno condannati perché si tratta di un “fatto culturale” che la vittima aveva “persino accettato in origine”. Questa la motivazione di un magistrato della procura di Brescia che ha chiesto l’assoluzione per un uomo originario del Bangladesh denunciato dalla moglie (connazionale) per presunti maltrattamenti, inserendo il caso nella sfera dei reati culturalmente orientati, punibili in Italia ma tollerati nel paese di origine. A riportare la vicenda è il Giornale di Brescia che riporta quanto scritto dal pm nella richiesta di assoluzione per l’imputato. Per il pubblico ministero quei comportamenti, definiti “contegni di compressione delle libertà morali e materiali”, sarebbero “il frutto dell’impianto culturale e non della sua coscienza e volontà di annichilire e svilire la coniuge”.

La richiesta di assoluzione è stata inserita nelle conclusioni depositate alle parti in vista dell’ultimo atto del processo che dovrebbe arrivare a sentenza nelle prossime settimane. I presunti maltrattamenti, secondo il magistrato, rientrerebbero nel campo dei reati culturalmente orientati che pertanto non vanno puniti, “atteso che la disparità tra l’uomo e la donna è un portato della sua cultura che la medesima parte offesa aveva persino accettato in origine”. La donna, 27enne di origini bengalesi ma con cittadinanza italiana, è madre di due figlie. In patria era stata costretta a sposare un cugino con un matrimonio combinato. Poi nel 2019 la separazione e la denuncia per maltrattamenti fisici e psicologici. Già in passato la Procura di Brescia aveva chiesto l’archiviazione del procedimento, richiesta rigettata dal gip che ha ordinando l’imputazione coatta per lo straniero nato e cresciuto in Bangladesh.

Incredula la 27enne: “La cultura di origine non può essere una scusa. Sono stata trattata da schiava. Dove è la giustizia e la protezione tanto invocata per le donne tra l’altro incoraggiate a denunciare al primo schiaffo?”. In una intervista al Giornale di Brescia la donna ricorda l’incubo vissuto: “Sono stata picchiata e umiliata. Costretta al totale annullamento con la costante minaccia di essere portata definitivamente in Bangladesh”, ma aspetta fiduciosa la decisione del giudice: “Non posso pensare e credere che in una nazione come l’Italia si possa permettere a chiunque di fare del male ad altri impunemente solo perché affezionato a una cultura nella quale la donna non conta nulla e l’uomo può su di lei tutto, anche porre fine alla sua vita. Solo per una questione di obbedienza culturale. Ciò in Italia non può accadere”.

Imporre il velo è lecito? Il legale di Salsabila: «Sui diritti non si negozia». Parla Gennaro De Falco, difensore di Salsabila, la donna marocchina che ha denunciato il marito. «Mi opporrò alla richiesta di archiviazione». Francesca Spasiano su Il Dubbio il 23 novembre 2021 Aggiornato, 11 settembre 2023

«Sui diritti non si può negoziare». A ribadirlo con forza è l’avvocato Gennaro De Falco, difensore di Salsabila, la donna marocchina, residente in Italia, che dopo anni ha trovato il coraggio di denunciare il marito per maltrattamenti. Salvo poi leggere, nella richiesta di archiviazione della procura di Perugia, che quelli maltrattamenti non erano. A partire dall’obbligo di indossare il velo integrale, perché per il sostituto procuratore Franco Bettini, la condotta del marito, anche lui marocchino, «rientra, pur non condivisibile in ottica occidentale, nel quadro culturale dei soggetti interessati».

«Nelle aule di tribunale c’è scritto che la legge è uguale per tutti. A questo punto bisogna capire di quale legge parliamo: in questo caso si sembra legittimare un codice parallelo e diverso a seconda del soggetto interessato. Una cosa innovativa...», dice De Falco al Dubbio, spiegando che presenterà opposizione il 25 novembre, come gesto simbolico per la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne.

«La cultura è diversa, ma la legge è la stessa - ribadisce il legale - altrimenti prendiamo atto che ci sono diritti differenziati». E in questo caso «non parliamo di diritti di poco conto - sottolinea -. Dal diritto a disporre della propria libertà personale, a quello di uscire di casa, di lavorare, di scegliere cosa indossare...». Per inquadrare la vicenda bisogna fare un passo indietro. E una premessa: Salsabila è una giovane donna che non parla una sola parola di italiano, proviene «da una realtà rurale», racconta ancora l’avvocato, le è stato impedito integrarsi con la comunità in cui viveva e non ha una rete di supporto. Se non quella della Onlus che l’ha ascoltata per prima, prima che la donna consegnasse agli agenti il suo racconto drammatico.

Costretta a sposarsi - «mi ha consigliato la mia famiglia», spiega - poi a vivere in Italia, e poi ancora a tornare in Marocco, Salsabila è riuscita a rientrare nel nostro Paese solo di recente. Ha tre figli e alle spalle - racconta - anni di abusi da parte del marito. «Mi imponeva il velo integrale, quando usciva di casa chiudeva la porta con le mandate portandosi le chiavi con sé... potevo uscire solo per andare in ospedale», si legge negli atti. Tutto questo nei quasi cinque anni di permanenza in Italia, una volta rientrati in Marocco le cose sono andate anche peggio: Salsabila è rimasta senza un soldo, le sono stati sequestrati i documenti. E poi ci sono le minacce, le offese, la violenza.

«Mi ha aggredito fisicamente dandomi uno schiaffo solo in un’occasione», confessa agli agenti. Una sola volta, per «futili motivi», si legge nelle carte. Ma per la procura di Perugia «le evidenze emerse dalle indagini» non permettono di ritenere «configurabile o comunque sostenibile in termini probatori il reato» contestato. «Dalle dichiarazioni rese la donna non sarebbe mai stata minacciata di morte, né avrebbe subito aggressioni fisiche tali da costringerla alle cure sanitarie», scrive il pm che lo scorso 15 ottobre ha chiesto l’archiviazione del caso al gip. Anche perché «il rapporto di coppia viene caratterizzato da forti influenze religiose- culturali alle quali la donna non sembra avere la forza o la volontà di ribellarsi». Una motivazione che ha fatto balzare dalla sedia l’avvocato De Falco: «Dobbiamo anche capire - protesta il legale - se la signora era in condizione di ribellarsi, se aveva qualcuno al quale affidarsi, che la potesse tutelare, senza considerare il timore di rimanere senza figli e senza mezzi di sussistenza». Inoltre, non tutti nel percorso di denuncia «hanno la stessa forza e la stessa energia, e lei anzi ne ha dimostrata parecchia», sottolinea l’avvocato.

Ma De Falco non è il solo a storcere il naso. Dopo il polverone mediatico che il caso ha suscitato, è lo stesso procuratore di Perugia, Raffaele Cantone, a prendere le distanze dalle parole del pm. «Premesso che non ero a conoscenza della vicenda, ritengo che non sia assolutamente condivisibile la posizione per la quale imporre il velo integrale sia un’idea culturalmente accettabile. Cioè questa non può essere considerata la voce della procura», spiega al Corriere della Sera Cantone. Che ora potrebbe avocare a sé le indagini. «Staremo a vedere - commenta il legale - il procuratore farà le sue valutazioni e io le mie. La via fisiologica è che io mi opponga a una decisione che però è già sconfessata dal capo dell’ufficio...».

Una situazione anomala, insomma, che per De Falco - il quale è pur sempre «rallegrato» dalla posizione espressa dalla procura - denuncia un «cedimento culturale» e in più in generale la difficoltà di districarsi in un ambito complicatissimo «per la mia esperienza tecnica», nel quale sono necessarie competenza, professionalità e sensibilità. «Non si sceglie da sé la legge da applicare - chiosa l’avvocato - altrimenti non servirebbe la legge, che per sua natura è un precetto impositivo».

In nome dell'accoglienza ai migranti concediamo anche la violenza. Andrea Soglio su Panorama il 12 Settembre 2023

La vicenda del pm di Brescia che ha assolto un uomo per le botte date alla moglie giustificate come frutto della loro «cultura» è l'ultimo passo di un percorso di annullamento che sbagliando abbiamo concesso

Sono molti i commenti letti sulla notizia arrivata da Brescia dove un pm ha stabilito l’assoluzione nei confronti di un uomo accusato di maltrattamenti dalla moglie perché quelle botte date alla donna sono «un fatto culturale». I fatti: Nel 2019 una donna del Bangladesh ha denunciato il marito alla procura raccontando le botte ricevute, più volte. Non solo: ha raccontato anche che il matrimonio di fatto era stato combinato dalle rispettive famiglie. Il pubblico ministero però ha deciso che di fatto non si tratta di reato, con queste motivazioni: i contegni di compressione delle libertà morali e materiali della parte offesa da parte dell’odierno imputato sono il frutto dell’impianto culturale e non della sua coscienza e volontà di annichilire e svilire la coniuge per conseguire la supremazia sulla medesima, atteso che la disparità tra l’uomo e la donna è un portato della sua cultura che la medesima parte offesa aveva persino accettato in origine. Traduzione: nella loro cultura, che lei ha accettato, picchiare la moglie non è reato e quindi non lo è nemmeno se le botte vengono date sul suolo italiano. Dal punto di vista legale questa decisione si commenta da se, Si tratta di una cosa inqualificabile, incomprensibile che in più crea un precedente pericolosissimo ed una sorta di doppio codice penale: uno per gli italiani ed uno per i musulmani o cingalesi. Quello che però va analizzato è il cosa ha portato un giudice ad una decisione simile; quale percorso culturale in Italia ha condotto un pm a trasformare in legale delle botte date da un marito alla moglie alla moglie. Si tratta dell'ennesimo passo fatto nella direzione dell'annullamento del nostro essere in nome dell'accoglienza. Abbiamo cominciato con il cancellare le recite di Natale nelle scuole perché «discriminatorie» nei confronti di bambini e studenti di altre religioni. Abbiamo continuato vietando sempre nelle scuole certi cibi della nostra tradizione perché proibiti in altre religioni. Abbiamo fatto questo ed altro per far sentire «a casa loro» migranti e persone di altre culture, tradizioni, usanze. anche se queste sono barbare ed illegali come creare matrimoni combinati e picchiare la moglie che disobbedisce. Le cronache sono piene di fatti di una violenza inaudita. Settimana scorsa è tornato in Italia il padre di Saman, la ragazza uccisa perché voleva vivere all'occidentale e non sposare il marito che la famiglia aveva scelto per lei. In certe culture si arriva quindi ad uccidere una figlia in nome del rispetto della cultura e delle tradizioni di un altro paese. Sarebbe ora di smetterla di fare passi nella direzione sbagliata. Bisogna fermarsi puntando i piedi su cose che in Italia sono inamovibili: no alla violenza contro le donne, mai, nessuna giustificazione, nessuna comprensione. E se certe cose altrove sono consentite beh, è ora di ribadire a chi arriva nel nostro paese che in Italia ci sono regole diverse e che vanno rispettate. Che non siamo più disposti a metterci in secondo piano, a vendere la nostra storia e la nostra cultura in nome di chissà quale accoglienza. PS. Da 24 ore aspettiamo un'azione di protesta, rabbia, disgusto, da parte del mondo femminista militante. Purtroppo al momento nessuno ha detto nulla e nessuno ha fatto nulla. I casi quindi sono due: o sono d'accordo con il pm di Brescia e anche per le femministe non tutte le donne sono uguali.

La Legge.

Le nuove misure del Governo contro la violenza sulle donne: dal braccialetto elettronico a cartellino giallo. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 7 Giugno 2023  

Il Consiglio dei ministri ha approvato il ddl. C'è l'obbligo di rispettare la distanza minima di avvicinamento di 500 metri dalla vittima. Il Ddl, composto da 15 articoli, punta soprattutto alla prevenzione per evitare che i cosiddetti ‘reati spia‘ possano poi degenerare in fatti più gravi.

Rafforzamento delle misure cautelari, e quindi l’ammonimento, braccialetto elettronico applicato di norma, obbligo di rispettare la distanza minima di avvicinamento di 500 metri dalla vittima e ampliamento delle fattispecie di reato per cui si possono applicare le misure precauzionali, tra cui anche revenge porn e sfregio del viso con l’acido. Sono alcune delle misure contenute nel ddl contro la violenza sulle donne approvato dal Consiglio dei ministri che tra gli obiettivi ha anche quello di velocizzare i tempi per l’applicazione delle misure cautelari, con termini stringenti per pubblici ministeri e giudici, e di dare priorità alla trattazione di processi in materia di violenza di genere e domestica e di rendere specializzati i pm cercando di assegnare sempre agli stessi i fascicoli riguardanti la violenza sulle donne.

Il Ddl, composto da 15 articoli, punta soprattutto alla prevenzione per evitare che i cosiddetti ‘reati spia‘ possano poi degenerare in fatti più gravi. Si tratta di imporre il cosiddetto cartellino giallo all’uomo violento, come lo ha definito la ministra per la Famiglia, Eugenia Roccella. E infatti l’inasprimento riguarda soprattutto chi è già stato destinatario dell’ammonimento e ricade nella stessa condotta, i cosiddetti recidivi. 

Il Ddl contro la violenza sulle donne approvato oggi in Cdm rafforza le misure cautelari, come “il ricorso al braccialetto elettronico e la distanza dell’uomo violento dalla possibile vittima” per la quale viene “inserita una soglia di 500 metri”, ha detto in conferenza stampa la ministra Roccella, spiegando che le nuove misure “velocizzano i tempi di intervento“.

“Abbiamo rafforzato anche l’ammonimento, che è il primo passo che può fare il questore a tutela della possibile vittima, estendendolo ai reati spia” cioè “quei reati che possono configurare una situazione di allarme e consentire un intervento preventivo prima che la situazione si aggravi“, ha proseguito la ministra Roccella.

“Con il ministro Valditara in autunno, per la giornata contro la violenza sulle donne, diffonderemo il testo di legge nelle scuole, dove porteremo anche le persone che hanno subito violenza per spiegare quali sono state le conseguenze. Solo con i racconti delle vittime si può rendere giustizia e alimentare una consapevolezza crescente”, ha sottolineato la ministra per la Famiglia. Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, in conferenza stampa dopo il Cdm, ha detto che “Per quanto le pene siano elevate non costituiscono mai una deterrenza assoluta contro i reati di genere, siamo intervenuti con una legge complessa e articolata ma è solo con una operazione culturale che si possono ridurre, se non eliminare, reati così odiosi“. spiegando che il disegno di legge approvato dal Consiglio dei ministri per rafforzare il contrasto alla violenza sulle donne “è un intervento a 360 gradi, crea fattispecie di reato nuove, inasprisce le pene, interviene sul codice penale, sul codice di procedura penale, e anche sulla normativa antimafia”.

Queste le principali misure introdotte:

1. “Rafforzamento dell’’ammonimento’ da parte del questore. L”ammonimento’ da parte del questore è una misura di prevenzione oggi prevista per tutelare le vittime di atti di violenza domestica, cyberbullismo o atti persecutori (stalking). Lo scopo è di garantire una tutela rapida e anticipata rispetto alla definizione dei processi penali – si legge nella nota di Palazzo Chigi – Quando le forze di polizia ricevono una segnalazione, si attivano delle rapide procedure di verifica che possono portare al provvedimento di ammonimento. La persona ‘ammonita’ deve astenersi dal commettere ulteriori atti di molestia o violenza e può subire il ritiro di eventuali armi, anche se possedute legalmente. In caso di reiterazione della condotta, la procedibilità per i reati previsti non è più a querela di parte ma d’ufficio.

“Con il ddl approvato oggi, si estendono i casi in cui si può applicare l’ammonimento. Si includono adesso i cosiddetti ‘reati-spia’, che avvengono nel contesto delle relazioni familiari ed affettive (attuali e passate): percosse; lesione personale; violenza sessuale; violenza privata; minaccia grave; atti persecutori; diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti; violazione di domicilio; danneggiamento – prosegue il comunicato – Si prevede l’aggravamento di pena quando i reati di violenza domestica o contro le donne sono commessi da un soggetto ammonito, anche se la vittima è diversa da quella che ha effettuato la segnalazione per cui è stato adottato l’ammonimento. Per la richiesta di revoca dei provvedimenti, i soggetti ammoniti dovranno aspettare almeno tre anni e dovranno avere ottenuto valutazioni positive in appositi percorsi di recupero. Inoltre, si amplia la definizione dei reati di ‘violenza domestica’, comprendendo quelli avvenuti in presenza di minorenni“. 

2. “Potenziamento delle misure di prevenzione. Le misure di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza e dell’obbligo di soggiorno nel comune di residenza o di dimora abituale, previste dal Codice antimafia, potranno essere applicate anche agli indiziati di reati legati alla violenza contro le donne e alla violenza domestica (tentato omicidio; lesioni personali gravi e gravissime; deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso; violenza sessuale). Queste misure si applicano indipendentemente dalla commissione di un precedente reato – si legge nella nota di Palazzo Chigi – La sorveglianza speciale di pubblica sicurezza sarà applicata agli indiziati di questi gravi reati con modalità di controllo elettroniche che ne richiedono il consenso. Nel caso in cui tale consenso sia negato, la durata della misura di prevenzione non potrà esser inferiore a due anni e il soggetto dovrà presentarsi periodicamente all’autorità di pubblica sicurezza“

“Inoltre, sarà obbligatorio per il Tribunale (attualmente si tratta di una facoltà) imporre agli indiziati di questi reati il divieto di avvicinarsi a determinati luoghi, frequentati abitualmente dalle vittime, e l’obbligo di mantenere una determinata distanza, non inferiore a cinquecento metri, da tali luoghi e dalle vittime, prevedendo particolari modalità nel caso in cui la frequentazione di tali luoghi sia necessaria per motivi di lavoro o altre esigenze. Si prevede, infine, che in attesa dell’emissione della sorveglianza speciale, il Tribunale, se sussistono motivi di particolare gravità, possa disporre d’urgenza, in via temporanea, il divieto d’avvicinamento. Le violazioni saranno punite con la reclusione da 1 a 5 anni e sarà consentito l’arresto anche fuori dei casi di flagranza“.

3. “Velocizzazione dei processi, anche nella fase cautelare. Si assicura il rapido svolgimento dei processi in materia di violenza contro le donne, ampliando le fattispecie per le quali è assicurata priorità, includendo: costrizione o induzione al matrimonio; deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso; violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa; diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti; stato di incapacità procurato mediante violenza; lesione personale, in alcune ipotesi aggravate (per esempio quando il fatto è commesso contro i genitori, i figli o i coniugi/partner). Sarà assicurata priorità anche alla richiesta e trattazione delle richieste di misura cautelare personale“.

4. “Attribuzioni del Procuratore della Repubblica. Si prevede l’obbligo (e non più la mera facoltà), per il Procuratore della Repubblica, di individuare uno o più procuratori aggiunti o uno o più magistrati addetti all’ufficio per la cura degli affari in materia di violenza contro le donne e domestica”.

5. “Termini per la valutazione delle esigenze cautelari. Si inserisce, nel Codice di procedura penale, un nuovo articolo (Misure urgenti di protezione della persona offesa), con la previsione che il pubblico ministero abbia un massimo di 30 giorni dall’iscrizione della persona indagata nell’apposito registro per valutare se richiedere l’applicazione delle misure cautelari. Ulteriori 30 giorni al massimo saranno a disposizione del giudice per la decisione sull’istanza. Anche qualora il pubblico ministero non ravvisi i presupposti per la richiesta delle misure cautelari, dovrà proseguire le indagini preliminari”.

6. “Violazione degli ordini di protezione contro gli abusi familiari. Si prevede l’applicazione delle sanzioni penali previste per la violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa anche alla violazione degli ordini di protezione emessi dal giudice in sede civile. La pena prevista è la reclusione da 6 mesi a 3 anni, con l’arresto obbligatorio in flagranza“.

7. “Arresto in flagranza differita. Si prevede l’arresto in “flagranza differita” per chi sarà individuato, in modo inequivocabile, quale autore di una condotta (violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa; maltrattamenti in famiglia; atti persecutori), sulla base di documentazione video-fotografica o che derivi da applicazioni informatiche o telematiche (chat, condivisione di una posizione geografica…). L’arresto deve essere compiuto non oltre il tempo necessario alla sua identificazione e, comunque, entro le quarantotto ore dal fatto“.

8. “Rafforzamento delle misure cautelari e dell’uso del braccialetto elettronico. Si prevede l’applicazione della misura cautelare in carcere non solo nel caso di trasgressione alle prescrizioni degli arresti domiciliari ma anche nel caso di manomissione dei mezzi elettronici e degli strumenti di controllo disposti con la misura degli arresti domiciliari o con le misure di allontanamento dalla casa familiare o divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa. Si ampliano al tentato omicidio e alla deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso (qualora commessi in danno dei prossimi congiunti o del convivente), le fattispecie per le quali è consentita l’applicazione della misura dell’allontanamento anche al di fuori dei limiti di pena previsti e si prevede il controllo del rispetto degli obblighi tramite il braccialetto elettronico e la prescrizione di mantenere una determinata distanza, comunque non inferiore a 500 metri, dalla casa familiare o da altri luoghi determinati, abitualmente frequentati dalla persona offesa. Si prevede la possibilità di stabilire la custodia cautelare in carcere anche nei procedimenti per il delitto di lesioni personali, in alcune ipotesi aggravate, e per la violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa“.

9. “Informazioni alla persona offesa dal reato e obblighi di comunicazione. Si estende la previsione dell’immediata comunicazione alle vittime di violenza domestica o contro le donne, di tutte le notizie inerenti alle misure cautelari disposte nei confronti dell’autore del reato, sia esso imputato in stato di custodia cautelare, comprese l’evasione, la scarcerazione o la volontaria sottrazione dell’internato all’esecuzione della misura di sicurezza detentiva. Al fine di potenziare la “circolarità informativa” e la “multi-attorialità” nel delicato campo della violenza domestica o contro le donne, si prevede anche che l’autorità giudiziaria debba effettuare una comunicazione al questore, in caso di estinzione, inefficacia pronunciata per qualsiasi ragione, revoca o sostituzione in melius di misure cautelari coercitive personali, ai fini delle valutazioni di competenza in materia di misure di prevenzione“.

10. “Sospensione condizionale della pena. Si modificano gli obblighi ai quali il condannato deve soggiacere per accedere alla sospensione condizionale della pena. Si integra la previsione per cui, nei casi di condanna per alcuni specifici delitti, la sospensione condizionale della pena è subordinata alla partecipazione a specifici percorsi di recupero, stabilendo che non è sufficiente la mera “partecipazione” ma è necessario anche il superamento dei percorsi con esito favorevole, accertato dal giudice“.

11. “Provvisionale a titolo di ristoro anticipato a favore delle vittime. Si introduce una provvisionale a titolo di ristoro “anticipato”, in favore della vittima o, in caso di morte, degli aventi diritto che, in conseguenza dei delitti di omicidio, violenza sessuale o lesione personale gravissima, e deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso, commessi dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa, vengano a trovarsi in stato di bisogno. Si supera quindi l’attuale limite della necessità dell’acquisizione della sentenza di condanna”, conclude il comunicato di Palazzo Chigi. Redazione CdG 1947

Femminicidio, la stretta di Meloni. Per Elly è la cultura patriarcale. Edoardo Sirignano su L'Identità l'8 Giugno 2023

Elly cambia strategia. Basta dire sempre no, ma analizzare e valutare le singole proposte della maggioranza. È questa la nuova tattica del gotha dem.

La virata della sardina e l’apertura a Giorgia

La segretaria, messa alle strette dalle solite correnti e da sondaggi non tanto favorevoli, deve virare e quindi aprire al governo su quelle battaglie che un tempo appartenevano alla sinistra. Ecco perché la stretta di Meloni per fermare i femminicidi e più in generale la violenza contro le donne non può non piacere al Nazareno. La sardina, senza pensarci troppo, pur sostenendo che l’inasprimento delle pene non basta, convoca una conferenza per approvare quanto deciso dalla maggioranza. La verità è, però, un’altra. La regina progressista è stata costretta dai suoi generali, considerando le ultime sconfitte delle amministrative, a uscire dalla trincea dei compagni e dialogare col nemico pur di sopravvivere. Questa è la lettura di chi nei fatti già parla di resa del nuovo vertice progressista.

La congiura dei riformisti

A spingere tale cambiamento soprattutto quei centristi, che poco si riconoscono con la linea troppo rossa di ha preso il testimone da Letta. Gli ammonimenti di Guerini, Picierno, Serracchiani e via dicendo valgono più di mille parole. Il rischio rivolta è dietro l’angolo. Serve stemperare quanto prima gli animi e sfruttare ogni possibile assist per la pace. Non a caso tra i dissidenti dem, secondo gli ultimi rumors, c’è anche quella Valeria Valente, che ieri sedeva alla destra di Elly. La parlamentare di Napoli, negli ultimi giorni, aveva manifestato più di qualche semplice perplessità sia rispetto a quanto proferito dal partito sulla maternità surrogata che sulle epurazioni degli ultimi giorni. La mancata riconferma a vice-capogruppo del figlio del governatore campano De Luca è solo la goccia che fa traboccare il vaso. La minaccia di Bonaccini, che riorganizza la minoranza, promettendo incarichi, vale più di mille sms inviati sulla solita chat. Lo stesso viceré di Modena, d’altronde, non utilizza giri di parole: “No attacchi a Schlein, ma eviti deriva minoritaria”. Un avvertimento, dopo le uscite abbastanza allarmanti di Guerini e company, che avevano attaccato e non poco la segretaria dopo la bocciatura del rampollo dello sceriffo.

I consigli dei saggi

Una strategia, d’altronde, suggerita dallo stesso Boccia, che grazie alla sua esperienza, prova a mettere in soffitta i problemi interni dando pagelle e dalla scaltrezza del solito Nicolone. Zingaretti, l’uomo che ha permesso a Elly di vincere le primarie, dalle colonne del Corsera, avverte la pupilla: “Basta personalismi. Serve un’agenda”. Fare chiarezza sui temi, d’altronde, è l’unica strada per evitare l’abisso. Il vero problema, a queste latitudini, è appunto l’incapacità di parlare a un popolo che non si riconosce in capi e capetti dell’ultima ora. La sinistra adesso ha bisogno di contenuti come il pane. Non ci sono alibi. Il problema, però, che tale linguaggio non è compreso dai vari generali, compreso l’ex presidente della Regione Lazio. Questi ultimi sono solo interessati alle europee. Perdere ancora qualche punto vuol dire rinunciare a poltrone preziose per chi certamente non può consentirsi il lusso di restare a casa. Stesso discorso vale per quei peones, che intendono, sin da subito, ritagliarsi una casella in vista delle politiche. Il cosiddetto libro bianco è chiaro come importi poco a chi deve solo ritagliarsi un orticello per fare la bella vita da parlamentare.

Ecco perché arriva l’avvertimento di una Elly in crisi alle correnti: “Ci siamo impegnati a garantire il pluralismo”. Il problema, però, è che mentre la padrona dem rassicura i capibastone, il suo appeal rischia di finire ai minimi storici.

I numeri dicono che quando appare sul piccolo schermo la povera Schlein gli ascolti calano. In una minuziosa inchiesta del quotidiano Libero, viene appunto evidenziato come la nuova Iotti quando viene intervistata fa perdere circa 650mila spettatori. C’è chi, quindi, come Brunella Bolloli, parla addirittura di disastro. Una crisi che il Pd non può permettersi.

Non a caso, l’ombra del Nazareno, ovvero il sempre verde Dario Franceschini, chiama il braccio e le chiede di invertire la rotta. Altrimenti quel poco di centrismo che è rimasto a quella latitudini lascerà la casa madre e la povera Elly non dovrà confrontarsi contro la sua imitazione televisiva, da cui pure è uscita sconfitta, ma contro quel blocco cattolico che è stanco di tollerare qualsiasi iniziativa, senza discutere.

Legge contro violenza sulle donne, le misure di sicurezza sono inattuabili. Linda Di Benedetto su Panorama su il 7 Giugno 2023

 Il Governo ha deciso di intervenire con un provvedimento di legge contro la violenza sulle donne che farebbe acqua da tutte le parti. Tra i problemi, spiega il magistrato Diana Russo, ci vorrebbe un incremento del personale.

Il Governo dopo l’agghiacciante omicidio di Giulia Tramontano uccisa dal suo compagno al settimo mese di gravidanza ha deciso di intervenire, con un provvedimento su cui era già al lavoro da tempo e che verrà discusso in Consiglio dei ministri nel tardo pomeriggio. Un disegno di legge contro la violenza sulle donne, che prevede una serie di limitazioni che verrano imposte dai tribunali tra le quali il divieto di avvicinamento nei luoghi frequentati dalle donne sotto protezione, la sorveglianza con il braccialetto elettronico e l’arresto anche fuori dalla flagranza di reato. Nel dettaglio “i luoghi frequentati abitualmente dalle persone cui occorre prestare protezione, e di mantenere una determinata distanza, non inferiore a cinquecento metri, da tali luoghi e da tali persone”. Viene inoltre evidenziato che se sussistono motivi di particolare gravità il presidente del Tribunale potrà disporre la sorveglianza con il braccialetto elettronico, previo accertamento della relativa fattibilità tecnica, (vista la scarsità di tali dispostivi di cui Panorama si è occupato mesi fa). Inoltre tra le novità è introdotte, c’è il mancato rispetto del divieto di avvicinamento che comporta la reclusione da uno a cinque anni e consente l’arresto anche fuori dai casi di flagranza con un aumento delle pene previste dal codice penale se il fatto è commesso, nell’ambito di violenza domestica, da un soggetto già ammonito anche se la persona offesa è diversa. Il Ddl prevede anche norme per rendere più spediti i procedimenti che avranno “trattazione prioritaria” e per monitorare il rispetto dei tempi, il procuratore generale presso la Corte di Appello ogni tre mesi acquisirá dalle procure della repubblica del distretto i dati sul rispetto dei termini. È prevista anche la specializzazione dei magistrati “nella trattazione dei processi in materia di violenza di genere e violenza domestica". Misure che già presentano dei problemi per la loro attuazione. «Bene il DDL ma occorre un incremento delle unità di personale assegnate alle sezioni, considerato l’elevato numero dei procedimenti, specie a fronte dell’introduzione di ulteriori obblighi e termini da rispettare della conduzione delle indagini»-commenta il magistrato Diana Russo Cosa ne pensa delle altre misure ? «Nel corso dei miei oltre dieci anni di esperienza in materia di vittime vulnerabili si sono susseguite numerose riforme volte a ridurre il fenomeno della violenza di genere, in media una ogni due anni. Il fenomeno ha origini culturali e va contrastato non solo sul piano giuridico ma anche e sopratutto in via preventiva sul piano culturale e sociale mentre la specializzazione degli operatori, e in particolare dei magistrati - peraltro già largamente diffusa richiede come le dicevo un incremento di personale». In concreto sono misure che possono essere attuate? «Rispetto ai braccialetti elettronici mi preoccupa la concreta fattibilità vista la limitata disponibilità dei dispositivi. Infine la procedibilità d’ufficio nei reati di violenza di genere (laddove non già prevista) è utile nella misura in cui svincola il magistrato dalla querela di parte, ferma restando la indispensabilità dell’ascolto della vittima e quindi misure di supporto della stessa nel percorso giudiziari».

Sull’argomento abbiamo sentito anche l’avvocato penalista del foro di Roma Tatiana Minciarelli Cosa comporta L’indisponibilità dei braccialetti elettronici? «L’indisponibilità dei braccialetti elettronici è un dato obiettivo e risalente e rischia di compromettere l’applicazione effettiva della normativa, come già avviene per le misure cautelari gradate, adottate per tutti gli altri reati. Tra l’altro, l’applicazione del braccialetto darebbe modo di rilevare in maniera obiettiva anche il superamento del divieto di avvicinamento, ampliato a 500 metri , in mancanza di ulteriori elementi di prova del superamento del limite». Mentre per la flagranza differita? «Più complessa, sotto il profilo sistematico, la configurabilità della flagranza differita, tuttavia già adottata per i reati commessi in occasione delle manifestazioni sportive. Quanto alla previsione di percorsi rieducativi obbligatori, come condizione della concessione della sospensione condizionale della pena, si pone in linea con le finalità costituzionali e riabilitative della pena».

Gli Aguzzini.

Nella testa di un uomo che segrega una donna. Cosa spinge un uomo a trasformare una donna in una prigioniera? Quale piacere provoca? Che problemi nasconde? Cristina Brasi su Panorama il 10 Agosto 2023

Aguzzini, sadici, freddi, spietati, malati. Entrare nella resta di un uomo che trasforma u a din a in una propria personale prigioniera è molti complesso perché sono molteplici le sfaccettature della mente umana coinvolte Nei casi di segregazione, spesso correlati a torture, sono differenti gli elementi di natura gravemente disfunzionale in gioco. Il più semplice da identificare e comprendere, anche per l’abuso recente che viene fatto di questa categoria diagnostica, riguarderebbe il narcisismo maligno patologico. Il comportamento che verrebbe adottato sarebbe emotivamente distruttivo, manipolatorio e seduttivo e, il fine unico, consisterebbe nel prosciugare la vittima di ogni energia vitale, facendola cadere in una spirale di dipendenza affettiva e di impotenza. La caratteristica distintiva che entrerebbe in gioco sarebbe l’assenza di senso di colpa, sia nel momento in cui il soggetto agisce violenza che in quello in cui è atto a mentire. Questo verrebbe reso possibile dalla profonda convinzione che, la persona che gli è vicino, meriti il suo comportamento e la rabbia verrebbe giustificata come una sorta di vendetta per potersi prendere con l’inganno quanto crede spettargli. Il partner diventerebbe così un oggetto di proprietà di cui disporre totalmente sino ad arrivare, in casi estremi, alla segregazione. Il controllo verrebbe agito mediante la “dipendenza affettiva” della vittima, che si caratterizzerebbe per l’incapacità di fare a meno di chi procura il dolore emotivo. I narcisisti patologici creerebbero difatti un trauma in chi sta loro vicino attraverso atteggiamenti manipolatori, l’utilizzo di ricatti e, soprattutto, generando sensi di colpa. Però, per arrivare a segregare e torturare, altri elementi sarebbe coinvolti, come ad esempio il Disturbo Antisociale di Personalità. Per definizione, i soggetti con Disturbo Antisociale di Personalità, presenterebbero assenza di senso di colpa, sarebbero generalmente più aggressivi, manifesterebbero Deficit di Attenzione e di Controllo degli Impulsi, oltre a problemi di natura temperamentale. È ipotizzabile che, in casi di questa gravità, l’insorgere del Disturbo Antisociale di Personalità sia correlato al Disturbo Reattivo dell’Attaccamento (Reactive Attachment Disorder RAD) o al Disturbo da Impegno Sociale Disinibito (Disinhibited Social Engagement Disorder DSED) che si manifestano in età infantile. Il Disturbo Reattivo dell'Attaccamento descriverebbe una condizione in cui il bambino non dispone di una figura di attaccamento. Il Disturbo da Impegno Sociale Disinibito delineerebbe invece uno schema di comportamento socialmente aberrante con adulti non familiari, e riguarderebbe bambini che hanno sperimentato una grave trascuratezza sociale. Si caratterizzerebbe per una ridotta o assente reticenza ad avvicinarsi o a interagire con adulti non familiari. Nei bambini con sviluppo tipico, la paura dell'estraneo si presenta generalmente nell'ultima parte del primo anno di vita e continua a essere evidente a vari livelli nel secondo e terzo anno, con graduale calo negli anni prescolari. Nel DSED, non c'è alcuna paura per l'estraneo, ma anzi, c'è un'attiva ricerca di contatto e d'interazione con adulti sconosciuti. Ci sono evidenze circa il fatto che, alcuni bambini maltrattati, presentino contemporaneamente sia gravi problemi nell’attaccamento che da condotte interpersonali antisociali. L’aggressività diverrebbe così una risposta di difesa nei confronti della mancanza di sensibilità da parte della figura di accudimento, sino a diventare una parte integrante del Sé. Tali elementi sarebbero quelli che darebbero atto ai fenomeni di depersonalizzazione, ossia alla creazione di una sensazione di distacco da sé e dall’ambiente, comportando la creazione di una sorta di barriera nella normale comunicazione. Il soggetto considererebbe i propri sentimenti come unici. Tale vissuto verrebbe rielaborato come risposta negativa da parte degli altri a sé e, in conseguenza di ciò, il soggetto inizierebbe a viversi come escluso, ostracizzato andando ad autogiustificare ulteriormente l’utilizzo del partner come un oggetto di proprietà.

In ultimo, per quanto concerne l’aspetto delle torture, si consideri che gli obiettivi del sadico sarebbero l’annientamento, fisico e psichico, la deumanizzazione della vittima e la sofferenza. Il soggetto sadico godrebbe nel forzare la propria vittima alla sottomissione in quanto, tale atto, gli fornirebbe un senso di appagamento. Il sadico sarebbe caratterizzato da un orgasmo di tipo mentale, dato dall’umiliazione e dalla tortura. Troverebbe piacere nel giocare al “gatto e al topo” con le proprie vittime, fornendo a esse l’illusione che possano salvarsi o difendersi, per poi prendere nuovo piacere dallo sconforto, dalla disperazione, dall’angoscia e dal panico che ne conseguono nella vittima. Per tale ragione la tendenza sarebbe quella di tenere con sé le vittime per un lungo periodo di tempo. I tratti mentali sarebbero caratterizzati dalla tendenza a imporsi sugli altri, a umiliarli e a trarre soddisfazione dalla sottomissione, dal dolore e dalla sofferenza altrui. Il sadismo rappresenterebbe una necessità di affermazione dell’Io, siamo infatti dinnanzi a un ribaltamento del trauma in quanto, gli abusi subiti in epoca infantile, avrebbero generato un senso di impotenza; l’agire e il perpetrare la stessa tipologia di violenza gli consentirebbe di agire un controllo e uscire dall’abuso come vincitore. I meccanismi di disimpegno morale che intervengono sarebbero la colpevolizzazione e la deumanizzazione della vittima. Nella deumanizzazione la vittima verrebbe privata delle sue qualità, mentre nella colpevolizzazione l’attenuazione della responsabilità avverrebbe mediante il ribaltamento della situazione, meccanismo per mezzo del quale la responsabilità dell’offesa verrebbe imputata al destinatario di essa. L’atto violento sarebbe quindi visto, da chi lo ha compiuto, come una logica conseguenza d’azione, giustificando in tal modo una condotta reprensibile. Nell’attribuzione della colpa le vittime verrebbero giudicate responsabili di attirare su di sé il maltrattamento e, questo stratagemma autoassolutorio, farebbe della vittima la vera e propria colpevole.

I Violenti che non ti aspetti.

Violenta lite in strada tra fidanzati: lei gli stacca l'orecchio a morsi. Il Tempo il 09 dicembre 2023

Una lite furibonda tra due fidanzati quella avvenuta  giovedì sera a Genzano tra una coppia di Ariccia. I due dopo una cena al ristorante hanno iniziato a litigare nel centralissimo corso Gramsci. Complice l'alcol, la donna, 40 anni, nella discussione si è scagliata contro il compagno, un uomo di origino romene, colpendolo con una serie di pugni e calci. Non solo. La donna infuriata lo ha morso a un orecchio, staccandogliene un pezzo di netto e provocando una copiosa fuoriuscita di sangue, tanto che l'uomo è anche svenuto cadendo pesantemente a terra.

A quel punto la donna ha smesso di colpirlo mentre alcuni passanti che avevano notato la scena hanno chiamato le forze dell'ordine. Sul posto, riporta il Messaggero, sono intervenuti i poliziotti del commissariato di Genzano che hanno placato la donna. L'uomo è stato soccorso dal personale del 118 che lo ha portato all'ospedale dei Castelli, dove i medici sono riusciti a ricucirgli la parte dell'orecchio destro amputata dal morso dalla compagna. La 40enne è stata condotta in commissariato dove è stata identificata. Il ferito a quanto pare ha preferito non sporgere denuncia. 

Furiosa rissa tra fidanzati in centro: una 40enne stacca l'orecchio al compagno. Calci, pugni e schiaffi in mezzo alla strada: solo l'arrivo sul posto delle forze dell'ordine ha posto fine alla violenta lite. Federico Garau il 9 Dicembre 2023 su Il Giornale.

Un'uscita romantica che si trasforma in una rissa senza esclusione di colpi: si è conclusa così tra calci, pugni e una parte di orecchio staccata a morsi la serata di una coppia di fidanzati di 40 anni di origini romene: l'episodio si è verificato nella serata dello scorso giovedì 7 dicembre in pieno centro ad Ariccia (Roma).

I due, che oramai da qualche anno vivono proprio in una casa nel centro del comune della città metropolitana di Roma, avevano deciso di trascorrere la serata insieme, andando a cena in un locale della vicina Genzano. Dopo aver cenato, la coppia si è diretta verso il centro per fare una passeggiata, ma intorno alle ore 22.00 è iniziata una discussione, che ha in breve assunto toni sempre più accesi. Dopo le urla e le minacce, i due sono passati alle mani. In condizioni decisamente alterate, presumibilmente per l'assunzione di alcol o di sostanze stupefacenti, i 40enni hanno iniziato a darsele di santa ragione nel centrale corso Gramsci, a breve distanza da piazza Frasconi.

Sarebbe stata la donna la prima a partire, e a colpire ripetutamente il compagno con grande veemenza: la romena non si è tuttavia limitata a colpire l'uomo con calci e pugni, ma, completamente fuori di sé, l'ha morso con forza all'orecchio destro fino a staccarne una porzione. Dopo aver perso molto sangue, la vittima è svenuta in mezzo alla strada, cadendo peraltro pesantemente a terra e sbattendo la testa. Tornata in sé, finalmente, la donna si è fermata e non ha continuato a infierire.

Per fortuna del 40enne la scena è stata notata da alcuni passanti, che hanno contattato immediatamente i soccorritori e le forze dell'ordine. In corso Gramsci sono sopraggiunti gli uomini del commissariato di Genzano, i quali hanno dovuto sudare le proverbiali sette camicie per riuscire a bloccarla. Il ferito è stato assistito dal personale del 118, che ha quindi provveduto a trasferirlo in ambulanza presso l'ospedale dei Castelli, dove i medici gli hanno applicato diversi punti di sutura, riuscendo anche a riattaccargli la parte dell'orecchio destro amputata con un morso dalla compagna.

La responsabile è stata condotta in commissariato per le consuete operazioni di identificazione, tuttavia, secondo quanto stabilito dalla legge Cartabia, non è stato possibile procedere d'ufficio con una denuncia nei suoi confronti: solo il ferito avrebbe potuto far qualcosa, querelando la sua compagna, ma, a quanto pare, ha preferito non andare fino in fondo.

I due, peraltro, non sono nuovi a situazioni del genere, stando almeno a quanto riferito agli inquirenti da alcuni vicini di casa. Le liti furiose e le risse sono quasi all'ordine del giorno e ad avere la peggio sarebbe quasi sempre l'uomo. "Litigano spesso, e in più occasioni sono arrivati alle mani. Purtroppo la situazione degenera dopo un eccessivo consumo di vino e birra e in preda ai fumi dell'alcol si arriva alla violenza", spiegano a Il Messaggero i vicini.

Gi. Pi. Ca. per “il Messaggero” - Estratti venerdì 10 novembre 2023.

«Scusate se piango ma sono otto anni che aspetto di parlare in tribunale». Non trattiene le lacrime durante la deposizione in aula l'imprenditore Fabrizio Cherubini, a processo per maltrattamenti ai danni della sua ex moglie, la showgirl Alessia Fabiani. Una storia di accuse reciproche sulla quale a piazzale Clodio vogliono vederci più chiaro. 

Una relazione quella tra Cherubini e l'ex letterina durata sette anni - dal 2008 al 2016 scandita da continui litigi e pesanti incomprensioni. L'imputato racconta al giudice tutti i retroscena di un rapporto burrascoso: «Avevo assunto due collaboratrici domestiche per badare ai nostri bambini che all'epoca avevano tre anni. Lei non c'era mai. Rientrava a casa nel cuore della notte e io non sapevo nemmeno dove fosse stata». 

La situazione degenera nel 2016, quando i due coniugi sono ormai ai ferri corti: convivono ancora nella stessa casa ma dormono in camere separate. «Avevo il sospetto che avesse una relazione extraconiugale, poi ho scoperto che mi stava tradendo con il suo maestro di tennis del circolo Due Ponti Sporting Club di Roma dove andava a fare lezioni al pomeriggio».

(...) 

«A volte rientrava alle 3 di notte con abiti succinti, completamente ubriaca e probabilmente sotto effetto di sostanze stupefacenti», prosegue Cherubini. Ma l'episodio chiave, ricostruito in aula, sarebbe avvenuto la sera del 6 aprile 2016, quando la Fabiani torna a casa a notte fonda e si giustifica dicendo di non averlo potuto avvisare a causa del cellulare scarico: «Lei è andata in bagno e io ho visto che il suo telefono aveva la batteria al 100%», spiega al giudice l'imputato.

Da qui sarebbe nata una violenta colluttazione nel corso della quale, secondo la denuncia della Fabiani, la donna sarebbe stata presa a schiaffi e pugni con i figli che stavano dormendo nella camera accanto. Lesioni che le avrebbero lasciato segni su tutto il corpo e che l'avrebbero costretta a truccarsi per non mostrare i lividi a una premiazione alla quale aveva partecipato solo due giorni dopo la lite. 

«Non è vero nulla, sono io che mi sono dovuto difendere, lei mi ha colpito al volto e ai testicoli con un calcio», si difende Cherubini, che nel frattempo ha presentato una denuncia per falsa testimonianza nei confronti della Fabiani.

Estratto dell’articolo di Giulio Pinco Caracciolo per ilmessaggero.it

Nuove rivelazioni nel processo che vede imputato Fabrizio Cherubini per maltrattamenti ai danni della sua ex moglie, la showgirl Alessia Fabiani. Ieri in Tribunale si è seduto sul banco dei testimoni un amico di vecchia data di Cherubini. «Lo conosco da almeno vent’anni, siamo cresciuti insieme - ha spiegato in aula - e tra il 2009 e il 2016 ho frequentato molto spesso la coppia. […] ». […] Le accuse della soubrette sono molto precise. Pesanti incomprensioni che degenerano in continui litigi fino alle violenze, spesso davanti ai figli o in presenza di altre persone amiche della coppia.

«Ma quali incomprensioni? - rinnega l’amico di Cherubini, testimone chiave della difesa - Tutti sapevano, ma nessuno parlava. A volte ho detto a Fabrizio che era matto, che non poteva accettare quella situazione». Di fronte a questi non detti, il giudice ha sollecitato il teste: «Tutti sapevano che cosa? La prego di essere più preciso nel raccontare la sua versione dei fatti». E così l’imputato viene descritto dall’amico come un uomo innamoratissimo della «sua principessa» e per questo motivo «in grado di accettare e subire i continui tradimenti della compagna, una situazione - secondo il testimone - di dominio pubblico a Roma».

Ed effettivamente a sentire il racconto dell’uomo in aula sembra che la Fabiani in più occasioni non abbia fatto nulla per nascondere alcune sue presunte relazioni extraconiugali: «Un giorno Alessia si è presentata al pub di mio fratello, senza sapere che il locale fosse nostro. Non si trovava in compagnia di Cherubini ma di Berrettini, il suo maestro di tennis del circolo Due Ponti Sporting Club, dove lei andava a fare lezioni. Erano seduti a un tavolo che si baciavano, così ho scattato una foto e l’ho inviata a Fabrizio». Un episodio che non viene collocato in un lasso di tempo preciso, perché il testimone in aula ha ammesso di non ricordarne la data precisa. 

Ma la relazione tra Cherubini e Fabiani già nel 2016 è ormai ai ferri corti: convivono ancora nella stessa casa ma dormono in case separate. «Ma questo non è l’unico tradimento - ha proseguito l’uomo davanti al giudice - Tutti sapevano anche che Alessia aveva un rapporto intimo con un cameriere del ristorante di Fabrizio», episodio in seguito al quale Cherubini, secondo gli inquirenti, avrebbe fatto recapitare alla showgirl una busta con dentro tutti i suoi vestiti.

Ma è sulle violenze che il testimone ha ribaltato le accuse e descritto la Fabiani immotivatamente violenta con l’ex marito. «Non ho mai visto segni sul volto di Alessia – ha concluso il testimone – anzi mi capitava spesso di vedere segni sul volto di Fabrizio. In tanti anni ho assistito solo a un litigio. Una sera lui è a casa mia dopo la chiusura del ristorante. A un certo punto, intorno alle 3 del mattino, citofona la Fabiani. Cherubini scende e io mi affaccio alla finestra per controllare se la situazione fosse a posto. In quel momento ho visto lei sferragli un pugno in pieno volto senza dire nulla». […]

Estratto dell’articolo di Giulio Pinco Caracciolo per “il Messaggero” mercoledì 15 novembre 2023.

«Mi sono inventata tutto, ma avrei preferito di gran lunga che lui mi colpisse con un coltello: meglio una coltellata di tradimento». Con questa testimonianza shock Alessandra (nome di fantasia) ha ritrattato le sue denunce davanti ai giudici della quinta sezione collegiale. Aveva accusato il compagno L.G. di 53 anni per maltrattamenti reiterati nel tempo. In un anno, 2022-2023, numerosissime le richieste di intervento arrivate alle forze dell'ordine.

Presa per i capelli con violenza, strangolata, testa sbattuta ripetutamente contro il tavolo, costretta a subire vessazioni di ogni tipo. E ancora minacce di morte, cacciavite e coltello puntati alla gola, schiaffi, occhiali rotti, ecchimosi e lividi su tutto il corpo. Questo il quadro spaventoso che era emerso dalle parole della donna, portando prima a un divieto di avvicinamento e poi, dopo le indagini, alla custodia cautelare in carcere in attesa di giudizio per l'ex compagno della donna, che è ancora a processo.

Ieri in aula la sedicente vittima, che potrebbe rischiare l'accusa di calunnia, ha esordito in lacrime e spiazza tutti: «Ho inventato tutto io perché ero gelosa e sospettavo mi tradisse. Poi con il passare del tempo me ne sono pentita tantissimo. Ho riflettuto a lungo su quello che ho fatto e soprattutto sulle motivazioni che mi hanno portato a dire delle cose del genere».

Dice di essere attualmente in cura da uno psicologo per capire le motivazioni che l'hanno portata a inventare una cosa del genere. «[…] Ho fatto andare in carcere una persona e questa è una cosa gravissima […] Soffro di sanguinamento dal naso, di epistassi, e in quel periodo utilizzavo quel sangue per fingere di essere stata picchiata […]». Una versione che non convince totalmente gli inquirenti. Alcuni episodi in particolare dimostrerebbero che in quella casa probabilmente non si respirava un clima tranquillo e sereno nonostante le parole della presunta vittima.

Tra i numerosi interventi delle forze dell'ordine, in quella casa alla periferia di Roma, infatti c'è una chiamata da parte dei vicini che una sera hanno sentito delle urla provenire dall'appartamento. «Stavamo guardando un film horror - replica lei cercando in continuazione lo sguardo dell'imputato - E io avevo paura quindi ho iniziato a urlare. 

Quando i carabinieri sono intervenuti si sono messi a ridere. Poi il problema è che i miei vicini sono anche i proprietari del mio appartamento e adesso, dato che la figlia è incinta, stanno facendo di tutto per riprendere la casa e darla a lei per questo mi hanno messo in difficoltà».

[…]  «Credo che lui in fondo mi abbia sempre amata e mi diceva che saremmo tornati insieme». Un comportamento quello di Alessandra riscontrato in tante donne vittime di violenza che ritrattano per paura di perdere la persona amata.

(ANSA venerdì 11 agosto 2023) - È di 21.695 euro il risarcimento che la Corte d'Appello di Bologna ha riconosciuto a un uomo ingiustamente accusato dalla figlia di averla segregata e costretta a un matrimonio e sulla base di questo ingiustamente privato della libertà personale con tre mesi di custodia cautelare in carcere. 

Lo riporta La Nuova Ferrara. L'ordinanza chiude il caso della ragazza marocchina che aveva accusato padre e fratello di averla obbligata a vivere secondo i dettami della religione musulmana, di averla costretta a un matrimonio in Marocco con un cugino, dove era stata tenuta segregata e costretta al lavoro nei campi, minacciata di morte se non avesse seguito i precetti religiosi e le volontà della famiglia.

La donna viveva a Ferrara e fu la polizia estense, muovendosi con l'urgenza dettata dalle regole del "codice rosso" ad arrestare l'uomo e ad applicare il divieto di avvicinamento al fratello, su ordine del magistrato e in base, di fatto, al racconto di quella che allora appariva come una vittima di soprusi in famiglia. Le indagini successive, condotte sempre dalla Questura di Ferrara, hanno poi smontato ogni accusa.

Estratto dell’articolo di Andrea Noci per “il Messaggero” l'11 luglio 2023. 

«Hai 24 ore per mandare tutte le centinaia di scatti che hai fatto, altrimenti io vengo e ti sparo». Minacce di morte su Whatsapp, atti persecutori e un post Facebook al veleno nei confronti della regista e fotografa Francesca Marino, che pochi giorni prima le aveva realizzato un servizio fotografico. La showgirl italo-britannica Lodovica Mairè Rogati torna sotto la luce dei riflettori, non degli studi televisivi, ma delle aule di tribunale. Tra i procedimenti giudiziari subiti, uno aveva infatti portato alla sua condanna a 4 anni di reclusione.

L'attrice 42enne, presidente dell'associazione contro la violenza sulle donne "Io non ci sto", si trova ora a processo davanti al Tribunale di Roma per stalking, con l'aggravante della minaccia grave, e diffamazione a mezzo stampa. È il febbraio 2018. Rogati ha bisogno di un set di fotografie, quindi tra un passaparola e l'altro, si rivolge alla figlia del regista Umberto Marino. Si mette d'accordo per uno shooting di venti foto. Tra una posa e l'altra, l'attrice si sarebbe innamorata del gatto della fotografa, tanto da volere degli scatti insieme al cucciolo. 

«Quella richiesta mi aveva messo a disagio», ha raccontato ieri in aula Francesca Marino. Il servizio fotografico finisce e la vittima si mette a lavorare sulle centinaia di istantanee scattate alla Rogati. Sceglie le migliori, le corregge al computer, per poi consegnare le venti pattuite, alle quali decide di aggiungerne due, quelle scattate insieme al gatto. È a quel punto che sarebbero iniziate le persecuzioni dell'attrice. La fotografa avrebbe dovuto consegnare tutte le istantanee. Questo il motivo delle minacce. «Tu prega solo Dio di non incontrare mai me o il mio compagno per strada» […]

E ancora: «Se ti azzardi a fare anche solo un altro commento su di me, come quelli che mi hanno riferito adesso ti denuncio per diffamazione e calunnia e non solo!». Poi se l'era presa anche con i familiari della fotografa: «Tu sei figlia di qualche fallito artistoide... Io invece di chi ti spacca il c... in Tribunale e ti fa finire a vendere il pesce al mercato». […] Pochi giorni dopo questo primo messaggio ne invia un altro, più esplicito. «Ti sparo a te, al gatto, al nano, a tutta la famiglia di falliti disoccupati, ti sfondo la porta di casa coi fratelli miei e mi porto via il computer e ti do fuoco a tutto!».

Rogati nello stesso messaggio avrebbe fatto capire di poter davvero arrivare a tanto: «Non c'è fretta, io ho già il codice da stamattina per aprire quella sbarra e alle 18 ero lì. E lo posso avere ogni secondo». […]

Uomini (extracomunitari) che uccidono le donne. Rita Galimberti su Panorama il 7 Agosto 2023

Sessantasei omicidi, 25 classificati come femminicidi. Con una componente di reati, commessi per mano di stranieri, che preoccupa e fa sempre più paura

L'ultimo caso, raccapricciante, è quello di Rovereto. Una donna di 61 anni stava rincasando quando, attraversando il parco cittadino, è stata aggredita da un uomo. Giù i pantaloni, calati con forza, e buttata a terra. Il tentativo, vano, di resistere. Calci, pugni, ancora calci e sempre più pugni. Spunta un sasso. Le grida e la scena richiamano l'attenzione dei residenti della zona che chiamano le forze dell'ordine e le ambulanze. Per la 61enne non ci sarà nulla da fare, morirà poco dopo essere arrivata in ospedale. L'uomo, invece, viene fermato. Bloccato con un taser, Nweke Chukwuk nigeriano senzatetto di anni 37, vagava nel quartiere Santa Maria. Indisturbato. L'uomo, se così possiamo definirlo, doveva essere espulso ma si trovava in Italia perché provvisto di "obbligo di dimora". Uno strumento in pieno contrasto con la sentenza di espulsione e che, addirittura, la annulla. Il caso di Rovereto è solo l'ultimo di una lunga lista di omicidi ai danni di donne che hanno bagnato di sangue l'Italia in questa prima metà del 2023. I dati riportati su femminicidi.it, riportano un numero che inorridisce: 66. Da gennaio a oggi, sessantasei donne hanno perso la vita. Di questi casi, 25 vengono classificati come femminicidi. L'ultimo nella lista è quello di Sofia Castelli, 20 anni, brutalmente uccisa a Cologno Monzese dall'ex compagno, Zakaria Atqaoui, 23 anni. Ma continuiamo. 28 giugno. Maria Michelle Causo, 17 anni, detta "Misci". Uccisa a Primavalle, quartiere di Roma, coetaneo della vittima, originario dello Sri Lanka, ma naturalizzato italiano. L'avrebbe uccisa per un debito di poche  decine di euro. Morta per mano di stranieri e dell'ex marito, è anche la 72enne di Conegliano, Margherita Ceschin. Il 7 maggio perde la vita a Torremaggiore in provincia di Foggia Jessica Malaj, 16 anni. A compiere l'omicidio (in cui è stato ucciso anche il compagno della ragazza) è stato il padre della giovane, Taulant Malaj, albanese di 45 anni, di professione panettiere che, non pago di aver già strappato al mondo due vite, avrebbe tentato di uccidere anche la moglie Tefta. E ancora, 6 maggio. Danjela Neza, 28 anni, viene uccisa nel corso della notte a Savona. A compiere l'omicidio, l'ex compagno, Safayou Sow, 27 anni, originario della Guinea. Arezzo, 13 aprile. Brunetta Ridolfi, 76 anni, e la figlia Sara Ruschi, 35 anni vengono uccise da Jawad Hicham, 38 anni, di origini magrebine ma da tempo residente in Italia. Marzo. Zenepe Uruci, 56 anni, viene uccisa il 30 del mese nell'abitazione in cui risiedeva a Terni. A compiere il delitto è stato il marito convivente Xhafer Uruci, albanese. È il 7 di marzo quando invece Iulia Astafieya, 35 anni, originaria dell'Ucraina, viene uccisa a Rosarno, un comune della provincia di Reggio Calabria, dal compagno Denis Molchanov. Arriviamo a febbraio. Yana Malyako, 23 anni e residente a Castiglione delle Stiviere in provincia di Mantova viene uccisa da Dumitru Stratan, 34 anni, originario della Moldavia. Quelli che abbiamo riportato sono solo alcuni dei casi di femminicidio avvenuti in Italia nel 2023 per mano di stranieri. A dipingere un quadro ancor più raccapricciante è il Primato Nazionale che riporta come "dal 2018 al 2021, in Italia, i femminicidi sono stati 657, dei quali 27 sono ancora senza un colpevole. Dei 630 femminicidi dei quali sono stati arrestati gli autori, 142 erano immigrati, ben il 23 per cento". Di un certo impatto anche i dati di Eurispes secondo cui l'aumento costante dei reati predatori, principalmente commessi da individui stranieri, è un fenomeno rilevante. Nel corso del 2022, la popolazione straniera residente sul suolo nazionale ha rappresentato circa l'8,5% dell'intero totale. Analizzando le informazioni relative alle azioni di contrasto intraprese dalle Forze di polizia a livello nazionale, emerge che nel corso del 2022 sono state registrate 271.026 segnalazioni riguardanti cittadini stranieri ritenuti responsabili di attività illegali. Questo valore costituisce il 34,1% del totale delle persone denunciate e arrestate. Tale dato presenta un lieve aumento sia in termini assoluti che in termini di incidenza rispetto all'anno precedente. Nel 2021, le segnalazioni erano state 264.864, rappresentando il 31,9% del totale complessivo. La maggioranza delle vittime coinvolte è di genere femminile, con una percentuale compresa tra il 74% e il 76% per quanto riguarda gli atti persecutori. Nei casi di maltrattamenti all'interno del contesto familiare e conviviale, la prevalenza femminile varia tra l'81% e l'83%, mentre per le violenze sessuali, tale predominanza raggiunge percentuali che oscillano tra il 91% e il 93%. Non vi è dettaglio riguardo alle nazionalità dei perpetratori, ma dati del ministero dell'Interno del 2019 indicavano che oltre il 41% di tali reati era imputabile a individui stranieri.

Spettacolarizzazione.

L'orrore tra Lecce e Brindisi: grave la donna. Accoltella e prova a bruciare la moglie, poi va in ospedale con il peluche della pace: cacciato, si dà fuoco e muore. Redazione su Il Riformista il 3 Giugno 2023 

E’ morto dopo alcuni giorni di agonia in ospedale l’uomo che il 29 maggio scorso aveva accoltellato e provato a dare fuoco alla moglie al culmine dell’ennesima lite avvenuta in casa. L’uomo, un 32enne di nazionalità marocchina, è deceduto al Perrino di Brindisi nelle prime ore di sabato 3 giugno, stesso ospedale dove è ricoverata in gravi condizioni la moglie. Una vicenda raccapricciante quella andata in scena nei giorni scorsi nel piccolo comune di Galatone, in provincia di Lecce.

Il 32enne si è prima scagliato lunedì scorso contro la moglie, accoltellandola e tendando di bruciarla via, con la donna che ha riportato ustioni sul 25% del corpo ed è tutt’ora ricoverata, sempre al Perrino, nel reparto di rianimazione. I medici l’hanno dovuta operare per la ferita da arma da taglio infertale dal marito.

Dopo il folle gesto, l’uomo era fuggito rendendosi irreperibile per quasi 48 ore. Il mercoledì successivo, con tanto di peluche (un orsacchiotto), si era presentato in ospedale, probabilmente per far pace con la moglie. Riconosciuto dagli operatori sanitari, l’uomo è stato allontanato dai vigilanti e, nel parcheggio della struttura, si è poi cosparso di alcol dandosi fuoco e riportando ustioni su circa l’80% del suo corpo, una percentuale che rende quasi nulle le possibilità di sopravvivenza.

“Ha tentato di entrare dall’ingresso principale – ha precisato nei giorni scorsi l’Asl locale– ma le guardie lo hanno fermato. È tornato in auto, ha preso una bottiglia e si è dato fuoco. La vigilanza ha usato gli estintori, uno di loro si è ustionato ed è in pronto soccorso. L’uomo è ora in rianimazione. La moglie è anche in rianimazione in gravi condizioni”.

La Russa: «Se un genitore vede il figlio che manca di rispetto a una ragazza, gli tiri un ceffone». Giulia Ricci su Il Corriere della Sera il 06 giugno 2023

Il presidente del Senato a L’Aria che tira: «Voglio indire una manifestazione di soli uomini contro i femminicidi». L’Autonomia? «Sì, ma se controbilanciata da un esecutivo più forte»

«Se un genitore vede il figlio che manca di rispetto a una ragazza, penso che debba tirargli un ceffone, forte. Se lo ricorderà. Il rispetto deve partire dalle famiglie». Così il presidente del Senato Ignazio La Russa affronta il tema dei femminicidi, dopo il tragico assassinio di Giulia Tramontano da parte del fidanzato, durante L’Aria che tira su La7. E aggiunge: «Vorrei indire una manifestazione di soli uomini per dare un segnale e far capire che c’è bisogno di prendere coscienza di questo dramma, perché è una questione di uomini. Se fossi al governo — aggiunge — sarebbe uno dei temi che cercherei di affrontare con la maggior energia possibile». Ieri all’anniversario della fondazione dei Carabinieri «ho detto che come minimo occorre raddoppiare il numero di Carabinieri che si occupano di reati di genere da 600 a 1.200», ha chiosato il cofondatore di Fratelli d’Italia.

Pronta la risposta delle opposizioni: «Ben venga una manifestazione di uomini contro la violenza sulle donne — commenta la dem Laura Boldrini — nella consapevolezza che bisogna sradicare la mentalità patriarcale che è alla base di questi comportamenti violenti. M a no, La Russa, non si educano i ragazzi attraverso i ceffoni ma facendo capire che deve esserci rispetto alla base delle relazioni». D’accordo sulla discesa in piazza anche la radicale Emma Bonino: «Bene, io da una vita che dico che bisogna coinvolgere gli uomini, d’altra parte non siamo mica noi donne ad andare in giro con la sega elettrica per ammazzare qualcuno. Si convincessero i padri a parlare con i figli, a scendere assieme in piazza, questo sarebbe davvero un bel segnale». E Luana Zanella, capogruppo di Alleanza verdi e sinistra alla Camera, aggiunge: «Vuole la manifestazione? La faccia».

La Russa parla poi di Autonomia, guerra, opposizioni. E lancia frecciate agli alleati europei sul tema dei migranti: «C’è un interesse naturalmente egoistico degli altri paesi. Lo vediamo con la Francia che schiera i militari al confine: è più egoista di noi, si chiude in un bozzolo. Forse la Germania è meno egoista».

Sulla riforma tanto cara al vicepremier Matteo Salvini non si dice contrario, ma pone dei paletti e la collega a quella del presidenzialismo voluta dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni: «Sono eletto a Milano da sempre. Capisco le ragioni della gente del Nord che chiede maggiore autonomia, non sono per nulla contrario, ma deve essere controbilanciata da uno stato in grado di poter mantenere questa autonomia. Ecco perché il rafforzamento dell’Esecutivo va di pari passo».

Poi, le parole sul conflitto in Ucraina: «Tutte le guerre, che chi l’avvia immagina che durino una settimana, non durano mai una settimana. Io mi auguro che questa finisca presto e con la piena restituzione territoriale della parte dell’Ucraina che è stata aggredita e occupata. Vorrei che Putin capisse che non poteva aggredire un popolo innocente, che si ritirasse almeno fino a dove erano il giorno in cui ha iniziato l’aggressione. Se si vuole una mediazione, rimettiamoci in quella posizione, ma non puoi discuterne se nel frattempo i militari russi hanno occupato il Paese».

E infine la stoccata alle opposizioni: da sinistra c’è un «pregiudizio» nei confronti del centrodestra perché si «teme che “questi con noi possono essere dirompenti e ci fanno finire la festa”. Noi non siamo troppo teneri col sistema di potere che negli anni la sinistra è stata capace di occupare nella vita culturale. Il loro è un timore, ma poi nei fatti non c’è nulla»

Il ceffone di Ignazio. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 07 giugno 2023 

Quando penso a un maschio dolce e sensibile, Ignazio La Russa non è quasi mai il primo che mi viene in mente, e fino a ieri ero convinto che la cosa facesse piacere anche a lui. Però negli studi televisivi de «L’Aria che Tira» ha mosso i primi passi un La Russa nuovo. Dobbiamo prendere coscienza che la violenza sulle donne è un problema degli uomini, ha detto, e più che La Russa sembrava un’intercettazione telefonica di Elly Schlein e Laura Boldrini. In un crescendo femminista, ha vagheggiato una manifestazione antiviolenza di soli maschi e ricordato che il rispetto verso le donne deve cominciare in famiglia. Mentre gli spettatori più diffidenti si avvicinavano allo schermo per controllare che si trattasse del vero La Russa e non di una elaborazione al computer governata da un algoritmo progressista, il nostro eroe ha vibrato l’ultimo affondo: «Se un genitore vede il figlio mancare di rispetto a una ragazza, penso che debba tirargli un ceffone, forte». 

Si può dire che è crollato sul più bello? Intendiamoci, molti concorderanno con lui e risfoglieranno nostalgici l’album di famiglia, gremito di padri e nonni dalla mano facile (mio papà se la cavava discretamente anche con i piedi). Ma pensate se La Russa avesse affermato che picchiare un maschio per insegnargli a non picchiare le donne è un modo ben curioso di educare alla non violenza. Adesso ci troveremmo qui a dire che non esiste più alcuna differenza tra conservatori e liberali. Pericolo scampato.

Narcisismo maligno: le caratteristiche, i segnali da non sottovalutare. Danilo Di Diodoro su Il Corriere della Sera il 06 giugno 2023

I recenti fatti di cronaca hanno riportato all’attenzione gli elementi alla base delle relazioni tossiche che possono sfociare nella violenza anche estrema, quasi sempre contro le donne 

Attenzione alle relazioni che sviluppano legami di dipendenza e controllo. Bisogna restare vigili e provare sempre a diagnosticare lo stato della propria relazione affettiva, per evitare di restare intrappolati in situazioni potenzialmente pericolose, come dimostrano i tanti casi di relazioni tossiche che sfociano nella violenza anche estrema, quasi sempre contro le donne.

Chi è il narcisista patologico

«È necessario che le donne imparino, fin dai primi segnali, a “diagnosticare” lo stato della coppia. Soprattutto mai accettare relazioni tossiche per paura di restare sole» dice Vittorio Lingiardi, professore di psicologia dinamica alla Sapienza, Università di Roma, autore di “Arcipelago N. - Variazioni sul narcisismo” (Einaudi, 2021) e “L’ombelico del sogno - Un viaggio onirico (Einaudi, 2023), esperto delle varie forme che può assumere il narcisismo, una configurazione psicologica o psicopatologica che ha molto a che fare con le relazioni di coppia tossiche. «Il rapporto di coppia è uno dei luoghi di massima espressione del narcisismo patologico, un disturbo della personalità caratterizzato dall’incapacità di godere della felicità altrui, da rivalità invidiosa, mancanza di gratitudine e di empatia, ricerca continua di ammirazione, convinzione di meritare ogni privilegio» dice ancora Lingiardi. «In sintesi, scarso interesse per la vita e i sentimenti dell’altro, considerato come un oggetto da manipolare perché produca gratificazioni. Se poi alla personalità narcisistica si aggiunge la componente sadica, e spesso paranoide, il bisogno di manipolare l’altro diventa godimento nel vederlo assoggettato. E quando questo meccanismo di dominio salta — per esempio perché la partner, finalmente, decide di sottrarsi — il bisogno di affermazione di sé può arrivare alla violenza come forma massima di controllo e potere».

Il narcisista maligno

Se la relazione con un narcisista grandioso è di norma dolorosa, le difficoltà e i pericoli maggiori si corrono nella relazione con una persona affetta da quello che viene chiamato «narcisismo maligno». Chi ne soffre, oltre al disturbo di personalità narcisistico ha la tendenza ad avere un comportamento antisociale e pensieri di tipo paranoideo, associati a un certo piacere sadico nei confronti degli altri, che può tradursi anche in vere e proprie aggressioni. «In effetti il danno ricevuto dalla relazione con i narcisisti maligni è devastante» spiega Lingiardi. «Per queste persone gli altri sono solo uno strumento che serve a sostenere un’immagine di sé apparentemente potente, ma in verità molto fragile. Gli altri sono solo prede da soggiogare. Le testimonianze di molte donne mostrano il progressivo isolamento fisico ed emotivo in cui vengono costrette dal partner, isolamento finalizzato non solo alla riduzione o all’annullamento dei contatti con familiari e amici, ma anche all’abbandono di attività lavorative extradomestiche. L’obiettivo, in questi casi, è di eliminare ogni possibile esperienza alternativa alla relazione. In queste coppie, il comportamento degli uomini denuncia la loro stessa dipendenza: senza la loro donna da controllare e dominare, si sentirebbero soli in modo intollerabile. Purtroppo è frequente il passaggio dalla relazione perversa al comportamento criminale, tanto che per molti psicoanalisti il narcisismo maligno è una configurazione psicologica in grado di spiegare la malvagità nei suoi aspetti più calcolati, disumanizzanti, come sempre più spesso fatti di cronaca raccontano».

I fattori in gioco

In effetti si ha la sensazione che le conseguenze negative e drammatiche delle forme estreme di narcisismo siano in aumento , non solo a causa della risonanza mediatica che generano, ma anche per quanto emerge dagli studi sul campo di tipo psicologico. «A questo proposito, va detto che ogni disturbo della personalità è l’esito di un modello bio-psico-sociale, quindi la parte sociale è solo un terzo del problema» conclude Lingiardi. «Resta il ruolo giocato dal temperamento individuale ma anche dalla storia di ciascuno, dalle sue relazioni durante lo sviluppo personale. Ci vogliono veramente molti elementi perché si arrivi a superare lo spiacevole narcisismo della vita quotidiana e arrivare al narcisismo maligno che può intossicare le relazioni fino alla violenza».

Estratto dell’articolo di Flavia Amabile per “la Stampa” il 5 giugno 2023.

Si ama con la stessa superficialità con cui si acquista un oggetto su Amazon. Si osserva il cadavere della fidanzata (e pure del futuro figlio) appena uccisa con lo stesso fastidio di chi ha un problema al rubinetto e cerca su Google il tutorial per ripararlo. È una generazione sempre meno evoluta, sempre più vicina alle specie animali quella che si sta affacciando alla vita matura, secondo Vittorino Andreoli, 83 anni, psichiatra, lucido indagatore della mente umana. 

[…] «La morte ha perduto ogni dimensione del mistero, della sacralità, del punto interrogativo. È diventata banale […] è diventata un mezzo per sbarazzarsi di un ostacolo. […]».

Un meccanismo da videogiochi.

Esatto. I videogiochi spesso si fondano sulla quantità di eliminazioni di immagini umane. Però ci sono anche degli altri elementi da prendere in considerazione. Il tempo, per esempio. Come in un videogioco, la vita viene percepita come una serie di momenti distanziati l'uno dall'altro. Non si va oltre quello che interessa oggi o il fine settimana o, al massimo, le vacanze. Non c'è il futuro, c'è un empirismo esistenziale che è totalmente amorale. […] Non prova alcun senso di colpa, ha solo eliminato un problema. […]». 

Sta disegnando il ritratto di una generazione che vive senza futuro, senza sentimenti, senza credere a nulla, nemmeno all'amore.

«Si è persa completamente la percezione dell'amore. L'amore che noi definiamo come una relazione che aiuta a vivere è un'acquisizione nell'evoluzione delle specie, fa sentire il bisogno dell'altro ed è una prerogativa del genere umano. Tutto questo non c'è più, è scomparsa la cosa più straordinaria, la relazione d'amore in cui uno vuole fare tutto per l'altro, che prova piacere nel generare piacere nell'altro. Adesso, invece, è un'esperienza che non ha la dimensione del tempo ma quella del consumo. È un rito che si brucia in modo estremamente rapido, basta che si dica "mi sono fatto quella"».

È un rito che prevede che la donna sia di proprietà dell'uomo. Purtroppo, nemmeno nelle nuove generazioni si è riusciti a superare questa distorsione che non ha nulla a che vedere con l'amore.

«Non è avvenuto perché la donna è evoluta in questi 20-30 anni, ha fatto passi straordinari dal punto di vista affettivo, del ruolo sociale e del pensiero. L'uomo, invece, non è andato avanti. Avevo un'amica meravigliosa, Ida Magli. Mi diceva: "Vittorino, se il movimento femminista resta staccato dall'uomo non si riuscirà mai a raggiungere la parità anche dei sentimenti". Oggi abbiamo da una parte le donne che possono dire: adesso è finita. Dall'altra ci sono questi omuncoli che non sanno stare senza le donne e non sanno affrontare le difficoltà dei rapporti».

Da che cosa dipende questa incapacità?

«Viviamo in una società che, attraverso gli strumenti digitali, ha sviluppato le facoltà intellettive di capire, di informarsi, ma non ha fatto alcun passo avanti nella capacità di gestire gli affetti. […]». 

[…] «[…] gli manca completamente la relazione dell'amore. Lo considera un consumo». […] «O una bambola di gomma che ha un meccanismo che non funziona più e la vuole sostituire con un'altra. Stiamo regredendo allo stato istintuale, a quelle che sono le pulsioni come nelle specie animali. Stiamo lottando per costruire robot sempre più sofisticati in realtà stiamo diventando noi stessi dei robot perdendo poco alla volta le caratteristiche psichiche che ci differenziano dalle altre specie. […]».

Che cosa si può fare per impedirlo?

«Bisogna fare presto e cambiare completamente i principi dell'educazione. Bisogna insegnare ad affrontare le emozioni a spiegare che non siamo un "io" ma siamo un "noi", la parte di una relazione, perché abbiamo sempre bisogno dell'altro. […]».

Giulia Tramontano, parla Lucia Annibali: “Non è mai colpa delle donne ma stop alla spettacolarizzazione dei femminicidi”. “Non condivido un approccio che trasforma la cronaca nera in rosa. Io parlerei agli uomini, più che alle donne. La società ci costringe a stare attente sempre, anche mentre rientriamo la sera, e non dovrebbe essere così”. Francesca Sabella su Il Riformista il 3 Giugno 2023 

Di violenza, di brutalità, di politica e di carcere. Ma anche di educazione di una società che pare essersi abituata alla morte. Ne parliamo con Lucia Annibali, donna di legge e donna che ha conosciuto la violenza per mano di un ex fidanzato.

Dottoressa, il femminicidio di Giulia Tramontano ci ha fatto piombare tutti nel dolore. Doloroso è anche il sentire comune: lo sapevamo tutte. È l’hashtag che sui social accompagna la foto di Giulia. Lo sapevamo tutte. Un’affermazione che ci porta dritti alla tragica consapevolezza che avevamo ancor prima che il giallo venisse risolto. Vuol dire che stiamo in qualche modo “normalizzando” la morte di una donna per mano del compagno?

«Più che normalizzare quanto accaduto, forse è normale pensare che sia stato il compagno, visto che il più delle volte è così. Quando ci sono casi di questo tipo, cioè quando c’è una donna aggredita o uccisa, ci si aspetta che ci sia il coinvolgimento della persona che le stava accanto».

Ci siamo “abituati” a leggere di donne morte per mano di chi diceva di amarle?

«No. Voglio pensare e sperare di no. Ogni volta che leggo queste notizie, provo un senso profondo di dolore e tristezza, soprattutto in questa storia che racconta di una ragazza uccisa e che aspettava un bimbo. Non bisogna mai abituarsi a questo, anzi, dobbiamo impegnarci di più e fare meglio per questo tema che non racconta di episodi sporadici».

Gli organi d’informazione, come pure la politica, trattano i femminicidi come un’emergenza. I numeri ci dicono, invece, che è una ferita strutturale della nostra società. Basti pensare che, in Italia, solo nel 2022 le donne sono state vittime del 91% degli omicidi commessi da familiari o (ex) partner.

«Sì, è così. La violenza sulle donne è un fenomeno strutturale, non è assolutamente emergenziale. Affonda le sue radici in una disparità di trattamento, di potere economico e culturale. È dalla storia dei tempi che le donne subiscono violenza, un tempo si pensava che certe dinamiche, come il patriarcato, facessero parte della cultura. Noi dobbiamo sradicare proprio questa cultura che rende, non dico normale, ma accettabile il fatto che possano esserci disparità, abusi e soprusi verso le donne. Ma pensiamo anche alle dinamiche interne alle famiglie. Se pensiamo a una donna alla quale non è data contezza del patrimonio o alla quale viene sottratto il proprio reddito per essere gestito dal compagno, anche questa è violenza. Sono tutte forme di controllo e di potere che si esercitano sulle donne. La violenza si nutre proprio di questi stereotipi presenti nella società. È su questi che bisogna lavorare per promuovere una parità reale tra uomini e donne. Ed è un lavoro molto complesso. Non basta intervenire sulle singole norme, aumentare pene o reati ma intervenire sulle dinamiche sociali».

La Pm che ha seguito il caso di Giulia Tramontano in conferenza stampa ha detto, rivolgendosi alle ragazze: “Non andate mai all’ultimo appuntamento”. E il pensiero più diffuso è: insegnate alle ragazze a salvarsi. Le chiedo, quale futuro ha una società che deve preoccuparsi di insegnare alle donne a salvarsi e non agli uomini a vivere e convivere civilmente nel rispetto dell’altro?

«Esatto. Infatti io parlerei agli uomini, più che alle donne. È un consiglio giusto, ma non sempre succede perché è andata a un appuntamento, la mia aggressione non è avvenuta durante un ultimo incontro. Inoltre, diventa l’ultimo con il senno del poi. È vero che bisogna stare attente, quando la violenza si insinua in una storia, quella è una storia pericolosa. E in quel momento non bisogna rimanere sole, non si devono più avere contatti con quella persona. Ma bisogna far capire bene che una donna muore non perché si reca all’ultimo appuntamento o perché è sprovveduta e non si è protetta abbastanza. Muore perché ha incontrato un uomo violento. Punto. Questi consigli sono giusti, ma si tende a spostare l’attenzione sempre sulla donna. Su quello che lei avrebbe dovuto fare. Ma quelle che subiscono violenza fanno già tantissime cose per proteggersi e non dipende da loro se poi succede quello che succede. La società ci costringe a stare attente sempre, anche mentre rientriamo la sera, e non dovrebbe essere così. Insegnerei alle ragazze a costruire la propria libertà, indipendenza. Ma nel momento in cui si incontra un uomo violento, tutto viene sovvertito. Non esistono più delle regole. Starei attenta a chiedere ogni volta qualcosa in più alle donne».

La storia di Giulia, come tante altre, ha mostrato che ancora resiste la spettacolarizzazione del dolore a opera di tv e stampa. La ricerca spasmodica di dettagli, il parere dei vicini di casa, urlare al fidanzato ammanettato: “Hai ucciso tu Giulia?”. Che idea ha?

«Resiste assolutamente il bisogno di raccontare in un certo modo queste storie, di andare a cercare un particolare, una parola, in un momento inopportuno. Non condivido un approccio che trasforma la cronaca nera in cronaca rosa. Ricordo una trasmissione nella quale veniva invitata sempre una signora, che intervistata più volte per la morte della sua vicina di casa, appariva sempre più pettinata, truccata e in tiro. Così si trasforma tutto in uno spettacolo».

C’è poi la tendenza a fare i processi in televisione e non nelle aule di giustizia.

«Sì. Questo è un grande tema. Il voler fare le indagini, le ricostruzioni e quindi poi i processi in tv. Naturalmente non sono d’accordo. Tutto deve svolgersi nei luoghi e nelle modalità opportune. Credo ci sia un dovere di riservatezza anche sul piano giudiziario. Aspetterei anche a dire delle cose alla stampa, a dare in pasto dettagli di una vicenda ancora da chiarire. Diciamo da sempre che un indagato, un imputato, devono avere diritto a una difesa e a tutte le garanzie previste dalla Costituzione. Quindi questo deve valere per tutti, anche per chi ha commesso il crimine più atroce. Deve essere un approccio culturale, giuridico, costituzionalmente orientato e lo stesso vale con chi poi sconta la pena in carcere. È un esercizio difficile, ma è un esercizio di democrazia. È molto facile dimenticarsi di questi princìpi. Io non amo neanche questo proliferare di articoli sulla personalità di chi commette il reato, aggiungere particolari su particolari».

In un’intervista, lei ha spiegato di non condividere la visione “carcerocentrica” e di mal sopportare la dialettica del “marcire in galera”. Nonostante ciò che le è accaduto, è rimasta garantista, non ha ceduto alla tentazione di appiattirsi su posizioni giustizialiste.

«No, non ho mai ceduto a questa tentazione. Credo nel principio del garantismo e nell’idea di un carcere che rieduchi chi ci entra. Chi ha commesso un reato deve mettersi in discussione e migliorarsi. Serve a lui e alla vittima del reato. Penso che un’esperienza di dolore come quella che ho vissuto io, e l’ho vissuta anche da donna di legge, ti metta di fronte alla scelta di voler conservare o meno l’umanità. Sorge la domanda: io ho subìto questo, che cosa ne faccio? E allora diventano anche scelte di vita. Tutto il tema del carcere, deve essere un’occasione per interrogarci sulla propria umanità e su quella della società».

E veniamo alla politica. Contro la violenza sulle donne si è fatto poco?

«Contro la violenza sulle donne, credo si siano fatti tanti passi in avanti. Ripetiamo sempre che la nostra legislazione è una legislazione avanzata e abbastanza completa. Quello che manca è una corretta applicazione delle norme che ci sono. A volte dipende da una non piena capacità di leggere le storie di violenza come il racconto di un possibile reato. E questo perché intervengono gli stereotipi di cui si è parlato prima. Chiaramente, ciascuna parte politica affronta il tema in base alla propria sensibilità e quindi c’è chi ritiene che si debbano aumentare le pene, i reati. Io non credo che questa sia la strada. Manca la capacità di affrontare questo tema a 360 gradi. E cioè sia attraverso interventi normativi sia investendo risorse, perché senza risorse nessuna azione politica produce effetto. Poi, bisogna capire che bisogna intervenire profondamente sulla società, sulla sua organizzazione, sulla sua struttura economica. Quindi, occuparsi di violenza vuol dire occuparsi del mondo in cui viviamo. Manca una visione più ampia che vada oltre la lettura riduttiva della violenza, senza vedere che c’è molto altro».

Chi subisce violenza, infatti, vive un prima e un dopo. Spesso il “dopo” è altrettanto drammatico. Le donne non denunciano per paura di rimanere sole, senza casa, senza denaro per vivere. Mancano delle misure di sostegno per il “dopo”?

«Paradossalmente è spesso la donna a dover lasciare la propria casa ed è spesso la donna a doversi ricostruire una vita, reinventarsi anche una professione. Com’è successo a me. È per questo che bisogna guardare a tutti i pezzi della violenza. C’è un prima, ma poi c’è tutto un dopo, una ricostruzione che va supportata. Proprio per questo Italia Viva aveva proposto il reddito di libertà. Nasceva da questa intuizione e da pratiche che già esistevano. L’idea era di intervenire e aiutare le donne vittime di violenza anche sul piano della violenza economica, perché questo è un grande tema un po’ inesplorato».

Cosa si sente di dire alle donne che stanno leggendo questa intervista?

«Voglio dire alle ragazze di avere sempre cura di sé, di coltivare sempre i loro desideri, di proteggere la loro libertà e di realizzarsi. E poi di non sentirsi mai sbagliate quando incontrano un uomo violento, la colpa non è mai delle donne. Alle ragazze dico: non dimenticate mai il vostro valore».

Francesca Sabella 

Giornalista napoletana, classe 1992. Affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.

Le Disabili.

Violenza sulle donne, chi pensa alle disabili? La legge e il rattoppo. Gian Antonio Stella su Il Corriere della Sera martedì 28 novembre 2023.

La nuova normativa non fa cenno alle persone disabili: ora dicono che si metterà rimedio... Eppure i dati statistici evidenziano che è un’emergenza nell’emergenza

«Ooops! Ce ne siamo dimenticati!». Così è stato risposto a chi ha segnalato come la nuova legge 923 «Disposizioni per il contrasto della violenza sulle donne e della violenza domestica» non fa cenno alle più esposte in assoluto: le persone disabili. Su 2.2018 parole mai una volta che siano stati citati i disabili, la disabilità, l’handicap... Mai. Dicono ora che si farà un rattoppo: «Non si poteva ricominciare l’iter legislativo daccapo». Sarà...

Il nuovo infortunio però la dice lunga sull’attenzione del Parlamento sul tema. Eppure sabato, all’Osservatorio nazionale sulla disabilità, Linda Legname, vicepresidente Uici ha ricordato che «il 36% delle donne con disabilità ha subito violenza fisica o sessuale, con un 6% in più rispetto al 30% delle donne senza disabilità» e «il 10% è stato vittima di stupro, contro il 4,7% delle donne senza». Alessandra Battisti, dell’Istat, è andata oltre: «Solo il 30,1% dei Centri antiviolenza organizza incontri di formazione sull’accoglienza delle donne con disabilità». Di più: solo il 18,6% può fornire supporti e facilitatori. E nelle Isole la percentuale cala all’11,5%. Per favore: alla larga dai proclami elettorali...

Giulia Cecchettin e la demonizzazione del maschio.

La Scomparsa.

Francesco Furlan per repubblica.it - Estratti lunedì 13 novembre 2023. 

I telefoni sono spenti, l’auto, una Fiat Punto, non si trova. Sono ore d’ansia tra Venezia e Padova per la scomparsa di due ex fidanzati, Giulia Cecchettin di Vigonovo (Venezia) e Filippo Turetta di Torreglia (Padova), entrambi di 22 anni, studenti di Ingegneria all’Università di Padova. 

Quello che si sa è che sono stati visti litigare. A riferirlo è stato Andrea Camerotto, zio della ragazza. "Giulia Cecchettin è sparita insieme a un suo ex, collega di studi”, ha detto. “La stiamo cercando e cerchiamo anche Filippo Turetta: si frequentavano dopo essersi lasciati in maniera amichevole. Abbiamo sempre avuto l'impressione che Filippo fosse ancora un pò attratto dalla continuazione della relazione con Giulia". 

La cena e il litigio

Lo zio ha ricostruito le ore precedenti alla scomparsa quando "intorno alle 18, è passato a prenderla Filippo, uscito di casa, secondo i genitori, in maniera tranquilla. I due si sono recati alla Nave de Vero”, ha continuato. Lì hanno cenato e sono stati avvistati, poi hanno fatto ritorno in località Vigonovo e sono arrivati a un parcheggio dietro la casa di fronte alla scuola. 

Sono stati avvistati intorno alle 23.15 e l'avvistamento è legato a un litigio che c'è stato tra i due”, ha sottolineato lo zio di Giulia. “Un vicino, mentre fumava, ha sentito le grida di Giulia, trattenuta in macchina da Filippo, che si è poi dileguato verso la strada che porta al cimitero che può portare in via Vigonovese verso Padova o verso il centro di Vigonovo". 

 “Filippo è passato a prendere mia figlia nel tardo pomeriggio, poi sono andati alla Nave de Vero di Marghera”, ricostruisce anche Gino Cecchettin, il padre di Giulia. L’ultima volta i due ragazzi sono stati visti insieme intorno alle 20 al Mc Dondald’s del centro commerciale. Giulia ha mandato l’ultimo messaggio alla sorella alle 22.43, il telefonino di Filippo è stato agganciato per l’ultima volta intorno alle 23 a una cella telefonica del Comune di Fossó, in Riviera del Brenta, non lontano da dove la ragazza vive con la famiglia. Poi più nulla.

Il padre: “Quando lei lo ha lasciato lui ci è rimasto molto male”

I due sono stati fidanzati fino ad agosto poi lei lo ha lasciato. “Lui però ci è rimasto molto male”, racconta il padre di Giulia, “e in questi mesi qualche volta si sono visti. Non credo alla fuga d’amore, Giulia giovedì si deve laureare in ingegneria biomedica, in questi giorni stava organizzando la festa con gli amici, non è mai successo che si allontanasse così senza dire nulla. Che cosa sia successo non so”. 

(...) 

Gli avvistamenti

Le ricerche dell’auto si sono estese anche al Friuli Venezia Giulia: gli avvistamenti della vettura non sarebbero stati segnalati da passanti, ma registrati dagli occhi elettronici dei dispositivi di letture targhe installati in molti comuni. Il transito della vettura è stato verbalizzato al confine con il Veneto. Zona in cui i carabinieri hanno intensificato le loro ricerche, per ora senza esito. I vigili del fuoco del nucleo regionale del Veneto stanno sorvolando da stamane con un elicottero le province di Treviso e Pordenone.

Scomparsi a Venezia una 22enne e l’ex. La preoccupazione del padre: “Lui non aveva digerito la rottura”. Eleonora Ciaffoloni su L'Identità il 13 Novembre 2023

Si sono dati appuntamento sabato sera alla Nave de Vero a Mestre e poi sono scomparsi: si tratta di Giulia Cecchettin di Vigonovo (Venezia) e Filippo Turetta di Torreglia (Padova) nel Padovano, coetanei di 22 anni, entrambi studenti di ingegneria all’Università di Padova. I due erano fidanzati, ma ad agosto la relazione era finita, Giulia aveva lasciato Filippo. I due, tuttavia, erano rimasti in buoni rapporti e continuavano a sentirsi e vedersi.

Dopo l’ultimo incontro di sabato, i due sono scomparsi. Gli ultimi segnali sono arrivati dai cellulari. L’ultimo messaggio di Giulia è arrivato alla sorella alle 22 e 43 di sabato sera e, anche il cellullare del giovane si sarebbe agganciato, intorno alle 23, a una cella telefonica a Fossò, non lontano da dove abita l’ex fidanzata. Filippo aveva inviato un ultimo messaggio alla madre per avvisare che si sarebbe fermato fuori a cena, poi il silenzio.

Dopo la scomparsa è scattata la denuncia: il padre di Giulia ha formalizzato ieri la denuncia di scomparsa presso la caserma dei carabinieri di Vigonovo. Lo stesso hanno fatto i familiari di Filippo che hanno chiesto il supporto ai militari della stazione di Teolo. La prefettura ha attivato il protocollo di ricerche, non escludendo al momento alcuna ipotesi.

Dal pomeriggio di ieri e per tutta la notte i carabinieri di Venezia hanno lavorato per raccogliere elementi utili al rintraccio dei due scomparsi. Dalle prime ore di oggi è operativo il cane molecolare per la ricerca di persone del Nucleo cinofili di Torreglia.

Ore di angoscia per le famiglie. A parlare il padre di Giulia Cecchettin: “I genitori di Filippo mi hanno detto che negli ultimi giorni il ragazzo mangiava a malapena, era molto giù di morale”, dice ora il padre di Giulia al Corriere del Veneto, “non credo lui avesse mai digerito la rottura del rapporto con mia figlia, temo che questo possa avere a che fare con la loro scomparsa ed è ciò che più mi spaventa”.

Estratto dell’articolo di Marina Lucchin per "il Messaggero" martedì 14 novembre 2023.

Un po' introverso ma di compagnia, tranquillo, appassionato di passeggiate […] ma anche di pallavolo, nonostante l'impegno dell'università l'abbia allontanato dalla palestra. Così descrivono Filippo Turetta gli amici e chi lo conosce bene. 

Ventidue anni, moro, alto e magro, sorridente anche se non particolarmente chiacchierone, il ragazzo abita a Torreglia con i genitori e il fratello minore. Fino a qualche tempo fa vivevano in una casa […] lungo la provinciale che va a Castelnuovo, poco distante dal locale "La Cicogna", che gestisce il papà Nicola. 

Poi, dopo la morte del nonno, […] si sono trasferiti nell'abitazione dell'anziano, in una palazzina in centro al paese. Dopo aver frequentato il liceo scientifico […], Filippo aveva scelto di proseguire gli studi al Bo, scegliendo Ingegneria biomedica, anche perché era sempre stato particolarmente portato per le materie scientifiche. E qui aveva conosciuto Giulia. Prima l'amicizia, poi l'amore che però è stato messo duramente in crisi da alcuni problemi familiari, raccontano gli amici.

[…] «Da quando era morta la mamma di Giulia - spiega Luca - qualcosa era cambiato. Qualche problema, ma in ogni caso niente di particolare. Tanto che erano rimasti in buoni rapporti».  Così buoni che l'altro giorno lui le aveva proposto di andare a mangiare un panino al McDonald […] a Marghera e lei non aveva avuto alcun problema ad accettare la proposta. 

[…] Quel che è certo è che Filippo ovviamente soffrisse per la fine della relazione con Giulia, come hanno confermato i genitori all'Arma, «ma com'è normale che sia per chiunque si lasci dalla morosa» assicurano gli amici. E che fosse un po' in difficoltà con l'università: tutti i colleghi di studio si stanno laureando, mentre lui è indietro di qualche esame, tanto che per un sostegno, qualche tempo fa, si era rivolto anche allo psicologo che svolge il servizio di supporto all'Ateneo.

Estratto dell’articolo di Francesco Furlan per “la Repubblica” martedì 14 novembre 2023.

Ieri mattina avrebbe dovuto spedire gli ultimi appunti alla sua relatrice, ma la mail non è mai stata inviata. Di Giulia Cecchettin, studentessa universitaria di 22 anni al terzo anno di Ingegneria biomedica all’Università di Padova, non si sa più nulla da sabato sera. «Si deve laureare giovedì, in questi giorni ha preparato il rinfresco, la festa. Non può essere un allontanamento volontario. Non riesco a pensare a cosa possa essere successo», dice il padre della ragazza, Gino Cecchettin […]. 

Non si trova Giulia, non si trova il suo ex fidanzato. Filippo Turetta, 22 anni di Torreglia, Colli Euganei. Si sono conosciuti all’Università, si sono frequentati per più di un anno, si sono lasciati ad agosto. Interrompere la relazione ma non l’amicizia, è stata la decisione di Giulia.

«Lui l’aveva presa male, lei voleva comunque stargli vicino, studiano insieme», aggiunge il padre della ragazza. Sabato sera i due ex fidanzati si sono dati appuntamento. Filippo  […] ha raggiunto la casa di Giulia verso le 18 e insieme sono andati a cenare al McDonald’s del centro commerciale La Nave de Vero, a Marghera. […] È qui, seduti ai tavolini del Mc, che li hanno visti insieme, all’ora di cena. Dove siano andati dopo è quel che stanno cercando di ricostruire i carabinieri del comando provinciale di Venezia. Alle 22.43 l’ultimo messaggio di lei alla sorella Elena, un commento su un vestito. Poi i telefoni […] si spengono.

C’è però una testimonianza, ritenuta attendibile dalla famiglia Cecchettin, di loro due, intorno alle 23.15, nel parcheggio vicino alla scuola dell’infanzia San Giovanni Bosco, a Vigonovo, non lontano dalla casa di Giulia. 

«C’erano due ragazzi, stavano litigando. Lei ha urlato e ha chiesto aiuto, lui l’ha strattonata e fatta risalire in auto. Poi è partito a gran velocità». A raccontarlo, sia al papà di Giulia che ai carabinieri, è stato un uomo che stava fumando una sigaretta nel terrazzo di un condominio lì vicino. Ha assistito alla scena, ha telefonato al 118. Ma quando i carabinieri sono arrivati nel piazzale, l’auto non c’era più. […] E poi c’è il giallo di quelle macchie di sangue, almeno otto, individuate lungo la strada della zona industriale di Fossò, tra le aziende calzaturiere del Brenta. Sette minuti d’auto da Vigonovo.

[…] Nell’ultimo periodo, raccontano gli amici, Filippo era molto giù di morale, mangiava pochissimo. «Può essere che sabato qualcosa sia andato storto, ma si può mettere a posto», dice lo zio di Giulia, Andrea Camerotto, lanciando l’ennesimo appello, sperando che ad ascoltarlo siano anche i due ragazzi: «Stiamo cercando Giulia E anche Filippo».

Estratto dell’articolo da ilrestodelcarlino.it mercoledì 15 novembre 2023.

É finito il colloquio in caserma con la famiglia Cecchettin, il papà di Giulia ha consegnato il pc della figlia in caserma: “Giulia deve tornare”. La sorella Elena: “Ho paura che Filippo le abbia fatto del male”. L'appello della zia Elisa: "Filippo, chiedi aiuto". Intanto l’Università di Padova ha depennato il nome di Giulia dall'elenco dei laureandi. 

È iniziato il quarto giorno di ricerche dei due ragazzi scomparsi. Gli elicotteri stanno sorvolando un’area molto vasta: dal paese veneziano di Vigonovo alla provincia di Treviso. I carabinieri: “Non sono in Friuli”. Gli inquirenti stanno passando al setaccio i punti in cui sono stati avvistati Giulia Cecchettin e Filippo Tureta, gli ex fidanzati che sembrano spariti nel nulla da sabato sera. 

Al momento l’indizio più forte, ma anche il più drammatico nel caso si rivelasse una pista plausibile, è il campione di sangue prelevato dalla zona industriale di Fossò: 9 macchie sull’asfalto nel luogo in cui il cellulare di Filippo ha agganciato la cellula telefonica per l’ultima volta. Si attende l’esito del Dna.

[…]

Archiviate le segnalazioni di avvistamento dei due ragazzi, arrivate a pioggia nelle ultime ore. Da chi sostiene di avere visto Giulia sul treno all’auto nera – la Fiat Grande Punto di Filippo, sulla quale si pensa stiano ancora viaggiando i due ex fidanzati – avvistata in diverse zone del Friuli. I carabinieri di Pordenone hanno reso noto che si sta procedendo con “attività sulla base delle segnalazioni ricevute, ma ad oggi non c'è alcun riscontro della presenza dei due soggetti nel territorio”. 

I ragazzi non si trovano e il mistero si infittisce. Possibile che stiano ancora viaggiando in auto senza mai aver fatto benzina o avere prelevato denaro da un bancomat? Oppure che abbiamo spostato delle somme sulle App di pagamento? “Le segnalazioni di avvistamenti dell'auto ricevute in seguito non hanno invece avuto riscontro – precisano dal comando dell'Arma di Pordenone – sono state archiviate come senza esito”.

Il papà di Giulia è andato a casa a prendere il computer di Giulia, poi è rientrato in caserma. Segno che gli inquirenti sono alla ricerca di qualsiasi traccia possa chiarire il giallo della scomparsa dei due ex fidanzati: sia spera che dal pc possano emergerege elemnti utili, finora sottovalutati dalle indagini. 

Estratto dell’articolo di Giorgia Zanierato per corriere.it mercoledì 15 novembre 2023.

L'università di Padova ha formalmente «congelato» l'iter per la laurea di Giulia Ceccettin. La studentessa, evidentemente impedita, non ha completato l'ultimo «step» amministrativo, quello della sottomissione dell'ultima versione della tesi nel sistema dell'ateneo. Il nome della giovane scomparsa non è più tra quelli nell'elenco della sessione di laurea prevista per domani, giovedì 16 novembre.  Secondo quanto riferito dal Dipartimento di ingegneria dell'Informazione, l'iter per la laurea procedeva regolarmente. 

Nel pomeriggio di sabato 11 novembre, prima della sparizione, Giulia aveva inviato alla relatrice la versione finale della sua tesi, per l'ultima lettura e controllo. Lunedì, due gioni fa, la docente le avrebbe comunicato di caricare il file sul portale di ateneo, così da farlo approvare, cosa che non è avvenuta. Ufficialmente, quindi, la 22enne di Vigonovo non figura più nella lista degli ammessi alla sessione di laurea. Il Dipartimento padovano è comunque disponibile a discutere una possibile riammissione all'ultimo momento, vista la circostanza eccezionale. 

Anche Filippo Turetta stava facendo un percorso di studi identico a quello di Giulia: iscritto al terzo anno dello stesso corso di laurea, aveva svolto gran parte degli esami.

«Filippo non era contento che Giulia si laureasse domani perché temeva che si potesse allontanare da lui»: a raccontarlo ai giornalisti è Elisa Camerotto, la zia materna di Giulia Cecchettin. 

La sorella di Giulia, Elena, delinea un'immagine di Filippo come di una persona «molto possessiva che giocava con lei ricattandola emotivamente per continuare a vederla. Lei era buona e cedeva - prosegue - perché sapeva che lui era tanto solo e calcava molto su questo fatto dicendo "se te ne vai anche tu io non ho più nessuno"». Elena aggiunge che Filippo «si mostrava felice solo quando era con lei». La zia materna di Giulia ha voluto rivolgere proprio a lui un appello: «Io so che le volevi molto bene. Ora torna a casa, tutto si risolverà per il meglio».

Andrea Pasqualetto per il Corriere della Sera - Estratti mercoledì 15 novembre 2023.

C’è quell’urlo di Giulia: «Lasciami!». Il litigio, una spinta, lei che sale controvoglia nella Punto e un testimone che vede la scena. Sabato scorso, ore 23.15, parcheggio di Vigonovo. Giulia Cecchettin abita 200 metri più in là, in questo paese della Riviera del Brenta che è terra di calzaturifici e ville venete. 

Ci sono poi le immagini di una telecamera che riprende l’auto nel piazzale della Christian Dior a Fossò, il paesello accanto, dove gli inquirenti hanno trovato del sangue, mandato subito al Ris per le analisi.

E c’è la fuga nella notte della Punto nera ammaccata che attraversa campagne e piccoli centri del Veneto orientale e del Friuli e che è stata segnalata anche su in montagna, dalle parti di Cortina e in val Pusteria. Poi, da domenica scorsa, più nulla. 

Che fine hanno fatto Giulia Cecchettin e Filippo Turetta? Le telecamere degli impianti di videosorveglianza stradale restituiscono solo un numero di targa. Non ci sono immagini dell’abitacolo. C’era anche Giulia? «È la nostra speranza», sospira il carabiniere che teme però il peggio. In questa grande caccia all’auto è sceso in campo anche il generale Nicola Conforti che a Venezia comanda gli uomini dell’Arma e ora coordina l’attività investigativa su più province: Venezia, Treviso, Pordenone, Belluno, Bolzano. «Chi avvista qualcosa parli», è il refrain.

Nel frattempo, mentre gli elicotteri sorvolano il Pordenonese, i vigli del fuoco perlustrano le acque del Brenta e questo la dice lunga sui sospetti. «Non si lascia nulla di intentato», aggiungono con prudenza. Ma cercano un corpo. Perché l’ipotesi che nessuno può sottoscrivere ma che tutti hanno nella testa è quella: l’ha uccisa ed è fuggito. «Sia chiaro che noi ci auguriamo di trovarli entrambi vivi», ripetono quasi a scacciare i cattivi pensieri. 

Dietro i neri presagi c’è la storia semplice di questi due giovani universitari che si sono conosciuti tre anni fa nelle aule padovane di Ingegneria biomedica. Si sono piaciuti, sono stati fidanzati per un annetto, lasciandosi un paio di volte, l’ultima lo scorso agosto, senza però mai perdersi di vista.

«Si vedeva però che lui ci teneva ancora e molto a lei», ha detto la nonna di Giulia ricordando che la nipote ha subito lo scorso anno la perdita della madre. «E nonostante il lutto è riuscita a portare a termine gli studi». Avrebbe dovuto laurearsi domani. «Era tutto pronto per la festa: il vestito, il rinfresco, gli inviti», racconta lo zio Andrea. Sabato scorso voleva prendersi un paio di scarpe per l’occasione e per questo motivo Filippo l’aveva accompagnata al centro commerciale Nave de Vero, a Marghera. Lì si sono presi un panino da McDonald’s dove entrambi vengono immortalati dalle telecamere intorno alle otto di sera.

L’ultimo messaggio alla sorella Elena

L’ultimo messaggio di Giulia è delle 22.43, alla sorella Elena che ora è preoccupatissima: «Cerco di restare ottimista ma con le dinamiche che ho visto nel rapporto con Filippo è naturale che pensi anche alla cosa più brutta». Filippo avrebbe dovuto riaccompagnarla per poi tornare a casa sua, sui Colli Euganei, dove il papà gestisce un ristorante.  

(...) 

 «Aveva sofferto l’ultima chiusura di Giulia», racconta Luca, l’amico di sempre. Per ritrovare se stesso si era affidato allo psicologo dell’università. «Sembrava essersi ripreso». Ma chissà cosa aveva davvero dentro. Lui sognava di fare l’ingegnere. Giulia no: la fumettista. «Intanto si sarebbe presa la laurea breve». A casa Cecchettin è tutto pronto per la festa.

Cosa nostra. Storia di Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 18 novembre 2023.

Siamo ancora qui. A raccontare di un ragazzo italiano del ventunesimo secolo — sto parlando di una delle immeritate celebrità mediatiche di questa settimana, Filippo Turetta — che tormentava l’ex fidanzata Giulia Cecchettin per pura smania di possesso e di controllo. Di un giovane nato e cresciuto in una società aperta, dove da ogni parte si ribadisce la superiore bellezza di un legame paritario e non proprietario, che aveva avvolto la sua ragazza nelle ragnatele di un egoismo spacciato per afflato sentimentale e poi trasceso in violenza.

Ci si domanda, più rassegnati che sorpresi: a che cosa sono servite le migliaia di prediche laiche, compresa questa, e le tantissime battaglie sulla parità di trattamento, persino nelle regole grammaticali, se poi troppi giovani maschi continuano a comportarsi come il marito del film di Paola Cortellesi, ambientato però nell’Italia di quasi ottant’anni fa? Se le ragazze che subiscono un certo genere di attenzioni invadenti e morbose hanno ancora paura a parlarne o non vengono credute? Se in tante, troppe canzoni conosciute a memoria dai giovanissimi si inneggia alla gelosia possessiva come a un indice di vero amore? Se di recente un avvocato difensore ha sentito il bisogno di scrivere in un esposto che il suo assistito aveva aggredito il rivale di cuore perché considerava la ragazza contesa «cosa sua»?

Cosa sua. Ma davvero nel 2023 bisogna ancora spiegare che l’amore consiste in un paio d’ali e non in un lucchetto? 

Giulia Cecchettin tenta la fuga, Filippo Turetta la colpisce e la carica sull’auto inerme: cosa è successo e cosa si vede nel video. Storia di Andrea Pasqualetto, inviato a Venezia, su Il Corriere della Sera il 18 novembre 2023.  

«Poneva in essere atti idonei e diretti in modo non equivoco a cagionare la morte colpendola al fine di evitare che la stessa fuggisse». Lo scrivono i magistrati di Filippo Turetta, il ventiduenne padovano indagato per tentato omicidio nell’ambito dell’indagine sulla scomparsa di Giulia Cecchettin. Alla base del provvedimento c’è l’ipotesi che Turetta possa essere fuggito all’estero, considerato che di lui si sono perse la tracce.

Nel mandato ripreso dalla telecamera esterna dello stabilimento Christian Dior di Fossò, il paese della Riviera del Brenta dove sabato scorso è culminata la lite fra i due giovani. Vengono inquadrati proprio nella strada della zona industriale dove sono state rinvenute le chiazze di sangue e i capelli sui quali saranno fatti gli accertamenti irripetibili da parte del Ris.

Il video

Premessa degli inquirenti: «Le immagini non sono nitidissime». Ma la dinamica è chiara. Si vede la lite e si vede Giulia che viene colpita da Filippo. La ragazza poi fugge, lui la rincorre, la raggiunge e la aggredisce con violenza. Tanto che lei cade. «Come conseguenza della propria azione le produceva ulteriori ferite e ulteriori sanguinamenti - scrivono - che determinavano che la parte offesa rimanesse a terra apparentemente esanime mentre Turetta caricava il suo corpo nella propria auto, allontanandosi dal luogo dei fatti e rendendosi immediatamente irreperibile». Una scena dura, nella quale si fatica a riconoscere il rispettoso e bravo ragazzo dipinto in questi giorni un po’ da tutti, compresi i parenti di Giulia.

Lo scontro

Lo scontro, diventato furibondo, era iniziato mezz’ora prima, a qualche chilometro di distanza, dietro l’abitazione dei Cecchettin. Lì, a riprendere le immagini, non c’era una telecamera ma gli occhi sorpresi di un vicino di casa affacciato alla finestra. «Li ho visti discutere accanto a un’auto scura. Lei gli diceva “lasciami”. Lui l’ha presa per il braccio e l’ha costretta a salire in macchina». L’uomo però non sapeva chi fossero, tanto che non c’è l’assoluta certezza che si tratti di Giulia e Filippo. Lui ha comunque denunciato il fatto ai carabinieri. Orari e luoghi sono stati considerati compatibili dagli inquirenti.

La festa per la laurea

E pensare che quel sabato sera doveva essere di preparazione alla festa di laurea in Ingegneria Biomedica di Giulia, prevista per giovedì scorso all’università di Padova. Era già quasi tutto pronto: il vestito, il rinfresco, gli inviti. A Giulia mancavano solo le scarpe. Filippo, con il quale aveva avuto una relazione terminata lo scorso agosto per volontà di lei, non vedeva l’ora di accompagnarla al negozio. «Sperava sempre che tornasse con lui», dicono gli amici. Quella sera, dopo qualche insistenza, lei ha detto sì. Le tappe della serata sono state così ricostruite: alle 18 Filippo passa a prenderla con la sua Fiat Grande Punto nera un po’ scassata, destinazione il centro commerciale di Marghera «Nave de Vero»; alle 20 i due giovani vengono ripresi dalle telecamere del McDonald’s mentre stanno cenando e sembrano tranquilli; alle 22.43 Giulia invia un messaggio whatsapp alla sorella Elena chiedendole un parere sulle scarpe. Lei le risponde subito ma Giulia rimane in silenzio.

Cellulari spenti

«Non era la prima volta che succedeva, a volte le si scaricava il cellulare e quindi non mi sono preoccupata». Alle 23 i cellulari di Giulia e Filippo agganciano per l’ultima volta una cella telefonica, quella di Fossò. Subito dopo iniziano a litigare, fino a che tutto precipita in quella strada grigia fra i capannoni della Riviera del Brenta. Lui la colpisce, forse a mani nude, la carica in macchina e da quel momento inizia un’altra storia, raccontata dalle telecamere che fotografano la targa della Punto in fuga verso l’Alto Adige e, in qualche caso, riprendono la vettura in movimento. Giulia dov’è?

Giulia Cecchettin, 20 fendenti contro di lei. Il papà: il suo sacrificio non sia vano. Il Tempo il 20 novembre 2023

 Sono più di venti le coltellate che hanno ucciso Giulia Cecchettin. Il medico legale che ha effettuato l’ispezione cadaverica sul corpo della 22enne, ne ha repertate diverse su varie parti del corpo, sparse fra la testa e il collo, dove si ipotizza possa essere stata sferrata una di quelle rivelatesi mortali. Solo in sede di autopsia, prevista già questa mattina, potrà essere stabilito con certezza quanti sono stati i fendenti inferti dalla mano del presunto assassino e, in quella sede, si potrà circoscrivere l’ora della morte. Questo elemento sarà fondamentale per stabilire la competenza territoriale della procura e del tribunale dove si incardinerà il processo per omicidio nei confronti di Filippo Turetta.

Approfondimenti investigativi da parte dei carabinieri inoltre sono in corso su una lama di coltello spezzata ritrovata nella zona industriale di Fossò e su alcuni sacchi di plastica neri sequestrati sul fossato del lago di Barcis, a poca distanza dal cadavere di Giulia. La famiglia della ragazza ha accolto la notizia dell’arresto con «grandissima dignità». A dirlo ai cronisti davanti la casa della giovane trovata morta nella zona del lago di Barcis è stato il comandante provinciale di Venezia, Nicola Conforti che ieri mattina è arrivato a casa di Giulia per comunicare ai familiari l’arresto di Filippo. La sua cattura «è stata una grande risposta, è un risultato importante», ha detto il legale della famiglia Cecchettin, Stefano Tigani. «È stata una settimana pesantissima, si chiude un cerchio. Solo l’iter processuale ci potrà dire cosa è successo», ha spiegato e ha aggiunto che almeno «abbiamo riportato a casa Giulia, purtroppo però senza vita».

È una comunità sconvolta quella di Vigonovo. In migliaia hanno partecipato ad una fiaccolata. Amici, amici, parenti e conoscenti si sono stretti intorno al dolore della famiglia Cecchettin. Tanti applausi e molte lacrime hanno solcato il viso dei presenti, compresi quelli della sorella e del papà di Giulia. Elena e Gino si sono commossi in un abbraccio. Poco prima avevano espresso il desiderio che il sacrificio della loro amata Giulia «non sia vano». «Vogliamo guardare al futuro perché Giulia non tornerà. Abbiamo tanta strada da fare, da questa vicenda deve nascere qualcosa», ha detto Gino spiegando che «come famiglia ci impegneremo perché non succeda più quello che è successo a Giulia». Anche la sorella Elena spiega come sia necessario «proteggere le ragazze del futuro e del presente». Per tutta la giornata c’è stato un viavai continuo fuori dalla villetta a due piani di via Aldo Moro 12 da cui sabato Giulia è uscita, senza fare più ritorno. Sono tantissimi i fiori, i peluche e i biglietti intorno alla casa mentre sul cancello ci sono ancora i fiocchi rossi che la sorella aveva sistemato giovedì, il giorno della discussione della tesi di Giulia. Durante il pomeriggio arriva Luca, un giovane architetto. Ha in mano una corona di alloro, quella della sua laurea. L’ha portata per «donarla a Giulia se la famiglia la vorrà conservare» anche se «sarebbe stato bello se l’avesse ricevuta da suo padre». Tantissimi sono i bambini che insieme ai genitori vengono a lasciare una rosa o un biglietto. Uno di loro porta tra le mani una foto di Giulia e preso in braccio dal papà la appende sul cancello.

È stato proprio il bambino a esprimere il desiderio di portare la foto della giovane uccisa. Un gesto che - secondo il papà, un vicino di casa della famiglia Cecchettin- è importante «per insegnargli a essere uomo per far sì che queste cose non succedano più. È l’unica cosa che possiamo fare», spiega ai cronisti. Con il suo bambino tra le braccia esprime il dolore di non essere «riuscito a proteggerla. La sera usciamo sempre con il cane tardi, quella sera siamo usciti prima» e si chiede se «forse avremmo potuto salvarla». 

La morte ed il ritrovamento del corpo.

Come è morta Giulia Cecchettin: Filippo Turetta «aveva pianificato qualcosa, magari non di ucciderla ma di andarsene con lei». Alessio Antonini e Andrea Pasqualetto su Il Corriere della Sera il 19 novembre 2023.

Dall’incontro alla caccia, le tappe dell’orrore. Ecco cosa è accaduto in una settimana

La laurea dopo qualche giorno, la vicina partenza per Reggio Emilia, il sogno di frequentare la scuola di disegno che si stava per realizzare. Quel sabato doveva essere un giorno bello, di preparativi per la festa, le scarpe giuste da comprare. «Ma Filippo non voleva il distacco», sospira Elena, la sorella di Giulia che non vedeva bene quel rapporto con l’ex. E così, dopo il panino preso insieme al McDonald’s di Marghera alle 8 di sera, le paure del giovane universitario sono diventate anche le paure di Giulia.

Il piano

«L’ipotesi è che aveva pianificato qualcosa, magari non di ucciderla ma di andarsene con lei», scrivono gli investigatori che stanno lavorando al caso. Alle 22.43 di sabato Elena riceve un messaggio: «Mi ha chiesto un consiglio per le scarpe ma non ha più risposto». Chiedeva sempre qualche consiglio a sua sorella. Il punto di discordia era Filippo. «Non uscire più con lui». «Mi dispiace lasciarlo da solo, dice che la sua vita non ha più senso senza di me». E così usciva anche dopo che l’aveva lasciato, come quel sabato.

La lite

La discussione fra i due si fa accesa al parcheggio accanto alla casa di Giulia, nel centro di Vigonovo. «Lasciami! Mi fai male!», la sente urlare un vicino affacciato alla finestra. È l’inizio della fine. Filippo riesce a caricarla in macchina, fa pochi chilometri e infila una strada deserta della zona industriale di Fossò, fermandosi davanti allo stabilimento della Christian Dior, dove c’è qualcuno che li guarda: l’occhio di una telecamera di videosorveglianza. Seppure un po’annebbiato e traballante, l’occhio registra in bianco e nero una scena sempre più cruenta: i due litigano animatamente all’interno dell’auto, muovono le mani, poi Filippo sembra colpirla, uno schiaffo o un pugno. Lei scende dall’auto, scappa, lui che la insegue, la prende per il cappuccio del giaccone, impugna qualcosa, forse un coltello, e la colpisce violentemente. Giulia cade a terra, sanguinante ed esanime. Filippo si guarda intorno, la prende per i piedi, la trascina fino al retro della Punto, apre il portabagagli e, magrolino ma energico, trova la forza di sollevarla e gettarla dentro.

La folle fuga

E da lì parte la grande, folle fuga di questo studente universitario che tutti ricordano buono e rispettoso. «Non si sa se la ragazza sia morta prima o durante il tragitto o dove è stata rinvenuta», prosegue l’investigatore. Certo è che Giulia non si è più ripresa. Il viaggio ha una meta: lago di Barcis, uno specchio d’acqua artificiale nel cuore della Valcellina. Posto che lui conosce perché da quelle parti era andato a fare trekking. Sono 120 chilometri e un’oretta e mezza di macchina, se si fa il percorso più breve. Ma lui evita le autostrade e sceglie le provinciali, meno trafficate. Dopo un’oretta, a mezzanotte e tre quarti, la Grande Punto nera viene ripresa da una telecamera del Comune di Zero Branco, nel Trevigiano. Prosegue verso il Friuli e intorno alle due di notte passa a Caneva, vicino a Sacile. E fin qui, più o meno, gli orari tornano a una velocità medio bassa. Significa che probabilmente Filippo non si è mai fermato. Nessuna anomalia fino a Piancavallo, a oltre mille metri di quota, dove arriva alle tre di notte.

Il lago

La stranezza viene dopo. Perché il sistema di rilevamento targhe di Palafavera, in val Zoldana, registra il suo passaggio alle 7.37 del mattino. Troppo tardi. Quasi cinque ore quando normalmente se ne impiegano due. Il motivo? «Doveva liberarsi del corpo di Giulia», hanno pensato subito i carabinieri che indagavano e così si sono messi a perlustrare l’area. Fra le due località ma molto più vicino a Piancavallo, c’è il lago di Barcis, dove sapevano che lui era stato. E lì uomini dell’Arma, carabinieri e Vigili del Fuoco hanno preso a battere palmo a palmo la montagna. Fino a scoprire il corpo senza vita della ragazza. «È andato in auto fino a un certo punto, poi l’ha trascinato in un dirupo nascondendola molto bene con un paio di sacchetti neri», conclude l’investigatore. Ventidue anni, la laurea, il corso di disegno, il sogno da fumettista. Le paure di Filippo che non voleva il distacco sono diventate calci, pugni e coltellate. E per Giulia è stata la fine.

Che fine ha fatto Filippo Turetta: le banconote sporche di sangue e le ricerche su Google per kit di sopravvivenza. Andrea Priante e Roberta Polese su Il Corriere della Sera il 19 novembre 2023.

Da sette giorni è super ricercato: per gli inquirenti è vivo. Il piano, la montagna e quell’ultimo rifornimento a Cortina: il benzinaio all’alba ha trovato le banconote sporche di sangue

Sette giorni in fuga. Filippo Turetta, che una settimana fa ha sequestrato la sua ex fidanzata Giulia Cecchettin, e che ora è accusato di averla uccisa e gettata in un dirupo nel lago di Barcis nel Pordenonese, è in Austria da domenica. L’ultimo avvistamento utile è a Lienz, in Tirolo. Indiscrezioni parlano di un varco oltrepassato a Tarvisio domenica in direzione Carinzia.

I movimenti

Se Filippo voleva andare a Lienz, la Fiat Grande Punto nera ha fatto un giro molto largo, visto che domenica mattina è stata vista alle 9.07 dalla telecamera lungo la Alemagna in località Ospitale, sopra Cortina D’Ampezzo, a solo un’ora di strada da Lienz. La certezza, comunque è che il giovane si trovi all’estero. Come faccia a mantenersi, dal momento che non sembra prelevare denaro, dove mangi, dove dorma e con che vestiti si protegga dal freddo estremo delle notti alpine, è ancora un mistero. Man mano che passa il tempo si aggiungono dettagli su questa fuga. In mano ai carabinieri di Venezia c’è un video registrato da una telecamera di sorveglianza di una stazione di servizio a Cortina che riprende Filippo mentre fa benzina domenica mattina: ha pagato in contanti alla cassa automatica e poi è ripartito. Qualche giorno dopo il titolare dell’impianto ha aperto la cassa per ritirare il contenuto e si è reso conto che una banconota da venti euro presentava macchie simili a sangue. L’uomo ha chiamato polizia e carabinieri di Belluno che hanno acquisito sia le immagini della videosorveglianza che le banconote, ora nelle mani degli investigatori di Venezia. Gli accertamenti dovranno stabilire se quello sul denaro sia il sangue di Giulia.

Gli abiti

I carabinieri di Venezia analizzeranno il video per capire se negli abiti del giovane ci siano macchie di sangue visibili e se si possa vedere com’era vestito, se indossava abiti pesanti, da montagna, o gli indumenti della sera prima, quando è uscito con Giulia: jeans chiari, giubbetto nero e un paio di Adidas. Sono elementi importanti perché questa è l’unica immagine di Filippo dopo l’omicidio, e l’analisi del vestiti sarà utile per capire l’eventuale premeditazione della fuga e dell’omicidio. Altro punto: pare che il ragazzo fosse da solo in automobile. Non ci sono prove che Turetta, raggiunta Cortina, abbia fatto retromarcia, verso il lago. Se così fosse verrebbe dato ancor più peso all’ipotesi che Giulia Cecchettin sia stata uccisa nella notte tra sabato e domenica. E mentre in migliaia danno la caccia a Filippo, visto che pende su di lui un mandato di arresto europeo e tutte le forze di polizia del Continente dispongono della sua foto in ogni pattuglia, il procuratore capo di Venezia Bruno Cherchi lancia un appello: «A Filippo vorrei dire di costituirsi, prima o poi lo troveremo, è meglio che si costituisca lui e che dia la sua versione dei fatti. Speravamo di non dover dare questa notizia — ha aggiunto, riferendosi al ritrovamento del corpo di Giulia — ma la ricostruzione dei fatti che potrebbe fare Turetta sarebbe molto importante, anche per lui stesso. Per questo ribadisco: non continui questa sua fuga e si costituisca».

Su Google

Le ricerche del ragazzo continuano serrate, sono state coinvolte anche le autorità elvetiche. Intanto gli investigatori sono passati all’analisi del materiale sequestrato a casa di Filippo. Scandagliando il pc si è scoperto che aveva cercato online come reperire kit di sopravvivenza in montagna, ma anche percorsi, mappe e tracciati del Tirolo. Non si sa a quando risalgano queste ricerche, ma molti elementi lasciano presupporre che la fuga in montagna e la permanenza lontano da casa fossero premeditati.

La processione di paese e amici a casa di Giulia Cecchettin. E la sorella sui social: «È stato il vostro bravo ragazzo». Giorgia Zanierato e Renato Piva su Il Corriere della Sera sabato 18 novembre 2023.

Fiori, pupazzi e un dolore silenzioso accarezzano la villetta a Vigonovo dei Cecchettin dopo la notizia del ritrovamento del corpo. La sorella Elena: «Per te bruceremo tutto».  Sui social un'ondata di rabbia contro Filippo Turetta

Piccoli pupazzi di pezza e mazzi di fiori. Fiori bianchi: come la purezza, come la morte violenta che non ha perché. Una mano si avvicina al cancello di casa Cecchettin e posa, delicata, una candela; un'altra porta il disegno fatto da un bambino. Uno, due, dieci e ancora dieci... 

Una processione silenziosa, dal primo pomeriggio di oggi, sabato 18 novembre, lambisce il cortile della villetta a Vigonovo, Venezia: la casa che fu di Giulia. Paesani, occhi lucidi di dolore e lacrime, stanno portando calore, condivisione, quasi a fasciare il lutto della famiglia.

Un corteo silenzioso

La prima «testimone» è una bambina di 5 anni: con l'aiuto della mamma appende al cancello un foglio colorato: «Ha ritratto Giulia nel modo in cui la ricorda - spiega la madre, Elisabetta -: con un berretto in testa e il suo cane a fianco. Mia figlia è innamorata di quel cane. Giulia glielo lasciava sempre accarezzare quando passavamo di qui, con quel suo viso dolce...». Qualcuno, per pudore, si ferma prima del recinto familiare e, in disparte, lascia che il pianto scorra: «Anche se non la conoscevo - dice Nives, 76 anni - avrebbe potuto essere mia nipote, figlia o sorella... Ognuna di noi. Non penso che a lei, da quando ho saputo della scomparsa». Un uomo posa un «minimo» mazzo di tulipani gialli accanto alla fila di fiori che, ormai, circonda la casa. Non ha voce: piange piano. Ci sono bambini, ragazzi, adulti - uomini e donne - e tanti anziani: più deboli, forse più empatici. È un pellegrinaggio triste e, per questo, dolcissimo. «Le nostre lacrime non bagneranno le tue ali», dice uno dei tanti bigliettini  tra i fiori. Altre parole, altri pensieri: «Perdonaci per non aver fatto abbastanza per cambiare questa cultura». E poi: «Vola piccola, tra le braccia della tua mamma».

Il dolore di Elena

Dopo gli appellli e le parole dei giorni scorsi, umanissime e cariche di un'intelligente sensibilità, anche Elena Cecchentin ha dato forma al proprio dolore con alcune storie sul Instagram. «È stato il vostro bravo ragazzo», si legge nel profilo della sorella di Giulia, che ha scelto di condividere un post della trapanese Valeria Fonte, giovane scrittrice che col prorio profilo Instagram porta avanti la battaglia contro «l'odio delle parole» e la violenza di genere. In una seconda storia si legge: «Per te bruceremo tutto». In una precedente, Elena aveva rilanciato un altro post, stavolta dell'attivista Carlotta Vagnoli: «Prevedibile dalla descrizione di quel bravo ragazzo, troppo bravo: non farebbe male neanche a una mosca. Certo, a una mosca no. Ma a una donna, beh, quella è tutta un'altra storia».

L'onda di rabbia 

Intanto, al temuto, primo epilogo di questa tristissima storia, nei social monta un'ondata di rabbia. Uno stato d'animo/sentimento scuro, che, in queste ore, sta unendo molte donne e che scorre nei tantissimi commenti alla notizia del ritrovamento del corpo di Giulia. «Troppi mostri in giro con le sembianze di uomini perbene», scrive  Antonella L.  Nei confronti di Filippo Turetta, Katiuscia Z. e Alessandra T. invocano una sorta di vendetta privata: «Speriamo che lui sia vivo... E che i genitori di Giulia facciano giustizia da soli... Perché ormai solo questo ci resta...», scrive la prima. «Non si passi per la legge… Giustizia in altro modo», le parole della seconda. Elisabetta chiede: «Ma lui (Filippo, ndr) che fine ha fatto?». Già: che fine ha fatto?  

Le coltellate a testa e collo e il volo da 50 metri: così è morta Giulia. Guglielmo Calvi il 18 Novembre 2023 su Il Giornale.

Il corpo della giovane è stato trovato nei pressi del lago di Barcis, non distante da Pordenone. Secondo le prime rilevazioni la ragazza è stata colpita da diverse coltellate e ha cercato di difendersi

Tabella dei contenuti

 Uccisa con coltellate alla testa e al collo

 Il corpo lasciato cadere in un canalone per oltre 50 metri

 Fondamentale l'utilizzo del targasystem per ritrovare l'auto

 Il video choc

 La loro storia, il sabato sera e la gelosia di Filippo

 Le reazioni

Il cadavere di Giulia Cecchettin è stato trovato nei pressi del lago di Barcis, a soli 30 km da Pordenone. La storia della 22enne veneta scomparsa da sabato scorso e che da una settimana ha tenuto tutta l'Italia col fiato sospeso, è giunta a un epilogo drammatico: nella mattinata di sabato gli uomini impegnati nelle ricerche hanno trovato il corpo della giovane e ad aver dato conferma del ritrovamento è anche stata la procura di Venezia. Stando a quanto è emerso, Giulia aveva gli stessi vestiti della sera in cui è sparita. La zona del lago era già da giorni di interesse dei Vigili del fuoco insieme alle squadre dei sommozzatori dato che la macchina di Filippo Turetta, anche lui scomparso dalla sera dell'11 novembre, sarebbe passata nei pressi della località lacustre, mentre si presumeva che si spostasse sempre più a nord.

Uccisa con coltellate alla testa e al collo

Secondo una prima ispezione del medico legale Antonello Cirnelli, Giulia sarebbe stata uccisa con svariate coltellate che l'hanno colpita alla testa e al collo. Il medico, alla presenza del sostituito procuratore di Pordenone Andrea Del Missier, avrebbe rilevato che la giovane presentava anche numerose ferite da difesa alle mani e alle braccia.

Il corpo lasciato cadere in un canalone per oltre 50 metri

Secondo la ricostruzione delle forze dell'ordine Filippo Turetta avrebbe trascinato il corpo di Giulia sul ciglio della strada per poi lasciarlo rotolare lungo un dirupo per oltre una cinquantina di metri di profondità, fino a quando il corpo della ragazza si è fermato in un canalone. La strada dove è stato trovato il corpo della 22enne viene chiusa per il periodo invernale perché impraticabile per poi riaprire il 15 aprile.

Circostanza che, viene fatto notare, non è detto che il giovane sapesse. Il corpo è stato trovato da un'unità cinofila della Protezione civile ed è ancora sul posto per consentire ai Carabinieri del Ris di ultimare i rilievi. Per ora, fanno sapere gli inquirenti, non è possibile stabilire se la ragazza fosse già morta quando è stata gettata nel canalone. Al momento del ritrovamento il capo era coperto di sangue e non era visibile dalla strada, coperto da un enorme masso.

Fondamentale l'utilizzo del targasystem per ritrovare l'auto

La registrazione del passaggio dell'auto è stata possibile grazie ai lettori delle targhe che hanno consentito di ricostruire tutto il percorso del veicolo, a partire dalla notte tra sabato e domenica. Al momento non ci sarebbero tracce di Filippo e gli investigatori, in queste ore, lo stanno ancora cercando. Il procuratore di Venezia, Bruno Cherchi, ha lanciato un appello affinché si costituisca: "Speravamo di non dover dare questa notizia (il ritrovamento del corpo di Giulia, ndr) ma la ricostruzione dei fatti che potrebbe fare Turetta sarebbe molto importante, anche per lui stesso. Per questo ribadisco: non continui questa sua fuga e si costituisca".

Il video choc

Già nella giornata di venerdì, si sospettava che a Giulia potesse essere successo qualcosa di tragico, dato che è emerso un video in cui si vede Filippo aggredire la sua ex fidanzata. Secondo l'analisi delle immagini, i due si trovavano nel comune di Fossò, nel Veneziano, dopo aver trascorso la serata insieme in un centro commerciale di Marghera, sempre in provincia di Venezia. Intorno alle 23.30, il cellulare di Filippo era ancora acceso ed è stato possibile capire dove si trovasse con la sua auto nella tarda sera di sabato scorso.

Le telecamere di videosorveglianza dello stabilimento del noto brand di moda “Dior”, ubicato in via Quinta strada, hanno ripreso i due litigare fino a sfociare in una colluttazione durante la quale Giulia sarebbe rimasta ferita e avrebbe anche perso del sangue. Filippo l'avrebbe poi costretta a risalire in macchina e, poco dopo aver messo in moto, Giulia avrebbe aperto la portiera dell'auto per tentare la fuga. Filippo l’avrebbe raggiunta e colpita alle spalle per poi farla cadere a terra inerme.

Gli ultimi frammenti di video mostrano l'indagato che la carica a forza sulla Fiat Punto per poi far perdere ogni loro traccia nel buio della notte. Secondo la procura, le azioni del 22enne si possono definire "atti diretti a cagionare la morte della 22enne, colpita nuovamente al fine di evitare che la stessa fuggisse". Nei giorni scorsi, gli operai impiegati nella zona industriale avevano notato all'ingresso dello stabilimento delle chiazze di sangue e delle ciocche di capelli su cui la polizia scientifica ha effettuato dei test del dna.

La loro storia, il sabato sera e la gelosia di Filippo

Giulia Cecchettin e Filippo Turetta, iscritti all'Università di Padova, hanno avuto per qualche mese una relazione sentimentale. Nel corso dell’estate, i due ragazzi si sono lasciati e a mettere fine alla loro storia è stata Giulia, mentre Filippo non ha mai accettato la fine della relazione. Nonostante la separazione, i due sono rimasti in buoni rapporti e ogni tanto si davano appuntamento per trascorrere del tempo insieme. Nel tardo pomeriggio dell'11 novembre, Filippo ha lasciato il suo Paese per recarsi in macchina a Vigonovo (Venezia) dove abita Giulia, per poi andare insieme nel centro commerciale di Marghera dove hanno cenato in un McDonald intorno alle 20.

Alle 23.15, i due giovani sarebbero tornati a Vigonovo e qui un vicino di casa di Giulia li avrebbe visti litigare e avrebbe anche sentito lei urlare. Alle 23.30 Filippo si sarebbe recato a Fossò dove le telecamere hanno ripreso l'aggressione. La stessa notte, la Punto è poi passata per il Friuli:“C'è stato un unico rilevamento di targa in orario notturno in provincia di Pordenone, pochissime ore dopo la scomparsa” hanno confermato i carabinieri.

Secondo il racconto degli amici e dei parenti di Giulia, Filippo non avrebbe mai accettato la fine della loro storia e per questo avrebbe più volte manifestato un atteggiamento controllante e possessivo. Secondo alcuni colleghi di università di Filippo, quest'ultimo soffriva per il fatto che fosse indietro con gli esami mentre tanti dei suoi amici erano in procinto di laurearsi, compresa Giulia che avrebbe dovuto conseguire il titolo di dottoressa in ingegneria biomedica giovedì 16 novembre.

Le reazioni

Giulia Cecchettin è la 105esima donna ad essere uccisa dall'inizio dell'anno. Tra i primi a commentare la triste notizia, c'è la sorella di Giulia, Elena Cecchettin che sul suo profilo Instagram ha postato una foto in bianco e nero e ha scritto: "Rest in power. I love you" . Anche il cugino di Giulia, Giovanni, è intervenuto: “Non c’è più niente da dire, Filippo ha ucciso mia cugina. Spero che trovino quel vigliacco, se non si è già ammazzato anche lui”. L'avvocato della famiglia della 22enne, Stefano Tigani, ha dichiarato: "Adesso è il momento del dolore e di stringersi attorno alla famiglia. Il lavoro degli investigatori ha portato intanto a ritrovare Giulia. Ora è anche il momento di individuare le responsabilità e le dinamiche di questa vicenda, per le quali ci affidiamo ancora alle forze dell'ordine".

Diversi esponenti politici hanno espresso un pensiero per la ragazza. Il presidente della Camera, Lorenzo Fontana, in una nota ha dichiarato: "Apprendo con sgomento la notizia della tragica fine di Giulia Cecchettin. Mi stringo al dolore dei genitori, della famiglia e dei suoi cari ai quali rivolgo le espressioni di profondo cordoglio e della più sentita vicinanza. Il mio pensiero commosso va a questa ragazza strappata alla vita nel fiore degli anni".

Sul suo profilo Facebook, il ministro della Famiglia, Natalità e Pari opportunità, Eugenia Roccella, ha scritto: "E così, quello che non avremmo mai voluto è accaduto. Ancora una volta. E' stato trovato il corpo di una ragazza ed è quello di Giulia. Giovanissima lei, giovanissimo il suo aggressore, terribili le violenze che il video di una telecamera di sorveglianza ha già consentito di constatare. La nostra risposta non è solo lo strazio, indicibile, per una catena di morte alla quale ogni volta si aggiunge un orrore in più. La nostra risposta è un'azione decisa".

Il presidente della Regione Veneto, Luca Zaia, ha scritto sui social: "L'epilogo peggiore a una vicenda che ha tenuto l'Italia intera col fiato sospeso per una settimana. Il corpo recuperato nel lago di Barcis stamattina è quello di Giulia Cecchettin. Mi stringo al papà e ai familiari di Giulia, ai suoi amici e a coloro che le erano vicini" . Il sindaco di Venezia, Luigi Brugnaro, ha espresso il suo cordoglio con un tweet: "Una notizia che nessuno avrebbe mai voluto ricevere. È stato trovato il corpo di Giulia Cecchettin, giovane veneziana scomparsa pochi giorni fa. Tutta la Città si unisce al dolore della famiglia, degli amici, dei suoi cari e di tutti coloro che le hanno voluto bene".

Giulia Cecchettin è morta dissanguata, 22 minuti di agonia. La gip: «Ferocia inaudita, potrebbe uccidere altre donne». Roberta Polese su Il Corriere della Sera martedì 21 novembre 2023.

Calci e coltellate: la ferocia cominciata a 150 metri da casa di Giulia. Filippo aveva 300 euro in tasca. L’ultima cena pagata dalla vittima. Per la Procura tedesca, Turetta sarà estradato in Italia tra pochi giorni

Calci a bordo strada, nel parcheggio di Vigonovo a 150 metri da casa di Giulia. Calci, cui si aggiungono le coltellate anche a Fossò, in via quinta strada. Qui la povera Giulia Cecchettin è stata spinta violentemente a terra dall'ex fidanzato, Filippo Turetta, al punto da sbattere sul marciapiede in modo così violento da non riuscire più ad alzarsi. Infine caricata sul sedile posteriore dell’auto, immobilizzata con del nastro adesivo. Ventidue minuti di agonia, rabbia, ferocia, tentativi di difendersi e infine l’epilogo.

L'aggressione a Vigonovo

Un’aggressione in due riprese, in due momenti diversi, alle 23.18 a Vigonovo e alle 23.40 a Fossò, quando le undici telecamere dell’azienda Dior riprendono l’orrore. A Vigonovo, nel parcheggio da cui si vede casa di Giulia, ci sono due grandi macchie di sangue, ci sono anche delle impronte, che verranno analizzate per capire se siano scarpe compatibili con quelle della vittima o dell’aggressore. Ma dalla descrizione data anche dal testimone, l’abitante di Vigonovo che ha dato l’allarme vedendo un uomo aggredire una donna che chiedeva aiuto nel parcheggio davanti all’asilo, tutto lascia presagire che quelle a terra siano le impronte di Filippo che costringe Giulia a salire in auto dopo coltellate e calci. Vicino all’auto è pure stato ritrovato un coltello da cucina senza manico. Non sarebbe quella però l’arma del delitto, quel coltello è infatti privo di impronte di sangue.

L'ordinanza della gip

Nelle 8 pagine dell’ordinanza firmata dalla gip Benedetta Vitolo vengono descritte tutte le circostanze che hanno portato la procura a formulare il capo di imputazione di omicidio volontario aggravato e sequestro di persona nei confronti di Turetta, studente di Torreglia che il 18 dicembre compirà 23 anni. La giudice ha messo in fila tutti gli elementi raccolti dai carabinieri e che sembrano inchiodare Filippo alle sue responsabilità.

L'ultimo messaggio, poi il cellulare di Giulia si spegne alle 22.45

Le prime tracce cercate, quando domenica 12 novembre le due famiglie fanno denuncia ai carabinieri, sono quelle lasciate dalle celle agganciate dai cellulari dei due ragazzi. Quel pomeriggio Filippo arriva a Vigonovo alle 17.15, prende Giulia a casa, i due vanno insieme alla Nave de Vero a Marghera. Alle 22.40 Giulia manda l’ultimo messaggio alla sorella, parlano di scarpe e vestiti per la laurea, quel momento il suo cellulare è ancora agganciato nell’area della Nave de Vero, Filippo è con lei. Poi alle 22.45 il cellulare della ragazza si spegne. Quello di Filippo rimane acceso, lo aggancia alle 23.29 la cella di Fossò, e subito dopo il cellulare si spegne. Una volta analizzati i telefoni i carabinieri hanno cercato le targhe. Alle 23.31 l’auto di  Filippo entra in zona industriale a Fossò, fa qualche giro in quelle poche strade. I due stanno litigando, Giulia è già ferita, da almeno 15 minuti perde molto sangue. Alle 23.40 la macabra scena davanti a Dior. Giulia che riesce a scappare dall’auto, Filippo la rincorre, la colpisce molto probabilmente con un coltello al collo, poi la spinge violentemente a terra, lei cade, sbatte la testa sul marciapiede e non si muove. Filippo torna indietro, prende l’auto e la porta davanti a Giulia, apre la portiera dell’auto e la fa salire sui sedili posteriori, le mette dello scotch argentato probabilmente sulla bocca. Poi la porta via. Secondo la giudice Giulia è morta dissanguata, la sua non è stata una morte veloce.

La caccia all'auto

L’auto di Filippo viene intercettata dal sistema Targa System a Noale, Zero Branco, Villorba, Spresiano, Maserada. Le telecamere del Friuli Venezia Giulia registrano ma non trasmettono dati sabato notte,  per cui ad una prima analisi dopo Maserada la targa viene registrata in Val di Zoldo e a Cortina. La prima alle 7.37 la seconda alle 9.07.  La parte friulana verrà «collegata» a tutta questa storia solo due giorni dopo. Sarà in quel momento che si scoprirà che Filippo è passato per Aviano, Piancavallo, lago di Barcis. Lì si concentrano le ricerche di Giulia, e lì la ragazza viene trovata sabato mattina. Il medico legale sul posto rileva tracce di ripetute coltellate tra cui una profonda sul collo. Secondo i primi rilievi (l’autopsia si svolgerà più avanti) la ragazza è morta dissanguata. Dalla prima aggressione a Vigonovo alle 23.18 alla seconda alle 23.40 a Fossò, in quei ventidue minuti Giulia ha perso molto sangue, la spinta a terra contro il marciapiede è stato l’ultimo atto definitivo.

«Aggressione di inaudita ferocia»

«Filippo, con questa aggressione a più riprese e di inaudita ferocia  nei confronti della ex fidanzata prossima alla laurea – scrive la giudice – ha dimostrato una totale incapacità di autocontrollo che è idonea a fondare un giudizio di estrema pericolosità  e desta allarme in una società in cui i femminicidi sono all’ordine del giorno». «L’indagato – sottolinea la giudice – appare inoltre totalmente imprevedibile perché dopo aver condotto una vita all’insegna di una apparente normalità ha improvvisamente messo in essere questo gesto folle e sconsiderato». «Sussiste infine il periculum libertatis, ovvero il pericolo che l'indagato reiteri condotte violente nei confronti di altre donne», aggiunge la giudice.  Dai controlli delle carte di credito emerge che Giulia ha pagato la cena al Mc Donald, l’ultima cena con il suo assassino: ha speso 17.80 euro, è plausibile che abbia pagato anche per lui. Filippo aveva con sé circa 300 euro in contanti. 

La Procura tedesca: Turetta verrà consegnato «in alcuni giorni»

Anche se la richiesta italiana di consegna di Filippo Turetta non è ancora arrivata in Germania, la Procura generale competente, quella di Naumburg, si aspetta che Filippo Turetta venga consegnato all'Italia «in alcuni giorni». «Ovviamente non è arrivata una richiesta italiana», ha detto all'ANSA parlando al telefono il portavoce della Procura generale della città della Sassonia Anhalt, il procuratore generale Klaus Tewes. Citando l'esistenza di un «mandato di arresto europeo» nei confronti di Turetta, il magistrato ha ricordato che «il tribunale di prima istanza di Halle ha emesso un ordine di detenzione, sulla base del quale l'imputato è stato collocato nel centro di detenzione di Halle, e ora la Procura generale ha richiesto all'Oberlandesgericht», una sorta di Corte d'appello detta anche Tribunale superiore regionale, «il recepimento del mandato di arresto», ha aggiunto Tewes. Questo avverrà «nei prossimi giorni presumo, e poi tutto si svolgerà normalmente. Mi aspetto che, se la Corte d'appello deciderà in base alla nostra richiesta, l'imputato sarà estradato in Italia tra pochi giorni», ha detto ancora il portavoce della Procura generale di Naumburg.

Da video.corriere.it - Estratti mercoledì 22 novembre 2023.

«Sono arrivata a un punto in cui vorrei che sparisse, vorrei non avere più contatti con lui». A dirlo, in un audio inedito recuperato dalla trasmissione “Chi l’ha visto?” e trasmesso dal Tg1, è Giulia Cecchettin parlando di Filippo Turetta. 

«Non ce la faccio più a stare dietro a Pippo - dice la ragazza in un audio inviato alla amiche un mese prima della tragedia - non lo sopporto più, vorrei che lui, almeno per un periodo, sparisse. Ho l’impulso di scrivergli per abitudine, però vorrei che sparisse, ma questa cosa a lui non la posso scrivere perché credo che darebbe di matto». 

«Sono in una situazione in cui vorrei che sparisse - racconta Giulia-, vorrei non avere più contatti con Filippo, però allo stesso tempo mi viene a dire che è super depresso, che ha smesso di mangiare, che passa le giornate a guardare il soffitto, che pensa solo ad ammazzarsi, che vorrebbe uccidersi, che non trova più un senso per andare avanti, che adesso è cominciata l’uni (università) e che a lui non frega niente di seguire nessun corso, che passerà le sue giornate in casa.

Lui non mi dice tutte queste cose come ricatto, ma suonano molto come un ricatto, mi dice che l’unica luce nelle sue giornate sono le uscite con me, o i momenti in cui io gli scrivo. Vorrei sparire dalla sua vita però mi sento in colpa, ho troppa paura che possa farsi male in qualche modo (...) 

Giulia poteva essere salvata? I Cc non intervennero, indaga la procura. Sabato in Italia Filippo che amplia la sua difesa. Angelo Vitolo su L'Identità il 23 Novembre 2023

Filippo Turetta, arrestato in Germania per l’omicidio dell’ex fidanzata Giulia Cecchettin, ha ampliato la sua difesa: l’avvocato d’ufficio Emanuele Compagno è stato affiancato dal legale Giovanni Caruso del foro di Padova. Il collegio dovrà affrontare un processo che si preannuncia complicato per il 21enne che deve rispondere di omicidio volontario aggravato dal vincolo del legame affettivo e sequestro di persona.

Il giovane arriverà sabato mattina in Italia: uno slittamento di un giorno sul previsto giorno per l’estradizione nel nostro Paese. Filippo Turetta, accusato dell’omicidio dell’ex fidanzata Giulia Cecchettin, verrà consegnato dalla Germania alle autorità italiane sabato 25 novembre e arriverà all’aeroporto di Venezia – scortato dai carabinieri – a bordo di un aereo dell’Aeronautica militare che partirà da Roma. I dettagli del volo vengono definiti proprio in questi momenti.

Intanto fa rumore la precisazione del supertestimone che si accorse dell’aggressione a Giulia a Vigonovo. Allertò il 112 ma i CC – pare confermato – non inviarono una pattuglia sul posto. Giulia poteva essere salvata?

In merito, la procura di Venezia sta facendo accertamenti su quanto accaduto dopo la chiamata del testimone al 112 in cui segnalava una lite in corso nel parcheggio in via Aldo Moro a Vigonovo. E’ tutto da accertare se i carabinieri siano partiti per verificare quella chiamata d’allarme oppure l’auto con sirena non abbia mai raggiunto il luogo in cui Giulia Cecchettin è stata accoltellata.

Una sosta di pochi minuti, prima che l’auto di Filippo Turetta si dirigesse verso la zona industriale di Fossò, dove la 22enne è stata uccisa. Giulia, probabilmente, non si sarebbe salvata – dalle telecamere che riprendono l’auto in movimento la Fiat Punto non resta ferma nel parcheggio per più di 5 minuti – ma il punto è un altro: quando un cittadino chiama, la pattuglia deve andare a verificare quanto segnalato.

Dalla telefonata delle 23.18 al corpo a terra 22 minuti dopo: il giallo del mancato intervento. Gli inquirenti stanno cercando di capire se l'ex fidanzato della ragazza abbia fatto in precedenza un sopralluogo. Si dovrà decidere se ci sono le condizioni per un'eventuale aggravante della premeditazione del delitto. Ignazio Riccio il 23 Novembre 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 La ricostruzione

 Il mancato invio dell'auto dei carabinieri

 La denuncia della scomparsa di Giulia

Gli inquirenti stanno riavvolgendo il nastro andando più volte in avanti e a ritroso nell'analisi delle immagini a disposizione e nelle verifiche degli spostamenti dell'auto dell'omicida. Proseguono senza sosta le indagini sull'assassinio di Giulia Cecchettin. Come elemento nuovo si stanno valutando con attenzione i due video catturati dalla telecamere di videsorveglianza di Fossò. In uno di questi si vedono le scene dell'aggressione alla ragazza delle ore 23.40 e i passaggi della vettura nella stessa zona poco dopo le ore 17 dello stesso giorno. Chi indaga sta cercando di capire se l'ex fidanzato di Giulia, Filippo Turetta, abbia fatto un sopralluogo. Il particolare è di rilevante importanza, anche perché gli inquirenti devono decidere se ci sono le condizioni di un'eventuale aggravante della premeditazione del delitto.

La ricostruzione

Ma andiamo per ordine. Nella serata dell'11 novembre scorso, alle ore 23.18, un residente di Vigonovo fa una telefonata al 112, il numero di emergenza Unico Europeo, dicendo di aver assistito a una aggressione in via Aldo Moro. L'uomo dà una serie di dettagli importanti all'operatore. Parla di una Fiat Punto scura, ma dice di non essere riscito a leggere il numero di targa. Nessuna macchina dei carabinieri, però, viene inviata sul posto, nonostante la segnalazione. Eppure, proprio su quella vettura scura Filippo Turetta aveva fatto salire con la forza Giulia Cecchettin successivamente alle percosse. Il video delle 23.40, appena ventidue minuti dopo, riprende la caduta della ragazza, spinta dal suo ex, nella zona industriale di Fossò. Giulia batte la testa a terra, perde il sensi e Filippo, caricandosela in spalla, la adagia in macchina cominciando la sua fuga.

Il mancato invio dell'auto dei carabinieri

Il quotidiano la Repubblica ha ottenuto conferme direttamente dalle fonti investigative del mancato invio della macchina dei carabinieri, un dettaglio che però non è preso troppo in considerazione. L'area da dove era arrivata la segnalazione dell'aggressione è così vasta che molto probabilmente anche una pattuglia di militari sul posto sarebbe riuscita a ricavare ben poco. Ecco perché gli inquirenti si stanno concentrando sulla telefonata delle ore 23.18, in cui il residente che ha effettuato la chiamata dice di aver sentito l'urlo di una donna che chiede aiuto e si lamenta per il dolore dei colpi subiti. Alle ore 23.40 le immagini del video di Fossò mostrano nitidamente il momento della brutale aggressione con la caduta di Giulia dopo la spinta dell'ex fidanzato, il quale, dopo aver messo in auto il corpo esanime della ragazza, già dodici minuti dopo sfreccia sulla strada provinciale, nel territorio di Dolo. Sul quel ritardo, comunque, restano le polemiche. Nicodemo Gentile, presidente dell’associazione Penelope, ha spiegato che passa più di mezz’ora dalla denuncia del vicino a quando l'auto lascia Fossò, tempo secondo lui in cui si poteva intervenire.

La denuncia della scomparsa di Giulia

A ora di pranzo del 12 novembre il padre di Giulia decide di denunciare la scomparsa della figlia, ma inizialmente si pensa a un allontanamento volontario. Solo dopo che il genitore della ragazza riesce a parlare con il testimone che ha fatto la telefonata durante la notte partono le indagini, con la spasmodica ricerca dei due giovani in fuga con la macchina. Prima le tracce di sangue, che già fanno pensare al peggio, poi il coltello e la requisizione delle immagini delle telecamere di videsorveglianza. Infine, il ritrovamento del cadavere di Giulia. Un'escalation piena di punti controversi che gli inquirenti stanno cercando di dirimere, anche per formulare il capo di imputazione più giusto nei confronti di Filippo Turetta.

Replica e smentita. Giulia Cecchettin, i carabinieri: “Disposti altri interventi, l’auto era già andata via e non avevamo il numero di targa”. I militari hanno anche spiegato che la registrazione della telefonata fatta al 112 da un testimone, è stata messa subito a disposizione degli inquirenti. Al momento la procura non avrebbe aperto nessun fascicolo in merito. Redazione Web su L'Unità il 24 Novembre 2023

La telefonata arrivata al 112 “parlava di una lite tra due persone che erano già risalite in auto e si erano allontanate” con il testimone che “non era riuscito ad annotare la targa“. Lo si apprende da fonti del Carabinieri in merito alla telefonata al numero di emergenza da parte di un vicino di casa di Giulia Cecchettin, che aveva sentito due persone litigare. Le fonti sottolineano inoltre che a quell’ora di sabato “c’erano altri interventi in atto da parte delle pattuglie“, che al momento non ci sono fascicoli aperti in procura relativi alla telefonata e che non esiste una seconda telefonata al 112 arrivata da un vigilantes. I militari hanno infatti spiegato come sia, ”destituita di ogni fondamento la notizia di un fascicolo/indagine della procura della Repubblica di Venezia in merito alla telefonata del cittadino di Vigonovo”.

Morte Giulia Cecchettin: la telefonata ai carabinieri

La chiamata al 112 era arrivata sabato 11 novembre alle 23.18 da un vicino di casa dei Cecchettin, che aveva udito le urla di una ragazza, poi risultata essere Giulia, nel parcheggio lì vicino, a cui non era seguito l’arrivo di alcuna pattuglia. Mentre l’operatore della centrale riceveva quella segnalazione, spiega in una nota il Comando generale dei Carabinieri, “perveniva un’ulteriore richiesta di intervento per una rissa all’interno di un bar, in relazione alla quale disponeva l’invio sul posto di un’autoradio in servizio di pronto intervento. Nelle stesse circostanze di tempo l’altra autoradio disponibile era stata già impegnata per una lite accorsa a seguito di incidente stradale“.

Intanto, è stato fissato il luogo dei funerali di Giulia Cecchettin. La funzione si svolgerà nella Basilica di Santa Giustina, in Prato della Valle a Padova. Ancora non è nota la data, in quanto è atteso prima l’esito dell’autopsia eseguita sulla salma della giovane. La decisione è stata presa ieri, in accordo tra la Diocesi padovana, la famiglia di Giulia, la parrocchia e l’amministrazione comunale di Saonara (località in provincia di Padova), dove inizialmente era stata decisa la celebrazione. Lo spostamento di sede – si è appreso dal fonti della chiesa padovana – è stato deciso perché per le esequie si prevede un grande afflusso di persone, e la situazione logistica, sia a Saonara che a Vigonovo, potrebbe non garantire la sicurezza e la partecipazione. Santa Giustina è una delle più grandi basiliche del mondo, ed è una chiesa parrocchiale diocesana, sede di una comunità di monaci benedettini. Redazione Web 24 Novembre 2023

Giulia Cecchettin, Turetta domani in Italia. Carabinieri: nessuna seconda telefonata. Da tg24.sky.it il 24 Novembre 2023

Il 22enne, accusato di omicidio volontario e sequestro di persona, arriverà a Venezia intorno alle 12.30 e sarà trasferito in carcere. L’Arma smentisce che nella notte di sabato 11 novembre sia arrivata al 112 un’altra chiamata dopo quella fatta dal vicino di casa della ragazza che segnalava una lite nel parcheggio a poca distanza da casa della giovane

Sarà estradato domani in Italia Filippo Turetta, il 22enne che attualmente si trova nel carcere di Halle, in Germania, accusato di omicidio volontario e sequestro di persona nel caso di Giulia Cecchettin. Nel frattempo si continua a cercare di capire perché dopo la telefonata di allarme fatta la notte dell’11 novembre al 112 alle 23.18 dal vicino di casa dei Cecchettin, che aveva sentito le urla della ragazza nel parcheggio lì vicino, nessuna pattuglia sia arrivata in Via Aldo Moro. Fonti dell’Arma hanno fatto sapere che al momento non ci sono fascicoli aperti in Procura relativi alla chiamata e che non esiste una seconda telefonata al 112 arrivata da un vigilantes.

Il trasferimento di Turetta

Domani un aereo militare partirà alle 8.00 da Roma e arriverà alle 10.00 a Francoforte per prelevare Turetta. Il volo ripartirà dallo scalo tedesco alle 10.45 e atterrerà a Venezia attorno alle 12.30. Il ragazzo sarà preso in custodia dai carabinieri e trasferito in carcere, dove sarà messo a disposizione del giudice.

La telefonata al 112

Per quanto riguarda la telefonata fatta dal vicino di casa del Cecchettin, fonti dei Carabinieri hanno fatto sapere che in quella chiamata arrivata al 112 il testimone "parlava di una lite tra due persone che erano già risalite in auto e si erano allontanate". Inoltre l'uomo "non era riuscito ad annotare la targa" e che a quell'ora di sabato "c'erano altri interventi in atto da parte delle pattuglie". Fino alle 13.30 del giorno dopo, domenica 12 novembre, nessuno stava cercando Giulia Cecchettin e Filippo Turetta. Le indagini e il sopralluogo a Vigonovo, ne quale furono scoperte le macchie di sangue nel parcheggio dell'asilo in via Aldo Moro, scattarono con la denuncia presentata dal papà di Giulia. Una volta rientrato a casa, Cecchettin telefonò nuovamente al 112 per dire di essere stato contattato da un vicino di casa che gli aveva raccontato della lite del parcheggio la sera prima. A quell'ora, spiega l'ordinanza del gip, Turetta aveva già superato la zona tra Cortina e Dobbiaco e si dirigeva verso l'Austria.

L’ipotesi premeditazione

Nel frattempo spunta l’eventualità di un’accusa di premeditazione per Turetta. È emersa infatti l'ipotesi di un sopralluogo dell'ex fidanzato di Giulia Cecchettin a Fossò - dov’è avvenuta la seconda aggressione ai danni della ragazza - in quello stesso pomeriggio di sabato 11 novembre. La sua Fiat Punto - scrive il giudice nell'ordinanza - fu rilevata alle 17.11 mentre si dirigeva da Vigonovo verso Fossò, distante 6 chilometri, e alle 17.14 mentre transitava in via Castellaro. Dopo quella deviazione, al momento senza spiegazione, il ragazzo si presentò a casa di Giulia alle 17.30 e insieme in auto raggiunsero il centro commerciale di Marghera. Contestazioni a cui il 22enne dovrà rispondere nell'interrogatorio di garanzia.

Caso Cecchettin: procura Venezia indaga su seconda chiamata al 112. (LaPresse il 23 Novembre 2023) - Una seconda chiamata al 112 da parte di un vigilantes del calzaturificio Dior, in via V Strada della zona industriale di Fossò, provincia di Venezia, come già anticipato nei giorni scorsi dall'agenzia LaPresse, sarebbe sotto la lente d'ingrandimento della procura di Venezia che sta indagando sulla tempistica intercorsa tra l'aggressione contro Giulia Cecchettin da parte di Filippo Turetta, immortalata dalla telecamera esterna, e l'orario in cui è stata effettuata la seconda telefonata al 112. 

Secondo quanto apprende l'agenzia LaPresse, tra la scena apparsa sui monitor della vigilanza e la chiamata sarebbero passati diversi minuti.

Roberta Polese per corrieredelveneto.corriere.it - Estratti venerdì 24 novembre 2023.

Non c’è stato un sopralluogo dei carabinieri a Vigonovo la notte in cui un testimone chiama il 112 per segnalare l’aggressione nel parcheggio a pochi metri da casa di Giulia. Quella telefonata fatta alle 23.18, «parlava di una lite tra due persone che erano già risalite in auto e si erano allontanate» spiegano i carabinieri, con il testimone che «non era riuscito ad annotare la targa». 

Quella notte, spiegano ancora i carabinieri «c’erano altri interventi in atto da parte delle pattuglie», inoltre non era stata presentata una denuncia di scomparsa, nessuno immaginava che dentro quella macchina ci fossero Giulia Cecchettin e Filippo Turetta. 

Smentita la seconda chiamata

Al momento non vi è alcuna indagine in corso della Procura volta ad accertare un possibile reato di omissione di soccorso da parte degli operatori. Del resto, visto che non c’era nè il numero di targa nè il modello dell’auto, sarebbe stato impossibile per i carabinieri rintracciarla. Spunterebbe però un nuovo testimone della seconda parte dell’aggressione a Giulia sabato sera, quella avvenuta nella zona industriale di Fossò, Comune confinante con Vigonovo. L’agenzia Lapresse riporta una telefonata giunta ai carabinieri dopo la mezzanotte tra sabato e domenica. Si tratterebbe di un vigilantes della ditta Dior che avrebbe visto le immagini del pestaggio della ragazza davanti alla ditta avvenuto alle 23.40. Una volta viste le immagini, circa mezz’ora dopo l’aggressione, sarebbe scattata la chiamata al 112, ma questa seconda telefonata viene smentita dai carabinieri.

La denuncia (domenica) del papà

Ufficiale è invece la denuncia di scomparsa che presenta Gino Cecchettin ai carabinieri alle 13.30 di domenica 12 novembre. Una denuncia rubricata come «allontanamento volontario» e «persona non in pericolo di vita» dai militari della stazione di Vigonovo. Due particolari che stridono nettamente con tutto quello che ora sta emergendo del trascorso tra Giulia e Filippo, ossia le manie di controllo del giovane padovano, e i timori della giovane, preoccupata più per un possibile suicidio di lui che per sé stessa. 

Quel giorno Gino aveva spiegato ai carabinieri di essere preoccupato per l’incolumità di Giulia. «Mia figlia Elena mi ha raccontato che Turetta non aveva mai perso la speranza di tornare assieme a Giulia, pertanto a volte era insistente e possessivo al punto che lei aveva deciso di troncare definitivamente — scrive Gino nella denuncia — tuttavia Giulia aveva continuato a frequentarlo perché lui era depresso ed era preoccupata per qualche suo gesto inconsulto, temo quindi per l’incolumità di mia figlia».

Il sopralluogo e le tracce di sangue

Perché allora scrivere che la ragazza si era allontanata volontariamente? Forse perché al momento di uscire di casa Giulia sapeva di dover uscire con il suo ex e lo aveva comunicato al padre. Quanto al «non in pericolo di vita» probabilmente si tratta di un errore, che però non avrebbe avuto influito sulle indagini, tanto che immediatamente viene messa in moto la macchina delle ricerche. È vero però che la segnalazione del pestaggio avvenuto alle 23.15 la sera dell’11 novembre non viene messa dai carabinieri subito in connessione con la sparizione della studentessa. Tanto che il padre apprende di quella telefonata domenica pomeriggio direttamente dall’uomo che l’ha fatta, suo vicino di casa.

Quando i due eventi vengono collegati i carabinieri si mettono in allarme, e pare che proprio in quel momento parta il sopralluogo nel parcheggio poco lontano da casa di Giulia. Lì vengono rintracciate tracce di sangue e impronte di sneakers che, scriverà la Gip nell’ordinanza, sono compatibili con quelle trovate anche a Fossò e quindi attribuite a di Filippo Turetta.

Giulia Cecchettin, bomba di Chi l'ha visto: quando sono partite le ricerche. Il Tempo il 29 novembre 2023

Giulia Cecchettin poteva essere salvata? L'interrogativo torna al centro delle indagini di Chi l'ha visto?, il programma condotto da Federica Sciarelli su Rai 3, in onda mercoledì 29 novembre. "Quando è stata messa in relazione la telefonata del bravo cittadino che alle 23:18 ha detto ai carabinieri che una ragazza era stata aggredita e portata via con la forza in macchina?", è la domanda che pone la conduttrice. "Quando è stata messa in relazione con la scomparsa dei due giovani?", continua annunciando che i Carabinieri di Vigonovo hanno risposto al quesito con una "nota importante ed esaustiva". Le tessere del mosaico di quella tragica di notte cominciano a trovare una collocazione. 

Innanzitutto viene affrontato il tema del mancato intervento di una pattuglia nel parcheggio dove Filippo Turetta, che ha ammesso di aver ucciso l'ex fidanzata e ora in carcere a Verona, ha aggredito la studentessa 22enne che dopo alcuni giorni avrebbe conseguito la laurea. "Nel comunicato viene scritto che in contemporanea con la telefonata del testimone in centrale arrivano altre due richieste di intervento, una per una rissa in un bar e una per un litigio in seguito a un incidente - viene spiegato in un servizio - Dunque in totale arrivano tre telefonate e si interviene per la rissa e per il litigio ma non per l'aggressione a Giulia che dura dalle 23:18, ora della telefonata del testimone, alle 23:50 ora in cui la Punto" di Turetta "transita attraverso il Varco Nord in uscita dal centro abitato. In quei 32 minuti Giulia poteva essere salvata?", è la domanda che purtroppo non ha risposta. 

Poi c'è la questione della denuncia del padre Gino, sempre ai carabinieri, per la scomparsa della giovane. È stata verbalizzata alle 13.30 del giorno successivo, domenica, ma è stata rubricata come "allontanamento volontario" e in assenza di un pericolo di vita per Giulia. Questo nonostante il padre avesse raccontato nella denuncia della contemporanea scomparsa di Filippo e del rapporto difficile trai due, con l'ossessiva gelosia del giovane che non si faceva una ragione della fine della relazione. E soprattutto senza che la segnalazione della sera precedente venisse messa in relazione con la scomparsa di Cecchettin. 

I carabinieri nella nota inviata alla trasmissione spiegano che il "collegamento tra i due fatti è avvenuto dopo che il padre della giovane, recatosi alle 13.30 del 12 novembre presso la Stazione Carabinieri di Vigonovo per denunciare scomparsa della figlia, ha pubblicato un post social per chiedere aiuto nelle ricerche, venendo cosi successivamente contattato da un cittadino di Vigonovo, residente poco distante dall'abitazione di Giulia che gli riferisce di essere stato testimone di una lite tra due persone la sera prima e di aver chiamato 112". Insomma, è il ragazzo che ha assistito all'aggressione e ha visto l'auto allontanarsi, senza riuscire a prendere il numero di targa, a collegare i due fatti e a contattare Gino Cecchettin. A quel punto, continuano i carabinieri, il padre di Giulia "comunica la circostanza ai carabinieri che risalgono alla chiamata della sera precedente e la associano alla scomparsa, acquisendo formalmente la testimonianza del cittadino".

A quel punto "tutte le attività poste in essere dai Carabinieri, peraltro nell'immediatezza, in conseguenza del tenore complessivo della denuncia, sono coerenti con un episodio di scomparsa con rischio per l'incolumità della persona (richiesta di positioning del telefono della giovane e del suo ex fidanzato, contatti con gli ospedali della zona, nota di ricerca inserita nelle banche dati" italiana ed europea, richieste alle Polizie Locali della zona e alla Societă Autostrade dei transiti dei veicoli, invio immediato di rinforzi per le ricerche)". Insomma, nonostante la dicitura "allontanamento volontario" i militari hanno agito come una scomparsa per cause estranee alla volontà della ragazza. I carabinieri spiegano inoltre che nella serata di domenica, in seguito al collegamento della segnalazione del ragazzo e la denuncia del padre, viene effettuato il sopralluogo nel parcheggio dove è avvenuta l'aggressione. 

Estratto dell’articolo di lastampa.it venerdì 1 dicembre 2023.

Sarebbe stata, secondo quanto apprende LaPresse, la rescissione della vena aorta, a seguito di una coltellata inferta da Filippo Turetta, a provocare la morte di Giulia Cecchettin, la 22 enne uccisa dall'ex fidanzato a Vigonovo in provincia di Venezia. L'autopsia che si è conclusa poco fa è stata effettuata alla Uoc di Anatomia Patologica dell'università di Padova. 

Il decesso della ragazza, secondo quanto è emerso dall'autopsia, è stato causato quindi da un’emorragia. L'esame medico, ancora in corso, viene effettuato dal perito medico legale Guido Viel, incaricato dalla procura di Venezia, e dall’equipe medica del professor Angelo Paolo Dei Tos, responsabile dell’Unità Operativa Complessa di Anatomia Patologica dell’Università di Padova. Ad otto ore dall'inizio dell'esame, non vi sono previsioni certe su quando potrà terminare. I medici nominati dalla Procura e i consulenti delle parti sono ancora tutti all'interno dell'istituto.

L’interrogatorio dell’assassino, che per la prima volta è comparso davanti al pm Andrea Petroni, dura da sei ore. Da quanto emerso, Turetta ha rilasciato nuovamente delle dichiarazioni spontanee dopo quelle rilasciate al gip Benedetta Vitolo la scorsa settimana. Inoltre, la difesa del giovane ha chiesto un interrogatorio di riscontro su quello che emergerà dall'autopsia, che si sta svolgendo oggi a Padova […] 

A quanto si apprende da alcune indiscrezioni, Cecchettin è stata uccisa dopo una seconda lite e quando è arrivata al Lago di Barcis era già morta. Sul suo corpo tantissime coltellate, più di venti, che Turetta avrebbe inferto su Giulia. L'esame servirà anche a stabilire se i segni sui polsi di Giulia Cecchettin siano compatibili con il nastro adesivo trovato nella Fiat Grande Punto, con cui Turetta avrebbe trasportato il corpo della giovane, fino a Barcis, e verrà stabilito se Filippo abbia torturato Giulia prima di ucciderla.

Tutte questioni cruciali, che potrebbero determinare l’aggiunta di altre aggravanti ai capi d’accusa imputati a Turetta: prime fra tutte, la premeditazione e la crudeltà. «Non so quanto potrà durare l’indagine: dipende dalla lesività che verrà riscontrata. I tempi si decidono man mano che l'indagine va avanti. Verrà fatta anche la tac»: queste le dichiarazioni di Anna Aprile, dirigente medico dell’Unità Operativa di medicina legale di Padova, ai cronisti. E ha aggiunto: «Dal punto di vista umano esprimiamo il sentimento di tutti dicendo che è una giovane donna che frequentava la nostra università e la sentiamo come una perdita comune. È entrata nel cuore di tutti». 

Il dottor Guido Viel ha effettuato anche l'autopsia dell'autista e delle 21 vittime del bus precipitato dal cavalcavia a Mestre, oltre che sul cadavere di Albert Deda, il 24enne ucciso a coltellate da due connazionali a Forcellini, in provincia di Gorizia.

All’esame autoptico, oltre all’equipe medica incaricata dalla procura di Venezia, partecipano anche i consulenti di parte della famiglia Cecchettin, Stefano D’Errico, che si è occupato di recente del caso Resinovich, e Stefano Vanin, uno dei più qualificati entomologi forensi d'Europa, che ha collaborato alla soluzione dei più efferati casi di cronaca degli ultimi anni: Yara Gambirasio, Melania Rea, Lucia Manca, Elisa Claps. Consulente di parte per la difesa di Turetta è la dottoressa Monica Tucci". […]

Il papà di Giulia Cecchettin parlerà al funerale: «Sto preparando un messaggio. Non sono bravo con le parole. Vorrei che venisse tanta gente». Cesare Giuzzi su Il Corriere della Sera il 4 dicembre 2023.

Padova, la basilica e due maxischermi. La famiglia: di questa tragedia deve restare qualcosa. Lutto in tutta la regioneUna delle chiese più grandi d’Italia in una delle piazze più grandi d’Europa. E magari non basteranno per contenere l’ultimo abbraccio a Giulia. Sono attese 10 mila persone. Forse parecchie di più. Una folla che potrebbe essere fermata solo dalle condizioni del cielo, perché domani le previsioni parlano di pioggia e cielo grigio. Ma vista l’emozione che il delitto di Giulia Cecchettin ha creato in questi 23 giorni terribili, neppure il cielo avverso fermerà davvero quest’onda di dolore e commozione.

Funerali partecipati

Funerali pubblici, funerali partecipati. Come ha chiesto papà Gino: «Perché resti un messaggio da questa tragedia». Perché la storia di Giulia, spenti i riflettori e assopite le polemiche politiche, non rimanga soltanto un numero nel lungo elenco di donne uccise. E così Gino, probabilmente insieme alla figlia Elena, leggerà un messaggio pubblico rivolto a tutti. Parole per ricordare Giulia, per parlare di lei. Per riflettere sull’amore, sulla vita dei ragazzi e anche sull’emozione di tante persone che oggi, con un fiore, una poesia o un disegno lasciato davanti a casa, sono come amici, sorelle, fratelli. «Sto preparando un messaggio. Non sono bravo con le parole, chiedetemi semmai di elettronica... — ha spiegato Gino Cecchettin fuori dalla casa di Vigonovo —. Ma sto rimettendo insieme le idee di questa ultima settimana. Abbiamo scelto una chiesa grande perché vogliamo che arrivi un messaggio di grande partecipazione».

Prato della Valle

La chiesa è in realtà una basilica, quella di Santa Giustina a Prato della Valle. Qui verrà portata la gigantografia finora appesa alla facciata del municipio di Vigonovo, sopra la scalinata ricoperta da centinaia di mazzi di fiori, pupazzetti, lettere, e meta di una commovente e incessante processione di persone. Nella fotografia Giulia indossa un abito rosso e sorride mentre si dondola su un’altalena coperta di tulle bianco e fiori.

Il lutto in tutta la regione

Ad officiare il funerale alle 11 del mattino sarà il vescovo Claudio Cipolla. Poi alle 14 la seconda cerimonia a Saonara, vicino a Vigonovo, lo stesso paese in cui è sepolta la mamma di Giulia morta un anno fa. Il governatore Luca Zaia ha parlato di «un segnale corale, forte e chiaro» del «Veneto intero contro la violenza di genere». Una giornata «che diventi indelebile, che segni il passo perché fatti come questo possano non ripetersi più». Per questo ci sarà il lutto in tutta la regione.

I fiocchi rossi alle finestre e i maxischermi

Fuori dai palazzi, sulle vetrine dei negozi e alle finestre fiocchi rossi per ricordare Giulia. Mentre all’Università — dove si sarebbe dovuta laureare in Ingegneria biomedica — la rettrice Daniela Mapelli ha sospeso tutte le lezioni fino al pomeriggio. Nell’enorme spazio di Prato della Valle, uno dei simboli della città, sono già stati allestiti due maxischermi. Oggi sarà il prefetto Francesco Messina a fare il punto sul piano organizzativo. Non ci sarà il Presidente Sergio Mattarella, resta da capire chi parteciperà tra gli esponenti del governo.

Le indagini tecniche

Dopo il ritorno di Filippo Turetta in Italia e la confessione davanti ai magistrati, le esequie di Giulia chiudono simbolicamente questi 23 giorni. Gli investigatori però continuano a lavorare. Perché se non ci sono dubbi sulle responsabilità dell’ex fidanzato, la partita delle indagini tecniche non è chiusa. I carabinieri stanno cercando riscontri e verifiche dopo l’interrogatorio fiume di venerdì nel carcere di Verona. Si lavora con le polizie di Austria e Germania per trovare conferme al racconto fatto da Turetta al magistrato Andrea Petroni. Proprio su questi temi ci sarà un vertice in occasione del rientro dell’auto del 21enne previsto tra almeno dieci giorni.

La dinamica del delitto

Ci si concentra sulla settimana di fuga. Gli investigatori austriaci e tedeschi stanno verificando telecamere e apparecchi conta targhe lungo il percorso indicato da Turetta. Non esistono reali sospetti su aiuti o complici, ma occorre capire — se non altro per escludere questa eventualità — se Turetta possa aver cercato ospitalità da qualcuno. Magari conosciuto al momento. C’è poi la dinamica del delitto. Due le ipotesi: un colpo alle spalle, quello ripreso dal video a Fossò, o coltellate poco dopo mentre era in auto.

La Spettacolarizzazione.

Antonio Giangrande: Femminicidi mediatici e partigiani.

Andria 4 dicembre 2023 i funerali di Vincenza Angrisano. Folla commossa senza clamore mediatico, perché lì in famiglia non c’erano attivisti a sobillare la folla. Lì nessuno si è schierato politicamente su un dramma strettamente familiare con responsabilità esclusivamente personale.

Padova 5 dicembre 2023 i funerali (quasi) di Stato per Giulia Cecchettin. Tutte le tv ed i giornali in diretta ad esprimere opinioni a senso unico. Un dramma strettamente familiare con responsabilità esclusivamente personale diventato atto di accusa contro i maschi. Megafono delle femministe e dei sinistri.

Quei sinistri con il cervello copia incolla uno dell'altro di cui non si troverà alcuna minima differenza di pensiero. Uno clone dell’altro.

Posizioni sempre contro qualcuno per il Potere. In questo caso per la lotta di Potere delle donne contro e a scapito degli uomini.

Lo stesso padre di Giulia, a rimorchio dell’altra figlia, l’attivista Elena, pronto a fare il pistolotto contro se stesso in quanto maschio, contro il Papa, contro il Presidente della Repubblica. Gli stessi che si accodano all’andazzo contro sé stessi e a ricordare Giulia, ma ad ignorare e discriminare Vincenza.

Ma è difficile dire che il rispetto l’uno per l'altro non deve essere diritto di genere, ma rispetto per la persona in quanto tale, sia essa donna o uomo e senza fare discriminazione fra vittime?

"I FUNERALI DI GIULIA CECCHETTIN SONO STATI UNO SHOW MEDIATICO, QUESTO CASO È UNA TELENOVELA NAZIONALE" (ANSA martedì 5 dicembre 2023) - VENEZIA, 05 DIC - "Ne sono state ammazzate tante di ragazze e di donne e nessuno ne parla mentre le televisioni stanno facendo diventare questo caso una telenovela nazionale". Lo afferma ad Affaritaliani.it Stefano Valdegamberi, consigliere regionale veneto eletto nella Lista Zaia (ora nel gruppo misto, ndr) che qualche giorno fa, per il suo post sui social nel quale criticava le parole di Elena Cecchettin aveva scatenato molte polemiche, commentando i funerali di Giulia Cecchettin "trasmessi in diretta da molte tv nazionali in uno show mediatico senza precedenti". 

"Temo che l'obiettivo sia quello di enfatizzare questo caso, senza dubbio gravissimo - aggiunge -, strumentalizzarlo e far approvare qualche legge assurda come l'educazione sessuale nelle scuole, dimenticandoci che il problema è un altro. I primi risultati, sull'onda dell'euforia emotiva sono già stati raggiunti: politici che si scusano di essere uomini, altri che stanziano fondi per educare contro il patriarcato. 

Non vorrei che diventasse un alibi per sdoganare la teoria gender nella scuola, buttata fuori dalla porta cerca di rientrare dalla finestra - prosegue Valdegamberi -, In Consiglio regionale ci sono risoluzioni che impegnano la giunta veneta davvero assurde. Una del Pd che invita addirittura a modificare l'uso del linguaggio. Altre di Forza Italia e Lega spostano la soluzione nell'educazione a scuola quando il problema invece sta altrove".

150 euro per un posto in terrazza con affaccio sui funerali di Giulia Cecchettin. Martina Melli su L'Identità il 5 Dicembre 2023

Un posto sulla terrazza di un locale privato a Padova – sopra Prato della Valle dove si sono tenuti i funerali di Giulia Cecchettin – è stato “venduto” dai gestori a 150 euro. Questo quanto emerso dall’audio di una conversazione privata tra uno dei proprietari e un fotografo che chiedeva di poter scattare alcune foto dalla terrazza. Il gestore prima acconsente, poi, dopo aver ricevuto richieste dello stesso tipo pensa bene di avviare uno squallido business. La cifra stabilita per i fotografi e le troupe televisive è di 150 euro.

La cerimonia funebre è stata celebrata nella basilica di Santa Giustina a Padova, davanti a circa 1.200 persone. In oltre 8mila sono giunti fuori dalla chiesa hanno seguito le esequie dai due maxischermi installati. l padre di Giulia, Gino Cecchettin, ha letto un messaggio prima della conclusione del rito: “La sua morte sia il punto di svolta contro la violenza sulle donne”. 

La sorella Elena, durante il momento di preghiera, ha salutato la sorella con queste parole: “Guardo il cielo e ti vedo in mezzo alle stelle, che fai a metà di un gelato con la mamma. Prima o poi ci rivedremo, lo prometto, ma fino a quel momento so che sarai con me, perché sei il mio angelo custode, perché in fin dei conti lo sei sempre stato”.

 Estratto dell'articolo di Monica Serra per “la Stampa” martedì 5 dicembre 2023. 

L'ultima volta che ha incrociato lo sguardo sorridente della figlia era di sabato pomeriggio. Ventiquattro giorni e una vita fa. Mancano poche ore ai funerali della sua Giulia, e a Gino Cecchettin tocca l'ennesima difficile prova. Superare la rabbia, la sete di vendetta di tanti. Proprio lui che è distrutto dal dolore, dalla mancanza, vuole solo unire[…] 

 Gino legge e ripensa al suo messaggio. Quello che alle 11 leggerà nella basilica di Santa Giustina a Padova durante i funerali «pubblici» di Giulia, dove sono attese più di diecimila persone […] «Parlate, denunciate, fidatevi!» aveva scritto in un post su Instagram il 25 novembre, nella giornata internazionale contro la violenza sulle donne. E quest'impegno, Gino ha deciso di portarlo avanti per Giulia. Perché diventi il simbolo di una rivoluzione culturale. Perché non venga mai dimenticata.

[…]

Per chi non potrà esserci, tutto sarà trasmesso in diretta dal Tg1 e da Canale 5. «Chi può abbassi la serranda, spenga una luce in un negozio, suoni il clacson, ognuno nel suo piccolo dia un segnale», è l'invito del governatore Luca Zaia, che ha proclamato una giornata di lutto regionale. «Domani in Veneto si faccia rumore per dire che i dati sulla violenza di genere sono inquietanti. Questa vicenda rappresenta uno spartiacque, deve essere una presa di coscienza culturale altrimenti va a finire che Giulia sarà dimenticata». 

[…]  Dopo le funzioni pubbliche, a Saonara – il paese d'origine della mamma Monica, che se n'è andata lo scorso anno appena 51enne, e dove vive la sua famiglia, i nonni, gli zii – ci sarà un momento «privato» di raccoglimento e di preghiera, prima del corteo fino al cimitero[…] Anche a Saonara sono attese tante persone, ma nella chiesa di San Martino possono entrarne solo trecento. Per gli altri, sono stati installati gli altoparlanti sulla piazza. «Era una ragazza forte ma aveva un animo buonissimo ed era eternamente allegra. Per lei andava sempre tutto bene», racconta la nonna di Giulia, Carla Gatto, intervistata da Pomeriggio 5.

[…] Ma nonna Carla ha un pensiero anche per la sofferenza dei genitori di Filippo Turetta, che ha confessato di aver sequestrato e ucciso Giulia. E che, oggi, chiuso nel carcere di Montorio a Verona, potrebbe decidere di seguire i funerali in tv.

Estratto dell'articolo di Marco Imarisio per il “Corriere della Sera” martedì 5 dicembre 2023. 

Tutto finirà qui. In questo cimitero di paese […] Giulia Cecchettin riposerà poco distante dalla madre Monica, scomparsa appena un anno fa. […] Saonara, questo il nome del comune, diecimila abitanti a est di Padova, sarà l’ultima tappa del suo viaggio terreno. Oggi ci saranno prima le esequie nella basilica di Santa Giustina, officiante il vescovo di Padova Claudio Cipolla, diretta televisiva nazionale alla quale dal carcere di Verona potrebbe assistere anche Filippo Turetta, che ha gli stessi diritti di qualunque altro detenuto, è sempre bene ricordarlo.

Sono attese diecimila persone in presenza, nonostante il tempo che si annuncia avverso, due maxischermi in Prato della Valle, un apparato di sicurezza imponente per quelli che ieri in Prefettura, durante la conferenza stampa di prefetto e questore sono stati definiti funerali di Stato non dichiarati. Anche i lanci di agenzia annunciano solenni che oggi l’Italia saluterà Giulia, […] 

Chissà cosa pensa suo padre Gino, chissà se lui ed Elena, la sorella, si sentono in qualche modo espropriati, da questa onda emotiva lunga ormai quasi un mese, di un dolore che in primo luogo appartiene a loro e soltanto a loro. Nel tardo pomeriggio lui esce dal suo ufficio attiguo alla villetta dalla cancellata ancora pavesata con fiori, messaggi di cordoglio[…]

No, assolutamente, dice a chi gli si para davanti e gli chiede anticipazioni sul contenuto del discorso che leggerà questa mattina in chiesa. Quello che provo io non ha importanza, quello che conta è che rimanga qualcosa, per far sì che non accada mai più quel che è successo a mia figlia.

Non è un’anticipazione, è l’ennesima frase ufficiosa carpita a una persona che fin dal primo momento non ha mai smesso di essere gentile, che da subito è sembrato guardare oltre, a un orizzonte collettivo, quasi che contasse più della sua sofferenza individuale.

 Li abbiamo osservati per tutto questo tempo, padre, sorella-figlia, persino la nonna Carla, criticata perché ha osato presentare un suo libro durante questo periodo di lutto […] Li abbiamo giudicati, i Cecchettin, discutendo della figura del padre, dividendoci sui social sulle parole di Elena, su quel «bruciamo tutto», come se una giovane donna non avesse il diritto di dirlo, dopo quel che è successo.

Li lasceremo infine sul sagrato della piccola chiesa di Saonara, dove alle 14 si terrà una cerimonia privata, solo familiari e amici. Ma prima ci saranno quei funerali quasi di Stato, senz’altro con la presenza annunciata di qualche esponente di rilievo del governo, che serviranno ad amplificare un messaggio necessario. Non ci sarà il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che non a caso ieri ha però pronunciato parole nette e necessarie. «Le notizie dei femminicidi che ci giungono così frequentemente, anche negli ultimi giorni, sono un triste promemoria di quanto intenso sia lo sforzo ancora da compiere per realizzare un cambiamento radicale di carattere culturale. Cambiamento che chiama in causa le famiglie, l’intera società e gli stessi governi».

Siamo tutti coinvolti. In fondo, è questo quel che Gino ed Elena Cecchettin stanno cercando di ripeterci in ogni modo, con tutta la forza che hanno. Perché sono convinti che bisogna continuare a parlare, a confrontarci. A fare rumore, come chiedono le amiche di Giulia. […] Oggi si spegneranno le luci sull’ennesimo delitto orrendo. Ma c’è ancora molto da fare.

Elena Cecchettin, il discorso della sorella di Giulia: «Continuerai a essere il mio angelo custode». Elena Cecchettin, sorella di Giulia su Il Corriere della Sera martedì 5 dicembre 2023.

Elena Cecchettin in chiesa a Saonara al termine della cerimonia: «Prima o poi ci rivedremo ma fino a quel momento so che sarai con me»

Il discorso integrale di Elena Cecchettin in chiesa a Saonara al termine della cerimonia funebre della sorella Giulia, la ventiduenne uccisa dall'ex fidanzato Filippo Turetta. 

«Ci sono tante parole che vorrei e potrei dirvi in questo momento, ma ho deciso di regalarvi un pezzo di Giulia, una parte di quella persona fantastica come la conoscevo io, sperando che vi lasci il segno, come ha fatto con me, perché me la porterò per sempre dentro. 

Giulia era quella ragazza a cui era semplice fare regali, perché qualsiasi cosa vagamente buffa e carina la faceva andare in visibilio. Giulia collezionava scatole di latta, solo per riempirle con altre scatole. Giulia aveva la scatola delle scatole. Una volta l’ho sorpresa a conservare la scatola del Finish, perché diceva che aveva del potenziale. Giulia non buttava via mai niente, nemmeno le cose rotte e rovinate. Giulia amava le passeggiate, amava passeggiare mentre ascoltava la musica. Giulia non amava decidere, per niente, tanto che faceva a metà con la mamma anche per la pallina del gelato o la pizza («Se tu prendi un gusto, io prendo l’altro e ce li scambiamo»). 

Giulia era una persona buona, la persona migliore che abbia mai conosciuto. Giulia amava la letteratura inglese e Jane Austen, e voleva andare a vedere la brughiera. Giulia aveva un impermeabile giallo preferito, aveva una paura irrazionale delle cimici, tanto che una notte è andata a dormire sul divano perché ce n'era una in camera di notte, io stavo dormendo e non potevo toglierlo. Giulia mi faceva sentire speciale perché la salvavo dalle cimici. 

Gino Cecchettin, il discorso del papà di Giulia al funerale: «Femminicidio risultato di una cultura che svaluta le donne. Addio amore mio»

Giulia si dimenticava sempre le chiavi e una volta, tentando di scavalcare il cancello si è strappata il cappotto e la felpa. Giulia era la mia sorellina, ma anche la mia sorella maggiore e mi diceva cosa dovevo fare quando non ero sicura e mi dava sempre ottimi consigli che molto spesso non mi piacevano perché non era quello che speravo di sentir dire ma era onesta e dava ottimi consigli. Giulia aveva tanti peluche e ognuno di loro aveva un nome stranissimo. Quando eravamo piccole avevamo una busta con una serie di nomi, i più assurdi possibili, e da quella busta estraeva a sorte il nome del suo prossimo pupazzo. 

A Giulia piacevano tanto le macchine vecchie. Con Giulia andavamo spesso al parco o nel nostro spiazzo di cemento preferito e disegnavamo. Giulia e io amavamo andare insieme a fare passeggiate lunghissime e non volevamo mai tornare a casa perché si stava troppo bene assieme e chiacchierare. Nelle notti d’estate ci stendevamo sulla cesta di corda e rimanevamo lì, a dondolarci piano, guardando le stelle e sentendoci infinite, con le viti che si conficcavano nella schiena perché forse eravamo un po’ troppo grandi per quella cesta ma a noi andava bene così. Ora, Giulia, in quella cesta ci sto comoda ma non è più bello senza di te perché guardo il cielo e ti vedo in mezzo alle stelle mentre fai a metà di un gelato con la mamma. Prima o poi ci rivedremo, te lo prometto, ma fino a quel momento so che sarai con me e che continuerai a essere il mio angelo custode, perché in fin dei conti lo sei sempre stato».

Gino Cecchettin, il discorso del papà di Giulia al funerale: «Femminicidio risultato di una cultura che svaluta le donne. Addio amore mio». Gino Cecchettin, padre di Giulia su Il Corriere della Sera martedì 5 dicembre 2023.

Il discorso integrale di Gino Cecchettin al termine della funzione religiosa in basilica di Santa Giustina a Padova

Il discorso integrale di Gino Cecchettin al termine dei funerali della figlia Giulia, 22enne uccisa dall'ex fidanzato Filippo Turetta. 

«Carissimi tutti, abbiamo vissuto un tempo di profonda angoscia: ci ha travolto una tempesta terribile e anche adesso questa pioggia di dolore sembra non finire mai. Ci siamo bagnati, infreddoliti, ma ringrazio le tante persone che si sono strette attorno a noi per portarci il calore del loro abbraccio. Mi scuso per l'impossibilità di dare riscontro personalmente, ma ancora grazie per il vostro sostegno di cui avevamo bisogno in queste settimane terribili. La mia riconoscenza giunga anche a tutte le forze dell’ordine, al vescovo e ai monaci che ci ospitano, al presidente della Regione Zaia e al ministro Nordio e alle istituzioni che congiuntamente hanno aiutato la mia famiglia.

Mia figlia Giulia, era proprio come l’avete conosciuta, una giovane donna straordinaria. Allegra, vivace, mai sazia di imparare. Ha abbracciato la responsabilità della gestione familiare dopo la prematura perdita della sua amata mamma. Oltre alla laurea che si è meritata e che ci sarà consegnata tra pochi giorni, Giulia si è guadagnata ad honorem anche il titolo di mamma. Nonostante la sua giovane età era già diventata una combattente, un’oplita, come gli antichi soldati greci, tenace nei momenti di difficoltà:

il suo spirito indomito ci ha ispirato tutti. Il femminicidio è spesso il risultato di una cultura che svaluta la vita delle donne, vittime proprio di coloro avrebbero dovuto amarle e invece sono state vessate, costrette a lunghi periodi di abusi fino a perdere completamente la loro libertà prima di perdere anche la vita. Come può accadere tutto questo? Come è potuto accadere a Giulia? Ci sono tante responsabilità, ma quella educativa ci coinvolge tutti: famiglie, scuola, società civile, mondo dell’informazione.

Mi rivolgo per primo agli uomini, perché noi per primi dovremmo dimostrare di essere agenti di cambiamento contro la violenza di genere. Parliamo agli altri maschi che conosciamo, sfidando la cultura che tende a minimizzare la violenza da parte di uomini apparentemente normali.

Dovremmo essere attivamente coinvolti, sfidando la diffusione di responsabilità, ascoltando le donne e non girando la testa di fronte ai segnali di violenza anche i più lievi. La nostra azione personale è cruciale per rompere il ciclo e creare una cultura di responsabilità e supporto.

A chi è genitore come me, parlo con il cuore: insegniamo ai nostri figli il valore del sacrificio e dell’impegno e aiutiamoli anche ad accettare le sconfitte. Creiamo nelle nostre famiglie quel clima che favorisce un dialogo sereno perché diventi possibile educare i nostri figli al rispetto della sacralità di ogni persona, ad una sessualità libera da ogni possesso e all’amore vero che cerca solo il bene dell’altro. Viviamo in un'epoca in cui la tecnologia ci connette in modi straordinari, ma spesso, purtroppo, ci isola e ci priva del contatto umano reale. 

È essenziale che i giovani imparino a comunicare autenticamente, a guardare negli occhi degli altri, ad aprirsi all'esperienza di chi è più anziano di loro. La mancanza di connessione umana autentica può portare a incomprensioni e a decisioni tragiche. Abbiamo bisogno di ritrovare la capacità di ascoltare e di essere ascoltati, di comunicare realmente con empatia e rispetto.

La scuola ha un ruolo fondamentale nella formazione dei nostri figli.

Dobbiamo investire in programmi educativi che insegnino il rispetto reciproco, l'importanza delle relazioni sane e la capacità di gestire i conflitti in modo costruttivo per imparare ad affrontare le difficoltà senza ricorrere alla violenza. La prevenzione della violenza inizia nelle famiglie, ma continua nelle aule scolastiche, e dobbiamo assicurarci che le scuole siano luoghi sicuri e inclusivi per tutti.

Anche i media giocano un ruolo cruciale da svolgere in modo responsabile. La diffusione di notizie distorte e sensazionalistiche non solo alimenta un’atmosfera morbosa, dando spazio a sciacalli e complottisti, ma può anche contribuire a perpetuare comportamenti violenti. Chiamarsi fuori, cercare giustificazioni, difendere il patriarcato quando qualcuno ha la forza e la disperazione per chiamarlo col suo nome, trasformare le vittime in bersagli solo perché dicono qualcosa con cui magari non siamo d’accordo, non aiuta ad abbattere le barriere. Perché da questo tipo di violenza che è solo apparentemente personale e insensata si esce soltanto sentendoci tutti coinvolti. Anche quando sarebbe facile sentirsi assolti.

Alle istituzioni politiche chiedo di mettere da parte le differenze ideologiche per affrontare unitariamente il flagello della violenza di genere. Abbiamo bisogno di leggi e programmi educativi mirati a prevenire la violenza, a proteggere le vittime e a garantire che i colpevoli siano chiamati a rispondere delle loro azioni. Le forze dell’ordine devono essere dotate delle risorse necessarie per combattere attivamente questa piaga e degli strumenti per riconoscere il pericolo. Ma in questo momento di dolore e tristezza, dobbiamo trovare la forza di reagire, di trasformare questa tragedia in una spinta per il cambiamento. La vita di Giulia, la mia Giulia, ci è stata sottratta in modo crudele, ma la sua morte, può anzi deve essere il punto di svolta per porre fine alla terribile piaga della violenza sulle donne. Grazie a tutti per essere qui oggi: che la memoria di Giulia ci ispiri a lavorare insieme per creare un mondo in cui nessuno debba mai temere per la propria vita.

Vi voglio leggere una poesia di Gibran che credo possa dare una reale rappresentazione di come bisognerebbe imparare a vivere.

«Il vero amore non è ne fisico ne romantico.

Il vero amore è l'accettazione di tutto ciò che è, è stato, sarà e non sarà.

Le persone più felici non sono necessariamente coloro che hanno il meglio di tutto, ma coloro che traggono il meglio da ciò che hanno.

La vita non è una questione di come sopravvivere alla tempesta, ma di come danzare nella pioggia…»

Cara Giulia, è giunto il momento di lasciarti andare. Salutaci la mamma. Ti penso abbracciata a lei e ho la speranza che, strette insieme, il vostro amore sia così forte da aiutare Elena, Davide e anche me non solo a sopravvivere a questa tempesta di dolore che ci ha travolto, ma anche ad imparare a danzare sotto la pioggia. Sì, noi tre che siamo rimasti vi promettiamo che, un po’ alla volta, impareremo a muovere passi di danza sotto questa pioggia.

Cara Giulia, grazie, per questi 22 anni che abbiamo vissuto insieme e per l’immensa tenerezza che ci hai donato. Anch’io ti amo tanto e anche Elena e Davide ti adorano. Io non so pregare, ma so sperare: ecco voglio sperare insieme a te e alla mamma, voglio sperare insieme a Elena e Davide e voglio sperare insieme a tutti voi qui presenti: voglio sperare che tutta questa pioggia di dolore fecondi il terreno delle nostre vite e voglio sperare che un giorno possa germogliare. E voglio sperare che produca il suo frutto d’amore, di perdono e di pace.

Addio Giulia, amore mio.

«Il femminicidio è il risultato di una cultura che svaluta le donne». La lezione del padre di Giulia Cecchettin al funerale. L'ultimo saluto a Padova alla ragazza uccisa dall'ex fidanzato. Chiesa e piazza gremite. E il discorso di Gino Cecchettin che commuove senza risparmiare una dura presa di posizione: «La responsabilità educativa ci coinvolge tutti, famiglie, informazione, scuola, società civile». Simone Alliva su L'Espresso il 5 dicembre 2023

Così, è davanti alla bara di Giulia Cecchettin che il potere svanisce. L'abbraccio del presidente del Veneto Luca Zaia, del sindaco di Padova, Sergio Giordani e del ministro alla Giustizia Carlo Nordio, visibilmente commosso, insieme a una quarantina di sindaci della zona. Tutti stretti intorno al padre di Giulia, Gino Cecchettin. Impallidiscono inutili i gradi del potere, dentro la Basilica di Santa Giustina a Padova, dove all'esterno appare una gigantografia della ventiduenne di Vigonovo uccisa dall'ex fidanzato Filippo Turetta. Nella foto Giulia sorride, seduta su un'altalena verde con tulle e fiori, in basso la scritta "Giulia ti vogliamo bene". Nella processione di fronte alla bara bianca, circondata da una nuvola di rose candide, non ci sono ministri, presidenti, sindaci. Solo uomini e donne dentro i cappotti scuri, ciascuno la persona che è.  

Ma è il discorso del padre, mentre i figli Elena e Davide si abbracciano, a riempire gli occhi di lacrime a una platea attenta e silente. Una lezione a chi i questi giorni ha sbeffeggiato e sminuito la radice culturale dei femminicidi. Cecchettin nomina la causa (patriarcato), individua l'antidoto (educazione): «Mia figlia Giulia, era proprio come l'avete conosciuta, una giovane donna straordinaria. Allegra, vivace, mai sazia di imparare. Ha abbracciato la responsabilità della gestione familiare dopo la prematura perdita della sua amata mamma», dice Gino Cecchettin, sul petto il nastro rosso simbolo della violenza contro le donne. «Oltre alla laurea che si è meritata e che ci sarà consegnata tra pochi giorni, Giulia si è guadagnata ad honorem anche il titolo di mamma - ha continuato - Nonostante la sua giovane età era già diventata una combattente, un oplita, come gli antichi soldati greci, tenace nei momenti di difficoltà: il suo spirito indomito ci ha ispirato tutti» 

«Abbiamo vissuto un momento di profonda angoscia, siamo stati travolti da una tempesta terribile, da una pioggia di dolore che sembra non finire mai. Grazie a chi si è stretto attorno a noi per darci il calore di un abbraccio, grazie per il vostro sostegno, di cui avevamo bisogno in queste settimane terribili. Grazie a Zaia, Nordio e alle istituzioni che hanno aiutato la mia famiglia. Giulia era una giovane donna, straordinaria, allegra, vivace, mai sazia di imparare». La basilica è gremita, milleduecento persone, hanno trovato posto anche 360 tra conoscenti e amici della famiglia, tra cui i compagni di classe del fratello di Giulia. Ma è fuori dalla diocesi, sotto un tempo incerto, che assistono circa diecimila persone all'ultimo saluto, occhi puntati sui due maxi schermi: «Il suo spirito indomito ci ha ispirato tutti - ha aggiunto il padre - Il femminicidio è il risultato di una cultura che svaluta la figura delle donne, vittime di chi avrebbe dovuto amarle. Come può accadere tutto questo, come può essere accaduto a Giulia? La responsabilità educativa ci coinvolge tutti, famiglie, informazione, scuola, società civile. Mi rivolgo agli uomini, noi per primi dovremmo essere agenti di cambiamento, parliamo agli altri maschi che conosciamo. Dovremmo essere attivamente coinvolti, ascoltando le donne e non girando la testa dinnanzi ai segnali di violenza, anche lievi. La nostra azione è cruciale - è la riflessione del papà di Giulia - Insegniamo ai nostri figli il valore del sacrificio e dell'impegno, e aiutiamoli anche ad accettare le sconfitte. Chiamarci fuori, difendere il patriarcato, trasformando le vittime in bersagli, non aiuta ad abbattere le barriere. Da questa violenza si esce fuori sentendosi tutti coinvolti, anche quando ci si sente tutti assolti».  

Quindi un messaggio diretto alle istituzioni: «La politica metta da parte le divergenze e faccia leggi per prevenire la violenza e proteggere le vittime, garantendo che i colpevoli siano destinati a rispondere delle loro azioni. Occorre trasformare questa tragedia in cambiamento: la vita della mia Giulia è stata sottratta in modo crudele, ma la sua morte deve essere la spinta per fermare la violenza sulle donne». 

Gino fa una lunga pausa, poi legge una poesia di Kahlil Gibran, prima di rivolgersi per l'ultima volta alla figlia: «Cara Giulia, è giunto il momento di lasciarti andare. Salutaci la mamma, ti penso abbracciata a lei e penso che il vostro amore sia così forte da aiutare me, Elena e Davide a imparare a danzare sotto la pioggia. Noi tre rimasti vi promettiamo che impareremo a muovere i passi di danza sotto la pioggia. Cara Giulia, grazie per questi ventidue anni. Non so pregare, ma so sperare, voglio farlo insieme a tutti voi qui presenti, che tutta questa pioggia di dolore fecondi il terreno delle nostre vite e un giorno possa germogliare. Addio Giulia, amore mio». 

Fuori l'applauso sempre più forte, le grida, i campanelli e le chiavi scosse verso il cielo. Gino Cecchettin si stringe in un abbraccio con i figli Elena e Davide, altrettanto commossi davanti alla manifestazione d'affetto che le persone accorse da tutta Italia. All'uscita del feretro dalla chiesa di Santa Giustina a Padova, la piazza risponde così alla richiesta dei familiari di Giulia di fare il minuto di rumore, per non restare indifferenti davanti al femminicidio

Il femminicidio non è un caso isolato ma il prodotto di un sistema di potere. Il corteo per la giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne. NON UNA DI MENO – PADOVA su Il Domani il 05 dicembre 2023

Pubblichiamo la nota integrale del gruppo di Padova del movimento transfemminista Non una di meno a seguito dei funerali pubblici di Giulia Cecchettin, la ragazza di 22 anni vittima di femminicidio  

Un rispettoso silenzio interrotto solo da un potente e roboante rumore di chiavi. Centinaia di chiavi agitate all’unisono, per esprimere riconoscenza verso le parole pronunciate dal padre di Giulia Cecchettin durante il funerale pubblico della ragazza vittima di femminicidio. Ma non solo, quel gesto, spontaneo e collettivo porta con sé un messaggio che è intrinsecamente politico: il femminicida non é un passante, uno sconosciuto, ma ha le chiavi di casa.

La grande partecipazione cittadina ai funerali pubblici di Giulia, le mobilitazioni fiorite ovunque nelle ultime settimane: dai presidi nelle province alla manifestazione oceanica di Non Una di Meno del 25 novembre, ci restituiscono con chiarezza come stia avvenendo una presa di consapevolezza collettiva rispetto alla violenza di genere.

Il femminicidio di Giulia ha infatti reso evidente una verità che ormai nessuno può più negare: i femminicidi, gli stupri, le molestie, le discriminazioni non sono un ammasso di casi isolati, ma esiste un sistema di potere ben preciso: il patriarcato, che produce violenza e che ci riguarda tutti e tutte.

Dire che i 110 femminicidi del 2023 sono un fatto politico significa riconoscere che la violenza di genere non è un problema solamente individuale da risolvere inasprendo le pene, buttando via la chiave, militarizzando le strade oppure con i piccoli gesti quotidiani di buonsenso e gentilezza.

Il problema è il patriarcato, cioè un sistema culturale, economico e sociale fondato sulla violenza, sull’oppressione e sullo sfruttamento della vita e dei corpi di noi donne e libere soggettività non binarie.

Violenza patriarcale sono le botte in casa, sono la vittimizzazione secondaria delle polizie e dei tribunali quando denunciamo, sono le narrazioni tossiche dei giornali che minimizzano i femminicidi come ‘raptus di gelosia’, sono i tagli alla spesa pubblica che rendono le nostre esistenze sempre più precarie, ricattabili e violentabili.

Quando una donna, una persona trans o non binaria vuole svincolarsi dalla dipendenza da un partner violento, spesso non riesce a farlo per via di uno stipendio troppo basso che nega la possibilità concreta a questi soggetti di andare via di casa e autodeterminarsi. Per questo nominiamo anche la violenza economica come parte di questo sistema di oppressione.

Questo è tutto quello che diciamo come movimento femminista e transfemminista Non Una di Meno da otto anni, al di là dell’eccezionalismo mediatico, perché il patriarcato non è lo scandalo del mese. Perché dietro all’ipervisibile femminicidio di Giulia Cecchettin, ci sono gli invisibili femminicidi di donne anziane, trans, lesbiche, migranti, sex workers, povere.

Da otto anni pretendiamo un’assunzione di responsabilità politica da quelle istituzioni che oggi siedono con il tricolore in prima fila nei banchi di Santa Giustina, piangendo il femminicidio n. 105: educazione all’affettività e alla sessualità consapevole in tutte le scuole per prevenire la violenza ed educare a relazioni basate sul rispetto e sul consenso; maggiori finanziamenti ai centri antiviolenza per sostenere i percorsi di fuoriuscita dalla violenza; un reddito di autodeterminazione per uscire da relazioni, dinamiche ed esistenze violente, perché non c’è libertà senza autonomia economica.

Vedremo che ne sarà del decantato impegno nel contrasto alla violenza di genere una volta che i riflettori si saranno spenti. Noi di sicuro continueremo a sognare, rivendicare e mettere in pratica una società basata sul consenso, sul rispetto delle diversità e sulla cura. Per Giulia, per le 110 vittime di femminicidio, per tutte perché non ne vogliamo una di meno! NON UNA DI MENO – PADOVA

Crepet sbotta con Ricci Sargentini: "Sinner è un potenziale assassino?" Il Tempo il 05 dicembre 2023

Paolo Crepet torna a commentare il funerale di Giulia Cecchettin a Padova, dove migliaia di persone hanno dato l’ultimo saluto alla giovane uccisa dall'ex fidanzato Filippo  Turetta. "È stato giusto dare uno spazio così grande perché i sentimenti erano così grandi, e anche dilaniati", ha detto lo psichiatra e sociologo a Stasera Italia, su Rete4. Abbiamo assistito a "un moto di anime, di ragazzi e di ragazze perché la piazza era piena di giovani, non solo persone adulte", afferma l'esperto. 

Il discorso verte su Turetta. L'Italia  in qualche modo è stata colpita da questo caso si perché Giulia era una ragazza come tante, così come il suo assassino: "Ma dietro un delitto efferato c'è spesso  qualcuno di buona famiglia, che  'salutava sempre', come se il saluto sia una sorta di stigma tradizionale di santità", afferma  Crepet. Lo psichiatra respinge l'equazione maschio uguale violenza, e su questo tema si scontra con Monica Ricci Sargentini, del Corriere della sera, anche lei ospite di Nicola Porro. La giornalista rimarca come l'educazione tradizionale favorisca in qualche modo la violenza maschile. "Ma come si fa a dire maschio? - sbotta Crepet - sono cose più complesse, dietro c'è un progetto culturale". Insomma, la genetica non c'entra, e non si può semplificare troppo. 

"Ma c'è una aggressività latente negli uomini", ribatte Ricci Sargentini. "Allora Sinner è un potenziale assassino", risponde Crepet con riferimento al tennista azzurro che ha la stessa età di Turetta. La giornalista allora si produce in un lunghissimo elenco sulla predominanza dei maschi come autori di reati. "È il costo della virilità"; afferma sorprendendo Crepet e Porro. Ricci Sargentini: "È la cultura patriarcale. Risolvetelo voi questo problema". "E lei si risolva i problemi delle kapò nei lager e i testi delle trapper. Io non capisco cosa vuol dire genere, so cosa vuol dire persone", ribatte Crepet. Le posizioni sono inconciliabili: "Nelle scuole ci sono quasi tutte insegnati donne", afferma Crepet. "Ma è la cultura a essere patriarcale", è la replica con lo psichiatra che ribatte: "Fa il gioco delle tre carte".

Un’Italia chiamata Giulia. Tommaso Cerno su L'Identità il 2 Dicembre 2023

Giulia è il nome che tutta l’Italia vorrebbe ancora qui con noi. Lo vorrebbe perché finalmente questo Paese si accorge che le donne sono in pericolo molto più di quanto noi vediamo nella nostra distratta vita quotidiana. Lo vorrebbe perché c’è un senso di colpa del Paese che crede di avere fatto meno di quello che aveva promesso di fare. Ma se vogliamo davvero che queste promesse e queste grandi parole, queste manifestazioni che si moltiplicano in Italia e queste denunce di un maschilismo che ritorna, sia nella sua forma più classica, quella della violenza di un uomo che vuole sopraffare una donna, che trasforma l’amore in ossessione, sia nelle sue moderne e più infide manifestazioni, in quel mondo nero dove molti adolescenti mostrano in superficie un’immagine di sé diversa da quella che è la loro vita reale, fatta di mille pressioni nascoste nei telefoni e di mille violenze che non riguardano la legge e la sua cinica realtà, dobbiamo processare come un Paese civile Filippo Turetta.

Dobbiamo portare quel processo a una sentenza, applicare quella sentenza e fare in modo che le donne che vivono in silenzio violenze simili a quelle che Giulia aveva cercato di denunciare, che abbiamo ascoltato nei suoi audio, che continuiamo a sentire nella nostra mente, vedano che l’Italia non parla e basta ma è in grado di fare qualcosa. Voi direte che questo è scontato ma non è così. Perché se è vero che il patriarcato finalmente diventa un argomento di discussione collettiva, pur fra mille banalità e luoghi comuni, pur fra mille contraddizioni e frasi fatte, è anche vero che rischiamo di tirare per l’ennesima volta la palla in tribuna. Perché noi dobbiamo ricordarci che c’è una persona da processare, ha un nome e un cognome, non conosciamo ancora chi sia davvero, non conosciamo il dettaglio dei fatti, eppure siamo già pronti a tirare in campo parole d’ordine e visioni che rischiano di non aiutare l’Italia a capire, ma di spostare il dibattito dal fatto criminale con le sue ovvie connotazioni sociali a uno dei tanti sterili e violenti dibattiti politici, dove lo scontro non è più né tra Filippo e Giulia, nè tra l’uomo e la donna ma tra la destra e la sinistra.

Provate a immaginare quanto ci saremmo meravigliati, anzi quanto avremmo riso in faccia alla nostra politica se nel 2007 quando Alberto Stasi a Garlasco ha ucciso in maniera efferata la sua fidanzata Chiara Poggi anziché parlare di chi fossero l’assassino e la sua vittima, di quali fossero i segreti della loro vita, di quale fosse la dinamica dei fatti, avessimo aperto una stravagante tenzone dialettica fra le responsabilità politiche del governo di Romano Prodi e dell’opposizione di destra guidata da Silvio Berlusconi. Eppure oggi lo stiamo facendo, abbiamo talmente tanto bisogno di una verità istantanea che si manifesta sui nostri telefoni in tempo reale che stiamo perdendo di vista ciò che è avvenuto, per capire il quale abbiamo bisogno di più tempo e più attenzione, per dedicarci alla solita gara su chi la spara più grossa e chi pensa di avere ragione. E’ anche questa una violenza sulle donne. E su tutte le vittime dei reati. Perché deve sempre esistere la capacità di una società di alzare lo sguardo e collocare i fatti della cronaca dentro un sentimento generale, ma questa non può prescindere dal rispetto della realtà, dal tempo necessario per comprenderla a fondo, dall’idea di mantenere un dubbio fino a quando qualcuno o qualcosa a cui noi abbiamo dato il potere di decidere avrà messo per iscritto cosa davvero è capitato e che valore questo abbia nella vita di tutti gli italiani.

La spettacolarizzazione di un crimine porta all'emulazione. Cristina Brasi su Panorama il 4 Dicembre 2023

Il caso di Giulia Cecchettin avrebbe dovuto portare a riflessioni serie, invece viene tutto gonfiato per dovere di audience tv. Ma questo scatena reazioni pericolose I recenti fatti di cronaca hanno evidenziato come gesti che dovrebbero portare ad una riflessione, vengono spesso trasformati in un fenomeni di pura spettacolarizzazione con tutto quello che ne consegue. Un effetto che potrebbe verificarsi ad esempio è quello di comportamenti di natura imitativa, quello che viene definito “effetto copycat”, ossia il “crimine emulato”. In altri termini un certo tipo di copertura mediatica dei fatti di cronaca nera potrebbe avere la capacità di rendere più frequenti crimini simili a quelli di cui tratta, inducendo altri soggeti a imitarli. Per rientrare in questa tipologia di reati, un crimine deve essere stato ispirato da un precedente crimine divulgato, nella fattispecie devono essere presenti almeno un paio di crimini resi noti dai media. Il crimine emulato può essere motivato da un mezzo di comunicazione reale o immaginario o da una rappresentazione artistica in cui l'autore incorpora aspetti del reato originale, ad esempio, metodo, tecnica, scelta della vittima, o in un nuovo crimine. La tecnologia dei mass media genererebbe una falsa familiarità, una linea sfocata tra fantasia e realtà, un regno virtuale all'interno del quale le razionalizzazioni e i sentimenti di colpa, che normalmente aiutano a mediare l'azione criminale, vengono assolti. La tecnologia dei mass media avrebbe cambiato il modus operandi degli elementi criminali nel corso della storia e gli attuali progressi tecnologici avrebbero cambiato l'ambiente fisico in cui si verifica il crimine. La tecnologia, in questi termini, sarebbe in grado di dare forma al comportamento criminale. Il fenomeno dei copycat crimes è ad oggi ancora poco studiato, ma cercherò di identificare quali sono le potenziale caratteristiche che predisporrebbero al verificarsi di tale tipologia di azione criminosa. A seguito della pubblicazione del romanzo “I dolori del giovane Werther” di Goethe, si assistette in Germania a una delle più importanti epidemie di suicidi tra i giovani. Un fenomeno analogo avvenne in Italia nel 1802, dopo la pubblicazione del romanzo di Ugo Foscolo “Le ultime lettere di Jacopo Ortis”. Questi episodi misero in rilievo un elemento caratterizzante buona parte degli atti suicidari, ossia l’imitazione. Viene infatti definito “effetto Werther” l’influenza esercitata sul suicidio dalla letteratura e dai mezzi di comunicazione. Il ruolo dei mass-media in epoca attuale è però cresciuto a dismisura. I continui cambiamenti e l’assenza di punti di riferimento stabili, complici una società edonistica centrata su modelli di riferimento fittizi, la mancanza di pensiero critico e la perdita di una cultura sociale di gruppo, possono predisporre l’individuo non particolarmente strutturato a una maggiore influenza esterna. Questi elementi potrebbero far propendere verso l’ipotesi che l’effetto Werther in epoca anteriore correlato solo al verso l ipotesi che, l effetto Werther, in epoca anteriore correlato solo al suicidio, possa ad oggi essere presente per differenti tipologie comportamentali devianti eterodirette. Sono state rilevate delle correlazioni relative ai casi di emulazione di condotte di natura deviante ove la notizia di cronaca abbia avuto più risonanza. Ma i media non sono tutto, la comunicazione passa attraverso altre piattaforme: i canali social, le applicazioni di messaggistica, i commenti degli utenti. Occorre quindi prendere atto di una doppia relazione in cui è immerso il flusso delle nostre decisioni comunicative considerando tutto quanto sta alle nostre spalle, con tutto ciò che si è sedimentato nella nostra cultura e nelle nostre coscienze, ma anche con tutto quanto si sta dipanando sotto i nostri occhi, riguardo alla trasformazione dell’ecosistema dell’informazione in cui viviamo. Al giornalismo compete un’assunzione di responsabilità fondamentale, anche se i giornalisti non sono gli unici soggetti chiamati a esercitare una maggiore consapevolezza. Ogni cittadino è utente, ma anche protagonista di questo flusso di informazioni e nessuno si può chiamare fuori e sfuggire alle proprie responsabilità. Il fenomeno imitativo appena inquadrato deve però essere inserito all’interno di uno specifico quadro personologico in cui devono essere presenti delle condizioni specifiche affinché il processo imitativo passi da un piano di intento a un piano di azione. Un termine utilizzato per esprimere lo stesso malessere in una tonalità un po’ più cupa è quello di disadattamento, che designa una condizione di sofferenza cagionata dalla difficoltà, vera o presunta, di trovare all’interno del proprio ambiente di vita uno spazio proprio, coincidente con le aspettative e le ambizioni personali. La parola disagio racchiude in sé una molteplicità di situazioni, spesso differenti, accomunate dalla carenza di abilità sociali e dall’incapacità di prendere parte attiva nella comunità di riferimento e, conseguentemente, nella progettazione della propria vita. Si consideri che gli individui portatori di un disagio in senso lato possono relazionarsi con l’ambiente esterno in diversi modi: con una chiusura in sé stessi e conseguente creazione di ansie e nevrosi; oppure con atteggiamenti aggressivi, sfrontati, di sfida nei confronti di un mondo che, in qualunque modo stiano le cose, così come può cadere in forme di criminalità e microcriminalità. Il disagio e il disadattamento, pur presentandosi come espressioni di un malessere esistenziale, non conducono in senso stretto, all’assunzione di condotte criminali o di aggressività e violenza. È pur vero che chi vive l’ambiente esterno con sentimenti di rivalsa e rifiuto può con maggiore probabilità, ma senza alcun meccanismo automatico, sarebbe più predisposto a infrangere le regole di una società vissuta come ostile ed escludente. L’attore della condotta deviante illustrata dai media verrebbe così a rappresentare, per l’imitatore, la figura di un leader, solo in quanto passato agli onori della cronaca e quindi conosciuto e riconosciuto, percepito come una personalità forte e carismatica, capace di coinvolgere e motivare. Un leader in grado di colmare le proprie lacune in quanto vissuto come in grado di mantenere inalterato il contatto con la realtà, di gestire tutte le fasi esecutive del reato. Il processo imitativo consentirebbe quindi al soggetto che si sentirebbe manchevole di viversi finalmente come riconosciuto per mezzo dell’azione svolta, rispondendo al bisogno di sentirsi finalmente qualcuno fuggendo al timore di essere relegato all’oblio. La condotta deviante verrebbe così associata al concetto di reputazione, intesa come rispettabilità e ammirazione, rispetto e riconoscimento.

I funerali di Giulia Cecchettin: attese 10 mila persone, la salma vicino a quella della madre Monica. Storia di Marco Imarisio, inviato a Padova, su Il Corriere della Sera lunedì 4 dicembre 2023.

A Tutto finirà qui. In questo cimitero di paese, in fondo a una stradina dalla quale in lontananza si vede la facciata della biblioteca Marco Polo, sulla quale campeggia la foto di lei che sorride. Alle 18 è tutto buio, solo i lumini accesi. Piove nevischio. Da un oratorio poco distante arrivano le grida di bambini che giocano. riposerà poco distante dalla madre Monica, scomparsa appena un anno fa. Sulla tomba della sua mamma sono deposti mazzi di fiori e due angeli di plastica che recano la data del 19 novembre, il giorno dopo il ritrovamento del corpo della figlia.

Saonara, questo il nome del comune, diecimila abitanti a est di Padova, sarà l’ultima tappa del suo viaggio terreno. Oggi ci saranno prima le esequie nella basilica di Santa Giustina, officiante il vescovo di Padova Claudio Cipolla, diretta televisiva nazionale alla quale dal carcere di Verona potrebbe assistere anche Filippo Turetta, che ha gli stessi diritti di qualunque altro detenuto, è sempre bene ricordarlo. Sono attese diecimila persone in presenza, nonostante il tempo che si annuncia avverso, due maxischermi in Prato della Valle, un apparato di sicurezza imponente per quelli che ieri in Prefettura, durante la conferenza stampa di prefetto e questore sono stati definiti funerali di Stato non dichiarati. Anche i lanci di agenzia annunciano solenni che oggi l’Italia saluterà Giulia, anche se come sempre ci si divide e purtroppo si continuerà a farlo sulle parole, sul senso di questo delitto orribile.

Chissà cosa pensa suo padre Gino, chissà se lui ed Elena, la sorella, si sentono in qualche modo espropriati, da questa onda emotiva lunga ormai quasi un mese, di un dolore che in primo luogo appartiene a loro e soltanto a loro. Nel tardo pomeriggio lui esce dal suo ufficio attiguo alla villetta dalla cancellata ancora pavesata con fiori, messaggi di cordoglio, ogni giorno ce ne sono di nuovi, e ogni volta leggerli fa venire i brividi. «Piango sempre, per paura di fare la tua stessa fine, per paura di qualsiasi ragazzo, per paura di essere picchiata perché sono riuscita a realizzare i miei sogni». Sono pochi metri, da un ingresso all’altro, sufficienti per rispondere alla nostra ennesima curiosità. No, assolutamente, dice a chi gli si para davanti e gli chiede anticipazioni sul contenuto del discorso che leggerà questa mattina in chiesa. Quello che provo io non ha importanza, quello che conta è che rimanga qualcosa, per far sì che non accada mai più quel che è successo a mia figlia.

Non è un’anticipazione, è l’ennesima frase ufficiosa carpita a una persona che fin dal primo momento non ha mai smesso di essere gentile, che da subito è sembrato guardare oltre, a un orizzonte collettivo, quasi che contasse più della sua sofferenza individuale. Li abbiamo osservati per tutto questo tempo, padre, sorella-figlia, persino la nonna Carla, criticata perché ha osato presentare un suo libro durante questo periodo di lutto, che ieri è tornata a parlare davanti alle telecamere di Pomeriggio 5. «Era una rosa che stava sbocciando» ha detto della nipote Giulia, aggiungendo di augurarsi che la sua vicenda, dato il clamore che ha creato, serva a qualcun altro. E poi, quasi che si dovesse giustificare, ma chissà poi perché, ha aggiunto che la sua famiglia vive il dolore «nel proprio intimo, nel nostro modo di rapportarci agli altri». Li abbiamo giudicati, i Cecchettin, discutendo della figura del padre, dividendoci sui social sulle parole di Elena, su quel «bruciamo tutto», come se una giovane donna non avesse il diritto di dirlo, dopo quel che è successo.

Li lasceremo infine sul sagrato della piccola chiesa di Saonara, dove infine alle 14 si terrà una cerimonia privata, solo familiari e amici. Ma prima ci saranno quei funerali quasi di Stato, senz’altro con la presenza annunciata di qualche esponente di rilievo del governo, che serviranno ad amplificare, un messaggio necessario. Non ci sarà il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che non a caso ieri ha però pronunciato parole nette e necessarie. «Le notizie dei femminicidi che ci giungono così frequentemente, anche negli ultimi giorni, sono un triste promemoria di quanto intenso sia lo sforzo ancora da compiere per realizzare un cambiamento radicale di carattere culturale. Cambiamento che chiama in causa le famiglie, l’intera società e gli stessi governi». Siamo tutti coinvolti. In fondo, è questo quel che Gino ed Elena Cecchettin stanno cercando di ripeterci in ogni modo, con tutta la forza che hanno. Perché sono convinti che bisogna continuare a parlare, a confrontarci. A fare rumore, come chiedono le amiche di Giulia. All’uscita della rosticceria accanto alla villetta dove abitava Giulia, un signore di mezza età osserva il consueto affollamento dei media. «Domani ve ne andate tutti, finalmente la smettiamo con questa rottura di c…». Oggi si spegneranno le luci sull’ennesimo delitto orrendo. Ma c’è ancora molto da fare. 

Il papà di Chiara Gualzetti ai funerali di Giulia Cecchettin: «Gino verrò da te, noi uniti dal dolore». Storia di Vincenzo Gualzetti (testo raccolto da Giusi Fasano) su Il Corriere della Sera lunedì 4 dicembre 2023.

Caro Gino, oggi sarò accanto a te, al funerale della tua Giulia. Ci voglio essere e vorrei tanto abbracciarti, perché ho provato sulla mia pelle il calore di ogni singolo abbraccio quando è toccato a me essere «il padre di una ragazza uccisa». Siamo fratelli di un destino simile, io e te. Da quando il nome e il viso di Giulia sono entrati nella mia vita mi sono sentito anch’io un po’ suo padre. Ho sperato per lei, pregato per lei, mi sono angosciato per lei, come se all’improvviso fossero tornate quelle ore di abisso vissute a casa mia, a giugno di tre anni fa.

La mia Chiara aveva 15 anni quando l’hanno trovata in un campo, ammazzata a coltellate, calci e pugni. Io l’avevo cercata per un giorno, uno solo. Mi ero arrampicato per ogni sentiero, avevo guardato dietro ogni cespuglio, ma — pensa che amara consolazione — il mio sgomento era durato appena un giorno. Non oso nemmeno immaginare cosa puoi aver vissuto tu per tutti quei giorni di buio aspettando di sapere… Anch’io, come te, non ho più mia moglie, e sono sicuro che il male che se l’è portata via sia cresciuto assieme al dolore per aver perduto Chiara. Anch’io, come te, cerco di ragionare e dare un senso a quello che è successo, anche se tutta questa violenza un senso non ce l’ha. Faccio cose nel nome di Chiara, cerco di tenere vivo il suo sorriso, come sono certo che farai tu con Giulia. Sugli assassini non voglio sprecare nemmeno una parola, mi sembrano molto più importanti Chiara e Giulia.

Caro Gino, il giorno che hanno trovato tua figlia io l’ho saputo da una di quelle app di notizie che ho installato sul telefonino. Ho letto le prima due righe: palavano di una coltellata alla nuca… ho spento il telefono e sono crollato. Ho preso un giorno di riposo, sono corso a casa a stendermi per provare a dormire, il solo modo che avevo per non pensare a Giulia e a Chiara, anche lei accoltellata alla nuca. Verrò da te, oggi. Per quell’abbraccio da padre a padre, se sarà possibile, ma anche per un piccolo omaggio alle Giulie e alle Chiare che non hanno mai avuto voce.

La Militanza.

(ANSA mercoledì 6 dicembre 2023) Gino Cecchettin è tornato stamane al lavoro, dopo aver seppellito ieri la figlia Giulia, uccisa dall'ex Filippo Turetta. "Quindi si riinizia la normalità - dice intervistato da Rai 1 - .Ho portato Davide a scuola e vado al lavoro cercando di fare qualcosina, e piano piano di riprendermi la vita". 

Nessun tentativo di rimozione di un vissuto così terribile, ma la voglia di guardare al presente. "Ovviamente Giulia sarà sempre nei nostri pensieri, in ogni momento". E aggiunge: "Non si può mettere da parte la rabbia quando la rabbia non c'è. C'è dolore. E si riesce a trasformarlo in qualcosa di positivo solo attraversandolo, non evitandolo".

(ANSA mercoledì 6 dicembre 2023) - "Spero che Filippo si rende conto di quello che ha fatto". Lo ha detto Gino Cecchettin, parlando a Rainews24, il giorno dopo il funerale di Giulia. Parlando del ragazzo accusato della morte di Giulia, Cecchettin si è augurato che un domani possa dare agli altri che sono in difficoltà un messaggio per evitare si ripetano fatti del genere. 

"Il perdono? E' una cosa veramente difficile - ha risposto Cecchettin - Neanche Gesù ha perdonato i suoi carnefici, ha chiesto a Dio di farlo. Sarà difficile. Un conto è non provare rabbia, non provare ira. Il perdono è un passo superiore". Il papà di Giulia ha infine rivolto un pensiero ai genitori di Filippo: "a loro do un grande abbraccio, perchè, come dicevo ieri, forse io tornerò a danzare sotto la pioggia, a fare un sorriso. Per loro sarà molto più difficile".

(ANSA mercoledì 6 dicembre 2023.) "Il perdono? E' una cosa veramente difficile. Neanche Gesù ha perdonato i suoi carnefici, ha chiesto a Dio di farlo. Sarà difficile". Così Gino Cecchettin, il papà di Giulia, ha risposto sul tema del perdono a Filippo Turetta, parlando ai microfoni della trasmissione di Rai1 "Storie italiane". "Non lo so.... - ha proseguito nella riflessione - Un conto è non provare rabbia, un conto è non provare ira. Il perdono è un passo superiore. Sarà difficile".

"Spero che Filippo si rende conto di quello che ha fatto", ha detto ancora Gino Cecchettin. Parlando del ragazzo accusato della morte di Giulia, Cecchettin si è augurato che un domani possa dare agli altri che sono in difficoltà un messaggio per evitare si ripetano fatti del genere. "Ai genitori di Flippo do un grande abbraccio, perchè come dicevo ieri, forse io tornerò a danzare sotto la pioggia, quindi, farò un sorriso, per loro sarà molto più difficile. Quindi hanno tutta la mia comprensione, il mio sostegno", ha concluso.

Magatti: «Il papà, figura da sempre in ombra, servirà a ricostruire i rapporti». Egidio Lorito su Panorama il 06 Dicembre 2023.

La figura paterna, che si tratti del padre della vittima o del carnefice, rischia di essere un ruolo spesso messo in secondo piano quando si tratta di drammi o fatti di cronaca nera. Con Mauro Magatti, sociologo della Cattolica di Milano, ecco una riflessione sul ruolo del padre coinvolto in tragedie umane e personali Passa quasi sempre in secondo piano, ma la sua figura merita di essere rivalutata, non foss’altro che anche su di essa si scarica molto del dolore di una famiglia in cui si è consumato un femminicidio. Che si tratti del padre della giovane vittima o di quello dell’altrettanto giovane carnefice, il ruolo della figura paterna rischia di passare spesso in secondo piano, schiacciata dal peso mediatico che, stranamente, preferisce incentrarsi su altre figure, quella della madre su tutte. Insomma, per ogni donna vittima di violenza, però, c’è anche un altro uomo: il padre, chiamato ad affrontarne la perdita e lo strazio, spesso in posizione di retrovia, cercando -con fatica- di trasformarsi nel collante della successiva ricostruzione familiare. Con un archetipo che la fredda cronaca ci aveva già consegnato oltre vent’anni addietro: Francesco De Nardo. E’ il padre di Erika che nel 2001 -insieme con il fidanzatino Mauro Favaro- uccise premeditatamente la madre Susanna Cassini e il fratello Gianluca. Dal delitto di Novi Ligure quell’ingegnere cattolico vide la sua vita e la sua famiglia distrutta per la mano omicida della propria figlia. Ma quel padre non ha mai ripudiato quella figlia omicida, non l’ha mai abbandonata. Panorama.it ha incontrato Mauro Magatti, sociologo della Cattolica di Milano, per una riflessione sul ruolo della figura paterna coinvolta in drammi umani e personali Professor Magatti, dal delitto di Novi Ligure all’uccisione di Giulia Cecchettin, la figura paterna non sembra trovare una giusta dimensione: ora in ombra, ora in prima linea, anche mediaticamente. «Le figure paterne, come le vicende dai cui dipendono, sono in evidente cambiamento: non esiste, per fortuna, nulla che nella vita sociale ed umana si riproduca con lo “stampino”, anche perché di fronte a situazioni così estreme come quella di cui stiamo parlando, le reazioni emotive non possono essere le stesse: ansi spesso sono letteralmente opposte. Non dobbiamo perciò stupirci di questa varietà comportamentale: questo ci indica che i modelli sociali e psicologici, anche della figura paterna, appaiono meno consolidati, stabilizzati e rigidi, e che -quindi- i ruoli possono essere interpretati secondo differenti scale reattive». Puntuale come un “effetto rebound”, la figura paterna è rimbalzata in questi giorni: partendo da Francesco De Nardo… «In quel drammatico episodio, passato alle cronache come “il delitto di Novi Ligure”, avvenuto nel febbraio del 2001, avevamo già cristallizzato una sorta di principio conducente: ovvero, quando capitano tragedie devastanti (un fatto di sangue, una malattia inguaribile, un disastro naturale…) che ci colpiscono nel profondo, si scatenano reazioni immediate che vengono naturalmente “lavorate” dal tempo che spesso porta a cambiare atteggiamenti e punti di vista». Il padre di Erika è rimasto per anni lontano da microfoni e riflettori. Invisibile, eppure presente per la figlia… «A distanza si percepiscono, di una tragedia, aspetti prima rimasti sottotraccia, o si agisce in un modo prima del tutto inimmaginabile: il fattore tempo, insomma, assume le sembianze dell’acqua sulla roccia, non cancella il dolore, il male, la sofferenza, però è capace di creare delle “forme espressive” diverse. De Nardo, pur avendo mantenuto un profilo basso (anche mediaticamente…) è rimasto sempre accanto alla figlia Erika. Non appariva per come realmente si stava comportando». Su un altro versante pare essersi collocato, da subito, Gino Cecchettin, padre della giovane Giulia. Non ha smesso di parlare: forse anche a nome della moglie scomparsa lo scorso anno… «Come dicevo all’inizio, ecco una diversa lettura sociologica: il padre di Giulia, già duramente provato appena lo scorso anno dalla morte della moglie (Monica Camerotto, scomparsa per un tumore a 51 anni, nda), è come se interpretasse anche il dolore della propria moglie, impossibilitata a parlare perché morta a sua volta. E’ come se parlasse anche a suo nome, Gino Cecchettin, nel terribile tentativo di trovare un punto di equilibrio tra due terribili tragedie che hanno sconvolto per sempre la tenuta psichica e sociale della propria famiglia».

E poi Nicola Turetta, padre di Filippo, reo confesso dell’omicidio di Giulia. «Ecco l’altra figura paterna: anche qui il genitore è a sua volta impegnato nel tentativo di allineare, da un lato, la morte drammatica dell’ex fidanzatina del proprio figlio per mano stessa di Filippo e, dall’altro, il tentativo di non abbandonare questo figlio, scaraventandolo nell’oblìo. Si tratta, evidentemente, di un esercizio complesso, guidato dall’amore verso il proprio figlio ventiduenne, nonchè dal senso di pietà umana per l’atroce morte della giovane Giulia». Ha detto che Filippo è pur sempre suo figlio… «Non mi sembra che il padre di Flippo stia tentando di ergersi a suo difensore d’ufficio, volendo giustificarne o attenuarne le responsabilità. Il tema è umano e sociale, e merita di essere affrontato con misura e delicatezza, senza “voli pindarici” fuori luogo: ovvero quello di non considerare nessuno perduto del tutto, anche chi si fosse macchiato di un delitto efferato come quello di Giulia. Qui non si tratta di assolvere moralmente Filippo, ma neanche di abbandonarlo nell’odio e nell’orrore pubblico». A proposito di odio: i social media hanno già fatto sentire il peso del tribunale pubblico.

«L’unico modo che abbiamo per fermare il male, per impedirgli di riprodursi, è di assorbirlo, individualmente e socialmente: un percorso lungo e tortuoso che alla fine potrà restituire il colpevole alla vita diciamo “sociale”. Si tratta, ovviamente, di un esercizio fondato molto sulla pietas pubblica, e in questa direzione va il tentativo del padre di Filippo». Deve emerge la funzione rieducativa della pena… «Perché occorre lasciare un punto di riferimento al ragazzo che deve pur continuare a vivere, perché negli anni possa comprendere il disvalore sociale della sua azione e possa riprendere tra le mani la sua vita. Che è sempre quella di un 22enne». Non è possibile immaginare il dolore di questi due padri... «Un dolore opposto che deve essere guardato in silenzio e rispetto, comprendendo le due diverse sfaccettature che reca: come dire, quello del padre della vittima e quello del padre del carnefice». Figura meno scontata di quella materna, il padre ritorna prepotentemente al centro della scena… «L’immagine che emerge plasticamente da questa vicenda è esattamente questa. In più, in queste settimane è stato tirato in ballo il concetto di “patriarcato” cui far risalire ogni sorta di responsabilità nel manifestarsi di tali efferatezze. Sono convinto che episodi di tal genere segnino, al contrario, la sua crisi, il suo tramonto. Il padre di Filippo, infatti, sta provando -al contrario- a trasformarsi in un’ancora di salvezza per il suo giovane figlio che dovrà affrontare il resto della vita in un’altra prospettiva e dimensione. Ma il comportamento di Nicola Turetta non è “patriarcato”…». Alla lunga proprio i padri dei due giovani protagonisti di questa triste vicenda saranno costretti ad interagire. Una compartecipazione al dolore altrui. «E’ un auspicio! Anni addietro seguii personalmente come garante quel lungo percorso condiviso tra i familiari delle vittime del terrorismo e alcuni brigatisti. Ovviamente si tratta di percorsi di ricomposizione di questi tagli profondi che avevano inciso nella psiche dei familiari delle vittime: occorre tempo e una grande disponibilità ad un cammino comune, perchè la nostra società ha bisogno di segnali forti che la tranquillizzino sulla certezza che il male non debba vincere. Occorre tempo, ovviamente…».

Mauro Magatti, milanese, classe 1960, è ordinario di sociologia all’Università Cattolica di Milano di cui è stato preside di facoltà dal 2006 al 2012 e dove insegna Sociologia e Analisi e Istituzioni del capitalismo contemporaneo. Sociologo ed economista, dirige il Centro di Ricerca ARC (Centre for the Anthropology of Religion and Cultural Change) ed è editorialista del Corriere della Sera e di Avvenire. È membro dell’Editorial Board dell’International Journal of Political Anthropology, del Comitato Scientifico di Sociologica e del Comitato di redazione di Studi di Sociologia e Aggiornamenti Sociali. Supersocietà. Ha ancora senso scommettere sulla libertà? -scritto a due mani con la collega e moglie Chiara Giaccardi (Il Mulino 2022) - è una serrata analisi sul definitivo tramonto della stagione della globalizzazione. L’ultimo saggio è Il cristianesimo, risorsa per la società (con Angelo Bagnasco, Rosy Bindi e Luciano Manicardi) (Tau, 2023).

Estratto dell’articolo di Aldo Cazzullo per il “Corriere della Sera” mercoledì 6 dicembre 2023.

Ci saranno ancora patriarchi, ma per fortuna ci sono anche dei padri. Ieri il padre di Franca Viola. Oggi il padre di Giulia Cecchettin. Ne l 1965, Franca Viola, che non aveva ancora compiuto diciotto anni, fu violentata dal nipote di un boss mafioso. Secondo le consuetudini del tempo, avrebbe dovuto sposarlo: il matrimonio riparatore. Lei rifiutò, e i genitori si schierarono dalla sua parte. Il padre chiese l’aiuto della polizia. L’aggressore non vide estinto il reato, come sarebbe accaduto se Franca si fosse piegata al matrimonio; finì in carcere.

«L’onore lo perde chi fa certe cose, non chi le subisce» disse la ragazza. Fu aperta una via che tante altre giovani donne, non soltanto del Sud, hanno seguito. Quando Franca si sposò con un uomo che amava e la amava, il presidente della Repubblica Giuseppe Saragat inviò un dono di nozze, papa Paolo VI ricevette la coppia. Fu uno spartiacque nella storia d’Italia. 

È possibile che l’assassinio di Giulia Cecchettin e il discorso di suo padre ieri siano un altro di quei tornanti nella vicenda nazionale. Il padre non ha puntato il dito contro nessuno. Non ha neppure escluso che in futuro maturino le condizioni per il perdono. Ma le sue parole più importanti non sono quelle rivolte all’assassino di sua figlia; sono quelle che risuonano per tutti gli uomini. Che non sono ovviamente colpevoli in modo indiscriminato; ma che portano una responsabilità.

Tocca agli uomini educare i figli a rifiutare la violenza e a denunciarla. Tocca agli uomini parlare agli altri uomini. Non minimizzare le piccole violenze, perché talora è da lì che nascono le grandi. Rispettare sempre e comunque le donne, molte delle quali portano come un peso nascosto il ricordo di tante piccole prevaricazioni. 

Non avere paura della libertà della donna, non considerarsi mai proprietari del suo corpo e della sua anima. Non girare la testa di fronte alle violenze e alle ingiustizie. Infine, l’invito forse più importante: accettare le sconfitte. I dinieghi e gli abbandoni, i no e i basta. L’ultima parola spetta alle donne. Giulia Cecchettin non ha potuto dire la sua. L’ha detta il padre per lei. A noi tocca ascoltarla, metterla in pratica, e ripeterla a chi verrà dopo.

Il padre di Giulia Cecchettin lascia il lavoro: “Mi prendo una pausa. Sto pensando a un impegno civico”. Martina Melli su L'Identità il 6 Dicembre 2023

Gino Cecchettin, padre di Giulia, la giovane 22enne uccisa dall’ex Filippo Turetta, ha deciso di lasciare il proprio lavoro per dedicarsi, forse, a un impegno civico. Dopo l’ultimo straziante saluto ieri con la celebrazione dei funerali presso la Basilica di Santa Giustina a Padova, arriva oggi l’annuncio di papà Gino che su Linkedin dichiara di volersi prendere una pausa dal lavoro( un’ azienda di elettronica e sistemi informatici che ha lui stesso fondato nel 2018).

Sicuramente quest’uomo, che ha saputo mostrare grande forza d’animo e lucidità nelle ultime settimane, sentirà la necessità di elaborare l’ultima terribile tragedia che ha colpito la sua famiglia, appena a un anno dalla scomparsa della moglie Monica. Gino Cecchettin inoltre, già più volte aveva manifestato la volontà di riflettere e capire come impegnarsi civilmente per la lotta contro la violenza di genere e i femminicidi.

Nella lettera pubblicata su Linkedin e rivolta ai suoi colleghi ha scritto: “Ai miei clienti, fornitori, amici e colleghi – scrive Cecchettin su LinkedIn -È con grande dolore che condivido con voi un momento di pausa dalla mia professione, profondamente segnato dalla recente perdita di mia figlia Giulia.  Questo periodo di lutto e riflessione è e sarà un viaggio difficile, ma anche un’opportunità per riflettere sull’importanza delle relazioni positive e del sostegno reciproco. In questi giorni bui, ho sperimentato il valore incommensurabile di chi offre un appoggio sincero, una spalla su cui piangere, e parole gentili che possono lenire il cuore spezzato. La solidarietà che ho ricevuto da parte di amici, famiglia e colleghi è stata di fondamentale supporto”. “Permettetemi – prosegue il messaggio – di testimoniare l’importanza di prendersi una pausa quando la vita ci sfida in modi inimmaginabili.  Sto anche riflettendo su un nuovo impegno civico che accompagnerà il mio cammino. Desidero canalizzare il dolore in azioni positive, che possano aiutare chi si trova nelle stesse situazioni di Giulia. Vi ringrazio per il vostro sostegno e chiedo gentilmente di rispettare la mia necessità di prendere questa pausa per elaborare il lutto e ripartire con rinnovato impegno”. 

Il papà di Giulia ospite in tv da Fazio. Gino Cecchettin stasera a "Che tempo che fa": "Finita l'emozione non ci si addormenti". Laura Rio il 10 Dicembre 2023 su Il Giornale.

Ognuno esprime il dolore come riesce e come crede. Gino Cecchettin (nel tondo), il papà di Giulia uccisa a coltellate da Filippo Turetta, ha deciso di rivolgerlo verso l'esterno, di trasformarlo in lutto pubblico e di fare della sua tragedia uno strumento per sensibilizzare gli uomini a cambiare.

Stasera continuerà questa sua battaglia andando ospite nello studio di «Che tempo che fa» per il suo primo faccia a faccia, dopo molte interviste. Con Fabio Fazio ripercorrerà la tappe di un dramma diventato simbolo della lotta ai femminicidi e approfondirà il discorso, pieno di amore e di dignità, che ha pronunciato nel Duomo di Padova durante i funerali della figlia. Parole che hanno commosso le migliaia di persone che hanno seguito la funzione sui maxi schermo allestito sulla facciata della basilica.

Qualcuno storcerà il naso osservando l'attivismo di Cecchettin (e anche di Elena, la sorella di Giulia), la volontà di esposizione mediatica e anche l'annunciato «impegno civile» (lascerà il lavoro da ingegnere informatico) che potrebbe magari sfociare in impegno politico, che al momento lui esclude. Qualunque sia la sua legittima decisione, la speranza è che non si faccia strumentalizzare da nessuno. Perché la lotta contro la violenza sulle donne dovrebbe restare unica, senza colore e senza ideologie.

Comunque, stasera, Gino sarà da Fazio intorno alle 21. «Il dolore ce l'ho dentro e mi accompagnerà per sempre. Ma ciò che mi preme ora è fare in modo che, finita l'emozione, non ci si torni ad assopire», ha spiegato nei giorni scorsi il padre della ragazza uccisa a soli 22 anni. «Noi italiani siamo bravi ad avere slanci civili, ma siamo anche capaci di dimenticare in fretta - ha continuato -. Il rumore è il campanello che ogni mattina ci deve tenere svegli e farci chiedere cosa abbiamo fatto per far finire i femminicidi. Quando ho parlato di un impegno civico ho voluto dire che, con una Fondazione o in altro modo, io voglio dedicare la mia vita a far sì che non ci sia un'altra Giulia. Per me bisogna partire dall'educazione». Un invito subito accolto dal ministro dell'Istruzione Giuseppe Valditara che ha invitato le scuole a leggere il discorso di Gino agli studenti.

Del resto il suo messaggio ha avuto un'eco sorprendente. «Mi ha fatto molto piacere - ha detto ancora -. Significa che probabilmente ha centrato i punti. Da parte mia non c'è rabbia, ma dolore. E si riesce a trasformarlo in qualcosa di positivo solo attraversandolo, non evitandolo. È quello che ho imparato con mia moglie Monica (morta un anno fa), poi quando è mancato mio padre e adesso con Giulia».

A chiedergli di scendere in politica è Luca Martello, il sindaco di Vigonovo, il paese in cui abita. «Papà Gino ha tutte le carte in regola per mettersi a servizio della politica, magari come senatore o del sociale». Qualunque cosa decida, si deve già guardare dagli sciacalli. In rete sono cominciate a circolare voci di presunti post sessisti (e politici) scritti in passato dal medesimo Cecchettin che, prontamente, tramite il suo avvocato, si dice pronto a far intervenire la legge in difesa sua e della sua famiglia.

Caro Gino Cecchettin, non candidarti. Il padre di Giulia Cecchettin ha annunciato di voler lasciare il lavoro per dedicarsi ad un impegno civico. Nicolaporro.it il 7 Dicembre 2023

Sarà lento e doloroso il ritorno alla vita di tutti i giorni per i cari di Giulia Cecchettin. A due giorni dal funerale della 22enne uccisa dall’ex fidanzato Filippo Turetta, il padre Gino ha annunciato di voler prendere una pausa dal lavoro. La conferma è arrivata dal diretto interessato con una lettera su Linkedin. “Ai miei clienti, fornitori, amici e colleghi. È con grande dolore che condivido con voi un momento di pausa dal mio lavoro, profondamente segnato dalla recente perdita di mia figlia Giulia”, le sue parole rivolgendosi ai colleghi. Ma non solo.

“Permettetemi di testimoniare l’importanza di prenderci una pausa quando la vita ci mette alla prova in modi inimmaginabili. Sto anche riflettendo su un nuovo impegno civico che accompagnerà i miei viaggi”, ha aggiunto Gino Cecchettin: “Desidero incanalare il dolore in azioni positive, che possano aiutare chi si trova nelle stesse situazioni di Giulia. Vi ringrazio per il vostro sostegno e vi chiedo gentilmente di rispettare il mio bisogno di prendermi questa pausa per elaborare il lutto e ricominciare con rinnovato impegno. Sinceramente”.

Difficile ipotizzare l’impegno civico a cui fa riferimento il padre di Giulia Cecchettin, ma la speranza è che non si tratti di una discesa in campo politico. Negli ultimi giorni il signor Gino è diventato un esempio per gli uomini, per padri, fidanzati e figli, con le sue parole piene di amore e naturalmente di dolore. L’ipotesi di un’avventura in politico rovinerebbe tutto ciò, a prescindere dallo schieramento (anche se dalle femministe, ieri, è partita la gara per buttarla in politica). La visibilità può aiutare in certe tragedie, ma potrebbe anche offuscare il buon senso. Non crediamo – e speriamo – sia questo il caso, ma purtroppo mai dire mai.

L’ipotesi di una candidatura in casa Cecchettin ha già riguardato un’altra persona: parliamo di Elena, la sorella di Giulia. La sua reazione al terribile omicidio è stata particolarmente sopra le righe, con giudizi particolarmente severi sull’uomo e sul presunto patriarcato dominante, tanto da arrivare quasi ad accusare tutti i maschi di essere dei potenziali assassini. “Lo Stato non ci tutela e non ci protegge”, la sua accusa al governo. Filippiche sostenute convintamente dalla sinistra, tant’è che qualcuno ha ipotizzato una possibile corsa tra le fila Pd… Franco Lodige, 7 dicembre 2023

Il dolore, le notti insonni e l'impegno civico. Gino Cecchettin: "La mia casa resta di Giulia". Pur nella sofferenza il padre di Giulia non ha mancato di rivolgere un pensiero ai genitori di Filippo Turetta, l'assassino di sua figlia. Ignazio Riccio il 7 Dicembre 2023 su Il Giornale.

Dopo tanto dolore e sofferenza è il tempo della riflessione per Gino Cecchettin, il padre di Giulia, la 22enne assassinata dall'ex fidanzato Filippo Turetta, ora in carcere, reo confesso. Il discorso in chiesa ai funerali della figlia, visto da milioni di italiani in diretta Tv, ha lasciato il segno, ma le parole del genitore addolorato non sono ancora terminate. "Vorrei preservare questa casa - ha detto Cecchettin al Corriere della Sera - come la dimora di noi cinque. Il dolore ce l'ho dentro e mi accompagnerà. Ma ciò che mi preme ora è fare in modo che, finita l'emozione, non ci si torni ad assopire". Non ha mai perso la lucidità il papà di Giulia, la sua forza vitale ha bucato il video emozionando tutti. "Noi italiani siamo bravi ad avere slanci civili - ha continuato - ma siamo anche capaci di dimenticare in fretta. Il rumore è il campanello che ogni mattina ci deve tenere svegli e farci chiedere cosa abbiamo fatto per far finire i femminicidi".

L'impegno civile

Gino Cecchettin nel suo discorso al funerale ha parlato di impegno civico. "Ho voluto dire - ha spiegato al quotidiano La Stampa - che con una Fondazione o in altro modo io voglio dedicare la mia vita a far sì che non ci sia un'altra Giulia. Per me bisogna partire dall'educazione. Non riesco ancora a dormire. Ogni mattina per trovare la forza entro in camera di Giulia e mi stringo al suo cuscino perché sa ancora di lei". Alcune frasi dette in chiesa da Gino Cecchettin sono piaciute ai rappresentanti del governo che hanno sostenuto la famiglia in questo momento di grande sofferenza. "C'è dolore. E si riesce a trasformarlo in qualcosa di positivo solo attraversandolo, non evitandolo. È quello che ho imparato con mia moglie Monica - ha raccontato - poi quando è mancato mio padre e adesso con Giulia. Non lo so se riuscirò a perdonare Filippo, neanche Gesù ha perdonato i suoi carnefici, ha chiesto a Dio di farlo. A lui chiederei solo: 'Perché?'".

L'abbraccio ai genitori di Filippo Turetta

Pur nella sofferenza il padre di Giulia non ha mancato di rivolgere un pensiero ai genitori di Filippo Turetta, l'assassino di sua figlia. "A loro - ha evidenziato - mando un grande abbraccio. Forse io ritornerò a danzare sotto la pioggia, quindi a fare un sorriso, loro faranno molta più fatica. Hanno tutta la mia comprensione e il mio sostegno". Gino Cecchettin ha confermato che non farà politica, il suo impegno sarà esclusivamente civico e coinvolgerà le scuole, le istituzioni sul delicato tema dei femminicidi."L'annuncio del ministro Giuseppe Valditara - ha concluso -il quale ha detto che il mio discorso diventerà oggetto di riflessione nelle scuole, mi ha fatto molto piacere. Si tratta di un messaggio di cambiamento, per far sì che che queste cose non succedano più".

Estratto dell'articolo di Walter Veltroni per il "Corriere della Sera" giovedì 7 dicembre 2023.

«Giulia era la figlia ideale. Elena è l’essere superiore. Davide ora il mio sostegno. Giulia era brava nello studio, era naturalmente portata a occuparsi del prossimo, a prendersi in carico gli altri. Quando aveva dieci anni e andavamo in pizzeria, dopo un poco si metteva da parte e attorno a lei si riunivano tutti i bambini del locale. A scuola era bravissima. Ha fatto il liceo classico, adorava le materie letterarie. [...]».

Gino Cecchettin mi ha accolto nella sua casa. E ora mi indica il divano sul quale è seduto.

«Qui abbiamo visto insieme A Star is born, una storia d’amore finita male. Da quando mia moglie se ne è andata il nostro rapporto si è fatto più stretto. La nonna mi ha detto che Giulia le aveva confidato di essere contenta per aver riscoperto il rapporto con il padre. Quando sua madre è morta, in questa stanza, era notte. Elena ed io l’abbiamo vegliata e se ne è andata tra le nostre braccia. I miei figli hanno conosciuto così la morte che ha spalancato le porte di questa casa. 

Giulia forse è quella che mostrava in modo più visibile il suo dolore. Ogni tanto si bloccava, le lacrime le scorrevano sul viso e aveva bisogno di un abbraccio che le restituisse calore. Elena e Davide sono più come me: teniamo dentro, finché possiamo. Da quando Monica non c’è più ed Elena è andata a studiare a Vienna, Giulia era diventata la coordinatrice della casa, il sabato mattina su questo tavolo lei si metteva una sacchetta a tracolla, con il walkman, e cominciava a stirare. [...]».

Chiedo a Gino se c’è un giorno della sua vita con Giulia che vorrebbe rivivere. È uno dei due momenti in cui non riesce a trattenere l’emozione.

«Quest’anno le ho regalato un pomeriggio insieme in centro a Padova. Poteva fare quello che voleva, e lo facevamo insieme. Mi accompagnava con dolcezza in negozi per me strani. Ma eravamo insieme e questo ci bastava. [...]». 

Ora Gino parla al presente di Giulia e in questo luogo, dove lei viveva, sembra davvero che possa arrivare, da un momento all’altro. Come è arrivato Davide, per salutare. Ha un sorriso dolce e forte, è già tornato a scuola e stasera ha l’allenamento di basket. Perché tra queste mura la morte è una presenza inevitabile con cui convivere, non un tunnel senza uscita.

«Quel sabato siamo stati a pranzo insieme. Poi lei è andata in camera sua. Le ho chiesto dalle scale che avrebbe fatto dopo e lei mi ha detto: “Forse stasera non torno a cena”. Non le ho chiesto di più. Era una ragazza di grande responsabilità, che non aveva mai dato un problema, concentrata. Io non sapevo delle tensioni con Filippo. Lo avevamo conosciuto, quando stavano insieme; ci era sembrato timido, un po’ freddo. Ho saputo tutto solo dopo.

Mi hanno detto che lui, la penultima volta che si sono visti, l’aveva spaventata urlando in modo forsennato. Su spinta di Giulia aveva accettato di farsi vedere da un terapeuta. Ma ne ha cambiati quattro e sempre ha fatto scena muta. Elena aveva capito e le aveva detto il suo giudizio su Filippo. Forse per questo, per timore della disapprovazione della sorella maggiore, Giulia non l’aveva informata dello stato d’animo poi rivelato, anche per noi, dal messaggio trasmesso da Chi l’ha visto. Quella sera io dovevo andare a prendere Davide in centro. Aspettando il momento mi sono addormentato qui, sul divano. 

Quando mi sono svegliato erano le undici e trequarti. Sono tornato e lei non c’era, ma non avevo alcuna ragione per preoccuparmi, capitava, il sabato sera. Non avevo sonno e mi sono messo, come eravamo d’accordo, a correggere la sua tesi. Le ho mandato uno screenshot di un errore e solo allora mi sono accorto che era l’una e quarantacinque. Ho pensato che la mattina dopo l’avrei rimproverata, ma quando mi sono alzato non c’era e da allora è cominciato tutto.

In questa casa eravamo tre a due. Ora, con Elena a Vienna, siamo rimasti Davide ed io, ma ce la caveremo. I miei ragazzi sono forti. Elena ha ignorato gli assurdi attacchi che ha ricevuto, ma si è sentita riscaldata dall’immensa ondata di coscienza civile di affetto che le sue parole hanno determinato nel Paese». 

Chiedo a Gino se tra queste mura arriva il rumore delle chiavi della piazza di Padova.

«Vorrei preservare questa casa come la dimora di noi cinque. Il dolore ce l’ho dentro e mi accompagnerà. Ma ciò che mi preme ora è fare in modo che, finita l’emozione, non ci si torni ad assopire. Noi italiani siamo bravi ad avere slanci civili ma siamo anche capaci di dimenticare in fretta. Il rumore è il campanello che ogni mattina ci deve tenere svegli e farci chiedere cosa abbiamo fatto per far finire i femminicidi. Quando ho parlato di un impegno civico ho voluto dire che, con una Fondazione o in altro modo, io voglio dedicare la mia vita a far sì che non ci sia un’altra Giulia.

Per me bisogna partire dall’educazione. La violenza non è un problema di altri. Prendi le due famiglie coinvolte in questa vicenda: due ragazzi universitari, cresciuti in determinate famiglie. Sembra un ambiente al riparo, invece no. Per i genitori di Filippo non provo odio, ma tristezza e persino tenerezza. Io ho già ricominciato a camminare nella vita, per loro sarà più difficile. Li abbraccio virtualmente, hanno avuto, se possibile, una disgrazia più feroce della mia. 

In questi giorni non ho provato né odio né rabbia. Quando sono riuscito a leggere gli articoli sull’aggressione ho provato solo dolore per mia figlia che era lì, sola, spaventata, senza che io potessi aiutarla. Ho voluto vederla, dopo. La prima volta, due giorni fa, le ho toccato la gamba. Ho visto le sue mani fasciate e avevo il desiderio di stringerle. Prima che chiudessero la bara ci sono riuscito. È stata dura, ma l’ho sentita vicino a me, come non mai». 

Gino ha piacere che io salga nella stanza di Giulia. Il letto è disfatto, come lo ha lasciato lei quel sabato mattina. Le lenzuola arruffate, i vestiti in disordine. Gino ne afferra uno, lo odora. È il secondo momento in cui si lascia andare, come è giusto. […]

Gino Cecchettin sotto attacco social: quei post sessisti e c’è chi accusa un hacker. Rita Cavallaro su L'Identità l'8 Dicembre 2023

Dal patriarcato all’hackerato il passo è breve. Tanto che Gino Cecchettin, il padre di Giulia, è passato in men che non si dica da simbolo della lotta alla cultura maschilista a boomer sessista tanto osé da spingere più di qualcuno a ipotizzare che quei post su X non potesse averli scritti lui. 

Sui social hanno cominciato a girare gli screenshot dei commenti del papà di Giulia, che giusto il giorno del funerale della figlia aveva fatto un discorso carico di significato che sarà letto nelle scuole italiane. Un appello alla presa di coscienza degli uomini, affinché siano agenti di cambiamento contro la violenza di genere. Eppure, poche ore fa, quelle parole sono state offuscate da una serie di commenti a sfondo sessuale ad attrici e personaggi dello spettacolo, anche giovanissime. Da battute da bar tra uomini, come quella del 27 luglio 2022, quando @ginother (questo il nick aperto da Gino oltre dieci anni fa) rispondeva “Radiosboro” a un altro utente che scriveva: “Domani la mia prima festa dell’ufficio nuovo qui a Torino io unico veneto e al karaoke dopo chissà quanti bicchieri non so se esordire con le canzoni dei rumatera o pittura freska”. 

E l’hashtag RADIOSBORO è salito al vertice dei trend di X, battendo addirittura #PrimaScala. In quel calderone migliaia di commenti, con tanto di foto dei post incriminati, che vanno indietro nel tempo, fino al 2018. “Comunque le donne con tette piccole hanno bisogno di un uomo che presta attenzione ai dettagli”, scriveva una ragazza. E lui: “Se compensano col culo, anche no”. A un’altra che aveva pubblicato la foto delle gambe, Gino garantiva: “Calze con la riga e scarpe coi tacchi fanno sesso anche se indossate dalla Pina Fantozzi… per enfatizzare la potenza sensuale di quel tipo di outfit”. E a Candy che chiedeva consigli su un nuovo nome per il suo vibratore @ginother proponeva: “Bert-one o bertone”. Alla domanda di un altra utente “uscireste con voi stessi, sinceri eh”, assicurava “certo che sì. Sono alto, bello, divertente, erudito e soprattutto scopo da dio. Ah dimenticavo, sono anche umile”. Il 14 dicembre 2020, @yenisey74 corredava una sua foto in sciarpa e cappello con la frase: “Passare da 40° con tanga a 4° con lana, è assai dura eh. Ah Cuba, a volte mi manchi”. La risposta è memorabile: “Memorabile sarebbe stata una foto a 4° col tanga”. E la pietra tombale con “adesso ti metto una mano nelle mutande”. O con una risposta più recente al “mi confermate che nonostante gli anni ci si imbarazzi sempre?. Lui: “Se scoreggi durante un 69 può succedere”.

Screenshot diventati virali al punto da sconcertare così tanti utenti e a far sorgere il dubbio che il papà di Giulia, così composto e educato, non potesse aver scritto quelle cose. È nato così il giallo che qualcuno potesse aver hackerato il profilo, largamente visitato e poco dopo chiuso. Più di qualcuno ha garantito che il maschilista social sarebbe proprio Gino Cecchettin, spiegando che su quel profilo, dalla scomparsa della ragazzina uccisa dall’ex fidanzato Filippo Turetta, in queste settimane sarebbero stati pubblicati alcuni appelli riguardanti Giulia. Utenti più esperti hanno postato dei link di un archivio web sul quale sarebbero rimaste tracce dei post anche dopo la cancellazione del profilo. Inoltre la chiusura in fretta e in furia dell’account, proprio mentre uscivano le foto dei commenti sessisti, ha alimentato ancora più il sospetto che l’autore fosse Gino. Allo stesso tempo, seppure è praticamente impossibile per un hacher retrodatare i post, è spuntata l’ipotesi che quel profilo fosse stato hackerato con lo scopo di gettare fango sul papà simbolo della lotta alla violenza sulle donne e, magari, minare anche la decisione del ministro della Pubblica Istruzione, Giuseppe Valditara, che ha intenzione di trasmettere la lettera di papà Gino in tutte le scuole, affinché venga letta agli studenti.  

L’arresto di Filippo Turetta.

Filippo Turetta, la fuga disperata per oltre mille chilometri: «Portatemi in Italia». Mara Gergolet e Andrea Pasqualetto su Il Corriere della Sera domenica 19 novembre 2023.

Turetta si era fermato in autostrada con i fari spenti, era rimasto senza soldi, benzina ed energie. La polizia tedesca l’ha identificato, ora è in carcere in Germania. «È stremato»

Era fermo sulla corsia di emergenza della grande autostrada che collega Monaco a Berlino. Due automobilisti hanno notato la stranezza di quell’auto a bordo strada senza le quattro frecce di emergenza, particolare che in Germania balza all’occhio. Hanno avvertito la polizia, è arrivata una pattuglia, rapido controllo della targa con il database e in qualche secondo era già tutto chiaro: si trattava del super ricercato Filippo Turetta, il soggetto del mandato d’arresto europeo spiccato dal giudice di Venezia.

Sono le 22 di sabato sera: lui è a bordo, sporco e stremato. «Non ha opposto alcuna resistenza», scrivono gli agenti nel loro rapporto trasmesso poi alle autorità italiane. È la fine della grande fuga del ventiduenne padovano indagato per l’omicidio della sua ex fidanzata, Giulia Cecchettin, coetanea, trovata due giorni fa senza vita in un dirupo vicino al lago di Barcis, sulle Prealpi pordenonesi.

Siamo in quella che una volta era Germania dell’Est, la grande pianura sassone di prati e di boschi attraversata da questa striscia d’asfalto che 180 chilometri più a Nord si spegne a Berlino. L’auto era ferma vicino alla località Bad Dürrenberg, Sassonia-Anhalt.

Mille chilometri di fuga

Per intenderci, rispetto alla brutta storia di cui il giovane è protagonista, sono circa mille chilometri da Fossò, nel Veneziano, dove tutto è precipitato la sera dell’11 novembre. Un litigio furioso, uno schiaffo, lei che scappa a piedi, lui che la insegue, la blocca, la colpisce forse con un coltello, così forte da farla cadere a terra esanime. La drammatica sequenza delle immagini, registrate da una telecamera aziendale, si chiude con Filippo che la trascina e la carica nel bagagliaio. Dalle 23.30 di quel giorno, la Punto nera ha iniziato il suo folle viaggio verso il Nord Europa fermandosi in questa landa deserta a venti chilometri da Lipsia.

Sorprende un particolare: la direzione. Da Berlino verso Monaco e non il contrario, come ci si poteva attendere da una fuga dall’Italia. Era quindi arrivato anche più a Nord: fino a Potsdam? Fino alla capitale? La polizia tedesca sta cercando di ricostruire l’itinerario sulla base delle telecamere stradali. Una cosa sembra pacifica: Turetta si è fermato in quel punto perché aveva finito un po’ tutto, la benzina, il denaro e pure le energie. «È sembrato rassegnato e forse desiderava consegnarsi», aggiungono nel loro rapporto gli agenti. O almeno, non ha fatto nulla per provare a fuggire ancora.

Con gli agenti che l’hanno fermato e nel corso dei primi interrogatori in commissariato, Filippo ha parlato. Che cosa abbia detto, non è dato sapere viste le rigorosissime prassi della polizia tedesca.

«Non mi oppongo»

Ieri pomeriggio, sottoposto al fermo giudiziario e poi portato davanti al giudice del Landesgericht a Halle che ha confermato il suo arresto, ha capito che i tempi del ritorno in Italia sarebbero stati brevi. E alla domanda del giudice, se accettava l’estradizione, ha risposto senza esitazioni: «Mandatemi pure in Italia». Resta un passaggio da fare: la decisione, a partire da oggi, da parte del Tribunale regionale superiore (l’Oberlandsgericht), se accettare la richiesta d’estradizione italiana. Ma si tratta di una formalità: le carte sono pronte, tradotte in tedesco, le pressioni italiane forti, i rapporti tra i due Paesi ottimi. Il sì arriverà forse «nelle 48 ore» auspicate e preannunciate dal ministro Tajani. Poi spetterà ai carabinieri raggiungere il carcere tedesco di Halle, e riportarlo a casa, su un volo di linea.

Nel carcere di Halle

Alle otto di sera, Filippo è entrato nel carcere nella periferia nord di Halle, un muro di mattoni rossi a cingere, con i suoi cinque lati, gli edifici interni per isolarli dalla città. Quale sia stato il suo percorso in terra tedesca, per quanto tempo ha vagato tra Monaco e Berlino, non si può dire: troppo presto per ipotizzare risposte. L’ultima segnalazione certa del passaggio della vettura era arrivata da Ospitale di Cortina d’Ampezzo. Erano le 9.07 di domenica mattina. Filippo si era liberato del corpo dell’ex fidanzata e stava viaggiando per le montagne che conosceva, lui appassionato di trekking. Aveva fatto ricerche, si è scoperto poi, per sopravvivere in alta quota.

Dalla provincia di Venezia a quella di Treviso a Pordenone. E poi su verso la montagna, evitando le strade più controllate. La Punto nera è stata comunque immortalata dalle telecamere di alcuni comuni, Zero Branco, Forno di Zoldo, l’hanno vista rifornirsi a Cortina d’Ampezzo, dove Turetta ha pagato con una banconota insanguinata. Su fino a Lienz in Austria e da lì, più nulla. È probabile che si sia diretto a Monaco, prendendo verso nord la stessa autostrada che poi ha precorso nell’altro senso, fino alla resa. Restano le domande più semplici: aveva una meta? Dove ha mangiato, dormito? Come ha pagato? E il coltello con cui l’ha colpita, l’ha portato da casa? Resta la domanda più terribile: aveva premeditato il delitto?

Il caso è chiuso ma mancano molte risposte. Su Halle scende una notte fredda, senza vento e senza passanti. Una delle ultime che Filippo Turetta trascorrerà in Germania.

Estratto dell’articolo di A.D’E. per il “Corriere della Sera” lunedì 20 novembre 2023

«Fatico a crederci. Io e mia moglie non capiamo come possa essere successa una cosa del genere, mio figlio non è un mostro». Nicola Turetta, padre di Filippo, dopo giorni di silenzio parla dopo la notizia dell’arresto. […] Nicola Turetta non riesce più a far combaciare l’immagine che aveva di suo figlio con la ricostruzione dei fatti. […] 

«Fino a quel maledetto sabato da padre ho sempre pensato che Filippo fosse un figlio perfetto. Non mi aveva mai dato nessun problema né a scuola né coi professori. Non ha mai alzato le mani nemmeno con suo fratello. Trovarmi di fronte ad una cosa del genere non è concepibile. Quando ho saputo che hanno trovato il corpo di Giulia in quelle condizioni mi è mancato il respiro e per un attimo avrei preferito che la cosa fosse finita in un altro modo. Però è mio figlio, devo dargli forza e la vita deve andare avanti».

[…] Nicola Turetta ed Elisabetta Martini […] vorrebbero scrivere una lettera al papà e alla famiglia di Giulia, per far sentire loro la vicinanza. «Esprimiamo massime condoglianze e siamo vicini alla famiglia di Giulia. Non so come poter rimediare perché non c’è rimedio. Non riusciamo a capire come possa aver fatto una cosa così Filippo, un ragazzo a cui abbiamo cercato di dare tutto quello che potevamo dare». 

[…] «La prima volta che si erano lasciati lui diceva “papà io mi ammazzo” — racconta —. L’episodio in cui lei voleva andare a Padova e lui si è presentato alla fermata dell’autobus? È successo una volta, non è che andasse tutte le sere sotto casa di lei, non era uno stalker». […]«Mio figlio ha fatto quello che ha fatto e pagherà […]  ma c’è la mia famiglia, c’è suo fratello e dobbiamo andare avanti».

Filippo in fuga con 300 euro. Dai sacchi neri allo scotch, i dubbi sulla premeditazione. Le prime coltellate a Giulia Cecchettin già sotto casa: le tracce di sangue e la lama spezzata trovate a 50 metri. Alberto Zorzi su Il Corriere della Sera il 21 novembre 2023

Le tracce di sangue e la lama spezzata trovate a 50 metri: servono altri giorni per il rientro in Italia dalla Germania di Filippo Turetta

Le prime coltellate all’ex fidanzata Giulia Cecchettin, Filippo Turetta potrebbe averle inferte a una cinquantina di metri dalla casa di lei. Le tracce repertate dai carabinieri non hanno ricostruito solo l’aggressione avvenuta nella zona industriale di Fossò (Venezia) attorno alle 23.30 dello scorso 11 novembre, ripresa da alcune telecamere, che si conclude con la giovane 22enne che crolla al suolo esanime e il suo coetaneo che la carica nel bagagliaio della Grande Punto nera, prima di scaricarla in un dirupo sotto Piancavallo. 

Le tempistiche per riportare Filippo in Italia

C’è un coltello ritrovato anche a Vigonovo, il comune veneziano dove abita la famiglia Cecchettin, proprio nel parcheggio davanti alla loro casa. Un coltello da cucina con una lama spezzata di 21 centimetri, su cui ora verranno eseguiti degli esami da parte dei Ris, visto che all’apparenza sembrava pulito. Per terra, varie macchie di sangue ancora visibili sulle mattonelle di cemento: due sul lato del passeggero, a pochi centimetri dal cordolo che delimita il park, con anche il segno della suola di una scarpa; e poi altre sull’asfalto della strada. È il momento in cui un vicino l’ha sentita gridare — ma senza capire che fosse lei — «Smettila, così mi fai male».

«Abbiamo chiuso l’attività immediata d’indagine, ora mancano tutti gli accertamenti tecnici per capire quello che è successo», semina prudenza il procuratore capo di Venezia Bruno Cherchi. Il primo passo fondamentale è però capire quando Turetta rientrerà in Italia dal carcere di Halle, nella Sassonia Anhalt. «Ci potrebbero volere una decina di giorni», ha spiegato Cherchi, anche perché l’ordinanza di arresto italiana dello scorso 15 novembre, diventata poi un mandato di arresto europeo, era per tentato omicidio, perché ancora non era stato trovato il corpo di Giulia. 

Quando verrà fatta l'autopsia

Ora serve un’integrazione con la nuova accusa di omicidio da tradurre e inviare in Germania, poi la consegna dovrebbe avvenire, appunto, in alcuni giorni: la prossima udienza di fronte al Tribunale regionale superiore (dove Filippo dovrebbe riaccettare l’estradizione) potrebbe tenersi non prima di giovedì. Il «Mae» è un’estradizione veloce, una «consegna» tra paesi Ue; in più in questo caso l’arrestato non si è opposto, come ha ricordato anche il ministro degli Esteri Antonio Tajani. Una volta in Italia, partirà la vera e propria indagine. Lunedì Cherchi ha detto che tutti gli atti irripetibili, a partire dall’autopsia, devono essere notificati all’accusato e quindi bisogna capire se conviene notificarglieli in Germania via rogatoria oppure aspettare il rientro. Ma, soprattutto, importante sarà il suo racconto dei fatti. 

Nessun aiuto esterno

Per ora l’accusa è di omicidio volontario aggravato dal legame sentimentale e di sequestro di persona. «Valuteremo più avanti, sulla base delle prove, l’eventuale premeditazione e occultamento di cadavere», ha detto il procuratore. Secondo i pm non risulta che abbia avuto aiuti esterni: ha «mollato» quando è rimasto senza benzina in autostrada vicino a Lipsia. Tra le analisi da fare ci sono quelle sul coltello (e peraltro potrebbe anche essercene stato un secondo), sull’auto che è ovviamente sotto sequestro in Germania e su tutti i reperti raccolti nei luoghi del delitto.

Le dichiarazioni. Il papà di Filippo Turetta: “Sembrava un figlio perfetto. Avrei quasi preferito finisse in altro modo…” Il padre di Filippo Turetta, arrestato in Germania, ha parlato ai giornalisti fuori dalla sua casa a Torreglia. Redazione su Il Riformista il 19 Novembre 2023

È distrutto. Non se ne capacita. Il papà di Filippo Turetta, il ragazzo arrestato in Germania dopo l’omicidio di Giulia Cecchettin, non riesce a darsi una spiegazione. Uscendo dalla sua casa a Torreglia (Padova), Nicola Turetta ha parlato brevemente con i giornalisti fuori l’abitazione.

“Siamo ancora sotto shock da quello che ha combinato nostro figlio. Non capiamo come possa essere successa una cosa del genere, e porgiamo le massime condoglianze, siamo vicinissimi alla famiglia di Giulia, perché le volevamo bene” ha detto Nicola Turetta, papà di Filippo. “L’abbiamo conosciuta bene. Veniva qua con Filippo ci vedevano. Sembrava una coppia perfetta; nessuno riporterà più Giulia. Siamo molto vicini a questa famiglia, e non riusciamo a capire come possa aver fatto una cosa così un ragazzo a cui abbiamo cercato di dare tutto” ha aggiunto il padre del giovane di 22 anni.

Il padre su Filippo: “Pensavo fosse un figlio perfetto”

“Io da padre ho pensato che fosse un figlio perfetto, perché non mi aveva dato mai nessun problema, né a scuola né con i professori, mai un litigio con qualche compagno di scuola o che altro. Mai. Con il fratello più piccolo, neanche una baruffa. Trovarmi con una cosa del genere, voi capite che non è concepibile, ci dev’essere qualcosa che è entrata in lui” ha detto il padre di Filippo.

La relazione tra Filippo Turetta e Giulia

Nicola Turetta ha poi parlato della relazione tra il figlio e Giulia Cecchettin: “Quella prima volta che si erano lasciati lui diceva ‘io mi ammazzo io mi ammazzo‘ e ‘non posso stare senza la Giulia‘. Io dicevo ne troverai altre, non ti preoccupare, un po’ quello che penso fanno tutti i genitori. Si son lasciati poi si son ripresi all’università. Io son sicuro che la Giulia avesse la sensazione che lui non le avrebbe mai torto un capello, perché sennò non avrebbe continuato comunque a uscire; in tutti questi anni come minimo lo vedi un ragazzo se è violento oppure un po’ burrascoso”.

La possibilità di vedere Filippo, arrestato in Germania

Nicola Turetta ha poi risposto a una domanda della stampa sulla possibilità di andare a vedere Filippo in Germania, dove è stato arrestato. “È una cosa dura. Non è che sia tornato da un viaggio. Avrei quasi preferito che la cosa fosse finita in un altro modo. Però dopo è mio figlio, e quindi ho detto che comunque la vita deve andare avanti e quindi spero di vederlo”.

Le parole di Filippo: «Mi sono puntato più volte il coltello alla gola». E il dubbio: aveva fatto un sopralluogo? L’1 dicembre l’autopsia. Storia di Andrea Pasqualetto su Il Corriere della Sera il 23 novembre 2023.  

Quel girovagare apparentemente senza senso, un senso ce l’aveva: cercava un posto dove farla finita . Ma Filippo Turetta non ha mai trovato la forza di affondare il colpo contro se stesso. «Mi sono puntato più volte il coltello alla gola… avrei voluto schiantarmi», ha detto ai poliziotti tedeschi che sabato scorso l’hanno trovato all’interno della sua Punto nera sulla corsia di emergenza dell’autostrada Berlino-Monaco, a 180 chilometri dalla capitale .

Gli agenti avevano aperto la sua borsa marsupio e gli chiedevano conto di quel coltello infilato dentro con un paio di guanti. « Ho ucciso la mia ragazza ... — ha sospirato lui in inglese —. Con quello volevo suicidarmi». Nel rapporto di polizia si precisa: «Coltello da cucina , lunghezza lama 12 centimetri, pulito».

Cercava un burrone, un viadotto, pensava di tagliarsi la gola. Insomma, dopo aver ucciso Giulia, Filippo avrebbe pensato di togliersi la vita. Non aveva dunque una meta, non era in fuga da Vigonovo, da Torreglia, da Fossò, dai luoghi della sua vita dove aveva commesso l’atroce delitto. Era semmai una fuga dal mondo. Ha percorso più di mille chilometri, attraversando la pianura veneta e quella friulana e prendendo poi la via della montagna per liberarsi intanto del corpo di Giulia, trovata rannicchiata in un anfratto roccioso vicino a Piancavallo. Da lì in avanti, secondo le sue dichiarazioni a caldo, sarebbero stati sei giorni di vagabondaggio a bordo dell’auto, con in tasca forse 300 euro e quell’idea del gesto estremo. Non l’ha fatto e così la sua corsa è finita assieme alla benzina e ai soldi. Gli erano rimasti solo pochi euro. «Nessuna macchia sospetta sui vestiti indossati… in una borsa c’è un cambio e un paio di scarpe, imbrattate di sostanza apparentemente ematica», annota la polizia di Halle intendendo forse che c’erano un’altra maglia e un altro pantalone. Aveva un solo telefonino cellulare, il suo, naturalmente sequestrato insieme con il resto, compresa la Punto nera che arriverà presto in Italia.

Infine lui, Turetta. «Ferite a una caviglia e alle mani», probabilmente dovute alla colluttazione con Giulia. Ma sul collo, dove dice di essersi puntato più volte il coltello, nulla. Lo studente ha ribadito ieri il suo assenso al trasferimento in Italia e così la Germania ha dato l’ok alla consegna. Il Servizio per la cooperazione internazionale di polizia (Scip) sta organizzando l’operazione con i colleghi tedeschi. Andranno a prenderlo forse già domani; poi il volo militare su Roma e il trasferimento in un carcere della capitale, dove gli sarà notificata l’ordinanza di custodia cautelare nazionale. Dopodiché sarà condotto a Venezia per l’interrogatorio di garanzia del gip. L’autopsia sul corpo di Giulia sarà invece eseguita l’1 dicembre.

Nel frattempo proseguono le indagini. Al vaglio degli inquirenti i due video registrati dalle telecamere di Fossò, uno ha ripreso l’aggressione delle 23.40, e i passaggi dell’auto nella stessa zona poco dopo le 5 del pomeriggio di quel giorno. Ha forse fatto un sopralluogo? Gli inquirenti si sono dati del tempo per decidere sull’eventuale aggravante della premeditazione del delitto.

"Spaccava tutto". Il racconto choc di un amico di Filippo. Angela Leucci il 23 Novembre 2023 su Il Giornale. Un amico ha raccontato che Turretta più di una volta si sarebbe sfogato su alcuni oggetti, spaccandoli

La famiglia di Filippo Turetta l’ha sempre descritto in questi giorni, dalla scomparsa all’attesa di estradizione dalla Germania, come un “bravo ragazzo”, qualcuno che non ha mai dato problemi, né a scuola né di altro tipo. Queste frasi hanno sollevato l’opinione pubblica nei confronti dei Turetta, ma è chiaro che tutti continuino a interrogarsi come si sia arrivati a quanto accaduto. L’omicidio di Giulia Cecchettin, così come è stato ipotizzato il reato dalla procura ha scosso inevitabilmente le coscienze e forse capire di più su questa vicenda potrebbe portare a una prevenzione più efficace dei femminicidi.

Ma ci sono anche voci diverse. Un amico di Filippo è stato infatti intervistato da “Chi l’ha visto?”, descrivendolo come un ragazzo tutt’altro che tranquillo: “Venivano fuori sempre storie, se all’improvviso voleva sfogarsi con lei o con lui, ogni volta spaccava il materiale. Per esempio quel palo là l’ha spaccato lui l’altra volta, è un anno che va avanti così. Lui sfogava la sua rabbia con gli oggetti, per carità noi abbiamo sempre fatto denuncia contro terzi, basta, finiva là”.

L’uomo ha parlato di urla e di “piccoli danni”, aggiungendo che mai si sarebbe immaginato l’epilogo, la morte di Giulia. Ha aggiunto che Filippo “prima non era così”, che il cambiamento sarebbe iniziato da un anno circa, tanto che per un periodo si sarebbe mostrato in alcune giornate cordiale e in altre no.

La scomparsa di Filippo e Giulia è stata denunciata il giorno dopo la loro uscita dell’11 novembre al centro commerciale. Sei giorni dopo il corpo di Giulia è stato trovato in un canalone nei pressi del lago di Barcis. Telecamere di sorveglianza, una testimonianza di un vicino e il sistema di rilevazione delle targhe stanno aiutando a ricostruire dinamiche e spostamenti, affinché la giustizia italiana sia messa nella posizione più agevole per fare il suo corso.

Non si sa ancora come si evolverà la vicenda legale di Filippo, e naturalmente non ci sono certezze circa un’eventuale perizia psichiatrica, che ufficialmente non è stata ancora chiesta. In questi giorni frenetici di indagini e ricostruzioni emerge però una volontà popolare di fare di più sul tema della violenza sulle donne. E c’è da immaginare, come è stato per altri processi “storici”, che se e quando si arriverà in tribunale la giustizia segnerà un punto fermo che rappresenterà un importante precedente sul tema.

I post choc dell’avvocato di Filippo Turetta: «Violenza sulla donna? Se ubriaca è sempre scusata. Le vittime sono da entrambe le parti». Lui: »Mi sono espresso male». Carlotta Lombardo su Il Corriere della Sera giovedì 23 novembre 2023.

Un caso i commenti su Facebook di Emanuele Compagno legale del 22enne che ha ucciso Giulia Cecchettin: «In Italia troppi casi di denunce infondate da parte delle donne». E intanto la famiglia nomina un secondo avvocato

«Ho assistito ieri ad una scandalosa puntata di “Carta Bianca” con Bianca Berlinguer in tema di violenza alle donne. La donna veniva trattata come una menomata, come un’incapace. Se ubriaca è scusata. L’alcol è una scusante per la donna, mentre non lo è per l’uomo. Una totale deresponsabilizzazione della donna, come fosse un oggetto incapace di auto-determinarsi. Queste esagerazioni servono solo a delegittimare la donna trasformando in farsa un problema serio». Scriveva così sul suo profilo Facebook, a maggio 2021, Emanuele Compagno, legale di Filippo Turetta , il giovane che ha ucciso Giulia Cecchettin. Due mesi dopo, sempre su Facebook, l’avvocato commentava il fenomeno delle false accuse di molestie, stalking, violenze sessuali e maltrattamenti ritenendoli «tanti», se non addirittura «troppi». In Italia e nel mondo. «Accuse — scriveva — infondate e false, a volte utilizzate strumentalmente per avere forza in cause civili, come le separazioni o divorzi». Infine, tre anni fa, in occasione della giornata contro la violenza alle donne, annotava che «è giusto ricordare che le vittime sono da entrambe le parti». Affermazioni che in poche ore, all’indomani dell’ennesimo femminicidio in Italia, hanno fatto il giro del web e a molti sono suonate alquanto disturbanti se si pensa che il caso di cui Compagno è stato chiamato ad occuparsi, l’omicidio di Giulia Cecchettin, è stato commesso proprio dal suo assistito: Filippo Turetta.

«Nella puntata di “Carta Bianca” ritenevo che la donna non fosse stata trattata bene e volevo evitare discriminazioni di ogni sorta tra uomo e donna — si giustifica Compagno che, da oggi, nella difesa di Turetta verrà affiancato da Giovanni Caruso, del foro di Padova —. Forse avrò visto male ma mi è sembrato che fosse stata trattata come se non fosse in grado di badare a se stessa e quindi di autodeterminarsi, quasi a detrimento della figura femminile». Scriveva anche che l’alcol è una scusante per la donna, ma non per l’uomo, denunciando poi il numero eccessivo di false accuse di molestie... «Sì, spiegavo che gli inglesi hanno stabilito dei protocolli per vagliare e scrutinare queste denunce. E che anche l’Italia dovrebbe maturare una coscienza nuova, quella che vede nell’accusato non un colpevole, ma un innocente fino a prova contraria. All’indomani della morte di Giulia Cecchettin il mio pensiero è stato travisato ma il suo senso va proprio nella ricerca dell’uguaglianza tra i sessi. Forse mi sono espresso male... Ho scritto molti post contro le violenze di ogni tipo, sul bullismo e sull’odio verso gli omosessuali. E mi spendo per l’uguaglianza delle persone. La vittima è vittima e non deve mai in qualche maniera giustificarsi».

Le resistenze nell’accettare un rovesciamento di prospettiva che la parola femminicidio (un delitto che trova i suoi profondi motivi in una cultura dura a rinnovarsi e non un voler forzatamente distinguere tra delitto e delitto semplicemente in base al sesso della vittima), però, sono dure a morire. Ancora oggi alle donne viene data parte della colpa. Per un italiano su quattro la violenza sessuale è originata dal modo in cui la donna si veste? Significa che, dunque, è colpa sua. Commenti che sembrano non fermarsi e tesi (quasi) a giustificare le aggressioni alle donne. Il 31 ottobre 2015, l’avvocato di Turetta scriveva sulla notte di Halloween: «Non capisco cosa ci facciano delle ragazzine vestite da pu****e in giro per il paese. E nemmeno perché i genitori accompagnino i figli a disturbare per le famiglie suonando campanelli. Vergognatevi». «Da quel post sono passati quasi 10 anni ... Mi scuso per i termini che ho usato —commenta ancora Compagno —. Ripeto, l’impegno, da parte mia, alla lotta contro ogni forma di discriminazione è massima e, ribadisco nessun comportamento, abbigliamento incluso, giustifica la violenza nei confronti delle donne».

Dagli ultimi dati nazionali della polizia emerge che dei 106 omicidi di donne nel 2023 (al 19 novembre) su 295 totali, 87 (su 130) sono stati commessi in ambito familiare-affettivo e 55 da partner o ex partner (su 60), che possono essere catalogati come femminicidi. Nel 52% dei casi è stato il marito o in convivente, nel 14% l’ex, come anche un soggetto con il quale la vittima aveva una relazione extraconiugale.

Emanuele Compagno: chi è l’avvocato di Filippo Turetta, giornalista e legale nella bufera per i suoi post sui social. Spuntano sui social post vecchi di anni: sulla violenza sulle donne, su questioni di genere e procreazione assistita. E scoppia la bufera. L'avvocato nominato d'ufficio, ha chiarito che finora non ha fatto richiesta di perizia psichiatrica per il suo assistito. Piero de Cindio su L'Unità il 23 Novembre 2023

Emanuele Compagno è l’avvocato difensore di Filippo Turetta, il 22enne accusato dell’omicidio e il sequestro di persona della sua ex ragazza, la 22enne Giulia Cecchettin, il cui cadavere è stato ritrovato sabato scorso in un vallone nei pressi del lago di Barcis, in provincia di Pordenone. È stato nominato d’ufficio, da oggi sarà affiancato nella difesa da Giovanni Caruso, Ordinario di Diritto Penale all’Università degli Studi di Padova. Compagno da oggi è finito al centro dell’attenzione mediatica per alcuni suoi vecchi post pubblicati sui social network.

Alcuni suoi post sono diventati virali. Spaziano dalla violenza di genere ai migranti ai diritti LGBTQIA+. E sono piuttosto grotteschi. “Non capisco cosa ci facciano delle ragazzine vestite da put***e in giro per il paese”, si legge in uno. “Nella giornata contro la violenza alle donne è giusto ricordare che le vittime sono da entrambe le parti. È giusto ricordare tutti di fronte alla violenza”, scriveva il 25 novembre del 2020 postando un articolo de Il Giornale in cui si lanciava l’allarme “maschicidi”. E ancora in un altro post del maggio 2021 si leggeva: “L’alcol è una scusante per la donna, mentre non lo è per l’uomo. Una totale deresponsabilizzazione della donna, come fosse un oggetto incapace di auto-determinarsi. Il tutto coniato, poi, a Tg3 Linea Notte con la storia di Biancaneve. Queste esagerazioni servono solo a delegittimare la donna trasformando in farsa un problema serio. Portano all’assurdo un problema vero”.

Quando il cantante Valerio Scanu ha contratto un’Unione Civile, Compagno ha criticato il suo abito allargando il discorso alla questione di genere. “Perché scimmiottare una sposa, vestendosi in abito bianco con il velo? È giusto che due uomini si uniscano con l’unione civile, che non è un matrimonio. Ma sempre restando se stessi. È giusto banalizzare l’unione civile trasformandola in una pagliacciata?”. In altri post correlava in qualche modo la crisi del sistema sanitario pubblico alla questione migratoria e al reddito di cittadinanza. “Mancano i medici. Test di medicina. Uno su 4 passerà. Sì agli immigrati e sì al reddito di cittadinanza. No alle giovani intelligenze. Ecco l’Italia”.

In un altro post criticava la procreazione assistita – “Helton John grazie ad un utero in affitto diventa padre assieme al suo fidanzato. VERGOGNA!!!” – e in un altro ancora denunciava il Partito Democratico di alimentare la fantomatica teoria gender – “Il PD approva tutto questo. Ecco il vero volto del PD. Portare i bambini al Gay Pride per imparare queste cose. Deviare i bambini e renderli schiavi della devianza. Il PD non ha fatto politiche per la famiglia. Ha promosso le lobbi LGBT”. Altri utenti hanno fatto notare sue fotografie con esponenti del centrodestra come l’attuale Presidente del Senato Ignazio La Russa e l’ex ministro Renato Brunetta.

Chi è l’avvocato di Filippo Turetta

È impegnato, come si legge sul suo sito, “nel diritto civile, penale, diritto dei consumatori, famiglia, successioni, bancario, recupero crediti, amministrazione di sostegno, minori, sinistri, consulenza aziendale”. Maturità scientifica, si è laureato alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Padova con una tesi in diritto penale comparato su “La procreazione medicalmente assistita nell’ordinamento italiano e francese”. È iscritto all’albo nazionale dei giornalisti dal 2005, nell’elenco dei pubblicisti del Veneto. Ha collaborato con diverse testate e diversi programmi televisivi locali di approfondimento giornalistico.

Si è formato alla scuola per avvocati penalisti Emanuele Battain, ha un suo studio legale a Dolo, in provincia di Venezia. È stato autore di diverse pubblicazioni. Sulla procreazione medicalmente assistita e anche un testo che traccia una specie di parallelismo tra Felice Maniero e Matteo Vanzan. Alle elezioni amministrative del maggio 2014 si era candidato con una lista civica a sindaco del comune di Camponogara, comune di quasi 13mila abitanti nella provincia di Venezia. Compagno è anche sommelier e pilota di aereo.

La difesa di Filippo Turetta e la perizia psichiatrica

Poco prima del ritrovamento del corpo della ragazza, l’avvocato si era fatto notare per alcune dichiarazioni a RaiNews24 che avevano circolato molto in cui dichiarava che Filippo Turetta “non è mai stato aggressivo, un ragazzo da cui ci si poteva aspettare di tutto tranne che un gesto di violenza. Amava questa ragazza, le preparava dei biscotti, continuavano a vedersi”. Il legale non credeva a un gesto premeditato.

Compagno, intervistato ieri sera da Chi l’ha visto?, aveva risposto così alla possibilità di una perizia psichiatrica sul ragazzo: “Non lo so, non l’ho chiesta. Al momento è prematuro, dovrei consultarmi con i miei consulenti. A chi me lo ha chiesto ho semplicemente risposto che la perizia psichiatrica è uno degli strumenti che la legge pone a disposizione della difesa e quindi si valuterà se questo sarà uno strumento da adottare, in che misura, in che modo, con quali valutazioni. Al momento non c’è nulla di questo”.

L’infermità parziale funge da circostanza attenuante e può portare alla diminuzione di un terzo della pena. L’infermità totale invece porterebbe all’esclusione dell’imputabilità: in questi casi però di solito poi il soggetto può essere valutato come socialmente pericoloso e inserito in una Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza, la Rems. Filippo Turetta tornerà in Italia sabato 25 novembre, sarà estradato dalla Germania proprio nella giornata mondiale contro la violenza sulle donne. Piero de Cindio 23 Novembre 2023

Filippo Turetta, la direttrice del carcere svela: "È tranquillo". Un avvocato rinuncia. Il Tempo il 26 novembre 2023

Filippo Turetta è atterrato ieri a Venezia a bordo del Falcon 900Ex partito da Francoforte. Al momento della consegna da parte della polizia tedesca, il giovane era ammanettato mani e piedi, come accade per tutti gli accusati di omicidio in Germania, ma «il cittadino italiano si è comunque dimostrato calmo e collaborativo» e ha «interagito in inglese» con gli agenti della polizia tedesca presenti, come conferma a LaPresseJoerg Martienssen, portavoce della polizia aeroportuale di Francoforte sul Meno. Turetta era «in condizioni normali, tranquillo» quando è entrato nella struttura veronese, come ha precisato la direttrice del carcere Francesca Gioieni, che lo ha visto per l'espletamento delle pratiche e delle procedure, dalla visita medica a quella psichiatrica. Nel carcere è avvenuto anche il primo incontro faccia a faccia con il nuovo legale, l'avvocato Giovanni Caruso, che ha confermato di aver trovato il giovane «in condizioni accettabili ma molto, molto provato. Il ragazzo è disorientato» ha aggiunto precisando di non essere «entrati nel merito» della vicenda. 

 «Il ragazzo non ha detto sostanzialmente nulla, non abbiamo affrontare nei dettagli i profili della difesa materiale». Di quello si parlerà martedì quando, conferma il legale, ci sarà l'interrogatorio di garanzia davanti alla gip. Tutto nel giorno in cui il mondo, e soprattutto l'Italia, celebra la giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Una data, quella del 25 novembre, doppiamente dolorosa per il padre e la sorella di Giulia che devono fare i conti con la sua assenza. Il padre Gino si affida a Facebook per postare un fiocco rosso. «Parlate, denunciate, fidatevi!», le sue parole, semplici e dirette, per le donne vittime di violenza. Violenza che torna anche nel post di Elena Cecchettin, la sorella di Giulia. La giovane sceglie Instagram per mandare una lettera alla sorella, per dirle che «questa casa, che fino a poco più di un anno fa era troppo piccola, ora sembra così vuota, così grande e spesa. Così il vuoto che mi porto dentro per la tua assenza. Così il vuoto di quando ti cerco per raccontarti di quello che mi succede, dimenticandomi che non ci sei più. Così grande, così incolmabile il vuoto che la tua assenza lascia dentro di me. Così grande la rabbia come il dolore nel realizzare che la tua assenza, la tua morte sono state causate da un individuo con un nome e un cognome». 

Il testo è accompagnato da alcune slide in cui la giovane torna a parlare di Turetta, «l'assassino di mia sorella» che «viene spesso definito come mostro e invece mostro non è. I "mostri" non sono malati, sono figli sani del patriarcato, della cultura dello stupro». Nel frattempo l'avvocato Emanuele Compagno, legale nominato d'ufficio di Filippo Turetta, ha rinunciato ieri pomeriggio alla difesa del 22enne, accusato del sequestro e dell'omicidio volontario aggravato di Giulia Cecchettin. Lo comunica lo stesso legale a LaPresse, precisando di aver avvisato fin da subito la famiglia del giovane della necessità di avere un legale di fiducia. «Considero il mio lavoro chiuso con l'arrivo in Italia di Filippo Turetta», ha detto Compagno aggiungendo che «la rinuncia non ha nulla a che fare con le polemiche nate dai miei video pubblicati su Youtube». 

Estratto dell’articolo di Cesare Giuzzi per corriere.it sabato 9 dicembre 2023.

La data esatta ancora non c’è. Ma entro la prossima settimana la Fiat Grande Punto di Filippo Turetta rientrerà dalla Germania e inizieranno le analisi del Ris di Parma. Un passaggio importante per le indagini sull’assassinio di Giulia Cecchettin perché i tecnici dei carabinieri potranno ricostruire le fasi del delitto e metterle a confronto con il racconto di Turetta. Il nodo centrale dell’inchiesta anche perché le modalità con cui Giulia è stata uccisa saranno decisive per le aggravanti. 

Come anche l’analisi delle macchie di sangue, la cosiddetta Bpa, la «bloodstain pattern analysis» che permetterà agli investigatori di ricostruire con esattezza quanto successo in macchina. 

La dimensione, la posizione e le traiettorie degli schizzi di sangue sulla tappezzeria dell’auto e sul rivestimento interno del tettuccio potranno svelare se Giulia è stata accoltellata a morte mentre si trovava sul sedile posteriore della Punto, quindi dopo la seconda aggressione nell’area industriale di Fossò.

Oppure se il colpo alla base del collo che ha reciso l’arteria basilare sia stato sferrato mentre la 22enne cercava di fuggire nella tragica scena ripresa dalle telecamere. In quel caso i legali di Turetta potrebbero sostenere che il colpo sia stato sferrato per bloccare la ragazza e non con l’intento immediato di toglierle la vita.

[...]

Estratto da "Il Messaggero" sabato 9 dicembre 2023.

Il femminicidio di Giulia Cecchettin è stato premeditato? All'interrogativo giudiziario cercheranno di dare risposta i carabinieri: la Procura di Venezia ha incaricato gli investigatori, che da quasi un mese cercano di fare luce sulla tragedia, di interrogare anche lo psicologo che ha avuto in carico Filippo Turetta. 

Sei le sedute di psicoterapia prenotate per il 21enne di Torreglia, che però ha disertato l'ultima: quel giorno il giovane era in piena fuga, dopo aver ucciso la 22enne di Vigonovo. Secondo quanto è stato ricostruito, su consiglio della stessa Giulia e pure dei suoi genitori, Turetta aveva fissato il primo appuntamento tre mesi fa, con una telefonata al Cup dell'Ulss 6 di Padova, per il 22 settembre. Dopo quel primo colloquio, sarebbe stato invece lo psicoterapeuta a convocare il paziente per una serie di altri incontri, più ravvicinati nel tempo. Probabilmente i carabinieri intendono capire se fosse stata subito riscontrata una situazione grave, per indurre l'esperto a rivedere Filippo il 3, il 17 e il 27 ottobre e quindi il 4 novembre, cioè giusto una settimana prima del delitto.

 Invece non c'è stato nessun faccia a faccia il 17 novembre: quel giorno il ragazzo era probabilmente già in Germania, dove infatti è stato arrestato l'indomani dalla polizia, fermo in autostrada dopo essere rimasto a secco di carburante. Da quanto è trapelato, il 21enne aveva raccontato al professionista l'angoscia che stava vivendo dopo la fine della relazione sentimentale con la ex, oltre che i problemi incontrati nel suo percorso universitario. Nell'interrogatorio-fiume in carcere del 3 dicembre, Filippo - forse per scongiurare la contestazione della premeditazione - aveva sostenuto davanti al pm Andrea Petroni di aver «perso la testa» la sera dell'11 novembre di fronte al rifiuto di Giulia di riallacciare la relazione. [...]

L’Impunità.

Estratto dell’articolo di Alfio Sciacca e Cesare Giuzzi per il "Corriere della Sera" venerdì 8 dicembre 2023.

Era stato lui, ai primi di settembre, a chiamare il Centro unico prenotazioni per fissare l’appuntamento con lo psicologo.

Filippo Turetta per 5 volte era stato davanti a uno psicoterapeuta prima di uccidere Giulia: il 22 settembre, il 3, il 17 e il 27 ottobre e il 3 novembre. Il sesto colloquio era fissato per venerdì 17, ma il 21enne era già in fuga. In quei cinque incontri con gli psicologi dell’Ulss 6 Euganea, aveva parlato della sua «timidezza», delle difficoltà «negli studi» e «relazionali». Ma anche di Giulia, del rapporto finito.

Ora i professionisti saranno sentiti dai carabinieri di Venezia e sarà acquisita tutta la documentazione medica. I magistrati vogliono capire se il 22enne abbia mai manifestato i segnali di una «premeditazione». Ma anche valutare se gli psicoterapeuti non abbiano colto possibili segnali di allarme. E se in quelle occasioni Turetta abbia parlato del suo essere «fortemente possessivo» emerso in questi giorni sia dalle testimonianze dei familiari di Giulia sia da chat e audio.

La difesa, invece, nelle prossime settimane potrebbe richiedere una consulenza psichiatrica proprio sulla base di quei pregressi disturbi. Carta decisiva per valutare imputabilità ed eventuali sconti di pena legati ad un vizio totale e parziale di mente. 

Filippo è ancora rinchiuso nel reparto di Infermeria del carcere di Verona. Gioca a carte con il compagno di cella. Non ha avuto altri incontri con i genitori. È seguito ogni giorno da un psicoterapeuta perché il suo è un caso delicato. Tra dieci giorni compirà 22 anni e sarà un momento ancora più delicato per il rischio di un crollo emotivo.

Da alcune chat rese pubbliche da Chi l’ha visto? emerge quanto fosse malato il rapporto con Giulia che controllava in modo soffocante, ritenendosi l’unico in grado di poter dire quali fossero le cose a lei gradite. In vista della laurea interviene in una chat WhatsApp tra amici comuni che si stanno organizzando per festeggiarla e hanno preparato anche una caricatura che ne sintetizza i tratti caratteriali.

[...] Mette bocca persino su cosa si debba lanciare sulla festeggiata. «Per quello che so, che ha detto quando ne abbiamo parlato, perché anche lei non ha le idee chiare al riguardo...

Poi dobbiamo considerare che sarà fra tre o quattro settimane, quindi sarà freddino, perché sarà a fine novembre... Poi mi diceva, comunque, che è un evento che succede una volta nella vita e quindi speciale... Quindi qualcosa di divertente, tipo coriandoli sì, anche farina sì... poi cose più pesanti, tipo uova, tendenzialmente è no». Sembra animato da un malatissimo senso di protezione.

Il cieco male, la sofferenza e il controllo: così Turetta ha seminato morte. Matteo Carnieletto il 7 Dicembre 2023 su Il Giornale.

Nella vita esistono alcuni grandi misteri. Tra questi primeggiano, il male, la sofferenza e la morte. Tutti elementi che troviamo anche in questa storia. Ed è della sofferenza che desideriamo parlare adesso

Nella sua confessione, Filippo Turetta ha affermato di aver ammazzato Giulia Cecchettin perché la voleva solo per sé. Diceva di amarla, ma era un non amore. Si trattava infatti di un sentimento morboso - fatto di possesso, come indica lo stesso aggettivo usato dal killer: "mia" - e di gelosia. Doveva esser sua, come una cosa. Nonostante questo, Giulia si preoccupava per lui. Aveva paura che, sparendo, Filippo potesse farsi male. La ragazza raccontava infatti alle sue amiche che il suo ex fidanzato era depresso, che aveva smesso di mangiare, che passava le giornate a guardare il soffitto e che pensava solo ad ammazzarsi. Il futuro killer soffriva, in modo patologico, per questa separazione. "Mia o di nessun altro". Ed è stato quel dolore a provocare altro dolore. Prima fisico, in Giulia, con un'agonia straziante. Poi alla famiglia Cecchettin e ai suoi stessi genitori, che hanno fatto fatica ad incontrarlo.

Nella vita esistono alcuni grandi misteri. Tra questi primeggiano, il male, la sofferenza e la morte. Tutti elementi che troviamo anche in questa storia. Ed è della sofferenza che desideriamo parlare adesso.

Per gli antichi greci, il dolore dell'animo era una costante della vita e, per parlarne, usavano la parola pathos. Era un compagno fedele che serviva a crescere e a maturare. Per Platone il dolore dell'anima è legato a doppio filo con il corpo, tanto da scrivere nel Fedone: "Ogni piacere e ogni dolore, come se avesse un chiodo, inchioda e fissa l'anima nel corpo, la fa diventare quasi corporea e le fa credere che sia vero ciò che il corpo dice essere vero". Il dolore, quando è intenso, ci può infatti ingannare. Ci può portare alla disperazione, ovvero a pensare che non ci siano più possibilità di uscita. Che tutto sia ormai perduto. Ma non è così. Si può infatti reagire ad esso, secondo i greci: coltivando le virtù e purificandosi. Ed è proprio per andare incontro a quest'ultima necessità che nasce la tragedia greca. È in essa che vengono messe in scena il dolore, la morte e la sofferenza. Gli spettatori si immedesimano, soffrono insieme agli attori. Si identificano in loro. Imparano a provare dolore e a reagire ad esso. Si commuovono, si purificano e, infine, crescono.

Il Cristianesimo, con la morte di Gesù in croce, cambia questa prospettiva. La ribalta. Il Figlio di Dio si sacrifica per molti e muore provando atroci sofferenze. Il Christus patiens diventa il modello da seguire. La sofferenza trova ora un senso. Diventa un'occasione di espiazione. Non è facile ragionare così. È infatti facile abbandonarsi alla rassegnazione e allo sconforto. Ma c'è un libro, scritto da padre Frédéric Rouvier, Saper soffrire (Edizioni Fiducia), che può aiutarci a comprendere meglio questa prospettiva di fede, ovvero di vita.

Per farlo, dobbiamo partire da un presupposto: non siamo stati creati per sbaglio. Se siamo al mondo è perché abbiamo un fine, che è buono. E tutte le difficoltà che ci si parano davanti vanno lette in quest'ottica: esiste un progetto positivo su di noi. Possiamo accettarlo o rifiutarlo perché siamo liberi. A tal proposito, padre Rouvier cita un passo di sant'Agostino, il quale "osserva che sul Calvario tre erano gli uomini appesi alla croce: uno che dà la salute, uno che la riceve, e un terzo che la perde". Immaginiamo quel momento. Ci sono tre uomini, tutti nella stessa condizione. Eppure ognuno dei tre vive quegli istanti in modo diverso. Cristo sta compiendo il compito per il quale è stato mandato sulla terra. Il buon ladrone, Disma, sfrutta quell'occasione per salvarsi. Gestas per condannarsi. Sono gli ultimi due i modelli che meglio ci rappresentano di fronte alla sofferenza. Possiamo scegliere come viverla. Se darle un senso oppure no. Se abbracciare la croce o maledirla. Se far fruttare il dolore o provocarne altro. È una questione di libertà, ovvero di adesione al bene al posto del male. Una prospettiva che cambia tutto. E che rende nuove tutte le cose.

Estratto dell'articolo di repubblica.it giovedì 7 dicembre 2023.

Un controllo totale sulla vita di Giulia: è quello che Filippo Turetta voleva esercitare sulla sua ex fidanzata, secondo quanto emerge dai messaggi che lui stesso ha inviato alla sorella della studentessa, Elena, e agli amici. Alcuni frammenti sono stati trasmessi ieri sera dalla trasmissione Chi l'ha visto in onda su Rai 3. 

In un audio che Filippo ha inviato in una chat ad alcuni amici qualche settimana prima di uccidere Giulia lo si sente dire: "Ciao, volevo chiederti un'opinione. Ho raccolto tutti i dettagli che avevamo scritto per la caricatura sulla chat e ci stavano tutti, però c'erano tipo...un paio di cose. Non saprei come dire. Ad esempio le tisane, anzi da quello che so alla Giulia non piacciono le tisane.

Estratto dell'articolo di Francesca Galici per ilgiornale.it giovedì 7 dicembre 2023.

[...] Una pressione psicologica costante, opprimente ed evidentemente disturbata, quella che Filippo perpetrava verso l'ex fidanzata, che lo aveva però convinto a farsi vedere da uno psicologo. E Turetta lo stava facendo, anche se con risultati non adeguati, facendo scena muta agli incontri. Ci sarebbe andato il 22 settembre, il 3, il 17 e il 27 ottobre e il 4 novembre. Avrebbe avuto in programma un'altra seduta il 17 novembre, quando era già latitante. 

Era in cura presso lo sportello della Uls 6 Euganea e sembrava anche costante nelle sue sedute, almeno nella cadenza tempistica. Ma questo non gli ha impedito di uccidere Giulia e, forse, anche di premeditare quell'omicidio, anche se su questo punto le forze dell'ordine e gli inquirenti stanno ancora lavorando. […]

Estratti da open.online giovedì 7 dicembre 2023.

I messaggi su Whatsapp di Filippo Turetta a Elena Cecchettin, la sorella di Giulia, sono stati trasmessi da Chi l’ha visto?. Insieme a un audio in cui Turetta parla dei gusti dell’ex fidanzata a proposito della festa di laurea da organizzare. Gli scambi risalgono a qualche settimana prima e la circostanza in cui sono stati inviati è stata raccontata durante l’indagine: i due si erano lasciati da poco ed erano partiti separatamente per andare a un concerto. Lui con la Grande Punto nera che poi ha usato per rapire e uccidere Giulia, le due sorelle in treno. Secondo il racconto della sorella Filippo ne stava scrivendo a raffica all’ex fidanzata, finché lei non le ha spento il telefono. A quel punto Turetta contatta Elena Cecchettin: «Ciao scusa, puoi far accendere il telefono alla Giulia e farglielo lasciare acceso?».

Il telefono

Elena risponde soltanto “No”. Lui torna alla carica: «Perché?! Non è giusto, non può non cagarmi per tutte ste ore. Mi aveva promesso ieri che mi scriveva durante la giornata…dille almeno che le ho scritto». Elena allora replica: «Filippo dalle un attimo di respiro». E lui sbotta: «Di respiro da cosa? Mi aveva promesso che mi mandava qualche foto e video della giornata». E poi conclude: «Scusa, grazie». Il messaggio audio invece vede Turetta che parla di tisane e dice che a Giulia non piacciono: «Ciao volevo chiederti un’opinione perché ho raccolto tutti i dettagli della chat ma ci sono cose che non saprei come dire… Ad esempio le tisane: a Giulia non piacciono le tisane, le considera acqua sporca. A meno che tu non mi contraddici e dici che è una caratteristica della Giulia, cosa facciamo con questo dettaglio che hanno scritto?».

L’accusa di stalking

In altri messaggi si parla della festa di laurea: «Farina sì, uova no». E Turetta parla degli alcolici: «Qualcosa di non eccessivo, rischia il mal di testa forte poverina». Intanto emerge anche che Filippo avrebbe avuto cinque incontri con uno psicologo, forse quello dell’università. Le date sono il 22 settembre, il 3, 17 e 27 ottobre, il 3 novembre. L’ultimo avrebbe dovuto svolgersi il 17 novembre. Ma nel frattempo lui era già diventato latitante tra Austria e Germania. 

I messaggi che provengono dal cellulare di Elena Cecchettin forse servono a fornire elementi per l’accusa di stalking: l’avvocato Nicodemo Gentile ne aveva parlato sostenendo che avevano causato nella ragazza uno stato d’ansia. Mentre il comportamento di Turetta, secondo il legale, tradiva  «un assedio psicologico che aveva provocato nella ragazza uno stato di disorientamento e di importante ansia».

E dimostrava «un uso padronale del rapporto che ha spinto il Turetta prima a perpetrare reiterate azioni di molestie e controllo, anche tramite chiamate e messaggi incessanti, e poi, in ultimo l’omicidio, al fine di gratificare la sua volontà persecutoria». Intanto Il Gazzettino fa sapere che la Grande Punto nera targata FA015YE di proprietà della famiglia Turetta è ancora in Germania. La vettura sarà riportata in Italia soltanto nelle prossime settimane. E così si potrà analizzare il cellulare dell’omicida. E le tracce di sangue all’interno dell’auto. Per la difesa il rischio principale è la contestazione dell’aggravante della premeditazione. Che gli precluderebbe l’accesso al rito abbreviato. La perizia psichiatrica invece potrebbe fornire una diagnosi di parziale incapacità di intendere e di volere.

Filippo Turetta andava dallo psicologo: l'ultima seduta saltata durante la fuga. Aveva partecipato a cinque sedute. La sesta sarebbe stata quando lui era ormai latitante: era stata Giulia a convincerlo a farsi curare. Francesca Galici il 7 Dicembre 2023 su Il Giornale.

"Puoi far accendere il telefono alla Giulia e farglielo lasciare acceso". Così scriveva Filippo Turetta alla sorella della sua ex fidanzata, Giulia Cecchettin, quando ormai la loro storia era già al capolinea. Un messaggio che racconta molto dell'ossessione dello studente nei confronti della ragazza che, infatti, si era detta molto preoccupata. Una pressione psicologica costante, opprimente ed evidentemente disturbata, quella che Filippo perpetrava verso l'ex fidanzata, che lo aveva però convinto a farsi vedere da uno psicologo.

E Turetta lo stava facendo, anche se con risultati non adeguati, facendo scena muta agli incontri. Ci sarebbe andato il 22 settembre, il 3, il 17 e il 27 ottobre e il 4 novembre. Avrebbe avuto in programma un'altra seduta il 17 novembre, quando era già latitante. Era in cura presso lo sportello della Uls 6 Euganea e sembrava anche costante nelle sue sedute, almeno nella cadenza tempistica. Ma questo non gli ha impedito di uccidere Giulia e, forse, anche di premeditare quell'omicidio, anche se su questo punto le forze dell'ordine e gli inquirenti stanno ancora lavorando.

A rivelare lo stralcio di una conversazione tra Filippo ed Elena è stata la trasmissione "Chi l'ha visto" e il contesto in cui si è svolta quella chat è un viaggio che le due sorelle stavano effettuando per raggiungere un concerto al quale, invece, Turetta stava andando in auto. In quelle poche righe di chat c'è tutta la possessività patologica che ha portato lo studente all'omicidio. Davanti al rifiuto della sorella di riferire a Giulia di accendere il telefono, che era stato spento proprio per evitare il fiume di messaggi di Turetta, lo stesso rispondeva: "Non può non cagarmi per tutte queste ore. Mi aveva promesso ieri che mi scriveva durante la giornata".

Turetta non accetta di essere ignorato, vuole Giulia tutta per sé, pretende che lei gli rivolga tutte le attenzioni e la vuole controllare. Vuole sapere cosa fa e dove è in ogni momento. Ma lei non vuole, o non vuole più. Ed è la sorella a cercare di farglielo capire: "Filippo dalle un attimo di respiro". Ma lui non capisce, non vuole capire o forse non gli interessa. E prosegue nella sua insistenza, avanzando una sorta di diritto nei confronti di Giulia: "Respiro da cosa? Mi aveva promesso che mi mandava qualche foto e video della giornata scusa".

Giulia Cecchettin, clamoroso: il Procuratore a rischio trasferimento, le conseguenze. Libero Quotidiano il 04 dicembre 2023

Colpo di scena sul caso di Giulia Cecchettin. Il procuratore di Venezia che coordina l'inchiesta rischia il trasferimento. Bruno Cherchi potrebbe dover lasciare le sue funzioni per essere destinato a un'altra sede. Il motivo? I suoi rapporti con un perito, il professore Massimo Montisci, nonché ex presidente dell'istituto di Medicina legale di Padova. Montisci è stato condannato per favoreggiamento a inizio 2023 nel caso Tiveron (per false dichiarazioni nella perizia medica) e coinvolto anche in altre vicende giudiziarie.

Per questo mercoledì prossimo il plenum del Consiglio superiore della magistratura deciderà sulla possibile incompatibilità del ruolo di Cherchi. La relazione del Csm fa riferimento a presunti favoritismi di Cherchi nei confronti di Montisci. Stando al Consiglio, fin dal 2018 l'attuale procuratore di Venezia avrebbe affidato tutte le relazioni di consulenza negli accertamenti necroscopici disposti dalla Procura veneziana boicottando - è l'accusa - un altro medico legale, Antonello Cirnelli. A questo si aggiungono altri fatti come una festa a cui Cherchi e Montisci avrebbero partecipato assieme il 10 luglio 2018, giorno successivo alla perquisizione nei confronti del medico nell'ambito dell'indagine Tiveron.

A sollevare i sospetti il procuratore generale di Venezia, Federico Prato. È stato lui a segnalare il caso al Csm già nel novembre del 2022. Successivamente il procuratore Cherchi ha precisato che i suoi rapporti con Montisci sono chiusi "formalmente e informalmente da molto tempo". Per quanto riguarda l'affidamento delle autopsie all’Istituto di medicina legale di Padova, invece, questa era motivata dalle difficoltà a reperire medici legali "diversi dai due o tre maggiormente disponibili". Così il 6 dicembre, il Csm dovrà discutere su un eventuale procedimento di tipo amministrativo per una ipotetica "incompatibilità ambientale", a garanzia dei cittadini e della giustizia. 

Filippo Turetta, la mossa degli avvocati che lascia basiti: si punta al maxi-sconto di pena. Il Tempo il 03 dicembre 2023

Nel contesto del processo contro Filippo Turetta, accusato di aver ucciso l'ex fidanzata Giulia Cecchettin, gli avvocati del giovane si preparano a difendere una tesi sorprendente: l'omicidio preterintenzionale. Questo reato, con una pena da 10 a 18 anni, offre una prospettiva legalmente meno gravosa rispetto all'accusa di omicidio volontario, che potrebbe portare all'ergastolo in presenza di aggravanti. La vittima, Giulia, è stata colpita da 25-30 coltellate, con quella all'arteria basilare del collo risultante fatale. Le indagini, scrive il Messaggero, stanno cercando di determinare il momento esatto in cui Turetta ha inflitto la coltellata mortale, con il giovane che sostiene di averlo fatto mentre inseguiva la ragazza. Le telecamere della zona industriale di Fossò hanno registrato questo tragico inseguimento alle 23.40 del 11 novembre.

Gli avvocati Giovanni Caruso e Monica Cornaviera potrebbero cercare di dimostrare che l'azione di Turetta è stata un omicidio preterintenzionale, affermando che il giovane voleva solo bloccare la vittima e che le conseguenze mortali sono andate oltre le sue intenzioni. Tuttavia, il giudice ha chiaramente indicato che la "volontà" dell'omicidio è "palese" data la "modalità dell'aggressione" ripetuta. Il piano omicida sembra essere iniziato 25 minuti prima, durante una violenta discussione nel parcheggio di Vigonovo. La possibilità che la coltellata fatale sia stata inflitta durante un breve intervallo di 10 minuti, tra le 23.40 e le 23.50, potrebbe limitare ulteriormente la difesa dell'omicidio preterintenzionale. 

Turetta ha tentato di evitare l'aggravante della premeditazione affermando che l'aggressione è stata un impulso del momento. Tuttavia, la presenza di tracce di uno scotch acquistato online prima dell'omicidio e trovato sull'asfalto di Fossò potrebbe influire sulla valutazione della premeditazione. L'arma del delitto, un coltello da 12 centimetri, è stato trovato nell'auto di Turetta. Il giovane sostiene di non averlo avuto con sé inizialmente, ma la questione della premeditazione rimane centrale nel processo. Se anche solo l'aggravante dei motivi abietti fosse riconosciuta, Turetta potrebbe affrontare una condanna all'ergastolo. Una tragica vicenda che ora è in mano alla giustizia.

I 10 minuti in cui Filippo Turetta ha ucciso Giulia Cecchettin: «Lei era mia e solo mia, non poteva essere di altri». Cesare Giuzzi su Il Corriere della Sera il 3 dicembre 2023.

La confessione dell’assassino davanti alla pm: «Ho fatto una cosa terribile ma lei non poteva essere di nessuno». Il delitto avviene tra le 23.40 e le 23.50. Alle 23.18 ci fu la chiamata del testimone al 112

L’ultima immagine di Giulia viva è una sagoma sfocata. Lei che scappa, sapendo che quasi certamente pagherà con la vita. Filippo che la insegue, intorno nessuno a cui chiedere aiuto. Un video che dura soltanto pochi secondi diventato l’immagine più angosciante, terribile e straziante di questa storia. Ma anche la fotografia del movente del delitto. La corsa di una ragazza di 22 anni che non può accettare d’appartenere ad altri se non a sé stessa. Perché Giulia non scappa da una morte ormai orribilmente inevitabile, ma fino all’ultimo sospiro insegue la sua libertà. La sua vita.

Filippo Turetta ha confessato davanti ai magistrati d’aver ucciso Giulia Cecchettin perché non accettava la fine della loro relazione: «Perché la mia Giulia era solo mia, e non poteva essere di nessuno». Perché per lui era inconcepibile che l’amore fosse finito e che Giulia potesse vivere le sue esperienze, le sue amicizie, lontano da lui. Giulia diventata la sua ossessione e lui sempre più possessivo. Anche quando lei si era riavvicinata perché gli voleva bene e sperava che lui «non si facesse del male». Un bene che Filippo non accettava, perché Giulia c’era ma non sarebbe potuta mai essere «sua». Così l’ha colpita con una coltellata sotto all’orecchio sinistro. Un colpo profondo che ha raggiunto l’arteria basilare, tra il collo e la testa, senza lasciarle scampo. In una morte quasi istantanea. Forse proprio mentre fuggiva a Fossò. O forse pochi secondi dopo, quando il video mostra Filippo caricare in macchina il corpo della ragazza dopo averla spinta a terra e ripartire. Per poi, magari, fermarsi di nuovo dopo pochi metri e infierire mortalmente su di lei.

L’esame medico legale venerdì è andato avanti per 14 ore. Guido Viel, il consulente della procura di Venezia, ha segnalato sul corpo più di venti lesioni. Alcune superficiali, altre da difesa ai palmi delle mani e alle braccia, altre ancora vicino al collo. Compresa quella mortale a forma di asola che sembra sferrata da dietro, o comunque in modo laterale, e che recide l’arteria basilare. Di certo tutto deve essere avvenuto in un lasso di tempo di 10 minuti: tra le 23.40, ora della aggressione a Fossò, e le 23.50 quando la sua auto lascia la zona industriale. Gli investigatori non escludono che Filippo possa aver inseguito e colpito Giulia con la lama proprio quando lei ha cercato disperatamente di fuggire dalla sua auto. Per poi caricare il corpo privo di sensi sui sedili posteriori. Ma la coltellata mortale potrebbe essere stata sferrata in un secondo momento.

Nei primi giorni della scomparsa dei due giovani, infatti, era emerso un secondo video, sempre nell’area industriale di Fossò, in cui si vede la Fiat Grande Punto di Turetta ferma in strada, con le luci dei freni accese. L’orario del filmato non è chiaro, ma potrebbe essere successivo all’aggressione delle 23.40. Giulia sarebbe stata così colpita in auto, magari con il 21enne che si volta e la ferisce a morte mentre è distesa sul sedile. Prima di essere colpita, in ogni caso, la vittima ha cercato di difendersi in tutti i modi. Prima, alle 23.18 nel parcheggio di via Aldo Moro a Vigonovo, poi dopo che — alle 23.31 — l’auto di Turetta entra nella zona industriale di Fossò, a 4 chilometri di distanza. I medici legali non avrebbero trovato segni di abusi sessuali, né di legature da «scotch» ai polsi e alla bocca.

Davanti al pm Andrea Petroni il 21enne dice di aver fatto «una cosa terribile». Parla così dell’uccisione di Giulia. L’interrogatorio però non è sempre lucido. Quando ricostruisce le fase più drammatiche Filippo Turetta dice di non «capire cosa gli sia scattato in testa». Mentre lui racconta della fuga, delle notti a dormire in macchina, i carabinieri cercano riscontri alla sua versione. Quando parla delle coltellate, gli inquirenti chiedono conto ai medici legali proprio per capire se il suo racconto si possa considerare genuino o meno. Il suo legale Giovanni Caruso non chiede rinvii. Solo qualche pausa quando Turetta fa fatica a ricordare. La linea difensiva punta a un gesto improvviso, non premeditato. In alcuni momenti il 21enne avrebbe detto che non era sua intenzione uccidere Giulia ma solo trattenerla in auto.

L’autopsia colloca l’aggressione mortale quando l’auto di Turetta si trovava ancora nella zona industriale di Fossò. L’attenzione torna così sui 32 minuti trascorsi tra la segnalazione del vicino di casa di Vigonovo al 112 (alle 23.18) e le 23.50 quando la Grande Punto lascia il quartiere industriale. I carabinieri non sono intervenuti perché impegnati in due interventi: un’aggressione dopo un incidente stradale e una persona ubriaca e molesta in un bar di Chioggia. Il barista, ha dichiarato alla trasmissione «Chi l’ha visto?» di aver chiamato la polizia (che per competenza gira l’intervento all’Arma) non al 112 ma «attraverso un numero fisso diretto con la centrale operativa». La chiamata parte un minuto prima di quella del vicino di casa. E quando viene segnalata l’aggressione, la pattuglia è già indirizzata su Chioggia.

Turetta rimane per 19 minuti nell’area industriale di Fossò. Il mancato intervento è oggetto adesso di un’indagine disciplinare del Comando generale. Verranno sentiti gli operatori della centrale e chi era in servizio quella sera. Sono state rispettate tutte le procedure? Perché non è comunque stata data una segnalazione via radio con il modello dell’auto? Ieri a Venezia procura deserta con il procuratore Bruno Cherchi che ormai da una settimana ha bloccato ogni canale di comunicazione, nonostante l’altissima attenzione dei cittadini sul caso. Cherchi mercoledì dovrà comparire al Csm per un procedimento disciplinare su un caso di rapporti «opachi» con l’ex direttore dell’Istituto di medicina legale di Padova. È stata chiesta «l’incompatibilità ambientale».

L’interrogatorio di Filippo Turetta, 9 ore con il pm: «So solo che in testa mi è scattato qualcosa». Cesare Giuzzi su Il Corriere della Sera il 2 dicembre 2023.

Venezia, confessione fiume in carcere. Non chiede di mangiare, solo un po’ d’acqua, non si alza mai. Tutti i dettagli della fuga

Parla, racconta, confessa. Filippo Turetta per nove ore davanti al pm Andrea Petroni. Non si ferma neppure per pranzare. Nell’aula riservata ai magistrati del carcere di Verona non viene chiesto cibo, soltanto acqua. È un interrogatorio che sembra senza fine. Ma con tanti «non ricordo». Specie quando ci si avvicina ai punti fondamentali dell’inchiesta.

Alle 11 in carcere

Inizia alle 11 del mattino di una giornata umida e gelida. Dentro, intorno al tavolo, gli avvocati Giovanni Caruso e Monica Cornaviera, il pubblico ministero Andrea Petroni, titolare del fascicolo, e due carabinieri. Turetta parla di quel che è successo quel sabato 11 novembre. Quando va al centro commerciale Nave de Vero con Giulia, insieme cenano al Mc Donald’s, e poi alle 23.45 il ritorno a Vigonovo. Quando però entra nel dettaglio dell’aggressione in via Aldo Moro, a 150 metri dalla casa dei Cecchettin, non spiega i motivi. Ribadisce la sostanza di quanto già aveva detto al gip Benedetta Vitolo nelle dichiarazioni spontanee: «Non so cosa mi sia scattato in testa, mi è scattato qualcosa».

La confessione

Ammette ciò che è stato ripreso dalle telecamere e già cristallizzato dagli inquirenti: di aver inseguito Giulia a Fossò, quando lei tenta di fuggire dall’auto, di averla buttata a terra e di averla poi caricata in macchina quasi senza sensi. Infine l’auto che riparte ma subito si ferma. E le coltellate al collo, quelle mortali. Tutto in una ventina di minuti.

Dichiarazione che tiene viva la strada di un gesto improvviso, non premeditato. E anche di un evento nel quale Filippo Turetta non era in sé. Per questo non è escluso che la difesa possa chiedere una consulenza psichiatrica nelle prossime settimane. L’interrogatorio ha fornito spunti importanti per le indagini.

I dettagli, le indagini

Ci sono dettagli che ora dovranno essere verificati con dati oggettivi, sia sul percorso della fuga, sia sul girovagare della Fiat Punto di Turetta dopo il delitto, e prima di lasciare il corpo di Giulia vicino al lago di Barcis. A Filippo viene chiesto anche della lunga fuga, durata una settimana, in Austria e poi in Germania. Della sua volontà di «consegnarsi» e «farsi arrestare» espressa al gip. Cosa che avrebbe potuto fare ovunque e in qualunque momento, ma che non ha mai portato a termine. Anche qui molti «non ricordo». Parole dette a voce bassa, in alcuni momenti contraddittorie tra «l’azione» e i «percorsi» effettuati e la sua «volontà» di tornare indietro e consegnarsi.

Quando gli inquirenti toccano i punti più delicati dell’aggressione, la dinamica, c’è un confronto in diretta con l’Istituto di Medicina legale di Padova dove il consulente della procura Guido Viel sta eseguendo l’autopsia. Si verifica in tempo reale se il racconto di Filippo è genuino o se serve un ulteriore approfondimento di domande.

Il silenzio dei magistrati all’uscita dall’interrogatorio poco prima delle 20, e quello di quest’ultima settimana imposto dal procuratore Bruno Cherchi che ha di fatto interrotto ogni comunicazione con la stampa, in qualche modo continuano ad alimentare aloni di mistero intorno a un caso che da un punto di vista investigativo è chiuso: Filippo ha confessato d’aver ucciso Giulia. Resta il nodo delle aggravanti, questione più tecnica, e legata all’entità dell’eventuale condanna. La procura lavora su premeditazione e crudeltà. Ma ci vorrà tempo.

Filippo Turetta incontra i genitori: gli abbracci, le lacrime, «non ti abbiamo abbandonato». Cesare Giuzzi su Il Corriere della Sera il 4 dicembre 2023.

L’incontro di un’ora fra Nicola Turetta ed Elisabetta Martini e il figlio Filippo, accusato dell’omicidio di Giulia Cecchettin. Lui è nel reparto infermeria

«Non ti abbiamo abbandonato». Ci sono voluti otto giorni. Per pensare, per cercare parole nuove e forse neppure immaginate. Per entrare in un carcere dove tuo figlio è accusato di uno dei crimini più terribili che possano esistere. Otto giorni per Nicola Turetta ed Elisabetta Martini prima di incontrare il figlio Filippo dopo il suo rientro dalla Germania. Per giorni il 21enne ha chiesto di poter rivedere i genitori.

Mercoledì il colloquio non c’era stato. Per l’emotività del momento e per non sovraccaricare Filippo in vista dell’interrogatorio fiume di venerdì, con quelle nove ore davanti ai magistrati raccontando l’orrore di un delitto nato dal suo bisogno di «possesso» e dalla vendetta perché Giulia voleva continuare ad essere libera. Filippo ha avuto paura che i genitori potessero non presentarsi mai. Ma Nicola Turetta lo aveva detto più volte in questi venti giorni: «È mio figlio, comunque lo rivedrò».

I genitori sono arrivati al carcere di Montorio una manciata di minuti dopo mezzogiorno. Sono entrati nel cortile del penitenziario senza fermarsi nel parcheggio. Una cautela adottata dalla direzione del carcere per evitare la telecamera di una troupe televisiva che stava effettuando riprese all’ingresso. «Per risparmiare a questi genitori uno show del dolore», dicono dall’interno del penitenziario. Non favoritismi, come hanno denunciato i parenti di altri reclusi in questi giorni, ma cautele visto il fortissimo clamore mediatico che ancora non si spegne. Le stesse che, in maniera del tutto spontanea, gli altri detenuti rinchiusi nell’infermeria (per i reati più disparati) hanno scelto di adottare per preservare il 21enne: cambiare canale quando si parla di lui, far sparire articoli e giornali sul caso dalle parti comuni.

L’incontro tra Filippo e i genitori avviene nella sala colloqui del carcere. I cellulari vengono lasciati all’ingresso, la perquisizione d’ordinanza. Nella sala ci sono una quarantina di posti, a quell’ora però sono deserti. Intorno al tavolo ci soltanto Turetta e i genitori. Quando il 21enne li vede entrare gli va incontro e l’emozione scoppia in un abbraccio pieno di lacrime. Ce ne saranno altri di abbracci durante l’ora esatta di colloquio. E anche pianti, perché il tavolo si riempie in fretta di fazzoletti accartocciati. Non esistono regole tassative, ma i genitori vengono invitati, come sempre nei primi colloqui, a non affrontare in maniera diretta la madre di tutte le questioni: l’assassinio di Giulia e i motivi del gesto. Filippo lo ha già fatto due giorni prima davanti ai magistrati. È ancora troppo presto. Loro chiedono come viene trattato, le cure che riceve dagli psicologi.

Ogni recluso ha diritto a sei colloqui al mese. Che possono diventare otto, o di più, se ci sono esigenze particolari. Poi ci sono telefonate e video chiamate. All’uscita Nicola Turetta ed Elisabetta Martini si avvicinano agli agenti della polizia penitenziaria e li ringraziano: «Grazie per quello che state facendo, grazie per come vi state prendendo cura di lui». Il personale del carcere li invita a farsi forza e a stare vicino al figlio in questo momento: «Sì, dobbiamo farlo». Le porte si chiudono. Tutti sanno che non sarà facile.

Il papà di Filippo: «Quella psicologa che in tv definisce mostro mio figlio...io da padre non mi sento in colpa». CorriereTv l'1 Dicembre 2023

«Vedere una psicologa che definisce mostro mio figlio Filippo... io lo capisco ma l’altro mio figlio che sente parlare di suo fratello così, è dura...». Nicola Turetta, padre di Filippo, reo confesso dell’omicidio di Giulia Cecchettin ha parlato ai microfoni di «Chi l’ha visto». L’uomo cerca ancora spiegazioni al gesto efferato compiuto da Filippo: «Forse voleva farle paura, costringerla a salire in macchina... Poi aveva il coltello. Ha ucciso il suo angelo. Quella a cui lui preparava i biscotti. Quella che lui amava».

Estratto dell’articolo di Emanuela Minucci per lastampa.it venerdì 1 dicembre 2023.

Professor Crepet ha visto che i genitori dell’assassino di Giulia Cecchettin non hanno voluto fargli visita in carcere?

«È una scelta comprensibile. Di fronte a un gesto tanto immane è normale prendersi del tempo. Ora loro si trovano nel pieno di una tempesta emotiva fatta di profondo disconoscimento verso un figlio che credevano modello. E poi non dimentichiamoci della prima frase pronunciata a caldo dal padre...». 

[…] Quale comportamento suggerirebbe a questa famiglia distrutta?

«Di andarsene dall’Italia. Soprattutto per offrire una vita migliore al piccolo di famiglia che ha appena 18 anni, e restando in quel paese sarebbe condannato alla gogna permanente. I ragazzi come anche i bambini sanno essere terribili nel far pesare le tragedie.

Quindi consiglio davvero a questa famiglia di tagliare i ponti con il proprio luogo di origine e andarsene lontano, all’estero, come in Francia per esempio, dove il cognome Turetta non evoca immediatamente quel ragazzo che ha ammazzato l’ex fidanzata, al di là di come andrà il processo». 

Lei pensa che per Filippo si tenterà la via della perizia psichiatrica?

«Di sicuro verrà chiesta, ma al massimo si potrà puntare a una semi-infermità mentale, in ogni caso il cammino processuale sarà molto complesso […]».

Qualcuno ha parlato di disturbo narcisistico della personalità.

«Questa è una possibilità vera. Ma ogni ipotesi è azzardata, nessuno di noi conosce quel 22enne che ha la stessa età di Sinner, ma a differenza sua non pare avere imparato a cadere, fallire e rialzarsi. 

Ok sappiamo che andava a dormire con un orsacchiotto e allora? Dicono che non abbia mai avuto problemi in famiglia, ma che cosa vuole dire? A volte anche una famiglia apparentemente tranquilla che non urla né picchia può essere violenta, in modo tanto sottile quanto feroce». 

In che modo?

«C’è una violenza anche nei silenzi e nell’indifferenza. Si uccidono le persone anche senza eliminarle fisicamente. Non per niente i percorsi psicanalitici durano anni anche per scoprire che dietro le famiglie da mulino bianco non tutto è bianco e anche il mulino alla fine era un miraggio».

Turetta salta l’incontro con i genitori in carcere: «Non ce la facciamo». Storia di Cesare Giuzzi su Il Corriere della Sera il 30 novembre 2023.

Diciotto giorni non bastano. Serve più tempo. Per far sedimentare le emozioni, per trovarsi occhi negli occhi con il figlio «perfetto» diventato assassino. Per guardare in faccia il male, capire adesso in che modo si possa riannodare la vita di un ragazzo di 21 anni che ha confessato di aver «ucciso». Serve tempo, anche per tornare a immaginare un futuro.sono l’altra faccia della luna. «Il dramma di due famiglie», ripete da giorni il cappellano del carcere di Verona fra Paolo Crivelli. Loro, a differenza di Gino ed Elena Cecchettin, hanno un corpo da abbracciare. Ma prima dovranno trovarne la forza. Dopo l’arresto di Filippo sono quasi spariti da Torreglia, si sono eclissati da fotografi e telecamere. Intorno hanno pochi parenti e gli avvocati. E nella testa l’assillo di una domanda che forse resterà senza risposta: perché proprio nostro figlio?

Il mancato colloquio

Ieri non se la sono sentita di incontrarlo nel carcere. Il colloquio, il primo, era previsto in mattinata. È stato il legale Giovanni Caruso ad avvisare la direzione del Montorio. Senza spiegazioni, perché in fondo non ne servono. Potranno incontrare il figlio in qualsiasi momento, da qui alle prossime settimane, come ha stabilito il magistrato. Ma quel momento, per adesso, è ancora lontano. Tanto che il servizio di supporto psicologico che segue Turetta dal suo arrivo in cella ieri ha dovuto spiegare al ragazzo p erché quei genitori, che fin dal primo giorno lui ha chiesto di «poter incontrare», in realtà non si sono presentati. Nel pomeriggio è arrivato il solo pool di legali, l’avvocato Caruso e la collega Monica Cornaviera (il quarto incontro da sabato), per studiare la «strategia difensiva». Nessuna dichiarazione ai giornalisti, solo un breve colloquio con la direttrice del carcere Francesca Gioieni.

La strategia difensiva

Il silenzio dei legali di Turetta è parte della strategia difensiva, ma anche un segnale della volontà di evitare qualsiasi parola che possa contribuire ad alimentare il clamore sul caso: a Torreglia c’è chi scatta selfie davanti alla casa in cui viveva Filippo. In questo senso la scelta di non ricorrere al Riesame e di non presentare istanze al giudice durante l’interrogatorio. Stare lontani dal processo mediatico, osservare le carte che l’accusa metterà sul tavolo (non sono state contestate nuove aggravati dalla Procura) e rinviare ad un secondo momento la richiesta di un eventuale esame sulle condizioni psichiatriche del 21enne. La questione della perizia tiene in sé anche il nodo della premeditazione. La sostanza dell’inchiesta. Intanto la Procura di Pordenone, competente per la zona del lago di Barcis dove è stato trovato il corpo di Giulia, ha aperto un fascicolo per occultamento di cadavere nei confronti di Turetta. Ma gli atti saranno presto trasmessi alla Procura di Venezia.

Filippo Turetta, Crepet è netto sui genitori: "Lo prendi per la giacca". Il Tempo il 02 dicembre 2023

Dovevano incontrarlo due giorni fa, ma i genitori di Filippo Turetta hanno fatto dietrofront e hanno fatto saltare l'impegno preso con il figlio, l'assassino di Giulia Cecchettin ora in carcere. A In altre parole, il programma serale condotto da Massimo Gramellini e in onda su La7, la terribile vicenda di cronaca ha aperto il dibattito. In collegamento con lo studio, a rispondere ai quesiti del padrone di casa è stato Paolo Crepet. "Perché i genitori di Filippo non sono andati a trovarlo?", ha domandato in maniera diretta il giornalista. "Per l'eco dei sensi di colpa, che è terribile", ha affermato senza timore di smentita lo psichiatra. 

"Forse ti vuoi posticipare una domanda terribile: 'Che colpa ne ho?' Diceva Pasolini: 'Quando un figlio sbaglia, per il 50% è colpa del ragazzo e per il 50% dei padri", ha continuato Crepet, riproponendo una citazione di uno dei più grandi poeti e registi del Novecento. Per il saggista, infatti, la colpa di tali disastri è di chi li educa: "Parole bellissime. Parole bibliche. Il nostro esempio non è solo 'Fai così, ma tu come sei? Quanto parli a cena? Quanto interrompi i loro silenzi? Quanto sei capace di essere controcorrente a quella voglia di stare da parte? Un insegnante è un provocatore, non può adattarsi alla calma piatta. Se c'è un ragazzo che esce dal gruppo, lo vai a prendere per la giacca", ha detto. Gramellini allora ha chiesto il motivo per cui, fin dalla fuga del ragazzo, il solo parente a parlare èstato il padre di Filippo. "Bella domanda. Forse perché la madre si sente ancora più in colpa. Probabilmente stiamo azzardando delle ipotesi, non conosciamo la famiglia", ha concluso Crepet.

La banalità del male. I genitori tifosi, i figli isterici e l’indignazione per alcuni cattivi e altri no. Guia Soncini su L'Inkiesta il 29 Novembre 2023

Adesso mi metto comoda e aspetto le vostre spiegazioni sul perché l’assassino del terzo mondo aveva le sue ragioni, ma dell’assassino bianco Filippo Turetta guai a dire che faceva i biscotti

Adesso io mi metto qui comoda, mi verso da bere, e voi – con tutta calma, con parole vostre – mi spiegate la netta differenza non già tra il più cieco amore e la più stupida pazienza, che era facile, ma tra i biscotti di Filippo Turetta e i rapitori gentiluomini di Hamas.

Sono settimane che dite – dico a voi, che scrivete sui social e io non sono abbastanza Travis Bickle da pensare parliate con me ma voi siete abbastanza Napoleone a manicomi chiusi da parlare al mondo – che è uno schifo qualunque contestualizzazione, qualunque movente, qualunque rigo dedicato a Raskolnikov.

Dei cattivi non si parla, i cattivi sono cattivi, non va bene ipotizzare patologie della psiche, non va bene nulla che motivi, non va bene nulla che spieghi, bisogna solo dire che è colpa di quell’entità astratta che è il patriarcato, cugino della fatina dei dentini, mai dare un dettaglio di come uno esca così di testa da accoltellare la ex, mai dire che piange o altro, ce la menate col podcast di Stefano Nazzi e la tv di Franca Leosini sempre ma improvvisamente avete deciso che la cronaca nera è una forma di attenuante, che qualunque descrizione è giustificazione.

Poi però per gli altri cattivi non vale. Per i cattivi che sono cattivi di quegli altri quindi non possono essere anche cattivi nostri, ché anche nella banalità del male abbiamo deciso di fare le tifoserie. La settimana scorsa Isabella Rossellini, un pezzo di storia dello spettacolo di questo derelitto paese, ha instagrammato non so che foto di lei con Paolo Sorrentino, e il primo commento che mi compariva sotto la foto la inchiodava alle sue responsabilità: perché non prendi posizione sul genocidio in Palestina, eh, eh, eh.

Ora io non ho, per ragioni già più volte articolate (perché non sono mica scema), alcuna intenzione di mettermi a dibattere del merito, neppure dell’appropriatezza della definizione di «genocidio», ma voglio dedicarmi a immaginare le vite disperatissime di chi non sia Isabella Rossellini, di chi non abbia vissuto nel secolo del talento e ritenga di doversi adeguare a quello del consenso.

Voglio immaginare le vite di rumorosa disperazione di chi la mattina si sveglia e si deve ricordare che, tra un codice sconto e un albergo a scrocco, deve non solo ricordarsi di instagrammare la propria contrarietà al genocidio del momento, ma anche non permettersi di dare per scontato l’ovvio, altrimenti i follower si irritano.

Perché non hai detto che è sbagliato ammazzare di botte la propria moglie. Perché non hai detto che bisogna pagare le tasse. Perché non hai detto che non si sputa sul marciapiede. Perché non hai detto che non si incendiano i boschi. Perché non hai detto che è meglio essere ricchi e felici che poveri e infelici.

Adesso io mi metto qui comoda, mi verso da bere, e voi – con tutta calma, con parole vostre – mi spiegate in che modo lo scandalo collettivo per il bambino che gli altri bambini hanno crudelmente lasciato solo in classe, facendo quel che da sempre fanno i bambini, cioè essere stronzi, in che modo la convinzione collettiva che i bambini vadano protetti da qualunque delusione, paura, ipocondria, corrente gravitazionale, in che modo la tutela degli esseri umani piccoli da ogni ostacolo possa produrre esseri umani grandi che poi non sbroccano alla prima difficoltà, sia essa essere fuori corso o essere disamati o essere di malumore.

Dice: eh ma per lasciare il bambino solo in classe si sono mossi i genitori. Certo: genitori cui i bambini stronzi hanno riferito che il bambino X rompeva i coglioni. Bambini stronzi la cui stronzaggine si compie con la collaborazione dei genitori, come tutto ciò che fanno i bambini di questo secolo, da guardare i cartoni animati a leggere i fumetti, giacché i genitori miei coetanei non hanno una vita loro e quindi vivono di riflesso quella dei figli.

Nessuno vuole l’invadenza dei genitori e dei figli degli altri, ciascuno è tifoso nella curva del figlio proprio. La chat di classe ideale è una chat di classe in cui si dice solo che genio sia il mio, e quanto abbia sempre ragione io.

Giacché in generale genitori di stronzi, così come evasori fiscali e gelosi patologici e gettatori di sigarette accese nel bosco, son sempre gli altri. Tutti odiano le chat di classe. Tutti odiano il registro elettronico. Tutto ciò che è la moderna invadenza di adulti disperati nelle vite di bambini iperprotetti è come la Dc e come Berlusconi: a fidarsi delle autocertificazioni, non li ha mai voluti nessuno.

Eppure, se il registro elettronico e le chat di classe esistono, sono una risposta a un problema preesistente: il genitore che smania per esserci, che fa i compiti assieme al figlio e, non ricordandosi come ogni adulto dove diavolo si coltivi la barbabietola da zucchero, decide che i compiti di questi poveri bambini d’oggi sono troppi e troppo difficili, e corre nella chat di classe a organizzare una protesta.

L’altro giorno su Twitter una tizia diceva che il figlio seienne è «in attesa di sostegno perché ha problemi comportamentali e di gestione di fallimento e frustrazione». Esistono seienni che sanno gestire il fallimento e la frustrazione? Gli mancano vent’anni di sviluppo della corteccia prefrontale, come diavolo fanno a saper gestire le frustrazioni? (Non che negli adulti sia garantito, diciamo).

Non sarò certo io a dire che una truffa istituzionalizzata come quella delle certificazioni per cui ogni difetto caratteriale è patologia, ogni bambino è speciale, e a ogni seienne con meno capacità di mediare di Henry Kissinger spetta l’insegnante di sostegno, che uno schema Ponzi così non si è mai visto. Wanna Marchi era il reale e il razionale in confronto, ma ormai è tardi per recedere e dirottare i soldi sulle cose che servirebbero davvero.

Non lo dirò, voi però in cambio spiegatemi perché il rapitore che non ti rilascia con l’orecchio tagliato è buono, l’assassino del terzo mondo aveva le sue ragioni, ma dell’assassino bianco guai a dire che faceva i biscotti. Convincetemi che la determinazione a comportarsi male epperò essere considerati vittime sia diversa se la inscena Hamas e se la inscena Filippo Turetta.

Voi, in cambio, spiegatemi come questi figli che allevate come non fossero bambini, cioè creature che crescono a caso dalla notte dei tempi, ma preziosi pezzi unici che vanno tutelati dalla stronzaggine del mondo, dei compagni, delle maestre, dalla stronzaggine gravitazionale, spiegatemi come possano poi non diventare degli isterici egoriferiti che un giorno ti fanno i biscotti e l’altro t’ammazzano; e se davvero siete convinti che la responsabilità sia di chi racconta che facevano i biscotti, mica di voialtri che persino da genitori siete innanzitutto tifosi.

La confessione di Turetta: «Affranto per aver ucciso la mia ex fidanzata, voglio pagare ciò che sarà giusto». Cesare Giuzzi su Il Corriere della Sera il 28 novembre 2023

Filippo Turetta ha confessato oggi davanti ai magistrati veneziani di aver ucciso Giulia Cecchettin (che pure non ha mai citato per nome): occhi lucidi, senza lacrime, dice di «cercare di ricostruire nella mia memoria quello che è scattato in me quella sera. Voglio pagare quel che sarà giusto»

«Sono affranto per la tragedia che ho causato. Non voglio sottrarmi alle mie responsabilità. Voglio pagare quello che sarà giusto per aver ucciso la mia ex fidanzata».

Sono le parole di Filippo Turetta nelle sue dichiarazioni spontanee davanti ai magistrati veneziani durante l’interrogatorio di martedì mattina nel carcere di Verona. Turetta, difeso dall’avvocato Giovanni Caruso, ha scelto di non rispondere all’interrogatorio davanti al gip Benedetta Vitolo, ma si è limitato a fare dichiarazioni.

Nessuna lacrima: «Da subito era mia intenzione consegnarmi»

Con gli occhi lucidi, ma senza lacrime davanti ai magistrati, Filippo Turetta dice di essere provato e di non essere ancora pronto per rielaborare quanto successo: «Sto cercando di ricostruire nella mia memoria le emozioni e quello che è scattato in me quella sera». Il 21enne ha spiegato che «fin da subito era mia intenzione consegnarmi e farmi arrestare».

Nelle dichiarazioni non cita mai Giulia

Nelle sue dichiarazioni non cita mai Giulia né si rivolge direttamente alla famiglia Cecchettin. Il legale, come aveva già dichiarato lunedì, non ha presentato richieste di revisione della misura cautelare in modo meno afflittivo, non ha affrontato il tema della eventuale perizia psichiatrica e ha chiarito di non avere intenzione di ricorrere al Tribunale del Riesame contro l’ordinanza di custodia cautelare in carcere. L’avvocato Caruso, all’uscita dal carcere, si è limitato a spiegare che «Filippo Turetta si è avvalso della facoltà di non rispondere ma ha ritenuto doveroso rendere delle dichiarazioni spontanee con le quali ha sostanzialmente confermato le ammissioni fatte alla polizia tedesca».

Al momento non sono state contestate aggravanti

Secondo quanto trapela la Procura, diretta da Bruno Cherchi, non ha contestato per il momento altre aggravanti al 21enne, in attesa del prosieguo delle indagini. Si attende l’esito degli esami scientifici e dell’autopsia prevista per venerdì all’Istituto di medicina legale di Padova. Il giorno dopo, sabato mattina, potrebbero tenersi i funerali nella basilica di Santa Giustina.

I timori della famiglia di Giulia Cecchettin: «Filippo Turetta vuole fingersi pazzo? Vedrà i nostri periti». Roberta Polese

su Il Corriere della Sera il 29 novembre 2023

Venezia, gli avvocati: «Contestargli anche lo stalking, ha dimostrato di essere un molestatore assillante»

«Se Filippo Turetta vuole farsi passare per pazzo prima dovrà incontrare anche i nostri periti». Stefano Tigani, avvocato di Gino, padre di Giulia Cecchettin, non vuole commentare le parole che il ragazzo ha detto martedì ai giudici, ma dal tono si capisce che nessuna delle parti in causa rimarrà a guardare nel caso la strategia dell’avvocato Giovanni Caruso dovesse essere quella del vizio di mente.

Nessuno crede al «raptus»

Anche se la famiglia non vuole commentare sembra proprio che nessuno di loro creda all’ipotesi del «raptus», che è quello che lascia intendere Filippo Turetta. I mille chilometri di fuga del giovane in Germania per sottrarsi alla cattura, il corpo della ragazza trovato in un dirupo tra Piancavallo e Barcis sabato 18 novembre, nascosto in una grotta con due sacchi neri sopra come per volerlo nascondere, sono fatti che per la famiglia mal si conciliano con l’ipotesi della follia, e questo gli avvocati della parte civile lo sanno bene.

La nuova aggravante

Nicodemo Gentile, l’avvocato di Elena, sorella di Giulia, ha inoltre ipotizzato una nuova aggravante per il giovane padovano arrestato. «L’omicidio di Giulia Cecchetin è aggravato dallo stalking — sostiene l’avvocato — Filippo Turetta ha dimostrato di essere un molestatore assillante: il suo comportamento, come sta emergendo da più elementi da noi già raccolti, è connotato da plurime e reiterate condotte che descrivono “fame di possesso” verso Giulia — aggiunge — Filippo aveva messo in atto un assedio psicologico che aveva provocato nella ragazza uno stato di disorientamento e di importante ansia. Un uso padronale del rapporto — spiega ancora — che ha spinto Turetta prima a perpetrare reiterate azioni di molestie e controllo, anche tramite chiamate e messaggi incessanti, e poi, in ultimo l’omicidio, al fine di gratificare la sua volontà persecutoria» conclude il legale. L’inchiesta sul femminicidio che sta aprendo proteste e dibattiti senza precedenti è ancora nelle sue prime fasi, anche se l’avvocato Caruso non ha chiesto una perizia, tutto può ancora succedere.

Il funerale

Intanto Padova si prepara ad accogliere l’ultimo saluto a Giulia Cecchettin. Per ora si sa solo dove si terrà il funerale, ovvero la Basilica di Santa Giustina in Prato della Valle, ma ci sono ancora molte incertezze sulla data. Nelle ultime ore era circolata l’ipotesi di sabato 2 dicembre, il giorno dopo l’autopsia sul corpo della ragazza, che si terrà all’istituto di Medicina legale dell’Università cittadina. I tempi sono però «piuttosto stretti» come dice l’avvocato Tigani, per poter organizzare tutto al meglio. Bisognerebbe che la procura desse il nullaosta alla sepoltura subito dopo la fine dell’esame autoptico, e che contemporaneamente si mettesse in moto in poche ore la macchina dell’organizzazione per accogliere 10 mila persone, tante sono le presenze ipotizzate per l’ultimo saluto alla laureanda veneziana. In più c’è da prevedere un dispositivo di sicurezza per le autorità nazionali che potrebbero voler partecipare. Troppe cose da organizzare in fretta e furia in poche ore. È plausibile invece che sia la procura che le autorità predisposte alla sicurezza consiglino alla famiglia Cecchettin di attendere la settimana prossima, in modo da dar tempo anche alla diocesi di organizzare la disposizione della basilica. Mercoledì mattina in prefettura a Padova è previsto un comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica proprio in vista del funerale, saranno presenti polizia, carabinieri, esponenti del Comune e della municipale.

Cercasi facili consensi. Omicidio Cecchettin, due procuratori e due mondi inconciliabili. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 25 Novembre 2023

L’orrendo omicidio della povera Giulia Cecchettin ci sgomenta, e suscita, come è ovvio che sia, dolore, rabbia, indignazione. È il segno dei tempi che anche una vicenda dolorosa come questa venga da subito inghiottita da polemiche spesso scomposte, e masticata cinicamente da speculazioni politiche francamente desolanti.

Ma ciò che a mio avviso merita una riflessione seria e pacata sono due dichiarazioni pubbliche rese da due magistrati: il Procuratore capo di Venezia, dott. Bruno Cherchi, ed il Procuratore capo di un’altra città, che evito di nominare perché non mi interessa personalizzare le polemiche, ma semplicemente riflettere su due mondi, due orizzonti culturali, due modi inconciliabili di intendere il ruolo di magistrato.

Il Procuratore di Venezia pronuncia parole che aprono il cuore alla speranza che sia possibile, anche di fronte alla più che comprensibile indignazione popolare, tenere ferma la barra della civiltà giuridica che è scritta nei nostri codici e nella nostra Costituzione: «Non c’è un clima positivo, in effetti. Capisco l’attenzione suscitata da un caso così grave…Però…direi che a questo punto le indagini debbano proseguire con la calma e la serenità richieste da ogni indagine. Vi chiedo di lasciare che le indagini proseguano, che ci sia un momento di decantazione. Dobbiamo garantire, come prevede il codice di procedura penale, i diritti all’indagato, la serenità alle parti. E soprattutto l’indagato non si deve sentire condannato prima che i fatti vengano accertati nei modi e nei tempi previsti dalla Costituzione. È un fatto di civiltà a cui tutti dovremmo riferirci».

Il suo collega, a capo di una Procura non meno importante, ha invece ritenuto di scrivere al Fatto Quotidiano, con queste parole: «La mano del presunto omicida gronda del sangue di Giulia (…) eppure dovremmo (Ndr: “dovremmo”, non “dovremo”) mitigare i giudizi in ossequio alla presunzione di innocenza, elevata da regola del processo penale a divieto legale di colpevolizzare sui media (…) Assisteremo ai tipici tentativi di confinare…un crimine orribile nel recinto della pazzia (…). Alla fine, arriverà la retorica della giustizia riparativa, la nuova frontiera della millenaria tradizione del perdono applicata al processo…incontro innaturale tra vittime e carnefici».

Due mondi inconciliabili rappresentati dalla medesima funzione magistratuale. Gli applausi a scena aperta, statene certi, saranno tutti per il secondo. Il primo sarà freddamente ignorato, e chi scrive sarà svillaneggiato. Ma a chi scrive piace sapere che ci siano, nel nostro Paese, magistrati ancora convinti che il faro di chi amministra la giustizia sia, anche quando rabbia e indignazione travolgono ogni lume della ragione, la Costituzione dei nostri padri, non il tumulto feroce dei social, e l’inebriante compiacimento del suo facile consenso.

Gian Domenico Caiazza, Presidente Unione CamerePenali Italiane

L’assassino con l’orsetto e la perizia psichiatrica. Rita Cavallaro su L'Identità il 22 Novembre 2023

In Italia si sta consumando qualcosa di inedito, che potrebbe rivelarsi addirittura controproducente se la dialettica politica del patriarcato oscurasse il movente del delitto di Giulia Cecchettin. Perché il responsabile di quel femminicidio un nome ce l’ha, Filippo Turetta, e le motivazioni che l’hanno portato a massacrare a coltellate la sua ex fidanzata sono uno degli elementi fondativi dell’impianto accusatorio. Di quel castello a cui gli inquirenti lavorano giorno dopo giorno, avvalendosi di analisi scientifiche e testimonianze tese a provare la ricostruzione dell’accusa.

All’anatomia dell’assassino, dall’azione omicidiaria al movente, si arriva con approfondimenti investigativi quasi chirurgici, non certo con le parole, con lo spauracchio di una società patriarcale che avrebbe armato la mano del killer. Alla dialettica del patriarcato non ci stanno in primis Nicola ed Elisabetta Turetta, i genitori di Filippo. “Non siamo talebani. Non ho mai insegnato a mio figlio a maltrattare le donne. Ho il massimo rispetto di mia moglie e in casa abbiamo sempre condannato apertamente ogni tipo di violenza di genere.

Vederci descrivere ora come una famiglia patriarcale ci addolora molto”, ha detto il papà in un’intervista al Corriere, in cui descrive quel figlio come un ragazzo tranquillo, al quale “è scoppiata qualche vena in testa. Non c’è davvero una spiegazione. Io sono convinto che qualcosa nel suo cervello non abbia più funzionato”. E ancora: “Mi sembra impossibile. Ma poi dicono dello scotch, del coltello, non so cosa pensare… Forse voleva sequestrarla per non farle dare la tesi e poi la situazione è degenerata. Non so darmi una risposta”.

Parole che allontanano così l’ipotesi della premeditazione, alla quale gli inquirenti puntano per una condanna all’ergastolo, e percorrono una delle due strade della linea difensiva, ovvero l’omicidio preterintenzionale, con una prospettiva massima di 24 anni di galera che, tra sconti e diminuzioni di legge, potrebbe riaprire a Filippo le porte del carcere dopo un decennio. O peggio. Perché l’avvocato Emanuele Compagno ha confermato che chiederà la perizia psichiatrica, per valutare la capacità di intendere e di volere al momento dei fatti. Se giudicato incapace, Filippo potrebbe farla franca.

E ora i genitori tentano di salvare il figlio, fornendo nuovi elementi per gettare ombre sul fatto che quel ragazzo qualche patologia mentale la avesse. “In questi giorni mi hanno detto che dovevo preoccuparmi se quando andava a letto abbracciava l’orsacchiotto pensando a Giulia. Io davvero non ho dato peso a questa cosa. Avrei dovuto?”, si domanda Nicola.

Che queste risposte le aspetta dagli esperti che verranno chiamati ad analizzare i meandri della mente di quel “ragazzo d’oro” trasformatosi in un assassino senza che nessuno se ne accorgesse. Narcisista? Sociopatico? Forse semplicemente espressione del male che esiste da quando esiste l’uomo inteso non come maschio, ma come genere umano.

Cosa sia passato nel cervello di Filippo quando ha ammazzato Giulia sarà uno dei quesiti al quale un giudice chiederà a uno psichiatra di rispondere, per accertare non solo se fosse capace di intendere e di volere al momento dei fatti, ma addirittura se sia in grado di presenziare al suo processo. E allora è evidente quanto la complessità processuale sia lontana dalla riduttiva, seppur appassionante, dialettica politica del patriarcato.

Perché fra perizie psichiatriche e incidenti probatori questo sarà il processo che segnerà la svolta sui femminicidi, ma solo se lo Stato saprà restare impermeabile al tentativo di trasformare quell’aula di tribunale in un ring tra Meloni e Schlein sulla violenza sulle donne, contro la quale ieri è stata approvato il nuovo Codice rosso rafforzato. Che se Turetta fra dieci anni sarà libero non sarà una grande vittoria politica.

E allora tornino le responsabilità di un assassino, che al momento dell’arresto ha detto ai poliziotti tedeschi: “Ho ammazzato la mia fidanzata, ho vagato questi giorni perché cercavo di farla finita, ho pensato più volte di andarmi a schiantare contro un ostacolo e più volte mi sono buttato un coltello alla gola, ma non ho avuto il coraggio di farla finita”. In quel momento però Filippo non aveva l’avvocato e dunque le sue ammissioni sono inammissibili. Ora ce l’ha e si è chiuso nel silenzio, mostrandosi a tratti assente, quasi catatonico. 

Quale pena e condanna rischia Filippo Turetta. Linda Di Benedetto su Panorama il 21 Novembre 2023

Filippo Turetta sta per essere estradato in Italia per rispondere dei reati di omicidio volontario aggravato e sequestro di persona. L'avvocato penalista Daniele Bocciolini risponde ad alcune domande in merito al percorso giudiziario a cui Turetta andrà incontro Ora che Filippo Turetta è stato catturato per il brutale omicidio di Giulia Cecchettin e sta per essere estradato dalla Germania, inizia il suo percorso giudiziario. Turetta dovrà rispondere per il momento dei reati di omicidio volontario aggravato e sequestro di persona. «Allo stato attuale delle accuse, Filippo Turetta non rischia l'ergastolo e se non cambia il capo di imputazione può ottenere anche il rito abbreviato che prevede ulteriori sconti di pena»-commenta l'avvocato penalista Daniele Bocciolini Cosa può dirci delle accuse?

«A Turetta sono contestati i reati di cui agli artt. 575, 577 comma 2 c.p. ovvero omicidio volontario aggravato dall’aver commesso il fatto nei confronti di persona con la quale era legato da relazione affettiva e il reato di cui all’art. 605 c.p. ovvero il sequestro di persona per aver caricato sulla propria autovettura e contro la sua volontà la vittima, privandola delle sua libertà personale. Così contestato, trattandosi di una imputazione provvisoria, la pena massima prevista per il reato più grave ovvero l’omicidio è quella di 30 anni di reclusione essendo aggravato dalla “relazione affettiva”. Se dovesse restare questa la contestazione, non rischierebbe , quindi, l’ergastolo, ma la pena della reclusione fino a 30 anni». Come potrebbero cambiare le accuse nei prossimi giorni? «Si tratta ovviamente di un capo di accusa assolutamente provvisorio che potrebbe essere integrato e modificato nei prossimi giorni. In particolare, potrebbero essere contestate al Turetta le circostanze aggravanti dei motivi abietti e futili nonché della crudeltà e della premeditazione. Anche la contestazione di una solo di queste circostanze potrebbe far scattare l’ergastolo in caso di condanna». Cosa può dirci della premeditazione come aggravante? «In queste ore si parla molto della premeditazione perché sembrerebbero emersi alcuni elementi che potrebbero essere sintomatici. La premeditazione consiste, infatti, nel notevole lasso di tempo che passa tra l’insorgere del proposito criminoso e l’attuazione: deve passare del tempo e per tutt questo tempo il soggetto agente deve aver mantenuto questo proposito. Per questo si punisce più gravemente.A favore della premeditazione il fatto di aver con lui un coltello (forse più di un’arma bianca), del nastro adesivo, il denaro contante, i sacchi di plastica per occultare il corpo, nonché le ricerche effettuate su Internet in ordine a kit di sopravvivenza».

Ricorda qualche caso dove nonostante la crudeltà con cui è stata uccisa la vittima, il colpevole non è stato condannato all'ergastolo? «Si, uno dei recenti casi e che ha fatto discutere è stato il processo per l’omicidio di Carol Maltesi. Nonostante l’estrema gravità dei fatti e la violenza inaudita posta in essere ai suoi danni, per un bilanciamento tra attenuanti e aggravanti, nemmeno lí c’è stata una condanna alla pena massima ovvero all’ergastolo. Una mia proposta sarebbe quella di escludere l’applicazione delle circostanze attenuanti generiche in casi gravi come questo. Anche per evitare questi paradossi» Nel nostro ordinamento i reati di genere non sono previsti. Qual è la sua opinione a riguardo? «Nel nostro ordinamento non è presente un reato specifico, ovvero il reato di femminicidio nè una circostanza aggravante speciale del reato di omicidio quando è commesso nei confronti di una donna in quanto donna. Su questo ci sono state numerose proposte, ma non sono mai state approvate. Si potrebbe pensare di introdurre una circostanza aggravante tipica per questi reati di genere dal momento che i femminicidi sono all’ordine del giorno oramai anche tra i giovanissimi. Per questo a mio parere occorre agire di più in termini di educazione e prevenzione dell’autore del reato: non basta inasprire le pene. Anche la previsione del massimo della pena non funge più da deterrente. Le donne vanno protette, tutelate, prima e, soprattutto, dopo la denuncia. Troppo spesso diciamo: “denunciate, denunciate”, ma non in tutti i casi le donne hanno la concreta possibilità di farlo. Per questo è molto importante superare l’indifferenza. Nel nostro sistema si attribuisce sempre più importanza alla querela, che è esclusivamente rimessa alla persona offesa. Ma la violenza non è un fatto privato. In casi come questo, non bisognerebbe attendere che sia presentata una denuncia-querela. Da avvocato penalista, garantista per antonomasia, dico che è ora di inziare a garantire anche la vittima mettendola al centro. Andrebbe introdotta la procedibilità d’ufficio in modo che sia sufficiente qualsiasi iniziativa, da parte di terzi, a far scattare il procedimento penale». Che può dirci del codice Rosso? «Con il cd. Codice Rosso" (la legge 19 luglio 2019, n. 69) si è cercato di cambiare qualcosa soprattutto con riferimento ai tempi. Molto spesso in questi casi bisogna agire immediatamente. Il problema è quello di comprendere subito se la vittima corre davvero un pericolo concreto per la propria incolumità. Per questo, è stato previsto che il P.M., ove proceda per i delitti di violenza domestica o di genere, entro tre giorni dall’iscrizione della notizia di reato, deve assumere informazioni dalla persona offesa o da chi ha denunciato i fatti di reato. Per questo motivo, è stata anche modificata la misura cautelare del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, nella finalità di consentire al giudice di garantirne il rispetto anche per il tramite di procedure di controllo attraverso mezzi elettronici o ulteriori strumenti tecnici, come l’ormai più che collaudato braccialetto elettronico». È efficace? «Purtroppo, si è visto che troppo spesso il “Codice rosso” non veniva applicato. Per questo motivo, su iniziativa della Collega Giulia Bongiorno si è intervenuti per rafforzare il Codice rosso, anche perché 15 su 100 donne uccise avevano già denunciato. La norma, contenuta nel disegno di legge, prevede un’ulteriore ipotesi di avocazione delle indagini preliminari da parte del procuratore generale presso la Corte d’appello, che ricorre quando il pm, nei casi di delitti di violenza domestica o di genere, non senta la persona offesa entro tre giorni dall’iscrizione della notizia di reato. Per evitare una sottovalutazione del pericolo e del rischio, dopo la denuncia, potrebbe essere introdotto l’obbligo di disporre una consulenza tecnica specifica proprio al fine di valutare la personalità di questi soggetti , così evitando errori di valutazione. Andrebbe poi intensificato l’uso del braccialetto elettronico. Considerato lo stato di dipendenza (anche economica) e di soggezione in cui vivono certe donne, non può essere rimesso tutto alla querela che in molti casi viene anche ritirata dietro paure e pressioni. Per alcuni reati si potrebbe pensare davvero di introdurre la procedibilità di ufficio». In Italia sempre meno ergastoli per chi uccide le donne Come anticipato dall'avvocato Bocciolini è difficile che l'ergastolo venga applicato. A dimostrazione di questo le sentenze di alcuni efferati omicidi come il recente caso di Carol Maltesi. I fatti risalgono all’11 gennaio 2022 quando il corpo di Carol fu fatto a pezzi e messo in alcuni sacchi dell’immondizia per poi essere ritrovato mesi dopo nel Bresciano. L’assassino Davide Fontana, 44 anni è stato condannato dal Tribunale di Busto Arsizio a 30 anni di carcere e non all’ergastolo (come chiedeva il pm). Secondo i giudici non vi fu premeditazione e nemmeno le aggravanti dei motivi futili o abietti e della crudeltà. E sempre per i giudici, il movente non è la gelosia: la ragazza era "disinibita". Un altro caso emblematico è lo sconto di pena per Antonino Borgia che il 22 novembre 2019, a Giardinello (Palermo), uccise con 10 coltellate la sua amante Ana Maria Lacramioara Di Piazza. La vittima aveva 30 anni e un bimbo in grembo. La corte d’Assise di Palermo lo aveva condannato all’ergastolo nella primavera del 2021. Mentre la corte d’appello ha ridotto la pena a 19 anni e quattro mesi. Un'altra sentenza recente invece riguarda il processo a Sergio Giana che ha inferto a Loredana Scalone 28 coltellate uccidendola, per poi occultare il suo cadavere tra gli scogli e tornare il giorno dopo per ripulire la scena del crimine. Su questo caso il 26 ottobre scorso la Corte d’Assise di Catanzaro ha condannato Sergio Giana, reo confesso, a 25 anni di reclusione, non accogliendo la richiesta della Procura che aveva chiesto l’ergastolo.

Altro che ergastolo: Filippo può farla franca. Rita Cavallaro su L'Identità il 21 Novembre 2023

L’Italia ha già condannato Filippo Turetta all’ergastolo, ma la giustizia per Giulia Cecchettin viaggia su un doppio binario. L’accusa e la difesa: i due pilastri del processo che con le indagini e le strategie saranno determinanti sia per la condanna che per l’entità della pena da scontare in carcere. Perché nonostante la drammaticità dell’omicidio, la crudeltà, del delitto e la pericolosità sociale di Filippo Turetta, nessuno oggi può sostenere con certezza che pagherà. Anzi, sul delitto aleggia una costante inquietante, remota ma terribilmente verosimile, ovvero che l’assassino di Giulia possa anche farla franca.

Nonostante l’impianto accusatorio, nonostante il dna, nonostante l’indignazione di un Paese che ha vissuto come un Grande Fratello tutte le fasi della scomparsa di Giulia e Filippo culminate nel dolore per il ritrovamento del cadavere della giovane. Di fronte a tutto questo il “se condannato” non dovrebbe essere nemmeno contemplato. Eppure il processo è uno show, un gioco tra le parti in cui vince chi fornisce la storia più convincente, ovviamente sulla base di elementi probatori certificati. Filippo ha ucciso Giulia, su questo non c’è alcun dubbio, ma l’evidenza deve fare i conti con la verità giudiziaria. E in un processo ce ne sono due.

La Procura sta lavorando per ricostruire il castello di prove necessarie a dimostrare l’omicidio volontario aggravato. Il nodo cruciale sarà la premeditazione, perché solo in presenza di quell’aggravante è prevista l’applicazione della pena dell’ergastolo nell’omicidio. Un punto fondamentale che non permetterebbe alla difesa di chiedere il processo con rito abbreviato, grazie alle nuove norme del 2019 che vietano lo sconto di un terzo della pena per i reati puniti con l’ergastolo. Filippo, dunque, non avrebbe alcuno sconto e potrebbe essere condannato al fine pena mai qualora regga la premeditazione. Al momento, però, l’aggravante non è contestata.

Nell’ordinanza il gip di Venezia Benedetta Vitolo ricostruisce i 22 minuti di azione omicidaria e la crudeltà inflitta sul corpo di Giulia: “Filippo, con questa aggressione a più riprese e di inaudita ferocia nei confronti della ex fidanzata prossima alla laurea ha dimostrato una totale incapacità di autocontrollo che è idonea a fondare un giudizio di estrema pericolosità e desta allarme in una società in cui i femminicidi sono all’ordine del giorno”. Per il giudice “l’indagato appare inoltre totalmente imprevedibile perché dopo aver condotto una vita all’insegna di una apparente normalità ha improvvisamente messo in essere questo gesto folle e sconsiderato”. Sussiste infine “il periculum libertatis, ovvero il pericolo che l’indagato reiteri condotte violente nei confronti di altre donne”.

Nulla sul coltello con la lama spezzata trovato a Fossò e neppure sullo scotch e i sacchi neri che l’ex fidanzato aveva con sé. Per l’Italia che ha già condannato Turetta, sarebbero le prove evidenti che l’ex fidanzato ha pianificato il delitto, insieme alle ricerche del kit di sopravvivenza sul web e ai soldi per la fuga. Ma il suo legale, nelle ultime ore, ha gettato le basi della linea difensiva, perché per un appassionato come Filippo il coltello poteva essere in macchina.

E se quel coltello era già in macchina, insieme agli altri oggetti che non sono incompatibili con una detenzione in auto, allora la versione può essere un’altra. Allora Filippo, che per adesso si è chiuso nel silenzio nella cella del carcere di Halle dove è detenuto in attesa di estradizione, potrà tornare e raccontare che lui e Giulia hanno litigato in macchina e che, al culmine del litigio, potrebbe aver preso il coltello dal portaoggetti solo per minacciarla ma poi la ragazza si è difesa e la situazione è sfuggita di mano. Paradossalmente potrebbe perfino sostenere che lei ha tentato di prendergli il coltello e che lui l’ha colpita in preda a un raptus.

Ed eccolo lì, il solito raptus, che aprirebbe la strada all’omicidio preterintenzionale e spiegherebbe pure l’atteggiamento di Filippo dal giorno dell’arresto. Non solo non parla, ma dalla Germania fanno sapere che è strano, a tratti assente. E si materializza così lo spauracchio dell’incapacità di intendere e di volere, che il suo avvocato Emanuele Compagno ha già preso in considerazione nella strategia difensiva. “Adotterò tutti quelli che sono gli strumenti, se sarà necessaria la perizia la adotteremo insieme”, ha detto. Perché se la difesa riuscirà a dimostrare che Filippo non era in grado di intendere e di volere al momento dei fatti, non si farà neppure un giorno di galera. Per diletto dei suoi fan, che stanno creando gruppi innocentisti, come accadde per Alberto Stasi. Il quale, nella dialettica post femminista, non è più il responsabile dell’omicidio di Garlasco, ma del femminicidio Poggi.

Femminicidi, l’altro dramma: “Macché ergastolo, mio padre sta per uscire”. Martina Melli su L'Identità il 21 Novembre 2023

Pasquale Guadagno, 27 anni, è l’autore di “Ovunque tu sia”, libro autobiografico sul dramma che ha segnato la sua vita: il femminicidio della madre per mano del padre, il quale, dopo 14 anni di carcere, a gennaio 2024 tornerà in libertà.

In questi giorni il femminicidio è al centro del dibattito

C’è voluta la morte di una ragazza giovanissima per parlare di una cosa che succede da sempre nel nostro Paese ed è in continuo aumento. A oggi sono già morte 105 donne, più che in tutto il 2022. Indire un minuto di silenzio qua e là però, non serve a nulla, solo a pulirsi la coscienza. Bisognerebbe fare ore, giornate e mesi di lavoro per cercare una soluzione concreta a questa problematica. Partendo dalle istituzioni ovviamente, che peccano e mancano dall’inizio alla fine. Oggi una donna che denuncia viene comunque uccisa e dunque le altre perdono ogni tipo di speranza.

Una tematica che ti appartiene e di cui, come dici tu, si parla pochissimo, è la sorte degli orfani delle vittime

Se ne parla oggi molto di più rispetto ad anni fa. La prima legge per gli orfani è stata fatta solo nel 2018 e quando successe a me non c’era tutela: io non ho ricevuto nessun tipo di aiuto, psicologico o economico. Mia sorella, che all’epoca aveva 18 anni, ha dovuto mollare gli studi per mantenere me per darmi un’adolescenza il più normale possibile.

In quali modalità avete reagito tu e tua sorella?

A 14 anni sono stato affidato alla famiglia di mio padre mentre mia sorella essendo maggiorenne era libera. Per un po ‘di tempo ci siamo persi, entrambi cercavamo di scappare dal dolore, ognuno a modo suo. Poi a 17 anni la situazione familiare mi è diventata insostenibile e lei ha iniziato a prendersi carico di me fino a quando, a 19 anni, sono stato costretto a lavorare mentre avrei voluto studiare, ma appunto non c’è stata un’istituzione che me l’ha permesso. Esistono leggi che tutelano i figli delle vittime di femminicidio ma non sono attuabili. Io, ad esempio due anni fa, quando sono caduto in depressione, per lo Stato ero troppo adulto per attingere ai fondi stanziati per il supporto psicologico. Sono diventato un orfano di femminicidio a 14 anni ma lo sono anche oggi che ne ho 27.

Tuo padre sta per uscire dal carcere…

La cosa ci spaventa molto, sia a me che a mia sorella. In questi anni abbiamo capito come funzionano le istituzioni: parlo per la mia esperienza e noi non siamo stati mai tutelati mentre lui ha sempre avuto occhi di riguardo sia in carcere che fuori. Nel 2018 abbiamo denunciato come, durante un permesso premio, abbia cercato di mettermi le mani addosso, ma nessuno ha mai detto nulla. Ho anche denunciato il fatto che le guardie durante i suoi permessi venivano a casa e bevevano con lui. Quando ha cercato di aggredirmi mi è stato detto di tornare sotto casa e chiamare una pattuglia. L’ho fatto e ho raccontato loro, davanti a mio padre, cosa fosse successo. Lui mi ha minacciato di morte davanti ai carabinieri e ha urlato: “Ti faccio fare la fine di quella puttana di tua madre!” Nonostante i testimoni la denuncia è decaduta perché secondo la questura questo era un evento singolo. Ora che esce dopo 14 anni e noi ci sentiamo come ci siamo sempre sentiti, soli, abbandonati e non tutelati. Io e mia sorella abbiamo un’attività a Udine e temiamo di trovarcelo fuori, perché, finché non ci fa qualcosa non possiamo fare nulla. Lo stesso discorso vale per le donne che denunciano e poi vengono uccise: devono solo sperare di sopravvivere per venire ascoltate.

Pasquale perché c’è un così alto tasso di femminicidi in Italia?

Secondo me è un problema generazionale. Mio padre ha sempre vissuto nella violenza, nell’odio e quindi da un lato non possiamo neanche fargliene una colpa: lui semplicemente ripropone lo schema che ha vissuto in primis nella sua famiglia d’origine. Non si è mai posto il problema se fosse sbagliato o meno, ed è quello che fanno tutti questi uomini. Io oggi riesco a fare questo ragionamento perché quando sono caduto in depressione mi sono reso conto che potere distruttivo poteva avere la mia mente e così ho capito la mente di mio padre. Lui non poteva fare altrimenti perché non ha mai avuto qualcuno che lo fermasse, che gli dicesse “c’è qualcosa che non va”.

Gli Orfani.

Gli orfani delle vittime di femminicidio sono il lato invisibile della tragedia. In più di un caso su tre i minori erano presenti nel momento della violenza, subendo un impatto psicologico devastante. L'associazione "Con i Bambini" avvia un’inchiesta su un fenomeno poco conosciuto e senza sostegno. Di cui mancano anche i dati ufficiali. Chiara Sgreccia su L'Espresso il 20 novembre 2023

Non ci sono dati ufficiali su quanti siano gli orfani di femminicidio in Italia. E, di conseguenza,  neanche un organo istituzionale e una procedura condivisa pensati per garantire la necessaria tutela a chi è orfano due volte. Perché la perdita della madre per mano del partner significa anche che l’altro genitore non ha più contatti con il minore che, quando acquisisce consapevolezza dell’accaduto, quasi sempre non vuole più vederlo. 

«A crescere gli orfani di femminicidio di solito sono i parenti: nonni, zii, che però, nei fatti, non godono ancora di costanti azioni di prossimità che le politiche pubbliche si ripromettono da tempo di attuare. Così vengono lasciati soli ad affrontare un dramma così grande che ha bisogno di un’attenzione specializzata, di supporto burocratico, economico, organizzativo, legale. E poi c’è la vita che deve ricominciare: gli studi, il lavoro e la necessità di curare una ferita profonda», spiega Marco Rossi Doria, presidente dell’impresa sociale Con i Bambini, che grazie al Fondo di contrasto della povertà educativa segue concretamente i ragazzi e i bambini rimasti orfani a causa dell’uccisione della madre. Sperimentando, così, un modello di intervento che potrà servire ai decisori pubblici per elaborare azioni concrete e condivise. E che rappresenta anche la prima vera inchiesta conoscitiva sul fenomeno. 

Gli «orfani speciali» soltanto nel sud Italia sarebbero 305 secondo le stime emerse durante una tavola rotonda che si è tenuta a Napoli la scorsa settimana nell’ambito del progetto “Respiro” - Rete di Sostegno per Percorsi di Inclusione e Resilienza con gli orfani speciali, selezionato e finanziato da Con i Bambini.  

Sono stati individuati «facendo un lavoro alla vecchia maniera: abbiamo passato mesi sui giornali a leggere tutti i fatti di cronaca degli ultimi 15 anni. Di questi 305 orfani individuati, per 100 abbiamo avviato la presa in carico, dopo aver fatto un’analisi dei bisogni; per altri 123 abbiamo per il momento solo avviato i contatti; gli ultimi 82 invece sono stati soltanto individuati», ha spiegato al Redattore Sociale Fedele Salvatore, presidente di Irene 95 la cooperativa capofila del progetto. 

Per il 74 per cento dei beneficiari l’età di ingresso nel progetto è tra i 7-17 anni, per il 17 per cento tra 18-21 anni. Per il rimanente 8 per cento l’età è inferiore a 6 anni. Il 95 per cento ha la cittadinanza italiana. Nel 36 per cento dei casi i bambini erano presenti nel momento della violenza. «Con conseguenze che condizionano ancor più pesantemente gran parte della vita del minore. L’impatto psicologico devastante origina una vera e propria sindrome denominata child traumatic grief. Il bambino, sopraffatto dalla sofferenza e dalla reazione al trauma, diviene incapace di elaborare il lutto, trovandosi intrappolato in uno stato di dolore cronico», spiegano gli esperti durante la conferenza stampa per fare un punto su chi si occupa dei bambini dopo la morte della madre, in occasione della Giornata internazionale dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza. 

Per inquadrare il fenomeno vanno presi in considerazione anche i fattori che caratterizzavano la vita dei ragazzi prima del femminicidio. Gran parte dei nuclei familiari, ovvero il 65 per cento, non era in carico ai servizi sociali prima dell'evento, nonostante la presenza di elementi di vulnerabilità sia frequente. Tra i più comuni: familiari con dipendenze da sostanze o alcol e con provvedimenti giudiziari prevalentemente di natura penale. 

«Il lavoro di Con i Bambini mira a sviluppare un modello flessibile e personalizzato di intervento multidisciplinare sistemico a sostegno degli orfani speciali», spiega Rossi Doria. Che si struttura attraverso la costruzione di una rete affettiva e relazionale che sostenga gli orfani nella loro crescita. Il favorire la creazione di un supporto solido per gli affidatari insieme ad associazioni, terzo settore e attori della società civile. E grazie all’attivazione di sistemi per l’intercettazione precoce del rischio di violenza domestica: «Il Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile ha assunto la responsabilità di mettersi accanto e accompagnare passo passo questi ragazzi nel migliorare la propria vita e avere una opportunità di elaborazione, per quanto possibile, di un evento inconsolabile e di crescita».

Orfani di femminicidio, vittime due volte. «Uno su 3 ha visto uccidere la madre. L’età? Tra i 7 e i 17 anni». Redazione Buone Notizie su Il Corriere della Sera il 20 novembre 2023

Vengono chiamati «orfani speciali». Perché la loro «condizione» purtroppo è speciale. E terribile. Sono i figli delle vittime di femminicidio, un tema che è tornato di attualità per le recenti tragiche cronache e che in questi casi ha anche un altro risvolto. «Sono bambini che diventano orfani due volte», spiega Marco Rossi Doria, presidente di Con i Bambini - il Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile - perché la morte di uno dei genitori è avvenuta per mano di un coniuge: «La perdita della madre per mano del padre significa anche che l’altro genitore non ha più contatti con i bambini e questi, divenuti maggiorenni e consapevoli dell’accaduto, quasi sempre non vogliono più vederli». In questo contesto Con i Bambini ha avviato il progetto «A braccia aperte», iniziativa a supporto dei piccoli e delle famiglie affidatarie. «Abbiamo assunto la responsabilità di stargli accanto e non lasciarli soli», aggiunge Rossi Doria.

Anche se non ci sono stime ufficiali, Con i Bambini ha cercato di fare un primo bilancio sugli orfani di femminicidio: sono 157 i bambini presi in carico dai quattro progetti finanziati dall’impresa sociale. Un dato è variabile «perché altri 260 in tutta Italia sono stati già agganciati dai partenariati gestori, e a breve inizieranno anch’essi un percorso di sostegno e accompagnamento con le loro famiglie». Il progetto Orphan of Femicide Invisible Victim segue il Nord Est, mentre nel Nord Ovest opera il progetto S.O.S. - Sostegno Orfani Speciali. Nel Centro Italia è attivo il progetto Airone, al Sud Respiro - Rete di Sostegno per Percorsi di Inclusione e Resilienza con gli orfani speciali.

Secondo i primi risultati - presentati in occasione della Giornata internazionale dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza - la percentuale più alta di orfani accompagnati (a ottobre 2023) riguarda il Sud: 100 gli orfani presi in carico grazie al progetto Respiro. Ma il dato è fortemente in crescita. «Per il 74 per cento dei beneficiari - come viene precisato in una nota - l’età di ingresso nel progetto è tra i 7-17 anni, per il 17% l’età è compresa tra 18-21 anni e per il rimanente 8% l’età è inferiore a 6 anni. Di questi, il 56% sono di sesso maschile e il 43% femminile (1% non specificato). Il 95% dei beneficiari presi in carico ha la cittadinanza italiana, solo il 5% ha cittadinanza di altri Paesi Ue o extra-Ue».

«Nel 36 per cento dei casi i bambini erano presenti al momento dell’evento. Questo elemento ha conseguenze che condizioneranno ancor più pesantemente per gran parte della vita. I minori che diventano orfani a seguito di tali tragici eventi subiscono un impatto psicologico devastante, il quale inevitabilmente influisce negativamente sulla loro sfera emotiva e relazionale». I numeri spiegano quindi molto bene la gravità del fenomeno: il 13% degli orfani presenta forme di disabilità (precedenti al trauma), tra le più comuni vi sono disabilità intellettive e relazionali; il 42% oggi vive in famiglia affidataria, il 10% vive in comunità e il 10% con una coppia convivente; solo il 5% è stato dato in adozione e vive con una famiglia adottiva. E ancora: l’83% delle famiglie dei beneficiari arriva a fine mese con grande difficoltà, spesso per la necessità di circondarsi di professionisti e specialisti per supportarli con i bambini.

«La tragedia dei femminicidi purtroppo non finisce - ricorda Marco Rossi Doria -: siamo tutti colpiti da questa condizione terribile. Centinaia di bambini e ragazzi vivono una situazione difficile, fortemente traumatica: la mamma viene uccisa spesso davanti ai loro occhi dal padre, che finirà i suoi giorni in prigione o si suiciderà come spesso accade. A crescere gli orfani di femminicidio sono i parenti di prossimità: nonni, zii, che però, nei fatti, non godono ancora, purtroppo, di costanti azioni di prossimità che le politiche pubbliche si ripromettono da tempo di attuare e vengono lasciati soli ad affrontare un dramma così grande che ha bisogno di un’attenzione specializzata, così come di supporto burocratico, economico, organizzativo, legale, ecc.. E poi c’è la vita che deve ricominciare: gli studi, il lavoro e la necessità di curare la ferita profonda che è dentro di sé. Il Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile in Italia ha così assunto la responsabilità di mettersi accanto e accompagnare passo passo questi ragazzi nel migliorare la propria vita e avere una opportunità di elaborazione, per quanto possibile, di un evento inconsolabile e di crescita».

La Demonizzazione del Maschio.

La guerra al maschio è la persona dell'anno. Il Foglio il 6 dicembre 2017.

New York. Il Time, si sa, sceglie la persona dell’anno in base alla sua rilevanza storica, non è un giudizio di valore. Si tratta di stabilire qual è la figura che più ha influenzato l’America e il mondo nell’anno che si sta per concludere. Nel 1938 è stato nominato Adolf Hitler, per dire. Di tanto in tanto il prestigioso magazine newyorchese passato di recente nelle mani di un facoltoso gruppo del midwest noto per le riviste di giardinaggio, decide di nominare un categoria, una figura astratta oppure un oggetto simbolico, in mancanza di un personaggio storico convincente. Spesso si tratta di un ripiego, quasi sempre i gruppi evocati come decisivi sono i primi a finire nel dimenticatoio. Nel 2014 il riconoscimento è andato agli “ebola fighters”, nel 2011 l’uomo dell’anno è stato “il manifestante” indignato, nel 2003 “il soldato americano”. Sono stati insigniti i buoni samaritani, il combattente americano in Corea, gli whistleblower di Enron, gli americani di mezzo, i peacemakers, le donne americane, il computer e perfino “tu”, l’individuo che crea e condivide contenuti originali sul web e così diventa protagonista assoluto della storia.  

Non potevano dunque mancare le “silence breakers”, le donne che hanno spezzato il silenzio, le eroine che dopo anni di vergogne e traumi hanno deciso di denunciare i loro molestatori, dando inizio a una purga retroattiva che chiaramente non ha come vero obiettivo quella serie di orchi particolari là fuori che davvero meritano pene detentive, ma vuole incastrare il maschio oppressore in generale. E’ la guerra al patriarcato interiorizzato della quarta ondata del femminismo: parte da Hollywood, dalle redazioni dei grandi giornali, dagli studi televisivi e vuole arrivare a spezzare il silenzio anche negli uffici anonimi, nelle camere d’albergo, dietro i banconi dei bar, alle fermate dell’autobus. In copertina compaiono un gruppo di donne fra cui Ashley Judd e Taylor Swift, ma all’interno vengono celebrate decine, centinaia di donne famose e non, da Alyssa Milano, che ha inventato la campagna virale #MeToo, fino alle inservienti del Plaza che stanno facendo una class action contro la direzione dell’albergo. Al passo con questi tempi di genderfluidità, il Time è attento a non ridurre tutto a una questione esclusivamente femminile, e non soltanto perché le avances di Kevin Spacey erano rivolte esclusivamente a maschi come lui. Gli autori dell’articolo di copertina si curano di informare il lettore che, secondo il National Center for Transgender Equality, il 47 per cento dei trans ha sporto denuncia per molestie almeno una volta.

Anche questo è spezzare il silenzio, dicono, e subito sul famoso web che impazzisce sempre si è scatenata la gara a trovare le molestate non citate, le categorie dimenticate, gli scandali declassati o minimizzati. La canonizzazione delle lottatrici contro il silenzio ha prevalso sul candidato ovvio alla persona dell’anno, talmente ovvio che l’interessato ha detto di essere stato contattato dal giornale e di avere rifiutato il photoshoot per la copertina. Sì, Donald Trump è stato nominato già lo scorso anno, ma se uno è la persona dell’anno c’è ben poco che si possa fare. Anche Richard Nixon, suo malgrado, è stato celebrato dal Time per due anni consecutivi. Forse il prossimo anno la persona dell’anno sarà “la seconda chance” e saranno messi in copertina i paria che hanno seguito scrupolosamente il percorso di riabilitazione in sei mosse vergato dal giornalista Jack Shafer, ma quest’anno per tenere fede alla logica ed evitare la nomina collettiva che subito deperisce, il Time avrebbe dovuto almeno dare il riconoscimento ad Harvey Weinstein.

Natalia Aspesi per “la Repubblica” - Estratti venerdì 24 novembre 2023.

Ogni tanto ne muore una, quest’anno una valanga, 107, di cui 88 omicidi consumati tra le pareti domestiche, ed era da un po’ che il di lei nome non arrivava in prima pagina sotto un grande titolo, come se ormai anche a metterlo in rilievo non ci fosse gran che da dire, non proprio un evento da dimenticare, ma il resto più o meno lo si sapeva: quante le coltellate, quante le pallottole, quanta benzina per darle fuoco; e lui? Era fuggito oppure si era ammazzato. 

È stata quell’aria di felicità gentile, 22 anni e ancora la voglia di giocare, quella placida attesa della vita senza pensieri, e poi subito lì, a pochi giorni dal bel traguardo della laurea triennale in “sviluppo di biomateriali per la sostituzione dei tessuti della trachea” a rendere la vita di Giulia Cecchettin così bella da trasformare la sua morte in una cosa ancora più atroce. Più cattiva. Così da provarne vergogna anche noi che neppure la conoscevamo.

E il suo assassino, che compirà 22 anni tra un mese, con la faccia giovane, composta, bella, quel Filippo Turetta, “un ragazzo normale, praticamente perfetto, sempre bravo a scuola”, una maschera buona, che lo rendeva uno di cui ci si fidava. Lui e lei, con la vita davanti, impazienti nell’attesa di una stupida età, e lei già libera di scegliere, come capita alla sua età. Lui di cui qualcuno in questi giorni ha detto che è socialmente pericoloso. Quali demoni, perché poi di demoni deve trattarsi, hanno reso il ragazzo una furia incontenibile, che con venti coltellate ha ammazzato la sua ragazza cercando di farle il male che meritava, in modo di finirla, innocente, con la colpa gravissima di non volerlo più. 

Penso a questi ragazzi che come macellai consumati aprono squarci sanguinanti e non gli fa nessun effetto, tutto quel sangue che li divora perché lei muoia dissanguata, come l’Alessandro Impagnatiello tutto chic, che ferisce ripetutamente il ventre ingrossato di Giulia Tramontano, quello che tiene in vita il bambino che non nascerà.

Come Anna Bolena, come Giovanna d’Arco, come Maria Antonietta, come le streghe torturate a migliaia, come tutti i milioni di donne diventate famose per la loro morte e non per lo spicchio della loro inutile vita. Questa volta no, al grande titolo sui giornali ha corrisposto la ribellione delle donne, questa volte in tante, dappertutto, a camminare insieme, tutti insieme, accanto agli uomini che pensano di essere buoni e mai farebbero quella cosa lì, mai e poi mai, e ci credono davvero e noi per questa volta crediamo loro. 

Gira intanto l’infima parola, è colpa del Patriarcato! Qualcuno dovrà avere la colpa di queste stragi continue, che i distratti signori della corte avevano cominciato a notare, toh, guardane un’altra fatta fuori con l’accetta, da un buon numero di anni, quando non era più una cosa quasi ovvia. Davvero il Patriarcato? Quella cosa che credevamo di aver iniziato a distruggere più di 50 anni fa, riuscendo negli anni ’70 a eliminare le leggi contro le donne, il nuovo diritto di famiglia, l’interruzione di gravidanza, il divorzio.

Poco prima avevano ottenuto di entrare in magistratura, di fare il soldato, si era cominciato a chiedersi perché dovevamo tenerci tanto alla famosa verginità senza la quale non trovavi più marito o ti tagliavano la testa: in ogni caso se da sposata facevi le corna al marito potevi finire in galera, gli uomini no naturalmente. E intanto, mentre le signore guardavano orripilate con uno specchio davanti la loro misteriosa vagina, gli uomini che si ritenevano moderni facevano autocoscienza continuando a sgridarsi per la loro mascolinità. C’erano poi le ragazze che frequentavano la nuovissima università di Sociologia di Trento (quella del povero Alberoni) che freneticamente cercavano un buonuomo disposto a liberarle dalla famosa verginità e nessuno si prestava all’incomodo, temendo poi qualche raggiro.

Comunque la parola verginità mi appare quasi defunta. Sarò poco riflessiva, ma se da tempo ormai tutto mi sembra cambiato, non è che le donne siano di molto cambiate, mentre ai maschi non gli abbiamo dato peso e sono rimasti com’erano? Con un retaggio antico di cui non gli è venuto in mente di liberarsi e gli è rimasto addosso, come un linguaggio primitivo. E noi sciocchine, col modesto desiderio di raggiungerli e poi fermarci contente, neanche l’idea di andare oltre. Eravamo quasi a posto, ci mancava forse lo stipendio adeguato per non parlare del salario minimo che non piace a chi ne ha. 

Patriarcato sì o Patriarcato no? Potrebbe dipendere dalla testa, ma era ovvio che Giulia si era sbagliata, che il suo bel ragazzo era quello e basta, e l’ha capito troppo tardi.

Poi si sa ci sono le donne intelligenti e quelle sceme, non tutte sono intelligenti e molte sono sceme, ce n’è di meschine e di tutti gli aggettivi in giro, e poi anche un sacco di cattive e cattivissime. Saremmo addirittura normali se qualcuno ogni tanto, parecchio migliorate, non ci facesse fuori. Sfortunata anche la destra andata al potere (e non si sa per quale bizzarria) che si trova adesso con le donne nemiche e pronte a rifiutare i figli, che potrebbero trovarsi senza madre ammazzata e padre pure. 

E avanzo un azzardo: nel caso di Giulia non potrebbe essere solo miserevole Invidia, il più meschino dei sentimenti, di un maschio per una femmina, come per tante altre ragazze ammazzate? L’invidia di un ragazzo cui i genitori guardavano con la soggezione di oggi, senza vederne la follia.

Dice Laura Boella, filosofa, che ha appena partecipato alla bellissima mostra su Maria Callas alla Scala: «È l’inizio del profilarsi dell’Invidia di un giovane uomo per i brillanti risultati della sua fidanzata nello studio, forse anche per la sua vitalità esuberante che lui guardava da spettatore-controllore, senza condividerla. Invidia, una parola che non appartiene al vocabolario affettivo dei drammi amorosi (gelosia, infedeltà) ma a quello della Competizione delle performance diventate le leggi sacre della società attuale».

(ANSA lunedì 20 novembre 2023) "Dico ai ragazzi: pensate al momento in cui avete mancato di rispetto a una donna in quanto donna, in cui avete mancato di rispetto a qualcuno solo perché donna, avete magari fatto del 'catcalling', dei commenti sessisti con i vostri amici. L'ironia da spogliatoio, come la chiamano, non va bene". Lo ha ribadito stamani Elena Cecchettin, a Vigonovo. "Fatevi un esame di coscienza - ha proseguito - e realizzate questa cosa, e poi imparate da questo episodio e iniziate a controllare, a richiamare anche gli altri vostri amici, perché da voi deve partire questo.

Perché noi donne possiamo imparare a difenderci, ma finché gli uomini non fanno un esame di coscienza e non si rendono conto del privilegio che hanno in questa società non andremo da nessuna parte. E veramente, fatelo per mia sorella, non c'è vergogna nel fare questo esame. Non c'è vergogna nell'ammettere di aver sbagliato, perché se poi si cambia è servito, e non c'è nulla di sbagliato, tutti sbagliamo. Però bisogna realizzarlo - ha concluso Elena - e bisogna prendere consapevolezza di quello che è il proprio privilegio".

L'amica di Giulia Cecchettin: «Filippo le diceva "cambierò per te", invece era sempre più possessivo» Alice D'Este su Il Corriere della Sera il 21 novembre 2023

Giulia Zecchin, 22 anni: «Lei dopo averlo lasciato ad agosto lo incontrava perché così pensava di alleviare la sua sofferenza»

«Giulia usciva ancora con Filippo perché era piena di sensi di colpa. Lui la teneva avvinghiata così. Le diceva che senza di lei la sua vita non aveva più senso. E Giulia, che era molto buona, si sentiva in colpa. Già la prima volta si erano lasciati a causa della gelosia ossessiva di Filippo ma lui nei mesi successivi le aveva promesso che sarebbe cambiato. “Torniamo insieme sarò diverso”, le aveva detto». Non è andata così. A raccontare quella relazione «incastrata» in meccanismi sbagliati è Giulia Zecchin, 22 anni, carissima amica di Giulia Cecchettin e sua ex compagna di classe al Liceo classico Tito Livio di Padova.

Come sono andate le cose?

«Lui le faceva continuamente promesse, cercava di riavvicinarla. Lei dopo averlo lasciato ad agosto lo incontrava perché così pensava di alleviare la sua sofferenza ma la sua gelosia ossessiva tornava sempre. E in modo sempre più intenso».

Ci può fare qualche esempio?

«Lui non sopportava che lei uscisse da sola con le amiche dell’università e cercava di impedirglielo in ogni modo».

Perché?

«Giulia immaginava che Filippo non concepisse il fatto che lei si legasse a qualcuno all’università escludendo lui da questo gruppo. Era come se in quelle aule lui si vedesse come un’unica entità con lei».

La gelosia di Filippo c’è sempre stata?

«Sì. Lo ha lasciato entrambe le volte per questa ragione. Certo non si è manifestata subito in modo pesante. È cresciuta un po’ alla volta. Nei primi mesi della loro relazione questi comportamenti erano velati, poi sono esplosi. Non credo infatti che Giulia abbia mai parlato con sua mamma di questo finché era viva. Poi quando la mamma è morta Giulia ha deciso di gestire questo problema da sola per non dare altre preoccupazioni alla sua famiglia già distrutta dal dolore. Parlando in questi giorni con Elena (la sorella, ndr) abbiamo capito che Giulia non raccontava tutto. Diceva qualcosa a noi, qualcosa ad Elena per non far preoccupare troppo nessuno».

Le avevate consigliato di non vederlo più?

«Sì. Le dicevamo di non uscirci più. Noi però non eravamo soggiogate dalle sue parole o dai sensi di colpa. Le persone così sanno quali tasti toccare. Filippo puntava sulla bontà di Giulia. Ci marciava. Lui per lei era stato il primo ragazzo e viceversa. Forse Giulia non si era resa conto che quella non è la normalità. Che quello non era amore».

Usano perfino un omicidio per «rieducare» il maschio. La Verità Maurizio Belpietro 21 novembre 2023

La sorella di Giulia Cecchettin accusa il patriarcato: è un modo di elaborare il lutto che non sta a noi giudicare. Sbagliano però i politici e giornalisti che la inseguono su questo punto. Processare l’intera società significa paradossalmente giustificare il singolo.

Da video.repubblica.it lunedì 20 novembre 2023

Polemiche per le frasi della deputata leghista Simonetta Matone a Domenica In, che commentando il femminicidio di Giulia Cecchettin ha detto: "Io non ho mai incontrato soggetti gravemente maltrattati e gravemente disturbati che avessero però delle mamme normali". Ecco l'intervento.

Estratto dell’articolo di Agostino Gramigna per il “Corriere della Sera” lunedì 20 novembre 2023

[…] «[…] Non è un caso di femminicidio classico, dove l’assassino agisce in un percorso di violenza, di stalking, di minacce, che sfocia nell’uccisione. Qui l’assassinio rientra nell’ambito della questione familiare. Di uno sfascio di relazioni». 

Vera Slepoj […] descrive Filippo Turetta come l’omicida che concepisce l’episodio violento attraverso l’eliminazione dell’intera storia sentimentale. Bisogno di tabula rasa. 

Perché?

«Ha trasferito nella storia sentimentale tutta la sua visione ideale. Quando si legge che voleva fare tutto assieme a Giulia, anche il percorso universitario, emerge l’idealizzazione sproporzionata. E qui entrano i contenuti educativi, le utopie sui sentimenti, come la pretesa “fusionalità”. Lo vedo nei pazienti adolescenti, credono che bisogna condividere tutto. Pesa in loro la cultura dell’amore inteso come possesso, fino a diventare parte totale della vita». 

Lei ha detto che l’omicidio di Giulia rientra nella questione familiare.

«I figli sono abbandonati a se stessi. Non c’è percorso educativo. Alla fine si organizzano costruendo finte famiglie. Formandosi con le canzoni e i modelli proposti dai trapper. […] non riescono ad essere intercettati dagli adulti».

Che cosa dovrebbero fare i genitori?

«Esserci. Devono entrarci nel rapporto. […]». 

[…] I genitori dovrebbero leggere manuali di psicologia?

«Non serve. Farebbero meglio ad evitare di riempire i figli di attività. Li accompagnano ovunque ma non stanno con loro. Meglio andare a mangiare una pizza insieme. Magari per scoprire la musica che ascoltano e capire dove si stanno andando ad infilare. E preoccupante il deserto in cui vengono su i figli di oggi. Soprattutto i maschi. Ai quali si chiede sempre di stare dentro l’azione, lo sport e non dentro la relazione». 

[…] Cosa si può fare?

«Ripartire dall’educazione civica, dal rispetto. […] Per esempio proporre i grandi romanzi d’amore, dove l’amore anche tragico è vissuto. Per apprendere che se ami non devi accoppiarti nella “fusionabilità”. […]».

Filippo Turetta andava al liceo. Cosa gli è successo?

«Gli è sfuggita di mano la prospettiva di vita. E non è riuscito a gestire il significato della vita dell’altro: ha pensato che l’altro dovesse entrare nella sua. Ma Giulia se n’è andata. Un atto per lui inconcepibile. Ha accumulato astio e l’ha incolpata della propria infelicità».

Estratto da fanpage.it lunedì 20 novembre 2023

Il femminicidio di Giulia Cecchettin, studentessa della provincia di Venezia uccisa dal suo ex fidanzato Filippo Turetta, è uno di quei casi che difficilmente dimenticheremo e che sta causando proteste e manifestazioni in tutta Italia. Elena Cecchettin, sorella di Giulia, in una lettera al Corriere della Sera ha scritto che Turetta non è un mostro né un malato, ma un “figlio sano del patriarcato, della cultura dello stupro”. Sin dalle prime ore dopo il ritrovamento del corpo di Cecchettin, la sorella si è mobilitata per spiegare che il suo omicidio non è un caso isolato né una questione privata, ma un crimine che si inserisce in una cornice culturale più ampia che avvalla, normalizza se non addirittura incoraggia la violenza di genere.

L’espressione “cultura dello stupro” si è diffusa negli ambienti femministi negli anni ‘2000 per alludere a tutti quei processi culturali che considerano lo stupro e la violenza sulle donne come qualcosa di normale e inevitabile. Quando si dice che gli uomini e le donne crescono in una “cultura dello stupro” non si intende che i genitori educhino volutamente gli uomini a commettere abusi sulle donne, ma che diverse manifestazioni culturali contribuiscono a radicare l’idea che essi siano qualcosa che fa parte del modo in cui stanno le cose. Questo sistema ha conseguenze gravi per tutti i soggetti coinvolti: gli uomini crescono con un senso di impunità nei confronti della violenza di genere e le donne tendono a non riconoscerla o a minimizzarla quando la subiscono.

In un articolo sullo storico giornale femminista off our backs, Alyn Pearson spiega la cultura dello stupro attraverso la metafora del tifo e dell’influenza stagionale. Siamo abituati a pensare che lo stupro sia come il tifo: una malattia improvvisa ed epidemica che colpisce una popolazione a causa di comportamenti sbagliati. In realtà, lo stupro somiglia più all’influenza stagionale, una malattia non epidemica ma endemica, ovvero che ormai è entrata a far parte dell’ambiente che ci circonda. Proprio perché così comune, l’influenza è oggetto di miti e saggezza popolare (“Se prendi freddo, ti viene l’influenza”) e tutti si aspettano di esserne affetti prima o poi nella vita. L’influenza si diffonde perché le persone la sottovalutano, starnutiscono senza mettersi la mano davanti al naso o vanno in giro anche se hanno la febbre. Ma come è possibile vaccinarsi per l’influenza, così anche per la cultura dello stupro.

(...) Negli anni ’70, la teorica femminista Susan Brownmiller suggerì invece che lo stupro non è una questione di desiderio sessuale o di perversione, ma un esercizio di potere. La violenza di genere diventa così un meccanismo di controllo che serve a tenere a bada le donne e a costringerle a vivere nella paura. 

Nei decenni successivi le studiose femministe aggiunsero altri elementi al quadro: secondo alcune teoriche radicali, anche la pornografia ha un ruolo nell’incoraggiare la violenza di genere, mentre altre suggerirono la teoria del “cultural spillover”, ovvero che la responsabilità dello stupro non va ricondotta soltanto a credenze e comportamenti che condonano esplicitamente la violenza di genere, ma a tutto un sistema che la legittima in maniera indiretta, come le punizioni corporali, la violenza istituzionale e dei mass media, eccetera.

Tutte queste teorie hanno una base in comune, ovvero l’idea che la gerarchia fra i sessi, chiamata anche “patriarcato”, stia alla radice della violenza di genere. Questa premessa è accettata anche da numerose leggi e provvedimenti, come la Convenzione di Istanbul, che ricorda nei suoi preamboli che “la violenza contro le donne è una manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi, che hanno portato alla dominazione sulle donne e alla discriminazione nei loro confronti da parte degli uomini e impedito la loro piena emancipazione” e che essa ha una “natura strutturale”. 

Dire che la violenza di genere ha una natura strutturale è un’affermazione che ha importanti conseguenze: la prima è che la violenza non è innata negli uomini, non è dettata da meccanismi biologici o da istinti ingovernabili; la seconda è che essendo una questione culturale e legata alle strutture di potere, si può sconfiggere. Il patriarcato infatti non è una caratteristica intrinseca maschile né una specie di associazione segreta in cui gli uomini si mettono d’accordo per sottomettere le donne. Il termine è stato usato inizialmente da sociologi e antropologi per descrivere una società in cui la figura del padre è al vertice della catena di comando della comunità. Le pensatrici femministe hanno poi adottato questa espressione per indicare più in generale un sistema in cui il genere è il principio organizzatore. Mentre le femministe radicali come Kate Millett credono che il patriarcato si manifesti innanzitutto attraverso la sessualità, le femministe marxiste hanno proposto una teoria che collega il patriarcato all’esclusione delle donne dai processi produttivi e al loro confinamento nella sfera domestica.

Oggi quando si parla di patriarcato si allude a entrambe le cose: patriarcali sono tanto la cultura quanto la struttura sociale ed economica. Ciò ha un’altra, importante conseguenza, ovvero che anche le donne sono immerse e partecipano alla società patriarcale, interiorizzandone gli schemi di pensiero e le prescrizioni comportamentali. La differenza sostanziale è che il movimento femminista ha permesso a molte donne di riconoscere e liberarsi da queste richieste, impegnandole a costruire un modo diverso di pensarsi e vivere le loro vite. Per gli uomini, eccetto quelli che si avvicinano al pensiero femminista, questo processo deve ancora in larga parte avvenire. Parlare di cultura patriarcale e di cultura dello stupro non significa cancellare le responsabilità individuali o addossare la colpa a “tutti gli uomini”, ma sottolineare che tutti, a prescindere dal genere, siamo compartecipi di quella cultura. 

Gli uomini però sono investiti da una responsabilità ulteriore, che è quella di prendere coscienza di questa partecipazione e provare a smantellare molte delle manifestazioni della cultura dello stupro che avvengono fra pari. Dalle dichiarazioni di conoscenti e familiari di Filippo Turetta, pian piano emerge che molti erano consapevoli dei suoi comportamenti asfissianti nei confronti di Giulia Cecchettin e del suo disagio psichico. Oggi abbiamo il dovere di domandarci cosa sarebbe successo se, anziché stare tutti in silenzio e considerare i suoi i tipici comportamenti di uno “un po’ geloso” o di un “bravo ragazzo”, qualcuno fosse intervenuto. Quel silenzio, quell’indifferenza, quella convinzione che fosse tutto nella norma sono la più chiara manifestazione della cultura patriarcale.

Estratto dell’articolo di Eleonora Camilli per “la Stampa” lunedì 20 novembre 2023

Ripartire dalla scuola e da un'educazione sessuale, affettiva, identitaria che metta al centro anche la costruzione e la fine di un legame di coppia. Ne è convinto Matteo Lancini, psicologo e psicoterapeuta, presidente della fondazione Minotauro, dopo il terribile omicidio di Giulia Cecchettin per mano di un coetaneo, Filippo Turetta. […] 

Professor Lancini, cosa ci dice questa terribile storia delle relazioni tra i ragazzi?

«Credo che il tema centrale oggi è […] portare […] nuove riflessioni, […] su un tema più ampio che riguarda la costruzione dell'identità in adolescenza e la dimensione della coppia, anche la sua fine». 

Cioè?

«Siamo cresciuti in culture in cui il vincolo di coppia era molto forte, oggi la società è complessa e fluida. Ma la fine del rapporto di coppia in adolescenza può essere fonte di tanta sofferenza. Quando qualcuno distoglie lo sguardo e dice che è finita si prova una sofferenza molto forte. Oggi conta sempre meno il sesso rispetto a vivere nella mente dell'altro. Quando questo vincolo della mente viene meno, se non si ha un nucleo forte, è come se si perdesse tutto e si arriva alla disperazione. […]».

C'è però sempre un confine tra il dolore, seppur terribile, della fine di una relazione e pensare di fare del male fino a uccidere una persona.

«Ogni omicidio è un suicidio mancato e ogni suicidio è un omicidio mancato. Non conoscevo i due ragazzi, bisognerebbe sapere che tipo di relazione c'era. Ma incontro centinaia di adolescenti, in alcuni c'è una rabbia devastante». 

Oltre alla scuola, c'è il ruolo della famiglia. Filippo Turetta è stato descritto anche dai parenti come un «bravo ragazzo». Per lei è possibile che non ci fossero dei segnali che avrebbero dovuto destare allarme?

«[…] Conosco ragazzi che non danno alcun segnale e poi tentano il suicidio, nessuno sa cosa sia capitato nella loro mente. È un'illusione trovare segnali. […] Ci sono fragilità che si trasformano in violenza, spesso più contro se stessi che verso altri, pensiamo alle condotte alimentari, ai tentativi di suicidi, agli incidenti stradali parasuicidari... Bisogna capire quali frasi dire a tavola, non basta solo togliere cellulari. Oggi la famiglia ha molti competitor».

I social, per esempio?

«Il mondo di internet è il mondo della prestazione, del selfie. Non può esistere costruzione identitaria senza internet che è sempre a disposizione per risolvere problemi che i ragazzi non riescono a risolvere con gli adulti di riferimento. Noi dobbiamo aprire spazi di simbolizzazione che contrastino una società in cui la fragilità e l'abbandono sono così devastanti. Quindi si deve puntare non solo sull'educazione all'affettività ma a cosa significhi essere maschio e femmina oggi in una società in cui la sessualità è sempre meno importante. La violenza trova interlocutori negli spazi di internet […]».

Un paese di complici. Tommaso Cerno su L'Identità il 21 Novembre 2023

Se un Paese si giudicasse per come reagisce a un dramma come quello di Giulia, l’Italia sarebbe complice del delitto. Non per ciò che dicono da giorni in tv e suoi giornali, ma perché dimostra spaccandosi in due curve di ultras anche di fronte alla morte in diretta di una donna, che siamo vittime dello stesso male dell’assassino: siamo social, violenti e tossici.

Anche solo immaginare che quel dramma che abbiamo seguito dal momento della fuga fino al tragico ritrovamento del corpo della giovane Giulia Cecchettin nella gola fra il lago di Barcis e Piancavallo, a pochi tornanti di strada dalla diga del Vajont, possa risolversi in una sfida da talk show fra i fan della famiglia patriarcale e i cultori del killer della porta accanto significa partecipare alla violenza di cui Giulia è stata vittima. Significa ammettere di non avere più capacità né metodo per affrontare questioni complesse. Significa tirare la palla in tribuna e ammettere, pur senza dirlo, che presto il circolo cambierà città. E che anche Giulia sarà morta due volte. Come le altre donne celebrate per qualche ora da opinionisti e sociologi e poi finite nel dimenticatoio collettivo del Paese senza memoria per eccellenza, quello che vive sulla mamma e poi arma la mano del papà. Quello che se vietano il cellulare a scuola, io per primo, grida a tutti che sono dei trogloditi, quello che se parte un ceffone per un voto basso a scuola agita la violenza familiare e invece difende la sentenza del Tar che promuove un asino bocciato, magari pure spocchioso, su richiesta dei genitori.

La storia di Giulia e Filippo ci dice solo una cosa. Che quei due vivevano in un Paese che si sveglia sempre il giorno dopo. E ci dice che lei poteva essere salvata. Se solo noi credessimo davvero alle cose che diciamo e sentiamo in queste circostanze. Dal no all’ultimo incontro fino alla ricerca dei sintomi. La verità è che ‘noi’, cioè i grandi, cioè la scuola, cioè lo Stato, cioè la famiglia parliamo fra noi. Mentre loro, la nostra generazione di domani non lo fa più con noi. Per cui ci capita non solo di assistere all’ennesimo femminicidio sapendo bene che non sarà l’ultimo, ma anche di viverlo in diretta. Dalla fuga, alla morte, al ritrovamento del cadavere, alla latitanza fino al fermo dell’assassino. Chiamando social quello che invece è il loro mondo reale, chiamando reale la nostra verità. Fino a litigare fra noi, violenti, per spiegare la violenza di Filippo. Senza accorgerci che è proiezione della nostra, cosi come di quella che permea ormai ogni aspetto della vita pubblica e privata dell’Italia 2.0. Quell’Italia colta di sorpresa, ma al tempo stesso sospettosa che qualcosa potesse andare storto. Quell’Italia sempre un passo indietro sulla verità. Come siamo un passo indietro da loro. I nostri figli.

La sorella di Giulia Cecchettin: “I mostri non sono malati, sono bravi ragazzi figli del patriarcato”. Martina Melli su L'Identità il 20 Novembre 2023

Elena, la sorella di Giulia Cecchettin, la ventiduenne assassinata dall’ex fidanzato, ha rivolto parole dure alle istituzioni e alla società intera: “Turetta viene spesso definito come mostro, invece mostro non è. Un mostro è un’eccezione, una persona esterna alla società, una persona della quale la società non deve prendersi la responsabilità. E invece la responsabilità c’è”.

La ragazza ha scritto una lettera per il Corriere della Sera, affidando la responsabilità del femminicidio della sorella a un vizio strutturale della società italiana, quello a cui comunemente ci si riferisce come “cultura dello stupro”. “I mostri’ non sono malati, sono figli sani del patriarcato, della cultura dello stupro. La cultura dello stupro è ciò che legittima ogni comportamento che va a ledere la figura della donna, a partire dalle cose a cui talvolta non viene nemmeno data importanza ma che di importanza ne hanno eccome, come il controllo, la possessività, il catcalling”.

“Ogni uomo viene privilegiato da questa cultura. Viene spesso detto ‘non tutti gli uomini’. Tutti gli uomini no, ma sono sempre uomini. Nessun uomo è buono se non fa nulla per smantellare la società che li privilegia tanto. È responsabilità degli uomini in questa società patriarcale dato il loro privilegio e il loro potere, educare e richiamare amici e colleghi non appena sentano il minimo accenno di violenza sessista. Ditelo a quell’amico che controlla la propria ragazza, ditelo a quel collega che fa catcalling alle passanti, rendetevi ostili a comportamenti del genere accettati dalla società, che non sono altro che il preludio del femminicidio. Il femminicidio è un omicidio di Stato, perché lo Stato non ci tutela, perché non ci protegge. Il femminicidio non è un delitto passionale, è un delitto di potere. Serve un’educazione sessuale e affettiva capillare, serve insegnare che l’amore non è possesso. Bisogna finanziare i centri antiviolenza e bisogna dare la possibilità di chiedere aiuto a chi ne ha bisogno. Per Giulia non fate un minuto di silenzio, per Giulia bruciate tutto”.  

Giulia Cecchettin: quel femminicidio annunciato e quella cesura fra generazioni. Eleonora Ciaffoloni su L'Identità il 19 Novembre 2023

Giulia Cecchettin è morta. L’ennesima vittima della violenza di un uomo, di un ex compagno, di una persona che, almeno in parte, era considerata fidata. Vittima di un femminicidio inteso nel modo più classico: pensato, premeditato e calcolato nei dettagli. Ancora una volta scandito nelle fasi che sembrano essere diventate l’iter della mente criminale: la richiesta di un ultimo appuntamento, il rifiuto, il tentativo di fuga e l’aggressione. Che si trasforma in omicidio colposo e, ancora, premeditato. Stavolta è un giovane di 22 anni, un coetaneo della vittima: Filippo Turetta non aveva accettato la rottura, arrivata in estate, ad agosto, da parte di Giulia. Eppure, i due ragazzi avevano continuato a vedersi, forse per affetto, forse per l’innescato meccanismo di ricatto emotivo. Erano stati i familiari della ragazza, appena dopo poche ore dalla scomparsa, a parlare della relazione e di quanto il ragazzo avesse provato a tenere con l’ormai ex fidanzata un rapporto di vicinanza, con manifestata sofferenza. “Se tu mi lasci, io rimango da solo” o ancora “Se te ne vai anche tu, a me cosa resta”. Queste alcune delle frasi che Turetta avrebbe ripetuto a Giulia in questi mesi, che si aggiungono ad un altro fondamentale elemento che, sempre per il ragazzo, rappresentava l’incertezza del futuro. Perché il 16 novembre scorso Giulia Cecchettin si sarebbe dovuta laureare in ingegneria biomedica all’università di Padova, un traguardo che preoccupava Filippo, scatenando molto probabilmente quella paura e quella follia omicida che ha portato alla morte violenta della ragazza, proprio a poche ore da quei festeggiamenti tanto agognati. Una morte a cui seguono diversi interrogativi, non solo quello su come sia stato possibile assistere a questa tragedia, ma anche su come attorno ai due giovani non sia stato possibile percepirne da un lato la paura, dall’altro il disagio di trovarsi a vivere un rapporto ormai malato. Forse sintomo di una distanza siderale tra quei genitori e quei figli che spesso non riescono a condividere preoccupazioni, timori e dubbi sulle dinamiche tipiche della nuova età adulta. Una cesura tra due generazioni che non ha portato a nessuna avvisaglia su quanto accaduto e, soprattutto, nessun tentativo di fermare quella follia, forse mai veramente percepita come tale o, almeno, mai considerata pericolosa. Una distanza su cui, oggi, è difficile tacere. Un femminicidio che era diventata prima ipotesi dopo la scomparsa dei due, eppure mai preso in considerazione prima dell’ormai noto “ultimo incontro”.

Non serve una legge e nemmeno un'ora di scuola. Serve umanità, da tutti, dappertutto. Andrea Soglio su Panorama 19 Novembre 2023

Riflessioni di un padre preoccupato e di una criminologa davanti alla tragedia di Giulia e Filippo La triste e prevedibile fine di Giulia Cecchettin e la cattura del suo assassino ed ex fidanzato, Filippo Turetta è una di quelle cose che hanno colpito tutti. Soprattutto se, è il mio caso, si è padre di una ragazza. Ed è proprio il papà preoccupato e non il giornalista interessato che stamattina ha chiamato la dottoressa Cristina Brasi, nostra preziosa collaboratrice, criminologa, psicologa, profiler, la persona più adatta, se ce n’è una, a cui rivolgere dubbi e domande sul tema della violenza. Abbiamo parlato della proposta di legge ed ho anche paventato il massimo della pena come deterrente almeno per gli emulatori che ci sono sempre. «Ti sbagli - mi ha raccontato la dottoressa - questi assassini hanno dei tratti psicologici e personali particolari e non si fermano davanti a nulla,  ergastolo compreso». Quindi il bastone è chiaro che non serva a nulla. Allora passiamo alla «carota», a quel percorso di educazione che anche sui social (io ho visto tra i miei consigliati su instagram almeno mille volte lo slogan: «Non dobbiamo difendere le nostre figlie ma educare i nostri figli») va tanto di moda. C’è chi ha proposto di inserire il tema della violenza sulle donne e dei femminicidio nelle scuole: «Non serve a nulla nemmeno quello» mi ha tramortito per la seconda volta la dottoressa Brasi. Senza più certezze mi sono così rivolto a lei: cosa si può fare? «Filippo ha caratteristiche personali e psicologiche uguali a quelle degli altri assassini. Ci sono tratti di queste persone che sono comuni. Osservo e seguo bambini di 8 anni con tratti di narcisismo talmente marcati da risultare già un problema…. 8 anni… Bisogna si entrare nelle scuole, come nelle famiglie, per cominciare ad individuare questi segnali. A quel punto si può intervenire sulla persona, per aiutarla». Capite bene che siamo senza speranza: i professori fanno già fatica a fare il loro lavoro; pensare che possano anche imparare a riconoscere i tratti psicologici a rischio dei loro studenti è del tutto assurdo soprattutto perché capite bene come la formazione di un docente in questo settore richieda tempo e denaro, che nessuno ha. Si può però far qualcosa di più in casa, non fosse altro perché mamme e papà hanno avuto contatti con i loro figli come nessun altro, sia esso amico, fidanzato o fidanzata, compagno di classe o di scuola. Anche qui però le difficoltà non mancano, prima tra tutte quella che un genitore (mi ci metto pure io, sia chiaro) tende a proteggere e difender il proprio figlio, spesso anche davanti alle peggiori evidenze (di Filippo quanti in casa sua e non solo pensavano che fosse un «bravo ragazzo»?). Angolo. Da genitore mi sento in un angolo che nelle mani non ha un bastone e nemmeno una carota per cercare di salvare la prossima Giulia. Davanti a quei due muri che non danno via d’uscita mi sono chiesto come sia stato possibile in 30 anni arrivare a tutto questo. Da 20 enne non mi sarebbe mai saltato in mente di usare violenza contro una ragazza ed i casi di cronaca si contavano sulle dita di una mano in un anno. Oggi sono pane quasi quotidiano. Forse ai nostri ragazzi dovremmo smetterla di educarli ad essere forti, ma ad essere «belli». Dovremmo spiegare con non contano soldi e successo, ma conta più di tutto l’amore. Retorica, si, e pure tanta. Ma a furia di definirla retorica ce ne siamo dimenticati o l’abbiamo messa nella categoria «difetti». Ce lo dice per primo la persona che oggi sta soffrendo come nessun altro tra noi, il padre di Giulia: «L’amore non uccide».

Si parli di violenza sulle donne nelle scuole. Ma la battaglia educativa vera la si combatte a casa. Marcello Bramati su Panorama 20 Novembre 2023

E’ già partita la gara per assicurarsi il favore dell’opinione pubblica sul da farsi per superare l’ondata di violenza che ha travolto l’Italia in quest’ultimo anno. Ma questa competizione è essa stessa parte del problema che, invece, va estirpato alla radice Domani un minuto di silenzio in tutte le scuole, poi una presumibile battaglia politica per intestarsi il disegno di legge più da copertina perché non accada più che un Filippo Turetta ammazzi una Giulia Cecchettin. Questo sembra lo scenario dei prossimi giorni, se si guarda alla scuola e al dramma che in questi giorni ha stravolto una famiglia, anzi due, e poi tutta l’Italia. Un po’ poco, dinanzi a tanto male. Il minuto di silenzio serve a commiato ma non può bastare

Il minuto di silenzio serve, a commiato, ma non può bastare. Sia un momento di preghiera, per chi crede, e di raccoglimento per tutti pensando al caso singolo e al sangue della vittima, Giulia, ma non serva a chiudere i conti con quello che è un esito atroce di una società produttrice e consumatrice di rabbia e di violenza. Allo stesso modo, qualsiasi provvedimento si vorrà pensare di inserire nella quotidianità scolastica – una, due, trenta ore di approfondimenti tematici - non sarà decisivo, perché non si risolve con un’attività estemporanea un tratto caratteristico della società contemporanea, vale a dire – tocca ripeterlo – la produzione e il consumo di rabbia e violenza in ogni area sociale, a qualsiasi strato sociale, in ogni occasione. La società che abbiamo costruito e che viviamo propone il linguaggio della violenza in ogni sua forma senza disdegnarlo mai: chi prevale negli affari è raccontato come il modello vincente, il mondo del lavoro stesso è presentato già nelle aule scolastiche come un ambiente di squali in cui bisogna imparare a farsi spazio e proprio il mondo degli adulti, più in generale, è mostrato come pericoloso – certo - ma anche stimolante per competizione, ritmi serrati, la logica del vincente, insomma la prevaricazione e la selezione costi quel che costi. Anche scandalizzarsi utilizza sempre e solo il linguaggio della rabbia che è sempre preferito a proposte di studio e condotte alternative basate sulla riflessione e sulla progettualità. La risposta a ogni stimolo sono sempre e solo stizza e irritazione, necessità di zittire l’altro, alzare la voce e i toni, permettendosi modi aggressivi nel nome di ideali da sostenere. Come educare un figlio maschio in questa spirale di violenza? Come dormire sonni tranquilli con una figlia fuori casa? Sono preoccupazioni profonde, sintetizzate dalla cronaca nera col femminicidio di questi giorni, a cui non sappiamo cosa rispondere e che ci trovano senza alleati.

Che fare, quindi? La scuola non può farcela da sola e, se si vuole davvero cambiare qualcosa, serve l’aiuto di tutti. Se la politica, per avere il consenso, fa prevalere i toni dell’aggressione, si alimenta una società violenta e ciò va stravolto alla radice. Se l’informazione, per reagire alla crisi del settore, preferisce accondiscendere l’emotività popolare rispetto alla razionalità, si alimenta una società violenta e ciò va stravolto alla radice. Se sui nostri schermi ci assuefacciamo a aggressività, ferocia e pornografia, si alimenta una società violenta e ciò va stravolto alla radice. Se ogni discussione degenera in una rissa, verbale o fisica o giuridica, si alimenta una società violenta e ciò va stravolto alla radice. Se i social sono utilizzati come un flusso di coscienza per sfogare l’istinto di aggredire, di giustiziare e di colpire, si alimenta una società violenta e ciò va stravolta alla radice. Questo è ciò che c’è da fare, altro che minuto di silenzio e qualche oretta a scuola a parlare di buone pratiche che non andranno da nessuna parte se non ci sarà una realtà differente fuori aula. O almeno l’esplicita volontà affinché ciò accada. La realtà quotidiana in cui siamo immersi, basta osservarla, è un inferno schizofrenico, perché produce e si nutre di relazioni disfunzionali, tossiche, abortite di cui si autoassolve salvo poi condannare le più turpi. Ben vengano un’ulteriore maggiore attenzione giuridica e tutto ciò che si penserà per sensibilizzare dal punto di vista sociale e nelle scuole, ma quello che serve davvero è un cambio di sistema in cui la violenza non sia un vanto, mai, e la rabbia uno strumento di comunicazione e di ragione.

Il parlare a vanvera su Giulia fa male a tutte le vittime di violenza. Cristina Brasi su Panorama il 21 Novembre 2023

Il parlare a vanvera su Giulia fa male a tutte le vittime di violenza Ovunque si sente in diritto di dire cose, senza sapere che certe parole, oltre che essere sbagliate, feriscono Quando si parla di violenza bisogna sempre ricordare il punto di vista delle vittime. Dopo l'omicidio di Giulia Cecchettin parrebbe che chiunque si senta in diritto di esprimere la propria opinione, anche non conoscendo le dinamiche sottese a questi fenomeni, lo possa fare. Questi episodi non possono e non devono divenire spettacolarizzazione, il cui effetto è solo quello da un lato di aumentare il rischio di emulazione, dall’altro quello di banalizzare il problema. Le soluzioni facili non esistono, riprova ne è il fatto che, elementi seppur corretti, espressi da anni nella stessa maniera, non hanno sortito effetto alcuno. Il problema all’origine del fenomeno è culturale e sociale, ma non può essere risolto dicendo “cambiamo la società” perché la società siamo noi e ognuno di noi deve mettersi in discussione e cercare di modificarsi.

Nessuno di noi è scevro da stereotipi e pregiudizi che si manifestano anche in una banale frase come “è una donna con gli attributi”. Non è inserendo l’educazione emotiva e sentimentale a scuola che si ovvia al problema, è cambiando il modo di ragionare, facendo sì che gli educatori, in primis i genitori, si responsabilizzino e ritornino ad educare. È semplice delegare alla scuola e, ancor più facile, dopo aver avuto questa irresponsabile pretesa, lamentarsi perché il proprio figlio è stato sgridato, correndo in sua difesa dinnanzi anche a condotte devianti e prevaricatorie. È indispensabile che i figli apprendano il rispetto, comprendano che sono parte di una società e che i propri comportamenti hanno un effetto sugli altri. È indispensabile che capiscano che la vita è costellata da delusioni e difficoltà e che devono costruirsi da sé gli strumenti per non annegare e questo lo possono fare solo attraversando sfide, dolori, disinganni, insuccessi e fallimenti. Se non ammettiamo pubblicamente di avere un gravissimo problema educativo e di disvalore non potremo ai risolvere nulla. E ci si trova così a leggere frasi ad effetto sulla violenza cariche di stereotipie che feriscono profondamente le vere vittime. La vera vittima non si sente tale e non si riconosce come tale e questo è un punto fermo da cui partire quando se ne parla, anche con una apparente semplice immagine. Quello che di grave sta accadendo in questi giorni è la banalizzazione della violenza, è un trasformare un problema grave e serio in frasi ad effetto che non solo non servono a nulla, ma che soprattutto espongono le vittime a un grande rischio. In questi giorni sto ricevendo telefonate da pazienti e conoscenti che sono state vittime di violenza il cui filo conduttore è che si sentono violentate e non considerate dal modo in sui si sta parlando di questo argomento. Si viola la loro intimità perché la percezione che hanno le donne che hanno subito violenza quando leggono o sentono narrate certe cose è totalmente diversa. Riporto una frase di una di queste donne che mi ha chiamato stamane “sembra che siano entrati in casa mia, che abbiano assistito a tutto e lo abbiano reso un fatto pubblico esponendomi alla mercè del popolo”. Raccontare nei dettagli gli eventi e le storie non aiuta le vittime, anzi, le umilia, le fa sentire ancor più sporche e inadatte. Lo scopo di parlarne è quello di aiutare e, quello che sta accadendo negli ultimi giorni, è tutt’altro.

(ANSA lunedì 20 novembre 2023) Critiche e una richiesta di dimissioni vengono avanzate oggi da parte della deputata Pd Rachele Scarpa nei confronti del consigliere regionale veneto Stefano Valdegamberi, del gruppo Misto ed eletto nella lista Zaia, per affermazioni sul caso di Giulia Cecchettin che definisce "disgustose". 

In un post su Facebook, Valdegamberi sostiene che le dichiarazioni di Elena "mi hanno sollevato dubbi e sospetti che spero i magistrati valutino attentamente. Mi sembra un messaggio ideologico, costruito ad hoc, pronto per la recita". Proseguendo, il consigliere regionale sostiene "il tentativo di quasi giustificare l'omicida dando la responsabilità alla 'società patriarcale'. Più che società patriarcale dovremmo parlare di società satanista, cara ragazza. Sembra una che recita una parte di un qualcosa predeterminato e precostituito".

Secondo Scarpa, Valdegamberi "commette ancora violenza: è assolutorio, distoglie l'attenzione da ciò che è successo, rompe il silenzio in cui, anche solo per pudore, farebbe meglio a restare. Grazie dunque all'ennesimo ricco maschio bianco, che usa la sua posizione di personaggio pubblico per dare fiato alla bocca e per rafforzare quella stessa cultura che uccide, anziché decostruirla. Si dimetta immediatamente. Le sue parole inquinano il discorso pubblico e mettono in pericolo tutte noi", conclude.

«Ho ascoltato a Dritto e Rovescio le dichiarazioni della sorella di Giulia. Posso dire che non solo non mi hanno convinto per la freddezza ed apaticità di fronte a una tragedia così grande ma mi hanno sollevato dubbi e sospetti che spero i Magistrati valutino attentamente. Non condivido affatto la dichiarazione che ha fatto. Mi sembra un messaggio ideologico, costruito ad hoc, pronto per la recita». 

«E poi quella felpa con certi simboli satanici aiuta a capire molto…spero che le indagini facciano chiarezza. Società patriarcale?? Cultura dello stupro?? Qui c’è dell’altro. Fossi un Magistrato partirei da questa intervista la quale dice molto….e non aggiungo altro. Basta andare a vedere i suoi social e i dubbi diventano certezze».

«Il tentativo di quasi giustificare l'omicida dando la responsabilità alla "società patriarcale". Più che società patriarcale dovremmo parlare di società satanista, cara ragazza. Sembra una che recita una parte di un qualcosa predeterminato e precostituito. Forse mi sbaglio ed è solo la mia suggestione...».

Il consigliere leghista attacca la sorella di Giulia Cecchettin: «Fa una recita con messaggio ideologico». Elena Cecchettin a Diritto e Rovescio aveva commentato: «La responsabilità c’è. I 'mostri' non sono malati, sono figli sani del patriarcato, della cultura dello stupro». Ma per il politico indossava una "felpa satanista". Simone Alliva su L'Espresso il 20 novembre 2023

Una recita, un messaggio ideologico. Viene liquidato così, dal consigliere dalla Lega Stefano Valdegamberi, lo sfogo di Elena Cecchettin, sorella minore di Giulia, la 22enne uccisa dall'ex fidanzato Filippo Turetta. 

Il consigliere del Carroccio nella Regione Veneto sui social attacca le dichiarazioni rilasciate da Elena a Diritto e Rovescio: «Mi sembra un messaggio ideologico, costruito ad hoc, pronto per la recita. E poi quella felpa con certi simboli satanici aiuta a capire molto…spero che le indagini facciano chiarezza. Società patriarcale?? Cultura dello stupro?? Qui c’è dell’altro», scrive. Poi aggiunge: «Fossi un Magistrato partirei da questa intervista la quale dice molto….e non aggiungo altro. Basta andare a vedere i suoi social e i dubbi diventano certezze. Il tentativo di quasi giustificare l’omicida dando la responsabilità alla “società patriarcale”. Più che società patriarcale dovremmo parlare di società satanista, cara ragazza». E conclude: «Sembra una che recita una parte di un qualcosa predeterminato e precostituito. Forse mi sbaglio ed è solo la mia suggestione». 

La reazione dell'opposizione

«Il consigliere regionale della Lista Zaia, Stefano Valdegamberi, è semplicemente indecente» è il commento del co-portavoce nazionale di Europa Verde e deputato di Alleanza Verdi e Sinistra, Angelo Bonelli. «In base a quale elemento la magistratura dovrebbe indagare su Elena Cecchettin, sorella di Giulia? Perché fredda? Perché non si veste secondo i gusti del consigliere regionale? Le insinuazioni dell'esponente della maggioranza di Zaia in Veneto sono gravissime e per questo presenterò un'interrogazione parlamentare indirizzata alla premier Meloni: sui femminicidi non è ammissibile che esponenti istituzionali possano avere simili comportamenti, pertanto invierò l'interrogazione, contenente le dichiarazioni di Valdegamberi, anche alla Procura per conoscenza». «Le sue parole inquinano il discorso pubblico e mettono in pericolo tutte noi» ha commentato la deputata del Pd, Rachele Scarpa. «Eccolo lì. E' arrivato, di nuovo, Stefano Valdegamberi, consigliere regionale della Lega, a sminuire le parole e la denuncia della sorella di una vittima di femminicidio. Nel suo disgustoso comunicato, Valdegamberi mette in discussione l'esistenza di una società patriarcale e della cultura dello stupro. Ma soprattutto commette ancora violenza: è assolutorio, distoglie l'attenzione da ciò che è successo, rompe il silenzio in cui, anche solo per pudore, farebbe meglio a restare. Grazie dunque all'ennesimo ricco maschio bianco, che usa la sua posizione di personaggio pubblico per dare fiato alla bocca e per rafforzare quella stessa cultura che uccide, anziché decostruirla. Si dimetta immediatamente». Su X il deputato dem Alessandro Zan, responsabile Diritti del Partito Democratico ha così commentato: «È inconcepibile che al dolore si aggiunga violenza istituzionale per aver ribadito la sacrosanta verità che a quanto pare destabilizza chi alimenta questo sistema tossico patriarcale». 

Non starò mai zitta'. Elena si batte nel nome di Giulia

Dal dolore immenso per la sorella perduta tragicamente alla rabbia per i commenti dei politici sui social; dall'ansia per la sorte di una 16enne scomparsa a poche decine di chilometri da casa sua - 'vi prego, non di nuovo' scrive sui social - fino all'impegno e alla mobilitazione contro la violenza di genere. Una battaglia su più fronti, ma sempre nel nome di Giulia, quella di Elena Cecchettin. Giovanissima ma decisa ha affidato alle storie di Instagram riflessioni sulla vicenda e sulla questione della violenza di genere con una frase che spicca, suonando quasi come un impegno militante: «Io non starò mai zitta. Non mi farete mai tacere». E per essere ancora più chiara: «C'è bisogno di capire che i 'mostri' non nascono dall'oggi al domani. C'è una cultura che li protegge e li alimenta». 

Una battaglia sposata anche dal padre, con un messaggio rivolto a tutte le donne. «Guardatevi bene nella vostra relazione, comunicate col papà, col fratello, con chiunque vi possa dare fiducia. Ma se avete anche solo il minimo dubbio che la relazione non sia quella che voi desiderate comunicatelo, perché è solo in questo modo che avrete salva la vita, per non essere qui a celebrare di nuovo un altro femminicidio». La ragazza si è scontrata anche con ministro dei Trasporti Matteo Salvini, per un post su X. «Se colpevole, nessuno sconto di pena e carcere a vita", aveva scritto il leader della Lega. Il commento di Elena è stato lapidario: "Dubita della colpevolezza di Turetta perché bianco, perché 'di buona famiglia'. Anche questa è violenza, violenza di Stato». La giovane ha poi citato la scrittrice a attivista transfemminista Carlotta Vagnoli quando ricorda come la Lega «insieme a FdI, che però ha scelto l'astensione, a maggio ha votato contro la ratifica della convenzione di Istanbul. Così nel caso voleste altri motivi per comprendere quanto il femminicidio sia un omicidio di Stato». Parole a cui Salvini ha controreplicato con un nuovo post. «Per gli assassini carcere a vita, con lavoro obbligatorio. Ovviamente, come prevede la Costituzione, dopo una condanna in Tribunale, augurandoci tempi rapidi e nessun buonismo, anche se la colpevolezza di Filippo pare evidente a me e a tutti».

Il genere dominante. La propensione del maschio a imperare, in quanto maschio. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 21 Novembre 2023

La violenza contro le donne forse terminerà quando gli uomini che assistono a questi atti brutali la smetteranno di considerare ciò che li differenzia dai propri simili e cominceranno a vedere ciò per cui sono uguali

Non si comincia un articolo con una citazione, specie se è lunga e tanto meno se non rinvia immediatamente a qualche motto del giorno, ma questa descrive in modo direi ineguagliato tutto ciò che assedia e conduce alla fine la vita di una femmina soggetta alla regola maschile: «Una donna, essendo stata tormentata e battuta, la sera prima, dal marito stizzoso e intrattabile di natura, decise di sfuggire alla sua durezza a costo della vita; e appena alzata, messasi a chiacchierare con le vicine come al solito, dicendo loro sommessamente alcune parole per raccomandare le sue cose, presa per mano una sua sorella, la portò con sé sul ponte, e dopo aver preso commiato da lei, come per scherzo, senza mostrare alcun cambiamento o alterazione, si buttò giù nel fiume, dove annegò» (Montaigne, Saggi, XXIX).

Non ci vuol tanto a capire che non abbiamo fatto molto progresso rispetto a quel trascurabile caso cinquecentesco senza nome. Non ci vuol tanto a capire che sono donne uguali a quella, uguali in quanto donne, magari diverse per censo, per cultura, per religione, ma uguali a quella perché soggette alla stessa violenza esercitata sulle donne in quando donne dal maschio in quanto maschio, sono donne uguali a quella le donne che da sempre e ancora oggi sono affidate a una supremazia altrui che non si basa su nessun particolare e contingente squilibrio familiare, su nessun incidente di coppia, su nessuna malformazione parentale, su nessuna patologia relazionale, ma solo e soltanto sul puro fatto dell’appartenenza al genere dominante, il genere maschile.

L’adolescente pur nata tra computer e cellulari pieni di pop up che propugnano la parità di genere è sola come la donna di cinquecento anni fa su quel ponte quando il fidanzatino si prende il diritto di stuprarne l’immagine nella chat coi compagni. La ragazza pur cresciuta in un ambiente civile e rispettoso continua a ricevere ceffoni e insulti e direttive di vita dall’omologo ben educato in tutto, ma in cui sopravvive, identica a quella millenaria che ancora lo governa, la propensione a imperare in quanto maschio sulla vita di quella creatura. 

La matura donna protetta dall’agiatezza borghese e pure garantita dai rispettosi protocolli di genere è ancora quella che sopporta con gli occhi abbassati il comprensibile momento d’ira sopraffattoria del consorte per il resto impeccabile, per il resto buono, per il resto generoso, per il resto affettuoso, ma inevitabilmente e appunto comprensibilmente esposto al pungolo della propria natura essenziale quando questa è molestata dall’insubordinazione femminile. 

Non è la compostezza incivilita del maschio occidentale del ventunesimo secolo, non è la sua presunta estraneità ai modi violenti e di discriminazione di cui altri si rende responsabile, non è il suo singolare ed eventuale distacco persino morale dai costumi di sopraffazione altrui, che fa diverso il maschio in quanto maschio rispetto ai maschi che invece concretamente maltrattano le donne in quanto donne. Il maschio che si sente diverso, perché non violento, rispetto al maschio che fa violenza su una donna non ha capito nulla. 

Ed è purtroppo, questa, una convinzione assai diffusa. Come se chi non ha schiavi in una società schiavista potesse considerarsi assolto giusto perché in casa propria non ha nessuno in catene; come se potesse non pesargli e non gravare sulla sua coscienza il fatto che suoi simili, esercitando un potere sopraffattorio in nome di una superiorità che egli stesso condivide, anche se non la esercita, di fatto lo accomunano a sé stessi. Come se non fosse un problema “suo”, giusto perché gli schiavi sono di altri.

Vale esattamente per la violenza degli uomini sulle donne. Il maschio tutt’al più soffre per la violenza inflitta a quelle. Dovrebbe soffrire per la violenza che fanno quelli, che è una cosa diversa: perché la fanno in nome di un potere che è anche di chi compatisce le vittime. Potrà forse finire, questa violenza senza fine, quando i maschi che assistono alla violenza dei maschi sulle donne la smetteranno di considerare ciò che li “differenzia” dai propri simili (la delinquenza, la malattia, la pazzia) e cominceranno a vedere ciò per cui sono uguali. 

Echo chamber. Non saranno la cultura del linciaggio e il fanatismo pedagogico a fermare la violenza (di qualunque genere). Francesco Cundari su L'Inkiesta il 20 Novembre 2023

La sacrosanta campagna sull’importanza di educare i figli maschi a rispettare le donne, invece che le figlie femmine a stare attente, si è tramutata in un fiume di accuse alla famiglia del presunto responsabile dell’ennesimo femminicidio. Quasi che l’educazione fosse una forma di ingegneria genetico-pedagogica

Da due giorni i social network e gran parte dei mezzi di comunicazione sono occupati da una folla in cerca di un capro espiatorio. Una reazione che solo in parte può essere attribuita a un moto di sincera indignazione dinanzi alla notizia dell’ennesima donna, Giulia Cecchettin, assassinata in modo atroce.

Da due giorni politici, giornalisti e personaggi dello spettacolo fanno a gara per contendersi i favori di quella folla, soffiando sul fuoco che dovrebbero invece cercare di circoscrivere. Penso per esempio a come, in un attimo, la sacrosanta campagna sull’importanza di educare i figli maschi a rispettare le donne, invece che le figlie femmine a stare attente, si sia tramutata nell’orrendo fiume di accuse e insulti rivolti alla famiglia del presunto responsabile dell’ultimo, ennesimo, orribile femminicidio.

Sì, ho detto «presunto», anche se per l’ora in cui questo articolo sarà online potrebbe anche avere già confessato: pazienza, è un piccolo tributo che pago volentieri alla civiltà del diritto, e se lo pagassimo tutti più spesso l’Italia sarebbe un posto migliore (e comunque, in compenso, ho detto «femminicidio», un po’ perché sono un vile e un po’ perché si può combattere solo una battaglia alla volta).

Prendersela con i genitori del presunto assassino, persone precipitate in questo momento in un abisso di angoscia e di dolore che noialtri non possiamo nemmeno immaginare, non denota soltanto una spaventosa mancanza di sensibilità. È anche il frutto di una certa concezione del potere delle parole, della retorica e delle prediche – è l’altra faccia del fanatismo per le nuove ortodossie linguistiche oggi tanto di moda – quasi che l’educazione fosse una forma di ingegneria genetico-pedagogica, capace di programmare un essere umano come un computer. Come se un uomo di ventidue anni non fosse responsabile delle proprie azioni. Come se davvero, per cancellare la violenza dal mondo, bastassero genitori più attenti, e magari qualche ora in più di educazione civica, educazione sessuale o educazione sentimentale (ma poi resteranno cinque minuti per fare anche un po’ italiano e matematica?).

Il dolore incommensurabile e inconcepibile dei famigliari della vittima non sarà certo alleviato da un simile spettacolo, come del resto confermano le parole altissime con cui alcuni di loro hanno espresso solidarietà ai genitori del ragazzo che è appena stato arrestato. Parole che dovrebbero far riflettere i tanti che in questi giorni si sono messi in caccia di un qualche fantoccio da bruciare sulla pubblica piazza per esorcizzare il male che ci circonda: prima rivolgendosi contro le famiglie, poi contro la scuola, poi contro la destra (da sinistra) o la sinistra (da destra), poi contro la politica tutta, infine contro gli uomini in generale.

Possibile che tra tanti discorsi sulla mascolinità tossica, la cultura dello stupro e l’importanza dell’educazione, nessuno si renda conto di quanto diseducativa e contraddittoria sia una simile reazione collettiva – intrisa di una violenza cieca, figlia di quella stessa incapacità di vedere le sofferenze inflitte agli altri in nome del proprio dolore, vero o presunto, che caratterizza tanti casi di cronaca – eppure così comune e diffusa in Italia (in tutto il mondo, certo, e specialmente sui social network, ma in Italia di più)? La chiamerei la cultura del linciaggio.

La logica delle camere d’eco tipica dei social network, com’è noto, fa sì che ciascuna bolla si radicalizzi fino a produrre la versione di sé più insopportabile per gli altri. E così proprio dove ci sarebbe più bisogno di quel cambiamento educativo e culturale di cui tanto si parla si generano invece solo chiusure preconcette, atteggiamenti difensivi e pure di peggio, e dove non ce ne sarebbe bisogno si fa a gara nel fingere di autoflagellarsi per meglio flagellare gli altri, bruciando i ponti su cui dovrebbero passare gli educatori di domani.

Dinanzi a questo genere di reazioni politici e giornalisti dovrebbero usare la propria influenza per calmare gli animi e far ragionare le persone, non per aizzarle, il che alla lunga non è neanche detto che farebbe prendere loro meno voti o vendere meno copie, ma nell’immediato è sicuro che farebbe prendere loro meno cuoricini.

Guiasplaining. La fine degli intellettuali, e l’ascesa dei cercatori di consenso. Guia Soncini su L'Inkiesta il 22 Novembre 2023

L’omicidio di Giulia Cecchettin, le parole della sorella, il posizionamento sui social e un dibattito pubblico dove hanno tutti torto

Sono le 20 e 55 di lunedì, quando sul mio telefono compare il messaggio che mai avrei pensato di leggere. Sono le 13 e 35 di martedì quando mi metto a recuperare “Otto e mezzo” e mi tocca dare ragione, in differita, alla mia amica del messaggio impensabile.

Il messaggio della mia amica diceva: oddio, Travaglio dice cose sensate. Il mio messaggio, inviato ieri in un momento di debolezza, dice: avevi ragione su Travaglio. È solo stanchezza? Siamo sfiancate da questi giorni di entomologia delle reazioni maschili? Forse, e tuttavia.

Sono piuttosto incosciente, e troppo vecchia per essere suggestionabile dai «siete tutte in pericolo, vogliono ucciderci tutte» delle ragazze che fatturano su Instagram alimentando la paura delle altre ragazze: non ho mai avuto paura di tornare a casa da sola, di girare per strada di notte (nemmeno a Bologna, dove tra buche e mancanza di luci si rischia se non la vita almeno le caviglie), non ho mai (incoscientemente) pensato che il mio essere esasperante potesse indurre il mio accompagnatore a farmi del male.

Da alcuni giorni, la cosa più vicina alla paura che conosco è quella che mi accompagna nell’aprire i giornali, i social, i luoghi in cui gli uomini ci spiegano che si sentono responsabili o non si sentono responsabili. Non è paura, lo so: è sfinimento d’un mondo in cui tutto viene definito narcisismo maschile tranne ciò che lo è.

C’è una ruota di pavone più evidente di quella del maschio che dice che lui non ha mai paura, noialtre sempre? Che anche se non si parla di lui decide che al centro del discorso c’è lui? Quelli che è-colpa-anche-mia e quelli che mia-proprio-no si percepiscono categorie contrapposte, ma sono identici esponenti dell’egocentrismo di massa.

Speculari. Il noto picchiatore di fidanzate che posta il suo bravo «Scusaci, Giulia». L’amico che mi tiene un’ora al telefono spiegandomi indignato che come si permettono di scusarsi a suo nome, lui mica ha mai fatto del male a nessuna.

L’altra sera, stremata dai posizionamenti, ho chiesto a uno di questi derelitti perché si sentisse chiamato in causa. Quando mi ha sottoposta al suo monologo di maschio che rifiuta di sentirsi in colpa, avevo appena finito di rimirare un tweet incredibile.

Il tweet era il fermoimmagine della sorella di Giulia Cecchettin che parlava coi giornalisti. La tizia che l’aveva postato diceva che lei, fosse morta sua sorella in modo atroce, non avrebbe avuto la forza di mettersi l’eyeliner (eyeliner con cui era truccata Elena Cecchettin).

La tizia aveva chiuso i commenti, e quindi c’erano novecento e spicci persone che, pur di dire la loro, l’avevano ritwittata chiosando coi loro aneddoti di lutto: io quando è morta mia madre sono andata dal parrucchiere eppure soffrivo tantissimo, e altri autobiografismi puntualizzatori.

Ho tentato di spiegare al mio amico che la sua indignazione per la chiamata a correo mi sembrava prestarsi alla stessa domanda che mi facevo davanti ai novecento retweet di aneddotica luttuosa: perché vi sentite chiamati in causa sempre e comunque?

Perché pensate che ogni generalizzazione vi riguardi? Perché ci tenete a specchiarvi in ogni superficie riflettente? Perché scambiate lo slogan del giorno per qualcosa che vada puntualizzato? Non potete non sapere che lo slogan di oggi sarà dimenticato dopodomani, su.

Ho detto al mio amico che, se qualcuno scrive che le donne sono tutte troie, io mica mi sento chiamata in causa, mica sento il bisogno di puntualizzare che non ho mai preso soldi per copulare. Lui mi ha accusata di astrattismo filosofico, ed è tornato a borbottare contro non so quale editorialista che aveva scritto che erano tutti colpevoli, senz’accorgersi che lui e l’editorialista volevano identicamente stare al centro del dibattito, uno dicendo «io sì» e l’altro dicendo «io no».

Mi sono tornati in mente ieri mattina, quando ogni giornale aveva il suo bravo scrittore che diceva che tipo di problema rappresentino i maschi per l’esistenza in vita delle femmine, da Paolo Giordano sul Corriere a Francesco Piccolo su Repubblica. Su Domani c’era Jonathan Bazzi che faceva un interessante discorso sull’eccesso di semplificazione necessario per avere successo sui social.

(Travaglio che dice sensatamente che ammazzare le donne è un tradimento sia dei valori di destra sia di quelli di sinistra e comunque come si fa ad avere certezze su come risolvere questo strazio; Bazzi che dice sensatamente che, con lo sloganuccio che liquida ogni tentativo di dire alle donne come difendersi come «colpevolizzazione della vittima», stiamo privando le ragazze del libero arbitrio e degli strumenti con cui tutelarsi: ricorderò questa settimana come quella in cui gli autori più impresentabili dicevano le cose più ragionevoli).

Ci ho ripensato perché, prima ancora di leggerne l’articolo, mi è comparso un video Instagram di Bazzi – uno il cui io narrante è maschile quanto quello di Francesco Piccolo: quello è «maschio meridionale che guarda i culi delle donne», questo è «maschio gay sieropositivo». Nel video Bazzi, guardando nella telecamera con la barba in primo piano, diceva: «Arriveranno le accuse di mansplaining, ricordo che io non sono maschio, non mi definisco maschio».

Non ho mai usato la categoria del mansplaining in vita mia (anche perché, tra me e qualsivoglia maschio, sarò sempre io quella che spiega prepotentemente cose: non è questione di gameti ma di brutto carattere, un settore nel quale sono imbattibile), e non avrei quindi mai detto che Bazzi nel suo articolo pontifica in-quanto-maschio. Però, ecco, mi sembra anche eccessivo pretendere che, se domani qualcuno ammazza Bazzi, si parli di femminicidio perché, ehi, lui mica si definiva maschio.

A proposito di quella parola orrenda e inutile che è femminicidio. Della stessa puntata che ci ha costrette a dar ragione a Travaglio, era ospite anche Serena Dandini. Che, col tono di una che ha fatto la resistenza sulle montagne e si trova davanti un’altra reduce, ha detto a Lilli Gruber: «Tu lo sai bene perché eri con me all’inizio, quando dodici anni fa abbiamo cominciato a usare questa parola, “femminicidio”, che quasi scandalizzava: come oggi scandalizza “patriarcato”, non so se hai notato».

Avrei volentieri borbottato «ma chi si scandalizza, Sere’, anche meno», ma purtroppo la stavo guardando in differita, e sui giornali c’era già l’indignazione della Meloni perché la Gruber, in un inciso che era evidentemente una battuta, si era chiesta se farsi chiamare «il presidente» fosse una scelta patriarcale, e come vi permettete di dire patriarcato a me che il padre non ce l’ho.

È incredibile la tenacia con cui, in questo secolo, in ogni dibattito riescono tutti ad avere torto. Gli uomini che si ritengono responsabili di ogni crimine commesso da un maschio. Quelli che si offendono perché loro responsabili non sono. Le disinvolte utilizzatrici della categoria «patriarcato». Quelle che si offendono perché tu a me patriarcato non me lo dici.

Ogni dibattito è pieno di torti e di sciatterie, e temo che, più che il patriarcato, ne sia responsabile la fine degli intellettuali, sostituiti da cercatori di consenso che, se vedono una ragazza devastata dal dolore che ripete, con la mancanza di strumenti culturali d’una ventiquattrenne, slogan che ha orecchiato su Instagram, allora si dividono in chi la eleva a faro culturale e chi la accusa di voler demolire l’ordine sociale.

Nessuno (tranne Travaglio, pensa te cosa mi tocca dire) che si senta in dovere di formulare un pensiero più articolato d’una ventiquattrenne la cui qualifica intellettuale è: parente della vittima. Tutti che si accodano, terrorizzati di venire esclusi dal tema del giorno, e di essere i dinosauri superati dalla modernità, come i dirigenti di Walgreens che si precipitavano a offrire soldi a Elizabeth Holmes per un macchinario medico non funzionante perché, ehi, è la Silicon Valley, mica vorremo restare indietro. (Sì, ho visto “The Dropout” in ritardo, e sì, l’ho trovato una metafora dei giornali all’inseguimento dei social).

Tutti smaniosi d’avere una cassetta della frutta su cui salire per dirci che loro in quanto maschi sono colpevoli, che loro al funerale della mamma si erano vestiti bene, che loro hanno la soluzione per un problema irrisolvibile, che loro saranno pure maschi ma sono beneducati, che il loro cugino una volta picchiava la moglie e loro l’hanno fermato, che la ventiquattrenne e il suo pensiero filosofico vanno studiati nelle scuole.

Al cui proposito. I social sono pieni di: no, non facciamo un minuto di silenzio, facciamo come dice Elena, bruciamo tutto. Spero che questo delirio resti nei telefoni e non venga portato sabato nelle piazze. Capisco che eventuali scontri con vittime sarebbero ottimi per il fatturato delle docenti di femminismo su Instagram, ma insomma, ragazze: cercate di badare a voi stesse, e non agli slogan di pronto commercio.

Agli slogan e ai posizionamenti travestiti da sensibilità. Sembra ieri che si posizionavano dicendoci perché era importante il film della Cortellesi, o perché avevamo il dovere d’essere migliori di Giambruno, e non c’è proprio nessuna differenza col posizionarsi rispetto al cadavere d’una poverina che ha fatto una morte orrenda perché era stata fidanzata col tizio sbagliato. Non che sia meglio di loro, io, che sto qui a rimirare un riflesso che non so più se è mio o di tutti loro che si specchiano.

"Simboli satanici sulla felpa". Scoppia la polemica sulla sorella di Giulia Cecchettin. Il consigliere regionale veneto Stefano Valdegamberi scrive un commento sulla sorella di Giulia Cecchettin e scatena la polemica. Zaia si dissocia totalmente e la Lega precisa: "Non è iscritto al partito". Marco Leardi il 20 Novembre 2023 su Il Giornale.

"Quella felpa con certi simboli satanici aiuta a capire molto… Spero che le indagini facciano chiarezza". Con un post pubblicato sui social, il consigliere regionale del Veneto Stefano Valdegamberi ha innescato una polemica a dir poco accesa. Nelle scorse ore, l'esponente politico e imprenditore aveva infatti affidato a Facebook alcune sue considerazioni in riferimento all'intervista che Elena Cecchettin, sorella di Giulia, la 22enne brutalmente uccisa, aveva rilasciato in tv. "Ho ascoltato a Dritto e Rovescio le dichiarazioni della sorella di Giulia. Posso dire che non solo non mi hanno convinto per la freddezza e apaticità di fronte a una tragedia così grande ma mi hanno sollevato dubbi e sospetti che spero i magistrati valutino attentamente", aveva scritto.

Il post choc e le polemiche

"Mi sembra un messaggio ideologico, costruito ad hoc, pronto per la recita", aveva inoltre contestato il consigliere regionale di maggioranza, puntando poi l'attenzione su "quella felpa con certi simboli satanici" indossata da Elena. "Aiuta a capire molto…spero che le indagini facciano chiarezza", aveva aggiunto al riguardo. E ancora: "Società patriarcale?? Cultura dello stupro?? Qui c’è dell'altro? Basta andare a vedere i suoi social e i dubbi diventano certezze. Il tentativo di quasi giustificare l'omicida dando la responsabilità alla 'società patriarcale'. Più che società patriarcale dovremmo parlare di società satanista, cara ragazza. Sembra una che recita una parte di un qualcosa predeterminato e precostituito. Forse mi sbaglio ed è solo la mia suggestione...". Parole choc che hanno scatenato un vespaio di polemiche.

Zaia: "Mi dissocio totalmente"

Sull'episodio è infatti intervenuto anche il presidente del Veneto, Luca Zaia. "Ho avuto modo solo in questo momento di leggere quanto scritto dal consigliere regionale Stefano Valdegamberi, nelle sue pagine social. Sono parole dalle quali mi dissocio totalmente, nei concetti espressi e nelle modalità", ha osservato il governatore. "Penso - ha aggiunto - che sia il momento del dolore e del suo rispetto, non certo quello di invocare l'intervento di magistrati sulle dichiarazioni personali della sorella di una ragazza che ha perso la vita in questo modo tragico". L'esponente leghista ha quindi ribadito la propria attenzione contro i femminicidi. "Siamo tutti chiamati a una riflessione profonda, intima, e soprattutto a combattere ogni forma nella società di violenza sulle donne. Giulia è la 105esima vittima innocente in questo Paese; c'è un grande lavoro da fare per formare l'intera comunità; ben venga il lavoro nelle scuole, sulle nuove generazioni e sull'intero strato sociale", ha concluso.

Le reazioni politiche

In una nota, la Lega aveva inoltre smentito alcune diciture che avevano presentato Valdegamberi come un esponente del partito. "Stefano Valdegamberi non è iscritto alla Lega e non è mai stato un militante della Lega", ha fatto sapere il Carroccio. Assai critiche le reazioni Pd, scagliatosi contro il consigliere regionale. "Nel pieno di una tragedia come quella che ha investito la famiglia Cecchettin, è indegno che un rappresentante delle istituzioni, come dovrebbe essere il consigliere regionale Stefano Valdegamberi, si esprima con farneticazioni che mettono sotto accusa la sorella di Giulia", ha dichiarato il capogruppo del Partito Democratico in consiglio regionale del Veneto, Vanessa Camani.

"Modelli sbagliati...". Valdegamberi insiste

Interpellato dall'Adnkronos, l'imprenditore ed esponente politico ha quindi argomentato ulteriormente le proprie posizioni, senza riuscire però a stemperare le polemiche. "Il mio commento? Mi sono espresso nei confronti di una persona, la sorella di Giulia Ceccherin, che ha praticamente scagionato il vero colpevole dell'omicidio, mettendo invece la croce addosso a tutti noi, ai maschi. Ma io non mi sento né colpevole, né un mostro...", ha spiegato Valdegamberi. "Io - ha continuato - non credo che si possa dire che è un fatto sociale, le responsabilità sono individuali, casomai dobbiamo porci il problema della mancanza di valori, in famiglia, ad esempio".

L'imprenditore ha quindi puntato il dito contro chi invece segue modelli sbagliati, in particolare i più giovani: "Alcuni prendono a modello pure i rapper che incitano alla violenza. E molti pensano che in questa società tutto è dovuto, che si possa fare tutto. E questo non è solo un problema del maschio", ha affermato. Secondo il politico veneto, modelli sbagliati sarebbero anche quelli mostrati dalla sorella di Giulia Ceccherin: "Non è difficile vedere qual è il suo mondo. Sui social lei mostra immagini raccapriccianti, allusioni sataniche, persone ritratte sanguinanti e seghe elettriche... e allora mi domando come si possa salire su un piedistallo e fare la lezioncina al maschio, ma forse sono io che sono all'antica", ha insistito.

Giulia Cecchettin, il Pd strumentalizza il dolore della sorella. "Progetto politico ideologico di Elena Cecchettin". Il dubbio di Buonamici e della psicoterapeuta. Davide Vecchi su Il Tempo il 21 novembre 2023

A volte bisogna avere la decenza di stare zitti. Per rispetto di Giulia Cecchettin, di un padre a cui hanno ucciso la figlia, di un ragazzo e una ragazza a cui hanno ucciso la sorella. Chi oggi attacca Elena Cecchettin è senza vergogna. Queste poche righe sono state scritte dal Partito Democratico. Le riporto fedelmente perché valgono anche per il Pd. La sindrome dei compagni sempre pronti a correggere gli altri su errori che commettono loro. La solita supponenza di questa sinistra incapace di valori e alla estenuante ricerca di campagne utili a fare propaganda, ora persino con l’omicidio di una 22enne. 

Senza vergogna è usare le parole espresse da Elena poche ore dopo aver perso la sorella. Ha sfogato la sua legittima rabbia, il suo dolore. Avrebbe dovuto ponderare le parole? Forse. Certo, dire «gli uomini devono fare mea culpa, anche chi non ha mai fatto niente, anche chi non ha mai torto un capello» è suonato eccessivo, ma come non comprendere? Parole espresse nel momento in cui dolore, rabbia e sconforto si mischiano, incontenibili. Comprendo Elena. La giustifico. Avrebbe potuto gridare le peggiori nefandezze immaginabili. E nessuno avrebbe dovuto commentare ma semplicemente rispettare il dolore. Invece ci sono i vertici di un partito che tenta di cavalcare quel dolore. Senza vergogna.

 Le femministe di sinistra si scagliano contro Salvini. Dal Pd a Verdi-Sinistra Italiana non mancano le critiche per il post di Matteo Salvini dopo la cattura di Filippo Turetta, l'assassino di Giulia Cecchettin. Francesco Curridori il 19 Novembre 2023 su Il Giornale.

La sinistra parte all'attacco del vicepremier Matteo Salvini che, dopo la cattura di Filippo Turetta, ha twittato: "Bene. Se colpevole, nessuno sconto di pena e carcere a vita".

La prima ad criticarlo è stata Elena Cecchettin, sorella della vittima, che su Instagram, ha scritto: "Ministro dei Trasporti che dubita della colpevolezza di Turetta perché bianco, perché 'di buona famiglia'. Anche questa è violenza, violenza di Stato". Pronta la replica di Salvini: "Per gli assassini carcere a vita, con lavoro obbligatorio. Per stupratori e pedofili - di qualunque nazionalità, colore della pelle e stato sociale - castrazione chimica e galera. Questo propone la Lega da sempre, speriamo ci sostengano e ci seguano finalmente anche altri". Da questo momento in poi è partita la controffensiva della sinistra."Salvini intende castrare gli stupratori prima o dopo la violenza? Nel primo caso pensa ad una operazione di massa?", si chiede Luana Zanella, capogruppo di Alleanza Verdi e Sinistra alla Camera, che aggiunge: "Triste che un leader politico non rinunci alla sua fetta di propaganda neanche in un giorno così triste". L'esponente della sinistra radicale critica Salvini che "torna sul refrain punitivo e vendicativo della castrazione chimica per gli stupratori" e "non riesce proprio a capire che il problema è la prevenzione e soprattutto una trasformazione profonda della forma mentis?". Secondo Zanella, Salvini "forse dovrebbe umilmente chiedere venia per tutte le volte in cui si è reso complice di una cultura veteropatriarcale, o si è dimenticato delle bambole gonfiabili esibite per attaccare politicamente la ex Presidente della Camera, per non parlare del vanto "celodurista!!". Ancora più forte è il commento di Elisabetta Piccolotti, deputata di AVS e moglie di Nicola Fratoianni, che sui social non usa mezze misure col leader della Lega: "Salvini pensa che le donne siano senza cervello? Crede davvero che possiamo sentirci più sicure perché invoca carcere a vita e pene accessorie? Filippo Turetta ha ucciso Giulia perchè confidava di evitare l'ergastolo? Una vergogna avere uomini ignoranti e ipocriti al Governo".

Non meno tenera è l'eurodeputata del Pd e vicepresidente del Parlamento europeo, Pina Picerno, che su Facebook scrive:"Caro ministro Salvini, non ce ne facciamo niente del tuo post del giorno dopo, caro ministro Valditara, non serve a niente l'ennesimo tavolo, cara ministra Roccella, di un nobile carteggio tra noi, come vede, non ce ne facciamo niente, cara presidente Meloni, senza femminismo il tetto di cristallo rotto diventa solo l'ennesimo paravento". Secondo la Picerno, la lotta al femmincidio e alla violenza di genere non possono non passare dalla ratifica e dalla "piena applicazione della Convenzione di Istanbul", oltre che attaverso una"lotta reale ai modelli patriarcali culturali, sociali ed economici" che si esprime rendendo "obbligatoria l'educazione sessuale e all'affettività nelle scuole". La Picerno, poi, sentenzia: "Non c'è un fattore che serve meno in questa battaglia e mi dispiace dirlo ma piangere il giorno dopo, l'ennesimo, tragico femminicidio sui social serve a poco". L'eurodeputata dem ritiene centrale "impedire che la prima violenza sia quella istituzionale sul corpo delle donne" e, allo stesso modo, "è centrale uscire dalla trappola della vittimizzazione secondaria". Secondo la Picerno "il sangue di Giulia Cecchettin e delle donne vittime di violenza e femminicidio, non può essere lavato via".

Anche la senatrice dem Valeria Valente non lesina critiche al vicepremier: "Il ministro Salvini ha chiarito bene come la pensa, semmai ce ne fosse stato bisogno: il suo personale senso della giustizia si confonde con la legge del taglione. E da questa granitica certezza lui soffia sul fuoco del dolore e della rabbia, legittimi e umani in un momento come questo, pensando di racimolare consenso". Per la Valente si tratta di "un gioco meschino e indegno del ruolo e della responsabilità istituzionale che il ministro e vicepremier ricopre". Anche se "la dinamica degli eventi è fin troppo chiara", secondo la senatrice dem, "in uno stato di diritto colpevolezza e pena si determinano nel corso di un processo". Ecco, dunque, perché "Salvini - come chiunque speri di lucrare facile consenso sul dolore degli altri - avrebbe fatto bene a risparmiarci le sue inutili dichiarazioni di ferocia". La Valente non ha dubbi:"Bisogna cambiare proprio questa cultura machista. Chi commette un femmincidio non è un malato, ma un individuo che agisce una cultura patriarcale di possesso e sopraffazione dell'uomo sulla donna".

I 100mila follower, il lutto, le polemiche. La sorella di Giulia Cecchettin è pronta: "Impegno politico". Stefano Zurlo il 21 Novembre 2023 su Il Giornale.

È la sorella delle vittima, ma non sta chiusa nella corazza del dolore. Il dramma che le è cascato addosso ha trasformato la sofferenza in passione e la passione in azione

È la sorella delle vittima, ma non sta chiusa nella corazza del dolore.

Il dramma che le è cascato addosso ha trasformato la sofferenza in passione e la passione in azione. Elena Cecchettin è ormai un personaggio che va oltre i confini di una famiglia segnata da un lutto terribile.

Elena attacca il vicepremier Matteo Salvini, Elena scrive una lettera al Corriere della sera per denunciare la «cultura del patriarcato», Elena diventa a sua volta il bersaglio del consigliere regionale Stefano Valdegamberi, da cui subito si dissocia il presidente della regione Veneto Luca Zaia.

Le gocce di dolore diventano lacrime di rabbia. Ricorda, senza tentennamenti, «i ricatti emotivi» di Filippo a Giulia e quella volta in cui il futuro assassino mitragliava di messaggi le due sorelle, insieme a Milano ad un concerto.

Nel cratere lasciato dalla scomparsa di Giulia, trova la forza per scrivere una lettera al Corriere della sera che più di uno sfogo sentimentale ha la potenza di un manifesto, l'espressione di una posizione senza spazio per la mediazione: «Turetta viene spesso definito come mostro, invece mostro non è. ..I mostri non sono malati, sono figli sani del patriarcato».

Parole dense e durissime, che finiscono per polarizzare l'opinione pubblica. Parole che potrebbero essere pronunciate da una psicologa, da una studiosa, da un magistrato e invece arrivano dalla villetta di Vigonovo, l'epicentro della tragedia, per di più dopo un'attesa estenuante di giorni in cui la speranza scemava sempre di più ma non voleva morire.

Elena ha 24 anni, studia microbiologia a Vienna, è la prima di tre figli, ha una coscienza civile temprata evidentemente da marce e cortei. Da qui nasce la forza che l'ha portata ad attaccare pure Salvini nelle ore cruciali di quello che poteva sembrare un giallo, ancora senza soluzione: «Se colpevole - aveva affermato lui - nessuno sconto di pena e carcere a vita». Durissima la replica di lei: «Dubita della colpevolezza di Turetta perché bianco, perché di buona famiglia. Anche questa è violenza, violenza di Stato». «Lo Stato - rincara la dose in un'intervista a Repubblica on line - non fa abbastanza per prevenire. Non finanzia adeguatamente i percorsi educativi, l'educazione sessuale e affettiva nelle scuole. Lo Stato è complice perché non condanna apertamente questi episodi, non dice le cose che dovrebbe, non rende sicure le donne. Quando la Francia ha previsto il reato di catcalling, in Italia è sembrata una cosa esagerata. Invece sono queste le decisioni che servono».

Quasi una requisitoria. Fra quotidiani e tv: «Gli uomini devono fare mea culpa, anche chi non ha mai fatto niente, anche chi non ha mai torto un capello» dice dagli schermi de La 7.

Un linguaggio e una postura che ricordano in qualche modo quelli di Ilaria Cucchi: la sua lunghissima e faticosissima battaglia per ottenere la verità sulla morte del fratello Stefano. E naturalmente sui social, dove scorrono veleni e malignità, c'è già chi immagina una sua virata, un domani, verso la politica. Un percorso che lei sembra prendere in considerazione: «Sono una studentessa, mi voglio laureare. Ovviamente non lascerò cadere questa cosa, sono sempre stata attiva politicamente, nel futuro ci metterò il mio impegno. Voglio che quello che è successo a Giulia non sia stato invano». Vedremo presto Elena, che ha già 100mila follower su Instagram, candidata?

Per ora, c'è chi polemizza con lei, senza rispettare il momento che imporrebbe comunque discrezione e compostezza. E invece il consigliere regionale Stefano Valdegamberi non si trattiene, puntando il dito anche contro i «simboli satanisti» sulle sue felpe: «Le dichiarazioni di Elena mi hanno sollevato dubbi e sospetti che spero i magistrati valutino attentamente. Il suo mi sembra un messaggio ideologico, costruito ad hoc, pronto per la recita». Zaia, nella cui lista Valdegamberi è stato eletto, si «dissocia totalmente».

Elena si espone. A costo di dividere.

Lo “Stato patriarcale” non c’entra nulla. La sorella di Giulia sbaglia. Lo sfogo di Elena Cecchettin, sorella della giovane vittima, è comprensibile. Ma la stampa non dovrebbe cavalcare il suo dolore e i post su Salvini. Claudio Romiti su Nicolaporro.it il 19 Novembre 2023

Dopo l’atroce scoperta del corpo della povera Giulia Cecchettin, la sorella Elena ha dato sfogo a tutta la sua rabbia postando sui social un lungo e argomentato messaggio. Messaggio che è stato ripreso da gran parte della stampa nazionale. Questo uno dei passaggi salienti del suo pensiero: “Giulia Cecchettin, 22 anni, 103esima vittima del 2023 dello Stato patriarcale italiano, della violenza maschile. Non c’è un solo posto dove puoi essere al sicuro come donna in Italia, non ci sono uomini di cui ti puoi fidare. Una donna ogni 72 ore, amministrazione quotidiana per uno Stato fallito, incapace di proteggere le sue figlie, che non vuole educare i suoi figli”.

Ora, dato il drammatico momento che questa ragazza sta passando per aver perso l’amata sorella, personalmente non mi sento di biasimare in alcun modo il suo più che comprensibile sfogo. Uno sfogo che deriva da una lunga, terribile sensazione di impotenza e di crescente angoscia, culminata nel modo più tragico.

In questo senso, speriamo e confidiamo nel buon senso della politica e delle sue grancasse mediatiche, con particolare riferimento alle forze di opposizione, affinché non si utilizzi il dolore di questa ragazza in modo assolutamente strumentale.

Cosa che, come ho già avuto modo di scrivere su queste pagine, è già avvenuto con la surreale proposta della segretaria del Pd di istituire nelle scuole italiane una sorta di educazione sentimentale, così come recita il titolo di un celebre romanzo di Gustave Flaubert.

D’altro canto, ne abbiamo avuto una formidabile prova durante la pandemia, la sinistra italiana è veramente fenomenale nel creare emergenze o, come in questo caso, ad ingigantirne a dismisura la portata. E sebbene il Tg3, notiziario del servizio pubblico di riferimento, a giorni alterni ci ricorda la strage di donne uccise in ambito familiare – nel 2023 abbiamo da poco superato le 100 vittime, grosso modo in linea con gli anni precedenti -, quest’ultimo si guarda bene dal realizzare un confronto statistico con gli altri Paesi europei. Così, tanto per farsi una idea su ciò che accade al di fuori di un Paese governato dalla solita destra, sporca, brutta e cattiva.

L’omicidio di Giulia: non servono ‘lezioni a scuola’ per evitarlo

Giulia, la sinistra sciacalla la butta in politica

Ebbene, così come abbiamo fatto durante la pandemia, siamo andati a scandagliare i soliti numeri molto antipatici, soprattutto per chi usa la demagogia emergenziale, e li abbiamo analizzati e raffrontati. In estrema sintesi, da questa breve indagine è emerso, con dati riferiti al 2020, che la media dei femminicidi in Europa era di 0,66 per ogni 100.000 abitanti, contro lo 0,38 dell’Italia “patriarcale”. Ma non basta. Tra i quindici Stati che hanno fornito i dati, il nostro Paese si trova in fondo all’elenco, al quartultimo posto, vicinissimo in termini reali agli Stati con meno femminicidi in rapporto alla popolazione.

Basti dire che la Lettonia, in testa a questa ben poco lusinghiera classifica, registra un numero relativo di quasi sei volte superiore a quello italiano. Importanti e prestigiosi Paesi, tra cui Francia, Germania, Austria e Olanda, si trovano ampiamente sopra l’Italia, sebbene non sembra che in quelle lande l’argomento venga utilizzato come strumento di lotta politica.

D’altro canto, tornando alla tragica morte della povera Giulia, nessuno deve sentirsi responsabile di ciò che è accaduto se non chi ha deliberatamente cagionato il suo omicidio. E se lo abbia fatto in base ad un piano deliberato o rispondendo ad un impulso di rabbia incontrollata, poco importa, ahinoi. Come scrisse il grande Sigmund Freud, “la civiltà si basa sul contenimento dei moti istintivi, a tutto vantaggio della società”. Ebbene, chiunque, anche solo per un attimo, libera tali istinti indirizzandoli contro un altro essere umano, in questo caso contro una esile e gentile giovane donna, si pone automaticamente fuori dal consorzio civile. Non credo che ci sia altro da dire. Claudio Romiti, 19 novembre 2023

L’uomo senza valori: ecco la radice della tragedia di Giulia Cecchettin. Emanuele Mastrangelo il 19 Novembre 2023 su Culturaidentita.it

Catturato finalmente Filippo Turetta, l’assassino di Giulia Cecchettin. Era scappato in Germania, ma è stato raggiunto dalla giustizia. Ora finalmente sapremo cosa ha spinto la sua mano a mettere fine alla vita della fidanzata, accoltellata e gettata in un lago.

Di certo, finora, c’è quello che traspare esteriormente da questa tragedia: dietro la violenza non c’è forza, ma debolezza estrema, fragilità, narcisismo e frustrazione. Questa la conclusione a cui si giunge guardando alla tristissima vicenda dell’omicidio di Giulia Cecchettin, discussa a «Chesarà…» del 18 novembre su RaiTre. Alla trasmissione diretta da Serena Bortone ha partecipato anche il direttore di «CulturaIdentità» Edoardo Sylos Labini.

«Non credo che il problema sia la cultura patriarcale di destra» taglia corto Sylos Labini rispondendo a Peter Gomez e alla Bortone, che invece hanno posto l’accento su di essa. «Dietro alla polemica sull’educazione sessuale c’è stata una battaglia politica che nulla aveva a che fare con la violenza contro le donne. La realtà è che è proprio una mancanza di educazione tradizionale a portare a queste tragedie. Ho fatto un editoriale intitolato “le donne non si toccano nemmeno con un fiore” perché era una di quelle frasi delle generazioni passate. Oggi invece questo manca, nell’educazione all’interno delle nostre famiglie, poi anche nelle scuole».

Il rovesciamento dei rapporti di forza fra le due metà del cielo è quello che innesca simili tragedie. «Oggi il sesso debole è quello maschile» continua Sylos Labini «E ha smarrito la propria identità. Il maschio per definizione deve difendere la propria donna, proteggerla e non mettersi in competizione. Ma oggi i giovani hanno perduto questi valori perché si sentono più deboli delle ragazze e hanno un complesso di inferiorità».

Gli dà ragione Paolo Crepet, che riconosce come oggi «violenza e bullismo siano in maggioranza provenienti dal lato femminile della società. Dietro al bullo, c’è la mamma del bullo».

«Il benessere non ci ha portato sentimenti. I giovani di questa generazione non sopportano la minima frustrazione». Denuncia Paolo Crepet. «In ventidue anni ci sono stati milioni di “sì”, milioni di “fai pure”, milioni di “poverino, sennò…”, e tutto questo ha indebolito questa generazione. Noi abbiamo una scuola azzerata, dove si fa fatica addirittura a dare i voti».

E non è un caso che i dati statistici smentiscano la narrazione del «patriarcato» come causa del problema. I dati raccolti dall’European data journalism network (Edjnet), sotto la direzione del Mediterranean institute for investigative reporting (Miir) mostrano come il più alto tasso di omicidi in cui la vittima è una donna in rapporto alla popolazione totale avvenga nei paesi Baltici (il triste primato è della Lettonia), seguita non dai paesi considerati «arretrati» dalla vulgata radical chic, e cioè quelli mediterranei, ma da altre nazioni dell’Europa centrosettentrionale. La «avanzatissima» Olanda ha un tasso più che doppio rispetto alla «arretrata» Grecia. E l’Italia, con buona pace delle narrazioni da cinema neo-neorealista, si piazza per fortuna agli ultimi posti in questa classifica dell’orrore, poco sopra la Spagna e la Grecia.

Dunque i discorsi su «patriarcato» e «uomini potenti» stanno a zero: certo, un inasprimento delle pene può essere d’aiuto, dice Sylos Labini, anche se la radice del problema è culturale: «Un uomo potente può avere tante donne, ma essere gentile e galante con tutte» dice Sylos Labini. Per uscire da questa spirale, l’uomo deve ritrovare se stesso, la propria autostima e il proprio ruolo nel mondo: «L’uomo non si deve mai mettere in competizione con la propria donna, e il caso di questa tragedia lo dimostra: l’assassino era geloso che Giulia stesse avendo successo nei propri studi».

"Smettiamo di pensare la società gender fluid. Così potremo iniziare a educare i sentimenti". È tra i più importanti psicoanalisti italiani: "Per insegnare il rispetto va riconosciuta la differenza tra uomo e donna. Le lezioncine in classe? Inutili. E i genitori sono troppo compiacenti con i figli". Maria Sorbi il 21 Novembre 2023 su Il Giornale.

L'uccisione di Giulia impone una riflessione collettiva. Sui giovani, sui genitori, sui valori che predichiamo e su quelli che invece dimostriamo a fatti. Ci aiuta a mettere a fuoco le vie per «correggere il tiro» Massimo Ammaniti, psicoanalista e medico neuropsichiatra infantile, luminare sulle tematiche dell'età evolutiva.

Professor Ammaniti, l'esigenza di una rivoluzione culturale è evidente. Ma crede si stia seguendo la strada giusta?

«Si parla con troppa scioltezza di fluidità e la cosa mi lascia piuttosto perplesso. Le differenze di genere ci sono, non le possiamo cancellare né dobbiamo farlo. Sono d'accordo nel dire che non vadano estremizzate ma vanno riconosciute».

Perché lo dice parlando dell'assassinio di Giulia?

«Perché la psicologia dell'uomo e della donna è molto diversa e non possiamo non tenerne conto. Una ricerca dell'università di Cambridge ha dimostrato come nella donna sia molto più spiccata la capacità di immedesimarsi nell'altro e come invece l'uomo sia meno elastico in questo. E infatti vediamo come Giulia abbia cercato di capire il disagio dell'ex ragazzo e gli sia andata incontro, calandosi nei suoi panni. Filippo invece è rimasto imbrigliato nel suo narcisismo, in un'idea di realtà che aveva nella sua testa ma che non esisteva più».

Quindi la vera svolta culturale per prevenire tutto questo, dove sta?

«Riconosciamo le differenze di genere, il rispetto dell'altro. Capiamo l'importanza dell'empatia».

La sorella di Giulia parla di una società patriarcale. È d'accordo?

«I femminicidi ci sono, è innegabile. Accade molto meno spesso che una donna uccida un uomo. Nelle scuole il bullismo contro disabili e ragazze è marcatamente maschile. Spesso, dietro ai delitti, si cela l'idea che in fondo ci sia una responsabilità della donna. Che provocava, che fuggiva dal suo ruolo. Si enfatizzano spesso alcuni aspetti maschili come positivi: la potenza fisica, il dominio. Non si dice mai che la sensibilità è un valore più importante. Penso al caso di cronaca dei fratelli Bianchi, condannati all'ergastolo per l'omicidio di Willy. Fisicamente potentissimi, emblema della violenza. Con la madre che li compiaceva».

Ecco, i genitori. Cosa sbagliano? Perché non riescono a proteggere i figli e a insegnare il rispetto?

«I genitori devono smettere di compiacere i figli. È ora che imparino a gestire il contrasto con loro. Le famiglie hanno uno, al massimo due figli, e li tengono sotto la campana di vetro. In particolar modo, le mamme dei figli maschi li mettono sul piedistallo in maniera eccessiva, sono genuflesse davanti a loro. Il figlio maschio viene sempre giustificato».

La cronaca racconta di 'bravi ragazzi' che d'improvviso diventano killer. Quali sono i segnali di un rapporto amoroso malato?

«La possessività, la gelosia eccessiva e il controllo sono tre componenti che possono portare alla degenerazione del rapporto. Spesso si confonde la gelosia con l'amore. Amore vuol dire occuparsi della persona che si ha a fianco rispettando la sua individualità e la sua libertà. Tutto ciò che è controllo fa male: geolocalizzazione, spunta dei messaggi, verifica degli orari e degli spostamenti. E può essere un campanello d'allarme».

Cosa pensa dell'ora di educazione ai sentimenti nelle scuole?

«Un intervento serve, senza dubbio. Purché non sia la lezioncina tenuta da qualche prof dalla cattedra. Se dici a una classe una frase del tipo: 'I maschi devono rispettare le ragazze', stai pur certo che entra da un orecchio e esce dall'altro. Serve piuttosto un lavoro mirato, di gruppo in cui ragazzi e ragazze si possano calare gli uni nei panni dell'altro. Però non so se abbiamo insegnanti adatti a farlo. Bene quindi introdurre nelle scuole psicologi o influencer con un progetto strutturato». Maria Sorbi

Giulia Cecchettin, la sorella: "Turetta figlio sano della società patriarcale". Libero Quotidiano il 20 novembre 2023

Sono durissime le parole di Elena Cecchettin, la sorella di Giulia Cecchettin trovata morta sabato in un canalone vicino al lago di Barcis. A ucciderla il fidanzato Filippo Turetta, arrestato domenica mattina in Germania dopo una fuga di una settimana. 

Elena è stata intervistata davanti alla loro casa di Vigonovo, in provincia di Venezia, in diretta da una inviata di Dritto e rovescio su Rete 4. "Volevo lanciare un messaggio e spero possa essere d'aiuto a più persone possibili. Filippo Turetta è stato descritto da tutti come un mostro, ma lui mostro non è. Perché mostro è l'eccezione alla società, quello che esce dai canoni normali della nostra società. Lui invece è un figlio sano della società patriarcale che è pregna della cultura dello stupro".

In studio il conduttore Paolo Del Debbio ascolta in silenzio. "La cultura dello stupro - scandisce la sorella di Giulia - è quell'insieme di azioni che prevedono e sono volte a limitare la libertà della donna. Come controllare un telefono, come essere possessivi, come fare catcalling, ed è una struttura che beneficia tutti gli uomini. Non tutti gli uomini sono cattivi, mi viene detto spesso. Sì è vero, però in questi casi sono tutti uomini e tutti gli uomini comunque traggono benefici da questo tipo di società".

"Tutti gli uomini devono essere attenti, devono richiamare l'amico che fa catcalling alle passanti, devono richiamare il collega che controlla il telefono alla ragazza. Dobbiate essere ostili a questi comportamenti che possono sembrare banalità ma sono il preludio del femminicidio. Il femminicidio non è un delitto passionale ma un delitto di potere, il femminicidio è un omicidio di Stato perché lo Stato non ci tutela e non ci protegge. Bisogna prevedere educazione sessuale ed affettiva in maniera da prevenire queste cose, bisogna finanziare i centri anti-violenza in modo tale che se le persone debbano chiedere aiuto siano in grado di farlo. Per Giulia non fate un minuto di silenzio, per Giulia bruciate tutto". Alcune parti del suo attacco sono state molto criticate sui social da chi non accetta stereotipizzazioni e generalizzazioni e chi denuncia la sovraesposizione mediatica di una ragazza travolta dal lutto più terribile.

Giulia-Filippo. Basta demonizzare i maschi. Interroghiamoci sul vero male. Fabio Torriero martedì, 21 Novembre 2023 su lospecialegiornale.it

Invidia, gelosia, anaffettività, violenza, mancanza di rispetto, social, bipolarità dei giovani, apparentemente “bravi ragazzi”; amore confuso col possesso, importanza nel denunciare i narcisisti patologici ai primi sintomi, donne considerate cose, mera proprietà, incomunicabilità, incapacità da parte dei grandi di comprendere i loro figli, se non addirittura giustificazionismo: tutte osservazioni giuste.

Però per favore (andando oltre il tragico caso della morte di Giulia), non limitiamo le analisi e le ricette pedagogiche alla demonizzazione dell’uomo, al redivivo post-femminismo (silente invece, quando la cronaca nera non conviene); maschio paragonato ormai al criminale seriale, con messaggi di autolesionismo ideologico del tipo “mi vergogno di essere uomo”, veicolati proprio da uomini politicamente corretti (come se non ci fossero donne che uccidono e ragazzine protagoniste delle baby gang). Non prendiamocela solo col patriarcato per affermare e costruire una presunta società virtuosa sulle ceneri del passato, che guarda caso, coincide col pensiero unico laicista e magari con l’educazione sessuale in classe, vedi propaganda gender.

Mai nessuno, soltanto pochissimi, che tentino di decifrare in profondità le origini dell’odierno male.

Parliamo infatti, di “relazioni tossiche” a 360 gradi, che riguardano trasversalmente le generazioni e che hanno due luoghi-specchio emblematici: la famiglia e la società.

Se viviamo dentro “un’economia del desiderio”, non possiamo lamentarci se stiamo dentro anche a “una società del desiderio”, dove le persone sono ridotte a cose, a merce da acquistare, comprare e gettare nel secchio in un nanosecondo quando non servono. Una società dove ogni desiderio deve diventare obbligatoriamente un diritto. E se questo diritto non viene soddisfatto, si trasforma in limite odioso, in frustrazione insopportabile (i famosi no che non vengono accettati); e per conseguenza naturale, si rimuove, si azzera l’ostacolo, si uccide. Non è questo il codice malato che sta degradando la vita delle persone? Può essere pure il residuo del vecchio patriarcato, ma inserito perfettamente in un quadro consumistico, edonistico, individualistico, social (in realtà “individual”), producendo una sfilza di ragazzi bipolari, scissi tra l’immagine esterna e i loro demoni interni, che hanno a che fare sempre con un grave problema relazionale. Non a caso Filippo era ritenuto “un bravo ragazzo”; ma, secondo precise testimonianze di chi lo conosceva bene, era totalmente anaffettivo. Che direbbe oggi Pasolini che denunciava già nel 1974 il male consumistico e il suo riflesso devastante a livello sociale?

E il più grande e disarmante paradosso è notare che chi collega esclusivamente i femminicidi al patriarcato evita di comprendere la radice consumistica, laicista, individualistica (ogni desiderio è un diritto: scelgo il sesso, mi compro il figlio, butto le persone che non amo più etc), che riguarda molti aspetti della cultura moderna, in primis di sinistra (liberal, radical).

E ancora (dal pubblico al privato): la famiglia al centro del mirino. Perché nessuno si interroga sulle relazioni non sempre sane tra genitori, tra padri e figlie femmine, tra madri e figli maschi? Un familismo molto spesso “amorale” che in Italia è molto forte e diffuso. Nuclei chiusi dove si coltiva l’indifferenza, l’ostilità, se non l’avversione per le regole e per tutto ciò che è esterno (l’atteggiamento predatorio verso lo Stato ne è un effetto estremamente negativo). E cosa grave, la relativizzazione del male: genitori che fanno i sindacalisti dei figli, che aggrediscono medici e professori solo per una punizione, una cura sbagliata, una bocciatura scolastica.

Se “dietro un grande uomo c’è una grande donna”, è anche vero che dietro “un piccolo uomo c’è una piccola donna”. Dove nasce il mito della donna che deve essere trattata da principessa, eternamente al centro dell’universo, che si identifica poi con la seduzione e il consenso dei maschi? Dal rapporto morboso col padre e dallo scenario Disneyland disegnato da mamma e papà. Dove assorbe la figlia femmina i comportamenti da zarina dietro le quinte o da crocerossina che deve salvare il maschio narcisista patologico? Dalle madri dedicate, devote, sofferenti, che subendo le prevaricazioni del maschio, pensano di manipolarlo sottobanco per il bene della famiglia. Donne che confondono la realtà col loro pensiero. Chi educa il figlio maschio a essere imperatore viziato, dove tutto è dovuto, e quindi un impotente, che pretende di conquistare persone e cose e non riesce a digerire le sconfitte (lavorative, sentimentali, esistenziali)? Semplice: lo educa la madre portatrice insana della “sindrome della Fata Turchina”, che gestisce tutto e che deve restare l’unica donna della sua vita.

Infine, la superficialità dei rapporti, sempre parto della cultura attuale (inclusiva, tollerante, multiculturale e multietnica, televisiva, social, individualistica, commerciale): ragazze che solo per attrazione fisica si uniscono, senza un’adeguata ponderazione a ragazzi di altre culture, altre religioni, trascurando proprio questi elementi, che sono alla base della relazione stessa. E qui si apre il tema del rapporto con l’Islam o culture arretrate, che poi sono un macigno nella gestione corretta dei sentimenti.

E da questo punto di vista, Islam, consumismo e progressismo (donne considerate proprietà, amore come possesso) vanno d’accordo.

Perché i giovani non rispettano le regole? Angela GADDUCCI il 12/10/2020 su Scuola7-206

L’esperienza sociale della scuola

Far rispettare ai giovani regole e disciplina sembra rappresentare oggi uno dei maggiori e più diffusi problemi lamentati da genitori e insegnanti. Buona parte dei ragazzi ha difficoltà non solo ad introiettare emotivamente le norme di comportamento sociale, ma anche ad inserirle in modo permanente nel proprio ventaglio di azioni e ad autoregolarsi rispetto ad esse.

Ma per quale motivo alcuni ragazzi non ce la fanno a rispettare le regole o, comunque, ne sono insofferenti?

La scuola rappresenta per loro un’importante esperienza sociale perché è l’ambiente di vita in cui le abilità comunicative dei ragazzi si arricchiscono in forza delle maggiori occasioni di contatto con i coetanei: l’appartenenza al gruppo dei pari, con i quali hanno l’opportunità di compiere nuove esperienze, diventa per loro un bisogno perché il gruppo si delinea come luogo di confronto, di scontro, di discussione, di valutazione delle proprie capacità. Ma la convivenza, soprattutto nelle istituzioni scolastiche, presenta loro nuove sfide: capire il punto di vista dell’altro, collaborare con i compagni, frenare gli impulsi aggressivi, imparare a difendersi quando occorre. Sfide talora difficilmente superabili da condurre all’esordio di litigi e tensioni, peraltro, normali durante la fase della crescita: il ragazzo ha il diritto di vivere il conflitto o il litigio perché ciò rappresenta per lui una specifica forma di apprendimento per l’acquisizione di regole sociali; è nel conflitto che egli impara ad arginare il proprio egocentrismo, a controllare la propria irruenza e a riconoscere il senso del limite nella presenza degli altri, siano essi adulti o coetanei.

Trasgredire … come passare oltre

I ragazzi sanno che per poter soddisfare l’innata propensione di ciascuno alla socialità hanno bisogno di regole di comportamento come espressioni del diritto di ‘essere’ di ciascuno in un gruppo sociale. E ne reclamano la necessità per poterle infrangere, per vedere fino a che punto possono spingersi, per contrastare il sistema valoriale conosciuto. La trasgressione è una caratteristica fisiologica del percorso di crescita, in cui il rapporto con le regole educative e sociali viene rivisitato: per poter crescere un ragazzo deve mettere in discussione e disancorarsi dagli schemi pregressi e dalle regole che gli adulti gli hanno fino a quel momento impartito. Trasgredire, nel senso etimologico del termine (dal latino transgredior = passare oltre), significa infatti andare avanti, superare preesistenti piani di comportamento per esplorare, sperimentare nuovi contesti e acquisire nuovi modelli, alla ricerca della propria adeguatezza personale e sociale.

E’, quindi, tipico di ogni ragazzo andare oltre le regole conosciute e prenderne le distanze per differenziarsi, rendersi autonomo, esprimere la propria unicità, ma anche per conferire una misura ai propri limiti e valutare come e quando valicarli. E’ necessario, quindi, fissare dei paletti, perché sono proprio quei vincoli che vanno a strutturare l’Io consentendo al giovane di uscire da quella fase di onnipotenza che fa di lui una persona ‘illimitata’.

I ragazzi, però, oltreché di limiti necessitano anche di confini capaci di salvaguardare la loro sicurezza e tutelare la loro protezione. Ne hanno bisogno per testare la tenuta del sistema familiare, per misurare la coerenza dei genitori e la loro capacità di garantire un contenimento sano e sicuro: le regole e i NO sono fondamentali nella crescita di un soggetto, favoriscono lo sviluppo del senso morale e soprattutto aiutano a tracciare i confini psichici, perché laddove non ci sono confini o c’è troppa fragilità, si manifestano disagi e inquietudini, se non addirittura disturbi della personalità.

Legami stabili e nuove esperienze

I ragazzi devono crescere con la consapevolezza di un legame stabile con i genitori in modo da potersi esprimere sapendo di essere sostenuti da un adulto che fa loro da guida, che porge loro la mano quando occorre e li incoraggia a camminare da soli quando necessario: essi hanno bisogno di un porto sicuro dal quale muovere i primi passi per tentare di salpare, osare, mettersi al timone della vita. I rapporti con i coetanei contribuiscono in modo sostanziale allo sviluppo delle competenze sociali, ma la mediazione dell’adulto resta comunque necessaria per far sì che il ragazzo si adegui alle regole di comportamento dettate dal gruppo dei pari e dal mondo societario.

Le regole non piacciono, rappresentano la continua rievocazione della dipendenza e del limite, e i limiti sfidano, saggiano e affaticano, ma soprattutto gli adolescenti, ignari di se stessi e affamati di identità, hanno più che mai bisogno di norme, ossia di stabilità e di sostegno, quindi necessitano della presenza, forte e delicata, vigile e discreta degli adulti. E’ importante, quindi, che i genitori siano tanto flessibili da saper accogliere, sia le loro richieste di autonomia, sia quelle di protezione e di contenimento adattandosi ai bisogni sempre nuovi dei figli che crescendo adottano procedure diverse per esprimersi e relazionarsi con il mondo degli adulti.

Costruire il senso delle regole

Altrettanto importante è impartire il giusto insegnamento: a differenza della punizione che implica l’idea di sofferenza, la disciplina racchiude in sé il concetto di educazione, come modalità per aiutare i giovani a diventare maturi e indipendenti, a farsi carico della loro vita e ad affrontare responsabilmente il loro domani. Importante è anche la congruità con cui genitori ed educatori affrontano il rispetto delle regole: facendo rispettare elementari regole di buona convivenza e di rispetto reciproco all’interno del nucleo familiare, si realizza nel ragazzo la prima socializzazione con la norma, ma i genitori devono in primo luogo fornire l’esempio ed essere rispettosi verso gli altri. Perché i giovani ci guardano e ci ascoltano: se le regole fissate sono molte, perdono di valore; se sono poche ma vengono rispettate innanzitutto dai genitori, hanno sicuramente più pregnanza.

Il motivo per cui un ragazzo non rispetta le regole che il genitore considera fondamentali è da ricercare nel fatto che, o gli sono state imposte, o non sono state esplicitate con chiarezza, essenzialità e ragionevolezza, oppure perché egli non ne riconosce l’utilità. Se si riuscisse, invece, a connettere la dimensione conoscitiva con quella orientativa e fosse ben chiara la meta verso cui indirizzarle, la conoscenza delle regole non si ridurrebbe, né ad una serie di richiami moralistici, né ad un elenco di prescrizioni per una corretta riuscita delle relazioni interpersonali: le istruzioni non dicono nulla del perché debbano essere rispettate né della finalità cui sono orientate.

Le regole come frutto di un processo partecipato

Le regole dovrebbero essere il risultato di un lavoro di partecipazione e condivisione tra genitori e figli, in cui ognuna delle parti avanza proposte per arrivare ad una conclusione condivisa, attraverso lo sforzo di entrambi. Si tratterebbe, quindi, di coinvolgerli nel fissare preventivamente accordi e condizioni, esplicitandone le motivazioni e illustrandone concretamente le conseguenze, e poi concedere loro la possibilità di scelta assumendosene ogni responsabilità, facendoli anche imbattere nelle conseguenze delle loro azioni.

Le stesse dinamiche dovrebbero essere attivate anche nel contesto scolastico. Qui il dialogare, il confrontarsi apertamente con l’altro è essenziale per condividere le proprie idee e attivare la pratica della partecipazione attiva e critica, perché nessuno, senza confrontarsi con le prospettive altrui, può comprendere e governare adeguatamente la complessità del mondo che lo circonda: il contesto nel quale viviamo diventa comprensibile e ordinabile solo con regole condivise, confrontandoci criticamente e mettendo in comune il nostro con i punti di vista altrui.

Dalle regole della classe al codice morale

Fermo restando che il compito della scuola, oltreché istruire è anche quello di educare, educare nel senso etimologico del termine (dal latino ex ducere = trarre fuori) significa promuovere nei ragazzi la consapevolezza che ogni azione specificamente umana è orientata da valori e guidata da norme. Da qui, la necessità che la scuola non solo induca i ragazzi a riflettere sui propri comportamenti a partire dal contesto classe, e sull’importanza di individuare regole o norme che disciplinino la loro adeguatezza, ma che promuova in loro lo stimolo alla riscoperta e all’introiezione di valori condivisi, che saranno poi le regole interne, gli ideali regolativi, il codice morale dei loro futuri riferimenti comportamentali. In altri termini, il rispetto, o meglio l’interiorizzazione, delle regole che stanno a presidio dell’efficienza di un’istituzione scolastica, rappresentano l’humus sul quale si innesterà poi il rispetto delle norme di legge, come personali contributi ad una pacifica convivenza civile.

La scuola e la tenuta emotiva delle persone

E’ anche vero che, dato il carattere “liquido” (Z.Bauman, Modernità liquida, Roma-Bari, Laterza, 2002) della società contemporanea, una società complessa, polimorfa e in continua evoluzione, le situazioni in cui i giovani si trovano ad operare si modificano prima ancora che si siano diffusi, nella coscienza collettiva, i processi di adattamento psicologico adeguati all’entità delle trasformazioni, e quindi prima che i loro modi di agire riescano a consolidarsi in abitudini e regole. La crisi epocale che attraversa le nostre vite sembra mettere a dura prova la ‘tenuta emotiva’ delle persone: il mondo giovanile, in particolare, è il sensore più acuto della durezza di questa sfida. Navigando in questo mare di instabilità i giovani, che sono al timone della vita, non sono in grado di governare la rotta per lungo tempo, per cui non riescono a concretizzare i propri risultati in beni duraturi, perchè le condizioni in cui operano e le strategie che formulano in risposta a tali condizioni, invecchiano rapidamente e diventano obsolete prima ancora che abbiano avuto la possibilità di essere apprese correttamente ed assurgere ad abito mentale, a principio regolatore di coscienza. Agli educatori-nocchieri, dunque, il compito di tracciare le nuove rotte della convivenza solcando, al fianco dei ragazzi, le onde dell’accoglienza, del rispetto, del confronto, ma soprattutto del dialogo.

L’educazione emotiva dei giovani

La richiesta educativa, anche se non sempre esplicitata, è oggi più che mai quella del dialogo che, sostenuto dal pensiero critico, facilita sia l’incontro delle differenze salvaguardando le reciproche alterità e peculiarità individuali, sia il confronto sereno e costruttivo con gli altri. Solo con il dialogo la scuola può affrontare con matura competenza i turbamenti caratteristici della crescita. Dotati di una straordinaria debolezza emotiva, i giovani vivono e comunicano solo emozioni. La condivisione delle emozioni costituisce un elemento centrale nella loro vita di relazione: la loro socialità, confusa, disordinata, imprevedibile, instabile, si alimenta di emozioni.

Per loro è essenziale sapere di essere riconosciuti e compresi: ascoltare i ragazzi, dialogare e far capire loro che comprendiamo le loro emozioni, li aiuta ad accrescere nella loro autostima, perché in questo modo essi si sentono valorizzati e ciò li stimola a sviluppare un sano concetto del Sé. Aiutarli, quando si sentono arrabbiati, a riflettere e a capire perché e cosa vorrebbero fare, rappresenta un buon punto di partenza per iniziare a prendere dimestichezza con le proprie emozioni; sollecitarli ad esprimere senza remore i propri turbamenti e desideri, li agevola a scoprire le occasioni giuste e le parole adatte per esprimere ciò che sentono, e quindi a scaricare la tensione.

Il valore del dialogo a scuola

Dialogare con gli altri valorizza l’interazione faccia a faccia e, dunque, la partecipazione dell’Io come elemento di una comunità. Ma anche il dialogare con se stesso è altrettanto utile per ogni ragazzo, per comprendere la realtà che lo circonda e la sua posizione in essa, per acquisire consapevolezza delle dinamiche di mutamento che lo attraversano, e provare ad interpretarle.

Purtroppo, accade spesso che il contesto plurale proprio di una comunità scolastica sia scarsamente valorizzato in funzione dialogica: le cosiddette discussioni di classe, pur essenziali allo sviluppo della capacità di pensare, risultano praticate raramente nei contesti scolastici.

Relativamente a questo riscontro, si tratterebbe di allestire ambienti di apprendimento come contesti dialogico- collaborativi dove gli studenti fossero chiamati a confrontarsi su questioni aperte, con l’invito ad esercitare un pensiero libero e creativo: una scuola, animata dalla cultura del dialogo, tesa al confronto sereno e costruttivo con gli altri, è una comunità che assume come fulcro la partecipazione ad una costruzione condivisa della vita democratica.

In questa prospettiva la scuola è chiamata ad indirizzarsi verso un orizzonte proattivo nei confronti del benessere sociale degli studenti strutturandosi come comunità di dialogo dove si pratica il pensare insieme, dove i ragazzi possano esercitarsi al confronto, alla discussione, all’esprimere dubbi, al sollevare questioni, al mettere alla prova ipotesi di pensiero, al negoziare punti di vista per poter giungere a costruire insieme teorie ragionevoli così da sviluppare quelle buone pratiche che sono essenziali per sostanziare una vita autenticamente democratica.

Lo sviluppo del pensiero critico

Discutendo insieme mettono in gioco le proprie idee, individuano le ragioni di quanto vanno dicendo per argomentare in modo fondato le proprie asserzioni, e imparano a pensare. La capacità di pensare non è qualcosa che si riceve attraverso un processo di scambio di informazioni, ma si costruisce argomentando dialogicamente con gli altri. Da qui la necessità di un’educazione al pensiero critico, in modo da indurre i giovani a saper controllare il loro pensiero prima di esporlo, saper mutare parere senza sentirsi sconfitti appena si accorgono di non aver ragione, saper rifiutare i punti di vista assoluti, saper sottoporre ogni presunta certezza al vaglio del rigore e della ragionevolezza in modo da non dare mai nulla per scontato fino a prova contraria, saper rispettare le idee degli altri anche quando non sono inquadrabili nelle proprie idee mentali.

Le regole nella concretezza della pratica quotidiana

In conclusione possiamo affermare che offrire un orientamento, indicare una direzione significa proporre delle regole da seguire. Regole che vanno individuate, stabilite, condivise, ma soprattutto accompagnate dalla concretezza della pratica quotidiana per educare ad una libertà che non scada nell’anarchia né risulti minata dall’egoismo. L’idea di libertà, quale “nutrimento indispensabile al l’anima umana” (S.Weil, La prima radice,1949), non rimanda all’assenza di limiti, ma si definisce e si realizza proprio a partire da un limite. Ne consegue che il proponimento di genitori e insegnanti è di adoperarsi affinché la regola, la norma, la legge torni a svolgere quella funzione di principio regolatore dei comportamenti umani che, ponendo un limite al godimento illimitato, rappresenti l’unica via perseguibile per poter tornare ad inseguire il desiderio di un qualcosa che meriti di essere tenacemente conquistato. Angela GADDUCCI scuola7.it

Adolescenti che mancano di rispetto perché consapevoli che nessuno li punirà. Redazione AdoleScienza.it il 27 Aprile 2018   

Imparare a rispettare gli altri è un fattore indispensabile per la costruzione di qualunque relazione: in famiglia, a scuola, nei contesti sportivi, tra coetanei. Rispettare significa riconoscere e accettare le differenze individuali: capire che l’altro possa avere un suo pensiero, una sua opinione, un punto di vista diverso ma non per questo meno importante o sbagliato.

Tante volte, quando lavoriamo nelle classi con i ragazzi, emerge la convinzione che il rispetto sia qualcosa da mostrare soltanto nei confronti di un adulto, soprattutto quando si ha paura di una possibile punizione o sanzione, senza comprenderne però il reale significato. Ci rendiamo conto, inoltre, di come alla base di molte difficoltà che sperimentano quotidianamente nella relazione tra di loro, ci sia spesso una profonda fatica a riconoscere il valore dell’altro, confrontarsi, ascoltarsi reciprocamente, esprimere la propria idea senza sopraffare e, quindi, rispettare il compagno.

“Il rispetto è quella cosa che si porta verso gli adulti”, “Con alcuni prof. ci comportiamo bene perché altrimenti ci mettono subito le note o ci mandano dal Preside”, “Porto rispetto a chi mi sta simpatico o è mio amico, degli altri non mi importa molto”

Perché minacce o punizioni alla lunga non funzionano?

Una punizione, una minaccia, la paura di una nota o di un giudizio negativo sembrano funzionare quando dobbiamo risolvere una situazione nell’immediato ma nel tempo rischiano di provocare l’effetto contrario.

Spesso, infatti, dopo che l’adulto si è allontanato, i ragazzi mettono nuovamente in atto il comportamento per cui erano stati ripresi, perché non hanno compreso le motivazioni reali che si nascondono dietro il rimprovero. Imparano che il rispetto di una regola o degli altri serve solo per evitare conseguenze negative per se stessi, ma faranno fatica a portarlo nelle relazioni tra coetanei o, più in generale, con gli altri, in quanto se non ottengono un beneficio immediato non ne vedranno l’utilità.

Non è una lotta di potere, né un braccio di ferro per dimostrare chi è più forte. Il dialogo è fondamentale, bisogna sempre spiegare in modo autorevole e chiaro le motivazioni di un no, di una richiesta o di una regola, ascoltando però anche il punto di vista dei ragazzi.

Questo non significa che non serva una reazione ferma e decisa in alcune situazioni o che, soprattutto nel contesto scolastico, non debbano essere utilizzate delle sanzioni quando necessario, ma si dovrebbe sempre cercare di mantenere aperto il dialogo, mostrando fiducia e ascolto autentico delle motivazioni e difficoltà dei ragazzi.

L’importanza del rispetto nelle relazioni: che ruolo hanno gli adulti?

Spesso anche gli adulti confondono il rispetto con l’obbedienza e tendono a credere che avere bambini o ragazzi che seguono alla lettera le regole, significhi automaticamente essere rispettati. Altre volte si tende a trasmettere, anche inconsapevolmente, l’idea che un genitore o un docente debbano essere rispettati solo perché adulti, più grandi, e non in quanto persone con una propria dignità e un proprio valore.

Non è un caso, infatti, che i ragazzi facciano poi molta fatica a rispettarsi tra loro, a rispettare coloro che non conoscono, che hanno idee differenti dalle proprie, che percepiscono come “diverso” dal gruppo.

È importante che gli adulti di riferimento, genitori o insegnanti, si mostrino attenti ed empatici nei loro confronti, capaci di cogliere le loro emozioni, accettando e rispettando le loro idee e opinioni, anche quando sono diverse da quelle dell’adulto.

Dare a bambini e ragazzi la possibilità di esprimersi ed essere se stessi, senza paura del giudizio, li renderà adulti capaci di ricevere e dare rispetto. Redazione AdoleScienza.it

La mancanza di rispetto? Un segno dei tempi che corrono. Stefano Sari su Libero Quotidiano il 05 marzo 2023

Ha suscitato sdegno la notizia di qualche mese fa che in una scuola di Rovigo, durante la lezione, alcuni studenti hanno sparato dei pallini con una pistola ad aria compressa colpendo un’insegnante alla testa e a un occhio. E non solo, la scena fu ripresa con uno smartphone e il video diffuso in rete è diventato virale. Gli alunni coinvolti sono stati sospesi. Ciò che colpisce è che questi ragazzi sembra non provenissero da famiglie disagiate. Sarebbero giovani “normali” che hanno vissuto l’episodio come fosse un “gioco” senza rendersi conto della gravità del loro gesto, cioè irridere un’insegnante, un’autorità scolastica. In realtà si tratta di un fatto vergognoso che indica come la mancanza di rispetto verso qualsiasi autorità è un segno dei tempi. Sarebbe comunque sbagliato concludere che la mancanza di fiducia nell’autorità sia una prerogativa soltanto delle giovani generazioni. 

Bisogna dire che la sfida all’autorità costituita, in diversi consessi, è oramai un fenomeno di portata mondiale e continua ad accentuarsi ancora di più. Molti fanno prevalere i loro diritti più che le loro responsabilità. Oggi, persone di ogni età guardano qualsiasi autorità con sfiducia, se non con disprezzo, facendo propria la filosofia che ciascuno fa quel che gli pare senza riguardo per le conseguenze sugli altri. Questo genera una contagiosa irresponsabilità, una specie di delinquenza morale, non più frenata da alcun senso religioso o etico. Spesso gli episodi di cui sopra vengono minimizzati dagli adulti o peggio ancora dai familiari. Per quanto riguarda la scuola, i genitori non sempre accettano l’autorità degli insegnanti sui propri figli e se si cerca di impartire una qualche disciplina, ecco che partono le proteste. Non sono rari i casi di genitori che intervengono non semplicemente minacciando gli insegnanti, ma addirittura aggredendoli. Si può dire che la mancanza di rispetto nasce nella famiglia, dove spesso ai figli viene concesso il permesso di stabilire autonomamente le proprie norme e regole. 

Non stupisce quindi che “autorità” per molti sia una parola sgradevole che suscita una certa avversione verso chi la rappresenta e che molti considerino ogni forma di autorità come ingenitamente cattiva, qualcosa da tollerare e da disprezzare, se ne viene data l’opportunità. Una mancanza di rispetto che diviene spesso evidente allorché non si ubbidisce a quelle che sembrano leggiingiuste o si commettono “piccole” disonestà. Il rispetto è il sentimento di stima verso colui al quale è dovuto, sentimento suscitato dalla contemplazione del suo valore, della sua dignità e che gli va riconosciuto per la posizione che occupa. Se debitamente esercitata, l’autorità, definita come “potere o diritto di controllare, giudicare o vietare le azioni di altri”, può essere positiva sia per gli individui che per la collettività. Altra cosa è la deriva verso l’autoritarismo. Se le autorità civili operano per il bene della comunità, punendo quando è il caso i trasgressori e coloro che minacciano la sana convivenza, non si capisce perché non bisogna rispettarle. A volte non è facile ma è necessario.

I GIOVANI NELLA SOCIETA’ SENZA PIU' MORALE. Antonio Russo il 2 Ottobre 2020 su sociologiaonweb.it

I giovani dell’era digitale, i nativi digitali nella società di oggi, che si è evoluta forse rapidamente, vivendo cambiamenti profondi ma assistendo però all’altra faccia della medaglia, nera, “ ragazzi che violentano, uccidono” senza pietà, senza nessuna morale.

Una società disorientata dove i giovani trovano poco spazio, non hanno fiducia in loro stessi, non hanno autostima, le famiglie a volte sono assenti e, loro soffrono di questa indifferenza che li porta alla “ solitudine”, alla “ depressione”, a caratteri “introversi”, “chiusi nel loro io” che, poi sfociano nella violenza. Una società e, per società intendo anche la scuola, le famiglie hanno le loro colpe, perché i figli hanno bisogno di ascolto, di essere ascoltati , di essere accolti tra le braccia, essere aiutati perché oggi sono fragili, incerti ma soprattutto introversi pur vivendo una vita agiata.

Probabilmente anche la vita agiata ha contribuito alla loro non maturità. Una vita radicalmente cambiata grazie al miglioramento sia dal punto di vista sociale ma soprattutto da quello economico e, pertanto la colpa non è soltanto dei “nostri figli” ma anche nostra che siamo i loro “educatori”.Oggi, purtroppo i giovani non si preoccupano del loto futuro, a realizzare i loro sogni ma solo a divertirsi, a sentirsi adulti, non ad essere autonomi ma a 21 anni sentirsi “ adulti, padrone del mondo, invidiosi della vita degli altri”, il che vuol dire essere senza morale, irresponsabili delle proprie azioni.Purtroppo, l’ultimo grave episodio di sangue testimonia quanto testè’ enunciato, dove sono stati uccisi in Puglia, esattamente nella città di Lecce, senza alcuna pietà due giovani fidanzati che, a dire del loro omicida “ erano troppo felici ed era invidioso della loro felicità”, dimostrando propria la mancanza di moralità nei giovani di oggi e, il rispetto verso l’essere umano.

Un ragazzo di solo 21 anni che uccide per “invidia, certamente non appare un movente valido perché si può uccidere anche senza motivo. Eppur vero che secondo gli investigatori il ragazzo ha agito con “spietatezza e totale assenza di compassione e pietà verso il prossimo, indole violenta”.Per compiere tale gesto ci vuole sicuramente un ‘indifferenza per l’essere umano , che è la totale assenza dell’amore.

Questo episodio come quello accaduto settimane orsono a Roma, con l’omicidio del giovane Willy, dimostra l’aumento della delinquenza tra i giovani, che si sviluppa sul concetto di devianza, ovvero quell’insieme di comportamenti che si allontanano dalle norme civili, sociali, violandole per trasgredire, per far parte di un gruppo, per farsi notare, per “farsi belli” (linguaggio giovanile).E noi oggi non possiamo stare più a guardare ma dobbiamo intervenire da vicino per aiutare a risolvere questi “problemi” sociali e personali combattendo il dilagare ulteriore del fenomeno e, in tale ottica è fondamentale il ruolo delle famiglie, dei genitori che hanno il compito di educare, ascoltare (oggi poco propensi), controllare come la scuola che dovrà fare la sua parte.

Non è piu’ tempo di guardare ma di agire.

La figura del sociologo in questo delicato momento è fondamentale per contribuire, aiutare la società, i giovani a farli comprendere, aiutare, ascoltare a rimettere al centro i valori veri della vita, per far fronte alle loro difficoltà giovanili. L’indifferenza fa male e, i giovani lo percepiscono.   Dott. Antonio RUSSO

Ma davvero è mancanza di educazione? Da officina-benessere.it 15 luglio 2018

Si dice che i bambini e gli adolescenti di oggi usino ormai comunemente un linguaggio da postribolo 

Quando mi chiedono che fare per contenere parolacce e volgarità, rispondo “Non c’è niente da fare. Battaglia persa!“.

E non lo dico perché giustifico le scurrilità del linguaggio nel parlare comune, ma perché ormai le parolacce le dicono tutti. I bambini le sentono in continuazione dagli adulti, dai genitori, dalla gente dello spettacolo, nei dibattiti pubblici, dai politici. Quindi non sono un “peccato”. Il fatto più consistente, caso mai, è che oltre a questo il modo di parlare,il comunicare è diventato ingiurioso, offensivo e violento. Cosa pretendere? Alla fine il turpiloquio è la cosa meno grave se paragonato ai comportamenti irrispettosi, di insulto e che oggi con sempre più frequenza incitano all’odio.

Inutile lamentarsi della mancanza di educazione dei giovani se i modelli che proponiamo loro sono ben altri. Come pretendere che in un litigio un ragazzo non mandi a… quel paese (ma l’espressione è ormai d’altri tempi) un genitore, se è lo stesso genitore che insulta il proprio figlio, magari offende apertamente l’insegnante che, a suo parere, ha valutato ingiustamente il proprio pargolo, oppure ridicolizza senza mezzi termini una persona di cui non condivide il modo di essere.

Come aspettarsi che a scuola gli scolari ascoltino chi parla, rispettino i compagni e non li offendano, se gli adulti per primi non rispettano le regole comuni, sono offensivi e prevaricatori? Cosa significa parlare di legalità, di onestà, di rispetto dei più deboli, quando prevale negli atteggiamenti comuni, tra gli uomini pubblici, quelli che contano, arroganza,falsità, imbrogli, malaffare, esibizionismo e il proprio tornaconto?

Non è mancanza di educazione. La dobbiamo chiamare, caso mai, mala educazione quella che stiamo proponendo in questo momento. Perché non si trasmettono con le parole valori come rispetto, accoglienza, partecipazione, ma è con i fatti e l’esempio che educhiamo alla tolleranza e alla comprensione, alla disponibilità e alla solidarietà, così come all’empatia. Non si diventa “buoni” perché ci dicono di esserlo o ci spiegano come fare, ma perché vediamo come si comportano gli altri.  Lo spiegano molto bene le neuroscienze e la scoperta dei neuroni a specchio che dimostrano quanto conti il comportamento degli altri nell’attivare empaticamente le nostre risonanze interne.

Far crescere, dunque, vuol dire educare con l’esempio e non dire quello bisogna fare. Non è che non serva mettere limiti e dare regole di comportamento. Però è necessario partire dal proprio modo di agire. Prima di dire come bisogna comportarsi, l’educatore deve mostrare con i fatti e con il suo modo di essere quello che chiede. E poi è necessario cominciare dalle piccole cose quotidiane come educare a chiedere “per cortesia”, domandare “permesso” prima di entrare, salutare non con un mugugno, ringraziare per un aiuto, attendere il proprio turno sia per prendere qualcosa che per parlare.

Regole elementari e di base, che devono essere fornite ai bambini e rispettate da tutti. Sempre. Regole che valgono in famiglia e a scuola. Ovunque.  Giuseppe Maiolo Doc. Psicologia dello sviluppo – Università di Trento

Biologia e cuoricini. La favola dell’educazione sentimentale contro gli uomini che uccidono le donne. Guia Soncini su L'Inkiesta il 20 Novembre 2023

Sappiamo tutte d’essere vive per caso, e anche che la natura è violenta, che la sopraffazione del maschio sulla femmina è un fenomeno naturale che la società argina, e che il patriarcato ci tutela dagli assassini, mica incoraggia ad ammazzarci

Questo articolo non serve a niente. Nessun articolo su un uomo che uccide una donna serve a niente, per una ragione così ovvia che mi pare l’interrogativo più interessante sia: chi ne scrive ha davvero rimosso dal proprio orizzonte il motivo per cui quello degli uomini che uccidono le donne è un fenomeno rispetto al quale non si può fare niente?

«Sono gelosissima delle relazioni tra lesbiche, perché sei una moglie, ma anche hai una moglie, il che è produttivo. Certo che voglio essere una moglie, ma io in cambio non avrei una moglie: avrei un marito. E che me ne faccio? A che serve un uomo in questa società quasi paritaria che abbiamo combattuto per ottenere? A proteggermi? Da chi, se è lui quello che più probabilmente mi ucciderà?». Lo dice Michelle Wolf, comica americana, in un monologo che Netflix ha distribuito nel 2023.

«Il coraggio che serve a una donna per dire di sì a un uomo che le chiede di uscire trascende ogni mia immaginazione. Una donna che sceglie di uscire con un uomo fa una cosa letteralmente folle e imprudente, e l’intera sopravvivenza della specie si fonda sul fatto che scelga di farla. Com’è possibile che le donne ancora decidano di uscire con gli uomini, considerato che siamo la maggior minaccia alla loro sopravvivenza?». Lo diceva Louis CK, comico americano, in un monologo del 2013: prima di tutto.

Prima che il MeToo abolisse le gerarchie dei comportamenti discutibili, e farti vedere l’uccello e ammazzarti diventassero la stessa cosa, e quindi la reazione alla citazione quissù diventasse: come puoi citare uno che è tale e quale a chi ammazza l’ex fidanzata.

Prima che il MeToo abolisse le gerarchie delle fonti, facendo nascere un nuovo terziario avanzato, fatto di donne che non hanno intenzione d’affaticarsi con un lavoro vero quando possono fatturare facendo il femminismo su Instagram, femminismo-su-Instagram che consiste nel dire cose scevre del principio di realtà, tipo «siamo il Paese in cui si ammazzano più donne» (ne ammazzano di più, in proporzione, in nazioni che percepiamo assai più civili), tipo «non se ne parla abbastanza» (ogni volta che succede non si parla d’altro, com’è ovvio sia con gli eventi eccezionali e quindi impressionanti).

Prima, soprattutto, che la dissonanza cognitiva sostituisse il principio di realtà, e quindi valesse tutto, ma proprio tutto, perché dire qualcosa che stia dentro all’onda emotiva del giorno vale più che dire qualcosa di sensato (tacere non è un’opzione, tacere ti taglia fuori dall’economia dell’attenzione).

I giorni pari, che siamo una società sessista e si vede dal fatto che le femmine hanno risultati migliori dei maschi negli studi, ma poi nel mondo del lavoro fanno meno carriera; i giorni dispari, che gli uomini sono abituati a primeggiare negli studi e quindi ecco là che se ti stai per laureare prima di loro t’ammazzano.

Il guaio è che la verità è faticosa e complessa (aggettivo che in questo periodo non si porta granché), e prende pochissimi cuoricini social. Il guaio è che condividere il meme del momento è facilissimo, e infatti tutte – ereditiere, giornaliste, attrici, aspiranti intellettuali incidentalmente analfabete ma ora non cavilliamo – sono lì a condividere la loro brava card con scritto «bruciamo tutto», e a nessuna viene il dubbio che quando poi non brucerai niente sarà chiaro quanto valgano le tue indignazioni e quanto sia facile rimandarti in cucina.

Il guaio è che è un ottimo proposito insegnare che si può essere rifiutati e indesiderati – e non è un dramma e non vale un omicidio – ma è un’idea pedagogica che poco si concilia con un approccio educativo ormai interamente improntato al perché-tu-vali, al mondo che deve riconoscere le tue straordinarie qualità, al guai al professore che ti traumatizza coi brutti voti; e insomma, forse un po’ meno di schizofrenia non guasterebbe.

Il guaio è che Camille Paglia ci mette ottocento pagine di “Sexual personae” a spiegare quel che CK diceva in due minuti: che la natura è violenta, che la sopraffazione del maschio sulla femmina è un fenomeno naturale che la società argina, che il patriarcato è quel che ci salva dal fatto che ci ammazzino, mica ciò che incoraggia il maschio ad ammazzarci.

Il guaio è che ottocento pagine nessuno ha più la tenacia intellettuale, la concentrazione, la voglia di leggerle, già otto slide sono troppe, e in quelle otto slide nessuna scrive mai che non serve a niente l’educazione sentimentale a scuola, perché esiste la biologia che fa gli uomini più forti delle donne, ed è nella natura degli esseri viventi che il più forte prevarichi sul più debole: non riuscite a insegnare ai ciucci che partorite a fare le addizioni a tre cifre o a ricordare i confini dell’Umbria, ma pensate con due ore settimanali di estirpare il male dal mondo e la disposizione naturale a prevaricare da ogni creatura con gameti maschili? Auguri, e sperabilmente figli non maschi.

Il guaio è che neanche Flaubert l’ha letto nessuno, altrimenti un vago ricordo di come finisce “L’educazione sentimentale” ce l’avremmo, e non riusciremmo a evocarla come soluzione senza metterci a ridere. Spoiler, come si dice nel mondo d’oggi: Frédéric e Charles concordano che non saranno mai più felici come quando andavano a scopare al bordello, e tutti i moti insurrezionali fuori.

Il guaio è che «non so cosa dire, per fortuna succede sempre meno spesso, vorremmo che non capitasse mai ma il male esiste e le tragedie accadono e pensare di eliminarle del tutto è infantile» è una dichiarazione che nessuno fa perché sarebbe invero la meno cuoricinabile del mondo, specie nel secolo che non ha alcun interesse alle soluzioni dei problemi ma solo ai gesti simbolici.

Dire che il codice penale non serve – l’hanno scritto ex direttori di giornale, deputate del Pd, commentatori teoricamente qualificati: non Vongola75 – ma ci vogliono le ore di educazione sentimentale a scuola è come esporre le locandine con le facce degli ostaggi a diecimila chilometri da dove sono sequestrati: non c’è neppure una parvenza di praticità, ma solo la possenza del simbolismo (un po’ annacquata dal nostro essere circondati da milioni di simbolismi, ma non cavilliamo).

Postare «se domani non torno, sorella, distruggi tutto» non serve a far cambiare idea all’ex che sta per ammazzare la tua vicina di casa. Postare il riquadro nero in memoria di George Floyd non serviva a convincere i razzisti a smettere d’essere tali. Appendere le locandine con le facce degli israeliani a Londra o a Milano non serve a farli liberare a Gaza.

Ma capisco la frustrazione: cosa dici del fatto del giorno, se la tua carriera dipende dal consenso e dalla sintonia col pubblico, cioè se di mestiere sei una segretaria di partito o una che accende la telecamera del telefono? Mica puoi dire: non possiamo fare niente di concreto. Mica puoi dire: lo sappiamo che questa è una stronzata simbolica, ma soluzioni pratiche non ne abbiamo.

Persino il problema degli ostaggi a Gaza, rispetto a quello della violenza del più forte sulla più debole, è più facilmente risolvibile. È un problema che non ha a che fare con la natura: ci sono delle cose che puoi provare a fare. L’ex che ti ammazza no: è una sfiga. Solo che «oh, è stata sfigata» non è una lettura presentabile, specie se non sei un’intellettuale ma una che si candida a governare il Paese. Specie se la tua specializzazione non è l’analisi del reale ma la sintonia emotiva coi parenti delle vittime.

Quando chiesero a Bill Clinton perché si fosse scopato Monica Lewinsky, rispose: perché potevo. Tra i grandi rimossi di questo secolo bislacco c’è anche quello della maggior forza muscolare maschile, il cui riconoscimento osterebbe al feticismo della transessualità.

Se ci ricordassimo di questa disparità perlopiù non sanabile, capiremmo anche che la risposta di Clinton è quella che potrebbe dare ogni maschio che, con esiti più o meno letali, decida di sopraffare una femmina: l’ho fatto perché potevo. Non: perché il patriarcato mi dà il permesso. Perché la natura me ne dà il vantaggio (il patriarcato è quello che poi m’arresta, invece di mandarmi a rieducazione sentimentale).

Le donne adulte, quelle normali, che hanno avuto relazioni da giovani, che non hanno particolari dolenze biografiche, sanno tutte d’essere vive per caso. Abbiamo tutte nel repertorio di aneddoti almeno un tizio (spesso più d’uno) che era cocainomane, o con un brutto carattere, o instabile in varie maniere. Perché non ha mai deciso di ammazzarci, o anche solo di riempirci di botte? Avrebbe potuto: siamo state fortunate.

Se fosse successo a me, quando avevo venti o trent’anni e facevo di tutto per esasperare gli uomini con cui avevo a che fare e tuttavia mi è costantemente andata bene, forse avrebbero scritto che ero appunto esasperante, che chiunque mi conoscesse si aspettava finisse male, che il tizio aveva perso la pazienza.

Erano anni in cui esistevano il concetto di movente e la distinzione tra attenuanti e aggravanti, non come ora che nessuno studia e tutte berciano contro chiunque provi a raccontare i personaggi d’una storia, accusando il patriarcato di giustificare gli assassini. («Patriarcato» sta a questo secolo come «cinquant’anni di malgoverno democristiano» a quello scorso).

Erano anni in cui avrebbero potuto dire la verità, e la verità non avrebbe modificato i fatti. Che sono che il codice penale esiste – nonostante gli editorialisti oggi dicano che è superfluo e le influencer non lo studino continuando a non capire come funzionano i delitti e le pene – e che, pensa un po’, non mi puoi ammazzare: neanche se sono insopportabile, neanche se mi laureo prima, neanche se non ti voglio più o ti voglio troppo o ti voglio quando tu non mi vuoi più.

Erano anni in cui si ammazzava più di adesso, perché la civiltà procede implacabile, domando la natura e fottendosene di Instagram, e tuttavia neppure la civiltà può far nulla per la perdita di controllo della ragione e delle pulsioni da parte d’un essere umano in difficoltà psicologica.

Le pensatrici che ci meritiamo aborrono il concetto di «raptus», che hanno deciso essere una deresponsabilizzazione del maschio e una vittimizzazione secondaria (che vuol dire un’altra cosa, ma ora non è che possiamo pretendere che gente che di mestiere accende la telecamera del telefono conosca le parole che usa).

Perché, con lo stesso delirio di onnipotenza con cui s’illudono di poter sradicare il male dal mondo, credono di poter trovare motivazioni razionali a tutto, dai suicidi al tizio che, per laurearsi prima di te, ti ammazza e poi fugge verso una vita di latitanza senza titoli di studio.

C’entra la psicosi? C’entrano gli ormoni? C’entra la legge della foresta? Di sicuro c’entra la biologia, di sicuro c’entra quella verità che ormai sono disposti a dire solo i comici.

Dicono che l’uomo che uccide la donna è sistemico e patriarcale, ma non c’è nulla di meno sistemico di un tizio che in maniera del tutto irrazionale uccide una tizia colpevole di non volerlo più, e poi si dà alla fuga mentre il patriarcato si attrezza per metterlo in galera. Quel patriarcato vetusto e abominevole che si ostina ad attenersi al codice penale invece che all’educazione sentimentale.

Responsabilità, ipocrisie e doveri di fronte alle fragilità dei giovani. Umberto Folena martedì 21 novembre 2023 su avvenire.it

La tragedia di Giulia Cecchettin travolge i quotidiani. Nove pagine su “Corriere”, “Repubblica” e “Quotidiano nazionale”; sei su “Stampa” e “Giornale”; quattro su “Libero” e “Messaggero”. Un fiume di parole, alcune illuminanti, altre difficili da condividere. Ecco alcune di queste voci, senza commenti, dai quotidiani di ieri, 20/11. Lettera di Elena Cecchettin al “Corriere”: «I “mostri” non sono malati, sono figli sani del patriarcato, della cultura dello stupro (...). Nessun uomo è buono se non fa nulla per smantellare la società che li privilegia tanto». Titolo sulla “Verità”: «Se l’assassino è un maschio bianco ecco le litanie contro il “patriarcato”. Chi accampa attenuanti quando i delitti sono commessi da immigrati adesso si scatena». Alessandro Sallusti, “Giornale”: «Resta incomprensibile il tentativo di buttarla in politica come ha fatto ieri anche la sorella di Giulia, Elena». Gianluca Nicoletti, “Stampa”: «Si smuovano dunque dai tuguri in cui da anni si rifugiano anche i più fieri rappresentanti del maschio alfa, come pure i maschi politicamente correttissimi che si proclamano astrattamente femministi» (titolo: «Un’ipocrisia negare le colpe di noi padri. Iniziamo ad assumerci le nostre responsabilità»). Arianna Farinelli, “Repubblica”: «Io non credo che tutti gli uomini siano mostri ma credo che molti, con il loro silenzio e la loro indifferenza, contribuiscano alle mostruosità compiute dagli altri». Matteo Lancini, “Quotidiano nazionale”: «Per molti ragazzi la prima fidanzatina è il secondo oggetto d’amore rispetto alla mamma e quando la relazione termina si crea un vuoto colmato con tristezza, rabbia, delusione. Dobbiamo intervenire sull’accettazione prima che diventi violenza». Stefano Zecchi, “Giornale”: «Cosa fare? Ecco la determinante, importantissima funzione del padre (...). Il padre ha il compito di svolgere con le parole e con l’esempio l’educazione del figlio sul senso del suo essere maschio, non lasciandolo in preda all’umiliazione, alla sofferenza di fronte all’abbandono e al rifiuto della donna. Il vero problema è che non ci sono più padri che sanno fare i padri». Giusi Fasano, “Corriere”, titolo: «Lettera a Giulia»: «Gli uomini illuminati e amorevoli esistono, sono la maggioranza, ne avrai conosciuti molti anche tu. Sono loro i nostri alleati».

Caso Giulia Cecchettin, irresponsabile attribuire la colpa al patriarcato o alla naturale violenza del maschio. Dire che la famiglia è responsabile di quell'orrenda violenza e che dunque bisogna superare la famiglia sarebbe come dire che il polmone è responsabile della polmonite e che dunque bisogna abolire il polmone. Diego Fusaro il 20 Novembre 2023 su ilgiornaleditalia.it

Temo che sia irredimibile l'ignoranza mista a stupidità di chi attribuisce delitti orribili come quello di Giulia Cecchettin alla famiglia, al patriarcato o alla naturale violenza del maschio. Dire che la famiglia è responsabile di quell'orrenda violenza e che dunque bisogna superare la famiglia sarebbe come dire che il polmone è responsabile della polmonite e che dunque bisogna abolire il polmone. Dire che il genere maschile è in quanto tale violento è una sciocca generalizzazione, che produce effetti analoghi a quelli del classico razzismo che identifica in gruppi etnici particolari una presunta violenza naturale. La verità è che questo omicidio è condannabile sotto ogni profilo e che chi lo ha commesso deve essere punito a norma di legge. Ma questo non autorizza in alcun modo indebite generalizzazioni, come quelle che pretendono di colpevolizzare l'intero genere maschile, come se tutti gli uomini fossero responsabili o anche solo conniventi. La massima parte degli uomini, per fortuna, è in prima linea a condannare questo omicidio e non torcerebbe mai un capello a nessuno, uomo o donna che sia.

Nascere maschi non può essere un peccato originale. Luigi Mascheroni il 20 Novembre 2023 su Il Giornale.

Non è una colpa essere maschio, etero e bianco. Anzi, personalmente ne sono orgoglioso, contrariamente a quanto una certa cultura woke sta da tempo veicolando, con conseguenze devastanti

Parlo, per una volta, in prima persona, cosa che un giornalista non dovrebbe mai fare. Ma lo faccio per affermare che di fronte a un uomo che uccide una donna, «io» non mi sento assolutamente in colpa. Non chiedo scusa come uomo. Non chiedo scusa a me stesso. Non chiedo scusa alle donne, non chiedo scusa a mia moglie né ai miei figli né alla figlia che non ho.

Non è una colpa essere maschio, etero e bianco. Anzi, personalmente ne sono orgoglioso, contrariamente a quanto una certa cultura woke sta da tempo veicolando, con conseguenze devastanti. E penso che nel momento in cui un politico - Antonio Tajani - avanza delle scuse «come uomo», ci troviamo di fronte, nel migliore dei casi, a una pericolosa miscela di qualunquismo, retorica e demagogia; nel peggiore a una dichiarazione di imbarazzante superficialità. E non solo perché come è ovvio - la responsabilità, a partire da quella penale, è sempre e soltanto personale. Non solo perché l'aberrante concetto di «colpa collettiva» non a caso di matrice comunista sia quanto di più disumano e illiberale si possa concepire. Non solo perché l'idea di una sorta di peccato originale «di genere» è qualcosa di profondamente razzista. Ma soprattutto perché scaricare gli errori e gli orrori su un «tutti» generico è il miglior modo per non assumersi alcuna responsabilità individuale e nello stesso tempo per diffondere un odio ingiustificato verso gli uomini in generale. Ma non tutti i maschi commettono violenze, non tutti i maschi uccidono, non tutti i maschi aggrediscono mogli, compagne, figlie.

E visto che a parlare è stato un politico, allora siano i politici, semmai, a trovare gli strumenti legislativi e sociali per educare i giovani all'affettività e garantire tutele e parità di diritti tra uomini e donne.

No, non mi sento colpevole. Non devo chiedere scusa per azioni che non ho commesso e pensieri che non ho. E non voglio trasmettere ai miei figli maschi sensi di colpa - controproducenti - per crimini commessi da psicopatici omicidi. Preferisco, e vorrei davvero essere in grado di farlo, insegnare loro - con l'esempio - il rispetto reciproco, i valori dell'umanità contro tutte le violenze, l'idea che il desiderio senza amore è solo bruto possesso.

Come uomo, chiedo scusa per le parole di Tajani. Decolpevolizzare il singolo accusando un intero «genere» è facile. Manifestare scuse di circostanza per sgravasi la coscienza, inutile.

Altro che colpevole di tutto: è tutto un merito il maschio. CAMILLO LANGONE su Il Foglio il 15 novembre 2023

Senza la differenza sessuale non si salva nulla, non si salva la verità né la religione né la demografia né la femmina

“Maschio bianco etero & cattolico” è il titolo di un libro edito dal Timone e firmato da Giuliano Guzzo, conservatore veneto-trentino classe 1984, sempre in giacca e cravatta, molto bene. Pamphlet in difesa del bersaglio odierno, “l’uomo colpevole di tutto”. Il titolo somiglia tanto a quello del primo libro che ho scritto, “Maschio italiano cattolico”, non un pamphlet ma, se ricordo bene, quasi un romanzo. Grazie a Dio mai pubblicato. Grazie a Dio perché tutte queste definizioni oggi mi sembrano pletoriche, tutte queste rivendicazioni oggi mi appaiono enfatiche. Fra l’altro sono un perimetro troppo vasto da difendere. “Cattolico”? Si può essere ortodossi e il cristianesimo è comunque salvo. “Etero”? Si può essere bisessuali e la nazione è comunque salva. “Bianco”? Se il cristianesimo cresce solo o quasi solo nell’Africa nera significa che lo Spirito ha abbandonato i figli di Jafet, sarà forse il caso di prenderne atto. “Maschio”? Ecco, su “maschio” non si può transigere. Senza la differenza sessuale non si salva nulla, non si salva la verità né la religione né la demografia né la femmina. Altro che colpevole di tutto: è tutto un merito il maschio.

Camillo Langone. Vive tra Parma e Trani. Scrive sui giornali e pubblica libri: l'ultimo è "La ragazza immortale" (La nave di Teseo).

Paolo Crepet e la femminista, volano stracci a PiazzaPulita: "Come parlate. Roberto Tortora su Libero Quotidiano il 25 novembre 2023

Scontro generazionale a Piazzapulita, talk politico di La7 condotto da Corrado Formigli. Il tema è quello scatenatosi dopo l’omicidio di Giulia Cecchettin da parte del suo fidanzato, cioè quali soluzioni trovare nei confronti di una società patriarcale e prevaricante. È stato messo sotto accusa il maschio in quanto tale e Formigli chiede allo psicologo Paolo Crepet se questa critica lo infastidisca. Crepet nega, ma fa una critica ai giovani di oggi: “Perché dovrebbe infastidirmi? Io sono stato da giovane molto radicale, ho fatto parte di un gruppo di persone che hanno cercato di chiudere i manicomi, che era un'idea molto radicale, si figuri se io posso pensare che chi professa idee radicali possa aver sbagliato. Però, poi, c'è il che cosa fare, cioè – spiega Crepet - la fiaccolata finisce, il progetto no. Quale società mettiamo nel progetto? La scuola, questa scuola qui, questa educazione qui, questi social media qui, che voi giovani usate? Come si fa a parlare in un liceo, se tutti stanno sul telefonino, come diavolo fate a parlare?”. A queste parole, dissente a gesti Valeria Fonte e Crepet chiude, stavolta sì infastidito: “No, non va bene nemmeno questo, allora mandatevi un selfie, mandatevi un Instagram che farete carriera”.

A quel punto la Fonte, giovane attivista e scrittrice che ha lanciato la farse diventata virale "è stato il vostro bravo ragazzo" riferito a Filippo Turetta, prende la parola e contesta lo psicologo: “Questa, a mio avviso, è la scusa dietro cui si nascondono le vecchie generazioni, cioè che i giovani di oggi non ascoltano, che i giovani di oggi sono attaccati ai cellulari, che i giovani di oggi non hanno capacità critica, non hanno uno spirito politico. Questo è immensamente falso e lo abbiamo visto nelle piazze di questi giorni, quanto sono state piene le piazze di questi giorni per Giulia per la sorella Elena. Non è vero che i ragazzi che usano Instagram, che usano i social non hanno a cuore l'educazione e non è vero – afferma l’influencer, da oltre 60mila follower - che non ascoltano, sono proprio quei giovani che invece non vengono ascoltati". 

E ancora: "Questo è un Paese per vecchi diremmo, un Paese che nelle posizioni apicali ha sempre: uomini, bianchi, vecchi. Questo ci dimostra che non c'è la voce dei giovani al governo, di chi ha bisogno di cose reali e concrete. Parliamo, per esempio, di una donna di 22 anni, prendiamo l'età che aveva Giulia: denuncia, perché il suo fidanzato la stalkera, denuncia una volta e le dicono che non va bene, denuncia due volte e ‘hai delle prove?’, tre volte e ‘ti serve un testimone’, alla quarta lui la uccide. Questo è un sistema che fallisce con le persone giovani, perché non ha a cuore la loro vita e il loro futuro e questo lo abbiamo visto benissimo in questi giorni. Il fatto che Giulia sia stata uccisa e che questo sia un femminicidio gravissimo implica un sostrato che noi non vediamo. Qui – prosegue la Fonte - c'è la mancanza di educazione nelle scuole, digitale sicuramente, affettiva, sessuale, è come se fosse veramente un vaccino. Dai tre anni in poi bisogna insegnare ai bambini e alle bambine l'educazione in tutte le sue sfaccettature, perché questo è l'unico modo che abbiamo per contrastare il problema”, conclude la Fonte.

Giulia Cecchettin, Crepet se la prende con la trap: "Che dicono nelle canzoni". Il tempo il 20 novembre 2023

La morte di Giulia Cecchettin ha portato alla luce per l'ennesima volta la violenza della nostra società Se ne parla durante la puntata di Stasera Italia in ond il 20 novembre su Rete4. Ospite in studio lo psichiatra e scrittore Paolo Crepet che addita anche i testi violenti delle canzoni trap.   

"Viviamo in una cultura di violenza. basterebbe sentire una canzone trap violentissima contro le donne. Cosa possiamo fare? Intanto pensare che tutti gli omicidi, come i suicidi, sono premeditati. Non è vero che ci sono omicidi d'impulso pèerché non sono mai così d'impulso. Perché ci hai pensato prima, perché c'è un legame che è già tossico prima. Poi certo l'ultima coltellata ci può anche essere ma sgombriamo il campo da cose come raptus perché non ci fanno capire. Questo, per esempio, è un caso di scuola perché sono mesi di ossessione, di stalking, di idee violente e di ricatti affettivi".  

Paolo Crepet, lo sfogo dopo la morte di Giulia: "Influencer a lezione? Sangue gelato". Roberto Tortora su Libero Quotidianoil 21 novembre 2023

A Stasera Italia, striscia di approfondimento politico e sociale di Rete4 condotta da Nicola Porro, si discute del triste caso di Giulia Cecchettin, uccisa dal suo fidanzato ossessivo e geloso, poi fuggito e catturato in Germania dopo una settimana. In Italia si è scatenato il dibattito sull’educazione affettiva da dare ai giovani e sul compito che la scuola ha nel dover aumentare il suo compito, affinché certe tragedie non accadano più.

Lo psicologo e scrittore Paolo Crepet, però, non è d’accordo, perché ritiene la scuola, di per sé, già la principale esperienza di vita e di crescita dei ragazzi: “La scuola è già affettiva, quando ci vai e non hai studiato niente e probabilmente prenderai un 4 è un’emozione, quando incontri una ragazza in cortile che ti piace è un’emozione. La scuola – spiega lo psicologo – è un contenitore meraviglioso di crescita, non ha bisogno di un’oretta in più di affettività. Certo oggi, per com’è strutturata, non è più affettiva, perché abbiamo tolto i voti, le pagelle, tutto, azzerata, gli insegnanti pagati pochissimo. Dov’è l’emozione se ti promuovono al 99,9%, dov’è l’emozione?”.

Crepet, poi, torna sull’omicidio della Cecchettin, spiegando come, secondo lui, tutti gli atti di violenza perpetrati contro le donne non siano gesti d’impulso che vengono dal nulla, ma azioni sedimentate nel tempo e che si tramutano solo alla fine in gesti istintivi: “Viviamo in una cultura di violenza? Eh beh mi pare di sì, basterebbe sentire una canzone trap. Non è violentissima contro le donne? Molto violenta contro le donne. Cosa possiamo fare? Intanto pensare che tutti gli omicidi, come anche i suicidi, sono premeditati, tutti. Non è un gesto così d'impulso, perché c'hai pensato prima, perché c'è un legame che è già tossico prima. Poi, certo, l'ultima coltellata può anche esserlo, ma sgombriamo il campo da queste cose tipo raptus, non ci fanno capire e questo di Giulia è un caso scuola, sono mesi di ossessione, di stalking, di idee violente, di ricatti affettivi”.

"Noi genitori responsabili. I nostri figli cresciuti senza conoscere il rifiuto". Maria Sorbi il 20 Novembre 2023 su Il Giornale.

Cercare di spiegare l'inspiegabile. Identificarsi nei panni di chi ha vissuto e sta vivendo il più atroce degli incubi, ma non avere gli strumenti per gestire dolore, stupore, rabbia

Cercare di spiegare l'inspiegabile. Identificarsi nei panni di chi ha vissuto e sta vivendo il più atroce degli incubi, ma non avere gli strumenti per gestire dolore, stupore, rabbia. Tutta Italia è rimasta atterrita dalla storia di Giulia a un passo dalla laurea, da Filippo che chissà come pensava di far perdere le sue tracce.

Paolo Crepet, psichiatra e sociologo, come è possibile non saper più gestire una lite con la fidanzata? Da dove arrivano tutta quella rabbia e quella violenza che non siamo più in grado di controllare?

 «I nostri ragazzi non sanno gestire la frustrazione. Si mollano con la ragazzina e vanno fuori di testa, senza proporzione. Ma questa è colpa dei genitori che non glielo hanno insegnato. O meglio, che non li hanno lasciati liberi nella vita di impararlo con le loro esperienze, correndo sempre a proteggerli».

Cosa sbagliamo nell'educazione dei nostri figli?

«Pretendiamo di proteggerli da tutto, non permettiamo che si creino gli anticorpi per affrontare sfide e delusioni. Da quando sono piccoli. Cascare dal cavallino a dondolo e farsi un po' di male fa parte della vita. Noi, da idioti, che facciamo? Mettiamo la gomma piuma attorno al cavallino».

Troppa gomma piuma, insomma.

«È come chiedere a Jannik Sinner di giocare una partita di tennis senza punteggio. Che senso ha eliminare i voti, le pagelle, le bocciature? Stiamo crescendo ragazzi che non sono più in grado di affrontare la sconfitta. Gli facciamo noi lo zaino, come se non fossero in grado. Del resto - parlo ovviamente in generale - sono i genitori i primi a voler essere eternamente giovani. E quindi è ovvio che i loro figli a loro volta non crescano».

Ultimamente dietro a molti femminicidi c'è il bravo ragazzo che di colpo diventa omicida. Cosa succede?

«Non mi pare ultimamente. Succede che non ascoltiamo. Non impariamo mai dal passato. Dietro al delitto del Circeo chi c'era? Un bravo ragazzo. Pasolini lo aveva detto a suo tempo, totalmente ignorato».

Allora cosa dovremmo imparare dal passato?

«Smettiamo di ragionare in base allo schemino dell'uomo assassino e della donna vittima. Non è così. C'è un film di Marco Ferreri del 1963 intitolato Una storia moderna. L'ape regina, parla di una donna che ha ridotto il marito a una specie di fuco. L'avevano capito pure i greci. Basta con l'idea del maschio fallocratico. Andiamo oltre».

Però siamo arrivati a 105 femminicidi.

«Le madri hanno insegnato alle figlie a sopportare. Ma perché? Ci sono donne che hanno sopportato l'insopportabile: mariti violenti o alcolizzati. Ma perché hanno trasmesso questo concetto alle figlie come fosse un valore da tramandare di generazione in generazione? È ovvio che l'amore debba essere il contrario della galera. È ovvio che solo una mente illiberale possa partorire l'idea di geolocalizzarmi»

 E allora che consiglio dà ai genitori?

«Mamme, papà siate rivoluzionari. Insegnate ai vostri figli a essere liberi. Lasciateli sbagliare, altrimenti non cresceranno e a 22 anni non sapranno gestire cose che avrebbero dovuto imparare a gestire a 16. Discostatevi dall'idea che la società ha di normalità. Cosa vuol dire avere un figlio normale? Vuol dire avere il bravo ragazzo che si fidanza con la ragazzina carina con la gonna corta ma non troppo, che sembra Taylor Swift?

Gli adulti dovrebbero per primi discostarsi dal concetto di «normale»?

«Pensiamo che aver raggiunto uno stato di vita in cui andiamo fuori città il fine settimana, abbiamo la jacuzzi e quattro soldi in tasca sia una sorta di paradiso che ci rende felici. Questo vuol dire banalizzare. E allora poi abbiamo bisogno di distruggere e chiamiamo la violenza amore».

Cosa pensa dell'introduzione dell'ora di affettività nelle scuole e dell'idea di formulare una legge?

«No visto la proposta della Schlein e sto seguendo quel che dice la Meloni. Bello, bello, se vogliamo metterci la coscienza a posto. Ma poi chi va a insegnare queste cose all'istituto di Gorgonzola? L'affettività e i sentimenti non si insegnano a scuola. Si imparano per strada, in famiglia, ovunque».

L'intervista. Omicidio Cecchettin, parla Crepet: “Serve parlare con i genitori, altro che psicologo e oretta di educazione ai sentimenti”. Paolo Crepet: se a 13 anni già fanno l’amore e per voi va tutto bene, c’è qualcosa che non va. Poi i rivoluzionari da salotto parlano di cambiamento, vogliamo fare una cosa rivoluzionaria? Togliamo tutta questa tecnologia dalle scuole e ancora spegnete Netflix e vi accorgerete che non sappiamo cosa dirci, come gli ergastolani che non sanno più cos’è la libertà. Francesca Sabella su Il Riformista il 22 Novembre 2023

Giulia Cecchettin non sarà l’ultima donna a morire per mano di un uomo e leggeremo ancora di femminicidi, ma anche di omicidi, di violenza. Con lo psichiatra Paolo Crepet proviamo a tratteggiare i contorni di una società che si sgretola, liquida nel senso peggiore del termine.

Professore, quand’è che i nostri giovani sono piombati in questo abisso di violenza? C’è stato un momento preciso o invece è sempre stato così solo che prima non lo sapevamo, o almeno, non così tanto quanto oggi che abbiamo a disposizioni strumenti che in un click ci aggiornano su tutto? «La nostra società è sempre stata violenta, siamo violenti da quando siamo qua, su questa terra. Se siamo più violenti di prima, non so dirlo. So che la generazione di mio padre ha fatto la guerra, so che c’è stato il fascismo e che i conti con il fascismo li abbiamo fatti in maniera violenta, poi c’è stato il terrorismo, e c’è stata pure l’eroina, anche lei era violenta. Posso dire che a un certo punto abbiamo iniziato a usare modi violenti più soft, cartoni animati terrificanti, playstation con giochi terrificanti, per non parlare dei cantanti trap, terrificanti pure loro».

Quindi, questa violenza efferata tra i giovani non la stupisce poi molto? «Mi stupisco sempre di tutto, non do mai niente per scontato e soprattutto non chiedo silenzio come fa Marco Travaglio per poi trovarsi in un’altra trasmissione televisiva. Io parlo e sono molto arrabbiato».

Cosa la fa arrabbiare? «Mi arrabbio per quello che viene detto in queste ore, l’educazione ai sentimenti, per esempio, mi sembra una presa di fondelli, c’è addirittura un accordo tra i leader dell’opposizione. Siamo al massimo dell’idiozia. Io voglio capire se qualcuno può ragionare o su questi temi come la violenza, il femminicidio o se parliamo per slogan, per fare la fiaccolata, per dire c’è una rivoluzione e poi tra una settimana nessuno dirà più niente. Voglio sapere qual è la rivoluzione in atto. Voglio parlarne tra una settimana quando la sorella di Giulia, Elena, verrà lasciata completamente sola».

Professore, la sensazione è che i ragazzi non abbiano idea di cosa voglia dire sentirsi dire di No, come se non avessero il concetto del limite. Lei cosa pensa? «Penso che se si fa l’amore a tredici anni e questo è politicamente corretto per milioni di italiani, di genitori italiani, qualcosa non va. Se a tredici anni fai l’amore, vuol dire che hai il week end libero, che vai in discoteca e qualche madre e qualche padre ritengono che vada bene così. Lo dico da 30 anni che non va bene, gli mettono pure in tasca i cento euro per la serata, soldi che spenderanno in alcol e droga, perché di questo si parla. Le racconto un episodio. Quest’estate una ragazza di 13 anni è stata sparata, sparata, dall’ex fidanzato di 14 per questioni ovviamente di gelosia e non abbiamo fatto fiaccolate, non se ne sono accorte le filosofe che oggi parlano e scrivono. Perché? Perché di quella ragazza no? Non diceva già molto delle nostre relazioni inquinate e tossiche?»

E perché per lei nessuno ha alzato la voce? «Solo perché il fatto è avvenuto in una squallida periferia e allora non ne parliamo, quando invece c’è un fatto che scuote la borghesia italica, quando viene colpita lei allora ci indigniamo, si tratta di indignazione a comando, c’è un interruttore che dice quando bisogna indignarsi e quando no».

Tornando ai giovani, genitori che concedono troppo, che non sanno dire no, che non hanno tempo per i figli. Se parliamo di responsabilità genitoriale, qual è la sua opinione? «Semplice, mettiamo lo sportello dello psicologo nella scuola così vai lì a parlare dei tuoi disagi, cosa mi rompi le palle? Questo è, questo pensano i genitori. Però se è il governo a dire mettiamo lo psicologo nelle scuole, allora va bene. Parliamo di uno sportello nel quale nessuno sa chi andrà, nessuno mi sa dire dentro quel luogo che è di una delicatezza straordinaria chi ci mettiamo, ma farlo ci lava la coscienza: la mafia usava le gelaterie come lavatrici, noi ci laviamo la coscienza con lo psicologo nella scuola e facciamo l’oretta di educazione sentimentale. Quando ho chiesto: e chi mandiamo a insegnare l’educazione sentimentale? Mi è stato detto: sono dettagli. Facciamo una cosa, mandaci te tua figlia che ha un amore molesto davanti a una psicologa appena laureata. Poi ne riparliamo».

Genitori che non sanno e non vogliono ascoltare i figli. «Sì, viene fuori un mondo che capisci perché c’è tutto questo oggi nella società. Non c’è nessuna voglia di ascoltare i figli, non ci interessa, è tutto un delegare, la famiglia delega alla scuola, la scuola delega non si sa a chi, il ministero pensa di risolvere non si sa come, sabato faranno una conferenza stampa, ma vi prego, quale conferenza stampa vogliamo fare. Oggi una famosa filosofa ha detto: c’è una rivoluzione. Ma di che rivoluzione si parla, non capisco».

Quale sarebbe invece la vera rivoluzione? «Se vogliamo veramente cambiare le cose, come dicono i rivoluzionari da salotto, cominciamo dai bambini non a diciotto anni quando ormai è troppo tardi. Finanziamo le scuole dell’infanzia, iniziamo a togliere tutta questa tecnologia dalle scuole per i piccoli, le mie parole sono rivoluzionarie perché io dico una cosa che nessuno vuol fare, che nessuno vuole sentire, perché quando si toccano degli interessi nessuno vuole sentire. La Svezia ha detto di sì a questa proposta di diminuire la tecnologia nelle scuole, il ministero italico invece ha detto che ci deve pensare. Siamo in presenza di dilettanti dello sbadiglio, lo dico in generale. E poi c’è un’ipocrisia dilagante».

Dove ce né di più? «C’è ipocrisia in luoghi che uno non si aspetterebbe. Quando c’è il solito maschietto mascalzone che poi è un cretino impotente che fa la battuta sul lato b o fa un commento, io vorrei parlare con tutti quelli che pensano di essere diversi da quello. Vorrei capire in cosa si sentono diversi se stanno lì e ascoltano. Mi dicono di essere banale, lo so. Una signora molto importante diceva che l’eclissi della complicità è la strada per l’oblio, se lo ricordassero».

Cosa pensa dell’approccio dei media alla violenza, ai casi di femminicidio? «È l’approccio del falò di cui parlava Cesare Pavese, le parole sono dei falò, urlate ancora di più perché ci sono oggi e non ci sono domani, noi invece abbiamo bisogno di ragionamenti, di cambiamenti coraggiosi non di parole urlate che durano il tempo di un falò».

Cosa direbbe ai genitori? «Spegnete la tv e fate un sacrificio estremo, evitate Netflix per una settimana, una dieta a puntate invece che a punti, spegniamo ogni settimana un dispositivo. Poi chiederei ai genitori: di cosa avete parlato ieri sera? Non si parla più, non con chi avete chattato, di cosa avete parlato ieri sera. Genitori e figli che al massimo si chiedono con un messaggino per dirsi cosa hanno mangiato. Il problema è che non sappiamo più cosa dirci come gli ergastolani non sanno più cos’è la libertà, non reggiamo un discorso di un’ora con un adolescente in crisi. Non sappiamo più parlarci».

Francesca Sabella. Giornalista napoletana, classe 1992. Affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.

Povero maschio, il mondo è donna. LINO PATRUNO su La Gazzetta del Mezzogiorno il 19 febbraio 2011

Scuola media barese, corso europeo, ammessi i migliori delle loro classi. Su trenta partecipanti, venticinque sono donne. Un giorno di lezione all’università, strabocchevole la prevalenza di presenza femminile. Master in giornalismo, due terzi degli ammessi sono ammesse, cioè sono ragazze. E così alle conferenze stampa, scenario impressionante, i colleghi impattano smarriti su una muraglia di colleghe. Presentazione di libri, dibattiti, spettacoli, non avanza un posto libero per gli uomini. Ma anche al bar o in pizzeria, i tavoli di maschietti soli fanno pena, quelli di donne sole sono un’esplosione di vita e di allegria. Gli uomini non sanno che dirsi, le donne si dicono fitto fitto, da un lato il silenzio e l’arroccamento, dall’altro pirotecnici lapilli di energia. Da un lato il tramonto, dall’altro lo stupore gioioso dell’alba. 

SCIACCIANTE PREDOMINIO A SCUOLA - Per chi non se ne fosse ancòra accorto, il mondo non è mai stato così donna. E del resto, se continuano a nascere di più, non è perché l’ovulo ricatta lo spermatozoo, se vuoi passare è meglio che ti metti in testa come vanno le cose. E continuano a vivere di più, e ad ammalarsi di meno, e non è che tutti i batteri, e i virus, e i vibrioni si sono messi a fare i cascamorti con loro abbagliati da qualche curva. E basta entrare in una palestra, tapis roulant surriscaldati da armoniose falcate femminili, non corrono ma ondeggiano, coi maschi più in là schiacciati da pesi più grandi di loro. E sono tristi, tristi lavori forzati con i muscoletti gonfi come povere zampogne e la faccia esaurita dei perdenti. Ma è soprattutto a scuola che i maschietti sono sotto assedio. Lasciamo stare che le ragazzine a 12 anni sono già un concentrato di grazia e moine, e i ragazzini perdutamente orfani delle braccia di mamma. Lasciamo stare la vivacità delle une e la coda fra le gambe degli altri. Ma queste ormai li accoppano in tutto, hanno già capito ciò che la professoressa ha appena detto quando quelli stanno ancòra incamerando gli ultimi labiali. Quelle sembrano delle sfacciate, quelli dei complessati. Quelle scoppiettano di domande, quelli balbettano monosillabi. Quelle tengono la scena, quelli rimpiccioliscono nei banchi. E lo dimostrano i dati degli istituti specializzati. Femminucce più capaci di comprendere ciò che leggono o ascoltano, maschi come treni a vapore di fronte all’alta velocità ferroviaria. E più capaci, le femminucce, di tirar fuori sùbito una loro idea, con i maschietti che stanno ancora a roteare gli occhi spauriti di chi non solo ha un diverso passo ma è soverchiato dalla marea montante delle compagne. Dice: ma a quell’età è sempre stato così, si sa che le donne hanno lo sviluppo prima, bisogna vedere come va a finire a vent’anni. Va a finire anche peggio, da tempo gli universitari si possono solo sognare i libretti delle universitarie, da tempo le borse di studio e i dottorati sono passati di mano. 

MA IL POTERE NON CAMBIA - Gli è che leggono di più, si impegnano di più, soprattutto prendono tutto più seriamente. E i pedagoghi spiegano che, mentre i maschi ancòra non cresciuti continuano a rincorrere belluinamente un pallone, e a fare i brillanti che tragicamente si credono ancòra, le donne parlano fra di loro come da più piccole parlavano con le bambole. E girano, girano dappertutto, anche i loro trolley sono più vivaci dei borsoni dei loro coetanei. La differenza fra chi allena il cervello e chi allena i bicipiti. Fra chi cerca un nuovo futuro e chi crede di poter vivere di rendita su un potere prevaricato e perduto. E li vogliamo vedere maschi contro femmine, o femmine contro maschi, quando bisogna prendersi un minimo di responsabilità, quando bisogna affrontare la vita di ogni giorno invece di fuggirne come conigli? I maschietti sempre in difesa anche quando diventano uomini, anzi ominicchi, quelle svergognate che li martellano di ironia, e di sfottò, e di allusioni. Eppure poi vedi le cifre del lavoro, vedi le cifre dei posti di responsabilità, vedi le cifre delle vittime della violenza, e le donne tornano in fondo a una classifica che, all’italiana, bara al gioco. Tempo fa le donne si incazzarono e fecero la rivoluzione sessuale. Ora purtroppo non si incazza più nessuno, mentre un po’ ce ne vorrebbe. Lasciamo stare i vecchi «l’utero è mio e me lo gestisco io e i piatti sono i tuoi e te li gestisci tu». Ma più si va in giro e più si vedono uomini che andavano combattendo ed erano morti. Anzi non andavano nemmeno combattendo, sono solo andati a male.

Il Patriarcato.

Antonio Giangrande: Le manifestazioni di piazza: conformismo ed ipocrisia. La dittatura della minoranza.

Ci vogliono tutti conformati al pensiero unico dei salvatori della pseudo-civiltà.

Le manifestazioni di piazza. Sono sempre loro: di sinistra. Si fanno sempre riconoscere. Sempre dalla parte sbagliata: dalla parte del torto. Mai a favore di qualcuno. Sempre contro un nemico da combattere.

Manifestano contro i Femminicidi: combattono contro il Maschio, ma solo se è occidentale. Ed i maschi coglioni presenti manifestano contro se stessi.

Mi ricordo quando per il delitto di Sarah Scazzi, noi avetranesi ignari dei fatti, diventammo tutti colpevoli nell'ignavia dell'Amministrazione comunale.

Manifestano contro la Mafia: combattono contro i Meridionali.

Manifestano contro l'Omofobia: combattono contro gli Etero.

Manifestano per l'Aborto: combattono contro i Nascituri.

Manifestano per la Pace: combattono contro l'Ucraina ed Israele.

Manifestano per il Lavoro: combattono contro la classe Media ed il Governo.

Manifestano per l'Accoglienza e l'Inclusione: combattono contro l'Occidente e la Cristianità.

Manifestano per il Politicamente Corretto. combattono contro la Libertà di Parola.

Mai che ci sia una manifestazione spuria. Solite facce, solite bandiere, solita ideologia e soliti quattrogatti fracassoni.

Dove ci sono le telecamere ed i taccuini di media partigiani, lì ci sono loro: è la manifestazione del loro esibizionismo. Molte persone amano mettersi al centro dell’attenzione, cercano in tutti i modi di farsi notare dagli altri, sentono, cioè, un profondo bisogno di farsi vedere da tante persone, affinchè l’attenzione delle persone sia rivolta solo a loro, perchè si parli di loro.

Quei catto-comunisti che se governano loro è democrazia, se governano gli altri è dittatura.

Quei catto-comunisti che, pur minoritari affetti dalla sindrome della Resistenza, impongono il loro pensiero ideologico con manifestazioni di piazza, anche violente, disconoscendo l’opera, addirittura, dei loro stessi rappresentanti parlamentari portatori dei loro medesimi interessi.

Non capisco chi va a dimostrare. I loro problemi li manifestano in piazza: a chi?

Alla stampa omertosa? Ai politici menefreghisti? Ai colleghi di sventura che pensano a risolvere la loro personale situazione?

Non basta una buona rete sul web per far sentire la nostra voce?

Chi ha votato, si rivolga al suo rappresentante in Parlamento, affinchè tuteli il cittadino dai poteri forti.

Chi non ha votato, partecipi con altri alla formazione di un movimento democratico e pacifista per poter fare una rivoluzione rosa e cambiare l’Italia.

Affidati alla sinistra.

Dove c'è l'affare lì ci sono loro: i sinistri e le loro associazioni. E solo loro sono finanziate.

La lotta alla mafia è un business con i finanziamenti pubblici e l'espropriazione proletaria dei beni.

I mafiosi si inventano, non si combattono.

L'accoglienza dei migranti è un business con i finanziamenti pubblici.

Accoglierli è umano, incentivare le partenze ed andarli a prendere è criminale.

L'affidamento dei minori è un business con i finanziamenti pubblici.

Tutelare l’infanzia è comprensivo. Toglierli ai genitori naturali e legittimi a scopo di lucro è criminale.

L'aiuto alle donne vittime di violenza è un business con i finanziamenti pubblici.

Sorreggere le donne, vittime di violenza è solidale. Inventare le accuse è criminale.

Bestiario, l'Educhigna. L’Educhigna è un animale leggendario che esalta la nudità delle donne ma poi vuole entrare nelle scuole ad educare alla sessualità. Giovanni Zola il 7 Dicembre 2023 su Il Giornale.

L’Educhigna è un essere mitologico che si inventa acrobazie linguistiche per giustificare la mercificazione del corpo delle donne. Sui palchi dei concerti al femminile come nei videoclip musicali assistiamo a fantastici balletti ad altissimo tasso erotico dove le coreografie, le mosse esplicite, gli ammiccamenti e i pochissimi vestiti sono la riproduzione di rapporti sessuali in tutte le sue forme, tanto che il Kamasutra si vergogna. Le grandi artiste, non soddisfatte delle loro visite ginecologiche a distanza, teorizzano il significato sociologico delle loro performance senza mutande con pensieri straordinariamente originali per cui spogliarsi significa sentirsi liberi.

Ed ecco che in questo contesto entra in gioco l’Educhigna che difende la nudità dalle critiche inevitabili di mercificazione. L’Educhigna è studiata e ci spiega che "In Italia non si tollerano" le donne che sono “azioniste” della loro nudità. La nudità è vulnerabilità e svantaggio, ma nella sua scarsa accettabilità sociale è anche sfida. Mette in discussione il disagio. Fa riflettere su come la disuguaglianza influenzi le esperienze e le scelte di ciascuno di noi. Boh! Al di là del fatto che l’espressione “azioniste della loro nudità” è molto pericolosa in quanto riconduce al mestiere più antico del mondo, è curioso che la nudità sia l’esaltazione della libertà se proviene da una certa parte ideologica, mentre dall’altra si chiama sessismo.

Ma veniamo al dunque. L’Educhigna non si rende conto, oppure sì, ma è in cattiva fede, che le “azioniste del proprio corpo” propongono un modello di donna agli occhi delle giovani e dei giovani, che ha bisogno di apparire per essere e chi, se non ha le caratteristiche fisiche per apparire, è tagliato fuori da un sistema che non ha nulla di meritocratico. L’Educhigna dimentica forse che queste icone influenzano milioni di giovani. E più potente un video clip di trenta secondi che ore scolastiche dedicate all’educazione all’effettività.

Se ci fosse realmente la volontà di educare a un pensiero edificante bisognerebbe preoccuparsi di quei programmi televisivi apparentemente innocui e svuota cervelli dove la libertà di mettersi a nudo comporta una contrapposizione sempre divisiva e verbalmente violenta che niente a che fare con il rispetto dell’altro. Il mondo dei social propone la nudità in ogni tipo di forma facilmente reperibile che non ha nulla a che fare con la libertà, a meno che per libertà s’intenda monetizzazione facile a scapito della propria dignità.

Tante parole, forse inutili, si potrebbero sintetizzare in una sola frase: “Taylor Swift persona dell’anno”. Ha battuto la Barbie. Buon anno.

Anna Finocchiaro: “Manifestazione per Giulia Cecchettin? La rivoluzione delle donne è rimasta l’unica non sconfitta del ‘900”. Roberto Giachetti su Il Riformista il 9 Dicembre 2023

Anna Finocchiaro, sei stata Ministro per le Pari Opportunità nel primo Governo Prodi. Sono passati quasi trent’anni, com’è cambiata la situazione nella parità di genere?

«E’ cambiata perché c’è stato uno straordinario avanzamento nel senso della libertà, dell’autonomia e dell’affermazione delle donne in moltissimi campi della vita sociale e pubblica. Molte donne ricoprono ruoli di responsabilità, ma la situazione è ancora tutta in divenire. Per usare un’espressione di Alberoni, siamo in una “fase perdurante di stato nascente”, in cui a fronte di questa affermazione persistono contraddizioni gravissime, come il fatto che l’accesso delle donne al mondo del lavoro sia ancora limitato, che perdurino disparità salariali e che assistiamo a fenomeni di incapacità di adeguamento al nuovo ruolo femminile, di cui la violenza nei confronti delle donne è uno degli aspetti».

L’incapacità della società di riorganizzarsi in funzione del ruolo diverso che le donne hanno è un fatto strutturale che non riesce a fare grandi passi avanti.

«Sicuramente, e registra tra l’altro elementi di particolare contraddittorietà. L’Istat e gli osservatori internazionali rilevano che negli ultimi anni è in aumento la violenza letale mentre è diminuita quella non letale all’interno delle famiglie, che per molti secoli è stata un elemento strutturale della relazione coniugale. Ricordiamo che la Cassazione dichiara inapplicabile lo ius corrigendi alla moglie solo nel 1956 e che fino alla metà del ‘900 lo stupro coniugale non era valutato come reato, che nel nostro paese la legge sulla violenza sessuale è del ‘96, e che solo dopo arrivarono i provvedimenti sui maltrattamenti in famiglia. Quindi sparisce la forma tradizionale della violenza sulle donne, il fatto che il capofamiglia usasse i metodi forti, che questo venisse tollerato socialmente, per cui fino agli anni ‘50 e ‘60 in Italia che un marito battesse la moglie veniva “tollerato” dal parroco come dal maresciallo dei Carabinieri del paese, perché “era un lavoratore”, per “l’unità della famiglia” e l’uso della violenza sulla moglie in qualche modo non faceva scandalo. Aumenta però la violenza letale, perché la pulsione al controllo e dominio si confronta col fatto che stiano sparendo del tutto soggezione e “obbedienza” delle donne».

L’omicidio di Giulia Cecchettin ha avuto grande eco mediatica. Si parla di patriarcato, di svalutazione dei ruoli educativi, di educazione sentimentale. Mi sembra sia sempre più difficile affrontare un fenomeno nella sua complessità. Tu che ne pensi?

«E’ un fenomeno profondissimo. Che si produca anche tra i giovanissimi significa che esiste un disagio nella relazione tra uomo e donna talmente forte e radicato nella costruzione psicologica, emotiva e relazionale che non può che farci riflettere sul fatto che il vecchio sta morendo, e sta morendo per la volontà, la forza e la determinazione della libertà femminile. Ciò che resta del vecchio, una primazia maschile, non riesce più ad adeguarsi a questo mutamento, non trova più le parole, i gesti, i modelli, per cui un ragazzo viene preso da una sorta di panico, non ha più riferimento. La costruzione di questo riferimento è lunga e difficile. In questi giorni ho letto dei commenti social, scritti da giovani, sull’uccisione di Giulia che dicono “beh forse lei non era quella brava ragazza che sembrava…”, come se questo, ammesso che fosse vero e non è, “legittimasse” una violenza fino all’omicidio. Dall’altra parte c’è questa guerra all’ultimo sangue sulla parola patriarcato che io uso, anche se non si riferisce al modello patriarcale tradizionale ma a uno fortemente innervato dal fenomeno sociale della libertà e della presa di autonomia delle donne. E’ un lavoro incredibile da fare non certo litigando sulle parole, perché il tema è una difficoltà nella relazione tra i sessi. Se avessi un figlio maschio sarei preoccupata per un ragazzo che si muove in un contesto in cui non trova il suo posto, da una parte incalzato da donne determinate e competitive (pensiamo all’elemento della competizione negli studi nella vicenda di Giulia e Filippo), dall’altra si imbatte nella nostalgia di un ordine costituito, nel quale esiste la primazia maschile che tutto governa. Ma nel mondo che cambia così tumultuosamente, per una civiltà democratica basata su uguaglianza e parità, come si può pensare che a tutto questo si provveda solo con una più aspra e forte sanzione penale? Evidentemente no, è un lavoro molto più complicato che riguarda tutta la società».

Società che ha visto anche la pandemia che ha coinciso, secondo varie analisi, con un aumento significativo dei femminicidi in America ed Europa.

«Il lockdown ha naturalmente esasperato i conflitti all’interno delle famiglie, per la ristrettezza dei luoghi o l’incapacità di trovare alleanze e solidarietà fuori. Ma io penso sia un fatto strutturale, è proprio un processo. Stanno montando gli effetti di una rivoluzione delle donne, l’unica rivoluzione non sconfitta del 900, che porta sconquasso, perché distrugge ordini e sistemi ordinati secondo principi che non funzionano più. E questo naturalmente crea disagio e difficoltà. Riorganizzare intorno ad un pensiero diverso che riconosca pienamente la libertà delle donne è un lavoro che durerà decenni, perché si sono fatte strada da sole eppure rimangono pozze di arretratezza anche nelle cose meno evidenti. Ci sono voluti 20 anni con la legge sulla violenza sessuale per trasformarlo in un delitto contro la libertà piuttosto che contro la moralità, ma dopo tre sentenze importanti della Corte ancora non riusciamo a fare una legge sul doppio cognome, perché è fortemente simbolica. Nel codice civile non esiste una norma che prescrive che al figlio legittimo venga imposto il cognome del padre. Non era necessario scriverlo, è sempre stato così dal diritto romano in poi, tanto che la Corte è costretta a derivare la norma da un complesso di norme “laterali”. Perché questa legge quindi non viene approvata? Vengono opposte ragioni ridicole, ma la verità è che tocca un nodo simbolico. Siamo di fronte alla rivoluzione e dobbiamo attrezzarci perché questa rivoluzione non abbia vittime. Non mi riferisco solo a quelle del femminicidio, ma a un disagio diffuso di ragazzi che possono non trovarsi attrezzati di fronte alla ordinarietà di una relazione fondata sul rispetto con le loro compagne, amiche, fidanzate, mogli. Per questo è importante che gli uomini prendano la parola, perché avranno tanto da dire su questo e anche se in forma problematica e non pienamente adesiva, lo dicano, perché questa difficoltà venga fuori tutta».

In tema di norme penali a tutela delle donne ci sono stati cambiamenti. Pensiamo al reato di stalking, o alle molte leggi sul femminicidio approvate ultimamente dal Parlamento. Possiamo dire che il legislatore la sua parte l’ha fatta?

«Sì, perché ha individuato e descritto il fenomeno ed è già un fatto straordinario dal punto di vista della cultura e del sentire sociale, non solo della giurisdizione. Da ministro delle Pari Opportunità, quando introdussi le prime norme sull’allontanamento del maltrattatore dal domicilio domestico, ricordo la discussione in Commissione Giustizia, tutta composta da eccellenti parlamentari e ottimi giuristi. Eppure l’obiezione che mi si fece era “allontanato dal domicilio, purché non sia il proprietario dell’abitazione…”, capisci? Il diritto di proprietà prevaleva. Questo rimanda a un ordine culturale e valoriale antichissimo, riscontrabile anche tra rappresentanti del popolo, giuristi, attrezzati anche dal punto di vista culturale».

Noto una tendenza a polarizzare rispetto a questioni così delicate, c’è una fragilità diffusa rispetto agli ostacoli dell’esistenza e l’idea che il dolore spesso non sia un fatto superabile e momentaneo. In questo contesto l’uomo appare debole e disorientato, tu come la vedi?

«Lo penso anche io. E credo che per i giovani l’educazione allo smacco sia un pezzo importante per la costruzione identitaria. Bisogna spiegare che si può essere anche sconfitti e provare un dolore nell’aspirazione a un obiettivo o nell’amore per una persona. Per i ragazzi è specifica, è lo smacco subito dall’affermazione di autonomia di una donna che ti è vicina, che pensi di amare o credi sia tua, come diceva Filippo. Ma nessuno è di nessuno e l’amore si svolge nella relazione positiva tra due persone, non nell’appartenenza. Sono davvero un po’ preoccupata per i giovani uomini, perché finché non riusciremo a condividere un altro modello annasperanno e saranno in difficoltà, e nei casi più gravi saranno presi da una sorta di panico, non riuscendo più a orizzontarsi. E’ un lavoro difficilissimo, ma va fatto. Perché di sicuro il processo di maggior acquisizione di forza e libertà delle donne non si fermerà in nessuna parte nel mondo».

Roberto Giachetti

Giulia è stata uccisa da Filippo, non dal patriarcato. Daniela Missaglia su Panorama il 9 Dicembre 2023

Giulia è stata uccisa da Filippo, non dal patriarcato Per Giulia, infine, dopo un lungo mese di dirette televisive e indagini mediatiche, si sono svolti i funerali in diretta su Rai 1 e Canale 5. Ad esequie commosse, partecipate, svoltesi davanti a una folla di oltre settemila persone che si è stretta attorno a lei e alla sua famiglia, lasciatemi finalmente dire che imputare le cause dei femminicidi al ‘patriarcato’ è un’amenità senza pari. Non è il genere di appartenenza a determinare la responsabilità. Non scherziamo.

O vogliamo sovvertire l’antropologia e la teologia, attribuendo alla virilità dell’uomo un vulnus originario, recondito, che squalifica il maschio per il solo fatto di essere nato con un apparato sessuale esterno? Come se Dio avesse creato un prodotto fallato, l’uomo, e uno perfetto, la donna. Se questa è la nuova frontiera del femminismo, fermatevi subito, fate ammenda, perché state cadendo in uno scempio dell’intelligenza, oltretutto frustrando le battaglie legittime e sacrosante per le pari opportunità fra i sessi. Partendo dal presupposto che l’omicidio di una persona può essere causato da molteplici fattori, tra cui motivazioni personali, problemi mentali, conflitti interpersonali o altre circostanze specifiche, il “patriarcato” non può essere considerato come causa di un omicidio specifico. Per essere subito stringenti val bene sapere che patriarca è un termine di origine greca che indicava il ‘capo di una stirpe’, mutuato poi nella nomenclatura ecclesiastica delle Chiese ortodosse per indicare il vescovo più alto in grado. Con ‘patriarcato’ si è poi inteso descrivere un sistema sociale in cui il dominio e il potere, in ogni componente della società, fin dalla famiglia che ne costituisce la cellula-base, è riservata all’uomo.

Nell'ottocento Frederic Engels - colui che scrisse il Manifesto del Partito Comunista assieme a Karl Marx – attribuì al patriarcato un disegno predefinito per procurare una “sconfitta storica mondiale del sesso femminile”. Ora questi concetti vengono riesumati dal dimenticatoio della storia e gettati in pasto agli italiani con polemiche all’evidenza insulse e strumentali. Vorrei pensare che dietro queste affermazioni improvvide sul patriarcato vi sia solo mancanza di conoscenza, ma c’è qualcuno che vi rinviene un disegno all’incontrario, un piano preciso di femminilizzazione dell’uomo per superare i generi, in ossequio alle teorie gender e all’ideologia woke. Non andiamo così ‘oltre’ e torniamo alla stupidità di base di chi parla di patriarcato, finendo per ritenere che il Turetta abbia ucciso la sua Giulia (‘sua’ o di nessun altro) per colpa di una società maschilistica, quasi fosse un alibi alla sua natura assassina. In fondo, poveretto, che colpa ha se appartiene ad un retroterra “patriarcale” che lo ha instillato al dominio verso la compagna, attribuendosi lo ius vitae ac mortis per eredità di genere? Ma quale patriarcato, santo Cielo, nel 2023, con un Premier donna, con Taylor Swift personaggio dell’anno, con un riscatto senza precedenti delle donne nel mondo occidentale (e non solo), con politiche attente e sempre più orientate a sanzionare ogni favoritismo di genere? Ma quale patriarcato, se il Parlamento - a cadenze regolari - si occupa della violenza sulle donne, implementando le leggi già vigenti con una sensibilità al tema che è trasversale ad ogni schieramento politico? Ma quale patriarcato, se basta un’accusa senza prove, relativa a presunte violenze o atteggiamenti incongrui per distruggere reputazione, carriera, vita di un qualsiasi uomo? Raccontatela ad Axl Rose, ex frontman dell’epocale rock-band Guns and Roses, che si è visto recentemente citare in giudizio da una presunta vittima di uno stupro avvenuto nel 1989. Trentaquattro anni fa! Raccontatela all’attore Jamie Foxx, anch’egli accusato per un fatto simile avvenuto nel 2015, in questi rigurgiti di Me-Too che suonano più come tentativi di monetizzazione postuma che come credibili denunce. Siamo in una società dove l’uomo deve avere il terrore anche solo di prendere l’ascensore con una donna sola, per non essere poi accusato di molestie (o peggio), tant’è che nei corsi per dirigenti nelle grandi aziende statunitensi consigliano di evitare queste situazioni. Siamo in una società – come avviene in Scandinavia – dove il concetto di stupro è stato esteso a tutti quegli atti in cui il consenso non sia esplicito, non valendo il silenzio come tacito consenso. E dunque no, non si può parlare di patriarcato o delitto di Stato nell’uccisione di Giulia. Le cause devono essere ricercate in Filippo, che nonostante sia cresciuto in una famiglia normale, figlio di due persone normali, ha sviluppato disturbi personali di cui nessuno si era accorto: nemmeno il suo psicologo dal quale era stato otto giorni prima della tragedia

Vannacci nostri. Tommaso Cerno su L'Identità il 5 Dicembre 2023

Vannacci nostri. Diciamo che, alla luce di quanto accaduto negli ultimi mesi, dopo il Mondo al contrario e il Mondo invece dritto, quello per cui le promozioni nella pubblica amministrazione avvengono al di là di ciò che si fa e al di qua di ogni logica privata che valga per la gente comune, era difficile mettere d’accordo i tre fronti in campo: la destra filo-Vannacci che lo vuole eroe e candidato alle Europee (Salvini in primis); il premier Meloni che lo vuole in divisa al suo posto, depotenziato come destabilizzatore del già precario ordinamento della destra di governo, la sinistra che lo vuole a parole fuori gioco, nei fatti in campo, secondo il principio rimasto in vigore silenziosamente per tutta l’era di Silvio Berlusconi che è meglio un conflitto non risolto su cui creare l’attacco al potere che un conflitto risolto che prima o poi lascia spazio alla norma.

Qualcosa insomma doveva pure succedere a questo signore, lucido e composto nei modi, estremo e piuttosto scaltro nei contenuti. Forse la soluzione sarebbe stata nominarlo Capo di Stato maggiore della difesa extraterrestre, invece che terrestre, per mettere d’accordo tutti, spedirlo su Marte. Ma si sa che le maglie del diritto pubblico non sono dotate di razzi interstellari né di soluzioni funamboliche, ma si appoggiano salde dal 1900 sulle carriere lineari, dove conta più una carta bollata che mille polemiche in televisione.

E così ci siamo impallati di nuovo. Il ministro Guido Crosetto aveva parlato di “farneticazioni” all’indomani dell’uscita del libro, ma il governo ha deciso di non fare distinzioni fra Vannacci generale e Vannacci scrittore. E di portare a zero il vulnus giuridico con la pubblica amministrazione, convinto che così facendo il generale sarà disarmato dall’arma più pericolosa, la politica, l’idea cioè di entrare nella battaglia pubblica forte di un’ipotetica discriminazione, lui che di quella parola ha fatto un libro che sta riempendo il suo conto corrente di euro fumanti. Discriminato non dalla società italiana, che nelle vicende delle carriere del pubblico impiego vale zero, bensì dal sistema militare, quello per cui un generale fa carriera al di là di ciò che dice o che scrive. Come avviene per i magistrati, per i dirigenti dei ministeri, per gli alti funzionari della pubblica amministrazione.

La morale in punta di diritto è banale: il generale Vannacci, a questo punto del suo iter militare, in assenza di elementi giuridici che pesino come criterio di scelta, ha diritto a un posto di quel rango, Capo di Stato maggiore. E, lascia intendere la Difesa, in quel mondo l’incarico che ha ottenuto è il cosiddetto minimo sindacale. Proprio perché non sarebbe la politica a decidere, né quella che Vannacci ha animato con le sue affermazioni, né quella che lo ha criticato. Una sorta di terzietà di Stato che tuttavia sbatte con un dato di fatto: il Paese parla di lui da mesi, si spacca e si divide sulle sue parole, per cui tutto può succedere tranne che passi l’idea di un “aiutino” al Vannacci medesimo. Ed ecco che in concomitanza con una nomina che può essere definita “naturale” arriva l’inchiesta che lo spinge al congedo, perché Vannacci deve decidere come comportarsi. Deve passà la nuttata.

E poi finalmente dirci se saranno Vannacci suoi, cioè si prenderà il suo incarico e tornerà a fare il militare silenzioso oppure, come pare, no, non farà nulla del genere. Ma finirà per usare anche la presunta promozione come una discriminazione e scegliere davvero quella politica che lui ha sfiorato, annusato, con il suo libro. E che oggi di fronte al posto nello Stato Maggiore non ha più spazio di espansione. Almeno non pubblico. Almeno non subito. Insomma, mettetela come volete, saranno come sempre Vannacci nostri.

Estratto dell’articolo di Simonetta Sciandivasci per “la Stampa” lunedì 4 dicembre 2023.

Roberto Vannacci, generale e bestsellerista, da ieri è capo di stato maggiore del Comfoter, il comando delle forze operative terrestri. Nell'esercito italiano è un ruolo importante. «Prestigiosissimo», dice lui […] "Il mondo al contrario" è stato per settimane in testa alle classifiche, tutte, non solo di Amazon, dove oggi è al 23esimo posto […] ha venduto 230 mila copie «ufficiali, perché poi c'è il Pdf piratato, e lì siamo intorno alle 800 mila copie», dice il generale a La Stampa, rispondendo da Viareggio, dove non manca di invitarci, cena inclusa: «Pago io, da vero uomo patriarcale». […] 

Generale, cosa pensa del minuto di rumore e non di silenzio per il femminicidio di Giulia Cecchettin?

«Prima di tutto non mi piace chiamarlo femminicidio». 

[…] Perché il femminicidio ha una matrice precisa.

«Quindi l'assassinio di un tabacchino lo chiameremo commercianticidio? La matrice di chi vuole punire chi fa commercio non la vede? C'è in qualsiasi omicidio una matrice precisa». 

Pacifico. Individuarla serve a combatterla.

«Si parla da anni di femminicidi, eppure le donne continuano a venire uccise». 

Le sembra una buona ragione per smettere di farlo?

«Non dico di smettere, dico che farlo non serve». […] «Se l'omicidio di una donna diventa più grave di quello di un uomo, si vìola il principio di applicazione universale della legge». 

Il femminicidio non è punito in maniera più grave di un omicidio.

«Sì che lo è». 

Su quali basi lo dice?

«Mi sembra che sia così». 

Le sembra male. Il femminicidio viene disciplinato come le altre forme di omicidio.

«Mi sono sbagliato. Non sono preparato, io faccio il militare, non l'esperto di diritto. Le dico la mia su questi incessanti omicidi di donne. Chiamiamoli pure femminicidi, va bene, non mi dà fastidio».

Grazie.

«Il paradosso è che pensare che la responsabilità di quella che chiamiamo cultura patriarcale sia di uomini forti e prevaricatori: è il contrario. Sono gli uomini deboli a fare del male alle donne. Noi educhiamo uomini deboli, non uomini forti». 

E come sono gli uomini forti?

«Come mio nonno, classe 1898, orfano a 11 anni, in marina a 16, caduto decine di volte e si è sempre rimesso in piedi. Non ha mai alzato un dito su mia nonna e l'ha sempre rispettata. Quelli che ammazzano le donne sono uomini che non sanno stare da soli, che sono dipendenti da loro e che, quando temono di venire abbandonati, perdono la testa.

Altro che maschi patriarcali: sono mollaccioni smidollati che abbiamo prodotto noi».

Come?

«Abolendo le punizioni. Se un ragazzo non studia, lo mandi a lavorare invece di fare ricorso al Tar contro i professori che gli mettono 4».

Mi dica qualcosa di meno qualunquista, la prego.

«Le dico che dobbiamo insegnare ai nostri ragazzi, maschi e femmine, che la vita è una lotta e che per andare avanti bisogna avere fiducia nella possibilità di rialzarsi.

Molti uomini che ammazzano le compagne, dopo si suicidano: che significa secondo lei?». 

Che se perdono il possesso, perdono tutto.

«No. Uomini e donne si ammazzano perché perdono il lavoro; ragazze e ragazzi si suicidano perché vengono bocciati. Il punto non è che i maschi vogliono possedere una donna: è che dipendono da lei. Se perdi una compagna, non ne cerchi un'altra ma ti ammazzi. Se perdi un lavoro, non t'industri per cercarne uno: aspetti il reddito di cittadinanza».

[…] Le famiglie normali, come dice lei, non funzionano più.

«Abbiamo fatto di tutto per distruggerle. Abbiamo dato la priorità al lavoro senza elaborare politiche che ci permettessero di occuparci dei nostri figli. Invece del reddito di cittadinanza, diamo quello di maternità. Il primo responsabile dell'educazione è la famiglia, non la scuola: lo dice anche la Costituzione. Ecco perché dobbiamo aiutare chi ne ha una e smetterla di pensare che sostenere le madri sia retrogrado». 

È retrogrado pensare che vadano sostenute solo le madri: i figli sono dei genitori. E di una società intera.

«Chiedo il reddito di paternità: io sarei stato a casa con le mie figlie molto volentieri, e a lungo». 

Si sente genitore dei ragazzi in giro?

«Mi sento padre dei miei soldati». 

Scenderebbe in piazza con le sue figlie contro la violenza sulle donne?

«No, ma possono andarci da sole, se vogliono». 

Quanti anni hanno?

«9 e 11». 

[…] Le hanno detto cosa vogliono fare da grandi?

«Le youtuber. E io dico: ok, ma sappiate che dovrete essere le migliori, altrimenti fallirete». 

Poverine.

«Qualsiasi cosa facciano, le mie figlie devono emergere: meritocrazia e competitività mandano avanti una società. Guardi la Cina». 

[…] Lo ha seguito con attenzione il caso Cecchettin?

«Mi sono fermato ai titoli. Sono molto impegnato. Ma posso immaginare: sono storie tutte uguali, tutte morti annunciate».

Tutte violenze denunciate e sminuite da chi pensa che la violenza di genere non esista.

«Le borseggiatrici da quanto esistono? E però non le possiamo mettere in galera, giusto?». 

Non se sono incinte.

«E allora mandiamole sull'altopiano del Montasio a lavorare». 

[…] Qual è la cosa che la fa soffrire di più?

Il generale Vannacci e l’inchiesta per il suo libro: «La fuga di notizie la dice lunga sulla riservatezza ai vertici della Difesa». Marco Gasperetti Il Corriere della Sera il 5 dicembre 2023.

Il militare e la candidatura alle Europee: «Resto un soldato ma non escludo nulla»

Il generale la prende con filosofia. E giura di non essere sorpreso neppure dalla notifica dell’inchiesta formale arrivata lo stesso giorno della sua designazione a capo di stato maggiore delle forze operative terrestri. «Ormai non mi stupisco più di nulla — conferma Roberto Vannacci — ma sono tranquillo. I regolamenti sono chiari: l’avvio di un’inchiesta disciplinare non inficia designazioni e nomine e soprattutto sono convinto di aver operato nel rispetto di regolamenti e normative».

E allora come mai l’ex comandante degli incursori del Col Moschin e dei parà della Folgore ha chiesto immediatamente alcuni giorni di licenza? La risposta è secca: «Non l’ho decisa oggi (ieri, ndr) ma una settimana fa e tutti erano al corrente. Ho preso una ventina di giorni per motivi personali. Tornerò a Roma il 27 dicembre per iniziare l’avvicendamento con l’attuale capo di stato maggiore delle forze operative terrestri e, una volta terminato, sarò onorato di assumere l’incarico».

Però c’è una cosa che ha turbato non poco l’alto ufficiale finito nel gorgo delle polemiche per il suo libro «Il mondo al contrario». «La notizia dell’avvio dell’inchiesta formale, che non mi aspettavo, mi è stata comunicata ore dopo essere uscita sulle agenzie e sui quotidiani online. E questo episodio grave la dice lunga sulla dovuta riservatezza di chi maneggia queste informazioni». Ma chi è il maneggiatore? «Non lo so, arriva dall’alto — risponde il generale — come non so neppure per quale motivo sono stati fatti coincidere i tempi. Ci saranno state delle ragioni, dei fini. Comunque, sono già pronto a dimostrare l’assoluta limpidezza del mio comportamento».

Vannacci ha già letto gli addebiti che l’ufficiale inquirente, una sorta di pm in questo «processo disciplinare», gli muove e conosce le procedure. «Adesso dovrò nominare un ufficiale difensore — spiega — e presenterò le memorie difensive che in parte ho già preparato. Infine, aspetterò con fiducia l’esito del provvedimento. Se, ipotesi per me inesistente, sarò considerato responsabile di aver violato i regolamenti, sarà il ministro della Difesa a decidere i provvedimenti disciplinari, che vanno dalla sospensione sino alla rimozione del grado. Ma lo ripeto: io sono convinto di non aver violato nessuna norma disciplinare. E rivendico la libertà di poter esprimere le mie idee come stabiliscono la Costituzione e il codice dell’ordinamento militare».

E sull’opportunità di alcune esternazioni su omosessuali («non sono normali»), su femministe, maternità surrogata, femminicidio, animalisti? «Ho il dovere come soldato di essere imparziale nei riguardi delle istituzioni e della politica, ma posso andare allo stadio e tifare una squadra e avere le mie idee sulle problematiche sociali. Non esiste, in democrazia, la polizia dei pensieri. Se qualcuno si è sentito offeso mi quereli. Nessuno l’ha fatto e credo che non lo farà neppure in futuro». Già, il futuro del generale: sarà nella politica? Se FdI rimarca la distanza dalle discusse posizioni del generale, la Lega lo corteggia per Bruxelles e dopo Salvini ieri anche il vicesegretario Andrea Crippa, ha avuto parole di stima per Vannacci: «Le sue idee sono assolutamente compatibili con il nostro partito». Ma l’interessato non si sbilancia: «Resto un soldato ma nulla escludo».

Stasera Italia, Porro al fianco di Vannacci: “Solo lui non può scrivere i libri. I magistrati…” Il Tempo il 04 dicembre 2023

"Solo Vannacci non può scrivere libri". Nicola Porro, conduttore di Stasera Italia su Rete4, apre la sua trasmissione del 4 dicembre con un editoriale dedicato agli ultimi aggiornamenti riguardanti il generale Roberto Vannacci. E il tono del giornalista è critico per l’accerchiamento nei confronti del militare: “C’è questa storia un po’ kafkiana del generale Vannacci, tutti lo conoscete, il suo è stato il caso editoriale dell’anno, lo abbiamo invitato in tante trasmissioni televisive, però nel giorno in cui viene nominato capo di Stato Maggiore del comando delle forze operative terrestri, un nuovo incarico che pare non sia una promozione, parte un procedimento disciplinare nei suoi confronti. Esattamente nello stesso giorno. Vannacci evidentemente ha scritto delle cose nel suo libro che non piacciono a molte persone, come invece piacciono a tante altre, tant’è che è diventato un caso editoriale. E’ un funzionario dello Stato e su questo il segretario del Pd Elly Schlein ha detto cose diverse da quelle che dice Vannacci, visto che in lui ha individuato un rischio. Di questo si indagherà nel procedimento disciplinare che lo riguarda”.

“La domanda che voglio fare a tutti voi che siete a casa è la seguente – si interroga Porro -. Se un generale dell’esercito si permette di scrivere un libro su qualcosa che peraltro non riguarda esattamente la sua funzione, perché Il mondo al contrario è una sua visione del mondo, dal green alla famiglia, cose che hanno poco a che vedere con le attività operative di un generale dell’Esercito italiano, per quale motivo la stessa prudenza, lo stesso obbligo, lo stesso atteggiamento dovrebbero averlo un grande numero di magistrati, che sono come Vannacci funzionari dello Stato, che come Vannacci vengono pagati dai contribuenti, che come Vannacci hanno un ruolo delicato, forse ancora più delicato nel decidere la vita di noi che possiamo essere sottoposti alle questioni della giustizia”.

"L'ho autorizzata io". Crosetto fa chiarezza su Vannaci e l'inchiesta. Il ministro chiarisce il caso, dissipando le strumentalizzazioni. "Al momento nessun provvedimento disciplinare su Vannacci", spiega. E lamenta: "Molto grave la fuga di notizie, amareggiato dalle illazioni". Marco Leardi il 4 Dicembre 2023 su Il Giornale.

È stato il ministro della difesa, Guido Crosetto, a dare il via libera all'inchiesta formale sul generale Roberto Vannacci. A spiegarlo è stato lo stesso esponente di governo in una nota diramata proprio per fornire precisazioni sul caso dell'ex comandante della Folgore, al quale nelle scorse ore era stato assegnato un nuovo incarico. L'inchiesta sommaria sul militare - ha ricostruito Crosetto - "era stata disposta dal capo di stato maggiore dell'Esercito Pietro Serino, il 18 agosto e si è conclusa il 16 ottobre". Al termine, visti gli esiti, il medesimo capo di Stato Maggiore aveva proposto al ministro della difesa l'apertura di un'inchiesta formale "per accertare eventuali infrazioni disciplinari". E così è avvenuto. "Anche sulla base della relazione della Direzione generale del personale militare, ho accolto la sua richiesta, lo scorso 1 dicembre, nominando contestualmente l'Ufficiale inquirente, il generale Mauro D'Ubaldi", ha scritto infatt il ministro.

"Con lo stesso atto dell'1 dicembre ho individuato l'eventuale ufficiale difensore d'ufficio, qualora il generale Vannacci non intenda avvalersi di un suo difensore di fiducia e/o di un avvocato del libero foro, come pure è sua facoltà", ha aggiunto l'esponente di governo. Nel proprio comunicato sul caso, Crosetto ha utilizzato un linguaggio tecnico perché "il polverone che ogni singola notizia sul tema che riguarda la posizione del generale Vannacci, solleva, richiede, purtroppo, espressioni e formulazioni formali, come si confà a una organizzazione complessa e regolata da regole e regolamenti specifici come è la Difesa". Già in riferimento alle polemiche sul discusso libro pubblicato dal militare, del resto, la priorità manifestata da Crosetto era stata quella di salvaguardare le istituzioni da qualsiasi tipo di strumentalizzazione. Anche in questo caso, il ministro ha fornito le adeguate puntualizzazioni.

Ad esempio, il titolare della Difesa ha sottolineato che Vannacci "era stato avvicendato, e non 'rimosso', come continuano a scrivere molti organi di stampa, nonostante le mille successive precisazioni, per una esplicita decisione del capo di Stato Maggiore dell'Esercito". A Vannacci, dirigente generale della pubblica amministrazione, è stato quindi assegnato "un incarico adeguato al suo ruolo, nella sede di Roma, non essendoci, al momento, alcun provvedimento disciplinare nei suoi confronti". E qui si arriva per l'appunto all recente cronaca, con l'assegnazione del nuovo ruolo. "Con l'incarico di capo dello Stato Maggiore del Comando delle Forze operative terrestri, il generale di divisione Roberto Vannacci sarà il capo dello Staff in supporto al Comandante e al Vicecomandante del suddetto Comando", ha continuato Crosetto.

Per l'esattezza, il ministro ha anche aggiunto che Vannacci, "già la settimana scorsa, il 28 novembre, aveva ricevuto l'ordine di trasferimento e ne era stato preavvisato il 22 novembre scorso". In quella stessa data, il generale aveva chiesto una licenza "per motivi familiari", e - ha precisato Crosetto - "non oggi, come hanno scritto alcuni organi di stampa". Poi l'ulteriore puntualizzazione di disappunto: "Questa fuga di notizie mi consente di ribadire la rigorosa necessità di riservatezza dell'inchiesta, prevista tra l'altro dall'art.1050 del Testo unico dell'Ordinamento Militare, necessità indispensabile in casi come questi. Ho trovato molto grave la fuga di notizie che ha anticipato anche il mio comunicato ufficiale e sono particolarmente amareggiato non soltanto di questo fatto, ma anche di tutte le illazioni che sono circolate da agosto ad oggi su questa vicenda".

Da video.repubblica.it venerdì 1 dicembre 2023.

Natalia Aspesi scrive di femminicidi da quando aveva vent'anni e oggi ne ha 94. Da decenni risponde sul Venerdì alla rubrica di lettere "Questioni (non solo) di cuore". Siamo andati a casa sua, nel cuore di Milano, a chiederle come vede quest'orrore senza fine. Fuori dal coro come sempre, più che sul "patriarcato" preferisce riflettere su maschi ai quali è rimasta solo la forza fisica, ma non la capacità di affrontare il dolore di una donna che li lascia.

"Bisogna imparare a stare da soli - riflette -. Non esistiamo perché amati, l'amore può finire, anzi l'amore prima o poi finisce sempre. Io per esempio oggi da sola ci sto benissimo". Un incontro in cui ci ha regalato col sorriso, accarezzando la gatta Miranda, i ricordi della sua infanzia poverissima durante la guerra, dei suoi amori e tradimenti, dei suoi amici gay ("per gli etero una donna molto vecchia è come una morta, non mi vedono"). Uno sguardo unico sulla vita e sulla morte senza l'ombra di un rimpianto, compreso quello per i figli che non ha mai desiderato.

 Estratto dell’articolo di Cesare Zapperi per corriere.it giovedì 30 novembre 2023.

“Non intendo continuare a ricoprire il ruolo di Co-portavoce femminile che, nei fatti, è ridotto a mera carica di facciata. Mi dimetto. Non sarò la marionetta del #pinkwashing”. Cioè non farò la foglia di fico rosa di fronte a scelte non condivise. Parole dure e senza appello, quelle di Eleonora Evi, co-portavoce nazionale di Europa Verde, affidate ai social per annunciare che lascia l’incarico assunto nell’estate del 2021 […] 

“A sorpresa, dopo le politiche 2022 qualcosa ha scatenato un corto circuito quasi indecifrabile. I Verdi dopo una lunga assenza, tornano in Parlamento con una senatrice e sei tra deputate e deputati. Tra questi ultimi anche la sottoscritta. Improvvisamente i vecchi dirigenti hanno iniziato a fare muro contro di me, e questo perché avevo idee diverse e pretendevo, da Co-portavoce nazionale, di essere a conoscenza, ad esempio, delle decisioni politiche sulle liste, sulle alleanze e sulle strategie della campagna elettorale”.

Arriva all’AdnKronos la replica del co-portavoce Angelo Bonelli: «Avere divergenze politiche ci sta, è pacifico, avviene in tutti i partiti. Per esempio, noi abbiamo votato per l’alleanza europea che riconferma Avs, lei no, ma questo è un partito con parità di genere e che ha al suo interno delle donne eccezionali, come Luana Zanella, solo per citarne una». L’ex co-portavoce vi accusa di essere un partito patriarcale? «E’ un’accusa molto pesante e assolutamente falsa, siamo l’unico partito con una parità di genere». 

Evi racconta la sua amara esperienza a Roma. “Quando ho espresso posizioni o visioni non allineate a quelle della dirigenza durante le riunioni della Direzione Nazionale e pubblicamente, sono stata accusata di ingratitudine nei confronti della “famiglia verde” che mi aveva accolta e offerto uno scranno in Parlamento”.

Il rapporto ai vertici del movimento, e in particolare con l’altro portavoce Bonelli, è andato via via logorandosi. “Idee, proposte o visioni alternative – quando non complementari! – a quelle dell’establishment del partito, infatti, generano nei suoi esponenti reazioni impreviste: ora chiusura, ora diffidenza o sospetto. Talvolta paternalistica e vuota condiscendenza. Non di rado livore, rivendicazione”. 

La portavoce dimissionaria affonda i colpi: “Poco importerebbe lo scavalcamento sistematico della mia figura se questo non fosse il segno e solo uno tra le numerose espressioni sintomatiche della deriva autoritaria e autarchica del partito, come accaduto quando il Consiglio Federale Nazionale, organo per Statuto dotato di poteri di indirizzo politico, è stato chiamato di fatto a ratificare scelte già prese in altre sedi e annunciate a mezzo stampa”. […] 

Estratto dell’articolo di Francesco Rigatelli per “la Stampa” domenica 3 dicembre 2023. 

Domani sera alle Ogr di Torino Eva Cantarella, già professoressa ordinaria di Diritto greco e romano alla Statale di Milano, interverrà sul ruolo del Femminile tra Occidente e Oriente in occasione del Festival del Classico. In questa intervista, dopo Atene, Sparta e Roma proviamo ad arrivare fino ad oggi. 

Nell'antichità come veniva considerata la donna in Occidente e in Oriente?

«Erodoto, che non fu solo uno storico ma un antropologo, viaggiò in Oriente raccontando per esempio Tomiri e Artemisia, due donne di grande potere da cui si comprende come in quel mondo la distinzione di genere fosse minima, al contrario che nel mondo greco».

Chi era Tomiri?

«Tomiri nel VI secolo a.C. fu una regina combattente, che ereditò il titolo dal marito pur avendo un figlio maschio e governò gli indiani massageti nell'attuale Kazakistan. Quando Ciro il Grande, imperatore di Persia, la chiese in moglie, lei rifiutò subendo un'invasione a cui rispose fino a che il figlio fatto prigioniero non si suicidò. Quando offrì la pace, Ciro declinò, così scatenò una battaglia e lo uccise immergendone il cadavere in una botte piena di sangue di animale per vendicare il figlio morto». 

E Artemisia?

«Nello stesso periodo Artemisia, dopo la morte del marito, diventò sovrana di Alicarnasso, oggi Bodrum in Turchia. Con le sue cinque navi partecipò alla Seconda guerra persiana, pur avendo sconsigliato Serse di farlo. E sappiamo come andò a finire. Serse poi disse: i miei uomini sono diventati donne e le donne uomini». 

Furono eccezioni o la regola in Oriente?

«Furono eccezionali come combattenti, ma rappresentative di una femminilità emancipata. In Grecia, da Aristotele in giù, si teorizzò invece l'inferiorità della donna: alcuni dubitarono perfino avessero un ruolo nella riproduzione». 

Dipendeva dalla forza?

«Non solo, i greci erano proprio convinti dell'inferiorità mentale e fisica della donna».

[…] 

Il maschilismo proviene dai greci?

«Sì, i romani erano molto meglio. In Grecia per esempio le donne non potevano ereditare dal padre, mentre a Roma sì.

Le romane all'inizio avevano un tutore poi nel tempo si ribellarono, a differenza delle greche. 

Quando Augusto volle affrontare il tema della denatalità, che veniva vista come colpa delle donne che si erano emancipate e non volevano affaticarsi, fece una legge per rendere punibili le adultere da qualsiasi cittadino e non solo dal capo famiglia con la clausola che non valeva per le prostitute, così le romane scesero in piazza minacciando di iscriversi tutte alle case di prostituzione».

E su di noi hanno influito più i greci o i romani?

«Grazie a Dio i romani, poi nei secoli anche per via del Cattolicesimo le cose sono cambiate. Il patriarcato di cui si parla tanto oggi a sproposito, per esempio, è nato a Roma». 

Cosa intende?

«Mi pare si ignori il diritto, che però esiste. Nel 1942 il Codice era davvero patriarcale, ma dal 1975 non più con la fine della patria potestà. Parlare di patriarcato oggi vuol dire non conoscere i propri diritti. Poi che ci siano ancora molti uomini violenti è un altro discorso».

Per le femministe il patriarcato è una struttura sociale di cui sono vittime donne e uomini e che favorisce la violenza di genere, che ne pensa?

«Trovo sbagliata questa definizione sia dal punto di vista giuridico sia sociale. Distinguerei tra patriarcato e maschilismo.

Secondo me occorre un nuovo patto sociale tra uomini e donne. I femminicidi sono un segno di crisi di molti uomini privi di strumenti, che dopo le riforme giuridiche e l'emancipazione femminile non sanno come reagire».

Aiuterebbe un'ora di educazione sentimentale a scuola?

«Sono perplessa, vorrei sapere prima chi la fa e con quali contenuti. Forse sarebbe meglio svolgere bene i programmi già assegnati. Se fossi un insegnante, inoltre, non vorrei mai doverla fare. È anche un tema molto personale».

[…] C'è una guerra tra i sessi?

«Non la vedo oggi come non la rilevavo negli anni Settanta, quando semplicemente comandavano gli uomini e noi non abbiamo più ubbidito». 

E oggi chi comanda?

«Oggi ci sono molte donne in condizione di potere, e io non sono favorevole alle quote, per cui per me va bene così. Mi prenderò della reazionaria, ma lo penso». 

Invece come si definirebbe politicamente?

«Sono sempre stata di sinistra e continuo ad esserlo, anche se capisco poco Elly Schlein».

Cosa non comprende?

«È partita male con l'armocromista e ogni volta che parla faccio fatica a capire a chi si rivolga e con quali proposte esatte, ma forse a 87 anni non sono più io il suo obiettivo».

[…]

Specchio dei tempi. Le sberle ai bambini, le donne corcate e lo slittamento del tabù. Guia Soncini su LInkiesta il 4 Dicembre 2023

In “C’è ancora domani” di Paola Cortellesi c’è un dettaglio che dimostra come alzare le mani sui bambini, al contrario di picchiare le mogli, oggi non si possa nemmeno evocare in un film d’epoca. Questo vuol dire che si possono anche imporre nuovi comportamenti sociali

«Possibile che su ogni argomento culturale o politico si debba essere o favorevoli fino all’eccitazione, o contrari fino allo spregio? […] Potremmo, per cortesia, reintrodurre la nobile categoria del “così così”?». Lo scriveva Michele Serra dieci anni fa ieri, quando “Sole a catinelle”, il film di Checco Zalone uscito cinque settimane prima, si accingeva a superare negli incassi “Titanic”, fino ad allora detentore d’un qualche record al botteghino italiano.

Il superamento sarebbe avvenuto dieci anni fa oggi, il 4 dicembre del 2013, e questo non è un articolo per rimpiangere i bei tempi in cui un incasso era solo un incasso (ma un po’ sì), o per rimpiangere gli intellettuali cui non piacevano i fenomeni di massa (un po’ sì, ma nello specifico, nonostante io soffra sempre a contraddire Serra, “Sole a catinelle” non è per niente così così: è il miglior Zalone, l’ho rivisto la settimana scorsa piangendo dal ridere).

Questo è un articolo sull’articolo che, da quando ho visto “C’è ancora domani”, medito di scrivere e poi non scrivo, e quindi forse più che un articolo è una preterizione, più che una riflessione sui tabù è un tabù.

C’è una cosa, tra quelle che non tornano in “C’è ancora domani”, tra le scelte inverosimili che per ragioni artistiche qualunque autore può fare e non ha senso rimproverargli, c’è un dettaglio che secondo me ci parla del nostro tempo più forte delle cose che il pubblico e la critica hanno scelto di notare.

A un certo punto del film, la figlia adolescente lascia bruciare le patate perché impegnata a civettare con un ragazzino. La madre dice d’essere stata lei, certa che per quelle patate bruciate qualcuna dovrà essere corcata di mazzate, e determinata a proteggere la figlia: si farà pestare lei.

È, in generale, il grande rimosso delle storie d’epoca: si mettono in scena sempre madri protettrici che si sacrificano, ricordo solo un Losito in cui la madre dirottava sulla figlia l’aggressività del marito, ma trattandosi appunto di Teodosio Losito (più impresentabile da vivo di quanto lo fosse Checco Zalone dieci anni fa) questo sforzo di verità nessuno l’ha apprezzato.

Eppure chiunque ci fosse, nel Novecento, sa che i figli si picchiavano con una certa disinvoltura: era parte del modo in cui venivano educati. Certo, c’erano le degenerazioni e i genitori che menavano i figli per sfogarsi o per certe loro dinamiche di coppia (ciao mamma e papà: visto che brava, che faccio reddito delle vostre disfunzioni?); ma poi c’era la normalità. E la normalità era che nessuno s’impressionava per due sberle a un bambino.

Le patate bruciate sono l’unico scorcio in cui Paola Cortellesi decide di farci intuire – solo intuire, non sia mai – la possibilità che Valerio Mastandrea picchi la figlia, che comunque sta per sposarsi: è una giovane donna. I figli maschi del 1946, quelli sono bambini del 2023: maleducati come si permettono d’essere solo i bambini di questo secolo, senza che nessuno neanche gli dia mai un coppino, con un rispetto per la loro capricciosità che s’è visto solo in questo secolo.

Il fatto è che quella di “C’è ancora domani” è una casa di poveri, dove una moglie poteva essere picchiata. Per la borghesia che si dava un tono, picchiare i figli era normale e consigliabile, ma picchiare la moglie era un gigantesco tabù. Era una cosa che facevano i disperati, i reietti, i delinquenti.

Poi il tabù è slittato. Adesso, le mie coetanee dicono con assoluta serietà che, se il marito si permettesse di dare uno scappellotto ai figli, divorzierebbero istantaneamente. Adesso, se con un bambino alzi non dico le mani ma anche solo la voce, vieni guardato come la feccia dell’umanità da chiunque. Vieni guardato come una volta i ricchi guardavano i poveri che picchiavano le mogli. Adesso, alzare le mani sui bambini è diventato un tale tabù che non riusciamo a inserirlo neanche in un film d’epoca: uh, guarda, un 1946 di montessoriani, nei bassi proletari.

Se le cronache continuano a riportare di donne vessate, maltrattate, addirittura uccise, forse quel tabù per noialtre che osiamo essere adulte è decaduto, e forse bisognerebbe capire come mai. Se si possa ricostruire. Cosa serva per ottenere, per gli uomini padronali, la riprovazione sociale che c’è per chi va a letto coi consanguinei o per chi mangia carne umana. Ma non è di questo che volevo parlare (disse lei, che ne stava parlando da decine di righe).

Volevo parlare del perché non ne ho scritto. Volevo parlare di me, che dodici anni fa salivo su un palco a Roma per dire ai dirigenti del Pd che dovevano smetterla di snobbare il pop, e a ripensarci sembra un altro secolo. Ora che il disastro è compiuto per tutti, ma specialmente per la sinistra, all’inseguimento del pop senza capirlo ma sperticandosi comunque in lodi.

Volevo parlare di come dieci anni fa un successo non fosse ancora prescrittivo, anzi semmai il contrario: se incassavi tanto c’era qualcosa che non andava, se incassavi sfracelli Serra ti diceva che eri così così, gli articoli di Luca Sofri e Curzio Maltese non li ricopio per non infierire ma sembra parlino di Angelo Duro, e Philippe Daverio accostava Zalone a Berlusconi dicendo «tra trent’anni parleranno di questo ventennio, a livello mondiale, come il ventennio del trash».

Adesso, se provi a dire qualcosa di “C’è ancora domani” che non sia «sommo capolavoro», «film necessario», «licenziate chi non gli ha dato i finanziamenti», «date la guida della sinistra a Paola Cortellesi», allora sei sicuramente sessista, certissimamente non in contatto con lo Zeitgeist, e plausibilmente una persona insensibile e priva di gusto. Adesso che andiamo così all’inseguimento del consenso che l’unica cosa che vogliamo, se di mestiere facciamo i critici, è acciambellarci nel tepore di chi quel consenso se l’è conquistato. Adesso che «così così», d’un prodotto di successo, non si permette di dirlo più nessuno.

Ho sentito, in un’intervista, Alice Rohrwacher dire «sembra che l’unico sguardo possibile sia diventato quello del doversi identificare con un protagonista», ho annuito fortissimo, ho pensato che avesse un coraggio stratosferico, perché se c’è una garanzia d’insuccesso è dire al pubblico di questo decennio che non sei disposta a fargli da specchio.

Poi, sabato, ho visto un video della Rohrwacher col suo protagonista; invitavano gli spettatori a chiedere ai cinema di proiettare “La chimera”, il suo film che evidentemente si è fermato al gradino precedente dei film che non trovano pubblico: non trova neanche le sale.

Ho ripensato con tenerezza ai saperlalunghisti che mi spiegavano che il successo della Cortellesi avrebbe contagiato tutti, era il ritorno del cinema in sala, avrebbe trainato gli altri film. E invece, com’è ovvio, fa quello di cui veniva dieci anni fa vibratamente accusato Zalone: corre da solo. Gli esercenti vogliono l’incasso sicuro (per una volta che ce n’è uno), mica farsi garanti della varietà dell’ecosistema.

E il successo della Cortellesi è solo il successo della Cortellesi, non il segno che col diritto di voto non ci menano più, né quello che siamo tornate a vedere il cinema in sala, giacché tutto è, “C’è ancora domani”, tranne che un film. È un modo di posizionarsi nella società, è un’esperienza, è un evento, è tutte quelle parole postmoderne che usiamo coi prodotti disposti a farci da specchio.

Ed è, forse, il segno che si possono costruire nuovi tabù sociali. Da affiancare a quelli che si sono cristallizzati nei secoli, l’incesto, il cannibalismo: quest’anno ci abbiamo aggiunto quello di dire che sia così così un film che incassi anche solo la metà di Zalone (sì: inizialmente con meno della metà delle copie), se a girarlo è una donna.

Magari, applicandoci, riusciamo a resuscitare il tabù di menarle, le donne: se chi lo fa venisse considerato col disprezzo che spetta a chi osa criticarle, il problema si risolverebbe in frettissima. 

Hoara Borselli per "Libero Quotidiano"  - Estratti il 3 Dicembre 2023

Giampiero Mughini è un giornalista, uno scrittore, un pensatore, un bastian contrario, un polemista, uno che rompe le scatole un po’ a tutti. Ha 82 anni, ma ha ancora lo spirito di Gianburrasca. È nato a Catania, durante la guerra, è arrivato a Roma alla vigilia dei 30 anni, ha fatto il Sessantotto, ha scritto per il Manifesto appena nato (ma solo per pochi mesi), poi ha firmato come direttore di Lotta Continua, nel 1980 ha rotto col suo passato politico e ha scritto un libro intitolato “Compagni Addio”, ha collaborato con moltissimi giornali, e oggicontinua a distribuire idee e sapere, di solito di buon senso, riuscendo sempre a scandalizzare. È così: spesso il buonsenso scandalizza più delle scemenze. 

Giampiero, dimmi la verità: ti senti un po’ patriarca?

«Nemmeno un po’. Non ho mai sentito nella mia vita qualcuno che lo fosse, qualcuno che dicesse delle stupidaggini sul fatto che le donne vengono dopo o sotto gli uomini. Non ho mai sentito nessuno pronunciare queste cretinerie. Dalla mia adolescenza ho sempre pensato che le donne fossero le più difficili e le più importanti interlocutrici».

Che rapporto hai avuto con le donne nella tua vita? Ti sei mai sentito superiore a loro?

«Ho avuto un rapporto intensissimo con le sei, sette donne che ho avuto, e non vedo come avrei potuto sentirmi superiore. È una stupidaggine al di sopra delle mie possibilità». 

Questa storia che noi stiamo vivendo in una società patriarcale è una balla assoluta?

«No, è il frutto del fatto che ci sono alcune centinaia di miserabili che non esitano dinanzi all’ipotesi di ammazzare una loro ex. Non sono degli uomini: sono dei miserabili, degli sciagurati e delle nullità».

Secondo te è giusto trasformare una colpa individuale in una colpa sociale?

«Assolutamente no. Se qualcuno mi dicesse che io sono in qualche modo corresponsabile di quello che ha fatto Turetta, io gli do uno schiaffo». 

Molti uomini, vip e non solo, si sono lanciati nella campagna “mi vergogno di essere uomo”. Cosa ne pensi?

«Loro dicano ciò che vogliono, ne hanno piena facoltà. Io trovo queste espressioni surreali». 

Cosa hai pensato di fronte a quella fiumana che ha invaso il Circo Massimo gridando slogan pro Hamas?

«Ti dovrei dire tutto il male possibile perché è la verità. Ma preferisco non aver ascoltato questa domanda che attiene ad una cosa ributtante nel nostro tempo». 

Come hai vissuto il femminismo negli anni ’70?

«Le protagoniste erano quasi tutte mie amiche. Venivano a casa mia. Da single le ospitavo e preparavo loro il pasto, e sentirmi messo sotto accusa in quanto uomo mi sembrava una cosa assolutamente immeritata. Detto questo, ho letto i loro libri, le loro riviste, conservo come cimelio i primi libri, le edizioni originali di Carla Lonzi, la prima vera femminista italiana». 

Che differenza c’è fra il femminismo di ieri e quello di oggi?

«Quello di oggi mi sembra abbia meno ragione d’essere perché nel frattempo nella società reale, come era inevitabile, le donne hanno trovato un posto di rilievo, di assoluta parità con gli uomini. Io ho lavorato in giornali dove avevo direttori e vice direttori e capiredattori donne, con cui ho avuto rapporti, nel bene e nel male, esattamente come con gli uomini, ovvero ammirandole quando erano di valore, ululando quando mi rompevano le balle».

Ti reputi un uomo di sinistra?

«No, penso che questo termine non abbia più molto senso nell’Italia e nell’Europa del terzo millennio. Certamente non sono un uomo di destra. Mi reputo una brava persona». 

Pensi ti sia rimasto qualche legame con le idee della sinistra?

«Con le idee non tanto. Conservo dei legami sentimentali dalla memoria con personaggi della sinistra di cui sono stato amico e allievo. Te ne cito uno che oggi non direbbe nulla di nulla, un giovane Vittorio Foa, sindacalista socialista degli anni ’60, che è stato uno dei miei grandi maestri. Questa figliolanza la sento oggi immutata». 

Hai citato i sindacati. Cosa pensi dei sindacati di oggi e delle innumerevoli chiamate alle piazze e agli scioperi?

«Sono cialtronate. Impedire a un uomo di andare a lavorare bloccando il treno e quindi impedendogli un reddito e il pagamento delle tasse su quel reddito, è da cialtroni. Non c’è altro termine». 

C’è però chi dice che lo sciopero è un diritto e non si deve toccare?

«Il diritto allo sciopero nella Costituzione era sottoposto al non essere di grande disagio, a non avere effetti controproducenti, quindi secondo me il diritto allo sciopero è legittimo entro determinati limiti. Poi li facessero pure questi scioperi.

Io, ad esempio, non ho mai aderito agli scioperi dei giornalisti». 

Perché?

«Trovavo ridicolo che noi giornalisti scioperassimo. Se avevamo qualcosa da obiettare bastava scriverla sui nostri giornali. Quando i giornalisti scioperavano, io ero l’unico che andava in redazione anche se mi facevo togliere la paga come quelli che scioperavano». 

Rivendichi o ripudi il tuo passato da sessantottino?

«Ripudio no, perché significherebbe essermi macchiato di cose brutte che non mi appartengono. Però le idee che erano state le mie fino ai primi anni’70 sono diversissime da quelle mie di oggi. D’altra parte cosa è vivere se non cambiare e maturare le proprie idee?». 

Del resto solo gli imbecilli non cambiano idea, giusto?

«Solo gli imbecilli non cambiano idea». (ride) 

Quando oggi senti gridare al fascismo cosa pensi?

«Mi viene da ridere. Il fascismo c’era un secolo fa, anzi, un millennio fa».

Hai letto che volevano cambiare il nome a Cervinia perché coniato nel ventennio? Pare abbiano cambiato idea

«Dinnanzi ai vertici dell’imbecillità non rimane che assistere in silenzio». 

Mi dici sinceramente cosa pensi di Giorgia Meloni?

«La Meloni è in gambissima. Io l’ho avuta di fronte da una ventina di anni a questa parte. Oltre ad essere i nostri rapporti i più squisiti possibili, non le ho mai sentito sbagliare una sillaba».

Di Elly Schlein cosa mi dici?

«Io non ne penso nulla perché non vedo cosa ne potrei pensare. Non c’è nulla di lei che sollecita il mio giudizio e la mia passione negativa o positiva. Penso che il partito democratico da lei guidato sia destinato all’irrilevanza». 

(…)

Giampiero Mughini per Dagospia venerdì 8 dicembre 2023.

Caro Dago, a proposito di "patriarcato" leggo di donne odierne (delle giornaliste innanzi tutto) che raccontano i loro rapporti con gli uomini e negli anni ed è una successione di uomini che volevano baciarle o palpeggiarle a tutti i costi, di uomini che più volgari e prepotenti di così si muore. A riprova di quanto sia diffuso e dominante "il patriarcato" sub specie di una irrefrenabile volgarità di noi uomini nel rapportarci con il femminile. Aggiungo che qualcuna di quelle raccontatrici è stata ospite in qualche occasione a casa mia. 

Confesso di provare un certo imbarazzo nel leggere di questi racconti, che di certo corrispondono a verità autobiografiche. Solo che non esemplificherei a questo modo i rapporti più consueti e i più abituali tra noi uomini e loro donne, e persino le volte in cui un uomo s'è mosso in modo sbagliato con una donna. Ogni situazione è diversa da ogni altra, c'è mala grazia e mala grazia. Una volta al cinema, dove stavo seduto accanto a una donna, le presi la mano a segnare un'affettuosità. Lei ritirò subito la mano, e ne aveva tutto il diritto. Solo che non era "patriarcato" il mio, era solo un gesto affettuoso che andava valutato come tale e non come la prova del nove del nostro irriducibile maschilismo.

Di certo nei rapporti di ogni giorno tra uomini e donne ci sono gesti e parole sbagliate, improprie, talvolta goffe. Così è la vita, così è il nostro reciproco e affannoso (tra uomini e donne) cercarci, scoprirci, rivelarci l'uno all'altra. La vita che cos'altro è se non un tafferuglio di sfumature? Non la requisitoria di un pubblico ministero che ogni volta vuole appioppare il massimo della pena. Ne sta parlando non un presunto colpevole, ma un indubitabile innocente.

Estratto dell’articolo di Valerio Palmieri per “Chi” venerdì 8 dicembre 2023.

Giampiero Mughini e la moglie, Michela Pandolfi, sono seduti sul divano del loro villino in zona Monteverde con i loro due cani, Bibì e Klimt, accucciati in religioso silenzio. Mughini si è appena ritirato dal Grande fratello per scrivere il suo prossimo libro, sta rintanato per ore al piano di sotto, nel suo studio, a raccogliere le idee. 

Quando raggiunge la moglie per rispondere alle nostre domande, sembra che parli solo lui: costruisce frasi, evoca ricordi, disegna immagini. Mentre Michela è la rappresentazione plastica della sintesi, lei sa cogliere nel segno. Ecco il primo segreto di una coppia che resiste da più di trent'anni.

Domanda. Che cos'è l'amore dopo tutto questo tempo insieme?

Mughini. «Non ritengo che la parola "amore" sia sempre adatta per raccontare le situazioni affettive. Di solito per "amore" si intende l'inebriamento degli anni verdi, quando il maschio scopre il femminile e la femmina scopre il maschile. Ricordo il rapporto da ventenne con una biondina che mi piaceva... Per la relazione con Michela, questa parola non è sufficiente. Userei termini come intesa, lealtà reciproca, solidarietà.

Viviamo in una grande casa e, al mattino, Michela sta per i fatti suoi, mentre io devo lavorare perché non sono nato ricco. […] 

D. Anche gli intellettuali amano la tv popolare.

Mughini. «Non è il mio caso. Aborro il melò e il piacionismo di tanta tv popolare. Ci sono così tante cose da vedere di qualità». 

D. Come ha reagito quando le hanno proposto il Grande fratello, un reality che, agli occhi dei critici qualifica chi vi partecipa?

Mughini. «Penso di essere io a marchiare il contesto, non ho mai avuto il minimo sospetto che il contesto mi definisse».

Pandolfi. «Io qualche dubbio, in verità, lo avevo».

Mughini. «Mi sento solido come il ferro, non lo prenda come un atto di vanteria».

D. Com'è andata?

Pandolfi. «Credo che si sia trovato bene con un gruzzolo di ragazzi perbene che hanno adottato questo bisnonno bizzarro e lo hanno trattato con i guanti bianchi. Un ragazzo come Paolo, di professione macellaio, vale tanto oro quanto pesa. Per me era interessante stare con loro perché, in linea generale nella vita, quando ho un rapporto con una persona, al 95% ascolto e l'altro 5% racconto».

Pandolfi. «Non è proprio così: lui pensa di non parlare mai, ma fa solo finta di non parlare».

D. Ha avuto problemi con il "politicamente corretto"?

Mughini. «A volte sono stato rimproverato dal Grande fratello per aver usato toni forti nei miei racconti di vita».

Pandolfi. «Sì, e poi hai dato della zocc*** a una ragazza».

Mughini. «Quando utilizzo quel termine lo faccio con le mie migliori amiche. Per me indica una donna dominatrice della propria sfrontatezza, pro-vocante, attraente. Ho visto che il pubblico lo ha capito, mentre lì dentro no: Angelica, alla quale lo avevo detto amichevolmente, se n’è adonata». 

D. Mughini, in generale, apprezza la bellezza femminile.

Pandolfi. «Anch'io guardo le cose belle».

Mughini. «Ringrazio Dio per averci dato la bellezza: è importante nelle persone, negli oggetti, nei film, nei cani che sono qui con noi».

D. Sua moglie ci ha confessato che una volta, all'isola del Giglio, è stata "puntata" da Alain Delon.

Mughini. «Me lo ha raccontato vividamente. Che un uomo lanciasse occhiate alla Michela di quarant'anni fa non è una notizia, era bella da far paura, così come è bella oggi». 

D. Come l'ha conquistata?

Mughini. «Non credo ci sia stata un'operazione militare di conquista, c'è stata la vita che abbiamo cominciato a fare insieme: le ore trascorse in compagnia, i film visti. Ricordo che, una volta, mi portò a vedere un documentario di Wim Wenders sullo stilista Yohji Yamamoto, che non conoscevo, e ne uscii trasformato. Oggi credo di avere trenta vestiti di Yamamoto».

Pandolfi. «Il fatto di stare bene insieme, di parlare, di non sentirmi oppressa, mi ha avvicinata a lui. A quei tempi gli uomini con me erano molto insistenti». 

D. Nel vostro rapporto avete superato anche una sbandata di Mughini per un'altra donna.

Mughini. «Lei pensa davvero che in 33 anni non abbia mai guardato un'altra donna, che non ci sia stato quello che lei chiama uno sbandamento? È la cosa più naturale del mondo, solo un ipocrita e un bugiardo lo negherebbe».

D. Oggi le coppie si lasciano per molto meno.

Mughini. «Quel momento non è stato facile, è stata dura per lei, che non capiva di non correre alcun pericolo». 

Pandolfi. «In fondo non l'ho mai perdonato, mi sembrava una cosa talmente assurda. Anch'io ho guardato altri uomini, ma in maniera più riservata e discreta». […] 

Mughini: «La gelosia è per uomini miserevoli».

Evi e quel Vaffa al suo partito Verde: “Sono patriarcali”. Domenico Pecile su L'Identità l'1 Dicembre 2023

Dice: “Nel partito una deriva autoritaria e autarchica”, poi aggiunge: “Contro di me eretto un muro” e ancora: “Dentro il partito paternalismo e livore”: un j’accuse lungo, articolato, a tratti livoroso quello che ha suggerito a Eleonora Evi di abbandonare la guida dei Verdi. Non vuole, ha anche aggiunto, “essere la marionetta del pinkwashing”. Già, un duro colpo per un partito che della lotta al patriarcato e al maschilismo in nome della parità di genere ha fatto uno dei suoi cavalli di battaglia. Già, un paradosso proprio in questi giorni in cui il termine patriarcato è stato usato e abusato. Già, una tegola che arriva come un micidiale boomerang dentro un partito che da ieri si vedrà costretto, ahilui, ad andare in analisi per analizzare ed eventualmente sradicare sacche di patriarcato che pensava retaggio della conservazione, del sovranismo e di tutte le destre. Insomma, la comunicazione di Evi (“Inaspettata”, è stato il commento dei vertici verdi) piomba come un fulmine a ciel sereno e rischia davvero di spiazzare la nomenklatura verde che riteneva che certe dispute non le appartenessero.

Dunque, per Evi la misura è colma. E non se la sente più “di portare avanti l’incarico” di co-portavoce nazionale di Europa Verde, eletta nel 2021 “Ero piena di entusiasmo e sinceramente convinta che avrei avuto la possibilità – motiva – di collaborare concretamente a fondare un innovativo progetto ecologista”. “Penso di avere dimostrato un grande impegno – aggiunge – ed un entusiasmo fin da subito, girando in lungo e in largo l’Italia”. Dice di essersi “resa disponibile da europarlamentare”. Aggiunge di avere dato “energie e risorse a un partito che sembrava dimenticato”. E denuncia l’ex co-portavoce: “A sorpresa dopo le elezioni politiche dello scorso anno qualcosa ha scatenato un corto circuito quasi indecifrabile” talché “improvvisamente i vecchi dirigenti hanno iniziato a fare muro contro di me perché avevo idee diverse e pretendevo di essere a conoscenza delle decisioni politiche su liste, alleanze e strategie della campagna elettorale”. Insomma un delitto di lesa maestà, fa capire Evi. Anche perché, aggiunge impietosa, rivela di essere vittima di una sorta di ricatto morale visto che è stata “accusata di ingratitudine nei confronti della famiglia verde che mi aveva accolta e offerto uno scranno in Parlamento”. E qui arriva l’impietoso affondo che ha mandato letteralmente in tilt il partito. Evi spiega che “idee, proposte o visioni alternative – quando non complementari! – a quelle dell’establishment del partito, infatti, generano nei suoi esponenti reazioni impreviste: ora chiusura, ora diffidenza e sospetto. Talvolta paternalistica e vuota condiscendenza. Non di rado livore, rivendicazione”. La denuncia riguarda anche la sua richiesta “più volte reiterata di avere informazioni sullo stato di salute del partito (tesseramenti, federazioni attive, commissariamenti ecc) ottenendo risposte parziali o addirittura nulle”. E come ha reagito il partito a questo suo ripetuto e manifestato malessere? Evi sostiene che soprattutto in questo ultimo anno la sua figura è stata sistematicamente oscurata. Eccolo, precisa meglio, il segno evidente della deriva autoritaria ma anche autarchica del partito. Insomma, il suo ruolo – chiosa – era stato ridimensionato e ridotto così a una presenza soltanto di facciata. Della serie: non puoi parlare perché sei l’ultima arrivata e forse anche perché, è il suo sospetto, sei donna.

La prima replica – volutamente soft e senza toni acrimoniosi – arriva direttamente da Angelo Bonelli co-portavoce di Europa verde e deputato. Che tenta di smorzare le durissime parole di Evi e ricondurre il tutto a una delle più classiche discussioni all’insegna della franchezza e della dialettica interna. “Avere divergenze politiche ci sta, è pacifico, avviene in tutti i partiti. Per esempio – spiega – noi abbiamo votato per l’alleanza europea che riconferma Avs, lei no, ma questo è un partito con parità di genere e che ha al suo interno delle donne, come Luana Zanella, solo per citarne una”. Come dire che il femminismo di mera facciata denunciato dalla Evi è tutta una supposizione della stessa. Una difesa quella di Bonelli che per Evi non ha toccato uno dei temi principali come quello che lei stessa ha definito un “corto circuito quasi indecifrabile che ha colpito il partito soprattutto a partire dalle elezioni del 2022”.

La Signora in Verde. Tommaso Cerno su L'Identità l'1 Dicembre 2023

Non serve Jessica Fletcher, la mitica Signora in Giallo, per capire perché la Signora in Verde, Eleonora Evi, co-portavoce dei Verdi di Bonelli (quelli che assieme a Fratoianni ci hanno propinato Soumahoro in Parlamento) ha sbattuto la porta e attaccato il suo partito definendolo patriarcale. Già, proprio quelli della parità e del politically correct.

Sembra una nemesi che proprio il partito che ha più di tutti professato l’uguaglianza, il superamento del gap maschi-femmine, le quote rosa, si ritrovi con Eleonora Evi che sbatte la porta e accusa i vertici del suo partito di quel patriarcato che per la sinistra dei talk show è il vero mandante perfino dell’omicidio di Giulia Cechettin. Una sensazione che, a tutti gli effetti, era nell’aria. Io stesso qualche ora fa avevo commentato la doppia nomina dei maschietti in questione, Fratoianni e Vendola, al vertice di Sinistra italiana l’alleata dei Verdi. Una nomina giunta per acclamazione che mi dava l’impressione del perpetuarsi della stessa classe dirigente, quella che ha fatto le liste fra mogli e mariti più o meno consapevoli, quella che ha messo in parlamento come simbolo della lotta in favore gli ultimi tal Aboubakar Soumahoro finito nel tritacarne di una indagine sulle coop gestite dalla di lui moglie e di lui suocera che stanno ancora agli arresti domiciliari. Insomma un bell’ambientino.

Ma, come capita ormai sempre, non appena aveva suggerito una riflessione in merito sono piovuti sui social i soliti insulti patriarcali da maschio alfa che arrivano quando ti permetti di ledere alla maestà della sinistra senza macchie e senza colpe che alberga a sbafo in questo Paese da molti anni. Nella trafila di scemenze che si erano riversate contro di me l’accusa di essere uno dei mandanti dell’omicidio Cechettin, per questa mia storica voglia di maschilismo che connota tutta la mia biografia di omosessuale da sempre schierato per la libertà di opinione e di espressione. E devo dire che i toni usati da me, “più che patriarcato padronato”, sono all’acqua di rose rispetto agli insulti che tali signori mi hanno riversato addosso. L’avevo preso per una rosicata, prima di leggere le accuse che Eleonora Evi, la cooportavoce dei Verdi di Angelo Bonelli, alleato storico del duo Fratoianni-Vendola. Dice Evi che il suo partito, quello che ci propina la parità e che accusa di fascismo la Meloni, di qualunquismo chiunque ponga un dubbio su Soumahoro e la loro gestione dei migranti e via discorrendo, è un ennesimo partito patriarcale e personale.

Una specie di versione green di Re Sole e della sua corte, insomma, fatta apposta per sedersi al caldo in Parlamento se possibile con mogli al seguito. Ed eccoci qui, a vedere l’Italia reale. Quella cioè dove tanto tiri la corda che sono i tuoi sodali i primi a sbottare e a dirci, come il bimbo del re nudo, la verità che la dialettica politica vietata nel Paese come fu vietato uscire di casa senza green pass, ciò che tutti vedono. Perché la signora in questione tocca il punto: finché si tratta di dare incarichi inutili, sottopancia per la tv, cadreghe ai convegni tutti sono aperti al partito del futuro. Poi arriva la politica, quella maschile, fatta di poltrone, stipendi e posti in lista. E puff, come per magia, la verde resta al verde. E adesso le resta da dirci che il maschilismo sta tutto a destra, perché Giorgia Meloni, leader del suo partito e capo del governo, si fa chiamare presidente e non presidentessa. Pur sempre del Consiglio dei ministri.

Il patriarca verde. Il maschilismo di Bonelli, incontrastato leader dell’ambientalismo gruppettaro. Carmelo Palma su L'Inkiesta l'1 Dicembre 2023

Con le dimissioni della co-portavoce Eleonora Evi, il capo dei Verdi conferma di essere la bestia nera delle sue concorrenti di sesso femminile. Conferma anche che il suo partito è destinato all’irrilevanza

Angelo Bonelli è dal 2009 il capo (con diverse denominazioni: presidente, portavoce, coordinatore) del partito dei Verdi che, anch’esso con diverse denominazioni (prima Federazione dei Verdi, poi Europa Verde), ha attraversato la storia della Seconda Repubblica abbandonando le ambizioni riformiste della stagione rutelliana – in cui i Verdi italiani erano sostanzialmente uno spin-off radicale – e diventando un lugubre laboratorio di ignoranza apocalittica e di superstizione anti-scientifica.

Se il suo predecessore Alfonso Pecoraro Scanio era un piacione simpatico e gaglioffo, che dava l’aria di non prendersi troppo sul serio nelle obbligate prosopopee millenaristiche e nelle nostalgie della via Gluck a cui lo costringeva il ruolo di bellu guaglione ambientalista, Bonelli dà un tocco di autentico e di sinistro all’ecologismo reazionario, con la sua faccia triste e severa da travet del fanatismo e da Torquemada della contro-rivoluzione industriale.

Dietro questa apparente autenticità deve però celarsi un mestiere consumato da politico di relazione e da navigatore del network del potere (con rispetto parlando) progressista, se l’anzianità di servizio alla testa delle invero sparute armate del suo partito personale ne fanno il decano dei (sempre con rispetto parlando) leader della politica italiana, dopo la morte del Cavaliere e il pensionamento del Senatur.

Se però Bonelli non ha mostrato grande talento nell’intercettare l’onda lunga dei Fridays for Future e ha condannato i Verdi italiani a rimanere i parenti poveri e sfigati dell’European Green Party, ben maggiore destrezza ha rivelato nella resilienza da maggiorente di quella partitocrazia micro-gruppettara e nominalmente antagonistica, capace di trasformare l’estremismo in una rendita e il minoritarismo in un affare, in una candidatura o in un seggio concesso dalla sempre meno grande e sempre più disprezzata sinistra mainstream (leggasi: Partito democratico).

Le dimissioni della co-portavoce di Europa Verde Eleonora Evi, che ieri ha sbattuto la porta accusando Bonelli di averla relegata a un ruolo di «marionetta del pinkwashing», sono interessanti per molteplici ragioni.

La prima è che Bonelli si conferma come la bestia nera delle sue concorrenti interne di sesso femminile. Aveva iniziato nel 2009 con Loredana de Petris, a cui strappò in un congresso all’ultimo voto (e all’ultima tessera) la presidenza dei Verdi su una piattaforma autonomistica, contraria alla confluenza in Sinistra Ecologia e Libertà. Ha finito (temporaneamente) liquidando con una democristianissima strategia di isolamento interno Eleonora Evi, accusata, a parti invertite, di volere tenere i Verdi in una posizione elettoralmente autonoma contro la volontà del “patriarca”, favorevole alla prosecuzione del legame con Sinistra italiana.

In mezzo all’una e all’altra non si contano le dirigenti trattate alla stregua di meteorine e reclutate e poi risputate nel dimenticatoio, da ultima la di lui più titolata Rossella Muroni (già presidente Nazionale di Legambiente), licenziata alla fine della scorsa legislatura per avere sostenuto in Parlamento il governo Draghi e l’aiuto militare all’Ucraina.

La seconda ragione per cui questo scontro che non ci lascia alcuna suspence sull’esito – vincerà come sempre Bonelli – ha un non secondario interesse cultural-politico è che si tratta di un perfetto spaccato della eterogenesi dei fini della patriarcatodemia, dilagante nel senso comune della sinistra – e massimamente di quella antagonista –, e destinata inevitabilmente a rivolgersi contro nemici interni, dopo avere fallito miseramente il bersaglio contro i nemici esterni.

Continuerà a non fare un baffo al partito di Meloni che, pure se si fa chiamare presidente al maschile, è inequivocabilmente di sesso femminile, ma farà disastri nei regolamenti di conti a sinistra tra compagne e compagni, tutti equivocamente e indifferentemente accusabili come minimo di mansplaining, quando non di peggio.

Così alla fine il bonellismo, oltre a qualificarsi meritatamente come malattia senile dell’estremismo e come riuscito esperimento di mastellismo o tabaccismo green, potrebbe pure diventare – forse meno meritatamente – sinonimo di esecrabile maschilismo.

Bonelli replica alle accuse di sessismo di Evi: "La oscuro? Non cerco io le trasmissioni". Il Tempo il 9 dicembre 2023

"Non sarò la marionetta del pinkwashing". Comincia così il lungo post su Facebook attraverso il quale la deputata di Avs, Eleonora Evi, ha annunciato le dimissioni da co-portavoce di Europa Verde, per un ruolo, "ridotto a mera carica di facciata". "Rassegno le mie dimissioni pur restando fermamente convinta della necessità di un progetto ecologista italiano coraggioso e contemporaneo, e non l'ennesimo partito personale e patriarcale": questa la prosecuzione. Oggi, attraverso un'intervista concessa al Corriere della Sera, è arrivata la replica di Angelo Bonelli, l'altro co-portavoce del partito. "Ho letto che avremmo approfittato della sua maternità per isolarla. Quando è nata la bambina sono andato io a Rovereto a cercare una ricamatrice che facesse a mano il fiocco rosa, quello che poi io stesso ho messo sul banco di Eleonora a Montecitorio": così ha esordito il deputato.  

Quindi è arrivata la bordata: "Eleonora Evi ha detto che la comunicazione del partito è concentrata su di me e oscurava lei, come se fosse una mia macchinazione. La comunicazione del partito la faccio io e cercate me, non sono io che cerco la stampa o le trasmissioni". Alla domanda sulla presunta volontà di mettere Eleonora Evi nel cono d'ombra, Bonelli ha risposto: "Non c'è un diritto divino a essere presente in televisione o intervistati dai giornali. Uno la leadership dev'essere in grado di costruirsela, passo dopo passo". 

L'intervista si è conclusa con un retroscena: "Qualche mese fa, Meloni incontra i partiti di opposizione sul salario minimo. Mi telefona al sottosegretario Mantovano per invitarmi a Palazzo Chigi. Io chiamo Eleonora Evi e le dico: “Vacci tu, io non vengo”. Sono uno che vuole oscurarla? Potevo andarci da solo, potevamo andarci assieme, è andata lei da sola. Finisce l'incontro, mi chiamano i giornalisti per chiedermi come fosse andata, li avverto che all'incontro col governo è andata Eleonora e non io. Che cosa scopro? Che in quel confronto con la presidente del Consiglio erano intervenuti Schlein, Calenda, Fratoianni, Magi, i 5 Stelle e che lei, invece, aveva fatto scena muta". 

Bonelli e l'addio di Eleonora Evi: «Io un romantico. Quelle accuse di sessismo mi devastano». Tommaso Labate su Il Corriere della Sera l'8 dicembre 2023

«A uno con la mia storia certe accuse lo ammazzano, lo devastano, lo distruggono».

Addirittura.

«Io sono uno a cui i clan di Ostia hanno bruciato casa nel 2001. Uno a cui nel 2016 hanno messo davanti alla porta un cuore e un fegato, col messaggio che i prossimi organi sarebbero stati i miei. Eppure, le cose che ho letto e sentito negli ultimi giorni, a uno col mio carattere, fanno persino più male».

Com’è il suo carattere?

«Be’, sono schivo, introverso, così. Anche se sono molto migliorato, una volta ero peggio, più intransigente, più chiuso. Ora va meglio».

Stiamo parlando di Eleonora Evi, che ha lasciato Europa Verde evocando un ostracismo bullista, sessista, da parte sua e della comunicazione del partito.

«Ho letto che avremmo approfittato della sua maternità per isolarla. Quando è nata la bambina sono andato io a Rovereto a cercare una ricamatrice che facesse a mano il fiocco rosa, quello che poi io stesso ho messo sul banco di Eleonora a Montecitorio».

Angelo Bonelli è appena rientrato in Italia da Dubai, dov’era per la Cop-28. Accetta con qualche fatica di fare questa intervista sul caso che ha portato il suo partito, Europa verde, su tutti i giornali.

«Specifichiamolo. Ho chiesto io questa intervista o siete voi che mi state chiamando?».

Noi.

«Ah, ecco. Perché, sì, Eleonora Evi ha detto che la comunicazione del partito è concentrata su di me e oscurava lei, come se fosse una mia macchinazione».

Che c’entra chi ha chiamato chi per questa intervista?

«C’entra. La comunicazione del partito la faccio io e cercate me, non sono io che cerco la stampa o le trasmissioni».

A lei piace apparire, però.

«Ci sono posti dove non mi invitano mai, pazienza, mica mi metto a fare la vittima dicendo che vogliono oscurarmi. Floris non mi invita mai, per esempio. L’ho mai accusato di volermi oscurare?».

Dica la verità. Ha oscurato l’ascesa dell’onorevole Evi?

«Non c’è un diritto divino a essere presenti in televisione o intervistati dai giornali. Uno la leadership dev’essere in grado di costruirsela, passo dopo passo».

Riformulo, onorevole. L’ha oscurata?

«Qualche mese fa, Meloni incontra i partiti di opposizione sul salario minimo. Mi telefona il sottosegretario Mantovano per invitarmi a Palazzo Chigi. Io chiamo Eleonora Evi e le dico: “Vacci tu, io non vengo”. Sono uno che vuole oscurarla? Potevo andarci da solo, potevamo andarci assieme, è andata lei da sola. Finisce l’incontro, mi chiamano i giornalisti per chiedermi come fosse andata, li avverto che all’incontro col governo è andata Eleonora e non io. Che cosa scopro? Che in quel confronto con la presidente del Consiglio erano intervenuti Schlein, Calenda, Fratoianni, Magi, i 5 Stelle e che lei, invece, aveva fatto scena muta».

È ancora ferito, onorevole.

«Io interpreto la politica come una cosa romantica, sentirmi accusare di patriarcato, bullismo o sessismo mi dà fastidio. Tra l’altro è proprio per romanticismo che, per caso, sono finito a fare politica».

Romanticismo?

«Sul trenino Roma-Ostia, anno 1988, sento le persone che parlano di una speculazione edilizia tra Casal Bernocchi e Vitinia. Un’ondata di cemento sulla Valle di Malafede. Eh no, quello era un posto che conoscevo centimetro per centimetro, il luogo delle passeggiate col primo amore. Mi inc...ai di brutto, decisi che dovevo impegnarmi in prima persona».

La stampa l’avrebbe ribattezzata il Torquemada del litorale, per il suo oltranzismo.

«Carattere intransigente perché il luogo e il contesto richiedevano intransigenza. Sono nato e cresciuto vicino a dove hanno ammazzato Pasolini, in mezzo all’eroina. Mia mamma, la mattina, mi controllava le braccia mentre dormivo per vedere se mi bucavo. E quarant’anni dopo devo sentirmi dare del sessista?».

I giovani italiani sono i più sensibili all'uguaglianza fra donne e uomini. Claudia Osmetti su Libero Quotidiano il 30 novembre 2023

È che siam sempre lì, magari pure col ditino alzato, signora-mia-ma-questi-ragazzi-di-oggi-come-stanno-crescendo? Oppure con le ultime manifestazioni, fiumane di persone in piazza, giustamente scandalizzate perché la violenza di genere è uno schifo e poi cosa-stiamo-insegnando-ai-giovani? O ancora indignati, preoccupati, risentiti: troppi social, troppo bullismo, troppo razzismo. Colpa (il leitmotiv della settimana) del patriarcato, di quella cultura maschilista che ti tira su così, con una scala di valori inaccettabile per un Paese occidentale del 2023. E abbiamo torto. Torto marcio. Non perché la violenza di genere non sia uno schifo (lo è), non perché il patriarcato non esista (in una certa misura esiste, assieme alla cultura maschilista che in alcuni casi è dura a smorzarsi), non perché siano da negare (giammai) bullismo e razzismo: ma perché i nostri ragazzi, gli adolescenti, i tredici e quattordicenni dell’Italia moderna, dell’Italia di oggi, sono molto più aperti di noi. Se c’è qualcuno che impartisce lezione, al massimo sono loro. 

Lo dice chiaramente l’ultima indagine di Iea Iccs (che poi è l’International civic and citizenship education study) la quale ha coinvolto 22 Paesi nel mondo (quindi non solo il nostro), 224 scuole italiane, 2.400 insegnanti e circa 4.900 studenti delle scuole medie. Si tratta di uno studio, approfondito, quello di Iea Iccs, tra l’altro nuovo di zecca perché non era mai stato condotto prima, almeno non con una platea di riferimento così ampia, sull’educazione civica e la cittadinanza. Uno studio che fotografa per bene come gli studenti italiani siano più favorevoli (e parecchio) della media internazionale dei loro coetanei quando si parla di uguaglianza di genere. Oibò. Il punteggio mediano dei 22 Stati presi in considerazione, infatti, è di 52: l’Italia arriva a 56 (come la Francia e la Svezia), meglio di noi fa solo Taiwan (58). Tutti gli altri ottengono meno (ottiene meno la Spagna che si ferma a 55 assieme alla civilissima Norvegia; ottiene meno la Croazia che staziona attorno a 54 come Malta; ottiene meno, ossia 46, che è anche il dato più basso in assoluto, la Bulgaria).

Gli studenti italiani, poi, sono tra i pochi che rispetto all’ultima rilevazione del 2016 aumentano la loro performance di 0,3 punti. E attenzione: c’entra niente l’impegno delle manifestazioni di questi giorni, gli appelli in tivù e nei cortei, il tam tam (sacrosanto) sulle ultime vicende di cronaca che si è mangiato spazi nei talk e pagine su Facebook. I numeri, questi numeri, sono riferiti a sondaggi effettuati nel 2022. Insomma, i nostri ragazzi la pensavano così anche prima. Pensavano, cioè, che tra donne e uomini di differenze ci siano solo quelle biologiche, che ciò che conta, alla fine, non sono le parti anatomiche ma una persona, che femmina o maschio è uguale. Vivaiddio se hanno ragione. Vivaiddio se è questa la strada giusta. Tracciata, non a caso, dalle nuove generazioni: quelle col cellulare in mano e internet sempre connesso, e allora che male c’è? Hanno pure più a cuore di noi le sorte dei migranti, gli adolescenti. Pensano che «i figli degli immigrati dovrebbero avere le stesse opportunità di studio degli altri bambini» e che «gli immigrati dovrebbero avere gli stessi diritti delle altre persone» e che «dovrebbero avere l’opportunità di conservare i propri usi e costumi» nonché se «vivono da diversi anni in un Paese, l’opportunità di votare alle elezioni».

Abbiamo giovani che s’intendono di politica, e questa anche è una bella scoperta. Li immaginavamo solo con le cuffiette alle orecchie ad ascoltare la trap, e salta fuori che l’83% degli studenti italiani (contro il 75% di quelli mondiali, l’aumento è evidente) è d’accordo sul fatto che la democrazia sia «ancora la forma migliore di governo per il proprio» Stato. È già qualcosa, coi tempi che corrono. Dicono, i nostri adolescenti, che sono propensi a partecipare alle elezioni, un po’ meno rispetto al passato ma un po’ più dei loro coetanei all’estero. Non piacciono loro, tuttavia, i media tradizionali (che perdono il 15% della loro fiducia) e non piace loro nemmeno la compagine parlamentare, intesa in senso lato (che sforbicia di un significativo meno 13%). Sono preparatissimi in educazione civica, specialmente le ragazze e nonostante il Covid, uno su due (il 47%) discute di politica a casa con i propri genitori. E lo fa frequentemente. S’interessa, s’informa, ragiona. Il canale di informazione preferito resta quello televisivo (il 50% dei quattordicenni lo utilizza almeno una volta a settimana: anche se questa percentuale si taglia di sei punti rispetto al periodo pre-pandemico del 2016), seguito dal maremagnum del web (valido nel 29% dei casi) e molto più staccata è la lettura dei giornali, compresi quelli digitali e on-line (21%). Dobbiamo prenderne atto ed esserne anche un po’ orgogliosi: perché non facciamo che ripeterci che sono loro la società del futuro. Ed evidentemente sono una società più aperta di quel che viene dipinta. 

Gino Castaldo per "la Repubblica" -Estratti mercoledì 29 novembre 2023.

Ci manca solo la caccia alla streghe del rap, come se la causa di ogni male fosse una manciata di canzoni che sono poco garbate nei confronti delle donne, per non dire di peggio. Queste canzoni — ce ne sono di tremende — non sono la causa ma casomai parte del problema, soprattutto quando rispecchiano quel vecchio drammatico sentire di arroganza e prevaricazione maschile. Da lì a considerarle un incoraggiamento al femminicidio ce ne corre. 

Queste associazioni meccaniche sono indimostrabili e pericolosissime perché giustificano percorsi tutt’altro che scontati ed emanano un pessimo odore di censura. Un cantante ha il diritto di pubblicare un brano maschilista e prendersene la responsabilità, così come ognuno di noi ha il diritto di sostenere che quello è un brano maschilista.

A guardarsi bene in giro di canzoni discutibili ce ne sono da ogni parte, perfino nella tradizione più classica, vedi Tom Jones che cantava Delilah, né più né meno un femminicidio confessato. I crimini, quelli veri, sono un’altra cosa. Se andassimo ad analizzare i gusti musicali dei mostri che maltrattano le donne, che le ritengono oggetti di loro possesso, forse scopriremmo associazioni tutt’altro che prevedibili. 

Charles Manson, leader della setta che ha compiuto la strage di Bel Air, era un accanito fan dei Beatles, i suoi seguaci scrissero Helter skelter sul muro col sangue delle vittime. Quando i Velvet Undeground incisero il pezzo di Lou Reed intitolato Heroin in molti lo accusarono di istigare all’uso di droga e lui si difese dicendo che ciò che raccontava era l’inferno della tossicomania, altro che un incitamento. Il confine è molto labile, a volte inesistente, e questo vale per serie tv, film e videogame dove la violenza è un’apoteosi devastante; eppure nessuno si sogna di bandirli perché diseducativi o inneggianti alla barbarie. 

(…)

Machismo di cattivo gusto. Il femminismo grillino che Conte non ricorda: volgarità e sessismo by Beppe Grillo. Le uscite di Grillo&Co. restituiscono l’immagine di un Movimento 5 Stelle ipocrita sulla causa femminista. Insulti, maschilismo e allusioni di cattivo gusto: Conte fa il paladino ma dimentica il passato del partito. Giulio Baffetti su Il Riformista il 29 Novembre 2023

Il M5S di Giuseppe Conte dice di essere in prima linea contro il sessismo e la violenza sulle donne. Ancora lunedì l’ex premier, reduce dal corteo femminista cui ha partecipato sabato a Perugia con Nicola Fratoianni, rifletteva pensoso e accigliato: “Bisogna lavorare per superare modelli culturali che assolutamente rischiano di rimanere intrinsecamente sopraffattori rispetto alla libertà delle donne, soprattutto rischiano di contenere il germe anche della violenza nei confronti delle donne”. Addirittura, mercoledì scorso, il leader pentastellato si è spinto a dire che “il tema della violenza sulle donne e delle misure di prevenzione il Movimento lo ha affrontato concretamente e da sempre”. Ed è qui che Conte si contraddice. La storia del M5S, a partire proprio dal fondatore Beppe Grillo, è stata contraddistinta da episodi di sessismo e maschilismo. Altro che patriarcato. Forse il caso che fece più notizia risale al 2014. Quando il Blog di Grillo, con un post, attacca violentemente l’allora presidente della Camera Laura Boldrini. “Cosa fareste da soli in auto con la Boldrini?”, scrive il sito del comico con un’allusione che definirla di cattivo gusto è un complimento. A corredo dell’articolo c’è un video su Boldrini. Ma la cosa più scandalosa sono i commenti degli attivisti sotto al post. Una vera e propria marea di insulti sessisti e violenti, non censurati da chi gestiva il Blog, ovvero la Casaleggio Associati. A metterci il carico, dopo la polemica, l’allora capo della comunicazione del M5s al Senato, Claudio Messora, fondatore della web tv ByoBlu, famosa per le sue posizioni complottiste, no vax e filo-Putin. Ecco il tweet di Messora in risposta alle accuse di Boldrini, che aveva sentenziato che “i commentatori sul Blog di Grillo sono potenziali stupratori”: “Cara Laura, volevo tranquillizzarti. Anche se noi del blog di Grillo fossimo tutti potenziali stupratori, … tu non corri nessun rischio!”. Non proprio la dimostrazione di un’attenzione particolare del M5s rispetto al tema della violenza sulle donne.

Ben prima del video del 2021 in cui il comico colpevolizzava la presunta vittima di stupro che accusa il figlio Ciro, il Garante dei Cinque Stelle dava sfoggio di machismo di cattivo gusto. Nel 2001 definisce “vecchia putt…” la premio Nobel Rita Levi Montalcini. Nel 2006, in un post sul Blog intitolato “Il nuovo femminismo”, Grillo sfodera un’altra prodezza: “Le donne non sono mai state così desiderate. Il desiderio maschile cede alla passione che poi cede allo stupro. È da animali, ma è così. La natura fa il suo corso”. E ancora il fondatore, che nel 2012 redarguisce così la consigliera comunale di Bologna Federica Salsi, colpevole di essere andata in tv, ospite di Giovanni Floris a Ballarò: “La tv è il vostro Punto G, quello che ti dà l’orgasmo nei salotti dei talk show”. Se Salsi fosse stata un uomo, sicuramente Grillo avrebbe usato un altro argomento per rimproverare un esponente del suo Movimento. Nel gennaio 2016 Grillo lancia sul web l’hashtag #boschidovesei per attaccare Maria Elena Boschi per la vicenda di Banca Etruria. Hashtag lanciato in rete dal comico con questo tweet allusivo e sessista: “#Boschidovesei in tangenziale con la Pina”. E poi gli attacchi misogini degli utenti del Blog, nel 2018, alla deputata di Forza Italia Matilde Siracusano, bersagliata dopo un video condiviso dal sito di Grillo in cui la parlamentare difendeva Silvio Berlusconi e smontava in Aula il decreto anticorruzione del primo governo Conte. Nel 2014 Matteo Renzi candida alle europee quattro capolista donne. “Quattro Veline”, le apostrofa Grillo. “La scelta è una presa per il culo ma tinta di rosa”, commenta ancora il fondatore dei Cinque Stelle.

Ma sarebbe sbagliato prendersela con il solo fondatore del M5s. Nel 2014 il deputato grillino Massimo De Rosa si rivolge così in commissione alle colleghe del Pd: “Siete qui solo perché avete fatto pomp…”. E l’ex ministro dell’Istruzione Lorenzo Fioramonti, che in alcuni tweet e post su Facebook risalenti al 2013 parlava così di Daniela Santanché: “Se fossi una donna le sputerei in faccia, con tutti quegli zigomi rifatti”. Tradito dal passato social anche Enrico Esposito, che nel 2018 era vicecapo dell’ufficio legislativo del Mise guidato dall’allora capo politico del M5s Luigi Di Maio. Ecco un tweet a proposito di Micaela Biancofiore, nominata sottosegretaria: “Non c’è modo migliore di onorare le donne mettendo una mignotta in quota rosa”. Hashtag #biancofiore. Esposito si dilettava anche a offendere gli omosessuali, anzi i “ricchioni”, come li chiamava lui. Non bisogna dimenticare la vicenda che coinvolge la deputata del M5s Giulia Sarti nel 2019.

Quando le Iene scoprono che sue foto private sono in giro da anni dopo un hackeraggio che, secondo diverse fonti pentastellate, era stato opera di personaggi interni al Movimento. Un presunto “inside job” che più sessista non si può. Ma il vero numero uno del sessismo in salsa pentastellata è sempre Grillo. Sempre nascosto dietro la scusa della battuta, in uno spettacolo, rivolto alle donne di Forza Italia, dice: “Ora lo psiconano (Berlusconi, ndr) vuole incontrarci: vorrà capire se nel Movimento c’è fica. Ma le nostre donne sono diverse dalle sue, forse non la danno nemmeno ai mariti”. Al netto della volgarità e della considerazione della donna come poco più di un oggetto, colpisce anche la scelta di usare aggettivi possessivi come “nostre” e “sue”, riferiti alle esponenti femminili dei Cinque Stelle e di Forza Italia. Conte parli con Grillo del sessismo del M5S. Giulio Baffetti

Casapound affigge poster su Filippo Turetta: «Questo è il vostro uomo rieducato». Elena Cecchettin: «Spaventoso». Redazione Roma su Il Corriere della Sera giovedì 30 novembre 2023.

Accanto all'immagine di Turetta la domanda «Ma quale patriarcato?». Le gigantografie sono apparse in tutta Italia. Associazioni contro la violenza sulle donne chiedono alla polizia di indagare

Gigantografie di Filippo Turetta con la scritta «Questo è il vostro uomo rieducato» sono apparse nelle scuole di tutta Italia, in particolare nelle regioni del Nord. I manifesti continuano a essere affissi ovunque, dagli istituti più centrali a quelli di periferia. «In questi giorni stiamo sentendo continuamente parlare di Filippo Turetta come figlio sano del patriarcato e di rieducazione nelle scuole. Turetta è invece la conseguenza di una società che non fornisce più valori né, tantomeno, esempi» spiegano da CasaPound  l'iniziativa dei manifesti dal fondo rosso.  Una evidente allusione alle parole di Elena Cecchettin, che all'indomani dell'assassinio della sorella per mano di Turetta aveva ribadito come i femminicidi siano «figli del perdurante patriarcato». 

Il movimento: «La scuola non forma per affrontare le difficoltà»

Il movimento di estrema destra incalza, sui suoi profili social, sottolineando che «dopo anni di decostruzione di genere, di deresponsabilizzazione del cittadino a partire dalla scuola, cosa ci si può aspettare se non individui non in grado di affrontare una benché minima difficoltà? Si parla di rieducazione, ma nelle aule scolastiche si ha addirittura paura nel dare voti negativi ai ragazzi per il rischio di "turbarli"». Ancora: «Turetta e altri sono figli di un sistema "fluido" tanto sbandierato anche dalle femministe, che ora pensano di infiammare le piazze, fondato sulla mediocrità e sul "non essere", piuttosto che su esempi di coraggio e virtù». 

La secca replica di Elena Cecchettin 

È arrivata la replica secca di Elena Cecchettin: «Ma è spaventoso».  Si dichiarano «inorridite» anche alcune associazioni contro la violenza sulle donne, che stanno valutando possibili azioni legali. Ai Comuni è stata chiesta l'immediata rimozione delle affissioni, e alla polizia d'indagare sui responsabili della campagna. 

Roma, il corteo per Giulia è contro il governo. Contestata pure Schlein. Il Tempo il 25 novembre 2023

Dietro ogni violenza "c'è il fallimento di una società" intera. Sergio Mattarella, nella giornata internazionale contro la violenza sulle donne, va dritto al punto. "Drammatici fatti di cronaca scuotono le coscienze del Paese. Una società umana, ispirata a criteri di civiltà, non può accettare, non può sopportare lo stillicidio di aggressioni alle donne, quando non il loro assassinio", dice chiaro. Serve quindi un "rinnovato impegno" da parte di tutti, perché non basta "l'indignazione a intermittenza". Dopo l'uccisione di Giulia Cecchettin il Paese si è fermato, e ora dolore, indignazione e rabbia non vanno sprecati. Il Capo dello Stato chiama a raccolta istituzioni, associazioni, imprese, mondo della scuola, della cultura. "Abbiamo bisogno del contributo di ciascuno, per sradicare un fenomeno che tradisce il patto su cui si fonda la nostra stessa idea di comunità", insiste invocando quel "profondo cambiamento culturale" indicato dalla Costituzione e che dovrà portare a un tempo in cui le donne "conquistano l’eguaglianza perché libere di crescere, libere di sapere, libere di essere libere".

E' la giornata delle piazze, migliaia di ragazze e ragazzi sfilano al grido di 'Non una di meno' e fanno sentire il loro "rumore" contro la violenza e il patriarcato. Giorgia Meloni decide di non partecipare a nessun corteo ma rilancia sui social il messaggio rivolto alle donne nel corso della cerimonia di illuminazione della facciata di palazzo Chigi con il numero 1522: "Siamo libere e nessuno può toglierci quella libertà, nessuno può pensare che siamo nel loro possesso. Nella Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne, voglio dire alle donne italiane che non sono sole e che quando hanno paura, 1522 è il numero da chiamare, in qualsiasi momento, per avere aiuto immediato", scrive.

L'unica leader di partito a partecipare alla manifestazione nazionale di Roma è Elly Schlein. La segretaria Pd arriva quando il Circo Massimo è già pieno: una marea rosa. La vigilia ha raccontato le polemiche contro la piattaforma "anti-israeliana e pro Hamas' di 'Non una di meno'. In piazza le bandiere della Palestina non mancano e alcuni collettivi intonano cori contro Tev Aviv: "Israele criminale, Palestina immortale", viene scandito. E ancora: "Meloni fascista, complice sionista". Schlein non intende entrare nella disputa. Non risponde nemmeno a chi, ripetutamente, le chiede di commentare l'assenza in piazza della premier. "Una straordinaria partecipazione, qui a Roma come nel resto d'Italia. Ci stanno arrivando fotografie molto belle, piazze strapieno. È un segnale importante. Il Paese chiede un passo avanti contro la violenza di genere", esordisce. "Indignazione e rabbia non bastano, vogliamo fermare questa mattanza". In piazza c'è anche chi non apprezza la sua mano tesa nei confronti della presidente del Consiglio. "Unità sui nostri corpi? Non nel nostro nome", recita uno striscione che ritrae Schlein e Meloni una accanto all'altra. "Così Schlein legittima la Meloni, legittima un Governo fasciosessista, all'insegna di Dio, patria, famiglia. Da questo punto di vista l'operato di Schlein è inaccettabile", spiega Donatella, attivista del Movimento femminista proletario rivoluzionario, che regge il cartellone. "Noi non vogliamo unità con chi ogni giorno ci toglie anche i minimi diritti con il suo modello Medioevo", aggiunge un'altra militante. Schlein tira dritto: continua a chiedere risorse per prevenzione e formazione ed educazione all'affettività obbligatoria in tutti i cicli scolastici. In piazza c'è anche il segretario della Cgil Maurizio Landini, i due si abbracciano: la battaglia è comune. Giuseppe Conte e Nicola Fratoianni sfilano insieme al corteo di Perugia, dopo aver partecipato insieme al congresso di Sinistra italiana. 

Estratto dell’articolo di Adriana Logroscino per il “Corriere della Sera” sabato 25 novembre 2023. 

Due cortei, quello che parte alle 14.30 dal Circo massimo di Roma, che si annuncia partecipatissimo con un gran numero di pullman e treni in arrivo da tutta Italia, e quello di Messina, dalle 15 da largo Seggiola, convocati dalle organizzatrici storiche: «“Non una di meno” per l’ottavo anno consecutivo chiama la marea a Roma e a Messina con più rabbia che mai». Moltissime altre forme di presidio e di impegno nelle piazze di quasi tutte le città, inclusa Caivano, teatro dello stupro ripetuto di due cuginette.

Tutte nel segno di Giulia Cecchettin, il cui femminicidio, solo una settimana fa, ha innescato una reazione unanime: la lotta per l’eliminazione della violenza sulle donne, di cui oggi si celebra la giornata internazionale, è un’emergenza. A Roma non escludono di esserci Giorgia Meloni ed Elly Schlein, entrambe alle prese con gli impegni delle rispettive agende. […] 

Tuttavia intorno alle principali manifestazioni è nata una polemica che ha diviso le forze politiche, anche quelle di opposizione. A innescarla la decisione di concedere il palco anche alle donne palestinesi, iraniane, curde, con il movimento fucsia che chiederà la fine della guerra in Medio Oriente. «Se accetteremmo le donne israeliane? — hanno poi chiarito le attiviste di “Non una di meno” —. La nostra piazza è apolitica e aperta.  Siamo contro il genocidio di uno stato colonialista nei confronti di Gaza, dei palestinesi, non contro le donne israeliane. Niente bandiere né simboli, la nostra sarà una piazza contro la violenza di genere e contro il patriarcato».

Un distinguo insufficiente per la comunità ebraica: «C’è tutto un mondo che a parole si mobilita per i diritti civili, ma tace e volge lo sguardo dall’altra parte rispetto a stupri e torture, documentati, sulle donne ebree aggredite, massacrate ed esposte pubblicamente dai terroristi di Hamas. Un silenzio complice e assordante», la sintesi del presidente della comunità di Roma, Victor Fadlun. […]

Estratto dell’articolo di Maria Novella De Luca per “la Repubblica” sabato 25 novembre 2023.

Ci volevano le parole chiare, dirette e durissime di una storica come Tamar Herzig per rompere un silenzio – mondiale e colpevole – sugli stupri efferati compiuti dai terroristi di Hamas sulle donne israeliane nell’attacco del 7 ottobre 2023. Stupri come arma di guerra, stupri etnici, stupri come la violenza più estrema su donne, ragazze, bambine, anziane, abusate con ferocia, mutilate e poi esposte sanguinanti come trofei non solo perché “israeliane”, ma in quanto donne e oggetti sessuali. Un femminicidio di massa. 

In un commento pubblicato due giorni fa su Repubblica, Herzig, docente di Storia all’università di Tel Aviv, sottolineava con stupore il silenzio sugli stupri compiuti dai miliziani di Hamas, non solo delle grandi agenzie internazionali che si occupano di violenza di genere, ma del femminismo europeo e americano, in particolare del MeToo.

Come se oggi, di fronte alla tragedia di Gaza e mentre migliaia di civili muoiono sotto le bombe di Israele, delle violenze sessuali subite dalle donne nell’assalto di Hamas non fosse necessario parlare. Uno stupro però non è sempre uno stupro, qualunque donna ne sia vittima? E la parola d’ordine del MeToo non era: «Sorella io ti credo?». 

[…] Cosa accadrà oggi alla manifestazione contro la violenza, la cui piattaforma non cita, mai, il femminicidio di massa contro le donne israeliane? L’Unione delle Comunità Ebraiche italiane lancia un appello per «lottare assieme, ricordando tutte coloro che il 7 ottobre hanno subìto crimini di guerra, violentate e stuprate in quanto donne, in quanto israeliane, in quanto ebree».

Ma sono diverse le sigle del mondo ebraico che sottolineano il silenzio sugli strupri di Hamas e la piattaforma “escludente” della manifestazione nonostante ieri “Non una di meno” abbia detto: «Saremo una piazza aperta anche alle donne israeliane». Scrive “Hashomer Hatzair”, organizzazione di teenager dagli 8 ai 18 anni: «Ogni anno partecipiamo alla giornata del 25 novembre lottando per tutte le donne abusate ovunque nel mondo. 

Quest’anno però è diverso: credevamo che voi, come noi, voleste combattere per ogni donna, di ogni nazionalità, religione,etnia, idea politica. Invece neanche una parola è stata spesa da voi per denunciare il massacro delle le donne stuprate, torturate, mutilate e uccise da Hamas.

Come se quelle donne non meritassero la vostra pena, il vostro cordoglio». E la Fiep, Federazione italiana ebraismo progressivo, annuncia di aver deciso di non aderire alla manifestazione, «visto che da molte organizzazioni femministe non viene espressa condanna contro le violenze per le donne uccise e abusate il 7 ottobre». E infatti oggi le piazze saranno due: le donne palestinesi al corteo di “Non una di meno”, le donne israeliane ricorderanno al Ghetto le vittime «stuprate e uccise da Hamas».

"Ma li avete visti? Una casa di riposo...". Il comizio choc della sostenitrice di Hamas a Milano. Con kefiah e velo ha deriso gli ostaggi israeliani liberati da Hamas, il tutto tra gli applausi del corteo milanese. Così le piazze occidentali covano l'odio filo palestinese. Francesca Galici il 25 Novembre 2023 su Il Giornale.

Le manifestazioni femministe che si trasformano in cortei pro Palestina e pro Hamas. Questa è la deriva assunta dal femminismo occidentale, entrato in un cortocircuito ideologico per il quale in occasione della Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne manifestano per chi le donne le vorrebbe zitte e senza identità. La piazza di Milano non ha fatto eccezione questa mattina e nella giornata che sarebbe dovuta essere dedicata alle vittime di violenza di genere, si è assistito a un comizio vergognoso di una sostenitrice palestinese che, adeguatamente travisata con la kefiah, sotto la quale si scorge il velo, non ha solo insultato Israele ma ha umiliato gli ostaggi liberati da Hamas. Considerando il velo, non si esclude che sia un'italiana di seconda generazione o figlia di immigrati.

Un discorso che si fatica ad ascoltare per la sua ferocia, che si stenta a credere che sia stato pronunciato in una piazza occidentale. "Oggi sono molto contenta, perché pensavano di poter prendere gli ostaggi con la forza. E invece hanno fatto quello volevano i palestinesi (Hamas, ndr). Hanno dovuto fermare i bombardamenti per avere i loro prigionieri di guerra", dice la ragazza al microfono. Chiamare prigionieri di guerra i civili rapiti nel corso di azioni terroristiche è quanto meno scorretto a livello intellettuale. Ma non è finita qui, perché la ragazzina con la kefiah insiste: "Non offendetevi. Rispetto tutte le età, ma li avete visti i giovani palestinesi? E poi li avete visti loro prigionieri? Sembrava avessero liberato una casa di riposo".

Non ci sono commenti possibili davanti a questa esaltazione di Hamas, non ci sono davvero parole per commentare il livello toccato da questa manifestante perché, ed è l'aspetto più grave, lei queste cose le ha dette a un microfono, ma migliaia di persone lo pensano. "Ieri sono usciti i nostri 20enni, 18enni, 30enni, giovani con una forza enorme. E quando li senti parlare capisci perché li hanno imprigionati. Israele ha paura dei giovani palestinesi, dei bambini palestinesi", ha detto ancora la ragazza con la kefiah dal palco di piazza Castello a Milano. E ha definito "problemi e malattie mentali" i controlli effettuati dai soldati israeliani alla liberazione dei prigionieri che, a differenza di quelli rilasciati da Hamas, erano in carcere per lo più per reati legati al terrorismo. "Israele è malato, gli israeliani sono malati. Dovrebbero essere tutti in manicomio", ha urtato al microfono prima dello slogan "Palestina libera". L'Occidente è davvero diventata tutto questo?

"Odio cieco e furioso". Femministe assaltano la sede di Pro Vita e Famiglia. Francesca Galici il 25 Novembre 2023 su Il Giornale.

Hanno tentato l'ennesima dimostrazione con fumogeni, provando a imbrattare vetrine e pareti della sede di Roma di Pro Vita e Famiglia: femministe bloccate dalla polizia

Oggi le piazze si sono riempite "contro ogni violenza", hanno detto gli organizzatori prima dei cortei. Le solite belle parole alle quali non sono seguiti i fatti, come dimostra il violento attacco contro la sede di Pro Vita e Famiglia a Roma. Scene che ricordano da vicino, troppo da vicino, una caccia alle streghe dei tempi moderni. "Stanno rompendo i vetri delle nostre vetrine, stanno dando fuoco alle serrande. Un odio cieco e una violenza furiosa. Chi non condanna è complice", ha denunciato sui social il portavoce di Pro Vita e Famiglia, Jacopo Coghe.

Stando a quanto si apprende, a margine del corteo realizzato da "Non una di meno" sono state lanciate bottiglie e fumogeni contro l'edificio che era presidiato dalle forze dell'ordine. Il gruppo di manifestanti si è poi allontanato. Sul posto blindati e agenti in tenuta antisommossa. Ovviamente, come è ormai consuetudine in questo Paese, alcuni manifestanti pensano di essere in diritto di scatenare la loro violenza contro qualunque cosa non sia inquadrata all'interno della loro linea di pensiero.

Così hanno fatto davanti alla sede di Pro Vita e Famiglia, associazione che in modo lecito e in pieno diritto ha come obiettivo la tutela della vita e della famiglia, portando avanti campagne contro l'aborto o contro le famiglie omogenitoriali. Si può concordare o meno con il pensiero dell'associazione, ma in una democrazia deve trovare spazio anche questo punto di vista. E dev'essere tutelato. Pertanto, davanti all'attacco dei manifestanti, la polizia ha reagito, scatenando la solita reazione isterica: "Le forze dell'ordine ci hanno preso a manganellate mentre facevano un'azione con fumogeni e scritte sul muro".

E ancora: "Due ragazze sono rimaste ferite, una al viso, che è stata portata in ospedale, l'altra alla testa". Nei video, si sentono chiaramente gli insulti contro le forze dell'ordine: "Fascisti, pezzi di merda…". Con tanto di lancio di bottigli e oggetti contro gli agenti. Come al solito le veterofemministe, che attingono a piene mani dai centri sociali, cercano di imporre il pensiero unico con la violenza e si lamentano se si prova a impedirlo.

L'assalto alla sede di Pro Vita e Famiglia è la dimostrazione che in questo Paese la sinistra è permeata di soggetti e organizzazioni che provano a imporre con la forza il proprio pensiero, cercando di intimorire o eliminare chi va in una direzione diversa. "Se assaltano la sede della Cgil c'è (giustamente) indignazione nazionale. Se estremisti rossi assaltano la sede di una Onlus che aiuta e difende le famiglie, silenzio? La solidarietà mia, di tutta la Lega e di tutto il popolo italiano", ha dichiarato Matteo Salvini. "Eccole, le militanti "democratiche" e "contro ogni violenza" che, dietro la maschera della lotta alla violenza sulle donne, nascondono l'odio per chi difende vita e famiglia. Un abbraccio agli amici di Pro Vita & Famiglia Onlus e una durissima condanna, che spero arrivi da parte di tutte le forze politiche, a chi in queste ore ha dato l'assalto alla loro sede", è il commento del capodelegazione di Fratelli d'Italia-Ecr al Parlamento europeo Carlo Fidanza.

Chi sono i Pro Vita, uno ha 7 figli, l’altro vive a Praga. La onlus fondata da due uomini contro aborto e «teoria gender». Storia di Alessandra Arachi su Il Corriere della Sera lunedì 27 novembre 2023

Jacopo Coghe ha trentanove anni e sette figli, il quarto è rimasto su questa terra pochi minuti appena, perché non avrebbe potuto di più, non aveva i reni. «Lo avevamo saputo già dal quinto mese di gravidanza, ma mia moglie non voleva che il suo ventre diventasse la tomba di nostro figlio». Coghe parla e non è sfiorato da dubbi, difende fino in fondo le sue scelte che sono estreme e controverse. È il portavoce di , un’associazione di orientamento cattolico, tradizionalista, le cui campagne a effetto hanno sollevato diverse polemiche: contro l’aborto al congresso delle Famiglie a Verona nel 2019 i manifestanti di Pro Vita e Famiglia distribuirono tra il pubblico gadget di un feto chiuso in una bustina di plastica.

È al congresso di Verona che formalmente Pro Vita e Famiglia viene fondata. Spiega Coghe: «È una onlus e nasce dall’unione di due realtà: “Generazione famiglia” e, appunto, “Pro Vita”. La prima era guidata da Toni Brandi ed era stata fondata nel 2012. La seconda era la nostra, nata nel 2013. Anche se noi nasciamo prima come la derivazione italiana di un’associazione francese, Manif pour tous».

Manif pour tous è un’associazione nata in opposizione al matrimonio tra persone dello stesso sesso e alla legge anti-omofobia, gli stessi motivi che hanno spinto Coghe a cominciare la sua avventura, un’ostilità dichiarata, la sua, contro i diritti rivendicati dalle persone lgbt. Che mette in atto combattendo quella che chiama «teoria gender».

Brandi ha fondato la sua associazione in difesa della famiglia tradizionale. È convinto che ci sia una «rivoluzione antropologica-culturale che vuole cancellare l’uomo». È un imprenditore del turismo che a diciannove anni ha lasciato l’Italia e ancora oggi vive all’estero. Ha settantuno anni e si dice che abbia fondato la sua associazione cattolica sull’onda emotiva di un’esperienza privata, la morte di Chiara Corbella Petrillo, oggi coinvolta nella causa di beatificazione. La giovane Chiara durante la gravidanza scopre di avere un tumore, ma rifiuta la cura della chemioterapia per non danneggiare il feto. Morirà dando alla luce una bimba.

Adesso Brandi, residente a Praga, dell’associazione cura più che altro aspetti istituzionali e organizzativi, le battaglie sul territorio le porta avanti Coghe. «Ho lasciato la mia azienda di comunicazione, grafica e stampa a mia sorella e mi dedico a tempo pieno alla onlus», dice spiegando che la struttura di Pro Vita e Famiglia è formata da una decina di collaboratori che lavorano nella sede di Roma (quella di viale Manzoni danneggiata durante la manifestazione del 25 novembre) e poi da gruppi di volontari referenti un po’ in tutta Italia.

La onlus ha come obiettivo quello di divulgare e diffondere i contenuti delle loro battaglie. Quai tutte «contro», a vedere i comunicati. Per l’aborto non usano mezzi termini: «Vogliamo ribadirlo forte e chiaro: la 194 non è una legge né giusta né buona, visto che dalla sua approvazione a oggi ha permesso l’eliminazione di 6 milioni di bambini». Contro i diritti dei gay: secondo loro, non possono parlare nelle scuole (e negli istituti si oppongono alle «carriere alias»). Sono contro la gravidanza per altri, l’eutanasia, il suicidio assistito. E in generale si oppongono a quella «rivoluzione antropologico-culturale» teorizzata da Brandi in un comunicato di un convegno dal titolo: «Umano, trans-umano o disumano? Ideologie, tecnologie e libertà».

Brandi e Coghe, insieme a Massimo Gandolfini, hanno organizzato anche i Family day del 2012 e del 2013 a Roma in piazza San Giovanni e al Circo Massimo. «Il mio impegno è ogni giorno sempre più deciso», è la visione di Coghe, «c’è una frase del Signore degli anelli che mi guida, quella in cui Frodo e Sam si parlano e dicono, in sostanza: “Non sta a noi dominare tutte le maree di questo mondo, ma il nostro compito è lasciare a quelli dopo di noi una società migliore».

"Collettivo violento", "Corteo pacifico". Scontro sulle femministe di Non una di meno. La manifestazione organizzata da "Non una di meno" ha diviso l'opinione pubblica. Ecco le opinioni di Vladimir Luxuria e Maria Rachele Ruiu di Pro Vita & Famiglia. Francesco Curridori il 30 Novembre 2023 su Il Giornale.

La manifestazione organizzata da "Non una di meno" ha diviso l'opinione pubblica. Ne abbiamo parlato con Vladimir Luxuria e Maria Rachele Ruiu, portavoce di Pro Vita e Famiglia.

Lei definirebbe pacifica la manifestazione transfemminista di sabato?

Ruiu: “No, ma è necessaria una distinzione. La manifestazione di sabato é stata convocata da Non una di meno, un collettivo transfemminista violento, che ha fatto del proprio impegno una guerra contro la vita e la famiglia, tanto che più di una volta ha invocato la pena di morte per noi, - sui loro social sono comparsa a testa in giù, come più volte già avevano imbrattato la nostra sede con parole indicibili e minacce di morte, oltre che bestemmie- e che ha manifestato per istanze politiche e ideologiche violente che, tra l'altro, fanno tutto tranne il bene delle donne, anzi ‘persona con il ciclo/persona che partorisce’. Poi ci sono le migliaia di cittadini, scesi in piazza pacificamente che non conoscono e non si riconoscono in queste istanze violente, che però oggi vengono strumentalizzati. Migliaia di famiglie, di ragazzi, di nonni che hanno manifestato contro la violenza sulle donne, con gli occhi pieni di commozione per l'uccisione barbara di Giulia Cecchettin, oggi usati per promuovere una guerra alla vita e alla famiglia. I primi, gli organizzatori violenti, che strumentalizzano la commozione, la rabbia, lo sgomento dei secondi, anzi di tutti noi”.

Luxuria: “La definirei una manifestazione che vuole mettere pace tra gli uomini e le donne. Perché fin quando ci sono uomini che hanno un senso di prevaricazione fisica e pensano di imprimere il marchio di proprietà come si fa con le mucche, col branding sulle donne che amano, che amavano e che pensano di amare, ex, attuali mogli ecc... Non c'è pace, c'è solo una sorta di guerra civile”.

Crede che gli obiettivi la manifestazione sia stata un successo oppure le polemiche sulle bandiere della Palestina e su Pro Vita hanno rovinato l'evento?

Ruiu: “Credo che quella manifestazione aveva bisogno di tutto, tranne che delle bandiere della Palestina e l'assalto a Pro Vita, ma non poteva essere che così, visto che è stata convocata da Non una di meno. È un cortocircuito ideologico che mostra che non si possono appaltare manifestazioni contro la violenza a gruppi facinorosi, abituati ad usare la violenza come strumento politico, tanto da rivendicare l'assalto ad una associazione che rappresenta centinaia di migliaia di uomini e donne, famiglie sono perché non ne condividono gli intenti, con parole che ricordano i tempi delle brigate rosse. È necessario una presa di posizione chiara senza se e senza ma, verso questo collettivo che ha sfruttato il dolore e la rabbia per la morte di Giulia per altro: cercare di dar fuoco ad una onlus, rompere le vetrate con una spranga e lanciare un ordigno solo per la loro guerra ideologica contro la vita e la famiglia. Ed è inquietante che gli stessi che hanno cantato ‘I Pro Vita si chiudono con il fuoco, però con i Pro Vita dentro sennò è troppo poco’, mentre dal carro di famiglie arcobaleno ci indicavano come nemici numero uno, vorrebbero entrare nelle scuole ad educare al rispetto (quale? Che alcune persone si difendono ed altre si bruciano? Alcune donne vanno difese, altre minacciate di morte?) i nostri figli. Rifiutiamo l'offerta, e rilanciamo: la violenza genera violenza ed è intollerabile una denuncia che non sia chiara e netta senza se e senza ma: fuori queste associazioni dalle scuole”.

Luxuria: “Invito a non confondere l'appoggio al popolo palestinese con il sostegno ad Hamas. Nessuno sosterrà mai Hamas. Si sostiene il popolo palestinese, così come si sostiene il popolo israeliano. In questo periodo, preghiamo affinché continui questa tregua e gli ostaggi possano riabbracciare i propri familiari israeliani e a Gaza non si abbia l'incubo di bombe che uccidono uomini donne e tantissimi bambini. Il significato delle bandiere palestinesi sono quelli. Non significa essere contro il popolo israeliano, ma contro il governo Netanyahu, che governa da tanto tempo in Israele ed è criticato soprattutto dagli stessi israeliani”.

Cosa pensa degli attacchi verbali e soprattutto materiali alla Onlus Pro Vita e Famiglia?

Ruiu: “Niente di nuovo: per Non Una di Meno, che ha rivendicato con orgoglio l'assalto, e per i collettivi a loro vicino, quando si parla di emancipazione, non violenza e libertà di manifestare e sensibilizzare i cittadini sull’emergenza-femminicidi, si intende demonizzare la vita e la famiglia, si intende violare le leggi, e si intende "bruciare" il libero confronto e il pluralismo delle idee sale della dialettica democratica, oltre che la Costituzione che sancisce diritti e doveri per tutti, anche per i Pro Vita, e riconosce nell’articolo 29 la famiglia come società naturale”.

Luxuria: “Sono stata e sarò sempre nella mia vita privata, nella mia quotidianità nel mio attivismo, contro ogni forma di violenza fisica e verbale. È stato uno sbaglio l'attacco alla sede di Pro vita da parte di alcune frange estremiste che sono state condannate sia dallo stesso movimento Se non ora quando, sia dalla Cgil”.

Perché, secondo lei, una manifestazione contro la violenza di genere è degenerata con atti violenti nei confronti di Pro Vita?

Ruiu: “Perché l'organizzazione è in mano a collettivi, che da anni hanno snaturato lo spirito della giornata contro la violenza, e che hanno mostrato la loro anima intollerante, fanaticamente ideologica, impegnata a negare il diritto di esistere a chi non è allineato al politicamente corretto. È caduta la maschera e si sono palesate per quello che sono, altro che progressiste, tolleranti e pluraliste: sono facinorose che intendono minacciare di morte donne solo perché non ne condividono le idee. Qualcuno fatica ad ammetterlo, come per esempio il segretario del partito democratico, ma è sotto gli occhi di tutti: è necessario prendere le distanze da Non una di meno e isolare la loro violenza antidemocratica”.

Luxuria: “Mi permetta. Inviterei a non interpretare semplicisticamente una manifestazione che ha visto mezzo milione di persone a Roma e in tantissime altre città. Penso che parlare solo di questa di quest'attacco a Pro Vita non serva davvero alla causa del contrasto alla violenza di genere”.

Secondo lei, l'Italia è uno Stato patriarcale e confessionale?

Ruiu: “Gli italiani hanno votato poco più di un anno fa portando a diventare primo ministro una donna di cui tutto si può dire tranne che essere in odore di patriarcato. È necessario ammettere che alla base della violenza c'è il narcisismo impregnato di una cultura che ripete continuamente che non ci sono limiti ai propri desideri, anzi "voglio, posso, pretendo" dove l'altro esiste solo per corrisponderti e darti godimento, insieme alla perdita del ruolo pedagogico della famiglia come luogo dove si accoglie la vita, si sperimenta l'alterità e l'amore, quello vero, che fa spazio, che si dona e si toglie i calzari di fronte al territorio sacro che è l'altro, anche quando non ti corrisponde, anche quando scomodo. Mi faccia però spezzare una lancia a favore della nostra Italia: Se guardiamo alle statistiche, i paesi indicati come civili, in cui la famiglia è disgregata più che in Italia, dove si fa indottrinamento nelle scuole ed educazione sessuale da anni, i tassi di omicidi di donne sono più alti, che in Italia. Forse perché qui in fondo la famiglia naturale sta provando a sopravvivere alle spallate e a difendere il suo diritto di priorità educativo, è forse anche grazie ad un pallido retaggio cristiano che regge botta? Abbiamo bisogno di uno sguardo che dall'ombelico si alzi verso il Cielo, e incontri l'altro in una relazione autentica che non pretende, ma accoglie il peso e il bello della differenza, da cui nasce la vita: una relazione di amore pieno”.

Luxuria: “Purtroppo il problema del femminicidio è una pandemia, non è un fenomeno relegato solo all'Italia. È proprio una questione di mentalità, di residui forti di patriarcato, di senso di possesso delle donne, di non accettazione che una donna possa scegliere la sua vita da sola, di non accettare l'indipendenza delle donne. Questo è un problema che c'è in tutto il mondo. Ci sono nazioni in cui ci sono meno casi e nazioni in cui ci sono più casi, ovviamente sono da rapportare anche al numero di popolazione. Però il problema del patriarcato esiste e non lo attribuirei a una religione in particolare perché è un fenomeno che riguarda vari Paesi di diversi credi”.

Estratto dell’articolo di Marcello Veneziani per “la Verità” martedì 28 novembre 2023.

[…] Il populismo torna a pulsare anche da noi in forme variabili, come si addice a una creatura polimorfa e mutante. […] A sinistra non vogliono vederlo ma i tratti essenziali del populismo si ritrovano non solo nel populismo grillino, e nella sua battaglia sul reddito di cittadinanza e nella logica aberrante dell’uno vale uno; ma anche nell’ecologismo e nell’ideologia di mobilitazione popolare nel nome del pianeta da salvare e del popolo verde di Greta. Il pianeta salvato dai ragazzini è un’utopia populista.

[…] Il 25 novembre scorso è stato consacrato un populismo nuovo, anche se ha quasi sessant’anni: è quello femminista, che assegna alle donne il ruolo di vittime, giustiziere e portatrici di diritti, affibbiando invece ai maschi il ruolo di potenziali colpevoli, da sorvegliare, punire e rieducare, portatori di doveri e mea culpa. Il nuovo femminismo sostiene che il cambiamento potrà avvenire solo con la militanza di massa e la mobilitazione popolare.

L’idea assurda che i crimini di alcuni squilibrati, frutto di una società nichilista ed individualista, fondata sui desideri illimitati e su una famiglia ormai disgregata, debbano ricadere sull’intera collettività e sull’intera storia dei rapporti tra uomo e donna e che si debba risolvere sul piano politico, generale, educativo quel che sorge invece sul piano individuale, patologico e ossessivo, è una forma di populismo.

Il Popolo delle donne contro il Potere dei Maschi. Le piazze e i cortei, le mobilitazioni generali, la marea fucsia del femminismo, fiancheggiate dai corpi speciali di omotrans e queer, più i maschi che si vergognano di essere tali e le avanguardie isteriche dell’oltranzismo, sono la nuova forma di populismo radicale, fanatico, manicheo. 

Il populismo femminista si fonda sulla manipolazione della realtà: da un fatto reale, un episodio di violenza o un femminicidio, e da una statistica, si passa a universalizzare il tema per demolire da un verso la famiglia naturale e tradizionale e dall’altro contrapporre il popolo delle donne all’etnia dei maschi che non rinnegano la loro natura e la storia da cui provengono, in una nuova lotta di classe che è lotta di genere.

Del tutto rimosso e silenziato è il contrasto tra il populismo femminista e la massiccia presenza di migranti che mantengono il predominio maschile e la sottomissione della donna. Anche in queste forme pseudoprogressiste emergono i tratti negativi del populismo: semplificazione, generalizzazione, radicalizzazione, più tanta retorica e demagogia. […]

Quei bravi ragazzi. La lezione di Montanelli su come combattere la violenza di genere senza fanatismi. Cataldo Intrieri su L'Inkiesta il 27 Novembre 2023

Nelll’Italia degli anni Sessanta, il grande giornalista descritto come «patriarcale» criticò il codice penale fascista vigente, sostenendo Franca Viola nel suo rifiuto di accettare un matrimonio riparatore dopo essere stata violentata, Un approccio non ideologico, ma finalizzato a ottenere risultati concreti per le donne

Migliaia di donne hanno manifestato a Roma Sfilano per protestare contro la violenza di genere, contro la prevaricazione degli uomini, contro una concezione proprietaria e sopraffatrice delle relazioni personali. Ottima iniziativa, cui si aggiungono molti uomini ansiosi di espiare la colpa di appartenere al loro sesso, che secondo alcune teorie femministe espresse anche in modi pittoreschi, porterebbe in sé i germi di una connaturata ferocia verso il genere femminile. Sembra che dalla meritoria iniziativa sia esclusa ogni menzione delle violenze subite il 7 ottobre dalle donne israeliane stuprate e ammazzate dai terroristi Hamas, rimosse da ogni memoria e che hanno indotto una studiosa israeliana, Tamar Herzig, a denunciare, sul silenzio intorno a questa violenza «la volontà delle attiviste e delle organizzazioni femministe di abbandonare quello che era considerato il sacrosanto motto del #MeToo, ovvero “Io ti credo”».

Herzig accusa la deliberata spietata rimozione della tragedia che ha colpito le donne vittime del pogrom del 7 ottobre e che è arrivata a negare addirittura l’esistenza di quegli stupri e omicidi, così come le immagini di arti spezzati, membra insanguinate, di donne trascinate per i capelli dai terroristi di Hamas a cui si è espressa poi solidarietà come vittime di genocidio.

Chissà se è lecito in questo clima, per un pover’uomo esprimere solidarietà anche ad Herzig e a tutte le donne israeliane vittime di una violenza maschile altrettanto bruta e ottusa che meriterebbe una altrettanto dura condanna che non si è sentita a Roma e prima ancora. Chissà se è consentito in mezzo a tanti maschi penitenti che si battono affranti il petto, scusandosi di esistere, ricordare Indro Montanelli, uomo conservatore messo all’indice dopo aver raccontato di essersi comprato una moglie quindicenne nell’Africa dell’impero fascista e un suo memorabile articolo, ripubblicato su Sette, in cui raccontava all’Italia del 1965 il caso di Franca Viola.

Era una ragazza di Alcamo, nel sud più profondo e arretrato, rapita e violentata dal rampollo di una famiglia rispettata del posto. Il codice penale dell’epoca prevedeva una discriminante in caso di matrimonio graziosamente offerto dallo stupratore a rimedio del suo torto. Un uso frequente nell’arretrata società meridionale (e non solo) dell’epoca. Era l’espressione di una consuetudine, di un costume, di quelle regole per cui la stragrande maggioranza dei matrimoni, venivano “combinati” dalle famiglie, quando andava di lusso alle donne, sennò ove avessero voluto scegliere, c’era pure il rischio di essere violentate e costrette comunque a subire un’unione indesiderata con lo stupratore, pena il disonore. Franca Viola disse di no e denunciò il mascalzone che l’aveva violentata: al suo fianco il padre, umile contadino capace di ribellarsi pure lui, trascinato dall’eroismo di Franca.

Ecco Montanelli, uomo certamente «patriarcale» come bene lo descrisse la sua compagna Colette Rosselli, una che come giornalista donna si occupava di posta del cuore con lo pseudonimo di Donna Letizia, si schierò senza esitazioni non solo contro il violento, ma contro il codice penale fascista che contemplava allora norme vergognose come il matrimonio riparatore, il delitto d’onore e l’adulterio femminile che puniva solo il tradimento di lei e strizzava l’occhio all’uomo “cacciatore”.

Scriveva Montanelli che «Franca Viola e suo padre non hanno detto di no solo a Filippo Melodia (il rapitore). Hanno detto no a tutto un sistema di rapporti basato sulla sopraffazione del maschio sulla femmina. Hanno detto no a un onore confuso mussulmanescamente col sesso. Hanno detto no al diritto di strappare il consenso della donna con la violenza, hanno detto che lo stupro non è un surrogato dell’amore…hanno detto no a tutti i tabù e feticci che fanno da pilastro a queste arcaiche società». Egli incitò i giudici siciliani ad avere coraggio e condannare i violenti, come avvenne. Questo articolo lo scriveva all’Italia degli anni Sessanta che leggeva il Corriere della Sera, il paese benpensante e patriarcale che cercava ordine e morale. Ci voleva coraggio anche per scrivere queste cose e Montanelli lo ebbe.

Sia consentito a chi prova come uomo orrore per la violenza, a un uomo come tanti, coi suoi difetti e contraddizioni ribadire che se esiste la violenza di genere, la violenza sulle donne non è una colpa di genere, non è un marchio di infamia che discrimina milioni di maschi. E va ribadito che il fanatismo ideologico mascherato da intransigenza, qualunque siano i motivi che lo muovono, quello che condanna, isola e non distingue è solo puro veleno che non aiuta e non serve alla causa dei diritti.

Franca Viola e quel sistema di rapporti basato sulla sopraffazione del maschio sulla femmina. Indro Montanelli su Il Corriere della Sera martedì 28 novembre 2023.

La ragazza di Alcamo e suo padre non hanno detto di no soltanto all’ex fidanzato che l’ha rapita e violentata. Hanno detto di no a tutto un sistema di rapporti basato sulla sopraffazione del maschio sulla femmina...

Gran parte delle firme storiche del Corriere della Sera hanno scritto articoli che fanno parte della storia di questo giornale e del Paese. Dal numero di «7» in edicola il 24 novembre, vi proponiamo questo di Indro Montanelli, che apparve sul quotidiano 14 dicembre 1966. Buona lettura

Una grande occasione si presenta ai magistrati del tribunale di Trapani, dove si svolge il processo contro Filippo Melodia e i suoi undici complici (che poi si rivelarono essere 12 ndr ), accusati di ratto e di violenza ai danni della diciottenne Franca Viola.

I lettori saranno certamente al corrente dei fatti. Franca aveva rifiutato le profferte matrimoniali di Filippo, perché innamorata di un altro giovane. Forse considerandosi leso nel suo «onore» di maschio, Filippo non si era rassegnato e aveva dato inizio a una serie di persecuzioni contro il padre della ragazza. Costui fu bersagliato da minacce di morte e, siccome non se ne lasciò intimidire, dovette subire l’incendio di una casa colonica, il taglio di un vigneto, il saccheggio di un orto: insomma la quasi totale distruzione del suo piccolo patrimonio terriero.

Tutti, naturalmente, lì ad Alcamo, sapevano chi era il responsabile di quei misfatti. Ma nessuno era disposto a fornirne testimonianza ai carabinieri che lo sapevano anch’essi ma che, senza elementi di prova, non potevano agire. Grazie a questa omertà, i Viola erano quindi alla mercè del malvivente. E tuttavia insisterono nel loro «no». L’unico a cedere fu il fidanzato, che si ritirò in buon ordine da quella contesa, non si sa se per risparmiare più gravi pericoli a Franca o per sottrarvisi lui stesso.

QUALCUNO HA DETTO CHE L’OMERTÀ È IMPOSTA DALLA MAFIA MA STAVOLTA NON È COSÌ

Visto tuttavia che anche dopo questa diserzione la ragazza e la sua famiglia si ostinavano nel rifiuto, Filippo passò ai metodi di don Rodrigo di cui, a distanza di tre secoli, si rivela coetaneo. Una sera si presentò alla casa dei Viola con undici compari che ne scardinarono la porta. La strada, fino a quel momento animatissima, si fece di colpo deserta, e nessuno naturalmente vide i dodici delinquenti che trascinavano Franca, la caricavano su una delle due automobili che sostavano all’angolo, e partivano a tutta velocità, invano inseguiti dalla madre e dal fratellino urlanti e in lacrime. Nascosta in un cascinale, per sei giorni la rapita bravamente resistette alle minacce e alle sevizie. Poi, stremata dalla stanchezza e dai digiuni, dovette rassegnarsi a ripagare col suo «onore» l’offesa recata a quello del Melodia. Il quale, avendolo in tal modo restaurato, volle darne una convincente prova, riportando a casa la sventurata e dichiarando al padre ch’era pronto a sposarla.

In certo entroterra siciliano, rimasto sin qui inaccessibile al mondo moderno, alla ragazza «disonorata» non resta che il matrimonio con chi l’ha ridotta in questa condizione. Tant’è vero che se costui vi si sottrae, quasi sempre paga con la vita. Perciò il Melodia, più che indignato, dovett’essere sbalordito e sbigottito nel sentirsi rispondere ancora una volta di no. E con lui lo fu di certo tutta Alcamo, compattamente schierata col Melodia e i suoi complici dacché costoro, denunziati ai carabinieri dalla vittima e da suo padre, sono finiti in prigione. Bersagliata di lettere anonime che annunziano prossima la vendetta, la famiglia Viola vive asserragliata in casa sotto la protezione della forza pubblica, che scorta l’uomo e la ragazza quando in treno devono recarsi a Trapani per le udienze del processo.

LA POSTA IN GIOCO E’ GROSSA E SPERIAMO CHE LA SENTENZA CONDANNI QUESTA MENTALITA’

Qualcuno ha detto che questa omertà è imposta dalla mafia, che in Alcamo ha una delle sue più munite roccheforti, e di cui il Melodia sarebbe un caperonzolo. Ma noi crediamo che stavolta la mafia non c’entri, o c’entri solo per marginale incidenza. Ciò che cementa tutta la popolazione di quella cittadina - non tanto «ma», perché conta circa cinquantamila abitanti - in un fronte unico di solidarietà coi delinquenti, è qualcosa di più profondo: la difesa di una mentalità, di una moralità, in una parola di un costume medioevalesco, che può sopravvivere solo sulla supina accettazione di tutti.

Franca Viola e suo padre non hanno detto di no soltanto a Filippo Melodia. Hanno detto di no a tutto un sistema di rapporti basato sulla sopraffazione del maschio sulla femmina. Hanno detto di no a un «onore» confuso musulmanescamente col sesso. Hanno detto di no al diritto dell’uomo di strappare il consenso della donna con la violenza e di renderlo definitivo col matrimonio. Hanno detto che lo stupro non è un surrogato dell’amore, e insozza non chi lo subisce, ma chi l0 commette. Insomma hanno detto di no a tutti i tabù e feticci che fanno da pilastro a queste arcaiche società. Di qui la massiccia e corale, reazione, cui forse collaborerà anche la mafia, particolarmente interessata al mantenimento di certe strutture. Ma il pogrom contro i Viola attinge a motivi molto più lontani. Attinge allo stesso spirito di conservazione di un costume che dal gesto di dissidenza di Franca e di suo padre si vede mortalmente minacciato.

Ecco perché, dicevo, ai giudici del tribunale di Trapani si presenta una grande occasione, e speriamo che non la perdano. Noi non sappiamo quali castighi la legge predisponga per simili reati. Ma ci auguriamo di tutto cuore che, per quanto armata di eloquenza e di cavilli, la difesa non riesca a ottenere né il riconoscimento di un alibi, né la concessione di un’attenuante. La posta in giuoco è grossa, va al di là del «caso» e dei suoi protagonisti. Noi contiamo che da questo processo venga fuori una sentenza che non si limiti a punire il delinquente, ma che anche condanni in maniera esemplare tutti coloro che se ne sono fatti complici, materiali o morali, la mentalità ch’essi incarnano.

Sappiamo benissimo che l’opinione pubblica di Alcamo cercherà di esercitare il peso di un ricatto sui magistrati di Trapani. Ma anche costoro sappiano che una coscienza molto più vasta, quella di tutto il resto d’Italia, è al contrario schierata compattamente con Franca, e la considera un’autentica eroina, qual è.

Non abbiamo nessuna qualifica per lanciarne la proposta. Ma secondo noi sarebbe molto bello che a processo concluso - se si concluderà come tutti auspichiamo - questa ragazza e suo padre ricevessero un attestato del loro coraggio morale e civile. Sarebbe il giusto contrappeso a tutti i soprusi e le vessazioni ch’essi hanno subito e subiscono dai loro compaesani, e il pubblico riconoscimento che alla Sicilia dei Melodia si contrappone quella dei Viola: ammirevole questa, quanto quella è spregevole.

Se la violenza è femminista allora va bene. Matteo Carnieletto il 26 Novembre 2023 su Il Giornale. Da Non una di meno che attacca la sede di Pro Vita alle femministe che propongono esempi di rabbia per le donne

Le femministe di Non una di meno, durante la manifestazione contro la violenza sulle donne che si è tenuta ieri a Roma, hanno assaltato la sede di Pro Vita. Gli slogan “fucsia” erano quelli di sempre: fascisti, carogne, bastardi. Indirizzati tanto ai poliziotti quanto all’associazione pro life.

Il bambino dipinto all’ingresso della sede ha fatto impazzire le femministe. E non poteva essere diversamente. È proprio quell’esserino, che loro considerano un grumo di cellule, a ricordare alle femministe che non sono regine assolute, cioè senza legami. No, ne hanno uno, fatto di cellule e sangue, il cordone ombelicale, che le lega al figlio che possono accogliere o ammazzare. Sta a loro decidere. Se ferire e ferirsi, perché l’aborto lascia sempre un dolore indicibile in chi lo compie. Oppure accettare quel mistero che è la capacità di accogliere la vita che hanno in grembo. È, quello di Non una di meno, il nuovo femminismo, talvolta violento, non solo a parole ma anche nelle azioni, che viene esaltato dai giornali progressisti. Come se esistesse una violenza buona, quella femminista, e una cattiva, quella maschile. La prima è lecita, la seconda invece no.

Nelle scorse settimane, per esempio, Repubblica ha proposto alcuni modelli femminili per le donne di oggi. Modelli di rabbia, “un’emozione a lungo messa tacere”. Del resto, spiega l’autrice dell’articolo, Nadia Terranova, “la rabbia delle donne somiglia a un’esplosione, a un’eruzione vulcanica. Irrompe e squarcia, distrugge e terrorizza. (...) La rabbia delle donne non regna, anzi: distrugge”. È l'elogio della rabbia. Delle emozioni viste come un qualcosa che non si può governare. Non è così, ovviamente. Anche perché l’ira è una passione che, come tutte le altre, va dominata. Indipendemente dal sesso. È proprio l’“ira di Achille”, cantata nell’Iliade, che porta con sé morte e distruzione. Per Omero non è quello il modello maschile da seguire. È certamente un esempio tragico e affascinante. Ma l’uomo vero, quello completo, di questo poema epico è un altro: Ettore. Il “piè veloce” è colui che annienta tutto, che non ha rispetto per i morti e che, pur desiderando l’immortalità in battaglia, muore in modo sciocco: colpito dal pavido Paride. Il principe troiano, invece, combatte e muore da eroe. E tutti provano un senso di vergogna e ingiustizia di fronte allo scempio che Achille fa del corpo di Ettore. Lo odiano. Odiano la sua ira. La sua hybris, che sfida la pietà.

Gli esempi che cita Repubblica sono esempi di rabbia "buona". Come le Erinni, incredibili furie che possiedono Medea, la quale ucciderà il suo stesso figlio. Un infanticidio, considerata l’età del bambino. O un aborto, se proviamo a leggere la tragedia in senso allegorico. Le Erinni rappresentano la vendetta, che è cieca, e solo quando vengono placate diventano Eumenidi, portatrici di giustizia. E ancora. L’esempio di Scilla e Cariddi. Per la Terranova, sono “ninfe diventate mostri, punite per superbia e per gola, ovvero rispettivamente per aver rifiutato un pretendente sgradito e per aver mangiato per sbaglio i buoi di Gerione”. Quella del pretendente sgradito è solo una delle versioni. Un’altra, invece, quella di Servio, afferma che Scilla sarebbe stata tramutata in mostro a causa della gelosia di Anfitrite, sposa di Poseidone. Si tratterebbe quindi di una vendetta tra donne. Lo stesso scenario dell’altro esempio citato da Repubblica: Uma Thurman in Kill Bill. Anche lei, come le Erinni e Anfitrite, cerca vendetta. Ammazza tutti. Uomini e donne. Un esempio di violenza, dunque. Che però viene accettato senza problemi e, anzi, proposto ai lettori.

Scrive la Terranova: “La rabbia è uscita dalla mitologia ed è diventata organica, uno strumento di resistenza quotidiana attraverso la denuncia virale”. È vero, purtroppo. È la rabbia che si mette alla ricerca di modelli simili. Perché la rabbia delle femministe di Non una di meno è come quella delle Erinni. È una violenza che tutto annienta. È la stessa violenza di chi, di fronte a una donna ammazzata da un uomo, dice che siamo tutti colpevoli, puntando il dito contro il patriarcato. È la stessa violenza di chi predica odio nei confronti dell’altro sesso, visto (a torto) come prevaricatore. È la stessa violenza che prima era la lotta di classe e che ora è diventata lotta di genere. Una prospettiva che annienta ogni alleanza tra uomini e donne. E che fa male a tutti. Donne comprese.

Le donne israeliane: «Stuprate, picchiate. E il mondo tace». Storia di Fiammetta Martegani, Tel Aviv su Avvenire il 28 novembre 2023

«Alla vigilia del 25 novembre ci siamo dette che non potevamo aspettare un giorno in più. Era necessario far sentire la nostra voce, la voce delle donne israeliane sopravvissute al massacro del 7 ottobre. E di tutte coloro che, purtroppo, non ce l’hanno fatta».

Sono le parole di Liron Kroll, direttrice creativa della campagna #MeToo_Unless Ur_A_Jew (“MeToo, a meno che tu sia ebrea), organizzata in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne, istituita nel 1999 dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite.

Proprio grazie alla sua professione di direttore artistico, Liron si è attivata fin dal 7 ottobre nell’aiutare chi è stato più colpito dal massacro di Hamas, a partire delle famiglie degli ostaggi.

«Molte di loro sono donne: madri, figlie, nonne – ci racconta –. E la loro pena è doppia. Non solo per quello che hanno subìto durante quel Sabato Nero, ma anche perché a questo dolore si aggiunge il silenzio del mondo: il fatto che quel dolore non venga riconosciuto all’estero. Che non venga addirittura riconosciuto dall’Onu e da quei gruppi femministi che il 25 novembre sfilavano per le strade delle capitali europee e americane».

Sono trascorsi ormai più di 50 giorni dal 7 ottobre, giorno in cui Hamas, nel commettere il più grande massacro nella storia di Israele, si è macchiato anche di gravissimi crimini e violenze sessuali nei confronti delle donne. Israeliane soprattutto. Ma non solo israeliane: sono, infatti, 28 le nazionalità tra i 239 ostaggi che sono stati rapiti nella Striscia.

Eppure, fuori da Israele, permane una riluttanza nel denunciare le atrocità commesse dal gruppo terrorista nei confronti delle donne. E questo anche se il gruppo Hamas abbia fornito prove fin troppo evidenti delle atrocità di cui si è reso protagonista pubblicando in tempo reale i filmati delle giovani rapite, fatte sfilare per Gaza picchiate, ferite, umiliate, violentate, molte con i pantaloni insanguinati.

Il silenzio caratterizza persino quelle attiviste dedite proprio alla difesa dei diritti delle donne. Nel denunciare tutto questo, Nicole Lampert, firma di Haaretz, mette in luce anche un aspetto che riguarda le donne a Gaza: «Ci si sarebbe aspettati una ferma condanna da parte dei gruppi femministi ben prima del 7 ottobre, quando le credenziali di Hamas in fatto di femminismo non erano certo brillanti visto che il gruppo impone l’uso dell’hijab, ha reso illegale viaggiare senza un tutore maschio e si è rifiutato di vietare gli abusi fisici o sessuali all’interno della famiglia».

Invece, la maggior parte dei movimenti femministi ha taciuto. Addirittura, il 30 ottobre, 140 eminenti studiose americane hanno firmato una petizione «per il cessate il fuoco» dichiarando, però, che essere solidali con le donne israeliane significa cedere al «femminismo coloniale». Come osservato dalla Lampert, nel Regno Unito l’unica organizzazione a denunciare la violenza sessuale del gruppo terrorista è stata “Jewish Women’s Aid”, sottolineando come «il silenzio pubblico di molte organizzazioni ha un ulteriore impatto sull’isolamento e sulla paura delle vittime israeliane».

«Non rimarremo in silenzio. La vita di ogni donna è ugualmente preziosa», sottolinea dunque la campagna #MeToo_Unless Ur_A_Jew. «Istituzioni come la Croce Rossa Internazionale e UN Women non hanno fatto nulla per supportare le nostre vittime», ha scritto – nella campagna Instagram – Keren Sharf Shem, la cui figlia Mia, 21 anni, è stata rapita durante il Festival Nova. Le madri degli ostaggi hanno lanciato anche la campagna #MomToo (“mamma anch’io”) in cui si possono ascoltare le voci delle donne i cui figli sono stati rapiti o uccisi da Hamas. Lo scopo è sensibilizzare le madri di tutto il mondo per creare consapevolezza su quanto è accaduto. E subito dimenticato dal mondo.

Questo femminismo cieco non riconosce la mattanza delle donne israeliane. Nessuna denuncia di violenza contro le donne ha senso se non misurata su quella del 7 di ottobre contro le donne israeliane. Oppure, si è antisemiti. Fiamma Nirenstein il 27 Novembre 2023 su Il Giornale.

Nessuna denuncia di violenza contro le donne ha senso se non misurata su quella del 7 di ottobre contro le donne israeliane. Oppure, si è antisemiti.

Non solo chi l'ha vista nei film girati dai terroristi stessi lo sa, come me, ma anche chiunque veda la tv o abbia un po' di buon senso. Oppure, si è antisemiti. I terroristi di Hamas si sono autofilmati mentre violentano, strappano le vesti, trascinano per i capelli, caricano sulle macchine vive e morte donne spogliate nella parte inferiore del corpo sanguinante. Alla morgue dove i resti delle donne uccise venivano ricomposti a centinaia spesso solo per parti recuperabili dalle mutilazioni e dal rogo, spesso le gambe erano fratturate e irrecuperabili a causa delle violenze. Bambine, vecchie e anche bambini piccolissimi sono stati violentati, hanno verificato i dottori: dopo tentativi difficili per raccogliere le prove dei fatti, anche i dna dei violentatori sono stati ricuperati. Una sopravvissuta dalla festa dove sono state uccise più di trecento giovani che ballavano, ha testimoniato di una sua amica brutalizzata da diversi, tenuta ferma per i capelli; l'ultimo le ha sparato in testa e dopo ha continuato,fino a che ha finito il suo atto sessuale. Una ragazza è stata mutilata dei seni coi quali i terroristi hanno giocato. Il footage che abbiamo visto mostra molte ragazze morte, svestite, sanguinante. Ma che razza di esseri umani sono le donne che non protestano?

Il femminismo ha sempre albergato una tarantola nel suo guscio, fin da quando negli anni settanta con un gruppo di amiche fondammo la rivista Rosa, sofisticata, intelligente, certo di sinistra. Io ero stata comunista, avevo perfino scritto un libretto sulla storia delle donne comuniste: il mio femminismo, molto primigenio, istintivo, di famiglia, pure non poteva fare a meno delle catena della rivoluzione, di Rosa Luxemburg, del diritto al lavoro. Poi venne il corpo, l'aborto, il divorzio, l'autocoscienza: eppure restava l' indispensabile intersezione con le grandi radunate internazionali, terzomondiste, sovietiche! che già sbattevano le donne israeliane fuori dai loro incontri. Donne meravigliose, che avevano affrontato come eroine la maternità e la guerra, la zappa, la scienza, la poesia. La libertà! Donne senza soggezione verso gli uomini nel loro valoroso ritorno a casa, Israele, un simbolo non certo di colonizzazione, ma di decolonizzazione dalle grandi potenze. Per saperlo, bisogno studiare un po' dio storia. Ma il femminismo già soffriva allora dell'enorme soggezione al movimento comunista, aveva bisogno della sua approvazione e delle sue bandiere. Quindi una volta che esso ha sanzionato lo Stato d'Israele, l'unico che garantisse l'uguaglianza dei sessi in tutto il Medio Oriente, il femminismo si è associato nella gran parte appiccicando etichette fasulle, coloniale, imperiale, capitalista, apartheidil femminismo si è allineato.

Adesso la femminista si è evoluta, è intersezionale, woke, pronta a sacrificarsi alla violenza di Hamas, perché gli oppressori sono bianchi, cristiani o ebrei: non importa se proprio loro salvano gli lgtbq dagli oppressi che li appendono ai lampioni; e non importa se Hamas, da loro difeso, impone alle bambine matrimoni con adulti pedofili, protegge e anzi ordina gli stupri, le botte, i rapimenti. È provato dalle loro stesse testimonianze dopo la strage.

Il divorzio fra il femminismo e i diritti umani si è concluso da tempo: dopo quello che hanno patito le donne in Iran all'Onu gli Ayatollah presiedono la commissione per i diritti umani e non risulta che il movimento abbia sussurrato. Adesso siamo all'antisemitismo: peggiore, disperante direi, è che non si sia levata dalle manifestazioni italiane una voce sullo stupro di massa unito al femminicidio seriale che il 7 di ottobre ha travolto donne, bambine, anziane, mentre i loro cari, 1400, venivano uno a uno trucidati. Perché avete rapito i bambini e le bambine, ha chiesto la polizia ai terroristi catturati. per violentarli hanno risposto. Maschilismo? Violenza? No, caccia alle ebree imperialiste e coloniali. Uccidiamole.

Maurizio Caverzan per “la Verità” - Estratti martedì 28 novembre 2023.

Stavolta il mantra «ce lo dice la scienza» non vale. Sembrava un dogma, tassativo e inconfutabile, avendoci accompagnato nelle ultime campagne comportamentali, nelle recenti ubriacature collettive, dalla pandemia al riscaldamento globale. Del resto, la scienza, medica o ecologica che sia, ha il compito di «supportare» il magistero del momento, si tratti della vaccinazione e delle restrizioni planetarie, dell’invasione buona delle auto elettriche o di «efficientare» le abitazioni. E invece no. Per la violenza contro le donne e i femminicidi il dogma si è sgretolato. 

(...)

Da quando si scandagliano i fondali socio-psicologici dell’atroce assassinio della povera Giulia Cecchettin, i competenti della materia si esprimono a una sola voce: «Il patriarcato non c’entra». 

Proprio questo era il titolo dell’intervento di Massimo Ammaniti, uno dei maggiori psicoanalisti italiani, ospitato venerdì con qualche imbarazzo da Repubblica. Le violenze e le sopraffazioni maschili «non nascono oggi dal potere patriarcale, che le usava per legittimare la sua supremazia», scrive nascosto nelle pagine interne Ammaniti, «originano piuttosto dalla debolezza e dalla fragilità degli uomini, che sentendosi impotenti e impauriti per essere sopravanzati affettivamente e socialmente dalle donne, reagiscono con rabbia e odio».

Stessa sorte capita due giorni dopo al più cool degli psicanalisti, Massimo Recalcati che alla giornalista di Repubblica che gli chiede se il crimine di Filippo Turetta sia «retaggio del patriarcato» o se sia più corretto parlare di «ferita narcisistica», risponde: «Il mito del nostro tempo è quello del successo individuale. Si tratta di un nuovo imperativo che rende impossibile l’esperienza del fallimento. Subire il rifiuto di una ragazza significa riconoscere i propri limiti [ …]. Per questo a volte il ricorso alla violenza sostituisce la dolorosa constatazione della propria insufficienza».

Concetti chiari, quelli espressi da «uno dei più lucidi e autorevoli indagatori dell’animo umano», come recita la presentazione della collana di opere che il quotidiano sta testé pubblicando, ma che forse avrebbero cromaticamente stonato sotto l’«Onda fucsia», il titolo d’apertura del giornale che illustrava la manifestazione anti-patriarcato di sabato. Bel paradosso per un luminare, la scarsa visibilità. Non l’unico, nelle interpretazioni che si dibattono su questa tragica vicenda. Basta citare quello «nordico», così chiamato dal rapporto dell’Onu che non si capacita di come «nonostante siano leader mondiali in termini di uguaglianza di genere», i Paesi del Nord Europa presentano «tassi di violenza da partner intimo contro le donne sostanzialmente più alti della media Ue».

Impossibile rassegnarsi, per le vestali turbofemministe di casa nostra. Impossibile accettare anche lo scenario prospettato dal filosofo Massimo Cacciari sulla Stampa: «La famiglia patriarcale è già defunta con la famiglia borghese, dove proprio la “patriarcalità” si sfascia in mille forme di incomunicabilità». 

Tornando nell’alveo della psicologia, la materia che aiuta a riconoscere il pericolo di far coincidere il vivere con un rapporto amoroso, intervistato dal Corriere della Sera, il terapeuta dell’età giovanile Gustavo Pietropolli Charmet osserva che questo sortilegio trasforma il compagno in uno stalker.

Quando si concretizza l’abbandono, «viene fuori non solo rabbia o malinconia, ma la disperazione di chi si sente definitivamente perduto. E, ai suoi occhi, la responsabile di ciò è la persona che aveva fatto il sortilegio e poi l’ha rotto». Pietropolli Charmet è solo l’ultima delle voci che contesta il ritornello sul patriarcato.

Al Sussidiario.net Paolo Crepet, autore di Prendetevi la luna (Mondadori), aveva detto: «La teoria per cui non c’è da fidarsi perché noi maschi, siamo dei precursori delle violenze, se non degli assassini, mi sembra una teoria nazista: i nazisti ragionavano così, ovvero secondo genetica». Ancora più definitivo, lo psicanalista Claudio Risé sul nostro giornale: «Come si fa a vedere il patriarcato in un poveretto che fa un delitto confuso e pieno di errori, e finisce in un’autostrada senza benzina? Lui è un povero assassino, ma le autorità e i comunicatori che lo scambiano per un esempio di patriarcato non sanno di cosa parlano». Già, le autorità e i comunicatori. Può succedere che, a volte, l’ideologia li renda sordi ai contributi della scienza. A volte.

Estratto dell’articolo di Francesco Borgonovo per “La Verità” sabato 2 dicembre 2023.

Ancora una volta, Massimo Cacciari si è distinto per la dissonanza rispetto al discorso prevalente. Nel corso di una apparizione televisiva e in un articolo sulla Stampa poi, ha affermato che il patriarcato, in Italia, non esiste più da tempo. Risolvendo, in un lampo, il dibattito che prosegue da giorni ininterrotto.  […] 

Professore, si sta parlando a vanvera di patriarcato da una settimana?

«Direi di sì, perché la famiglia patriarcale è un ordine familiare che è andato di fatto in crisi qualche secolo fa. La famiglia borghese non è più una famiglia patriarcale. Quest’ultima si regge su una gerarchia ben solida e sull’autorità indiscussa del padre - del maschio padre - al di là di ogni concetto puramente genitoriale, perché l’autorità paterna non deriva soltanto dal fatto di essere genitore, ma da un riconoscimento pieno del suo primato in sede giuridica, politica. 

Questo sistema comincia ad andare in crisi con l’individualismo moderno: la famiglia borghese è già una famiglia che deve contemperare l’autorità del padre maschio con i sentimenti individuali, con il riconoscimento dei diritti individuali. Tutto questo determina la sua crisi, la crisi dell’ordine patriarcale.

È un tema ricorrente in tutta la letteratura, in tutta la cultura contemporanea, fino all’emergere di un movimento potente, una vera rivoluzione - quella femminista - che mina alle fondamenta ogni residuo di ordine non solo patriarcale, ma anche borghese». 

Quindi secondo lei che cosa stiamo vivendo oggi?

«Quella che noi oggi viviamo è la crisi della famiglia tout court. Ed è questo il tema grande e profondo che dobbiamo affrontare da un punto di vista radicale: l’istituto familiare non regge più, non svolge più una funzione economica e tanto meno una funzione educativa. Intendiamoci: non sto dicendo “bene, finalmente”. Anche perché non c’è niente che sostituisce l’istituto familiare, che è appunto in evidentissima crisi (e bisogna riconoscerlo a meno di non essere proprio totalmente ipocriti) e delitti come quello di cui si è discusso lo mostrano quotidianamente».

Pare di capire che secondo lei il problema non è il maschio in quanto maschio, ma è piuttosto la dinamica familiare.

«La dinamica familiare all’interno della quale è crollata ogni autorità. E l’autorità maschile, essendo quella tradizionale, provoca i maggiori problemi. Anche perché non c’è una tradizione millenaria di autorità femminile. Il matriarcato, se mai c’è stato, finisce nel mondo mediterraneo 3.000 anni fa. Il potere maschile invece c’è stato e va in crisi, una crisi che si è fatta ormai radicale, e questo provoca scombussolamenti e sconquassi laceranti nella psiche degli uomini […] 

Resta che la nostra anima è in profondo disordine e le vicende a cui stiamo assistendo, queste tragedie familiari, sono simbolo di un disordine psichico e etico, profondissimo, che non può essere in alcun modo derubricato. Tuttavia questa è la situazione, dunque cerchiamo di trovare isole di forma e ordine in questa situazione, sapendo che nessuno di noi ha ricette, tanto meno ricette reazionarie, come quella di invocare la famiglia. Ma quale famiglia si può invocare oggi?».

Da parecchio tempo psicologi, sociologi e filosofi parlano dell’evaporazione del padre, della crisi del maschio. Ma nessuno sembra essere riuscito a fornire un nuovo modello maschile. Si dice: combattiamo il patriarcato. Bene, ma poi che maschio vogliamo?

«Siamo in una situazione in cui c’è un’evidente tendenza alla confusione tra generi. Siamo in una situazione inconcepibile rispetto alla cultura passata, per cui ognuno può ricercare e realizzare da sé la propria identità sessuale. Come si fa a parlare in una situazione di questo genere di maschio o di femmina, secondo categorie e modalità che appartengono a una civiltà che ormai dobbiamo riconoscere essere in crisi? 

Quando un secolo fa quel tipo (Oswald Spengler, ndr) parlava di tramonto dell’Occidente, non è che avesse tutti i torti… Direttamente o indirettamente, continuiamo a citarlo, anche se gli scienziati storcono il naso, così come citiamo Samuel Huntington: siamo in una crisi di civiltà».

[…] Abbiamo parlato del maschile, concludiamo parlando del femminile. Può nascere secondo lei un nuovo ordine femminile? Oggi sembra che nella nostra società prevalga il femminile, però un femminile perverso, una caricatura del femminile che è falsamente buono, falsamente accogliente…

«Ma non è più neanche una mamma, perché appunto che cosa mai può curare? Cura sempre meno, la mamma: lo Stato mamma è lo stato del welfare se vogliamo, ma adesso ha poca cura soprattutto dei suoi figli più bisognosi. Quindi direi proprio che anche questa figura paterno-materna dello Stato è crollata. Invece la donna… Sì, la donna per me è una speranza concreta. La possibilità che al comando, diciamo così vi siano delle donne può portare proprio nella direzione che dicevo: la direzione di costruzione di patti molto pragmatici, determinati.

La donna ha consapevolezza della propria finitezza, infinitamente più del maschio europeo la cui eroica vicenda si compie con l’età faustiana e con i miti faustiano-prometeici, e quindi si compie con la rivoluzione industriale dell’Ottocento. Dopodiché comincia una decadenza che è segnata dalla tragedia di due guerre mondiali volute proprio dal maschio europeo e dalla sua volontà di potenza. Da lì comincia il tracollo, che era inevitabile».

Ritanna Armeni: "Giulia? Rabbia giusta ma il patriarcato non è di destra". Elisa Calessi su Libero Quotidiano il 27 novembre 2023

 «Noi avevamo il problema di affermare la nostra identità femminile, di dire che non era assimilabile al maschile. E volevamo distinguerci dai partiti, a cominciare da quelli di sinistra, più vicini a noi, perché la nostra ribellione ai maschi era ribellione innanzitutto ai maschi di sinistra. Se non altro perché li avevamo in casa...». Ritanna Armeni, per tanti anni giornalista, ora scrittrice affermata (il suo ultimo libro, Il secondo piano), è stata una protagonista del movimento femminista degli anni Settanta.

Cosa ne pensa del nuovo volto del movimento femminista che si definisce “transfemminista”, usa la schwa, si schiera con la Palestina? 

«Il movimento delle donne è come un fiume carsico. Sembra scomparso, poi invece esplode. Naturalmente ogni volta che riemerge, non è uguale a se stesso. Il movimento femminista degli anni ’70 non era uguale a #MeToo. E il movimento di oggi è diverso da quello in cui io sono nata. Questo non vuol dire non abbia motivi altrettanto validi».

In cosa è diverso? 

«Innanzitutto le donne, ai miei tempi, avevano molto forte il problema dell’identità femminile che si voleva distinguere dal maschile per potersi esprimere. La schwa è un modo di praticare immediatamente una parità dei sessi sul piano grammaticale e linguistico. Mentre a noi interessava esplicitare una differenza».

Altre diversità? 

«Questo movimento ha immediatamente una connotazione anche politica. Di schieramento. Mentre noi avevamo il problema di distinguerci da partiti».

Anche da quelli di sinistra? 

«Soprattutto da loro. La nostra ribellione agli uomini era innanzitutto ribellione agli uomini di sinistra. Se non altro perché li avevamo in casa, erano i maschi sotto mano».

Il movimento femminista di oggi no? 

«Mi pare sia più orientato a schierarsi direttamente a sinistra, anzi vicino all’ultra-sinistra».

Vede altri elementi diversi?

«Io, per esempio, non faccio risalire il patriarcato alla destra, al centrodestra e quindi alla presidente del Consiglio. Purtroppo, il patriarcato è un fenomeno più vasto. Che riguarda tutti. Anche le donne. Se no, non sarebbe stato così efficace. Mentre mi pare che queste ragazze siano convinte di poterlo superare rapidamente. Detto questo, io, oggi, sto con loro».

In che senso?

«Questo movimento è di grandissimo interesse. Fa riemergere una coscienza femminile che sembrava morta. Soprattutto, la rabbia è la stessa. Noi avevamo una rabbia enorme contro un mondo maschile che ci discriminava. Loro hanno altrettanta rabbia contro il patriarcato. In questo mi identifico. E in piazza sto con loro, pur non condividendo molte cose, a cominciare dalla non condanna degli stupri di Hamas».

Altro punto che ha fatto discutere. Cosa ne pensa?

«Per me le donne vengono prima. La lotta palestinese è importante, ma viene dopo il fatto che le donne ebree sono state stuprate. Mentre, da quanto leggo, in questo le organizzatrici della manifestazione sono state soverchiate dalla politica. Mentre io non vedo contraddizione: posso essere filo-palestinese, ma essere orripilata da quanto avvenuto il 7 ottobre in Israele. A loro giustificazione c’è la considerazione che il maschio occidentale non aspetta altro che dire i maschi pericolosi sono solo da una certa parte del mondo. Mentre non è così».

In queste settimane c’è stata una gara di uomini a chiedere scusa. La convince?

«Mi fa piacere che abbiano preso consapevolezza. A un certo punto, però, questa vicenda sta diventando una giustificazione: “Siccome c’è una crisi del patriarcato, aiutateci”. Eh, no. Ci sono i femminicidi! Se c’è questa crisi, è ora che voi maschi prendiate in mano la vostra crisi. Ho un suggerimento: fate dei gruppi di autocoscienza. Partite da domande facili-facili. Tipo: “Perché in un gruppo di lavoro se la donna viene promossa, soffro di più? Forse, se si fanno queste domande, arrivano al nucleo della faccenda». 

Stasera Italia, Rampini contro le femministe: "Colpito e indignato". Libero Quotidiano il 26 novembre 2023

Il tema della violenza sulle donne e delle manifestazioni che ieri si sono tenute in varie parti d'Italia ha tenuto banco nello studio di Stasera Italia su Rete 4. Tra gli ospiti Federico Rampini, in collegamento, che ha subito detto di non avere apprezzato la scelta di alcuni collettivi di tirare in ballo la questione palestinese. È il caso del movimento "Non una di meno", che nel manifesto di presentazione del corteo del 25 novembre a Roma ha inserito anche il tema Israele-Palestina. "Sono rimasto colpito e un po' indignato dalla presenza degli striscioni palestinesi nella manifestazione per le donne - ha detto l'editorialista del Corriere della Sera -. La Palestina di Hamas non è un modello di rispetto di diritti delle donne, anzi Hamas ha usato sistematicamente purtroppo gli stupri delle donne come strumento di guerra".

Rampini, poi, ha parlato di un fenomeno parecchio diffuso negli Stati Uniti, il Me Too, definendolo "un movimento che ha coinvolto soprattutto delle celebrity molto importanti nel mondo dello spettacolo. Sicuramente in certi casi ha colpito dei maschi prevaricatori, aggressivi, criminali, il più famoso di tutti è il produttore Weinstein, che è in galera giustamente per tutto il male che ha fatto  a tante donne. In altri casi ci sono state invece delle situazioni più ambigue, controverse, regolamenti di conti tra celebrity multimilionarie. Non sono sicuro che abbia avuto degli effetti diffusi nella società civile americana. Il tema che avete già sollevato, quello della rieducazione dei bambini maschi, inculcando rispetto e rifiuto di ogni forma di violenza, sono operazioni di lunga lena, probabilmente la società americana è un po' più avanti di quella italiana per ragioni culturali storiche, però abbiamo anche qui delle contraddizioni".

 «Se ti stupro e poi ti sposo non sono colpevole»: i privilegi del patriarcato nella storia del nostro Paese. Storia di Alessandra Arachi su Il Corriere della Sera domenica 26 novembre 2023.

Per capire il presente bisogna sempre guardare al passato. In questo caso è un passato tristemente recente quello che in Italia segna le tappe delle leggi che hanno abolito i privilegi del patriarcato. Privilegi indicibili come quello dello «ius corrigendi»: dava all’uomo il diritto di «educare e correggere» i comportamenti della moglie e dei figli , anche con l’uso della violenza. È un diritto rimasto in vigore fino al 1956. Ma ci sono date che sconvolgono anche di più per quanto sono vicine ai giorni nostri in questi giorni segnati dalla tragedia di Giulia Cecchettin, ma anche di tutte le Giulie che quasi ogni giorno vengono uccise, violentate, sfregiate.

Lo stupro non era reato

Una data per tutte: il 1996. Al Roslin Institute di Edimburgo la scienza arriva a clonare una pecora e la rivoluzione di Fidel Castro approda in Vaticano tra le braccia del Papa. Ma in Italia la violenza sessuale era considerata ancora un reato contro la morale e non contro la persona. Un’aberrazione che termina con una legge approvata il 15 febbraio, soltanto ventisette anni fa. E ancora, fino al 1981 in Italia lo stupro era un reato che si poteva estinguere. Già: lo prevedeva la legge sul matrimonio riparatore. Se un uomo violentava una donna, questo veniva messo a tacere, appunto, con un matrimonio. Difficile per una donna rifiutare la proposta di nozze del suo stupratore: avrebbe perso il suo onore. Impossibile, praticamente, fino a quando non arrivò Franca Viola, bellezza altera e solare di Alcamo: disse no al matrimonio proposto dal suo violentatore. Fu costretta a scappare dal paesino siciliano, ma entrò nella storia. Era il 1965. Peccato che per abolire il matrimonio riparatore si dovette aspettare il 1981.

Sette anni di carcere per il femminicidio

In nome dell’onore, all’uomo che compiva un femminicidio veniva data una pena ridicola. Parliamo del delitto d’onore e vale la pena riportare la dicitura della legge: «Chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onor suo o della famiglia, è punito con la reclusione da tre a sette anni». Il 1975 è l’anno della riforma del diritto di famiglia. Fino a quel momento esisteva la patria potestà, secondo cui l’uomo era l’unico capo della famiglia e la moglie non aveva gli stessi diritti del marito. Facile fare i conti: parliamo di poco meno di cinquant’anni fa.

Il patriarcato: significato e storia. Significato, storia e caratteristiche del patriarcato, il sistema sociale in cui gli uomini detengono il potere e l'autorità. Redazione Studenti il 15 novembre 2023 su studenti.it

INDICE

Il patriarcato

Perché si chiama patriarcato?

Cos’è la società patriarcale e come si manifesta oggi?

Quali sono le società in cui il patriarcato è ancora forte?

Altri contenuti utili

Il patriarcato

Il significato di patriarcato si riferisce a un sistema sociale in cui gli uomini detengono il potere e l’autorità domestica, politica e pubblica.  Si tratta di un sistema sociale, politico ed economico in cui le istituzioni e le norme culturali favoriscono gli uomini a discapito delle donne. In questo contesto, gli uomini ricoprono ruoli dominanti nella sfera pubblica e occupano posizioni di potere, mentre alle donne sono assegnati ruoli tradizionalmente considerati come complementari o subordinati. All’interno della famiglia, l’uomo esercita la propria autorità sulla donna e i figli.

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Perché si chiama patriarcato?

Il termine patriarcato significa letteralmente “governo del padre” o “dominio del padre”, in senso ampio e generico, viene utilizzato per indicare l’ordinamento sociale in cui l’autorità e il potere sono tradizionalmente concentrati nelle mani degli individui maschili più anziani. In questo sistema sociale, anche la trasmissione dei diritti e dei beni avviene secondo la linea maschile.

L'uso del termine è stato ampiamente adottato in altri contesti per descrivere le dinamiche di potere di genere nelle società. E oggi il termine patriarcato si riferisce a un sistema sociale in cui il controllo, l'influenza e le risorse sono distribuiti in modo diseguale tra i sessi, favorendo gli uomini. Mentre il termine si basa sull'idea di una figura paterna dominante, va notato che il patriarcato non si riferisce solo al potere individuale dei padri, ma a una struttura sociale più ampia che promuove il dominio maschile.

Cos’è la società patriarcale e come si manifesta oggi?

Una società patriarcale è una società in cui il potere e l'autorità sono principalmente detenuti dagli uomini, e le donne spesso occupano posizioni subalterne o subordinate nella sfera sociale, economica e politica. Questa struttura sociale ha radici storiche profonde ed è stata diffusa in molte culture nel corso dei secoli.

La manifestazione della società patriarcale oggi può variare da una cultura all'altra e da una regione del mondo all'altra. Tuttavia, ci sono diversi modi in cui il patriarcato si manifesta comunemente:

Disuguaglianze di genere: Le disuguaglianze di genere sono evidenti in diversi aspetti della società, come nel lavoro, nell'istruzione, nella politica e nelle dinamiche familiari. Ad esempio, le donne possono ricevere salari inferiori per lo stesso lavoro, essere sottorappresentate in posizioni di leadership o essere oggetto di discriminazioni basate sul genere.

Ruoli di genere tradizionali: Nelle società patriarcali, spesso esistono aspettative rigide su come uomini e donne dovrebbero comportarsi in base ai loro ruoli di genere. Ciò può influenzare le aspettative legate al lavoro, alla famiglia e alle relazioni personali.

Violenze di genere: La violenza di genere è spesso una manifestazione del patriarcato, con donne e persone di altri generi meno rappresentate o protette legalmente. La violenza domestica, lo stupro, l'abuso sessuale e altre forme di violenza possono essere più diffuse in società patriarcali.

Mancanza di rappresentanza: Le donne e altri gruppi di minoranza possono essere sottorappresentati nei settori politici, economici e sociali. La mancanza di rappresentanza può portare a politiche e norme che non tengono pienamente conto delle esigenze e delle prospettive di tali gruppi.

È importante sottolineare che le società patriarcali non sono uniformi e che molte comunità stanno lavorando attivamente per superare queste dinamiche e promuovere l'uguaglianza di genere.

Movimenti come il femminismo hanno l'obiettivo di sfidare e cambiare le strutture patriarcali per raggiungere una maggiore equità di genere.

Quali sono le società in cui il patriarcato è ancora forte?

La forza del patriarcato varia considerevolmente da una parte del mondo all'altra e anche all'interno di singoli paesi. In alcune società ci sono stati dei progressi verso una maggiore uguaglianza di genere, con cambiamenti nelle norme sociali, nelle leggi e nelle opportunità per le donne. Tuttavia, è importante notare che il patriarcato continua a persistere in molte forme, anche se in modi più sottili o meno evidenti rispetto al passato, ma la consapevolezza e il lavoro per contrastare il patriarcato sta aumentando in tutto il mondo.

Infatti, ci sono movimenti e organizzazioni in tutto il mondo che lavorano attivamente per contrastare il patriarcato e promuovere l'uguaglianza di genere. Questi movimenti femministi e gruppi per i diritti delle donne hanno diversi obiettivi, ma in generale, cercano di sfidare le norme culturali, sociali ed economiche che favoriscono gli uomini a discapito delle donne.

NOI UOMINI SIAMO BERSAGLI DELLA CACCIA AL MASCHIO”. Camillo Langone per “il Foglio” venerdì 24 novembre 2023. 

Abramo, patriarca Abramo, padre di popoli, tu che hai la parola “padre” (il semitico “ab”) fin dentro il nome, proteggi noi uomini abramitici. Noi bersagli della caccia al maschio. Le furie femministe, con al fianco gli inevitabili collaborazionisti, ci sono alle calcagna. E’ una “guerra di potere” come ha detto Lucetta Scaraffia. E’ una guerra civile, dunque una guerra senza quartiere.

Le donne di potere, le neomatriarche, le Meloni-Gruber-Schlein sono tutte sostanzialmente d’accordo (solo i fessacchiotti che credono ancora nella dicotomia destra/sinistra possono farsi ingannare dalle diverse sfumature). Mentre il fronte maschile è frammentato: gli infemminiti sono milioni. 

Abramo, patriarca Abramo, Dio ti garantì benedizioni, territori, figli: “Moltiplicherò la tua discendenza come le stelle del cielo”. Il neomatriarcato ci garantisce rieducazione, umiliazione, estinzione. Ai più riottosi la castrazione. Agli esemplari più collaborativi una carriera di fuco al servizio delle umane api regine. Abramo, patriarca Abramo, ricorda a Dio la sua promessa di darti una progenie inestinguibile: noi siamo figli tuoi, non possiamo sparire così.

Il Bestiario, le Matriarchigne. Le Matriarchigne sono degli animali leggendari che manifestano contro i femminicidi usando violenza contro chi difende la vita. Giovanni Zola il 30 Novembre 2023 su Il Giornale.

Le Matriarchigne sono degli esseri mitologici con problemi collettivi di memoria a breve termine che non ricordano il motivo per il quale sono scese in piazza a manifestare. Escono dai loro rifugi decise a protestare pacificamente contro il femminicidio e quando arrivano in piazza, scordato il loro obiettivo, mettono a fuoco i luoghi di chi difende la vita, come se non avessero già il diritto di scegliere a riguardo della propria maternità. Se non fosse stato per le forze dell’ordine, oggi degli spazi attaccati rimarrebbero poche macerie peggio del PD. Non si tratta di un incidente di percorso, ma di un attacco premeditato di centinaia di leggendari animali mascherati e armati di ordigni incendiari e slogan propri del linguaggio pacifista delle Matriarchigne quali: “I Pro Vita si chiudono col fuoco, ma con i Pro Vita dentro, se no è troppo poco”. Un esempio di civiltà da parte di coloro che deplorano la guerra, i soprusi e l’abbattimento degli orsi problematici del Trentino.

Il movente è stato rivendicato dall’estremiste femministe Matriarchigne con un linguaggio proprio dei peggiori anni ‘70: abbiamo “sanzionato la sede ProVita&Famiglia, espressione del patriarcato becero e anti-scelta. Sui nostri corpi scegliamo noi! In Italia l’accesso all’aborto continua ad essere ostacolato e negato”. La colpa dei difensori della vita e della famiglia, oltre a quella di esistere, è di fare terrorismo psicologico nei confronti delle donne incerte sul da farsi delle loro creature ancora in grembo, per problemi economici e per situazioni sociali problematiche, con l’intento di aiutarle anche economicamente. Gravissimo!

Effettivamente in altri Paesi più civilizzati del nostro, chi si trova in gruppo a pregare davanti alle cliniche che praticano l’aborto con grandi profitti, viene arrestato se si ostina a pregare a voce alta, perché credere a voce alta in pubblico è offensivo e violento, peggio che lanciare bombe molotov, come sostiene la maggior parte dei prelati. Gli stessi che poi si lamentano di avere le chiese vuote.

Evidentemente l’ostilità rabbiosa delle Matriarchigne contro chi difende la vita, non si accontenta dei 40 milioni di aborti ogni anno nel mondo, di cui, se la matematica non ci tradisce, 20 milioni di femmine, e questa volta, concedetelo, non dal patriarcato. Ma da dove nasce tanta rabbia? Forse dall’evidenza scientifica, come dicono quelli bravi, che quella è vita, cioè il cuore inizia a battere dopo il primo mese e chi lo ricorda tocca le coscienze di ciascuno. Se le Matriarchigne fossero certe che ad essere eliminato fosse un grumo di cellule pari a una cisti, non avrebbero nulla da temere da chi sostiene il contrario.

Infine, nell’era del buonismo ad oltranza di cui le Matriarchigne sono solerti sostenitrici, che fino hanno fatto la tolleranza, il dialogo e il volemose bene? Forse ce lo possono spiegare i cugini delle Matriarchigne, quelli che “inaspetatamente” si sono scoperti essere antisemiti. Ma questo è un altro animale leggendario. Di una cosa siamo sicuri. Non si chiederà a tutte le donne, per colpa delle Matriarchigne, di chiedere scusa per essere donne.

Il Bestiario, la Patriarchigna. La Patriarchigna è un animale leggendario che attacca il patriarcato per distruggere la famiglia. Giovanni Zola il 23 Novembre 2023 su Il Giornale.

La Patriarchigna è un essere mitologico, che strumentalizza la violenza omicida sulle donne per imporre la propria ideologia. Per la Patriarchigna il femminicidio, e in generale il male del mondo è causato nel nostro Paese dal patriarcato, come se negli uomini bianchi e occidentali vi sia iscritto il Dna culturale che permette ai maschi di giustificare qualsiasi tipo di sopruso nei confronti del mondo femminile. Insomma è “la legge del padre, la legge dell’uomo che vuole stabilire le regole e chi non si adegua, cioè le donne che non si adeguano a quelle regole, possono essere anche maltrattate. Questo è il patriarcato", secondo la definizione della leggendaria Boldrigna.

La Patriarchigna ha ragione su un aspetto. Si tratta di un problema culturale. La stessa Patrirchigna infatti ha collaborato con tutte le sue armi a disposizione a distruggere culturalmente e non solo il concetto di famiglia. Ed è questa demolizione che ha indebolito al midollo la personalità psicologica dei nostri figli, quegli esseri semi sconosciuti che vagano in casa bombardati dalla cultura dominante del relativismo assoluto. La vera verità che ormai si può affermare a voce molto bassa è che dove non c’è la famiglia non c’è crescita emotiva sana. Il danno non è opera delle regole del patriarcato, ma delle non regole della famiglia.

La famiglia è stata stigmatizzata, tanto che per intendersi, occorre parlare di “famiglia tradizionale” per non offendere le altre tipologie di unioni civili. La famiglia è stata distrutta economicamente. Occorre lavorare in due, non per scelta, per necessità. Chi non ricorda le vacanze estive di tre mesi con la mamma, mentre il “patriarca” lavorava a giugno e luglio raggiungendoci nei weekend. Chi oggi si può permettere una casa di proprietà senza indebitarsi e cosa potremo dare ai nostri figli per costruire un futuro?

La famiglia è stata distrutta culturalmente. Tutto è possibile, per genitori e figli. Ogni desiderio è concesso. Avere una famiglia, avere due famiglie, avere figli con donne o uomini diversi, scoprire di non essere più attratti dal sesso opposto, comprare figli o sposarsi con un albero. Tutto questo è concesso, anzi sponsorizzato dalla Patriarchigna che ora lamenta l’instabilità affettiva dei figli. Il male moderno è nato dal far credere di poter essere e ottenere tutto ciò che si desidera creando una frustrazione che si trasforma in violenza quando l'istinto non trova soddisfazione. Gli argini a tale deriva erano eretti dalla famiglia che per quanto imperfetta, come tutte le famiglie, c’era, resisteva ed educava.

Ora l’aspetto educativo è appaltato alla scuola. Una volta, di fianco alla famiglia, c’era l’ora di religione cristiana cattolica nella quale s’insegnava il significato dei dieci comandamenti, del sacrificio dell’uomo in imitazione di Cristo e la sacralità della vita. Oggi, grazie alla Patriarchigna, alla stessa ora si discute del diritto di andare nei bagni del sesso opposto.

Sciacalli. La sinistra usa Giulia per fare politica. Da Lilli Gruber ad Elly Schlein fino alle associazioni transfemministe che sono scese in piazza per attaccare il governo: sono molti gli sciacalli che hanno "banchettato" sulla tragedia di Giulia questa settimana. Michel Dessì il 25 Novembre 2023 su Il Giornale.

Cosa accade tra le stanze damascate dei palazzi della politica? Cosa si sussurrano i deputati tra un caffè e l'altro? A Roma non ci sono segreti, soprattutto a La Buvette. Un podcast settimanale per raccontare tutti i retroscena della politica. Gli accordi, i tradimenti e le giravolte dei leader fino ai più piccoli dei parlamentari pronti a tutto pur di non perdere il privilegio, la poltrona. Il potere. Ognuno gioca la propria partita, ma non tutti riescono a vincerla. A salvarsi saranno davvero in pochi, soprattutto dopo il taglio delle poltrone. Il gioco preferito? Fare fuori "l'altro". Il parlamento è il nuovo Squid Game.

Settimana dura da commentare, il dolore per la morte di Giulia Cecchettin ha coinvolto tutti. Figlia, sorella, amica di ognuno di noi. Un sorriso spezzato dalla follia di Filippo Turetta, l’ex fidanzato ingordo ed egoista che le ha tolto la vita. Senza togliersela. Un dolore penetrato anche nel Palazzo. Un dolore che ha impregnato le pareti ovattate del Parlamento che, purtroppo, è diventato un terreno di scontro.

Questa settimana metteremo in fila gli sciacalli, tutti quelli che hanno approfittato della scomparsa di Giulia per fare politica, altro che rumore. Tutti, a sinistra, ne hanno approfittato per puntare il dito contro il governo. In modo indegno.

Partiamo da lei, da Lilli Gruber. La conduttrice di Otto e mezzo non è riuscita proprio a trattenersi, e dal suo comodo studio televisivo ha accusato Giorgia Meloni di essere espressione di una cultura patriarcale. Sì, avete capito bene. Ha anche tirato in ballo l’appellativo “il Presidente” per essere più incisiva nell’attacco. È evidente che Lilli Gruber si sia confusa: come può Giorgia Meloni essere l’espressione tangibile del patriarcato, lei che è cresciuta insieme alla nonna e alla mamma, lei che non ha mai avuto un rapporto con il padre. Assurdo. C’è di più, tranquilli.

Elly Schlein, per esempio, ha approfittato del caso di cronaca per fare politica. Prima di tendere una mano al governo per approvare insieme una legge per l’inasprimento del codice rosso (passato al Senato mercoledì) ha attaccato aspramente etichettando l’omicidio come “frutto della cultura tossica del patriarcato”. Alludendo a delle responsabilità governative. A ridaglie, direbbero a Roma. Omettiamo tutte le altre dichiarazioni fatte a sinistra perché non basterebbero dieci pagine virtuali.

Sapete, invece, chi ha alzato di più il tiro e ha utilizzato senza alcuna vergogna il corpo martoriato della povera Giulia? Beh, i centri sociali di Padova e poi tutti quelli sparsi nel Paese. L’associazione Non una di meno ha fatto da capofila. In nome del femminismo e del transfemminismo e anche degli Lgbtq++++ hanno urlato per le vie della città slogan vuoti e senza alcun senso. Slogan politici.

A Padova, il “fiume umano” era fatto (perlopiù) da sciacalli senza alcun ritegno, senza alcuna vergogna. Hanno approfittato dell’onda emotiva della gente per mandare messaggi anche in contrasto fra di loro. Rifiutano il genere maschile e femminile in favore del neutro (tanto che ad ogni intervento salutavano con questa frase: “buonasera a tuttu”) e poi difendono il genere femminile. Non solo, hanno urlato in favore della Palestina libera e contro il nostro governo “fascista” dopo, però, aver mandato a quel paese Giorgia Meloni. Assurdo, no? Cosa c’entra la Palestina e il governo in tutta questa storia? Nulla! Eppure, loro, sono riusciti ad urlarlo per più di due ore lungo 7 chilometri. Da Stato terrorista a Polizia assassina le donne dei centri sociali non se ne sono fatte mancare una. Ogni pretesto è buono per fare politica e scendere in piazza ad urlare il proprio dissenso. Prima lo facevano per Alfredo Cospito, poi per la Palestina ora per Giulia.

Il vero femminismo non odiava i maschi. Non mi aspettavo che il femminismo ci avrebbe condotti a questo e penso che tale conflitto tra i sessi non sia che una deriva. Vittorio Feltri il 24 Novembre 2023 su Il Giornale.

Dott. Feltri,

sono un giovane uomo che sta assistendo con costernazione e sgomento alla quotidiana incriminazione dell'intero genere maschile. Non nego di essere anche preoccupato per questo clima di caccia alle streghe invertito. Non vorrei apparire esagerato e non vorrei neppure che queste mie parole suonassero come una provocazione, non lo vogliono essere, ma penso che in questa fase storica siano gli uomini ad essere discriminati. Basti considerare che nelle piazze e nelle strade, nei cortei e nelle manifestazioni, in questi giorni non sono stati urlati semplicemente slogan a sostegno delle donne bensì slogan contro i maschi, maschi violentatori, maschi assassini, maschi molestatori, maschi che controllano, che perseguitano, che stuprano. Però questa non è che una minoranza, la peggiore, del nostro genere. Fare credere che siamo tutti criminali è diffamatorio, insultante, doloroso, lesivo della nostra dignità e dei nostri diritti.

Abbiamo inaugurato la guerra al maschio. Eppure in questo caso non si parla di sessismo, di pregiudizio di genere o di violenza di genere. Lei cosa ne pensa? Luca Romano

Caro Luca,

sei uno dei tanti uomini che in questo periodo mi scrivono pensieri di questo tipo, uomini che si sentono ingiustamente etichettati come delinquenti, che vengono redarguiti dall'opinione pubblica, dai media, dalle donne, che avvertono di essere percepiti come sbagliati soltanto perché maschi. Non mi aspettavo che il femminismo ci avrebbe condotti a questo e penso che tale conflitto tra i sessi non sia che una deriva, una stortura, una deformazione del femminismo stesso, che da lotta per l'effettiva parità si è trasformato in una lotta al genere maschile. Il preconcetto si è già imposto. Se un ragazzo fa un complimento, è un molestatore; se dice alla sua donna «sei mia», è un potenziale assassino che considera la femmina una sua proprietà; se scrive un banale sms alla sua fidanzata chiedendole «dove sei?», ecco che viene ritenuto un pericoloso maniaco del controllo. Forse dell'educazione sentimentale e affettiva avremmo bisogno tutti, uomini e donne, adolescenti e adulti, dato che queste schizofrenie ormai sono insite nella società. Eppure il femminismo è stata la più grande rivoluzione del secolo scorso, le donne esprimevano forza, desiderio di affermazione, di emancipazione, di parità rispetto al maschio. Era un femminismo carico di valori e di dignità quello del Novecento. Ne sono venute fuori donne gigantesche, una di loro fu mia amica, Oriana Fallaci. Quando la chiamavo «uoma», per scherzare, lei se la prendeva, rivendicava il suo essere femmina, amava l'essere donna. E questo suo femminismo non l'ha mai spinta a scagliarsi contro il maschio, a vedere in ogni uomo un nemico, anzi, ella stringeva amicizia con i maschi, li riteneva complici, amici, fratelli. Non nego che alcuni abbiano provato invidia nei confronti di Oriana, come del resto le altre donne e colleghe. Quindi non ne farei una questione di genere.

E poi un giorno mi sono accorto che non dibattevamo più di grandi temi, che l'universo femminile era passato dalla lotta per i diritti alla lotta per le vocali. E ora dalla lotta per le vocali alla guerra fratricida al maschio. Comprendo il tuo terrore, la tua preoccupazione, il tuo sgomento. Cosa direbbero le donne se scendessimo in piazza ad urlare insulti che fanno di tutta un'erba un fascio, che pongono tutte sullo stesso livello, che bollano tutte le donne in una certa maniera. Sarebbe uno scandalo. Sarebbe uno scandalo se per le azioni di poche, fossero anche 200, o 1000 le colpevoli di qualcosa, noi discutessimo di «femminilità tossica».

Non amo le generalizzazioni in quanto conducono ad una lettura falsata della realtà e producono ingiustizia.

Non penso che viviamo in una società ostile alle donne, oppressa dal dominio del maschio, in cui le donne debbano vivere in quella paura che ci rimproverano di provare, come se fossimo orchi pronti ad aggredirle. Certo, ancora tanto c'è da compiere per raggiungere una eguaglianza che sia reale, ma tanti passi, enormi passi, sono stati compiuti, tanto è vero che all'interno delle istituzioni, anche quelle europee, non soltanto italiane, primeggiano le signore, come Christine Lagarde, presidente della Banca centrale europea, Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, Roberta Metsola, presidente del Parlamento europeo. Le donne comandano, decidono, rivestono ruoli apicali. L'Ue è un organismo sovranazionale guidato dalle donne.

Dove sta questa misoginia? Dove?

GUERRA E IDEOLOGIA. Se Lgbt e femministe preferiscono la sharia, vadano pure. L’Occidente ormai si odia. A tal punto da generare folli paradossi: l’universo gay e quello femminista fanno il tifo per Hamas e l’islam. Salvatore Di Bartolo su Nicolaporro.it il 14 Novembre 2023.

In un Occidente sempre più bramoso di suicidio, l’ipocrisia e il conformismo imperano ormai sovrani. I feroci e ripetuti attacchi dall’interno ai capisaldi della cultura occidentale, unitamente alla sfrenata esigenza di perorare ad ogni costo cause spiccatamente antioccidentali, possono assumere un solo significato: l’Occidente, o perlomeno una parte di esso, si odia profondamente. Talmente tanto da far apparire spesso la civiltà occidentale la più antioccidentale fra tutte le civiltà del nostro tempo.

Tale profondo e ben radicato odio di sé di cui si alimenta l’ormai agonizzante Occidente è infatti sempre più facilmente riscontrabile, con una carica peraltro oltremodo accentuata, in alcune sue frange, soprattutto laddove si annida una mai paga bramosia di tutele e corsie preferenziali.

Accade così che quel mondo minoritario, sempre più rumoroso e ostile nei confronti delle silenziose e sempre più soggiogate maggioranze, dopo aver fatto incetta di diritti e libertà nel tollerante e libero mondo occidentale, abbia inscenato il più classico dei voltafaccia per sostenere la causa dei più acerrimi nemici dell’Occidente.

Si originano così degli autentici paradossi, delle prese di posizione perverse e irrazionali, totalmente incomprensibili almeno senza una cospicua dose di insulsa ignoranza e becero conformismo. Si stenta infatti a comprendere, ad esempio, come il variopinto universo Lgbt, in perenne lotta contro l’oscurantismo occidentale, possa ergersi a paladino dell’Islam più radicale che disconosce le libertà sessuali e perseguita barbaramente le diversità. Oppure, come le agguerritissime femministe, sempre così ostili verso il bigotto e fallocratico Occidente, possano scendere in piazza a difesa di quell’integralismo culturale e religioso che predica, e poi pratica, la sottomissione del genere femminile al volere maschile e la sistematica negazione dei più basilari diritti della donna.

Orbene, laddove femministe e omosessuali avessero lecitamente modificato il loro punto di vista sul tema dei diritti civili, e altrettanto lecitamente avessero scelto di abbandonarsi al fascino irresistibile di imam, burqa e scimitarre, che ben venga. Nessun problema. Se la Sharia li rappresenta più dei valori occidentali e della cristianità, che facciano pure. Che aprano anche le braccia all’indulgente e democratico Islam. Il cotanto odiato Occidente riuscirà, presto o tardi, a farsene una ragione.

Ma ci risparmiassero perlomeno le false invettive, i soliti fastidiosissimi piagnistei e le deliranti lezioncine politicamente corrette intrise di ideologismo, ipocrisia e antioccidentalismo. Non sono più credibili.

In piazza le femministe filo Hamas. La Giornata per le donne, oggi, diventa un delirio su Meloni e Israele. Sinistra spiazzata. Francesco Giubilei il 25 Novembre 2023 su Il Giornale.

L'iniziativa di organizzare per oggi, giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne, una grande manifestazione dopo l'uccisione di Giulia Cecchettin, poteva essere una buona notizia. Eppure l'appuntamento, invece di restare apolitico e trasversale, si è trasformato in un evento con una connotazione ideologica estrema, a causa delle posizioni degli organizzatori dei cortei di Roma e Messina del movimento transfemminista «Non una di meno». Un evento nato per contrastare la violenza contro le donne si è trasformato in occasione per mettere sul banco degli imputati tutti gli uomini in quanto tali, il governo Meloni e Israele. Anche a sinistra qualcuno se n'è accorto. Carlo Calenda, di Azione, già ieri criticava la linea oltranzista: «Questa non è la piattaforma di una manifestazione contro la violenza sulle donne e per una società meno maschilista e più equa - ha sbottato - Questa è la piattaforma di un collettivo di estrema sinistra antisraeliano e filo Hamas (notoriamente sostenitore dei diritti delle donne). Sorvolo sui restanti deliri veteromarxisti». I leader dell'opposizione, salvo ripensamenti, non dovrebbero partecipare al corteo romano. Chi per impegni concomitanti, chi per una scelta politica. Fatto sta che il documento di «Non una di meno» ha politicizzato il tema: «Quelle di Roma e di Messina non saranno piazze neutre» hanno spiegato dal movimento, accusando il governo di procedere «a colpi di decretazione di urgenza razzista e classista». Come se non bastasse il comunicato infarcito di asterischi e schwa, è in particolare la posizione su Israele a lasciare sgomenti: «Lo stato italiano deve smetterla di essere complice di genocidi in tutto il mondo» perché «schierandosi in aperto supporto dello stato coloniale di Israele, appoggi di fatto il genocidio in corso del popolo Palestinese». Lecito chiedersi cosa c'entri Israele con il tema dei femminicidi ma, se proprio si vuole citare la situazione in Medio Oriente, sarebbe opportuno spendere almeno una parola per le donne uccise, torturate, stuprate, rapite dai terroristi di Hamas. E le transfemministe, sempre in prima linea nel puntare il dito contro Israele («la guerra è la manifestazione più totalizzante della violenza patriarcale, per questo, e più che mai, siamo al fianco del popolo palestinese»), non dicono nulla sull'attacco terroristico di Hamas.

Indignata l'ex ministra Mariastella Gelmini (Azione): «Confondere la lotta contro la violenza di genere con quello che sta accadendo tra Israele e l'organizzazione terroristica Hamas - dice - è inaccettabile. Non dire una parola sugli stupri subiti dalle donne israeliane è un grave errore. Senza fare chiarezza su questo punto (si è ancora in tempo), la piazza rischia di essere un'occasione persa». E anche Maria Elena Boschi (Iv) considera «deliranti» le parole su Israele.

Le manifestazioni di oggi, insomma, sono una grande occasione mancata e testimoniano la spaccatura che si è creata nell'opinione pubblica dopo la morte di Giulia Cecchettin. Partendo dalla necessità di contrastare la violenza contro le donne, sembrano essersi delineate due anime: una che vuole trovare soluzioni di buon senso legate al problema, un'altra che usa questo tema per cercare di cambiare la società in ambiti che nulla hanno a che vedere con la violenza sulle donne. Facile dire a quale delle due categorie appartengono le transfemministe.

Anti tutto. Il demone dell’estremismo si è mangiato la sinistra, e anche il femminismo. Mario Lavia Linkiesta il 24 Novembre 2023

Per la Giornata mondiale sulla violenza contro le donne il Partito democratico va in piazza al fianco di “Non una di meno”, associazione che ha diramato frasi obsolete e dichiarazioni d’odio verso Israele. Elly Schlein non può far finta di niente

Ci deve essere un demone a sinistra che incendia gli animi, fa guizzare le fiammelle dell’ideologia bruciando la possibilità di costruire qualcosa su un terreno comune, e questo demone è segnato dal vecchio marchio di fabbrica estremista degli organizzatori/organizzatrici di tutte le manifestazioni su qualunque argomento.

Accade in Italia anche in occasione della Giornata mondiale per l’eliminazione della violenza contro le donne: ed è singolare – eufemismo – che il Partito democratico oggi vada in piazza fischiettando, senza chiedere qualche chiarimento su una manifestazione connotata nei suoi documenti da violenti accenti filo-Hamas, che è la ragione per cui Italia Viva e Azione non ci saranno.

Sì, ci deve essere come una “centrale” di sessantenni o più che da sempre gode a scrivere piattaforme e documenti, mettere il cappello sulle iniziative più lodevoli, una “centrale” di personaggi che si conoscono tutti tra di loro da sempre, professionisti degli slogan, arruffapopolo anti-tutto, alcuni sbarcano il lunario altri stanno comodi magari pagati da quello Stato che detestano, sono loro da sempre a riapparire all’improvviso per appestare l’aria.

Il demone si è puntualmente risvegliato in vista delle manifestazioni di oggi a Roma e Messina in occasione della Giornata mondiale per l’eliminazione della violenza contro le donne , occasione perfetta specie mentre ancora si piange per Giulia Cecchettin per cercare di unire, di allargare gli orizzonti del femminismo, di parlare un linguaggio non settario, senza peraltro ledere l’autonoma identità del movimento delle donne.

E invece ecco che “Non una di meno”, l’associazione che promuove le manifestazioni di oggi, tira fuori un documento che pare scritto trent’anni fa e che soprattutto, del tutto incongruamente, se ne esce con un attacco a Israele. Che poi se un nesso si può stabilire tra la violenza alle donne e la guerra caso mai sta esattamente nella ripulsa per gli stupri commessi da Hamas il 7 ottobre, per qui corpi di donne devastati e offerti al ludibrio, come hanno rilevato in Francia alcuni artisti e intellettuali francesi come gli scrittori Marc Levy e Marek Halter, l’attrice Charlotte Gainsbourg, la sindaca di Parigi Anne Hidalgo: «I loro nomi erano Sarah, Karine, Céline… Su iniziativa dell’associazione Paroles de femmes, lanciamo un appello alle femministe e ai sostenitori della nostra causa affinché il massacro delle donne in Israele del 7 ottobre sia riconosciuto come femminicidio».

E invece le femministe di “Non una di meno” in un documento del 7 novembre preparato per la manifestazione di oggi hanno pensato bene di scrivere tutt’altra cosa. Sembra un volantino di Autonomia operaia: «Il governo partecipa e finanzia in prima fila all’escalation bellica, con la produzione e invio massiccio di armi, tentativi di moltiplicare le basi militari, oltre quelle già esistenti (non ultimo sul territorio di Pisa, a Capo Frasca, Sigonella e Niscemi), nonché in pratiche di controllo varie; quali ricoprire le Città di Venezia e Messina di telecamere a riconoscimento facciale (prodotte in Israele) già in sperimentazione nel trasporto pubblico di Padova. Uno strumento spacciato come prevenzione di una violenza sistemica che lo Stato risolve in un solo modo: repressione. Le stesse utilizzate per la repressione e genocidio delle nostre sorelle Palestinesi». Toni Negri non avrebbe saputo fare meglio. Lui era un cattivo maestro, ma queste sono alunne penose.

E già che ci siamo ecco l’attacco diretto a Israele: «Lo stato Italiano deve smetterla di essere complice di genocidi in tutto il mondo e schierandosi in aperto supporto dello stato coloniale di Israele, appoggia di fatto il genocidio in corso del popolo Palestinese».

All’Ansa qualcuna di “Non una di meno“ ha detto testualmente: «Porte aperte alle donne israeliane». Grazie tante. E poi: «Noi siamo contro il genocidio di uno stato colonialista nei confronti dei palestinesi, non contro le donne israeliane». Ma questo è diventato il femminismo? Possibile che le femministe vere, le donne di sinistra, le famose intellettuali scrittrici giornaliste registe attrici, non abbiano nulla da dire? Elly Schlein può far finta di niente su questa deriva estremista cui bellamente resta il fianco? Ascolti quello che dice la dem Pina Picierno: «Il 7 ottobre Hamas durante le azioni nei kibbutz ha ucciso e stuprato. Gli esiti delle autopsie e delle refertazioni mediche che ho letto in queste settimane sono terribili, i racconti dei terroristi arrestati fanno rabbrividire e i video che ho visionato dalle bodycam dei terroristi sono la rappresentazione dell’orrore. Queste donne israeliane, le loro storie, le violenze subite sono state escluse dal dibattito femminista così come accadde per gli stupri di guerra avvenuti in Ucraina. In questa giornata che precede il 25 novembre abbiamo il dovere di raccontare quello che avvenne il 7 ottobre, abbiamo il dovere di alzare la voce perché se toccano una toccano tutte, indipendentemente dalla nazionalità, dalla religione e dai conflitti».

La “centrale”, quella del pacifismo imbelle e senso unico che ha condizionato tante manifestazioni sull’Ucraina finendo per dar fiato alle trombe di Vladimir Putin, si è rimessa in moto e il demone rianima le sue lingue di fuoco contro l’Occidente, non contro il califfato, contro “la politica”, non contro i tagliagole di Hamas. E tutto fa brodo, per questa propaganda avvelenata, anche stendere un mantello di odio contro i “nemici”, anzi, le “nemiche” stuprate il Sabato nero. Per loro non c’è pietà, ha sentenziato il demone. Rovinando una giornata importante.

Se Prodi c’entra con Garlasco. Tommaso Cerno su L'Identità il 23 Novembre 2023

Se Prodi c’entra con Garlasco. C’è una nuova prova. E potrebbe riaprirsi un processo storico. I magistrati stanno valutando l’esistenza di un complice di Alberto Stasi, quando nel 2007, massacrò la fidanzata Chiara Poggi nella villetta di Garlasco. L’omicida, secondo quanto si apprende, non sarebbe stato solo. Come sembrava. Con lui c’era un complice: il patriarcato.

Proprio così, il movente del delitto cambia il quadro accusatorio. E questo porterà a nuove, clamorosi sviluppi. A portarci sulla pista giusta un caso di cronaca più recente, il dramma di Giulia Cecchettin assassinata e poi gettata in un dirupo della montagna friulana dall’ex fidanzato, Filippo Turetta. Un caso che, come è trapelato, non coinvolgerebbe la vittima e il suo carnefice, segnando un salto di qualità nei femminicidi, la vera piaga che colpisce le donne in Europa, la stessa che nel 2007 avrebbe dovuto portare a denominare quel delitto macabro il “femminicidio Poggi” e non il “caso Alberto Stasi”, come invece fu.

No, è del tutto chiaro dalle prime ricostruzioni che c’è un movente politico, il patriarcato, e un complice nell’efferato gesto di Filippo, il governo di destra guidato da Giorgia Meloni. La ragione? Perché la prima premier donna della storia d’Italia non si farebbe chiamare con l’epiteto di “la presidente”, bensì con quello usato da tutti gli altri premier della storia repubblicana, cioè “il presidente del Consiglio dei ministri”. Ecco che tale malefatta apre a un ruolo esplicito della politica nel delitto. E che tale ruolo andrà dunque cercato, per similitudine, anche nel caso Garlasco. Al governo quel 13 agosto 2007 c’era Romano Prodi, leader dell’Unione, che aveva vinto le elezioni contro Silvio Berlusconi l’anno prima. Ed è oggi intenzione degli inquirenti scavare a fondo nel ruolo che potrebbe avere avuto il patriarcato nell’era del Prodi II e su come questo complice dimenticato possa avere influenzato il delitto, pur restando all’epoca fuori dall’inchiesta e dai commenti televisivi e giornalistici.

Che Italia sbadata eravamo. Ma come potevamo non immaginare che un delitto di sangue possa avere come protagonisti il premier in carica e l’opposizione, come potevamo non capire che la politica c’entra con tutto tranne con quello che è messa lì a fare: alzare gli stipendi agli italiani, abbassare le tasse, costruire una sanità che funzioni e togliersi dalle scatole il prima possibile quando si parla di vita privata. L’Italia del 2007 era davvero indietro, perché non era uno stato etico, dove tutto passa per palazzo Chigi e per il Nazareno. Era uno stato liberale, dove governava chi aveva vinto le elezioni e si poteva uccidere in santa pace. Adesso invece siamo diventati grandi. Adesso abbiamo preso coscienza del fatto che la politica non serve a fare la pace fra contendenti, a far vivere meglio la gente, a redistribuire il reddito e a costruire politiche espansive.

No, serve a risolvere i gialli. E serve a trovare i colpevoli degli omicidi. La verità è che Giulia è morta in un Paese di gente che ha gettato il cervello all’ammasso. E che se i giovani non parlano con i boomer, come ci chiamano loro, hanno tutte le loro ragioni. Se un ragazzo di vent’anni accende la tv e sente la stratosferica sequela di idiozie che stiamo dicendo pur di essere noi, e non Giulia, i protagonisti di questo orrore, ha tutte le ragioni per chiudersi con la faccia puntata sul suo smartphone e rialzare lo sguardo al prossimo plenilunio.

In principio era il killer: per fortuna che la magistratura c’è… Tommaso Cerno su L'Identità il 22 Novembre 2023

In principio era il killer. Per fortuna che la magistratura c’è. Già. Capita di dire anche questo nel Paese della riforma incompiuta e della giustizia a orologeria. Quando succede che un apparente ragazzo della porta accanto si fa killer e uccide in modo barbaro la sua ex fidanzata, la getta in un dirupo e si dà alla fuga. Ma l’Italia parla di patriarcato, di ruolo dei maschi e di chincaglieria varia. Pensiamo alle leggi e alla scuola. Tutte cose sacrosante, che se fatte bene, fra vent’anni ci restituiranno un’Italia migliore. Ma intanto il killer di Giulia, Filippo Turetta, è l’assassino di Giulia Cecchettin. L’ha accoltellata una quindicina di volta. L’ha lasciata morire dissanguata per ventidue minuti. Si è liberato del corpo della donna che diceva di amare come di una carcassa. Si è dato alla fuga. E ora con la faccia catatonica che usano certi mafiosi per sfuggire ai processi, sta in carcere in Germania in attesa di un rimpatrio che è solo il primo, lentissimo passo verso un processo che sarà lungo e non banale.

Un processo la cui sentenza gli italiani hanno già pronunciato, invocando l’ergastolo, ma che in verità non è così scontato. Un processo durante il quale quel ragazzo, che è un killer di donne, avrà il tempo di razionalizzare e di scegliere una linea di difesa. E, c’è da scommetterci, avrà pure qualche supporter in giro, qualche innocentista che si metterà a dire che è tutto un imbroglio. Perché è vero che il Paese sta prendendo lentamente coscienza delle donne in pericolo e delle malattie che ancora albergano nel sottobosco maschile di una società solo apparentemente normale, così come dei vuoti che ci sono fra generazioni, ma è anche vero che se nel 2007 non parlammo di femminicidio Poggi, ma di delitto di Garlasco, e tutta l’attenzione mediatica era concentrata sul volto sottile e ambiguo di Alberto Stasi, che ancora si proclama innocente, è pur vero che almeno ci fu un lavoro certosino di indagine per inchiodarlo alle sue macabre responsabilità, perché alla fine sarà lui che processeremo e dalla forza e del peso di quella sentenza, dalla chiarezza delle prove, dalla lucidità degli elementi, dipenderà anche il peso politico della sentenza, cioè la credibilità stessa di uno Stato di fronte al crimine e alla vittima, Giulia.

Perché se per caso noi facessimo le nostre mille messe cantate per invocare una giustizia teorica per Giulia, ma poi non riuscissimo a uscire dall’aula di Corte d’Assise con un ergastolo senza se e senza ma avremmo perso la battaglia vera, oltre che la possibilità di mettere paura a quei maschi che tanto tiriamo in ballo, a quel dark world del famoso patriarcato, che si farebbe un baffo delle nostre teorie di fronte alla pratica. E soprattutto avremmo ipotecato per sempre l’ipotesi che qualcuno creda che la legge serve a quel che si dice. E che dentro quei codici ci sia una giustizia. Sarebbe il peggior servizio possibile a Giulia, sarebbe come uccidere quella giovane donna che stava per coronare il sogno della sua laurea una seconda volta.

Possiamo evolvere come società, possiamo dire meglio le cose, possiamo finalmente fare qualcosa tutti insieme contro una piaga che ci affligge da secoli ma che oggi è davvero il sintomo di una arretratezza storica incompatibile con il progresso. Ma per farlo serve puntare l’attenzione anche sul killer. E inchiodarlo alle sue macabre responsabilità.

Estratto dell’articolo di Massimo Cacciari per “la Stampa” il 27 Novembre 2023

Questioni di rilievo culturale-antropologico che investono le radici stesse della nostra civiltà vengono affrontate con irresistibile leggerezza a proposito della violenza sempre più efferata e diffusa che colpisce oggi le donne. Si parla di "patriarcato". Non vi è dubbio che in tutti gli idiomi indoeuropei (che sono quelli che parla l'Occidente) i termini che indicano paternità e potere siano etimologicamente affini. Potestas è esclusivamente quella patria, del padre. Il padre è il despotes, il dominus, l'unico dotato di piena autorità. […] 

Ma non vi è alcun dubbio […] che questo modello, questa gerarchia appaiano già in crisi all'inizio dell'Età moderna. Possiamo, anzi, affermare che la loro crisi è immanente all'idea stessa, in tutti i sensi rivoluzionaria, che del rapporto tra Padre e figli si esprime nel cristianesimo. Qui i figli, maschi e femmine, sono pieni eredi; il Figlio è l'unica rivelazione del Padre; tutto il Padre rimette nelle sue mani, e con questo dono vuole che il Figlio divenga altrettanto capace di donare.

[…] La famiglia patriarcale è già defunta con la famiglia borghese, dove proprio la "patriarcalità" si sfascia in mille forme di incomunicabilità, in conflitti tra individui sradicati, dove il Padre Marito tradisce ed è tradito di continuo. Da Madame Bovary al dr. Freud. La resistenza del Maschio padrone è tanto violenta quanto perfettamente disperata. E la rivoluzione femminista compie l'opera. Di rivoluzione antropologica si tratta. E di questo forse non vi è sufficiente coscienza. 

Grande problema: alle norme cui l'istituto famigliare obbediva […] deve ora subentrare un rapporto libero tra persone, libere a loro volta di decidere la propria identità sessuale, rapporto che il Diritto […] dovrebbe essere chiamato semplicemente a riconoscere. È una prospettiva che sconvolge equilibri di potere all'interno della famiglia tradizionale, ma, ancor prima, equilibri psicologici in tutti i soggetti deboli, e cioè quelli che […] non sanno adattarsi ai mutamenti radicali del loro ambiente. Angosce, frustrazioni, complessi di ogni tipo possono nascere da un humus simile ed esprimersi nelle forme più violente.

Pensare di reprimerle con la logica della pena, del suo inasprimento, o con prevenzione poliziesca, è semplicemente patetico. Significa non comprendere che qui siamo di fronte a problemi riguardanti la nostra civiltà. Al crollo di ogni "legittimità" delle gerarchie tradizionali non è subentrata alcuna idea nuova di convivenza, di comunicazione. La "rete" è l'essere-in-rete di assolute solitudini. E la solitudine frustrata reagisce cercando di impossessarsi di ciò che crede di desiderare.

Alla perdita di antichi e ormai intollerabili poteri […] la nostra civiltà non ha saputo finora rispondere con nuove forme, nuovi ordini sociali e giuridici. È così su tutte le questioni-confine: dal fine vita, alla manipolazione genetica, agli effetti dell'Intelligenza Artificiali. Tutto un dilagare di problemi cui nessun potere reale riesce a dare una forma. Problemi che la crisi economica e geo-politica esaspera. Gli istituti tradizionali non sanno oggi in alcun modo "educarci" ad affrontarli.

L'attuale, sopravvissuta famiglia ha funzione assai più patogena che "educativa" – come tutti i dati dimostrano. La scuola dovrebbe svolgerla – ma è stata abbandonata al fondo del paniere delle priorità. Eppure è soltanto nella scuola che potrebbe maturare un vero discorso, un vero logos tra tradizione e innovazione, padri-madri e figli-figlie, tra generi e età. Dove altrimenti? Nel multiverso dei social e degli influencer?

Nella "comunicazione" tra ragazzini attraverso smartphone? O magari domani via Intelligenza Artificiale – ecco il futuro prossimo, se si continuerà a non comprendere la radicalità del mutamento in atto: il ragazzo sopraffatto da problemi che nessuno sa comprendere, meno che meno "in casa", troverà il suo amico più fidato e comprensivo nell'Intelligenza con la quale una misericordiosa App lo metterà in comunicazione. […]

Otto e mezzo, Cacciari spiazza Gruber: "La famiglia patriarcale non esiste più da 200 anni". Il Tempo il 24 novembre 2023

Il tema della cultura patriarcale è quello dibattuto nel corso della puntata del 24 novembre di Otto e mezzo, il talk show di La7 condotto da Lilli Gruber. “Che cosa è oggi la cultura patriarcale?”, il quesito posto dalla padrona di casa a Massimo Cacciari, filosofo ed ex sindaco di Venezia. La risposta, dopo giorni di discussioni nate in seguito alla morte di Giulia Cecchettin, spiazza la giornalista: “Può piacere o no, ma la civiltà occidentale dall’invasione dorica di 1500 anni prima di Cristo si imposta su un’idea di patria potestas. Questo chiaramente non c’entra col condividerlo o meno, è la realtà. E’ una cosa che dura grosso modo, per poi andare in crisi, fino al nostro Rinascimento. E’ una rivoluzione vera, culturale e antropologica. Già nei drammi di Shakespeare è chiarissima la crisi del modello patriarcale. Via via questa crisi si approfondisce, l’epoca storica della famiglia borghese segna una grave crisi nella cultura patriarcale. E’ venuto sempre meno, con drammatica rapidità nell'ultimo periodo, il ruolo della figura maschile all’interno della famiglia. Io ritengo che queste tragedie siano il frutto, nelle personalità più deboli e più fragili, di questa loro centralità e di questa loro figura di riferimento, di questo loro esercizio del potere, ma anche legittimità valoriale”.

“Quindi oggi?”, lo prova ad incalzare ancora Gruber. Ma Cacciari va dritto con il suo ragionamento, tra le perplessità della conduttrice: “E’ la fine di quel modello di famiglia, quel modello di famiglia non esiste più, la famiglia patriarcale, nel senso autentico del termine, è in crisi da 500 anni e non esiste più da 200 anni”.

Dagospia venerdì 24 novembre 2023. ANCHE "REPUBBLICA" E "STAMPA" SI ACCORGONO CHE NEL CASO CECCHETTIN IL PATRIARCATO NON C’ENTRA NIENTE – LO PSICANALISTA MASSIMO AMMANITI: “LE VIOLENZE MASCHILI NON NASCONO OGGI DAL POTERE PATRIARCALE, ORIGINANO PIUTTOSTO DALLA DEBOLEZZA E DALLA FRAGILITÀ DEGLI UOMINI, CHE SENTENDOSI IMPOTENTI E IMPAURITI PER ESSERE SOPRAVANZATI AFFETTIVAMENTE E SOCIALMENTE DALLE DONNE, REAGISCONO CON RABBIA E ODIO” - VITO MANCUSO SU 'LA STAMPA': "IL VERO PROBLEMA NON È IL PATRIARCATO MA IL CULTO DELLA FORZA DI CUI SIAMO SCHIAVI..."

Vito Mancuso per “la Stampa” - Estratti venerdì 24 novembre 2023.

L'altra sera, invitato da mia figlia, ho partecipato con lei e il suo ragazzo alla manifestazione contro la violenza sulle donne organizzata a Bologna da "Non Una di Meno". C'erano diverse migliaia di persone, per lo più giovani, in maggioranza donne, ma anche noi uomini non eravamo pochi, ho persino intravisto alcuni signori definibili, come me, "di una certa età". 

Cartelli, fischietti, alcune trombe, qualche pentola e relativi cucchiai, insomma le solite cose usate da sempre nelle manifestazioni per fare baccano e farsi notare. Di nuovo, per lo meno per me, c'erano le chiavi di casa, agitate da molte ragazze per simboleggiare con il loro tintinnio che neppure in casa si sentono sicure. Le agitava anche mia figlia, però con l'altro braccio si stringeva a me, quindi quel suo gesto non mi preoccupava. Al di sopra ovviamente svettavano gli slogan, gridati con forza e passione dalle giovani donne. Il più ripetuto era il seguente: «Lo stupratore / non è malato, / è figlio sano / del patriarcato».

Il patriarcato. Mentre sentivo ripetere centinaia di volte questa parola, per tutti in quella piazza il nemico numero uno, non potevo fare a meno di pensare alla nostra civiltà. Tutto sbagliato? Anche il termine «patria»? E che dire poi della nostra religione? «Padre nostro che sei nei cieli». «Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo». «Papa» significa padre, e a Venezia e in altre antiche città il capo della chiesa si chiama «patriarca». Se poi si apre la Bibbia è un vero e proprio imperversare del patriarcato, a partire ovviamente dai patriarchi biblici Abramo, Isacco, Giacobbe, con le loro mogli e schiave e concubine, per giungere al re Davide, che di mogli ne ebbe una decina, e a suo figlio Salomone che ne ebbe centinaia. 

(…)

Non che nelle altre religioni le cose siano molto diverse, visto che l'invocazione alla divinità sotto il nome di Padre è un fenomeno primordiale, riscontrabile pressoché ovunque: in Mesopotamia, nell'antico Egitto, in Grecia dove Omero sia nell'Iliade sia nell'Odissea chiama Zeus «padre degli uomini e degli dei», a Roma dove il termine padre è già contenuto nel nome del dio supremo Jupiter, e in India dove ci si rivolge a Krsna, avatara di Visnu, dicendo: «Tu sei il padre di questo mondo». Fa eccezione l'islam, per il quale è vietato parlare di Dio come "padre" perché ritenuto troppo confidenziale, ma ciò non ha impedito proprio lì l'instaurarsi di un pesantissimo patriarcato. Insomma: Dio è padre, io sono padre, io quindi sono un dio: questo è il grossolano sillogismo della mente maschile di ogni tempo.

Ho preso in considerazione la religione perché soprattutto in essa veniva condensata l'anima profonda di un popolo con i suoi ideali e i suoi valori. Ma qual è la lezione da trarre dalla prevalenza del patriarcato in tutte le importanti civiltà del pianeta? La risposta, a mio avviso, è la seguente: l'adorazione della forza. Il patriarcato cioè rimanda, ben più che al maschilismo, al prevalere universale della forza. In quanto fisicamente più forte, il maschio è il sommo sacerdote di questa primitiva struttura archetipica la cui logica fondamentale è la forza, con ciò che ne consegue, cioè il potere da un lato e la sottomissione dall'altro. La violenza fisica fino all'assassinio non è che la più eclatante manifestazione di questa struttura, la quale, ancora oggi, pervade ogni ambito vitale. Ancora oggi infatti l'economia, il diritto, la politica, la tecnologia, la cultura, lo sport, la religione, sono esattamente questo in quasi tutte le loro manifestazioni: adorazione della forza.

Se un maschio alza le mani contro una donna lo fa perché vuole che lei gli sia sottomessa, e probabilmente cerca di riscattare così i casi in cui a essere sottomesso deve essere lui, nell'ambito lavorativo, o tra gli amici o in altre cento situazioni. Neppure le donne però sfuggono a questa logica imperante e impersonale della forza. Anzi, oggi non poche di esse tendono sempre più a «maschilizzarsi»: lo si capisce dal linguaggio volgare, prima appannaggio dei maschi e ora non più, e anche dalla vera e propria violenza fisica che alcune di loro riservano ad altre donne, come capita purtroppo di leggere con una certa frequenza nelle cronache quotidiane.

La vera questione non è quindi il fatto che uno sia maschio e l'altra sia femmina, il patriarcato o il matriarcato, anche perché vi sono uomini che non adorano anzi combattono la forza (vedi Gandhi) e vi sono donne che adorano e usano la forza (vedi Margaret Thatcher). Il punto focale riguarda piuttosto la seconda componente del termine «patri-arcato» o «matri-arcato», cioè il suffisso «arcato» che rimanda al greco «arché» che in questo caso significa «potere, comando, sovranità». Il punto focale è la forza, con il potere che essa conferisce. 

Ha scritto una delle più grandi pensatrici del nostro tempo, Simone Weil: «La forza è ciò che rende chiunque le sia sottomesso una cosa».

(…) Per questo, al di là dei sorrisi di circostanza, stiamo tutti male e siamo preda di una sensazione di prigionia. Da qui il nostro linguaggio violento e aggressivo, nei toni della voce, prima ancora che nei termini e nei contenuti. Siamo tutti prigionieri del dio della forza, anche se ovviamente lo sono in primo luogo coloro che alzano le mani, tanto più se lo fanno in modo vigliacco contro chi è più debole. Per quanto mi riguarda l'unica liberazione che conosco è la cultura, la quale suscita e fa fiorire dentro di me quella dimensione che Simone Weil chiamava "anima". Tutto nel nostro mondo avrebbe bisogno di più anima. 

(…) 

IL PATRIARCATO NON C’ENTRA. Massimo Ammaniti per “la Repubblica” - Estratti venerdì 24 novembre 2023. 

(...)

Ritornando alle violenze e alle sopraffazioni maschili queste non nascono oggi dal potere patriarcale, che le usava per legittimare la sua supremazia, originano piuttosto dalla debolezza e dalla fragilità degli uomini, che sentendosi impotenti e impauriti per essere sopravanzati affettivamente e socialmente dalle donne, reagiscono con rabbia e odio. Possiamo dire che si è verificata, come scriveva Pier Paolo Pasolini, una mutazione antropologica che ha completamente scompaginato il mondo del passato ed è difficile comprendere in quale direzione stiamo andando, anche perché la tecnologia ci sta continuamente sopravanzando.

I deliri della Valerio: dopo il patriarcato scarica le colpe sul colonialismo. Nella caccia a trovare ovunque il patriarcato ogni tanto capita anche alle paladine del radicalchicchismo più estremo di andare in cortocircuito. Francesco Maria Del Vigo il 22 Novembre 2023 su Il Giornale.

Nella caccia a trovare ovunque il patriarcato ogni tanto capita anche alle paladine del radicalchicchismo più estremo di andare in cortocircuito. È capitato lunedì sera a Chiara Valerio, scrittrice, intellettuale e storica sodale di Michela Murgia che, ospite di Linea Notte su Raitre, di fronte all'evidenza dei numeri prima vaneggia, cade in contraddizione e poi si mette a delirare di colonialismo. I dati sono semplicissimi nella loro ruvidità e - capiamoci - non sminuiscono affatto un fenomeno drammatico e serio come quello dei femminicidi nel nostro Paese, ma lo contestualizzano, lo mettono in scala con quello che succede oltre i confini nazionali.

Dunque: in Germania, Paesi Bassi e Francia ci sono più omicidi di donne da parte di familiari e partner che in Italia. È, anche in quel caso, tutta colpa della cultura patriarcale, machista e in fondo un po' clerico fascista che i gendarmi della morale sinistra denunciano dalle nostre parti? Anche in Paesi - per esempio l'Olanda - ritenuti all'avanguardia sul gender gap e sui diritti civili? Per spiegare questi dati Chiara Valerio si abbandona a una dialettica che fa sembrare cristallino l'eloquio di Elly Schlein: «Olanda, Germania e Francia sono potenze che sono state coloniali e quindi hanno istanze diverse dal patriarcato, istanze coloniali, economiche e religiose come per esempio si vede bene in Francia rispetto ai problemi con il mondo arabo». La supercazzola è servita. Quindi i femminicidi tedeschi sono colpa del colonialismo? O, più probabilmente, vuol dire che c'è una cultura islamica - diffusa anche nei Paesi occidentali, specialmente in quelli coloniali - che non rispetta i diritti basilari delle donne, altro che patriarcato. E saremmo di fronte al classico caso di un orologio rotto che segna l'ora giusta.

Cecchettin, gli uomini di sinistra che vogliono insegnare a Meloni come difendere le donne. Brunella Bolloli su Libero Quotidiano il 24 novembre 2023

Maurizio Maggiani, scrittore e saggista vincitore di vari premi e non tacciabile di avere simpatie per la destra, ha scritto ieri su La Stampa un bel racconto sull’irrimediabile perdita di potere degli uomini. Qualcosa che, ovviamente, ai maschi non va giù perché determina la fine del patriarcato e il suo auto-dissolversi che, spesso, può sfociare perfino in atti di violenza. In sintesi, più che fare attenzione al maschio che abusa del proprio potere, a preoccupare è il maschio che perde potere. Figurarsi se poi a diventare più potente è una donna, com’è noto nella cultura patriarcale considerata inferiore. 

Ciò che accade in questi giorni di dibattito attorno al cadavere ancora caldo della giovane Giulia Cecchettin è il volere cercare delle responsabilità e delle colpe della politica di oggi dando a Giorgia Meloni e al suo governo delle patenti di “patriarcato” che invece non le appartengono. E l’aspetto che qui osserviamo è che a dare lezioni alla premier non sono le donne (a parte casi rarissimi) ma soprattutto gli uomini. ADi martedì l’ex segretario del Partito democratico, Pier Luigi Bersani, era incontenibile. Non gli sembrava vero di attaccare la foto dell’album di famiglia, tutta al femminile, che Giorgia Meloni ha postato l’altra mattina in risposta alle sollecitazioni di Lilli Gruber. La difesa di Bersani nei confronti della conduttrice di Otto e mezzo è stata totale, ma abbastanza scomposta: «Son cose da matti...», ha esordito il politico di Bettola. «Io dico al presidente del Consiglio: «Ho il sospetto che tu abbia una visione patriarcale e lei mi risponde dicendo: no, io sono una donna, mia mamma è una donna, mia nonna è una donna, mia zia è una donna e faccio la foto...». 

Bersani ha concluso: «È come se a me dicessero che sono comunista e io rispondessi che ho uno zio prete». Grandi risate in studio. Meno divertente, invece, e forse anche più scontato, il post con cuiPaolo Berizzi,firma di Repubblica specializzata in servizi nella caccia al neofascista, vuole insegnare a Giorgia Meloni cosa deve dire per dimostrare di non essere figlia di una cultura patriarcale. «Durante il fascismo le donne venivano escluse, annichilite e umiliate. Il fascismo aveva paura delle donne lavoratrici», ha scritto il giornalista su X. «Non basta pubblicare una foto di famiglia al femminile per far dimenticare la storia e la cultura da cui discendi e di cui sei erede ideologica». Una ossessione, quella di Berizzi, per il fascismo. Che, per carità, è esistito e nessuno lo nega, ma è finito da così tanto tempo che tirarlo in ballo oggiè un po’ come lo zio prete di Bersani: non c’entra nulla. È fuori dai radar.

Chissà perché sono sempre gli uomini a volere insegnare alla Meloni come deve fare per difendere le donne. E potremmo anche aggiungere: uomini di sinistra, gli ultimi a dovere parlare quando si tratta di valorizzazione della presenza femminile. Ci siamo dimenticati la questione femminile nel Partito democratico? Bersani non l’ha citata nel suo vigoroso intervento, ma del resto non era lui il segretario dem allora alle prese con le “erinni” del partito che chiedevano più spazio e considerazione perché i “capi-bastone” si erano scelti loro i ministri del governo giallorosso e avevano, ancora una volta, escluso le donne dai posti di comando. L’allora segretario del Pd era Nicola Zingaretti e alla fine lasciò il Nazareno anche per questo: le proteste da parte della componente femminile dei dem, le assemblee, i musi lunghi, il problema delle quote. Zingaretti il 25 febbraio del 2021 dovette ammettere pubblicamente: «Sulle donne abbiamo sbagliato».

Tante parole, tanti buoni propositi, tante battaglie per la parità di genere e poi alla fine neanche una ministra: con la, proprio come piace ai progressisti, più attenti alle desinenze, alla forma, che alla sostanza. E dunque, ecco perché non sono credibili quei maschi che ora si ergono a giudici e provano a processare Giorgia Meloni, leader del primo partito e primo presidente del Consiglio donna. Quei professorini che vanno in tv a puntare il dito contro la foto messa dal (dalla, è lo stesso) premier. I vari Giannini, ma anche Santoro, Di Battista e, guarda caso, sempre gli stessi. Se i democratici oggi hanno una segretaria donna, Elly Schlein, è soltanto perché i famosi “capi-bastone”, si sono dovuti “inventare” una leader che controbilanciasse il centrodestra. La differenza, però, è che Schlein l’hanno scelta loro e sottoposta poi alle primarie. Su Meloni non c’è stato neanche bisogno di discussioni. 

Matone (Lega): “Vergognoso che la sinistra utilizzi l’omicidio di una povera ragazza per attaccare il governo”. Edoardo Sirignano su L'Identità il 22 Novembre 2023

“È vergognoso che la sinistra utilizzi l’omicidio di una povera ragazza per attaccare il governo. Dietro l’azione di Filippo c’è una lucidità impressionante, ma sarà la magistratura a decidere”. A dirlo Simonetta Matone, deputata della Lega ed ex togato.

Che idea si è fatta rispetto a questa tragedia e alla successiva polemica che ne è venuta fuori?

Tutta questa storia è stata stravolta da una strumentalizzazione politica. Ne sono la prova gli attacchi nei confronti della mia persona e di Salvini. Per quanto mi riguarda, ho sostenuto una tesi o meglio ancora un dato oggettivo, riferito al tema dei maltrattamenti in famiglia, che non c’entra nulla con la vicenda di Giulia. Questa ragazza è stata uccisa con altre modalità e con altre caratteristiche di contesto. Non è la vittima di uno che ha subito maltrattamenti, ma di uno che ha deciso di ucciderla per le ragioni che tutti sappiamo, la laurea, il sentirsi scavalcato, abbandonato e via dicendo. Credo, pertanto, che sia in atto un tentativo da parte della sinistra e dell’opposizione di ribaltare il tavolo, postando l’attenzione sul tema della cultura patriarcale.

L’Italia, intanto, ha già deciso che Filippo merita l’ergastolo. Come proverà a salvarsi?

Non ho idea di quale sarà la strategia difensiva. Dietro alle azioni di Filippo, almeno per quanto si sa dal punto di vista giornalistico, c’è una lucidità impressionante. Si è portato il coltello, lo scotch, ha fatto una ricerca su internet rispetto ai luoghi per un’eventuale sopravvivenza, si è portato i sacchi per coprire il cadavere, ha scelto un luogo impervio, optando per una strada che sarebbe stata riaperta solo ad aprile, è fuggito. C’è dietro tutto ciò un grande ragionamento, una riflessione. Sono scelte meditate e ponderate. Quanto accadrà da un punto di vista processuale non lo posso prevedere.

“Madri non normali dietro uomini violenti”. Scoppia una polemica rispetto a una tesi, che secondo parte della stampa, avrebbe sostenuto in tv…

Mi sono trovata in una tempesta mediatica. Ho sostenuto tutt’altro. Nella mia esperienza, i maschi maltrattanti sono vissuti in famiglie estremamente violente. Hanno respirato la violenza da quando erano bambini e hanno avuto delle madri che non si sono ribellate ai padri violenti. Il mio ragionamento, dunque, è: bisogna aiutare queste donne a uscire dal tunnel per denunciare.

La sinistra accusa la destra di impedire che una donna possa badare alla famiglia, ma allo stesso tempo fare carriera. Come risponde?

La violenza carnale diventata sessuale, le aggravanti, la legge sulla pedopornografia, quella contro la prostituzione minorile, il codice rosso, il reddito di libertà, sei milioni di euro stanziati per aiutare le donne vittime di mariti e compagni violenti, sono iniziative che valgono più di mille parole. Come fa la sinistra a sostenere una bugia storica e morale? È vergognoso che si possa usare l’omicidio di Giulia per attaccare il governo.

Polemiche anche sul consulente di Valditara che ritiene che la violenza sia da ambo le parti…

Sul tema ha ampiamente risposto oggi il ministro Valditara nella conferenza stampa di presentazione delle linee guida contro la violenza e la parità di genere.

In un’Italia, dove i ragazzi sono sempre più violenti, sarebbe utile, intanto, rivedere il sistema normativo?

A mio parere bisogna fare un lavoro enorme all’interno delle famiglie e nella scuola, quelle che molti chiamano agenzie formative. Devono lavorare insieme per rimettere apposto tutti quelli che sono i valori, dal rispetto dell’altro, passando per la non prevaricazione, la selezione delle amicizie. La cultura della parità è utile che venga respirata tra le mura domestiche, con professori che non tollerano il bullismo. Tutti devono fare la loro parte.

Qualche dubbio, dopo questa tragedia, è emerso pure sulla sicurezza del Paese. Perché?

La sicurezza con la fuga di Filippo non c’entra nulla. È uno dei soliti tentativi di confondere le acque, di usare una tragedia per attaccare l’esecutivo.

Da magistrato, però, considerando quanto è accaduto, ritiene che qualcosa debba essere cambiato?

Va rafforzato il codice rosso. Ieri mattina ne è stata approvata la modifica in Senato. Non credo, comunque, tanto nelle norme quanto nelle condotte, nei comportamenti e negli esempi.

I modelli non sempre sono i migliori…

I modelli che la società propone devono essere cambiati.

Come? Faccia un esempio…

Vivere in famiglia è dove la violenza non c’è, le donne vengono rispettate e si è obbligati a seguire delle regole di comportamento. Non mi sembra tanto difficile.

Bernardini de Pace: "Patriarcato? Nelle coppie vedo molto più matriarcato". Lucia Esposito Libero Quotidiano il 23 novembre 2023

«Ma quale patriarcato... Il delitto di Giulia non nasce dal patriarcato. E poi, le assicuro che dal mio osservatorio vedo molto, molto più matriarcato». L’osservatorio dell’avvocato (per carità, non chiamatela avvocata e men che meno avvocatessa!) Annamaria Bernardini de Pace è quello del rapporto tra uomo e donna quando arrivano i titoli di coda, quando dell’amore restano solo macerie, il matrimonio diventa un cumulo di recriminazioni e il divorzio è fonte di continue rivendicazioni.

Avvocato, mentre le femministe organizzano una marcia contro il patriarcato, lei spariglia e parla di matriarcato. Ci spieghi.

«Faccio una premessa. Quando ho cominciato a fare questo lavoro, nel 1989, il mio è stato il primo studio tutto al femminile. L’unico uomo era il segretario che rispondeva a noi tutte. Oggi siamo ventisette donne e due uomini. Sono una ex femminista, figlia di un magistrato dal carattere autoritario, ex moglie di un fascista, eppure mi sono liberata».

Fatta la premessa, perché dice che vede più matriarcato che patriarcato nei rapporti uomo-donna?

«Prima della riforma del diritto di famiglia, nel 1975, le donne non avevano parità giuridica, rispondevano al marito. Una volta che giustamente hanno ottenuto la parità, non si sono accontentate perché vogliono essere più potenti».

E cosa fanno?

«Pensi alla gestione dei figli. Le madri credono di essere le uniche ad avere diritti sui figli perché li hanno cresciuti, perché hanno passato più tempo con loro, eccetera. Oggi il 76% di ricorsi di separazioni partono dalle donne, sono loro a voler porre fine a un matrimonio. Le signore tradiscono molto più dei maschi solo che non si fanno scoprire, mentre i mariti hanno la sindrome di Pollicino e lasciano tracce ovunque. Ci sono donne che non si separano solo perché lui è ricco, e molte di quelle che divorziano da un uomo ricco vogliono solo spennarlo. E poi le amanti...».

Non sono più quelle di una volta?

«Esatto. Vogliono passare dalla serie B alla serie A e allora pubblicano le foto su Instagram in cui indossano le scarpe della moglie di lui prese di nascosto dalla casa al mare. Sono loro che decidono per l’uomo. Le vere vittime sono i maschi».

Il suo però è un osservatorio privilegiato. Lei ha clienti facoltosi e dove ci sono soldi è tutto più semplice.

«Ma smettetela con questa storia. Lavoro anche pro bono. Assisto pure donne e uomini che non possono pagare la parcella e le assicuro che le signore sono cattivissime».

Davvero pensa non ci sia patriarcato nella società di oggi?

«Penso che la destra di governo non c’entra nulla col patriarcato. Giorgia Meloni che pure non ho votato è una delle persone che ammiro di più, è coraggiosa, intelligente, coerente e sincera. È cresciuta senza padre, si è liberata del suo uomo alla prima occasione».

Meloni viene criticata anche perché ha deciso di farsi chiamare “il” presidente e non “la” presidente.

«E fa bene. Anche io dico sempre che sono “avvocato” per dare importanza al ruolo che svolgo e non al sesso».

Per quanto riguarda la ribellione delle donne, non tutte possono farlo. Molte sono disoccupate o hanno lasciato il lavoro per via dei figli, degli asili che chiudono presto o costano troppo. E poi ci sono quelle che hanno paura, che sopportano per il bene dei figli.

«Le leggi che tutelano le donne, oggi, per fortuna ci sono...».

Però le donne vengono ammazzate ancora.

«Perché sono educate a subire e non sanno scappare dagli uomini cattivi. Ho sentito una conduttrice televisiva dire “una donna coraggiosa, ha accettato per anni le botte del marito”. Le donne coraggiose se ne allontanano, non se lo tengono».

Nella sua carriera non ha mai subito atti di sessismo?

«Certo, ma sono sempre andata avanti per la mia strada. I miei colleghi pur di non riconoscere la mia bravura mi dicevano “è in gambe” -alludendo al fatto che avessi belle gambe - e non “è in gamba” ma io me ne sono sempre fregata. E ho ottenuto tutto quello che volevo».

Con il suo ex marito fascista?

«Per lui avevo smesso di andare all’università. Voleva che stessi a casa e mi occupassi solo delle mie figlie, ma poi quando l’amore era ormai finito ripresi gli studi».

E lui?

«Lui era stato il mio professore di diritto romano. Telefonava ai suoi colleghi e diceva: “Bocciate mia moglie o rovinate la mia famiglia”. Fortunatamente era molto ironico e mi diceva: “Sei troppo brava, non possono darti neanche 29”».

Tornando a Giulia che idea si è fatta?

«Credo che Filippo sia cresciuto, come molti giovani di oggi, nella bambagia. Non gli è stato mai detto “no” e non è diventato emotivamente adulto. Non gli è stato insegnato che i cambiamenti sono necessari. Considerava Giulia come sua e quando lei gli ha comunicato che non voleva più stare con lui, non ha accettato la decisione, non ha saputo attraversare il dolore della perdita. Giulia, invece di ascoltare la sorella, invece di auto-tutelarsi lasciandolo perdere, ha fatto prevalere la sua generosità».

Giulia stava per laurearsi ma Filippo le aveva chiesto di fermarsi, di aspettare che lui facesse altri esami. Voleva raggiungerla negli studi. Che cosa vede dietro questa richiesta?

«Tanta invidia. Oltre all’incapacità di accettare un “no“, c’è anche l’incapacità di assistere al successo della propria partner».

Sa che per queste affermazioni verrà attaccata da tutti? Diranno che lei sostiene che Giulia se l’è cercata.

«Lo so che le femministe tossiche diranno questo. Ma Giulia non se l’è cercata. La colpa è di Filippo. Dico solo che avrebbe dovuto pensare più a se stessa che a Filippo...».

Chi può aiutare i ragazzi di oggi, secondo lei?

«La famiglia, attraverso la condivisione continua. Con le mie figlie, che hanno cinquant’anni, parliamo ancora di tutto. Il guaio è che oggi tutti hanno un cellulare in mano».

Sabato le femministe scenderanno in piazza contro i maschi.

«Ma perché bisogna prendersela con tutti i maschi? Non è così che si riducono i femminicidi, le donne debbono ribellarsi a situazioni che non sopportano. Oggi (ieri, ndr) Libero titola “Caccia al maschio” ed è vero che adesso tutti gli uomini sono criminalizzati, accusati di essere la causa di ogni male. Mi chiedo poi che cosa c’entri il governo con l’omicidio di questa ragazza. Non capisco perché debba essere buttato tutto in politica. Questo è uno dei motivi per cui non ho amato il film di Paola Cortellesi che pure è un’attrice da Oscar».

Per via della politica?

«Perché una donna deve salvarsi da sola, senza aspettare che la liberi la politica come da sempre pensano le donne di sinistra».

Altro che patriarcato, il problema è la famiglia distrutta e la rabbia insegnata sui social”. Guido Igliori su Culturaidentita.it il

22 Novembre 2023

“Ci deve essere una vasta campagna di educazione globale alla affettività. Oggi abbiamo in genere un padre molto sbiadito. Altro che patriarcato! La figura della madre è molto presente, molto accudente, è quella che cerca di risolvere tutti i problemi. E quando si va fuori la situazione è molto diversa. Inoltre c’è una dilatazione dell’io terribile. L’altro da sé non viene accettato”. Così ha dichiarato l’on. Carlo Ciccioli a intervenendo oggi a Coffee Break su LA7, intervistato da Andrea Pancani.

“Mentre altri delitti hanno lo scopo ad esempio di sopprimere la relazione, – continua Ciccioli, deputato e psichiatra – qui si tratta di una relazione terminata. Si tratta di due ragazzi che non vivono in una condizione di disagio sociale, familiare. Quindi si tratta di una cosa apparentemente illogica. In realtà fa emergere il disagio. Dietro non c’è tanto un problema culturale quanto una emergenza educativa, genitoriale. Certo la scuola, la società i social incidono, ma ciò che è entrato in crisi è il modello genitoriale. Oggi i genitori trasmettono di meno i sentimenti, i loro comportamenti. Cosa sta succedendo? Sarebbe una discussione che dura una settimana. In sintesi, però, la prima cosa che noto è una grande intolleranza alla frustrazione. Oggi tutti non tollerano alcun tipo di frustrazione. Perché i ragazzi non sono stati abituati ai “no” dentro casa. Dire “no” è faticoso. Poi c’è l’aspettò del discontrollo della impulsività. Nei giovani è particolarmente drammatico perché tutto è accelerato. Un tempo c’era uno spazio tra dichiarazione, azione e reazione. Adesso è tutto una scarica, un botta e risposta. Su Fb, su altri canali social, non c’è’ più uno spazio mentale per il pensiero. C’è una sorta di incapacità al differimento. Anche rispetto alle decisioni che necessitano di un tempo. Tutto questo diventa un dramma soprattutto nei giovani”.

“Questo episodio del delitto è così scioccante che ha mosso l’emotività collettiva però oggettivamente qualsiasi misura di sostegno va bene. Però non è lo psicologo – seppur utilissimo – che risolverà il problema. Lo psicologo è un correttivo. La base di partenza è quella dei genitori. Il nucleo familiare esisteva forte fino a qualche decennio fa. Io da giovane andavo a casa a pranzo. Oggi quasi nessuno lo fa. La prima emergenza da affrontare è l’educazione alla emozione.

“La realtà è fatta dalla somma di tutte quelle cose che Salvatore Merlo menziona nel suo articolo di oggi. Un po’ i social un po’ la cultura. Noi viviamo appieno il nostro tempo, con questa tecnologia, con questi costumi, con questa difficoltà di capirlo. Qual è l’elemento scatenante di questi gesti sciagurati? Sicuramente gira tanta, troppa rabbia. Questo tempo ha generato tantissima rabbia. I giornali, la politica, tutti ti educano alla rabbia. Cosa va di più sui social? Il gesto estremo. Ma uscendo dai social può diventare reale. Tutto questo è una miscela esplosiva per ciascuno di noi. I giovani sono più sensibili, più immediati degli adulti e quindi più a rischio” conclude Ciccioli. Guido Igliori

Lucarelli-Sallusti, botte da orbi da Berlinguer: "Bambino", "dici ca***te". Il Tempo il 21 novembre 2023

Scintille tra Selvaggia Lucarelli e Alessandro Sallusti. A "È sempre Cartabianca", la trasmissione condotta da Bianca Berlinguer su Rete 4, si parla della tragica vicenda di Giulia Cecchettin, la 22enne veneta uccisa dall'ex, Filippo Turetta. Una storia che ha colpito in profondità l'opinione pubblica, ma che ha anche scatenato letture politiche e una discussione sul ruolo della società patriarcale nella violenza di genere che sta creando divisioni profonde. 

Il direttore del Giornale è sicuro che la "cultura patriarcale, ammesso che in Italia ce ne sia una prevalente, non c'entra nulla. È un fatto, guardiamo la triste classifica dei femminicidi, l'Italia ne ha sensibilmente meno dei paesi del nord Europa". Infatti la Lettonia in termini percentuali, e la Germania per numeri assoluti, fanno segnare dati molto peggiori di quelli italiani. Anzi, l'Italia in una classifica pubblicata oggi su Qn viene dopo 11 Paesi tra cui Austria, Francia e Olanda. "I femminicidio sono il frutto della mente di chi li compie", anche in Paesi dove l'emancipazione maggiore che da noi. 

Si collega, dopo qualche problema tecnico, Selvaggia Lucarelli che parte subito in quarta: "Questa è una lettura sociologica da bambino di seconda elementare, non degna di lui". "Ha parlato la professoressa", ribatte Sallusti ,"la maestrina con la penna blu". Per Lucarelli l'atteggiamento di sufficienza di Sallusti, a cui - va ricordato - ha dato dell'alunno di seconda elementare, è già una prova: "Questo atteggiamento sbeffeggiante riporta a un tipo di società patriarcale in cui la donna va subito messa a posto con la risatina di sufficienza". "Ma se dice ca***te certo che rido", ribatte Sallusti. Due posizione inconciliabile. 

Tra gli ospiti di Nicola Porro anche Rita Dalla Chiesa. A Stasera Italia, il programma di approfondimento giornalistico di Rete 4, ad accendere il dibattito è stata la storia di Giulia Cecchettin, la 22enne sparita nel nulla insieme all'ex fidanzato e poi ritrovata morta in un canalone. La terribile vicenda di cronaca è stata strumentalizzata dalla sinistra, che ha collegato i femminicidi al patriarcato. Nello studio del programma, però, la conduttrice ha posto l'accento su un fatto che l'ha colpita profondamente. Filippo Turetta, il giovane chiuso in una cella penitenziaria della Germania e presunto assassino della vittima, ha una fanpage, cioè una pagina social in cui gli utenti lo sostengono e tifano per lui.  

"Questa storia ha colpito tutti e fa molto male. Però sto cercando di capire, penso ad alta voce, queste cose ci colpiscono: cosa noi potremmo fare davvero come persone, come politici, come giornalisti, per aiutare e far capire a questa gente, a questi uomini, che ci vuole il rispetto prima di tutto per se stessi. Se rispetti te stesso, queste cose non le fai", ha affermato Rita Dalla Chiesa. Poi, con grande sconcerto, la conduttrice ha portato all'attenzione dei telespettatori il fatto che Filippo Turetta abbia dei seguaci, delle persone che lo supportano. "Se avete visto su Instagram, è nata una pagina: le bimbe di Filippo. Ci sono 120 followers", ha ricordato. "Pazzesco", ha concluso Dalla Chiesa. 

Insulti a Libero, la solidarietà di Salvini: "Presunte femministe, estremisti di sinistra". Libero Quotidiano il 23 novembre 2023

"Solidarietà a Libero, bersagliato da insulti di presunte femministe ed estremisti di sinistra, scese in piazza dopo il brutale assassinio di Giulia Cecchettin". Matteo Salvini, leader della Lega e vicepremier, esprime solidarietà al nostro quotidiano particolarmente preso di mira dai partecipanti del corteo di mercoledì pomeriggio a Milano e non solo. 

Un omaggio a Giulia che si è trasformato ben presto in un processo politico anche a chi, come Libero appunto, ha chiesto di non creare un clima di "caccia al maschio" e di non generalizzare inserendo sotto l'etichetta "patriarcato" anche i comportamenti criminali e più abietti. Una estremizzazione ideologica che non aiuta di certo a migliorare la situazione e che anzi rischia di inquinare ulteriormente la discussione. Come gli stessi eccessi dei manifestanti dimostra.

"La libertà di stampa va difesa sempre, confido che tutto il mondo politico esprima sostegno alla redazione", le parole di Salvini. Dopo aver manifestato davanti al Tribunale di Milano, srotolando lo striscione "Se domani sono io, se domani non torno, sorelle distruggete tutto! Per Giulia e tutte le sorelle uccise", i partecipanti al corteo, per la stragrande maggioranza donne e giovanissime, hanno proseguito fino a Porta Venezia. Passando davanti alla sede di Libero sono piovuti insulti e fischi all'indirizzo della redazione. Una ragazza ha poi spiegato, candidamente, che la protesta è dettata dal fatto che i giornalisti di Libero sono tutti "fascisti, razzisti, sessisti, omofobi" nonché titolisti "di mer***a" artefici di una "narrazione tossica, violenta e patriarcale". 

Libero è "in buona compagnia" se così si può dire, perché le femministe sedicenti "anti-violenza" hanno inserito nel calderone dei "complici attivi" di stupri e violenze contro le donne addirittura "insegnanti e forze dell'ordine". D'altronde, era stata proprio Elena Cecchettin, sorella di Giulia, a parlare per prima di "omicidi di Stato". 

L'unica latitante. Perché la madre di Saman è ancora a piede libero. Nazia Shaheen, la madre di Saman Abbas, è l'unica dei cinque imputati rimasta ancora a piede libero. Il messaggio al figlia, i video e le intercettazioni: cosa sappiamo della donna. Rosa Scognamiglio il 28 Novembre 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 Cosa sappiamo della madre di Saman

 "Noi siamo morti sul posto"

 Dove si trova Nazia Shaheen

Per chiudere il cerchio attorno ai presunti assassini di Saman Abbas, la 18enne di nazionalità pachistana uccisa a Novellara nella notte tra il 30 aprile e il 1°maggio del 2021, manca solo la madre, Nazia Shaheen. Latitante - quasi certamente in Pakistan - della donna si sono perse le tracce da quando, meno di 24 ore dall’omicidio della figlia, le telecamere di sicurezza dell’aeroporto di Malpensa la inquadrarono all’imbarco di un volo diretto a Islamabad assieme al marito. Su di lei, l’unica assente al processo dei cinque imputati, grava la pesantissima accusa di aver consegnato la ragazza nelle mani degli aguzzini.

Cosa sappiamo della madre di Saman

Nazia Shaheen, 52 anni, è forse uno dei personaggi più ambigui di questa drammatica vicenda. Secondo gli inquirenti la donna avrebbe giocato un ruolo fondamentale nella pianificazione del delitto, facendo da "esca" per la figlia. Stando a quanto emerso dagli accertamenti investigativi, nei giorni precedenti all’omicidio, inviò a Saman un sms con l’intento di farla tornare a casa (al tempo la ragazza era ospite in una struttura protetta). "Torna, ti prego. Fatti sentire, stiamo morendo. Faremo come dici tu", il testo del "messaggio trappola". Non solo. La sera del delitto, le telecamere di Novellara inquadrarono Nazia all’esterno dell’abitazione assieme alla figlia, vestita all’occidentale e con uno zainetto sulle spalle, per poi condurla con anche il marito Shabbar di là dai campi dove la giovane avrebbe trovato la morte.

"Noi siamo morti sul posto"

Ad aggravare la posizione di Nazia c’è una conversazione Whatsapp del 30 agosto 2021 in cui la donna, parlando con il figlio, avrebbe confermato l’uccisione della ragazza. "Tu non sai di lei?", dice la 52enne probabilmente riferendosi ai comportamenti di Saman. "Davanti a te, a casa… noi siamo morti sul posto, per questo tuo padre è a letto e anche la madre (si riferisce a se stessa parlando in terza persona ndr). Anche di lei non è che non sai, da costretti è successo quello che è successo, anche tu lo sai, figlio mio, non sei bambino, sei giovane e anche comprendi tutte le cose". E ancora, in un altro passaggio: "Pensa a tutte le cose, i messaggi che ci facevi ascoltare la mattina presto. Pensa a quei messaggi, pensa e poi dì se i tuoi genitori sono sbagliati".

Dove si trova Nazia Shaheen

Nazia Shaheen è latitante da 29 mesi. Su di lei spicca un mandato di cattura, emesso dal Pakistan lo scorso novembre, con anche una red notice dell’Interpol. La donna potrebbe trovarsi nella regione del Punjab, forse nello stesso villaggio in cui si era rifugiata insieme al marito, poi arrestato ed estradato in Italia. Interrogato sulla latitanza della moglie, inizialmente Shabbar Abbas aveva detto di non avere sue notizie ipotizzando che potesse trovarsi in Europa. Circostanza che, invece, è stata esclusa dagli investigatori dal momento che non vi è traccia della fuggitiva nei Paesi dell’area Schengen. Ai suoi legali, gli avvocati Enrico Della Capanna e Simone Servillo, l’uomo avrebbe detto che quando è stato arrestato “la moglie si trovava in casa”. Fatto sta che, al momento, Nazia Shaheen sembra svanita nel nulla.

Quelle vittime che le femministe dimenticano: la grande confusione. Lorenzo Mottola Libero Quotidiano il 23 novembre 2023

Attenti, arrivano le femministe. Lo abbiamo annunciato nei giorni scorsi: sabato le compagne di Non una di Meno hanno preparato una mobilitazione generale. Si terranno manifestazioni in tutta Italia per Giulia Cecchettin, ovviamente addebitando al governo la responsabilità di tutti mali del “patriarcato”. La colpa di Giorgia Meloni sarebbe di aver «prodotto un’opposizione solo formale a questi fenomeni», ovvero «femminicidi e transcidi» e «sferrato attacchi continui contro l’educazione alle differenze». Così si va in piazza per tutte le vittime di violenza: «Donne, persone non binarie e LGBTQIAPK, con disabilità, persone razzializzate, migranti e seconde generazioni, sex workers e detenut*».

Un elenco che lascia aperti vari interrogativi. No, non alludiamo al linguaggio, che a furia di sperimentare nuove varianti “inclusive” è arrivato ai confini della realtà (le «persone razzializzate», la sigla LGBTQIAPK che ormai occupa mezzo articolo perché ogni settimana viene aggiunta una lettera etc.). Il vero problema è: sicuri che le femministe non abbiano dimenticato qualche “compagna”?

QUESTIONE CULTURALE

È curioso vedere tra le categorie offese dal “patriarcato” i migranti. Eppure l’immigrazione è proprio uno dei problemi per quanto riguarda le violenze femminili. Lo dicono i dati riportati nel pezzo di Tommaso Montesano qui sopra: l’incidenza dei casi da telefono rosa tra gli stranieri in Italia è drammaticamente alta, commettono sei volte più reati di questo genere rispetto agli italiani. In parte per una questione di marginalità.

Marginalità spesso creata dall’immigrazione clandestina (leggere: sbarchi a Lampedusa). La cronaca recente lo insegna: spesso gli stupri sono commessi da sbandati che dormono all’aperto nelle nostre città. Oltre a ciò, esiste una questione culturale. Il primo riferimento a casi come quelli di Hina e Saman, ragazze uccise dai parenti perché rifiutavano di sottomettersi ai costumi dei Paesi di origine. Ma ovviamente non bisogna arrivare a tanto: se parliamo di islam, troviamo Paesi dove alle donne non è permesso usare una bicicletta, figuriamoci rispondere al marito.

Eppure nella foga di scagliarsi contro il bianco maschio etero (o meglio, contro il Centrodestra) si mischia un po’ tutto. Anche la guerra in Palestina, accusando l’Italia di sostenere «la repressione e genocidio delle nostre sorelle Palestinesi», continua il comunicato. Perché «lo Stato italiano deve smetterla di essere complice di genocidi in tutto il mondo e schierandosi in aperto supporto dello Stato coloniale di Israele».

Ora, pare che qualcuno abbia dimenticato che parliamo di una porzione di mondo dove le donne non hanno sostanzialmente alcun diritto. Le “sorelle di Gaza”, sono vittime della repressione di Hamas, prima che di quella israeliana. Una delle strategie dei terroristi della Striscia in passato è stata quella di usare donne-bomba. Hanno mandato alla morte perfino una madre di sei figli e una madre di due minori di 10 anni. Altre vittime completamente dimenticate dalla retorica del femminismo di sinistra.

VITTIME DIMENTICATE

Le altre vittime dimenticate vivono dall’altra parte della barricata, ovvero in Israele. Quelle donne che il 7 ottobre scorso hanno dovuto subire gli orrori più atroci perpetrati dagli esaltati di Hamas. Stupri di gruppo, ragazze incinte sottoposte a irripetibili trattamenti disumani. Eppure non si trova notizia di mobilitazioni, manifestazioni, cortei, presidi né per le donne dei kibbutz né per i tanti casi di nera legati all’immigrazione o per le vittime della cultura islamica. Si scende in piazza solo quando serve. Ovvero quando si può strumentalizzare.

Estratto dell’articolo di Tommaso Montesano per “Libero quotidiano” giovedì 23 novembre 2023.

La prima, una studentessa di vent’anni, è stata aggredita nella notte tra lunedì e martedì mentre stava rientrando nella sua casa di Firenze. Nell’androne del palazzo, un uomo di origine nordafricana le ha strappato il telefono di mano e ha iniziato a palpeggiarla prima di fuggire dopo le grida della donna. 

La seconda, una 19enne di Bergamo, si è salvata solo grazie al segno convenzionale di pericolo - il signal for help che consiste nel piegare verso il palmo della mano il pollice tenendo le altre quattro dita in alto, per poi chiuderle a pugno coprendo il pollice. La giovane era in via Torino, a Milano, quando approfittando del momentaneo allontanamento del suo aggressore, un 23enne pure lui di origine nordafricana conosciuto poco prima di piazza Duomo, è riuscita a fare il segnale fortunatamente raccolto da una dipendente del McDonald’s. 

[...]

Questi sono solo gli ultimi due casi di abusi commessi da stranieri. Ieri su questo giornale abbiamo dato conto di altre due aggressioni: a Torino una studentessa di 16 anni si è presentata al commissariato Vanchiglia per denunciare un ragazzo di origine tunisina accusato di averla aggredita davanti al portone di casa. Per tre volte, nel passato, la giovane donna aveva risposto «no» alle sue avances, per tutta risposta lui l’ha perseguitata fino al tentativo di strangolarla davanti al portone di casa.

Ma l’episodio più grave si è verificato ad Erba, in provincia di Como, dove nonostante tre denunce, un arresto e un provvedimento di divieto di avvicinamento il 25enne Said Cherrah, di origine marocchina, è riuscito ad attaccare la sua ex fidanzata gettandole addosso dell’acido cloridrico. 

[...] 

Il numero delle violenze sessuali commesse in Italia dagli immigrati è in crescita. Nel 2021, dati Istat, le aggressioni sono state 5.072, di cui 1.699 con autori di origine straniera (il 33%). Lo scorso anno le denunce e gli arresti sono stati, invece, 5.231. E la percentuale dei delitti attribuiti agli stranieri è cresciuta, arrivando al 38% (1.988 casi, di cui 920 da parte di immigrati regolari).

Vale la pena ricordare che nel 2022 gli immigrati regolari presenti in Italia erano il 4% della popolazione residente. Dunque, dati alla mano, la loro propensione al reato è di gran lunga maggiore (sei volte tanto) rispetto a quella degli italiani.

Giulia Cecchettin, Vannacci sui femminicidi: “Il patriarcato non esiste. Sono uomini deboli a uccidere”. Il Tempo il 23 novembre 2023

A pochi giorni dall’omicidio di Giulia Cecchettin, il generale Roberto Vannacci ha commentato le polemiche sul patriarcato. Queste le sue parole raccolte da Tagadà e diffuse nel corso della puntata del 23 novembre del talk show di La7 condotto da Tiziana Panella: "C’è stato questo omicidio efferatissimo pochi giorni fa. Non riesco a capirlo però, perché il patriarcato fondamentalmente in Italia non esiste più. Non conosco nessuna famiglia che possa essere assimilata ad una famiglia patriarcale, né tra le mie conoscenze, né tra i miei amici, né tra la mia famiglia. Dov'è il ‘padre padrone’ in Italia? Ditemi un posto in Italia dove esiste ancora la cultura del padre padrone”. 

“Se per patriarcato – prosegue sui femminicidi il generale Vannacci a margine della presentazione del suo libro - si intende quella cultura dell’uomo che deve essere forte, che deve avere le spalle larghe, deve essere il sostegno della famiglia, ma questa non è una cosa negativa prescindere. Quello che è negativo è l’uomo debole, è quello che provoca il femminicidio, non è l’uomo forte ad uccidere la donna, è l’uomo debole, è l’uomo che non sa più vivere senza di lei. Quando questa dipendenza viene a mancare, con la donna che se ne vuole andare o lo lascia oppure l’amore finisce, lui non ha altra soluzione, perché non è più in grado di vivere da solo, che uccidere la donna”.

Claudio Risé per “la Verità” - Estratti giovedì 23 novembre 2023.  

(...)

Nasce così l’ultima versione dell’antico gioco di società detto lotta al «patriarcato», termine tra i più abusati e fantasiosi della storia, che l’acutissimo antropologo e filosofo Furio Jesi liquidò come inesistente in alcune brucianti schede enciclopediche già da decenni. 

E questo è uno dei rischi gravi della recente campagna per l’ultima donna uccisa tra paginate di dichiarazioni mitomaniache, riprese televisive e scene isteriche: che il patriarcato inesistente diventi il Covid prossimo venturo, e che per debellarlo si inventino formazioni psicologiche, si perdano ore di scuola preziose, eventualmente si impongano tessere, mentre gli aspetti patologici della realtà sono sotto gli occhi di tutti.

Tutto ciò per nascondere dietro concetti fumosi ma di pronta beva l’enorme bisogno di verità su quali siano oggi le vere condizioni dei rapporti tra uomo e donna: l’humus in cui è maturato il malessere psichico di Filippo. Questo è il vero problema: il grave malessere psichico in cui in realtà si trovano oggi sia gli uomini che le donne, la scadente qualità delle loro relazioni, e l’enorme danno che ciò crea alle nuove generazioni, che hanno invece bisogno di madri e padri forti, che si amino e che riprendano in mano le proprie esistenze e quelle dei loro figli. Oggi invece abbandonate agli influencer e agli ingranaggi delle diverse mode e sistemi economico/politici (come anche notato da Jürgen Habermas nel suo ultimo libro, che ho qui recensito). 

La stupefacente campagna di stupidaggini seguita alla morte di Giulia è lo specchio della gravità della malattia del nostro sistema di comunicazione (ma forse è anche peggio).

Anche i massimi responsabili dell’amministrazione e della comunicazione scambiano infatti la debolezza per forza: come si fa a vedere il patriarcato (che comunque sarebbe una manifestazione di forza) in un poveretto che fa un delitto confuso e pieno di errori, e finisce in un’autostrada senza benzina? Lui è un povero assassino, ma le autorità e i comunicatori che lo scambiano per un esempio di «patriarcato» non sanno di cosa parlano: se i maschi di potere fossero stati così non avrebbero conquistato nemmeno un praticello. 

Ed è socialmente grave - comunque - il livello di ignoranza. Si parla di questioni affettive con un linguaggio da fotoromanzi di decenni fa, però incattiviti. Ma la «questione maschile» (come ho scritto nei miei libri) è esplosa anche nella sociologia, antropologia, psicologia, da decenni, è roba seria, e vera. 

Poco dopo la guerra (soprattutto negli Stati Uniti), con il ritorno dei reduci e i loro problemi dopo la lunga assenza da casa con le rivoluzioni economiche e tecniche nel frattempo in atto, gli uomini trovarono un altro mondo, e spesso un’altra famiglia. Una grande femminista, Susan Faludi, raccontò tutto in un grande libro (Bastonati! Sul lavoro, in famiglia, dalla società, Lyra Libri, e vinse il premio Pulitzer).

È per lo meno da allora che la forza maschile, in Occidente, non è più nel fucile o nei muscoli, (se non per sport), ma deve necessariamente esprimersi anche nei sentimenti, nelle relazioni, che con leggi come il divorzio e l’aborto sono molto cambiate, e non sempre in meglio. 

Parlare ancora di patriarcato come se fosse qualcosa di attuale, e soprattutto dotata di pericoli, è ridicolo e riporta tutto indietro almeno di 75 anni. 

È da allora, per dire, che nelle materie (tra le quali i «gender studies», gli studi di genere, molto precedenti all’ideologia Lgbt) che seguono queste questioni, il maschio violento è noto e studiato in quanto «soft male», maschio dolce, tutt’altro che - di solito - violento. Siccome però per natura (che, anch’essa, continua a esistere, anche se ammaccata), il maschio sempre dolce non è, la recita della dolcezza, imposta da convenzioni e «sistemi» dolciastri non serve a niente, anzi peggiora la situazione. Serve solo la verità.

Verità e amore, che è quello che conta, e che solo riesce a far stare insieme due individui così diversi come un uomo e la donna (che come sostiene ironicamente il pediatra e psicoanalista francese Aldo Noury appartengono in realtà a due specie diverse). Il resto sono vaneggiamenti burocratici, per cercare di stare a galla in mezzo a fenomeni che, per pigrizia e debolezza, non ci si è mai impegnati a studiare. Comportarsi così è molto pericoloso. Come molti giovani incominciano per fortuna a intuire, solo l’amore (come è sempre accaduto nei momenti di massimo pericolo e smarrimento) può salvare il mondo. Amore e informazione - vera - sulla realtà.

Giulia Cecchettin, Giuseppe Cruciani: "Le scuse? Solo sul carcere a vita". Hoara Borselli su Libero Quotidiano il 24 novembre 2023

«Perché mi stai cercando? Ho già detto tutto alla radio. Devo farmi insultare ancora una volta dai cosiddetti progressisti che pensano che abbia attaccato la sorella di Giulia Cecchettin?».  Chi parla è Giuseppe Cruciani, per molti definito una voce scomoda perché non ha mai paura di dire ciò che pensa anche quando il suo pensiero non segue il diktat del pensiero unico. Detesta il politicamente corretto e non ha paura a urlare contro chi, questo dogma dominante, lo sventola come verità assoluta. Il suo programma radiofonico, “La Zanzara”, che conduce insieme all’amico David Parenzo è un appuntamento fisso, ogni sera, per milioni di radioascoltatori. Ai tanti vip che si fanno testimonial di messaggi social quali «mi vergogno di essere uomo», Cruciani ha risposto: «Io non mi sento colpevole».

Giuseppe, nell’immaginario collettivo, all’indomani del terribile assassinio di Giulia, al patibolo c’è finito il “maschio”, dipinto come il mostro da cui tenersi lontani. Cosa sta succedendo?

«Sta succedendo che dopo il ritrovamento del cadavere della povera Giulia Cecchettin e le parole della sorella Elena, incredibilmente, è iniziato il processo al maschio omicida, al maschio stupratore, al maschio violento che racchiuderebbe tutti i mali della società».

Tu a questa narrazione non ci stai...

«Non ci sto perché è una gigantesca bufala ed è anche un’offesa alla vittima perché in questo modo si sposta l’attenzione dall’unico vero colpevole che è Filippo Turetta verso un genere che è quello maschile, reo di non essere stato rieducato».

La responsabilità individuale che diventa responsabilità sociale?

«Esatto. Non si dice che la colpa è dell’assassino ma della società che non è stata in grado di educarlo. Una sorta di depotenziamento della responsabilità del singolo, figlio della cultura patriarcale. Ma quale cultura patriarcale? Finiamola di dire cazzate».

Dire che quell’atroce delitto sia figlio della cultura patriarcale la vedi come una sorta di attenuante che si concede a Turetta?

«Sì. E può portare anche, come è già capitato in qualche tribunale italiano, a dire che se è la cultura a generare mostri, è giusto concedere attenuanti all’imputato».

Ti riferisci alla sentenza di Brescia dove il Pm ha chiesto l’assoluzione per il bengalese che ha picchiato la moglie, archiviato come “fatto culturale”?

«In alcuni tribunali, e questo che hai citato ne è l’esempio, la discriminante culturale è stata fatta valere. Io credo che in questo caso non verrà utilizzata, ma nell’opinione pubblica, questo ripeterselo significa spostare l’attenzione da quello che è l’unico vero colpevole, ovvero un ragazzo, un uomo, che da soggetto singolo diventa la pluralità degli uomini o alla società che non fa abbastanza».

Non ti riconosci nella società che viene raccontata?

«La realtà dimostra esattamente il contrario per fortuna. Dimostra che l’omicidio, la violenza nei confronti di una donna in Italia, sono fenomeni largamente minoritari. Ovviamente anche un solo omicidio è grave ma non possiamo pretendere di vivere in una società dove non ci siano omicidi. Non esiste l’eden, non esiste la società perfetta in cui qualcuno non ammazzi o eserciti sopraffazione nei confronti di un’altra persona».

Fenomeni che non hanno a che fare con il genere mi vuoi dire.

«Non è la nostra quella società dove questo può essere considerato un fenomeno culturale. Questo esiste ma in quei paesi islamici, africani, dove l’uomo esercita nei confronti della donna una superiorità evidente e i cui gesti e le violenze vengono giustificati dalla religione. Ma non è il caso di paesi occidentali come il nostro».

In radio hai citato Francesca Renga definendo una follia la frase che ha postato sui social: “Giulia ti chiedo scusa”.

«Follia per un senso di colpa che trovo ingiustificato. Perché dobbiamo sentirci vittime, come società, di essere indietro. Noi non siamo indietro.

Siamo avanti, molto avanti. La donna è iper protetta. L’essere umano lo è dalle leggi, dalla comunicazione. Io avrei trasformato quella frase in altro modo».

Come?

«Avrei scritto “Giulia ti chiedo scusa se questo signore uscirà dal carcere dopo 20 anni”. Questo è il punto. Noi dobbiamo scusarci se come società non siamo in grado di punire abbastanza e assicurare agli assassini un carcere a vita a mio parere. Senza permessi premi o uscite perché grassi e fumatori dopo aver ammazzato con trentacinque coltellate una ragazza. Di questo dobbiamo chiedere scusa».

Qualcuno ti ha attaccato perché hai commentato le parole di Elena Cecchettin che ha definito l’assassinio della sorella “violenza di Stato”.

«I parenti delle vittime vivono una sorta di intoccabilità che posso pure comprendere, infatti non discuto la sua esposizione mediatica. Ognuno reagisce ai drammi come vuole, rinchiudendosi nel silenzio o parlando. Se una persona si espone, va in televisione e dice certe cose non possiamo stare zitti perché c’è un diritto da parte di chi fa comunicazione a commentare ciò che uno dice».

Tu cosa pensi di quelle sue parole?

«Le ho trovate parole assurde. Nel rispetto della tragedia le reputo parole senza senso. Che derivano da un mondo immaginario che non esiste. Non ho insultato lei. La sua polemica con Salvini per un post l’ho trovata una cosa senza alcun senso logico. Alla sua frase che tutti gli uomini devono sentirsi colpevoli per la tragedia della sorella, ho risposto così: “Io non mi sento colpevole”».

Possiamo dire che si è tornati a parlare di “maschi” e “femmine”.

«Fino a qualche giorno fa era quasi un’offesa sottolineare il genere. Gli stessi che fino a ieri ci dicevano di non fare il distinguo maschio-femmina, sono quelli che oggi sottolineano questa differenza. Il maschio cattivo e la donna vittima».

Una contraddizione che puzza di ipocrisia?

«Non solo questa. Gli stessi che protestano per il maschio cattivo sono gli stessi che poi non protestano contro le vere sopraffazioni della donna che avvengono nelle società islamiche, nelle società dominate da Hamas, nelle società dominate dai Mullah iraniani, nelle società africane dove il ruolo della donna è totalmente marginale se non addirittura al servigio dell’uomo».

Educazione sentimentale nelle scuole sì o no?

«Altra baggianata colossale trasversale che riguarda destra e sinistra. Quando non si ha nulla da dire bisogna proporre qualche formula, qualche cosa di nuovo. Come evitare che un altro Filippo Turetta ammazzi un’altra Giulia Cecchettin? Ecco che arriva l’educazione sentimentale che non serve a nulla, è una cretinata».

Perché una cretinata?

«In Paesi del Nord Europa dove nelle scuole esiste l’educazione sentimentale si registrano tassi di violenza altissimi. Con questo non voglio dire che non conti assolutamente nulla ma ritengo che i corsi a scuola per sconfiggere la violenza sono totalmente inutili».

Tu cosa proporresti?

«Io da sempre punto su un’altra cosa; quando si tratta di relazioni fra coppie, affrontare la questione del possesso e della gelosia. Su questo ognuno di noi in piccolo qualcosa può fare anche se non penso risolva. Ogni caso è diverso, ma possesso e gelosia sono alla base di molti gesti inconsulti. Pensare che il corpo della propria donna, o uomo, sia anche nostro. Tutto questo in menti disturbate e anche non disturbate può portare alla violenza se perdiamo il compagno. Dicono che è colpa del patriarcato per non dire che è colpa della monogamia ossessiva».

Si è arrivati pure a criminalizzare il governo per questa deriva culturale.

«Abbiamo sentito di tutto, in un crescendo rossiniano di baggianate, supercazzole e banalità assortite: colpa dello Stato, colpa del patriarcato, colpa della cultura dello stupro, poi anche colpa delle canzoni trap, non è mancata la colpa della pornografia, e pure del catcalling, ovviamente della destra retrograda e cattiva, poi delle leggi che non ci sono, per finire col dare qualche responsabilità pure alla Meloni, che secondo qualche genio del giornalismo sarebbe il capitano del patriarcato oppressivo in Italia. Sfregiano il corpo di una ragazza e manco se ne rendono conto. Andassero a nascondersi».

Maschile sovresteso. Lucetta Scaraffia sbaglia, mezzo secolo fa eravamo meno beghini di adesso. Guia Soncini su L'Inkiesta il 23 Novembre 2023

La giornalista ha detto che cinquant’anni fa Giulia Cecchettin avrebbe rinunciato alla laurea e optato per il matrimonio, ma in realtà il 1973 era un’epoca di grande emancipazione rispetto al bacchettonismo attuale

«La mia idea di come dovrebbe essere una coppia? Io non ho un’idea di come dovrebbe essere una coppia, a me non frega un cazzo della coppia». Sandra Voyter forse ha ammazzato il marito, forse è diventata una scrittrice di successo saccheggiando le sue idee, forse è una madre anaffettiva, una bisessuale fedifraga, una schifezza di donna.

Tuttavia, quando nella seconda metà di “Anatomia di una caduta” il film smette per qualche minuto d’essere una rievocazione di scene che non vediamo, e diventa l’ultimo litigio tra i due coniugi prima della morte di lui, in quei minuti che sembrano usciti da una pièce di Yasmina Reza, è solo allora che Sandra Voyter si condanna alla disapprovazione di massa dicendo l’indicibile: non le importa nulla del totem cui è devoto il nostro secolo.

Ho un amico che è la persona più normale che conosca: è medio come padre, medio come professionista, medio come divorziato. Qualche tempo fa, la signora con cui si vedeva ha iniziato a rinfacciargli cose che non poteva sapere.

Me l’ha raccontato tardivamente, altrimenti gli avrei detto che probabilmente nella sua relazione stava succedendo una cosa media, che accade più o meno in tutte le relazioni di questi anni: quando dormi, o sei nella doccia, la persona con cui ti accoppi ti prende il telefono e guarda i messaggi, e nei messaggi c’è tutta la tua vita, ci sono tutti i tuoi segreti (che evidentemente tanto segreti non sono).

Me l’ha raccontato quando era già entrato in un abisso di paranoia, era già andato a parlare con esperti di sicurezza informatica, si era già convinto che nel suo telefono lei avesse inserito un virus che doppiava i messaggi mandandoli in copia a lei, e rendendo la vita di lui priva di segreti. Aveva cambiato la sim e il telefono, giacché gli esperti – ai quali storie analoghe vengono raccontate ogni minuto – gli avevano detto che non c’era modo d’esser sicuri che il telefono fosse bonificato una volta infettato.

Non vi sto raccontando questa storia per dirvi «ah, se l’avesse fatto un uomo a una donna, di spiarle il telefono con mezzi illegali, apriti cielo». Ve la sto raccontando per dirvi che, mentre il mio amico mi diceva ti rendi conto, sono stravolto, che angoscia, io pensavo (e a un certo punto gli ho anche detto): sì, ma pensiamo a lei.

Pensiamo alla vita d’inferno di questa tizia che passa le sue giornate a leggere messaggi altrui, a investire tempo ed energie nell’illusorio tentativo di sapere cosa succede in sua assenza, a frustrarsi con le vite degli altri. Pensiamo a come la mistica della coppia le ha rovinato il cervello, a quest’adulta.

Che sia adulta è per me la discriminante: a trent’anni lo facevo anch’io, quindi mi pare normale. Era meno impegnativo, giacché quando avevo trent’anni tutto quel che potevi fare per illuderti di avere il completo controllo di eventuali tradimenti era scoprire il codice segreto della segreteria a cassette di casa di qualcuno, e chiamare e ascoltare cosa gli avevano lasciato detto nel telefono di casa. Il controllo completo, ai tempi miei, era assai incompleto.

Uno dei primissimi articoli che scrissi, a ventott’anni, era su un saggio americano intitolato “Here comes the bride – Women, weddings, and the marriage mystique”. Non so cos’avessi scritto – erano anni in cui i giornali non mettevano i pezzi sull’internet, ed era una quindicina di miei computer fa – ma sono certa che fosse impreciso, giacché scritto prima che il fenomeno ci riguardasse.

La mistica del matrimonio, più di vent’anni fa, era un’americanata. Solo nei film americani vedevamo il pathos dell’attesa dell’anello, la proposta intorno alla quale venivano costruite intere stagioni della vita di lei, il concetto di bridezilla, cioè della sposa che impazzisce e per un anno pensa solo ai canapé e alle bomboniere.

Poi c’è stata l’americanizzazione del mondo, e assieme a essa il contraccolpo rispetto all’emancipazione. Quando Susan Faludi pubblicò “Backlash: The undeclared war against American women” (in Italia tradotto come “Contrattacco”) era il 1991, e nessuno – nemmeno lei – aveva idea della direzione in cui stavamo andando. Quella in cui non c’era bisogno di nessuna guerra, giacché le donne erano determinate a rimandarsi in cucina da sole.

Sui social in questi giorni gira molto un minuto di Lucetta Scaraffia che, ospite di Stasera Italia, dice che cinquant’anni fa Giulia Cecchettin quel ragazzo l’avrebbe sposato, e in quel modo lui non sarebbe diventato il suo assassino. I social, specialisti nel mancare il punto, sono indignati all’idea che per non farti ammazzare tu debba assoggettarti a un matrimonio, e nessuno nota il dettaglio dirimente.

Cinquant’anni fa era il 1973. C’era il post-68, c’era il femminismo, c’era il divorzio, ancora non c’era l’aborto legalizzato ma c’erano le donne che proprio non ci pensavano a non laurearsi per fare le mogli. Persino mia madre, che pure era la meno emancipata del mondo, si rifiutava di cucinare perché le sembrava una cosa da donna poco moderna. Persino mia nonna, che era una vedova molisana che non si toglieva il lutto dal 1950, non una californiana col dottorato di ricerca, aveva mandato all’università la femmina proprio come il maschio.

Nella confusione generalizzata che affligge i ragionamenti di questo nostro tempo, diciamo «cinquant’anni fa» e pensiamo di parlare del film della Cortellesi e della figlia femmina cui il padre si rifiuta di pagare la frequentazione delle scuole medie. Ma, nel secolo breve e in realtà lunghissimo, le cose cambiavano molto in fretta, e tra ottant’anni fa e cinquant’anni fa ci sono secoli di differenza.

Cinquant’anni fa è quando nasceva la mia generazione, quella che i diritti se li era trovati pronti e quindi poteva avviare il tempo dei capricci. Guardo le immagini dei liceali nei corridoi perché hanno ammazzato Giulia Cecchettin, e vedo in loro il comprensibile sollievo di perdere due ore di lezione, come quando a noi diciassettenni facevano guardare un film storico invece d’interrogare, o scioperavamo con un qualsivoglia pretesto; negli adulti di oggi, determinati a interpretarla come una manifestazione di sensibilità, vedo il disastro della mia stupidissima generazione.

I giornalisti italiani, che non si capisce cosa tengano a fare i social nel telefono se poi dei fenomeni social si accorgono sempre in ritardo, in questi giorni scoprono i video in cui alle giovani coppie viene chiesto «Lasceresti andare la tua ragazza a ballare da sola?», e i maschi rispondono no e le femmine tacciono.

Poiché il framing del momento è «uomini bruti e donne sottomesse», quei video vengono letti in quell’ottica, e non in quella che conosce chiunque ogni tanto si affacci sul paese reale: le donne vogliono che lui sia possessivo (e spesso lo sono anche loro), vogliono che controlli loro il telefono (e spesso lo fanno anche loro), vogliono che il mondo sappia che loro non sono la zitella al pranzo di Natale, non sono la rimastona che nessuno si è preso, loro sono una coppia, loro hanno dignità di obiettivo raggiunto, le donne e gli uomini hanno come priorità il far sapere al mondo che non hanno il difetto d’essere scompagnati.

E non è, come fa comodo inquadrarla in questo momento, una questione di gioventù. Non è esclusiva dei ventenni geolocalizzare il telefono della persona con cui si sta, spiarne i messaggi, ostentare il senso del possesso che fu prealessandrino.

La massa degli uomini conduce vite di silenziosa disperazione, scriveva Thoreau quando, duecento anni fa, si poteva ancora usare il maschile sovresteso. Il mio osservatorio sulla silenziosa disperazione sono i gruppi Facebook al femminile, in uno dei quali qualche anno fa una signora adulta depositò il proprio nervosismo verso la mezzanotte.

Il marito era uscito per una birra con gli amici, non lo faceva mai, e ora non era ancora tornato, e lei cosa doveva fare. Le arrivavano varie rassicurazioni, e il giorno dopo ella aggiornava le convenute. Il marito era tornato verso le due, ma era molto allegro e sereno, e lei aveva capito che forse uscire non in coppia poteva essere una bella cosa, e ora, nientemeno, stava pensando di farlo anche lei.

Ma, convenivano tutte, non in discoteca, perché va bene tutto ma ballare con qualcuno che non è il legittimo coniuge è invero inaccettabile. Sono passati sessantadue anni da «con te, che sei la mia passione, io ballo il ballo del mattone», e abbiamo inserito la retromarcia.

Non è mai bello prendere il commento più stupido e usarlo per dimostrare qualcosa, ma lo farò comunque. L’altro giorno ho scritto che l’educazione sentimentale è una scemenza che serve a non dire che l’istinto della sopraffazione del più forte sulla più debole non è curabile. Ho ricevuto pochi commenti scemi, uno dei quali mi ha fatto tornare in mente la più illuminante interazione che abbia avuto su Twitter.

La ragazza che mi scriveva l’altro giorno, a occhio una ventenne di sinistra, diceva che avevo scritto così perché ero una «pick-me girl», espressione che sta per «una che farebbe di tutto per compiacere gli uomini» e che lei usa senza sapere da dove viene (da una puntata di “Grey’s Anatomy” in cui Meredith pregava Derek di scegliere lei e non la sua allora moglie).

Mentre archiviavo il commento della ragazza nel faldone «una generazione che non concepisce che a qualcuna possa non fregar niente di far colpo sugli uomini», mi sono ricordata del tizio di qualche mese fa, a occhio un adulto di destra eppure perfetto alleato della ragazza.

Avevo scritto che l’assurdità non è la gestazione per altri ma che qualcuna si sobbarchi una gravidanza gratis. Questo tizio mi aveva scritto che cercavo di spacciare per scelta il mio non aver avuto figli, lacuna che invece dipendeva evidentemente dal mio essere troppo cessa perché qualcuno si sacrificasse a ingravidarmi.

È un argomento che mi diverte sempre molto, questa convinzione che l’accoppiamento sia un privilegio esclusivo dei belli: un po’ perché mi chiedo come chi lo porta avanti pensi che siamo diventati otto miliardi sul pianeta; un po’ perché chiunque abbia avuto anche solo un paio di relazioni sa che non si sta con qualcuno per come quel qualcuno è, ma per come fa sentire noi, e in quest’ottica l’aspetto che questo qualcuno ha è un elemento invero minore.

A quel punto però lo scambio ha preso una piega inaspettata (grande festa: se frequentate i social, sapete che essere sorprendenti non è esattamente il loro specifico). Il tizio mi ha spiegato che non esistono donne che non abbiano avuto figli per scelta. Se non hai figli o sei sterile e ci hai provato invano, o sei una con cui nessuno ha voluto figliare (rivoglio subito tutti i soldi buttati in quasi quarant’anni d’anticoncezionali).

Il tizio è un’eccezione beghina? Secondo me no. Secondo me il tizio è la deriva probabilmente cattolica della tizia che si percepisce di sinistra e non riesce a concepire che qualcuna pensi perché è pagata per pensare, e non per ottenere qualsivoglia reazione dal mondo maschile.

È una società che sa pensarsi solo in coppia in ogni suo strato anagrafico e politico, e con questa premessa non mi meraviglia poi tanto se qualche volta ci scappa il morto al cinema, e la morta nella realtà.

E quindi tutto questo lunghissimo sbrodolamento serve a dire a Lucetta Scaraffia, a Twitter, a Nicola Porro, a chi va a vedere il film della Cortellesi e pensa sia sensato ragionare delle donne oggi come se il problema fosse l’accesso al suffragio, a chi “Anatomia di una caduta” non lo vedrà e quindi non potrà trattenere il respiro di fronte a quel manifesto d’indifferenza alla coppia, che no, nel 1973 la Cecchettin non avrebbe sposato il suo assassino, perché nel 1973 accadeva che una donna pensasse che a lei della coppia non fregava un cazzo; e, se oltre a pensarlo lo diceva, la platea non sussultava come di fronte a una bestemmia. Erano emancipati, cinquant’anni fa. Mica come ora.

Turetta frutto del patriarcato? Chirico stronca le polemiche: "Basta guerra tra i sessi". Il Tempo il 21 novembre 2023

A Stasera Italia, il programma di politica e di attualità condotto da Nicola Porro, la storia di Giulia Cecchettin e Filippo Turetta ha dato il via a una discussione ampia che, in particolar modo, si è concentrata sul tema che oggi è rimbalzato sulla stampa e sui media, quello del femminicidio e del presunto legame con il patriarcato. Ospite in studio, Annalisa Chirico ha in primo luogo ricordato che molti uomini sono stati protagonisti insieme alle donne nella conquista della parità dei generi e ha, quindi, stroncato le polemiche della sinistra. La giornalista è stata netta: "Non credo che serva riaccendere la guerra tra i sessi". 

"L'Italia non è un Paese di uomini assassini. Stiamo attenti!": questo il memento di Annalisa Chirico, che ha indicato come scorretta la scelta di colpevolizzare la società e tutti gli uomini che, stando a quanto sostenuto dalla sinistra, "devono dare un segnale di rivolta". Quindi la giornalista ha spostato il focus su Giulia Cecchettin, la ragazza veneta scomparsa nel nulla insieme all'ex fidanzato Filippo Turetta e poi ritrovata senza vita in un canalone. "Ha ragione la sorella di Giulia Cecchettin quando dice che Filippo non era un bravo ragazzo. Noi non possiamo pensare che ci sia una giustificazione. La responsabilità penale è personale", ha continuato.  

Intanto Filippo Turetta, il 22enne arrestato con l’accusa di aver ucciso la sua ex fidanzata, si trova attualmente in custodia nella struttura penitenziaria di Halle, in Germania. "Io mi auguro che ci sia una pena certa e che il presunto assassino abbia un processo nel pieno delle garanzie. Io non vorrei apprendere che tra 16 anni l'assassino è in una condizione di libertà. L'Italia ha fatto enormi passi avanti, il male esiste, esistono gli assassini e le famiglie hanno un ruolo importante", ha spiegato Chirico. 

Un importante passo in avanti nella guerra in Medio Oriente. Il governo israeliano ha approvato l'accordo che garantirà il rilascio di circa 50 ostaggi rapiti a Gaza durante l'attacco terroristico del 7 ottobre. "Il governo israeliano è impegnato a riportare a casa tutti i rapiti. Stasera il governo ha approvato il progetto della prima fase del raggiungimento di questo obiettivo, secondo il quale almeno 50 persone rapite, donne e bambini, saranno rilasciati nell’arco di quattro giorni, durante i quali ci sarà una pausa nei combattimenti", ha scritto in una nota l'ufficio del premier israeliano, Benjamin Netanyahu. 

Il Qatar ha poi confermato l'accordo per un cessate il fuoco temporaneo tra Israele e Hamas in cambio del rilascio degli ostaggi detenuti dall'organizzazione palestinese, specificando che l'inizio della tregua verrà annunciato nelle prossime 24 ore. La pausa nei combattimenti durerà 4 giorni: ”L'inizio della pausa sarà annunciato entro le prossime 24 ore e durerà quattro giorni, salvo proroga - si legge nella nota -. L’accordo prevede il rilascio di 50 donne e bambini civili in ostaggio attualmente detenuti nella Striscia di Gaza in cambio del rilascio di un certo numero di donne e bambini palestinesi detenuti nelle carceri israeliane. Il numero delle persone rilasciate aumenterà nelle fasi successive dell'attuazione dell'accordo". 

In un comunicato Hamas ha affermato di aver accolto con favore la "tregua umanitaria" approvata da Israele: ”Le disposizioni di questo accordo sono state formulate secondo la visione della resistenza e dei suoi fattori determinanti che mirano a servire il nostro popolo e ad aumentare la sua fermezza di fronte all’aggressione”. Un alto funzionario americano, dopo il raggiungimento dell’intesa, ha fatto sapere che l’accordo tra Hamas e Israele è stato "strutturato per favorire" il rilascio di altri ostaggi oltre ai 50 che saranno liberati in una prima fase.

Un esame lampo per consentire l'ok definitivo al testo. Regge l'accordo tra maggioranza e opposizione in commissione Giustizia al Senato per approvare il disegno di legge del governo che rafforza il 'Codice Rosso'. I gruppi hanno ritirato gli emendamenti al testo, su cui c'è un consenso trasversale, e che dovrebbe approdare in Aula già domani. Il caso di Giulia Ceccchettin ha portato all'attenzione anche il tema della prevenzione e dell'educazione, in cui emergono i distinguo. Il ministro per l'Istruzione Giuseppe Valditara ha annunciato un piano per l'educazione alle relazioni per le scuole superiori dopo le ore di lezione. Per le opposizioni non basta. Ed è polemica sul consulente Alessandro Amadori, cui sono affidate le linee guida, per le sue posizioni sulla aggressività femminile in un recente libro. Le opposizioni ne chiedono le dimissioni e hanno invocato una informativa di Valditara in Parlamento.

"Chiunque si accosti a questo argomento non può portare con sé le ombre di teorie bislacche e pericolose", contesta il Movimento Cinquestelle. Il riferimento è al libro scritto 'La guerra dei sessi. Piccolo saggio sulla cattiveria di genere'. "Sorprende - protesta il Pd - come su un tema così urgente e drammatico sia stata scelta una personalità che più volte in diversi interventi ha avvalorato tesi delle responsabilità delle donne come causa delle violenze". Ma Amadori si trincera: "Sorrido perché non mi aspettavo tutto questo clamore. E' un libro del 2020 e se uno lo legge arriva a conclusioni esattamente opposte rispetto alle frasi che sono state estrapolate". Nessuna intenzione di dimettersi? "Non ho nessun motivo personale per dimettermi - risponde a LaPresse -. Io sono consigliere per la comunicazione del ministro Valditara, per cosa dovrei dimettermi? Per aver scritto un libro di architetture maschili arcaiche o per aver affermato la banalità che esiste anche l'aggressività femminile? Dopodiché - aggiunge - io sono un soldato, se colui che mi dà i compiti mi ritiene utile bene, se non sono utile torno a fare altro". Per il ministro però il caso non esiste: "Non c'è nessuna consulenza affidata a nessuno. E' un progetto che presento io e che firmo io. Basta polemiche anche un po' squallide". Domani Valditara presenterà il suo piano: "Un progetto che è il frutto di un ascolto ampio. Le tante associazioni ci hanno fatto pervenire molti suggerimenti, molte proposte di modifiche, l'Ordine degli psicologi ci ha fatto anche delle correzioni importanti", spiega. "

Scintille tra Selvaggia Lucarelli e Alessandro Sallusti. A "È sempre Cartabianca", la trasmissione condotta da Bianca Berlinguer su Rete 4, si parla della tragica vicenda di Giulia Cecchettin, la 22enne veneta uccisa dall'ex, Filippo Turetta. Una storia che ha colpito in profondità l'opinione pubblica, ma che ha anche scatenato letture politiche e una discussione sul ruolo della società patriarcale nella violenza di genere che sta creando divisioni profonde. 

Il direttore del Giornale è sicuro che la "cultura patriarcale, ammesso che in Italia ce ne sia una prevalente, non c'entra nulla. È un fatto, guardiamo la triste classifica dei femminicidi, l'Italia ne ha sensibilmente meno dei paesi del nord Europa". Infatti la Lettonia in termini percentuali, e la Germania per numeri assoluti, fanno segnare dati molto peggiori di quelli italiani. Anzi, l'Italia in una classifica pubblicata oggi su Qn viene dopo 11 Paesi tra cui Austria, Francia e Olanda. "I femminicidi sono il frutto della mente di chi li compie", anche in Paesi dove l'emancipazione maggiore che da noi. 

Si collega, dopo qualche problema tecnico, Selvaggia Lucarelli che parte subito in quarta: "Questa è una lettura sociologica da bambino di seconda elementare, non degna di lui". "Ha parlato la professoressa", ribatte Sallusti ,"la maestrina con la penna blu". Per Lucarelli l'atteggiamento di sufficienza di Sallusti, a cui - va ricordato - ha dato dell'alunno di seconda elementare, è già una prova: "Questo atteggiamento sbeffeggiante riporta a un tipo di società patriarcale in cui la donna va subito messa a posto con la risatina di sufficienza". "Ma se dice ca***te certo che rido", ribatte Sallusti. Due posizioni inconciliabili. 

La stanza di Feltri. I femminicidi non sono colpa dello Stato. Vittorio Feltri il 21 Novembre 2023 su Il Giornale.

Gentile Dott. Feltri,

sono molto addolorato per l'uccisione di Giulia e noto che la partecipazione emotiva da parte degli italiani è alquanto estesa e importante. Però trovo che sia disonesto strumentalizzare questa tragedia per attaccare il maschio, per parlare di dominio del patriarcato, cultura maschilista, persecuzione della donna, sterminio delle donne, puntando il dito per di più verso la destra, che sarebbe l'autrice di questa deriva. Queste sono estremizzazioni. Lei crede che l'Italia sia un Paese sessista che odia il genere femminile e lo perseguita? E davvero il centrodestra è misogino come sostiene e ripete la sinistra? E sul serio, come dice la sorella di Giulia, la morte della ragazza è da imputare allo Stato? Tommaso Milano

Caro Tommaso,

che l'Italia non sia un Paese sessista che ha in odio le donne e le ostacola non lo dico io, ma lo stabiliscono e lo certificano i dati, che ci raccontano l'emancipazione diffusa del genere femminile, tanto che sono più numerose le signore rispetto ai signori in settori-chiave dell'economia nonché in ambiti professionali di grande rilevanza, penso, ad esempio, a quello sanitario, o alla magistratura, all'insegnamento, dove il gentil sesso si distingue. Inoltre, le donne conseguono livelli di istruzione più elevati, le laureate superano i laureati. E poi noi abbiamo un primo ministro donna, il che non è irrilevante, bensì alquanto indicativo di un progresso culturale che pure si vuole negare e nascondere. E sottolineo che questo presidente del Consiglio, che ho appena menzionato, Giorgia Meloni, è altresì di destra, quella stessa destra che pure, inspiegabilmente, viene tacciata di maschilismo dagli avversari politici, cioè da quella sinistra che si contraddistingue per avere il numero più basso di elette all'interno di ogni consesso e istituzione. Quindi, se qualcuno in Italia è misogino, allora questo qualcuno è proprio la sinistra progressista e ipocrita la quale tuttavia vorrebbe spiegarci come vadano trattate le ragazze.

E poi ci sono altre statistiche da considerare: sebbene si parli di allarme, di emergenza, di situazione esplosiva, i femminicidi sono in diminuzione e l'Italia è tra i Paesi europei con il più basso indice di questo tipo di delitti. Giusto per intenderci, in Francia e in Germania, per esempio, sono più copiose le donne che vengono macellate dagli ex o che muoiono per mano maschile rispetto a quelle uccise in Italia. Ovvio, auspichiamo che mai più capiti che una donna venga trucidata da un ex partner o da un compagno, tuttavia la strada che abbiamo intrapreso va verso il progressivo assottigliamento del numero delle vittime. E questo mi pare alquanto positivo.

Ogni volta che ci troviamo davanti a drammi simili, ecco che vengono riportate in auge quelle argomentazioni che pure tu mostri di conoscere: il patriarcato, la mascolinità tossica, il maschio assassino. Ma dov'è questo patriarcato? Dove? Oggi le donne sono libere, studiano e brillano negli studi, lavorano, sono indipendenti, si sposano e mettono su famiglia sempre più tardi, vivono da sole, si distinguono in politica, nell'imprenditoria, nel giornalismo, coltivano le loro ambizioni, perseguono e raggiungono i loro obiettivi, nessun uomo, padre o marito che sia, si permette di ostacolarle, di bloccarle, di porre loro divieti. Il femminicidio non è la regola, è l'eccezione di cui l'unico autore non è lo Stato e neppure la società, ma colui che impugna l'arma e ammazza. È costui che deve pagare e non il genere maschile nella sua interezza. Ed è in quest'ottica che dovremmo discutere di femminicidio e violenza di genere, smettendola di criminalizzare il maschio, di definirlo tossico, di fomentare l'odio immotivato nei riguardi di un genere reputato reo a prescindere, ossia quello maschile, che non ha alcuna colpa e che non è nemico del genere opposto.

Sono stufo di questa narrazione falsa e viziata. Come sono stufo di ascoltare sempre i soliti commentatori in tv che ripetono sempre le stesse cose, propinandoci ad ogni ora la medesima stucchevole pappetta, non se ne può più di tanta banalità, che si traduce in mediocrità. Oggi ho addirittura il voltastomaco.

Adesso va tanto di moda affermare che sia necessario combattere il femminicidio educando affettivamente i giovani e che tale educazione affettiva debba essere uno dei compiti affidati alla scuola. E la famiglia? Dove diavolo sono finite le famiglie? È il nucleo familiare, prima cellula della società, a dovere educare, in primis mediante l'esempio, al dialogo, al rispetto dell'altro, all'ascolto, ai diritti e ai doveri. Ogni volta che viene delegato alla scuola l'onere di trasmettere l'educazione ai fanciulli si favorisce quel processo di deresponsabilizzazione dei genitori che ha condotto al dilagare di fenomeni preoccupanti, come il bullismo o il consumo crescente di alcol e droghe da parte dei giovanissimi. La famiglia ha le sue responsabilità e i suoi compiti. Facciamole fare qualcosa, come avveniva una volta, tanto tempo fa. Finalmente! 

Quella "guerra dei sessi" dove perdono tutti. Uomini e donne si vedono come avversari, spesso addirittura come nemici. Ma così la violenza potrà solo peggiorare. Matteo Carnieletto il 21 Novembre 2023 su Il Giornale.

Si fa presto a dire che la colpa è degli uomini. Anzi: di tutti gli uomini, senza distinzione alcuna, solamente perché dotati di cromosoma XY. È questo il messaggio che viene lanciato oggi, all’indomani dell’omicidio di Giulia Cecchettin, e che era già stato affidato a a una campagna di Oliviero Toscani in cui si vedevano due bambini, Mario e Anna. Sotto al primo era presente la scritta “carnefice”. Sotto la seconda, invece, “vittima”. Lo stesso messaggio che Elena, la sorella di Giulia, sta rilanciando in questi giorni. Ma non è affatto così. E non perché vogliamo difendere a tutti i costi la nostra categoria, quella degli uomini, ma perché la realtà, che è fatta anche di numeri e di storie, dice altro.

Esistono infatti pochi, grazie al Cielo pochissimi, uomini come Filippo Turetta. Ne esistono altri che sono rispettosi e corretti con le donne che hanno al loro fianco. Sono i due estremi, uno negativo e l’altro positivo delle relazioni tra uomo e donna. In mezzo, una zona grigia, che c’è ed è inutile negare, e che in questo caso, contrariamente a quanto affermavano gli antichi (in medio stat virtus), non rappresenta la virtù ma la mediocrità. Sono gli uomini e le donne che, a volte senza volerlo, feriscono il cuore delle persone a cui vogliono bene. Spesso anche profondamente, provocando ferite che difficilmente si rimargineranno.

Come è possibile tutto questo? La sociologia e la psicologia moderna ci dicono di accettarci per come siamo. Ci dicono che, alla fine, andiamo bene così e che i nostri punti di debolezza sono i nostri punti di forza. È una versione che ci rassicura e ci tranquillizza perché, in fin dei conti, ci giustifica. Ma che non ci aiuta.

È vero: siamo quello che siamo. Questa definizione, però, vale solo per il qui e ora. Oggi sono io, con i miei pregi e i miei difetti. Ma domani chi voglio essere? E quali sono i miei punti di debolezza sui quali desidero lavorare per essere migliore? Che significa: come posso, da maschio, diventare uomo? Una prospettiva valida la offre padre Maurizio Botta in Uomini e donne. Crisi di lei, crisi di lui, crisi di tutti e due (Edizioni studio domenicano), il quale propone, di fronte alle difficoltà del presente, un ritorno ad un’autentica virilità. E lo fa partendo da una affermazione che chiunque abbia studiato il latino ha imparato a memoria, senza ragionarci troppo su. La parola “virilità” deriva infatti dal nominativo latino “vis” (forza), il cui genitivo è però “roboris” (quercia). Come mai? Perché, scrive Botta, è “l’albero dalle radici profonde, capace di reggere gli urti. Questo è un uomo, un vir. La sua forza non è la battaglia o la conquista, ma l’essere ben radicato per sostenere i colpi e le prove della vita; disposto a combattere per la libertà”. Sua e altrui, aggiungo io. E non è affatto una battaglia facile. Sia perché bisogna lottare ogni giorno contro i nostri istinti più bassi, sia perché uomini e donne stanno vivendo una crisi di identità senza precedenti, che li rende avversari in competizione e, talvolta, persino nemici. In questo clima di confusione generale, dove il genere sparisce (vedi teoria del gender) o ricompare a seconda delle necessità (la criminalizzazione del maschio), noi uomini possiamo fare la nostra parte. Ognuno nel suo piccolo e, soprattutto, nei momenti più difficili. E cosa fa un uomo, che, come abbiamo visto, è “quercia”? Sta. Non si piega, perché il suo tronco è ampio; non si spezza, perché è anche forte; e, infine, non viene divelto perché è ben radicato. Tutto questo però presuppone un impegno incessante e continuo. Un tendere a ciò che si desidera essere senza accontentarsi di ciò che già si è. Radici profonde e rami che puntano verso il cielo.

Filippo non ha retto l’abbandono di Giulia perché dipendeva da lei. Perché, egoisticamente, le aveva affidato la propria felicità. "Senza di lei la mia vita non ha senso". Credeva che l’amore fosse ricevere, mentre invece è dare senza chiedere indietro alcunché. È l’inganno del nostro tempo, che vale tanto per gli uomini quanto per le donne. Pretendiamo dagli altri ciò che non siamo in grado di dare. O che non vogliamo dare perché ciò implicherebbe sacrificio e difficoltà. Scrive padre Maurizio Botta: “Penso che l’amore sia davvero e prima di tutto una questione di libertà. Non semplicemente la propria libertà di offrirsi, ma anche la libertà dell’altro di vivere quest’offerta e questo amore”. Il che presuppone che l’altro possa anche dire di no. Che fare allora? Pronunciare le parole più difficili che una persona possa dire in un rapporto: “Quando vorrai veramente viverlo, io sarò qui, fedele a quell’amore”. Parole che oggi non fanno più parte del nostro vocabolario. Ma anche, e soprattutto, della nostra vita.

Mamme, artisti trap, destra patriarcale e sinistra permissiva: è caccia al colpevole. Quella smania di trovare un responsabile che inquina il dibattito sui femminicidi. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 21 novembre 2023

Lo spietato omicidio di Giulia Cecchettin sta suscitando un’ondata di empatia e un dibattito pubblico come raramente si era visto per un fatto di cronaca nera. È segno che la nostra società, anche a fronte della diminuzione dei crimini violenti, è oggi molto più evoluta e sensibile alla piaga dei femminicidi, ritenuti ormai socialmente intollerabili.

Si sono mobilitate le istituzioni, promettendo una legge bipartisan che introduca corsi di affettività nelle scuole, si sono mobilitati i giovani e le giovani dei licei, che sono scesi in piazza e hanno ricordato con un “minuto di rumore” le vittime della violenza maschile. E poi intellettuali, sociologi, pedagoghi, editorialisti, personaggi dello spettacolo e dello sport, non solo a condannare la ferocia di un atto estremo come l’omicidio, ma anche a indagare e comprendere la cultura che alla base della sopraffazione di genere che si annida nei dettagli della vita quotidiana, l’ossessione del possesso che molti maschi hanno verso le loro compagne, il ruolo centrale dell’educazione. Nonostante i particolari morbosi da cronacaccia nera e il sensazionalismo da clickbait in cui sguazzano alcuni media, il dibattito provocato dalla tragica morte di Giulia Cecchettin è un fatto più che positivo che segna un avanzamento nella nostra consapevolezza.

Peccato che questo prezioso momento di riflessione e mobilitazione collettiva sia accompagnato dalla solita schiera di soloni e bigotti con il ditino puntato e la predica pronta, o peggio ancora di aspiranti inquisitori. Costoro non hanno bisogno né interesse nel capire un fenomeno complesso e stratificato come la violenza sulle donne, vogliono soltanto trovare un colpevole, un capro espiatorio a cui accollare la responsabilità corale dei femminicidi.

Per esempio le famiglie, sbattute sul banco degli imputati perché incapaci di insegnare ai propri figli maschi il rispetto delle donne. Lasciando da parte la volgarità degli insulti rivolti ai genitori di Filippo Turetta, anche loro con una vita segnata per sempre dal dolore e dall’angoscia, sono proprio le famiglie in quanto tali e, paradossalmente le madri a finire alla simbolica sbarra di questi giudizi violenti e superficiali.

Fanno impressione in tal senso le parole della leghista ed ex magistrata Simonetta Matone ospite di Domenica in, che spara dal nulla: «Non ho mai incontrato soggetti gravemente maltrattati e gravemente disturbati che avessero delle mamme normali». Secondo Matone, che rovescia il rapporto vittima-carnefice, le madri sarebbero responsabili di non ribellarsi alla violenza domestica, autorizzando implicitamente i propri figli a comportarsi in quel modo con le loro future compagne: «Prendere le botte dal padre e non reagire, far vivere il figlio in un clima di terrore e violenza e fargli credere che tutto questo è normale, impone al figlio un modello familiare». Insomma la colpa non è di papà che ti picchia, ma di mamma che non ha la forza (o le “palle”?) per reagire ai soprusi. Facile no? In forma più civile ma altrettanto sciatta è intervenuto Paolo Crepet, l’onnipresente psicologo televisivo ha rispolverato un suo vecchio pallino, accusando entrambe le figure genitoriali, troppo protettive con i loro piccoli e immature come loro: «Sono i genitori i primi a voler essere eternamente giovani. E quindi è ovvio che i loro figli a loro volta non crescano».

Andiamo invece sul classico con la chiamata in causa dei cosiddetti “modelli negativi” che la società dello spettacolo offre alla nostra gioventù, su tutti la pericolosissima musica trap, ricettacolo di cultura sessista e testosteronica. Ad accusare i trapper non è stato un attempato boomer come Crepet ma l’attrice Cristiana Capotondi per la quale se ascolti quei testi «non poi c’è da sorprendersi se un giovane considera una donna un oggetto a cui togliere la vita».

C’è poi sullo sfondo una polemica politica un po’ triste e un po’ sciacalla . Diversi esponenti della sinistra ritengono infatti che i loro avversari non abbiano diritto a parlare di violenza di genere in quanto la destra sarebbe storicamente portatrice di una cultura maschilista e patriarcale. Lo ha sottolineato Lilli Gruber, attaccando per questo motivo Giorgia Meloni e precipitando in un surreale cortocircuito con la prima premier della storia repubblicana, una che, tra le altre cose, è cresciuta senza un padre in una casa di sole donne. Specularmente la destra punta l’indice contro il «lassismo» e la «cultura permissiva» della sinistra, che abbandona i giovani a se stessi, senza valori e senza disciplina.

PERCHÉ LA CULTURA PATRIARCALE E SESSISTA SPESSO È "FEMMINA". Intervista a: Giuseppe Pino Maiolo di: Paola A. Sacchetti su psicologiacontemporanea.it

Le donne sanno essere più maschiliste degli uomini.

Donne che per farsi strada nel mondo del lavoro si comportano come uomini, spesso molto peggio. Donne che colpevolizzano le vittime. Donne che commentano con termini sessisti e svalutanti altre donne. Donne che giustificano la violenza sulle donne: “Se l’è cercata”, “Ma suo marito la fa uscire così di casa?”, “Mio marito mi picchierebbe per molto meno”, “Quando erano gelosi erano contente, poi si lamentano che questi non vogliono essere lasciati e le riempiono di botte?”. Donne che legittimano comportamenti abietti e persino i femminicidi.

Perché accade?

Prof. Maiolo, secondo lei, basta la cultura patriarcale a spiegare questo fenomeno?

No, non penso sia sufficiente. Anche se la cultura patriarcale che influenza ancora sia gli uomini che le donne e i loro rapporti è un elemento significativo. Di certo colpisce tutti sentir dire da una donna che la ragazza stuprata da un branco di maschi “se l’è cercata”. E fa impressione la giornalista famosa che si chiede se gli uomini colpevoli di femminicidio non siano stati esasperati dalle donne uccise.

A mio avviso la spiegazione del maschilismo nelle donne ha qualcosa a che fare con un modello di pensiero strutturato che molto probabilmente rimanda al cervello rettile. Come dice Silvia Bonino, serve riconoscere quella “eredità filogenetica” che conserviamo nella nostra struttura biologica, la quale non giustifica la violenza sulle donne, ma che ci può aiutare a comprendere quella relazione arcaica che una volta era regolata dalla sessualità dominante del maschio e dalla sottomissione delle femmine. È la relazione predatore/preda che continua ad essere presente come modello mentale che contagia anche le femmine.

Il maschilismo al femminile però si sviluppa anche grazie all’ambiente sociale che, nel mondo lavorativo e professionale, valorizza carrierismo e competizione e limita la solidarietà di genere ma anche riduce l’empatia. 

Il sessismo di cui è permeata la nostra cultura induce un paradosso: per esempio non ci rendiamo nemmeno conto che le parole e i termini che usiamo sono sessisti. Sull’aspetto del linguaggio e delle parole che usiamo qualcosa ha iniziato a muoversi, pensiamo alla polemica che si è scatenata durante l’ultimo Festival di Sanremo quando Beatrice Venezi ha detto di voler essere chiamata “direttore d’orchestra”.

Per riuscire a cambiare la cultura che cosa dobbiamo fare?

Ci sono ovviamente profonde resistenze che riguardano sempre tutti i processi di trasformazione. Le parole sessiste e la lingua con cui noi le esprimiamo sono ovviamente significative ed è fondamentale cominciare dalle espressioni che usiamo tutti i giorni, anche se sembrano dettagli.

Si tratta però di andare a modificare le gabbie mentali acquisite a prescindere dal genere e fatte proprie da uomini e donne che, in una quantità di gesti quotidiani, continuano a legittimare e trasmettere luoghi comuni duri a morire, come giochi, comportamenti e sentimenti differenti per genere. Penso anche ai ruoli familiari e domestici che, per quanto criticati dal revisionismo culturale, continuano ad essere considerati di appartenenza di uno o dell’altro sesso. Altrimenti non dovremmo più sentire bambini che alla domanda “Cosa fa tua madre?” ci rispondono “Niente, non lavora. Sta a casa!”.

Smontare queste trappole cognitive da un punto di vista linguistico è importante, ma è fondamentale farlo modificando i modelli educativi sia per i maschi che per le femmine. Tuttavia ritengo necessario oggi dare una particolare attenzione all’educazione dei figli maschi, perché siano aiutati a crescere oltre gli stereotipi della forza e del coraggio maschile e in grado di esprimere senza timore le proprie sensibilità e fragilità.

Servirebbe una maggiore presa di posizione degli uomini? Sappiamo che molti, che non urlano le loro convinzioni, sono femministi, nel senso vero del termine.

Se nasciamo tutti/e maschilisti/e, come possiamo diventare tutti femministi/e?

Credo sicuramente che serva una maggiore presa di posizione degli uomini a partire dalla dichiarata contrarietà alla violenza di genere. Valgono i gesti simbolici dei maschi che condannano le azioni violente sulle donne, ma c’è la necessità di una rinnovata coscienza maschile che sia in grado di sviluppare riflessioni sul rapporto uomo-donna e mettere nuove basi per relazioni soddisfacenti.

Non so se questo voglia dire diventare tutti femministi. Credo piuttosto si debba invece costruire adultità e, nello specifico, aiutare i maschi a costruire ponti, non a erigere muri. Il che significa avere strumenti per tenere in equilibrio la sfera dei bisogni con quella dei desideri e saper gestire le diversità delle esperienze con un “potere” inteso come possibilità e non come dominio. 

Giuseppe Pino Maiolo, psicologo e psicoanalista, è Professore incaricato di Psicologia delle età della vita e Psicologia dello sviluppo all’Università degli studi di Trento e cofondatore di “Officina del Benessere” a Desenzano. Come giornalista si occupa di divulgazione scientifica per diverse testate, e come specialista lavora da anni nel campo del disagio infantile e giovanile e della promozione del benessere.

Paola A. Sacchetti, psicologa, formatrice, editor senior e consulente scientifico, da anni collabora con Psicologia Contemporanea, dove cura una parte della rubrica “Libri per la mente” e le “Interviste all’esperto”.

Alessandro Amadori al GdI: "A chi mi critica dico di leggere il libro 'La guerra dei sessi', basta con l'esempio del maschio negativo e la femmina positivo. L'uomo non è un minus habens" .  Il consigliere per la comunicazione e il miglioramento dei processi d'apprendimento al Giornale d'Italia: "Ribilanciare il valore percepito, cioè che tutto ciò che è maschile è pericoloso. Il caso di Giulia Cecchettin è un ulteriore e definitivo stimolo di un'educazione non solo alle relazioni anche a tutte le rappresentazioni di genere". Redazione il 21 Novembre 2023 su Giornale d'italia

Alessandro Amadori, il consigliere per la comunicazione e il miglioramento dei processi d'apprendimento è stato intervistato dal Giornale d'Italia. Il docente di Psicologia alla Cattolica di Milano risponde in merito alla polemica esplosa per un capitolo nel suo libro La Guerra dei sessi. Piccolo saggio sulla cattiveria di genere, che si intitola "Il diavolo è anche donna", ed è venuto alla ribalta dopo la notizia dell'istituzione di un progetto coordinato dalla segreteria tecnica del Ministero dell'Istruzione riguardo l'educazione affettiva nelle scuole.

Dottor Amadori, cosa risponde alle ultime polemiche scaturite in merito al capitolo del suo libro La guerra dei sessi?

Rispondo dicendo di leggere il libro, il quale ha un titolo molto chiaro e parte dal presupposto che questa è una strana fase del mondo in cui è noto ci sia un problema di aggressività dell'uomo, contro la natura, contro se stesso... Ma ci sono due forme in particolare: verso le donne, che prende la forma dei femminicidio e violenze sessuali ma anche un'altra forma, di irrigidimento femminile verso il sesso maschile.

Il maschio è rappresentato come negativo, la femmina come positivo. Da un lato bisogna disinnescare la violenza maschile che dipende dall'immaturità dei maschi, e su questo le donne hanno fatto passi avanti, ma anche ribilanciare il valore percepito, cioè che tutto ciò che è maschile non è pericoloso. Bisogna lavorare assieme nel rispetto, sull'aggressività di genere e l'alleanza di due generi. 

Disinnescare la risposta primitiva del maschio ma anche cominciare ad introdurre l'idea che questo non è pericoloso e non deve essere rappresentato dalle donne come un minus habens. Ci vuole un patto fra generazioni che nasca dalla consapevolezza di entrambi i generi. 

Cosa pensa del caso Cecchettin?

Vicenda terribile, un ulteriore e definitivo stimolo di un'educazione non solo volta alle relazioni anche a tutte le rappresentazioni di genere. Dimostrazione di quello che scrivo nella prima metà del libro. Vite distrutte, da quella della famiglia a quello dello stesso autore del crimine, fino alla famiglia di Turetta. Si viene a pagare uno scotto sociale. C'è urgenza di far maturare il maschio ma anche urgenza che i due generi si sintonizzino di più. 

Quale sarà il suo compito nello specifico?

Fra le varie cose che faccio c’è stata l'idea di elaborare linee guida approvate anche dai rappresentanti dei genitori, dai sindacati, che saranno patrimonio del ministero. Mi hanno dato l'incarico di mettere in piedi dei contenuti. Il metodo scelto è quello di ragazzi guidati da docenti che aiutano a comprendere l'altro genere.

Problema femminicidi in Italia

C'è un generale problema di decadimento emozionale delle relazioni che stiamo attraversando, una fase in cui abbiamo tanta materia e poco cuore e cervello. È un problema generale, nell’ambito di questa tendenza c’è anche il deterioramento tra i generi ed un’immatura risposta maschile.

Chi è Alessandro Amadori

Alessandro Amadori è uno psicologo, saggista e sondaggista italiano, consigliere per la comunicazione e il miglioramento dei processi d'apprendimento. "Esperto ad alta qualificazione" del ministero dell’Istruzione e del merito, si definisce "genovese di nascita, milanese di adozione". È anche docente di Psicologia alla Cattolica di Milano. Laurea in psicologia sperimentale a Padova, con lode, con una tesi sui modelli cibernetici della mente. Dottorato di ricerca in psicologia sperimentale, sempre a Padova, con una tesi sul pensiero creativo e sull’efficacia delle tecniche di formazione euristica nell’incrementare la performance creativa. Perfezionamento in criminologia a Milano, e in biostatistica ad Asti. Master in musicoterapia.

È autore di una trentina di volumi sulle sue materie di specializzazione. Fa parte del Comitato Scientifico della Fondazione Edoardo Garrone di Genova. ilgiornaleditalia.it 

Amadori, dal marketing politico al libro sulle «donne cattive»: chi è il consulente di Valditara contro le violenze di genere. «Non mi dimetto, il mio libro non capito». Claudio Bozza il 21 Novembre 2023 su Il Corriere della Sera.

Il professore scelto dal governo per coordinare gli incontri nelle scuole sull’educazione affettiva evocava la «ginarchia». Una volta gravitava a sinistra, ora sta con la Lega. Pd e M5S ne chiedono le dimissioni, lui replica: «No, il senso del mio libro non è stato capito»

«Il diavolo è anche donna» e «parlando di male e di cattiveria, dovremmo concentrarci solamente sugli uomini? Che dire delle donne? Sono anch’esse cattive? La nostra risposta è “sì”, cioè che anche le donne sanno essere cattive, più di quanto pensiamo». A scriverlo, nel libro «La Guerra dei sessi», è il professor Alessandro Amadori: «Esperto ad alta qualificazione», consulente del ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara, il leghista che ha nominato il medesimo Amadori nel team di «Educare alle relazioni», il ciclo di incontri nelle scuole promosso dal ministero contro la violenza sulle donne. L’iniziativa, che sarà presentata oggi, partirà davanti ad un’emergenza sociale, sempre più palese dopo il femminicidio della giovane Giulia Cecchettin . Il Domani ha pubblicato ampi stralci del pamphlet scritto nel 2020. E questi contenuti hanno innescato una bufera politica. L’opposizione, con in testa Pd, M5S e sinistra, sale sul piede di guerra: «Amadori è palesemente incompatibile, il ministro lo rimuova subito da questo incarico».

«La guerra dei sessi»

La bufera, complice il delicatissimo momento, rischia di diventare pericolosa per il governo. Tocca al ministro Valditara provare a spegnere l’incendio: «Il progetto è mio: ci metto la faccia, queste polemiche sono squallide». Dimissioni? «Assolutamente no, se non c’è una richiesta del ministro Valditara», replica Amadori. E poi: «Nel libro non c’è nessun intendimento anti femminile — spiega — ma quello di arrivare a una nuova alleanza tra i generi».

Il coordinatore di «Educare alle relazioni», aggiungono sempre fonti ministeriali, sarebbe in verità Mauro Antonelli, capo della segretaria tecnica del Miur. Un modo elegante, insomma, per prendere le distanze da Amadori.

Il professore finito nell’occhio del ciclone — psicologo specializzato in «psicopolitica», sondaggista all’Istituto Piepoli e quant’altro — prima delle elezioni, in tandem con Valditara, aveva scritto «È l’Italia che vogliamo», tomo con prefazione di Matteo Salvini, di fatto l’ultimo manifesto-programmatico della Lega. Amadori, che da tempo disserta su argomenti più vari, inclusi i dati sul Covid che «in Lombardia erano migliori di quanto affermava il Cts», una volta ha gravitato a sinistra (scrisse anche «Avanti miei Prodi», un manuale elettorale ulivista). Poi ci furono anche «Mi consenta» e «Madre Silvio», pamphlet di discreto successo sulle tecniche di propaganda berlusconiane. Infine il salto nel comparto leghista, con tanto di foto a Pontida con Valditara, il futuro ministro che lo ha designato in «Lettera 150», think tank (o meglio «pensatoio») di esperti in vari campi messo su per aiutare il «Capitano» Salvini a districarsi nella complessità dei vari temi politici.

Il professore è stato poi nominato come consigliere al ministero dell’Istruzione, con stipendio di 80 mila euro annui. E quando la premier Giorgia Meloni ha spinto per rendere subito operativo, nelle scuole, il piano «per l’educazione sentimentale e affettiva», Valditara aveva coinvolto anche Amadori, che non è un esperto in violenza di genere, visto che alla Cattolica di Milano tiene un laboratorio di «Marketing politico».

Anche gli uomini sono vittime di violenza: “Il vero killer è l’analfabetismo psicologico e relazionale”. Nel 2022 il centro "Oltre il genere" ha accolto le richieste di aiuto di oltre 150 persone di sesso maschile. Nel 65% dei casi 'l'aguzzino' è la partner. Barbara Berti l'1 Febbraio 2023 su luce.lanazione.it.

La violenza non ha sesso

La violenza non ha genere. Ci sono uomini violenti così come donne violente. Pochi giorni fa, per esempio, una donna ha accoltellato il marito alla gola uccidendolo davanti al figlio 15enne. E le liti tra coniugi non solo l’unico motivo per cui anche gli uomini si rivolgono sempre più spesso ai centri antiviolenza.

In provincia di Ascoli Piceno, da un paio d’anni, è attivo il Centro antiviolenza “Oltre il genere”, il primo in Italia dedicato agli uomini vittima di violenza, sostenuto da un’amministrazione pubblica, il comune di San Benedetto del Tronto. La struttura è stata fortemente voluta dalla psicoterapeuta e coordinatrice del Centro, Antonella Baiocchi, nel periodo in cui è stata assessore alle Pari Opportunità del Comune di San Benedetto. A gestire il Cav è l’Associazione per la Promozione e lo Sviluppo Individuale e Relazionale (Aprosir) che offre tutela agli uomini vittime di violenza, dai maltrattamenti alle prevaricazioni, dallo stalking al bullismo, e dà indicazioni per uscire dal circuito della violenza.

Anche gli uomini sono vittime di violenza

Tra il 28 dicembre 2021 e il 28 dicembre 2022, il Centro ha accolto le richieste di aiuto di ben 151 uomini, l’anno precedente (il primo anno di apertura) erano state 132 le richieste. Nel periodo preso in esame sono state effettuate in totale 367 consulenze tramite telefono e videoconferenza. Tutti gli uomini che hanno chiamato erano italiani, alcuni nati nel Paese da genitori stranieri. La fascia d’età più rappresentata è stata quella tra i 40-49 anni (34%), seguita dalla fascia di età 30-39 (32%) e dalla fascia di età 18-29 (19%).

La locandina che presenta il servizio

Lo stato civile maggiormente rappresentato è quello dei conviventi (42%), seguito dai coniugati (25%) e coniugati in fase di separazione (19%). Il 65% degli uomini ha subito violenza da donne: nello specifico dalle partner ed ex partner. Il 16,5% degli uomini è stato maltrattato da altri uomini: dai fratelli per questioni di eredità e di gelosia parentale; da conoscenti che li hanno presi di mira per antipatia o per l’omosessualità vera o presunta; da colleghi e datori di lavoro. Gli omosessuali hanno dichiarato di aver subito angherie dal partner. Il 18,5% degli uomini è stato maltrattato da più persone, sia uomini che donne.

La psicoterapeuta Baiocchi, da tempo, sostiene la tesi della bidirezionalità della violenza, ovvero i carnefici possono essere sia uomini sia donne. “Riconoscere il diritto di tutela anche alle vittime di sesso maschile non significa essere ‘contro’ le donne. Il vero killer è quello che chiamo analfabetismo psicologico e relazionale, che induce le persone a gestire le divergenze con modalità dicotomiche, cioè prevaricando l’interlocutore in posizione di vulnerabilità”. Ovvero con la violenza. 

LA GUERRA FRA I SESSI. I dati inglesi sulle violenze: sempre più uomini vittime. Benedetta Frigerio l'1 e 4 febbraio 2020 su lanuovabq.it.

Grazie alla vicenda che ha portato agli arresti la nota presentatrice tv Caroline Flack per aver colpito alla testa il partner, il governo inglese ha pubblicato su richiesta della legge le cifre della violenza domestica sugli uomini. Il panorama che emerge (anche in Italia) è sconvolgente e dice che il problema non è del sesso maschile.

Che il cosiddetto “maschicidio" e la violenza sugli uomini per mano delle loro partner sia un fenomeno reale è emerso grazie alla vicenda che lo scorso dicembre ha portato agli arresti la nota presentatrice tv Caroline Flack per aver colpito alla testa, causandogli un forte sanguinamento, il partner di 13 anni minore di lei che all’inizio aveva negato per vergogna per poi confessare la violenza e infine ritrattare di nuovo.

La vicenda ha messo in luce il trend nascosto di cui il governo inglese è stato costretto a pubblicare le cifre grazie alla legge sulla “libertà di informazione”. Il panorama che emerge è sconvolgente se si pensa che il numero di attacchi domestici perpetrati da donne è più che triplicato in un decennio: tra il 2009 e il 2018, il numero di casi denunciati alla polizia è passato da 27.762 a 92.408, portando le donne ad essere responsabili di aggressione nel 28% di tutti i casi di abuso domestico segnalati nel 2018 (nel 2009 erano il 19%). A riportare le cifre è stato il Telegraph la settimana scorsa.

Ancora più preoccupanti sono i dati dello scorso anno che vedono ben 786 mila uomini vittime di abusi domestici (dati dell’Office for National Statistics). Ma lo studio fatto su di essi tiene conto anche del fatto che probabilmente queste cifre sono molto più alte perché i maschi hanno «tre volte meno» la tendenza di rivelare l’abuso rispetto alle femmine (sia per vergogna sia per la paura di non essere creduti). Il che porterebbe il numero degli uomini maltrattati ad essere simile a quello delle vittime donne.

Che il problema non sia quindi del sesso cosiddetto forte contro quello definito debole ma che la crisi sia nella relazione uomo/donna lo dicono anche i dati italiani. In media nel nostro paese le femmine assassinate sono circa 130 mentre i maschi sono 400. Tenendo conto del fatto che la maggioranza delle prime viene uccisa da un partner o conoscente mentre un numero maggiore di maschi è ucciso da sconosciuti, le cifre di uomini e donne assassinati da conoscenti tendono ad avvicinarsi.

A dire poi che il malessere dilaghi ancor più fra gli uomini sono i suicidi: 3.200 i maschi e 800 donne. Questa fotografia unita a quella dell’"Office of national statistics crime survey (ente governativo inglese), per cui «l’11% degli uomini maltrattati dalle donne partner tenta di uccidersi, rispetto al 7,2% delle donne maltrattate da partner maschi», fa crescere il numero dei maschi che subiscono violenze. L’ente di statistiche riporta poi che «tra coloro che sono stati vittime di abusi da parte del partner nel 2017/18, un numero maggiore di vittime di sesso maschile ha riportato lesioni fisiche (31,8%) rispetto al 22,7% delle donne».

Riprendendo i dati pubblicati dal Telegraph per cui lavora, la giornalista Celia Walden ha richiamato la vicenda della presentatrice televisiva. Walden scrive di essere rimasta colpita dai «miei amici» che «hanno parlato all’unanimità del presunto incidente come “imbarazzante”…Poi è successo qualcosa di ancora più sorprendente: uno dopo l'altro, questi uomini hanno iniziato ad ammettere le proprie esperienze di violenza avvenute per mano delle donne. E sebbene ognuno abbia minimizzato - era solo "uno schiaffo", "una spinta" e "una Coca-Cola tirata in testa" - ho lasciato quel pub sbalordita dalla seguente statistica di vita reale: tre uomini su quattro che conoscevo avevano subito qualche forma, per quanto lieve, di abuso femminile».

Ma anche il Daily Mail partendo dalla vicenda della Flack sottolinea quanto sia diffusa la mentalità femminista per cui ci sono commenti che includono frasi come questa: «“Quanto danno può realmente arrecare una donna a un uomo più grande e più forte di lei?”. E “sicuramente se una donna colpisce il suo partner, deve essere per legittima difesa”». A ribadire che, sebbene sia scoveniente affermarlo, è chiaro che il problema della violenza non è della natura maschile ma di entrambi i sessi: la donna può esercitarla più subdolamente e psicologicamente (oggi anche fisicamente) e l’uomo mediante la forza fisica. È scorretto quindi parlare di "femminicidio" o di "maschicidio". Anzi, la domanda che bisognerebbe porsi prima di dire che il maschio va rieducato è questa: cosa ha portato uomo e donna, invece che a completarsi nella diversità, a non riuscire più a tollerare le proprie differenze?

Dati e storie di maschi vittime di violenza

Le stime inglesi parlano di un quarto di vittime domestiche maschili, anche se molti non denunciano. Brooks, della Charity Mankind, ha dichiarato che «troppi restano in silenzio». La Bbc ha raccontato di uomini maltrattati che faticano a parlare per paura di non essere creduti, per vergogna e incapacità di difendersi. Le storie dei processi con donne condannate testimoniano che il problema è nelle coppie e nel sovvertimento dei ruoli.

Dopo la pubblicazione da parte del governo inglese delle violenze domestiche in aumento subite dagli uomini, intervistato dal Daily Mail Tony Hannington, 57, racconta di quando «ho incontrato Tracy su un sito di incontri» per poi sposarla dopo sei mesi e scoprire che aveva «enormi sbalzi d'umore. Mi telefonava al lavoro, voleva sapere dove fossi, perché stavo vedendo i miei amici…A casa, ogni volta che mi sedevo, mi urlava perché non aiutavo nelle faccende domestiche. Se avessi fatto qualcosa come mettere un cucchiaio nel lavandino, anziché direttamente in lavastoviglie, ci avrebbe provato (a picchiarmi, ndr). All’inizio accadeva ogni fine settimana. Poi i suoi attacchi di collera avvenivano potenzialmente ogni notte, quindi temevo di tornare a casa». L'uomo descrive la moglie come una specie di dottor Jekyll e Mister Hyde, capace di passare dalle minacce con coltelli alla gola a fare finta che nulla fosse accaduto: «Mi prendeva a calci…una volta, mentre stavamo scaricando la spesa, mi colpì in testa con una lattina di fagioli. In un'altra occasione mi colpì in faccia con la testa dell’aspirapolvere. Se non mi alzavo quando voleva lei, mi dava un pugno o mi versava una brocca d'acqua sul letto».

Verrebbe da domandarsi come mai un uomo alto e robusto come Tony non si sia difeso e la risposta è tipica di una cultura che fa sentire in colpa il maschio per essere ciò che è, virile e in grado di difendersi: «Mi hanno insegnato che una donna non si tocca mai (giustissimo, si direbbe, ma da qui a subire senza cercare una soluzione ce ne corre, ndr)». Ma sopratutto quando l'uomo le diceva che sarebbe andato dalla polizia lei «avrebbe detto loro che avevo iniziato io».

Pare quindi che i dati sul cosiddetto "femminicidio", per cui gli uomini sarebbero sempre e comunque delle bestie potenzialmente pericolose, non tengano conto del fatto che la violenza delle donne sugli uomini è solitamente di tipo psicologico. Tony continua infatti così: «Se avessi detto a Tracy che mi aveva fatto male, avrebbe detto: "Che razza di uomo sei?”». Lo stesso Daily Mail ricorda il controllo sull’uomo per mezzo «degli abusi psicologici, tipico delle donne che attaccano i partner maschili». Motivo per cui dalle indagini inglesi emerge l’incidenza degli «attacchi all'autostima di un uomo» che «possono essere particolarmente debilitanti». Tanto che l’ «ONS Crime Survey ha scoperto che l'11% degli uomini maltrattati dalle donne partner tenta di uccidersi, rispetto al 7,2% delle donne maltrattate da partner maschi».

Tony conferma che spesso gli è passata per la mente l’idea di uccidersi: «"Tracy mi ha isolato dalla mia famiglia e dai miei amici, mettendo in discussione il mio bisogno di vederli"», fino a «"dirmi con chi essere amico su Facebook. Mi diceva che non sarei mancato a nessuno se mi fossi ucciso e mi ha suggerito di "trovarmi un angolo tranquillo per impiccarmi"». Dato che lei non avrebbe mai lasciato l'appartamento, non avevo nessun posto dove andare e non riuscivo a vedere una via d’uscita». Grazie ad una parente l’uomo è riuscito poi a denunciare, mentre la moglie è stata condannata a due anni di carcere.

Che Tony sia uno fra tanti non lo dicono solo i numeri pubblicati dal governo inglese, ma anche Huw Jones, 47 anni, insegnante del Pembrokeshire, la cui compagna divenne violenta dopo la nascita del primo figlio: «"All'inizio ho cercato di trovare delle scuse, pensando che fosse una depressione post partum», ma mentre teneva in braccio il figlio la donna cominciò a prendere a pugni il marito, mentre al telefono con la polizia gridava come se fosse lei la vittima: «Così pensavano che l’avessi colpita io. Quando chiamavo e dicevo loro che stava minacciando di bruciare la casa con me e i bambini, mi dicevano: "Probabilmente non lo pensa davvero”». L’uomo arrivò a rifugiarsi in macchina, senza chiedere aiuto agli amici, sapendo che gli avrebbero risposto che «nessuna donna colpirebbe mai così», oppure: «Non puoi difenderti?». Perciò fu solo dopo aver registrato un'aggressione che Jones ottenne giustizia in tribunale, anche se la custodia dei figli è ancora della donna e anche se «in tribunale lei trova comunque più ascolto di me solo perché è una donna».

C’è poi Raymond Reddy, recentemente accoltellato dalla moglie, Joanne Reddy, ad Ashton-under-Lyme durante una lite per il divorzio. La donna è stata condannata a quattro anni di carcere. È invece in corso il processo che vede imputata Carol Robinson, 57 anni, per aver pugnalato con un pelapatate, forandogli un polmone, il marito di 40 anni durante una lite. La vittima, però, non vuole separarsi dalla moglie confermando, come nel caso della presentatrice tv Caroline Flack (autrice di un reato simile) che spesso gli uomini preferiscono subire e non denunciare l'aggressione per via di un legame malato e di sottomissione psicologica che vivono con le loro compagne.

Le stime inglesi parlano di un quarto di vittime domestiche maschili, ma il fatto che molti di loro non denuncino dice che il fenomeno è più diffuso di quanto sembri. Almeno questa è la convinzione del portavoce dell’associazione Charity Mankind, Mark Brooks, che ha dichiarato al The Sun che «stiamo cercando sempre più uomini che si facciano avanti per chiedere aiuto. Ma troppi restano in silenzio. Dobbiamo fare di più perché c’è bisogno di aiuto là fuori».

Anche la Bbc ha raccontato, citando le statistiche inglesi (vedi paragrafo 7), di uomini maltrattati dalle donne che però hanno faticato a denunciare per paura di non essere creduti o perché «mi sento malissimo a parlare male della mia compagna, mi sento come se la tradissi», ha affermato John confermando la tendenza innata dell'uomo a proteggere la sua donna. Dave ha invece ricordato di quando «una volta mi ha dato un pugno - e l'ho spinta via da me, è corsa al telefono e ha chiamato la polizia. Pare che la sua amica le avesse detto “se vuoi sbarazzarti di tuo marito, inizia una rissa, chiama la polizia e lo butteranno fuori di casa”. Ecco cosa ha fatto». La dott.ssa Sarah Wallace, della University of South Wales, ha aggiunto che ci sono numerose ragioni per cui uomini e donne non denunciano le violenze domestiche, «tuttavia, la questione della sotto-segnalazione è ancora più alta tra gli uomini» che «temono di apparire falsi, provando vergogna e imbarazzo».

La dottoressa Elizabet Bates, psicologa della University of Columbia, ha confermato che «lo stereotipo dominante nella violenza domestica ritrae gli uomini come responsabili. Ma la ricerca mostra sempre di più che la prevalenza è uguale per uomini e donne. La realtà è che gli uomini non cercano tanto aiuto. Ciò è in parte dovuto al fatto che la società condanna fermamente la violenza contro le donne, ma prevede poche sanzioni per l'aggressione delle donne nei confronti degli uomini…gli uomini hanno riferito di sperimentare un significativo controllo coercitivo. Spesso descrivevano (la relazione, ndr) come “camminare su gusci d'uovo". Il che ha un impatto significativo sulla loro salute fisica e mentale».

Una ricerca pubblicata sulla rivista Justice Quarterly ha inoltre rilevato che l'82% delle donne violente usa delle armi contro il 25% degli uomini. A dimostrarlo il caso del 24enne Alex Skeel, del Bedfordshire, la cui partner, Jordan Worth, è diventata la prima donna nel Regno Unito ad essere condannata per violenze e incarcerata nel 2018 per sette anni.

Questi gli ulteriori danni del femminismo che hanno reso la donna sempre più mascolina e l’uomo incapace di difenderla e di difendersi. Se infatti la natura maschile è piena di forza (che non è sinonimo di violenza) necessaria per proteggere la donna e la sua famiglia e per insegnare ai figli ad affrontare il mondo con i suoi rischi, la donna è per natura accogliente e permissiva. Il sovvertimento di questi ruoli vede oggi il maschio sempre più fragile e sensibile oppure esasperatamente violento, mentre la donna passa dal vivere un assoggettamento malato all'essere una manipolatrice aggressiva.

In Italia gli ultimi dati disponibili (commentati per La NuovaBq da Tommaso Scandroglio), che indagano non solo il numero di abusi domestici e omicidi, ma la loro motivazione, parlano di violenza crescente sugli uomini da parte delle loro donne. Ma poi né il governo né la Polizia hanno più pubblicato dati sufficientemente dettagliati per comprendere a fondo il fenomeno. Un vero peccato politicamente corretto, perché solo conoscendo le reali motivazioni di violenze ed omicidi si potrebbe cercare la soluzione ad un problema che non viene certo affrontato dal fingere che l'emergenza sia il femminicidio. Anzi, le storie sopra raccontate, come quelle di violenza sulle donne, parlano di separazioni, divorzi, gelosie...

Latinismi.

Il femminicidio è tristemente presente nei notiziari e ancora non abbiamo una parola corretta per indicarlo. Maurizio Assalto su Linkiesta il 9 Gennaio 2023

Il termine non convince già dalla sua formulazione, in cui la i che precede il confisso “cidio” dovrebbe essere residuo di un genitivo latino: avrebbe senso per il maschile (come in suicidio o regicidio) ma non per il femminile (femina). Come fare?

Il nuovo anno era appena cominciato, che già bisognava registrare il primo femminicidio (a Pontedecimo di Genova, il 4 gennaio, nell’occasione seguito dal suicidio del femminicida). Anche nel 2022 la parola “femminicidio” era stata dolorosamente tra le più ascoltate e più lette, nei notiziari e nei commenti che li hanno seguiti: novantasette donne uccise “in ambito familiare o affettivo”, di cui cinquantasette per mano del loro partner o ex partner, secondo i dati del Viminale raccolti dal Servizio analisi criminale della Direzione centrale della Polizia criminale, aggiornati al 18 dicembre (ma prima del cenone di Capodanno la lista si era allungata di altre quattro unità). Un tragico fenomeno che non accenna a ridimensionarsi, e una brutta parola impiegata per designarlo. Brutta anche a prescindere dalla realtà a cui si riferisce.

Nella parola “femminicidio” non convince, tanto per cominciare, la i che precede il confisso -cidio (dal latino caedo, “taglio, uccido”). Negli altri vocaboli formati con questo elemento la i si spiega come residuo di un genitivo: “suicidio” = uccisione di sé (sui); “regicidio” = uccisione del re (regis); “deicidio” = uccisione del dio (dei); “parricidio” = uccisione del padre (patris); “matricidio” = uccisione della madre (matris); “infanticidio” = uccisione di un bambino (infantis); “fratricidio” = uccisione del fratello (fratris), usato anche per l’uccisione della sorella in luogo del più raro “sororicidio” (sororis), mentre è registrato dai dizionari ma pressoché inutilizzato “figlicidio” = uccisione del figlio (filii). A conferma che le realtà più insolite non hanno un nome o, se lo hanno, non viene preso in considerazione.

Un caso solo apparentemente dissimile è rappresentato dalla parola più comune e generica di tutte tra quelle appartenenti a questa luttuosa famiglia, “omicidio”, composta contraendo il genitivo hominis e attaccando il confisso direttamente al tema.

In assenza di un genitivo maschile latino, tuttavia, la i non ha senso, e infatti non compare, per esempio, in un’altra parola, di origine greco-antica, che dopo avere funestato il Ventesimo secolo si riaffaccia tenebrosamente nel Ventunesimo: “Genocidio” (termine coniato dal giurista ebreo polacco Raphael Lemkin che lo utilizzò per la prima volta nel 1944 nel suo libro “Axis Rule in Occupied Europe”), da génos (pronuncia ghénos) che al genitivo fa génous.

Perché allora la i di femminicidio? Il latino femina appartiene alla prima declinazione e il suo genitivo è feminae: coerenza morfo-etimologica vorrebbe pertanto che l’uccisione di una femina fosse in italiano un “femminecidio”. Ma decisamente questa parola non suona, tanto più che quella e, anziché alla desinenza -ae del genitivo femminile singolare, farebbe pensare a un nominativo plurale femminile (il che stranamente non accade alla i del genitivo singolare maschile).

In realtà la parola “femminicidio” – accolta nel nostro vocabolario sulla falsariga di omicidio, suicidio, parricidio eccetera – ha la sua incubazione in Inghilterra, dove fin dal 1801 era attestata la forma contratta femicide, modellata su homicide e usata genericamente per indicare l’uccisione di una donna.

La moderna connotazione del termine risale invece a mezzo secolo fa, in particolare ai lavori della sociologa femminista sudafricana (naturalizzata statunitense) Diana E. H. Russell che nel 1976, durante la conferenza da lei organizzata a Bruxelles per promuovere un Tribunale internazionale sui crimini contro le donne, definì questo crimine come «l’uccisione di femmine da parte di maschi perché sono femmine»: ossia tutte quelle uccisioni di «femmine» (parola preferita a “donne”, perché possono esserne vittime anche bambine e adolescenti) che non avvengano per motivi occasionali, come per esempio un incidente o una rapina, ma siano conseguenza di una violenza di genere perpetrata da partner, ex partner o partner respinti, da famigliari maschi o da clienti di prostitute (infatti nel mondo anglosassone si parla anche di gendercide).

Alla parola “femminicidio”, attraverso il castigliano feminicidio, si è giunti con l’antropologa messicana Marcela Lagarde, che nei suoi studi sull’impressionante catena di uccisioni di donne che dalla prima metà degli anni Novanta ha insanguinato Ciudad Juárez, al confine del Messico con gli Stati Uniti, ha ripreso e approfondito la definizione messa a punto da Diana Russell, inquadrando il fenomeno nel più ampio contesto della discriminazione di cui è variamente vittima l’universo femminile. Un forte impulso all’utilizzo del neologismo è venuto in Italia dal saggio di Barbara Spinelli “Femminicidio. Dalla denuncia sociale al riconoscimento giuridico internazionale” (Franco Angeli, 2008), e da allora la parola è diventata di uso comune, a partire soprattutto dal linguaggio giornalistico.

Ma non tutti i femminicidi sono riconducibili a un rapporto del tipo vittima-carnefice, nell’ambito di una situazione socialmente penalizzante nei confronti della donna. Per questo l’accezione ristretta di Russell-Lagarde è stata variamente discussa e riformulata, e due studiose come le americane Jacquelyn Campbell e Carol Runyan, nel loro saggio “Femicide” (1998), hanno utilizzato la parola in relazione a «tutti gli omicidi di donne, indipendentemente dal movente o dallo status dell’autore».

E quindi – domanda – si ha un femminicidio anche quando il movente non è la discriminazione e l’autore agisce in preda all’ira per l’improvvisa degenerazione di una lite, o in uno stato di temporanea alterazione della coscienza in seguito a un eccesso alcolico o all’assunzione di droghe, oppure per fini abietti come riscuotere un’assicurazione sulla vita? O addirittura quando, per questi stessi o altri motivi, a uccidere una donna è un’altra donna, magari la sua partner, o ex partner o aspirante partner respinta? In tutti questi casi la vittima è una “femmina”, ma si potrà ancora parlare di “femminicidio”? Oppure è indispensabile che a uccidere sia un uomo? La questione resta aperta.

E resta un dubbio. Se l’uccisione di una donna per mano d’un uomo, in determinate circostanze, ha un nome particolare che la connota, rovesciando la situazione non avrà diritto a un nome particolare anche l’uccisione di un uomo per opera della partner (o ex o aspirante respinta) o da un membro femminile della sua famiglia? È vero che il fenomeno è meno frequente di quello a parti invertite, ma non del tutto assente: uno studio del 2013 (“The global prevalence of intimate partner homicide: A systematic review”, di Heidi Stöckl, Karen Devries, Alexandra Rotstein, Naeemah Abrahams, Jacquelyn Campbell, Charlotte Watts e Claudia Garcia Moreno, The Lancet, 382) stimava che ben il quaranta per cento delle donne uccise in tutto il mondo è vittima del proprio partner, mentre soltanto il sei per cento degli uomini uccisi cade per mano della donna.

Siccome però si calcola che l’ottanta per cento degli omicidi colpisca gli uomini, se questa percentuale corrisponde al vero significa che in termini assoluti il numero dei maschi uccisi dalle partner equivale a più della metà dei femminicidi. Pochi o un po’ meno pochi che siano questi sventurati, come qualificare il crimine di cui sono vittime?

Se a uccidere un uomo è la legittima consorte si parla di “uxoricidio”, che è un termine etimologicamente improprio in quanto uxor, in latino, è la moglie, e quindi l’uxoricida è in primo luogo il marito assassino; ma, in mancanza di meglio, il termine è usato estensivamente per qualificare l’uccisione del coniuge, non importa se femmina o maschio (con il che i mariti uccisi dalle mogli perdono la loro specificità vittimaria, incorrendo nella medesima generalizzazione rappresentata dall’estensione alle donne del termine “omicidio”).

Ma quando a uccidere non è la consorte bensì l’amante, la fidanzata, la ex? Si dovrà, per analogia con “femminicidio”, parlare di “maschicidio”? Orrida parola, che infatti non esiste; esiste invece “androcidio”, che è però di uso limitatissimo e del resto non ha (non può avere) neppure i presupposti sessisti presenti nella accezione ristretta del femminicidio. Insomma, in questo caso non c’è discriminazione di genere ma c’è il delitto, un delitto che non ha neppure la dignità di un nome. Qui a discriminare è soltanto il linguaggio.

False accuse.

Estratto da leggo.it il 20 febbraio 2023.

Il marito le chiede di fare sesso in continuazione e la moglie non riesce più a sopportare le sue richieste assidue. Un'insofferenza crescente che culmina quando lo vede praticare atti di autoerotismo anche quando la figlia piccola è in casa.

 La donna, allora, decide che quel matrimonio non può più andare avanti e chiede la separazione, che il marito non accetta ed allora il rapporto si inasprisce e diventa sempre più conflittuale, scrive il Corriere di Romagna.

La vicenda, risale al 2018 Rimini, quando marito e moglie hanno avviato una battaglia legale, in cui la presunta vittima, la donna, ha accusato il consorte di averla maltrattata al fine di ottenere sesso. Ma il giudice, non ha avallato le tesi accusatorie e cancellato tutto, assolvendo in formula piena l'imprenditore riminese, il marito, perché il fatto non sussiste. […]

Estratto dell’articolo di Emiliano Papillo,Giovanni Del Giaccio per “il Messaggero” il 15 Gennaio 2023.

Potrà tornare in classe, al suo lavoro di insegnante, quello della sua vita. È stato assolto in appello da un'accusa che lo aveva tenuto lontano dalla scuola e al minimo dello stipendio, quella di avere abusato di quattro ragazzine tra 11 e 12 anni. Fine di un incubo per Salvatore Iacoboni - oggi 63 anni, di Ceccano - che dall'anno scolastico 2014-2015 si portava dietro la pesante accusa di violenza sessuale su minori, prima, e la condanna poi. Tre anni e sei mesi inflitti in primo grado a Frosinone, con sentenza ribaltata dalla Corte d'appello di Roma.

«È la fine di un incubo - dice il docente - Essere accusati ingiustamente di reati infamanti che non ho mai commesso mi ha fatto veramente molto male […]».Il professore di matematica e scienze nella Scuola Media del plesso di Vallecorsa, secondo l'accusa aveva costretto quattro sue alunne a subire atti sessuali ovvero palpeggiamenti in diverse parti del corpo. Le quattro ragazze […] raccontarono le attenzioni subite dal docente. Le attività di indagine della polizia, i colloqui delle alunne con gli psicologi e gli altri accertamenti disposti avevano portato alla condanna a 3 anni e mezzo di reclusione (il pubblico ministero aveva chiesto il doppio), preceduta dall'interdizione dall'insegnamento.

[…] In appello la Procura generale aveva chiesto la conferma della condanna […] ma invece è arrivata l'assoluzione: il fatto non sussiste, quella violenza non c'è mai stata. La ricostruzione delle alunne non era credibile, anzi.

 […] «È una enorme soddisfazione - spiega l'avvocato Musa - abbiamo ribadito che non vi era alcun riscontro probatorio e documentale alle accuse delle ragazze, che i comportamenti attribuiti al professore non avevano alcuna valenza sessuale e che le testimonianze rese erano contraddittorie. […]». Già all'epoca si era parlato di abbracci alle ragazze, ma non di più.

 […] A seguito della sentenza, potrà tornare in cattedra, alla scuola media di Ceccano. Già domani presenterà, attraverso l'avvocato Silvana Marella, specializzata per tale materia, istanza al ministero per la riammissione in servizio e la restituzione di tutti gli stipendi non corrisposti durante il periodo di sospensione. Si tratta di decine di migliaia di euro. […]

Povero uomo.

Estratto dell’articolo di Angela Balenzano per corriere.it l'1 dicembre 2023. 

Una violenta lite sui social, prima Tik Tok poi Instagram avvenuta l'11 ottobre scorso. Due ex coniugi di Casamassima, in provincia di Bari, si attaccano a vicenda utilizzando post con contenuti offensivi. Poi la donna «indispettita» dall'accaduto […] avrebbe deciso di vendicarsi contro l'ex marito organizzando una spedizione punitiva con la complicità di alcuni suoi familiari.

Avrebbe chiesto loro di dargli «una esemplare punizione perché l'aveva offesa». Così dopo qualche ora dopo, sempre nella giornata dell'11 ottobre […] i cinque parenti coinvolti hanno inseguito l'ex marito 43enne e dopo «avergli danneggiato l’auto a bordo della quale viaggiava […] lo accerchiavano colpendolo ripetutamente con violenza anche con il tirapugni e la mazza da baseball […] senza fermarsi nemmeno dopo averlo tramortito e lasciato a terra». Il 43enne soccorso poco dopo dagli operatori del 118 e trasportato al Policlinico è stato «sottoposto ad un delicato intervento chirurgico che gli ha salvato la vita».

I carabinieri […] hanno identificato i cinque aggressori responsabili dell'aggressione e la moglie che avrebbe «commissionato la spedizione punitiva». Sono stati tutti arrestati e accusati in concorso tra loro  di tentato omicidio aggravato.

«Le modalità del fatto appaiono decisamente allarmanti, dovendosi considerare non solo la palese sproporzione tra i motivi del litigio […] e l'entità della spedizione punitiva […] ma anche in ragione del fatto che i correi non hanno esitato ad agire in pieno centro abitato, a volto scoperto, percuotendo la vittima con tirapugni, mazza da baseball e coltello, […] noncuranti di subire conseguenze penali […]». […]

Vittorio Feltri a valanga su La Russa jr: "Sessismo rovesciato, la ragazza..." Il Tempo il 13 luglio 2023

Una presa di posizione destinata a creare polemiche quella di Vittorio Feltri che in un lungo articolo spiega che oggi "il maschio è la vera vittima del sessismo". Si parla naturalmente dell'indagine a carico di Leonardo Apache La Russa, figlio del presidente del Senato Ignazio La Russa, accusato da una ragazza di violenza sessuale. Una vicenda dai contorni ancora poco chiari e su cui indagano gli inquirenti. Il direttore editoriale di Libero nel suo articolo afferma che il 19enne "è stato accusato da una ragazza di averla stuprata. Può darsi che sia vero, ma il reato va accertato e non solo sospettato su basi fragili". Perché scrive così? Feltri ricorda che "la fanciulla afferma di essere stata drogata. A me risulta che gli stupefacenti vengano assunti volontariamente", e "inoltre la fanciulla in persona si è recata a notte fonda in casa del suo presunto violentatore. Si è spogliata e nuda come un verme si è infilata nel letto del giovanotto. Cosa pensava di fare in quello stato: di recitare il rosario col suo amico? Io a certe stupidaggini non credo", è il commento che chiude l'articolo di Feltri destinato a far discutere dopo le polemiche su Filippo Facci. 

Il tessuto utilizzato per la stampa delle nostre bandiere a vela è un telo nautico 100% poliestere da 120 grammi per metro quadrato, perfetto per assicurare elevata qualità di stampa, lunga durata e ottima resistenza al vento e agli agenti atmosferici. La stampa è monofacciale e viene realizzat... 

In precedenza Feltri afferma che "in tv così come sui giornali divampa la criminalizzazione del genere maschile, che sembra composto da soggetti incapaci di tenere l’uccello nelle mutande e pronti ad approfittare di qualsiasi donna si presenti indifesa alla prima occasione". Una "rappresentazione viziata dalla cultura di sinistra che difende solo i maschi omosessuali", argomenta il direttore che rimarca: "si è innocenti fino al terzo grado di giudizio. Eppure, nei casi di presunto stupro, si è colpevoli soltanto perché una donna si è dichiarata vittima".

Insomma, è un "sessismo rovesciato", commenta Feltri, "se per la parità siamo, e lo siamo tutti, sarebbe ora che il genere femminile si assumesse le sue responsabilità e con questo non intendo sostenere che una ragazza la violenza sessuale se la vada a cercare o se la sia meritata, lungi da me l’esprimere un concetto tanto primitivo e mostruoso. Però converrete che, quantunque l’uso e l’abuso di alcol e droghe da parte della presunta vittima non costituiscano un’attenuante a carico del presunto autore del presunto delitto, bensì un’aggravante, in quanto lo stato di alterazione implica che il presunto reo abbia approfittato della condizione di debolezza altrui, è evidente che, se una ragazza si stordisce introducendo determinate sostanze, sarà più agevole che ella si ritrovi in situazioni quantomeno spiacevoli". Affermare che tutti "i maschi siano tutti porci e le femmine tutte sante" è "semplicistico" e "ipocrita", perché "il diritto non distingue tra maschio e femmina, esiste la persona".

Estratto dell’articolo di Irene Famà per “la Stampa” martedì 4 luglio 2023.

Ettore Treglia, cinquant'anni portati male, con una dipendenza dall'alcol, è stato trovato morto il 5 aprile 2021. Accasciato sulla poltrona della casa in cui viveva con la moglie. E no, lei non l'ha ammazzato. Finita sul banco degli imputati con l'accusa di averlo strangolato, ieri Gaia Prencipe è stata assolta perché il fatto non sussiste.

In aula, davanti alla Corte d'assise, si è discusso un giallo di tradimenti, rancori, bugie. Ettore, poche ore prima del decesso, scrive all'amante: «Se mi trovano morto, chiama la polizia. È stata mia moglie».

Viene trovato cadavere davanti alla televisione. «Morte naturale» per il medico del 118. Omicidio per il pubblico ministero Paolo Cappelli, che dopo aver visto quel messaggio sospende i funerali e dispone un'autopsia.

Accuse e recriminazioni si incrociano. Di prove certe, evidenti, «scientifiche» ce ne sono pochissime. Per una questione tecnica, l'esito dell'esame autoptico viene dichiarato nullo. E così restano i periti delle parti che si pronunciano su foto e vetrini. Ognuno con le sue valutazioni e le sue ipotesi. 

[…] «La Corte ha affermato nel caso concreto il principio costituzionale del giusto processo e della presunzione di innocenza».

Innocenza che Gaia Principe, davanti ai giudici, ha ribadito più volte: «Non ho ucciso mio marito». Quella sera, è vero, avevano litigato.

«Lui voleva un rapporto sessuale, io l'ho respinto. Era ubriaco, come sempre. È caduto sulla poltrona. Quando sono andata a dormire era ancora vivo». E l'altra donna? L'amante? «Sapevo della sua esistenza. L'ho sempre saputo. Ad un certo punto le proposi anche di condividere la relazione con Ettore, di averlo entrambe. E ci sentivamo per sapere se stava bene, se beveva, se aveva dei problemi». 

Il pubblico ministero, che aveva chiesto la condanna all'ergastolo, la incalza. Perché, dopo aver trovato morto suo marito, ha chiamato l'amante e l'ha aggredita?

Perché ha utilizzato proprio quella frase: «Vuoi sapere com'è morto? È colpa tua.

L'avrai sempre sulla coscienza». Gaia Prencipe non si scompone. «Sono stata sempre diplomatica, ma quella mattina, è vero, la chiamai e la insultai in modo pesante.

Nel pomeriggio, poi, l'ho contattata di nuovo per scusarmi». […] Il pubblico ministero parla di «gelosia ossessiva». Snocciola i messaggi inviati dall'uomo all'amante: «Ha provato a strangolarmi», «Mi sta prendendo a botte». Gaia Prencipe ribatte. Racconta quel matrimonio, una ventina di anni fa.

E la malattia di Ettore, che nel 2021 scopre di avere un tumore alla gola. «Diventa debole, fatica ad alimentarsi. Il suo atteggiamento è aggressivo, inizia a bere». Poi una vacanza in Puglia, l'incontro con una vecchia fiamma. «Sapevo tutto. E le liti, tra noi, erano accese. Spintoni, schiaffi», dice Gaia Prencipe. «Ma no, non l'ho ucciso».

Mantide della Brianza condannata a 16 anni e 5 mesi. E lei accoglie la «stangata» con un sorriso. Federico Berni su Il Corriere delle Sera giovedì 7 dicembre 2023.

Tiziana Morandi era accusata di 21 reati,  dalla rapina al procurato stato di incapacità. Il giudice è andato oltre la richiesta del pm: «Se non è morto nessuno è solo un caso». La difesa annuncia il ricorso: «Chiederemo la perizia psichiatrica»

La sentenza l'ha incassata senza battere ciglio, anzi con un sorriso al suo difensore,  pensando forse all'eventuale processo d'appello, nel quale cercherà di ribaltare la «stangata» subita in primo grado giovedì dal tribunale di Monza: 16 anni e cinque mesi, quasi 11mila euro di multa, e tre anni di libertà vigilata,  una volta espiata la pena. 

Il collegio presieduto dal giudice Patrizia Gallucci è andato anche oltre le richieste di condanna per Tiziana Morandi, la cosiddetta «mantide della Brianza». «Che in questa vicenda non sia morto nessuno è solo frutto del caso», aveva affermato il pm Carlo Cinque durante la requisitoria, che per l’imputata aveva chiesto la condanna a 15 anni. La 48enne Tiziana Morandi è accusata di aver narcotizzato nove uomini, versando di nascosto dei tranquillanti nelle bevande che offriva loro dopo averli conosciuti via Facebook, proponendosi come esperta di «massaggi rilassanti», oppure approcciandoli nei bar dei paesi del Vimercatese. Lo scopo, secondo il pubblico ministero, era quello di derubarli di somme di denaro, oggetti personali e carte di credito. Accuse che sono valse all’imputata il soprannome di «mantide della Brianza». 

La donna di Roncello, piccolo comune in provincia di Monza, è imputata di 21 capi d’accusa, per presunti reati di rapina, lesioni, detenzione di sostanze stupefacenti, indebito utilizzo di carte di credito, e procurato stato di incapacità. I fatti contestati risalgono all’estate del 2021. Morandi è detenuta al carcere di San Vittore dalla fine di luglio 2022, dopo le indagini condotte dai carabinieri della compagnia di Vimercate, che avevano raccolto le denunce di uomini di tutte le età, dai 27 agli over 80, finiti al pronto soccorso per ingestione di sedativi. 

I primi fascicoli arrivati in procura rischiavano di essere archiviati, ma quando le denunce hanno cominciato a crescere, l’inchiesta ha preso forma. In aula sono state sentite persone che si sono messe alle guida in stato di semi incoscienza, altre cadute dalla bicicletta, o che sono andati a sbattere in macchina; anziani drogati, vittime che si sono riprese dopo essere rimaste stordite per giorni. L’unica parte civile, assistita dall’avvocato Barbara Giulivi, è un ventottenne di Trezzo sull’Adda (che ha ottenuto il diritto al risarcimento): dopo un incontro con la Mantide si è ritrovato privo di sensi al volante, andando a sbattere con l’auto contro l’ingresso di una villetta, nel cortile dove di solito, come emerso successivamente,  giocavano dei bambini.  L'avvocato difensore Angelo Leone, subentrato a processo già in corso, ha annunciato ricorso in appello: «Insisteremo perché la mia assistita venga sottoposta a perizia psichiatrica, per valutare la sua capacità di stare in giudizio, ed eventualmente la capacità di intendere e volere al momento dei fatti». 

Estratto dell’articolo di Federico Berni per il “Corriere della Sera” il 2 giugno 2023.

[…] Le vittime della «mantide brianzola» raccontano le loro esperienze (e i traumi) subiti dopo l’incontro con Tiziana Morandi, la 48enne accusata di aver narcotizzato una decina di uomini, versando dei tranquillanti nelle bevande che offriva dopo averli conosciuti con varie scuse, e molte bugie. 

Le testimonianze ieri di fronte ai giudici di Monza, dove la donna […] è imputata di 21 capi d’accusa, per presunti reati di rapina, lesioni, detenzione di sostanze stupefacenti, indebito utilizzo di carte di credito, e procurato stato di incapacità, risalenti all’estate del 2021. […] 

«Dopo aver bevuto una camomilla ha iniziato a girare tutto, sono riuscito solo a stendermi sul divano e poi mi sono trovato in ospedale», ha riferito un 85enne brianzolo […]. «È successo a casa mia. C’erano tre tazze di camomilla, ma lei non ha bevuto nulla. Mio figlio pensava fossi morto. In ospedale mi hanno trovato i tranquillanti nel sangue, ma io prendo solo farmaci per il cuore».

Al ritorno a casa, si accorge che gli manca la catenina d’oro «con una croce in oro bianco che mi aveva regalato mio padre e due medagliette di quando correvo in bici», e la fede nuziale al dito. Il racconto è finito tra le lacrime: «Mi sono serviti mesi per riprendermi, potevo morire». 

Un altro pensionato, ultraottantenne, l’ha incontrata per caso in piazza: «L’ho invitata a mangiare una pizza... sono un uomo solo [...] ma l’ho fatto senza malizia. Quella ce l’ha messa lei. Mi ha offerto una limonata e da lì in poi non ho capito più niente». Il tutto per rubare cinquanta euro che aveva nel portafogli. 

Un cinquantenne [...] di Legnano l’avrebbe conosciuta via Facebook. Al primo appuntamento vanno al cinema: «Siamo andati a vedere un film di 007 in un multisala. Lì mi ha offerto una bibita. Ho ripreso conoscenza all’ospedale di Vimercate, dove mi hanno detto che avevo abusato di benzodiazepine».

Ha 29 anni, invece, l’unica vittima che si è costituita parte civile: «A giugno di due anni fa sono andato a casa sua per un massaggio. Non volevo niente più di quello. Dopo essermi tolto la maglietta, non so cosa sia successo. Mi hanno raccontato che avevo avuto un incidente; mio padre, che era in giro, mi ha trovato per caso privo di sensi che venivo caricato sull’elisoccorso. Io non ricordo nulla».

Estratto dell’articolo da milano.repubblica.it il 5 giugno 2023. 

Il suo aspetto, e non solo per l'ovvia difficoltà della detenzione in carcere ma anche per il massiccio ricorso all'uso di filtri sui social, è molto diverso da quello delle foto che le sono valse il soprannome di "Mantide della Brianza".

Ed è la prima volta che Tiziana Morandi è comparsa in aula, nel tribunale di Monza dove si è aperto il processo che la vede imputata per rapina, lesioni, detenzione di sostanze stupefacenti, indebito utilizzo di carte di credito, procurato stato di incapacità e in definitiva di 21 capi di accusa per fatti risalenti all'estate del 2021 che si riassumono con l'aver narcotizzato e derubato (almeno) una decina di uomini di tutte le età dopo aver preso contatto con loro soprattutto sui social, dove appunto ha una galleria di foto in cui appare levigatissima e più giovane dei suoi 47 anni.

A Monza quindi sono iniziate le testimonianze degli uomini vittime della 47enne di Roncello, in Brianza. Come un 84enne che ha raccontato come la donna si sia presentata a suo figlio come una dottoressa che raccoglieva soldi per i bambini degli ospedali e che aveva promesso all'uomo - che ha un amministratore di sostegno - un lavoro. 

[…] un 85enne che ha detto di aver conosciuto Tiziana Morandi al bar - "Sono un uomo solo, l'ho fatto senza malizia" - e di essere poi andato a cena a casa sua: non la camomilla, ma una limonata e poi il risveglio in ospedale, con il portafogli alleggerito di 50 euro. Un po' di più, 150 euro, quello che la “mantide” avrebbe sottratto a un 52enne conosciuto su Facebook: cinema e poi una cena […] Tutte accuse negate dalla donna, che ha già più volte cambiato avvocato. L'ultimo della serie ha chiesto, ottenendo un rifiuto, una perizia ipotizzando una infermità mentale.

Estratto dell’articolo di Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 10 marzo 2023

Dati del Viminale: nel 1990 gli omicidi in Italia furono 3.012, nel 2007 furono 632, l’anno scorso 309. […] esiste […] una giornata (l’8 marzo) in cui rilevare che una parte minoritaria di questi morti sono donne. E per farlo qualcuno spara cazzate.

 […] nessuno riporta (mai) che «nel 2022, tra i delitti commessi in ambito familiare, un terzo dei casi di uccisioni di donne si collocano nel quadro del rapporto genitori/figli» (dati Viminale) mentre in Italia negli ultimi diciotto anni (dati Eures) «il figlicidio ha contato quasi cinquecento vittime... In particolare, le madri sono autrici della quasi totalità degli infanticidi censiti: 35 sui 39 complessivi».

Dagospia il 15 Gennaio 2023. Riceviamo e pubblichiamo:

Carissimo Dago,

Leggendo il tuo titolo sulle accuse di molestie usate come armi contro gli uomini, avrei da aggiungere un altro aspetto della società che abbiamo creato che fa schifo.

 Sono stato per anni con una donna che quando arrabbiata mi tirava schiaffi. Oppure mi svegliava nel cuore della notte urlandomi "uomo di mer*a" e ogni altro genere di insulto.

O minacciava di perseguitare telefonicamente i miei parenti. O un giorno mi diceva "questa è casa nostra" e il giorno dopo mi ci buttava fuori, ben sapendo che avevo lasciato la mia famiglia a 600 km di distanza per stare con lei. Dirai "bravo pirla che ci sei stato". E me lo dico anche io...adesso.

Ma il punto delle relazioni abusive è che quando ci si è dentro si riesce sempre a giustificare tutto. Purtroppo sulla mia pelle capisco le donne che restano con i mariti che le picchiano: sono questioni psicologiche e di manipolazione profonde che non possono essere risolte con "dovevi andartene LOL".

 Un giorno, ramingo dopo le ennesime botte e l'ennesima cacciata di casa, decido di cercare aiuto. Prima di rivolgermi alle "istituzioni" provo i numeri di telefono di centri antiviolenza etc. Nessuno di questi si occupava di violenza nel caso fosse un uomo a subirla: alcuni accettavano uomini violenti che volessero cambiare, ma nessuno si occupava di uomini nella mia situazione.

Prendo il coraggio di chiamare direttamente il numero istituito dal ministero (1522).

Mi risponde una signorina che mi dice testualmente  "Lei è cittadino italiano? Ha tutti i diritti? Allora vada da polizia o carabinieri: io ho 5 chiamate in attesa, arrivederci".

Come direbbe il poeta, bella scoperta del ca**o.

 Quel che è peggio, è che anche una persona con esperienza nei servizi sociali mi ha detto che questo sarebbe probabilmente l'atteggiamento del giudice se dovessi portare la cosa in tribunale "il giudice ti sorride e ti dice sei grande e grosso, perché non hai preso la porta".

 Questa non è uguaglianza, non è stato di diritto: è una società a due velocità che crea una sottoclasse -uomini- che deve subire in silenzio in nome di non si sa quale peccato originale. Scusami per la lunghezza,

Semper tuus,

Estratto dell'articolo da lastampa.it il 2 marzo 2023.

Da tronista a stalker. Federica Aversano, 30 anni, è stata denunciata per stalking, molestie e violenza, dall'ex compagno, dal quale ha avuto un bimbo di quattro anni. La Aversano ora dovrà comparire davanti al sostituto procuratore di Santa Maria Capua Vetere, in provincia di Caserta, Carmen D'Onofrio.

La vittima, ex compagno della donna dopo una storia durata sei anni, è anche il padre del bambino. Secondo quanto ha denunciato l'uomo, l'ex tronista lo avrebbe perseguitato con continue telefonate anche notturne per chiedere denaro. […]

La donna, che oggi fa l’hostess e l’influncer, è stata interrogata, alla presenza dei suoi difensori di fiducia […]

DAGONEWS il 2 marzo 2023.

Ai “Fatti Vostri”, ospite di Salvo Sottile, parla Domenico Campanile, l’uomo che a Napoli è stato attirato in una trappola dalla ex moglie e dalla ex fidanzata , preso a pugni e ripreso con un telefonino dalla ex suocera.

 Il “branco” lo ha prima picchiato e poi ha pubblicato il video sui social per umiliarlo. Lui è sfuggito al pestaggio lanciandosi dalla finestra, dopo aver strenuamente resistito a 20 minuti di calci e pugni.

Loro mi hanno picchiato per dimostrare a tutti che non sono un uomo – ha raccontato Campanile alla trasmissione di Rai2 -. Non ho reagito perché non volevo che mio figlio un giorno vedendo quel video sapesse che avevo alzato una mano contro una donna. Sono contro ogni forma di violenza”

(ANSA il 2 marzo 2023) Una donna di 34 anni, keniota, è stata arrestata dai carabinieri per aver accoltellato suo marito, italiano di 76 anni, ieri sera ad Arcore (Monza). È stata lei stessa a chiamare i soccorsi, dicendo al telefono: "ho accoltellato al petto mio marito". Quando i carabinieri sono arrivati sul posto, hanno trovato l'uomo sul divano, con una profonda ferita al centro del torace. Trasportato all'Ospedale San Gerardo di Monza, l'uomo ha spiegato che la moglie, a seguito di una discussione, dopo aver bevuto parecchio alcol, aveva afferrato un coltello da cucina e gli si era scagliata contro.

L'arma è stata ritrovata dai militari sul tavolo della cucina della coppia, ancora intriso di sangue. Il 76 enne è stato infine ricoverato in gravi condizioni ma non in pericolo di vita. La moglie, risultata positiva all'alcol test, con un tasso di 2,07 g/l, è stata arrestata con l'accusa di tentato omicidio.

Estratto dell'articolo di Claudio Tadicini per corriere.it il 5 maggio 2023.

Trova la compagna sul divano di casa insieme a un altro uomo, uno dei suoi più cari amici, e la picchia procurandole un livido sul braccio. Ma questo, secondo la gup del Tribunale di Lecce, Alessandra Sermarini, non equivale ad un'aggressione. Piuttosto ad «una reazione poco garbata» e ad «una reazione probabilmente sopra le righe, ma che si spiega nel contesto di degrado in cui i fatti sono maturati».

E' quanto scrive la gup del Tribunale salentino, che per questo ha assolto un 28enne  finito sotto processo - con rito abbreviato - con le accuse di maltrattamenti in famiglia e lesioni personali aggravate: era denunciato ai carabinieri lo scorso gennaio dalla madre di suo figlio, per averla aggredita dopo averla trovata assieme all'amico, appunto, sul divano di casa. 

Le motivazioni

«Una sola ecchimosi, per giunta al braccio come riportato in foto e nel referto medico, poteva derivare da mille ragioni e anche da un semplice involontario strattonamento e comunque ben lungi dall’integrare una forma di aggressione fisica», si legge nelle motivazioni della sentenza.

[…]

Per il Tribunale di Lecce, «il fatto non sussiste», anche perché la donna - oltre ad avere ritirato la denuncia - rifiutò di essere ospitata in un appartamento protetto, preferendo restare in casa assieme al compagno. […]

Lecce, trova la compagna a casa con un altro e la picchia: assolto fidanzato violento. Per il giudice, però, non può essere condannato. Accade in un Comune del Salento, poco distante dalla città capoluogo, dove la denuncia di una donna è praticamente caduta nel vuoto. VINCENZO SPARVIERO su La Gazzetta del Mezzogiorno il 5 Maggio 2023

L’ha massacrata di botte dopo averla sorpresa sul divano con... l’amico del cuore. Per il giudice, però, non può essere condannato. Accade in un Comune del Salento, poco distante dalla città capoluogo, dove la denuncia di una donna è praticamente caduta nel vuoto.

«Una sola ecchimosi al braccio poteva derivare da mille ragioni ed anche da un semplice involontario strattonamento e comunque lungi dall’integrare una forma di aggressione fisica». Questo è quanto scritto nella motivazione della sentenza di assoluzione. Un’arrabbiatura, insomma, in qualche modo... giustificabile o - comunque - non perseguibile. È andata decisamente bene per un 28enne che è stato assolto dai reati di maltrattamenti in famiglia e lesioni personali aggravate. Per il giudice «il fatto non sussiste», come avevano sottolineato i suoi avvocati difensori, Ada Alibrando e Valeria Caroli. L’aggressione risale al 5 gennaio scorso. L’imputato, tornando a casa forse in anticipo rispetto alla previsioni, sorprende la compagna e il suo «migliore amico» adagiati sul divano in atteggiamento quanto meno... sospetto. A quel punto, stando alle accuse, il giovane si scaglia contro la convivente, ferendola alle braccia. Ecchimosi refertate poi al pronto soccorso tre giorni dopo aver presentato denuncia, assistita dall’avvocato Walter Gravante.

Per la giudice, quella reazione era stata «poco garbata» e ancora «una reazione probabilmente sopra le righe, ma che si spiega nel contesto di degrado in cui i fatti sono maturati». A quanto pare, di aggressioni, insulti e minacce di lanciarle addosso dell’acido negli anni la donna ne avrebbe subìto tanti. La convivenza, infatti, sarebbe diventata in qualche modo insostenibile. Aveva raccontato tutto ai militari dell’Arma al momento della presentazione della denuncia dopo l’ultimo episodio. Denuncia poi ritirata contro colui il quale «era pur sempre il padre di suo figlio». La donna aveva spiegato che «non voleva i suoi soldi ma solo che le lasciasse il bambino». Ma è stata ritenuta poco credibile. «Sono numerose le discrepanze che la dichiarazione della persona offesa presenta - è scritto sempre nelle motivazioni -: le aggressioni alle quali la stessa fa riferimento, sostenendo di non ricordare in dettaglio per la datazione nel tempo dei fatti, restano nell’alveo dell’assoluta genericità innanzitutto perché i fatti stessi non sono affatto risalenti ed in secondo luogo perché episodi di maltrattamenti tali da indurre a rivolgersi ai carabinieri devono restare impressi almeno con riguardo a ciò che ha fatto più male”. Gli avvocati difensori dell’imputato hanno anche fatto presente che la donna rifiutò di recarsi nell’appartamento protetto offertole dal centro antiviolenza per non allontanarsi dal compagno. Secondo il giudice, circostanza «alquanto singolare per chi viva un’emergenza quotidiana a causa di vessazioni psicofisiche subite».

«Tutti questi elementi inducono a dubitare fortemente della persona offesa e fanno ritenere che la stessa possa aver vissuto un clima di tensione in famiglia a causa del nuovo interesse per un altro uomo, con il quale ha poi concretizzato una diversa esperienza di vita. E che la denuncia sia stata cagionata da un moto nervoso verso il precedente marito, che era un chiaro ostacolo alla nuova relazione”: sono le conclusioni del Tribunale, che ha così assolto il giovane tradito.

Estratto dell’articolo di Denis Barea per corrieredelveneto.corriere.it il 5 maggio 2023.

Era accusato per minacce, maltrattamenti e calunnia nei confronti della sua ex compagna Jessica, madre di suo figlio, e del padre di lei, Franco Bellei, entrambi residenti a Sulmona, L’Aquila. Ed era finito a processo di fronte al giudice monocratico abruzzese Francesca Pinacchio. Ma l’incubo per Mauro Marin, il castellano che nel 2010 era stato incoronato vincitore del Grande Fratello, è finito. Nei suoi confronti è stata pronunciata una sentenza di assoluzione in quanto il fatto non sussiste.

Le accuse non provate

La formula dell’insufficienza delle risultanze probatorie premia Marin, rinviato a giudizio in quanto - era riportato nel capo d’imputazione - avrebbe attuato dei comportamenti violenti nei confronti della convivente quando questa era in dolce attesa. Fatti che sarebbero successi all’interno dell’abitazione che condividevano, con ripetute aggressioni verbali e insulti. Inoltre, sempre durante la convivenza, Marin avrebbe umiliato continuamente la sua compagna minacciandola con le suppellettili della casa e in qualche occasione l’avrebbe anche spinta contro il muro.

(...) 

La controdenuncia e l'assoluzione

L’ex vincitore del Grande Fratello avrebbe denunciato - a Castelfranco - l’ex suocero di averlo minacciato di sparargli alle gambe e di avergli mostrato un proiettile. Tutto questo, secondo la Procura abruzzese, pur sapendolo innocente. Da qui era scaturita la denuncia per calunnia nei confronti di Bellei, che per quei fatti era stato assolto. Nel corso del procedimento non è emersa la prova né delle minacce né dei maltrattamenti a padre e figlia. E così il giudice Pinacchio ha assolto l’imputato, dopo che l’uomo aveva deposto in aula raccontando la sua versione. Per quanto concerne la calunnia, sempre secondo il giudice, il fatto non costituisce reato, smontando così l’intero castello accusatorio che gli era stato costruito intorno.

Luigi Buccino.

Corbetta, marito e moglie trovati morti in casa. Ipotesi omicidio-suicidio. Cesare Giuzzi su Il Corriere della Sera domenica 5 novembre 2023.

A trovare i cadaveri il figlio della coppia. La donna 47enne avrebbe accoltellato l'uomo nel sonno per poi togliersi la vita

I corpi in camera, nel letto. Accanto un coltello. E moltissime macchie di sangue. Sembra che Luigi Buccino, 54 anni, non abbia avuto il tempo neppure di reagire. Forse è morto sul colpo, quasi senza accorgersi di nulla. Era sotto le coperte, in pigiama. Sua moglie, Vita Di Bono, 47 anni, l’avrebbe colpito nel sonno, mentre lui ancora dormiva. Poi la donna avrebbe di nuovo impugnato il coltello ma stavolta rivolgendolo verso di sé per farla finita. Un’altra coltellata, altro sangue. L’ultimo.

Il figlio maggiore C., 24 anni, per ore aveva cercato di mettersi in contatto con i genitori. Ma nella casa di via Piave a Corbetta non rispondeva nessuno. I telefonini che squillavano a vuoto. Così intorno alle tre del pomeriggio è tornato nell’appartamento, è entrato, ha chiamato i genitori ad alta voce, s’è accorto che poteva essere successo qualcosa di brutto. Poi è entrato in camera da letto e ha trovato i corpi. Inutile la corsa delle ambulanze. Marito e moglie erano morti da ore. Probabilmente dalla prima mattina o dalla notte.

I carabinieri della compagnia di Abbiategrasso e del Nucleo investigativo hanno da subito cercato di capire se dietro al duplice delitto ci potesse essere la mano di un killer poi fuggito. Ma fin dai primi rilievi tutto è apparso chiaro. Nella casa non mancava niente, la porta chiusa dall’interno, nessun segno di forzatura. E poi l’arma usata per uccidere trovata vicino al corpo della donna.

Sono stati poi i parenti a chiarire che dietro quel duplice omicidio poteva invece nascondersi una tragedia familiare. Una tragedia annunciata, forse. Perché la coppia era in fase di separazione, perché i litigi erano continui, perché Vita Di Bono era in cura all’ospedale di Magenta per problemi psichiatrici dopo aver anche tentato il suicidio.

Luigi Buccino era originario di Corigliano Calabro, in provincia di Cosenza. Lavorava come muratore. Lei invece era casalinga, nata a Genova si era trasferita a Corbetta. Si erano sposati 29 anni fa, il 16 ottobre del 1994. Poi la nascita del primo figlio e la sorella, più giovane, che ora convive con il fidanzato. Il 24enne era invece tornato da qualche tempo nella casa di via Piave perché il suo appartamento è in fase di ristrutturazione.

Sembra che Vita Di Bono temesse tradimenti da parte del marito. Alcuni mesi fa, dopo l’ennesima lite, si era anche allontanata da casa per un certo periodo. Poi il tentativo di suicidio e le cure psichiatriche all’ospedale di Magenta. Ma l’ossessione per quel rapporto che sembrava ormai finito non l’ha abbandonata. La conferma ai carabinieri guidati dal colonnello Antonio Coppola è arrivata dagli stessi parenti. «Una famiglia conosciuta a Corbetta, siamo una piccola comunità — dice il sindaco Marco Ballarini —. Ora è solo il tempo del dolore di pensare allo strazio per i due figli». 

Vita Di Bono, chi è l'assassina di Corbetta: la famiglia felice nelle foto sui social e l'ossessione di salvare il matrimonio finito. Cesare Giuzzi su Il Corriere della Sera lunedì 6 novembre 2023.

Casalinga, 47 anni, originaria di Genova, l'anno scorso era stata ricoverata a Magenta dopo un tentativo di suicidio

Un’ossessione. Salvare il matrimonio, tenere in piedi quella storia che ormai in piedi non ci stava più. E poi i sospetti, i continui litigi con il marito, le altre donne e le «fughe» da casa quando pensava che davvero sarebbe riuscita a chiudere con quel rapporto. Invece no, non era così. E ogni volta i litigi ricominciavano, i sospetti diventavano ossessioni che non facevano dormire la notte. Più di un anno fa, Vita Di Bono, 47 anni, aveva anche tentato di farla finita. Era stata ricoverata in ospedale, a Magenta, poi un percorso di cure psichiatriche che sembrava, per un po’, aver funzionato. 

Invece all’alba di domenica 5 novembre, Vita Di Bono ha impugnato un coltello, ha colpito alla schiena il marito Luigi Buccino, 54 anni, che ancora dormiva sotto le coperte poi lo ha sgozzato con un altro colpo. Infine ha preso il coltello e la rivolto contro di sé. Non è ancora chiaro se anche la sera prima ci fossero stati litigi, le discussioni però erano all’ordine del giorno. Luigi Buccino diceva che la moglie era «gelosa», che lo controllava di continuo. In realtà sembra che negli ultimi tempi il loro rapporto fosse ormai terminato e che l’uomo avesse una nuova relazione di cui molti a Corbetta erano a conoscenza. Voci, raccontate da vicini e amici della coppia, sulle quali ora verranno fatte verifiche da parte dei carabinieri di Abbiategrasso e del Nucleo investigativo per ricostruire con esattezza quando e perché è maturato l’omicidio-suicidio. Le prime indagini hanno escluso mani esterne e clamorosi colpi di scena. 

Una tragedia familiare covata e consumata nell’appartamento di via Piave 50. Luigi Buccino lavorava come muratore, era arrivato molti anni fa dalla Calabria. Vita Di Bono invece era originaria di Genova, faceva la casalinga. Sui social di entrambe le vittime c’è il racconto di una famiglia felice. Ci sono le foto con i figli, i compleanni, gli anniversari di matrimonio. Sulla pagina della donna ci sono le foto con i due figli e il marito. Nelle immagini sono tutti sorridenti. 

Le indagini dovranno anche capire se la tragedia fosse evitabile. Se, quindi, qualcuno tra coloro che avevano in cura la 47enne ha sottovalutato le sue condizioni e non ha colto i segnali che hanno portato all’omicidio-suicidio. L’autopsia sui corpi chiarirà anche se prima di colpire Vita Di Bono abbia assunto medicinali o psicofarmaci. È stato il figlio 24enne a ritrovare i corpi, intorno alle 15 di domenica, senza vita nella camera da letto. Per tutta la mattina ha cercato di contattare i genitori senza mai ricevere risposta.

All’inizio, ma solo per pochi attimi, s’è pensato all’aggressione da parte di uno sconosciuto. Poi i sospetti su Vita Di Bono si sono fatti certezze. La sua è stata un’azione meditata, organizzata. Un piano, come direbbero i detective delle serie tv. O forse soltanto l’ultimo atto di un’ossessione diventata mortale. 

Salvatore Bramucci.

Omicidio Bramucci a Soriano del Cimino, arrestata la moglie. Indicò ai killer l'ora di uscita di casa del marito. Valeria Costantini su Il Corriere della Sera martedì 26 settembre 2023.

Il 58enne venne ucciso il 7 agosto 2022 a Soriano nel Cimino. Le indagini dei carabinieri hanno condotto fino a Elisabetta Bacchio, ritenuta ideatrice dell'assassinio. In carcere già la cognata e i due esecutori del delitto

Elisabetta Bacchio è stata arrestata per l’omicidio del marito, il 58enne Salvatore Bramucci, freddato il 7 agosto 2022 a Soriano nel Cimino, in provincia di Viterbo. Un agguato premeditato, pianificato nei dettagli, come emerse all’epoca, con un commando ad attendere la preda a pochi passi dalla sua abitazione (qui la bella vita sui social di uno dei killer), sulle strade silenziose circondate dai noccioli della Tuscia. Per quel brutale delitto le indagini condotte dai carabinieri del nucleo investigativo di Viterbo, coordinati dal sostituto procuratore Massimiliano Siddi, portarono già all’arresto della cognata della vittima, Sabrina Bacchio e di due romani, Lucio La Pietra e Antonio Bacci, considerati gli esecutori materiali dell’assassinio. Ora anche la moglie della vittima, pregiudicato per usura, è finita in carcere. 

Un agguato in campagna

Cinque furono i colpi sparati intorno alle 8.30 del mattino contro la Chevrolet Captiva guidata da Bramucci, due direttamente in pieno volto: il gruppo di fuoco aveva già tentato, secondo gli inquirenti, almeno altre due volte di programmare l’omicidio. I killer avevano anche effettuato dei sopralluoghi, studiato persino le possibili vie di fuga: a bordo di una Smart bianca e di una Giulietta grigia – riprese dalle telecamere della zona – il gruppo aveva atteso l’uscita dalla propria abitazione del 58enne, bloccandogli la strada e sparando i numerosi colpi. L’inchiesta aveva subito portato a una “talpa” interna alla famiglia in grado di fornire agli assassini precise informazioni sugli spostamenti di Bramucci. Grazie ai tabulati telefonici e alle app che rintracciano i cellulari, i carabinieri avevano ricostruito rapidamente lo scenario del delitto. Numerosi i contatti della cognata Sabrina e il Bacci, detto “er marchese”, persino la sera prima del delitto tra i due ci furono tre telefonate. 

Il codice al telefono per coordinare il delitto

«Nino, mi fai sapere per il motore per mia suocera, calcola che non esce più alle 9 ma alle 8. Capito? Per organizzarmi», diceva la Bacchio al killer indicandogli l’orario anticipato di uscita di Bramucci, con cui la donna risultava in pessimi rapporti, tanto da aver anche sporto denuncia contro il cognato. Gli arresti dei due romani, originari di Guidonia, erano arrivati a poco più di un mese dal delitto, seguiti da quello della cognata. La moglie Elisabetta Bacchio invece, secondo chi indaga appare come ideatrice e mandante dell’omicidio del coniuge, «la fonte originaria delle preziose informazioni necessarie al gruppo di fuoco per la pianificazione dell'azione delittuosa». I due gestivano un canile in zona, Bramucci era ai domiciliari perché condannato per usura ma aveva facoltà di muoversi alcune ore al giorno. Era stato arrestato nel 2020: trovava insieme a un complice imprenditori in difficoltà per sottometterli a grossi prestiti e chi non riusciva a pagare, veniva minacciato o peggio.

Justine Jotham.

La scrittrice Justine Jotham uccide il marito con decine di coltellate: la confessione dopo avere inscenato una rapina. Stefano Montefiori su Il Corriere della Sera venerdì 22 settembre 2023. 

La procura di Dunkerque, in Francia, ha messo la donna in custodia cautelare. Justine Jotham è una celebrità locale, nota per i libri per l’infanzia e per la sua attività di consigliera comunale

Justine Jotham, 37 anni, docente di comunicazione all’università di Dunkerque e scrittrice di libri per l’infanzia, nella notte tra domenica e lunedì, con in braccio la figlia di 20 mesi, è fuggita dalla villetta dove abitava con il marito Patrice Charlemagne, 51 anni, a sua volta docente universitario di tedesco e olandese. Ha chiamato la polizia alle quattro del mattino denunciando una rapina, spiegando di essere riuscita a scappare mettendo in salvo la figlia mentre due banditi aggredivano il marito. 

Quando sono arrivati, gli agenti hanno visto il corpo senza vita dell’uomo, con i segni di decine di coltellate. Dopo l’interrogatorio, la donna ha confessato: nessuna rapina, è stata lei a uccidere il marito. Justine Jotham è una celebrità locale, nota per i libri, per il lavoro all’università e per la sua attività di consigliera comunale, cominciata nel 2020 dopo essere stata eletta nella lista del sindaco di Dunkerque, Patrice Vergriete, oggi ministro per gli Alloggi nel governo di Elisabeth Borne. 

La sua versione ha retto solo qualche ora. Gli investigatori hanno trovato il cadavere di Patrice Charlemagne nella camera del primo piano, accanto a due coltelli insanguinati, un paio di guanti, una torcia e un computer. «Dopo l’esame delle testimonianze e delle constatazioni tecnico-scientifiche» la procura di Dunkerque ha posto la donna in custodia cautelare, contestandole alcune incoerenze nelle sue dichiarazioni. Poi, Justine Jotham presentava una ferita nella mano sinistra che corrispondeva a un taglio sul guanto ritrovato sulla scena del delitto. Inoltre, l’analisi dei telefoni ha mostrato forti tensioni all’interno di una coppia che, dietro la facciata di benessere e rispettabilità, attraversava un momento molto difficile. 

Justine Jotham aveva incontrato Patrice Charlemagne nel 2014, quando lei faceva la giornalista per il giornale locale le Phare Dunkerquois e gli aveva dedicato un ritratto a tutta pagina intitolato «L’uomo che coltivava la passione per le lingue».

Maurizio Tessari.

Estratto dell’articolo di Francesco Sergio per corrieredelveneto.corriere.it il 21 giugno 2023.

Fragile e gelosa; talmente gelosa da diventare irascibile e violenta. Non proprio un’insospettabile, a quanto risulterebbe dai racconti di chi conosce Vania Bonvicini, la 49enne di Arcole che ieri a San Bonifacio ha accoltellato a morte il cugino di secondo grado e da qualche tempo compagno, Maurizio Tessari, di 46 anni, nella casa dove era ospite al civico 3c di via Aleardi, zona tranquilla di villette a schiera fra i campi nella frazione di Prova. 

Sembra che i due da qualche tempo avessero intrecciato una relazione molto «chiacchierata», per via della parentela, fatta di turbolenze, con liti furibonde ben note ai vicini di casa. Curiosamente molti dei conoscenti della donna, per il resto sempre al corrente sulla sua vita sentimentale e sugli uomini con cui aveva intessuto relazioni negli anni, non sapevano nulla di quest’ultimo legame. 

La vittima

L’ultima lite verso le 14 di martedì 20 giugno, sfociata in tragedia, con la donna che ha afferrato un coltello in cucina e pugnalato a morte il 46enne colpendolo alla schiena perforandogli irrimediabilmente il polmone.

La notizia si è sparsa velocemente in paese, dove soprattutto Maurizio Tessari era molto conosciuto. I vicini lo descrivono come una persona gentile, anche se spesso beveva un po’ troppo, come pare faccia anche Vania. Imbianchino di professione, - nel 2021 aveva registrato una partita Iva con la dicitura «Restauro Solutions», una ex moglie, Marzia, e un figlio non ancora maggiorenne, Tessari, per gli amici «Icio», conduceva una vita senza lazzi e frequentava abitualmente il Bar Capriccio di via Prova. «Maurizio era un brav’uomo, forse con qualche debolezza – racconta l’ex moglie – Ci siamo separati dopo 14 anni di matrimonio e un figlio che ora è sconvolto. Dallo scorso anno quella donna si era trasferita qui». 

L'assassina e l'investimento dell'ex marito

Sposata era stata anche Vania Bonvicini, con un uomo di Arcole che adesso i conoscenti descrivono come «sconvolto» e con cui ha avuto due figli che hanno poco meno di trent’anni. Proprio ad Arcole Vania era nata nel settembre di 49 anni fa e lì vivono i genitori e il fratello. 

E proprio quel matrimonio naufragato, oggi, a seguito di quanto accaduto in via Aleardi, torna alla mente dei molti che li conoscono, soprattutto per un particolare inquietante: quell’incidente avvenuto nell’aprile del 2017 sempre a San Bonifacio, tra via Camporosolo e via Verdi, nel quale la donna al volante di una Citroen aveva investito l’ex marito in moto con la nuova compagna, per poi carambolare con la macchina contro la vetrina di un negozio di abbigliamento sfondando la vetrata. Per recuperarla, sono dovuti intervenire i vigili del fuoco, che l’hanno estratta dall’abitacolo dove era rimasta bloccata. 

Gelosia e spirale negativa

Un sospetto, quello del tentato omicidio del suo ex marito, che secondo un’amica, che ci parla a condizione di rimanere anonima, non sarebbe poi così sospetto: «Vania era una donna gelosissima, soprattutto dell’ex marito – dice – Quella volta lo aveva detto: “Adesso faccio una strage” e si era messa al volante dopo aver bevuto parecchio, anche se poi lei aveva avuto la peggio». Sempre secondo la conoscente della donna, ora accusata di omicidio volontario, quella non era stata la prima volta che Vania Bonvicini aveva tentato di fare del male all’ex marito. In precedenza, infatti, aveva fatto un falò in casa con i suoi vestiti, un’altra volta gli aveva rigato la macchina. L’episodio di aprile 2017 è stato, però, apparentemente uno spartiacque che l’ha segnata: ha, infatti, avuto la peggio nell’incidente, con un decorso sia per quanto riguarda il recupero fisico sia dal punto di vista legale durato diversi mesi, oltre a tutte le conseguenze legali e giudiziarie del caso 

(...)

Fausto Baldoni.

Estratto dell’articolo di Federica Serfilippi per “il Messaggero” il 5 giugno 2023.

I litigi erano così frequenti e burrascosi che le urla arrivavano fino alle finestre del palazzo di fronte. «Bisticciavano sempre, in continuazione» è il ritornello dei residenti di via Romualdo Castelli, una stradina alle porte del centro di Fabriano. L'ultima, fatale, lite c'è stata nella tarda mattina di sabato. 

È in camera da letto che s'è consumato l'omicidio di Fausto Baldoni, 60enne operaio della Gls, azienda di logistica con sede ad Ancona. Fatali sono stati dei colpi inferti alla testa con un oggetto contundente, probabilmente una abat jour. Per la procura, a scagliare i fendenti è stata la compagna, la 50enne Alessandra Galea, madre di due figli (avuti da una precedente relazione) e con un passato da stilista di moda. 

Nonché sorella gemella di Consuelo, arrestata nel luglio del 2014 (e poi dichiarata non imputabile per vizio totale di mente) per aver massacrato con il calcio di un mitragliatore da soft air la mamma 76enne, Maria Bruna Brutti, nella villetta di via Broganelli, sempre a Fabriano. 

Nove anni dopo e, a solo un chilometro di distanza, si è consumata un'altra tragedia, per cui Alessandra è finita nel carcere di Villa Fastiggi di Pesaro alle prime luci dell'alba di ieri, con l'accusa di omicidio volontario. Nei confronti della donna è scattato il fermo dopo l'interrogatorio reso sabato notte nella caserma dei carabinieri di Fabriano, che coordinano le indagini con i colleghi del Nucleo Investigativo di Ancona.  […]

Galea, che è stata vista uscire dal palazzo nel primo pomeriggio con un borsone, è tornata in via Castelli verso le 20, quando ormai sotto casa dell'operaio, al civico 56, c'erano carabinieri, 118 e vigili del fuoco. Avrebbe fatto finta di non aver alcun legame con Fausto. «Ma davvero è morto il signor Baldoni?» avrebbe chiesto ad alcuni vicini. 

Un atteggiamento che ha insospettito gli investigatori, tanto da portare la donna in caserma per un primo interrogatorio. L'appartamento è stato sequestrato. Sulla salma del 60enne verrà eseguita l'autopsia. «Litigavano sempre, si sentivano le urla» dicevano ieri i vicini di casa. «Se non ti sta bene, vattene via» le parole che sentivano dire da Fausto durante i litigi, spesso innescati da motivi economici. L'operaio avrebbe avuto così paura per la sua incolumità da far sparire in casa tutti i coltelli e barricarsi a volte in camera. 

Avrebbe sofferto la personalità prorompente della compagna, disoccupata e con alle spalle due Tso, trattamenti risalenti a poco dopo il delitto della mamma. […]

Estratto dell’articolo di Federica Serfilippi per corriereadriatico.it il 7 giugno 2023.

«Non volevo ucciderlo o fargli del male, mi sono solo difesa respingendo un approccio sessuale». Si è difesa così Alessandra Galea davanti al gip Sonia Piermartini nel corso dell’udienza di convalida del fermo che si è tenuta ieri mattina nel carcere di Pesaro, dove la 50enne è reclusa da domenica mattina con l’accusa di aver ucciso il compagno Fausto Baldoni, nell’appartamento che condividevano in via Castelli 56. 

Al termine dell’udienza, il gip ha deciso di non convalidare il fermo, ma ha comunque disposto la massima misura cautelare prevista: quella del carcere. Sulla decisione avrebbero pesato il pericolo di reiterazione del reato e l’inquinamento probatorio. L’accusa rimane la stessa: omicidio volontario. 

Nel corso del faccia a faccia con il gip, la 50enne ha ripercorso le tappe dello scorso sabato. «Ho reagito a un approccio sessuale non gradito, ma non ho impugnato nessuna arma» il senso delle parole della Galea che, in pratica, si sarebbe difesa a mani nude. Ha negato di averlo colpito alla testa con una lampada. 

Al termine del bisticcio con il 63enne operaio, la donna se ne è andata da casa «perché avevo già in programma di andare a trovare i miei due figli», che vivono fuori dalle Marche. Ma perché non sono stati chiamati i soccorsi? […] 

Diversa la versione della procura, per cui la donna avrebbe colpito Baldoni con una lampada, ritrovata dai carabinieri nell’appartamento. Due i colpi inferti, considerando che sulla testa dell’uomo sono state trovate altrettante ferite. Baldoni, al momento del ritrovamento, versava in una pozza di sangue nel corridoio che conduce alla camera da letto e indossava solo biancheria intima.

Ieri, il medico legale Mauro Pesaresi ha eseguito l’autopsia sul corpo della vittima, all’obitorio dell’ospedale regionale di Torrette. Stando a un primissimo riscontro, l’operaio sarebbe morto per una grave lesione cerebrale. […] 

Rocco Gioffrè.

Estratto dell’articolo di Carlo Macrì per corriere.it il 19 febbraio 2023.

I motivi per i quali ha ucciso, sabato pomeriggio, il suo vicino di casa, Rocco Gioffrè, 75 anni, li sta chiarendo davanti al sostituto procuratore di turno di Cosenza che in queste ore sta interrogando Tiziana Mirabelli, 47 anni. La donna […] si è presentata con il suo legale ai carabinieri, confessando l’omicidio, avvenuto […] in via Montegrappa, […] a poche decine di metri dal Comune.

 La vittima è stata colpita nel proprio appartamento con diverse coltellate e sarebbe morta quasi subito. Tiziana Mirabelli dopo aver compiuto l’omicidio si sarebbe allontanata dall’abitazione dell’uomo e solo domenica mattina si sarebbe decisa di consultare il suo legale che l’ha convinta a costituirsi. La donna […] avrebbe riferito di essere stata più volte oggetto di attenzioni sessuali da parte del pensionato.

Sono note le sue battaglie per i diritti dei lavoratori delle cooperative sociali e, soprattutto, è in prima linea nelle lotte per la risoluzione dell’emergenza abitativa in città. Tiziana Mirabelli ha anche tentato la carriera politica: nel 2016 è stata candidata al consiglio comunale di Palazzo dei Bruzi, […] racimolando però, solo 77 preferenze.

La tragedia a Cosenza. Uccide vicino di casa e si costituisce, è l’attivista Tiziana Mirabelli: “Voleva violentarmi”. Vito Califano su Il Riformista il 19 Febbraio 2023

Tiziana Mirabelli è un volto noto a Cosenza e provincia. Perché impegnata nel sociale e in politica. Si è costituita oggi ai carabinieri dopo aver ucciso il suo vicino di casa a coltellate. Si è presentata con il proprio legale nella sede della Compagnia dei carabinieri della città e ha raccontato di aver reagito a un approccio sessuale.

Mirabelli ha 47 anni, un figlio, e come riporta l’Ansa precedenti per spaccio di sostanze stupefacenti. È impiegata in una cooperativa sociale ma saltuariamente lavora anche da badante. Dona descitta come “appassionata, cresciuta in una condizione disagiata ma impegnata nel sociale e sempre dalla parte dei più deboli”, scrive l’Ansa riportando le parole di conoscenti.

È nota in particolare per le sue battaglie per i diritti dei lavoratori delle cooperative sociali e in prima linea nelle lotte per la risoluzione dell’emergenza abitativa in città. Mirabelli aveva provato anche la carriera politica: nel 2016 si era candidata al consiglio comunale di Palazzo dei Bruzi, nella lista “Adesso Cosenza”, ma aveva raccolto soltanto 77 preferenze.

La vittima si chiamava Rocco Gioffré, aveva 75 anni. L’omicidio si è consumato in casa sua, in via Monte Grappa. L’uomo, al culmine dell’aggressione, secondo il racconto della 47enne, sarebbe stato colpito da diversi fendenti, scagliati con un coltello da cucina, in particolare all’addome e al petto.

Sarebbe morto nel giro di poco tempo. I due condividevano lo stesso pianerottolo. Ad accompagnare questa mattina la donna il suo legale Cristian Cristiano. Secondo quanto ricostruito finora l’omicidio si sarebbe consumato sabato pomeriggio. In queste ore la donna sta fornendo le sue ragioni nell’interrogatorio al sostituto procuratore di Cosenza.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Estratto dell’articolo di Alessia Candito per “la Repubblica” il 20 febbraio 2023.

 Lo ha coperto con lenzuola e teli. Per arginare il sangue che usciva a fiumi, nascondere quel corpo alla vista, forse occultare anche alla memoria di averlo ucciso dopo l’ennesimo approccio. E per giorni ci ha vissuto accanto. Sconvolta, terrorizzata dal suo stesso gesto, paralizzata.

 Solo ieri Tiziana Mirabelli, quarantaseienne di Cosenza, ha deciso di chiedere aiuto e accompagnata dal suo legale, Cristian Cristiano, si è presentata in caserma per raccontare di aver ammazzato a coltellate Rocco Gioffré, pensionato di San Fili che da anni abitava sul suo stesso pianerottolo. «Ha cercato di mettermi le mani addosso, mi sono difesa », ha detto subito ai carabinieri.

 Da lì ha riavvolto il nastro della memoria ed è tornata alla sera di qualche giorno fa.

«Un paio», filtra da fonti investigative. Secondo alcune indiscrezioni invece — ma toccherà all’autopsia confermarlo — addirittura cinque.

 Sul calendario è San Valentino, festa degli innamorati. Rocco Gioffré, quella notte si presenta alla sua porta. Per Tiziana Mirabelli — divorziata, un figlio già grande che non vive con lei in quell’appartamento di Cosenza vecchia — non si tratta di un semplice vicino di casa. Si conoscono da sempre, c’è un rapporto di confidenza che si è cementato negli anni. Ma lui […] più volte già in passato avrebbe tentato di andare oltre. Nulla che la preoccupasse particolarmente, per questo non lo avrebbe mai formalmente denunciato.

Quella sera però le sue avances si sarebbero trasformate in un tentativo di violenza. Inutilmente — ha spiegato Mirabelli — lei avrebbe cercato di sottrarsi, di respingerlo.

Alla fine, per difendersi avrebbe afferrato un coltello da cucina e lo avrebbe colpito più volte all’addome, al torace.

 […] «Era una cosa troppo più grande di me», ha detto alla pm D’Andrea, che con il coordinamento del procuratore capo Mario Spagnuolo dirige l’indagine. «Non sapevo cosa fare». Non ha spiegato perché, né cosa le sia venuto in mente in quel momento. A inquirenti e investigatori ha raccontato di aver trascinato il corpo dell’uomo in una stanza e di aver chiuso la porta per aver il tempo di realizzare davvero quanto successo. Ma ci sono voluti giorni perché si decidesse a chiedere aiuto. Quando i carabinieri sono entrati a casa sua, l’odore di morte aveva invaso già tutto l’appartamento.

[…] Formalmente fermata, la donna è stata portata in carcere. Città nella città, Cosenza vecchia mormora. […] Mirabelli è una faccia nota in quartiere e da anni una presenza fissa quando a scendere in piazza sono i comitati di lotta per la casa. Appassionata, per alcuni irruente, per nulla timida o schiva, non era una che passasse inosservata. […] In passato candidata al consiglio comunale in una lista satellite dei dem, dalle urne aveva rimediato solo una delusione. Era tornata alla piazza e all’attivismo in quartiere […]

Uccide il molestatore e si costituisce solo giorni dopo. Una donna di 47 anni accoltella il vicino di casa di 75: "Ho reagito a un tentativo di violenza". Redazione su Il Giornale il 20 Febbraio 2023.

L'omicidio di San Valentino, confessato tre giorni dopo. Ha accoltellato e ucciso il vicino di casa che l'aveva aggredita tentando di abusarla. Si è costituita ieri presso la sede della Compagnia carabinieri di Cosenza, accompagnata dal proprio avvocato, Tiziana Mirabelli, 47 anni, che ai militari ha raccontato di avere colpito a morte un settantacinquenne, Rocco Gioffré. Il fatto sarebbe avvenuto martedì, il giorno di San Valentino, nell'abitazione della donna, in via Monte Grappa, nella città calabrese.

Al culmine dell'aggressione, la donna avrebbe inferto diversi fendenti contro Gioffrè all'addome e al petto. Poi - sconvolta dall'accaduto - avrebbe nascosto il cadavere in una stanza della sua abitazione. Gli investigatori stanno vagliando il racconto reso dalla donna, mentre la sua abitazione è stata transennata e sul luogo sono giunti il medico legale incaricato dalla Procura di Cosenza, i militari della Sezione rilievi del Nucleo Investigativo dei carabinieri di Cosenza assieme ai colleghi della Compagnia e il pm di turno in Procura. Il cadavere dell'uomo è stato ritrovato in una stanza da letto dell'appartamento.

Le indagini procedono con il coordinamento del procuratore capo di Cosenza Mario Spagnuolo e della pm Maria Luigia D'Andrea. Si cerca di comprendere anche come mai l'omicida abbia fatto passare tre giorni prima di costituirsi.

I due, la Mirabelli e Gioffré, abitavano sullo stesso pianerottolo. La donna, dipendente di una cooperativa sociale, ai carabinieri avrebbe raccontato di numerosi episodi di molestie da parte dell'anziano avvenuti negli ultimi anni. E martedì, al culmine di un assalto particolarmente insistente, la donna avrebbe afferrato un coltello da cucina dalla sua abitazione e avrebbe colpito diverse volte la vittima.

La donna, che ha precedenti per spaccio di sostanze stupefacenti, ha un figlio e lavora in una cooperativa sociale ma svolge saltuariamente anche lavori come badante. È anche nota a Cosenza perché attivista di un movimento impegnato per la risoluzione dell'emergenza abitativa. Chi la conosce parla di una donna «appassionata, cresciuta in una condizione disagiata ma impegnata nel sociale e sempre dalla parte dei più deboli».

Sebastiano Rosella Musico.

Uccise il marito, condannata a 30 anni di carcere va ai domiciliari perché è mamma di un bimbo. Nell’interesse preminente del piccolo il tribunale del Riesame di Palermo ha concesso una misura meno afflittiva rispetto a quella carceraria. Il Dubbio il 10 febbraio 2023

Il tribunale del riesame di Palermo ha concesso gli arresti domiciliari a Loredana Graziano, 37 anni, condannata a 30 anni di carcere per l'omicidio del marito, Sebastiano Rosella Musico. La donna, che si era vista confermare in appello, il 30 gennaio, la sentenza di colpevolezza, è madre di un bimbo di 18 mesi e, contrariamente a quello che aveva deciso la Corte d'Assise d'appello, che aveva negato la scarcerazione, secondo i giudici del riesame deve stare vicina al bambino in un ambiente non carcerario. Loredana Graziano, secondo le sentenze di primo e secondo grado, avrebbe avvelenato il marito, a Termini Imerese (Palermo), somministrandogli cianuro e un farmaco anticoagulante, il Coumadin, mescolandoli alle pietanze che preparava per lui.

L'uomo morì il 22 gennaio 2019, dopo atroci sofferenze e il decesso venne in un primo momento attribuito a cause naturali. Nel 2020 l'ex amante della Graziano la accusò ai carabinieri di avere ordito la trama, per liberarsi di un coniuge non amato e che non voleva figli: venne così disposta la riesumazione del cadavere e dall'autopsia emersero le tracce di veleno nel corpo di Rosella Musico, che aveva 40 anni e faceva il pizzaiolo. Quando fu aperta l'indagine, Loredana Graziano era incinta di un bimbo, concepito con un terzo uomo: per questo, dopo l'arresto, rimase solo 16 giorni in carcere.

Successivamente i giudici avevano ritenuto la donna pericolosa e dopo la sentenza di primo grado da parte del Gup, che aveva deciso col rito abbreviato, era stato ordinato il suo trasferimento in cella. Loredana Graziano aveva rifiutato di essere ospitata in una casa alloggio attrezzata per detenute madri, ad Avellino: ora il riesame, nonostante la gravità delle accuse e nell'interesse preminente del piccolo, le ha concesso ai domiciliari.

Romano Fagoni.

Dagospia il 30 gennaio 2023. SE UNA DONNA UCCIDE IL MARITO PARTE SUBITO IL CORO DI GIUSTIFICAZIONI - E’ IL CASO DI RAFFAELLA RAGNOLI CHE HA ACCOLETALLATO ALLA GOLA IL MARITO, ROMANO FAGONI, DAVANTI AL FIGLIO DI 15 ANNI - I GIORNALI EVOCANO “CONTINUE LITI”, “CLIMA INSOPPORTABILE” (IL POVERINO AVEVA PERSO IL LAVORO), LUI "PADRE PADRONE”: E PER QUESTO SI PUO’ RECIDERE LA CAROTIDE AL PARTNER? - ALLE FORZE DELL'ORDINE NON RISULTANO DENUNCE PER VIOLENZA O MALTRATTAMENTI...

Estratto dell’articolo di Salvatore Montillo per “la Stampa” il 30 gennaio 2023.

Agli occhi dei vicini di casa era una coppia normalissima e «se c'erano tensioni tra loro erano ben nascoste tra le mura domestiche» […] Durante una lite furibonda, Raffaella Ragnoli, 56 anni, ha accoltellato alla gola il marito Romano Fagoni, di tre anni più grande, non lasciandogli scampo. Un omicidio avvenuto davanti agli occhi del figlio 15enne, mentre insieme stavano mangiando una pizza seduti intorno al tavolo della cucina.

[…] Raffaella […] ha parlato di un clima in casa diventato ormai insopportabile. Romano Fagoni, operaio che da tempo aveva perso il lavoro e si arrabattava con piccoli impieghi quotidiani, è stato descritto dai familiari come un padre padrone, un uomo aggressivo, autoritario e prepotente che sabato sera, durante l'ennesima lite, in preda alla collera avrebbe minacciato moglie e figlio con il coltello della pizza. È a quel punto, pare, che Raffaella ha reagito colpendolo con più fendenti alla gola, recidendogli la carotide.

 […] Il 59enne è morto dissanguato sul pavimento della cucina prima che i sanitari potessero tentare di salvarlo. Agli inquirenti toccherà ora trovare riscontri delle testimonianze dei familiari, visto che alle forze dell'ordine non risultano denunce per violenza o maltrattamenti. Ieri pomeriggio è stata ascoltata dal pm di turno anche la figlia grande della coppia, una ragazza di 27 anni che da tempo si era trasferita a vivere e lavorare sul Garda. […] Raffaella, che faceva la casalinga, era conosciuta per la sua disponibilità in parrocchia […]

[…] La dirimpettaia dei Fagoni si affaccia dalla finestra con le lacrime agli occhi, turbata dalla notizia appresa la sera prima. «I litigi c'erano – spiega – ma come può succedere in ogni famiglia. Ci sono le discussioni – aggiunge – ma nessuno avrebbe mai im

Raffaella Ragnoli e Romano Fagone: la coppia dell’omicidio di Brescia, le tensioni crescenti e la furia a cena. Mara Rodella su Il Corriere della Sera il 30 Gennaio 2023.

Martedì la 56enne che ha accoltellato a morte il marito comparirà davanti al giudice per l’interrogatorio di convalida

Riservata, Raffaella, non troppo loquace. E devota. Ma sempre disponibile in paese nel caso ce ne fosse bisogno: per dare una mano in parrocchia o aiutare a organizzare il servizio pedibus dei ragazzi. Per arrotondare, qualche lavoretto domestico in paese.

La racconta così, sotto shock, compreso il sindaco di Nuvolento, Giovanni Santini. È nella bifamiliare all’interno di via Carlina che sabato sera, all’ora di cena, Raffaella Ragnoli, casalinga di 56 anni, durante una lite — l’ennesima, pare — ha afferrato un grande coltello da cucina e ha colpito a morte il marito, Romano Fagone, operaio di 59 anni. Sei fendenti: quello fatale, sferrato alla gola, ha reciso la carotide senza lasciargli scampo. Quando gli operatori sanitari sono arrivati, per lui non c’er più nulla da fare.

A tavola, insieme ai genitori, c’era anche il figlio minore, 15 anni appena. È stato lui, sconvolto, a correre fuori per chiedere ai vicini e a chiamare i soccorsi per primo: «Aiutatemi, mamma ha ucciso papà» ha urlato con tutta la voce che aveva in corpo. Arrestata nella notte, la signora Raffaella al pm di turno, Flavio Mastrototaro, avrebbe raccontato di aver agito proprio per proteggere il figlioletto, oltre che se stessa, dall’aggressività del padre. Il quale, durante la discussione sempre più animata, li avrebbe in qualche modo minacciati stringendo tra le mani il coltellino da tavola: insinuando, insomma, che se non avessero smesso di andargli contro, in qualche modo avrebbe pure potuto usarlo. Una discussione come tante, ha riferito Raffaella, scattata da una banalità — una risposta con il tono «sbagliato», per esempio — e dalla reazione percepita dalla donna come particolarmente minacciosa.

Autoritario, Romano. Irascibile, poco incline alla tolleranza e piuttosto nervoso. Ne avrebbe parlato così, agli inquirenti, anche la figlia maggiore, 25 anni, che da tempo si è trasferita sull’alto lago di Garda dove vive e lavora. Un posto da operaio in una fabbrica di Ponte San Marco, un infarto all’inizio di gennaio — per questo era a casa dal lavoro — e le tappe al bar del paese per un aperitivo (ultimamente pare prevalessero i caffè): mai una parola negativa sulla consorte, dicono i clienti e i colleghi, a cui non avrebbe nemmeno mai accennato a presunte difficoltà economiche. Aspettava che uscisse da messa, si fermava nel locale anche con lei, o, nel caso fosse solo, a una certa ora se ne andava proprio per tornare a casa in tempo per la cena.

Erano sposati dal 1992. Sul profilo social di Romano le foto delle vacanze al mare, le escursioni in montagna o le gite al lago. Sempre insieme a Raffaella e al figlio: «Il mio piccolo amore», scriveva. Sotto uno scatto datato 2023 che lo ritraeva invece insieme alla figlia maggiore, all’epoca bambina, sulle sue spalle, una riflessione di padre, quattro anni fa: «Purtroppo il tempo passa, la mia piccola ora è grande e non sale più sulle mie spalle». Ancora: «Penso di aver fatto del mio meglio anche con il secondo». Già, il secondo, un ragazzino molto studioso, bravissimo a scuola, appassionato di letteratura. Che ha visto la madre uccidere il padre.

Agli atti, nessuna denuncia o segnalazione: una famiglia sconosciuta a carabinieri e forze dell’ordine prima di sabato sera. Ma stando a Raffaella il clima in casa sarebbe diventato «insopportabile», connotato da litigi continui e tensioni, maltrattamenti e insulti, una violenza che non sarebbe più stata in grado di sopportare.

Al piano terra, nella casa che apparteneva già al papà di Romano, viveva anche l’anziana mamma di lui, in questo periodo allettata. Pure lei, davanti agli investigatori, ha riservato solo parole di affetto per la nuora. Così come la cognata, sorella di Romano, che più volte gli avrebbe ribadito di essere stato fortunato, a trovare una donna così: non tutte avrebbero accettato di prendersi cura della suocera. Sembrava tutto come sempre: venerdì sera Raffaella e Romano erano usciti per una pizza insieme, sabato mattina una tappa al mercato di Salò e le faccende domestiche nel pomeriggio. Poi la tragedia.

Raffaella Ragnoli si trova nel carcere di Verziano con l’accusa di omicidio volontario: allo stato, l’ipotesi di legittima difesa non viene contemplata da chi indaga. Il pm ha depositato gli atti al gip in attesa dell’interrogatorio.

Da corriere.it il 29 gennaio 2023.

Dopo l’ennesimo litigio in famiglia ha ucciso il marito con una coltellata alla gola.

È accaduto la sera del 28 gennaio a Nuvolento, paese ad una manciata di chilometri da Brescia, direzione lago di Garda. Era l’ora di cena e Romano Fagoni, operaio nato nel 1963, ha iniziato una accesa discussione con la moglie Raffaella Ragnoli, casalinga, di tre anni più giovane di lui.

 Il tono della voce si è alzato, così come lo scambio di accuse, la tensione è cresciuta a dismisura fino a che la donna ha preso un lungo coltello da cucina e ha colpito il marito alla gola.

 Una scena alla quale ha assistito l’unico figlio della coppia, che ha 15 anni, il primo a chiamare i soccorsi.

Il colpo ha tagliato la carotide dell’uomo senza lasciargli scampo. Quando i sanitari sono giunti sul posto l’uomo era già morto.

 La donna è stata arrestata. Dai primi accertamenti sembrano non esserci denunce pregresse da parte sua per maltrattamenti in famiglia anche se Raffaella, sentita in nottata dal pubblico ministero di turno, Mastropietro, avrebbe rivelato che il clima in famiglia era pessimo, costellato da continui litigi.

«Aiuto, mamma ha ucciso papà»: l'omicidio di Brescia e l'ipotesi che lei volesse difendere il figlio 15enne. Mara Rodella su Il Corriere della Sera il 30 Gennaio 2023.

A Nuvolento, sabato sera, Raffalle Ragnoli, 56 anni, ha ucciso Romano Fagoni, 59, con un colpo alla gola, davanti al figlio. La donna al pm: «Il clima in casa era molto teso, insopportabile»

È uscito correndo da casa, spaventato, la voce tremula. E ha urlato con tutta la forza che aveva, nel cortile: «Aiuto» ha invocato, «mamma ha ucciso papà».

Lui, 15 anni appena, è stato il primo ad afferrare il telefono e chiamare il 112, salvo poi rivolgersi ai vicini.

Erano da poco scoccate le nove di sera, con i genitori stava cenando nel loro appartamento di Nuvolento, meno di quattromila anime in provincia di Brescia sulla strada verso Garda.

Una piccola cascina indipendente su due piani nella quale, improvvisamente, si è consumata la tragedia, davanti agli occhi del figlio adolescente.

Al culmine di una lite Raffaella Ragnoli, 56 anni, ha afferrato un coltello da cucina e colpito più volte il marito, Romano Fagoni, che 60 anni li avrebbe compiuti in marzo.

Il fendente fatale alla gola ha reciso la carotide: quando i sanitari sono arrivati, per lui non c’er più niente da fare. La sera prima, erano fuori a cena insieme.

Casalinga, Raffaella viene descritta come una brava persona, attiva per la comunità, riservata e disponibile. Lui, Romano, l’aveva sposato nel 1992. Operaio in una fabbrica di Ponte San Marco, una decina di chilometri da casa, qualche piccolo precedente molto datato nel tempo, pare avesse avuto problemi di salute e quindi fosse a casa dal lavoro. Sul suo profilo social, le foto dei viaggi e le vacanze degli ultimi anni, sempre con lei, Raffaella, e il figlio minore, «il mio piccolo amore»: la figlia maggiore, 25 anni, vive invece a Gardone Riviera.

Ecco allora gli scorci di Santorini, nel 2019, le gite in montagna e sul lago. Ma qualcosa, forse, era cambiato, erodendo l’apparente armonia di una famiglia modesta: vivevano nella casa intestata al padre di Romano, lì da sempre. Insieme alla anziana mamma di lui, bisognosa di assistenza. Anche questo aspetto avrebbe creato attriti sempre più forti.

Arrestata nella notte dai carabinieri e poi trasferita in carcere, Raffaella Ragnoli, davanti al magistrato di turno — il pm Flavio Mastrototaro — ha ammesso le sue responsabilità, raccontando di un clima domestico «molto teso e litigioso», sostanzialmente «diventato insopportabile».

Stando alla versione difensiva, si sarebbe scagliata contro il marito per «proteggere» e difendere il figlio, insultato pesantemente dal padre solo pochi minuti prima, durante un litigio molto acceso.

Gli investigatori hanno convocato parenti e amici della famiglia (che negherebbero i problemi economici) per ricostruire il contesto in cui il dramma è maturato. Compresa la figlia maggiore, che avrebbe descritto il padre come una figura autoritaria e non propriamente tollerante.

La suocera, per Raffaella, ha avuto solo parole affettuose.

Increduli i dirimpettai («sembrava una coppia come tante, litigavano sì, ma nulla che lasciasse presagire un simile epilogo») e chi Romano lo incontrava al bar in paese: quando aspettava che Raffaella uscisse da messa o con lei per un aperitivo. Se lo beveva da solo, «a una certa ora ci salutava: lei lo aspettava per cena».

Salvatore Di Lauro.

Estratto dell’articolo di Giuseppe Crimaldi per “il Messaggero” il 6 aprile 2023.

La storia è una delle tante che purtroppo si ripetono e che sempre più spesso confluiscono in una denuncia. Verrebbe rubricata nella categoria dei maltrattamenti familiari, alla voce "uomini che odiano le donne", ma questa volta ad accrescerne la portata è il protagonista negativo, che porta un cognome pesante: Di Lauro. Ed è proprio Salvatore Di Lauro, figlio del "boss dei due mondi" Paolo Di Lauro, l'uomo finito in manette ieri con le pesanti accuse di maltrattamenti in famiglia e lesioni aggravate.

 Una lunga, triste vicenda che si è protratta nel tempo. Andavano avanti da almeno un anno quelle vessazioni e minacce rivolte alla moglie, questo hanno accertato le indagini della Procura di Napoli. Il trentacinquenne figlio di Ciruzzo o milionario (l'ultimo dei dieci figli maschi ad essere rimasto fino a ieri ancora libero) avrebbe reso la vita della moglie un calvario: insulti, minacce, aggressioni fisiche, spesso compiute finanche in presenza dei figli piccoli.  […]

L'ultima denuncia della moglie di Salvatore Di Lauro risale a poco più di un mese fa. In passato ne avrebbe presentate altre due. Ma la situazione si è fatta insostenibile, ogni giorno di più, e così la donna ha trovato il coraggio di chiedere ancora aiuto e sostegno rivolgendosi alle forze dell'ordine per raccontare quanto stava succedendo. […]

 Nell'audizione protetta cui è stata sottoposta qualche giorno dopo, alla presenza dei magistrati della sezione Fasce deboli, agli agenti specializzati ha confessato tutte le sue angosce, per la prima volta. E così ieri, finalmente, è scattato l'arresto.

 Drammatico lo spaccato di vita che emerge dalle pagine dell'ordinanza di custodia cautelare emessa dal giudice per le indagini preliminari: la giovane da circa un anno praticamente non usciva più di casa, temendo per la sua incolumità e per quella dei suoi due figlioletti. […]

Alcuni mesi fa, al culmine dell'ennesima lite sfociata in furiosa violenza, il trentacinquenne picchiò la moglie, che poco dopo fu costretta anche a farsi medicare in ospedale. Ci sono anche alcune testimonianze che corroborano la tesi accusatoria: alcuni vicini di casa hanno avuto il coraggio di uscire allo scoperto, fornendo indicazioni ai magistrati che vanno nella direzione del quadro descritto dalla donna perseguitata dal marito.

 Salvatore Di Lauro, 35 anni - è nato a Napoli il 7 febbraio 1988 - ed è il sesto dei figli del capoclan Paolo Di Lauro, oggi detenuto al regime di 41 bis. Soprannominato «Terremoto», venne arrestato per la prima volta l'otto febbraio 2006 e scarcerato nel 2014 per fine pena. Il secondo arresto risale al 6 giugno 2017 e la sua scarcerazione avvenne appena 15 giorni dopo, il 21 giugno 2017.  […]

Mattia Caruso.

Battipaglia, uccisa a coltellate mentre i figli non erano in casa: fermato il marito. La vittima aveva 38 anni ed ad averla uccisa sarebbe stato un fendente alla giugulare. L'uomo fermato si chiama Marco Aiello. Redazione Web su L'Unità il 20 Settembre 2023

È avvenuto nell’abitazione della coppia, in via Flavio Gioia a Battipaglia (in provincia di Salerno), il femminicidio di cui è rimasta vittima una donna di 38 anni, accoltellata dal marito. In casa, al momento dell’omicidio, non erano presenti i due figli. Non è ancora chiaro se qualche vicino di casa abbia sentito qualcosa e chi abbia allertato le forze dell’ordine. Le attività da parte dei carabinieri della Compagnia di Battipaglia sono ancora in corso.

Chi è il presunto assassino della donna a Battipaglia

Gli investigatori stanno mantenendo un grande riserbo sulla vicenda. I militari non stanno trascurando alcun elemento utile per la ricostruzione della dinamica dei fatti. Sarà in ogni caso l’autopsia a certificare le cause del decesso. Gli investigatori sono ancora sul posto, nell’abitazione dove è avvenuto il delitto. Non si sa se la coppia avesse già avuto problemi di violenza domestica. Intanto i due figli minorenni sono stati affidati a dei familiari.

Il nome del presunto assassino è Marco Aiello, idraulico di professione. Sono tragici i numeri relativi ai femminicidi accaduti in Italia in questo 2023. Dei 225 omicidi registrati dal primo gennaio al tre settembre, 79 hanno avuto come vittime le donne. Di queste, 61, hanno perso la vita in ambito familiare o affettivo. A loro volta, 30 di queste donne, sono state ammazzate dal partner o da un ex.

Redazione Web 20 Settembre 2023

Fa uscire i figli da casa: litiga e sgozza la moglie. Patricia Tagliaferri il 21 Settembre 2023 su Il Giornale.

L'uomo ha allontanato i bimbi di 4 e 6 anni e ha accoltellato alla gola la donna: 31 casi da gennaio

Un'altra vita spezzata in famiglia, con figli che si trovano da un giorno all'altro senza genitori perché il padre ha ucciso la mamma ed è finito in carcere. L'ultimo femminicidio di una serie ormai infinita è avvenuto ieri a Lago di Battipaglia, in provincia di Salerno, dove un uomo di 38 anni, idraulico, ha ammazzato la moglie, sua coetanea, nella loro abitazione. Il killer è stato fermato poco dopo con l'accusa di omicidio volontario e a breve sarà sottoposto all'interrogatorio di garanzia.

Il delitto potrebbe essere avvenuto al culmine di un litigio tra i coniugi, entrambi italiani. Ma saranno le indagini avviate dai carabinieri della Compagnia di Battipaglia a fare luce su quanto avvenuto. Sul posto sono intervenuti i militari dell'Arma della sezione investigazioni scientifiche (Sis) del Comando provinciale di Salerno, che hanno effettuato i rilievi e raccolto le prime testimonianze dei vicini. Le indagini sono coordinate dalla Procura di Salerno. I magistrati stanno cercando di ricostruire la storia della famiglia per capire se c'erano state tensioni in precedenza e se marito e moglie fossero stati già protagonisti di episodi di violenza domestica. Anche se al momento i due vengono descritti da tutti come una coppia tranquilla, senza particolari problemi. Di certo nel primo pomeriggio di ieri la discussone tra i due, a quanto pare per una scenata di gelosia, è degenerata. È possibile che l'idraulico avesse pianificato il delitto, perché sembra che avesse fatto allontanare dall'abitazione i due figli, di 4 e 6 anni, che infatti al momento del delitto erano fuori casa e non hanno assistito al massacro. Durante la lite l'uomo ha tirato fuori un coltello e ha colpito alla gola la 38enne, che sarebbe morta dissanguata. Sulle modalità del delitto gli investigatori mantengono il massimo riserbo e comunque sarà l'autopsia a certificare le cause del decesso. La notizia del femminicidio si è rapidamente diffusa nella zona, suscitando sgomento nella Piana del Sele, dove la famiglia era molto conosciuta. È stato l'uomo, dopo l'accoltellamento, a chiamare i soccorsi. Quando sono arrivati i carabinieri della compagnia di Battipaglia si è consegnato ed è stato fermato. I due figli della coppia sono stati affidati ai nonni.

Si tratta del quarto femminicidio avvenuto in Campania nel 2023, il 31° da gennaio. Una strage senza fine. «Un altro femminicidio. L'ennesima efferatezza compiuta, ai danni di una donna, in quello che dovrebbe essere il luogo del conforto, degli affetti, della protezione. Contro i mostri servono educazione al rispetto della diversità di genere, prevenzione e repressione», ha commentato su X il deputato di Forza Italia e sottosegretario di Stato al Mit, Tullio Ferrante.

Marco Aiello.

Valentina Boscaro condannata a 24 anni per l'omicidio del fidanzato Mattia Caruso con una coltellata al cuore. Rashad Jaber su Il Corriere della Sera mercoledì 18 ottobre 2023.

La sentenza per il delitto avvenuto ad Abano Terme (Padova): la Procura aveva chiesto l'ergastolo. La 31enne raccontò che la vittima era stata aggredita da un uomo, poi ha ammesso: «Mi picchiava, non volevo ucciderlo»

Valentina Boscaro

Uccise il fidanzato, al culmine di una lite, con una coltellata dritta al cuore. Il pm Valeria Sanzari aveva chiesto l’ergastolo e la misura cautelare in carcere per Valentina Boscaro, 31 anni: la sentenza è di 24 anni di carcere. Boscaro era accusata di omicidio volontario aggravato dal rapporto affettivo, per aver ucciso con una coltellata al cuore l’allora fidanzato Mattia Caruso la sera del 25 settembre del 2022 ad Abano Terme in via dei Colli Euganei. 

La requisitoria della pm che ha chiesto l'ergastolo: «Mai pentita»

«Valentina non si è mai pentita, fredda e crudele. Ha sferrato la pugnalata al cuore con la mano destra» ha dichiarato in aula Sanzari. Nella requisitoria del pubblico ministero sono state messe in risalto le dichiarazioni dell'imputata «assolutamente inattendibili», poiché Boscaro «ha sempre mentito» sulle circostanze del delitto, indicando in un non precisato «maghrebino» il responsabile, versione resa anche ai giovani intervenuti per soccorrere la vittima e poi ai carabinieri. Sanzari ha inoltre contestato il movente dell'accoltellamento «per paura», sottolineando che la donna non aveva alcun segno sul corpo e sugli abiti, con «la volontà di manipolare la gravità del fatto». Circostanze che hanno indotto la rappresentante dell'accusa ha chiedere il massimo della pena, senza attenuanti generiche, con la misura della custodia cautelare in carcere anziché degli arresti domiciliari, in cui l'imputata si trova attualmente

Valentina Boscaro e Mattia Caruso: un amore di liti e tormenti

La 31enne lo scorso 19 settembre aveva parlato di fronte ai giudici: «Mi picchiava e mi violentava. Voleva che rimanessi incinta. Mi minacciava dicendomi che era un mafioso e mi avrebbe sparato in testa. Non volevo ucciderlo, mi dispiace per quello che ho fatto».  La coppia quella sera stava rientrando da una serata trascorsa nel ristorante Laghi di Sant’Antonio a Montegrotto. I due stavano litigando animatamente fino a quando la 32enne ha colpito a morte il fidanzato. La ragazza aveva raccontato ai carabinieri di un uomo incappucciato con cui Mattia avrebbe avuto una lite nel piazzale del locale. Una bugia. Pochi giorni dopo, il 29 settembre, crollata nel corso di un interrogatorio aveva confessato il delitto, ricostruito in aula nell’udienza del 20 settembre scorso.

La coltellata e i soccorsi: le bugie dell'assassina

La relazione tra i due era turbolenta. Lo scambio dei messaggi ha fatto emergere una relazione di amore e odio. Numerose litigate, offese, minacce. Ma poi facevano pace e emergevano parole d’amore e di affetto. 

A chiamare l’ambulanza quella sera era stato un automobilista di passaggio, che aveva visto Mattia riverso a terra pieno di sangue. Al medico del Suem prima di morire disse: «Cosa vuole che sia successo…Sono stato accoltellato».

Omicidio Mattia Caruso, la fidanzata Valentina che l'ha ucciso con una coltellata al cuore: «Ho abortito, non volevo figli suoi». Rashad Jaber su Il Corriere della Sera il 21 settembre 2023

Al processo in Corte d’Assise a Padova Boscaro si difende: «Voleva legarmi a lui per sempre ma era violento» 

«Sono rimasta incinta di lui, perché voleva legarmi a sé per sempre obbligandomi ad avere un figlio insieme. Per questo ho deciso di abortire, perché non potevo sopportare di condannare un bambino ad una vita con un padre così violento». 

La versione della donna

A quasi un anno dall’omicidio di Mattia Caruso, Valentina Boscaro racconta la sua versione, e lo ha fatto dall’aula della Corte d’Assise di Padova, dove si trova a processo e rischia l’ergastolo dopo aver confessato di aver pugnalato l’ex partner dritto al cuore, la notte del 25 settembre del 2022, nel parcheggio del locale «Ai Laghi di Sant’Antonio», nel Comune di Montegrotto, nell’area termale della provincia di Padova. Mercoledì, di fronte al pubblico ministero Valeria Sanzari, ai togati e ai sei giudici popolari, la trentatreenne ha esposto in più di tre ore la sua versione dei due anni di relazione fra lei e Mattia. Un rapporto a dir poco burrascoso, fatto di episodi di violenza e reciproche minacce, documentate anche dalla fitta corrispondenza telematica tra i due, acquisita agli atti dalla procura. 

La gravidanza interrotta

«Io e Mattia non stavamo insieme - ha spiegato Valentina durante l’udienza - lui voleva che io fossi come un oggetto di sua proprietà, mi ricattava minacciando di farmi terra bruciata attorno, così non sarei più riuscita ad andare a lavorare nei vari mercatini, fra cui quello di Sottomarina dove ci eravamo conosciuti nell’estate del 2020». Abusi, litigi che degeneravano in pugni, schiaffi, lividi e cicatrici sui corpi di entrambi, ma è emersa anche una gravidanza interrotta. «Decisi di interromperla nel gennaio del 2021 - ha aggiunto sempre Valentina - ne parlai anche con lui e chiaramente si infuriò. Era sempre così, beveva, si drogava e diventava violento, pur avendo in sé un lato triste, malinconico, dovuto ai traumi che aveva subito. Per questo io non riuscivo a lasciarlo».  

Un racconto preciso, una lista di luoghi e date, di liti, scenate di gelosia e violenze, a cui tuttavia corrispondono tanti, forse troppi «non ricordo» in risposta alle domande degli avvocati che rappresentano la famiglia Caruso come parte civile, Anna Desiderio e Francesca Betto, secondo cui le parole della rea confessa non sarebbero che un tentativo di invertire la polarità della relazione tossica tra i due agli occhi della Corte. Stando alle testimonianze di Rosa Russo e Melinda Caruso - madre a sorella maggiore di Mattia - infatti, Valentina era una ragazza problematica, che stava rovinando la vita a Mattia, non solo a causa dei suoi continui, repentini e spesso violenti sbalzi d’umore, ma come preda di un rapporto morboso, come descritto anche dai suoi amici più stretti. L’episodio più eclatante secondo la famiglia Caruso sarebbe avvenuto nell’estate del 2021, quando Valentina ha iniziato una relazione con Denis Germanà, cugino di Mattia, protagonista di una lunga serie di reati come esponente della criminalità giovanile che fra il 2012 e il 2013 imperversava fra la Guizza, Albignasego e Maserà, a cavallo fra Padova e la cintura urbana della zona sud. Una storia di poche settimane, sufficienti tuttavia per convincere Germanà ad evadere da una comunità di recupero in Sicilia, dove era ricoverato per disintossicarsi dalla cocaina, e raggiungere Valentina a Padova da latitante, prima di essere nuovamente arrestato. 

La richiesta di perdono

Stando alle parole della donna, invece, quella era la sola via di fuga dalla spirale di violenza di Mattia: «Quella famiglia è come un clan, o ne esci in barella o in una bara. Stando insieme a Denis, che nella loro gerarchia contava di più, avevano ricevuto ordine dai parenti di Catania di lasciarmi stare, ma quando lo hanno arrestato tutto è tornato come prima». Secondo la pubblica accusa e le parti civili si sarebbe trattato solo l’ennesimo tentativo di far ingelosire Mattia, l’ultimo stratagemma per allontanarlo con una mano ma mantenerne salde le redini con l’altra. La sola cosa certa, per ora, è che il cuore di Mattia si è fermato quella notte, e che il pugnale che lo ha ucciso lo impugnava proprio Valentina. «Chiedo perdono - ha aggiunto - non volevo ucciderlo, ma ero terrorizzata e lui stesso mi aveva minacciato di morte molte volte». Le prossime udienze sono già fissate per il 4 e il 18 ottobre, e in occasione di quest’ultima, la corte d’Assise in camera di consiglio potrebbe già emettere la sentenza di primo grado.

Estratto dell'articolo di Carmine Landi per lacittadisalerno.it giovedì 21 settembre 2023. 

 «Mi tradiva. E lo ha ammesso». Queste le parole proferite da Marco Aiello nel corso dell’interrogatorio fiume condotto dal pm Licia Vivaldi. Il reo confesso, assistito dall’avvocato Leopoldo Suprani, ha riferito d’essere stato investito da una gelosia ossessiva dopo aver scoperto – è la sua versione, alla quale la moglie uccisa, Maria Rosa Troisi, non può ribattere – un tradimento a suo dire continuo (e con una persona vicina alla famiglia).[…]

Estratto dell'articolo di Andrea Pellegrino, Antonio Di Costanzo per “la Repubblica” giovedì 21 settembre 2023.

Uccisa dal marito con una coltellata alla gola. La vita di Maria Rosa Troisi, 37 anni, casalinga e catechista a Battipaglia, centro in provincia di Salerno, è stata spezzata da Marco Aiello, idraulico 40enne. Un litigio nella villetta di via Flavio Gioia nella frazione Lago, zona affollata soprattutto di case vacanze, e poi quella pugnalata fatale alla giugulare. La donna è morta tra la braccia di un carabiniere. A chiamare i militari è stato lo stesso Aiello: «Correte, mia moglie mi vuole accoltellare», avrebbe detto l’idraulico al 112.

Quando i carabinieri sono arrivati in via Gioia, avrebbero sentito anche delle urla prima di vedere Aiello uscire da casa. […] Da quanto appurato dai carabinieri, i due figli della coppia, un maschio e una femmina […]  al momento del litigio non si trovavano nella casa […] c’è il sospetto che il padre, poco prima della discussione, avesse mandato via i figli dall’abitazione.

Una voce insistente sosterrebbe che l’uomo avrebbe di proposito fatto uscire i bambini per non farli assistere alla lite finita nell’ennesimo femminicidio. Una circostanza che ovviamente potrebbe aggravare la posizione di Aiello. Ora i figli sono stati affidati ai nonni […]. I vicini raccontano di qualche litigio nelle settimane precedenti. Nulla però da far presagire il peggio. Aiello è stato portato in caserma e sottoposto a un lungo interrogatorio che si è protratto fino a tarda notte.

Ancora una vittima. Maria Rosa Troise, la giovane madre di Battipaglia ennesima vittima di femminicidio. Aveva 37 anni e due figli. Il marito è stato arrestato ed è ritenuto il presunto assassino. Alla base del delitto ci sarebbero stati una gelosia asfissiante e problemi economici. Indagano i carabinieri. Redazione Web su L'Unità il 21 Settembre 2023

Prima una violenta lite, una delle tante avuta dalla coppia negli ultimi tempi. Poi l’aggressione fatale, il coltello tra le mani e il fendente mortale alla gola che ha reciso la giugulare. Così ha perso la vita Maria Rosa Troise, vittima ieri dell’ennesimo femminicidio. I fatti sono accaduti a Battipaglia, località in provincia di Salerno. Per l’omicidio è stato arrestato il marito, Marco Aiello, 40 anni idraulico di professione e ritenuto il presunto killer della donna. La coppia ha due figli, un maschio e una femmina che al momento del delitto non erano in casa. Sul posto sono intervenuti i Carabinieri della locale compagnia. A loro, la Procura di Salerno guidata da Giuseppe Borrelli, ha affidato le indagini.

Chi è Maria Rosa Troise la donna uccisa a Battipaglia

Ma chi è Maria Rosa Troise la donna uccisa a Battipaglia? Innanzitutto, la vittima era una giovane madre. Aveva appena 37 anni ed era casalinga. Il marito sarebbe stato preda di un forte sentimento di gelosia nei confronti della consorte. Alcuni problemi economici avrebbero fatto il resto, contribuendo a inasprire una relazione già deteriorata. C’è un piccolo episodio che ha incuriosito gli investigatori: al 112 era arrivata una telefonata di Aiello: “Correte, mia moglie vuole accoltellarmi“. Inoltre, pare che l’uomo abbia allontanato di proposito i figli dall’appartamento sito in via Flavio Gioia. Questo elemento potrebbe determinare l’aggravante della premeditazione.

Le reazioni

Intanto, l’autorità giudiziaria ha predisposto l’autopsia sulla salma della Troise. L’intera comunità di Lago, (la frazione nella quale abitava la coppia, località molto frequentata d’estate), è rimasta sconvolta dall’accaduto. Sono tragici i numeri relativi ai femminicidi accaduti in Italia in questo 2023. Dei 225 omicidi registrati dal primo gennaio al tre settembre, 79 hanno avuto come vittime le donne. Di queste, 61, hanno perso la vita in ambito familiare o affettivo. A loro volta, 30 di queste donne, sono state ammazzate dal partner o da un ex. Redazione Web 21 Settembre 2023

Il femminicidio. Battipaglia, ha ucciso la moglie con una coltellata alla gola: Marco Aiello tenta il suicidio in carcere. La vittima, Maria Rosa Troisi 37 anni, è stata uccisa con un fendente alla giugulare. La coppia ha due figli. Pare che alla base del delitto ci fossero alcuni problemi economici e una folle gelosia. Redazione Web su L'Unità il 22 Settembre 2023 

Ha tentato di uccidersi, Marco Aiello, l’idraulico di 37 anni che è stato fermato perchè indiziato di aver ucciso la moglie, Maria Rosa Troisi, sua coetanea, nella loro casa di Battipaglia, in provincia di Salerno. L’uomo avrebbe tentato di uccidersi in una cella del carcere di Fuorni dove è rinchiuso dalla tarda serata di mercoledì. Soccorso, è stato portato all’ospedale San Giovanni di Dio e Ruggi d’Aragona di Salerno. È stato medicato per alcune ferite al polso sinistro e alla gola e poi dimesso.

Marco Aiello l’assassino di Maria Rosa Troise ha tentato il suicidio in carcere

L’omicidio è avvenuto in località Lago, in via Flavio Gioia. Alcune testimonianze avrebbero rivelato che prima del delitto, dalle mura dell’appartamento, si erano levate urla e grida. La donna è stata uccisa con una coltellata alla giugulare. In casa non c’erano i figli, forse, mandati via prima dal papà e lasciati ai nonni. I carabinieri prima di arrivare sul posto hanno ricevuto una telefonata. A parlare ai militari proprio l’uomo: “Correte, fate presto. Mia moglie vuole uccidermi“.

Dinamica e movente

Sulla vicenda indaga la procura di Salerno guidata da Giuseppe Borrelli. La salma della vittima è stata sottoposta a sequestro. Su di essa sarà fatta l’autopsia. Pare che ad aver scatenato la violenza di Aiello sia stata una folle gelosia provata nei confronti della consorte. Inoltre, sembrerebbe che da tempo la coppia avesse alcuni problemi economici. Sono tragici i numeri relativi ai femminicidi accaduti in Italia in questo 2023. Dei 225 omicidi registrati dal primo gennaio al tre settembre, 79 hanno avuto come vittime le donne. Di queste, 61, hanno perso la vita in ambito familiare o affettivo. A loro volta, 30 di queste donne, sono state ammazzate dal partner o da un ex. Redazione Web 22 Settembre 2023

Petrit Caka.

Omicidio a Rocca Priora: arrestata la moglie della vittima. Maltrattata dal marito lo ha fatto uccidere dal fratello. Rinaldo Frignani su Il Corriere della Sera sabato 27 luglio 2023

Sembrava una rapina in casa invece Petrit Caka è morto per vendetta. La donna in manette con altre due persone: caccia al fratello esecutore latitante

Ha commissionato al fratello l’omicidio del marito che la maltrattava da anni. Svolta a sorpresa nelle indagini sulla morte di un albanese di 31 anni, Petrit Caka, ucciso con numerose coltellate in varie parti del corpo e anche alla testa il 13 dicembre dello scorso anno nella sua abitazione a Rocca Priora, alle porte di Roma. Sembrava una rapina in casa invece dietro c’era un delitto ordinato dalla moglie che si è voluta vendicare di una serie di violenze subite dalla vittima. Almeno questa sarebbe la sua versione dei fatti emersa nel corso dell’indagini seguite dai carabinieri della compagnia di Frascati, coordinate dalla procura di Velletri, che giovedì mattina hanno portato all’esecuzione di tre delle quattro ordinanze di custodia cautelare emesse dal gip nei confronti della donna e di tre connazionali, uno dei quali-proprio il fratello accusato dell’omicidio-è tuttora latitante e viene ricercato in campo internazionale anche con la collaborazione dell’Interpol e dell’Europol. La donna è stata rintracciata e arrestata in un’altra abitazione sempre a Rocca Priora dove ora vive l, mentre altri due complici del fratello sono stati fermati in auto sulla via Cassia, ancora alle porte della Capitale, e a Bari mentre era in procinto di imbarcarsi sul traghetto per Durazzo . Dalle indagini dei carabinieri, che hanno analizzato le immagini di numerosi impianti di telecamere di sicurezza a Rocca Priora, nonché grazie agli gli incroci sulle celle telefoniche e con altri elementi, è emerso che la donna il 10 dicembre 2022 ha fatto arrivare il fratello con un complice dall’Albania con un volo di linea all’aeroporto di Fiumicino. Tre giorni più tardi la coppia a inscenato la rapina in casa durante la quale Caka è stato assassinato senza pietà.a scoprire il corpo fu proprio la donna che diede l’allarme ai carabinieri. Nel corso dei mesi però la sua versione dei fatti non ha retto ai sospetti degli investigatori che alla fine hanno ricostruito cosa era invece veramente accaduto. Rinaldo Frignani

Giampaolo Amato.

Giampaolo Amato, l'ex medico della Virtus incastrato dallo smartwatch: «Dormivo», l'orologio dice che era sveglio. Andreina Baccaro e Luca Muleo su Il Corriere della Sera il 28 settembre 2023.

È in carcere per il presunto omicidio della moglie Isabella Linsalata e della suocera Giulia Tateo: il dispositivo indicherebbe uno spostamento che lo smentisce. Cercò online notizie su dei farmaci prima della morte della moglie

«Non uso questi farmaci, non so usare questi farmaci, non è di mia competenza usare questi farmaci, non prendo farmaci dall’ospedale perché sarebbe un reato, oltretutto non ne ho bisogno». È il 22 settembre 2022 e il dottor Giampaolo Amato, ora in carcere per il presunto omicidio della moglie Isabella Linsalata e anche per quello della suocera Giulia Tateo, risponde alle domande del pm Domenico Ambrosino assistito dal suo avvocato Gianluigi Lebro. 

Giampaolo Amato, i farmaci nella salma della moglie

Il pm gli chiede se conosca il Sevoflurano e il Midazolam, cioè gli xenobiotici che nel frattempo i medici legali hanno trovato in dosi eccessive nella salma della moglie, arrivando alla conclusione che ad ammazzarla sia stato proprio il mix di farmaci psicotropi. Il medico nega, ma adesso la Procura, che ha chiuso le indagini e notificato all’oculista ed ex medico della Virtus l’avviso di conclusione lunedì, è convinta di avere elementi in mano che smentiscono le dichiarazioni di Amato.

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Le ricerche sulle sostanze prima di uccidere la moglie

Perché dall’analisi dei dispositivi elettronici, smartphone e pc, disposta dopo l’arresto di Amato ad aprile di quest’anno, sarebbero emerse ricerche su internet fatte dal medico riguardanti l’utilizzo proprio delle due sostanze. Ricerche fatte prima del decesso della moglie. «Io non lo uso — prosegue nell’interrogatorio Amato parlando del Midazolam —. In forma liquida. Non so se in forma liquida o gassosa. Non so com’è questo Midazolam». «Io non li uso, per cui non so». «Io non lo so se il Midazolam si può... , come tanti farmaci che sono prescrivibili e nelle indicazioni c’è scritto, nella modalità di somministrazione, sono somministrabili via intramuscolo o in vena, tanti farmaci sono anche assumibili diversamente…io ho imparato che c’è ... so che c’è in fiale». E rispondendo poi sul Sevoflurano: «... e si usa in ambiente ospedaliero per indurre una pre-anestesia, eccetera. Il Sevoflurano esiste solo ... , si usa solo in flaconi so, però io non li uso…Io non li uso, ci vuole un apparecchio apposta».

L'ex medico della Virtus smentito dallo smartwatch

Contraddizioni sui farmaci ma anche sui suoi spostamenti che per la Procura rappresentano altrettanti elementi indiziaria a suo carico. C’è poi il tracciamento rilevato dai dati incrociati dal suo telefonino e dallo smartwatch che portava sempre al polso. Nella notte tra l’8 e il 9 ottobre 2021, quando la suocera muore nel sonno nel suo letto mentre la figlia che abita nell’appartamento adiacente è fuori città, il genero dice di essere rimasto a casa quella notte, nello studio al piano di sotto dove si era trasferito dopo la separazione. Ma a smentirlo ci sarebbero i dati del suo smartwatch: rivelerebbero un cambio di altitudine, come se appunto fosse salito al primo piano dove dormiva la suocera. Se così fosse si tratterebbe di uno curioso contrappasso: il medico appassionato di sport tradito proprio dalla sua passione per la corsa che gli faceva tenere sempre il dispositivo al polso. Basteranno per portarlo a processo e ottenere una condanna in Corte d’Assise?

Le accuse anche per l'omicidio della suocera

Nel fascicolo della Procura c’è un quadro indiziario più corposo, ma la difesa con i propri consulenti affina gli argomenti per tentare di smentire punto per punto gli indizi raccolti dall’accusa. Prima su tutte le cause del decesso dell’anziana madre di Isabella. Per l’accusa il fatto che nei suoi resti siano stati rinvenute le stesse sostanze che avrebbero ammazzato la figlia, dimostra che l’oculista ammazzò anche lei. Per la difesa invece quelle sostanze si spiegano con una operazione che la donna aveva subito otto mesi prima e il decesso sarebbe avvenuto per cause naturali, per una cardiopatia.

La relazione con una donna più giovane

Il movente dietro il duplice omicidio per l’accusa sarebbe doppio: ereditario, per impossessarsi degli immobili nei quali risiedevano la suocera e la moglie, e per avere la libertà di vivere quella relazione con una donna molto più giovane che aveva mandato in crisi la vita della famiglia Amato- Linsalata.

Martino Benzi.

Omicidio-suicidio Alessandria, prima uccide moglie e figlio, poi assassina la suocera in casa di riposo e si toglie la vita. Lascia due biglietti: «Sono rovinato, li ho uccisi». Massimo Massenzio su Il Corriere della Sera il 28 settembre 2023.

Tragedia familiare ad Alessandria. Sotto i colpi di Martino Benzi muoiono la moglie Monica Berta, Matteo di 17 anni e Carla Schiffo, ospite del «Divina Provvidenza Madre Teresa Michel». L'ipotesi dei problemi economici  

«Martino, sei arrivato!». Sono le 10.30 e Carla Schiffo, 78 anni, è raggiante per la visita del genero nella casa di riposo Madre Teresa Michel, ad Alessandria. Martino Benzi, ingegnere elettronico di 66 anni, sembra tranquillo, saluta affettuosamente la suocera nella sua stanza al primo piano. Tutto come di consueto, l’unica stranezza è l’assenza della moglie Monica Berta, 55enne impiegata alla gioielleria Damiani di Valenza Po.

Ma nessuno ci fa caso fino a quando, in cortile la scena cambia. 

Omicidio-suicidio nella casa di riposo

Nella mano di Benzi si materializza un rasoio da barbiere con il quale il consulente informatico taglia la gola della suocera. Un taglio netto e la donna crolla a terra e muore dissanguata. Subito dopo l’assassino impugna un coltello e si uccide trafiggendosi all’altezza del torace. Un’operatrice sanitaria comincia a urlare, scatta l’allarme e nel giro di pochi minuti nell’istituto gestito dalle suore della Divina Provvidenza arrivano le ambulanze del 118 e i carabinieri di Alessandria. Per Benzi e la suocera non c’è nulla da fare, ma la tragedia familiare è solo all’inizio.

La strage a casa

Nella tasca della giacca dell’insospettabile ingegnere gli investigatori trovano un biglietto scritto a mano, con grafia incerta: «Andate a casa, troverete i cadaveri di mia moglie e mio figlio». Le pattuglie partono a sirene spiegate verso la palazzina di via Lombroso 6 dove Benzi vive con la moglie Monica e il figlio Matteo, 17 anni, studente dell’Itis Volta. I primi controlli della centrale operativa fanno temere il peggio. La donna non si è presentata al lavoro e il figlio non è entrato in classe neppure dopo la prevista assemblea sindacale. Nessuno dei due risponde al telefono e neppure al citofono. 

I carabinieri sfondano la porta e i sospetti diventano realtà. Il corpo senza vita di Matteo è riverso sul pavimento della camera da letto, colpito da diverse coltellate. Quello della madre è nella stanza accanto. Ci sono segni di colluttazione. Probabilmente Matteo è stato sorpreso nel dormiveglia, mentre Monica Berta è accorsa in suo aiuto e ha lottato con il marito, ma alla fine è stata sopraffatta. 

In cucina gli inquirenti, coordinati dal procuratore di Alessandria Enrico Cieri, trovano un secondo biglietto scritto con una lucidità agghiacciante: «Li ho uccisi io, alle 7,10. Ho ucciso prima Matteo e poi Monica. Sono rovinato, ho distrutto la mia famiglia, che amavo più di ogni altra cosa». Nessun accenno di pentimento, ma un generico riferimento a un senso di «dispiacere».

Nessuna spiegazione

Una strage inspiegabile, imprevedibile, che in poco più di tre ore ha distrutto una famiglia apparentemente perfetta e ha scosso dal profondo un’intera città. Per comprendere il movente gli investigatori partono da due parole scritte nel biglietto trovato nella casa al terzo piano di via Lombroso: «Sono rovinato». Si segue la pista dei problemi economici, con l’aggiunta delle preoccupazioni per la salute della moglie, che tre anni fa aveva scoperto di essere affetta da una forma leucemia. Ma le sue condizioni di salute erano decisamente migliorate dopo le cure e un trapianto di midollo osseo.

«Era una famiglia molto unita e venivano spesso a trovare la signora Carla — ricorda una delle suore della Divina Provvidenza —. Il marito e la moglie tutti i giorni, il figlio una volta alla settimana. L’orario delle visite inizia alle 10.30 e Martino è arrivato subito dopo. La signora Carla era una persona dolce, non riusciamo a crederci, siamo tutti molto scossi».

Uccide la suocera nel pensionato ad Alessandria, morti in casa anche la moglie e il figlio diciassettenne. Ha lasciato un biglietto. Sarah Martinenghi e Luca Monaco su La Repubblica il 28 settembre 2023. 

Martino Benzi era ingegnere e consulente informatico

Una strage in famiglia si è consumata questa mattina, ad Alessandria. Un uomo di 67 anni, Martino Benzi, ingegnere, ha ammazzato il figlio Matteo di 17 anni mentre stava dormendo e la moglie Monica Berto, di 55 anni che si trovavano in casa in via Lombroso.

L’uomo avrebbe ucciso per primo il ragazzo, sorprendendolo nella sua camera da letto, mentre stava ancora dormendo o si era da poco svegliato: gli avrebbe sferrato diverse coltellate al torace e alla gola. Le urla del figlio avrebbero fatto accorrere la madre, che avrebbe anche provato a difendersi e scappare. Ma anche lei è stata raggiunta da più fendenti: è stata trovata riversa in un’altra camera, anche lei con una ferita mortale alla gola. A quel punto l’ingegnere ha scritto diversi biglietti raccontando gli omicidi commessi senza entrare però nel merito di una spiegazione. 

Poi è uscito ed è andato a trovare la suocera ottantenne Carla Schiffo nella casa di riposo della Divina Provvidenza del quartiere Orti della città: l’ha uccisa con un rasoio da barbiere e infine, con il coltello, si è tolto la vita nel cortile del pensionato. 

Gli investigatori hanno scoperto dell’omicidio di moglie e figlio quando sono intervenuti nel pensionato: l’uomo aveva lasciato un biglietti per gli investigatori con l’indicazione di andare a vedere cosa fosse successo in casa sua, dove avrebbero trovato anche la moglie e il figlio morti.

Benzi è un ingegnere laureato al Politecnico di Torino nel 1982. Attualmente è titolare di uno studio di consulenza informatica e di progettazione e realizzazione di siti web. La moglie Monica Berta, classe 1968, lavorava invece a Valenza Po. In passato risulta che abbia sofferto di una malattia che l'aveva costretta ad un lungo ricovero in ospedale. Il figlio della coppia, Martino, 17 anni, studiava all'Itis Alessandro Volta. In casa dell'uomo, Martino Benzi, sarebbero stati trovati alcuni scritti relativi alle sue intenzioni, in particolare le modalità dei suoi omicidi, ma nulla che, secondo gli inquirenti, faccia capire con certezza il movente della strage: potrebbero essere diversi i fattori di disagio familiare vissuti dall’uomo, tra cui anche una crisi economica e la malattia della moglie. Non risulta invece che l’uomo soffrisse di disturbi psichiatrici.    

Sono ancora molti gli elementi da accertare e da definire con chiarezza, sui quali stanno lavorando i carabinieri della compagnia e della sezione investigazioni scientifiche di Alessandria. 

Non ci sarebbero invece molti dubbi sul fatto che sia stato proprio l'uomo a compiere i delitti prima di uccidersi, secondo gli elementi acquisiti nell'abitazione, che fanno pensare a eventuali scritti, di cui però al momento non c'è conferma ufficiale. L'impegno degli inquirenti è quello di ricostruire quanto accaduto e le ragioni che hanno spinto l'omicida-suicida ad agire in questo modo.

Sono ora in corso le indagini sulla dinamica e sull'eventuale movente della strage. Dalle prime informazioni anche le prime due vittime sarebbero state accoltellate.

La strage dell'ingegnere metodico. Stefano Zurlo il 28 Settembre 2023 su Il Giornale.

Martino Benzi crollato di fronte a piccoli problemi economici e alla malattia della moglie

Quando l'ingegner Benzi si presenta davanti al portone della Divina Provvidenza, la cittadella della carità sorta quasi cento anni fa nel quartier Orti, nessuno gli fa caso. È un uomo metodico, Martino Benzi. Tutti i giorni, o quasi, va a trovare la suocera, 78enne, parcheggiata nell'istituto.

Deve essere anche un soggetto molto apprensivo, Benzi, di quelli che annegano le paure e le frustrazioni dentro il reticolato delle regole e di un'esistenza scandita, per quanto possibile. Ma quell'imbragatura interiore non regge più: redditi modesti, una situazione professionale a quanto pare stretta nel piccolo cabotaggio della progettazione di siti web; alle ansie sul versante economico si aggiungono quelle legate alla salute della moglie Monica, aggredita da una leucemia che non se ne vuole andare.

In una mattina in cui Alessandria è ancora avvolta da un'afa opprimente, quel piccolo mondo va in pezzi. Sono le 10,30 e Benzi raggiunge la stanza dove sta la suocera, Carla. Va con lei nel cortile fra panchine, aiuole e una fontanella e in un amen la sgozza, con un rasoio che si è portato dietro. Poi estrae un coltello da cucina e si taglia la gola. Ma la mano è imprecisa. Forse trema. E allora riprende in mano il rasoio, alcuni inservienti osservano sgomenti, urlano e provano a intervenire. A terra però ci sono due morti. E una ferocia sconvolgente. Ma questo è solo un pezzo di una tragedia ancora più grande, costruita con una freddezza disperata quasi insondabile. Nel marsupio c'è un biglietto: «Io abito in via Lombroso 6, terzo piano. Lì troverete mio figlio e mia moglie».

I carabinieri cominciano a chiamare sul cellulare Matteo, 17 anni, studente all'Itis, e la mamma, Monica, 55enne impiegata in un'azienda orafa. I due però non rispondono. Soprattutto lui non è in classe, lei non è in ufficio. Li trovano i militari nel giro di pochi minuti, dopo aver sfondato la porta di casa. Il ragazzo è in camera sua: il padre l'ha ammazzato forse nel sonno, più o meno all'ora della sveglia. Ma il parapiglia ha messo in moto Monica che è arrivata, ha visto e capito, ha cercato di difendere e difendersi. Lei è in un'altra stanza, dentro quell'appartamento né bello né brutto, come ce ne sono tanti, anonimi ma decorosi, nelle nostre città. Forse Martino Benzi voleva proteggere la sua famiglia e quando ha capito che lui non bastava più, ha stabilito di sterminare tutti, compreso se stesso. Sul pavimento c'è un altro messaggio: «Li ho lasciati dove sono caduti. Sono rovinato».

Devastato ma inflessibile. Benzi ha organizzato un piano in due parti e lo porta a compimento: si lascia alle spalle i due corpi, sformati a coltellate, e si mette in cammino, sotto il sole di settembre, come un passante qualunque. Dentro invece ribolle, posseduto da un demone oscuro e dominato da un'energia incontrollabile, venuta su chissà da dove, dai tratti primordiali. Attraversa a piedi un pezzo di città, un chilometro e mezzo circa per almeno venti minuti di camminata buona, fino ad arrivare alla Divina Provvidenza. In una zona colpita dall'alluvione del 94. Qui cancella anche Carla, l'ultima figura del presepe in cui non si ritrovava più e poi si ammazza. Come in un sacrificio rituale.

Tutto programmato in modo meticoloso, con qualche sbavatura solo al momento di rivolgere la lama contro se stesso, tutto realizzato in modo implacabile. Tutto sproporzionato rispetto a quello che emerge: i militari della compagnia di Alessandria, guidata dal maggiore Davide Sessa, hanno trovato qualche crepa nella vita fortificata dell'ingegnere, ma non rovine.

Non c'era nulla di irreparabile. Anzi, c'era un ragazzo che si apriva alla vita e andava bene a scuola. Il padre, che non ammetteva l'imprevisto, ha voluto portare tutti con sé...

Una famiglia distrutta. Chi è Martino Benzi, l’autore della strage di Alessandria. Quel biglietto lasciato in casa: “Sono rovinato, è colpa mia”

Ieri i tre omicidi, l'uomo ha ucciso moglie, figlio e suocera. Poi si è tolto la vita. Le indagini dei carabinieri volte a comprendere il movente di tale violenza. Intanto, i militari hanno ricostruito la dinamica della tragica vicenda. Un fiore e un messaggio da parte degli studenti e dei docenti della scuola frequentata da Matteo Benzi. Redazione Web su L'Unità il 28 Settembre 2023 

Continuerà anche questa mattina il lavoro dei Carabinieri del Nucleo Operativo Radiomobile di Alessandria e del Nucleo Investigativo del Reparto Operativo che stanno ricostruendo i vari aspetti dell’incomprensibile tragedia che ieri ha sconvolto la città piemontese: un tranquillo ingegnere informatico 66enne, Martino Benzi, ha ucciso a coltellate la moglie Marta, il figlio diciassettenne Matteo e la suocera Carla che si trovava in casa di riposo. Un lavoro che non avrà alcun seguito giudiziario perché il responsabile si è tolto la vita, ma che è necessario per provare a spiegare, se possibile, alla città attonita le ragioni di un fatto così grave.

Gli omicidi

Per il momento i militari hanno ricostruito la dinamica della mattinata di sangue che ieri ha segnato la fine di una famiglia piccolo borghese come ce ne sono tante in città. È emerso che Benzi ha commesso i primi due omicidi quelli della moglie e del figlio intorno alle 7.30, circa tre ore prima dell’aggressione mortale nel giardino esterno dell’Istituto Michel. Il corpo di Monica Berta è stato ritrovato in salotto mentre quello del figlio Matteo nella sua camera da letto. Dai primi riscontri medico legali è quasi certo che i due non siano stati uccisi nel sonno. Sui corpi, peraltro, non sono stati rinvenuti segni evidenti di colluttazione.

La indagini e la dinamica

Dopo aver tolto la vita alla moglie e al figlio, Benzi si è cambiato i vestiti pieni di sangue, lavato, e ha lasciato, con tutta probabilità a piedi, la sua casa per andare in piazza Divina Provvidenza. Nelle sue tasche, infatti, non aveva alcuna chiave di auto. Arrivato alla RSA dove era solito recarsi in visita quasi quotidianamente, ha raggiunto la suocera che lo ha salutato affettuosamente come sempre e poi con lei è sceso in giardino. Dopo pochi minuti l’ha colpita a morte rivolgendo poi la lama verso di sè e tagliandosi la gola. Tutto in un attimo. Una dinamica che lascia intravvedere la premeditazione, che descrive la meticolosa abitudine al controllo puntiglioso di ogni cosa che tutti i conoscenti ricordano di Martino, ma che apre molti interrogativi sulle ragioni.

Chi è Martino Benzi e perché ha ucciso moglie, figlio e suocera ad Alessandria

Ed è soprattutto in questa direzione che stanno scavando i carabinieri, che oggi cominceranno ad approfondire la situazione economica di Benzi, i suoi conti bancari, le carte dello studio di consulenza informatica. A partire dal biglietto lasciato in casa, sul tavolo della cucina. “Sono rovinato, non c’è via scampo. La colpa è soltanto mia” ha scritto. Agli inquirenti capire, guardando più in profondità dentro una vita normale, quale disastro Martino temesse così tanto da spingerlo a distruggere se stesso e tutti i suoi cari.

A scuola

Intanto, un fiore e un biglietto attaccati al cancello hanno accolto questa mattina gli studenti e i docenti dell’Istituto tecnico Volta. Sono i compagni e gli insegnanti di Matteo Benzi, il 17enne era un bravo studente della 4^ AE dell’indirizzo di Elettronica ed Elettrotecnica. “Il tuo banco sarà vuoto ma qui, tra noi, tu avrai per sempre il tuo posto“, si legge nel biglietto. Redazione Web 28 Settembre 2023

Strage di Alessandria, le ossessioni dell'ingegnere: «Gli affari andavano male: poco lavoro e incassi in calo vertiginoso». Massimo Massenzio su Il Corriere della Sera venerdì 29 settembre 2023.

Il fratello di Martino Benzi conferma le difficoltà economiche. I segreti dell’ingegnere nascosti nel suo computer, protetto da un sistema di sicurezza. I carabinieri hanno chiesto alla procura l’autorizzazione a forzare l’accesso 

I segreti di Martino Benzi, l’ingegnere elettronico di Alessandria che mercoledì ha ucciso il figlio la moglie e la suocera, prima di togliersi la vita, sono nascosti nel suo computer. Il pc del consulente informatico 66enne è protetto da un sistema di sicurezza e i carabinieri hanno chiesto alla procura l’autorizzazione a forzare l’accesso. La delega dovrebbe arrivare con il decreto che permetterà di scandagliare conti correnti e movimenti bancari. Nel biglietto lasciato nella casa di via Lombroso, Benzi sembra fare riferimento alle sue difficoltà economiche come movente della strage: «Non c’è più scampo, sono rovinato. Ho distrutto la mia famiglia, che amavo più di ogni altra cosa».

Sequestrate bollette e rendiconti

Nell’appartamento gli inquirenti hanno sequestrato bollette e rendiconti della sua attività di progettista di siti web e, in base una prima ricognizione, la situazione patrimoniale appare critica. Gli affari andavano molto male: poche proposte di lavoro e incassi in calo vertiginoso. Senza contare che la moglie Monica Berta, 55 anni, dopo una grave malattia, superata con un trapianto di midollo osseo, aveva ripreso a lavorare con orario e stipendio ridotti. Sembra che Martino Benzi facesse fatica anche a pagare l’affitto dell’elegante appartamento nel quartiere Pista. Problemi confermati anche da uno dei due fratelli, che vive con la madre ultranovantenne in una grande villa nella frazione di Spinetta Marengo. 

La famiglia Benzi

Ieri sulla recinzione è comparsa una rete ombreggiante per allontanare sguardi indiscreti, ma in quella casa Martino non si vedeva spesso: «Quando Matteo era piccolo tutta la famiglia era riunita — dicono i vicini —. Quel ragazzo lo abbiamo visto crescere, ma ormai era da parecchio tempo che non venivano qui a Spinetta. Forse c’erano stati dei dissapori, ma chi lo sa».

La famiglia Benzi è conosciutissima in città. La madre e il padre di Martino gestivano il «Benzi-Giovinacci», un negozio di abbigliamento e tessuti in centro. E ora gli investigatori stanno cercando di capire che cosa possa aver portato un tranquillo professionista a trasformarsi in un assassino. La pista economica resta quella principale, unita al carattere pessimista e introverso di Martino Benzi, che lo ha spinto a non confidarsi con nessuno, fino a sprofondare in un abisso da cui ha deciso di uscire nel modo più orribile.

Il sopralluogo alla casa di riposo

Prima ha accoltellato in casa il figlio Matteo, 17 anni e la moglie. Poi ha raggiunto la casa di riposo Madre Tersa Michel, dove ha assassinato la suocera Carla Schiffo, 78 anni. E infine si è ucciso. Un’azione pianificata, tanto da effettuare un sopralluogo il giorno prima e dopo il delitto cambiarsi gli abiti insanguinati. 

I compagni di scuola di Matteo

Ieri i compagni di scuola dell’Itis Volta hanno ricordato Matteo, «un trascinatore che aveva una scintilla speciale negli occhi», con mazzi di fiori, un momento di raccoglimento e un biglietto: «Il tuo banco sarà vuoto, ma qui tra noi tu avrai per sempre il tuo posto». Matteo voleva fare l’ingegnere elettronico come il padre, raccontano. Un padre che lo seguiva come un’ombra, anche a scuola, dove era stato rappresentante di classe dei genitori negli ultimi due anni. Molto probabilmente la procura deciderà di non disporre le autopsie, ma la riserva verrà sciolta oggi.

Marco Zonetti per Dagospia sabato 30 settembre 2023. 

Stanno destando grandissimo scalpore in rete le parole pronunciate ieri da Myrta Merlino durante la diretta del suo programma Pomeriggio Cinque (in onda dal lunedì al venerdì sull'ammiraglia Mediaset), riguardo alla strage di Alessandria. 

Merlino aveva ospite la signora Titti, un'amica di famiglia del 67enne Martino Benzi che, prima di togliersi la vita, ha assassinato la moglie Monica Berta, il figlio Matteo di 17 anni e la suocera Carla Schiffo nel capoluogo di provincia piemontese. 

La signora Titti, ai microfoni di Pomeriggio Cinque, ha avanzato l'ipotesi che Benzi abbia compiuto i vari omicidi per "troppo amore". L'interpretazione dell'amica dell'assassino non è stata contestata dalla conduttrice Merlino, la quale non si è tantomeno dissociata, definendo invece "interessante" la ricostruzione del "troppo amore" quale movente della strage. 

Queste le parole testuali di Myrta Merlino in diretta: “Titti ci sta dicendo una cosa molto interessante nella sua abnormità: il troppo amore. Forse quell’uomo ha ucciso figlio, moglie e suocera per il troppo amore. Pensando in qualche modo di proteggerli con la morte”. 

Fin da ieri pomeriggio, continuano a piovere in rete messaggi e tweet estremamente critici di utenti indignati che deplorano le dichiarazioni udite a Pomeriggio Cinque e che, in molti casi, invitano la conduttrice a scusarsi.

Molti sono invece coloro che hanno notato una virata del programma verso il "trash", del tutto controcorrente rispetto alle intenzioni di Pier Silvio Berlusconi quando annunciò di aver sostituito la storica conduttrice Barbara D'Urso con Merlino. 

Le modifiche alla formula di Pomeriggio Cinque, messe in atto nei giorni scorsi per sopperire agli ascolti deludenti ottenuti all'inizio di questa stagione, non hanno tuttavia apportato grandi cambiamenti nei dati Auditel. Ieri, Merlino ha ottenuto il 17.1%, il 13.5% e l'11.5% nelle sue rispettive tre parti, mentre il diretto concorrente Alberto Matano su Rai1, con la Vita in Diretta, ha conquistato il 19.1% e il 21.3% partendo da un traino più basso.

Etleva Bodi.

Morta dopo due giorni di agonia la donna strangolata dal marito. Storia di Redazione Online su Il Corriere della Sera il 30 ottobre 2023.

Etleva Bodi, casalinga di origine albanese ma residente a Savona, quattro figli maschi tra i 5 e gli 11 anni, è morta nella serata di domenica 29 ottobre dopo due giorni di agonia. Era stata strangolata nella loro camera da letto dal marito, Selami Bodi, operaio edile di 41 anni, suo connazionale. All'equipe medica del 118, giunta sul posto insieme ai carabinieri allertata dallo stesso assassino, la situazione era apparsa sin da subito disperata: Etleva era senza battito. Dopo ottanta minuti di rianimazione e dieci iniezioni di adrenalina, il personale Asl era riuscito a riattivare le funzioni vitali.

Per 48 ore la giovane mamma ha lottato in ospedale. Poi si è arresa, e i medici non hanno potuto fare altro che dichiararne la morte. Secondo una prima ricostruzione, dopo un violento litigio col marito, Etleva si era chiusa in camera da letto, forse per chiedere aiuto o per confidarsi con qualcuno a lei vicino. Bodi, dal salotto, l'ha sentita parlare. Ha spalancato la porta della camera e ha aggredito Etleva mettendole le mani intorno al collo. Tutto mentre i figli dormivano nelle stanze a fianco della camera matrimoniale.

La Spoon River delle donne

Quando si è accorto che la moglie non respirava più, l'operaio ha chiamato i soccorsi. Incarcerato a Marassi, Bodi, musulmano osservante, ai limiti dell'integralismo, è ora accusato omicidio aggravato da futili motivi e dal fatto che il gesto sia stato compiuto nei confronti della coniuge. Non ci sono, verso l’omicida, denunce, esposti o segnalazioni precedenti. I quattro bambini, in un primo momento tenuti da una cugina, vicina di casa, sono stati consegnati a uno zio.

Laura Ziliani.

"Non moriva, le abbiamo stretto le mani al collo". Omicidio Laura Ziliani, ergastolo alle figlie al loro amante: “Le abbiamo dato un muffin con benzodiazepine e poi soffocata”. Redazione su Il Riformista il 7 Dicembre 2023

Ergastolo per Paola e Silvia Zani e Mirto Milani. Durante le ricerche era arrivata una mail anonima “Ho visto il nostro vicino prendere una donna prima di sensi”. La corte d’assise di Brescia ha condannato al massimo della pena tutti e tre gli imputati che l’8 maggio del 2021 Temù, nel bresciano, hanno ucciso Laura Ziliani, ex vigilessa del paese della Vallecamonica e madre delle due imputate.

La condanna del “trio criminale”

Accolta la richiesta del pubblico ministero Cary Bressanelli secondo la quale non potevano essere fatte differenze sulle responsabilità dei tre componenti di quello che è stato ribattezzato “il trio criminale”

Laura Ziliani: cosa è successo quella notte

Silvia Zani, che assieme alla sorella è accusata di aver stordito con degli ansiolitici, soffocato con un sacchetto di plastica e seppellito la mamma sul greto del fiume Oglio con l’aiuto di Mirto Milani, fidanzato di Silvia e amante anche della sorella minore, aveva rivelato che “quando ho ucciso mia madre ero convinta al 300 per cento che lei volesse avvelenarci. Ci avrei messo la mano sul fuoco. Ora dopo tanti mesi in carcere, non sono più così sicura”.

Condannati anche la sorella Paola e il fidanzato Mirto Milani

“Eravamo convinti che nostra madre volesse ucciderci. Eravamo spaventatissimi. Non so perché volesse ucciderci, forse perché ero una rompiscatole o perché volevo gestire gli immobili che abbiamo ereditato dopo la morte di mio padre in modo diverso“, ha detto ancora in aula Silvia Zani che già un anno fa, durante l’interrogatorio in carcere in cui confessò l’omicidio della madre, aveva detto di aver agito per difendersi da un presunto piano omicidiario della madre.

Rossella Cominotti.

La Spezia, femminicidio in albergo: «Uccisa con un rasoio». Fermato il marito. Alessio Ribaudo su Il Corriere della Sera venerdì 8 dicembre 2023.

L’edicolante cremonese Rossella Cominotti, 53 anni, era ospite di un hotel di Carrodano col marito 57enne. I carabinieri di Pontremoli lo hanno fermato in Lunigiana e, poi, è stato interrogato a lungo a Massa Carrara. Usato un rasoio per compiere il femminicidio.

Come ogni giorno, di primo mattino, avrebbero dovuto rifare anche quella camera ma il personale di un hotel nello Spezzino, a Mattarana, mai avrebbe immaginato di trovarsi davanti a una scena da film horror: riverso sul letto c’era il cadavere di Rossella Cominotti, edicolante 53enne del Cremonese. Da una settimana aveva affittato la stanza insieme al marito Alfredo Zenucchi — un 57 enne bergamasco — che era uscito dalla struttura al mattino. Poi, non si erano avute più sue notizie, sino alle 14, quando è stato fermato dai carabinieri di Pontremoli, in provincia di Massa Carrara, nel corso di un posto di blocco disposto per trovarlo . Sul caso indaga la procura di La Spezia e Zenucchi è stato interrogato, per alcune ore, dagli inquirenti a Massa Carrara. La pista del femminicidio sembrerebbe quella più accreditata e l’uomo potrebbe, a breve, essere trasferito in carcere in attesa dell’udienza di convalida del fermo.

Davanti agli inquirenti l’uomo ha confessato di essere l’autore del delitto: «Volevamo morire insieme: il progetto era questo. Doveva essere un omicidio-suicidio, ma non sono riuscito a togliermi la vita» ha confessato nel corso dell’interrogatorio Alfredo Zenucchi,

Il ritrovamento

L’allarme era stato lanciato dal personale dell’albergo di Mattarana, un frazione di Carrodano, che dopo lo spavento iniziale hanno chiamato i carabinieri di Sesta Godano qualche minuto prima delle 9. «Siamo sconvolti», hanno detto i proprietari ai militari. Nella struttura ricettiva sono arrivati anche gli uomini del nucleo investigativo di La Spezia, guidato dal maggiore Marco Di Iesu e il medico legale che avrebbe trovato sul corpo senza vita della donna delle profonde ferite inferte alla gola probabilmente con un’arma da taglio come un rasoio a mano libera che è stato ritrovato nella stanza . A Mattarana si è recata la magistrata di turno della procura di La Spezia, Elisa Loris, che coordina le prime indagini sul caso.

La coppia

La coppia risiedeva in una villetta a schiera di Cavatigozzi, a pochi chilometri da Cremona e, secondo quanto raccontato dai vicini, erano tanto riservati da sembrare «persino schivi». «Mai sentiti urlare, mai assistito a liti particolari», dicono. Poi aggiungono: «Lui non lo abbiamo praticamente mai visto e avremo parlato con lei tre volte in tutto. E per dire buongiorno o buonasera». Negli ultimi tempi qualcuno ha notato delle stranezze: «L’erba del giardino è cresciuta in maniera smisurata e abbiamo provveduto a tagliarla noi», hanno raccontano altri vicini. Solo una volta c’è stato un confronto: «Anche piuttosto duro per i cani e il modo in cui li tenevano sempre liberi, quasi abbandonati a loro stessi motivo per cui ci siamo lamentati e lui ci ha quasi aggrediti». I due gestivano l’edicola «Il cartolaio matto», nel centro storico di Bonemerse, di cui lui è proprietario da fine settembre dell’anno scorso. In paese raccontano che il giorno 28 novembre avevano affisso un cartello per annunciare che avrebbero chiuso qualche ora prima del solito. Da quel giorno, però, non avevano più riaperto. «Lo scorso mercoledì è venuta qui una donna a cercare Rossella», spiega un altro vicino, «e ci ha riferito di essere stata mandata dal sindaco di Bonemerse perché temevano fosse morta in casa». A lanciare il primo allarme è stata sui social una parente di Rossella che, alcuni giorni fa, si era allarmata e aveva pubblicato un post sui social: «I telefoni non ricevono più chiamate e neanche Whatsapp funziona. Siamo molto preoccupati. Le forze dell’Ordine stanno già lavorando per questo. In famiglia c’è molta paura». Paure, purtroppo, fondate.

Estratto dell’articolo di Marco Gasperetti per il “Corriere della Sera” sabato 9 dicembre 2023.

«Adesso scappo, così mi sparate e finisce tutto». Alle 13.30 Alfredo Zenucchi, 57 anni edicolante bergamasco, è appena uscito dalla sua Citroen C3 bianca. I carabinieri lo stanno per ammanettare: è lui l’assassino della moglie, Rossella Cominotti, 53 anni, nata in provincia di Mantova, un passato da parrucchiera. 

L’ha uccisa sei ore prima, in una camera dell’Antica Locanda Luigina a Mattarana, una piccola località della Val di Vara, entroterra ligure, turistica d’estate ma deserta d’inverno. Alfredo sembra in stato confusionale davanti ai militari, però ha pianificato con razionalità la fuga. Poteva imboccare la vicina autostrada ma invece sceglie le tortuose strade che collegano la Liguria con la Toscana sperando di evitare telecamere, caselli, auto della polstrada. E invece a una curva ad aspettarlo ci sono i carabinieri della compagnia di Pontremoli. Lo cercavano da ore e geniale è la decisione di istituire un posto di blocco proprio nella zona più impensabile. [...]

Il movente, o i moventi, sono ancora tutti da decifrare. Alfredo è stato interrogato per ore dal pm Elisa Loris e dal maggiore Marco Di Iesu. Ha pianto ripetutamente, ha raccontato che quello doveva essere «il nostro ultimo viaggio perché volevamo ucciderci insieme, ma io non ce l’ho fatta, non ho avuto il coraggio». 

Il motivo della decisione pare fosse economico: i debiti accumulati per l’acquisto dell’edicola e altri affari finiti male. Ipotesi tutte ancora da verificare, perché la modalità del delitto (la donna è stata uccisa con un colpo di rasoio alla gola), è molto anomala per una coppia che decide, insieme, di farla finita. Il corpo di Rossella è stato trovato ieri mattina intorno alle 8 da una donna delle pulizie dell’albergo [...] La donna era riversa sul letto, la gola squarciata, sangue dappertutto.

[...] I due coniugi avevano deciso di trascorrere il ponte dell’Immacolata in Val di Vara, dove erano arrivati una settimana fa in auto senza mai lasciare l’albergo, per festeggiare il compleanno di lui (che cadeva giovedì) ma anche di lei che aveva compiuto gli anni pochi giorni fa, il 27 novembre. Una data fatidica perché il giorno dopo, il 28, entrambi avevano deciso di chiudere l’edicola di Bonemerse, nel Cremonese. Pare che gli affari andassero male ma nessuno aveva avvertito amici e familiari e soprattutto i fornitori. Avevano appeso all’edicola un avviso «Alle 16.30 chiudiamo» ma nei giorni a seguire l’esercizio era rimasto serrato con pacchi e pacchi di giornali che si accumulavano sul selciato.

Ed è stato questo a insospettire il sindaco di Bonemerse, Luca Ferrarini. «[...] Ho interpellato i vicini di casa che mi hanno detto che non vedevano la coppia da un po’ di tempo. Nemmeno i familiari sapevano niente. Il 2 dicembre sono andato alla caserma dei carabinieri e ho raccontato che cosa stava accadendo». Giovedì 7 dicembre una cugina della vittima aveva poi lanciato un appello sui social.

Il primo incontro al bar, le nozze senza parenti: «Rossella e Alfredo, sempre chiusi e isolati». Maddalena Berbenni e Francesca Morandi su Il Corriere della Sera il 10 dicembre 2023.

Rossella Cominotti, 53 anni, uccisa dal marito Alfredo Zenucchi, 57, a La Spezia: lui sostiene che insieme meditavano di farla finita da un mese ed elenca i tentativi falliti di suicidio e le località. Una zia di lei: «Mia nipote mi disse del matrimonio la mattina stessa»

In municipio si erano presentati con due testimoni rimediati in paese, lei con la figlia di una cliente a cui andava ad acconciare i capelli in casa, lui con un semplice conoscente. Era stata una cerimonia alla buona, senza parenti e senza amici, e con un giro finale di prosecchi al bar per brindare a una felicità che in quel momento forse credevano davvero potesse dare una svolta alle loro vite quasi sempre ai margini. Rossella Cominotti e i suoi problemi di bulimia. Alfredo Zenucchi e il suo passato sbiadito in un paesino della Val Seriana, Peia, dove faticano a ricordarlo. E se qualcuno ne parla, è per dire che non lo si vedeva mai, che era schivo, di poche, pochissime parole.

Emerge un fondo di disperazione in questo omicidio già confessato, descritto dal protagonista come un mancato suicidio di coppia. Nel suo interrogatorio agghiacciante, in cui nega problemi di tossicodipendenza a dispetto della droga trovata nella stanza del delitto, Zenucchi sostiene che meditassero di farla finita da un mese ed elenca tentativi e modalità cambiate, con la decisione di raggiungere infine la Liguria perché la moglie amava il mare. Erano partiti con 700 euro, spostandosi in due hotel fino alla locanda di Mattarana, dove stavano dal 2 dicembre. «Una coppia isolata e chiusa in se stessa», la tratteggia l’avvocato Alberto Rimmaudo, definizione che fa il paio con ciò che si coglie nei luoghi dove i due hanno vissuto. Entrambi si erano allontanati dalle rispettive famiglie di origine. Cominotti aveva mantenuto i rapporti con un’unica zia, Francesca Schiroli, che sentiva con una certa regolarità, ma che solo per caso, persino lei, aveva saputo del matrimonio.

«Ti devo dare una bella notizia, mi sposo alle 12.30», si era sentita rispondere quando le aveva telefonato la mattina del 9 marzo, rimproverandola affettuosamente perché da tempo non le dava notizie. «Si era scusata per non avermelo detto prima e ci siamo salutate — confida Schiroli —. Le dissi di andare, se si doveva preparare, e di mandarmi due o tre fotografie, cosa che ha fatto. Era una brava ragazzina, io la vedo sempre così. Da giovane era bellissima, solare. Sapeva fare tutto: cucire, imbiancare. Come parrucchiera era brava. Non ci siamo mai perse».

Del compagno, la zia non aveva chiesto nulla. Zenucchi e Cominotti si erano conosciuti nel 2021 in un bar a Cremona. In quel periodo l’uomo lavorava per la cooperativa Il Cerchio, nel settore del facchinaggio. Dalla Bergamasca se ne era andato da molto prima, «saranno almeno quindici anni», si sforza di fare mente locale un vicino di casa cinquantenne, che chiede riservatezza sul suo nome «per rispetto della sorella, una gran brava persona. Qui nessuno parla di Alfredo non per omertà — aggiunge —, ma perché non frequentava il paese. Era schivo, non parlava mai». In un bar se lo ricordano giusto come portiere nella squadra di Leffe, da ragazzo.

L’abitazione di famiglia, dove vive la sorella maggiore Anna Maria Zenucchi, è nella parte alta di Peia, costruita dal padre Luigi, che aveva una piccola ditta tessile dove anche Alfredo si era dato da fare dopo le scuole. Dove c’era il capannone con i telai ora sorgono villette a schiera. «Non ho niente da dire», le uniche parole pronunciate al citofono dalla donna.

In questi ultimi nove mesi, dalle nozze in avanti, sembra che il mondo della coppia fosse ruotato attorno all’edicola di Bonemerse, rilevata a gennaio con tanto di articolo sulla stampa locale. «Non andava bene, ma non erano oppressi dai debiti», precisa l’avvocato Rimmaudo per smentire l’ipotesi di un movente economico. I carabinieri, che venerdì l’hanno perquisita, l’hanno trovata in perfetto ordine, con il retrobottega arredato per dormirci in caso di necessità. Ed essere pronti, all’alba, per la consegna dei giornali.

Il marito ha vegliato Rossella per 36 ore. La procura: «In una lettera della vittima la volontà di morire insieme». Storia di Marco Gasperetti su Il Corriere della Sera sabato 9 dicembre 2023.

LA SPEZIA L’ha uccisa con un colpo di rasoio alla gola poco dopo le 20 di mercoledì nella camera d’albergo. Poi l’ha vegliata per 36 ore: due notti e un giorno. «Rossella voleva morire così e dovevamo farla finita insieme, nello stesso modo, ma io non ho avuto coraggio. Le avevo proposto di gettarci insieme da un dirupo ma poi ho accettato le sue volontà»: così ha raccontato agli investigatori Alfredo Zenucchi, 57 anni, edicolante bergamasco dopo aver assassinato la moglie, Rossella Cominotti, 53 anni, nata in provincia di Cremona, un passato da parrucchiera. Una versione che poco avrebbe convinto pm e carabinieri se non fosse stata trovata una lettera della vittima che conferma la volontà di morire insieme al marito: scritta con calligrafia femminile, è firmata da entrambi i coniugi.

La lettera

Non è solo la storia di un delitto, la tragedia accaduta nell’Antica Locanda Luigina a Mattarana, una piccola località della Val di Vara, entroterra ligure, turistica d’estate ma deserta d’inverno. Avrebbe dovuto essere un suicidio condiviso, senza un movente almeno per ora, se non il fallimento di quell’edicola che i due coniugi, sposati da pochi mesi, avevano deciso di chiudere senza per altro avvertire nessuno. Come scrive in un comunicato stampa la procura di La Spezia: «C’è una lettera, apparentemente scritta dalla donna e sottoscritta da entrambi, che palesava i propositi suicidi. Il medico legale intervento sul posto constatava che la donna sarebbe deceduta a seguito di uno choc emorragico». Almeno due ore dopo il colpo di rasoio inferto dal marito. La donna, nella lettera che dovrà ora essere sottoposta a perizia calligrafica, avrebbe anche espresso la richiesta di non far troppo clamore sulla morte di entrambi. Sulla modalità del gesto restano però solo le parole del marito.

La veglia e la fuga

Il rasoio del delitto era di proprietà della vittima che in passato aveva lavorato come parrucchiera. L’uomo, dopo aver ucciso la moglie e averla vegliata per due notti, è fuggito la mattina dell’Immacolata dopo aver fatto colazione. Ma alle 13.30 di venerdì è stato fermato dai carabinieri. A loro ha detto: «Adesso scappo, così mi sparate e finisce tutto qui». Davanti ai militari è sembrato in stato confusionale, ma la sua fuga dopo il delitto è stata pianificata con razionalità. Avrebbe potuto imboccare la vicina autostrada, invece aveva scelto le tortuose strade che collegano la Liguria con la Toscana sperando di evitare telecamere, caselli, auto della polizia. Dopo aver superato una curva si è imbattuto invece nei carabinieri della compagnia di Pontremoli: decisiva la scelta di organizzare un posto di blocco anche lungo una possibile via di fuga ma del tutto secondaria.

I dubbi

Sul motivo della decisione di lasciare tutto, fino al gesto estremo, restano ancora molti dubbi. In un primo momento si era parlato di debiti accumulati per l’acquisto dell’edicola e altri affari finiti male, ma oggi questa ipotesi è sfumata. Il corpo di Rossella è stato trovato venerdì mattina intorno alle 8 da una donna delle pulizie dell’albergo convinta che la camera, al primo piano della locanda, fosse già stata liberata dagli ospiti. La donna era riversa sul letto, la gola squarciata, sangue dappertutto. Il cadavere è rimasto nella stanza fino alle 12.30 ed è stato fatto uscire da una porta secondaria sul retro della villetta. Al piano terreno, nella sala pranzo, erano presenti diversi ospiti che non si sono accorti di nulla. I due coniugi avevano deciso di trascorrere il ponte dell’Immacolata in val di Vara, dove erano arrivati una settimana fa in auto senza mai lasciare l’albergo, per festeggiare giovedì il compleanno di lui ma allo stesso tempo anche quello di lei: la donna aveva compiuto 53 anni lo scorso 27 novembre.

L’edicola nel Cremonese

Una data significativa perché il giorno dopo, il 28, è arrivata la decisione di chiudere l’edicola di Bonemerse, nel Cremonese. Hanno appeso un cartello: «Alle 16.30 chiudiamo». Nessuno pensava che fosse per sempre. Nei giorni successivi l’edicola è rimasta chiusa con pacchi e pacchi di giornali che si accumulavano davanti. Ed è stato questo a insospettire il sindaco di Bonemerse, Luca Ferrarini. «Ho iniziato a fare delle ricerche su Internet e sui social — spiega il primo cittadino —. Ho interpellato i vicini di casa, mi hanno detto che non vedevano la coppia da un po’ di tempo. Nemmeno i familiari sapevano niente. Il 2 dicembre sono andato alla caserma dei carabinieri e ho raccontato che cosa stava accadendo». Giovedì 7 dicembre una cugina della vittima aveva poi lanciato un appello sui social. Rossella era già morta.

Rossella Cominotti, chi era la donna uccisa dal marito con un rasoio: le nozze 9 mesi fa, amante dei cani e fan di Vasco Rossi. Francesca Morandi su Il Corriere della Sera il 9 dicembre 2023.

La vittima, 53 anni, colpita a morte da Alfredo Zenucchi in una camera d'albergo a Mattarana (La Spezia). Nata a Rivarolo Mantovano, da tempo risiedeva nel Cremonese. I vicini: «Coppia schiva, mai sentita litigare»

Innamorata dei cani, fan di Vasco Rossi, non si perdeva una festa di paese quando le band suonavano le canzoni del suo mito. Erano queste le due grandi passioni di Rossella Cominotti, nata e cresciuta a Rivarolo Mantovano (Mantova), dove abitano l’anziana madre Sandra, la sorella Sabrina e la zia Francesca.

Da molti anni Rossella, 53 anni compiuti il 27 novembre, aveva lasciato il paese per Cremona. Qui aveva lavorato come parrucchiera in un salone in via Manzoni, in pieno centro storico. Persona «gentile, molto brava nella sua professione. Non dava molta confidenza, parlava poco», racconta di lei un ex collega che l’aveva poi persa di vista. Rossella aveva casa a Cavatigozzi, quartiere alle porte di Cremona. Abitava in un appartamento al piano terra di un condominio con le portefinestre che si affacciano su un fazzoletto di giardino. «Era l’appartamento nel quale aveva convissuto con l’ex compagno, il quale era poi morto per cause naturali e glielo aveva lasciato», spiega un amico.

Due grandi occhi azzurri, sorriso dolce, Rossella era «magrissima, perché ha sempre avuto problemi alimentari, una volta fu ricoverata in ospedale», continua l’amico. Da qualche tempo la donna si era messa insieme ad Alfredo Zenucchi, 57 anni compiuti due giorni fa, lui nativo di Peia, paese in val Gandino, nella Bergamasca, dove «ha vissuto nei tempi della giovinezza. Personalmente non ho avuto modo di conoscerlo», precisa il sindaco Silvia Bosio.

A gennaio di quest’anno la coppia aveva rilevato «Il cappellaio matto», l’edicola cartolibreria in via Roma a Bonemerse, paese a sei chilometri da Cremona, una comunità sgomenta, ora. Perché «erano persone molto gentili, disponibili, carine con i clienti — spiega la signora Benedetta Soldati —. Avevamo le attività vicine quindi ci vedevamo tutti i giorni. Due parole davanti al caffè, poi loro andavano in edicola». Il sindaco di Bonemerse, Luca Ferrarini, li aveva sposati il 9 marzo scorso. Una cerimonia semplice, un bicchiere di prosecco offerto al bar del paese. 

«Sembravano persone tranquille, contente — afferma il primo cittadino —. Dissi loro che entravano con un ruolo importante nella comunità. Erano apparsi molto tranquilli, contenti. Certo, forse, con il senno del poi, tutto è diverso…». Coppia schiva, i Zenucchi. «Non li abbiamo mai sentiti urlare, non abbiamo mai assistito a liti particolari. Erano un po’ strani», dicono i vicini di casa a Cavatigozzi. «Lui non lo abbiamo praticamente mai visto, con lei avremo parlato tre volte in tutto. E per dire buongiorno o buonasera. Da mesi la casa sembrava come abbandonata. L’erba del giardino è cresciuta in maniera smisurata e abbiamo provveduto a tagliarla noi».

Pare che Rossella fosse in arretrato con le spese condominiali, irreperibile ai solleciti. Amava i cani, ma usciva di casa e li teneva giorno e notte, d’estate e d’inverno, in giardino, facendo storcere il naso ai condomini. Per questo, due animali le sono stati tolti: l’ultimo, un meticcio di nome Jolly, è stato affidato a un vicino. Un altro sarebbe scappato e non più tornato a casa.

Uccide la moglie in hotel e fugge: preso. Gestiscono un'edicola a Cremona, da 12 giorni erano spariti. L'uomo fermato in Lunigiana. Valentina Carosini il 9 Dicembre 2023 su Il Giornale.

Una donna trovata morta all'interno di una camera d'albergo di provincia, il marito che lascia la struttura di mattina presto e viene fermato poche ore più tardi ai confini tra Liguria e Toscana dopo una breve ma intensa ricerca. Succede ancora e questa volta lo scenario è quello di una locanda dell'entroterra, a Mattarana, ai piedi della Val Di Vara in Liguria. È qui che ieri mattina il personale di servizio di un piccolo hotel sull'Aurelia, in una delle frazioni del comune di Carrodano, trova il corpo di Rossella Cominotti, 53enne lombarda, che soggiornava in quella stanza da alcuni giorni insieme al marito, Alfredo Zenucchi, 57 anni. Ci sono le ferite sul corpo, profonde e sulla scena viene rinvenuto un rasoio a mano libera, che dalle prime risultanze sarebbe l'arma usata per il delitto.

Scattano le indagini, con l'ipotesi di omicidio. Sul posto arrivano i carabinieri e partono le ricerche del marito, che aveva lasciato l'hotel di prima mattina in quello che sarebbe dovuto essere l'ultimo giorno prenotato nella struttura. Posti di blocco in diverse zone della provincia e fuori regione che danno esito intorno alle 14 di ieri, quando la C3 bianca con a bordo Zenucchi viene fermata dai militari della compagnia di Pontremoli non lontano da Aulla, in Lunigiana.

Da un lato sul fronte spezzino vengono acquisite le immagini delle telecamere di sorveglianza che potrebbero rivelare informazioni importanti per far luce sulla morte della 53enne. Intanto il marito in stato di fermo è stato sentito a lungo dai carabinieri. Ore di silenzio senza dettagli sull'accaduto poi una prima ammissione da parte di fronte agli inquirenti. «Volevamo farla finita insieme - avrebbe riferito durante l'interrogatorio - dovevo uccidere lei e poi mi sarei tolto la vita io, ma non ce l'ho fatta».

Sono ancora tutti da chiarire i contorni della vicenda e da verificare le parole che avrebbe rilasciato il 57enne, delineando quello che sembra essere il contesto di un omicidio-suicidio (non concluso) dal movente ancora oscuro. Un mistero era risultato però evidente fin dall'inizio delle indagini: la coppia si era resa irreperibile da due settimane. Ed erano partiti anche gli appelli per le ricerche via social. Cremonesi, vivevano insieme in una villetta a schiera nella zona di Cavatigozzi e a Bonemerse gestivano un'edicola che avevano rilevato un anno fa. Poi l'improvvisa chiusura e da 12 giorni più nessuna notizia. Si erano allarmati anche alcuni parenti che avevano diffuso foto della donna in un post circolato su Facebook spiegando che ai ripetuti tentativi di contatto i telefoni di entrambi risultavano staccati. La notizia del ritrovamento del cadavere di Rossella fa in poco tempo il giro del Cremonese. Una coppia riservata, così la raccontano i vicini che non si accorgono quasi che marito e moglie sono spariti nel nulla da un giorno all'altro.

Le indagini intorno all'albergo di Mattarana sono gestite dai carabinieri del nucleo investigativo della Spezia, sul posto anche il pm di turno per raccogliere quante più informazioni possibili e ricostruire i dettagli. La competenza sull'inchiesta ricade fino a convalida dell'arresto sugli inquirenti toscani poi le indagini proseguiranno su territorio spezzino.

Donna trovata morta in albergo a La Spezia, il marito confessa: “Volevamo farla finita insieme, io alla fine non ce l’ho fatta”. Prima ha ucciso lei, poi doveva togliersi la vita ma non ce l’ha fatta. È ciò che è emerso dall’interrogatorio di Alfredo Zenucchi, il marito di Rossella Cominotti. Redazione su Il Riformista il 8 Dicembre 2023

Alfredo Zenucchi ha confessato di aver ucciso sua moglie, Rossella Cominotti. Ma l’uomo ha ammesso che i due avrebbero voluto togliersi la vita entrambi. Prima doveva uccidere lei, poi si sarebbe dovuto suicidare. Non è andata, però, secondo i presunti piani e il marito della donna trovata morta è stato arrestato, dopo essersi allontanato con la sua macchina. Fermato a un posto di blocco in Lunigiana, in località Terrarossa, nel comune di Licciana Nardi in provincia di Massa Carrara, non ha opposto resistenza ed è stato praticamente subito interrogato.

Nell’interrogatorio con i carabinieri, come riportato dalle agenzie di stampa, Alfredo Zenucchi ha spiegato come sono andate le cose e le intenzioni di suicidio della coppia: “Volevamo farla finita. Prima dovevo uccidere lei, poi mi sarei tolto la vita io. Ma alla fine non ce l’ho fatta”. Il marito, quindi, non ce l’avrebbe fatta a uccidersi con il rasoio, per questo avrebbe deciso di farla finita in un altro modo, allontanandosi dall’albergo e fuggendo. Secondo le prime ricostruzioni e le prime indagini, non è ancora chiaro il movente. I carabinieri, infatti, non hanno riscontrato né motivazioni sentimentali di gelosia, né motivazioni economiche che potessero spiegare il gesto.

Il ritrovamento del corpo della donna

La donna di 53 anni è stata ritrovata morta questa mattina in un albergo a Mattarana, nel comune di Carrodano, in provincia di La Spezia. Il personale della struttura l’ha ritrovata nel letto della stanza, Rossella Cominotti è stata uccisa con diversi colpi con un rasoio, ritrovato sul luogo del delitto dai carabinieri.

La coppia non si trovava da 12 giorni, risiedevano nel Cremonese, a Cavatigozzi. Erano titolari di un’edicola nel centro di Bonemerse, davanti al palazzo del Comune. La loro scomparsa aveva cominciato a preoccupare la famiglia di Rossella, che nelle ultime ore aveva lanciato un appello su Facebook per ritrovarla e per conoscere la sua sorte.

Marianna Sandonà.

Marianna Sandonà uccisa con 12 coltellate dall'ex, Amore criminale racconta il femminicidio 4 anni dopo. Francesco Brun su Il Corriere delle Sera giovedì 7 dicembre 2023.

La donna, 43 anni, fu uccisa nella sua casa di Montegaldella dal 38enne Luigi Segnini, che ferì gravemete un amico a cui Marianna si era rivolta in cerca di supporto. Il racconto del delitto questa sera su Rai 3 

Le urla, gli insulti, i colpi inferti persino quando il corpo era  privo di vita. Poi le grida d’aiuto dell’amico e, infine, il silenzio. È registrato nel cellulare della vittima tutto lo strazio del pomeriggio di sabato 8 giugno 2019, quando l’allora 38enne camionista Luigi Segnini uccise con 19 coltellate l’ex compagna Marianna Sandonà, 43 anni, e ferì l'amico Paolo Zorzi davanti all’abitazione di Montegaldella (Vicenza) dove avevano convissuto fino a poco tempo prima. Quattro anni dopo la storia di Marianna, il suo assassinio e il ferimento dell'amico Paolo Zorzi cui aveva chiesto aiuto saranno raccontati da «Amore criminale», la trasmissione condotta da Emma D'Aquino giovedì 7 dicembre alle 21.20 su Rai 3.

Il racconto dell'amico testimone

Un crimine di una violenza inaudita, come testimonierà lo stesso Zorzi, il collega di Marianna Sandonà che si era offerto di accompagnarla all’incontro, e che sarebbe rimasto gravemente ferito dalle pugnalate del camionista di Torri di Quartesolo. «Sono stato in coma per circa un mese - racconta Zorzi -. Oltre che essere una carissima amica, Marianna era una mia collega di lavoro alla Dab Pumps di Mestrino, e mi aveva chiesto se potevo essere presente, come testimone, alla consegna degli effetti personali di Signini, già preparati negli scatoloni e sistemati nel garage sottostante l’appartamento. Io ho accettato senza pensarci due volte, sono andato là prima per prendermi un caffè con lei, poi alle due e mezza è arrivato Segnini». Come spiega Zorzi, una volta scesi nel garage l’ex compagno iniziò a caricare la macchina con il materiale che doveva portarsi via, ma il suo atteggiamento sarebbe apparso fin da subito minaccioso.

 «Segnini sembrava un demonio»

 «Aveva una rabbia addosso che era una cosa indescrivibile - prosegue l’amico della vittima -, era tutta un’offesa e un continuo insulto nei confronti di Marianna. Dopo il primo carico Segnini se ne andò, mentre io e lei tornammo nell’appartamento a bere un bicchiere d’acqua, finché non sentimmo nuovamente il campanello. L’ex compagno voleva salire, sembrava un demonio. Una volta scesi, prese con rabbia la scrivania, rovinandone più di metà, e la gettò nella macchina». 

Secondo le ricostruzioni, mentre stava svuotando una cassettiera l’uomo trovò il coltello utilizzato per il delitto, anche se Zorzi non è convinto di questa versione. «Io sono sicuro che sia sceso dalla macchina con il coltello in mano - spiega -, ma gli investigatori mi dissero che non era così perché avevano il fodero al ciglio della chiusura del basculante. Segnini si scagliò su di me con tre coltellate, e quindi sulla povera Marianna, che venne uccisa con 19 fendenti». 

La registrazione nel telefono e la condanna

Segnini rivolse poi l’arma verso se stesso colpendosi più volte al torace e al collo, e riuscendo tuttavia a sopravvivere. Oltre alla testimonianza resa da Zorzi una volta risvegliatosi dal coma, nei processi fu decisiva la registrazione effettuata da Marianna Sandonà con il proprio telefono cellulare. 

Segnini durante l’interrogatorio attribuì la sua furia a un augurio di morte da parte della ex, la quale avrebbe tirato in ballo il padre dell’uomo. Nell’audio invece non si sente alcun litigio tra gli ex conviventi, nessuna «scintilla» che avrebbe fatto scattare la rabbia. Per questo motivio il pm Hans Roderich Blattner, responsabile del fascicolo, contestò l’omicidio con le aggravanti della premeditazione, non riconosciuta poi dal giudice, dei futili motivi e della crudeltà, oltre al tentato omicidio di Zorzi. Il 7 gennaio 2021 il Tribunale di Vicenza ha condannato Segnini, con rito abbreviato, a 20 anni di reclusione, sentenza confermata il 29 giugno dello stesso anno dalla Corte d’Appello di Venezia.

La tomba di Marianna bersaglio dei vandali

A un anno dal delitto la tomba di Marianna, a Grisignano di Zocco, è stata bersaglio di atti vandalici: qualcuno ha strappato i fiori che la ornavano, sparpagliandoli per tutto il cimitero. In precedenza alcuni boccioli erano stati spezzati, alcuni vasi fatti sparire ed erano stati rubati una collanina e altri piccoli oggetti lasciati dagli amici. Il padre di Marianna, Marino Sandonà, era arrivato ad appendere dei bigliettini al loculo, chiedendo ai responsabili di non violare la memoria della figlia. A detta di Paolo Zorzi, amico di Marianna e testimone del delitto, quei raid non sarebbero stati casuali. L’ultimo episodio lo scorso settembre, quando il padre ha denunciato il furto di un vaso di ciclamini.

Vincenza Angrisano.

Il sangue delle donne”: Vincenza, uccisa a coltellate dal marito davanti ai figli. Angelo Vitolo su L'Identità il 29 Novembre 2023

E’ la vittima numero 109 nel 2023, Vincenza: un ennesimo femminicidio. Una donna è stata uccisa a coltellate dal marito ieri pomeriggio tra Andria e Corato. L’omicidio davanti al figlio della coppia nei pressi della ex statale 98 a pochi chilometri da Andria, in un’abitazione all’interno di un’azienda ove l’uomo faceva il custode. Sul posto sono intervenuti i carabinieri. Si chiamava Vincenza Angrisano e aveva 42 anni la donna uccisa: è stata colpita con efferata violenza al torace e all’addome. E’ stato l’uomo stesso a chiamare il 118 riferendo di avere ammazzato la moglie. Sul posto è intervenuta la psicologa del centro del trauma per la gestione dei figli che hanno 6 e 11 anni che, secondo le prime informazioni, avrebbero assistito al delitto. I sanitari del 118 giunti sul luogo dell’omicidio non hanno potuto far altro che constatare il decesso.

”Un caso di femminicidio si è verificato nella nostra città. Siamo in attesa di ulteriori informazioni ma è accertato che si tratti di femminicidio”. Con queste parole la sindaca di Andria, Giovanna Bruno, ha interrotto il Consiglio comunale in corso.

”Una balorda e folle violenza, una inaudita e irreversibile sopraffazione in nome di niente. Non certo dell’amore, del rispetto, no – ha detto la sindaca – . Non c’è giustificazione alcuna, non ci potrebbe mai essere: solo forte condanna per questo abominevole orrore. Non cerchiamola, non cercatela. Solo condanna”.

”Il Consiglio comunale che solo pochi giorni addietro ha letto e scandito i nomi delle allora 103 donne uccise per mano di uomini dal primo gennaio 2023- ha aggiunto -, ha dovuto oggi brutalmente apprendere che la nuova, ennesima vittima di femminicidio in Italia è di Andria. Sì, nella nostra comunità si è consumato il terribile delitto: la quarantunenne travolta dalla furia omicida del marito è una nostra concittadina, ha calpestato le nostre strade, frequentato i nostri luoghi, ha dialogato con noi. I suoi figli sono i nostri bambini, seduti tra i banchi delle nostre scuole cittadine. Un femminicidio ad Andria. Anche ad Andria”. La sindaca, a nome personale e di ”tutta la città di Andria, sconvolta e incredula, ferita e attonita” ha espresso ”profondo, immane dolore, stringendo al petto, al mio petto di mamma, quelle fragili, impotenti creature, da quest’oggi orfane della loro mamma”.

Andria, accoltella la moglie davanti ai figli piccoli e chiama il 118: «L'ho uccisa». La vittima è una donna di 42 anni. È stata uccisa in casa. Sul posto sono intervenuti i carabinieri. REDAZIONE ONLINE su La Gazzetta del mezzogiorno il 28 Novembre 2023.

Ennesimo femminicidio in Puglia: un uomo ha accoltellato la moglie davanti ai propri bimbi piccoli. È successo ad Andria all'interno dell'appartamento della coppia che si trova sulla Sp 231.

La vittima è una donna di 42 anni. Sul posto sono intervenuti i carabinieri. L'uomo - secondo quanto si è appreso - ha chiamato il 118 e avrebbe confessato: «L'ho accoltellata, venite». Sul posto anche il magistrato di turno.

Gli operatori sanitari che hanno preso la telefonata hanno sentito anche urla di bambini e hanno allertato subito i carabinieri che indagano sull'accaduto coordinati dalla Procura di Trani.

La donna, Vincenza Angrisano, sarebbe stata accoltellata a morte al culmine di una lite con il marito, Luigi Leonetti, guardiano del rimessaggio dove si trova l’abitazione in cui la coppia viveva con i figli minorenni. L’uomo si trova nella caserma dei carabinieri. È stato lui a chiamare il 118 e a confessare di aver ucciso la donna. Secondo quanto si apprende l’omicidio sarebbe avvenuto davanti ai due figli minori della coppia rispettivamente di 11 e 6 anni. Sul posto, oltre ai carabinieri che con i colleghi della sezione investigativa scientifica stanno svolgendo i rilievi, è appena arrivato il capo della Procura di Trani, Renato Nitti.

A scatenare il femminicidio potrebbero essere state alcune incomprensioni private che si trascinavano da tempo. Sul corpo della donna ferite di arma da taglio al torace e all'addome. È stato l’uomo a chiamare il 118 dichiarando di avere ammazzato la moglie. Presente sul posto la psicologa del centro del trauma per la gestione dei figli.

«LUI LA TRATTAVA MALE»

«Ultimamente tra loro due le cose non andavano bene, lei voleva cambiare casa. Lui la trattava male». Lo ha detto una collega di Vincenza Angrisano, la donna di 42 anni uccisa a coltellate dal marito Luigi Leonetti ad Andria. L’uomo, di qualche anno più grande della moglie, si trova nella caserma dei carabinieri.

«Era la mia responsabile e quando ho saputo che era stata accoltellata a morte sono voluta venire qui per capire se davvero fosse lei», ha aggiunto la collega della vittima che ha raggiunto l’abitazione in cui è avvenuto il delitto e che si trova a ridosso della provinciale 231, a tre chilometri dal centro cittadino.

Secondo quanto si apprende, l’uomo l’avrebbe colpita più volte ad addome e torace senza lasciarle scampo. Poi ha chiamato il 118 per raccontare cosa aveva fatto. Nella casa della coppia sono in corso i rilievi dei carabinieri mentre una psicologa del centro del trauma della Asl Bat si sta occupando dei figli della coppia.

IL CORDOGLIO DELLA SINDACA BRUNO

«Il Consiglio Comunale che solo pochi giorni addietro ha letto e scandito i nomi delle allora 103 donne uccise per mano di uomini dal primo gennaio 2023, ha dovuto oggi brutalmente apprendere che la nuova, ennesima vittima di femminicidio in Italia è di Andria. Sì, nella nostra Comunità si è consumato il terribile delitto: la quarantaduenne travolta dalla furia omicida del marito è una nostra concittadina, ha calpestato le nostre strade, frequentato i nostri luoghi, ha dialogato con noi», con queste parole diffuse in una nota la sindaca di Andria Giovanna Bruno, commenta il femminicidio avvenuto nella città della Bat.

«I suoi figli sono i nostri bambini, seduti tra i banchi delle nostre scuole cittadine. Un femminicidio ad Andria… Anche ad Andria. Una balorda e folle violenza, una inaudita e irreversibile sopraffazione in nome di niente. Non certo dell’amore, del rispetto, no. Non c’è giustificazione alcuna, non ci potrebbe mai essere: solo forte condanna per questo abominevole orrore. Non cerchiamola, non cercatela. Solo condanna. A nome mio personale e di tutta la Città di Andria, sconvolta e incredula, ferita e attonita, esprimo profondo, immane dolore, stringendo al petto, al mio petto di mamma, quelle fragili, impotenti creature, da quest’oggi orfane della loro mamma», conclude poi la nota.

LUI SOTTOPOSTO A FERMO

È stato sottoposto a fermo nella notte con l’accusa di omicidio volontario Luigi Leonetti, l’uomo di 51 anni che ieri pomeriggio ad Andria ha ucciso a coltellate la moglie, Vincenza Angrisano di 42 anni. Il 51enne si trova in carcere mentre sul corpo della donna sarà disposta l’autopsia.

Secondo quanto ricostruito finora dai carabinieri coordinati dalla Procura di Trani, il delitto sarebbe avvenuto al culmine dell’ennesima lite tra la coppia. I due erano in casa con i loro figli quando l’uomo ha impugnato un’arma da taglio colpendo più volte al torace e all’addome la moglie senza lasciarle scampo. Sarebbe stato lui a chiamare il 118 confessando l’omicidio tra le urla dei figli. I piccoli, che hanno 6 e 11 anni, sono stati assistiti dal centro del trauma della Asl Bat e affidati ad alcuni parenti.

Uccide la moglie davanti ai figli ad Andria, poi chiama il 118: "Venite l'ho accoltellata". Federico Garau il 28 Novembre 2023 su Il Giornale.

L'episodio si è verificato in una zona rurale di Andria: l'uomo non accettava la fine del suo matrimonio

Una donna di 42 anni di Andria è stata uccisa a coltellate dal marito all'interno dell'abitazione nella quale da qualche tempo i due vivevano da separati in casa: un episodio già di per sé violento e traumatizzante, che colpisce ancora di più per il fatto che è stato compiuto proprio dinanzi agli occhi dei figli minorenni della coppia.

I fatti si sono verificati nel pomeriggio di oggi, martedì 28 novembre. Stando a quanto riferito dalle forze dell'ordine, tuttora al lavoro per ricostruire l'esatta dinamica della vicenda, la donna, Vincenza Angrisano di 42 anni, sarebbe stata uccisa in un locale adibito a rimessaggio al culmine di una accesa discussione tra i due oramai ex coniugi. Questo perché la coppia continuava a vivere sotto lo stesso tetto pur essendo da circa un mese in regime di separazione. Le tensioni tra marito e moglie erano frequenti, ma, a quanto pare, nonostante tutto l'uomo non riusciva ad accettare la fine del loro rapporto e del matrimonio.

Dopo l'ennesimo litigio, quest'ultimo avrebbe impugnato un coltello e si sarebbe scagliato contro la 42enne, colpendola ripetutamente all'addome e al torace. Il tutto davanti agli occhi dei figli, che hanno assistito al terribile omicidio della madre. Lo stesso assassino, Luigi Leonetti, ha quindi contattato telefonicamente il 118 per confessare il delitto di cui si era macchiato: "Ho accoltellato mia moglie, venite", avrebbe detto l'uomo al centralino.

Gli operatori sanitari che hanno intercettato la telefonata avrebbero riferito di avere udito anche delle grida disperate di bambini in sottofondo. Sono stati quindi gli uomini del 118 a lanciare l'allarme alle forze dell'ordine, segnalando la richiesta di intervento ai carabinieri. I militari hanno quindi raggiunto l'abitazione della coppia, una casa sita in una zona rurale di Andria nei pressi della strada provinciale 231. Insieme agli uomini dell'Arma, sul posto sono giunti anche il medico legale e il procuratore capo del Tribunale di Trani Renato Nitti, che si sta occupando di coordinare le indagini.

Il marito della donna era ancora sul posto all'arrivo dei carabinieri del comando provinciale di Trani. Gli inquirenti stanno effettuando i rilievi del caso all'interno della rimessa di Andria in cui si è verificato l'efferato omicidio, usata come deposito di attrezzi e mezzi. Qui è stato rinvenuto il corpo senza vita della 42enne Vincenza Angrisano. Nell'edificio sono all'opera anche gli uomini del nucleo specializzato delle investigazioni scientifiche, alla ricerca dell'arma del delitto utilizzata dall'assassino. Luigi Leonetti è stato dichiarato in arresto e trasportato in caserma per essere interrogato.

"Ultimamente tra loro due le cose non andavano bene, lei voleva cambiare casa. Lui la trattava male", ha dichiarato detto una collega di Vincenza Angrisano, come riferito dall'Ansa. "Era la mia responsabile e quando ho saputo che era stata accoltellata a morte sono voluta venire qui per capire se davvero fosse lei", ha concluso.

Vincenza Angrisano, l'audio all'amica prima di essere uccisa: «Ero in ospedale, mio marito mi ha alzato le mani». Giuseppe Di Bisceglie su Il Corriere della Sera venerdì 1 dicembre 2023.

Il vocale inviato quattro giorni prima del delitto. Oggi l'autopsia sul corpo della donna. L'azienda per la quale lavorava si offre di pagare i funerali 

«Purtroppo ho avuto una settimana molto particolare, dove sono stata in ospedale, dove mio marito mi ha alzato le mani. Veramente, non ero nei tempi di venire da te». È il contenuto di uno dei messaggi vocali inviati da Vincenza Angrisano ad una sua amica qualche giorno prima di essere uccisa a coltellate da suo marito, Luigi Leonetti, nella sua casa alla periferia di Andria. 

«Cercavo di stare il più lontano possibile da casa»

La voce provata, a tratti rotta dalla paura o dall'emozione per le notizie dolorose che stava comunicando; la conferma di aver subito la violenza da suo marito, due schiaffi che l’avevano costretta a ricorrere alle cure del Pronto soccorso, dal quale fu dimessa con quattro giorni di prognosi. Una violenza che non aveva voluto denunciare per timore che i suoi bambini ne avessero potuto in qualche modo risentire. «Facevo casa di mia madre, casa mia, giravo per strada, cercavo di stare quanto più lontano da casa mia e quindi non mi è stato possibile venire», confidava Enza nello stesso messaggio, quasi a ribadire la sua necessità di fuggire dall’ambiente domestico, evidentemente percepito come luogo a lei ostile. Ed è proprio nella sua casa, dalla quale aveva scelto di andare via, che Enza ha trovato la morte per mano di suo marito.

Lunedì 4 dicembre l'ultimo saluto

L’autopsia sul suo cadavere sarà eseguita sabato 2 dicembre dal professor Francesco Vinci, dell’istituto di Medicina legale del Policlinico di Bari. Dopodiché la salma sarà restituita ai familiari per i funerali che potrebbero essere celebrati nella giornata di lunedì 4 dicembre. Sino al giorno delle esequie, negli istituti scolastici della città di Andria, sarà osservato un minuto di silenzio e anche l’azienda per la quale Enza lavorava, la Stanhome, che si è offerta di pagare le spese del funerale e di creare un fondo a sostegno dei figli della vittima, ha scelto di osservare il lutto aziendale listando con un nastro nero i propri canali social e sospendendo, sino a domani, tutte le comunicazioni commerciali.

Vincenza Angrisano, uccisa dal marito, dopo il delitto il figlio di 11 anni chiamò la zia: «Corri, papà ha accoltellato mamma». Redazione online su Il Corriere della Sera lunedì 4 dicembre 2023.

L'omicidio della 42enne è avvenuto il 28 novembre mentre i due figli della coppia erano in casa. Secondo il gip del Tribunale di Trani, che ha convalidato il fermo di Luigi Leonetti, l'intento di uccidere era maturato già 5 giorni prima

«Zia, papà ha accoltellato mamma, ha ucciso mamma. Corri». Sono le parole che il maggiore dei due figli di Vincenza Angrisano, la donna di 42 anni uccisa martedì scorso ad Andria dal marito, Luigi Leonetti di 51 anni, ha detto al telefono chiamando la sorella della madre a cui ha chiesto aiuto poco dopo il delitto. É quanto si legge nell'ordinanza di applicazione della misura cautelare in carcere, emessa dalla gip di Trani, Anna Lucia Altamura. Salvatore, 11 anni, avrebbe anche riferito delle continue liti tra i genitori dovute alla volontà della donna di mettere fine al suo matrimonio. 

La confessione del marito

Il 51enne «nelle sue dichiarazioni non tralasciava di aggiungere di aver serbato il proprio intendimento omicidiario, non nascondendo che questo pensiero aveva attraversato la sua mente», scrive ancora la gip, che ricostruisce quanto successo nel pomeriggio del 28 novembre quando la vittima avrebbe comunicato al marito che sarebbe andata via per prendere il più piccolo dei figli da scuola, per poi non fare più rientro a casa. La donna però è rientrata per un'esigenza del bambino. Sull'uscio della porta del bagno, sarebbe stata colpita più volte al petto e all'addome dal marito con un coltello. É stato il 51enne a comporre il 118 «per prestare le necessarie cure» alla donna che «a suo dire stava "per morire"», ma aggiungendo anche «di non volerle dare soccorso, affermando per ben tre volte "non mi interessa"» aiutarla. All'arrivo degli operatori sanitari avrebbe confessato. «Ho commesso una fesseria - le sue parole - venite sopra, sono stato io. Sta qui». 

Secondo la giudice «uno degli aspetti di maggiore rilevanza concerneva la maturazione dell'intento omicidiario, a partire da quanto occorso il 23 novembre» quando l'uomo prende a schiaffi la moglie, facendola finire in ospedale con 4 giorni di prognosi. «Da quel momento in poi, particolarmente durante le sue ore lavorative» l'uomo «dichiarava di aver sedimentato l'idea di uccidere sua moglie. Non aveva ben chiaro il momento, né il luogo, né la modalità, ma questo pensiero si era riproposto più volte nella sua mente. Aveva pensato di ucciderla mentre la stessa stava dormendo sul divano in cucina, aveva pensato, comunque, di ucciderla in qualche modo - si legge nel provvedimento -. Il tutto poi era stato ancor più sostenuto dal fatto che la donna gli aveva comunicato il giorno prima» del delitto «di aver preso in affitto un appartamento e che si sarebbe trasferita dal 20 dicembre». L'uomo è in carcere a Lucera (Foggia) con l'accusa di omicidio volontario aggravato dall'aver commesso il fatto in danno del coniuge. 

Donna uccisa ad Andria, il gip: «Marito meditava il delitto da 5 giorni». «Ma non aveva ben chiaro il momento, né il luogo né la modalità». La telefonata del figlio: «Zia, papà ha accoltellato mamma, ha ucciso mamma. Corri». REDAZIONE ONLINE su La Gazzetta del Mezzogiorno il 4 Dicembre 2023

«Zia, papà ha accoltellato mamma, ha ucciso mamma. Corri». Sono le parole che il maggiore dei due figli di Vincenza Angrisano, la donna di 42 anni uccisa martedì scorso ad Andria dal marito, Luigi Leonetti di 51 anni, ha detto al telefono chiamando la sorella della madre a cui ha chiesto aiuto poco dopo il delitto. È quanto si legge nell’ordinanza di applicazione della misura cautelare in carcere, emessa dalla gip di Trani, Anna Lucia Altamura. Il piccolo di 12 anni avrebbe anche riferito delle continue liti tra i genitori dovute alla volontà della donna di mettere fine al suo matrimonio.

Il 51enne «nelle sue dichiarazioni non tralasciava di aggiungere di aver serbato il proprio intendimento omicidiario, non nascondendo che questo pensiero aveva attraversato la sua mente», scrive la Gip che ricostruisce quanto successo nel pomeriggio del 28 novembre quando la vittima avrebbe comunicato al marito che sarebbe andata via per prendere il più piccolo dei figli da scuola per poi non fare più rientro a casa. La donna però è rientrata per una esigenza del bambino. Sull'uscio della porta del bagno, sarebbe stata colpita più volte al petto e all’addome dal marito con un coltello.

È stato il 51enne a comporre il 118 «per prestare le necessarie cure» alla donna che «a suo dire stava 'per morire" ma aggiungendo anche «di non volerle dare soccorso, affermando per ben tre volte 'non mi interessa» aiutarla. All’arrivo degli operatori sanitari avrebbe confessato. «Ho commesso una fesseria - le sue parole - venite sopra, sono stato io. Sta qui». Secondo la giudice «uno degli aspetti di maggiore rilevanza concerneva la maturazione dell’intento omicidiario, a partire da quanto occorso il 23 novembre» quando l’uomo prende a schiaffi la moglie facendola finire in ospedale con 4 giorni di prognosi. «Da quel momento in poi, particolarmente durante le sue ore lavorative» l’uomo «dichiarava di aver sedimentato l’idea di uccidere sua moglie. Non aveva ben chiaro il momento, né il luogo, né la modalità, ma questo pensiero si era riproposto più volte nella sua mente. Aveva pensato di ucciderla mentre la stessa stava dormendo sul divano in cucina, aveva pensato, comunque, di ucciderla in qualche modo - si legge nel provvedimento -. Il tutto poi era stato ancor più sostenuto dal fatto che la donna gli aveva comunicato il giorno prima» del delitto «di aver preso in affitto un appartamento e che si sarebbe trasferita dal 20 dicembre».

L’uomo è in carcere a Lucera (Foggia) con l’accusa di omicidio volontario aggravato dall’aver commesso il fatto in danno del coniuge. 

Donna uccisa ad Andria, applausi all'uscita del feretro di Enza. Il figlio: «Mamma ti amo». L'omelia del parroco: «La morte di Enza per mano di suo marito è una tragedia che ha umiliato la comunità». Al funerale scarpe rosse vicino l'altare. REDAZIONE ONLINE su La Gazzetta del Mezzogiorno il 4 Dicembre 2023

«Cara mamma ti voglio tanto bene. Resta sempre nel mio cuore. Sei la persona che amo di più al mondo. Mi ricorderò sempre del tuo sorriso e del tuo aspetto solare. Guardami da lassù. Riesco ancora a sentire la tua voce, riesco ancora a sentire la felicità che avevi per la vita, riesco ancora a sentire la tua mano morbida che mi abbraccia. Cara mamma aspettami lassù perché alla morte non c'è rimedio, ma quando sarò vecchio ti raggiungerò. Ora guardo le tue foto e ascolterò i tuoi audio. Sento ancora il tuo abbraccio caldo e affettuoso. Cara mamma ti voglio bene».

È il messaggio del più grande dei due figli di Enza Angrisano, la donna uccisa martedì scorso dal marito ad Andria e letto al termine della cerimonia funebre dalla sindaca della città, Giovanna Bruno. Il fratello di sei anni ha invece fatto un disegno per la sua mamma che ha consegnato alla prima cittadina.

«Il sorriso è la vostra mamma che vi protegge, rassicura e incoraggia - ha detto Bruno rivolgendosi ai bambini - il sorriso è lei».

La sindaca ha sottolineato la condivisione della «atroce sofferenza» da parte della «città che è la vostra casa, che ha le braccia allargate per accogliere umanità. Noi siamo chiamati a recuperare l’umanità che qui si sta facendo preghiera e non spettacolo né curiosità». Bruno ha ribadito la condanna della violenza «in ogni sua forma, senza che vi sia alcuna giustificazione». All’uscita dalla cattedrale, gremita di persone, un applauso ha accolto il feretro che è stato abbracciato dalla mamma e dalla sorella della 42enne. 

«Ti preghiamo di accogliere tra le tue braccia la nostra sorella Vincenza, di custodire con amore di Padre i suoi figli e di usare misericordia con Luigi». È un passaggio della omelia del vescovo di Andria, monsignor Luigi Mansi, durante i funerali di Vincenza Angrisano, la donna di 42 anni uccisa lo scorso 28 novembre dal marito, Luigi Leonetti, di nove anni più grande.

«Perdonaci se alla notizia di questa ennesima tragedia che ha umiliato e macchiato di vergogna la nostra comunità civile ed ecclesiale, abbiamo coltivato sentimenti di sdegno e di vendetta», ha aggiunto Mansi. «La nostra sorella Enza è il chicco di grano che morendo certamente produce molto frutto nella vita dei suoi figli che se da una parte cresceranno senza lo sguardo, gli abbracci, i baci della mamma, certamente - ha continuato il vescovo- troveranno accanto a loro tante belle persone che non faranno mancare loro tutto l’affetto necessario per una crescita serena e ricca di frutti buoni per la vita, nell’attesa di poterci tutti incontrare nell’abbraccio eterno del cielo».

«A noi dona - ha concluso mons. Mansi - il coraggio, nonostante tutto, di custodire, servire e amare la vita sempre, dovunque e comunque».

Hanno un segno rosso sul volto e i fiocchi rossi appuntati sulla giacca simboli della violenza contro le donne, gli operatori della agenzia funebre che hanno accompagnato nella cattedrale di Andria il feretro di Vincenza Angrisano, la donna di 42 anni uccisa martedì scorso ad Andria dal marito reo confesso, Luigi Leonetti. All’interno della cattedrale dove è iniziata la cerimonia funebre, ci sono il prefetto di Barletta-Andria-Trani Rossana Riflesso, la sindaca di Andria Giovanna Bruno, il sindaco Barletta Cosimo Cannito, la parlamentare Mariangela Matera, il questore Roberto Pellicone. Assieme ai parenti della vittima ci sono i suoi figli di 6 e 12 anni che erano in casa al momento del delitto. Le colleghe della 42enne, che lavorava per una azienda di prodotti per la casa, hanno portato un mazzo di fiori e un grande cuore rosa su cui oltre alle firme, hanno scritto «non ti dimenticheremo mai». 

Un paio di scarpe rosse accanto all’elenco delle donne uccise da mariti, compagni o ex e la foto di Vincenza Angrisano. Così l’altare della cattedrale di Andria, si prepara ad accogliere il feretro di Vincenza Angrisano, la donna di 42 anni uccisa a coltellate martedì scorso dal marito nella loro abitazione a tre chilometri dal centro cittadino di Andria. La cerimonia funebre prevista per le 15.30 sarà presieduta dal vescovo di Andria, monsignor Luigi Mansi.

In chiesa sono arrivati anche alcuni parenti del marito della donna, Luigi Leonetti, che si trova in carcere con l’accusa di omicidio volontario aggravato dall’aver commesso il fatto ai danni del coniuge.

Roberta Siragusa.

Omicidio Siragusa, la difesa choc di Morreale: «Si è data fuoco da sola, buttata nel dirupo per esaudire un suo desiderio». Storia di Lara Sirignano Corriere della Sera  il 16 Novembre 2023 

Prima l’ha tramortita, poi l’ha bruciata viva e ne ha buttato il corpo in un burrone. Una violenza brutale costata al ventenne Pietro Morreale, ritenuto colpevole dell’omicidio della fidanzata di soli 17 anni, Roberta Siragusa, la condanna all’ergastolo in primo grado. Ma per il legale del giovane, l’avvocato Gaetano Giunta, che oggi ha tenuto davanti alla corte d’assise d’Appello l’arringa difensiva invocando una seconda chance per il suo assistito, la ragazza si sarebbe data fuoco da sola al culmine di una lite con l’imputato. E lui l’avrebbe gettata nel fosso, mentre le fiamme ancora la avvolgevano, non certo per crudeltà, ma per esaudire un suo desiderio: morire in un luogo per lei importante visto che era lì che la coppia era solita appartarsi.

La reazione

Una difesa che i legali di parte civile di Roberta hanno definito sconvolgente e che offende il buon senso e la memoria della vittima. E fa a pugni con l’enorme mole di indizi raccolti dai carabinieri: dai 33 episodi violenti commessi da Morreale contro la fidanzata nei mesi della loro relazione, al video girato da una telecamera di sicurezza che riprese il cadavere bruciare e l’auto di Pietro a poca distanza, alle chiavi e al sangue di Roberta trovati vicino al campo sportivo, dove il corpo fu dato alle fiamme, alle macchie di sangue scoperte nella macchina del ventenne.

L’appello

L’agonia di Roberta Siragusa, uccisa nelle campagne di Caccamo la notte del 23 gennaio di tre anni fa, ripresa dalla videocamera trovata dai carabinieri è «andata in onda» a porte chiuse, nell’aula del tribunale di Termini Imerese, dove si è tenuto il processo di primo grado, durante l’incidente probatorio. Le immagini «raccontano» che Roberta è stata divorata viva dalle fiamme per 5 minuti . Pietro avrebbe assistito alla scena in macchina, poi avrebbe caricato il corpo e l’avrebbe nella scarpata. «È stato solo un terribile incidente — ha ricostruito l’avvocato in aula — La giovane per cercare di spaventare l’ex fidanzato, che aveva scoperto che scambiava messaggi con un altro ragazzo e voleva lasciarla, per farlo tornare sui suoi passi, si sarebbe cosparsa di benzina e per un tragico incidente avrebbe provocato il rogo che l’ha uccisa». E, sempre secondo la tesi del penalista avrebbe poi gettato nel dirupo il corpo «per esaudire il desiderio che aveva espresso la ragazza in quanto quel luogo aveva un valore speciale per la loro relazione. Qui i due giovani avrebbero trascorso momenti di intimità. E’ stato un gesto istintivo». Al processo si sono costituti parte civile i genitori, il fratello, la nonna di Roberta.

Annalisa D'Auria.

Rivoli, uccide la compagna e si toglie la vita lanciandosi da un silos. Prima ha affidato la figlia a un collega. Massimo Massenzio e Alberto Giulini su Il Corriere della Sera sabato 28 ottobre 2023.

Il 36enne le ha tagliato la gola, è andato al lavoro a Orbassano e ha  affidato la figlia di 3 anni a un collega. Poi il suicidio nel cortile della fabbrica.  L'assassino, ex militare, aveva scontato un anno ai domiciliari per droga

È accaduto nella mattina di sabato 28 ottobre, intorno alle 6.  L’uomo,  Agostino Annunziata, di 36 anni, ha ucciso la compagna, Annalisa D'Auria, di 32 anni  nella loro casa di via Montebianco, al piano rialzato dello stabile al civico 19/2 a Rivoli, alle porte di Torino. Entrambi sarebbero originari della provincia di Salerno. Lei, addetta alla mensa di un istituto agrario di Pianezza, era originaria di Nocera Inferiore. Lui, attualmente operaio, di Pagani. La donna è  stata trovata senza vita dai carabinieri con una  profonda ferita da arma da taglio alla gola. Sarebbe stato usato un coltello da cucina ritrovato in casa dagli inquirenti.

In auto con la figlia

Annunziata è invece salito in auto con la figlia piccola, 3 anni, e verso le 6.45 è andato al lavoro a Orbassano, alla Massifond di via Circonvallazione esterna, una fonderia che lavora nell'indotto dell'automotive, a una ventina di minuti d'auto di distanza.  Dalle prime informazioni raccolte l'uomo, prima di lasciare l'abitazione, avrebbe chiamato la madre in Campania. È stata lei ad allertare immediatamente il 118 che, a sua volta, ha avvertito i carabinieri. I militari, giunti nell'abitazione della coppia, hanno poi trovato la vittima.

Il suicidio

A Orbassano, secondo i testimoni i due sono entrati in fabbrica, mano nella mano. L'uomo ha poi incrociato un collega e gli ha affidato la bambina, dicendogli che si sarebbe allontanato solo per pochi minuti. L'uomo a questo punto avrebbe chiamato il 112 annunciando di volerla fare finita. Poi si è buttato da un silos poco lontano mentre i carabinieri erano in arrivo.

La bambina sta bene ma è stata portata all'ospedale Regina Margherita da un parente e collega, subito accorso in azienda, per un controllo. La piccola non ha riportato lesioni, ma a preoccupare i medici, sono le possibili conseguenze psicologiche. Ora sarà affidata a un parente in arrivo da Milano. La donna uccisa aveva anche un'altra figlia, frutto di una precedente relazione.

Ex militare nell'esercito, Agostino Annunziata si era congedato ed era stato assunto alla Massifond di Orbassano, dove lavorava nel reparto staffatura. Era molto sportivo, ai colleghi non ha mai parlato di problemi in famiglia.  «Mai dato segnali di disagio, quando uscivamo insieme c'erano anche la moglie e la figlia. Sembravano una famiglia unita. Quello che è successo è incredibile», è una delle voci raccolte. 

L'uomo, si è appreso, aveva recentemente scontato un anno agli arresti domiciliari in quella stessa casa per problemi legati alla droga, poi l'affidamento in prova.

La vicina

«Li sentivamo litigare spesso, per gelosia. Mercoledì si è arrabbiato perché lei non aveva risposto ad alcune chiamate», ricorda invece una vicina di casa della coppia, mentre i colleghi hanno descritto l'assassino come una persona gentile e disponibile. 

Le indagini

Dai primi rilievi non sono stati trovati in casa biglietti che possano spiegare il gesto. I due abitavano alla periferia di Rivoli da tre anni, erano arrivati poco dopo la nascita dell'unica figlia. Sul luogo dell'omicidio sono in corso gli accertamenti dei carabinieri che stanno anche ascoltando la testimonianza del collega cui l'uomo ha affidato la bimba. 

Non risultano precedenti denunce a carico di Agostino Annunziata per possibili episodi di maltrattamenti nei confronti della donna e non sono mai stati effettuati interventi nella casa di via Montebianco. Gli investigatori sospettano che il movente del femminicidio sia legato alla sfrenata gelosia di Annunziata. Sembra infatti che l'ex militare sospettasse che Annalisa D'Auria potesse avere una relazione, circostanza che al momento non trova riscontri investigativi.

«Comunità sconvolta»

«Sono sconvolto, come uomo e come padre non riesco a trovare le parole per esprimere quello che sento in questo momento. Come sindaco, però, ho il dovere di tentare di dare risposte. Quello che è successo nella nostra città è incommentabile - ha dichiarato il sindaco di Rivoli, Andrea Tragaioli - Un caso di femminicidio a Rivoli ci porta velocemente e brutalmente alla realtà. La percezione che tragedie che sentiamo in televisione siano lontane da noi, non è vera: alla fine non sono così distanti da nessuno. E oggi piangiamo la vittima 101: così tante sono le donne uccise dal 1 gennaio 2023 in Italia. Una strage che deve essere fermata! Non parliamo di emergenza o di follia, vi prego, parliamo di problema che ha radici profonde e radicate in una cultura sbagliata. Esprimo la mia vicinanza alla famiglia di Annalisa e saremo accanto alla sua bambina. Non spegneremo i riflettori su questa immane tragedia e stiamo valutando qualche iniziativa. Per ora ci stringiamo in un religioso silenzio attorno ai familiari».

"Mia moglie mi tradisce". E la uccide. Affida la figlia all'amico e si ammazza. L'uomo ha confessato al 112 e alla madre. Poi si è gettato da un silos. Nadia Muratore il 29 Ottobre 2023 su Il Giornale.

«Credo che mia moglie mi abbia tradito». Solo un dubbio, quello di Agostino Annunziata, ma che è diventato un tarlo che gli ha offuscato la mente, fino a portarlo ad uccidere la donna che diceva di amare, la madre della sua bambina che al momento dell'omicidio era in casa con mamma e papà. Non era ancora spuntato il giorno quando Annunziata - 36 anni, nato in provincia di Salerno ma residente alla periferia di Rivoli, alle porte di Torino, ha ucciso la compagna Annalisa D'Auria, 32 anni, anche lei campana, originaria di Nocera Inferiore, con un fendente alla gola. Subito dopo ha telefonato alla madre in Campania, raccontando quello che aveva appena fatto: «Mamma ho ucciso Annalisa, non mi resta che farla finita anch'io».

In preda all'angoscia la donna ha avvertito il 112 ma quando ambulanza e carabinieri hanno raggiunto l'appartamento hanno solo potuto costare il decesso della donna. L'uomo non era in casa e, preoccupati per le sue intenzioni e per il fatto che con sé aveva la figlia di tre anni, è scattata la ricerca di Annunziata. Lui dopo aver ucciso la compagna, ha preso la figlia e si è recato ad Orbassano, alla Massifond, una fonderia ad una ventina di minuti d'auto dove lavora da un paio d'anni. Come se fosse una mattina di lavoro qualunque, è sceso dalla vettura, ha preso la bimba e si è avviato verso gli uffici dell'azienda. Nel piazzale ha incrociato un collega al quale ha chiesto di accudire la bambina: «Devo fare una commissione tienimela per qualche minuto». Un incontro che forse ha salvato la vita alla piccola. Annunziata si è diretto verso i silos e nel suo breve ma pesantissimo tragitto ha telefonato ai carabinieri confessando: «Ho ucciso mia moglie e ora vado ad uccidermi pure io». I militari sono arrivati pochi istanti dopo che l'uomo si era gettato da un silos. Distrutto dal dolore il cugino di Annuziata si è precipitato in azienda a prendere la nipote che sta bene ma per accertamenti è stata portata in ospedale. A prendersi cura di lei saranno i familiari, con l'aiuto di alcuni psicologi, perché anche se non ha riportato ferite si temono delle ripercussioni psicologiche per la piccola.

Per ricostruire la dinamica dei fatti e capire ciò che ha portato Annunziata ad uccidere la sua compagna prima di farla finita, gli inquirenti hanno ascoltato familiari e amici della coppia e alcuni di loro hanno confermato il dubbio che tormentava l'uomo, ossia che la sua Annalisa lo avesse tradito. Eppure i conoscenti parlano di loro come una coppia unita ed affiatata.

Annunziata era un ex militare dell'Esercito e aveva precedenti per droga, era stato agli arresti domiciliari prima di ottenere l'affidamento in prova. La compagna, Annalisa D'Auria era addetta alla mensa dell'istituto agrario Dalmasso di Pianezza ed ha un'altra figlia di quattro anni e mezzo, avuta da una precedente relazione, che vive con i parenti a Nocera Inferiore. Due bambine che ora dovranno crescere senza una madre.

Klodiana Vefa.

"Non si può vivere all'inferno". Klodiana ammazzata in strada con un colpo in testa: si cerca il marito.

Alessandro Ferro il 29 Settembre 2023 su Il Giornale.

Il marito risulta ancora irreperibile. La vittima è stata ammazzata con tre colpi di pistola come in una esecuzione

Uccisa brutalmente con tre colpi di pistola, in mezzo alla strada, dal marito che poi si è dato alla fuga: è l'orrore accaduto nella serata di ieri a Castelfiorentino, Comune della città metropolitana di Firenze, intorno alle ore 20. La vittima è Klodiana Vefa, 35enne di origini albanesi: secondo le prime informazioni non correvano buoni rapporti con il marito, Alfred Vefa (anche lui albanese) anche se i due non erano ancora separati legalmente e condividevano lo stesso tetto. Il femminicidio si è consumato a pochi passi dall'abitazione di via Galvani dove, subito dopo, sono accorsi figli e parenti della 35enne.

I pensieri sui social

"Se un uomo si aspetta che una donna sia un angelo nella sua vita, deve prima creare il paradiso per lei. Perché gli angeli non vivono all’inferno": sono queste le parole e i pensieri che Klodiana Vefa aveva scritto sui social, una chiara allusione alla vita che conduceva con il marito. "Sono fatta di cemento armato e vetro soffiato", ha aggiunto. La giovane era mamma di due figli, uno di 17 anni e un'altra di 14 anni: è l'amore per loro due che aveva evitato la separazione dal marito. Come detto, la donna era molto attiva sia su Facebook che Instagram con tante scene di vita quotidiana ma anche tanta malinconia. "Non sono arrivata qui per gioco, rischiando tutti e due", si legge. "L’amore coglie sempre un po’ di sorpresa: c’è chi lo vive con la passione e tutta la forza di cui è capace". Infine, anche un pensiero sull'uguaglianza tra gli esseri umani: "Non c’è razza, né religione, né classe sociale, né colore, né orientamento sessuale che rende migliore di qualcuno altro. Siamo tutti degni d’amore".

La dinamica dell'omicidio

Secondo le prime ricostruzioni da parte degli Iinvestigatori dell’Arma, l’uomo avrebbe la moglie in strada quando poi ha estratto la pistola facendo fuoco e colpendola alla testa. A Castelfiorentino abita una nutrita comunità di albanesi: il corpo della vittima si trova ancora nella via dell'abitazione in attesa che possa essere rimosso dal magistrato dopo il via libera da parte del medico legale. Si setaccia l'area e si cerca l'omicida che si è dato alla fuga: a terra in strada sono stati trovati due bossoli ma della pistola non c'è nessuna traccia: si tratta di un'esecuzione.

L'allarme è stato da chi abita in zona dopo aver sentito gli spari: tempeativamente è arrivata un'ambulanza che non è riuscita, però, a rianimare la vittima. Della vicenda si stanno occupando i Carabinieri del "Nucleo operativo della Compagnia di Empoli" e i militari della sezione investigazioni scientifiche di Firenze. Si spera che, a dare maggiori indizi, siano le telecamere installate in zona così da poter far vedere dove sia fuggito il marito. Questo femminicidio getta un'ombra importante su Castelfiorentino che negli ultimi mesi ha visto un aumento degli episodi di violenza.

La testimonianza dell'amica

Secondo quando ha dichiarato un'amica di Klodiana alla Nazione, la coppia andava avanti insieme soltanto per il bene dei propri figli. "Lui però non si era mai rassegnato alla fine del loro matrimonio. Era molto geloso. Discutevano spesso. Ma mai avremmo pensato che potesse accadere una cosa del genere". La giovane donna lavorava come camiera in una pizzeria della donna ed era benvoluta nel piccolo Comune.

"Purtroppo è accaduta da poco una sciagura in Castelfiorentino, zona Puppino", ha scritto su Facebook il sindaco di Castelfiorentino, Alessio Falorni. "Una ragazza è stata uccisa, pare in seguito a una lite. Sono sul posto assieme alle Forze dell'Ordine. È davvero presto per divulgare informazioni sull'accaduto e discutere le ipotesi che sono tuttora al vaglio delle FdO. È il momento del silenzio, e di stringersi attorno a una famiglia toccata da un avvenimento terribile".

A Castelfiorentino. Uccisa in strada a colpi di pistola, è caccia al marito della 35enne: “Colpita alla testa come in un’esecuzione”. Klodiana Vefa aveva 35 anni e due figli minorenni. È stata uccisa in strada, sotto casa. Il marito della donna, che non viveva più con lei, è irreperibile. Posti di blocco in tutta la Val d'Elsa. Redazione Web su L'Unità il 29 Settembre 2023 

Klodiana Vefa stava tornando a casa dal lavoro. È stata uccisa a colpi di arma da fuoco in strada, uno alla testa, come in un’esecuzione. È stata uccisa in strada, nella periferia di Castelfiorentino. Sul posto è intervenuta un’ambulanza del 118, inutili tutti gli sforzi per rianimarla. Sul luogo del delitto anche i carabinieri del Nucleo Operativo della Compagnia di Empoli e i militari della sezione investigazioni scientifiche di Firenze. Si cerca il marito della donna, la coppia non viveva più insieme e da alcune ricostruzioni pare si stesse separando ma la dinamica e il movente dell’omicidio sono ancora da accertare.

Vefa era albanese, in Italia con regolare permesso di soggiorno. L’omicidio si è consumato poco dopo le 20:00 in via Galvani. A far scattare l’allarme sono stati alcuni residenti della zona che hanno sentito l’esplosione di un colpo di arma da fuoco. I medici non hanno potuto fare altro che constatare il decesso. La donna aveva due figli, uno di 17 e una di 14 anni. Non viveva più con il marito, che al momento risulta irreperibile. Non risulta nessuna denuncia da parte della donna né altri tipi di interventi presso la sua abitazione.

La 35enne lavorava come cameriera in una pizzeria, viveva in Italia da tanti anni. È stata uccisa a pochi metri da casa, nella frazione di Puppino. Sul posto anche il Sis dei carabinieri che hanno trovato due bossoli a terra, l’arma del delitto non è stata trovata. L’assassino sarebbe fuggito a bordo di un’auto. I carabinieri hanno fatto scattare le ricerche, messo posti di blocco, avviato controlli in tutta la Valdelsa e lungo la direttrice stradale che da Castelfiorentino va verso Siena e verso Firenze. Perquisiti anche dei casali abbandonati.

Secondo le prime ricostruzioni dei militari dell’Arma l’uomo avrebbe atteso la donna in strada. Secondo altre la donna sarebbe scesa per parlare con l’assassino. Da accertare se prima del delitto sia scoppiato un litigio in strada. Al vaglio degli investigatori le immagini di telecamere private e pubbliche della zona che potrebbero aver ripreso la scena del delitto o almeno quella della fuga. Dal primo gennaio al 3 settembre in Italia sono stati registrati 225 omicidi, con 79 vittime donne, di cui 61 uccise in ambito familiare, affettivo. 38 delle vittime sono state dal partner o da un ex partner.

Sconcerto a Castelfiorentino, poco più di 17mila abitanti nella città metropolitana di Firenze, dove negli ultimi tempi si sono verificati diversi casi di criminalità. Il Comune ha varato un piano di presidio e ingaggiato un servizio di vigilantes, alcuni abitanti a inizio settembre hanno organizzato un presidio. “Una ragazza è stata uccisa, pare in seguito a una lite. Sono sul posto assieme alle Forze dell’Ordine. È davvero presto per divulgare informazioni sull’accaduto e discutere le ipotesi che sono tuttora al vaglio delle forze dell’ordine. È il momento del silenzio: dobbiamo stringerci attorno a una famiglia toccata da un evento terribile”, ha scritto su Facebook il sindaco Alessio Falorni intervenuto sul posto. Redazione Web 29 Settembre 2023

Femminicidio di Klodiana Vefa, l'ex marito Alfred si è ucciso. Simone Innocenti su Il Corriere della Sera venerdì 29 settembre 2023.

L'uomo si è tolto la vita sparandosi un colpo di pistola, è stato ritrovato a San Casciano. La macchina era stata abbandonata in una zona diversa rispetto a dove era il corpo 

È stato trovato morto in una zona isolata di San Casciano stamani alle 4. I carabinieri hanno trovato l’auto di Alfred Vefa, l'ex marito di  Klodiana Vefa uccisa con due colpi di pistola giovedì sera. L'uomo si è tolto la vita sparandosi un colpo di pistola. La macchina era stata abbandonata in una zona diversa rispetto a dove l’uomo è stato poi trovato. 

Nella macchina i carabinieri non hanno trovato alcun biglietto ma hanno sequestrato il cellulare che nelle prossime ore potrebbe essere aperto. Per uccidersi l’uomo ha usato la pistola usata per sparare alla moglie. I carabinieri ora dovranno capire come l’uomo se l’era procurata.

Alfred Vefa aveva anni e nella vita era muratore. Tutte le mattine andava a prendere il caffè in un bar che dista cinquecento metri dall’abitazione che condivideva con l’ex moglie. Il suo profilo Facebook risulta praticamente inaccessibile, ma non è sempre stato così: ad esempio ci sono foto con l’ex compagna pubblicate nel 2017 che poi sono diventate private. In quella immagine, ad esempio, ci sono lui e la ex moglie.

Legatissimo al figlio di 17 annui e alla figlia di 14 anni, l’uomo viveva a Castelfiorentino da diversi anni. In paese abita anche il fratello Artan che di lui non vuole parlare e non sa nulla. L’uomo infatti dice al Corriere Fiorentino: «Sono due anni che non ho più rapporti con lui e la sua famiglia».

Gli amici, se ci sono, sono pochi. Sono quelli che stanno provando a rintracciare i  carabinieri per capire se possono esserci indizi su dove sia adesso. Su di lui ci sono piccoli precedenti di polizia: nel 2001 fu denunciato per inosservanza al permesso di soggiorno e nel 2014 un piccolo guaio per una presunta falsità in una scrittura privata.

Formalmente l’uomo viveva nell’abitazione assieme alla ex moglie e ai figli. Tranne quando c’erano momenti di tensione: in quei casi – hanno ricostruito i carabinieri del Nucleo operativo di Empoli e del nucleo investigativo di Firenze diretti dal sostituto Ornella Galeotti – l’uomo prendeva la macchina e andava via.

Femminicidio di Castelfiorentino, l’ex marito si è suicidato. Dopo aver ucciso Klodiana Vefa, Alfred si è sparato con l’arma usata per ammazzare la moglie. Il cadavere trovato in una zona isolata. La Repubblica il 30 Settembre 2023  

Dopo averla ammazzata è fuggito. Lo hanno cercato per due giorni, Alfred Vefa.Una caccia all’uomo scattata dopo che giovedì scorso aveva sparato due colpi in testa a Klodiana Vefa, 35 anni, la sua ex moglie. I carabinieri lo hanno trovato, morto, in una zona isolata a San Casciano Val di Pesa. Per gli investigatori si è tolto la vita sparandosi con l'arma usata, verosimilmente, per uccidere anche la ex moglie.

Alfred era ricercato da giovedì sera, quando aveva sparato a Klodiana almeno due colpi a distanza ravvicinata mentre lei era in strada sotto casa, a Castelfiorentino, paese in provincia di Firenze. Poi era subito scappato con una Golf grigio metallizzato per far perdere le sue tracce. La donna già in passato aveva ricevuto minacce dal compagno: «Sarai mia - le aveva detto - o di nessun altro».

Nonostante un matrimonio finito da tempo, ancora convivevano. Lei sperava però di trasferirsi un giorno in un'altra casa assieme ai suoi due figli. Voleva ricominciare e costruire una nuova relazione. Aveva iniziato a frequentare un altro uomo, lo diceva senza paura. Ma l'altra sera, alle 19.47, il suo omicida le ha sparato. Poi la fuga.

La coppia aveva due figli: un ragazzo di 17 e una di 14. Entrambi sono corsi in strada dopo gli spari, trovando la madre a terra. Klodiana era una «gran lavoratrice», raccontano gli amici: operaia in una ditta di scarpe e nel week end cameriera in pizzeria. Lui faceva il muratore anche se di recente era rimasto disoccupato. Vivevano sotto lo stesso tetto, ma da 6 anni avevano interrotto la loro relazione. Un paio di anni fa in Albania, dove erano nati, avevano divorziato.

C'erano stati dei litigi. E lui, forse spinto dalla gelosia per le nuove frequentazioni della donna, l'avrebbe più volte intimidita: «Hai i giorni contati». Lei però non aveva mai sporto denuncia. Tra le conoscenti di Klodiana c'è chi descrive l'ex marito come «un uomo violento», ma non aveva precedenti. 

La titolare della pizzeria dove la vittima lavorava, ha raccontato: «Negli ultimi 2 anni lui le aveva reso la vita impossibile. Lei mi aveva confidato di voler venire via da quella casa». Il sindaco di Castelfiorentino, Alessio Falorni, ha proclamato due giorni di lutto cittadino per quello che è l'81esimo femminicidio quest'anno in Italia. E alle 20.30 ieri una fiaccolata si è mossa nel Comune in ricordo di Klodiana.

Chi è Klodiana Vefa, uccisa in strada a Castelfiorentino a colpi d’arma da fuoco. La giovane madre aveva 35 anni. Molto probabilmente il marito, considerato il presunto killer, non aveva accettato l'imminente separazione. La coppia ha due figli minorenni. È caccia all'uomo irreperibile da ieri sera. Intanto il Sindaco Alessio Falorni ha annunciato due giorni di lutto cittadino e una fiaccolata in ricordo della vittima. Redazione Web su L'Unità il 29 Settembre 2023 

“Chi osa vive, chi rimpiange sopravvive“. È una delle frasi che si trovano sui social di Klodiana Vefa, 35 anni, la donna uccisa in strada, a colpi di pistola, ieri a Castelfiorentino (in provincia di Firenze). La donna, di origini albanesi, viveva da tempo nella località toscana, dove era ben inserita nella comunità: aveva studiato all’Istituto superiore F. Enriques. La 35enne aveva due figli, minorenni, che compaiono spesso nelle foto e nelle frasi sui suoi social, da Facebook a Instagram. Su quest’ultimo sui profilo si definiva “fatta di cemento armato e vetro soffiato“. Secondo alcuni quotidiani locali, il corpo della donna senza vita in strada è stato trovato proprio dai figli.

Chi è Klodiana Vefa uccisa in strada a Castelfiorentino

E proprio sui social scriveva tante parole legate ai suoi affetti e al ruolo che l’amore aveva nella sua vita, riprendendo a volte alcune citazioni, come questa: “Mi piace pensare che ogni donna abbia un po’ di mare nel proprio corpo, che ogni graffio sia solo un’onda più intensa. Mi piace pensare che ogni smagliatura sia un confine tra sole e acqua disegnato dalla sabbia. Mi piace pensare che il seno di una donna sia un pianeta vivibile (…) Perché questa terra ha il sapore di donna“. Solo poche settimane fa, accanto a una sua foto, su Instagram scriveva: “L’amore coglie sempre un pò di sorpresa… C’è chi ne resta sopraffatto e alla fine fugge.. e c’è invece chi lo vive con tutta la passione e la forza di cui è capace…“.

I post sui social: i figli e l’amore

Sui social frasi in italiano e albanese, mescolate a canzoni e citazioni. Si leggono anche alcune frasi dedicate alle donne: “Se un uomo si aspetta che una donna sia un angelo nella sua vita, deve prima creare il paradiso per lei. Perché gli angeli non vivono all’inferno“, scriveva su Instagram. Ha detto di le il sindaco di Castelfiorentino Alessio Falorni: “Era una ragazza fantastica, che conoscevo bene personalmente, e che era amata da tutti. Questo fatto ci ha distrutto”. Il primo cittadino ha annunciato per Vefa, “il lutto cittadino, con due giorni nei quali le nostre bandiere saranno issate a mezz’asta, le manifestazioni pubbliche saranno annullate, e alle scuole sarà chiesto di stimolare gli studenti circa il tema del femminicidio e della violenza sulle donne. Indiremo stasera, con la partecipazione delle associazioni castellane, una fiaccolata alla quale invito la cittadinanza a partecipare, per una presa di posizione collettiva contro questo terribile, barbaro fenomeno, ahimè così frequente anche nei nostri tempi, e per ricordare Klodiana con il nostro affetto. Non ci arrendiamo all’orrore“.

I numeri di una tragedia

Sono tragici i numeri relativi ai femminicidi accaduti in Italia in questo 2023. Dei 225 omicidi registrati dal primo gennaio al tre settembre, 79 hanno avuto come vittime le donne. Di queste, 61, hanno perso la vita in ambito familiare o affettivo. A loro volta, 30 di queste donne, sono state ammazzate dal partner o da un ex. Ed è proprio nei confronti del marito di Klodiana Vefa che sono concentrate le ricerche delle forze dell’ordine. L’uomo risulta irreperibile da ieri. I colpi di arma da fuoco sarebbero stati sentiti sia dai palazzi sia da un circolo Arci nelle vicinanze. Redazione Web 29 Settembre 2023

Marta Di Nardo.

Marta Di Nardo uccisa a Milano, il vicino fermato per omicidio volontario: in casa il corpo fatto a pezzi. Cesare Giuzzi e Pierpaolo Lio su Il Corriere della Sera il 21 ottobre 2023.

Risolto il giallo dell'Acquabella: la 60enne è stata assassinata. Domenico Livrieri, 46 anni, tossicodipendente, non ha ammesso nulla. Forse pensava di incassare la pensione della vittima

Il corpo fatto a pezzi e nascosto in casa. Due settimane di bugie e menzogne agli investigatori poi i sospetti su Domenico Livrieri, 46 anni, vicino di casa, da tempo in cura per tossicodipendenza e problemi psichiatrici, si fanno indizi sempre più chiari. È lui, secondo i carabinieri, il presunto assassino di Marta Di Nardo, la donna di sessant’anni scomparsa il 4 ottobre da via Pietro da Cortona 14, all’Acquabella. Alla fine di una giornata di sopralluoghi, gli inquirenti hanno trovato il cadavere della donna nella casa del vicino. Il corpo nascosto in una sorta di sgabuzzino ricavato nel soffitto della cucina. Il cadavere orrendamente diviso in due pezzi e avvolto da alcune coperte.

A indirizzare i carabinieri del Nucleo investigativo sull’appartamento sono state le molte tracce di sangue evidenziate dal Luminol. In particolare in camera da letto. Livrieri, fin dalle prime ore, era in cima alla lista dei sospettati. Già martedì i carabinieri avevano effettuato un primo sopralluogo nella sua casa. In quell’occasione però il 46enne era stato sentito, come altri vicini, in qualità di persona informata sui fatti e l’alloggio Aler al quarto piano della scala C - di fronte alla casa della vittima - non era stato perquisito.

Ad incastrarlo la testimonianza di altri vicini, che vivevano nella scala D, la stessa della vittima che abitava al quarto piano. I residenti hanno raccontato ai carabinieri di aver visto l’uomo entrare e uscire dall’appartamento dopo la scomparsa della donna, in più occasioni. Lui però nella prima testimonianza ha solo ammesso di conoscere la vittima omettendo di essere entrato in casa. In realtà Livrieri aveva un mazzo di chiavi e nella casa della donna sono stati trovati i resti di un pasto consumato in tempi recenti e soprattutto una ricetta medica intestata al 46enne ed emessa dopo la scomparsa della donna. Nella serata di venerdì l’uomo è stato portato alla caserma Monforte di viale Umbria davanti al pubblico ministero Leonardo Lesti e gli accertamenti degli investigatori sono andati avanti fino a tarda notte. Poi è scattato il fermo del pubblico ministero per omicidio volontario.

Marta Di Nardo è stata uccisa con tutta probabilità poche ore dopo essere scomparsa lo scorso 4 ottobre. Anche la donna è stata a lungo in cura al Cps, il centro per malati psichiatrici, e fino a due anni fa è stata ospite di una comunità vicino a Crema per curare la ludopatia.

Era stato il figlio, che vive a Paderno Dugnano, nei giorni scorsi a denunciare la sua scomparsa. I due non avevano grandi rapporti, la vittima viveva sola ed era seguita dai servizi sociali del Comune. Era molto conosciuta nel quartiere perché in tanti la vedevano mattina e pomeriggio nei bar mentre giocava al gratta e vinci. Viveva grazie ad una piccola pensione, ma i soldi si esaurivano in fretta già la prima settimana del mese. Tanto che spesso chiedeva aiuti economici ai vicini. Da più di due settimane però nessuno la vedeva nel palazzo, così è scattato l’allarme.

Venerdì pomeriggio i carabinieri hanno effettuato un sopralluogo approfondito nell’appartamento della vittima e soprattutto a casa del principale sospettato. Alla fine gli inquirenti del Nucleo investigativo di via Moscova, guidati dal colonnello Antonio Coppola e dal tenente colonnello Fabio Rufino, sono riusciti ad individuare il corpo nascosto in un’intercapedine del soffitto dell’appartamento. Per estrarre il cadavere è stato necessario un nuovo intervento dei vigili del fuoco. Non è ancora chiaro come e perché sia stata uccisa la donna. Il medico legale s’è riservato in attesa dell’autopsia: troppo compromesse le condizioni del cadavere a causa del tempo trascorso.

I due si vedevano spesso anche se lei aveva una relazione saltuaria con un altro uomo, estraneo al delitto. Da subito però i vicini avevano parlato agli inquirenti di quel vicino di casa. «Una persona violenta. Mi faceva paura», così lo descrive un vicino. Livrieri ha molti precedenti e una storia di forte tossicodipendenza.

Lui davanti ai carabinieri non ha detto nulla né ha indirizzato gli investigatori al luogo in cui era nascosto il cadavere. In caserma ha chiesto solo di cenare poi s’è chiuso nel silenzio. Durante la perquisizione del suo bilocale, Livrieri è sempre apparso tranquillo dicendo di non c’entrare nulla con la scomparsa della 60enne. Ma le sue condizioni sono apparse poco lucide. Tanto che il magistrato ha preferito rinviare l’interrogatorio. Nell’appartamento sono stati sequestrati diversi coltelli, ora saranno analizzati per capire se siano stati utilizzati per uccidere e fare a pezzi la donna. Mistero sul movente: il sospetto è che dopo averla uccisa abbia nascosto il corpo nella speranza di incassare la sua pensione.

Trovato il cadavere della donna scomparsa a Milano: era a casa del vicino. Il corpo senza vita di Marta Di Nardo è stato trovato nell'appartamento del vicino di casa: si apre la pista del femminicidio. Francesca Galici il 21 Ottobre 2023 su Il Giornale.

Macabra scoperta a Milano, in via Pietro Da Cortona 14, periferia Est della città. È qui che i carabinieri hanno trovato il corpo ormai senza vita di Marta Di Nardo, la 60enne scomparsa circa due settimane fa. Le ricerche non sono mai state interrotte ma solo oggi il cadavere è stato rinvenuto all'interno dell'abitazione di Domenico, vicino di casa della donna. Sono stati i militari di Corso Monforte, insieme a quelli dei Ris, a individuarlo durante un sopralluogo nell'abitazione.

I sospetti da parte dei carabinieri erano già esistenti e sono state le tracce di sangue all'interno dell'appartamento a dare la conferma di quelle che erano solamente supposizione investigative. Attorno alle 20 è arrivato in via Da Cortona anche il pm di turno, Leandro Lesti, che sta coordinando le indagini. Già in serata l'uomo verrà interrogato. Sempre presente all'interno dell'abitazione per tutta la durata dei sopralluoghi, non ha ammesso il delitto né fornito alcuna spiegazione su quanto accaduto. In queste ore è stato portato in caserma.

Dal pomeriggio di oggi i militari hanno nuovamente perlustrato la casa della donna alla ricerca di prove per risolvere quello che, fino al pomeriggio di oggi, era inquadrato come una scomparsa. Ma il rinvenimento del corpo ha aperto allo scenario dell'omicidio e si potrebbe configurare il femminicidio. Sul posto poco fa è arrivato anche un mezzo del nucleo speleo alpino fluviale dei vigili del fuoco, per il recupero del cadavere. Inquirenti e investigatori sono al lavoro per ricostruire le ultime ore di vita della 60enne che, secondo quanto emerso da chi la conosceva, aveva diverse difficoltà e rapporti quasi nulli con i familiari. Nell'appartamento i vicini avrebbero notato continui via vai di persone e già nei giorni scorsi, come hanno riferito oggi anche alcuni quotidiani, si sarebbero convinti della sua morte.

La scomparsa della donna era stata denunciata dal figlio, che da un po' di tempo non aveva più molti rapporti con la donna. Non avendo più avuto sue notizie il 9 ottobre l'uomo si era rivolto ai carabinieri, anche se le tracce di sua madre si sarebbero perse già dal 5 ottobre. Il suo cellulare, infatti, risultava spento da giorni della scomparsa. E l'ultima cella telefonica a cui si era agganciato era proprio in corrispondenza dell'abitazione.

(ANSA sabato 21 ottobre 2023) - "Non volevo, sono dispiaciuto". Così ha detto, in sostanza, Domenico Livrieri, 46 anni, fermato nella notte a Milano per l'omicidio della vicina di casa Marta Di Nardo, la 60enne che era scomparsa dalla sua abitazione due settimane fa. Il cadavere della donna è stato trovato ieri nell'abitazione dell'uomo in via Pietro Da Cortona, tagliato in due e nascosto su un soppalco. 

Livrieri ha ammesso di averla uccisa colpendola con un fendente al collo e di avere fatto a pezzi il corpo con un coltello da cucina per poi avvolgerlo in una coperta e nasconderlo nel proprio appartamento. Ha affermato anche di avere fatto tutto da solo.

(ANSA sabato 21 ottobre 2023) - L'avrebbe uccisa per impossessarsi del suo bancomat. E' quanto Domenico Livrieri, 46 anni, ha detto ai carabinieri che la notte scorsa lo hanno fermato per l'omicidio di una vicina di casa, Marta Di Nardo, 60 anni, che era scomparsa da due settimane dalla sua abitazione di Milano e il cui corpo è stato scoperto ieri nell'appartamento dell'uomo. Secondo quanto emerso dai primi accertamenti eseguiti dai carabinieri e dal pm di Milano Leonardo Lesti, nei giorni successivi all'omicidio, che sarebbe avvenuto tra il 4 e il 5 ottobre scorsi, Livrieri sarebbe più volte entrato nell'abitazione della donna. 

Gli inquirenti non escludono che lo abbia fatto proprio per sfuggire al forte odore che si sentiva in casa sua per la presenza del cadavere. L'uomo è in cura a un Cps. All'interno della sua abitazione, il luminol ha rivelato diverse tracce di sangue, in particolare nella camera da letto.

Marta Di Nardo uccisa per un debito di 20 euro. Il vicino Domenico Livrieri doveva stare in una Rems. Cesare Giuzzi su Il Corriere della Sera lunedì 23 ottobre 2023.

Il 46enne, condannato per violenza sessuale e lesioni, per le sue condizioni psichiche avrebbe dovuto essere ricoverato, ma non si era trovata disponibilità nelle strutture

Doveva stare in una Rems, una residenza psichiatrica giudiziaria, Domenico Livrieri, il 46enne arrestato per l'omicidio della vicina di casa Marta Di Nardo uccisa e fatta a pezzi il 4 ottobre. Il 5 luglio 2021 gli era stata applicata la custodia cautelare in carcere per violenza sessuale e lesioni, poi sostituita il 22 settembre 2021 con la misura della libertà vigilata che però «si rilevava inadeguata al contenimento delle supposte esigenze». Poi il 31 marzo 2022 il gup aveva sostituito  la misura con la «detenzione» in una Rems che - come scrive il giudice Alessandra Di Fazio nella misura cautelare per il delitto - «rimasta ineseguita per mancanza di disponibilità, nonostante i ripetuti solleciti del pm alle autorità di competenza» (in questo articolo l'approfondimento: perché i malati psichici pericolosi sono in giro). 

Il gip, che ha convalidato il fermo disposto dal pm Leonardo Lesti nella notte tra venerdì e sabato, ha stabilito che Livrieri debba rimanere ora in carcere per omicidio, vilipendio e occultamento di cadavere. Tuttavia ha chiesto che sia sorvegliato dai responsabili psichiatrici di San Vittore in attesa che venga disposta una nuova perizia sul suo stato di salute mentale. Le due già eseguite in passato avevano evidenziato una semi infermità mentale e i medici del Niguarda in una relazione hanno affermato che Livrieri «frequentava in maniera discontinua il Cps e non rispondeva alle terapie farmacologiche e soprattutto che non esistono terapie specifiche per il disturbo di personalità per il quale lo stesso è affetto».

Per questo, come riporta il gip Di Fazio «l’unica soluzione sarebbe stata il ricovero in Rems, ad oggi mai eseguito. Resta pertanto indispensabile l’applicazione della misura cautelare della custodia in carcere, laddove le supposte esigenze cautelari non possono essere salvaguardate con altre misure».

Nell'interrogatorio di convalida del fermo Livrieri ha ripetuto quanto già detto la notte dell'arresto ai carabinieri, ossia di aver ucciso la donna il 4 ottobre con una coltellata, di averne nascosto il cadavere e di essere dispiaciuto. Ha però aggiunto di aver lasciato il corpo sotto al letto per «una settimana», tanto che durante una visita della sorella lei gli aveva fatto notare il cattivo odore nell'appartamento che lui aveva attribuito a carne avariata. «Vorrei dire che mi dispiace per quanto accaduto - ha spiegato l'indagato al gip -, per aver assassinato Marta con la quale avevo un buon rapporto. Non è stata colpa mia, ma dei miei familiari che non mi aiutavano». 

Poi «con un coltello da cucina lungo 50 centimetri» ne ha smembrato il cadavere per nasconderlo nel controsoffitto. Livrieri ha spiegato che la vittima gli aveva prestato «20 euro» e che quel giorno la donna era andata a casa sua per riaverli. Lui l'aveva subito colpita con un coltello che aveva nascosto in una coperta mentre erano seduti sul letto. Dalle indagini è emerso inoltre che dopo il delitto l'assassino ha prelevato 17o euro con il bancomat della donna. 

Concetta Marruocco.

Estratto dell’articolo di Alessio Ribaudo per corriere.it sabato 14 ottobre 2023.

Franco Panariello, 55enne di Cerreto d’Esi, ha inferto 15 coltellate alla moglie Concetta Marruocco, 53 anni, dalla quale si stava separando. L’uomo era già a processo per maltrattamenti. Ora è in arresto per omicidio volontario pluriaggravato 

Prima un malore, un controllo al pronto soccorso e, poi, sarebbe tornato a casa. Quindi la scelta di dirigersi verso Cerreto d’Esi a casa della moglie, da cui stava per separarsi, per un chiarimento nel cuore della notte. Franco Panariello, metalmeccanico di 55 anni, avrebbe iniziato a discutere con l’infermiera Concetta Marruocco, di 53, sin quando ha impugnato un coltello da cucina e l’ha uccisa con una decina di fendenti.

Poi è andato in camera dalla figlia minorenne della coppia e le avrebbe chiesto: «Chiama il 112». Quando i militari sono arrivati, l’operaio non ha opposto resistenza e ha anche mostrato dove aveva gettato l’arma del delitto. Per questo motivo, è stato arrestato con l’accusa — al momento — di omicidio volontario pluriaggravato e ora si trova rinchiuso nel carcere di Montacuto ad Ancona. Panariello è stato sentito dagli inquirenti e ha confessato in lacrime: «Sono stato io a ucciderla, volevo solo un chiarimento». 

Ha anche provato a ricostruire le fasi dell’omicidio raccontando che, la notte scorsa, non riusciva a dormire. Poi di aver avuto un malore e di essersi spaventato visto che un mese fa aveva avuto un infarto. Così è andato al pronto soccorso per farsi visitare e una volta dimesso è tornato nel suo appartamento a Cancelli di Fabriano. Poi la decisione di uscire nuovamente di casa, dopo aver preso le chiavi della casa di Cerreto e un coltello da cucina. Ha raggiunto la moglie in camera da letto, l’ha svegliata «per chiarire alcune accuse ingiuste». […] 

Da mesi la coppia discuteva e avevano scelto di vivere in case diverse. Lei abitava in centro a Cerreto d’Esi con la figlia e lui a Cancelli di Fabriano. I due, originari di Torre del Greco, hanno anche altri due figli maggiorenni che non risiedono in zona. […]

Ancona, Concetta uccisa dal marito: l’Sos del braccialetto è scattato soltanto quando con lui era già in casa. Storia di Alfio Sciacca su Il Corriere della Sera il 16 ottobre 2023.

La casa dove Concetta Marruocco è stata massacrata con 15 coltellate è un piano basso in uno stabile alla periferia del paese. Una palazzina giallo ocra. Tutto attorno non si scorge un negozio o un bar. Zona decisamente isolata. A proteggerla dal marito che lei aveva denunciato dopo venti anni di violenze e abusi c’era dunque «solo» il divieto di avvicinamento a meno di 200 metri e il braccialetto elettronico. Che però non ha funzionato. E non avrebbero funzionato neanche i due dispositivi collegati al braccialetto che avevano Concetta e la figlia. O meglio dei due se ne sarebbe attivato solo uno, ma quando l’uomo era già in casa loro.

«I dispositivi sono stati sequestrati ed attendiamo l’esito degli accertamenti tecnici — dicono gli inquirenti —. Alle forze dell’ordine comunque non è arrivato alcun alert». Dopo l’arresto, Franco Panariello il braccialetto lo aveva alla caviglia. Quindi se non se n’è disfatto restano in piedi solo le ipotesi di un guasto o della manomissione. In ogni caso un gran pasticcio che ha lasciato totalmente indifese Concetta e la figlia. Cauta Monica Garulli, a capo della Procura di Ancona, che aggiunge un’altra considerazione. «È presto per trarre conclusioni — dice —. Dobbiamo anche capire la ragione di un divieto di avvicinamento a 200 metri e se quel distanziamento fosse sufficiente a permettere di intervenire in caso di pericolo». Visto dove viveva la donna, anche se tutto avesse funzionato, il braccialetto con avviso a 200 metri era sufficiente a proteggerla alle tre di notte?

Un punto sul quale insiste anche il centro antiviolenza «Artemisia» che l’aveva aiutata a denunciare il suo aguzzino. «È proprio il sistema del braccialetto che lascia a desiderare — dice la presidente Pina Tobaldi — . Spesso si rompono o non funzionano. Inoltre può essere una misura non determinante, soprattutto se l’ordine restrittivo è a una distanza limitata. Forse l’unico modo per mettere al sicuro Concetta sarebbe stato ospitarla in una struttura protetta per vittime di violenza». Come era già successo. Panariello è entrato in casa della moglie con una copia delle chiavi. «L’ho trovata per caso alcuni giorni fa», ha detto dopo l’arresto. Ma anche se non avesse avuto le chiavi, entrare in casa della moglie alle tre di notte sarebbe stato facile. Attorno a porte e finestre, esposte su tre lati, c’è solo una ringhiera di appena un metro.

Eppure i segnali di quanto fosse pericolosa e concreta la minaccia per la donna c’erano tutti. Basta leggere l’ordinanza che ha disposto il divieto di avvicinamento. Le violenze erano iniziate nel 2004 «quando per futili motivi la prendeva per il collo e le sbatteva la testa contro la parete e lei, per sottrarsi, era costretta a fuggire nella caserma dei carabinieri». Più volte poi «la picchiava in presenza della figlia e di altri familiari». In un caso «afferrava una bottiglia e le urlava: “ te la rompo in faccia te ne devi andare”», costringendola a scappare». O quella volta «che l’afferrava per il collo sbattendole la testa contro l’armadio, urlando Tr...di mer..». E poi le violenze sessuali e i maltrattamenti ai figli. Lei aveva sopportato per venti, lunghi anni. Ma a inizio 2023 aveva trovato il coraggio di dire basta.

«Di recente aveva ripreso fiducia in sé — dicono al centro Artemisia — si prendeva anche più cura della sua persona. Ma purtroppo questa storia insegna che non bisogna mai abbassare la guardia». La tragica fine di Concetta alimenta anche il dibattito politico. Un caso che «rende necessario, da parte della Commissione Femminicidio, un approfondimento urgente su come sia stato possibile e cosa non abbia funzionato in questo caso con il braccialetto elettronico», chiedono alcune parlamentari del Pd. Per oggi è previsto l’interrogatorio di garanzia di Franco Panariello. «Il mio assistito — assicura il suo avvocato, Ruggero Benvenuto — ha mostrato un atteggiamento collaborativo. Spero che fornisca, se ne è a conoscenza, anche elementi utili a capire perché il braccialetto elettronico non ha funzionato». 

"Volevo solo un chiarimento", ammazza la moglie con 15 coltellate. Poi l'ordine alla figlia minorenne: "Chiama il 112". Orrore a Cerreto d'Esi. L'uomo si è presentato a casa della donna nel cuore della notte. Nell'altra stanza c'era la figlia minorenne della coppia che ha allertato i carabinieri. Rosa Scognamiglio il 15 Ottobre 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 Le 15 coltellate

 La figlia ha chiamato il 112

 La confessione

 Vent'anni di violenze

 La separazione

 Il sindaco: "Caso era noto"

Si è presentato a casa della ex moglie nel cuore della notte e l'ha accoltellata. L'omicidio è avvenuto a Cerreto d'Esi, in provincia di Ancona, attorno alle ore 3 di sabato 14 ottobre. L'omicida, Franco Paniariello (55 anni), si è accanito sulla donna, Concetta Marruocco (53 anni), con quindici coltellate e poi ha chiesto alla figlia minorenne di allertare il 112. La ragazzina, che stava dormendo in un'altra stanza, si è precipitata a soccorrere la madre. Purtroppo, però, per la vittima non c'è stato nulla da fare. Il 55enne, reo confesso, era già sotto processo per maltrattamenti in famiglia e lesioni aggravate.

Le 15 coltellate

L'omicidio si è consumato nella casa in cui la donna viveva con i figli da quando lei e il marito si erano separati. Stando a quanto apprende l'Ansa da fonti qualificate, Panariello era ancora in possesso di un mazzo chiavi dell'appartamento. A notte fonda si è introdotto nell'abitazione e ha aggredito la ex moglie colpendola con un coltello da cucina. Prima dell'aggressione mortale tra i due c'era stata un'accesa discussione. Pare, infatti, che il 55enne avesse chiesto alla coniuge un chiarimento in merito alla separazione salvo poi accanirsi su di lei con la lama.

La figlia ha chiamato il 112

Al momento del fatto, in casa c'era anche la figlia minorenne della coppia. Svegliata dalle urla, la ragazzina si è precipitata in cucina, dove verosimilmente sarebbe avvenuta l'aggressione, trovando la madre riversa in una pozza di sangue. A quel punto il padre le ha chiesto di chiamare il 112. All'arrivo dei carabinieri, l'uomo ha confessato mostrando anche l'arma del delitto. I militari lo hanno portato in caserma per l'identificazione e il successivo interrogatorio. Il 55enne, assistito dall'avvocato Ruggero Benvenuto, si trova in carcere ad Ancona con l'accusa di omicidio volontario aggravato dalla premeditazione.

La confessione

"Volevo solo un chiarimento, sono stato io ucciderla", ha confessato Panariello al magistrato durante l'interrogatorio. L'uomo ha spiegato che la notte scorsa non riusciva a dormire, poi ha accusato un malore e si è recato al pronto soccorso. Rientrato a casa avrebbe continuato ad essere inquieto, quindi è uscito nuovamente portando con sé le chiavi dell'appartamento di Cerreto e un coltello da cucina. Giunto sul posto, avrebbe svegliato la moglie che dormiva in camera da letto per "chiarire cose ingiuste", ha precisato. I due avrebbero discusso animatamente per qualche minuto, poi il 55enne ha estratto la lama e la rabbia si è trasformata in furia cieca.

Vent'anni di violenze

Stando a quanto emerso dagli accertamenti investigativi, Panariello era già sotto processo con l'accusa di maltrattamenti in famiglia e lesioni aggravate. Durante l'udienza dello scorso settembre, Concetta Marruocco aveva raccontato l'inferno in cui ha vissuto per vent'anni assieme ai tre figli: offese continue, botte e scatti d'ira incontrollati dell'ex marito. Il 55enne avrebbe fatto a pezzi i mobili e sarebbe stato violento anche con la figlia minorenne.

La separazione

La coppia era originaria di Torre del Greco, in provincia di Napoli, ma da alcuni anni viveva nell'Anconetano. Lui lavorava come operaio metalmeccanico, lei era una infermiera. Dopo molti anni di matrimonio, nei mesi scorsi, avevano deciso di separarsi. La 53enne era rimasta a vivere a Cerreto d'Esi con le figlie, mentre Panariello si era trasferito a Cancelli di Fabriano. Una separazione che l'uomo non avrebbe mai accettato e di cui, svariate volte, avrebbe chiesto conto alla ex moglie fino al drammatico epilogo di ieri sera.

Il sindaco: "Caso era noto"

"La nostra comunità è sconvolta da questo tragico fatto, posso aggiungere che dal punto di vista dei servizi sociali abbiamo operato con tutte le cautele possibili". Così il sindaco di Cerreto d'Esi, Davide Grillini, ha commentato il terribile omicidio precisando anche che "il caso era noto" e "in collaborazione con la rete anti-violenza che opera nel territorio e le forze dell'ordine, si è sempre preso in carico nel modo migliore di queste situazioni, ma questo epilogo ci rattrista molto". "La situazione (tra i due ex coniugi, ndr.), seguita dai servizi sociali, era molto difficile - ha concluso Grillini - e non ci aspettavamo che sfociasse in questi termini, anche se ripeto che erano state prese tutte le tutele affinché questo non potesse accadere". Rosa Scognamiglio

Divieto di avvicinamento e braccialetto elettronico non sono bastati. Padre e marito belva, moglie uccisa a coltellate dopo denuncia: 20 anni di abusi e stupri, non accettava l’identità sessuale del figlio Redazione su Il Riformista il 14 Ottobre 2023 

Vent’anni di violenze, vent’anni che una una madre e tre figli, tutti di origine napoletana ma trasferitasi a Cerreto d’Esi, in provincia di Ancona, subivano i soprusi di un marito e genitore che non accettava nulla e alla minima occasione si lasciava andare a scatti d’ira raccapriccianti. Botte, violenze, abusi sessuali quando era ubriaco, mobili fatti a pezzi e un vero e proprio massacro, sopratutto psicologico, ai danni di uno dei tre figli che aveva decido di cambiare identità sessuale. Vent’anni denunciati solo lo scorso marzo 2023. Ma nonostante un processo in corso per maltrattamenti e il divieto di avvicinamento con obbligo di braccialetto elettronico (perché non ha funzionato?), la belva, Franco Panariello, operaio metalmeccanico di 55 anni, originario di Torre del Greco così come la moglie, Concetta Marruocco, 53 anni, non si è fermata e la notte scorsa ha ucciso a coltellate la consorte, dalla quale si stava separando, in seguito all’ennesima lite.

Lite avvenuta nel cuore della notte quando, verso le 3, l’uomo si è presentato armato di coltello nell’abitazione dove viveva la moglie, di professione infermiera, e la figlia minore (gli altri due figli vivono altrove). La donna dormiva, è stata svegliata dal marito e dopo un breve litigio ha trovato la morte, ammazzata con numerose coltellate da Panariello. Le urla disperate della 53enne hanno svegliato la figlia invitata dal genitore a chiamare i carabinieri perché “ho fatto una sciocchezza“.

Poco dopo nell’abitazione sono arrivati i militari dell’Arma e i sanitari del 118 che non hanno potuto far altro che constatare il decesso della donna. Ai carabinieri Panariello ha spiegato dove aveva gettato l’arma del delitto. Adesso dovrà rispondere di omicidio volontario aggravato dalla premeditazione perché aveva portato con sé il coltello, oltre alle chiavi di cui era ancora in possesso. Nel corso di una udienza nel processo per maltrattamenti, andata in scena nel settembre scorso, Concetta ha raccontato ai giudici il calvario subito insieme ai tre figli. Una vicenda ben nota in paese, tanto che la famiglia “era seguita da anni dai servizi sociali e dalle strutture sanitarie, oltre che dalle forze dell’ordine”, spiega il sindaco David Grillini all’agenzia Ansa.

Prima di compiere l’omicidio, Panariello era stato in serata al pronto soccorso dell’ospedale di Fabriano per un lieve malore. Dopo gli accertamenti di rito, è stato dimesso ed è tornato nella sua abitazione dove vi è rimasto solo poche ore. Nel cuore della notte è uscito nuovamente di casa armato di coltello alla volta di Cerreto d’Esi, comune distante pochi chilometri. Poi l’irruzione in casa e la tragedia.

Durissima la denuncia delle operatrici che assistevano Concetta nel centro antiviolenza marchigiano. “Panariello era sottoposto a misura cautelare con l’applicazione del braccialetto elettronico, misura cautelare che più volte era stata violata, senza che al riguardo venissero prese altre misure più restrittive” accusano. “Concetta -aggiungono – è stata massacrata con numerose coltellate. Concetta negli ultimi tempi era una donna nuova, ha testimoniato con consapevolezza, lucidità, determinazione ed aveva un progetto di vita per lei e per Noè. Noi abbiamo incontrato Concetta tre giorni fa e ci aveva comunicato che avrebbe voluto offrire il suo contributo all’associazione per aiutare le donne che come lei vivono la sopraffazione e la violenza maschile”.

Estratto dell’articolo di Alfio Sciacca per il "Corriere della Sera" martedì 17 ottobre 2023.

Per ben due volte fu lo stesso Franco Panariello a segnalare che il braccialetto elettronico che portava alla caviglia non funzionava bene. «L’ho detto una volta ai carabinieri di Fabriano, un’altra a quelli di Cerreto — ha raccontato nell’interrogatorio di garanzia —. Dopo una delle segnalazioni è pure intervenuto un tecnico per controllarlo». Ci sarebbe dunque un ulteriore falla nella misura cautelare che doveva proteggere Concetta Marruocco dal marito, che venerdì notte l’ha uccisa mentre era in casa con la figlia. 

Ma lui come si era accorto che il braccialetto non funzionava? «Perché sarebbe scattato l’alert quando non c’era alcuna ragione». Invece la notte del delitto dei due dispositivi, assegnati a Concetta e alla figlia, per avvertile che Panariello era a meno di 200 metri, se n’è attivato solo uno, ma quando l’uomo era già in casa. Come dire: il braccialetto funzionava quando non avrebbe dovuto e si è rivelato inutile quando era necessario. «C’è una perizia in corso — dicono gli inquirenti — attendiamo l’esito per capire cosa sia realmente successo».

In ogni caso le anomalie cominciano ad essere troppe e, almeno in parte, spiegabili con la non perfetta copertura nella zona di Cerreto, della rete telefonica che attiva il Gps del braccialetto. In ogni caso, anche se tutto avesse funzionato, resta il fatto che un divieto di avvicinamento a 200 metri appare poca cosa per garantire sicurezza ad una donna vittima di un marito violento. 

Tanto che nulla l’ha fermato. Panariello si è messo in auto nel cuore della notte e dopo le tre ha raggiunto la casa della moglie, portandosi dietro un coltello da cucina. «L’ho fatto perché volevo solo intimidirla e costringerla a ragionare con me — ha raccontato—, ma appena sono entrato nella stanza da letto lei era già sveglia e ha cominciato ad urlare. A quel punto l’ho colpita. Dopo è arrivata mia figlia».

[…] Oltre all’omicidio volontario gli sono state contestate varie aggravanti tra le quali la premeditazione. Sempre ieri c’è stata anche l’autopsia sulla salma di Concetta. Per l’esito definitivo si dovrà attendere, ma la donna sarebbe stata uccisa non da 15 ma da 40 coltellate, alcune superficiali, sferrate con una lama di 15 centimetri. 

A tornare sul delitto è stata la figlia (che ha avviato un percorso per il cambio di genere). Lo ha fatto sul profilo Facebook del padre, dove fioccano i commenti e le provocazioni. «Sono il figlio, lo stesso — replica a un post in difesa di Panariello — che ha visto l’uomo “non così violento” accoltellare la madre davanti ai suoi occhi, lo stesso figlio che ha visto la madre soffrire tutti i giorni perché la picchiava tutti i giorni». E ancora: «...si deve combattere perché non succedano più queste cose».

«È ora che si faccia giustizia per tutti e soprattutto per mia madre che era una donna fantastica. Bisogna parlarne, anche se io lo faccio con un buco incolmabile nel cuore. Mia madre non vorrebbe che questo possa succedere ad altre. La violenza di genere esiste, provata sulla mia pelle e dimostrata in modo orribile su mia madre».

Anna Elisa Fontana.

Estratto da repubblica.it lunedì 25 settembre 2023.

È deceduta all’ospedale Civico di Palermo, Anna Elisa Fontana, 48 anni, la donna di Pantelleria data alle fiamme dal compagno Onofrio Bronzolino, 52 anni, la notte tra venerdì e sabato. Le condizioni della donna erano state considerate “disperate” dai medici: aveva riportato ustioni per il 90% del corpo. 

Al suo capezzale i quattro figli. Dopo la notizia della morte, tensioni in ospedale, dove sono sopraggiunti i carabinieri per paura di ritorsioni nei confronti di Bronzolino, ricoverato in stato di fermo sempre al Civico. L’uomo ha riportato solo ustioni lievi in diverse parti del corpo e al volto con piccole lesioni anche alla cornea. 

Onofrio Bronzolino avrebbe aggredito Anna Elisa Fontana dopo una lite per un saluto che la donna avrebbe rivolto a un conoscente. Bronzolino, operaio edile palermitano, avrebbe iniziato a inveire contro la donna nei pressi di un bar. Poi arrivato a casa ha preso una tanica di benzina che teneva in magazzino e l'ha gettata sulla compagna e le ha dato fuoco. La donna ha tentato di spegnere le fiamme facendosi una doccia. Ma le lesioni sul 90% del corpo non le hanno lasciato scampo.

L'uomo è stato fermato immediatamente dai carabinieri su decisione della Procura con l'accusa di tentato omicidio aggravato, che adesso diventa omicidio aggravato, e incendio doloso. Sul femminicidio indagano i militari della stazione dell'isola e della Compagnia di Trapani. I due si frequentavano da un paio di anni e da tempo convivevano nell'isola in un appartamento in via Maggiuluvedi. La donna era dipendente di una struttura alberghiera di Pantelleria

(..)

Dopo 3 giorni di agonia è morta Anna Lisa. Bruciata dal compagno. La donna cosparsa di benzina e data alle fiamme. Lascia 5 figli, è l'81esima vittima dall'inizio dell'anno. Stefano Vladovich il 26 Settembre 2023 su Il Giornale.

Tre giorni di agonia. È morta ieri mattina Anna Lisa Fontana, 48 anni, cosparsa di benzina e data alle fiamme a Pantelleria, nel Trapanese, dal compagno, Onofrio Bronzolino, 52 anni, palermitano. L'uomo, anche lui ricoverato per ustioni gravi al volto e agli occhi, è accusato di omicidio volontario premeditato e aggravato. L'ennesimo femminicidio scaturito al culmine di una lite delle tante nella coppia.

Separato, manovale con precedenti penali lui, addetta alle pulizie in un albergo dell'isola lei. I due vivevano assieme al più piccolo dei 5 figli che la donna aveva avuto da un precedente matrimonio. Gli altri quattro, fortunatamente, abitano altrove e non erano presenti al dramma. «Litigavano spesso, mai in quel modo» raccontano i vicini di via Maggiuluvedi. Venerdì notte le urla strazianti svegliano l'intero caseggiato che si riversa in strada. La scena che si presenta davanti è raccapricciante. Anna Lisa grida e si dimena, divorata dalle fiamme. Lui, nonostante la vampata di ritorno che gli avvolge la faccia, è in fuga verso la sua auto parcheggiata. Farà poca strada. Allertato il 112 dai primi soccorritori, assieme ai vigili del fuoco e a un'ambulanza del 118 arriva anche la radiomobile dei carabinieri che si mette alla ricerca dell'omicida. I militari lo trovano ancora alla guida, non lontano da casa. Le fiamme gli hanno provocato gravi ferite e anche lui viene ricoverato in ospedale dov'è piantonato da giorni.

La donna presenta ustioni su almeno il 90% del corpo e viene trasferita d'urgenza al reparto Grandi Ustionati del Civico di Palermo. «La paziente non ce l'ha fatta - spiegano i medici della Terapia Intensiva del capoluogo -, fin dal primo momento le sue condizioni erano disperate». L'assassino, invece, rischia di perdere la vista a causa della fiammata di ritorno che gli ha avvolto la testa provocandogli bruciature su tutto il volto, ma non sarebbe in pericolo di vita.

Dagli accertamenti della scientifica dell'Arma è benzina il liquido infiammabile contenuto nella tanica e gettato sulla poveretta. Secondo una prima ricostruzione i due avrebbero cominciato a discutere in un noto bar al centro del paese. Lite proseguita nella loro abitazione fino a quando l'uomo, furibondo, se ne va. Arriva in un magazzino edile per uscirne subito dopo con la latta di benzina. E quando torna a casa la getta addosso alla compagna dandole fuoco con un accendino. Insomma, per il pm della Procura di Marsala nessun dubbio: l'omicidio è premeditato. «Pantelleria è sconvolta - commenta il sindaco Fabrizio D'Antona -, non si ricordano fatti così gravi avvenuti nella storia della nostra isola». Anna Lisa Fontana è l'80esima vittima di femminicidio in Italia dall'inizio dell'anno. Purtroppo non è l'ultima. Sempre ieri in provincia di Treviso una donna, Manuela Bittante, 77 anni, è morta dopo essere stata accoltellata, domenica, dal marito. Stefano Vladovich

Marisa Leo.

Omicidio a Marsala, uccide l’ex compagna di 39 anni e poi si toglie la vita. Nel 2020 lei aveva sporto denuncia per stalking. Ferruccio Pinotti su Il Corriere della Sera giovedì 7 settembre 2023.

Marisa Leo, 39 anni, è stata uccisa dall’ex, Angelo Reina: secondo una prima ricostruzione l’uomo le avrebbe dato appuntamento nell’azienda di famiglia, le cantine «Colomba Bianca» tra Mazara e Marsala, e l’ha uccisa. Nel 2022 aveva rimesso la querela 

Ennesimo femminicidio in Italia, in quella che è ormai una vera e propria estate nera. Il fatto questa volta è avvenuto a Marsala, nel Trapanese: un uomo ha ucciso l’ex compagna, nella serata di ieri, e si è poi tolto la vita.

L’assassino, Angelo Reina, 42 anni, originario di Valderice, ha ucciso a colpi di arma da fuoco la ex, Marisa Leo, 39 anni, originaria di Salemi e dipendente di una cantina di Mazara del Vallo. I rapporti tra i due non erano più quelli di una volta, si erano gravemente deteriorati e i due non vivevano più insieme. Lei lo aveva denunciato per stalking nel 2020, ritirando poi la querela nel 2022. L’omicidio è avvenuto in Contrada Inchiapparo tra Mazara del Vallo e Marsala, nel Trapanese. La donna lascia una figlia di 3 anni.

La dinamica dell’omicidio

Ieri nel tardo pomeriggio la tragedia. Un automobilista che transitava lungo l’autostrada A29 in direzione Mazara, all’altezza di Gallitello, nel territorio di Calatafimi, si accorge che un uomo ha in mano una pistola - nell’intento di suicidarsi - e si trova su un cavalcavia. Il testimone segue tutto e sgomento chiama subito la polizia. Sul posto arriva la polstrada che accerta la morte dell’uomo, è Angelo Reina, l’ex compagno di Marisa Leo. Immediata la telefonata alla Squadra mobile di Trapani: all’arrivo sul posto gli investigatori trovano l’automobile di Reina, all’interno ci sono delle armi. 

Da qui è partita l’indagine per capire a cosa fossero state utilizzate. Un rapido giro di informazioni con le famiglie e si apprende che l’uomo avrebbe dovuto incontrare nell’azienda agricola di famiglia l’ex, Marisa Leo. 

Viene allora chiamato più volte il cellulare della donna ma nessuna risposta. Intanto gli investigatori si avviano verso l’azienda tra Marsala e Mazara. Qua viene trovata l’automobile della donna, dopo una ricerca veloce viene trovato il corpo senza vita di Marisa. L’ex compagno le aveva sparato con un fucile. Per lei non c’era più nulla da fare. Il corpo dopo un primo esame del medico legale è stato trasferito all’obitorio del cimitero di Marsala. Forte lo sgomento a Salemi dove la vittima era molto conosciuta ma anche a Marsala e a Valderice, luogo di nascita dell’uomo. Le indagini sono condotte dalla Squadra mobile.

La denuncia per stalking del 2020, poi la remissione

Nel 2020 la donna, come detto, fece una denuncia per stalking, da cui era partito il processo. Due anni dopo, però, il 10 gennaio 2022 Leo aveva rimesso la querela, estinguendo dunque il procedimento. 

Tuttavia che la situazione fosse critica lo si evince da un post pubblicato sui social dalla donna nel 2019: «È un miracolo. Una forza così piccola, ma così dirompente e una vita che cresce al ritmo di due cuori che battono insieme. Donna, mamma, tu lavori, tu progetti, tu crei e sei fantastica per come lo fai. Tu cadi, ti rialzi, piangi ma non molli, e sei perfetta così come sei. Donna, mamma, Tu, non sei sola». 

Queste erano le parole di Marisa Leo, affidate a un post dedicato alla lotta contro la violenza sulle donne pubblicato sui social dell’associazione «Le Donne del Vino» a novembre 2019. La donna, al momento del video, era incinta della figlia.

Il cordoglio del sindaco

In lutto il sindaco: «La nostra comunità è sconvolta da quanto accaduto. Non ci sono parole per descrivere il dolore per una tragedia assurda e inaccettabile. Esprimo il cordoglio e la vicinanza alla famiglia a nome mio, dell’Amministrazione e di tutta la città di Salemi. Ci stringiamo ai familiari nel ricordo di una ragazza solare che amava la vita. Il giorno dei funerali sarà lutto cittadino a Salemi: è necessario accendere i riflettori su un fenomeno inaccettabile e insopportabile come il femminicidio. Ciao Marisa...». Lo scrive sui social, sull’omicidio-suicidio a Mazara del Vallo, il sindaco di Salemi, Domenico Venuti, paese del Trapanese di cui era originaria la vittima. 

«Siamo in emergenza»

Anche il mondo del sindacato si mobilita. «Siamo davvero in stato di emergenza, la violenza contro le donne fra le mura domestiche e fuori sembra dilagare in modo sconvolgente nelle nostre città. Bisogna costruire un fronte unico contro questi fenomeni, creare politiche adeguate che consentano alle vittime di uscire dall’incubo, sostenere di più i centri antiviolenza. E serve fare una seria prevenzione attraverso centri di recupero e riabilitazione che agiscano sugli uomini», hanno detto Leonardo La Piana, segretario generale Cisl Palermo Trapani, e Delia Altavilla, responsabile coordinamento Donne Cisl Palermo Trapani.

Lo sgomento degli amici

«Eri sempre simpatica e solare. Eri stimata da tutti e tutti ti volevano bene. Non meritavi questa follia. Ti ricorderò sempre con il tuo meraviglioso sorriso». Lo scrive sui social Leoluca, un amico di Marisa Leo, la donna uccisa con un fucile dall’ex compagno a Marsala nel Trapanese. Man mano che la notizia si diffonde si moltiplicano i messaggi di chi la conosceva. 

«Eri una bellissima persona», scrive Davide. «Mancherai sicuramente a tutti quelli che hai incrociato sulla tua strada e hanno avuto la fortuna di conoscerti».

Il dolore dell’azienda

«In azienda siamo tutti sconvolti per quanto è successo. Stamattina non abbiamo la forza di lavorare». Lo ha dichiarato Giuseppe Gambino, il direttore della cantina “Colomba bianca” dove lavorava Marisa Leo, la donna che è stata uccisa ieri sera a colpi di arma da fuoco dall’ex convivente. «Ieri abbiamo lavorato tutto il giorno insieme in azienda - racconta - poi ci ha detto che doveva incontrare l’ex convivente per prendere la bambina». Giuseppe Gambino stamattina ha pubblicato un post su Facebook, allegando una foto insieme a Marisa Leo: «Ti faccio solo una promessa: renderò onore al tuo “futuro”, se così si può chiamare, con tutti i mezzi che ho. Cara Marisa, sono infinitamente grato per tutto ciò che mi hai donato».

Orrore a Marsala: spara all'ex compagna col fucile e si toglie la vita. La donna, 39 anni, curava il marketing per un'azienda vinicola. I rapporti con l'ex si erano da tempo deteriorati e i due non vivevano più insieme, ma continuavano a sentirsi per la custodia della figlia. Roberto Chifari il 7 Settembre 2023 su Il Giornale.

Uccisa con tre colpi di pistola dopo aver incontrato l'ex. Marisa Leo è morta così: in una pozza di sangue nelle campagne tra Marsala e Mazara del Vallo. Il suo corpo è stato trovato ieri sera dagli agenti della polizia dopo che della donna non si erano avute più notizie per ore. L'omicida, Angelo Reina, imprenditore originario di Valderice, è scappato in auto subito dopo l'omicidio dandosi la fuga, poi all'altezza di Castellammare del Golfo si è sparato un colpo sul viadotto di ingresso alla città. A trovare il corpo sono stati gli agenti della Polstrada che hanno subito allertato la centrale e la squadra mobile di Trapani. L'ennesimo femminicidio che stravolge un'intera comunità.

Nel mondo del vino

Marisa Leo di 39 anni era nota nel settore vitivinicolo. Lavorava come responsabile marketing e pubbliche relazioni per la cantina Colomba Bianca. Originaria di Salemi, viveva a Marsala. L'ex compagno l'ha attirata in contrada Ferla per un incontro chiarificatore sulla tutela della custodia della figlia avuta in comune. Ma la donna nel 2020 aveva presentato una denuncia per stalking. Indaga la polizia e la squadra mobile di Trapani per ricostruire l'esatta dinamica dell'omicidio.

L'addio della cantina

Marisa lavorava presso la cantina Colomba Bianca. "Marisa mancherà a tutti noi. Era una persona dolce, perbene e, insieme, abbiamo fatto tantissimo lavoro per lo sviluppo della nostra cantina. È difficile credere che lei non c'è più", dice il presidente delle cantine Dino Taschetta. Ieri sera Taschetta è stato contattato dalle forze dell'ordine per le ricerche della donna. Marisa Leo all'interno delle cantine si occupava di marketing e, da alcuni anni, era entrata a far parte dell'associazione Donne del Vino. Su Instagram Colomba Bianca scrive: "È stata strappata alla vita Marisa Leo, responsabile marketing e comunicazione di Colomba Bianca. Donna del vino, madre premurosa e ispiratrice delle nostre cantine - scrive -. Mente e braccio di scelte di successo, colonna portante di progetti internazionali per la filiera vitivinicola italiana, visionaria comunicatrice nel mondo dei vitigni made in Sicily. Era attiva contro la violenza di genere. È inesplicabile immaginare una nuova vendemmia senza Lei. Siamo sgomenti. Esprimiamo il nostro profondo cordoglio per la perdita che subisce la famiglia di Marisa, di cui ci sentiamo parte integrante anche noi".

Una comunità sconvolta

"La nostra comunità è sconvolta da quanto accaduto - dice Domenico Venuti, sindaco di Salemi, paese del Trapanese di cui era originaria Marisa Leo, uccisa dall'ex compagno. -. Non ci sono parole per descrivere il dolore per una tragedia assurda e inaccettabile. Esprimo il cordoglio e la vicinanza alla famiglia a nome mio, dell'amministrazione e di tutta la città di Salemi. Ci stringiamo ai familiari nel ricordo di una ragazza solare che amava la vita. Il giorno dei funerali sarà lutto cittadino a Salemi: è necessario accendere i riflettori su un fenomeno inaccettabile e insopportabile come il femminicidio. Ciao Marisa".

La denuncia tre anni fa, le liti per la figlia e la trappola: così è stata uccisa Marisa Leo. La 39enne era responsabile marketing e comunicazione di una cantina siciliana. Sui social si batteva per i diritti delle donne. Nel 2020 aveva denunciato il suo ex compagno per stalking. Redazione il 7 Settembre 2023 su Il Giornale.

Marisa Leo è il nome della vittima dell'ennesimo caso di femminicidio avvenuto vicino a Marsala, in provincia di Trapani. Originaria di Salemi, aveva 39 anni ed era responsabile marketing e comunicazione di Colomba Bianca, una delle principali cantine della Sicilia occidentale. Da tempo viveva un rapporto conflittuale con Angelo Reina, l'ex compagno di 42 anni, che l'ha uccisa prima di togliersi la vita.

I due avevano insieme una bambina. Nel 2020 la donna aveva denunciato l'uomo per stalking e violazione degli obblighi di assistenza familiare dovuti al mancato pagamento degli alimenti per la figlia. Sui social si era esposta più volte contro la violenza di genere. Nel 2019 aveva partecipato a una campagna contro la violenza di genere, mentre nel 2021, in occasione della Giornata Internazionale delle Donne, aveva pubblicato su Facebook un video insieme alle altre dipendenti della cantina Colomba Bianca per "aiutare, sensibilizzare, diffondere... affinché non una donna in più subisca delle violenze".

Ma nel frattempo Marisa Leo aveva presentato la remissione della querela per entrambi i procedimenti contro l'ex, portando alla decisione dei giudici del tribunale del non luogo a procedere per Angelo Reina. Di recente l'uomo aveva chiesto alla donna un incontro per discutere in merito alla custodia della piccola. Giunti nel luogo concordato, in contrada Farla, al confine tra Mazara e Marsala, lui avrebbe colpito lei con tre colpi di fucile. L'assassino sarebbe poi scappato in auto verso un viadotto all'ingresso di Castellammare del Golfo, dove si è sparato precipitando giù da una cinquantina di metri. A trovare il corpo è stata la polizia stradale. Stando alle indagini della squadra mobile di Trapani, l'uomo non aveva il porto d'armi e nell'auto era presente una pistola detenuta illegalmente.

"In azienda siamo tutti sconvolti per quanto è successo. Stamattina non abbiamo la forza di lavorare - ha dichiarato il direttore di Colomba Bianca, Giuseppe Gambino - "Ieri abbiamo lavorato tutto il giorno insieme in azienda, poi ci ha detto che doveva incontrare l'ex convivente per prendere la bambina". Gambino ha pubblicato un post su Facebook, allegando una foto insieme alla vittima con il commento: "Infinitamente grato per tutto ciò che mi hai donato".

"La nostra comunità è sconvolta da quanto accaduto. Non ci sono parole per descrivere il dolore per una tragedia assurda e inaccettabile" - sono invece le parole di Domenico Venuti, sindaco di Salemi - "Esprimo il cordoglio e la vicinanza alla famiglia a nome mio, dell'amministrazione e di tutta la città. Ci stringiamo ai familiari nel ricordo di una ragazza solare che amava la vita". Il sindaco ha annunciato il lutto cittadino per il giorno dei funerali: "La nostra comunità è sconvolta da quanto accaduto. Non ci sono parole per descrivere il dolore per una tragedia assurda e inaccettabile".

La procura di Marsala, guidata da Fernando Asaro, ha disposto l'autopsia sul corpo della donna che sarà eseguita nei prossimi giorni.

"La parità non c'è, ma la situazione sta cambiando". La visione del futuro di Marisa Leo. L'8 marzo 2019 la donna aveva affidato ad un post su Facebook il suo pensiero sui rapporti tra uomo e donna. Redazione il 7 Settembre 2023 su Il Giornale.

Marisa Leo guardava con speranza al futuro delle donne. Dalle sue pagine social emerge tutta la passione e la determinazione con cui si batteva per i diritti di tutte coloro che, ogni giorno, si trovano vittime dei pregiudizi ancora radicati in certi ambiti della società e che, purtroppo, continuano a causare vittime.

“Questo pensiero è dedicato alle coraggiose che conosco e che sono fonte di ispirazione per me”, ha scritto in un post Facebook in occasione dell’8 marzo 2019. “Donne che non hanno scelto la via più facile e che si impegnano con tenacia ogni giorno per raggiungere i loro obiettivi, che lottano senza perdere mai il rispetto del proprio essere donna”. Le elogia perché affrontano le sfide a testa alta, perché “non ti raccontano lamenti e fatica e perché, nonostante tutto, “indossano ogni giorno il loro sorriso più bello e riescono a godere con gratitudine della gioia dei momenti”. Donne fonte di ricchezza, queste, che Marisa considerava degli esempi per tutto il mondo. 

Certo, per cambiare una mentalità con radici lontane la strada è ancora lunga, e Marisa lo sapeva. Nel suo post ha citato l’aforisma di Charlotte Whitton, femminista canadese e sindaco di Ottawa negli anni ’50-’60: “Le donne devono fare qualunque cosa due volte meglio degli uomini per venire giudicate brave la metà. È vero. La parità non esiste ancora, il nemico più grande rimane il pregiudizio inconsapevole di tanti uomini, il pericolo maggiore è la mancanza di consapevolezza di molte donne”.

Alle righe finali del post è affidata la sua visione del futuro: “Non sarà sempre così. C’è una rivoluzione culturale in atto. Grazie alle donne che mi ispirano ogni giorno. Empowered women, empower other women”. La richiesta è rivolta a tutte coloro che sono riuscite a superare i pregiudizi, a ritagliarsi il loro posto in una società che da un lato sta cambiando, ma dall’altro rimane ancora per certi aspetti legata a schemi ormai vetusti. La lotta di Marisa è finita nel più tragico dei modi, ma sono molte le donne pronte a raccogliere il testimone e portarla avanti: per lei e per tutte le vittime di questa scellerata violenza.

 Marisa Leo uccisa dall’ex, la denuncia per stalking ritirata un anno fa: “Voleva far crescere la figlia con il papà”. Redazione su Il Riformista il 7 Settembre 2023 

Ancora un femminicidio. Ancora una donna uccisa da un uomo che diceva di amarla e che, dopo litigi e separazione, dopo una denuncia per stalking poi ritirata per concedergli una nuova possibilità (ma soprattutto per far crescere la loro figlia anche con la presenza costante del padre), ha chiesto un incontro chiarificatore dopo gli ultimi dissidi. Un incontro probabilmente per discutere della custodia della figlia di circa quattro anni. Ma una volta che Marisa Leo, 39 anni, è scesa dalla sua auto e si è recata all’interno dei locali dell’azienda, Angelo Reina, 42 anni, ha imbracciato la carabina che aveva portato, sparando più volte uccidendola. Infine si è allontanato alla guida della sua auto, togliendosi successivamente la vita all’interno della stessa, sul viadotto che porta a Castellammare del Golfo.

E’ la cronaca dell’ordinaria follia dell’ultimo femminicidio avvenuto nel primo pomeriggio di mercoledì 6 settembre  in provincia di Trapani, nell’azienda agricola della famiglia di Reina, situata in Contrada Ferla, al confine tra Mazara del Vallo e Marsala. L’allarme era stato lanciato da un automobilista che lungo l’autostrada A29 aveva visto un uomo armato di pistola all’interno della sua vettura. Immediata la segnalazione agli agenti che una volta arrivati sul posto hanno accertato la morte di Reina. Da qui i successivi accertamenti con la famiglia, realizzando che l’uomo aveva un appuntamento con l’ex compagna. Dopo alcune telefonate al cellulare di Marisa, una volta arrivati nell’azienda agricola il drammatico ritrovamento.

La donna, responsabile marketing e comunicazione della casa vinicola Colomba Bianca, popolare nel Trapanese ‘grazie’ ai video promozionali in cui raccontava le bellezze della sua Sicilia, aveva lasciato anni fa l’uomo, denunciato inizialmente per stalking e violazione degli obblighi di assistenza familiare nel 2020, poco dopo la nascita della loro figlia. Due anni dopo, così come riporta Corriere.it, il dietrofront: il 10 gennaio 2022 Marisa Leo aveva rimesso la querela, estinguendo dunque il procedimento. “Aveva capito che la bambina aveva bisogno del padre, così aveva tentato di riavvicinarsi all’ex, per il bene della figlia” ha spiegato a LaPresse Leonardo Taschetta, presidente della Cantina Colomba bianca dove Marisa lavorava. 

“Tra i due vi era un rapporto civile – prosegue – non erano tornati insieme ma si vedevano per la figlia, uscivano insieme alla bambina e andavano anche a cena fuori. Lei capiva che, per la bambina, l’assenza della figura paterna, poteva essere fonte di dolore e voleva dare alla figlia un rapporto sereno con il padre. Apparentemente aveva un rapporto civile con l’uomo. Lei aveva avuto paura anni fa – sottolinea – ed erano arrivati alla denuncia, ma poi la situazione sembrava rientrata”.

Dolore e sgomento nell’azienda dove la donna lavorava. “Siamo sconvolti. Ma la cosa che ci dispiace molto, rispetto a tutta questa vicenda, è che una bambina di 4 anni crescerà senza mamma e senza papà. Io –  ricorda Taschetta – conoscevo Marisa praticamente da sempre, da quando era bambina. Lavorava da noi da 8 anni. Fino a ieri ci siamo visti in azienda e sembrava tranquilla, non ho avvertito malumori o preoccupazioni da parte sua. Io ho appreso che lei era stata uccisa all’una di notte dalla sua famiglia. Siamo talmente sconbulossarti”.

Una relazione travagliata da tempo. Già nel 2019, mentre era incinta, Marisa dedicava un post alla lotta contro la violenza sulle donne (pubblicato sui social dell’associazione “Le donne del vino”): “È un miracolo. Una forza così piccola, ma così dirompente e una vita che cresce al ritmo di due cuori che battono insieme. Donna, mamma, tu lavori, tu progetti, tu crei e sei fantastica per come lo fai. Tu cadi, ti rialzi, piangi ma non molli, e sei perfetta così come sei. Donna, mamma, Tu, non sei sola”.

Ma non è l’unico post dedicato da Marisa alla violenza sulle donne. Sempre per le Cantine Colomba Bianca, aveva pianificato una campagna di comunicazione in vista dell’8 marzo, giorno della festa della donna, utilizzando queste parole: “Ascoltiamo la voce di chi chiede aiuto, prima che quella voce venga spenta. Diamo voce allo slogan del movimento ‘Non una di meno’ contro la violenza sulle donne. Tutti possiamo far qualcosa: aiutare, sensibilizzare, diffondere… affinché non una donna in più subisca delle violenze”. Sempre in occasione di un altro 8 marzo, scriveva: “Questo pensiero è dedicato alle donne coraggiose che conosco e che sono fonte di ispirazione per me. Donne che non hanno scelto la via più facile e che si impegnano con tenacia ogni giorno per raggiungere obiettivi, che lottano senza perdere mai il rispetto del proprio essere donna. Sono quel tipo di donne che affrontano le sfide a testa alta, che non ti raccontano lamenti e fatica, che nonostante tutto indossano ogni giorno il loro sorriso più bello e riescono a godere con gratitudine della gioia dei momenti. Loro arricchiscono questo mondo con la bellezza dei loro esempi di vita. Le donne devono fare qualunque cosa due volte meglio degli uomini per venire giudicate brave la metà”. E’ vero, affermava, “la parità non esiste ancora, il nemico più grande rimane il pregiudizio inconsapevole di tanti uomini, il pericolo maggiore è la mancanza di consapevolezza di molte donne. Ma non sarà così per sempre, una rivoluzione culturale è in atto. Grazie alle donne che mi ispirano ogni giorno”.

Le denunce di Marisa, la donna uccisa a Marsala: «Non uscivo più da sola, lui mi faceva paura». Storia di Felice Cavallaro su Il Corriere della Sera venerdì 8 settembre 2023. 

In tribunale Marisa Leo l’aveva detto di essere terrorizzata da quel suo ex compagno, il padre della sua bimba. L’aveva detto nel giugno 2021 di temere il peggio, di temere per la sua vita: «Ho paura, non esco più da sola. Lui mi fa paura. Io cammino sempre scortata... E ho una telecamera in macchina perché se dovesse succedermi qualcosa almeno lui verrà filmato e si saprà chi è stato». Aggiungendo che un giorno se l’era ritrovato a casa, «aggredita alle spalle» mentre «guardava sul cellulare delle armi» dicendo «che andava al poligono di tiro». Sono le denunce che riemergono nel giorno del dolore. Allora ribadite davanti ai giudici durante il primo grado di un processo bloccato perché poi ritirate da lei stessa, ennesima vittima di un femminicidio, uccisa mercoledì da Angelo Reina, poi suicida.

La vana speranza

Una retromarcia della dinamica impiegata della casa vitivinicola «Colomba Bianca», determinata dalla vana speranza di un cambio di passo, ma soprattutto per tentare di proteggere la serenità della loro piccola figlia che allora aveva appena due anni: «Non voglio che cresca con un padre condannato». Reina non voleva accettare la fine di una burrascosa relazione cominciata nel 2016 e chiusa per scelta di Marisa nel 2020, anno di un episodio che costituisce l’avvio delle denunce. Un pomeriggio di maggio, quando ha già rotto sospettando una relazione di Reina con un’altra donna, lei è alla guida della sua auto con la bimba ancorata al seggiolino, quando scatta l’allarme, stando a quanto registrato a verbale: «Dallo specchietto mi accorsi che mi seguiva. Forse voleva controllare dove stessi andando. Poi ad un certo punto ha iniziato ad avvicinarsi sempre di più...». Una scena da film. Con l’auto di Reina che costringe quella della donna ad una brusca frenata: «Mi taglia la strada e prova ad aprire lo sportello, totalmente fuori controllo». Per fortuna tutto accadde a ridosso di un distributore di benzina e un impiegato impedì l’aggressione «mentre la bambina piangeva disperata».

Lo sfogo

Ai giudici Marisa Leo consegna anche lo sfogo su una relazione parallela puntellata «da innumerevoli bugie»: «Intratteneva dei rapporti ambigui con una donna». Non ce la faceva più. Nemmeno quando rimase incinta e consegnò il suo pancione ai filmati delle «donne del vino» schierate sul fronte anti-violenza. Parlava alle altre e a sé stessa: «Mi illudevo che la gravidanza potesse cambiarlo». Ma non accadde. E raccontò non solo di «comportamenti irrispettosi», ma anche di «messaggi in cui minacciava di uccidersi se io non fossi tornata con lui». Di qui l’ammissione che lievitasse in lei «un senso di colpa». Un’altalena di sensazioni culminate in un blitz dell’uomo che per due volte si introdusse in casa di Marisa: «La prima volta salì fino al pianerottolo suonando insistentemente. Io ero in gravidanza e veramente ho rischiato molto per la grande agitazione. Lui voleva a tutti i costi tornare con me, mi ha preso con forza dalle spalle... Dopo la nascita della bimba ci riuscì di nuovo anche se non ha mai avuto le chiavi di nessun appartamento...».

L’allarme

Scatta così la richiesta di aiuto ad amici, parenti ed autorità: «Alla mia famiglia, alla sua, a ogni singola persona. Pregavo tutti di farlo ragionare». A un tratto per provare le minacce ricevute si attrezzò con un registratore e provò che durante una telefonata «lui faceva intendere che avrebbe risolto le cose a modo suo, con toni minacciosi». Come è poi accaduto.

Rosella Nappini.

Uccisa a coltellate nell’androne di casa, la vittima è un’infermiera di 52 anni: interrogato l’ex compagno. A ritrovare il corpo in una pozza di sangue un vicino di casa. La donna viveva nel palazzo in zona Trionfale dov'è stata ritrovata. È stata colpita più volte in punti vitali. Redazione Web su L'Unità il 4 Settembre 2023

Uccisa a coltellate, il corpo ritrovato all’interno dell’androne del palazzo dove viveva. Il macabro ritrovamento questo pomeriggio in via Giuseppe Allievo a Roma, nel quartiere Trionfale-Primavalle. La vittima era un’infermiera di 52 anni, Rosella Nappini. A scoprire il corpo riverso in una pozza di sangue un vicino di casa che ha allertato il 112. Sul posto sono arrivati le volanti della Questura di Roma, la sezione Omicidi della Squadra Mobile e la Scientifica.

La donna viveva nel palazzo dov’è stata ritrovata e lavorava in un ospedale della zona. Sembra che in tanti abbiano sentito le grida della donna aggredita. Il cadavere è stato ritrovato intorno alle 17:00. La donna è stata colpita da un’arma da taglio in diversi punti vitali, più volte all’addome. Gli investigatori al momento non escludono la pista passionale: indagini indirizzate verso questa ipotesi anche per la presenza di alcuni effetti personali contenuti in una borsetta trovata accanto al cadavere della 52enne, segno che dietro l’omicidio non vi sia stato un tentativo di rapina.

L’ex compagno della vittima, che in un primo momento pareva irreperibile, è stato rintracciato e portato in Questura dove è stato sottoposto a interrogatorio: ma gli inquirenti avrebbero ascoltato anche altri conoscenti dell’infermiera trovata morta.

La donna era separata e aveva due figli, viveva da sola con l’anziana madre e lavorava come infermiera all’ambulatorio dell’ospedale San Filippo Neri, dove è impiegata anche la sorella che invece abita a San Lorenzo.

“Da quel che mi hanno riferito la vittima, da qualche mese, viveva qui con la mamma, che ha circa 80 anni, perché stava male“, ha raccontato alla stampa Paolo Tedesco, amministratore del palazzo, chiamato da un condomino.

Sul luogo del delitto, oltre alla sezione Omicidi della Squadra Mobile e la Scientifica, è giunta anche la pm Claudia Alberti del gruppo violenze di genere. Nell’area del femminicidio i militari sono impegnati nella ricerca dell’arma del delitto, con polizia e operatori dell’Ama impegnati in particolare nello svuotamento dei cassonetti dell’immondizia nella via dove si trova lo stabile in cui è avvenuto l’omicidio di Rosella Nappini.

Redazione Web 4 Settembre 2023 

Infermiera 52enne uccisa a coltellate, il corpo di Rossella Nappini trovato nell’androne del palazzo. Diversi uomini ascoltati in Questura. Marco Carta su La Repubblica il 4 Settembre 2023 

È accaduto in via Giuseppe Allievo, zona Trionfale. La vittima ha due figli, viveva con la madre anziana e lavorava all’ospedale San Filippo Neri 

Un’infermiera di 52 anni, Rosella Nappini, è stata trovata senza vita nell’androne di un palazzo in via Giuseppe Allievo, al civico 63, zona Trionfale, a Roma.

È stata uccisa con diverse coltellate all'addome. Gli investigatori stanno ascoltando diversi uomini, tra cui l’ex compagno della vittima.

La donna ha due figli, viveva da sola con l'anziana madre e lavorava come infermiera all'ambulatorio dell’ospedale San Filippo Neri, dove è impiegata anche la sorella che invece abita a San Lorenzo.

"Era schiva, solo casa e lavoro", raccontano i vicini.

Nel 2018 per il suo compleanno Rossella Nappini aveva chiesto per regalo, come si legge nel  suo profilo Facebook, "donazioni per la casa delle donne per non subire violenza”. 

Il corpo è stato trovato da due studenti, era in un lago di sangue. "Da quel che mi hanno riferito, la vittima da qualche mese viveva qui con la mamma, che ha circa 80 anni, perché stava male", dice Paolo Tedesco, amministratore del palazzo, chiamato da un condomino. "L'infermiera l'ho incontrata solo due volte, mi è sembrata subito una persona perbene, ma non lo conoscevo, non posso dire di più. Pare che il corpo sia stato trovato da due ragazzi".

Sul posto, oltre agli uomini della squadra mobile, anche la pm Claudia Alberti del gruppo violenze di genere.

Si cerca l'arma del delitto. Operatori Ama insieme alla polizia stanno svuotando i cassonetti nella via dove si trova lo stabile. 

Roma, infermiera di 52 anni uccisa a coltellate al Trionfale. Il corpo trovato nell'androne, l'ex compagno in Questura. Natalia Distefano e Rinaldo Frignani su Il Corriere della Sera lunedì 4 settembre 2023.

Delitto in via Allievo, l'allarme nel pomeriggio. La vittima, Rossella Nappini, colpita più volte all'addome. Aveva collaborato a una raccolta di fondi per un centro anti-violenza

Una donna è stata uccisa a coltellate in un palazzo in via Giuseppe Allievo, nel quartiere Trionfale-Primavalle, a Roma. La vittima è Rossella Nappini, un'infermiera di 52 anni che abitava nel palazzo e lavorava all'ospedale San Filippo Neri È stata colpita più volte all'addome, probabilmente da qualcuno che conosceva. 

Disposta l'autopsia, si stringe il cerchio intorno all'ex fidanzato

In molti hanno sentito le grida, a scoprire il corpo nell'androne sono stati due studenti: era in un lago di sangue. Sul posto sono arrivate le volanti della Questura di Roma, la sezione Omicidi della squadra mobile e la scientifica. Il cadavere, ritrovato intorno alle 17, ad un primo esame medico legale presenta numerose ferite d'arma da taglio, la maggiore parte delle quali all'addome, in corrispondenza di punti vitali. A indirizzare le indagini verso persone vicine alla vittima ci sarebbe anche il ritrovamento di alcuni effetti personali contenuti nella borsetta della 52enne. 

L'arma del delitto cercata nei cassonetti

La polizia sta cercando l'ex compagno, che in un primo momento pareva irreperibile. Rintracciato, è stato portato in questura e posto sotto interrogatorio. Sul luogo del delitto è stato svolto un lungo sopralluogo diretto dal sostituto procuratore della Repubblica Claudia Alberti, del pool di magistrati della Procura che si occupano dei reati contro la persona e delle violenze di genere. È stata disposta l'autopsia per stabilire il numero di coltellate che l'hanno uccisa, mentre il cerchio si stringe intorno all'ex della vittima. La polizia scandaglia l'intera zona e in particolare l'area intorno all'edificio: si cerca l'arma del delitto anche nei cassonetti, nell'ipotesi che l'assassino se ne sia liberato gettandola tra la spazzatura. 

Era separata, aveva due bambini e viveva con la madre

«La donna era separata, aveva due bambini e viveva con la madre», raccontano i vicini di casa (chi abita nello stabile oggi pomeriggio è stato invitato a rimanere fuori dalle proprie abitazioni). «Da quel che mi hanno riferito la vittima, da qualche mese, viveva qui con la mamma, che ha circa 80 anni, perché stava male», ha detto Paolo Tedesco, amministratore del palazzo, chiamato da un condomino. «La conoscevo: era una donna molto riservata - racconta una condomine - e metteva al primo posto il lavoro. Per lei era una missione». «Io vivo nel palazzo, penso che vivesse qua con la madre - spiega una residente -. Da quello che so ha due bambini ed è separata. Mio marito ha sentito urlare "aiuto" intorno alle 17 ma quando si è sporto dal balcone non ha visto nulla. Uscendo per andare a lavorare è poi passato davanti all'ascensore e ha visto un corpo disteso, ma già era coperto con un telo». In via Allievo gli animi sono scossi e in tanti raccontano di aver sentito gridare una donna che chiedeva aiuto. L'ipotesi che si fa largo è, dunque, che l'omicidio sia stato commesso al termine di un litigio.

Rossella tra l'amore per i figli e l'impegno civile

La vittima era attiva sul posto di lavoro, sul versante sindacale a favore della sanità pubblica, e impegnata anche sul fronte dei femminicidi. In tempi recenti aveva collaborato a una raccolta di fonti per sostenere un centro anti-violenza. Risalgono a oltre dieci anni fa, dicembre 2012, le lettere firmate da Rossella Nappini e pubblicate dal settimanale «Oggi». «Aiutateci a salvare il S. Filippo Neri» era l'appello dell'infermiera, che si schierava contro i tagli e la privatizzazione delle strutture sanitarie: «La periferia che si appoggia al S. Filippo rimarrà a guardare il declino di una assistenza pubblica. Tante persone, cittadini paganti (con tasse) si vedranno privati del loro centro d’ascolto e di guarigione d’eccellenza». L'infermiera aveva a cuore la salute di pazienti e il suo lavoro. Si batteva per il risanamento «di un ospedale cattolico che a mio dire - scriveva - dovrebbe essere curato dal suo diretto interessato, il Vaticano. Non basta pregare per risolvere la questione, dimostrate la fede cristiana aiutando il paese. Non dal balcone, in piazza costruendo e non demolendo il privato. Un appello al Papa che dimostri quanto Nostro Signore è andato evangelizzando». Si era rivolta anche all'allora ministro Patroni Griffi: «Rivolgo a lei una preghiera. Ciò che le chiedo è solo di voler istituire una commissione esterna pronta a valutare il sistema aziendale del S. Filippo Neri. Questa richiesta credo possa inglobare il desiderio di tutti coloro che hanno manifestato, di tutti quei cittadini che auspicano una giustizia concreta, nel bene di quel diritto costituzionalmente inalienabile: la salute».

Estratto da open.online il 5 Settembre 2023

La ricostruzione

Secondo la prima ricostruzione degli inquirenti Nappini e Harrati si erano conosciuti qualche mese prima. La donna aveva traslocato in casa della madre, che vive a 2 chilometri dall’ospedale. 

Nell’occasione la famiglia aveva effettuato alcuni lavori di ristrutturazione e tra gli operai c’era il cittadino marocchino, irregolare in Italia. La relazione era durata pochi mesi, poi Rossella l’aveva troncata. Ma i due continuavano a frequentarsi. Lunedì 4 settembre si erano visti qualche tempo prima dell’omicidio. Secondo alcuni racconti poi i due erano andati al bancomat più vicino. Poi nell’androne è arrivato l’omicidio. Determinante per arrivare a lui è stata la testimonianza della madre di Nappini. 

(…)

Secondo gli inquirenti però il movente non sarebbe soltanto la gelosia. Dietro ci sarebbero alcuni motivi economici. Il Corriere della Sera spiega che chi indaga ritiene possibile che l’uomo volesse trasferirsi a vivere a casa della donna. La zia della vittima, Lisa, conferma al quotidiano: «Negli ultimi tempi lei era molto preoccupata. Si era confidata con mio figlio, suo cugino.

Con lui si scriveva di continuo. L’altro giorno quell’uomo era in casa con lei, poi sono usciti, non so se erano insieme. Rossella doveva andare al bancomat delle Poste per un prelievo». L’arma del delitto non è stata trovata. Così come gli abiti che Harrati indossava il giorno prima. Secondo chi indaga potrebbero essere stati lavati o buttati insieme al coltello. Gli agenti hanno tracciato il telefono del cittadino marocchino: si è connesso nella cella della zona dell’abitazione di Rossella. 

Irregolare in Italia

L’uomo ha precedenti per rapina in Italia. Non ha un regolare permesso di soggiorno. Anche secondo un’altra testimonianza Harrati era convinto che sarebbe andato a vivere in casa di Rossella. Ma l’uomo avrebbe litigato con la madre della vittima, chiudendo così ogni possibilità di convivenza. Lui, però, secondo il racconto del Messaggero, non si arrendeva e continuava a chiamarla. Le aveva anche chiesto i soldi spesi per il tempo passato insieme. L’ex compagno di Rossella Enrico N. ha detto al quotidiano romano che lui le telefonava di continuo e lei di solito interrompeva bruscamente la chiamata. Le scriveva anche messaggi affettuosi.

 Estratto dell’articolo di Rinaldo Frignani per corriere.it il 5 Settembre 2023 

La passione per il calcio, piccoli lavoretti a Roma, soprattutto nel settore edile. Un precedente di polizia per rapina - sembra in un supermercato -, e la nomea fra chi dice di conoscerlo di essere «una persona irascibile». È il ritratto di Adil Harrati, 45 anni, cittadino marocchino con permesso di soggiorno (forse scaduto) italiano, fermato nella notte di lunedì dalla Squadra mobile per l'omicidio dell'infermiera Rossella Nappini, uccisa a coltellate nell'androne del palazzo dove avita la madre in via Giuseppe Allievo, al Trionfale.

Harrati sarebbe arrivato a Roma una decina di anni fa. Ha fatto un po' di tutto: dall'operaio al commerciante nei mercatini rionali. Poi nell'aprile scorso l'incontro con l'infermiera dell'ospedale San Filippo Neri proprio a casa dell'anziana madre di quest'ultima, Teresa. Fra i due c'è stata una breve relazione che la 52enne ha presto deciso di interrompere anche se i due sono rimasti in contatto. Dalle testimonianze di alcune persone che risiedono nella zona di via Allievo, il marocchino sarebbe stato visto più volte in compagnia di Rossella e proprio lunedì scorso si sarebbe trovato a casa della madre per motivi tuttora da accertare. 

(...)

Estratto da corriere.it il 5 Settembre 2023

La macchina bianca di Rossella Nappini, uccisa a coltellate il 4 settembre a Roma, al quartiere Trionfale, era stata vandalizzata nel 2021 da uno stalker: «Ti amo tanto», aveva scritto a grandi lettere con uno spray rosso l'uomo che, all'epoca dei fatti, era rimasto sconosciuto. 

(...)

Chi è il presunto killer di Rossella Nappini: l’arrestato è il 45enne Adil Harrati. Contestata aggravante della premeditazione. Marco Carta su La Repubblica il 5 Settembre 2023 

La donna è stata accoltellata almeno venti volte al collo, all'addome e sul braccio. Ancora non è chiara la dinamica del femminicidio ma sono due le ipotesi su cui lavorano gli inquirenti. L’uomo si trova in carcere a Regina Coeli

Adil Harrati, 45 anni, era arrivato in Italia circa 8 anni fa.

Viveva a Torrevecchia insieme a un coinquilino come lui di origini marocchine. Si dava da fare come operaio e robivecchi, vendendo oggetti usati ai mercatini.

Adil Harrati aveva conosciuto Rossella Nappini pochi mesi fa dopo aver fatto alcuni lavori di ristrutturazione nella casa della donna a Trionfale. I due erano diventati amici e poi avevano iniziato una relazione che si era chiusa da poco.

Contestata aggravante della premeditazione

È contestata l'aggravante della premeditazione al 45enne. Al momento l'arma utilizzata per l'omicidio non è stata ancora trovata. Domani il pm titolare del fascicolo invierà all'ufficio del gip la richiesta di convalida e l'udienza si svolgerà nei prossimi giorni. Il 45enne è attualmente detenuto nel carcere di Regina Coeli.

Le ipotesi sulla dinamica del femminicidio

Un agguato, oppure una lite furibonda degenerata. Ancora non è chiara la dinamica del femminicidio ma sono due le ipotesi su cui lavorano gli inquirenti.

La prima è che Rossella Nappini e il suo presunto assassino stessero uscendo insieme dal palazzo. La seconda che l'uomo l'abbia attesa nell'androne delle scale dove l’infermiera abitava insieme alla madre Teresa.

È soprattutto questo uno dei punti da chiarire. La donna, come ha raccontato sua zia Lisa, stava andando all'ufficio postale per prelevare dei soldi.

Rossella Nappini avrebbe cercato di difendersi in ogni modo, ma il 45enne l'ha colpita almeno venti volte, ferendola al collo, all'addome e sul braccio. 

La testimonianza e la cattura

Decisiva oltre alla testimonianza della madre, anche quella di una vicina di casa. La donna, che ha sentito le grida provenire dall’androne del civico 63, si è affacciato alla finestra e ha visto il killer fuggire. Immediatamente i poliziotti si sono messi sulle tracce del 45enne, le ricerche sono durate diverse ore, fino a quando l'uomo è stato fermato. Ora si trova in carcere a Regina Coeli.

Fermato l'ex: mesi di stalking e poi l'agguato nell'androne. L'infermiera, 52 anni, uccisa a coltellate dopo il rifiuto. Il dolore della sorella: "Non sono riuscita a salvarti". Stefano Vladovich il 6 Settembre 2023 su Il Giornale.

Fermato il killer di Monte Mario. Omicidio volontario aggravato e premeditato, le accuse. Adil Harrati, 45 anni, marocchino, è stato bloccato dalla squadra mobile romana all'alba di ieri nella sua abitazione. Portato a San Vitale, non ha fornito un alibi, non ha detto una sola parola davanti alla pm Claudia Alberti che ha cercato, inutilmente, di interrogarlo. Pittore edile, l'uomo conosce Rossella Nappini, 52 anni, infermiera di vecchia data al San Filippo Neri, durante i lavori di tinteggiatura dell'appartamento che la vittima divideva con la madre, la sorella e le sue due figlie. Con la donna Adil ha una relazione burrascosa, terminata dopo una serie di tira e molla dalla stessa Rossella. Ma lui, Adil, non ne vuole sapere di troncare il suo «folle amore». Glielo scrive persino con un chiodo sulla fiancata dell'auto che la poveretta ha appena acquistato. La tormenta con una sfilza di messaggi e chat a cui Rossella risponde sempre picche.

Aveva paura, Rossella, ma non abbastanza da denunciarlo. «Ieri si è presentato qui per discutere con lei» racconta alla polizia la madre 80enne della vittima. L'anziana non lo fa entrare in casa, al 61 di via Giuseppe Allievo, quartiere Monte Mario - Trionfale. Adil attende nell'androne che rientri dal lavoro. Uno stop al bancomat di zona e, alle 17 di lunedì, il drammatico faccia a faccia con l'assassino. I due discutono a voce alta, li sentono in tanti nella palazzina in cortina a pochi passi da Primavalle, dove abita il pittore. Poi le grida di aiuto mentre l'uomo si scaglia con una serie di coltellate su di lei. Almeno 20 i fendenti che la uccidono in pochi istanti mentre il 45enne si precipita fuori, attraversando il cortile e partendo a razzo con la sua auto. La stessa ripresa da alcune telecamere della zona e che inchiodano l'assassino. Per un soffio, una manciata di secondi, un uomo non lo incrocia. «Ho visto solo una figura fuggire dopo aver sbattuto il portone» dirà ai primi agenti accorsi sul posto il vicino sceso per soccorrere la donna. Non una rapina, non una violenza sessuale: la borsa di Rossella è lì, accanto al cadavere e dal primo esame medico legale non ci sono altri segni di violenza oltre alle coltellate. L'arma viene cercata nei cassonetti delle strade vicine, in casa del presunto assassino, nella sua macchina. Ma non si trova. È l'unico elemento che manca all'appello per l'ennesima, agghiacciante, violenza di genere. Il 78esimo femminicidio in Italia dal primo gennaio, una strage. Un'inchiesta lampo, quella della questura di Roma, coordinata dal pool antiviolenza della Procura. «Bisogna denunciare, sempre» sottolineano gli inquirenti che grazie ai familiari, testimoni diretti di mesi di stalking da parte dello straniero, sono arrivati a lui dopo aver interrogato una rosa di persone sospette, a cominciare dall'ex marito che, però, ha un alibi di ferro. «Purtroppo questa volta non sono riuscita a salvarti - posta su Fb Monica Nappini, sorella della vittima -. Una cosa è certa, starai vicino a papà come volevi. Rip sorellina mia». In un secondo post aggiunge: «Giustizia fatta, adesso devi marcire in carcere» riferendosi all'omicida. La tragedia di Rossella lascia sgomenti parenti, amici, colleghi della Asl Roma1 dove lavorava. «Cavolo Rossè - scrive il cognato Francesco -. Non trovo una foto che stiamo insieme. Voglio ricordarti così cognata mia. Ricordo perfettamente quando stampammo sta foto assieme. T'ho voluto bene malgrado i nostri litigi. Mi mancherai tantissimo, capocciona mia! Che la terra ti sia lieve». «Un femminicidio - si legge sul profilo Fb del San Filippo Neri - non è mai solo un episodio di cronaca. Per questo non dobbiamo mai cedere alla banalizzazione di un simile dramma ma restare vicini a questa famiglia e a quella di tutte le vittime. Non esistono motivazioni reali per simili gesti, si tratta di una barbarie che dovrebbe farci riflettere e vergognare tutti». In attesa della convalida del fermo di pg e dell'interrogatorio di garanzia, Harrati è stato rinchiuso nel carcere di Regina Coeli. Stefano Vladovich 

Vera Schiopu.

Morte di Vera Schiopu, a Catania fermato il fidanzato. Ai carabinieri aveva detto: «Venite, si è uccisa». Storia di Lara Sirignano su Il Corriere della Sera domenica 20 agosto 2023

Il corpo era appeso a una trave con una corda stretta attorno al collo. Vera Schiopu, bracciante agricola moldava di 25 anni, penzolava senza vita. I carabinieri di Palagonia, chiamati dal fidanzato, un 33enne romeno, l’hanno trovata così all’interno di un casolare abbandonato nelle campagne di Ramacca, nel Catanese. «Si è suicidata», ha detto l’uomo ai militari. Ma gli inquirenti hanno immediatamente dubitato che la ragazza avesse compiuto un gesto estremo.

E hanno incaricato la sezione investigazioni scientifiche dei carabinieri di Catania, la squadra esperta di accertamenti tecnici sulle scene del crimine, di analizzare i luoghi. Il «verdetto» degli esperti è stato netto: Vera non si è impiccata. È stata uccisa. Dell’omicidio sono sospettati proprio il fidanzato e un connazionale di due anni più giovane. Entrambi sono stati fermati la notte tra sabato e domenica, a poche ore dalla scoperta del cadavere. Dopo avere assassinato la giovane donna, probabilmente strangolandola, ne avrebbero inscenato il suicidio raccontando poi che si era impiccata nel casolare, una costruzione fatiscente a poca distanza dalla villetta in cui la vittima viveva con il compagno. Una messa in scena piuttosto grossolana, però. Il corpo della 25enne presentava diverse ferite incompatibili con la morte per impiccagione.

E sui suoi abiti, poi, sono state trovate evidenti tracce di sangue che hanno fatto dubitare della storia raccontata dal fidanzato e dall’amico. Secondo le prime ricostruzioni — l’autopsia non è stata ancora eseguita — Vera sarebbe stata assassinata nell’abitazione che divideva con il fidanzato, poi portata nella casupola e appesa per il collo. Resta tutto da chiarire però il movente del delitto. La giovane non avrebbe mai denunciato violenze e maltrattamenti. La coppia, inoltre, conduceva una vita molto riservata — lei lavorava nei campi come stagionale, lui è un operaio edile — e nessuno dei vicini li avrebbe mai sentiti litigare. Il 33enne e l’amico, interrogati dai militari, continuano a parlare di suicidio. Ma, al di là delle macroscopiche incongruenze trovate dagli investigatori sulla scena del crimine, i racconti dei due fanno acqua da più parti.

I romeni, accusati di omicidio aggravato dalla simulazione di reato, compariranno nelle prossime ore davanti al gip per l’udienza di convalida del fermo. La tragica sorte di Vera ricorda per molti aspetti la storia di un’altra giovane vittima di femminicidio: Valentina Salamone, una 19enne trovata impiccata nel 2010 in una villetta di Adrano, grosso centro del Catanese. Nonostante tutto facesse pensare a un suicidio, i genitori della ragazza non hanno mai creduto che la figlia si fosse tolta la vita e hanno chiesto che si continuasse a indagare. Dopo tre anni il caso, chiuso frettolosamente con una archiviazione, è stato riaperto dalla Procura generale di Catania. Ed è emerso che a uccidere la ragazza era stato il suo amante, Nicola Mancuso. L’uomo, che era sposato, temeva che la storia con Valentina avrebbe finito per minacciare il suo menage familiare, perciò l’aveva assassinata e ne aveva inscenato il suicidio.

Estratto dell’articolo di Riccardo Lo Verso per “il Messaggero” lunedì 21 agosto 2023.

Una macabra messinscena per spacciare un omicidio per suicidio. La corda, appesa alla trave e stretta attorno al collo, non poteva reggere il peso della povera Vera Schiopu, moldava di 25 anni, trovata morta impiccata, sabato sera, in una casa di campagna abbandonata nella piana di Catania. 

E poi le ferite sanguinanti e i lividi sul corpo. Da qui l'ipotesi che la vittima sia stata assassinata in un altro posto e poi trasportata fino in contrada "Polmone" nella frazione di Sferro, tra Ramacca e Paternò, nel Catanese. Si addensano pesantissimi sospetti su Gheorghe Ciprian Apetrei, 33 anni fidanzato di Vera Schiopu, e sull'amico di quest'ultimo. Costel Balan, 31 anni. Sono entrambi romeni e sono stati fermati per omicidio dalla Procura della Repubblica di Caltagirone.

Lavorano entrambi come manovali e braccianti agricoli. L'amico ha chiamato i carabinieri per avvertirli del ritrovamento del corpo, circostanza che potrebbe essere stato un tassello del terribile piano. 

[…] Sarebbero emerse delle contraddizioni nei loro racconti. Dettagli, e non solo, che non collimano. Alibi che non reggerebbero. Ed è scattato il provvedimento di fermo. 

[…] Dai pochi particolari che trapelano sembra che a fare nascere dei dubbi agli investigatori siano stati più elementi: la dinamica del suicidio innanzitutto, con i rilievi scientifici compiuti dai carabinieri e il ritrovamento di indizi che hanno fatto scattare l'allarme tra gli investigatori.

Ci sono inoltre alcuni elementi emersi dalle testimonianze dei due indagati che non tornano. Qualcosa di fortemente dissonante, pare la presenza di escoriazioni sul corpo della 25enne incompatibili con il suicidio, che ha fatto scattare i fermi poche ore dopo la scoperta del corpo della donna. Sarà l'autopsia disposta dalla Procura di Caltagirone a fare chiarezza sulle cause del decesso. 

Vera era giunta in Italia con il sogno di una vita migliore. Lavorava nei campi. Si spaccava la schiena nella raccolta degli ortaggi. Forse non era l'unico lavoro che le dava da vivere. Non è chiaro se fosse arrivata in Sicilia con un visto turistico e se avesse un permesso. Scarse le testimonianze di amici e vicini perché la zona del ritrovamento del corpo è isolata e non sono emersi rapporti personali con altre persone che vivono in zona.

Non risultano precedenti denunce o segnalazioni di liti tra la donna e il suo fidanzato. Particolari che rendono al momento la presunta simulazione del suicidio un giallo - almeno per il movente. 

[…] In apparenza sembra che Vera e il fidanzato vivessero una normale storia di coppia. Nella bacheca virtuale ci sono foto di incontri con amici, di passeggiate al mare e frasi d'amore che si scambiavano come avviene in tutte le normali relazioni. Nulla che svelasse crisi o morbosità tale da fare esplodere la follia omicida. Se davvero è stato il fidanzato a trasformarsi in assassino con il concorso dell'amico, resta da capire cosa lo abbia spinto a farlo. […]

25enne trovata impiccata a Catania: fermati il fidanzato e un amico. La versione fornita dal compagno della ragazza non ha convinto gli inquirenti: entrambi i sospettati sono stati fermati. Federico Garau il 20 Agosto 2023 su Il Giornale.

La vicenda del presunto suicidio di una ragazza di 25 anni di origini moldave, rinvenuta impiccata nella sua casa di Ramacca (Catania), non ha mai davvero convinto gli inquirenti, fin dal momento in cui il compagno della stessa ha fornito i primi dettagli relativi al ritrovamento del suo cadavere. Le incongruenze nella ricostruzione dei fatti sono state talmente evidenti da avere spinto la procura della Repubblica di Caltagirone a disporre il fermo del soggetto, un manovale di nazionalità romena, e di un suo amico e connazionale.

L'episodio si è verificato durante la serata di ieri, sabato 19 agosto, quando il fidanzato della vittima, la 25enne di origini moldave Vera Schiopu, ha segnalato ai carabinieri il rinvenimento del corpo senza vita della ragazza. Secondo il racconto fornito dall'uomo ai militari, la giovane, ritrovata impiccata all'interno della sua casa sita in contrada Sferro, nelle campagne tra Ramacca e Paternò (in provincia di Catania), aveva deciso di farla finita e di suicidarsi.

I primi ad accorrere sul posto e ad occuparsi di avviare gli accertamenti sul caso sono stati i carabinieri della compagnia di Palagonia. Il sopralluogo nella casa di campagna della vittima, unitamente alla ricostruzione fornita dal fidanzato romeno e dal connazionale hanno destato più di qualche sospetto tra gli inquirenti. Il caso è stato preso in carico dalla procura della Repubblica di Caltagirone.

I carabinieri del nucleo investigativo di Catania, unitamente ai colleghi della stazione di Ramacca, hanno provveduto, su disposizione del magistrato di turno, a sottoporre a fermo i due uomini. Secondo gli inquirenti si tratterebbe di un caso di simulazione di suicidio, messo in scena da questi ultimi: il compagno di Vera Schiopu, manovale di nazionalità romena, sarebbe fortemente indiziato di aver commesso il delitto coadiuvato dall'amico, che risulterebbe quindi suo complice. Proseguono le indagini sul caso.

Estratto dell'articolo di Valentina Raffa per “il Giornale” lunedì 21 agosto 2023.

«Venite. Vera si è tolta la vita». Il compagno 30enne di Vera Schiopu, 25enne di origini moldave, ha allertato sabato sera i carabinieri dopo avere trovato, secondo quanto da lui asserito, la compagna impiccata in un casolare isolato. Ma potrebbe essere stato lui a ucciderla e a inscenare il suicidio, per poi chiamare i militari dell’Arma nella speranza di farla franca. 

[…]  Adesso, bisognerà ricostruire quanto è accaduto la sera del 19 agosto e quale ruolo abbiano avuto i due amici fermati, ovvero se entrambi abbiano ucciso la giovane donna o se l’amico del fidanzato di Vera sia intervenuto solo in un secondo momento, a omicidio compiuto da parte del connazionale, per aiutarlo a spostare il cadavere e inscenare il suicidio appendendo a una trave la povera Vera già priva di vita. 

Fondamentale sarà l’esito dell’autopsia, che rivelerà come sia stata uccisa la vittima. Ma se per le modalità dell’omicidio si dovranno attendere gli esiti dell’esame autoptico, agli investigatori spetta l’arduo compito di scoprire il movente.

Un caso difficile, perché sulla vittima si sa ben poco. Si sta cercando di scandagliare la sua vita, ma, essendo straniera e abitando in quel luogo isolato della Piana di Catania in cui è stata rinvenuta cadavere, sono poche le persone che potrebbero averla conosciuta. Nei dintorni non ci sono abitazioni vicine. 

Si dovrà accertare se Vera lavorasse, magari in nero. In quel caso, potrebbe essere interessante, ai fini della ricostruzione della verità, la testimonianza che potrebbe essere fornita da qualche amico/a che lavorava con lei e a cui potrebbe avere riferito dei dettagli utili alle indagini. Gli inquirenti stanno anche visionando i diversi social che lei utilizzava e su cui postava diversi video, per comprendere i quali sarà necessario un interprete, visto che, per lo più, non sono in italiano. 

Quanto alla sua convivenza con l’uomo fermato, non risultano denunce precedenti o segnalazioni inerenti a violenze domestiche o a litigi nella coppia. […]

Estratto da lastampa.it martedì 22 agosto 2023.

Il fidanzato, Gheorghe Ciprian Apetrei, 33 anni, si avvale della facoltà di non rispondere, mentre il suo amico, Costel Balan, 31 anni, parla e ribadisce la sua estraneità ai fatti contestati, fornendo la sua verità. E' la diversa strategia davanti al gip di Caltagirone dei due romeni fermati per l'omicidio della 25enne moldava Vera Schiopu, trovata impiccata tre giorni fa in una casolare di contrada Sferro a Ramacca, nel Catanese. 

La linea difensiva è stata decisa assieme al loro legale, l'avvocato Alessandro La Pertosa, da anni penalista di Balan, che presto lascerà la difesa di Apetrei per opportunità e incompatibilità. 

Balan al gip ricostruisce la giornata della morte della 25enne moldava che viveva con il 33enne in un casolare che gli aveva dato in uso per potere svolgere il ruolo di custode del fondo, visto che in passato aveva subito dei furti. Secondo la sua versione, i due erano spesso ubriachi e lo sarebbero stati anche sabato scorso e durante un litigio all'aperto la donna sarebbe caduta a terra e avrebbe sbattuto la testa, perdendo del sangue, ma conoscendo la ritrosia della 25enne a parlare del rapporto con il suo fidanzato è andato via, lasciando entrambi sul posto. 

Poi, Balan ha spiegato in dettaglio gli spostamenti fatti quel giorno: dalle 13 alle 17 è stato a Paternò con degli amici di cui ha fornito l'identità. Di essere tornato in campagna intorno alle 17.20 e di avere visto Apetrei ubriaco cercare la sua fidanzata e di averlo poi sentito urlare dal casolare dove è stato trovato il corpo della donna. Si è recato sul posto e ha visto la 25enne con la corda attorno al collo per quello che sembrava un suicidio, ma che per la Procura è stata soltanto una messa in scena, e ha chiamato i soccorsi per fare arrivare un'ambulanza. […]

Anna Scala.

Estratto da today.it il 18 agosto 2023.

Si chiama Salvatore Ferraiuolo, 54 anni, l'uomo che ha confessato ai carabinieri l'omicidio di Anna Scala. È l'ex compagno della vittima, con il quale aveva intrattenuto una relazione poi interrotta. Il corpo senza vita della donna, 56enne originaria di Vico Equense, è stato trovato giovedì 17 agosto con delle ferite da arma da taglio alla schiena all'interno del bagagliaio della sua stessa auto a Piano di Sorrento, in provincia di Napoli. 

L'uomo è stato fermato ieri per omicidio premeditato dai carabinieri mentre si trovava in una zona impervia della città, vicino a dove aveva nascosto lo scooter con il quale si sarebbe allontanato dal luogo dell'omicidio. È stato condotto nel carcere di Poggioreale in attesa di giudizio. […]

La donna […] era separata e aveva una figlia residente a Gragnano. Da poco aveva conosciuto Ferraiuolo e la relazione era stata troncata da mesi. La vettura nella quale è stato rinvenuto il corpo era parcheggiata in un'area condominiale in via San Massimo. […] A quanto si è appreso, la donna aveva denunciato il suo ex compagno per stalking. 

Secondo quanto riferito da alcuni testimoni, la donna stava aprendo il bagagliaio dell'auto per prendere la spesa quando si sarebbe avvicinato un uomo, vestito di nero, che l'ha accoltellata più volte. L'uomo avrebbe sorpreso la donna colpendola alle spalle mentre era intenta ad aprire il bagagliaio, poi l'avrebbe spinta dentro e avrebbe richiuso il vano, risalendo infine in scooter per scappare via.

I carabinieri hanno subito cercato di ricostruire la via di fuga del killer. Oltre al cappello, perso dal presunto omicida in fuga su uno scooter di colore scuro, i militari hanno trovato anche la presunta arma del delitto, un coltello, in un'aiuola vicino al luogo in cui era parcheggiata la vettura. La lama era sporca di sangue. A segnalare l'omicidio è stata una telefonata al 112 che indicava la presenza di un cadavere. Poi il fermo dell'uomo e, poco dopo, la confessione.

(AGI giovedì 17 agosto 2023) - Il cadavere di una donna è stato trovato dai carabinieri intorno alle 12.30 nel bagagliaio di un'auto a Piano di Sorrento, nel Napoletano. L'auto era parcheggiata in un'area condominiale in via San Massimo. Il cofano della vettura era aperto e il corpo era visibile dall'esterno. Evidente anche la fuoriuscita di sangue, non si esclude causate da ferite d'arma da taglio. 

A telefonare al 112 per dare l'allarme, un cittadino che ha probabilmente visto il corpo nell'auto. I carabinieri stanno raccogliendo e analizzando immagini da telecamere di videosorveglianza della zona e ascoltando testimonianze.

Proprio dall'ascolto di testimonianze sono emersi primi elementi nelle indagini dei carabinieri. Alcuni testimoni, secondo quanto apprende l'AGI, avrebbero raccontato di un uomo vestito di nero arrivato in sella a uno scooter armato di coltello in via San Massimo. L'uomo avrebbe sorpreso la donna, accoltellandola alle spalle mentre era intenta ad aprire il bagagliaio, poi l'avrebbe spinta e chiuso il vano, risalendo infine in scooter per scappare via. 

Estratto dell'articolo di Felice Naddeo e Gennaro Scala per napoli.corriere.it giovedì 17 agosto 2023.

Il cadavere di una donna è stato trovato dai carabinieri a Piano di Sorrento, in provincia di Napoli, nel bagagliaio di un'auto. Il ritrovamento è avvenuto poco prima delle 12.3o in via San Massimo. L'autovettura era parcheggiata in un'area condominiale. La vittima presentava diverse ferite da arma da taglio alla schiena. A non molta distanza i carabinieri che conducono le indagini hanno anche rinvenuta una lama che verosimilmente sarebbe l'arma del delitto.  

A pomeriggio inoltrato la donna è stata identificata per Anna Scala, 56 anni, di Vico Equense, altro centro della Penisola Sorrentina a non molta distanza dal luogo dell'omicidio. Secondo una prima ricostruzione, non ancora ufficialmente confermata, la donna stava aprendo il bagagliaio della sua autovettura quando si è avvicinato un uomo completamente vestito di nero. L'aggressore l'ha colpita con diverse coltellate, poi ha scaraventato il cadavere nel bagagliaio dell'auto ma non l'ha chiuso. Infine si è dileguato a bordo di uno scooter. 

[…] Dalle testimonianze e dalle verifiche delle immagini dei sistemi di videosorveglianza, ad uccidere la 50enne sarebbe stato il suo ex compagno, anch'egli cinquantenne. Che era stato denunciato dalla donna per stalking negli ultimi mesi. Inoltre, l'uomo avrebbe minacciato più volte la vittima, squarciandole anche le ruote dell'autovettura.

L'autovettura era all'interno di un garage condominiale. La donna, nonostante non abitasse nel fabbricato, aveva comunque sostato la sua autovettura in quella zona. Sono stati alcuni residenti, richiamati dalle urla della vittima, a notare l'uomo che fuggiva e poi ad avvertire subito i carabinieri. In particolare, un residente si sarebbe avvicinato e ha notato il corpo senza vita della donna.

Trovata morta nel cofano della sua auto, fermato il suo ex. Cristiana Flaminio su L'Identità il 18 Agosto 2023

Il cadavere di una donna dentro il bagagliaio di un’autovettura. A Piano di Sorrento, in provincia di Napoli, è stato scoperto il corpo senza vita di una 56enne che, stando alle primissime ricostruzioni degli investigatori, aveva già denunciato per stalking il suo ex compagno. La vittima si chiamava Anna Scala ed era originaria della vicina cittadina di Vico Equense. È stata aggredita alle spalle, mentre stava posando nel bagagliaio della sua macchina la spesa nella zona di via San Massimo, nei pressi di un’area di edilizia residenziale popolare nella cittadina costiera. Un uomo, vestito di nero, si sarebbe avvicinato a lei in sella a uno scooter. Quindi l’avrebbe colpita più e più volte con un coltello che è stato ritrovato sul luogo del delitto. La donna, aggredita nei pressi della sua auto, è morta praticamente subito. Per lei non c’è stato nulla da fare.

Dopo aver ucciso la 56enne, l’omicida è scappato. Ma la fuga sarebbe durata pochissimo. E i carabinieri sarebbero riusciti a fermare l’uomo, un 50enne della zona, che aveva tentato di fuggire recandosi in una zona periferica e difficilmente raggiungibile del territorio cittadino. Si tratta proprio dell’ex compagno di Anna Scala. Che già nelle scorse settimane avrebbe minacciato la donna che, tra le altre cose, lo aveva accusato anche di averle tagliato le gomme della sua macchina. La 56enne lo aveva già denunciato per stalking. Ieri pomeriggio l’ennesimo epilogo, tragico, all’ennesima storia di violenza. Il sindaco di Piano di Sorrento, Salvatore Cappiello, ha utilizzato parole durissime per commentare quanto accaduto: “Siamo addolorati e sconvolti. Il terribile delitto avvenuto oggi nella nostra città è un atto di inaudita follia. Voglio esprimere dal profondo del mio cuore e a nome dell’intera comunità di Piano di Sorrento, il nostro cordoglio ai familiari della vittima. Gli inquirenti sono al lavoro senza sosta per fare chiarezza e noi stiamo fornendo la massima collaborazione possibile anche con specifico riferimento ai filmati della video sorveglianza comunale attraverso il Comando di Polizia Municipale. Attendiamo di conoscere gli sviluppi delle indagini che definiranno con più certezza ogni elemento e responsabilità di questa gravissima vicenda”. Il caso dell’ennesima vittima, dell’ennesima donna, morta nella sua stessa auto, a causa della violenza di un amore malato.

Chi ha ucciso Anna Scala a Piano di Sorrento, fermato il presunto killer: è l’ex della vittima. La vittima aveva 56 anni. È stata uccisa a coltellate, il corpo lasciato dentro il bagagliaio di un'automobile nella località costiera in provincia di Napoli. In passato la donna aveva denunciato l'ex. Redazione Web su L'Unità il 17 Agosto 2023 

È stato individuato e fermato dai Carabinieri un uomo indiziato dell’omicidio di Anna Scala a Piano di Sorrento (località costiera in provincia di Napoli). Si trovava in una zona impervia della città, vicino a dove aveva nascosto lo scooter con il quale si era allontanato dal luogo dell’omicidio. I militari lo stanno ora portando in caserma a Sorrento. Già durante la giornata di oggi i militari erano a caccia di un uomo vestito di nero che aveva avvicinato e forse aggredito la vittima. Si tratterebbe del suo ex compagno.

Chi ha ucciso Anna Scala a Piano di Sorrento

I primi sospetti sono stati rivolti all’ex di Anna Scala. La donna, 56 anni e originaria di Vico Equense, lo aveva in passato denunciato per stalking. Il corpo senza vita della vittima è stato trovato all’interno di un bagagliaio di un’automobile lasciata parcheggiata in un complesso condominiale di via San Massimo. Dai primi accertamenti medico-legali, è parso subito chiaro che Anna Scala fosse stata uccisa con più coltellate. I carabinieri hanno anche rinvenuto l’arma del delitto.

La dinamica e i fatti

Ma chi ha ucciso Anna Scala a Piano di Sorrento? Secondo le prime ricostruzioni fatte dagli investigatori, pare che il presunto killer della donna l’abbia avvicinata mentre lei era nei pressi della vettura. Aperto il cofano, l’ha aggredita e colpita alle spalle, per poi lasciarla dentro il porta bagagli. L’allarme è scattato quando alcuni passanti hanno udito le urla della vittima e notato il cadavere nell’automobile.

L'omicidio. Come è morta la donna trovata in auto a Piano di Sorrento: forse accoltellata da un uomo giunto alle sue spalle. L'atroce delitto nella Penisola Sorrentina. Indagano i Carabinieri. Pare che una persona vestita di nero abbia aggredito la vittima e poi sia fuggita. Redazione Web su L'Unità il 17 Agosto 2023 

Il cadavere di una donna non ancora identificata è stato ritrovato all’interno del bagagliaio di un’auto a Piano di Sorrento, in provincia di Napoli. Sul posto sono intervenuti i Carabinieri della compagnia di Sorrento. La vettura era parcheggiata in un’area condominiale in via San Massimo. Indagini in corso da parte dei militari.

Come è morta la donna trovata in auto a Piano di Sorrento

Il cofano della macchina era aperto, il corpo era visibile. Era sanguinante, probabilmente per ferite d’arma da taglio. Sul luogo del delitto è atteso il medico legale per i dovuti accertamenti da eseguire sul corpo della vittima. Ad avvisare il 112 un cittadino che ha verosimilmente visto il corpo nell’auto. I carabinieri stanno analizzando telecamere e raccogliendo testimonianze.

L’ipotesi

Ma come è morta la donna trovata in auto a Piano di Sorrento? Secondo quanto riportato da Il Corriere del Mezzogiorno, pare che un uomo – vestito di nero – abbia atteso che la vittima si avvicinasse all’automobile e aprisse il bagagliaio. Poi l’avrebbe accoltellata e scaraventato il corpo nel cofano della vettura. Infine, il presunto assassino, potrebbe essere scappato via in scooter. Qualche passante avrebbe anche sentito le urla della donna. Tale versione è in attesa delle dovute conferme investigative. Redazione Web

Chi è la donna uccisa a Piano di Sorrento, aveva 56 anni: è caccia all’ex compagno. Il corpo trovato senza vita nel bagagliaio di un'auto, la vittima uccisa a coltellate: aveva denunciato l'ex per stalking. Redazione Web su L'Unità il 17 Agosto 2023

Aveva denunciato il suo ex per stalking la donna che è stata uccisa oggi a Piano di Sorrento, località costiera in provincia di Napoli. I Carabinieri ritengono comunque di essere sulle tracce dell’assassino. La vittima si chiamava Anna Scala ed aveva 56 anni. Era originaria della vicina Vico Equense. I militari hanno ritrovato la lama che è stata verosimilmente utilizzata per il delitto. Un ritrovamento che potrebbe aiutare a individuare più velocemente l’assassino.

Chi è la donna uccisa a Piano di Sorrento

Il corpo senza vita della donna è stato trovato quest’oggi, nel primo pomeriggio, all’interno di un bagagliaio di un’automobile parcheggiata in via San Massimo. Il cadavere presentava ferite da arma da taglio, aspetto che ha lasciato ipotizzare che la vittima fosse stata uccisa a coltellate. Ma chi è la donna uccisa a Piano di Sorrento? I carabinieri dopo gli accertamenti medico-legali sono riusciti a identificarla dando un nome e un’età alla salma.

La dinamica

Da una prima ricostruzione, ancora in via di conferme investigative, pare che la vittima sia stata colpita e uccisa alle spalle. Il presunto killer l’avrebbe avvicinata mentre lei stava per aprire il portabagagli della vettura. Una volta sferrate le coltellate, l’uomo – forse vestito di nero – ha scaraventato il corpo nel bagagliaio e sarebbe scappato via in scooter. I carabinieri sono stati avvisati da un passante che prima avrebbe sentito le urla della vittima e poi avrebbe visto il suo cadavere nell’auto. Il cofano, infatti – al momento del terribile ritrovamento – era aperto. Redazione Web 17 Agosto 2023

Celine Frei Matzohl.

Estratto da republica.it domenica 13 agosto 2023.

Femminicidio a Silandro in provincia di Bolzano. Una ragazza di 21 anni è stata uccisa dall’ex fidanzato, arrestato alle 17 di domenica, qualche ora dopo il rinvenimento del cadavere. A dare l'allarme i genitori della vittima che hanno denunciato la sparizione della ragazza ieri. Il corpo della ragazza è stato trovato all'interno dell'appartamento del suo ex compagno, un uomo di origini turche, di cui si erano perse le tracce  da ieri. Da qui il sospetto degli investigatori che possa essere l'autore del delitto. La morte della donna potrebbe quindi risalire a 24 ore fa.

La vittima si chiama Celine Frei Matzohl, 21enne di Corces, comune della Val Venosta in provincia di Bolzano. Secondo quanto si apprende la giovane sarebbe stata uccisa a coltellate. I carabinieri, infatti, hanno trovato la possibile arma del delitto all'interno dell'appartamento del suo ex fidanzato, non lontano da dove è stato rinvenuto il cadavere. L'allarme è scattato questa mattina quando i familiari della ragazza, non avendola vista rientrare, ne avevano denunciato la scomparsa ai carabinieri, che dopo alcune ore di ricerche hanno trovato il corpo senza vita nell'appartamento di via Molini.

L’omicida è stato arrestato a Passo Resia, mentre cercava di raggiungere l'Austria: era al volante della Ford Fiesta segnalata come sua. Ha cercata di scappare e un carabiniere ha sparato colpendo le ruote e facendolo andare fuori strada

(ANSA lunedì 14 agosto 2023) - A giugno scorso Celine Frei Matzhol, spaventata dai comportamenti violenti di Omer Cim, aveva presentato denuncia ai carabinieri per reati legati al codice rosso. "Tutti sapevamo che Celine veniva maltrattata dal compagno. Lui era violento, alzava spesso le mani, e se la gente mormora qualcosa di vero ci sarà. Infatti io ho raccolto un po' di informazioni". Dice all'ANSA Dunja Tassiello, assessora del Comune di Silandro. 

"Ovviamente - prosegua l'assessora- non si può fare degli stranieri tutta l'erba un fascio, ma quando queste persone entrano nel nostro Paese bisognerebbe chiarire il rispetto che noi abbiamo verso le donne. 

C'è poi il discorso delle carceri piene, quindi l'appello che facciamo alla politica è di realizzare nuove strutture affinché possa esserci la certezza delle condanne, perché poi magari può subentrare la seminfermità mentale e dopo pochi anni la persona viene messa in libertà. 

Questo è un problema, la comunità è arrabbiata perché la certezza della pena dovrebbe essere un deterrente. Una violenza simile è inaccettabile, questa povera ragazza aveva tutta la vita davanti a sé. Siamo a terra, senza parole e ho chiesto al sindaco di proclamare il lutto cittadino per solidarietà alla famiglia", commenta Tassiello.

Femminicidio Alto Adige, Celine uccisa a 21 anni dall’ex, lo denunciò per un’aggressione: «Si era licenziato per pedinarla». Chiara Currò Dossi su Il Corriere della Sera lunedì 14 agosto 2023.

Silandro, assassinata nel giorno del compleanno. L’assessora: era ossessionato 

A giugno, in seguito a un’aggressione in macchina, Celine Frei Matzohl aveva denunciato Omer Cim per percosse e minaccia aggravata. «Un unico episodio», precisa la Procura, immediatamente segnalato dai carabinieri come Codice rosso, «e come tale trattato. Ma per queste fattispecie di reato non è possibile chiedere misure cautelari». E così, dopo una relazione «durata abbastanza a lungo», Frei Matzohl aveva trovato la forza di lasciare quel compagno violento. Che però non ha mai voluto accettare la sua decisione, tanto che, il 21 luglio, appena tre mesi dopo l’assunzione come tuttofare in un hotel di Laces, si era presentato al datore di lavoro per rassegnare le dimissioni. «Una scelta — riferisce Dunja Tassiello, assessora alla Cultura italiana di Silandro — dettata dalla volontà di pedinare Celine. Aveva un’ossessione per lei».

È questo il contesto in cui è maturato il femminicidio di Silandro, comune di seimila abitanti della val Venosta. Frei Matzohl avrebbe compiuto 21 anni domenica. Lo stesso giorno in cui è stata trovata senza vita nell’appartamento dell’ex compagno, 28 anni, in via Molini. Colpita da una decina di coltellate al collo. Era stata la madre, non riuscendo più a rintracciarla, a dare in mattinata l’allarme ai carabinieri. Dall’analisi delle celle telefoniche, il cellulare di Frei Matzohl era stato localizzato nell’appartamento di Cim, dove alle 12 hanno fatto irruzione trovandola senza vita. A quel punto è scattata la caccia all’uomo: alle 17, la macchina di Cim è stata avvistata a Curon: con ogni probabilità, l’uomo stava cercando di lasciare l’Italia (forse per raggiungere il padre, in Austria). Ne è nato un inseguimento, con i carabinieri che hanno sparato alle gomme, mandando la vettura fuori strada. Cim è stato arrestato e, dopo un controllo in ospedale, condotto in stato di fermo nel carcere di Bolzano, dove domani è in programma l’interrogatorio. E sempre domani, sarà effettuata l’autopsia. «Mi ha fatto un lungo discorso — riferisce l’avvocato d’ufficio di Cim, Erwin Dilitz —, spiegandomi la situazione. Ma non è il momento di rilasciare dichiarazioni».

Ieri all’ingresso della palazzina dove Cim viveva in affitto, per un breve periodo insieme a Celine, qualcuno ha acceso una candela bianca. Lui abitava lì da tre anni. Di giorno lavorava per un’azienda che produce speck e, da aprile, di sera faceva il tuttofare in un hotel di Laces. Lei, originaria di Corzes, frazione dove vivono la mamma e la sorellina piccola, era da poco stata assunta nella sede locale del Bauernbund (l’Unione degli agricoltori): fino ad aprile, aveva lavorato come cameriera in un hotel di Silandro. La titolare la ricorda commossa: «Era bravissima. Lo scorso anno, per un periodo, ha lavorato qui anche lui. Sul lavoro era bravo. Ma aveva due facce. Quando ho saputo che stavano insieme, ho avuto paura».

Gli amici sono sotto choc. Uno di loro racconta del loro ultimo incontro, venerdì, per un drink. «Celine era contenta di essere riuscita a troncare la relazione con Omer — ricorda —. Voleva festeggiare con noi, con una bella colazione». Ma non ha avuto il tempo di farlo. Dell’appuntamento del giorno dopo con l’ex non ha fatto cenno: ha detto solo di aver lasciato a casa sua alcuni vestiti e oggetti che avrebbe dovuto recuperare. E forse, è proprio questo il motivo che l’ha spinta a tornare nella casa di via Molini.

Lei lo aveva già denunciato. Omicidio Celine, l’ex si era fatto licenziare “per pedinarla”: l’appuntamento in casa e il tentativo di fuga. “Tutti sapevamo”. Redazione su Il Riformista il 14 Agosto 2023 

Erano stati insieme quattro mesi ma tutti nel piccolo comune di 6mila abitanti sapevano che Omer Cim, il 28enne di origini turche, maltrattava Celine Frei Matzohl, la 21enne di Silandro (Bolzano) trovava cadavere domenica mattina, 13 agosto, nell’appartamento di lui, uccisa da diverse coltellate. L’ennesimo rapporto malato culminato nell’ennesimo femminicidio.

Un uomo possessivo e violento, fermato, anche con l’esplosione di colpi d’arma da fuoco, dai carabinieri mentre cercava di raggiungere l’Austria in auto, che continuava a perseguitarla anche dopo la fine della relazione. “Tutti sapevamo che Celine veniva maltrattata dal compagno. Lui era violento, alzava spesso le mani, e se la gente mormora qualcosa di vero ci sarà. Infatti io ho raccolto un po’ di informazioni” fa sapere Dunija Tassiello, assessora comunale all’integrazione.

Lo scorso giungo Celine lo aveva denunciato ai carabinieri per reati legati al codice rosso ma per la procura di Bolzano, che procede nelle indagini, i presupposti per far scattare il codice rosso ancora non c’erano. L’uomo, secondo quanto ricostruito, nelle scorse settimane si era licenziato dall’hotel di Laces dove lavorava come tuttofare. Una decisione, secondo alcune supposizioni, per poterla pedinare meglio. Celine, che lo aveva lasciato nelle scorse settimane, voleva voltare pagina e chiudere quel breve capitolo tormentato della sua vita.

Sabato però qualcosa non è andato secondo i piani e il 28enne turno è riuscito a strappare un ultimo appuntamento, un incontro all’interno del proprio appartamento. Non è chiaro se la 21enne sia stata portata con la forza o sia andata consapevolmente. Fatto sta che da quella casa Celine, che lavorava come impiegata per il Südtiroler Bauernbund, l’associazione di categoria degli agricoltori, ha perso la vita.

A lanciare l’allarme sono stati i suoi genitori, preoccupati perché non era tornata a casa dopo la serata di sabato. I carabinieri sono riusciti a localizzare il telefonino della 21enne in via Mulini (dove si trova la casa dell’ex) e si sono presentati davanti all’ingresso dell’alloggio dove nei pressi dell’ingresso c’erano tracce di sangue. Probabilmente Celine ha tentato di fuggire da quell’inferno ma non c’è riuscita.

Poi la caccia all’uomo e l’inseguimento in auto di Omer, culminato dai proiettili che hanno raggiunto gli pneumatici della vettura. Il 28enne si trova adesso in stato di fermo con l’accusa di omicidio. Mercoledì 16 agosto è previsto l’interrogatorio di garanzia davanti al gip e l’autopsia sul corpo della giovane donna.

Il femminicidio. Chi è Celine Frei Matzohl uccisa a coltellate in provincia di Bolzano, arrestato l’ex mentre cercava di fuggire all’estero. La vittima aveva 21 anni. Il compagno è stato fermato prima che scappasse all'estero. I carabinieri hanno dovuto sparare alle ruote dell'automobile. Il cadavere della ragazza trovato in casa sua, insieme all'arma del delitto.  Redazione Web su L'Unità il 13 Agosto 2023

Una ragazza di 21 anni è stata trovata morta nell’appartamento dell’ex fidanzato a Silandro, in Alto Adige. La vittima è originaria di Corces, piccola località della val Venosta, in provincia di Bolzano. Secondo l’esame svolto dal medico legale si tratterebbe di morte violenta. Indaga la Procura. La vittima si chiama Celine Frei Matzohl. Secondo quanto si apprende la giovane sarebbe stata uccisa a coltellate.

L’omicidio

Ma chi è Celine Frei Matzohl uccisa a coltellate a Bolzano? La giovane era abbastanza conosciuta in paese e lavorava in uno degli hotel della zona, così come tanti suoi amici e amiche. In passato, inoltre, aveva collaborato anche con il consorzio agrario di Silandro. E come si sono evolute le indagini? I carabinieri, infatti, hanno trovato la possibile arma del delitto all’interno dell’appartamento del suo ex fidanzato, dove è stato rinvenuto il cadavere. L’allarme è scattato questa mattina quando i familiari della ragazza, non avendola vista rientrare, ne avevano denunciato la scomparsa ai militari, che dopo alcune ore di ricerche hanno trovato il corpo senza vita nell’appartamento di via Molini.

Arrestato l’ex fidanzato

L’ex compagno della ragazza è stato arrestato. L’uomo era ricercato subito dopo il rinvenimento del cadavere. È stato bloccato mentre tentava di attraversare il confine con l’Austria. Secondo quanto si apprende da fonti investigative, l’indiziato, che si chiama Omer Cim – di origini turche – è stato arrestato a Passo Resia. Cim ha tentato di scappare e per questo un carabiniere ha sparato alle ruote della Ford Fiesta sulla quale viaggiava. L’auto è finita fuori strada e l’uomo è stato catturato.

Le indagini e l’autopsia

Ancora sconosciuti sia il movente del delitto che il motivo per il quale la vittima si trovasse a casa del presunto assassino. Intanto Omar Cim non ha rilasciato alcuna dichiarazione durante l’interrogatorio del magistrato. Mercoledì l’uomo apparirà davanti al gip per l’udienza di convalida del fermo e nello stesso giorno verrà eseguita l’autopsia. Redazione Web 13 Agosto 2023

Chi è Omer Cim, indiziato per l’omicidio dell’ex Celine: si era licenziato per pedinarla. Il profilo del sospettato di femminicidio. La vittima aveva 21 anni. È stata ammazzata a coltellate. L'uomo fermato mentre tentava di fuggire in Austria. I carabinieri costretti a sparare contro la sua automobile. Redazione Web su L'Unità il 14 Agosto 2023

Celine Frei Matzohl di 21 anni di Corces, da pochi mesi impiegata presso il Bauernbund, sarebbe stata uccisa con diverse coltellate dall’ex compagno a Silandro. Il giovane, Omer Cim, 28 anni e cittadino turco che risiedeva in Val Venosta, aveva mantenuto i rapporti con la vittima nonostante la loro relazione fosse finita. Stando ai vicini di casa, pare che Celine avesse lasciato alcune settimane fa l’appartamento di Cim al civico 9/a di via Molini. Cim ha lavorato come macellaio in un’azienda di speck della zona e, stando ad alcune persone che lo conoscono, la settimana scorsa sarebbe stato licenziato da un hotel a Laces dove lavorava.

Omer Cim e Celine Frei Matzohl

L’uomo è stato fermato dai carabinieri dopo che lo stesso si era dato alla fuga tentando di scappare in Austria. L’auto di quello che è considerato il presunto omicida – nelle ore successiva al fermo non ha parlato o confessato e mercoledì è prevista l’udienza di convalida dell’arresto – è stata recuperata su un prato tra Curon Venosta e passo Resia dopo essere uscita di strada, inseguita dai militari.

Cim, attualmente in carcere a Bolzano, dai vicini di casa è stato descritto con un uomo gentile. All’interno dell’appartamento i carabinieri hanno sequestrato quella che potrebbe essere stata l’arma con la quale Omer Cim avrebbe ucciso Celine Frei Matzohl. Redazione Web 14 Agosto 2023

Sofia Castelli.

Estratto dell’articolo di Massimo Pisa per repubblica.it sabato 29 luglio 2023 

Un ventitreenne, Zakaria Atqaoui, è stato fermato dai carabinieri di Cologno Monzese perché avrebbe ucciso, con più fendenti alla gola, la ex fidanzata, Sofia Castelli, di 20 anni. L'omicidio risale alla scorsa notte ed è avvenuto nell'appartamento della ragazza a seguito di una serata trascorsa dall’uomo insieme alla ex fidanzata e a un’amica presso la discoteca The Beach di Milano. 

L’uomo, italiano di origini marocchine, si è presentato all’alba confessando il delitto presso il Comando della Polizia Locale di Cologno Monzese. Il pm di turno di Monza ha interrogato in queste ore Atqaoui. Il magistrato ha svolto anche un sopralluogo nell'appartamento dove è stato commesso l'omicidio.

[…]

Nell'appartamento Sofia abitava con i genitori e un fratellino, che stavano trascorrendo il fine settimana in Sardegna per un matrimonio. La famiglia, descritta come tranquilla da vicini e amici accorsi sul posto, era radicata da tempo a Cologno Monzese: il padre è impiegato in una ditta della zona come chimico, la mamma lavora in ambito scolastico.

[…]

Sofia, vent'anni appena. Uccisa a coltellate dall'ex fidanzato geloso. L'omicidio a casa della ragazza. Il giovane, 23 anni, origini marocchine, confessa il delitto. Stefano Vladovich il 30 Luglio 2023 su Il Giornale.

Tragedia a Cologno Monzese: sgozzata dall'ex dopo una lite. Muore a 20 anni Sofia Castelli, uccisa da Zakaria Atqaoui, 23 anni origini marocchine, che con le mani sporche di sangue si presenta al comando della polizia locale. «Abbiamo litigato, ho perso la testa, l'ho uccisa». Il giovane, reo confesso, viene trasferito nella caserma dei carabinieri per essere interrogato dal pm di turno mentre i militari si precipitano a casa della vittima, al 100 di corso Roma, dove la trovano cadavere. Ancora un femminicidio, il 26esimo dall'inizio dell'anno (quattro nella seconda metà di luglio). Il movente? Sempre lo stesso: una storia finita, durata 4 anni tra liti tremende, due separazioni, altrettante riconciliazioni.

Sofia, però, di ricominciare con Zakaria non ne vuole più sapere anche se per lei resta un amico. La serata di sabato la passa in discoteca a Milano, al The Beach Club di via Corelli, assieme a un'amica. Tirano a far tardi come mostrano le «storie» postate sui social all'una del mattino. Alle 5,58 Sofia è ancora viva quando scatta una foto all'alba fra i palazzi a due passi da casa. È prima mattina quando l'ex bussa alla sua porta. L'amica, che è rimasta a farle compagnia, dorme e non si accorge di nulla. Alle 9,30, quando Zakaria si presenta dai «ghisa», l'ha già ammazzata. Orari confermati, in prima battuta, dall'esame medico legale eseguito sulla vittima, trovata stesa a terra sul pavimento di casa.

Sofia viveva con i genitori e con il fratellino nell'appartamento di corso Roma. Un matrimonio in Sardegna, i tre partono e la lasciano sola. Sofia, che studia Sociologia all'Università Bicocca, lavora come commessa in un supermercato della zona per pagarsi gli studi, non può allontanarsi per l'intero fine settimana. Le piace ballare e come ogni sabato decide di passarlo con l'amica nel locale del quartiere Forlanini. Con Zakaria si sono lasciati varie volte e Sofia non ha più voglia di portare avanti la relazione. Ma continua a vederlo, l'errore più grande che si possa fare quando la fine del rapporto è voluta da una sola parte. «L'amavo» continua a ripetere assieme a frasi sconnesse l'omicida davanti ai carabinieri di Sesto San Giovanni che l'hanno interrogato per ore con il pm della Procura di Monza Emma Gambardella. L'arma del delitto non è stata trovata. In serata il 23enne viene sottoposto a fermo con l'accusa di omicidio volontario aggravato dai futili motivi. Ascoltata come persona informata dei fatti anche la ragazza che era in casa durante il delitto ma che non si è resa conto di nulla. «Dormivo profondamente» mette a verbale.

Sul posto uno zio e una cugina della vittima che hanno avvertito i genitori. Il padre, chimico in un'azienda della zona, e la madre, impiegata in una scuola, sono ripartiti immediatamente per Milano. «Saranno sconvolti - raccontano i vicini della famiglia Castelli - Bravissime persone, mai uno screzio o un problema condominiale. Gente perbene. Zakaria lo trattavano come un figlio». Una lista infinita di femminicidi, 70 da inizio anno: il 28 maggio a Senago, 20 chilometri da Cologno, viene uccisa sempre a coltellate Giulia Tramontano, 29 anni incinta al settimo mese. Il killer è il padre del bambino, Alessandro Impagnatiello, che dopo aver dato fuoco al corpo lo nasconde per giorni in un'intercapedine. Il 25 luglio a Fossombrone, Pesaro, viene uccisa Marina Luzi, 40 anni, dal cognato Andrea Marchionni di 46 anni. Venerdì a Pozzuoli un uomo, Antonio Di Razza, uccide a colpi di pistola la moglie, Angela Gioiello, 39 anni, davanti ai loro tre figli per poi suicidarsi. 

La lite e quella foto postata all'alba. Il killer era trattato come "un figlio". La giovane avrebbe avuto una discussione con l'ex dopo la notte in discoteca. I racconti: "Era dolcissima e piena di sogni". Gioia Locati il 30 Luglio 2023 su Il Giornale.

Si era fermata a fotografare l'alba, quel cielo striato di rosa che rende magica la città al risveglio. Sarà stata stanca, Sofia, alle sei del mattino, dopo aver trascorso la notte in discoteca e aver pure litigato con l'ex fidanzato (così si suppone dalle prime ricostruzioni) trasformatosi, poco dopo quello scatto, nel suo assassino (il ragazzo è reo-confesso). Però si è presa il tempo per ammirare il cielo, attratta dalla bellezza. Ha postato le immagini sul suo profilo Instagram inserendo di sottofondo una canzone del rapper Vegas Jones.

Sofia aveva occhi grandi e scuri, una chioma di capelli fluenti e studiava Sociologia alla Bicocca. Aveva un fratellino e due genitori a cui era molto legata. Chi la conosce la descrive come «allegra, dolcissima e piena di sogni». Sul profilo Instagram, oltre alle foto di Cologno Monzese all'alba, appaiono le immagini e un video del locale dove aveva appena trascorso la serata, «The Beach Club» di via Corelli. Poi ci sono i selfie, lei con un top argentato e la gonna rossa poco prima di andare al cinema «a vedere Barbie», quindi in compagnia delle amiche e poi davanti a un cocktail e a piattini di sushi. I social catturano gli attimi e li rendono eterni. Sofia, invece, è morta, a 20 anni, barbaramente uccisa dal fidanzatino degli anni della sua adolescenza. «Sono stati sentimentalmente legati per quattro anni - ha raccontato un amico - Si erano lasciati un paio di volte e poi si erano rimessi insieme, come capita spesso tra ragazzi». E ancora: «Si erano conosciuti giovanissimi e la famiglia considerava Zakaria come un terzo figlio».

Sofia aveva compiuto 20 anni lo scorso 28 maggio, viveva in un appartamento a Cologno Monzese insieme alla sua famiglia. In questi giorni la mamma, il papà e il fratello di 15 anni erano in vacanza in Sardegna per partecipare alla festa dei 50 anni di matrimonio dei nonni. Secondo quanto riferito dagli amici, Sofia avrebbe dovuto raggiungere la famiglia nei prossimi giorni. L'altra sera, la notte del delitto, era sola in casa. Secondo una prima ricostruzione dei carabinieri, fatta sulle dichiarazioni dell'ex fidanzato reo confesso, l'uccisione è avvenuta nell'appartamento dove ieri sono proseguiti fino a metà pomeriggio i rilievi della sezione investigazioni scientifiche. Le indagini sono affidate ai carabinieri della compagnia di Sesto San Giovanni e coordinate dalla pm della Procura di Monza, Emma Gambardella.

Gli investigatori hanno ascoltato a lungo anche un'amica di Sofia che era con lei e con l'ex fidanzato nel locale. C'è ancora da capire la natura del diverbio che sarebbe poi degenerato nell'uccisione di Sofia e ricostruire a che punto della serata l'amica si sia allontanata.

La famiglia è descritta come tranquilla dai vicini e dagli amici accorsi sul posto, era radicata da tempo a Cologno Monzese: il padre è impiegato in una ditta della zona come chimico, la mamma lavora in una scuola. Sofia oltre a studiare, lavorava in un supermercato di Cologno Monzese.

Lo zio e la cugina di Sofia, appresa la notizia, sono arrivati nel cortile del palazzo, i genitori e il fratello sono partiti immediatamente dalla Sardegna.

Ieri il sindaco di Cologno, Stefano Zanelli, ha espresso il suo cordoglio: «Come comunità civile di Cologno Monzese siamo completamente sconvolti da quanto successo. Non possiamo che stringerci insieme di fronte a tutto questo. Vista la giovane età della vittima è una tragedia nella tragedia».

Alle 9.30 del mattino, l'ex fidanzato Zakaria Atqaoui, italiano di origini marocchine, si è presentato alla caserma dei carabinieri per costituirsi e li si trova in stato di fermo.

Federico Berni e Pierpaolo Lio per milano.corriere.it domenica 30 luglio 2023.

Era convinto di sorprenderla in compagnia di un ragazzo. Sapeva della casa libera. Sapeva della serata in discoteca. E l’ha aspettata all’interno dell’appartamento. Si è nascosto in un armadio. Dove nell’attesa la sua rabbia per la recente fine della loro relazione continuava a montare. Sofia Castelli sarebbe morta in un agguato. 

[…] anche quando ha capito che la 20enne aveva fatto rientro all’alba insieme a una sua storica amica, e non con «un altro», Zakaria Atqauoi, accusato di omicidio con l’aggravante della premeditazione, è andato comunque fino in fondo.

Avrebbe preso un coltello dalla cucina, e sarebbe andato in camera di lei, assassinandola nel sonno. I colpi della lama diretti al collo. L’autopsia chiarirà se la ragazza è morta subito sotto i fendenti di lui, o ha provato in qualche modo a difendersi. 

In quella stessa casa di corso Roma, a Cologno Monzese, comune di quasi cinquantamila abitanti nell’hinterland est di Milano, in una stanza vicina, l’amica non si sarebbe accorta di nulla. […] 

L’arma usata nell’omicidio è stata ritrovata e sequestrata. Era sotto il corpo della ragazza, riverso a terra nella stanza. In camera, gli investigatori hanno recuperato anche il cellulare di lei. Non c’è invece traccia del telefonino del ragazzo, né in casa, né nelle sue tasche, perquisite dopo che il 23enne, in strada, ha richiamato l’attenzione di una pattuglia della polizia locale e ha confessato: «L’ho uccisa».

Gli inquirenti lo stanno cercando, perché potrebbe essere un elemento d’interesse investigativo per trovare riscontri alla sua versione. Così come si stanno recuperando i filmati dei sistemi di videosorveglianza presenti in zona […] 

Sulla porta d’ingresso non c’era alcun segno d’effrazione. Nella ricostruzione fatta dall’assassino ai carabinieri della compagnia di Sesto San Giovanni, che stanno indagando sul caso, coordinati dal pm di Monza Emma Gambardella, il 23enne italo-marocchino avrebbe detto di aver sottratto il mazzo di chiavi il giorno prima.

Venerdì, infatti, Zakaria si sarebbe presentato a casa di Sofia, con la scusa — ha sostenuto — di portarle qualcosa da mangiare. È in quell’occasione che i due avrebbero discusso l’ultima volta. Ed è sempre in quel frangente che lui avrebbe recuperato di nascosto il mazzo di chiavi di quell’appartamento che per un periodo, a partire dal primo lockdown, l’ha accolto e ospitato. […]

Estratto dell’articolo di Pierpaolo Lio per il “Corriere della Sera – Edizione Milano” domenica 30 luglio 2023. 

«È lui. Ma no, fra’, ti dico che è lui. Non lo riconosci quella me..a? È lui, è lui. Fidati. C’ha pure il codino alto». Un volto sbircia per un istante dalle finestre al primo piano della caserma dei carabinieri di Cologno Monzese. […] è Zakaria Atqauoi, 23enne italo-marocchino. Prende coraggio. Torna ad affacciarsi. 

[…] ogni tanto gira il capo, a guardare quella piccola folla di giovanissimi arrabbiati. Sono gli amici di Sofia Castelli, la 20enne uccisa all’alba da quel ragazzo che li affronta a distanza. Sono ormai da ore che presidiano gli ingressi, che avrebbero voglia di vendetta. «Ma va che arrogante. Ce lo devono lasciare qua due minuti, na bastano due, e poi vediamo...».

Zakaria ha ucciso Sofia nella casa in cui era stato accolto, come uno di famiglia. Ha accoltellato la studentessa ventenne, la sua ex, colpendola alla gola e in altre parti del corpo con un coltello preso dalla cucina che conosceva. Tra i due c’era stata una relazione stretta, […] Pare che il giovane di Vimodrone — che orbitava però più che altro ai palazzoni del quartiere Stella di Cologno —, difeso dall’avvocato Marie Louise Mozzarini, fosse in possesso di un mazzo di chiavi dell’appartamento della ragazza in corso Roma.  

Di sicuro all’alba di ieri, quando la vittima era tornata da poco da una nottata al «The Beach», locale milanese di via Corelli, è riuscito a introdursi all’interno, e l’ha aggredita in camera da letto, mentre dormiva. In casa c’era anche l’amica con cui Sofia Castelli aveva passato la serata, che però non si sarebbe accorta di nulla, fino all’arrivo delle forze dell’ordine.

Dopo l’aggressione, è stato il ragazzo stesso a confessare il delitto[…] A indagare sono i carabinieri, coordinati dal pm di Monza Emma Gambardella, che hanno trattenuto in caserma il giovane fino a sera in stato di fermo, prima di trasferirlo in carcere. […] 

Gli inquirenti stanno valutando l’eventuale aggravante della premeditazione del gesto. Ieri Atqaoui ha risposto alle domande del magistrato. «Posso dire soltanto che ho trovato un giovane molto provato e disorientato, che ha avuto un atteggiamento collaborativo con le forze dell’ordine», ha detto l’avvocato Mozzarini. Un ritratto diverso da quello che ne danno molti amici di Sofia, che raccontano di un tipo che aveva «problemi con tutti», che campava di espedienti, con un atteggiamento da spaccone.

Sofia Castelli uccisa nel sonno, due settimane fa l'addio a Zakaria. Lui ha rubato le chiavi di casa e l'ha accoltellata. Federico Berni e Pierpaolo Lio su Il Corriere della Sera domenica 30 luglio 2023.

Il delitto di Cologno Monzese. La 20enne era rincasata da poco, con lei un'amica che non si sarebbe accorta di nulla. Zakaria Atqaoui: «Ho ucciso la mia ragazza». Ma lei l'aveva lasciato. Gli inquirenti stanno valutando l’eventuale aggravante della premeditazione

Il corpo di Sofia Castelli è a terra in camera sua. Sul collo le ferite di coltello. Ovunque i segni dell’aggressione. La pattuglia della polizia locale chiama la centrale: l’indicazione è corretta, la storia è purtroppo confermata. A spedire i vigili al quarto piano di un palazzo di corso Roma, a Cologno Monzese, hinterland est di Milano, è stato il comando, dove attorno alle 9.30 è stato accompagnato il 23enne italomarocchino Zakaria Atqaoui. Vagava per strada nei dintorni della centrale della polizia locale. I vestiti macchiati di sangue. Il volto sconvolto. Aveva richiamato l’attenzione di un’auto di servizio che rientrava. E aveva confessato. «L’ho uccisa. Ho accoltellato la mia ragazza».

La vittima era la sua ex, in realtà: Sofia, 20 anni, studentessa, lavoratrice, «una brava ragazza» per tutti quelli che la conoscevano e si disperano sotto la casa del delitto (leggi qui chi era Sofia Castelli). Lui, di tre anni più grande, in paese viene invece descritto come un mezzo sbandato, pochi progetti e tanta spavalderia. Sui social e in strada, atteggiamenti da duro, pose da trapper. Cresciuto a Cologno, s’era poi trasferito nella vicina Vimodrone. Sembra fosse rimasto solo dopo il trasferimento all’estero dei genitori. E pare che per questo la famiglia di Sofia l’avesse accolto nell’appartamento per quasi un anno e mezzo. Si erano lasciati da un paio di settimane, dopo una storia durata più o meno tre anni. Che già da un po’ s’era sfilacciata: una serie di tira e molla, la recente rottura, e un freschissimo litigio a certificare la fine del rapporto.

All’alba di ieri, Zakaria s’è introdotto in quella casa che conosceva bene. Pare abbia usato un mazzo di chiavi di cui forse era rimasto in possesso nonostante la fine della loro relazione. Ha raccolto un coltello dalla cucina, l’ha sorpresa e massacrata nel sonno. I fendenti l’hanno raggiunta alla gola, più che altro. Per lei non c’è stato scampo. Nonostante i genitori e il fratellino da qualche giorno fossero via, in Sardegna, in casa la giovane studentessa non era sola. C’era anche una delle due ragazze con cui aveva passato la serata in una discoteca milanese, dove avevano fatto l’alba. Avevano programmato così. L’amica però non si sarebbe accorta di nulla.

Le indagini dei carabinieri della compagnia di Sesto San Giovanni, coordinati dal pm di Monza Emma Gambardella, devono chiarire ancora molti aspetti della vicenda. A partire da cosa abbia portato il giovane — che dai primi accertamenti non è risultato positivo ad alcol o droghe — a compiere un crimine tanto feroce. Gli inquirenti stanno valutando l’eventuale aggravante della premeditazione del gesto. Alcune indicazioni le potrà sicuramente fornire l’autopsia disposta dalla procura brianzola sul corpo della giovane vittima.

Per tutto il giorno, amici e conoscenti, giovanissimi sconcertati e arrabbiati, hanno assistito fuori dal condominio al via vai degli investigatori impegnati nei rilievi. Poi si sono spostati all’esterno della vicina caserma dei carabinieri, da dove, a tarda sera, al termine dell’interrogatorio e di una giornata passata in stato di fermo, quando ormai anche la folla aveva abbandonato i marciapiedi, Zakaria è uscito per essere trasferito in carcere a Monza.

L'inchiesta. Il femminicidio di Sofia a Cologno Monzese, l’ex fidanzato nascosto nell’armadio: “Pensava tornasse con un uomo”. Redazione su L'Unità il 31 Luglio 2023

La stava aspettando nell’appartamento in cui era entrato dopo averle sottratto un mazzo di chiavi, nascosto in un armadio, convinto che la sua ex fidanzata sarebbe rientrata a casa dalla serata in discoteca con un altro ragazzo. Lei invece ha fatto ritorno nell’abitazione assieme alla migliore amica Aurora, eppure di fronte all’evidenza che le sue “tesi” erano del tutto sbagliate, ha afferrato un coltello e l’ha uccisa.

Era convinto che Sofia avesse trovato un altro uomo Zakaria Atqaoui, il 23enne che ha ucciso a coltellate l’ex Sofia Castelli, 20enne trovata morta nella sua casa di Corso Roma a Cologno Monzese, in provincia di Milano. Il giovane lo ha riferito ai carabinieri della Compagnia di Sesto San Giovanni nel corso del primo interrogatorio, con un secondo previsto nella giornata di martedì nel carcere idi Monza per la convalida del fermo per omicidio premeditato.

Secondo quanto ricostruito dagli inquirenti, le indagini sono coordinate dal pm monzese Emma Gambardella, il 23enne italo-marocchino avrebbe atteso che le due ragazze si addormentassero di ritorno da una nottata al locale The Beach per prendere un coltello dalla cucina, andare nella camera dove Sofia dormiva e colpirla alla gola nel sonno. L’autopsia che verrà effettuata nei prossimi giorni dovrà poi chiarire se la ragazza prima di morire ha cercato in qualche modo di difendersi.

È stato invece confermato che la migliore amica della vittima, Aurora, non si è accorta di nulla: sotto shock, ha ammesso agli inquirenti di aver scoperto solo al mattino della morte di Sofia. Zakaria è poi scappato ma la fuga è durata poco: è stato lui stesso ad avvicinare per strada una pattuglia della Polizia locale e confessato il delitto.

Il coltello da cucina utilizzato per l’omicidio è stato rinvenuto e sequestrato: era sotto il corpo di Sofia, senza vita e riverso a terra nella sua stanza. Cameretta in cui gli investigatori hanno trovato anche lo smartphone della 20enne. Non c’è traccia invece del cellulare di Zakaria: gli inquirenti lo stanno cercando, perché potrebbe essere un elemento d’interesse investigativo per trovare riscontri alla sua versione.

Quanto alle chiavi, nella ricostruzione fornita ai carabinieri il 23enne avrebbe detto di averle sottratte venerdì, giorno in cui si sarebbe presentato a casa di Sofia, con la scusa di portarle qualcosa da mangiare, occasione in cui i due avrebbero nuovamente litigato.

La vittima dell’ennesimo femminicidio, Sofia, 20enne studentessa universitaria alla Bicocca di Milano, sarebbe dovuta partire a breve per la Sardegna: aveva già acquistato il biglietto aereo per Alghero e ad aspettarla ci sarebbe dovuta essere un’amica con la quale aveva già organizzato tutto. Sofia avrebbe raggiunto la famiglia, madre, padre e il fratello più piccolo, nella località del sassarese per festeggiare i 50 anni di matrimonio dei nonni. Redazione 31 Luglio 2023

Femminicidio. Chi è Sofia Castelli, la giovane uccisa dall’ex fidanzato: il ritorno a casa, le chiavi dell’appartamento e le coltellate nel sonno. La giovane aveva solo 20 anni e studiava sociologia a Milano. Era attesa in Sardegna dalla famiglia per l'anniversario dei nonni. Sono emersi nuovi dettagli dalle indagini. La confessione del presunto assassino. Redazione Web su L'Unità il 30 Luglio 2023

Era attesa oggi in Sardegna per festeggiare le nozze d’oro dei nonni a Santa Maria Coghinas, in provincia di Sassari, Sofia Castelli, 20 anni, uccisa a coltellate in casa dall’ex fidanzato a Cologno Monzese (Milano). La giovane aveva già acquistato il biglietto aereo per Alghero e ad aspettarla ci sarebbe dovuta essere un’amica con la quale aveva già organizzato tutto. Sofia avrebbe raggiunto la famiglia, madre, padre e il fratello più piccolo, nella località del sassarese. Non è mai arrivata sull’isola, uccisa a coltellate dall’ex fidanzato Zakaria Atqaoui, 23 anni. La notizia dell’omicidio ha gettato nello sconforto l’intera comunità.

Chi è Sofia Castelli

L’arrivo di Sofia questa mattina, secondo quanto raccontato da alcuni amici, avrebbe dovuto essere una sorpresa. Poi una telefonata dei carabinieri ha annunciato la notizia, che ha trasformato la festa per le nozze d’oro dei nonni in un incubo. “Una notizia tremenda, che ha scosso la nostra comunità – ha commentato il sindaco di Santa Maria Coghinas, Pietro Carbini -. Sofia veniva spesso qui d’estate con la sua famiglia a trascorrere le vacanze, una ragazza splendida. Siamo vicini a tutti i suoi familiari, il paese è scosso da questa tragedia“.

Le indagini e l’ex reo confesso

Intanto Atqaoui rischia l’aggravante della premeditazione. Nessun segno di effrazione è stato rivelato dagli investigatori sulla porta di casa di Sofia, il che significa che il 23enne è riuscito a entrare in un altro modo, dopo aver atteso che la ragazza rientrasse. Le indagini coordinate dalla Procura di Monza nelle scorse ore hanno ricostruito quanto accaduto. I fatti sono avvenuti tra le 5.58 del mattino, ora in cui Sofia è rientrata a casa con un’amica dalla discoteca, e le 9.30, orario in cui Atquaoui si è presentato dalla Polizia Locale per costituirsi.

Le indagini

Gli inquirenti, dopo aver ascoltato l’amica di Sofia che, ancora sotto shock, ha spiegato di non essersi accorta di nulla, stanno ora accertando l’esistenza di un duplicato delle chiavi di casa che il 23 enne avrebbe potuto usare per entrare nell’appartamento. “Un giovane ragazzo molto provato“, è come il suo avvocato di fiducia, Marie Louise Mozzarini, ha descritto Atqaoui che, ha precisato, “ha risposto alle domande del magistrato ed é stato molto collaborativo“. La convalida del fermo è attesa per domani.

Il profilo

Chi è Sofia Castelli? La giovane aveva solo 20 anni e studiava alla Bicocca di Milano. Una vita sociale ricca e soprattutto piena di sorrisi. Tante le foto scattate e pubblicate sui social che l’hanno immortalata in compagnia dei suoi amici nei locali più esclusivi del capoluogo lombardo. Mai avrebbe potuto immaginare che i suoi sogno fossero distrutti dall’ex, di origine marocchina. Questo il comunicato dell’ateneo frequentato dalla giovane: “Milano-Bicocca e il dipartimento di Sociologia e ricerca sociale si uniscono al dolore della famiglia Castelli. Sofia e i suoi 20 anni. I suoi sogni, i suoi progetti, una vita stroncata. L’ennesima. Milano-Bicocca, da sempre, combatte ogni forma di violenza. Oggi, tutta l’università si unisce al dolore della famiglia Castelli per la tragica scomparsa di Sofia. L’ateneo continuerà a diffondere conoscenza e a portare avanti azioni di sensibilizzazione affinché atrocità come questa non si verifichino più. Lo faremo per Sofia, lo faremo per tutte le vittime di violenza“. Redazione Web 30 Luglio 2023

Cologno Monzese, il femminicidio di Sofia Castelli e la confessione dell'ex fidanzato Zakaria Atqaoui. Pierpaolo Lio su Il Corriere della Sera mercoledì 2 agosto 2023.

«Sofia dormiva, ho preso un coltello in cucina e l'ho colpita. Poi mi sono sentito male». L'amica: «Lei l'aveva lasciato perché non ne poteva più, ma lui continuava a seguirla». La decisione del gip: il 23enne resta in carcere

«Sofia ha lasciato Zakaria perché non ce la faceva più». Dopo anni di relazione e di tira-e-molla, la ragazza non reggeva più il lato possessivo del fidanzato, che un paio di settimane prima del delitto aveva lasciato definitivamente. Ma anche dopo la rottura, lui continuava a seguirla: si presentava negli stessi locali, tempestava di messaggi le amiche per strappare delle informazioni, trovava il modo d’incontrarla (e in genere finiva con un litigio). «Zakaria a tutti costi voleva riallacciare la relazione (…). Era molto possessivo, le stava sempre addosso».

A raccontarlo ai carabinieri, poco dopo la scoperta del cadavere della 20enne Sofia Castelli, è la sua amica di sempre. C’era anche lei nell’appartamento di Cologno Monzese dove abitava la studentessa assassinata dal 23enne italo-marocchino Zakaria Atqaoui. «Quando mi sono addormentata erano le 6 circa. Non ho sentito rumori», prosegue il racconto della giovane. «Mi sono svegliata alle 9 circa, perché mi ha telefonato mia madre. Stavo guardando Instagram quando in casa sono entrati i carabinieri». 

I militari arrivano su indicazione dello stesso Zakaria, che poco prima s’era consegnato a una pattuglia della polizia locale confessando l’omicidio. L’amica non s’è accorta di nulla. «Al mio risveglio la porta della camera da letto dove ho dormito era chiusa: l’avevo lasciata aperta». Dell’ex ragazzo di Sofia nascosto nell’armadio e dell’agguato nella stanza accanto, la ragazza non s’era accorta. «Mi sono buttata sul letto e mi sono addormentata subito». 

«Sono sicura – spiegava agli investigatori – che quando siamo entrate in casa non c’erano altre persone. Eravamo sole io e Sofia. Non ho sentito rumori, trambusti». Le due giovani erano rientrate all’alba di sabato. Sono quasi le 6 del mattino quando fanno rientro nel palazzo di corso Roma. A quell’ora, Zakaria era già dentro l’appartamento. S’era intrufolato nel corso della serata – mentre le ragazze erano in discoteca – usando un mazzo di chiavi che aveva rubato la mattina prima, durante l’ennesimo tentativo di parlare faccia a faccia e tentare di spiegarsi, di riconquistarla.

Anche un’altra amica di Sofia conferma gli atteggiamenti persecutori del ragazzo che, in passato, durante uno dei momenti di crisi nel rapporto della coppia «aveva minacciato di suicidarsi per convincerla a ritornare con lui». Anche dopo l’ultima rottura, definitiva, lui aveva iniziato a «esasperarla, presentandosi spesso a casa oppure nei luoghi che lei frequentava, a seguirla fisicamente» pur di convincerla a tornare sui suoi passi nonostante lei avesse provato ad «allontanarlo in tutti i sensi». Come avvenuto durante una serata del weekend precedente l’omicidio in un locale, dove Zakaria si presenta con un amico. Tampina la ragazza, prova a parlare e arriva alle mani con un giovane «perché riteneva avesse mostrato attenzioni nei confronti di Sofia».

Ed è proprio la convinzione che lei abbia un altro a fare da carburante all’ossessione del 23enne. C’è in particolare una nuova amicizia maschile di Sofia che spaventa Zakaria e che è sicuro lei porterà a casa quella notte dopo la discoteca. Anzi, nella testa dell’assassino, è «per colpa di quel ragazzo» che Sofia l’avrebbe lasciato. È proprio quel nome che spunta nelle chiacchiere tra le due ragazze che ascolta acquattato (e scalzo, per non far rumore) dentro l’armadio della camera da letto matrimoniale. 

«Ho atteso che l’amica di Sofia se ne andasse, ma lei non se ne è andata – è la confessione del ragazzo -. Lì è scattato qualcosa, non riesco a spiegare cosa. Ho atteso che le ragazze si addormentassero (…) sono uscito dall’armadio, sono andato in cucina, ho afferrato un coltello poggiato sul lavandino, nel porta posate». Sono le 7 di sabato. «Sofia dormiva. Sono tornato in camera da letto e l’ho accoltellata». Sono tre fendenti al collo. «Poi non ricordo più nulla, mi sono sentito male». Fugge, si cambia gli abiti sporchi di sangue con quelli sottratti al padre della vittima all’interno dell’abitazione, si fuma un paio di sigarette, e si consegna.

Mercoledì il gip di Monza Elena Sechi ha deciso che il 23enne debba restare in carcere. Per lui l’accusa è di omicidio volontario con l’aggravante della premeditazione, di «aver usato mezzo insidioso» (e cioè essersi nascosto nell’armadio e averla accoltellata nel sonno) e di aver commesso il fatto per futili motivi.  

Angela Gioiello.

Uccide la moglie, poi si suicida. In casa c'erano anche i tre figli piccoli. La tragedia è avvenuta in un appartamento di Pozzuoli, nel Napoletano. In casa c'erano anche i tre figli minorenni della coppia. Gli inquirenti ipotizzano un omicidio-suicidio. Rosa Scognamiglio il 28 Luglio 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 La tragedia

 L'ipotesi di un omicidio-suicidio

 Chi sono le vittime

Articolo in aggiornamento

Due persone, marito e moglie, sono state trovate senza vita e coi corpi trafitti dai proiettili in un appartamento di Pozzuoli, nel Napoletano, nel tardo pomeriggio di venerdì 28 luglio. Le vittime, Antonio Di Razza, 50 anni, e Angela Gioiello, di 39, lasciano tre figli piccoli. Stando a quanto trapela dalle prime indiscrezioni, i bambini si trovano in casa con i genitori quando si è consumata la tragedia. Gli inquirenti ipotizzano un omicidio-suicidio, anche se al momento non si esclude nessuna pista.

La tragedia

La tragedia si è consumata in un'abitazione al civico 10 di via Parini a Monteruscello, un quartiere di Pozzuoli. I carabinieri, intervenuti nell'appartamento dopo aver ricevuto una telefonata anonima che segnalava l'esplosione di colpi d'arma da fuoco, hanno trovato i corpi senza vita dei due coniugi distesi l'uno accanto all'altro in camera da letto. Allertati dai militari dell'Arma, sul posto sono arrivati anche gli operatori del 118 che, però, hanno solo potuto accertare il decesso delle vittime.

L'ipotesi di un omicidio-suicidio

Accanto ai cadaveri c'era anche una pistola. Pur non escludendo nessuna pista, come da prassi, gli inquirenti propendono per un omicidio-suicidio. Secondo quanto apprende l'AGI da fonti investigative, al culmine di una lite in famiglia, l'uomo avrebbe dapprima ucciso la moglie e poi si è tolto la vita con un colpo di pistola. In casa, al momento della tragedia, erano presenti anche i tre figli minorenni della coppia. L'arma del delitto è una revolver, a quanto pare non detenuta legalmente.

Chi sono le vittime

Stando a quanto apprende il Corriere.it, Antonio Di Razza lavorava per un'azienda satellite della Prysmian Group, che produce cavi sottomarini. Angela gioiello, invece, era una casalinga. I figli hanno 8, 13 e 16 anni.

Estratto dell’articolo di Gennaro Del Giudice per “il Messaggero” sabato 29 luglio 2023 

I colpi di pistola, le grida di aiuto e i pianti di tre ragazzini. A terra, nella stanza da letto di una casa popolare di Monterusciello (nei dintorni di Napoli), riversi in una pozza di sangue, i corpi senza vita dei loro genitori. Omicidio-suicidio, movente passionale. Il marito che ha ucciso la moglie per gelosia lasciando orfani i figli di 8, 13 e 16 anni. Sono stati proprio loro a dare l'allarme, con il più grande che è sceso in cortile per chiedere aiuto dopo aver sentito le urla e gli spari provenire dalla stanza della coppia. 

Il 50enne Antonio Di Razza (detto "Tony"), operaio metalmeccanico, durante un'accesa discussione con la moglie, Angela Gioiello, 39enne, casalinga, ha preso una pistola revolver che deteneva illegalmente e ha esploso un colpo in faccia alla donna, non lasciandole scampo. Poi ha rivolto l'arma contro la sua tempia e si è ammazzato. 

Urla e spari che poco dopo le 17 di ieri pomeriggio hanno richiamato l'attenzione dell'intero vicinato […] Inutile è stata la corsa di alcuni familiari che abitano in una palazzina vicina e dei sanitari del 118 che, giunti con due ambulanze e una radio medica, non hanno potuto fare altro che constatare il decesso della coppia.

Sotto choc i tre figli, con il più grande che in quegli attimi concitati era sceso in strada nonostante fosse allettato a causa di un incidente subito pochi giorni fa. Sul posto sono arrivati i carabinieri […] Secondo alcuni testimoni prima degli spari l'uomo sarebbe stato visto scendere in cortile e recarsi verso l'auto, per poi fare ritorno in casa dopo pochi secondi. […] le attenzioni sono rivolte sul movente che sembra sia da ricercare in quella che negli ultimi tempi sarebbe stata un'attenzione morbosa da parte dell'uomo nei confronti della moglie. 

Gelosia incontrollata, timori per un tradimento che avrebbero accecato Di Razza a tal punto da ammazzare la donna dando vita all'ennesimo caso di femminicidio tra le mura di casa. «Ieri sera erano stati a mangiare con noi una pizza a Varcaturo, li ho visti tranquilli, mai potevo pensare a una cosa del genere», ha raccontato […].  Qualche ora prima della tragedia la coppia, con la figlia più piccola, era stata a pranzo al McDonald's di Quarto. […]

Perché Antonio ha ucciso la moglie Angela e si è tolto la vita: “Litigavano, lei voleva lasciarlo”. L'omicidio-suicidio a Pozzuoli. In casa erano presenti i tre figli della coppia. Vicino ai cadaveri, trovati in camera da letto, i carabinieri hanno rinvenuto una pistola. Redazione Web su L'Unità il 30 Luglio 2023

Avevano 50 e 39 anni ma soprattutto erano rispettivamente padre e madre di tre figli. Antonio Di Razza e Angela Gioiello sarebbero stati solo in apparenza una coppia normale e dalla vita serena. Lo scorso 28 luglio la tragedia. Al 112 è arrivata una segnalazione da qualche vicino che avrebbe sentito dei colpi d’arma da fuoco provenienti dall’appartamento di Antonio e Anna. I carabinieri si sono recati immediatamente al civico 10 di via Parini. Siamo a Pozzuoli, località flegrea in provincia di Napoli. E tra quelle pareti domestiche si era appena consumato un omicidio – suicidio: Di Razza ha prima ucciso la moglie e poi con la stessa arma si è tolto la vita. I militari hanno trovato i cadaveri in camera da letto e vicino a loro una pistola. I tre figli erano in casa.

Perché Antonio Di Razza ha ucciso la moglie Angela Gioiello

Dalle prime testimonianze raccolte dagli inquirenti, pare che la coppia fosse felice e conducesse una vita serena e tranquilla insieme ai tre figli. E allora perché Antonio Di Razza ha ucciso la moglie Angela Gioiello? Da ricostruzioni più accurate fatte dagli investigatori, sono emersi alcuni elementi che avrebbero capovolto lo scenario iniziale. Antonio e Angela non andavano d’accordo da tempo. Litigavano in continuazione e addirittura lei avrebbe voluto lasciarlo. Secondo quanto riportato da Il Mattino tra le mura di quella casa Angela avrebbe vissuto momenti terribili, fatti anche di violenze e percosse.

Infatti, il quotidiano napoletano ha raccontato che il cugino della donna l’aveva vista arrivare a casa della madre con dei segni evidenti di violenza. Antonio sarebbe stato ossessionato dal fatto che la moglie avrebbe avuto un amante. È venuta fuori anche una segnalazione ai carabinieri, fatta circa dieci giorni prima della tragedia, dove sarebbero stati denunciati atti di violenza consumati in casa. Ma all’arrivo dei militari la coppia avrebbe sminuito l’episodio e Angela non avrebbe detto nulla alle forze dell’ordine. Ad aver dato l’allarme dopo gli spari, sarebbe stato uno dei tre figli (che hanno un’età compresa tra gli 8 e 16 anni). Per ora i ragazzi sono stati affidati alla nonna materna. Redazione Web 30 Luglio 2023

Chi sono i due coniugi trovati morti in casa a Pozzuoli, sul posto i carabinieri: “Abbiamo sentito gli spari”. Antonio Di Razza e Angela Gioiello avevano 50 e 39 anni, erano in camera da letto: vicino ai cadaveri c'era una pistola. La coppia aveva tre figli. Redazione Web su L'Unità il 28 Luglio 2023 

Un uomo e una donna trovati senza vita in casa a Pozzuoli, località flegrea in provincia di Napoli. Sul posto sono intervenuti i Carabinieri. Erano le 17.30 circa, quando, i militari sono stati allertati da qualche vicino che aveva sentito l’esplosione di alcuni colpi d’arma da fuoco. Arrivati presso il civico 10 di via Parini, le forze dell’ordine hanno fatto irruzione nell’appartamento ‘incriminato’. In camera da letto c’erano i cadaveri di due coniugi, un uomo e una donna.

Chi sono l’uomo e la donna trovati morti in casa a Pozzuoli

Vicino ai corpi, sui quali c’erano le ferite dei proiettili, una pistola. Ma chi sono l’uomo e la donna trovati morti in casa a Pozzuoli? Identificate le vittime, si tratta di Antonio Di Razza, nato a Napoli il 14.04.1973 e Angela Gioiello, nata a Napoli il 25/10/1984. Avevano rispettivamente 50 e 39 anni. Al momento l’ipotesi più accreditata è quella dell’omicidio – suicidio. La coppia aveva tre figli.

Redazione Web 28 Luglio 2023

Marina Luzi.

Un femminicidio senza un perché. "Ho sparato e ucciso mia cognata". L'assassino un falegname disoccupato. Il movente sconosciuto. Stefano Vladovich il 26 Luglio 2023 su Il Giornale.

Si presenta in caserma con la pistola. «Ho ammazzato mia cognata», racconta ai carabinieri. Femminicidio a Fossombrone nelle Marche. Marina Luzi, 40 anni ancora da compiere, l'ennesima vittima, Andrea Marchionni, 46 anni, fratello del compagno, il killer. Uccisa con un solo proiettile Marina, madre di una bimba di due anni e mezzo, geometra, da anni convivente con Enrico Marchionni, padre della figlia. Una tragedia che ha scosso la comunità in provincia di Pesaro-Urbino dove la famiglia Luzi è molto conosciuta. «Brava gente, lavoratori». Via Luigi Pirandello il luogo della tragedia, un casolare di campagna in cui vive anche l'omicida, un falegname da tempo disoccupato. È l'assassino stesso a ricostruire i fatti davanti ai militari che si precipitano sul posto con un'ambulanza del 118 sperando di trovare la donna ancora viva. Purtroppo non è così. Sono passate le 10,30 di ieri. Enrico fa il pizzaiolo ed è fuori per lavoro, al piano di sopra vive il fratello. Un tipo solitario, taciturno, chi lo conosce racconta che a volte è inquietante. Scende come sempre le scale che dividono il suo appartamento da quello inferiore dove abitano il fratello, la compagna e la nipotina. In mano ha una pistola, una semiautomatica «detenuta regolarmente». La donna apre la porta, lo vede, lui spara un colpo alla fronte uccidendola all'istante. Poi sale in auto fino alla caserma in paese, in via Martiri della Resistenza. Sono quattro minuti di macchina per due chilometri e mezzo lungo la statale 3. Non si sa in che stato d'animo Andrea Marchionni li percorre ma quando arriva alla stazione dei carabinieri è ancora sotto choc. «Ho sparato e l'ho uccisa. Ecco la pistola, chiamate mio fratello», dice agitatissimo al piantone di guardia. Un attacco di gelosia verso la cognata o una difficile convivenza? Il movente cercheranno di ricostruirlo gli inquirenti nelle ore successive, quando sul posto arriva il magistrato, la pm Simonetta Catani della Procura di Urbino e il reparto operativo del provinciale con gli esperti della scientifica. Di sicuro a sparare è stato il reo confesso, come potrà dimostrare la prova Stub anticipata dal forte odore di polvere da sparo nelle sue mani. Disposta l'autopsia sul corpo della poveretta. Atterriti i familiari della donna uccisa, la sorella gemella e la mamma. Una tragedia per il piccolo comune di 9.500 abitanti. «Un dramma enorme, totalmente inaspettato, delirante - dice il sindaco Massimo Berloni -. Quello che ha fatto Marchionni non ha niente di razionale. Non ci erano mai giunte segnalazioni di situazioni disagio o di difficoltà». Nessun disturbo mentale, almeno finora, tanto che l'uomo ha il porto d'armi e possiede legalmente una calibro 7,65. Mistero fitto sul rilascio del permesso di detenere la pistola a una artigiano che non ha alcun motivo di girare armato. Sale drammaticamente a 24 la lista delle donne uccise in Italia dall'inizio dell'anno. L'ultima, in ordine cronologico, è Mariella Marino, 56 anni di Troina, Enna, uccisa dal suo ex Maurizio Impellizzeri, 59 anni, che dopo averla inseguita all'uscita di un supermercato, la raggiunge e le spara tre colpi.

Omicidio di Marina Luzi, il delirio del killer davanti al gip: «Massoneria, vaccini e microchip. Mi perseguitava». Fulvio Fiano su Il Corriere della Sera domenica 30 luglio 2023.

Convalidato l'arresto di Andrea Marchionni, falegname 47enne, che ha sparato al volto della cognata martedì scorso a Fossombrone nel Pesarese 

Il luogo dell'omicidio e, nel riquadro, il reo confesso Andrea Marchionni

È un delirio che intreccia massoneria e teorie cospirazioniste sul vaccino contro il Covid la deposizione del falegname 47enne Andrea Marchionni, reo di aver ucciso la cognata Marina Luzi con un colpo di pistola al volto martedì 25 luglio. Il femminicidio è avvenuto nella villetta bifamiliare che condividevano a Fossombrone, in provincia di Pesaro Urbino. 

«Marina appartiene alla massoneria»

Nell'ordinanza con cui il gip Francesca D'Orazio ha convalidato l'arresto e ne ha disposto la custodia in carcere sono contenuti molti vaneggiamenti: «Ho puntato alla testa per non farla soffrire. Marina appartiene alla massoneria ed è la causa del peggioramento delle mie condizioni fisiche. Loro, che si sono vaccinati contro il Covid, hanno contribuito ad aumentare i miei malesseri fisici. Da due anni mi perseguitano, e sono stanco. I motivi del mio gesto li trovate nel mio pc e in una chiavetta Usb».

Pericolosità sociale e rischio di reiterazione del reato

L'arresto è stato motivato per la pericolosità sociale di Marchionni e il rischio di reiterazione del reato. Il delirante racconto del 47enne “chiarisce” l’ultimo aspetto di un delitto che l’uomo aveva già confessato pochi minuti dopo averlo commesso, andando a costituirsi presso la caserma dei carabinieri di Fossombrone, venerdì mattina. Con sé aveva portato anche, riposta in uno scatola, la pistola con cui ha fatto fuoco all’ingresso dell’abitazione di via Pirandello sulla cognata 40enne. Marina Luzi è stata uccisa con un unico colpo al volto, esploso mentre suo marito Enrico era in giardino a giocare con la loro bambina, Nicole.

Vaccino e microchip

L'omicida, che era arrivato in caserma visibilmente agitato e con ancora la pistola semi automatica in pugno, ha anche consegnato un foglio scritto a mano dello stesso tenore delle sue dichiarazioni: «La massoneria è coinvolta nella vicenda Covid e il vaccino contiene sostanze dannose per la salute, dispositivi elettronici talmente piccoli da non essere visti ad occhio nudo e che Marina Luzi insieme ad altre persone hanno operato per contagiarmi e procurarmi danni fisici con questi dispositivi che sono a tutti gli effetti armi biologiche».

Il gip: «Assoluta freddezza»

Il gip nella sua ordinanza parla anche di «assoluta freddezza dimostrata nel compiere un gesto così efferato e la totale incapacità dimostrata dall'indagato di controllare pulsioni e distinti legati alla volontà di tutelarsi da presunte persecuzioni, anche a costo di sacrificare la vita di una giovane donna». 

I comportamenti «strani» di Marchionni

I comportamenti di Andrea Marchionni, come raccontati nelle cronache locali, erano da tempo strani ma nessuno aveva mai temuto o sospettato che meditasse un gesto di questo tipo. I vicini lo hanno definito «schivo», «taciturno», «introverso», «chiuso in un mondo tutto suo». In questo mondo rientra la sua passione per la pittura, con la quale il 47enne ha riprodotto negli anni i soggetti di quadri celebri tra cui Il bacio di Hayez, I Bari di Caravaggio e La ragazza con l’orecchino di perla di Vermeer (nel 2019 erano stati esposti anche una piccola mostra), ma anche una vocazione per le armi. Quest’ultima, forse, ereditata dal padre cacciatore che aveva diversi fucili. Marchionni ha fatto fuoco con una pistola semiautomatica per uso sportivo. 

Le indagini

L’altro aspetto sul quale si concentrano le indagini del pm di Urbino, Simonetta Catani, riguarda proprio quest’arma. Se fosse regolarmente detenuta, se Marchionni si esercitasse in qualche poligono e via dicendo. L’assassino viveva al piano di sopra rispetto a suo fratello e la moglie, assieme alla mamma. Il suo carattere aveva reso complicata la convivenza ma nessuna minaccia o segnale premonitore ci sarebbe mai stato fino alla mattina del 25 luglio. 

Mariella Marino.

Estratto dell’articolo di Lara Sirignano per il "Corriere della Sera" il 21 luglio 2023.

Non ha nemmeno provato a fuggire. I carabinieri sono andati a prenderlo dove erano certi di trovarlo, a casa sua, un piccolo appartamento tra i vicoli del paese. E Maurizio Impellizzeri, 58 anni, allevatore di Troina, piccolo centro dell’Ennese, era lì ad attenderli. 

Ha aperto loro la porta e ha consegnato la pistola con cui pochi minuti prima aveva ucciso con tre colpi l’ex moglie, Mariella Marino, una casalinga di quattro anni più giovane. Una morte annunciata da mesi di minacce — «Ti ammazzo a colpi di pistola, ti sparo», le avrebbe detto più di una volta — che gli erano costate anche una condanna a otto mesi di carcere per atti persecutori.

La pena, però, era stata sospesa e all’allevatore, non nuovo a gesti violenti, era stato imposto dal giudice di seguire un percorso di riabilitazione in un centro contro la violenza sulle donne. «Sono sotto choc, non mi aspettavo una simile tragedia», dice l’avvocata Elvira Gravagna, che lo ha assistito nel processo da poco concluso e nato proprio dalla denuncia della vittima. La penalista gli aveva raccomandato di non avvicinarsi a Mariella. 

«L’ho visto fino a venerdì scorso e gli ho ripetuto per l’ennesima volta di stare lontano dalla ex moglie proprio per non vanificare il percorso che stava facendo e non rischiare di complicare la sua posizione. Mi ha rassicurato, mi sembrava tranquillo». 

[…] I carabinieri, grazie ai racconti di alcuni testimoni che hanno assistito al delitto hanno capito da subito che era lui il colpevole. L’hanno portato così in caserma e dopo qualche ora lo hanno arrestato per omicidio aggravato in quasi flagranza. Addosso aveva ancora il sangue della vittima.

[…] Nel frattempo l’uomo era rimasto nella casa coniugale e la ex moglie era andata a vivere dalla madre. Una separazione burrascosa quella della coppia che l’omicida — raccontano amici e familiari — non aveva mai accettato. Ieri mattina, la tragedia. 

Impellizzeri, forse dopo aver seguito la donna, ha aspettato che uscisse dal supermercato del paese e le si è avvicinato tirando fuori l’arma. La vittima, terrorizzata, ha tentato di scappare ed è riuscita a raggiungere di corsa la casa di una vicina, ora teste chiave nelle indagini. L’ex marito l’ha inseguita e mentre l’ex moglie stava per entrare nell’abitazione le ha sparato tre volte e poi si è allontanato in auto. […]

In provincia di Enna. Uccide l’ex moglie in casa a colpi di pistola e scappa, fermato dai carabinieri: lei lo aveva denunciato. Redazione su L'Unità il 20 Luglio 2023

L’ha raggiunta sulla soglia di una abitazione in via Sollima a Troina, comune di 8mila abitanti in provincia di Enna, quindi ha estratto una pistola ed ha esploso almeno tre colpi uccidendola. Così Maurizio Impellizzeri ha ammazzato l’ex moglie Mariella Marino, 56 anni, per poi scappare a bordo di un fuoristrada.

La vittima avrebbe trovato l’ex marito all’uscita dal supermercato di via Sollima. Impellizzeri l’avrebbe minacciata con una pistola e Mariella sarebbe fuggita riuscendo a raggiungere la porta della casa di una conoscente. L’ex, però, l’avrebbe inseguita e avrebbe sparato mentre la vittima era sulla soglia dell’abitazione, colpendola tre volte e uccidendola.

Sul posto sono intervenuti i carabinieri e i medici del 118, ma per la donna non c’era già più nulla da fare. A segnalare di avere udito dei colpi di arma da fuoco sono stati dei vicini di casa, che hanno contattato subito i carabinieri pensando che l’episodio fosse avvenuto per strada.

L’uomo, 60enne che con l’ex moglie aveva tre figli maggiorenni e da cui si era separato, è stato portato nella caserma dei carabinieri. Impellizzeri, scrive l’Ansa, sarebbe tornato a casa e lì l’avrebbero raggiunto i militari. Sarà interrogato dal pm Michele Benintende, che si era recato sul luogo del femminicidio.

Dopo la separazione avvenuta circa un anno fa Impellizzeri era rimasto nella casa della coppia, la moglie era invece andata a vivere dalla madre. Secondo quanto riferisce l’Agi, la vittima aveva lasciato l’ex marito per le continue violenze dell’uomo che però non aveva smesso di perseguitarla, tanto che lo scorso autunno lo aveva denunciato per “atti persecutori”. Impellizzeri, scrive l’Ansa, aveva patteggiato una condanna a 8 mesi e non era mai stato arrestato. I carabinieri, però, lo tenevano sotto controllo e avevano più volte perquisito la sua casa e il luogo di lavoro alla ricerca di armi, purtroppo mai trovate.

Sulla vicenda è intervenuta la deputata del Partito Democratico Antonella Forattini, sottolineando che in Italia è ormai on corso “una strage, spesso annunciata”, e per questo ha auspicato che “la Commissione d’inchiesta sul femminicidio si insedi e inizi a lavorare al più presto”.

Ilaria Maiorano.

Massacrata dal marito tunisino: le ultime ore di Ilaria Maiorano. Tarik El Ghaddassi resta il principale sospettato per la morte della moglie. Il decesso dopo sei ore di agonia a seguito della violenta aggressione. Giovanni Fiorentino il 30 Giugno 2023 su Il Giornale.

Ilaria Maiorano sarebbe stata colpita a più riprese anche con una sedia o con un pezzo di legno, spirando dopo sei ore di agonia: se qualcuno avesse avvisato i soccorsi in tempo, si sarebbe probabilmente salvata. E il principale sospettato resta il marito Tarik El Ghaddassi, già arrestato lo scorso ottobre con l'accusa di omicidio pluriaggravato. Queste le conclusioni alle quali sono giunti gli inquirenti a proposito del cosiddetto "delitto di Osimo", con la procura di Ancona che ha chiuso le indagini proprio nelle scorse ore. E la posizione dell'uomo si aggrava ulteriormente: al quarantaduenne originario della Tunisia vengono inoltre contestate cinque aggravanti e su queste basi rischia potenzialmente l'ergastolo. Si va insomma verso il rinvio a giudizio, stando perlomeno a quanto riportato dal quotidiano Il Resto del Carlino.

L'inchiesta ha consentito agli investigatori di ricostruire la dinamica dell'episodio che ha portato alla scomparsa della donna di 41 anni, avvenuta lo scorso 11 ottobre nella casa della cittadina marchigiana nella quale viveva insieme al consorte e alle due figlie. Secondo il pubblico ministero intanto, Ilaria è morta "per uno stato agonico protrattosi per quattro o sei ore e per un imponente trauma cranico facciale". Le ferite riportate non sarebbero compatibili con lo scenario ricostruito dal quarantaduenne tunisino, secondo cui la moglie si sarebbe ferita cadendo dalle scale e battendo la testa. Una versione che non ha tuttavia convinto fin da subito: alla base di tutto ci sarebbe stato infatti un violento litigio per motivi di gelosia, al termine del quale l'uomo avrebbe aggredito la consorte. Le violenze sarebbero iniziate a quanto sembra davanti agli occhi delle figlie della coppia, di 5 e 8 anni. Ilaria ha tentato di fuggire per sottrarsi alla violenza del marito, ma quest'ultimo non avrebbe avuto alcuna intenzione di mollare la presa: l'avrebbe presa a calci a pugni, inseguendola per tutte le stanze.

L'avrebbe addirittura colpita al volto e alla testa in generale utilizzando anche una sedia e uno strumento in legno, lasciandola svenuta in una pozza di sangue. Lo straniero si è difeso rigettando le accuse, dicendo di essere poi andato a lavoro e di non essersi accorto di nulla: intorno alle 9.30 lui stesso avrebbe risposto al telefono alla madre della vittima che chiedeva notizie della figlia, dicendole di non preoccuparsi. Ma la quarantunenne in quel momento era già morta, visto che secondo chi indaga il decesso sarebbe avvenuto fra le 3 e le 6 di quel mattino. Cinque le aggravanti che vengono infine contestate al tunisino: aver agito per futili motivi, aver agito con crudeltà, la presenza delle minori, i maltrattamenti e l'aver commesso il fatto durante l’esecuzione di una pena (visto che si trovava già agli arresti domiciliari per un altro procedimento, ndr). Elementi che hanno indotto la procura a chiedere un rinvio a giudizio che a questo punto appare scontato.

Simona Lidulli.

Emilio Orlando per leggo.it il 13 giugno 2023.

Ha ucciso la compagna e poi si è suicidato in auto nel parcheggio di un centro commerciale. Accade a Roma, dove un uomo ha prima tolto la vita alla sua compagna e, dopo una breve fuga, poi si è tolto la vita. I fatti si sono svolti intorno alle 11.30. All'interno di un'abitazione è stato trovato il cadavere di una donna riverso sul letto. 

Dopo la scoperta del femminicidio, sono partite le ricerche del convivente, allontanatosi a bordo di un'auto. Poco dopo é stato trovato morto nella sua vettura nel parcheggio di un centro commerciale. L'uomo, Valerio Savino, era un bancario, malato terminale di leucemia e tiratore al poligono.

«Addio amici tutti. La mia vita terrena e quella di Simona finiscono qui. Insieme da sempre e per sempre. Un pensiero di affetto e gratitudine a tutti voi. Per noi amanti dell'Opera e del melodramma questa rappresenta la scelta più coerente che potessimo fare. Chiedo scusa a chi ho fatto del male», ha scritto.

Coppia annuncia il suicidio su Fb: lui, potentino, le spara e si uccide. Nel profilo di Valerio Savino, 63nne oriundo di Lagonegro e impiegato di banca, un altro post che preannuncia la disgrazia. REDAZIONE ONLINE su La Gazzetta del Mezzogiorno il 13 Giugno 2023

«Addio». Un messaggio che non lascia spazio a interpretazioni, l’ultimo sul profilo Facebook di Simona Lidulli, la donna trovata morta nella sua abitazione nel quartiere Ardeatino a Roma, raggiunta da un colpo di arma da fuoco. Nel profilo del compagno, Valerio Savino, 63nne oriundo di Lagonegro e impiegato di banca, un altro post che preannuncia la disgrazia: «Addio amici tutti. La mia vita terrena e quella di Simona finiscono qui». Lui è stato trovato morto all’interno della sua auto in un parcheggio di un centro commerciale.

Messaggi di addio trovati dai carabinieri, che indagano sulle due morti, anche a casa e in auto dell’uomo, tutte tracce di una volontà condivisa di farla finita. E le indagini, coordinate dal sostituto della Procura di Roma Michele Prestipino, dopo un’iniziale incertezza virano verso il suicidio condiviso, scelta tragica forse per la malattia di uno dei due.

Una duplice morte annunciata in diretta sui social, di fronte a un pubblico di utenti, amici e parenti, impotente. Messaggi inequivocabili, premonitori di una tragedia consumatasi verso le 11.30. «Insieme da sempre e per sempre - si legge nel messaggio di Savino - Un pensiero di affetto e gratitudine a tutti voi. Per noi amanti dell’Opera e del melodramma questa rappresenta la scelta più coerente che potessimo fare. Chiedo scusa a chi ho fatto del male». Un’uscita di scena appunto dolorosa e tragica, consumatasi davanti ai tanti contatti di Facebook, gli stessi da cui è partito l’allarme. «Per cortesia chi abita a Roma si rechi subito a casa di Simona, in via Adolfo Consolini 51», scrive un parente sotto l’ultimo post della donna. E ancora si susseguono i commenti, tentativi disperati di fermare l’atto preannunciato: «Simona per favore non date questo dolore. Tutto si risolve». «Sono la loro cat-sitter. Sto provando a chiamarli sul cel, ma sono spenti. Sono in ansia». Poco dopo però, le speranze si infrangono e un utente segnala la notizia della morte dei coniugi: «Valerio e Simona ci hanno lasciato». Così i commenti concitati si trasformano in nostalgici «Rip». Un utente scrive: «terribile assistere in diretta, impotenti a questa disgrazia». C’è chi tagga persino la polizia Roma Capitale nel tentativo di salvarli e chi dice «Abbiamo chiamato il 112».

Roma 70, Valerio Savino e Simona Lidulli, appassionati di opera, trovati morti. Ipotesi doppio suicidio. Rinaldo Frignani su Il Corriere della Sera il 13 Giugno 2023 

Valerio Savino e Simona Lidulli, 63 e 64 anni, morti in auto e a letto nella loro abitazione. Lui si è sparato nel parcheggio di un centro commerciale. Il medico legale ha trovato un foro di proiettile sul corpo della compagna  

Hanno tentato disperatamente di mettersi in contatto con loro non appena hanno letto su Facebook le loro intenzioni di farla finita. Ma non sono riusciti a fare nulla. Martedì mattina due appassionati di opera e melodramma, Valerio Savino e Simona Lidulli, 63 e 64 anni, sono morti in quello che al momento appare un caso di doppio suicidio oppure di omicidio-suicidio. I carabinieri indagano sulla vicenda, scoperta poco dopo le 11.30 in un appartamento in via Adolfo Consolini, a Roma 70

Simona Lidulli deceduta a letto

Savino, che aveva lavorato in banca e che secondo alcuni conoscenti sarebbe stato affetto da una grave patologia, ha scritto un messaggio sul suo profilo Facebook annunciando che si sarebbe ucciso. Gli amici hanno letto il post e hanno tentato disperatamente di mettersi in contatto con lui senza riuscirci. La compagna Simona è stata trovata dai soccorritori nel loro appartamento priva di vita. Accertamenti in corso per capire se il 60enne le ha sparato prima di uscire in auto e togliersi la vita nel parcheggio del centro commerciale «I Granai» - la vettura, una Nissan Micra celeste è stata ritrovata nell'area di sosta esterna in cima al complesso - oppure se la donna si sia suicidata senza l'aiuto dell'uomo. Sul corpo della compagna il medico legale ha rinvenuto un foro di proiettile. 

«Addio amici tutti. La mia vita terrena e quella di Simona finiscono qui. Insieme da sempre e per sempre. Un pensiero di affetto e gratitudine a tutti voi. Per noi amanti dell'Opera e del melodramma questa rappresenta la scelta più coerente che potessimo fare. Chiedo scusa a chi ho fatto del male», ha scritto l’omicida sul suo profilo.

Choc sui social

«Mio Dio Valerio che succede qualcuno faccia qualcosa!!!», «Valerio ti prego non fare cazzate», «Valerio come possiamo aiutarti»: sono solo alcuni dei messaggi postati dagli amici che hanno provato a salvare la coppia nella mattinata di martedì. Il suicidio dovrebbe risalire alle 12 circa. Inutili i soccorsi per entrambi. A segnalare la presenza di un corpo in auto sono stati alcuni passanti. «Valerio c'è sempre una soluzione o qualcosa da fare, non lasciarti prendere dallo sconforto rifugiandoti e facendoti del male, ti prego», uno degli ultimi struggenti messaggi degli amici fino all’ultimo laconico «È tardi Clemente.... Valerio ci ha lasciato». 

La passione per il Teatro dell'Opera

La compagna di Savino era una anch'essa una grande appassionata di spettacoli al Teatro dell’Opera. Anche lei ha postato un messaggio di saluto a tutti, ma solo con la scritta «Addio» su Facebook. Da capire se sia stata lei a scriverlo oppure se sia stato il compagno. Anche sul profilo della vittima altri messaggi di amici che l'hanno scongiurata affinché non mettesse in atto il suo proposito. Solo due giorni fa la 64enne aveva postato foto di una giornata di serenità nella sua abitazione con alcuni amici. Inspiegabile al momento cosa abbia spinto la coppia a suicidarsi, sempre che gli accertamenti dei carabinieri della compagnia Eur e del Nucleo investigativo di via In Selci confermino questa ipotesi. Sui social tante le foto di spettacoli in giro per l'Europa, dalla Spagna all'Austria, ai quali Lidulli ha assistito come anche decine le immagini di lei in compagnia del maestro Placido Domingo, oggi ottantenne.  

Rosa Moscatiello.

Estratto dell’articolo di Filippo Fiorini per “la Stampa” il 13 giugno 2023.

Quanto accaduto la notte tra domenica e lunedì a Roteglia, comune di Castellarano, frazione delle prime colline reggiane, sfida la definizione di femminicidio, la capacità d'azione del codice penale e le norme dell'etica che ha ogni singolo individuo: 

Paolo Ravazzini, 62 anni, ex tecnico telefonico, ha usato un corpo contundente che non è ancora stato identificato dagli inquirenti, per uccidere la moglie, Rosa Moscatiello, infermiera in pensione, mentre dormiva. 

Aveva passato gli ultimi due anni in simbiosi con lei, malata di sclerosi multipla e depressa, evitando qualsiasi altra frequentazione, fatta eccezione per la loro figlia quarantenne. Dopo aver lasciato Rosa agonizzante nel letto, è salito sul tetto e si è gettato, ponendo così fine anche alla propria vita.

[…] Ai Carabinieri di Reggio Emilia, ai Ris di Parma e alla Pm di turno, Giulia Galfano, ancora al lavoro per stabilire l'esatta dinamica dell'episodio, sembrano essere l'esasperazione e la pietà, piuttosto che l'odio, il movente di quello che almeno si dà per certo essere stato un caso di omicidio-suicidio, ai danni di una 62enne le cui condizioni di salute si erano recentemente aggravate. 

«Conoscevo Paolo molto bene – dice Peppino Munari, che gestisce un ristorante a pochi metri dal luogo in cui ieri mattina alle otto è stato ritrovato morto l'amico – negli ultimi due anni era completamente sparito. Si dedicava solo alla moglie».

Malata di Sla, Rosa era anche in cura psichiatrica presso l'Asl locale, probabilmente come conseguenza della situazione che stava vivendo. A confermarlo, è il sindaco di Castellarano, Giorgio Zanni. Chi indaga riferisce in forma anonima che «negli ultimi tempi ambulanza e forze dell'ordine erano intervenuti in più episodi presso l'abitazione in cui si sono svolti i fatti». 

[…] Esiste una seconda parte lesa, alla quale, superati limiti della perseguibilità giuridica e dei saggi di criminologia, non restano che i diagrammi dell'etica. 

Si tratta della loro figlia quarantenne, residente in un comune al confine con la provincia di Parma, Sant'Ilario d'Enza. Ieri, è stata chiamata ad identificare i corpi dei genitori e a comprendere le scelte drammatiche di un padre, che ha risolto tragicamente lo stato irreversibile in cui si trovava la donna che amava, facendo in modo che non si accorgesse di nulla.

Floriana Floris.

Femminicidio di Incisa, confessa il compagno di Floriana Floris: ma sulla sua versione restano dubbi. Redazione su L'Unità il 14 Giugno 2023 

Si è risvegliato dal coma farmacologico dopo sei giorni, trascorsi nel reparto di Terapia intensiva dell’ospedale di Asti, ed ha confessato: è stato lui ad uccidere la compagna Floriana Floris, trovata morta venerdì scorso nel suo nell’appartamento in piazza XX Settembre a Incisa Scapaccino, piccolo comune in provincia di Asti, in Piemonte.

Ad ammettere le sue responsabilità è stato Paolo Riccone, 57enne originario di Nizza Monferrato, che come riferisce l’Ansa avrebbe confessato il delitto ai carabinieri e al magistrato della procura di Alessandria. Delitto che sarebbe maturato durate “un raptus”, ha aggiunto Riccone durante un brevissimo interrogatorio. Tuttavia la dichiarazione, proprio per le condizioni psico-fisiche del sospettato, non è considerata al momento pienamente attendibile. Ancora molto provato e confuso Riccone non avrebbe saputo rispondere sul movente, fa sapere all’Ansa il difensore d’ufficio, Federica Falco, del foro di Alessandria.

Riccone avrebbe ucciso la compagna, ex agente di commercio di Milano 49enne, con 30 coltellate alla gola e sul resto del corpo: subito dopo ha tentato il suicidio in più modi, prima tagliandosi i polsi e poi ingerendo un mix di candeggina e psicofarmaci.

Tutto inutile. Venerdì i carabinieri si sono precipitati nell’appartamento dopo una segnalazione da parte della figlia di Floris, che non riusciva più a mettersi in contatto con la madre: nell’abitazione hanno trovato il 57enne sdraiato sul letto, semi incosciente, con i vestiti intrisi di sangue.

Riccone, indagato per omicidio, avrebbe ucciso la compagna almeno due giorni prima del ritrovamento del corpo senza vita. Eppure sulla confessione ci sono dubbi: venerdì scorso, prima di essere trasportato in ospedale e di finire in coma farmacologico, aveva dato una versione completamente diversa dei fatti, dicendo di avere trovato la sua compagna morta al rientro a casa e di avere cercato di suicidarsi per la disperazione.

“Va accertata la capacità di intendere e volere di Riccone all’epoca e adesso, quindi l’attendibilità delle dichiarazioni rilasciate – precisa l’avvocato Falco – Oggi era sveglio, ma sempre molto confuso, anche sulle domande più semplici. Chiederò la perizia psichiatrica ma già il pm potrebbe provvedere d’ufficio. Al momento resta piantonato in ospedale. Personalmente non lo conosco, so molto poco di lui, ma questa resta, in ogni caso, una bruttissima storia“.

Come sottolinea Repubblica, Riccone circa 10 anni fa era caduto in depressione a seguito della morte della moglie. Si era quindi trasferito da Roma a Milano per convivere con la nuova compagna, Floriana Floris. L’uomo, che nella capitale collaborava come consulente per il ministero del Lavoro, era seguito da uno psichiatra che gli prescriveva degli psicofarmaci. Quindi due anni un nuovo trasferimento, a Incisa, per accudire il padre malato di tumore, genitore deceduto lo scorso 2 maggio.

Femminicidio ad Asti, Floriana uccisa con 30 coltellate. Il compagno ha vegliato il corpo per due giorni e ha tentato il suicidio. Allarme lanciato dalla figlia. Floriana Rullo su Il Corriere della Sera l'11 Giugno 2023.

La vittima è Floriana Floris, 49 anni. Paolo Riccone, in coma farmacologico è piantonato in ospedale. E' fortemente sospettato, ha negato l'omicidio 

Avrebbe ucciso la sua compagna colpendola con trenta coltellate. Poi ha tentato di togliersi la vita. Prima e per due lunghi giorni avrebbe vegliato il corpo di Floriana Floris, 49 anni, ex agente di commercio di Milano che due anni fa si era trasferita ad Incisa Scapaccino. La procura di Alessandria non ha ancora emesso alcun provvedimento nei confronti di Paolo Riccone, il 57enne ricercatore ad Alessandria, ex consulente per il ministero del Lavoro, trovato in stato confusionale dentro il suo appartamento in piazza XX Settembre a Incisa Scapaccino, comune dell'astigiano. Era sdraiato sul letto, con i vestiti pieni di sangue.

 Prima di essere soccorso avrebbe anche detto: «Non sono stato io, l'ho trovata così». Una ricostruzione a cui gli inquirenti però non hanno creduto. Anche per questo l'uomo verrà riascoltato nei prossimi giorni quando verrà svegliato dal coma. A dare l’allarme è stata la figlia della donna, Alice, che vive a Milano, e da un paio di giorni non riusciva a mettersi in contatto né con la madre né con il compagno ed era stata avvisata dai vicini che la macchina della madre si trovava parcheggiata nello stesso punto da qualche giorno. 

I vigili del fuoco hanno così sfondato la porta e hanno trovato il corpo della donna colpito da molte coltellate. La stessa arma che l’uomo ha poi usato su se stesso per poi ingerire anche della candeggina. Per questo si trova in coma farmacologico in ospedale ad Asti, piantonato dai carabinieri. 

In casa sono stati tratti in salvo anche un il cucciolo di pastore tedesco della donna chiuso in una stanza, mentre il gatto di casa ha continuato a girovagare sulla scena del crimine.

Riccone, nato a Nizza Monferrato, è un consulente. Secondo una prima ricostruzione, soffriva di depressione da quando ormai diversi anni fa aveva perso la moglie, una ex collaboratrice del Pd romano, uccisa da una malattia. Poche settimana fa aveva perso il padre. Floriana Floris, originaria di Milano, era disoccupata. Qualche anno fa Floriana era stata coinvolta in un gravissimo incidente stradale: era sopravvissuta per miracolo, ma il terribile schianto in macchina le aveva lasciato segni permanenti sul volto.

Estratto dell’articolo di Massimiliano Peggio per “la Stampa” il 10 giugno 2023 

«Non c'è nulla qui solo noi mostri». Adesso, leggendo quella frase scritta sulla pagina Facebook di Paolo Riccone, ingegnere, consulente di enti pubblici, si possono fare mille congetture. Lui, quella frase, l'aveva pensata fantasticando sul pianeta, strozzato dall'inquinamento, da quell'impulso distruttivo che contagia gli essere umani. Lui è sospettato di omicidio. Sospettato di aver ucciso a coltellate la sua compagna, Floriana Floris, di 49 anni, e di averla poi vegliata per due giorni, anche se ha tentato di suicidarsi tagliandosi le vene. «Non sono stato io. L'ho trovata morta rincasando», ha detto ai carabinieri che lo hanno trovato in stato confusionale, disteso sul letto, con i vestiti sporchi di sangue. 

Tutto è accaduto in un luogo sperduto della provincia astigiana, nel paese di Incisa Scapaccino […] «Lui e lei non uscivano mai. Se ne stavano spesso rintanati», dicono i vicini. A dare l'allarme è stata la figlia di lei, Alice, ventenne. Ha chiamato i soccorsi da Milano, dove vive, perché da due giorni non riusciva a mettersi in contatto con la mamma né con il suo compagno. […] Una volta sfondata la porta, i soccorritori hanno trovato il cadavere della donna al piano terra. 

Riversa sul pavimento, supina, una ferita alla gola e diverse coltellate alla schiena. L'uomo era al piano di sopra, quasi stordito, con tagli non profondi ai polsi. È stato portato in ospedale e ricoverato in osservazione, piantonato dai carabinieri. La procura competente, quella di Alessandria, non ha ancora formalizzato accuse. «Il quadro della vicenda non è ancora chiaro. Dobbiamo aspettare l'autopsia per trarre delle conclusioni», dicono cauti gli investigatori, coordinati dalla pm Eleonora Guerra.

Prudenze investigative. Ma chi è entrato in quella casa ha trovato una scena del crimine. Ferite alla schiena, come se lui si fosse accanito sul corpo di lei. La porta era chiusa dall'interno. E la sua versione non convince per nulla. C'è quel blackout di 48 ore, che rafforza l'ipotesi dell'omicidio […] Paolo e Floriana convivevano da alcuni anni. Lui era rimasto vedovo. La moglie, assistente del Pd romano, era morta di tumore un decennio fa. Lui ne era rimasto sconvolto. «Era così dilaniato dal dolore che aveva tentato di suicidarsi», racconta un'amica. «Da allora non era più lo stesso. Quel lutto lo aveva cambiato». 

Un mese fa ha dovuto affrontare un altro lutto. Quello del padre. A due passi dalla casa, sul muretto che accoglie tutti i trapassi di questo angolo di astigiano, ci sono ancora i manifesti […] Laurea al Politecnico di Torino, master e specializzazione alla Sapienza di Roma, dove in passato si era trasferito a lavorare. Consulente per enti pubblici, esperto di analisi economiche, sviluppo locale. […]

Cettina `Cetty´ de Bormida.

Catania, investe la moglie e un’amica di lei, che muore: «Ci ha fatto separare». Redazione Online su Il Corriere della Sera l'11 Giugno 2023.

L’uomo di 52 avrebbe esultato quando ha saputo della morte dell’amica della moglie: la considerava responsabile della fine del matrimonio 

«Mi sono innervosito, quando le ho viste andare via a piedi ho accelerato e le ho investite»: con queste parole Piero Maurizio Nasca, 52 anni, ha confessato il femminicidio commesso poco prima nell’ottava strada della zona industriale di Catania. Con la sua auto ha travolto la moglie, Anna Longo, 56 anni, rimasta ferita, e un’amica della donna, Cettina `Cetty´ de Bormida, di 69 anni, originaria di Centuripe, nell’Ennese, morta subito nell’impatto con l’auto. Sarebbe stata proprio lei l’obiettivo della furia omicida: Nasca accusava la donna di essersi messa in mezzo fra lui e la moglie, causando la fine del matrimonio. E per questo ha voluto punirla. Come riferito dall’agenzia Agi, l’uomo, dopo essere stato arrestato, quando è stato informato della morte della donna, avrebbe esultato.

Dal 27 maggio, giorno in cui è stata ammazzata Giulia Tramontano, sono stati almeno cinque gli episodi di violenza che hanno avuto come vittime delle donne. L’ultimo in ordine di tempo quello avvenuto sabato a Catania: lui, confessa prima al telefono, con l’operatore del 112 che chiama mentre è ancora in auto, poi in un bar in cui si ferma per bere qualcosa in attesa della polizia che lo porterà negli uffici della squadra mobile della Questura. L’obiettivo «primario» era Cetty de Bormida «colpevole», a suo modo di vedere, di avere spinto la moglie a lasciarlo e a essere d’ostacolo alla loro relazione. Lo conferma anche durante l’interrogatorio reso alla sostituta procuratrice Valentina Botta, una dei magistrati del pool contro le violenze di genere coordinato dal procuratore Carmelo Zuccaro e dall’aggiunto Marisa Scavo che hanno disposto il fermo di Nasca, che è già sotto processo per violenza e maltrattamenti alla moglie.

Nonostante tutto donna era rimasta a vivere con il marito: erano sposati da 25 anni. Ad accusare il marito del femminicidio è stata proprio Anna Longo, parlando con la polizia arrivata sul posto, prima di essere portata da personale del 118 nell’ospedale San Marco per le ferite riportate nell’investimento. Non è considerata in gravi condizioni. Non è sopravvissuta all’impatto invece Cetty de Bormida, amica del cuore di Anna Longo. Era stata lei a sollecitarla a lasciare il marito e a non riallacciare la relazione.

Decisione messa in atto venerdì sera e che l’uomo in un primo momento aveva finto di accettare. Sabato mattina i due si sono comunque incontrati davanti la sede di una clinica specializzata in riabilitazione psichiatrica nella zona industriale di Catania. Anna Longo si è rifiutata di tornare a casa come avrebbe voluto il marito e, sostenuta dall’amica, è andata via con lei, a piedi, una accanto all’altra. L’uomo si è «innervosito», dirà poi, e le ha travolte: ferendo la prima e uccidendo la seconda.

Su Facebook un’amica della vittima la ricorda con dolore, postando anche un video in cui erano assieme: «Non riesco ancora a crederci, Cettina Cetty De Bormida amica mia, non riesco ha crederci che non ci sei più: per fare del bene ci hai rimesso la tua vita. Ti voglio bene e te ne vorrò per sempre. Vola più in alto le puoi amica mia, mi mancherai». La presidente di Differenza Donna, Elisa Ercoli, ha lanciato «ancora una volta un appello alle forze di Governo, di opposizione e a tutta la società civile per una reazione immediata che dia una svolta a questi continui femminicidi in Italia.

Mariangela Formica.

Monopoli, padre 86enne investe e uccide la figlia dopo una lite: fermato per omicidio. Cinzia Semeraro e Maria Luisa Saponara su Il Corriere della Sera il 03 Giugno 2023.

Mariangela Formica investita e uccisa dal padre Vincenzo, che è stato portato in carcere. Sul corpo della 54enne sarà eseguita l'autopsia

Avrebbe investito e ucciso la figlia di 54 anni, Mariangela Formica. Per queste ragioni, nella notte, i carabinieri di Monopoli hanno sottoposto a fermo di indiziato di delitto per omicidio il padre, Vincenzo Formica, di 86 anni. Le indagini sono partite, nella serata del 2 giugno, in seguito al ritrovamento del cadavere della donna in una strada privata a Monopoli, in contrada Laghezza. In particolare, dopo i rilievi del Sis del comando provinciale di Bari, sono emersi gravi indizi di colpevolezza nei confronti dell’uomo in merito alla morte della figlia. 

La ricostruzione dei fatti

Secondo quanto emerso, tra padre (ex dipendente amministrativo dell'azienda sanitaria locale) e figlia ci sarebbe stata una lite per dissidi di natura familiare. L'uomo, a bordo della propria auto, avrebbe investito la figlia causandone la morte. L'86enne si trova ora in carcere. Nelle prossime ore, su disposizione del pm di turno della Procura di Bari,  sul corpo della donna sarà eseguita l'autopsia.

La testimonianza

È frastornato il neo consigliere comunale Pietro Brescia - candidato sindaco alle amministrative di metà maggio, che hanno riconfermato l'uscente Angelo Annese - dalla notizia della morte di Mariangela Formica, investita dal padre Vincenzo, che in tanti in città definiscono «particolare». Brescia conosceva bene la vittima, era un suo amico e si frequentavano fin da bambini. «Lei era donna intelligente e sensibilissima, una sportiva, amante dei cani, ci sentivamo spesso per questo motivo», racconta. «Viveva in funzione degli animali e della natura. Poco tempo fa, in concomitanza con la campagna elettorale (Brescia si è candidato sindaco alle amministrative di metà maggio, ndr) mi aveva segnalato dei randagi in contrada Tavarello, mi chiedeva un aiuto, che si facesse qualcosa». Prima di trasferirsi in campagna, la donna viveva a Monopoli e Brescia ha frequentato quella casa. «Il padre – ricorda – era un tipo “sui generis”, con i capelli dalla cresta alta, dallo stile eccentrico, possessivo, la mamma una bellissima donna». L’amico parla di un clima spesso teso in famiglia, a causa del carattere del padre, «forse anche per questo lei era una donna irrequieta», dice al Corriere, mentre scorre i messaggi e le chat in cui avevano parlato solo pochi giorni fa.

L’omicidio a Monopoli. “Mariangela chiedeva aiuto ma suo padre l’ha investita, poi l’ha guardata morire”, la terribile vicenda dopo una lite.  Redazione Web su L'Unità il 6 Giugno 2023

A uccidere Mariangela, 54anni, non sarebbe stato un incidente ma sarebbe stata investita. E al volante ci sarebbe stato suo padre, un 86enne. Una vicenda drammatica avvenuta il 2 giugno scorso a Monopoli, in una villetta di famiglia fuori dalla cittadina. A inchiodare il padre della donna sarebbero state le testimonianze di alcuni vicini che, sentite le urla, sarebbero intervenuti per soccorrere la vittima. Non avrebbero mai potuto immaginare quello che si sono trovati davanti.

Repubblica ha ricostruito la vicenda riportando alcune parti dei verbali. Una dei testimoni, intervenuta insieme al fidanzato e a un amico, racconta di aver sentito forti urla provenire dalla villetta. Ma era troppo distante per capire nettamente cosa stesse succedendo. Poi il forte tonfo e le grida che cessano all’improvviso. Una volta arrivati nel giardino, i tre vedono la donna a terra, ferita, il volto tumefatto e un’evidente frattura al braccio. “Dal lato sinistro della testa usciva sangue”, ha raccontato ai carabinieri. La 54enne era in fin di vita, muoveva a stento gli occhi.

L’uomo avrebbe investito la figlia nel vialetto di casa al culmine di una discussione per motivi familiari per poi lasciarla lì. Una volta tornato, trovatala agonizzante non avrebbe fatto nulla per soccorrerla. Ed è questo il motivo per il quale i giudici hanno stabilito gli arresti domiciliari per il vecchio padre accusato di omicidio volontario e non colposo. L’86enne in un primo momento aveva provato a giustificarsi parlando di un’incidente. Il suo avvocato ha preannunciato che sarebbe opportuno disporre un approfondimento in ordine alla capacità di intendere e di volere dell’uomo.

I testimoni hanno raccontato che una volta arrivati nella villetta hanno visto l’uomo che per ben due volte si è avvicinato al corpo, chiedendo con estrema calma se stesse arrivando l’ambulanza e chi poteva essere stato a investire quella donna. “Solo dopo ha raccontato che era sua figlia, con la quale aveva litigato perché non voleva stare con la madre affetta da una malattia – continua il racconto dei testimoni – A quel punto noi ci siamo accorti che sulla ruota posteriore destra c’erano delle tracce di sangue e lui si è giustificato dicendo che la figlia si era aggrappata alla parte posteriore del veicolo”. Una ricostruzione a cui la stessa testimone non aveva creduto: “Ho udito solo le richieste di aiuto e un tonfo secco”.

Restando estremamente sorpresa dall’atteggiamento dell’uomo di fronte alla figlia in fin di vita: “Il suo comportamento è stato di assoluta indifferenza, anzi al suo arrivo cercava solo di attirare l’attenzione su quello che era successo a lui. Inoltre, non ha compiuto alcun gesto di soccorso nei confronti della donna”. La 54enne è morta prima che arrivassero i soccorsi. Redazione Web il 6 Giugno 2023

Pierpaola Romano.

Estratto dell’articolo di Alessia Marani e Camilla Mozzetti per ilmessaggero.it l'1 giugno 2023.

L'hanno visto arrivare a bordo di una Matiz bianca, aprire il fuoco con la sua calibro 9 d'ordinanza. Ha mirato alla donna che diceva di amare, Pierpaola Romano, ispettore superiore di polizia di 58 anni, non lasciandole scampo. Tre colpi alla testa. 

La donna, che era in borghese, fuori servizio, è piombata a terra, nell'androne del palazzo dove abitava, in via Rosario Nicolò, nel quartiere di Torraccia, vicino a San Basilio, senza vita. [...] 

Massimiliano Carpineti, questo il suo nome, lavorava nello stesso ufficio di Pierpaola, da qualche anno in servizio alla Camera dei deputati. Sui motivi che l'hanno spinto a impugnare la pistola, apparentemente passionali, sono in corso indagini da parte della Squadra mobile e del commissariato San Basilio. 

Pierpaola era sposata con un altro collega, un ispettore del commissariato Sant'Ippolito, Alberto Montanari, che mentre si consumava la tragedia era al lavoro. Anche Pierapaola avea prestato servizio a Sant'Ippolito in passato. La coppia, entrambi originari di Caserta, aveva un figlio di 22 anni, Riccardo, anche'egli poliziotto in servizio nel Nord Italia. Amici spiegano che i coniugi "erano in via di separazione". 

La prima segnalazione al 112 era arrivata alle 11.25. Testimoni avevano annotato e qualcuno anche fotografato la macchina con a bordo il killer in fuga. Ma la caccia all'uomo si è conclusa poco dopo con la nuova macabra scoperta.

(AGI l'1 giugno 2023) - Ha utilizzato l'arma di servizio per uccidere Pierpaola Romano, Massimiliano Carpineti, l'agente di polizia che poi, sempre con la stessa pistola, si e' suicidato. I due prestavano servizio presso l'Ispettorato di Pubblica Sicurezza della Camera dei deputati.

(Adnkronos l'1 giugno 2023) - "Esprimo sgomento per l'omicidio del Sostituto Commissario della Polizia di Stato Pierpaola Romano, che prestava servizio presso l'Ispettorato di Pubblica Sicurezza della Camera dei deputati.

Rivolgo ai familiari, al Ministro dell'Interno, Matteo Piantedosi, al Capo della Polizia di Stato, Vittorio Pisani, e al Direttore dell'Ispettorato, Irene Tittoni, le espressioni del più profondo cordoglio mio personale e della Camera dei deputati".  Lo dichiara il Presidente della Camera dei deputati, Lorenzo Fontana.

Poliziotta uccisa a Roma, da pochi giorni aveva lasciato il collega. È stata un'esecuzione premeditata. Poi il suicidio. Rinaldo Frignani su Il Corriere della Sera l'1 Giugno 2023

Massimiliano Carpineti si è appostato nell'androne del palazzo dove Pierpaola Romano viveva con la sua famiglia. Le ha sparato tre colpi. Lei stringeva in mano i moduli della Asl per affrontare la malattia 

«Abbiamo pensato a un regolamento di conti, a qualcuno che aveva sparato per dispetto contro il portone dopo la sconfitta della Roma di giovedì sera. Invece sulle scale dell’androne c’era il corpo della nostra vicina di casa, con una ferita d’arma da fuoco alla nuca». Nel palazzo alla periferia est della Capitale, a Torraccia, vicino a San Basilio, ancora stentano a credere a ciò che hanno visto ieri mattina: un uomo a volto coperto che entra nell’edificio, si apposta vicino all’ingresso e spara contro un’inquilina, uccidendola e togliendosi la vita qualche minuto più tardi a meno di 200 metri di distanza. Due poliziotti. Pierpaola Romano, ispettore superiore di 58 anni all’Ispettorato della Camera dei deputati, e Massimiliano Carpineti, di 48, assistente capo coordinatore, in servizio nello stesso ufficio. 

Fino a qualche giorno prima avevano avuto una relazione sentimentale, poi lei gli aveva comunicato la sua intenzione di interromperla, anche perché doveva affrontare un grave problema di salute. Decisione che, secondo quanto viene ipotizzato dai loro colleghi che indagano per fare luce sulla vicenda, avrebbe fatto scattare in Carpineti la molla che lo ha portato a uccidere. Un’esecuzione, non certo un omicidio d’impeto: secondo alcuni testimoni, fra loro soprattutto un carabiniere in pensione che abita nello stesso complesso e che con una vicina ha dato l’allarme, alle 11.30 di ieri il 48enne ha atteso che la vittima uscisse per andare in ospedale e le ha sparato tre colpi con la sua pistola di servizio: due all’addome, l’ultimo alla nuca, non si esclude dopo averla fatta inginocchiare. In mano la donna stringeva ancora i moduli della Asl sulla cura che si apprestava a cominciare. Accanto c’era il telefonino che non smetteva di squillare. 

Una sequenza agghiacciante che gli investigatori della Squadra mobile stanno ricostruendo insieme alla Scientifica. Sono stati altri poliziotti a scoprire, circa mezz’ora più tardi, il corpo di Carpineti riverso sul posto di guida di un’utilitaria Chevrolet bianca con la quale si era allontanato per fermarsi due traverse più in là e spararsi un altro colpo con la pistola d’ordinanza. Questa volta al mento, per suicidarsi. Non avrebbe lasciato biglietti d’addio, ma sarebbero stati acquisiti i telefonini dei due poliziotti che saranno esaminati per ricostruire i loro contatti nelle ultime settimane. Fra le ipotesi c’è quella che la donna avesse segnalato di recente, forse a qualche collega, di essere preoccupata per l’atteggiamento di Carpineti. Quest’ultimo, dopo essere stato alcuni giorni in ferie, aveva trascorso la notte di giovedì al lavoro. Dalle verifiche sul loro rapporto ormai concluso sarebbe emerso che, dopo aver avuto la notizia di doversi sottoporre a una serie di accertamenti medici urgenti, la 58enne si sarebbe riavvicinata al marito, anche lui ispettore in un commissariato romano, quello di Sant’Ippolito, dopo un periodo di separazione. Anche questa una scelta che il 48enne, a sua volta separato dalla moglie e padre di una ragazza, non avrebbe accettato di buon grado. Tanto da progettare il femminicidio, messo in atto dopo aver pedinato la collega. Sotto choc tutto l’ambiente della polizia. Romano aveva anche un figlio, di 22 anni, allievo agente alla Scuola di formazione di Piacenza. «Sono profondamente addolorato», spiega il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, per il quale «si tratta di un fatto tragico e sconvolgente, che vede per l’ennesima volta una donna come vittima». Cordoglio è stato espresso ai familiari dell’ispettore e al nuovo capo della polizia Vittorio Pisani dal presidente e dal vicepresidente della Camera, Lorenzo Fontana e Giorgio Mulè.

Estratto dell’articolo di Camilla Mozzetti per “il Messaggero” il 3 giugno 2023.

Solo la pioggia […] interrompe quel silenzio innaturale sceso da giovedì sera su via Rosario Nicolò, al quartiere Torraccia di Roma. I vicini di casa di Pierpaola Romano, 58 anni, sostituto commissario coordinatore di polizia, sono ancora sconvolti: «Non posso dire altro se non che era una bravissima persona». Il dolore, lo sconcerto e pure la rabbia - «perché come fa una donna a morire così?» si domandavano ancora ieri alcuni residenti - ha preso piede in questo angolo della Capitale. E non solo. 

Frastornati e sconvolti i familiari della vittima, il marito, anche lui poliziotto, e il figlio ventiduenne tornato da Piacenza dove frequenta la scuola allievi agenti. Diversi i punti ancora da chiarire […] per quanto il movente dell'omicidio-suicidio sia da ricondurre a ragioni personali e sentimentali. A giorni, verosimilmente lunedì, sarà svolta l'autopsia sul corpo della Romano, da anni in servizio all'ispettorato della Camera dopo un trascorso al commissariato Sant'Ippolito - zona San Lorenzo - dove lavora ancora il coniuge.

[…] si dovranno compiere delle perizie sui cellulari. […] Su quello della Romano, che continuava a squillare quando la donna era ormai in terra nell'androne del palazzo, e su quello del suo assassino, l'assistente capo Massimiliano Carpineti, di 13 anni più giovane che dopo circa trenta minuti dall'omicidio della donna ha deciso di togliersi la vita sparandosi due colpi: uno alla gamba e il secondo sotto al mento. 

Non è un aspetto marginale […] perché se è vero che i due avevano interrotto una relazione, su volontà della Romano affetta da un cancro al seno e desiderosa di riavvicinarsi alla sua famiglia contravvenendo ai desideri dell'uomo, l'analisi sui dispositivi potrebbe chiarire almeno se si sia trattato di un vero e proprio agguanto.

[…] Alcuni colleghi della Romano tengono a ribadire «la grande discrezione» che la poliziotta osservava per le sue vicende private. Che fossero la separazione in casa con il marito, il recente riavvicinamento o quel rapporto con Carpineti, nato sul posto di lavoro tempo fa ma - dicono in molti - «ormai concluso, lei cercava di allontanarlo». 

Le verifiche sui cellulari potranno accertare se l'uomo […] si fosse accanito a tal punto da continuare a scriverle, a cercarla, a pretendere di incontrarla o se i due avessero avuto dei contatti anche recenti, la sera prima della tragedia, la mattina stessa. 

«Aveva gli occhi sbarrati al soffitto, il corpo in una posizione strana, la borsa ancora in spalla e i documenti dell'Asl in una mano. Le ginocchia piegate e rivolte all'uscita. C'era sangue, tanto sul pavimento ma il suo volto non era sfregiato: è stata colpita alla nuca, quasi fosse stata un'esecuzione», raccontava Alfonso, un passato nell'Arma dei carabinieri e residente nello stesso palazzo […]. 

Non si può escludere […] che Carpineti sia entrato nell'edificio e si sia nascosto aspettandola dopo aver preso alcuni giorni di ferie e sapendo (per il comune impiego) che la collega quel giovedì non sarebbe stata in ufficio. Giovedì mattina la Romano avrebbe dovuto sostenere una delle prime sedute di chemioterapia […]. Quindi potrebbe averla colpita di sorpresa senza che la donna sapesse che era lì. Questo chiarirebbe l'agguato alle spalle seppur la vittima sia stata colpita altre due volte all'altezza dell'addome. […]

Estratto dell’articolo di Romina Marceca per repubblica.it il 5 giugno 2023.

La mattina del primo giugno il marito della sostituta commissario Pierpaola Romano, un ispettore di polizia, era in servizio. Sulla radio di servizio ha sentito la nota di una collega ferita con tre colpi di pistola nell'androne di casa. Erano ancora notizie frammentarie. Ma lui ha alzato il telefono, ha chiamato la sala operativa e ha detto ai colleghi: "Potrebbe essere mia moglie". 

Una chiamata che ha gelato gli uomini di servizio al 113. Non c'erano ancora notizie sul ritrovamento dell'omicida e poi suicida Massimiliano Carpineti, non era ancora arrivata la certezza che la donna era morta sotto quella raffica di proiettili. 

Eppure il marito di Pierpaola aveva un sospetto atroce nonostante in quella palazzina a Torraccia, in via Rosario Nicolò, abitino diverse poliziotte e poliziotti.

La risposta alla sua supposizione è arrivata pochi minuti dopo. La vittima degli spari del poliziotto Massimiliano Carpineti era proprio lei, Pierpaola, la donna con la quale il collega aveva avuto una relazione e con la quale prestava servizio a Montecitorio. 

Tre vite legate alla polizia e adesso a quell'atroce fine. Perché l'ispettore ha pensato subito a sua moglie? "Forse aveva avuto sentore di qualcosa?", si chiede un collega della coppia.

Pierapola Romano da qualche settimana aveva riallacciato i rapporti con il marito dopo un periodo di crisi. Aveva deciso, secondo quanto ricostruito dagli investigatori, di troncare la relazione con il collega Carpineti. Aveva scoperto di avere un tumore al seno e adesso era concentrata sulla sua lotta contro quel male. Tra i poliziotti gira la voce che Carpineti però non si fosse rassegnato a quella decisione. […] 

Ma cosa si diceva di Carpineti? Aveva mai mostrato segni di un atteggiamento violento o di uno squilibrio psichico? "Assolutamente no, mai una sanzione disciplinare che io sapessi. Nessuno di noi riesce a darsi una spiegazione. Perché - spiega il poliziotto - se solo avessimo notato qualcosa lo avremmo fermato, avremmo segnalato ai superiori una stranezza. […]

Daniela Neza.

Estratto da today.it il 7 marzo 2023 

Omicidio nella notte tra venerdì e sabato a Savona.[...]  "Ho ucciso una donna, venite a prendermi". [...]' Sefayou Sow, 27, cittadino della Guinea che la scorsa notte ha ucciso Daniela Neza, albanese, freddandola con un colpo di pistola. Immediato l'intervento sul posto di ambulanza e automedica, ma per la donna non c'è stato nulla da fare.

L'uomo è stato arrestato con l'accusa di omicidio e porto abusivo di armi: ha confessato ed è nel carcere di Marassi, a Genova. L'uomo, dai primi riscontri, non avrebbe accettato la fine della loro relazione. Ieri i due avrebbero pesantemente litigato, finché l'uomo, incensurato, regolare sul territorio, avrebbe preso la pistola dal bagagliaio dell'auto, sparando più colpi.

[...] La vittima, conosciuta per reati contro il patrimonio e spaccio, aveva ricevuto nel febbraio scorso un ammonimento da parte del questore per atteggiamenti aggressivi verso un'altra persona.

Tefta Malaj.

Torremaggiore, tenta di colpire la moglie: la figlia 16enne fa da scudo e il padre uccide la ragazza e un uomo. Luca Pernice su Il Corriere della sera il 7 Maggio 2023

Sul posto sono intervenuti i carabinieri. L'assassino, un cittadino albanese, è stato fermato. La moglie è rimasta ferita

Ha tentato di uccidere la moglie, la figlia di 16 anni ha cercato di fare da scudo e lui l'ha assassinata la ragazza a coltellate; subito dopo ha ucciso anche un uomo. È accaduto a Torremaggiore, in provincia di Foggia, nella notte tra il 6 e il 7 maggio. L'assassino sarebbe un cittadino albanese di 45 anni, Taulant Malaj, che è già stato fermato. Le vittime sono la figlia, Gessica, studentessa, e un commerciante italiano di 51 anni, Massimo De Santis, titolare dei "Jolly", due bar molto noti a Torremaggiore, cognato della senatrice Gisella Naturale (M5S). La moglie dell'assassino, anche lei albanese, Tefta Malaj, 39 anni, è rimasta ferita ed è ricoverata all'ospedale di Foggia. Le sue condizioni sono gravi.

Il movente e la ricostruzione

Sul posto sono intervenuti i carabinieri che stanno cercando di risalire al movente. La pista maggiormente accreditata è quella della gelosia. L'assassino, che lavora come panettiere a Torremaggiore, avrebbe ucciso il 51enne sulle scale della palazzina, in via Togliatti; subito dopo sarebbe entrato in casa con l'intento di uccidere la moglie, ma la 16enne è intervenuta per difendere sua madre e ha perso la vita. La donna, invece, è riuscita a scappare e a chiamare i carabinieri. Quando i militari sono arrivati sul posto hanno bloccato il 45enne che - secondo gli investigatori - vagava nella zona alla ricerca dell'altro figlio di cinque anni avuto con la stessa donna. L'arma del delitto, un coltello da cucina, è stato recuperato.

Estratto dell’articolo di Mic. All. per “il Messaggero” l'8 maggio 2023.

[…] Dopo avere massacrato Massimo De Santis e anche la sua stessa figlia, Gessica, di soli 16 anni, Taulant Malaj, 45 anni, ha preso in mano il cellulare, ha acceso la telecamera e ha iniziato a registrare. Ha filmato i due corpi straziati, minacciando e insultando la moglie, pure lei ferita, che piangendo disperata abbracciava il cadavere della figlia, morta per avere cercato di difenderla. 

«Li ho macellati e non ho ancora finito», ha detto Malaj, indugiando con le riprese sui corpi senza vita, prima di mettersi alla ricerca del suo secondogenito, un bimbo di soli 5 anni che ora è stato affidato agli zii. Malaj avrebbe voluto uccidere ancora, ma non ha trovato il bambino: la moglie, ferita, è riuscita a fuggire e a chiamare i carabinieri. Malaj, nel frattempo, ha diffuso il filmato dell'orrore in alcune chat e sui social.

Le immagini sono di una violenza inaudita. Il quarantacinquenne inquadra il corpo di De Santis, massacrato nell'androne del condominio: è stato colpito al petto e all'addome con un grosso coltello da cucina. 

[…] Il sangue, l'orrore senza fine. L'uomo sale di corsa le scale e le riprese si spostano all'interno della casa: riversa a terra si vede la ragazzina, uccisa con furia, colpevole di avere fatto da scudo alla madre con il suo corpo.

L'uomo insiste su quelle immagini, si rivolge alla moglie, inquadra anche il suo volto e il suo corpo scosso dal pianto e dal terrore. È riuscito a ferirla prima dell'intervento della sedicenne. La donna è disperata, è stesa accanto al corpo senza vita della figlia, chiede perché la abbia uccisa. 

Lui la insulta, la minaccia, poi si mette a cercare il loro secondo figlio: vuole continuare a uccidere, vuole distruggere tutto quello che resta della sua famiglia. «Dove sta il bambino? - grida - Guardate li ho macellati e devo continuare a farlo». E sentenzia: «Non ho ancora finito. Non è ancora arrivato nessuno, nemmeno la polizia».

Quando i carabinieri lo hanno fermato, Malaj stava vagando nel quartiere alla ricerca del piccolo. Per compiere la strage ha usato un coltello da cucina. 

Intanto le immagini della mattanza hanno iniziato a circolare tra gli abitanti, sconvolti, del paese. In poco tempo il video è diventato virale sui social, tanto che il sindaco del piccolo comune foggiano, Emilio Di Pumpo, attraverso Facebook ha fatto appello al senso di responsabilità: «Chiedo il massimo rispetto per le famiglie coinvolte - ha scritto in un post - Invito chiunque abbia ricevuto video e/o immagini inappropriate, a bloccare immediatamente questo tam tam di messaggi. Invito tutti quanti al silenzio, al rispetto e alla preghiera per le anime dei nostri concittadini che sono venuti a mancare».

Torremaggiore, colpisce la moglie: la figlia 16enne fa da scudo e il padre uccide la ragazza e un uomo. C'è un video choc. Luca Pernice su Il Corriere della Sera il 7 Maggio 2023

L'assassino, un cittadino albanese, è stato fermato e si ipotizza che il movente sia la gelosia. La moglie è rimasta ferita. Il paese è sotto choc

Ha tentato di uccidere la moglie, la figlia di 16 anni ha cercato di fare da scudo e lui ha assassinato la ragazza a coltellate; subito dopo ha ucciso anche un uomo. È accaduto a Torremaggiore, in provincia di Foggia, nella notte tra il 6 e il 7 maggio. L'assassino sarebbe un cittadino albanese di 45 anni, Taulant Malaj, che è già stato fermato. Le vittime sono la figlia, Gessica, studentessa, e un commerciante italiano di 51 anni, Massimo De Santis, titolare dei "Jolly", due bar molto noti a Torremaggiore, cognato della senatrice Gisella Naturale (M5S). Il commerciante è stato colpito con venti coltellate al torace, all’addome e al volto. La moglie dell'assassino, anche lei albanese, Tefta Malaj, 39 anni, è rimasta ferita ed è ricoverata all'ospedale di Foggia. Le sue condizioni non sono gravi. E c'è un particolare choc: dopo aver commesso gli omicidi il 45enne ha girato un filmato con il telefonino negli istanti immediatamente successivi all’assassinio, inquadrando prima il corpo esanime dell’uomo per poi riprendere la figlia in fin di vita e la moglie ferita. Il filmato, inoltre, sarebbe stato inviato dall’indagato a un connazionale albanese residente nel nord Italia che ha immediatamente allertato i carabinieri del posto e con estrema probabilità ha inviato le immagini anche ad altri soggetti in corso di identificazione i quali a loro volta le hanno divulgate attraverso il web.

Il movente e la ricostruzione

Secondo la ricostruzione dei carabinieri è stata la moglie a chiamare il 118 che poi ha allertato il 112. Una volta sul posto i militari hanno trovato l’albanese nell’atrio del condominio sporco di sangue. Recuperata anche l’arma utilizzata per il duplice delitto: un coltello a serramanico. L’albanese, è stato sottoposto a fermo di polizia giudiziaria, con l’accusa di duplice omicidio e tentato omicidio. Alla base del gesto sembrerebbero esserci stati motivi di gelosia da parte dell’omicida nei confronti della moglie, poiché l’uomo ipotizzava una relazione extraconiugale con il commerciante italiano. L'assassino, che lavora come panettiere a Torremaggiore, ha ucciso il 51enne nell’androne della palazzina, in via Togliatti; subito dopo sarebbe entrato in casa con l'intento di uccidere la moglie, ma la 16enne è intervenuta per difendere sua madre e ha perso la vita. Il 45enne, inoltre, vagava nella zona alla ricerca dell'altro figlio di cinque anni avuto con la stessa donna. Il procedimento, spiegano i carabinieri, si trova nella fase delle indagini preliminari e, al momento, a carico dell’indagato fermato sono stati acquisiti unicamente granitici indizi di colpevolezza. Gli investigatori lanciano «un appello al senso di responsabilità della cittadinanza, invitandola, in ragione della tragedia familiare, a non divulgare ulteriormente video e immagini macabre e inappropriate, soprattutto nel rispetto dei familiari già afflitti da questa triste vicenda».

Il sindaco di Pumpo: «Un grande dolore»

«Torremaggiore piange per due vite strappate via in una terribile tragedia che non può lasciarci indifferenti. Faccio appello al senso di responsabilità di ognuno e chiedo il massimo rispetto per le famiglie coinvolte». È il commento di Emilio di Pumpo, il sindaco di Torremaggiore, nel foggiano, che invita tutti «al silenzio, al rispetto e alla preghiera per le anime dei nostri concittadini venuti a mancare. Il mio personale e sentito cordoglio in questo momento di forte dolore per tutta la città di Torremaggiore».

«Ragazza dolce e premurosa»

«Una bravissima famiglia. La donna non amava parlare molto di se, però quando parlava dei figli si illuminavano gli occhi. Ricordo Gessica quando era piccola. Una bambina molto timida e molto dolce». Così un’amica di famiglia ricorda Gessica. «Anche il padre - continua la donna - era sempre molto gentile e rispettoso. Mai una parola fuori posto. Non posso credere che sia stato capace di una simile crudeltà. Gessica e la madre erano molto legate. Non mi sorprende che abbia tentato di difenderla fino alla fine».

«Massimo era una bravissima persona. Amava la sua caffetteria»

«Una persona rispettabile, senza grilli per la testa. Un gran lavoratore». Così un amico descrive Massimo De Santis. «È una tragedia quanto accaduto. Massimo - continua l’amico - era una bravissima persona. Amava la sua caffetteria. Siamo coetanei e quindi lo conoscevo e spesso andavo a trovarlo nella sua attività. È una notizia che non avrei mai voluto leggere».

Duplice omicidio Torremaggiore: il figlio di 5 anni nascosto dietro il divano e la confessione choc del killer: «Mia moglie mi tradiva, ho visto la sua chat col vicino». Luca Pernice su Il Corriere della Sera l'8 Maggio 2023

L'assassino, albanese, ha colpito la moglie rimasta ferita, la figlia Jessica che ha fatto da scudo e il vicino di casa, un panettiere 45enne. Fermato dopo l'accaduto ha chiesto: «Dov'è mia figlia?» come se non ricordasse nulla. 

«Mia moglie ha ammesso che aveva una relazione con Massimo. Mi aveva chiesto scusa per questa relazione, ma io volevo separarmi»: lo ha detto al pm il panettiere albanese, Taulant Malaj, il panettiere albanese responsabile del duplice omicidio messo a segno nella notte tra sabato e domenica scorsa a Torremaggiore dove l'albanese di 45 anni ha ucciso la figlia di 16 anni, Jessica, che tentava di proteggere la madre e moglie dell'assassino, Tefta di 39 anni - rimasta ferita - e  un commerciante italiano di 51 anni Massimo De Santis, il presunto nuovo coma L'altro figlio, il più piccolo di 5 anni, si era nascosto dietro il divano.  L'albanese, fermato con le accuse di duplice omicidio e tentato omicidio, ha anche filmato le vittime con il suo telefono cellulare.  In caserma dinanzi ai carabinieri ha confessato gli omicidi della figlia e del commerciante. Prima però ha chiesto della figlia come se non ricordasse nulla: «Dov'è Jessica?» ha detto. Sconvolti i vicini di casa.  «Spesso - racconta un'amica di Tefta- il panettiere veniva a trovare i figli». Massimo De Santis, pasticciere titolare di un'attività commerciale molto nota a Torremaggiore viveva nello stesso stabile di via Togliatti dove è avvenuta la tragedia. Le condizioni della ex moglie del killer sono stabili, non è in pericolo di vita: è comunque ricoverata e nelle prossime ore sarà sentita dagli investigatori per ricostruire le fasi dell'accaduto.

La ricostruzione

De Santis, stando a quanto ricostruito dai carabinieri, è stato ucciso con una ventina di colpi inferti dall'albanese con un coltello a serramanico. È stato colpito al torace, all'addome e al capo: per lui non c'è stato scampo. Jessica è morta durante la corsa verso l'ospedale mentre la mamma è ricoverata a Foggia. Le sue condizioni non sono gravi. È stata la donna a lanciare l'allarme telefonando al 118 che a sua volta ha chiamato il 112. Una volta sul posto i carabinieri hanno bloccato l'albanese ancora sporco di sangue. Nell’androne del palazzo c'era il corpo senza vita del commerciante mentre all’interno di un’abitazione la donna che aveva chiamato il 118, con ferite da arma da taglio, accanto al corpo della figlia, in stato di incoscienza. L'albanese ha girato un filmato con il suo telefonino negli istanti immediatamente successivi all’assassinio, filmando prima il corpo esanime dell’uomo per poi filmare la figlia in fin di vita e la moglie in stato di semi incoscienza. Il filmato è stato inviato dall’uomo ad un connazionale residente nel nord Italia che ha immediatamente allertato i carabinieri locali e con estrema probabilità ha inviato le immagini anche ad altre persone in corso di identificazione i quali a loro volta hanno divulgato il filmato attraverso il web. 

Il racconto del killer: «Mia moglie  chattava con il vicino»

«Mia moglie ha ammesso che aveva una relazione con Massimo. Mi aveva chiesto scusa per questa relazione, ma io volevo separarmi»: lo ha detto al pm il panettiere albanese, Taulant Malaj.  Stando al racconto dell'uomo nei giorni scorsi c'era stata una discussione in famiglia, sempre per il presunto tradimento, al termine della quale Malaj aveva detto di volersi separare. La moglie, però, lo avrebbe convinto a restare a casa. Pare che Malaj - stando sempre al suo racconto - avesse scoperto più volte nel corso del tempo la moglie al terzo piano dell'edificio, dove abitava il presunto amante. Domenica, però, sarebbe successo dell'altro, stando sempre al racconto del 45enne. Mentre marito e moglie erano a letto, la donna avrebbe cominciato a chattare con qualcuno. L'uomo, insospettitosi, avrebbe visto il telefono della donna scoprendo che stava chattando con il vicino di casa, Massimo. Dopo un po' è uscito di casa ed ha aspettato che Massimo rincasasse dal bar. Appena l'uomo è entrato nel portone lo ha accoltellato a morte. Malaj ha infatti detto al pm - riferiscono gli avvocati - di aver «ucciso prima Massimo», poi di essere salito in casa dove ha cominciato ad accoltellare la moglie e, poi, la figlia, che cercava di fare da scudo alla mamma. «In quel momento, accecato dall'ira - riferiscono i difensori dell'uomo - non si è reso conto che aveva di fronte la figlia ed ha iniziato a colpirla». I due avvocati parlano di «un forte legame tra il reo confesso e i suoi stessi figli», la 16enne e un bimbo di 5 anni.

Le frasi choc

Inquadrando il corpo senza vita del commerciante italiano l'albanese dice: «Vedete questo qua, lui è l’italiano. Ho perdonato già una volta mia moglie, lui è il secondo». Poi sale verso casa sua inquadrando la figlia esamine e la moglie ancora in vita e in pigiama «Ho tagliato lui – continua l’uomo - li ho ammazzati tutti i tre, anche mia figlia, vedete qui». Poi dopo aver insultato la moglie chiede dove fosse “il bambino” l’altro figlio di cinque anni. «Non ho finito ancora, non è venuto nessuno, nemmeno la polizia»: gli investigatori non escludono che Malaj volesse uccidere anche il bambino. 

I compagni di scuola di Jessica: «Una ragazza dolcissima»

Lunedì mattina al liceo Classico "Fiani-Leccisotti"  la scuola frequentata da Jessica c'è stato un momento di raccoglimento per ricordare la giovane vittima. «Jess vive dentro di noi. X sempre 3A». È la scritta, accompagnata da un cuore, realizzata su uno striscione dalle amiche di classe di Jessica. Numerose amiche non sono riuscite a trattenere le lacrime ricordando Jessica. Al suono della campanella tutta la scuola si è fermata per un minuto di raccoglimento per ricordarla.  «Era una ragazza dolcissima - ha detto una sua amica entrando a scuola- . Non ci posso credere che sia accaduto. Non è giusto. Ci mancherà il suo sorriso». «Oggi - ha aggiunto un altro studente- è un giorno triste per tutti noi. Siamo molto addolorati. Era una ragazza bravissima, sempre con il sorriso sulle labbra e anche molto studiosa».

Estratto dell’articolo di Luca Pernice per il “Corriere della Sera” l'8 maggio 2023.

Fa il panettiere, non ha un passato criminale e posta foto con il suo bambino di 5 anni che di lui scrive: «Ti voglio bene papà, il mio cuore batte per te». L’altra notte Taulant Malaj, albanese di 45 anni da tempo in Italia, è diventato uno spietato assassino. Con un coltello a serramanico si è scagliato su Massimo De Santis, un barista che secondo Malaj aveva una relazione con sua moglie Tefta, uccidendolo con venti fendenti nell’androne del loro palazzo, a Torremaggiore, provincia di Foggia. 

Poi, secondo una prima ricostruzione degli inquirenti, è salito in casa e ha cercato di fare altrettanto con Tefta, connazionale, ma fra lui e lei si è frapposta la figlia sedicenne Gessica che ha tentato di difendere la madre. Nessuna pietà: ha sferrato un paio di colpi anche sulla ragazza che è caduta a terra e lì è rimasta, esanime.

Infine, dopo aver colpito la moglie, finita pure lei a terra, si è messo a cercare il suo bambino che nel frattempo si era nascosto da qualche parte. E mentre cercava il piccolo girava pure un video del massacro, inviandolo a un amico albanese residente al Nord, dove si presenta con nome e cognome: «Vedete questo qua, lui è l’italiano», dice agitato inquadrando De Santis che giace sul pianerottolo in un lago di sangue. 

«Ho perdonato già una volta mia moglie, lui è il secondo», aggiunge con rabbia. «Ho tagliato lui, li ho ammazzati tutti e tre, anche mia figlia, vedete qui», riprende con il telefonino la moglie che si stende accanto al corpo della figlia morente. «Dov’è il bambino?», si domanda. «Non ho finito ancora, non è venuto nessuno, nemmeno la polizia».

Nel frattempo la moglie aveva dato l’allarme e di lì a poco sono arrivati i carabinieri. L’hanno trovato appena dentro lo stabile con le mani insanguinate. Immobilizzato, è stato portato in caserma e interrogato. E mentre lui raccontava la sua follia, la moglie, 39 anni, casalinga, ferita e sotto choc, veniva assistita in ospedale, e il bimbo, uscito dal nascondiglio, affidato agli zii paterni. Nel palazzo teatro della tragedia rimanevano il corpo senza vita di De Santis, titolare di un paio di bar nella cittadina, cognato della senatrice del M5S Gisella Naturale, e quello della povera Gessica. 

Di lei, di questa ragazza di 16 anni, parlano i compagni di scuola. «Educata, studiosa, molto legata alla madre e al fratellino, non mi sorprende che abbia tentato di difenderla», la ricorda Marika che frequenta lo stesso liceo classico, il «Fiani-Leccisotti» di Torremaggiore. «La conoscevo dalle elementari, eravamo in classe insieme, non parlava spesso di fatti personali...». […]

Omicidio di Torremaggiore, la confessione del killer Taulant Malaj: «Mia moglie mi tradiva, ho visto la sua chat col vicino». Luca Pernice su Il Corriere della Sera l'8 Maggio 2023

L'assassino, albanese, ha colpito la moglie rimasta ferita, la figlia Jessica che ha fatto da scudo e il vicino di casa, un barista 45enne. Fermato dopo l'accaduto ha chiesto: «Dov'è mia figlia?» come se non ricordasse nulla

«Mia moglie ha ammesso che aveva una relazione con Massimo. Mi aveva chiesto scusa per questa relazione, ma io volevo separarmi»: lo ha detto al pm il panettiere albanese, Taulant Malaj, 45 anni,  responsabile del duplice omicidio messo a segno nella notte tra sabato e domenica scorsa a Torremaggiore dove  ha ucciso la figlia di 16 anni, Jessica, che tentava di proteggere la madre e moglie dell'assassino, Tefta di 39 anni - rimasta ferita - e un commerciante italiano di 51 anni Massimo De Santis, il presunto nuovo compagno della donna. 

L'altro figlio, il più piccolo di 5 anni, si era nascosto dietro il divano riuscendo così a mettersi in salvo. L'albanese, fermato con le accuse di duplice omicidio e tentato omicidio, ha anche filmato le vittime con il suo telefono cellulare. In caserma dinanzi ai carabinieri ha confessato gli omicidi della figlia e del commerciante. Prima però ha chiesto della figlia come se non ricordasse nulla: «Dov'è Jessica?» ha detto. 

Il racconto del killer: «Mia moglie chattava col vicino»

Stando al racconto dell'uomo nei giorni scorsi c'era stata una discussione in famiglia, sempre per il presunto tradimento della donna, al termine della quale Malaj aveva detto di volersi separare. La moglie, però, lo avrebbe convinto a restare a casa. Pare che Malaj - stando sempre al suo racconto - avesse scoperto più volte nel corso del tempo la moglie al terzo piano dell'edificio, dove abitava il presunto amante. Domenica, però, sarebbe successo dell'altro, stando sempre al racconto del 45enne. Mentre marito e moglie erano a letto, la donna avrebbe cominciato a chattare con qualcuno. L'uomo, insospettitosi, avrebbe visto il telefono della donna scoprendo che stava chattando con il vicino di casa, Massimo. Dopo un po' è uscito di casa ed ha aspettato che Massimo rincasasse dal bar. Appena l'uomo è entrato nel portone lo ha accoltellato a morte. Malaj ha infatti detto al pm - riferiscono gli avvocati - di aver «ucciso prima Massimo», poi di essere salito in casa dove ha cominciato ad accoltellare la moglie e, poi, la figlia, che cercava di fare da scudo alla mamma. «In quel momento, accecato dall'ira - riferiscono i difensori dell'uomo - non si è reso conto che aveva di fronte la figlia ed ha iniziato a colpirla». I due avvocati parlano di «un forte legame tra il reo confesso e i suoi stessi figli», la 16enne e un bimbo di 5 anni. 

Il fratello del barista ucciso: «Non c'era alcuna relazione tra loro»

«Non c'era niente di niente, mio fratello non aveva neanche modo di incontrarsi con la signora, neppure al bar dove lei veniva con le amiche a fare colazione dopo aver portato i figli a scuola: a quell'ora Massimo dormiva ancora perché lui, che nel bar faceva di tutto, dal pasticcere al banconista, chiudeva il locale la sera tardi»   dice Gianluca De Santis, fratello del 51enne assassinato escludendo qualsiasi tipo di relazione tra suo fratello e la 39enne Tefta: «Massimo viveva in quel condominio da 43 anni con nostra madre ormai 80enne e vedova. I rapporti con quella famiglia - sottolinea - erano ottimi, normali rapporti tra condomini, si salutavano e si rispettavano». Anche con Taulant: «Ti vedeva e ti salutava, mai un litigio, nulla - ricorda Gianluca -  mio fratello  era una persona riservata e disponibile, e anche se non conosceva qualcuno era pronto ad aiutarlo. Lavorava sempre: la mattina faceva il pasticcere, la sera chiudeva il bar all'una o alle due di notte, e in estate ancora più tardi. Non aveva tempo di fare queste cose qui. La sera dell'omicidio - ricorda - ha chiuso il bar all'1.27, ha accompagnato le ragazze, e poi ha trovato nell'androne di casa quella persona che ha fatto tutto quello che ha fatto. Mio fratello non aveva motivo di aspettarsi una cosa del genere, lo si capisce da dove è stato trovato il suo corpo: per prendere l'ascensore doveva andare a destra ma il cadavere era accasciato a sinistra, ai piedi della scalinata. È stato massacrato con 21 coltellate, una alla gola e altre venti all'addome. Non aveva segni sulle braccia quindi non pensava di doversi difendere. Ora - conclude - mia madre è distrutta e pensa sempre, oltre che a suo figlio, a quella povera ragazza, a Jessica». 

La ricostruzione del duplice omicidio

De Santis, stando a quanto ricostruito dai carabinieri, è stato ucciso con una ventina di colpi inferti dall'albanese con un coltello a serramanico. È stato colpito al torace, all'addome e al capo: per lui non c'è stato scampo. Jessica è morta durante la corsa verso l'ospedale mentre la mamma è ricoverata a Foggia. Le sue condizioni non sono gravi. È stata la donna a lanciare l'allarme telefonando al 118 che a sua volta ha chiamato il 112. Una volta sul posto i carabinieri hanno bloccato l'albanese ancora sporco di sangue. Nell’androne del palazzo c'era il corpo senza vita del commerciante mentre all’interno di un’abitazione la donna che aveva chiamato il 118, con ferite da arma da taglio, accanto al corpo della figlia, in stato di incoscienza. L'albanese ha girato un filmato con il suo telefonino negli istanti immediatamente successivi all’assassinio, filmando prima il corpo esanime dell’uomo per poi filmare la figlia in fin di vita e la moglie in stato di semi incoscienza. Il filmato è stato inviato dall’uomo ad un connazionale residente nel nord Italia che ha immediatamente allertato i carabinieri locali e con estrema probabilità ha inviato le immagini anche ad altre persone in corso di identificazione i quali a loro volta hanno divulgato il filmato attraverso il web.

Duplice omicidio nel Foggiano: albanese uccide la figlia 16enne e un uomo, poi fa video choc con le vittime: «Vedete? Li ho uccisi tutti». Ferita la ex moglie, ora in ospedale. La tragedia ieri notte a Torremaggiore. L'omicida era convinto che la donna avesse una relazione con il commerciante accoltellato. REDAZIONE ONLINE su La Gazzetta del Mezzogiorno il 7 Maggio 2023

TORREMAGGIORE (Foggia) Duplice omicidio a Torremaggiore in una palazzina di via Togliatti. La tragedia si è consumata  intorno alla mezzanotte. Una vera e propria mattanza. 

L'uomo, fornaio di 45 anni, di origine albanese, avrebbe prima ucciso Massimo De Santis, 51 anni, di Torremaggiore, sulle scale della palazzina, poi si è scagliato contro la ex moglie, da cui si era separato, e la figlia Gessica, di 16 anni.

Pare che l'uomo fosse accecato dalla gelosia, convinto che la donne avesse una relazione con De Santis. Di sicuro De Santis è stato ucciso sulle scale con venti fendenti a torace, busto e testa, sferrati con un coltello a serramanico, poi la dinamica diventa confusa.

Forse la ex moglie ha cercato di fermarlo, probabilmente anche Gessica, è intervenuta per calmare la cieca furia del padre, ma ne è rimasta vittima. 

Sul posto, allertati dai vicini che hanno sentito le urla, sono subito accorse ambulanze e polizia. Per De Santis, non c'era già più nulla da fare ma la ragazzina respirava ancora. La madre, malgrado fosse ferita, non era grave. 

Per entrambe la corsa in ambulanza verso l'ospedale di Foggia, ma la ragazza non è riuscita neppure a raggiungerlo: troppo gravi i colpi inferti. La madre, invece, è ancora ricoverata ma la sua vita non corre pericoli. 

Quanto all'uomo, Taulant Malaj, è stato bloccato dalla polizia mentre vagava nei pressi della palazzina. Pare abbia detto che cercava l'altro suo figlio, di cinque anni, che aveva avuto con la stessa donna. L'arma del delitto, un coltello da cucina, è già stato recuperato.

E DOPO IL DUPLICE OMICIDIO, FA IL VIDEO CHOC CON IL TELEFONINO

Dopo aver ucciso il presunto amante della moglie e la propria figlia 16enne, il 45enne albanese Taulant Malaj ha ripreso le vittime con il telefonino. Nel video con immagini molto crude, che sta circolando in alcune chat Whatsapp, si rivolge in albanese anche a sua moglie ferita, salvata dalla figlia 16enne che l’ha difesa dalla furia del padre.

Il sindaco Emilio Di Pumpo su Facebook fa «appello al senso di responsabilità di ognuno: chiedo il massimo rispetto per le famiglie coinvolte - scrive - invito chiunque abbia ricevuto video e/o immagini inappropriate, a bloccare immediatamente questo tam tam di messaggi. Invito tutti al silenzio, rispetto e preghiera per le anime dei nostri concittadini venuti a mancare».

«Torremaggiore - aggiunge - oggi piange per due giovani vite strappate via in una terribile tragedia che non può lasciarci indifferenti. Il mio personale e sentito cordoglio in questo momento di forte dolore per tutta la città di Torremaggiore».

Nel video si presenta con il proprio nome e poi indica il corpo del 51enne Massimo De Santis, che ha da poco ucciso: «Vedete questo qua, lui è l’italiano» con cui ritiene che sua moglie avesse una relazione. Poi, aggiunge, «ho perdonata già una volta mia moglie, lui è il secondo». A parlare è Taulant Malaj, l’albanese 45enne che la scorsa notte ha ucciso il presunto amante di sua moglie e la propria figlia 16enne che cercava di proteggere la madre, e poi ha filmato tutto in un video diventato virale sulle chat dei residenti. «Ho tagliato lui, li ho ammazzati tutti i tre, anche mia figlia, vedete qui», prosegue insultando la moglie 39enne che si stende, ferita, accanto al corpo della figlia. Poi, urlando, Malaj si domanda dove sia «il bambino», l’altro figlio di cinque anni che non ha trovato in casa ma che secondo gli investigatori stava cercando per uccidere: «Non ho finito ancora, non è venuto nessuno, nemmeno la polizia». 

I carabinieri comunicano in una nota che l'uomo è stato sottoposto a fermo con le accuse di tentato omicidio e duplice omicidio. Il 45enne è stato inchiodato dalle informazioni raccolte dai militari e dal video che lui stesso aveva registrato per raccontare l’orrore. Un filmato inviato a un connazionale che risiede in una regione del nord Italia che ha chiamato i carabinieri. Il video poi ha iniziato a circolare arrivando ad altre persone che ora sono in fase di identificazione perché a loro volta hanno contribuito alla sua diffusione.

Duplice omicidio a Torremaggiore: confessa di aver ucciso la figlia e l'amante della moglie, arrestato. Salvo il figlio di 5 anni perché si è nascosto dietro il divano. La confessione del panettiere: «Ieri lei nel letto chattava con Massimo, l'ho ammazzata». Pro e contro nelle testimonianze. REDAZIONE ONLINE su La Gazzetta del Mezzogiorno l'8 Maggio 2023

 «Mia moglie ha ammesso che aveva una relazione con Massimo. Mi aveva chiesto scusa per questa relazione, ma io volevo separarmi». lo ha detto al pm il panettiere albanese di 45 anni, Taulant Malaj, che ieri a Torremaggiore (Foggia) ha ucciso a coltellate la figlia 16enne, Gessica, e il suo vicino di casa, Massimo De Santis, 51 anni, ferendo anche la moglie. Lo riferiscono i due legali dell’albanese arrestato, Michele Maiellaro e Giacomo Lattanzio.

Stando al racconto del panettiere, nei giorni scorsi c'era stata una discussione in famiglia, sempre per il presunto tradimento, al termine della quale l’uomo aveva detto di volersi separare. La moglie, però, lo avrebbe convinto a restare a casa. Pare che Malaj - stando sempre al suo racconto - avesse scoperto più volte nel corso del tempo la moglie al terzo piano dell’edificio, dove abitava il presunto amante. Ieri, però, sarebbe successo dell’altro, stando sempre al racconto che il presunto assassino ha fatto al pubblico ministero. Mentre marito e moglie erano a letto, la donna avrebbe cominciato a chattare con qualcuno. L’uomo, insospettitosi, avrebbe visto il telefono della donna scoprendo che stava chattando con il vicino di casa, Massimo. Dopo un po' è uscito di casa ed ha aspettato che Massimo rincasasse dal bar. Appena l’uomo è entrato nel portone lo ha accoltellato a morte.

Malaj ha infatti detto al pm - riferiscono gli avvocati - di aver «ucciso prima Massimo», poi di essere salito in casa dove ha cominciato ad accoltellare la moglie e, poi, la figlia, che cercava di fare da scudo alla mamma. «In quel momento, accecato dall’ira - riferiscono i difensori - non si è reso conto che aveva di fronte la figlia ed ha iniziato a colpirla». I due avvocati parlano di «un forte legame tra il reo confesso e i suoi stessi figli», la 16enne e un bimbo di 5 anni. 

LA TESTIMONIANZA  

Il titolare del panificio «Latartare» di Torremaggiore descrive il suo dipendente Taulant Malaj. «Arrivava tutte le sere alle 23 e andava via alle sette del mattino. Era precisissimo. Non si stancava mai».  «Anche quando finiva il turno continua a lavorare fino a quando non aveva terminato tutto», racconta. Malaj era in Italia da 20 anni. La coppia era sposata da 17 anni. L’uomo ha sempre fatto il panettiere. I colleghi raccontano che era anche molto bravo. Per dieci anni ha lavorato in un altro forno di Torremaggiore.. Nel dicembre scorso era stato assunto nel panificio. «Aveva un carattere molto tranquillo. Non ha mai dato alcun problema. Così come non ci ha mai raccontato di litigi in casa», ammettono dal panificio. «Ho visto la moglie di Taulant una sola volta quando lui è venuto qui da noi a fare il colloquio», ricorda il datore di lavoro del presunto assassino. 

IL BAMBINO SI È SALVATO NASCONDENDOSI DIETRO IL DIVANO

Si è salvato nascondendosi dietro il divano del soggiorno di casa, il figlio di 5 anni del reo confesso del duplice omicidio Taulant Malaj. A quanto si apprende l’assassino era molto legato al figlioletto: lo testimoniano le numerose foto pubblicate con il bambino sul suo profilo Facebook. Sabato notte, dopo la strage, i primi ad arrivare in casa - a quanto si apprende - sarebbero stati il fratello dell’assassino reo confesso e la cognata. Sarebbero stati loro due a trovare il bambino nascosto dietro al divano. Quest’ultimo, quando sono arrivati i carabinieri, era in braccio agli zii in evidente stato di choc. Il piccolo è stato affidato alla coppia. Inoltre, per accertare l’esistenza della presunta relazione extraconiugale e dello scambio di messaggi su una chat tra la moglie dell’assassino e la vittima, gli investigatori dell’Arma hanno sequestrato i telefoni cellulari della donna, del marito e della figlia.

IL FRATELLO DEL BARISTA UCCISO

 «Non c'era niente di niente, mio fratello non aveva neanche modo di incontrarsi con la signora, neppure al bar dove lei veniva con le amiche a fare colazione dopo aver portato i figli a scuola: a quell'ora Massimo dormiva ancora perché lui, che nel bar faceva di tutto, dal pasticcere al banconista, chiudeva il locale la sera tardi». Lo spiega  Gianluca De Santis, fratello del 51enne ucciso la notte tra sabato 7 e domenica 8 maggio con 21 coltellate dal 45enne Taulant Malaj secondo cui Massimo era l'amante di sua moglie. Malaj, che è stato fermato dai carabinieri, ha ucciso anche sua figlia 16enne Gessica mentre proteggeva sua madre, sopravvissuta all’aggressione del 45enne che poi ha filmato i corpi spiegando di avere ucciso tutti perché veniva tradito, e chiedendo a sua moglie dove fosse l’altro figlio, un bimbo di cinque anni. Gianluca esclude ogni tipo di relazione tra suo fratello e la 39enne Tefta: «Massimo viveva in quel condominio da 43 anni con nostra madre ormai 80enne e vedova. I rapporti con quella famiglia - sottolinea - erano ottimi, normali rapporti tra condomini, si salutavano e si rispettavano». Anche con Taulant: «Ti vedeva e ti salutava, mai un litigio, nulla», ricorda Gianluca, spiegando che a volte lo vedeva anche lui quando andava a prendere sua madre per portarla al bar «dove lavorava con noi per svago». 

Nessuna relazione, ribadisce, ma neanche «qualche sospetto: anche perché se avessimo pensato a qualcosa del genere saremmo intervenuti». «Mio fratello - aggiunge - era una persona riservata e disponibile, e anche se non conosceva qualcuno era pronto ad aiutarlo. Lavorava sempre: la mattina faceva il pasticcere, la sera chiudeva il bar all’una o alle due di notte, e in estate ancora più tardi. Non aveva tempo di fare queste cose qui». 

«La sera dell’omicidio - ricorda - ha chiuso il bar all’1.27, ha accompagnato le ragazze, e poi ha trovato nell’androne di casa quella persona che ha fatto tutto quello che ha fatto». 

«Mio fratello - aggiunge - non aveva motivo di aspettarsi una cosa del genere, lo si capisce da dove è stato trovato il suo corpo: per prendere l’ascensore doveva andare a destra ma il cadavere era accasciato a sinistra, ai piedi della scalinata.

Quindi» Taulant «si era appostato e lo ha chiamato. Mio fratello, che non aveva motivo di temere nulla, si è avvicinato ed è stato colpito. E’ stato massacrato con 21 coltellate, una alla gola e altre venti all’addome. Non aveva segni sulle braccia quindi non pensava di doversi difendere». 

«Ora - evidenzia - mia madre è distrutta e pensa sempre, oltre che a suo figlio, a quella povera ragazza, a Gessica. Solo pensare che una bestia l’ha accoltellata la fa stare male. Ma cosa ti ha fatto, è tua figlia - si domanda Gianluca - sangue del tuo sangue».

LE DICHIARAZIONI DELL'OMICIDA: REGISTRAVO GLI INCONTRI DI MIA MOGLIE CON L'AMANTE

Spiava i movimenti della moglie e quelli che riteneva i presunti incontri della donna con l’amante attraverso le telecamere presenti in casa Taulant Malaj, il panettiere di 45 anni che nella notte tra sabato e domenica ha ucciso la figlia di 16 anni e il 51enne Massimo De Santis, l'uomo che riteneva avesse una relazione con sua moglie, la 39enne Tefta. Sono altri dettagli che emergono dalle confessioni rese dallo stesso assassino davanti ai magistrati. La 16enne è stata uccisa mentre cercava di proteggere sua madre che è rimasta ferita dopo essere stata aggredita dal marito. L’uomo dopo aver ucciso il presunto amante e la figlia ha registrato un video riprendendo i cadaveri e la moglie ancora viva. Nel video si chiedeva anche dove fosse l’altro figlio di cinque anni e urlava di non avere ancora finito.

Malaj ha raccontato ai magistrati di essere certo che la moglie avesse una relazione extraconiugale che andava avanti da più di un anno e ha detto di aver registrato con il proprio cellulare alcuni incontri tra i due. Ha anche sostenuto che subito dopo essersi reso conto di aver ucciso la figlia e il presunto amante della moglie ha preso in braccio il figlioletto che, durante la furia omicida, si era nascosto dietro il divano. Dopo aver commesso il delitto Malaj ha nascosto l’arma in auto: agli inquirenti avrebbe confidato anche la sua intenzione di voler fuggire e far perdere le sue tracce.

L'omicida di Torremaggiore: «Il vicino portava mia moglie in giro sulla Maserati». «Il video? L'ho fatto senza motivo».

Emergono altri dettagli sulla confessione di Taulant Malaj, che ha ammazzato un uomo che viveva nel suo stesso stabile, e la figlia Gessica, di appena 16 anni. REDAZIONE ONLINE su La Gazzetta del Mezzogiorno il 9 Maggio 2023.

TORREMAGGIORE - «Un giorno Massimo con la sua Maserati portò in giro mia moglie». Emergono altri particolari dal racconto fornito al pm da Taulant Malaj, 45 anni, panettiere albanese in carcere da domenica dopo aver ucciso a Torremaggiore (Foggia) la figlia Gessica di 16 anni ed il 51enne Massimo De Santis, vicino di casa e presunto amante della moglie, la 39enne Tefta.

Nella furia omicida ha anche ferito quest’ultima con sei coltellate. Nella versione riferita al pubblico ministero il 45enne avrebbe detto di essere convinto che da oltre un anno ci sarebbe stata la relazione clandestina tra sua moglie e De Santis, iniziata dopo un incidente. Secondo il reo confesso Tefta e Massimo «da lì si sono conosciuti» ed «hanno iniziato a parlare».

Malaj avrebbe riferito al pm che spesso la moglie e l’amico mangiavano insieme. L’indagato avrebbe anche registrato con il proprio telefonino alcuni pranzi tra i due. 

«L'ho fatto così, non c'è un motivo particolare» ha poi detto Taulant Malaj al pubblico ministero, in riferimento al video che l’uomo ha girato riprendo i cadaveri della figlia e del presunto amante della moglie. Video che il 45enne ha, poi, inviato ad un amico ad Imola e che è stato acquisito già dagli investigatori.

«In quel momento avevo il diavolo in testa», ha aggiunto Malaj, che dopo aver ucciso ha chiamato il fratello per raccontargli ciò che aveva appena commesso, dicendogli di: «aver ucciso mia moglie, mia figlia e l’amante di mia moglie».

Lo stesso Taulant Malaj ha riferito al pubblico ministero che il fratello non si sarebbe presentato immediatamente a casa sua per paura, ma solo dopo l’arrivo dell’ambulanza.

Si terrà domani mattina l'udienza di convalida del fermo di Taulant Malaj, il 45enne panettiere albanese accusato di aver ucciso nella notte tra sabato e domenica scorsi, a Torremaggiore, la figlia Gessica, di 16 anni, e Massimo De Santis, di 51, l’uomo che riteneva essere il presunto amante della moglie. L’indagato, in carcere da domenica, ha tentato di accoltellare anche quest’ultima, Tefta, 39enne anche lei di origine albanese colpendola con sei fendenti. La donna è ricoverata in prognosi riservata: le sue condizioni di salute non permettono ancora di essere ascoltata dagli inquirenti. Il colloquio con i magistrati avverrà non prima di venerdì.

Intanto per giovedì mattina è stata programmata l’autopsia sui corpi delle due vittime. La ragazzina da una prima ispezione sarebbe stata colpita con una decina di coltellate; 20 quelle inferte, invece, a Massimo da parte di Malaj. L’arma del delitto, un coltello da cucina, è stato trovato nell’auto del presunto assassino perché - a dire dello stesso indagato - aveva intenzione di fuggire.

Il bimbo chiede della mamma

Ha chiesto ripetutamente della mamma e della sorellina Gessica il piccolo Leonardo, di 5 anni, figlio di Taulan Malaj, l’uomo accusato del duplice omicidio della figlia e del presunto amante della moglie e del tentato omicidio della moglie compiuti a coltellate nella notte tra sabato e domenica scorsi a Torremaggiore (Foggia). Il bimbo è stato affidato alle cure degli zii paterni: «Il piccolo sta bene, è sereno» - racconta la zia Muskj -. «Gli manca tanto la sua mamma. Noi gli abbiamo detto che tornerà presto - racconta la donna -». Di quella sera in cui il bimbo, che si è nascosto dietro il divano mentre il padre accoltellava la sorella Gessica e la mamma dopo aver ucciso il presunto amante della moglie Massimo De Santis, non ne parla. Non chiede neppure del padre. "Ora non è il momento di dargli alcuna spiegazione. Ora Leonardo deve stare sereno. Gli ho comprato dei giocattoli per distrarlo», conclude.

Omicidio di Torremaggiore, interrogato il killer: «Spiavo e registravo gli incontri di mia moglie». Luca Pernice su Il Corriere della Sera il 9 Maggio 2023.

Lo ha detto agli inquirenti Taulant Malaj, che ha ucciso la figlia di 16 anni e il vicino di casa 45enne, ferendo anche la moglie Tefta 

Era certo che la moglie avesse una relazione extraconiugale con il vicino di casa. E, per questo, spiava i movimenti della donna e quelli che riteneva i presunti incontri con l'amante, attraverso le telecamere presenti in casa e li registrava con il cellulare. E' quanto emerge dagli interrogatori davanti agli inquirenti di Taulant Malaj, il panettiere che nella notte tra sabato e domenica scorsi a Torremaggiore ha ucciso la figlia Jessica di 16 anni, ha ferito la moglie Tefta e ha ucciso Massimo De Santis, il pasticcere di 51 anni che l'assassino riteneva essere l'amante della moglie Tefta. 

Le presunte ammissioni della moglie sulla relazione

Nel corso del primo interrogatorio l’uomo avrebbe riferito anche che la moglie aveva ammesso di avere «una relazione con Massimo e che – ha continuato l’albanese – mi aveva chiesto scusa, ma io volevo separarmi». Il panettiere avrebbe ancora raccontato che, nei giorni scorsi, ci sarebbe stata una discussione e lui avrebbe espresso l’intenzione di separarsi, ma la moglie lo aveva convinto a restare a casa. Sabato notte - sempre secondo il suo racconto- mentre marito e moglie erano a letto, la donna ha iniziato a chattare con qualcuno e, così, Taulant Malaj aveva scoperto che stava parlando con il commerciante che abitava al terzo piano del loro stesso stabile. Cosi è uscito di casa e lo ha atteso nel portone dell’abitazione. Quando è arrivato lo ha accoltellato, uccidendolo. Poi è salito al primo piano nella loro abitazione colpendo la moglie e la figlia 16enne Jessica, che ha cercato di proteggere la madre. 

Ha risparmiato il figlio di 5 anni 

L'uomo dopo aver ucciso il presunto amante e la figlia ha registrato un video, riprendendo i cadaveri e la moglie. Nel video si chiedeva anche dove fosse l'altro figlio di 5 anni e urlava di non avere ancora finito. Il bambino per la paura si era nascosto dietro il divano della camera da pranzo. Il panettiere ha aggiunto che, subito dopo essersi reso conto di aver ucciso la figlia e il presunto amante della moglie, ha preso in braccio il figlioletto. Dopo aver commesso il delitto Taulant Malaj ha nascosto l'arma in auto: agli inquirenti avrebbe confidato che aveva intenzione di fuggire e far perdere le sue tracce. Intanto, i carabinieri hanno provveduto a sequestrare i cellulari di Taulant, della moglie e della figlia.

Il killer: «Il video? L'ho fatto così, senza un motivo particolare»

«Un giorno Massimo con la sua Maserati portò in giro mia moglie». Lo ha detto sempre Taulant Malaj, durante l'interrogatorio seguito al suo arresto. Nella versione riferita al pubblico ministero il 45enne avrebbe detto di essere convinto che da oltre un anno ci sarebbe stata la relazione clandestina tra sua moglie e De Santis, iniziata dopo un incidente. Secondo il reo confesso, Tefta e Massimo «da lì si sono conosciuti» e «hanno iniziato a parlare». Malaj avrebbe riferito al pm che spesso la moglie e l'amico mangiavano insieme. L'indagato avrebbe anche registrato con il proprio telefonino alcuni pranzi tra i due, oltre a filmare la figlia Jessica e il presunto amante della moglie ormai morti e quest'ultima ferita. Quanto al motivo per cui li avrebbe filmati: «L'ho fatto così, non c'è un motivo particolare», ha detto sempre agli inquirenti. Il video è poi stato inviato dal 45enne a un amico a Imola e già acquisito dagli investigatori. «In quel momento avevo il diavolo in testa», ha aggiunto Malaj riferendosi alle circostanze relative al duplice omicidio ed al ferimento della moglie.

La telefonata al fratello dopo l'omicidio

Sempre secondo quanto riferito agli inquirenti, subito dopo il duplice omicidio, Taulant Malaj ha chiamato il fratello, residente anche lui a Torremaggiore, per raccontargli ciò che aveva appena commesso. Il 45enne avrebbe contattato il fratello dicendogli: «Ho ucciso mia moglie, mia figlia e l'amante di mia moglie». Lo stesso Taulant Malaj ha riferito al pubblico ministero che il fratello non si sarebbe presentato immediatamente a casa sua per paura, ma solo dopo l'arrivo dell'ambulanza.

Da repubblica.it il 10 maggio 2023.

News 24 Albania ha intervistato in esclusiva Tefta Malaj, la donna sopravvissuta alla strage di Torremaggiore. Suo marito ha ucciso per gelosia il vicino di casa Massimo de Santis e la figlia Jessica, intervenuta per proteggere la madre. 

Ma incalzata dalla giornalista del programma Me Zemer te Hapur, la donna ha raccontato: "Mio marito era un mostro. Aveva abusato di Jessica e lei non parlava più al padre da due anni. Non solo le ha rovinato la vita ma l'ha anche uccisa"

LE DICHIARAZIONI. Duplice omicidio di Torremaggiore, parla la mamma di Gessica: «Mio marito? Un mostro, molestava nostra figlia». La donna si confessa alla tv News 24 Albania: 'Mio marito un mostro, non gli parlavo. L'omicidio? Aveva pianificato tutto'. REDAZIONE ONLINE su La Gazzetta del Mezziogiorno il 10 maggio 2023.

«Mio marito è un mostro. Fino a due anni fa ha molestato sessualmente nostra figlia. È successo diverse volte...Mia figlia non gli voleva più parlare ed è per questo che non solo gli ha rovinato la vita, ma l’ha anche ammazzata». 

L'omicida di Torremaggiore: «Il vicino portava mia moglie in giro sulla Maserati» «Il video? L'ho fatto senza motivo»

Lo ha detto alla tv News 24 Albania Tefta Malaj, la donna ferita a coltellate dal marito Taulant Malaj che a Torremaggiore ha ucciso la figlia Gessica, di 16 anni, e Massimo De Santis. «Jessica - racconta la donna dal letto d’ospedale - da due anni non comunicava col padre e se non l’ha denunciato è solo per non avere una brutta nomea: si sa com'è».

«Mio marito aveva pianificato tutto, stavamo tutti quanti dormendo a quell'ora. Lui quella notte non lavorava, era di riposo a casa. Non ho sentito che usciva, poi l’ho visto rientrare. Ha preso il bambino con il coltello e lo voleva ammazzare. Io mi sono buttata per salvare il bambino. Il piccolo dormiva nel lettino attaccato al letto matrimoniale. Poi lui ha dato tanti colpi di coltello a me, non mi ricordo quanti. Faceva dei video mentre dava calci e pugnalate con il coltello. Mia figlia dormiva, ha sentito i rumori e si è alzata. Lui a nostra figlia non l’ha mai voluta». Continua il disperato racconto fatto alla tv News 24 Albania da Tafta Malaj, la donna accoltellata dal marito Taulant accusato di aver ucciso a Torremaggiore (Foggia) la figlia Gessica e il presunto amante della moglie, Massimo De Santis.

 Tefta Malaj alla tv albanese: «Mio marito abusò di Jessica. Voleva uccidere anche mio figlio, io l'ho salvato». Carlo Testa su Il Corriere della Sera il 10 Maggio 2023.

La donna ha raccontato le fasi della notte di terrore. «Mio marito era un mostro» ha aggiunto: «Aveva abusato di Jessica e lei non parlava più al padre da due anni» 

«Mio marito è un mostro. Fino a due anni fa ha molestato sessualmente nostra figlia. È successo diverse volte...Mia figlia non gli voleva più parlare ed è per questo che non solo gli ha rovinato la vita, ma l'ha anche ammazzata». Lo ha detto alla tv News 24 Albania Tefta Malaj, la donna ferita a coltellate dal marito Taulant Malaj che a Torremaggiore ha ucciso la figlia Jessica, di 16 anni, e Massimo De Santis. «Jessica - racconta la donna dal letto d'ospedale a Foggia - da due anni non comunicava col padre e se non l'ha denunciato è solo per non avere una brutta nomea: si sa com'è». 

«Voleva uccidere anche il bambino»

La donna nell'intervista racconta poi le fasi di quella notte di terrore. «Mio marito aveva pianificato tutto. «Stavamo tutti quanti dormendo a quell'ora. Lui - prosegue Tefta - quella notte non lavorava, era di riposo a casa. Non ho sentito che usciva, poi l'ho visto rientrare». La donna spiega che il marito era intenzionato a uccidere anche il figlio. «Ha preso il bambino con il coltello e lo voleva ammazzare», dice. «Io mi sono buttata - prosegue - per salvare il bambino. Il piccolo dormiva nel lettino attaccato al letto matrimoniale. Poi lui ha dato tanti colpi di coltello a me, non mi ricordo quanti. Faceva dei video mentre dava calci e pugnalate con il coltello. Mia figlia dormiva, ha sentito i rumori e si è alzata. Lui a nostra figlia non l'ha mai voluta». 

La versione della difesa

Tefta è certa che il marito volesse uccidere anche il bambino. Una versione che contrasta con la versione fornita da Taulant Malaj nel corso dell'udienza di convalida del fermo dinanzi al giudice. «Non ha mai avuto un'attenzione violenta nei confronti del bambino, assolutamente no», precisano Michele Maiellaro e Giacomo Lattanzio, difensori del 45enne assassino reo confesso.  A confermare - secondo la difesa - che Malaj non volesse far del male al piccolo ci sarebbero le immagini di quei momenti registrati dalle telecamere installate nella sua abitazione. Il video è stato mostrato al giudice. Nel filmato si vedrebbe che il bambino non si era nascosto, come emerso in un primo momento. «Era lì - dicono i difensori - ha visto la scena». Secondo quanto riferito dai legali, vedendo in aula il video di quei momenti «Taulant è crollato». «Sta via via prendendo consapevolezza della tragedia avvenuta», spiegano gli avvocati. I quali precisano che il 45enne durante l'udienza «avrebbe voluto rendere altre dichiarazioni ma ha avuto un crollo psicologico e ha pianto: è disperato per Jessica». «Non poteva reggere alle domande - aggiungono - perché molto, molto provato. Quando gli hanno chiesto di sottoporsi a interrogatorio ha sottolineato che confermava le dichiarazioni rese al pm», al quale domenica aveva confessato il duplice omicidio, ma «quando ha iniziato a esprimere il suo dolore si è bloccato in uno stato di choc». Taulant continua a ripetere che quella notte «non capiva nulla», che aveva «il diavolo in testa e il buio davanti agli occhi». Il 45enne è tenuto sotto stretta sorveglianza in carcere perché si teme possa compiere atti di autolesionismo. 

La madre riabbraccia il figlio

Tefta intanto, dopo due giorni di attesa interminabile, ha potuto riabbracciare in ospedale il figlio così come aveva chiesto. Appena l'ha rivisto, lo ha stretto a sé ed è scoppiata a piangere. Ad accompagnarlo nella stanza del reparto di Chirurgia del policlinico di Foggia è stata sua zia, la moglie del fratello di Taulant.

Estratto dell’articolo di Grazia Longo per “La Stampa” il 10 maggio 2023.

[…] È una donna irriconoscibile Tefta Malaj, sopravvissuta per miracolo alla furia omicida del marito Taulant. È ricoverata al Policlinico di Foggia in una stanza con altre due donne. Lei sta nel letto di mezzo. Non ha nessuno accanto. […] 

La voce di Tefta è flebile, poco più di un sussurro. […] Fatica, ed è evidente che, al di là della sofferenza fisica, ad affliggerla è un peso sul cuore che le divora l'anima. «La mia Gessica non c'è più. Io mi sento un po' meglio ma la mia Gessica non c'è più. Lui me l'ha portata via». 

Il ricordo di quella maledetta notte tra sabato e domenica è nitido. È come se lo avesse ancora davanti agli occhi. «Gessica mi voleva difendere. Si è messa davanti a me e così mio marito l'ha colpita per le cose che lei ha detto». Perché? Che cosa ha detto Gessica quella notte? «Difendeva me. Mio marito mi insultava con parolacce e lei diceva che le sue accuse erano false».

A questo punto una domanda sorge spontanea […] per quanto qualsiasi risposta non tolga nulla alla gravità di quello che ha fatto Taulant Malaj, 45 anni, fornaio dall'aspetto mite che si è trasformato in uno spietato assassino. È con un po' di imbarazzo, quindi, che chiediamo: scusi, ma è vero che lei aveva una relazione con il suo vicino di casa Massimo De Santis? La risposta non si fa attendere: «No, non è vero. Eravamo solo amici».

Non insistiamo oltre. Tefta avrà modo di spiegare agli inquirenti che la interrogheranno nei prossimi giorni. […] «Per fortuna non ha colpito Leonardo - sibila la donna -. Per fortuna almeno Leonardo è vivo. Lo vorrei tanto vedere, ma ancora non me lo hanno portato qui in ospedale».

Il bambino, 5 anni, è sfuggito alle coltellate perché, terrorizzato, si è nascosto dietro al divano. […] Durante il primo interrogatorio […] Taulant ha riferito di essersi accorto che il figlio era accucciato dietro il divano, di averlo preso in braccio e poi essere uscito dall'appartamento. Ma nel video inviato al suo amico di Imola, oltre a far vedere il cadavere della figlia e quello apparente della moglie, urlava come un pazzo: «Dov'è il bambino, dov'è il bambino? Ammazzo tutti». Segno evidente che in quella circostanza alternava momenti di lucidità ad altri di annebbiamento totale. 

E ora Tefta racconta: «Sono viva solo perché mio marito mi credeva morta. Ero a terra in mezzo al sangue e lui pensava fossi morta. Quando è uscito di casa io ho telefonato subito al 118». 

[…] «Mi ha colpito sul seno e sulla pancia», dice ancora la donna. Ci vorrà del tempo, ma queste ferite guariranno. Molto più difficile, se non impossibile, sarà gestire il vuoto lasciato dalla scomparsa di Gessica. Nulla, in passato, era accaduto in modo tale da far presagire un epilogo tanto drammatico.

Anche se le liti, soprattutto negli ultimi tempi, si erano fatte più frequenti e più accese. «In passato urlava e minacciava - ricorda Tefta -. Ma io non l'ho mai denunciato». Se lo avesse fatto sarebbe cambiato qualcosa? […] Taulant non aveva mai dato in escandescenze. Lo descrivono tutti come «un uomo tranquillo, tutto casa e bottega. Dalle 23 alle 7 lavorava al forno e poi si dedicava alla famiglia». Ma la gelosia lo aveva accecato. […] Sembrava una lite come tante altre. E invece si è trasformata in un inferno. «La mia Gessica è morta ingiustamente», sussurra Tefta. Ed è chiaro che questa convinzione la tormenterà in eterno.

Abusi, tradimenti e le due versioni: i punti oscuri di Torremaggiore Francesca Galici l'11 Maggio 2023 su Il Giornale.

Le versioni di Taulant Malaj e di sua moglie, sopravvissuta alla furia omicida, non coincidono ma l'uomo, mentre compiva la strage, girava un video.

La strage di Torremaggiore difficilmente verrà dimenticata. Taulant Malaj, panettiere albanese da anni in Italia ha ucciso sua figlia, che si era frapposta fra lui e la moglie, e un altro uomo, che lui riteneva essere l'amante della donna. La moglie e il bambino piccolo, invece, sono riusciti a sopravvivere, anche se la donna è stata colpita più volte. Mentre uccideva, l'assassino filmava con il telefono le scene horror, che poi ha inviato ad alcuni suoi contatti social.

La vendetta per il tradimento della moglie

Il primo omicidio si è consumato nell'androne del palazzo dove Malaj e quello che lui considerava l'amante della moglie vivevano. L'assassino sarebbe poi entrato nella sua abitazione con l'intenzione probabilmente di eliminare anche la moglie ma la figlia 16enne è intervenuta per difendere la donna. Il video in cui lì uomo, che poi ha dichiarato di essere posseduto dal demonio durante quell'azione, compie la strage è diventato virale.

"Li ho macellati, guardate". Il video choc girato dal killer di Torremaggiore

Ha reso dichiarazioni spontanee subito dopo l'arresto ammettendo l'omicidio e quando i militari lo hanno bloccato aveva ancora gli abiti insanguinati e aveva abbandonato l'arma del delitto, un coltello da cucina, all'interno della propria autovettura. "Mia moglie ha ammesso che aveva una relazione con Massimo. Mi aveva chiesto scusa per questa relazione, ma io volevo separarmi", ha detto Taulant Malaj al pm. "In quel momento, accecato dall'ira, non si è reso conto che aveva di fronte la figlia ed ha iniziato a colpirla", hanno detto gli avvocati dell'uomo, che sostiene di aver sempre avuto uno stretto legame coi figli.

Le molestie contro la figlia

Questa versione è stata smentita dalla moglie, secondo la quale "fino a due anni fa ha molestato sessualmente nostra figlia. È successo diverse volte. Mia figlia non gli voleva più parlare ed è per questo che non solo gli ha rovinato la vita, ma l'ha anche ammazzata".

Quindi, la donna ha aggiunto: "Lui a nostra figlia non l'ha mai voluta". Dal racconto della donna emerge che l'uomo avrebbe voluto uccidere il figlio ma, anche in base ai video, Taulant avrebbe consapevolmente risparmiato il piccolo. La versione della donna contrasta con quella che il panettiere albanese Taulant Malaj ha fornito al giudice durante l'udienza di convalida del fermo il 10 maggio e contrasta anche con le immagini che sono state prodotte in aula. "Non ha mai avuto un'attenzione violenta nei confronti del bambino, assolutamente no", hanno precisato ai cronisti i difensori.

Le due versioni sull'aggressione

Ma la sopravvissuta racconta una versione diversa: "Stavamo tutti quanti dormendo a quell'ora. Lui quella notte non lavorava, era di riposo a casa. Non ho sentito che usciva, poi l'ho visto rientrare. Ha preso il bambino, con il coltello lo voleva ammazzare. Io mi sono buttata per salvare il bambino. Il piccolo dormiva nel lettino attaccato al letto matrimoniale. Poi lui ha dato tanti colpi di coltello a me, non mi ricordo quanti. Faceva dei video mentre dava calci e pugnalate con il coltello. Mia figlia dormiva, ha sentito i rumori e si è alzata". L'uomo, invece, nella sua deposizione, racconta di che la donna, mentre stavano a letto, avrebbe cominciato a chattare con qualcuno. L'uomo, insospettitosi, avrebbe visto il telefono della donna scoprendo che stava chattando con il vicino di casa. Lì sarebbe nata la strage.

Martina Mucci.

Martina Mucci, sfregiata dall'ex: «Volevano rasarmi i capelli, mi hanno quasi uccisa. Perché glielo aveva ordinato lui». Giorgio Bernardini su Il Corriere della Sera il 25 Aprile 2023

Martina Mucci reagisce così all’arresto del suo ex fidanzato, un buttafuori quarantunenne che è stato fermato lunedì 24 aprile, accusato di essere il mandante dell’agguato 

«Ancora oggi non credo che sia la gelosia il vero movente di questo ragazzo. Io gli ho voluto tanto bene, ma lui è narcisista e violento, reagisce così con scatti d’ira. Stavolta però l'ha fatta troppo grossa, in cuore mio sapevo che era stato lui da alcuni segnali, ma non ci volevo credere».

 Martina Mucci reagisce così all’arresto del suo ex fidanzato, un buttafuori quarantunenne che è stato fermato  lunedì 24 aprile, accusato di essere il mandante dell’agguato che due mesi fa l’ha vista soccombere nel suo portone di casa. Erano le due di notte del 21 febbraio, Martina stava tornando a casa dal pub dove lavorava come cameriera. Passamontagna, di cui uno è stato arrestato ieri assieme al mediatore che ha permesso all’ex fidanzato di ingaggiarli, l’hanno picchiato selvaggiamente e sfregiata. 

Tina, lei sapeva che era stato il suo ex fidanzato ordire l’agguato? 

«Avevo sentori, il cuore parla. Ora mi sono levata questo peso» 

Non stavate più insieme. Quando vi eravate sentiti l’ultima volta prima dell’agguato? 

«Non lo sentivo da un mese prima, da gennaio». 

Ora si è fatta un’idea della causa scatenante, ben sapendo che non ne può esistere una legittima , accettabile o lecita, per tutta questa violenza? 

«È l’unica cosa che vorrei sapere davvero da lui. Gli investigatori parlano di alcuni suoi gelosie. Non credo che l’abbia fatto per questo, se devo essere sincera. Forse è qualcosa che ha a che fare con il suo orgoglio, con il lavoro. Era stato trasferito da poco in un altro pub rispetto a quello in cui lavoravamo insieme. Forse dava la colpa me. Si tratta di un narcisista che deve vincere sempre su tutto». 

Sapeva che il mandato per i suoi aguzzini era quello di rasare i capelli? 

«Sì, nella confusione della violenza mi sono accorta che volevano fare proprio questo, rasarmi. Io però ho tantissimi capelli e mi spostavo, alla fine non ce l’hanno fatta, mi hanno fatto tre buchi in testa, ho ancora i punti».

Quindi le era piuttosto chiaro che potesse essere lui il mandante dell’aggressione? 

«Avevo bisogno di una conferma. Volevo sapere la verità perché ho gli incubi da due mesi. Ho aspettato per tutto questo tempo il suo messaggio di solidarietà, un segnale, una chiamata. Ma non è arrivato niente e ogni giorno che passava mi convincevo sempre di più che lui c’entrasse con questa storia». 

Ora ci sarà probabilmente un processo. Dovrà ricostruire tutto quello che le è accaduto. 

«Ho visto gli avvocati solo nei film, tra 3 o 4 giorni torno a casa e cerco di mettere tutto in ordine. Ho bisogno di giustizia e me la merito. Io non credo che il movente sia la gelosia, lui reagiva con la violenza sempre».

Le era mai capitato, quando stavate insieme, che lui la picchiasse? 

«Mi ha tirato dei ceffoni, ma niente coltelli o armi, solo scatti d’ira».

L’ex di Martina Mucci e le frasi choc sulla nuova fidanzata: «Ieri l’ho scassata per bene, le ho strappato i capelli». Giusi Fasano su Il Corriere della Sera l'1 Maggio 2023 

L’inchiesta sull’uomo che ha fatto picchiare la cameriera di Prato. Il coinvolgimento di un minorenne e di un pugile. 

Il pugile, il mediatore, il minorenne. E poi lui, il più cattivo di tutti: il buttafuori. Botte e alcol, droga e risse. Sarebbe da allegare ai manuali dei corsi sulla violenza di genere il suo «interrogatorio» alla fidanzata. È una forma di tortura. Vuole sapere ogni dettaglio della vita sessuale vissuta prima di lui. La incalza, ripete mille volte la stessa domanda, vuole conoscere anno, mese, circostanze delle vecchie relazioni, vuole sapere se l’altro era palestrato, alto, brutto, dotato o no, pretende precisione, paragoni, la fa giurare sul suo cane e su sua nonna, «che muoiano domani se dico bugie». Ogni volta che la risposta non lo soddisfa parte un ceffone, una minaccia.

È la sera del 16 aprile scorso. Le microspie piazzate sulla Bmw di Emiliano Laurini intercettano tutto questo e gli inquirenti ascoltano in diretta il rumore delle botte, i lamenti. Annotano particolari tipo: «Dopo aver ricevuto un pesante colpo al viso lei parla male, in seguito si capirà che ha le unghie rotte»; «lei urla in sottofondo»; «Laurini l’aggredisce di nuovo: “chiudi questo sportello o ti do una tromba nel muso”»; «la voce di lei è spaventata»; «sospira per il dolore»; «la ragazza ha fiatone e paura»; «si sente Laurini colpirla con uno schiaffo: “ti rifaccio la domanda: a 16 anni eri fidanzata o no?”»... E avanti così, «con accanimento insensato e inaccettabile», dirà l’ordinanza che l’ha mandato in carcere.

Emiliano Laurini, 41 anni vissuti a Scandicci, è l’uomo che ha assoldato un ragazzino di 16 anni e un pugile dilettante di 21, Kevin Mingoia, per la spedizione punitiva contro la sua ex, Martina Mucci, 29 anni . E l’amico Mattia Schininà gli ha procurato i contatti dei picchiatori cercandoli nella sua stessa palestra di pugilato e arti marziali. L’agguato nella notte fra il 20 e il 21 febbraio scorso, a Prato: frattura delle ossa nasali, frattura della corona dentale, rottura dei denti, ferita alla radice del naso e lesioni al cuoio capelluto procurate dal tentativo di rasarle i capelli.

Lei, Martina Mucci, era colpevole, diciamo così, di avergli fatto più «torti»: innanzitutto lasciarlo, poi sottrarsi al suo controllo e infine farlo trasferire (dopo una lite) in un locale diverso da quello in cui lavoravano entrambi. Per lui tutto questo è diventato un mix di rabbia e «gelosia patologica». Puro senso della prevaricazione verso le donne: sono io che decido cosa puoi fare e cosa no. E poco importa se quelle donne sono uscite dalla sua vita, come aveva fatto Martina Mucci, o se sono sotto i suoi artigli, come l’attuale compagna aggredita brutalmente sulla Bmw due settimane fa.

Che poi. La sera dopo le botte in macchina alla sua fidanzata lui si rimette al volante e le cimici lo registrano che parla da solo: «Ieri sera l’ho scassata per bene», dice a se stesso compiaciuto, «vai tranquillo che ieri sera ho dato abbastanza... capelli strappati, unghie. Mi verrebbe voglia di spaccare i denti anche a lei». Spaccare i denti anche a lei. Come aveva ordinato di fare con Martina che, il giorno dopo l’agguato, riceve da un’altra delle ex di lui i whatsapp che anticipavano l’intenzione. «Lui ti voleva puntare al viso, questo me l’ha sempre detto, e se ci stavo ancora insieme, sarebbe capitata la stessa cosa a me», le dice. E ancora: «Mi ha spedito tue foto intime chiedendomi di farle girare». Un tentativo di revenge porn, in sostanza.

Vogliamo parlare di Kevin Mingoia? Il suo curriculum penale, per dire, comincia quando ha meno di 14 anni: atti sessuali, assieme a due coetanei, contro un ragazzino del campo estivo. Nelle intercettazioni lo si sente parlare di ricettazioni, furti di motorini, spaccio, aggressioni. Gli uomini della squadra mobile di Prato hanno scoperto, fra le altre cose, che lui e i suoi amici si organizzavano in piccoli gruppi e ciascuno proponeva un illecito per la serata. Così. Come si propone un aperitivo o il cinema. Lui, Kevin, era noto fra gli amici per la particolare tendenza a «far saltare i denti», come si dicono fra loro. Agli atti ci sono telefonate disperate del «mediatore» — Mattia — per far credere al padre e alla fidanzata che lui ha semplicemente dato all’amico buttafuori il contatto dei due picchiatori ma non sapeva nulla dell’aggressione a Martina. Loro gli hanno creduto, gli inquirenti no.

Insistendo con le indagini gli uomini della Mobile di Alessandro Gallo avrebbero potuto allargare il quadro, arrivare al sedicenne, che invece si è costituito dopo l’arresto degli altri tre. Ma non era più possibile ascoltare e non intervenire. La notte fra il 20 e il 21 aprile la fidanzata di Laurini è di nuovo sotto attacco, dopo le botte nella Bmw. Stavolta finisce in ospedale con fratture scomposte a due costole. Mentre la porta al pronto soccorso lui la istruisce: «La caduta dalle scale è la stronzata che dice chi ha preso le botte in casa». Lei sta malissimo, ha un filo di voce: «Dico che il cane mi ha fatto perdere l’equilibrio e sono andata a sbattere». Lui: «E gli vuoi dire a casa mia? (...) Ma c’ho 72 mila denunce! E vabbè, mi vuoi far arrestare, vero? (...) Gli dici: so’ cascata oggi pomeriggio, ora mi veniva da piangere dal dolore (...) (...) questi lo capiscono che è una violenza domestica». Dopo averla operata e ricoverata, il medico le chiede conto delle ferite. Lei si inventa una scusa. Lui non può più inventarsi niente. Dopo poche ore lo arrestano.

Marzia Capezzuti.

Estratto dell'articolo di S. Ver. per “Il Messaggero” il 20 aprile 2023.

Marzia Capezzuti, giovane «fragile e vulnerabile», come la descrivono i pm, ha vissuto un vero inferno, culminato in un atroce omicidio. È lo scenario restituito dalle carte dell'inchiesta sulla scomparsa, e l'omicidio, della 29enne milanese: un delitto avvenuto poco più di un anno fa, nel marzo del 2022, nel Salernitano. 

I Carabinieri hanno arrestato ieri Damiano Noschese, la compagna Mariabarbara Vacchiano - sorella dell'ex fidanzato della vittima - e il loro figlio 15enne. Per la Procura ordinaria e per quella minorile di Salerno, avrebbero ucciso la giovane, occultandone il cadavere in un casolare abbandonato […]

I due genitori sono accusati anche di tortura, maltrattamenti, sequestro di persona e indebito utilizzo di carte di pagamento.  Marzia, che i procuratori Giuseppe Borrelli e Patrizia Imperato definiscono un soggetto vulnerabile per via di «un ritardo mentale di media gravità» e con alle spalle un passato complesso di istituzionalizzazione, era arrivata nel Salernitano nel 2017. 

Aveva trovato ospitalità in casa dei Noschese-Vacchiano in quanto legata sentimentalmente ad un componente del nucleo familiare, il fratello di Mariabarbara. Proprio la morte improvvisa e prematura del suo ragazzo, secondo gli investigatori, avrebbe fatto sorgere un forte astio nei confronti della giovane, ritenuta ingiustamente colpevole.

[…] 

Divenuta ospite «indesiderata», sarebbe stata sottoposta a maltrattamenti e torture «per punizione». Vacchiano e Noschese, inoltre, dopo averla isolata, si sarebbero impossessati della sua pensione d'invalidità, prelevandola ogni mese - come hanno ricostruito i carabinieri grazie ad un alert installato sul sistema di videosorveglianza dello sportello automatico - da settembre 2021 al giugno successivo. 

[…] a marzo 2022, quando la giovane scomparve nel nulla, i suoi genitori non sapevano nemmeno che fosse ancora a Pontecagnano Faiano in quanto, nell'estate 2021, era stata proprio Mariabarbara Vacchiano a comunicare loro che la ragazza si era allontanata insieme ad un fantomatico fidanzato. 

Agli atti dell'inchiesta c'è pure una confessione extragiudiziale, molto importante ai fini dell'inchiesta, fornita dal figlio 15enne della coppia nel corso di una videochiamata Instagram con la sorella. Il ragazzo, durante la conversazione, avrebbe fornito una descrizione delle modalità dell'omicidio e del luogo in cui sarebbe avvenuto.

[…] La giovane sarebbe stata portata via proprio dai tre indagati dalla casa di residenza, in piena notte. I successivi rilievi effettuati dalla scientifica ed il materiale biologico estrapolato da un dente rinvenuto sul pavimento vicino al cadavere, hanno consentito di appurare che si trattasse del corpo della ragazza. […]

Sara Ruschi.

Sara Ruschi. La paura di Sara e le minacce del marito in chat: «Ti taglio la gola». Poi il delitto davanti ai figli. Salvatore Mannino su Il Corriere della Sera il 16 Aprile 2023.

Arezzo, il sabato di Pasqua lei era stata dai carabinieri ma non aveva fatto denuncia 

Jawad Hicham, non parla davanti al Gip Giulia Soldini nell’udienza di convalida, resta ancora in silenzio dopo aver massacrato a coltellate la moglie Sara Ruschi e la suocera Brunetta Ridolfi, e resta in carcere. Ma parlano di lui e per lui le chat su Messenger fra Sara e un amico argentino, in cui lo stesso magrebino si inserisce minaccioso. Uno scambio di messaggi via Facebook, mostrato dal Tgr Toscana e già acquisito dalla squadra mobile cui sono affidate le indagini, che rafforza il quadro apparso evidente fin dal primo momento come movente del duplice omicidio di mercoledì notte: una tensione familiare e di coppia già degenerata oltre i limiti. 

«A te ti taglio la gola», scrive Hicham senza troppi giri di parola nella chat con il confidente argentino della moglie, «Io non picchio le donne ok». Pare un riferimento evidente alle frasi che prima lei aveva affidato a Messenger, dalle quale traspare una rottura ormai chiara. Sara lo chiama «ex», come a dire di una storia già finita, e racconta di aver già fatto i suoi passi per cacciarlo di casa o ottenerne l’allontanamento giudiziario. «Non posso semplicemente buttarlo fuori, se lui va alla polizia sono obbligata a farlo entrare in casa». 

La compagna del magrebino confida poi all’argentino di essere andata dai carabinieri, dove le hanno detto che «senza un referto o un livido» è difficile ottenere una misura del giudice. «Ma questa è casa mia, non me ne vado solo per far uscire lui». Fonti dell’Arma confermano poi che lei il sabato di Pasqua era andata in caserma, ma per raccontare non botte bensì un’intrusione di lui nel suo telefono. Poi si era sfogata con un militare amico che l’aveva consigliata su come muoversi. I carabinieri «verranno e lasceranno una dichiarazione per fargli paura». 

Situazione esplosiva, poi sfociata nel doppio accoltellamento in casa, coi figli addormentati e svegliati dal putiferio. «Quando siamo arrivati — racconta un testimone privilegiato della scena del delitto — il figlio sedicenne stava correndo per le scale, con la sorellina di due anni in braccio: Salvate mia madre, è ancora viva, ci ha detto». In effetti, Sara è sul letto, massacrata dalle coltellate al petto e alla schiena, come Brunetta, riversa nella stessa camera, vicino alla porta. L’adolescente dirà poi, come spiega il fratellastro di Sara che ci ha parlato, che lui è stato svegliato dalla nonna agonizzante. Persino il ragazzo era stato testimone della violenza del padre: la picchiava, le aveva pure cancellato la memoria dal cellulare. «Non me ne frega niente se non ha parlato col giudice — dice il fratello Roberto Ruschi — non voglio vederlo mai più. Basta che gli diano l’ergastolo»

Isabella Linsalata.

L’ ipotesi che l’omicida l’abbia testato sulla suocera. Isabella Linsalata, un mix di farmaci letale come ‘arma perfetta’ dietro la morte della moglie del medico. Elena Del Mastro su L'Inchiesta il 15 Aprile 2023 

Dietro la morte di Isabella Linsalata, ginecologa, 62 anni, ci sarebbe un mix letale di farmaci. Un’arma subdola ma “perfetta” di cui difficilmente si sarebbe potuta trovare traccia. Un potente sedativo mescolato a un anestetico che avrebbero prima reso inerme la vittima, per poi ucciderla una volta priva di difese. Sarebbe questa l’arma che per l’accusa avrebbe usato Giampaolo Amato, oculista bolognese di 64 anni, per uccidere sua moglie Isabella nella notte tra il 30 e il 31 ottobre 2021. E per questo motivo il Gip ha firmato per lui un’ordinanza di custodia cautelare in carcere. Il medico ha però respinto ogni accusa: “Mi sono innamorato di un’altra donna, ma non ho ucciso Isabella”, ha detto.

Come ricostruito da Repubblica, nell’ordinanza si legge che l’uomo sarebbe stato spinto da un “inconfessabile desiderio” di rimuovere l’ostacolo per una sua nuova relazione di cui Isabella avrebbe confessato a un’amica di essere al corrente. Così avrebbe premeditato l’omicidio che sarebbe stato commesso con un’arma insolita e “quasi” perfetta perché a occhio nudo non avrebbe dovuto lasciare traccia. Ma l’autopsia ha rivelato nel corpo di Isabella le due sostanze: i figli hanno preferito consentire le analisi per rintracciare eventuali problemi genetici ereditari e così è venuta fuori la terribile verità. Amato è accusato di omicidio aggravato dalla premeditazione, peculato e detenzione illecita di sostanze psicotrope.

Nel corpo di Isabella c’erano tracce del sedativo e dell’anestetico che solo qualcuno con una salda cultura scientifica poteva conoscerne gli effetti mortali. Secondo il Gip le sostanze sarebbero state sottratte nei giorni precedenti da uno degli ospedali dove l’indagato lavorava. Un “gioco da ragazzi”, per un medico, dato che per nessuno dei due farmaci sono previsti rigidi controlli in entrata e in uscita previsti per le sostanze psicotrope e stupefacenti. Tanto che non sono stati dimostrati gli ammanchi. L’ipotesi al vaglio degli investigatori è che Amato possa aver messo nel vino e nelle tisane a sua moglie il potente ansiolitico che si usa solitamente quando un paziente deve essere intubato e tra gli effetti c’è anche la perdita temporanea della memoria. Isabella aveva raccontato a sua sorella e ad alcune amiche di non ricordare cosa le fosse accaduto la sera prima e di aver ceduto al sonno all’improvviso, dopo aver bevuto un bicchiere di vino offertole dal marito che lui però non aveva bevuto. L’ipotesi è che una volta bevuto il vino, poi il marito le avrebbe fatto inalare l’anestetico, sempre per esclusivo uso ospedaliero, che si presenta in forma liquida. E così Isabella sarebbe morta.

Amato ha sempre respinto tutte le accuse: “Non ho mai avuto il possesso di farmaci di quel tipo – ha ribadito Giampaolo Amato nel corso del primo interrogatorio – non uso nel mio ambito lavorativo farmaci di questo tipo”. L’uomo è indagato anche per la morte della mamma di Isabella, Giulia Tateo, scomparsa 22 giorni prima della vittima. Le analisi sul suo cadavere sono risultate positive al sedativo, e hanno sollevato il sospetto della presenza dell’anestetico nel prelievo del polmone. L’ipotesi è che il medico possa aver “provato” l’inedita arma del delitto prima sulla suocera. Poi c’è l’ipotesi dell’omicidio per vendetta ordito da Isabella, per incastrare il marito che la tradiva. Ipotesi che per il gip “risulta del tutto farneticante”. Anche perché è difficile immaginare che la donna, dopo aver assunto quelle sostanze, sia riuscita a gettare via le confezioni. Inoltre Isabella “era profondamente religiosa e particolarmente serena in quel periodo”, teoria confermata anche da alcuni amici che nell’ultimo periodo l’avevano vista meglio.

Elena Del Mastro.

Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Estratto dell'articolo di Luca Muleo per corriere.it l’11 aprile 2023.

Un medico di 64 anni, Giampaolo Amato, è stato arrestato dai carabinieri di Bologna con l'accusa di aver ucciso la moglie 62enne, il 31 ottobre del 2021, con un mix letale di calmanti e anestetici. Quel giorno era stato proprio l'uomo a dare l'allarme chiamando il 112 e i sanitari. Il professionista è molto noto in città poiché per sette anni ha collaborato con la squadra di basket della Virtus.

 Indagini durate due anni e l'accusa: «Benzodiazepine  alla moglie»

I militari hanno eseguito un provvedimento di custodia cautelare in carcere con l'accusa di omicidio, peculato e detenzione illecita di farmaci psicotropi. Le indagini, durate due anni, hanno evidenziato nelle cause del decesso una somministrazione dolosa di benzodiazepine e di un particolare anestetico ospedaliero.

 Anche lei era una dottoressa: lui ha lavorato con la Virtus

Il medico arrestato, specializzato in oftalmologia e medicina dello sport e già medico sociale della Virtus Pallacanestro, dal 2013 al 2020. La moglie, anche lei medico, si chiamava Isabella Linsalata ed era specialista in ginecologia e ostetricia.

[…] I sanitari constatarono il decesso, inizialmente attribuito a cause naturali.

 Durante le stesse indagini sarebbe emerso che già alcuni anni prima la donna potrebbe essere stata oggetto di altre somministrazioni di benzodiazepina a sua insaputa, che si suppongono riconducibili al marito e mai denunciate, e che le avevano causato episodi di malessere e di narcolessia. […]

Estratto dell'articolo di Andreina Baccaro per il "Corriere della Sera" il 12 aprile 2023.

Un medico molto conosciuto in città, un professionista stimato che trova la moglie, medico anche lei, priva di sensi in casa. Chiama il 118, che però non può che constatarne il decesso. Un copione già visto molte volte: sembrava, o poteva sembrare, una morte naturale. Invece gli esami tossicologici sulla salma rivelano dosi massicce di benzodiazepine e un anestetico ospedaliero, il Sevoflurano, nei polmoni di Isabella Linsalata, 62enne medico bolognese deceduta il 31 ottobre 2021.

 Sabato, a quasi due anni dai fatti, i carabinieri del nucleo investigativo di Bologna hanno arrestato il marito Giampaolo Amato, specializzato in Oftalmologia e Medicina dello sport, per anni medico della Virtus, una delle due squadre di basket della città. Il pm Domenico Ambrosino gli contesta l’omicidio aggravato, il peculato e la detenzione illecita di farmaci psicotropi.

Sarebbe stato lui a somministrarli alla moglie (da cui ha due figli, entrambi maggiorenni) a sua insaputa. Un sistema sofisticato per ammazzarla senza lasciare traccia […] Le indagini hanno ricostruito che già negli anni passati la donna aveva accusato malesseri e narcolessia che, ipotizza l’accusa, potrebbero essere stati causati sempre dalla somministrazione dolosa di farmaci psicotropi da parte del marito.

 Quel sospetto, del resto, lo avevano in molti: le amiche di Isabella, la sorella, che nel 2019, trovandola in casa stordita con il marito, porta via una bottiglia di vino che l’uomo aveva lavato prima di buttare nel pattume. L’ha consegnata ai carabinieri dopo la morte di Isabella e dalle analisi del Ris è risultata positiva alle benzodiazepine. Ma le accuse non finiscono qui: Amato risulta indagato anche per la morte della suocera, deceduta nel sonno solo 22 giorni prima della figlia, nella sua abitazione adiacente a quella dei coniugi Amato-Linsalata.

Dopo il ritrovamento delle sostanze tossiche nella salma di Isabella, sono stati eseguiti gli esami anche su quella dell’anziana madre, risultata positiva anche lei alle benzodiazepine e allo stesso anestetico che ha ammazzato la figlia.

 […] A spingere Amato sarebbe stata l’impossibilità a gestire una doppia relazione: quella con la moglie con cui, seppure separati in casa, c’era stato un riavvicinamento. E quella con un’alta donna, più giovane, conosciuta nel 2018.

Isabella aveva scoperto tutto nel 2019, da lì erano iniziati i continui litigi tra i coniugi. In quel periodo erano cominciati anche degli strani malesseri per Isabella, sempre intontita, narcolettica, anche quando era tra la gente. Lei stessa a un certo punto aveva confessato alle amiche di temere che il marito le stesse somministrando qualcosa nelle tisane troppo amare che le preparava dopo cena. […]

Estratto dell’articolo di Luca Muleo per il "Corriere della Sera" il 12 aprile 2023.

[…]

Ieri, a Bologna, dove è notissimo non solo nell’ambiente cestistico, erano tutti letteralmente sconvolti. Increduli.

Gli unici aggettivi usati da chi lo conosceva. […]

Di stanza all’ospedale Maggiore e a Porretta Terme, nei giorni duri del Covid era stato tra i primi a «partire» volontario per il nascente reparto dedicato all’ospedale Bellaria. In trincea insieme ad altri reclutati con diversi curricula e formati per l’emergenza.

  Aveva parlato di «un’esperienza incredibile sul piano umano e professionale» nonostante la comprensibile paura di quei mesi. «Già sei preoccupato per te e i tuoi cari, speri di farcela e vedi qualcun altro che non sopravvive. È dura», diceva. Assolutamente insospettabile, «sempre sembrata la persona più buona del mondo», raccontano in città. Nessuno, nemmeno per battuta, avrebbe avuto il coraggio di azzardare qualcosa su di lui dopo i decessi in famiglia.

Il basket e la gloriosa squadra bianconera, le passioni di una vita. Oculista di professione, ma esperto e pronto a un consiglio spesso illuminante su qualunque altro ramo medico, viaggiava tanto, anche all’estero, per lavoro, ma cercava di organizzarsi così da essere accanto alla sua squadra del cuore.

 Pure in giro per l’Europa. Esplosa la pandemia, interrotta la stagione della serie A italiana, la nuova dirigenza della Virtus aveva fatto altre scelte per lo staff medico, e Amato viveva molto male la lontananza dalle V nere, da quello spogliatoio di cui si sentiva parte integrante, con la canotta virtuale addosso sopra alla giacca.

Giampaolo Amato, il medico della Virtus arrestato, «uccise la moglie Isabella Linsalata per stare con l’amante». Nel corpo della suocera le stesse sostanze. Andreina Baccaro, Luca Muleo su Il Corriere della Sera il 12 Aprile 2023

Amato, oculista ed ex medico Virtus, arrestato per l’omicidio della ginecologa. Indagato anche per la morte della suocera. I sospetti della sorella. Lui: sono innocente

L’accusa per Giampaolo Amato, oculista in servizio al Maggiore e a Porretta, molto noto in città, è gravissima: aver ammazzato la moglie somministrandole benzodiazepine e sevoflurano, un anestetico ad uso ospedaliero. Da sabato l’ex medico sociale della Virtus si trova in carcere con l’accusa di omicidio aggravato, peculato e detenzione illecita di farmaci psicotropi. 

L'inchiesta

Le indagini sono scattate quando, il 31 ottobre 2021, la moglie Isabella Linsalata, 62 anni medico anche lei, viene trovata morta in casa proprio da lui, che da qualche tempo si è trasferito a vivere nel suo studio al piano inferiore dopo che il matrimonio si è incrinato a causa della sua relazione extraconiugale con una donna più giovane. Una relazione iniziata nel 2018 e che aveva procurato non poche sofferenze alla vittima e ai figli, tanto che Isabella aveva dovuto fare una diffida all’altra donna che aveva preso a inviarle mail con le chat tra lei e il marito. Ma negli ultimi tempi tra i due coniugi c’era stato un riavvicinamento e, ipotizza il gip, il movente dell’uxoricidio sarebbe da rintracciare proprio nella sua «incapacità di prendere una decisione definitiva», perché «intrappolato in un vicolo cieco». 

«Ossessionato»

Ma Amato, scrive il giudice: «Ha agito perché ossessionato dall’impossibilità di vivere liberamente la propria storia d’amore con la giovane amante, ostacolato com’era dal suo matrimonio con la non più giovane moglie». E nondimeno, si legge nelle carte, «vi sono fondate ragioni per sostenere l’esistenza di un concreto ed attuale pericolo per la reiterazione di reati analoghi», vista la disponibilità di farmaci dovuti alla professione svolta. La sera del 30 ottobre 2021 la vittima è rincasata intorno a mezzanotte e il marito è salito da lei, in base alla sua versione, per controllarle un problema all’occhio. È dunque l’ultimo ad averla vista viva prima che al mattino dopo venga ritrovata cadavere nel letto proprio da lui, allertato dalle amiche e dalla cognata alle quali la ginecologa non rispondeva al telefono. La donna è stata ritrovata con un abbigliamento succinto che non era sua abitudine indossare per dormire. 

I sospetti dei figli

Secondo gli inquirenti Amato le avrebbe fatto inalare l’anestetico dopo averle somministrato a sua insaputa benzodiazepine, conoscendo perfettamente l’esito letale che il mix di farmaci avrebbe avuto, peraltro senza lasciare traccia. Ma quando i figli e la sorella di Isabella chiedono che sia fatta l’autopsia insospettiti perché anche la nonna è morta nel sonno solo venti giorni prima, gli esami tossicologici fanno partire le indagini che puntano subito verso il marito. Perché già nel 2019, in concomitanza con la fase più burrascosa della relazione tra il medico e la giovane amante,la moglie aveva avvertito dei malesseri che la lasciavano intontita e in stato catatonico. 

Quelle tisane troppo amare

Tanto che sia lei che le amiche e la sorella avevano temuto che il marito le stesse somministrando qualcosa nelle tisane che le preparava dopo cena. La dottoressa Linsalata si era accorta e aveva confidato a qualcuno che erano troppo amare. Una sera di maggio 2019 la sorella va in casa sua e la trova come ubriaca, non riusciva a lavarsi e vestirsi per la notte, tanto da dover essere aiutata dal marito. Insospettita, porta via la bottiglia di vino che avevano bevuto a cena e che Amato, inspiegabilmente, aveva lavato prima di gettare nel pattume. Dopo l’apertura dell’inchiesta per la morte della 62enne, la sorella ha consegnato la bottiglia ai carabinieri: dalle analisi del Ris è risultata positiva alle benzodiazepine trovate anche nel sangue della vittima. 

Ma l’elenco degli indizi inquietanti non finisce qui: Amato è indagato anche per la morte della suocera. Anche lei, si è scoperto ora, è risultata positiva alle benzodiazepine e al sevoflurano. Ma in questo caso gli inquirenti sono cauti e sono necessari ulteriori accertamenti per capire se i farmaci non fossero stati assunti dietro prescrizione e soprattutto se abbiano causato la morte. Amato, difeso dagli avvocati Gianluigi Lebro e Cesarina Mitaritonna che hanno fatto istanza al Riesame, si è sempre dichiarato innocente. È stato sentito nel corso della indagini ribadendo la sua versione: «Non ho ammazzato nessuno». Ieri davanti al gip si invece è avvalso della facoltà di non rispondere. Per il gip, invece, ha «ideato e maturato con freddezza il delitto».

Andreina Baccaro per il “Corriere della Sera” il 13 aprile 2023.

Anche la giovane amante del medico finito in carcere con l’accusa di aver ucciso la moglie, correva il «concreto rischio di subire una sorte analoga». Sono parole del giudice delle indagini preliminari di Bologna Claudio Paris nell’ordinanza che ha disposto l’arresto di Giampaolo Amato, il medico 64enne bolognese che avrebbe somministrato alla moglie Isabella Linsalata, 62 anni ginecologa e medico di base, trovata morta nella sua casa a Bologna il 31 ottobre 2021, un mix letale di benzodiazepine e sevoflurano, anestetico ad uso ospedaliero. Per il gip Claudio Paris, Amato era pericoloso, preso com’era tra quel «desiderio irrefrenabile» di vivere la sua storia extraconiugale con una donna più giovane, conosciuta nel 2018.

Persino la giovane amante, dopo la morte della dottoressa e l’apertura dell’inchiesta a carico del marito, inizia a temere per la propria incolumità: «Ma secondo te, ci dobbiamo veramente iniziare a pensare, questo qua fuori di testa può aver fatto qualcosa quella sera?» confida ad un’amica in una conversazione intercettata ad aprile 2022.

 E ancora: «Questo riesce ad essere un pazzo furioso, ma davvero noi siamo convinti che lui... non si sia fatto venire un momento di delirio, perché io in quel periodo non gli rispondevo più al telefono, non ci sentivamo più». Per gli inquirenti i sospetti della donna sono importanti riscontri a quella personalità «narcisistica» di cui ormai anche l’amante si era accorta.

Anche la vittima, del resto, aveva iniziato a sospettare del marito almeno due anni prima della sua morte.

Nel maggio del 2019, dopo aver scoperto che la relazione extraconiugale continuava nonostante le promesse, Isabella aveva iniziato ad avvertire strani malesseri, addirittura episodi di narcolessia e ne aveva parlato con le amiche.

 Tre donne, tra cui la sorella, rivelatesi fondamentali per le indagini: una spinge Isabella a sottoporsi ad esami delle urine quando l’amica le confida il timore che il marito possa somministrale qualcosa nelle tisane che le prepara la sera. Subito dopo «la terribile scoperta», come confiderà alla sua dottoressa: dosi massicce di benzodiazepine nel suo corpo. Isabella capisce ma non denuncia, nonostante confidi ad un’altra amica «ho a che fare con uno psicopatico». Però consegna il referto all’amica che lo conserva fino alla sua morte.

Poi la sorella: una sera del 2019, trovando Isabella in casa come ubriaca e intontita, porta via la bottiglia di vino che il marito le ha fatto bere a cena e poi ha lavato accuratamente prima di buttare via.

Anche lei l’ha conservata e consegnata ai carabinieri del nucleo investigativo. Le analisi, a distanza di un anno e mezzo, hanno rivelato tracce di benzodiazepine anche sulla bottiglia: per l’accusa anche i passati malesseri della donna dipendevano dalle sostanze che il marito le somministrava […]

Estratto dell'articolo di Mirco Paganelli per “Il Messaggero” il 13 aprile 2023.

Potrebbe aver ucciso, oltre alla moglie, anche la suocera morta appena 22 giorni prima della figlia. […] L'anziana donna era stata trovata senza vita nel suo letto in un appartamento comunicante con quello dei coniugi. Le prime analisi sulla sua salma hanno dato esito positivo al sedativo ospedaliero midazolam, e si sospetta anche la presenza del sevoflurano, un anestetico. Le stesse sostanze che hanno provocato la morte di Linsalata e che, in base alle indagini, le sarebbero state somministrate clandestinamente dal marito.

[…]

Moglie e figli scoprono presto la seconda vita di Amato, che si trova così di fronte a «dolorosissime decisioni» - come le definisce il giudice - diviso tra famiglia e passione. «Infelice e pericoloso», sviluppa il «morboso desiderio della propria amante». Solo che quest'ultima decide di lasciarlo perché si è fatto ossessivo, gli dà dello «psicopatico» rinfacciandogli di averle messo le mani addosso più volte. «Sei diabolico e pericoloso, non ti amo più», gli dice. È forse per la paura di perdere la giovane fiamma che Amato decide di rimuovere l'unico vero ostacolo alla realizzazione del suo sogno?

[…] secondo il giudice non è da escludere un secondo movente, quello economico. Amato, infatti, non avrebbe guadagnato molto da un divorzio, dato che non aveva intestati a sé né la prima casa, né quella in campagna. E tre giorni prima dell'uccisione, la moglie decide di parlare con la figlia della successione. Teme qualcosa? «Si dava quasi per scontato che mia madre dovesse venire a mancare di lì a poco, come poi è successo», racconterà la giovane più tardi. […]

Ispettore Delly. Certi casi di cronaca nera rendono gli autori di opere di finzione del tutto inadeguati. La storia dell’oculista bolognese forse uxoricida supera in corsia d’emergenza romanzi e serie televisive noir. Guia Soncini su L’Inkiesta il 13 Aprile 2023

I tortellini sono molto sopravvalutati, e soprattutto li fanno ovunque. L’accoglienza e l’integrazione e il progressismo sono evidenti balle: a Bologna c’è una quantità di mendicanti e gente che dorme per strada che neanche a Los Angeles. L’unico vero, incontrovertibile primato locale è: abbiamo i migliori casi di cronaca nera.

A sessant’anni quasi esatti (era il marzo 1963) dal caso Nigrisoli, la vita – che come sappiamo è non solo sceneggiatrice, ma fa anche mobbing ai poveri sceneggiatori di opere di finzione, sempre superati in corsia d’emergenza dalla realtà – ci fornisce un altro medico forse uxoricida.

Le centocinquanta pagine con cui il gip dispone l’arresto d’un oculista sessantaquattrenne – che nell’ottobre 2019 avrebbe ucciso la moglie, anche lei medico, dopo aver per molti mesi tentato di avvelenarla con anestetici disciolti in bottiglie di Nero d’Avola o in tisane – sono il grande romanzo che Fruttero&Lucentini si sarebbero divertiti moltissimo a scrivere, fin nei dettagli: la defunta dottoressa di cognome faceva Linsalata – uno dei particolari in cui la vita non si cura della verosimiglianza, uno dei tocchi che rendono gli autori di opere di finzione del tutto inadeguati.

Dunque abbiamo un dottore con un’amante. Abbiamo una moglie, anch’ella medico, che verrebbe avvelenata giacché, ricopio da una delle parti più da romanzo di Delly del verbale, il marito «non riesce ad astenersi dal suo proposito omicidiario, in preda com’è a quell’irrefrenabile e morboso desiderio della propria amante».

I romanzi di Delly d’altra parte paiono consoni alle trascrizioni dei messaggi tra il presunto assassino e la presunta amante. Consapevole della scarsa accuratezza con cui nei verbali vengono trascritti gli scambi di messaggi, e della totale mancanza di senso del tono che governa i tribunali, ricopio uno dei messaggi di Lui all’Altra (mesi prima del decesso della moglie) pregando i lettori di considerarla letteratura e non cronaca giudiziaria. Maiuscole come da verbale e quindi – forse – da afflato poetico del mittente: «Amore scusami Ma l’Amore per Te mi fa dimenticare che mi hai smollato e Ti sei chiamata fuori. E quindi l’Amore stesso, il Desiderio, il Pensiero e tutto il resto corrono a Te Come Sempre Te che da Sempre sei l’oggetto dei miei pensieri Più Belli e dei progetti più importanti». Ma anche «Entrambi abbiamo captato della magia reciproca».

Diceva Fernando Pessoa che tutte le lettere d’amore sono ridicole, non sarebbero lettere d’amore se non fossero ridicole; e non sapeva, Pessoa, cosa sarebbe successo con la messaggistica istantanea, roba che le lettere in confronto erano il livello Cern della comunicazione. Né sapeva che sarebbe arrivato il momento in cui mi sarebbe toccato leggere, in un documento giudiziario, che c’è una circostanza che avrebbe verosimilmente spinto il marito al gesto inconsulto: l’amante l’aveva bloccato su WhatsApp.

Sempre con tutta la tara che va fatta alle trascrizioni e a comunicazioni private che leggiamo senza conoscerne i codici interni, mi piace molto anche la parte Alex Forrest in cui l’Altra scrive «Mando anche qualche vocale a tua figlia? Anche a tua moglie potrebbero molto piacere forse».

Non ci sono solo le parti in cui il verbale sembra scritto dai fratelli de la Rosière; o quelle in cui è un rifacimento di “Attrazione fatale”; non ci sono solo i dialoghi da “Cime tempestose” figli di questo tempo in cui i sessantenni hanno l’emotività dei quindicenni, «Non ti scrivo per scompensarti Giampaolo, ti scrivo per liberarti da dubbi e problemi atroci. Tu sei stato la “cosa” più bella della mia vita ma da un po’ non lo sei più, da troppo ormai», «Non mi hai scritto x scompensarmi. Mi hai semplicemente affossato ed ucciso»; ci sono anche quelle in cui fa rivoltare Calvino nella tomba: i testimoni non vengono interrogati ma «escussi».

Ma la linea autorale Delly prevale, nel chiosare pagine e pagine di scambi WhatsApp – di fronte ai quali il contribuente medio si chiede solo: ma questo disgraziato sarà stato di guardia? cioè io vado a farmi visitare in ospedale e, come fosse una puntata di “Grey’s Anatomy” ma senza le intuizioni diagnostiche geniali, il medico di turno sta pensando ai suoi amorazzi come avesse sedici anni invece di sessanta? – con le parole d’un magistrato che da grande voleva evidentemente fare il librettista d’opera: «Sicché – deve sottilinearsi – è un uomo infingardo, frustrato e braccato quello che siede a tavola con Linsalata quella sera».

I dettagli di questo verbale, se volete il mio parere per l’avvio d’una produzione televisiva, richiedono più stagioni. Lo sceneggiato includerebbe anche l’uccisione della suocera, ragione per cui l’oculista è stato arrestato tre anni e mezzo dopo la morte della moglie. Perché, se prima di far fuori la moglie ha fatto fuori pure la suocera, c’è l’eventualità di commettere nuovamente il reato; e perché i tempi di reazione della giustizia italiana sono quelli di tendini mozzi.

La perquisizione a casa dell’oculista viene fatta a marzo 2020 (la morte della Linsalata è dell’ottobre 2019), e il verbale, invece di dire «non abbiamo trovato anestetici perché anche il più fesso in cinque mesi si libera dell’arma del delitto», riporta trionfalmente di aver trovato ibuprofene e Toradol con dicitura «per uso ospedaliero»: se tutti i medici che si servono delle forniture ospedaliere come fossero la loro farmacia gratuita fossero assassini, cari inquirenti che evidentemente non avete un amico medico che sia uno, l’intero ordine dei medici sarebbe in galera per omicidio.

C’è anche, lo dico per un’eventuale puntata autoconclusiva di denuncia civile, la questione della raccolta differenziata. Quando la Linsalata dice alla sorella che il vino che le ha dato il marito era molto amaro, e sospetta lui la stia avvelenando, quella recupera la bottiglia dal bidone del riciclaggio in balcone e la fa analizzare. Vengono sì rinvenute tracce di benzodiazepine, ma la sceneggiatura potrebbe un po’ forzare enfatizzando un dettaglio di cronaca: la bottiglia era stata lavata, come dev’essere per le bottiglie che vanno nella raccolta del vetro. Nella finzione scenica, le tracce di benzodiazepina sarebbero sparite non per piano delittuoso ma per essere ligi alle normative bolognesi sulla raccolta di rifiuti.

Lo sceneggiato richiederebbe molte puntate, e alcune minuzie farebbero invocare tutti i premi possibili per gli sceneggiatori, che in realtà si sarebbero limitati a ricopiare i dettagli di cronaca. Magari a buttar lì l’ipotesi che, come già si sospetta per il caso Nigrisoli (evidente ispirazione di Gillian Flynn nella scrittura di “Gone Girl – L’amore bugiardo”), la defunta si sia suicidata facendo in modo che gli indizi incastrassero l’insopportabile marito.

Ma, soprattutto, a portare sullo schermo dettagli fattuali insuperabili, particolari che nessuna fantasia di sceneggiatore azzarderebbe. I famigliari sospettano l’omicidio perché Linsalata viene trovata a letto in reggiseno e mutande, mentre lei di solito usava il pigiama. «Nella coppa sinistra del reggiseno indossato da Linsalata venivano trovate: un santino in tessuto marrone con cordino raffigurante un’immagine sacra e, sempre sul reggiseno, fissate con delle spille da balia, due medagliette con immagini sacre in metallo chiaro». Tutti gli uxoricidi bolognesi si somigliano, ma alcuni hanno lo stesso costumista della moglie del Gattopardo.

 Julia Elle.

Julia Elle, gli sms violenti dell’ex Paolo Paone e la bugia sul figlio: «Mi picchiava e mi obbligò a mentire».  Candida Morvillo su Il Corriere della Sera l’11 Aprile 2023

L’influencer da circa due milioni di follower, nota per la web serie «Disperatamente mamma», il caso della paternità e le critiche dei fan: «Credevo di non avere scelta»

La ragazza spaventata che volta il viso verso la finestra per riuscire a rispondermi e insieme a trattenere le lacrime si chiama Julia Elle: 34 anni, tre figli, cinque libri pubblicati con Mondadori, quasi due milioni di follower che dal 2016 hanno adorato la sua web serie «Disperatamente mamma», e un fatturato in crollo da 400mila euro a zero, perché il popolo dei social, come le aziende che sponsorizzano le influencer, conoscono un solo linguaggio: pollice su o pollice giù.

Questa è la sua prima intervista dopo un caso mediatico che dura da settembre. Tutto precipita quando l’ex compagno, Paolo Paone, produttore discografico, scrive su Instagram che quella narrazione di giovane madre felice con famiglia ormai allargata e nuovo marito è una farsa, perché il secondo figlio non era suo, non era nato da un ritorno di fiamma di una notte, come Julia aveva raccontato in un libro. Dopodiché, la accusa di essere tutta una bugia e di non fargli vedere i bambini. Ma quando Julia risponde in un breve video che Paone era violento e che lei è dovuta scappare di casa dopo che le aveva puntato un coltello alla gola davanti ai figli, molti follower e aziende non le credono.

La grammatica digitale prevede solo che si creda vera la finzione. Julia ha lunghi capelli castani, il viso pallido. Leggo alcuni WhatsApp di Paone consegnati al tribunale . «Muori». «Megera di me…a». «Me la paghi». «I calci nel cu…o che ti meriti nessuno lo sa». «Quella guasta sei tu, Julia». «Malata mentalmente». «Pagherai di non essere umile e gentile». «Pagherai tutto, sai quanto sopporto io di te per avere la parvenza davanti a nostra figlia che io non voglia ammazzarti. Non hai idea». «Domani ti insulto ancora e dopodomani anche». «Ogni giorno, fin quando vivrai». «Anzi, mi è venuta un’idea figa per farti smettere di lavorare. Vedrai come mi diverto». «Quando si parla di violenza sulle donne, per te non dovrebbe valere».

E no, non è che Julia risponda male e istighi rabbia. Julia o non risponde o scrive «per favore, qualunque cosa tu voglia dirmi, qualunque insulto, fallo quando non ci sono i bambini» oppure «ti prego, ne riparliamo quando ti sei calmato».

Ora, Julia si guarda la punta dei piedi, come se sentisse ancora sulle spalle incurvate la morsa del male. Tace. L’avvocato Annamaria Bernardini de Pace la incita a raccontare tutto, come ha fatto con lei, che sta seguendo la causa civile contro Paone per l’affidamento e la gestione della figlia.

Partiamo dalla bugia. Perché ha raccontato che il secondogenito era di Paone?

«Quando mi hanno chiesto il primo libro, era il 2017 e venivo da quattro anni drammatici» (l’avvocato: «Di violenza fisica, mentale, economica», diglielo). «Di fatto, ero sola con due bambini piccoli. Scrivere era il mio sogno ed ero felicissima, ma quando ho capito che dovevo raccontare la mia vita, ero disperata. Avrei dovuto dire: il libro non lo scrivo. Invece, l’ho scritto edulcorato. Ho sbagliato, chiedo scusa a tutti, l’ho gestita male. Però il libro era l’esito di tutto il mio investimento in tempo e denaro. E quando ne avevo parlato a Paolo, mi aveva detto: scrivilo, basta che parli bene di me e dici che il maschietto è mio. Questo anche se l’ho concepito con un altro, quando ci eravamo già lasciati, ma lui temeva di passare per uno che era stato tradito».

Mi sono già persa. Ripartiamo dall’inizio.

«Nel 2013, facevo la cantante, conosco Paolo in uno studio di registrazione. L’ho visto suonare e mi sono innamorata. Il primo mese e mezzo, non mi ha trattata male. A giugno, resto incinta: ero felice, ma lui mi ha chiesto di abortire. Non ho voluto e siamo andati a vivere insieme e, da lì, è diventato un altro. La violenza è stata un crescendo. Ha iniziato che urlava. Poi, urlava e mi insultava. Poi, urlava, mi insultava e mi minacciava. Ogni volta, era sempre peggio e, ogni volta, io tolleravo un pochino in più. Facevo in tempo a credere alle sue scuse e poi ricominciava tutto. E io restavo anche per la parte bella della nostra relazione».

Lui nega di averla picchiata. Quale sarebbe la prima volta?

«Ero incinta, era estate, faceva caldissimo, stavo avendo un calo di pressione. Il mio cane, Honey, ha fatto un bisogno in giardino, Paolo si mette a urlare: pulisci immediatamente. Io dico: non mi sento bene, dammi un attimo. Mi sono alzata, sono svenuta. Mi sono svegliata con lui che mi dava un calcio. Dopo, sono andata al pronto soccorso. Dicevo: non sento più il bambino, non lo sento. Ma non ho detto cos’era successo. Dopo le botte, lui poi chiedeva sempre scusa, ma diceva che ero sbagliata io, che se avessi smesso di fare cose che lo facevano arrabbiare, lui sarebbe stato diverso. E io gli credevo».

Lei ha detto su Instagram di essersi rivolta a un centro antiviolenza, circostanza messa in dubbio da molti, dopo che non ha voluto rivelare a Selvaggia Lucarelli qual era il centro.

«Paolo ha scatenato una campagna denigratoria contro di me. Ha sempre minacciato di rovinarmi, distruggermi. Lucarelli è rappresentata dall’ex socio e migliore amico di Paolo, Francesco Facchinetti, per cui, se hanno creduto a Paolo, ci sta. Spero che, leggendo questa intervista, cambino idea. Intanto, il mio penalista ha denunciato Paolo e alcune persone a lui vicine per bullismo. Comunque, il centro antiviolenza è il Cadmi di Milano. Mi diedero il numero due persone che collaboravano proprio con quell’agenzia. Era il 2015, avevano dormito per un paio di giorni da noi: mi hanno portata al bar e mi hanno dato il numero. La prima cosa che ho pensato è stata: come lo avete capito? Paolo, davanti a loro, non era stato violento fisicamente, ma evidentemente, aveva fatto cose che io tolleravo e che, viste da fuori, erano intollerabili».

Quando ha chiamato il Cadmi?

«Ci ho messo un po’: Paolo, che ha lo studio in casa, mi controllava, non potevo uscire, non potevo parlare con nessuno».

Non era libera nemmeno di fare la spesa?

«Dovevo portargli lo scontrino con l’orario di uscita. Infatti, ho chiamato il Cadmi mentre tornavo a casa dal supermercato. Il problema è stato quando gli operatori mi hanno chiesto di incontrarli in sede: a Paolo, ho dovuto dire che uscivo per lavoro perché, spesa a parte, l’unica eccezione per uscire era se portavo i soldi a casa. Quella volta, però, sapevo che i soldi non sarebbero arrivati e che, dopo, avrei dovuto trovare un’altra scusa».

E lui come poteva accorgersi del mancato incasso?

«Tutto quello che guadagnavo andava sul suo conto. A me, ripeto, sembrava normale, infatti, al Cadmi vado e chiedo di aiutare lui: hanno impiegato tanti incontri a farmi capire che la mia non era una vita normale e che ero io a dover essere aiutata» (l’avvocato Bernardini de Pace: diglielo che spendeva per drogarsi. Diglielo che gli hai dovuto prendere i soldi dal portafogli per comprare il latte ai bambini e che lui si è messo a urlare perché così non poteva pagare l’hashish. Diglielo che abbiamo chiesto al giudice che vada al Sert e che, fino a perizia psicologica, veda la figlia solo in ambiente neutro e che il giudice ha accolto tutte le nostre richieste e che lui dovrà fare gli esami tossicologici per almeno dodici mesi»).

Julia?

«Diceva che coca e hashish gli servivano per fare musica. Riuscire a dirgli “non pensarti più come mio compagno” è stato difficilissimo, ce l’ho fatta solo a marzo 2016, ma sono rimasta a casa: non avevo abbastanza soldi per andarmene. Nella mia ingenuità, c’era pure l’idea di poterci volere bene, ma la sua reazione è stata: se mi lasci, mi devi ridare i soldi che ho speso per te e la bimba. Oggi, mi sembra allucinante, ma io ho pensato davvero che gli dovessi quei soldi. Pensavo: se glieli do, sono libera. Dopo, ho conosciuto l’uomo con cui ho avuto il secondo figlio, credevo che questo ragazzo si volesse prendere cura di me, ma si è tirato indietro. Così, mi sono trovata incinta, senza sapere dove andare e sono rimasta da Paolo».

Come e quando è riuscita ad andarsene?

«Nell’estate del 2017. Paolo era carico di odio e rabbia. Torniamo a Milano dalla Calabria, poggiamo le valigie, mangiamo una pizza in cucina, io bevo dell’acqua e poggio il bicchiere sul mobile invece di lavarlo. Lui comincia a urlare, a dire che non tenevo la casa pulita. Io, per la prima volta, invece di tacere davanti ai suoi scoppi d’ira, gli dico: basta, così non va bene, non ce la faccio più. Non glielo dico urlando, perché, quando aveva i suoi momenti, ogni parola – anche solo “ascoltami” – era come benzina sul fuoco e avevo imparato a stare zitta. Quella sera, la faccia gli cambia, lui prende il coltello della pizza e minaccia di uccidermi, puntandomelo alla gola. Diceva che mi avrebbe sgozzata, che meritavo di morire».

Lui in un’intervista a Lucarelli ha detto che quella era la scena di un video antiviolenza.

«Il messaggio in cui ne parliamo è allegato alla denuncia dei miei avvocati. Ricordo che Paolo si è avvicinato tantissimo, l’ho guardato negli occhi e non l’ho trovato: non c’era lui, non c’era una persona. Mi sono girata verso la piccola che piangeva e le ho detto: andiamo via. In un istante, ho pensato: non può essere che muoio davanti ai bambini. Non so con quale coraggio ho preso le chiavi della sua macchina, le valigie già pronte e sono andata coi bimbi in un albergo».

Lui non l’ha fermata?

«Certo che no: lui non ci voleva, voleva i soldi che iniziavo a guadagnare». Sta dicendo cose che da cui lui in questo momento non può difendersi. «Dovrà farlo in tribunale, dove sarò provato che gli davo soldi pagando i video che faceva per i miei social» (l’avvocato Bernardine de Pace: «Julia non voleva chiedergli neanche un assegno minimo, ci ho dovuto discutere un mese per convincerla»). Julia: «Quando poi sono riuscita a scappare, Paolo mi diceva: mi devi ridare i soldi, nessuno ti crederà, i miei amici mi difenderanno, ti rovino, ti distruggo. E quando ho avuto successo e soldi, i soldi glieli davo ogni volta che arrivavano. Così pensavo: lui non mi distrugge e io posso dare ai bambini una vita migliore. Solo a fine 2021, dopo che è nata Chiara, avuta con mio marito Riccardo, ho cominciato a capire che forse non era giusto. Ho smesso di pagare e il risultato è che Paolo ha scatenato una campagna mediatica per rovinarmi e, infatti, gli sponsor sono andati via».

Che è successo dopo la notte in albergo?

«Che avevo soldi per pagarne una sola notte. Il Cadmi si era raccomandato che mettessi da parte qualcosa per quando me ne sarei andata, ma ero riuscita a mettere in salvo pochi euro. Allora, ho chiesto alla mia agenzia un anticipo sui contratti già firmati, ho preso un motel per un mese, poi, l’agenzia mi ha messo a disposizione un monolocale. Quindi, ho trovato una casina, una mansarda dove sbattevo con la testa e dove non potevo aprire l’armadio perché le ante battevano contro il letto. Ma ero felice. E ho conosciuto Riccardo».

Ma prima di arrivare a questo punto, non aveva una famiglia a cui chiedere aiuto?

«Mia madre ha dei problemi suoi di cui occuparsi. Mio padre è morto quando avevo 11 anni, anche se sul web c’è chi ha detto che non è vero. Mio padre, questo sì, è l’altra bugia del mio primo libro: ho creato un papà che commuove anche me. Solo adesso, con l’aiuto della psicologa, ho capito che tanta violenza mi sembrava normale perché l’avevo vista in casa da bambina: mamma non poteva neanche uscire senza il permesso di mio padre. Io, poi, da grande, ho avuto solo fidanzati o molti assenti o ruvidi, poco affettuosi. Pensavo che gli uomini fossero così. Nei primi mesi con Riccardo, ho pensato che fosse un extraterrestre per il rispetto con cui mi trattava, la cura che aveva verso di me e verso i miei figli».

Ora, che cosa desidera?

«La serenità per i miei figli e dire alle persone che mi hanno seguita sui social che mi dispiace, che le ho tradite, che ho detto bugie, ma che credevo di non avere vie di uscita».

Alice Scagni.

Alberto Scagni in gravi condizioni dopo la seconda aggressione in carcere: uccise la sorella. La mamma attacca lo Stato. Angelo Vitolo su L'Identità il 23 Novembre 2023

Tenuto in ostaggio, torturato ore fin quasi ad ucciderlo: vittima Alberto Scagni, detenuto nel carcere di Valla Armea, a Sanremo, per aver ucciso la sorella Alice sotto casa sua, a Genova, il primo maggio dello scorso anno con 24 coltellate. L’uomo è stato salvato solo grazie all’intervento dei poliziotti della Polizia Penitenziaria, che hanno allontanato i due aggressori, entrambi detenuti marocchini, ed è ora ricoverato all’ospedale Santa Corona di Pietra Ligure in condizioni gravi.

La seconda aggressione in carcere. “Quello che è successo nella notte ad Alberto Scagni è gravissimo. Colpito più volte al volto con degli sgabelli, ha fratture al volto che lo hanno costretto a un intervento di chirurgia maxillofacciale. Non solo. Ha subito un tentativo di strangolamento ed è sotto osservazione per le condizioni del collo”. Lo dice l’avvocato Fabio Anselmo, che assiste la famiglia di Alberto Scagni. Tra l’altro è la seconda aggressione da lui subita in pochi giorni – sottolinea l’avvocato – la prima nel carcere di Marassi da dove era stato trasferito poi a Valle Armea, a Sanremo”.

E c’è una madre che piange per due figli. “Lo Stato ha fatto in modo che Alice morisse e finirà per restituirci un cadavere anche con Alberto”. Lo dice Antonella Zarri, mamma di Alice e Alberto.

“Ci aspettiamo una nuova aggressione a nostro figlio. La temiamo. E sappiamo che questo accontenterà la pancia di molte persone perché ormai in Italia più che la giustizia ci si aspetta la vendetta. Anche se Alberto è ostaggio dello Stato – ribadisce Antonella – noi abbiamo ancora il coraggio di andare avanti e ribadire la verità: lo Stato ci ha abbandonato nella figura delle istituzioni di salute mentale e delle forze di polizia, secondo noi in modo plateale. E’ uno schiaffo, questo abbandono dello Stato, incomprensibile. E parlo dell’omicidio di Alice. Quante telefonate di minacce di morte registrate, quante richieste di aiuto. E lo Stato non ha fatto in modo che Alice non morisse”.

Mia figlia è stata una coraggiosa vittima che è andata incontro al suo assassino. Ed io, mamma di una giovanissima mamma uccisa, tre ore dopo aver allattato, oggi sto in pena per la vita del suo omicida. A volte nemmeno io so come faccio a tenermi ancora in piedi – continua – Se Alberto fosse stato messo per tempo in Tso, in una situazione di sua sicurezza psichica, non avrebbe avuto il delirio che lo ha portato a fare quello che ha fatto. Il 112 non ha fatto nulla quando lo abbiamo chiamato, non ha cercato Alberto. Cosa fanno le forze di polizia quando vengono sollecitate? E’ aberrante quello che è capitato a noi e che continua a capitare. Noi abbiamo servito i segnali su un piatto d’argento, il delirio psichico di Alberto era conclamato in sede di incontri in salute mentale eppure negato in sede di processo”.

Estratto dell'articolo di Giulia Mietta per il “Corriere della Sera” venerdì 24 novembre 2023.

«Nostra figlia è morta per colpa di uno Stato che non l’ha saputa difendere, non vogliamo che anche Alberto ci venga restituito cadavere». Antonella Zarri è una donna che soffre e combatte dall’1 maggio del 2022, quando la figlia Alice Scagni, mamma di un neonato, venne uccisa con 22 coltellate, sotto casa, dal fratello Alberto, che a settembre è stato condannato a 24 anni e 6 mesi di carcere. Alberto è in coma farmacologico all’ospedale Borea di Sanremo dopo essere stato picchiato — «torturato», hanno scritto i sindacati di polizia penitenziaria — in carcere da altri due detenuti. I fatti sono avvenuti nella notte tra mercoledì e giovedì.

[…] Secondo quanto riportato dal Sappe e dal Uilpa, sigle sindacali della polizia penitenziaria, i due detenuti di nazionalità marocchina lo hanno tenuto in ostaggio per ore. «Torturandolo, fino quasi a ucciderlo». […]«gli artefici del sequestro di persona e delle lesioni gravi, erano alterati dall’abuso di farmaci e alcolici preparati artigianalmente macerando la frutta» e parlano di «brutale omicidio sventato» solo grazie agli agenti. 

Tutto, però, è avvenuto nel reparto dove sono ospitati i detenuti cosiddetti protetti. «Protetto? Oggi, l’omicida di mia figlia, è stato ancora una volta pestato in carcere — continua Antonella Zarri — magari, in modo irrazionale ed emotivo, potrei anche provare soddisfazione per quanto gli è stato inflitto. Peccato che, però, sia anche lui mio figlio». Le condizioni del 43enne genovese sono molto gravi: è stato operato in chirurgia maxillo-facciale per i traumi al volto. Ha anche riportato la frattura di alcune costole. […]

Quando a ottobre, a Marassi, Scagni era stato picchiato dal compagno di cella, un rumeno, era emerso che l’aggressore aveva agito dopo aver letto su un giornale il motivo per cui il genovese era in carcere, ossia un femminicidio. I fatti di questa notte sembrerebbero più legati a un raptus dovuto all’abuso di sostanze e alcool, ma non è escluso che i due marocchini sapessero il motivo di detenzione di Alberto Scagni. […]

La madre di Alberto Scagni, che in passato, anche attraverso il suo avvocato Fabio Anselmo, ha accusato la polizia di negligenza per non avere fatto il possibile per evitare la morte della figlia, e la Asl per non avere curato in tempo suo figlio, anche oggi attacca lo Stato. E lo fa a poche ore dalla giornata contro la violenza sulle donne: «Molte istituzioni trovano modo di intervenire per rassicurare l’opinione pubblica sulla determinazione dello Stato a perseguire i femminicidi, il ministro Salvini in testa — dice la donna — per i politici qualunque cosa accada è colpa degli altri, persino delle famiglie stesse, delle vittime, e noi siamo colpevoli due volte, per la morte di Alice e per quella che prima o poi accadrà, di suo fratello Alberto, non hanno la minima idea di quel che può provare questa madre di due figli persi, ma se è giusto così per toghe e bavaglini, cosi sia».

Processo Scagni, le lacrime della nonna in aula: «Alberto cercò di strangolarmi, mia figlia e mio genero dovevano proteggere Alice».  Storia di Redazione su Cronache Corriere della Sera il 16 giugno 2023.  

Nell’udienza di oggi venerdì 16 giugno in Corte d’Assise a Genova nel processo contro Alberto Scagni, che l’1 maggio 2022 uccise la sorella Alice, è stata sentita Ludovica Albera, la nonna di 92 anni. Una testimonianza drammatica, quasi una sfogo chiamando in causa i genitori della vittima e del suo assassino, in lacrime: «Una mamma non chiama la polizia. Dopo le telefonate di minacce dovevano prendere la macchina e andare lì per salvare Alice» ha detto la donna.

«Alberto da piccolo era un bambino timido, ma crescendo era cambiato — ha aggiunto — non pensavo sarebbe diventato un delinquente, disgraziato. Aveva iniziato a chiedermi soldi, voleva 50 mila euro. Ho cominciato ad avere paura, ho cambiato molte volte la serratura di casa, perché lui cercava di entrare. Una volta mi ha afferrato per il collo. Ogni volta che entrava in casa scappavo dalla vicina». La signora Albera ha raccontato anche l’episodio dell’incendio della sua porta e del genero che la portò in Piemonte per metterla in salvo da Alberto. «Quando stavamo andando ho chiesto a mio genero di passare da Alice, gliel’ho chiesto cento volte ma non ha voluto farlo. Forse l’avrei salvata, ma io da Alice da sola non riuscivo ad andare. I genitori dovevano andare da loro, perché sono stati ad aspettare la polizia? Una madre deve aspettare la polizia? Lo sapevano cosa poteva accadere, cosa ci voleva ad andare da Alice?».

I genitori Antonella Zarri e Graziano Scagni non erano in aula. Il giorno prima avevano rinunciato alla costituzione di parte civile in polemica con il giudice che la settimana scorsa ha tagliato la loro lista testi, in pratica escludendo i testimoni che avrebbero potuto raccontare delle presunte omissioni e sottovalutazioni degli allarmi. Oltre all’anziana nonna, nell’udienza odierna è stata sentita un’ex fidanzata di Alberto. «Ho conosciuto due Alberto. Prima era una persona dolcissima. Poi è diventato geloso, morboso e dominante. Una volta mi ha anche messo le mani al collo — ha testimoniato la donna —. Pensavo volesse strangolarmi. Ho chiuso la relazione alla fine del 2015 e da allora è cominciato il tormento con infinite telefonate. A volte utilizzava anche il telefono di Alice tanto che lei mi bloccò dicendomi che così Alberto mi avrebbe lasciato in pace».

Hanno perso due figli. Alice Scagni uccisa dal fratello, i genitori escono dal processo: “Umiliati dalla Corte che non ci dà voce”. Rossella Grasso su L'Unità il 15 Giugno 2023 

Nello stesso istante Graziano Scagni e Antonella Zarri hanno perso due figli: Alice, colpita a morte a coltellate, e Alberto, che impugnava quell’arma bianca e ora è a processo per aver ucciso sua sorella. Un dramma enorme che si è consumato il primo maggio 2022 sotto casa di Alice, a Quinto, nel levante genovese. La settimana scorsa è iniziato il processo ma i due coniugi hanno deciso di uscirne.

I due coniugi hanno comunicato la loro voglia di uscire dal processo tramite i loro legali, Fabio Anselmo e Alessandra Pisa, dopo la decisione della Corte d’assise di tagliare la lista testi delle parti civili perché queste “hanno un ruolo sommamente vicario rispetto all’accusa e devono limitarsi a chiedere la condanna e il risarcimento del danno”. 

“Le limitazioni e mortificazioni delle prerogative della parte civile – si legge nella revoca – non trovano alcuna base di riferimento all’interno del sistema processuale: le determinazioni della Corte d’assise sono tutte ispirate da un mero pregiudizio esplicito ed esplicitato, con il sapore di una vera e propria anticipazione di giudizio“. “I coniugi Scagni – proseguono i legali – hanno vissuto una esperienza di tragicità inimmaginabile, perdendo due figli. Quali persone offese dal reato commesso dal figlio non possono essere relegati nell’umiliante posizione di non poter avere voce nella ricostruzione dei fatti se non in posizione “sommamente vicariale” rispetto al pm, definizione da cui peraltro traspare poca serenità di giudizio”.

“Come difensori riteniamo di non poterli assistere in un processo che in via preconcetta qualifica i loro sforzi di accertamento della verità come inutili ed oggetto di indebita stigmatizzazione”. “La parte civile – concludono – entra con una certa legittimazione, e prosegue con la stessa disciplina dell’istruzione che riguarda tutti gli altri, in ossequio alla parità delle parti. Stando all’ordinanza del giudice la parte civile non dovrebbe costituirsi neppure se l’imputato fosse irrimediabilmente incapiente: non potendo avere il risarcimento, non si capisce cosa partecipi a fare all’accertamento. È evidente che non è, né mai sarà così”. Rossella Grasso

Il dolore di mamma Antonella nel giorno in cui ha perso due figli. Alice Scagni uccisa dal fratello un anno fa, la lettera della mamma: “In queste ore chiedevamo aiuto inascoltati”. Elena Del Mastro su Il Riformista l'1 Maggio 2023 

Era la sera del primo maggio 2022 quando Alice Scagni, 34 anni, sotto casa sua a Genova, nel quartiere residenziale Quinto, veniva brutalmente colpita da 19 coltellate. A impugnare il coltello era suo fratello Alberto, 45 anni. Una vicenda drammatica che ha segnato per sempre la vita di Antonella Zarri e Graziano Scagni, i genitori di Alice e Alberto che in quel preciso istante perdevano due figli. E che invano chiedevano aiuto, inascoltati, come ha raccontato la mamma in una lettera piena di dolore pubblicata da Repubblica, sottolineando la terribile sensazione di essere stati lasciati soli dallo Stato.

“Dobbiamo arrenderci? Oggi è il primo Maggio. Credo che molti sappiano a Genova cosa è accaduto esattamente un anno fa – scrive mamma Antonella nella lettera – In queste ore Alberto Scagni, in piena crisi psicotica, minacciava di morte suo padre. Graziano, impotente e spaventatissimo, registrava le seconda chiamata. La voce di nostro figlio non mentiva sulla follia che lo stava travolgendo. Dopo aver minacciato suo padre, Alberto aveva chiesto di sua sorella. Abbiamo tentato di trasmettere i suoni agghiaccianti di quella voce alla Polizia. Ma era, come oggi, il 1 Maggio, la festa dei lavoratori. Abbiamo tentato di denunciare nostro figlio ma siamo stati lasciati soli. Non sono intervenuti e ci hanno rimandato al lunedì successivo“.

Sul caso sono stati aperti due filoni di indagine: il primo relativo all’omicidio di Alice che ha portato Alberto in carcere appena 24 ore dopo il delitto, il secondo sulle eventuali omissioni e il presunto mancato intervento da parte delle forze dell’ordine come denunciato dai due genitori. I due avrebbero infatti denunciato in più occasioni le drammatiche condizioni psichiche del figlio. Mamma Antonella racconta anche che sarebbe andata in carcere a trovare il figlio che è anche l’assassino della figlia ma che lui avrebbe rifiutato di incontrarla.

“Ma per la Procura Alberto Scagni non è matto perchè è l’unico responsabile di tutto quanto è accaduto – scrive ancora mamma Antonella – Così è più semplice. Non è gravemente infermo di mente. Ha torto il Perito del Giudice e ragione il consulente del PM che ha stabilito, ancor prima di ogni perizia, che Alberto Scagni è un simulatore ed un callido assassino… Tutta la colpa sarà di noi semplici cittadini mentre alcuna responsabilità avranno gli inerti rappresentanti dello Stato. Quando lo Stato fallisce la colpa è sempre dei cittadini. Oggi Alberto è esattamente come il primo maggio scorso. Nessuno lo cura perchè non deve essere malato. Non ha più nemmeno un avvocato…”.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Il delitto di Alice Scagni, poliziotti e medico indagati anche per «morte come conseguenza di altro reato». Storia di Alfio Sciacca su Il Corriere della Sera il 16 marzo 2023.

Si potrebbe aggravare la posizione di quanti sottovalutarono la potenziale pericolosità di Alberto Scagni, il 42enne che il primo maggio dello scorso anno a Genova massacrò con 17 coltellate la sorella Alice, di 34 anni. Due agenti della centrale operativa di Genova e la dottoressa del servizio di Salute mentale sono stati infatti indagati anche per morte come conseguenza di altro reato. Si tratta degli stessi soggetti già indagati, ma per i reati di omissione d’atti d’ufficio e omessa denuncia. In sostanza la nuova ipotesi d’accusa mira a dimostrare che la sottovalutazione dei ripetuti allarmami lanciati dai familiari di Alberto Scagni abbiamo determinato il tragico esito, cioè l’uccisione della sorella.

Una tesi più volte sostenuta dai genitori di Alice Scagni e formalizzata in un esposto depositato lo scorso settembre tramite il loro legale, l’avvocato Fabio Anselmo. Per i genitori, dunque, non si trattò solo di omissioni ma di comportamenti gravissimi da cui derivò la morte della figlia. Nella denuncia, come del resto hanno fatto in diverse interviste, i genitori ricostruiscono la sequenza di violenze ed intimidazioni da parte di Alberto Scagni nei confronti dei genitori stessi e di altri familiari. « Chiari segnali — ha più volte detto la mamma di Alice, Antonella Zarri— che Alberto era ormai una bomba pronta esplodere da un momento all’altro. Un potenziale pericolo che è stato sottovalutato». Prima dell’omicidio Alberto Scagni aveva più volte minacciato i genitori con pressanti richieste di denaro. In piena notte aveva preso a pugni la porta di casa della nonna, tentando poi di dar fuoco all’ingresso dell’abitazione. E anche la sera prima, quando la madre aveva sollecitato l’intervento della polizia si era sentita rispondere che «era festivo e, se voleva, l’indomani poteva presentare una denuncia»

Video correlato: Caso Alice Neri: parla l'avvocato di Mohamed Gaaloul dopo l'incidente probatorio - Ore 14 del 06/03/2023 (RaiPlay)

Propio ieri la Procura di Genova ha chiesto il rinvio a giudizio per Alberto Scagni, per omicidio volontario, aggravato dalla premeditazione e dalla crudeltà. L’uomo è stato sottoposto a perizia psichiatrica. Secondo il perito del Gip Scagni è semi-infermo di mente, ma capace di stare in giudizio. Il consulente della Procura lo aveva invece definito pienamente capace. L’udienza preliminare è prevista per il prossimo 4 aprile davanti al giudice Matteo Buffoni. Accanto all’inchiesta principale per l’omicidio di Alice ci sono poi i due filoni che riguardano chi, come sostengono i familiari, ne sottovalutò il pericolo. In una si ipotizza solo l’atteggiamento omissivo delle forze dell’ordine e del Servizio di Salute Mentale, nell’altro l’accusa più grave di morte come conseguenza di altro reato.

(ANSA l’11 marzo 2022) Alberto Scagni, l'uomo che il primo maggio dell'anno scorso ha ucciso la sorella Alice, dieci ore prima del delitto chattava su Instagram con il comico, e allora presidente della Fondazione Palazzo Ducale, Luca Bizzarri. Lo scambio di messaggi è agli atti dell'inchiesta depositati con la chiusura delle indagini per l'omicidio. Prima Scagni aveva insultato Bizzarri pubblicamente sui social ma poi, poco prima delle dieci del mattino, aveva iniziato a scrivergli privatamente.

 "Ti vorrei incontrare" scriveva Scagni a Bizzarri. "Per cosa?", chiedeva Bizzarri e il killer rispondeva così: "Per stringerti la mano e chiederti un autografo". A quel punto Bizzarri rispondeva di nuovo: "Ma se fino a un giorno fa mi auguravi le peggio cose?". La gentilezza di Scagni inizia a svanire: "E' un sì oppure un no... Tanto da non perdere tempo, ragazzo...". Il comico cerca di capire il motivo degli insulti e allora Scagni rimarca: "Mi farò una ragione che un SI' o un NO sono risposte o vietate oppure difficili. Come metterci la faccia invece della voce... sei davvero un bravo ragazzo... Buona giornata, anzi buona vita".

Petronilla De Santis.

Carlantino, uccide la moglie a coltellate e poi tenta il suicidio. L'uomo, 54enne, trasportato al Policlinico Riuniti di Foggia, non sarebbe in pericolo di vita. REDAZIONE ONLINE su La Gazzetta del Mezzogiorno il 09 Marzo 2023

 Si chiamava Petronilla De Santis ed aveva 45 anni la donna uccisa dal marito Antonio Carozza di 54 anni che l’ha colpita diverse volte con coltellate all’addome. Il fatto è avvenuto nell’abitazione dei due, un appartamento in via Cesare Battisti a Carlantino. Nonostante l'immediato l'intervento sul posto del 118, con i rianimatori dell'elisoccorso, per la donna non c'è stato nulla da fare.

Dopo aver ucciso la moglie l’uomo ha tentato di suicidarsi lanciandosi dal balcone. E’ stato trasportato in elisoccorso al Policlinico di Foggia, dove è ricoverato ma non è in pericolo di vita. Anche lui, a quanto si è appreso, presenta ferite d’arma da taglio. La coppia era spostata da anni, gestiva un bar del paese e aveva quattro figli tra i 23 e i 12 anni che non erano in casa al momento della tragedia.

«La nostra piccola comunità è scossa per questa terribile notizia - ha dichiarato il sindaco di Carlantino, Graziano Coscia - era una famiglia giovane e serena, ma il vero rammarico è che è accaduto il giorno dopo la festa della donna e che non abbiamo percepito eventuali disagi»

Le indagini sono affidate ai carabinieri della Compagnia di Lucera, in corso i rilievi della Sis del Comando provinciale di Foggia, alla presenza del pm di turno e del medico legale. Gli investigatori ipotizzano che all’origine del gesto ci siano problemi psichici dell’uomo.

Miriam Mignano. Estratto dell’articolo di Giuseppe Mallozzi e Marco Cusumano per il Messaggero l’8 marzo 2023.

 Ha impugnato la pistola d'ordinanza uccidendo il direttore di un hotel a Suio Terme, la frazione di Castelforte al confine sud della provincia di Latina, e ferendo gravemente una donna che, secondo una ricostruzione degli inquirenti, aveva una relazione con entrambi.

 Giuseppe Molinaro, carabiniere di 56 anni, per anni in servizio a Castelforte e da alcuni mesi trasferito in Campania, è poi fuggito attraversando il Garigliano fino a raggiungere un amico a Teano, in provincia di Caserta. Qui ha deciso di costituirsi, chiamando i suoi colleghi. I carabinieri sono andati a prelevarlo per poi trasferirlo a Capua dove è stato interrogato e fermato con l'accusa di omicidio e tentato omicidio.

 E' una storia di violenza e gelosia malata quella che ha sconvolto il piccolo centro nel Sud Pontino, proprio alla vigilia della Giornata internazionale della donna. Miriam Mignano, 31 anni di Castelforte, è stata raggiunta da almeno due colpi, uno al torace e uno al ventre. Soccorsa è stata trasportata in elicottero all'ospedale Gemelli di Roma dove è stata sottoposta a un delicato intervento chirurgico per le gravi ferite d'arma da fuoco, ieri in serata è stata sottoposta a ulteriori accertamenti e per lei la prognosi resta riservata.

E' morto invece il direttore dell'hotel "Nuova Suio" dove è avvenuta la sparatoria: Giovanni Fidaleo, 60enne di San Giorgio a Liri (Frosinone) con un passato da calciatore nella squadra dell'Itri e del Suio, era conosciuto in Ciociaria anche per l'impegno politico in una lista civica.

 Secondo la ricostruzione dei carabinieri, al vaglio della Procura di Cassino, il militare è arrivato davanti all'hotel di Suio Terme nel primo pomeriggio di ieri iniziando a sparare alla vista dei due. Sono almeno dieci i bossoli repertati dagli investigatori all'esterno dell'albergo. Poi ha inseguito i due all'interno della struttura continuando a fare fuoco, uccidendo Giovanni Fidaleo e ferendo gravemente Miriam Mignano.

Probabilmente credeva di averli uccisi entrambi e a quel punto è fuggito a bordo della sua auto. In realtà la donna era ferita, anche se gravemente, ed è stato possibile soccorrerla. Grazie al rapido trasferimento in eliambulanza a Roma, i medici sono riusciti a salvarle la vita.

Il carabiniere dopo essersi costituito è stato sottoposto a un lungo interrogatorio per ricostruire il movente e la dinamica dell'omicidio. Secondo la ricostruzione degli inquirenti la donna aveva da tempo una relazione con il militare, che è sposato, ha due figli ed era in fase di separazione. La 31enne però, avendo lavorato nella struttura alberghiera, a quanto risulta aveva stretto un legame anche con il direttore.

 Il sospetto che avesse una relazione con un "rivale" potrebbe aver fatto perdere la ragione al carabiniere, ma si tratta di un'ipotesi al vaglio degli investigatori. In una foto postata proprio l'altro ieri sui social, la donna si era fatta un selfie in divisa da vigilante, proprio mentre alle sue spalle passava un'auto dei carabinieri. Un amico ha commentato: «Hai colto l'attimo» e lei aveva risposto: «Per questo l'ho fatta».

Estratto dell’articolo di Vittorio Buongiorno, Giuseppe Mallozzi per “il Messaggero” l’11 marzo 2023

Era depresso ma armato. Da tre anni era in cura, ma diceva di essere guarito. Da venti giorni però Giuseppe Molinaro, il carabiniere che martedì a Suio Terme ha ucciso il suo rivale in amore e ferito la donna contesa, era di nuovo in malattia ma nessuno ha ritenuto di dovergli chiedere di consegnare l'arma d'ordinanza e di requisirgli le altre armi che gli sono state trovate a casa. Ora però, la Procura di Cassino […] ha deciso di vederci chiaro e di indagare su questo drammatico risvolto della sparatoria di Suio.

 […] Bisogna capire se il carabiniere era in malattia per la sua depressione o per un'altra patologia. E, nel primo caso, perché nessuno nella sua nuova sede di servizio in Campania abbia ritenuto di fargli consegnare l'arma d'ordinanza. […] Il militare infatti era in cura da tre anni da una psicologa, proseguendo un percorso avviato nel 2020 presso il servizio di psichiatria e psicologia militare dell'Arma dei Carabinieri di Roma per i problemi di salute manifestatisi dopo la prematura scomparsa della madre, che gli avevano causato uno stato depressivo. […]

All'epoca la depressione gli costò la sospensione dal servizio per quattro mesi e la restituzione della sua pistola d'ordinanza, ma l'arma gli fu restituita dopo il via libera del servizio di psichiatria e psicologia militare dell'Arma dei Carabinieri. Ieri intanto si è tenuto l'interrogatorio di garanzia. Il giudice […] non ha convalidato il fermo ma ha disposto la custodia cautelare nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere con le accuse di omicidio e di tentato omicidio. La novità è che il gip non gli ha contestato la premeditazione. […]

 Il carabiniere ha confermato […] che non era sua intenzione di uccidere Fidaleo né tantomeno Miriam Mignano. Secondo la sua versione dei fatti, il militare si era recato presso l'albergo di Suio Terme per parlare pacificamente con Fidaleo e aveva chiesto la presenza della Mignano per avere un chiarimento. A suo dire la donna aveva una relazione sia con lui sia con il direttore dell'albergo di Suio e lui sostiene che voleva trovare una soluzione pacifica al triangolo amoroso. 

Tuttavia, vedendolo il direttore della struttura avrebbe imbracciato una spranga, temendo il peggio, e solo a quel punto l'appuntato avrebbe estratto la pistola e sparato. Ma questa è la versione del militare. Sarà decisivo l'interrogatorio a cui verrà sottoposta Miriam Mignano. Ieri la donna, che è ricoverata al Policlinico Gemelli, ha lasciato il reparto di Rianimazione. Dopo un nuovo intervento chirurgico le sue condizioni sono migliorate e ritenute stabili. Per il momento però il giudice non ha ancora dato l'ok per l'interrogatorio. […]

Estratto dell’articolo di Marco Cusumano per il Messaggero il 9 marzo 2023.

«Sono addolorato, non volevo uccidere nessuno». Ha parlato per ore, in lacrime, davanti ai suoi colleghi, Giuseppe Molinaro, il carabiniere di 56 anni che ha ucciso Giovanni Fidaleo di 60 anni, il direttore di un hotel a Suio Terme, provincia di Latina, ferendo gravemente Miriam Mignano, 31 anni, con la quale aveva avuto una relazione.

 Parole che saranno difficili da dimostrare, visto che il militare ha sparato sette colpi in rapida successione, sei dei quali andati a segno: 4 hanno colpito la vittima e 2 hanno ferito la giovane donna che resta ricoverata al policlinico Gemelli di Roma, con prognosi riservata. L'uomo, dopo il delitto, è corso dalla sua psicologa davanti alla quale è crollato, raccontando ciò che aveva appena fatto. Lei lo ha convinto a costituirsi, poi ha chiamato i carabinieri che lo hanno portato via, in stato di fermo.

 I militari stanno lavorando, sotto il coordinamento della Procura di Cassino, per ricostruire con precisione i dettagli della dinamica, che presenta ancora punti oscuri. Da chiarire innanzitutto i rapporti tra le tre persone coinvolte: il carabiniere, in fase di separazione dalla moglie, ha avuto una relazione con la 31enne che era stata interrotta recentemente. Non si sa molto, invece, sul legame che univa la donna al direttore dell'hotel, dove lei aveva lavorato per un periodo, prima di diventare una guardia giurata a Gaeta. L'ipotesi degli investigatori è che il legame tra i due possa aver scatenato la violenza del carabiniere, deluso dalla fine della storia con la 31enne. Le tensioni potrebbero aver portato a un litigio, culminato in tragedia con l'esplosione della raffica di colpi davanti all'ingresso dell'albergo e poi nella hall. La struttura era deserta, perché chiusa in questo periodo.

(...)

Da chiarire anche un altro aspetto. Come è avvenuto l'incontro davanti all'hotel? Al momento le ipotesi sono due: il carabiniere potrebbe aver seguito la donna arrivando nella struttura di Suio Terme, dove ha iniziato a sparare contro di lei e contro il direttore. Oppure, come Molinaro ha sostenuto durante l'interrogatorio, potrebbe essere andato lì insieme a Miriam Mignano. La donna, però, come appurato dai carabinieri, ha raggiunto l'hotel con l'auto che le era stata data in prestito da un amico.

 (...)

 ANALISI TECNICHE Intanto i carabinieri hanno sequestrato l'hotel. Il Ris è già al lavoro per i rilievi specialistici, l'isolamento di ogni traccia e la mappatura dell'area interessata. Sotto sequestro anche la pistola d'ordinanza usata da Molinaro e la Ford Focus usata per raggiungere l'hotel. Isolati in tutto sette bossoli calibro 9, tre frammenti di ogive, tracce di sangue, mentre il sistema di videosorveglianza è stato sequestrato anche se era spento e probabilmente non potrà fornire immagini utili per ricostruire la dinamica. Gli investigatori hanno portato in laboratorio anche una spranga di alluminio che è stata trovata sulla scena del crimine. Vogliono capire se sia stata usata nel corso di una colluttazione, ipotesi che cambierebbe l'iniziale ricostruzione dei fatti. La vittima potrebbe aver impugnato la spranga per difendersi? La donna potrebbe aver tentato di separare i due uomini restando ferita?

  I TELEFONI Qualche risposta arriverà dai 3 telefoni cellulari sequestrati, uno dei quali appartenente a una «persona informata sui fatti», come riferisce la Procura di Cassino. Potrebbe trattarsi dell'amico della donna che le ha prestato l'auto con la quale Miriam Mignano ha raggiunto l'hotel dove è avvenuto il delitto. Il corpo del gestore dell'albergo è stato trasportato all'ospedale di Cassino per l'autopsia che sarà effettuata sabato.

Rosalba dell’Albani.

Estratto dell’articolo di Simona Brandolini per corriere.it il 5 marzo 2023.

Un altro femminicidio. Un altro delitto incomprensibile. Alla fine Mariano Barresi ha confessato di aver accoltellato a morte la cognata Rosalba dell’Albani. Un solo fendente. Mortale. Il provvedimento di fermo è stato eseguito dai carabinieri.

 L’uomo, assistito dal suo legale, ha ammesso le proprie responsabilità durante l’interrogatorio del magistrato al quale ha detto, tra l’altro, di «sentirsi depresso negli ultimi tempi dopo essere andato in pensione quasi due anni fa».

 Dormiva accanto alla madre, Rosalba dell’Albani, quando è stata accoltellata a morte. Aveva 52 anni ed è stata uccisa a coltellate dal cognato, Mariano Barresi, di 66 anni, con freddezza. Barresi è il marito di una sorella della donna. Il delitto è avvenuto a Giarratana, nel Ragusano nella casa della madre della vittima, dove la donna si trovava per accudirla di notte.

Barresi abita nello stesso stabile e ha colpito dell’Albani nel sonno. Intorno alle 4 di notte. Incomprensibile il movente dell’omicidio. Le indagini sono coordinate dalla Procura di Ragusa. I magistrati stanno sentendo i familiari per capire se si sia trattato di un delitto d’impeto o se l’uomo abbia premeditato l’omicidio. In ogni caso si parla di pregresse liti familiari.

 La 52enne è la moglie di un brigadiere dei carabinieri in servizio a Ragusa. Lascia il marito e tre figli: uno è militare in Calabria, un altro a Trapani, il terzo studia ancora all’istituto alberghiero. […]

Carmelina Marino e Santa Castorina.

Estratto dell’articolo di Titti Beneduce per corriere.it l’11 dicembre 2023.

Una donna di 48 anni, Carmelina Marino, madre di due figli, è stata uccisa con un colpo di pistola alla testa sul lungomare Pantano di Riposto, nel Catanese. [...] un'altra donna di 50 anni, Santa Castorina, che è morta poco dopo nonostante i tentativi di rianimarla sul marciapiede da parte del personale del 118.

L’autore dei due femminicidi si è poi suicidato con un'arma da fuoco, probabilmente la stessa che aveva usato in precedenza, vicino a una caserma dei carabinieri. Secondo quanto si è appreso aveva una relazione extraconiugale con la prima vittima, la donna assassinata in un'auto sul lungomare Pantano, e conosceva anche l’altra persona uccisa in strada in via Roma.

[...] Il primo omicidio, quello sul lungomare la cui vittima è Carmelina Marino, 48 anni, è «certamente collegato al suicidio» avvenuto davanti alla caserma dei carabinieri, sul secondo, quello di Santa Castorina, di 50 anni, si sta «cercando di capire il movente», anche se, «al 90 per cento, visti dinamica, luoghi e tempi» sembra esserci un collegamento. Lo afferma il procuratore di Catania, Carmelo Zuccaro. L'uomo che si è ucciso è «una persona con precedenti penali». [...]

Estratto dell’articolo di A. Sc. Per il “Corriere della Sera” il 12 febbraio 2023.

Nel carcere di Augusta sarebbe dovuto rientrare ieri sera, al termine di una settimana di permesso premio. Condannato all’ergastolo per associazione mafiosa e per un delitto commesso trent’anni fa, godeva del regime di semilibertà, ma in carcere non è mai rientrato. Salvatore «Turi» La Motta, 63 anni, si è sparato un colpo di pistola alla tempia davanti alla caserma dei carabinieri di Riposto, a 30 chilometri da Catania. Con la stessa arma, qualche ora prima, aveva ucciso due donne, per ragioni che gli inquirenti stanno ancora cercando di capire.

 Alle 8.30 del mattino il primo delitto, sul lungomare di Riposto. La Motta ha atteso che Carmela «Melina» Marino, 48 anni, facesse carburante. L’ha attesta poco distante, ha aperto la portiera dell’auto e le ha sparato un colpo di pistola al volto. La scena è stata ripresa nitidamente da alcune telecamere di sicurezza della zona. Intorno alle 10, mentre erano ancora in corso i rilievi della Scientifica, arriva la segnalazione del secondo delitto, […] La Motta ha atteso che la seconda delle sue vittime, Santa Castorina, 50 anni, scendesse dall’auto, lasciando dentro il cagnolino. Ancora una volta ha sparato un solo colpo a bruciapelo alla testa.

Dopo aver ucciso le due donne il killer ha vagato per poco meno di due ore. Mentre i carabinieri gli davano la caccia pare sia tornato nel quartiere dov’è cresciuto, quindi a mezzogiorno si è presentato davanti alla caserma di Riposto. «Aprite, mi voglio costituire» ha detto al militare di turno. […] Ma […] l’uomo si è puntato la pistola alla testa e ha fatto fuoco […] Una sequenza di sangue alla quale si sta cercando ancora di dare un nesso, scavando nel passato dell’assassino e nella vita delle due donne.

 Melina Marino, che aveva due figli da una precedente relazione, era stata legata sentimentalmente a Salvatore La Motta. Lo confermano anche gli inquirenti che però non sono ancora riusciti a capire il collegamento con la seconda vittima. Pare che due donne si conoscessero, ma resta ancora misterioso il movente del duplice femminicidio. […] Ma perché uccidere la donna con la quale aveva avuto una relazione? E soprattutto perché colpire anche la seconda donna? […]

Determinante per chiarire il giallo sarà la testimonianza di un uomo, Luciano Valvo, 55 anni, fermato ieri sera per concorso in omicidio: ha accompagnato La Motta sul luogo del primo delitto, ma per il momento non sta collaborando con gli inquirenti. Viene passata al setaccio anche la carriera criminale del killer, fratello del boss di Riposto Benito La Motta, definito «Iddu». Anche lui è all’ergastolo come mandante dell’omicidio di Dario Chiappone, un pizzaiolo 27enne, «reo» di aver avuto una relazione con una donna legata sentimentalmente a un affiliato al clan.

Turi La Motta invece venne condannato all’ergastolo perché faceva parte del «gruppo di fuoco» che il 4 gennaio 1992, davanti a un bar del centro, uccise Leonardo Campo, 69 anni, storico capomafia nella zona jonica catanese. Una pena che, a sentire i suoi legali, stava scontando in modo esemplare. In carcere ha conseguito due diplomi e aveva avuto accesso alla semilibertà che gli consentiva di lavorare durante il giorno e rientrare in carcere la sera.

Estratto dell’articolo di Alfio Sciacca per il “Corriere della Sera” il 12 febbraio 2023.

 […] Carmelina Marino, «Melina» come la chiamavano tutti. […] Da una vecchia relazione aveva avuto due figli, faceva la casalinga e pare conoscesse l’altra vittima, Santa Castorina, 50 anni. […] Ma cosa ha spinto La Motta a uccidere le due donne, mirando al volto, come a voler motivare il suo gesto? […] Le indagini puntano molto sulla testimonianza del 55enne Luciano Valvo fermato ieri sera. Le telecamere di sorveglianza lo inquadrano alla guida dell’auto dalla quale scende La Motta per avvicinarsi alla portiera lato guida della macchina di Melina Marino e sparare da distanza ravvicinata.

Prima o dopo il delitto l’autista potrebbe aver raccolto qualche sfogo dell’assassino decisivo per capire il movente del duplice delitto. Interrogato a lungo dai carabinieri l’uomo in questa prima fase non sta collaborando e si è avvalso della facoltà di non rispondere. […] cosa legava la prima alla seconda vittima? E perché ucciderle a distanza di poche ore l’una dall’altra? Non si può escludere che Melina Marino volesse chiudere, o avesse già troncato, la storia con La Motta. E in questo caso potrebbe avere avuto un ruolo proprio Santa Castorina, che pare fosse amica di Melina, diventando nella mente del femminicida anche lei un «ostacolo» da eliminare. […]

Donne freddate, mistero del movente. Nordio: indagare sulla licenza al killer. Il legale ha contattato l'ergastolano: "Costituisciti". Ma lui si è suicidato. Valentina Raffa il 13 Febbraio 2023 su Il Giornale.

Delitti passionali. Così sono sembrati ai carabinieri che indagano, il duplice omicidio nel Catanese di Carmelina Marino detta Melina, 48 anni, e Santa Castorina, 50 anni, e il successivo suicidio dell'assassino, Salvatore La Motta, detto Turi, ergastolano in licenza premio straordinaria.

I precedenti per mafia di lui, fratello di Benedetto detto Benito o Baffo La Motta, punto di riferimento dei Santapaola-Ercolano a Riposto, non hanno sviato le indagini che si sono concentrate sulla relazione tra assassino e vittime. Con la prima, Melina, l'ergastolano aveva avuto una relazione, mentre Santa la conosceva e si dovrà verificare fino a che punto. Le due donne erano imparentate tra loro.

Uno sparo in volto potrebbe indicare la volontà di eliminare l'identità dell'altro, ma sul reale movente si attendono risvolti dalle indagini. C'è un nodo focale in questo duplice omicidio: l'assassino era stato condannato all'ergastolo per omicidio di mafia, ma era in semi-libertà. Sabato scorso, giorno del duplice delitto, terminava la licenza premio straordinaria di cui era stato beneficiato per «buona condotta», come spiega l'avvocato Antonino Cristofero Alessi.

Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha chiesto all'Ispettorato generale urgenti accertamenti preliminari su quanto accaduto. La Motta si è sparato un colpo in testa davanti ai carabinieri. Si era recato in caserma perché contattato telefonicamente dal suo legale su richiesta dei carabinieri per costituirsi. Intanto, dopo il fermo per concorso in omicidio del 55enne Lucio Valvo, che ha accompagnato La Motta da Melina, e lo ha ricaricato sulla sua Golf dopo l'omicidio, interviene il legale Enzo Iofrida lamentando: «Con una velocità certamente straordinaria ma non necessaria è stato notificato oggi, domenica, giorno che non consente di recarsi in visita dal proprio assistito, né di visionare gli elementi di accusa a suo carico, l'avviso di interrogatorio per la convalida del fermo fissato per lunedì mattina davanti al Gip». «Così l'indagato non potrà che avvalersi nuovamente della facoltà di non rispondere, come ha già fatto davanti al pm», conclude Iofrida.

Al vaglio degli inquirenti i video delle telecamere di videosorveglianza, tabulati telefonici, messaggi e social network. Da uno dei profili social di Melina emerge l'affetto per il fratello detenuto e salta fuori che nella sua vita c'era un «traditore» che lei attacca su Tik tok nel febbraio 2022. I carabinieri dovranno verificare se in quel periodo La Motta avesse una relazione con la seconda vittima, freddata vicino alla sua auto in via Roma. «Brave ragazze» commenta l'avvocato Antonino Cristofero Alessi, legale di La Motta che non ricorda «di contatti tra loro o con La Motta». «Lui non era sposato - dice - e non so se frequentasse qualcuna in particolare, avevo capito che c'era una piccola storia in particolare, ma atteneva alla sua sfera privata e non al nostro rapporto professionale. Ma niente lasciava presagire minimamente ciò che è successo». «Riposto è attonita, sconvolta e ferita dice il sindaco Enzo Caragliano. Questa tragedia non riflette la nostra città. Sono atti che possono essere collegati solo alla follia umana».

Margherita Margani.

Estratto dell'articolo di Felice Naddeo per corrieredelmezzogiorno.corriere.it il 5 febbraio 2023.

Seduta a cavalcioni sul cadavere della suocera, appena uccisa a coltellate e colpi di forbice in cucina, stava tranquillamente fumando una sigaretta. Si è ritrovato di fronte a questa scena, appena entrato in casa, Francesco Arnone, marito della 32enne Laura Di Dio - arrestata per omicidio aggravato - e figlio della vittima: Margherita Margani, 62 anni.

 (...)

Poi, però, la lite, le coltellate - una mortale alla gola - i colpi di forbice e l’arresto. Ai carabinieri, Laura Di Dio ha confessato l’omicidio. Ma ha tentato di discolparsi sostenendo di essersi difesa dalla madre del marito. «È stata mia suocera ad aggredirmi con un coltello, io mi sono difesa», avrebbe detto la 32enne ai militari e al magistrato. Poi aggiungendo: «Ma non la sopportavo». Nel corso dell’interrogatorio, la Di Dio avrebbe anche raccontato che era la suocera ad occuparsi dei figli. E il marito, pur di non lasciarla sola con i bambini, chiamava la madre per farla vigilare sul comportamento della moglie.

 Una situazione causata dalla depressione di cui soffriva la 32enne. Acuitasi durante la gravidanza dell’ultimo figlio e, in particolare, in seguito a un episodio avvenuto nel luglio del 2018. Quando Chirstian Arnone, il cognato della 32enne, esplose alcuni colpi di pistola contro il fratello Francesco - marito di Laura - ritenendo l’avesse picchiata. Non lo colpì, ma venne arrestato per tentato omicidio. Mentre la donna fu colta da malore e trasportata al pronto soccorso.

Da quel momento, i rapporti tra suocera e nuora divennero tesi. Perché Margherita Margani la riteneva colpevole dell’arresto del figlio...

Alessandra Matteuzzi.

Alessandra Matteuzzi, gli insulti della madre di Padovani in un vocale al figlio: "Lei è il diavolo". La Repubblica il 3 Ottobre 2023.

“Mio figlio stava male, delirava. E’ vero che Alessandra mi scrisse che aveva paura di morire, ma per me era una cosa impossibile”. Alla prima udienza il 2 ottobre del processo a Giovanni Padovani, l’assassino di Alessandra Matteuzzi, uccisa il 23 agosto 2022 a Bologna, parla la madre di lui. Nella testimonianza Virginia Centini tenta di difendere il figlio spiegando il suo comportamento malato fin quando aveva tentato il suicidio durante una relazione precedente. Ma in un messaggio vocale al figlio, che è agli atti dell'inchiesta, è lei stessa a scagliarsi contro la vittima: "Ma proprio questa dovevi andare a incontrare, questa è il diavolo in persona”. Frasi piene di insulti, cariche di astio, che risalgono a luglio 2022. Un mese dopo Alessandra Matteuzzi è stata uccisa a martellate sotto casa da Giovanni Padovani.

Estratto da ilrestodelcarlino.it il 3 ottobre 2023.

“Alessandra Matteuzzi aveva paura di suo figlio, Giovanni Padovani?". È stato il giorno della testimone ‘principale’, di fronte alla Corte d’assise per la nuova udienza del processo all’ex calciatore di Senigallia, 27 anni, dal 23 agosto del 2022 in carcere per avere assassinato a martellate, calci, pugni e colpi di panchine la ex compagna Alessandra Matteuzzi, 56 anni. 

Seduta al banco dei testimoni, ieri, c’era infatti la sua mamma, Virginia Centini. Cinquantasette anni, capelli lunghi e neri, giacca rosa e tono deciso. Non si lascia intimidire dall’interrogatorio incalzante delle parti civili, la voce le si spezza solo una volta. Quando dice che mai si sarebbe immaginata che il "suo Giovanni" sarebbe potuto arrivare a tanto. A uccidere la donna che diceva di amare. "Giovanni non è così, lui è tutt’altro", le sue parole tra i mormorii di insofferenza della platea. 

“Mio figlio era delirante, da quando ha conosciuto lei non era più lui. Erano incompatibili. Era tutto un dispetto. Solo la forte attrazione sessuale li univa – spiega in aula –. Tutti e due si lamentavano con me dell’altro, dopo le liti. Lei una volta mi ha detto che lo voleva denunciare perché lui aveva le password delle telecamere di casa sua e io le ho detto lascia perdere, ormai vi siete lasciati, lui gioca a calcio in Sicilia: perché rovinare la vita a un ragazzo di 26 anni, che è normale che faccia delle stupidaggini?".

Ma a lui, non diceva niente dopo avere scoperto che spiava la ex compagna? "Gli dicevo: non si fa, è illegale, poi ti denuncia". È un ritornello che si ripete più volte, quello del "gli dicevo: Giovanni, non si fa" da parte di mamma Virginia. Che a tratti cerca forse di giustificare l’ingiustificabile. Dà dell’"immaturo, ma intelligente e pieno di risorse" al suo primogenito "Giovanni", quel nome che ripete decine di volte nelle due ore di udienza. Arrivando a sminuire con un "questione di punti di vista" la violenza sessuale subita da Sandra da parte del suo futuro assassino.

Omicidio Alessandra Matteuzzi, il killer: «Ero ossessionato da lei ma non avevo un piano». Luca Muleo su Il Corriere della Sera il 16 febbraio 2023.

L’ex calciatore Giovanni Padovani è in carcere da agosto per l'omicidio dell'ex compagna. Per la prima volta, assistito dai suoi legali, ha parlato negando la premeditazione

«Ero ossessionato da lei, ma l’idea di ucciderla era solo virtuale». Giovanni Padovani, in carcere da agosto per il femminicidio di Alessandra Matteuzzi, lo ha ripetuto più volte, per negare la pianificazione del gesto, ai pm Lucia Russo, Domenico Ambrosino e Francesca Rago, spiegando come quell’ossessione fosse secondo lui il frutto di una storia morbosa, tossica, che lo avrebbe gettato nell’abisso del delirio. I magistrati lo hanno interrogato dopo aver aggiunto a suo carico altre due aggravanti alle accuse di omicidio che peseranno nel rito di giudizio immediato, la cui richiesta verrà formalizzata dalla Procura nei prossimi giorni.

Le aggravanti

Ora i pm gli contestano anche i futili motivi per «l’intento punitivo nei confronti della vittima, motivato dalla gelosia e dalla mancata accettazione della decisione della Matteuzzi di porre fine alla loro relazione», e la premeditazione. La Procura gli addebita le note trovate sul suo telefono, le ricerche on line sulle «modalità di attuazione dell’intento omicidiario e sulle modalità per darsi alla fuga, nonché sulle modalità di difesa dallo spray al peperoncino che la vittima usava portare con sé». E ancora aver portato con sè il martello con cui l’ha colpita, aver detto ad altre persone delle sue intenzioni e aver parcheggiato l’auto in un luogo distante dall’abitazione di via dell’Arcoveggio dove la donna è stata uccisa lo scorso 23 agosto, così da evitarne una possibile difesa.

L’ex calciatore, sentito dai magistrati alla Dozza, ha parlato per la prima volta, assistito dall’avvocato Gabriele Bordoni che ha ricostruito l’interrogatorio come molto sofferto e più volte interrotto. Ha risposto alle domande «riferendo circostanze e fatti utili a spiegare come un ragazzo di 27 anni sia arrivato all’esasperazione» dice l’avvocato. E negando che ci fosse un reale piano per assassinare la vittima. Quell’idea di uccidere Alessandra, o se stesso come ha detto varie volte ai pm, sarebbe stato solamente «virtuale». Figlia di quella ossessione per una relazione che ha descritto come un tira e molla. «Uno sfogo mentale, qualcosa a cui pensavo per liberarmi la testa da quel pensiero», ricerche compulsive su come uccidere e dove scappare avrebbero a suo dire fatto parte del delirio.

L'ipotesi di una perizia psichiatrica

Per il suo legale la premeditazione sarebbe smentita dal modo in cui Padovani ha ucciso Alessandra. «Anche il più sgangherato degli assassini quando premedita di uccidere qualcuno pone in atto il suo piano con modalità di salvaguardia, che gli diano possibilità di farla franca. Qui invece siamo di fronte a un gesto delirante, brutale, commesso con una panchina trovata sul posto». Bordoni potrebbe chiedere una perizia psichiatrica per il suo assistito prima del processo, attraverso un incidente probatorio, o in dibattimento. «Siamo di fronte a qualcosa che, pur nella brutalità del crimine, non è frequente e non è ordinaria».

La versione dei pm

Per i pm però ciò che è emerso dalla perizia sul telefono di Padovani non lascia dubbi sulla pianificazione del delitto. «Nastro isolante. Martello. Corda (meglio manette). Fai chat inventata tra te e lei dove ti dice di venire a casa sua e portare manette. Domenica 21 agosto inizio chat. Lunedì 22 ore». Secondo i magistrati queste note e le successive ricerche su internet, «come comprare un’arma», «marito uccide la moglie e chiama i carabinieri», «con un colpo alla testa forte con una spranga riesce poi a urlare», «spray al peperoncino in faccia cosa comporta», oppure quelle legate a un’eventuale pena o fuga, «che pena c’è per uccidere una donna», «cosa fa un detenuto durante il giorno», «Per andare in Albania serve il passaporto», sono la testimonianza della lucida pianificazione del femminicidio di una donna che aveva troncato la relazione e veniva perseguitata dall’ex. Una relazione «fortemente tossica e morbosa» secondo il legale di Padovani, e che sarebbe stata causa, insieme a «una predisposizione psichica», della sua «dipendenza delirante».

Femminicidio a Bologna, Alessandra Matteuzzi uccisa a martellate dall'ex che aveva già denunciato. Pubblicato su La Repubblica

Lui è un calciatore italiano. Martedì sera in via dell'Arcoveggio. Il 27enne italiano arrestato. La sorella della vittima: "Era ossessionato, ora ho paura per me"

Massacrata a martellate dall'uomo che la perseguitava. Femminicidio nella notte tra martedì e mercoledì a Bologna, in via dell'Arcoveggio. La vittima, Alessandra Matteuzzi, aveva 56 anni ed è stata aggredita e uccisa sotto casa dall'ex compagno, il calciatore ed ex modello Giovanni Padovani, che lei aveva denunciato in luglio per stalking.

L'assassino,  riferisce la polizia che lo ha arrestato per omicidio aggravato, le stava facendo la posta sotto casa da un paio d'ore e quando è arrivata intorno alle 21 l'ha brutalmente ammazzata a colpi di martello e altri oggetti contundenti sulla testa. 

"Era al telefono con me - racconta Stefania, la sorella della vittima - E' scesa dalla macchina e ha cominciato a urlare: no Giovanni, no, ti prego, aiuto. Io ero al telefono, ho chiamato immediatamente i carabinieri che sono arrivati subito. Io abito a 30 chilometri. Alla fine l'ha massacrata di botte"

Alessandra a fine luglio aveva presentato denuncia contro l'ex compagno dal quale si era lasciata da qualche tempo. L'indagato è un calciatore ed ex modello, originario di Senigallia, in provincia di Ancona. Dopo due anni nelle giovanili del Napoli Padovani ha militato in varie squadre di serie C e D: tra cui il Foligno, il Troina, Giarre e ora la Sancataldese, team siciliano, che in una nota informa di averlo messo fuori rosa perché era scappato dal ritiro sabato scorso prima della partita col Catania per poi chiedere il reintegro lunedì. "Non era sereno" riferiscono i dirigenti del club.

Padovani sarebbe arrivato ieri a Bologna in aereo dalla Sicilia e poi sarebbe andato ad attendere la donna sotto casa.

 Un residente della stessa palazzina nella primissima periferia bolognese, sentendo le grida di Sandra (reduce invece da una vacanza in Calabria), ha dato l'allarme. Le volanti, intervenute intorno alle ore 21.30, al loro arrivo hanno trovato l'aggressore ancora sul posto e la donna agonizzante in stato di incoscienza. Ma quando è giunta anche l'ambulanza per lei già non c'era più nulla da fare: è deceduta in ospedale.

Il primo a intervenire dopo l'aggressione è stato un ragazzo, figlio di un altro vicino di casa, al quale Padovani non avrebbe opposto la minima resistenza: "Non ce l'ho con voi, ce l'ho con lei - avrebbe detto a chi lo ha bloccato - non vedo l'ora che arrivi la polizia che voglio finire tutto".

Una vicina di casa ha riferito che la vittima l'aveva già avvisata una settimana fa di non aprire mai a quel ragazzo che da tempo la perseguitava. "Lui la stava già aspettando davanti al portone dalle 19.15, voleva entrare ma abbiamo chiuso quando siamo rientrati in casa. Da tempo era diventato insistente, lei provava a calmarlo, a parlargli, ma in casa non lo faceva mai salire. Ieri sera abbiamo poi sentito le grida della donna che gli urlava di andarsene e abbiamo visto che lui la trascinava sotto al portico".

Un ragazzo che abita nello stesso palazzo della vittima ha detto che circa un mese fa la donna lo aveva avvicinato per chiedergli il numero di telefono: "Mi disse che in caso di bisogno mi avrebbe chiamato perchè il suo ex la perseguitava ed aveva paura, aggiungendo che era un tipo molto pericoloso e che nel caso avrei dovuto chiamare immediatamente la polizia". Sempre al giovane, qualche tempo dopo, raccontò che aveva deciso di denunciare l'ex perchè "continuava a darle il tormento".

"Le faceva gli agguati per le scale - racconta ancora la sorella di Sandra -, le ha spaccato i vetri, era entrato dal balcone al secondo piano, spaccava bicchieri, le ha staccato la luce dal contatore giù. Per questo lei l'aveva denunciato. Era fissato che lei lo tradisse, era ossessionato da lei. Ora ho paura per me e per la nostra famiglia, se lo lasciano libero mi ammazza "

Nei confronti dell'uomo non erano stati ancora adottati provvedimenti restrittivi. Nella denuncia, a quanto si apprende, la vittima riferiva di atteggiamenti molesti, telefonate continue, messaggi e appostamenti, ma non di violenza fisica. Agli inizi di agosto era stato aperto poi un fascicolo in Procura, con le indagini delegate ai carabinieri. Gli investigatori hanno avviato gli accertamenti e sentito diversi testimoni, inviando una prima informativa in Procura attorno alla metà di agosto, sottolineando poi di dover ancora ascoltare altre persone che però visto il periodo festivo al momento erano lontano da Bologna.

Alessandra Matteuzzi aveva contattato poi i carabinieri per sapere se c'erano stati sviluppi nella vicenda e nei giorni scorsi aveva anche chiamato il legale che la assisteva per dirgli che Padovani si era presentato nuovamente sotto casa sua. L'avvocato le aveva consigliato di integrare quindi la denuncia e la donna avrebbe dovuto farlo in questi giorni. Intanto il pm Domenico Ambrosino, che si occupa dell'omicidio della 56enne, conferirà domani mattina l'incarico per l'autopsia, affidata al medico legale Guido Pelletti.

Pubblicato su La Repubblica

Maria Amatuzzo.

Uccide, poi chiede perdono come se nulla fosse. Giusi Fasano su Il Corriere della Sera il 05 Febbraio 2023.

Massacra a coltellate la giovane moglie che voleva lasciarlo. Un mese dopo dal carcere scrive al suocero: «Perdonami papà»

Ma sì! Facciamola questa pace, dai. Ho ammazzato tua figlia a coltellate dopo averle reso la vita impossibile. Ma adesso ho capito: ho sbagliato. Quindi perdonami papà. Amici come prima. Se Ernesto Favara fosse davvero consapevole di quel che ha fatto saprebbe che il perdono è un percorso che ha bisogno del suo tempo, che è un’azione potente e difficile, che va coltivato. Non basta una letterina che ricorre alla mozione degli affetti con quel «perdonami papà», oltretutto scritta dopo un mese o poco più di carcere. E infatti Matteo, il padre della povera Maria Amatuzzo, leggendo quelle righe arrivate dal penitenziario di Trapani non ha pensato nemmeno per un istante di azzerare la rabbia, come vorrebbe il perdono. Semmai l’ha moltiplicata. Ha strappato la lettera in mille pezzettini e ha chiamato il suo avvocato, Vito Daniele Cimiotta: «Adesso voglio che quel verme non si permetta mai più di chiamami papà e che lo sappia: non lo perdonerò mai».

Maria aveva 29 anni. Ha vissuto (in Sicilia) fino alla vigilia di Natale dell’anno scorso per gentile concessione, diciamo così, di suo marito Ernesto: 63 anni di prepotenza e senso del possesso. Le aveva già promesso più volte di ammazzarla, quel giorno l’ha fatto con dodici coltellate all’addome, irritato — pare — dal definitivo addio di lei che per lui non provava più nulla. La vita non è stata generosa con Maria Amatuzzo. Pochi soldi, poca istruzione, poca felicità. Un bel po’ di disperazione e sfortune assortite. Due gemelline di 4 anni avute da suo marito e finite in una comunità, stessa sorte per altri due bimbi avuti dal precedente matrimonio. La sua era un’esistenza da equilibrista. Camminava sulla corda sottilissima e incerta di un domani che non prevedeva più spazio per suo marito e, piuttosto che accettare questo, lui ha preferito il nulla: con me o con nessun altro.

Il resto è la cronaca di quei minuti drammatici... Una storia rimasta ai margini delle pagine nazionali. Sullo sfondo bambini che aspettano invano la mamma. Aiutarli, sostenerli, accompagnarli sulla via del futuro si può e si deve fare. E quando saranno grandi — ammesso che ricordino di lui — decideranno se perdonare o no un padre che li ha privati del bene più prezioso. Un padre che usa per sé la parola perdono come fosse una cosuccia da niente. Una leggerezza imperdonabile.

Teresa Di Tondo.

Tragedia a Trani: un uomo accoltella la moglie in casa e si uccide. Si indaga per omicidio-suicidio. Al momento la zona è stata completamente interdetta ed è presidiata dai Carabinieri. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 15 Gennaio 2023

Tragedia in una villetta di campagna a Trani: si tratterebbe di un omicidio/suicidio avvenuto all'interno di una abitazione rurale nella strada vicinale San Luca, nei pressi della contrada Duchessa d'Andria, dove un uomo avrebbe ucciso la moglie a coltellate, togliendosi poi la vita. Al momento la zona è stata completamente interdetta ed è presidiata dai Carabinieri, che si occupano dell'indagine. Sentiti sia i familiari che gli amici della coppia per ricostruire la dinamica del delitto. 

La vittima, Teresa Di Tondo, 44 anni, è stata colpita da diversi fendenti di arma da taglio, lui, Massimo Petrelli, di 52 anni, si è impiccato nel giardino della villa nella periferia di Trani. Non è chiaro cosa sia accaduto e quali siano state le cause a innescare la lite tra i due. Non si sa neanche chi sia stato a dare l'allarme: voci dicono possa trattarsi di una ragazza che doveva raggiungere la donna e non l'ha più sentita, oppure la figlia della coppia, che al momento della tragedia non era in casa. I militari hanno effettuato un lungo sopralluogo nell'abitazione e nella parte esterna, anche alla ricerca sia dell'arma del delitto che di altri indizi utili alle indagini.

Ritrovato e sequestrato il coltello da cucina con cui la donna è stata colpita a morte. Continuano i rilievi dei carabinieri. Il sindaco: «Comunità sconvolta». Domani sera una fiaccolata per le vie della città promossa da centro antiviolenza, Comune e dirigenti scolastici. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 15 Gennaio 2023

È stato trovato e sequestrato dai carabinieri il coltello da cucina con cui è stata uccisa ieri sera a Trani la 44enne Teresa di Tondo, trovata morta nella villa in cui viveva con Massimo Petrelli, 52 anni, trovato impiccato in giardino. Gli investigatori ipotizzano si tratti di un omicidio-suicidio. L’arma è stata ritrovata in casa.

Continuano comunque i rilievi dei carabinieri nella villa in cui sono stati trovati morti ieri sera Teresa di Tondo e Massimo Petrelli e l’assenza di segni di effrazione spinge gli investigatori ad avvalorale l’ipotesi di omicidio-suicidio. L'uomo era impiccato a un albero in giardino mentre la donna era in casa con il corpo ferito da un’arma da taglio che non sarebbe stata ancora ritrovata. A fare luce sull'accaduto sarà l'autopsia: l’incarico potrebbe essere conferito già domani.

La villa, che è stata posta sotto sequestro, si trova in campagna ma non è isolata e accanto c'è un’altra abitazione. Persone vicine alla coppia, familiari e conoscenti vengono ascoltati dagli investigatori per ricostruire le ultime ore di vita dei due. Teresa di Tondo era una educatrice, lavorava nel sociale con una cooperativa e studiava Scienze dalla formazione. Petrelli lavorava nel settore della lavorazione marmi.

«Tutta la nostra comunità oggi è sconvolta da una tragedia incomprensibile». Così il sindaco di Trani, Amedeo Bottaro, in un post sui suoi social commenta quanto accaduto ieri in città, dove una donna, Teresa Di Tondo, 44 anni, è stata trovata colpita a morte con dei fendenti all’interno della sua abitazione, una villa alla periferia della città; mentre il suo convivente, Massimo Petrelli di 52 anni, era impiccato a un albero in giardino.

«Negli ultimi anni - scrive il primo cittadino - attraverso le attività sviluppate come Ambito territoriale ed in particolare con il nostro centro antiviolenza, avevamo alzato la soglia di attenzione sul fenomeno della violenza di genere a fronte di una fragilità sociale sempre più dilagante». "Evidentemente non basta ancora e ne paghiamo pesantemente le conseguenze», conclude.

I FATTI IERI SERA

Tragedia in una villetta di campagna a Trani: si tratterebbe di un omicidio/suicidio avvenuto all'interno di una abitazione rurale nella strada vicinale San Luca, nei pressi della contrada Duchessa d'Andria, dove un uomo avrebbe ucciso la moglie a coltellate, togliendosi poi la vita. Al momento la zona è stata completamente interdetta ed è presidiata dai Carabinieri, che si occupano dell'indagine. Sentiti sia i familiari che gli amici della coppia per ricostruire la dinamica del delitto. 

La vittima, Teresa Di Tondo, 44 anni, è stata colpita da diversi fendenti di arma da taglio, lui, Massimo Petrelli, di 52 anni, si è impiccato nel giardino della villa nella periferia di Trani. Non è chiaro cosa sia accaduto e quali siano state le cause a innescare la lite tra i due. Non si sa neanche chi sia stato a dare l'allarme: voci dicono possa trattarsi di una ragazza che doveva raggiungere la donna e non l'ha più sentita, oppure la figlia della coppia, che al momento della tragedia non era in casa. I militari hanno effettuato un lungo sopralluogo nell'abitazione e nella parte esterna, anche alla ricerca sia dell'arma del delitto che di altri indizi utili alle indagini.

DOMANI SERA UNA FIACCOLATA PER LE VIE DELLA CITTA'

Promossa da centro antiviolenza, Comune e dirigenti scolastici, domani sera a Trani si terrà una fiaccolata per le vie della città dopo l’omicidio della 44enne Teresa di Tondo, uccisa con un coltello da cucina dal suo compagno 52enne, Massimo Petrelli, che poi si è impiccato nel giardino della villa in cui vivevano. La fiaccolata è organizzata dal Centro antiviolenza "Save" in collaborazione con il Comune. Partirà alle ore 17.30 da palazzo di città, in via Edoardo Fusco e percorrerà corso Imbriani, via Istria, piazza Sant'Annibale Maria di Francia, via Perrone Capano, via Ragazzi del 99, corso Manzoni, piazza Dante. Qui alle 18,30 è previsto un momento di riflessione a cura di dirigenti scolastici del territorio. La fiaccolata poi proseguirà in corso Italia, corso Vittorio Emanuele, corso Cavour, piazza Plebiscito, fino alla panchina rossa, simbolo di lotta alla violenza sulle donne, dove sono in programma ulteriori interventi da parte delle autorità e dei rappresentanti istituzionali.

Martina Scialdone.

Omicidio Martina Scialdone, trovati 400 chili di proiettili nella cantina del killer Costantino Bonaiuti. Giulio De Santis su Il Corriere della Sera l'8 Giugno 2023.

Notevole anche la scorta di polvere da sparo di Bonaiuti che a gennaio ha ucciso la ex

Quattrocento chili di ogive. E diverse decine di chili di polvere da sparo. È quanto è stato sequestrato nella cantina di Costantino Bonaiuti, 61 anni, l’uomo che ha ucciso con un colpo di pistola Martina Scialdone, 34 anni, la sua ex fidanzata, il 13 gennaio scorso in viale Amelia, zona Furio Camillo. L’omicidio, avvenuto verso le undici di sera, si è consumato vicino al Brado, il ristorante dove la coppia aveva cenato e litigato in modo acceso davanti ai clienti e al personale. 

Omicidio volontario

Il quantitativo di ogive e polvere da sparo va inquadrato nella ricostruzione del profilo di Bonaiuti: ingegnere, (ex) funzionario dell’Enav, esperto di armi, tanto da aver conseguito anni prima il titolo di istruttore di tiro sportivo. Quando ha sparato a Martina, Bonaiuti ha premuto il grilletto per ucciderla? Secondo il pm Daniela Cento, la risposta è affermativa e all’ingegnere è contestato l’omicidio volontario. A rafforzare l’ipotesi che sia questa la dinamica della tragedia, ci sono i risultati dell’autopsia. Lo sparo, come ha stabilito il professore Luigi Cipollone, è partito a circa sessanta centimetri di distanza dal petto di Martina ed il proiettile ha avuto una traiettoria dritta per dritta. L’avvocatessa, a causa del colpo, è morta per uno shock emorragico in pochi minuti. 

La difesa: voleva suicidarsi

Diversa la tesi di Bonaiuti. L’ingegnere, infatti, sostiene di aver premuto il grilletto per suicidarsi, ma che, avendo fatto un movimento sbagliato, l’arma l’ha rivolta contro Martina.

Per capire cosa sarebbe successo, bisogna tornare alla notte della tragedia. Bonaiuti chiede a Martina un incontro chiarificatore, dopo che lei lo ha lasciato. Martina acconsente. La coppia prenota al Brado, ristorante dove i due hanno cenato più volte negli anni in cui sono stati insieme. La discussione degenera dopo pochi minuti. Martina è addirittura costretta a correre in bagno. Il personale del Brado interviene per chiederle se ha bisogno d’aiuto. L’avvocatessa li tranquillizza e vanno via. Il personale del Bardo comunque chiama le forze dell’ordine. La coppia riprende a litigare, quando arrivano alla Mercedes di Bonaiuti. Lui tira fuori l’arma e spara. Poi scappa a casa, in via Monte Grimano, zona Colle Salaria. Martina farà qualche passo e morirà davanti al Brado. 

Lo stesso poligono di Campiti

Verso mezzanotte, la polizia arresterà Bonaiuti nel suo appartamento, diviso da tempo insieme alla moglie, con la quale però ormai i rapporti erano divenuti formali. Una postilla: Bonaiuti ha frequentato lo stesso poligono di Tor di Quinto, dove si è allenato Claudio Campiti, l’uomo che ha ucciso 4 donne l’11 dicembre.

Le Armi. DAGONOTA il 18 gennaio 2023.

Entrambi gli autori degli ultimi due omicidi compiuti a Roma con «arma regolarmente detenuta», avevano in tasca una licenza per l’uso sportivo di pistole e fucili. Claudio Campiti, 57 anni, disoccupato, l’11 dicembre s’è presentato in un bar di Fidene nel quale era in corso una riunione di condominio, ha estratto una semiautomatica Glock 45 che aveva appena rubato al poligono di tiro di Tor di Quinto, e ha ucciso quattro donne.

 Un mese dopo, lo scorso venerdì, fuori dal ristorante “Brado” di Roma, Costantino Bonaiuti, 60 anni, dirigente dell'Enav, ha freddato con un colpo di pistola l’ex compagna, Martina Scialdone. Casualità, Bonaiuti frequentava (con ossessiva insistenza) lo stesso poligono di Tor di Quinto.

Sia  Campiti sia Bonaiuti era persone mentalmente “fragili”,  con traumi alle spalle, ed erano stati in cura. Eppure entrambi possedevano e tenevano regolarmente in casa armi che potevano utilizzare per «uso sportivo». A questo punto una domanda si pone una domanda: come funziona in Italia la legge sulle armi?

Estratto dell’articolo di Lorenzo Salvia per il “Corriere della Sera” il 18 gennaio 2023.

Ma è proprio vero che la legge italiana sulla vendita delle armi è così severa? Lo ripetiamo ogni volta che dagli Stati Uniti arriva la notizia di una di quelle terribili stragi nelle scuole che da noi non esistono. […]

 La cosa migliore è partire dalle licenze per uso sportivo, quelle richieste da chi spara nei tiro a segno. Rispetto a venti anni fa, quando erano poco più di 100 mila, adesso superano quota mezzo milione. E compensano la progressiva diminuzione delle licenze dei cacciatori, scese in 20 anni da quasi 900 mila a poco più di 600 mila. […]

Quali sono i dettagli che possono trasformare una legge severa in una regolamentazione piena di buchi? Intanto la durata della licenza, cinque anni. In 1.800 giorni la vita di una persona può rovesciarsi completamente. Un divorzio, una malattia, un fallimento, un licenziamento. Mille traumi piccoli e grandi che possono cambiare radicalmente la prospettiva di vita, l’equilibrio di ognuno di noi. […]

 Un secondo problema lo spiega Giorgio Beretta, dell’Osservatorio permanente sulle armi leggere: «Il certificato medico necessario per ottenere il porto d’armi, compreso quello per uso sportivo, è spesso un’autocertificazione di fatto». In che senso? «È il diretto interessato che compila il modulo, dicendo che non ha malattie nervose, non ha turbe psichiche, non è dipendente da alcol e stupefacenti. Poi porta quel foglio dal medico che, se non sospetta nulla di strano, controfirma. E la cosa finisce lì».

Non ci sono test «oggettivi» su droghe e alcol. E chi ha qualcosa da nascondere non si incastra certo da solo barrando la casella «sbagliata» sul modulo. Ma c’è di più.

 Se chi vuole un’arma è in cura da uno psichiatra e magari prende anche dei farmaci, il suo psichiatra non può avvertire il medico di base. C’è la barriera della privacy. A meno che non sia il paziente stesso a dirlo al medico che gli deve dare l’ok per avere un’arma […]

 C’è però un altro buco che forse misura meglio ancora la distanza tra buone intenzioni e risultati un po’ così. Chi ottiene il porto d’armi si impegna a comunicare la cosa a tutti i maggiorenni conviventi: moglie, marito, compagno, figli grandi. Ma nessuno verifica che questa comunicazione sia stata fatta davvero.

Sulla legge severa, che forse così severa non è, c’è del resto un enorme punto interrogativo. Non sappiamo quanti armi ci sono in Italia. Gli unici dati sono quelli che riguardano il porto d’armi: poco più di 1,2 milioni anche se per ogni licenza le armi «detenibili» sono diverse. Ma nulla si sa dei nulla osta, che consentono di tenere l’arma solo in casa, senza portarla in giro.

 Qui la richiesta va fatta alla singola stazione di polizia o caserma dei carabinieri. Non c’è una banca dati centralizzata. Le stime sul totale variano dai 2 agli 8 milioni. […]

«Martina Scialdone era un’avvocata fino al midollo. Ora lasciamo parlare soltanto i fatti».

Mario Scialla, legale della famiglia di Martina Scialdone. Il legale che rappresenta la famiglia della giovane vittima: «Chi si confronta con il dolore della perdita di un congiunto viene sollecitato, quasi obbligatorio, a scendere in un'Agorà che non è giuridica». Gennaro Grimolizzi su Il Dubbio il 19 gennaio 2023

Sono giornate impegnative e dal grande trasporto emotivo anche per Mario Scialla, il penalista che assiste la madre e il fratello di Martina Scialdone, l’avvocata uccisa dall’ex fidanzato all’esterno di un ristorante di Roma quasi una settimana fa. «Si è cercato di soffermarsi su altro – dice al Dubbio l’avvocato Mario Scialla, - sul comportamento del gestore del locale, sull’intervento più o meno tempestivo della polizia. Trovo poco producente di fronte ad un fatto di tale evidenza e gravità andare a cercare in maniera poco razionale altri elementi, che rischiano di creare solo ulteriore disinformazione. Ci troviamo di fronte ad un dramma e la sua famiglia va rispettata e preservata. Occorre il massimo del garbo. In questo momento occorre chiarire come sono andati i fatti e non stare dietro alle chiacchiere che si rincorrono in questi giorni».

Avvocato Scialla, l’uccisione di Martina Scialdone lascia un vuoto incolmabile tra i suoi familiari, tra i suoi amici e tra i suoi colleghi. Ancora una volta dobbiamo commentare un femminicidio. Come si possono evitare tragedie del genere?

Mi faccia dire, prima di tutto, che è stato strappato un fiore. Lo affermo senza retorica. È stata strappata una vita di 35 anni all’affetto dei suoi cari. Martina aveva intrapreso con grande serietà e metodo il suo percorso lavorativo. Ho avuto modo in diverse occasioni di constatare la sua professionalità, quando era ancora dottoressa in legge, intenta a prendere appunti in diverse iniziative. Una ragazza solare. Si notava che la professione forense la appassionava. Era una collega impegnata e la sua è una perdita grave che lascia tanti interrogativi. Uno riguarda la situazione in generale delle donne in alcuni contesti di violenza che non le risparmiano. A qualsiasi livello e a qualsiasi forma di cultura. Possiamo immaginare che certe cose avvengano in ambienti degradati, con persone poco educate, cresciute senza istruzione. Tutt’altro. Nel caso di Martina ci troviamo di fronte anche alla imprevedibilità di certi comportamenti, che ci inducono a lavorare per evitarli.

Subito dopo l’omicidio dell’avvocata Scialdone, qualcuno, in maniera inappropriata e sotto certi versi morbosa, ha rivolto attenzioni alla sua vita privata e al suo rapporto con l’ex fidanzato. Cosa ne pensa?

Dico che ci sono state delle forzature. Si rinvengono nell’approccio eccessivamente disinvolto di qualcuno. La conseguenza è che le persone che leggono i giornali o vedono la televisione si formano un determinato convincimento. Noi abbiamo una situazione che nella sua gravità è elementare: c’è un assassino che spara e uccide Martina davanti al fratello. Quest’ultimo la soccorre, interviene un medico ma non c’è più niente da fare. Questo è il quadro nudo e crudo. Purtroppo, ho notato che ci sono delle deviazioni anche imprevedibili su modalità, su coinvolgimenti di altre persone, su improbabili nessi di causalità. Ma fin qui ognuno si difende come meglio crede. Si instaurano, insomma, dei meccanismi molto particolari.

A cosa si riferisce?

In vicende del genere il silenzio è d’oro. Considero obiettivamente una forzatura il meccanismo perverso instauratosi. Io faccio l’avvocato da oltre trent’anni. Ogni tanto mi capita di confrontarmi con avvenimenti come quello che stiamo commentando, e constato che la modalità è sempre la stessa. Chi si confronta con il dolore fortissimo, legato alla perdita con modalità tragiche di un congiunto, deve preoccuparsi anche dell’immagine che viene data della vittima. Viene sollecitato, quasi obbligato, a scendere in una agorà che non è giuridica, senza contraddittorio e garanzia, dove ognuno la spara più grossa dell’altro. Anziché pensare ai funerali, a come procedere in merito all’autopsia e alla nomina dei consulenti, ci si deve aggiornare su alcuni meccanismi che si mettono in moto automaticamente e che pretendono dichiarazioni ed informazioni. Il legale, fra le tante cose, deve essere anche impegnato a preservare la famiglia di fronte a persone che ti cercano, citofonano o si fanno trovare sotto casa. Secondo me, non si presta la dovuta attenzione al dolore delle persone e, soprattutto, non si fa del silenzio una regola aurea.

Ha notato in questi giorni delle parole o degli atteggiamenti fuori luogo?

Ci sono state, per esempio, richieste di informazioni personali sulla vittima, che non hanno nulla a che vedere con i fatti accaduti pochi giorni fa. L’avvocato, alla fine, si trova costretto a confrontarsi con un certo modo di affrontare certe situazioni, senza alcun ritegno e rispetto. Per fortuna siamo nelle mani della Procura, che sta operando bene, ma è anomalo che chi è colpito negli affetti più cari debba preoccuparsi di avere un difensore chiamato ad intervenire pure su aspetti inconferenti. Anche da parte di alcuni organi di informazione non c’è la necessità, per una vicenda come quella che stiamo commentando, di scavare nella vita delle persone, di fare ritratti in un certo modo. Stiamo parlando di una avvocata impegnata su determinate tematiche, che con una forza d’animo interiore notevole, ha sottovalutato il rischio che si correva.

Nel rapporto tra la vittima e il partner o l’ex partner, alcuni elementi di tensione ci proiettano già verso sicuri fenomeni criminali?

Io credo che la cosa più sbagliata che si possa fare è generalizzare. Problemi come le interruzioni di rapporti con persone che non le accettano, non andrebbero mai affrontati da soli. Ci sarebbe bisogno di trovare il supporto di contesti più sicuri. Nemmeno un avvocato è al sicuro, come abbiamo visto nel caso di Martina Scialdone.

Estratto dell’articolo di Maria Egizia Fiaschetti e Rinaldo Frignani per corriere.it il 14 gennaio 2023.

Notte di terrore in viale Amelia, nel quartiere Appio-Latino, vicino alla stazione Tuscolana, dove intorno alle 23.15 un uomo di 60 anni ha sparato all'ex compagna, Martina Scialdone, avvocato di 34 anni, uccidendola, dopo una lite avvenuta al ristorante «Brado». Costantino Bonaiuti - ingegnere di origine etiope, sindacalista di Assivolo, sindacato dei quadri Enav, ma anche responsabile di International Strategies per lo stesso ente, dove ha ricoperto il ruolo di consigliere nazionale  - era a cena con la donna, pare, per l'ultimo tentativo di riconciliazione dopo la rottura del rapporto. [...]

E stando alle prime informazioni raccolte dagli inquirenti la giovane avrebbe tentato di nascondersi nel bagno ma i responsabili del locale l'avrebbero fatta uscire. Fuori c'era l'uomo ad aspettarla. La lite si è protratta a lungo, sia all'interno che all'esterno. Sul luogo del delitto ad un certo punto è arrivato anche il fratello della vittima.

Appena uscito dal ristorante, infatti, l'aggressore, invece di placarsi ha impugnato l'arma  e l'ha rivolta contro l'ex compagna esplodendo un colpo. Subito dopo, è fuggito a bordo della propria auto in direzione di via Tuscolana. La donna è deceduta a causa della ferita letale provocata dal proiettile che l'ha raggiunta da una distanza molto ravvicinata: a nulla è valso l'intervento degli addetti del 118 che hanno provato a rianimarla. Nel frattempo, numerose pattuglie si sono mosse all'inseguimento dell'uomo, che è stato intercettato in zona Colle Salario, all'interno della sua abitazione, e sottoposto a stato di fermo. [...]

 Dai primi riscontri la pistola usata da Bonaiuti risulta regolarmente denunciata per uso sportivo, ma ne possedeva più di una. L'uomo vive a Fidene-Colle Salario e frequentava il poligono di Tor di Quinto, lo stesso dove era iscritto Claudio Campiti, il killer della strage di Fidene.

La pistola dell'omicidio è stata ritrovata a casa del killer che nella notte è stata anche perquisita. Dai primi accertamenti è anche emerso che la 34enne prima di essere uccisa avrebbe chiesto aiuto ad alcune persone che si trovavano al ristorante [...] Ma attorno a lei nessuno l'ha capito e comunque nessuno le avrebbe dato appoggio. «Martina aveva paura dell'ex compagno, molto più grande di lei, con cui stava da un paio d'anni. Probabilmente l'ha vista fragile e in lei la ragazza ha visto una figura paterna». É il racconto di Marita, vicina di casa di Martina: [...]

L'avvocato Scialdone, con studio professionale associato in via Panama, ai Parioli, era fra l'altro esperto in diritto di famiglia e nella sua breve carriera, aveva giurato nel 2021, si era occupata già di casi di separazioni, divorzi e anche maltrattamenti di uomini nei confronti delle partner. 

 Sotto choc gli abitanti del quartiere, molti dei quali sono stati svegliati dal rumore degli spari e dalle urla. [...]

Martina Scialdone, uccisa a Roma dal suo ex, aveva chiesto aiuto a un cameriere: ma il ristorante li ha cacciati. Maria Egizia Fiaschetti e Rinaldo Frignani su Il Corriere della Sera il 15 Gennaio 2023.

Martina Scialdone, 34 anni, avvocata, è morta tra la braccia del fratello, giovedì una fiaccolata per ricordarla

Uccisa con un colpo di pistola al petto dal compagno fuori da un ristorante del Tuscolano. Il primo femminicidio dell’anno nella Capitale, il secondo in Italia dopo quello del 4 gennaio scorso vicino Genova di Giulia Donato. 

Martina Scialdone, avvocata di 34 anni, specializzata in diritto di famiglia, ma anche in casi di maltrattamenti sulle donne, è morta fra le braccia del fratello accorso in viale Amelia: a chiamarlo era stata proprio la sorella poco prima di cadere a terra, mentre Costantino Bonaiuti, 60 anni, funzionario dell’Enav, l’Ente nazionale per l’assistenza al volo, con il quale aveva una relazione dal 2021, si allontanava per prendere l’auto e rifugiarsi a casa, a Colle Salario.

I due si erano dati appuntamento per cenare al «Brado», un locale molto frequentato della zona: sembra che la giovane fosse decisa a chiudere la relazione, ne aveva già parlato con i familiari e con le amiche. C’è chi ipotizza per la grande differenza di età, ma su questo punto non ci sono conferme ufficiali. Bonaiuti, che a casa della vittima era conosciuto con il soprannome «Costy», è affetto da una grave malattia. È anche un appassionato di armi da fuoco, già campione regionale nel Lazio di tiro a segno con la pistola. Un funzionario esperto in meteorologia e sistemi di controllo del traffico aereo, irreprensibile sul lavoro — come lo descrivono i colleghi — ma anche con qualche scatto d’ira.

Forse già sospettava che l’avvocata volesse annunciargli la sua decisione di troncare e per questo si è presentato con una delle sue pistole in tasca. Un femminicidio premeditato chissà da quanto tempo senza che nessuno se ne sia accorto. 

Secondo le testimonianze raccolte dalla polizia, la tensione fra i due è montata in un crescendo scandito dai toni sempre più accesi del colloquio e dal nervoso viavai della 34enne con la toilette. Martina, associata in uno studio legale in via Panama, ai Parioli, si è anche chiusa in bagno per sfuggire all’aggressività del compagno che continuava a sferrare pugni sulla porta.

 A un certo punto, visto che stavano disturbando i clienti, i due sono stati invitati a lasciare il locale, ma prima di uscire la giovane avrebbe cercato con la scusa di una sigaretta di attirare l’attenzione di un cameriere, che tuttavia non avrebbe colto la sua richiesta di aiuto: Martina sperava forse che qualcuno riuscisse a distrarre il partner il tempo necessario per allontanarsi e rifugiarsi a casa, non lontano dal ristorante. In strada ha provato a correre via, ma è stata raggiunta.

Il diverbio con «Costy» è proseguito solo qualche istante poi l’ingegnere le ha esploso un colpo a bruciapelo al petto, uccidendola. Erano le 23.15. Bonaiuti è fuggito braccato dalla polizia che lo ha arrestato nell’abitazione che condivide con l’ex moglie: si è arreso, consegnando la pistola. Ne sono state sequestrate altre tre.

Il 60enne ancora si esercita al poligono di Tor di Quinto: è proprio quello chiuso a dicembre dai carabinieri dopo che Claudio Campiti, l’autore della strage sempre a Colle Salario, si è appropriato di una Glock per uccidere quattro donne. Sul conto dell’ingegnere non ci sono denunce per maltrattamenti nè da parte sua, nè della vittima. 

«Andate a vedere come si sono comportati con lei al ristorante», avverte al citofono il fratello di Martina. «Solo illazioni nei nostri confronti, abbiamo fatto tutto il possibile», replica il titolare del «Brado». Chi conosceva l’avvocata, rimasta a vivere con il fratello e la madre 94enne, non esclude che avesse rivisto nell’ingegnere la figura paterna. Ma poi tutto è cambiato. 

«L’ho vista nascere — racconta la signora Marita — , in famiglia non erano contenti della sua relazione con Costantino. Sembra che alla fine si fosse convinta a lasciarlo, si era anche rivolta a uno psicologo». Sotto choc i colleghi avvocati: «Stava con noi da 5 anni — rivela l’avvocato Giulio Micioni —. L’ho salutata ieri sera (venerdì, ndr) andando via dallo studio, nulla che lasciasse immaginare quello che sarebbe accaduto». 

Per tutto il giorno gli amici della 34enne hanno lasciato fiori davanti al ristorante, ieri (e oggi) chiuso per lutto. Per ora al titolare non viene contestato nulla, ma la Questura valuta provvedimenti di sospensione dell’attività dopo quello che è successo. 

Sotto choc gli abitanti del quartiere, tantissimi i messaggi di cordoglio sui social. E per la serata di giovedì fiaccolata dell’Associazione forense Catilina, con il Centro italiano Gestalt, per ricordare Martina.

Uccide la ex all'ultimo incontro "Martina lo aveva lasciato". La 34enne aveva chiesto di vederlo al ristorante temendo la sua reazione: "Si è rifugiata in bagno". Lui le ha sparato. Stefano Vladovich il 15 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Roma. Doveva essere un incontro, l'ultimo, per una storia finita da tempo. Aveva scelto di vederlo in un ristorante, Martina Scialdone, un'avvocata 34enne, proprio per paura di una sua reazione. Fra lei e l'ex, Costantino Bonaiuti, 61 anni, sindacalista dell'Enav, l'Ente nazionale aviazione civile, nel corso della serata di venerdì le cose vanno sempre peggio. Parole grosse, urla. Tanto che dai responsabili del ristorante «Brado» di via Amelia i due vengono addirittura «invitati» ad andarsene.

«Quando Martina si è resa conto che le cose si stavano mettendo male - racconta un'amica di famiglia - si è chiusa in bagno e ha chiamato il fratello che si è precipitato da lei». Ma anche da lì la donna viene costretta a uscire. Una volta in strada l'assassino estrae una pistola e le spara più colpi in pieno petto. Qualcuno, solo allora, chiama il 112. L'uomo, un italo-etiope sindacalista di AssiVolo, fugge. «È morta fra le braccia del fratello - racconta ancora l'amica di famiglia -. Poveri ragazzi, il padre se l'è portato via un brutto male quando lei era all'università. Adesso la madre e il fratello sono disperati». L'assassino si allontana portando via l'arma. Quando arrivano sul posto le volanti, con gli agenti della squadra mobile e i sanitari del 118, per la penalista non c'è nulla da fare. Pochi minuti ancora e i poliziotti intercettano il killer, ancora in auto, nel quartiere dove vive, Fidene-Colle Salario, e lo ammanettano. In casa Bonaiuti ha più di una pistola semiautomatica, anche se non possiede nessuna licenza. Armi tutte dichiarate ma per uso sportivo: Bonaiuti frequenta il poligono di tiro di Tor di Quinto, chiuso da quando Claudio Campiti, 57 anni, dopo aver sottratto dall'armeria una calibro 45 con 180 proiettili, uccide quattro donne durante un'assemblea condominiale. «Nelle case italiane ci sono migliaia di arsenali che nessuno conosce - spiega Vincenzo Del Vicario, presidente nazionale del Savip, il sindacato delle guardie giurate -. Basta iscriversi a un poligono, nascondere dei proiettili di quelli acquistati per il tiro a segno, e andarsene via. Il progetto per un sistema informatizzato, un data base, sulle armi si è arenato anni fa nonostante siano stati spesi 3 milioni di euro». Il pm del pool antiviolenza della Procura ha aperto un fascicolo per omicidio di primo grado e disposto l'esame autoptico della donna. Bonaiuti, in stato di fermo, è accusato di omicidio volontario aggravato e porto abusivo d'arma da fuoco.

Iscritta da due anni all'Ordine degli avvocati di cui era consigliera, la Scialdone lavorava in uno studio di via Panama, ai Parioli. Sotto choc i suoi colleghi. «L'avevo sentita la sera stessa - racconta l'avvocato Giulio Micioni -, era serena come sempre. Due giorni prima avevamo festeggiato il mio compleanno con gli altri colleghi».

La seconda vittima di femminicidio in Italia dall'inizio dell'anno. Il primo, il 4 gennaio a Pontedecimo di Genova, è quello di Giulia Donato, uccisa a colpi di pistola dall'ex, Andrea Incorvaia, guardia giurata, che poi si toglie la vita. «Un fenomeno inarrestabile - dice il presidente di Telefono Rosa, Maria Gabriella Carnieri Moscatelli - e nulla viene messo in campo per contrastarlo». Nel 2022 delle 122 donne assassinate, 100 sono state uccise in ambito familiare, di queste 59 hanno trovato la morte per mano del marito, ex marito, fidanzato o ex compagno.

L'omicidio appena usciti in strada. Donna uccisa dall’ex compagno: lite nel ristorante, fuga in bagno e l’invito a lasciare il locale: “State dando fastidio”. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 14 Gennaio 2023

Una donna di 35 anni è stata uccisa a colpi d’arma da fuoco dal suo ex compagno al termine di una lite avvenuta prima nel ristorante e successivamente in strada. Il femminicidio è avvenuto a Roma venerdì sera, 13 gennaio, poco dopo le 22 in viale Amelia, zona Furio Camillo, nel quartiere Tuscolano.

Secondo una prima ricostruzione, l’uomo, una guardia giurata di 61 anni, avrebbe raggiunto l’ex compagna che si trovava a cena al Ristorante Brado con altre persone. Tra i due sarebbe nata un’accesa discussione all’interno del locale con la donna che, nel tentativo di sfuggire all’uomo, avrebbe anche tentato di chiudersi in bagno.

Comportamenti che non sono stati graditi dal proprietario del locale che avrebbe invitato la coppia a lasciare il locale perché il loro atteggiamento stava molestando gli altri clienti. Una volta usciti in strada, la tragedia: i due hanno percorso pochi metri fino a quando il 61enne ha estratto la pistola esplodendo diversi colpi d’arma da fuoco contro l’ex per poi allontanarsi.

La donna ha provato a chiedere aiuto, è stata soccorsa dalle persone presenti e successivamente dai sanitari del 118 ma è deceduta nel giro di 30 minuti. L’uomo è fuggito in auto ma è stato bloccato e arrestato dalle Volanti della Questura in zona Nuovo Salario.

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

Giulia Donato. Genova: guardia giurata uccide la fidanzata e poi si toglie la vita. Redazione Cronache su Il Corriere della Sera il 4 Gennaio 2023.

È avvenuto nel pomeriggio nel quartiere di Pontedecimo, a Genova. La vittima aveva 23 anni, l’omicida 32

La guardia giurata Andrea Incorvaia ha ucciso la fidanzata Giulia Donato e si è tolto la vita sparandosi. Il femminicidio è avvenuto nel quartiere di Pontedecimo, a Genova. La vittima aveva 24 anni, l’omicida 32. Nel condominio di via Anfossi 22 sono intervenuti i medici del 118, le volanti, la squadra mobile che ha avviato le indagini, il sostituto procuratore Francesca Rombolà e il medico legale.

Secondo una prima ricostruzione Incorvaia avrebbe ucciso la vittima a letto mentre dormiva e poi si sarebbe ucciso con l’arma, forse martedì sera. L’ipotesi è al vaglio degli investigatori. A trovare i corpi è stata la sorella della guardia giurata che è andata in casa della sua fidanzata perché non aveva notizie del fratello dalla sera prima: sapeva che i due si stavano lasciando e negli ultimi tempi le liti erano diventate frequenti. Al momento non risultano precedenti per denunce o segnalazioni.

Avvocata uccisa a Roma, i pm e il giallo della salute del killer Costantino Bonaiuti. I colleghi dell'Enav: «Era aggressivo anche con noi». Fu campione di tiro con la pistola. Rinaldo Frignani e Ilaria Sacchettoni su Il Corriere della Sera il 18 Gennaio 2023.

Indagini sulle cartelle cliniche. Sentiti alcuni dirigenti dell'ente per l'assistenza al volo ai quali, il killer di Martina Scialdone, aveva raccontato di essere molto malato. Il suo avvocato presenterà istanza al Riesame: «Gravi condizioni di salute» 

L’Enav gli ha disattivato il badge e svuotato la scrivania. Costantino Bonaiuti, a giudicare dai primi provvedimenti presi dall’Ente nazionale per l’assistenza al volo, non rientrerà più in via Salaria. Ma l’annullamento del pass, con il divieto di farlo accedere in ufficio, avrebbe anche una funzione preventiva, dopo che il 60enne funzionario di ultimo livello, specializzato in meteo e controllo del traffico aereo, sindacalista di punta dell’Assovolo, è stato arrestato per aver ucciso con un colpo di pistola, con premeditazione e spinto dalla gelosia, secondo il gip Simona Calegari, la compagna Martina Scialdone nella serata di venerdì scorso al quartiere Tuscolano. 

Testimone chiave dell’omicidio il fratello dell’avvocata dei Parioli, Lorenzo: con il suo racconto inchioda «Costy», il soprannome con il quale lo conosce dal 2021. Il suo verbale sembra blindare la ricostruzione del femminicidio davanti al ristorante «Brado» di viale Amelia, ma gli investigatori della Squadra mobile proseguono nelle indagini, anche per prevenire le mosse della difesa di Bonaiuti. Il suo avvocato Fabio Taglialatela ha infatti presentato ricorso al tribunale del Riesame contestando la premeditazione (se il suo cliente avesse voluto uccidere perché non farlo al principio della serata ma solo due ore e mezzo dopo?) e sollevando il problema dell’incompatibilità con il regime carcerario: il funzionario, oltre a patologie polmonari, segue una terapia psicologica. 

Ecco perché ieri alcuni dirigenti dell’Enav sono stati sentiti per capire le reali condizioni di salute del 60enne, che almeno dal 2019 ha raccontato ai colleghi di soffrire di un’aggressiva forma di tumore ai polmoni che lo ha costretto a frequenti sedute di chemioterapia e anche a un intervento chirurgico. Malattia che, a sorpresa, ha tuttavia negato di aver mai avuto proprio all’avvocato Taglialatela, che lo ha riferito alla stampa subito dopo l’arresto. All’Enav Bonaiuti risulta comunque inserito nell’elenco dei dipendenti fragili e quindi sarà adesso acquisito dal medico competente il suo fascicolo personale, altrimenti protetto dalla privacy. Allo stesso tempo saranno contattati gli specialisti che lo hanno in cura e verranno analizzati i certificati rilasciati a Bonaiuti e presentati al lavoro.

In attesa di fare chiarezza sulla tempistica nell’intervento della polizia dopo la segnalazione di lite fra Martina e il compagno, giunta dal ristorante «Bardo» mezz’ora prima dello sparo fatale, chi indaga sta anche ricostruendo il comportamento quotidiano del funzionario con i colleghi. In via Salaria Bonaiuti si vantava di essere stato da giovane campione di tiro con la pistola. Alcuni lo hanno definito aggressivo, irascibile, perfino violento. Un tipo che scattava per nulla, insomma, anche se nessuno lo ha mai visto portare o maneggiare armi da fuoco. A casa invece ne aveva sei per uso sportivo e da caccia. Nonostante i problemi psicologici citati dal suo avvocato, tuttavia non gli sono mai state tolte. Ma adesso la pm Daniela Cento, che coordina l’inchiesta, ha intenzione di fare anche verifiche sul passato di Bonaiuti e in particolare sulla presunta aggressione nei confronti di un’altra donna commessa dieci anni fa.

Estratto dell'articolo di Andrea Ossino per “la Repubblica - Edizione Roma” il 17 gennaio 2022.

 […] A Costantino Bonaiuti non è stato ritirato il porto d'armi neanche dopo la segnalazione per un'aggressione nei confronti di una donna. Ruotano tra i ritardi delle forze dell'ordine paventati dalla difesa dell'assassino e le evidenti carenze di controllo, le domande sulla morte dell'avvocatessa di 34 anni uccisa venerdì scorso dall'ingegnere dell'Enav.

Era nota l'aggressività dell'assassino. Lo era almeno da una decina di anni, da quando aveva aggredito una ragazza. Ed era conosciuto anche il suo precario stato di salute mentale, visto che il suo stesso avvocato, Fabio Taglialatela, afferma che l'ingegnere di 61 anni stava affrontando un percorso « psichiatrico e psicologico».

Testimonianze, certificati e segnalazioni non hanno tuttavia impedito a Bonaiuti di mettere insieme una santabarbara, quattro pistole e un paio di fucili con cui si dilettava tra una partita di caccia, due tiri al poligono e qualche gara da pistolero.

 […] A tutto ciò si riferisce l'avvocato dell'assassino, Fabio Taglialatela, quando parla di «responsabilità che vanno oltre le evidenti concatenazioni che danno luogo all'evento» , scagliandosi anche contro i « ritardi generalizzati » delle forze dell'ordine.

[…] I vicini di casa dell'indagato ricordano di aver subito minacce di morte, le amiche di Martina narrano l'ira dell'uomo e anche qualche collega lascia intuire comportamenti fuori dalle righe. Nulla che potesse far pensare a un imminente omicidio, ma sicuramente tutto faceva propendere per una certa pericolosità, mai rilevata da chi concede il porto d'armi.

  Aggressioni alle donne e cartelle cliniche che descrivono una persona depressa non sono bastate. Era violento, minaccioso e già segnalato. Non abbastanza, evidentemente, per impedirgli di maneggiare e custodire una piccola santabarbara.

Estratto dell’articolo di Flaminia Savelli per “il Messaggero” il 15 Gennaio 2023.

Un passato difficile, la malattia, l'isolamento. Ma la molla che ha armato la calibro 22 di Costantino Bonaiuti, sarebbe stata la fine della relazione con Martina Scialdone, l'avvocatessa 34enne con cui da diversi anni aveva avuto una storia. Di più: l'ombra di un altro uomo a cui la ragazza si stava interessando. […] Da oltre 20 anni Bonaiuti, 61enne di origini etiopi, è in servizio all'Ente Nazionale per l'Assistenza al Volo. È ingegnere e sindacalista di AssiVolo, il sindacato dei quadri Enav. […]

 Da due anni ha chiesto e ottenuto di lavorare in smart working: da quando ha saputo di essere malato di cancro ai polmoni, con la malattia che avanza e che ha coinvolto anche il cervello. […] i colleghi […] confermano la passione di Bonaiuti per le armi e per il tiro al bersaglio. Iscritto al poligono di Tor di Quinto, lo stesso poligono dove Claudio Campiti, l'autore della strage di Fidene dello scorso 11 dicembre, si allenava e dal quale la mattina degli omicidi aveva rubato la pistola.

Una coincidenza, ma non l'unica. Bonaiuti si è trasferito dieci anni fa nell'elegante comprensorio di via Monte Grimano, a una manciata di metri dal bar di via Monte Giberto, dove Campiti ha sparato uccidendo quattro persone: i suoi vicini di casa.

 La malattia avrebbe segnato gli ultimi mesi della vita di Bonaiuti già provato da lutti e dolori. Padre italiano e madre eritrea, la famiglia è originaria di Asmara: il papà, impiegato durante l'occupazione italiana, aveva sposato la donna, di 25 anni più giovane.

Rientrati in Italia a metà degli anni 70, dopo la caduta di Hailé Selassié, i due si erano trasferiti a Roma con gli otto figli, tra i quali Costantino. Anni difficili per la famiglia, che aveva attraversato, al rientro, una complicata situazione economica. Per Bonaiuti, però, arriva la svolta con l'impiego come ingegnere dell'Enav. […]

Nella casa di via Monte Grimano, Bonaiuti spera forse di superare i lutti che hanno colpito la sua famiglia: il fratello maggiore è morto in un incidente stradale, mentre due sorelle si sarebbero tolte la vita a distanza di pochi mesi. […] Poi c'è l'incontro con una giovanissima Martina […] Le cose hanno però iniziato a precipitare e la ragazza si sarebbe via via allontanata da Bonaiuti, che invece è diventato ogni volta più insistente. […] Gli ultimi mesi, dunque, l'assassino li avrebbe vissuti quasi in totale isolamento […]

La malattia di Costantino Bonaiuti, la chiamata al 112 di Martina Scialdone e gli altri punti oscuri dell'omicidio di Roma. Rinaldo Frignani su Il Corriere della Sera il 16 Gennaio 2023

I titolari del ristorante Brado: chiamata già durante la lite, ma la pattuglia non è mai arrivata. Lui nega di avere il cancro: secondo i colleghi dell'Enav, Bonaiuti già da tre anni diceva invece di lottare contro un tumore

I fiori deposti in viale Amelia, al quartiere Tuscolano, in ricordo di Martina Scialdone (foto Claudio Guaitoli)

Il giallo delle telefonate al 112 partite dal ristorante, il mistero sulle condizioni di salute del killer di Martina Scialdone. Punti oscuri di un femminicidio che ha sconvolto tutti, anche per la dinamica che l’ha preceduto nel locale del quartiere Tuscolano, a Roma, — il «Brado» —, con il sospetto che si sarebbe potuto fare qualcosa per salvarla. Ma non è successo. 

Costantino Bonaiuti, funzionario Enav di 60 anni con la passione per le armi da fuoco, comparirà oggi davanti al gip per l’udienza di convalida. È accusato di omicidio premeditato, aggravato dai motivi futili e abietti, e dal fatto che aveva una relazione sentimentale con la vittima.

Ieri il suo avvocato Domenico Pirozzi lo ha incontrato in carcere e ha appreso dallo stesso indagato che non è affetto da alcun tumore, come era invece emerso dalle testimonianze dei suoi colleghi dell’Ente nazionale per l’assistenza al volo, dove risulta inserito tra i dipendenti fragili. «Ce l’ha raccontato per tre anni», ribadisce chi ha lavorato con lui fianco a fianco, al punto che oggi potrebbe scattare un’indagine interna per capire se in tutto questo tempo Bonaiuti abbia presentato certificati medici e di che tipo, chi li abbia rilasciati e se fosse davvero in cura presso qualche struttura sanitaria.

Una giornata che potrebbe essere decisiva per le indagini quella di oggi anche sotto altri punti di vista, perché la Squadra mobile sentirà i tre fratelli proprietari e il personale di servizio del ristorante dove venerdì sera «Costy», come era soprannominato il killer a casa della vittima, e Martina, avvocata che si occupava di diritto di famiglia, erano andati a cena e dove hanno litigato furiosamente. Tanto che lui, secondo chi sedeva e chi serviva ai tavoli, avrebbe cominciato a sbattere i pugni sulla porta del bagno dove la 34enne si era rifugiata (con altre persone presenti) coprendola di insulti.

I ristoratori avrebbero riferito alla loro avvocata Francesca Palazzesi, che la prima telefonata al 112, per chiedere aiuto alle forze dell’ordine, sarebbe stata fatta dal «Brado» quando la lite era ancora in corso. Se fosse andata così tuttavia una pattuglia sarebbe giunta in pochi minuti e avrebbe colto Bonaiuti fuori dal ristorante con la compagna, ma ciò non è successo. Un’altra chiamata è stata fatta subito dopo lo sparo che ha ucciso l’avvocata, insieme con altre sempre al numero unico di emergenza da parte di chi aveva assistito alla scena. Chi indaga ricostruirà ora le fasi della lite nel locale e dell’allontanamento della coppia perché disturbava con l’analisi dei video delle telecamere interne ed esterne del ristorante. Saranno verificate tutte le chiamate al 112 con i relativi orari, e anche se all’eventuale prima segnalazione è seguito l’invio di una pattuglia per verificare cosa stesse accadendo.

«Sono usciti insieme, noi però non abbiamo cacciato nessuno, anzi abbiamo chiesto alla ragazza se avesse bisogno di aiuto e lei ci ha detto che era tutto a posto», provano a difendersi i proprietari. Non è escluso che siano sentiti anche alcuni clienti fra i circa ottanta che a quell’ora — erano quasi le 23 — stavano cenando, e in particolare coloro che avrebbero aiutato i camerieri a calmare gli animi insieme con una dottoressa che è intervenuta per soccorrere Martina sul marciapiede. Perché fra le altre cose è importante capire se qualcuno si sia reso conto che Bonaiuti nascondeva una pistola sotto la giacca. Al momento vengono esclusi nei confronti dei titolari del «Brado» provvedimenti di natura penale, ma non quelli amministrativi per quanto accaduto. Insomma un quadro piuttosto complesso che ruota comunque intorno al reato più grave, l’omicidio di Martina Scialdone: dal suo comportamento tenuto al ristorante, confermato da più parti, è evidente che temesse per la sua incolumità. Non si può escludere che sapesse che il partner era armato e potrebbe non averne fatto parola con nessuno per non mettere in pericolo anche tutti coloro che si trovavano nel locale.

Un vicino di Bonaiuti: «Raccontava di sottoporsi a sedute di chemioterapia. Aveva scatti d'ira, mi disse: "se non ti sta bene ti sparo"».  Rinaldo Frignani su Il Corriere della Sera il 16 Gennaio 2023.

Le testimonianze dei condomini del complesso a Colle Salario dove il killer di Martina Scialdone vive con l'ex moglie. «Anche lei si vedeva in piscina da sola o con lui - raccontano -. È scontroso e non saluta mai per primo»

Martina Scialdone era conosciuta anche a Colle Salario, nel complesso residenziale in via Monte Grimano dove il suo assassino, Costantino Bonaiuti, viveva da separato in casa con l’ex moglie. La ricordano i vicini per averla vista tempo fa nella piscina del comprensorio, da sola o accompagnata proprio dal funzionario Enav con il quale aveva una relazione da un paio d’anni. Un personaggio quest’ultimo del quale i residenti avevano paura. «Scontroso, quelle poche volte che lo abbiamo incontrato, perché usciva sempre in macchina passando dal garage, ci è sembrato arrabbiato. Non ha mai salutato per primo», raccontano al videocitofono. Non un bel ricordo, insomma.

«Con l’auto, una Mercedes nera — dice ancora un giovane condomino — era sempre un po’ prepotente, andava troppo veloce in garage. Gliel’ho fatto notare e lui ha risposto: “Faccio come mi pare, se non ti sta bene ti sparo”». Una minaccia esplicita che avrebbero ricevuto anche altri vicini con i quali l’autore del femminicidio del Tuscolano sarebbe entrato in contrasto. Venerdì sera in tanti si sono radunati in cortile quando la polizia si è presentata al secondo piano di una delle quattro palazzine per arrestare Bonaiuti e sequestrargli la pistola con cui ha ucciso Martina e altre cinque armi da fuoco, fra cui due fucili da caccia. Tutte denunciate per uso sportivo e venatorio. 

«Qui ha avuto a che fare un po’ con tutti per svariati motivi — aggiungono da via Monte Grimano —, non era un tipo socievole». «Anche se poi nel mio caso — riprende il ragazzo — non l’ho mai denunciato perché non pensavo dicesse sul serio. Certo adesso...». E proprio sul comportamento tenuto da Bonaiuti anche a casa e sul lavoro, negli uffici dell’Ente nazionale per l’assistenza al volo, dove è un funzionario che si occupa di meteo e gestione del traffico aereo, la polizia sta svolgendo accertamenti per capire se fosse rimasto coinvolto in episodi analoghi. Al momento sembra di no, nonostante la descrizione che da più parti, anche da alcuni colleghi, ne è stata fatta, come di una persona con atteggiamenti anche violenti preceduti da improvvisi scatti d’ira. 

Con un fisico robusto, dai modi sbrigativi, Bonaiuti, 60 anni, viene descritto anche «come una persona che ha affrontato la malattia con un piglio molto deciso, diceva di sottoporsi a sedute di chemioterapia. Non possiamo dire certo che fosse sereno, ma non sembrava nemmeno troppo preoccupato, sebbene fosse riservato sulle sue condizioni di salute». Peccato che ora sembri tutto una bugia. Secondo alcuni «aveva un discreto successo sul fronte sentimentale, l’ex moglie è più grande di lui, non ne ha mai parlato molto». Duro, antipatico, senza denunce. In casa aveva ancora le pistole perché non c’erano motivi per portargliele via in quanto non è mai stato citato su verbali in seguito ai quali è scattato il «codice rosso» previsto nei casi di violenza e minacce alle donne, che fra i primi atti comprende proprio il controllo incrociato su porti e detenzioni di armi da fuoco.

Martina, delitto studiato. La fuga dal ristorante. "Non l'abbiamo cacciata". Notte in cella per il killer, l'omicidio pianificato. I gestori del locale si difendono dalle accuse. Stefano Vladovich il 16 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Non ha niente da perdere. Soprattutto non vuole spiegare perché ha ucciso Martina Scialdone. Prima notte in cella per Costantino Bonaiuti, l'ingegnere 61enne, sindacalista Enav, che venerdì sera ha ammazzato l'avvocatessa romana. In attesa dell'interrogatorio di garanzia davanti al gip, previsto oggi, il pm del pool antiviolenza della Procura cerca di capire cosa ha spinto l'indagato a sparare 4 colpi a bruciapelo contro la poveretta. Fatale il proiettile che l'ha colpita al torace e che l'ha uccisa quasi all'istante.

Esperto tiratore, assiduo frequentatore del poligono di Tor di Quinto, Bonaiuti aveva 4 pistole regolarmente dichiarate per uso sportivo. Una falla non da poco nella normativa: senza porto d'armi le semiautomatiche possono essere acquistate (e registrate) ma devono restare in casa, smontate, fino a quando si va al poligono secondo un tragitto stabilito dalla questura. Niente e nessuno può impedire che il proprietario delle armi faccia altrimenti. Com'è stato quando il killer si è presentato all'appuntamento con Martina, due sere fa, al ristorante Brado di via Amelia, all'Appio Tuscolano. Un incontro «fra la gente» fortemente voluto dalla donna, che di Costantino aveva paura.

Separato in casa, due tragedie familiari alle spalle, un brutto male che lo sta consumando. Gli elementi per pianificare l'assassinio ci sono tutti e Bonaiuti aspetta solo il momento giusto. Una storia finita da tempo per la penalista ma che l'uomo, più grande di 27 anni, non vuole accettare. Secondo una ricostruzione della squadra mobile i due, arrivati nel locale dopo le 21, iniziano a discutere a metà cena. Toni aspri, spesso ad alto volume tanto che in più occasioni i camerieri chiedono di abbassare la voce. Gli altri clienti si girano a guardarli, qualcuno si lamenta. Nessuno si aspetta la tragedia. A un certo punto l'uomo si alza, paga ed esce. Martina è terrorizzata ma nessuno se ne accorge. Si chiude in bagno, chiama il fratello: «Vieni, ho paura» gli dice. Anche da lì viene «invitata» a uscire. Costantino pretende di essere accompagnato fino alla sua auto, Martina fa una decina di metri. Il killer estrae la semiautomatica dalla giacca e spara. La poveretta barcolla, fa ancora qualche passo e crolla a terra, come raccontano gli altri clienti. «Siamo accorsi fuori appena sentiti gli spari». Partono le prime chiamate al 112. No. Per i gestori del locale le cose non sarebbero andate così. «In merito alle informazioni false e diffamatorie che stanno girando sul web - scrivono dal profilo Fb del Brado - ci teniamo a sottolineare che non fanno altro che aggiungere dolore a questa triste storia e che sono frutto di una ricostruzione dei fatti rilasciata da chi non era presente. Ci siamo resi totalmente disponibili a collaborare con le forze dell'ordine che stanno svolgendo le indagini. Ringraziamo i nostri clienti che hanno collaborato per calmare la situazione e che hanno potuto appurare che abbiamo fatto tutto il possibile allertando le autorità sin dal primo momento». Non è chiaro quando è partita la prima chiamata al 112, se durante la lite al tavolo o dopo gli spari. Secondo i gestori, inoltre, nessuno sarebbe stato cacciato dal ristorante. Di fatto Martina è stata lasciata sola tanto che gli inquirenti stanno valutando l'eventualità di emettere un provvedimento di chiusura. Una penalista molto apprezzata la Scialdone, che si occupava proprio di diritto di famiglia, di donne vittime di violenze e maltrattamenti.

Il femminicidio e le polemiche. Martina Scialdone, la lite nel ristorante, la fuga in bagno e l’omicidio: “Non l’abbiamo cacciata dal locale”. Redazione su Il Riformista il 15 Gennaio 2023

La lite nel ristorante dove era a cena con il fratello, la fuga in bagno, poi il presunto chiarimento e l’uscita in strada dove è stata colpita da un colpo di pistola al petto ed è morta tra le braccia del fratello. E’ la tragica fine di Martina Scialdone, giovane avvocatessa di 35 anni (che difendeva donne maltrattate dai mariti), uccisa venerdì sera, 13 gennaio, all’esterno di un ristorante a Roma, nel quartiere Appio Latino.

A premere il grilletto l’ex compagno, Costantino Bonaiuti, ingegnere e sindacalista di Assivolo, sindacato dei quadri Enav. L’uomo, 61enne, non accettava la fine della loro relazione, avvenuta nelle scorse settimane dopo qualche anno. E’ entrato nel ristorante dove Martina cenava con il fratello nel tentativo di ricucire il rapporto. Aveva però con sé un’arma, quindi le sue intenzioni non erano delle migliori.

I due hanno iniziato a litigare davanti agli altri clienti, tanto che la 35enne è stata costretta a rifugiarsi in bagno dopo l’invito dei proprietari del locale a proseguire all’esterno la discussione. Ma il titolare dell’attività che prova a smentire le testimonianze dei presenti: “Abbiamo chiamato la polizia già durante la lite iniziale e abbiamo domandato alla ragazza se voleva rimanere nel locale. Lei ha detto che era tutto ok ed è uscita per andare via: non abbiamo cacciato nessuno”.

Subito dopo l’omicidio, Bonaiuti è fuggito a bordo della propria auto in direzione di via Tuscolana. La donna è deceduta a causa della ferita letale provocata dal proiettile che l’ha raggiunta da una distanza molto ravvicinata: a nulla è valso l’intervento degli addetti del 118 che hanno provato a rianimarla. Nel frattempo, numerose pattuglie si sono mosse all’inseguimento dell’uomo, che è stato intercettato in zona Colle Salario, a casa sua, ed è stato fermato. Nel suo appartamento c’era anche la pistola usata per uccidere la ex compagna. “Martina aveva paura dell’ex compagno, molto più grande di lei, con cui stava da un paio d’anni. Probabilmente l’ha vista fragile e in lei la ragazza ha visto una figura paterna”, è il racconto di Marita, vicina di casa di Martina. “Lui lavorava all’Enav, prima a Fiumicino e poi in un altro ufficio. Frequentava la casa dove Martina viveva con la mamma e il fratello, anche se alla mamma non piaceva”.

Bonaiuti – così come riporta Repubblica – “vive con una donna, è separato in casa”, ricordano i vicini che a Fidene lo vedevano spesso passeggiare con il suo rottweiler.

Estratto dell'articolo di Rinaldo Frignani su Il Corriere della Sera il 16 gennaio 2023.

Un quarto d'ora. Una lite durata circa 15 minuti, una tensione che è lievitata progressivamente, mentre i clienti dei tavoli vicini assistevano a quello che accadeva al posto da due al quale venerdì sera sedevano Martina Scialdone e il suo fidanzato Costantino Bonaiuti. Poi lei, al culmine dello scambio di battute sempre più sostenuto, si è alzata ed è corsa in bagno.

 (...)

 Interrogativi ai quali la polizia sta cercando di dare risposte interrogando i responsabili e i camerieri del «Brado» da dove effettivamente quella sera è partita una richiesta di intervento alla polizia per una lite fra fidanzati. Ma la 34enne non avrebbe fatto segnali particolari per essere soccorsa, anche perché a quel punto, con gli avventori al corrente di quello che stava accadendo, hanno anche visto in diretta Bonaiuti che correva nel bagno per prendere a pugni la porta urlando contro la compagna: «Esci subito!». E poi una raffica di insulti.

(...)

 «Le difficoltà psicologiche e psichiatriche del mio assistito sono certificate. Era seguito da un centro per una forma depressiva, ma non è questa patologia che ha dato luogo all'evento. Lui ha avuto sempre un atteggiamento cordiale nei confronti di questa persona tanto è vero che non c'è stato mai nessuna denuncia nei suoi confronti», dice ancora il legale, per il quale «se tutti avessero fatto il loro lavoro, i loro compito di cittadini, questa ragazza sarebbe ancora viva. La ragazza pare avesse chiesto aiuto: nessuno ha modo di riscontrare questa richiesta di aiuto, ma questo lo appureremo. In questa vicenda ci sono due vittime. C'è stato un ritardo generalizzato, pare che la ragazza si sia recata con le proprie forze a chiedere aiuto dopo l'aggressione, ma pare non abbia ricevuto nessun sostegno».

Il fratello di Martina Scialdone accorso in strada: «Le ha sparato davanti ai miei occhi». Storia di Rinaldo Frignani e Ilaria Sacchettoni su Il Corriere della Sera il 16 gennaio 2023.

«La strada è in pendenza. Io ero lì accanto, eravamo a un metro e mezzo l’uno dall’altro. Non ho fatto in tempo a reagire. Con la pistola ha puntato all’altezza del petto di Martina. L’ha presa qui». Davanti agli agenti della Squadra mobile Lorenzo Scialdone si tocca il torace e una spalla. Mima come davanti al ristorante «Brado» di viale Amelia, al quartiere Tuscolano, a Roma. È lui il teste chiave che inchioda il funzionario dell’Enav. Ecco il suo racconto. «La prima reazione che ho avuto quando ho realizzato che le aveva sparato — dice ancora ai poliziotti — è stata trascinare Martina al Brado per chiedere aiuto, arrivati lì si è accasciata a terra, cercavo di mantenerla cosciente e continuavo a chiedere aiuto».

Le ore prima dell’omicidio

Attimi agghiaccianti per il fratello della vittima mentre fuggiva sulla sua Mercedes nera con la Glock calibro 45 usata per il femminicidio chiusa in una valigetta. «Nelle circostanze in cui l’ho frequentato — dice ancora Lorenzo — non l’ho mai visto con un’arma, neanche quando ci ha raggiunti al mare, non sapevo neanche che ce l’avesse». Una replica indiretta alla tesi della difesa del killer che Martina fosse invece a conoscenza del possesso dell’arma da parte del fidanzato. Ma Lorenzo ripercorre davanti ai poliziotti la drammatica escalation che ha portato alla morte della sorella. «Intorno alle 10 — dice — mia madre e mia sorella sono andate via da casa mia. Forse Martina ha ricevuto messaggi nel corso della serata trascorsa da me, ma non so con chi si scrivesse. Mi ha detto che avrebbe incontrato Costantino subito dopo perché voleva chiudere definitivamente la relazione con lui. Credo che nell’ultimo periodo glielo avesse già fatto capire. Dal poco che so, credo che avesse scoperto di quest’altra persona che Martina frequentava, perché mi ha detto che Costantino non vedeva di buon occhio Francesco e che si era insospettito. Forse con le amiche si sarà aperta di più».

L’ultima chiamata

La serata al «Brado» è stata una sorpresa. «Martina non mi ha detto dove dovevano incontrarsi: alle 23.09 ho ricevuto una sua chiamata, mi ha chiesto se potevo andarla a prendere lì. Aveva un tono agitato, ho immaginato che l’incontro non fosse andato bene. Mi sono vestito di corsa e sono uscito a piedi. Qualche momento dopo, alle 23.12, ero appena uscito dal portone, mi ha richiamato dicendomi “non ti preoccupare, torno a casa da sola”. Non mi sono fidato, ho fatto due giri del palazzo e poi l’ho richiamata. Alla prima Martina mi ha detto “non ti preoccupare”, ma io le ho detto “sto venendo”. Alle 23.25 l’ho richiamata ma lei ha riattaccato. L’ho chiamata subito dopo, le ho detto che stavo arrivando al ristorante, dando per scontato che stessero ancora là».

La pistola

In sottofondo si sentiva Bonaiuti che gridava: «Mi sta cornificando». «Quando arrivo al ristorante li trovo entrambi lì davanti, stavano litigando, l’ho capito dall’atteggiamento anche prima di avvicinarmi perché Martina tendeva a distaccarsi e lui la incalzava, i toni della voce erano alti, stavano discutendo animatamente. Li raggiungo cercando di calmarli ma la discussione prosegue. Cercavo di separarli, ho capito che il motivo per cui stavano litigando era perché lei gli aveva detto che voleva lasciarlo. Ho sentito che le diceva: “Io oggi mentre mi preoccupavo per la tua casa, tu dalle tre alle cinque stavi scopando con quel tizio”. Mia sorella si è avvicinata entrando nella sua auto per cercare le sigarette e le chiavi di casa, la sua nuova casa, penso per toglierle a lui. Ha aperto gli sportelli anteriori per cercare quegli oggetti, quando è uscita dalla macchina lui la tratteneva per un braccio e io mi sono messo in mezzo, cercando di dividerli per portare via Martina. Nel momento in cui sono riuscito a dividerli, lui ha tirato fuori la pistola e ha sparato. Ce l’aveva addosso, era a distanza da lei di forse un metro, forse mezzo metro».

Romualdo Savastano.

Maltratta la partner, condannato il baritono Romualdo Savastano. Giulio De Santis su Il Corriere della Sera il 5 Gennaio 2023.

Tre anni e due mesi all'artista che maltrattava la compagna. La decisione dei giudici di Civitavecchia di concedere le attenuanti generiche 

Scopritore di talenti nel mondo della musica lirica. Ma nella vita privata compagno geloso e violento. È la personalità in bianco e nero del maestro Romualdo Savastano, 62 anni, baritono, così come emerge dalla sentenza di condanna pronunciata dal tribunale di Civitavecchia a tre anni e due mesi di reclusione con l’accusa di maltrattamenti in famiglia e lesioni nei confronti della compagna, H.S., 50 anni. Insieme con la quale, peraltro, Savastano ha lavorato per anni, aiutando a trasformare talenti in affermate personalità della lirica italiana contemporanea, quali le soprane Cristina Piperno e Federica Lombardi (che ha cantato al concerto di Capodanno alla Fenice andato in onda su Rai Uno) o i tenori Antonio Poli e Alessandro Luciano.

Un legame, quello con la musica, che ha permesso al baritono di ottenere le attenuanti generiche. Concesse dal collegio, presieduto dalla giudice Francesca Romana Maellaro, proprio «in considerazione della figura sociale di Savastano e della matrice culturale dell’attività svolta nell’ambito lavorativo». 

Va anche ricordato che il maestro è fratello del tenore Antonio Savastano, scomparso nel 1991, le cui tecniche di canto Romualdo insegna da anni nella scuola fondata in onore di Antonio e della madre Teresa, che ha incoraggiato entrambi i figli nella carriera lirica. Il processo di primo grado racconta invece l’altra faccia del maestro e il suo difficile rapporto con S., da cui ha avuto due figli. La coppia si conosce al Teatro dell’Opera circa 30 anni fa, quando lei tenta di farsi largo come cantante. In seguito lui lascia la moglie e comincia una convivenza, durata 24 anni, che però negli ultimi tempi si è trasformata in un incubo, almeno leggendo la sentenza. S. ha descritto la vita con Savastano come un continuo susseguirsi «di minacce, ingiurie e maltrattamenti per la sua indole ossessiva, possessiva, a tratti aggressiva, ingiuriosa e manipolatrice». Comportamenti culminati con l'aggressione della mattina del 20 dicembre del 2019 quando, secondo l’accusa, Savastano avrebbe strattonato la compagna fino a spingerla contro un muro, davanti ai figli, dopo che lei gli aveva annunciato che aveva intenzione di lasciarlo. 

Questo l’episodio - sfociato in un trauma guaribile in sei giorni - che ha convinto S. a denunciare il maestro. Ma già prima di quel giorno il loro rapporto sarebbe stato compromesso. S. – assistita dall’avvocata Marika Ballardin - ha raccontato in aula le scene di gelosia, due in particolare emblematiche. In un caso, Savastano avrebbe fatto irruzione nella sede della società dove lei ha lavorato per anni lasciandosi andare a una sfuriata. L’altra scena di gelosia sarebbe avvenuta a Ischia: lei parte con la madre, lui la raggiunge e la costringe ad andare via. A ricordare la vacanza è stata la madre di S., che ha poi descritto Savastano come un uomo «che impone la sua volontà persino nella preparazione dei pranzi». La gelosia avrebbe limitato, scrive il giudice, la libertà personale della compagna, al punto che avrebbe smesso di vedere le amiche e uscire da sola. Savastano - difeso dall’avvocato Massimo Fabio Guaitoli - si è difeso sostenendo che anche S. sarebbe stata gelosa e che nutrirebbe rancore nei suoi confronti per non averla voluta sposare.

Gregg Berhalter.

Da ilnapolista.it il 4 gennaio 2023.

È l’apertura de Le Parisien. Il commissario tecnico della Nazionale maschile di calcio degli Stati Uniti rischia l’esonero per un episodio di violenza che risala a trent’anni fa. La federazione ha avviato un’indagine interna, anche per appurare l’esistenza di un presunto ricattatore. Ecco cosa scrive Le Parisien:

 La Federcalcio americana ha annunciato martedì di aver aperto un’indagine contro Gregg Berhalter, la cui permanenza come allenatore nazionale è attualmente in discussione, per aver preso nel 1991 a calci la sua ragazza che poi è diventata sua moglie.

La federazione ha spiegato di essere stata informata delle accuse contro Berhalter l’11 dicembre, più di una settimana dopo l’eliminazione della squadra degli Stati Uniti dai Paesi Bassi in Qatar.

 Berhalter si è difeso con un lungo messaggio su Twitter dicendo che le accuse partono da “un individuo” che cerca di “favorire la fine della mia collaborazione con la federazione”.

 Il tecnico di 49 anni ha voluto spiegarsi, affermando che aveva 18 anni, che era al suo primo anno di facoltà e che la loro relazione risaliva a quattro mesi prima. I fatti avvennero durante una serata in un bar.

Rosalind e io avemmo una discussione accesa che continuò fuori”, ha detto. Lo scontro divenne fisico e la presi a calci nelle gambe. È stato un momento vergognoso, di cui mi pento ancora oggi. Non ci sono scuse per le mie azioni quella notte. »

 Il ct americano ha parlato di un “momento difficile”, che lui e Rosalind hanno scelto di rendere pubblico, per “condividere la verità”.

La federazione ha fatto sapere di apprezzare il gesto di Gregg e Rosalind che «si sono fatti avanti per parlare apertamente di questo incidente, condanniamo qualsiasi forma di violenza e prendiamo queste accuse molto sul serio».

 La Us Soccer ha detto che sta anche esaminando “potenziali comportamenti inappropriati nei confronti di diversi membri del nostro staff, da parte di persone al di fuori della nostra federazione”, lasciando ipotizzare un possibile ricatto esercitato su Berhalter.

Teresa Spanò.

Da tgcom24.com il 2 gennaio 2023.

Una donna di 55 anni, Teresa Spanò, insegnante elementare, è stata trovata morta nel suo appartamento di Bagheria, in provincia di Palermo. La figlia 17enne, dopo un lungo interrogatorio, è stata posta in stato di fermo con l'accusa di omicidio volontario. La giovane ha confessato di aver strangolato la donna. Da parecchio tempo tra le due i litigi erano all'ordine del giorno. 

L'omicidio dopo una lite L’omicidio sarebbe stato il tragico epilogo di una lite scoppiata tra madre e figlia alle tre della notte tra domenica e lunedì. E' stata la 17enne a dare l'allarme lunedì mattina intorno alle 8.

La ragazza crolla nell'interrogatorio La donna insegnava in una scuola elementare in provincia di Palermo. Sembra che la figlia in un primo momento abbia detto ai soccorritori che la donna si era suicidata. Ma poi durante l'interrogatorio, è crollata mentre cercava di ricostruire quanto accaduto davanti alla procuratrice dei minori di Palermo, Claudia Caramanna.

Riccardo Arena per “la Stampa” il 3 Gennaio 2023.

Una storia di liti in famiglia, di una donna senza marito, che vive all'estero, di una figlia che uccide la madre. L'assassina di questa tragedia siciliana di Capodanno ha solo 17 anni ed è accusata di avere strangolato Teresa Spanò, che ne aveva 55 e faceva la maestra elementare: una contestazione che pesa come un macigno su questa ragazzina dal fisico mingherlino, da ieri sera rinchiusa in un istituto penale minorile a Caltanissetta. Eppure, secondo quanto finora emerso, lei sarebbe riuscita a sopraffare la mamma, donna robusta ma che ha avuto la peggio, nell'ennesima furiosa zuffa fra le due.

Alcuni vicini che vivono nelle palazzine accanto alla casa di Teresa e della figlia, in corso Butera a Bagheria, città di 50 mila abitanti a ridosso di Palermo, hanno riferito di aver sentito urla provenire dall'abitazione delle due, intorno alle tre della notte fra Capodanno e ieri. Non hanno sentito nulla invece i parenti, che stanno nello stesso edificio, sopra e sotto l'appartamento della Spanò. L'allarme però è scattato solo di mattina, alle otto, dopo che la stessa ragazzina ha chiamato i soccorsi. 

Bagheria si interroga su questa storiaccia, il sindaco Filippo Maria Tripoli dice che l'intera comunità - Renato Guttuso, il poeta Ignazio Buttitta e Peppuccio Tornatore tra i figli più illustri - deve stare vicino alla giovanissima, presunta assassina, che di fatto è la seconda vittima del delitto.

La diciassettenne ha confessato al procuratore dei minorenni, Claudia Caramanna, che ne ha ordinato il fermo accusandola di omicidio: nel chiamare i soccorsi lei stessa aveva subito detto di avere ucciso la madre, poi di fronte a poliziotti e personale del 118 si era avventurata in improbabili ricostruzioni, sostenendo che Teresa Spanò le avrebbe messo le mani al collo e poi, presa dallo sconforto, si sarebbe imbottita di psicofarmaci per suicidarsi.

Una confezione di medicine di questo tipo effettivamente è stata ritrovata in casa, ma la ricostruzione proposta dalla ragazza è apparsa tanto arzigogolata quanto per nulla credibile ed è stata smontata già alla vista del cadavere e all'esame da parte del medico legale, che ha notato gli inequivocabili segni attorno al collo. Il crollo dopo un lungo interrogatorio. 

La confessione apparentemente non lascia spazi a ulteriori dubbi. Solo interrogativi su cosa possa avere generato questa furia omicida, matricida, in una ragazza nemmeno maggiorenne. Incomprensioni, conflitti personali e generazionali, una vita tormentata per via della lontananza del padre. Teresa Spanò viene descritta come una maestra mite, insegnava alla scuola elementare di via Lungarini a Casteldaccia, altro centro dell'hinterland palermitano, sul versante della costa orientale. L'indagata frequenta l'ultimo anno al liceo classico Francesco Scaduto, nella vicina via Dante. Teresa Spanò aveva due sorelle e tre fratelli.

Uno di loro abita proprio al primo piano della palazzina al civico 401 di corso Butera, lei con la figlia stavano al secondo e la nonna della ragazzina al terzo. Una residenza quindi interamente occupata da inquilini legati da vincoli di sangue. Nessuno però ha sentito e nessun soccorso immediato è stato portato a Teresa.

 A breve distanza dal teatro della tragedia c'è il centro della movida bagherese, un luogo in cui centinaia di ragazzi si ritrovano per divertirsi e bere in allegria. Nemmeno lì nessuno si è accorto di niente. Una vicina dice di non conoscere la famiglia protagonista della tragedia: «Mai viste, forse la spesa la facevano altrove», spiega ai cronisti.

Giorgio Miatello.

Roberta Polese per corriere.it il 28 dicembre 2022.

Maria Angela Sarto, 84 anni, maestra elementare in pensione, è stata trovata morta, nel primo pomeriggio di ieri, martedì 27 dicembre, nella villetta di San Martino di Lupari, paesino del Padovano, in cui viveva con il marito, Giorgio Miatello, più vecchio di cinque anni. La donna è stata uccisa con molte coltellate, nel proprio letto. É in gravissime condizioni anche Miatello, colpito più volte al volto e trovato al primo piano della villetta, agonizzante ma vivo. 

La scoperta dell’omicidio e di quello che, al momento, è un tentato omicidio, è toccata in sorte alla figlia minore della coppia: i genitori non rispondevano alle ripetute telefonate, così Chiara Miatello, poco dopo pranzo, li ha raggiunti a casa... La donna non ha avuto dubbi e, da subito, ha indicato nella sorella maggiore la responsabile. 

Nei confronti di Diletta Miatello, 51 anni, ex agente di polizia locale nel piccolo Comune trevigiano di Asolo, il sostituto procuratore di Padova, Marco Brusegan, ieri notte ha disposto il fermo per omicidio e tentato omicidio. Lei, da quanto si è appreso, in relazione al delitto non ha fatto alcuna ammissione. Ma chi è questa donna, accusata di aver ucciso l’anziana madre e tentato di fare lo stesso con il padre?

La vita di Diletta Miatello fatta di gioie e fallimenti, non è poi diversa da quella di tante donne della sua età. Recentemente però qualcosa si è rotto: Diletta entra in depressione, dimagrisce molto, tenta il suicidio. Intanto suo figlio cresce con l’ex marito, che in queste ore è a Roma in vacanza. Le radici della cinquantunenne, accusata dalla sorella Chiara di essere l’assassina della madre e di aver tentato di uccidere il padre, sono a Bassano. 

Maria Angela, uccisa ieri a 84 anni, era insegnante alle elementari, il padre rappresentante. Insieme alla sorella più piccola Chiara, Diletta ha vissuto a lungo una vita tranquilla. Da ragazza studia all’istituto alberghiero Giuseppe Maffioli di Castelfranco poi, dopo il diploma, tenta con successo il concorso per entrare nella polizia municipale e ottiene il suo primo incarico ad Asolo. 

Nel frattempo i suoi genitori vanno in pensione e si trasferiscono a San Martino di Lupari, mentre la sorella Chiara va a vivere a Cittadella. Ad Asolo, Diletta conosce suo marito, anche lui agente della polizia locale. «Era una ragazza in gamba - la ricorda il suo ex comandante Gianni Novello, ora in pensione - parlava poco, non diceva mai nulla a sproposito.   

Nel 2009 ha deciso di rinunciare all’incarico e dimettersi, aveva avuto un bambino e dopo il rientro dalla maternità aveva lavorato qualche anno, ma voleva stare con il piccolo. Nel frattempo stava affrontando anche una separazione». Chi la conosce bene, però, dice anche che già a quel tempo la donna aveva cominciato a dare segnali di cedimento emotivo, e che non fosse più idonea a lavorare nel corpo della polizia locale.

Mentre il figlio è ancora piccolo, Diletta e il marito quindi si separano. Il bambino, che oggi è un ragazzo, ora vive stabilmente con il padre. Nel 2009 la donna si lascia coinvolgere nella politica e si candida alle Comunali di Bassano, l’anno dopo il suo nome compare nella lista Liga Veneto Autonomo (in appoggio al candidato governatore Bortolussi) alle Regionali: prende pochissimi voti. Nei suoi post sui social non ne parla mai, il suo tentativo di mettersi in politica probabilmente è stato fatto senza molta convinzione. 

Intanto Diletta trova casa a Felette, nel Vicentino, fa lavori saltuari. Nel 2013 si iscrive a Psicologia a Padova e nel 2016 prende il diploma di laurea magistrale. Il lavoro per lei resta sempre un’incognita. In qualche post su Facebook riferisce di avere lunga esperienza nel settore della ristorazione. Il suo annuncio più strano è quello fatto alle 16.30 del giorno di Natale, tre giorni fa: 

«Buongiorno ho un diploma all’Ipssar G. Maffioli, conosco inglese, francese e spagnolo. Ho un’esperienza ventennale nel settore della ristorazione come barmaid, barista. Cerco lavoro, sono libera da impegni familiari e automunita. Valuto anche altre proposte purché siano serie. Vivo a 7 km da Castelfranco Veneto. Ringrazio anticipatamente chiunque potrà aiutarmi». È strano mettersi a cercare lavoro il 25 dicembre, evidentemente l’argomento «lavoro» era stato al centro di una qualche discussione familiare.

Dal 2020 la donna era andata a vivere nella piccola porzione di bifamiliare accanto alla casa dei genitori, lasciando il suo appartamento a Felette. Pare che i tre discutessero spesso anche di soldi. I lavori molto saltuari di Diletta e quel nipote lontano preoccupavano non poco i genitori. Negli ultimi mesi Diletta dimagrisce fino a sfigurarsi, chi la conosce dice che era diventata maniaca della pulizia e dell’ordine. Sui social ha vari profili in cui appare sempre in modo diverso, unica costante i personaggi tv di Morticia e Mercoledì della famiglia Addams, che ripropone continuamente.

Nei suoi post ogni tanto se la prende con chi non la capisce, ma Diletta nasconde bene il suo disagio. Eppure la sicurezza con cui la sorella Chiara ha indicato Diletta come colpevole dell’omicidio della madre lascia intendere che le tensioni familiari non fossero poi un segreto. E di sicuro il comportamento di Diletta non depone a suo favore. La cinquantunenne sarebbe sparita con la sua Panda rossa proprio mentre la sorella Chiara scopriva il cadavere della mamma e il padre in fin di vita.

Verso le 13.30 la donna si è presentata alla reception dell’albergo Cubamia a Romano d’Ezzelino. «Sembrava tranquilla - spiega il gestore Zeno Modenese - è arrivata qui vestita con un piumino lungo, aveva delle borse in mano (si era fermata in un supermercato a fare la spesa, ndr) e ha chiesto di potersi fermare due notti, mi ha dato il documento ed è salita in camera. Poi sono arrivati i carabinieri: hanno riconosciuto l’auto in cortile». Intanto sui siti rimbalzava la notizia della madre morta e il padre in fin di vita. E questa è una delle tante cose che Diletta che è stata chiamata a spiegare al magistrato nel lungo interrogatorio.

Addolorata Cuzzi.

Giuseppe Di Bisceglie per corriere.it il 28 dicembre 2022.

Dovrà scontare una pena a 16 anni di reclusione Addolorata Cuzzi, la trentacinquenne di Grumo Appula, arrestata il 26 dicembre dai carabinieri su esecuzione di un ordine di carcerazione emesso dalla Procura Generale presso la Corte di Appello di Bari. Fu lei, secondo i giudici, ad aver istigato il suo ex marito Crescenzo Burdi ad uccidere l’uomo con cui aveva una relazione, Stefano Milillo, 28enne operaio di Toritto, il cui cadavere fu rinvenuto in un pozzo di Binetto nel giugno del 2016. La donna, che da tempo si era trasferita in Belgio, è stata individuata e rintracciata dai militari e condotta nel carcere di Trani. 

Pesanti sono i reati di cui risponde: omicidio volontario e occultamento di cadavere in concorso con Crescenzo Burdi, l’uomo con il quale era stata sposata. Insieme - stando a quanto accertato dalle indagini e dal processo - avevano organizzato il piano per togliere di mezzo Milillo, l’amante della donna. Una storia dall’intreccio romanzesco, in cui la trama amorosa si lega e si fonde con l’epilogo tragico, sino a diventare un fatto di sangue.

Stando a quanto emerso dalle indagini dei carabinieri, che si occuparono del caso a partire dal ritrovamento del cadavere di Stefano Milillo in un pozzo situato in un casolare nei pressi del campo sportivo di Binetto, il 13 giugno del 2016, la vittima aveva di recente intrapreso una relazione con la donna. Una relazione che Addolorata Cuzzi aveva deciso di interrompere e che voleva troncare in modo definitivo con l’eliminazione fisica della sua nuova fiamma. Per fare ciò avrebbe convinto il suo ex marito a tendergli un agguato e ammazzarlo. 

I due ex coniugi avrebbero dunque organizzato nel minimo dettaglio il piano, divenuto una trappola mortale: la donna avrebbe attirato il 28enne nel cantiere del campo sportivo di Binetto con una scusa; qui si sarebbe fatto trovare Crescenzo Burdi che dapprima lo avrebbe strangolato con una corda, successivamente lo avrebbe colpito alla testa con una spranga e poi lo avrebbe finito colpendolo con un masso.

Prima di disfarsi del cadavere, buttandolo in una fossa biologica all’interno di un casolare abbandonato dove si stavano svolgendo i lavori di costruzione del campo sportivo, avrebbe persino provato a dargli fuoco. Il corpo della vittima fu ritrovato il giorno dopo a pochi passi dal luogo in cui si sarebbe consumato il delitto. A consentire il ritrovamento della salma fu una telefonata anonima al numero di servizio 112. 

Le indagini dei carabinieri si concentrarono subito sulla figura di Crescenzo Burdi individuando il movente proprio nella gelosia provata da Burdi per la relazione intessuta tra la moglie e la vittima. Il cerchio sull’accaduto si chiuse in brevissimo tempo: sia Crescenzo Burdi che Addolorata Cuzzi ammisero le loro responsabilità e confermarono la ricostruzione degli inquirenti.

Entrambi sono stati condannati nel corso del processo, iniziato nel 2017 dinanzi alla Corte d’Assise di Bari. Crescenzo Burdi fu trasferito in carcere mentre la donna rimase a piede libero. A distanza di sei anni e mezzo dal delitto, che sconvolse la piccola cittadina di Binetto ma anche la comunità di Toritto, paese di provenienza della vittima, anche per l’altra responsabile dell’omicidio di Stefano Milillo si aprono le porte del carcere.

Ernesto Favara.

Omicidio Trapani: donna di 29 anni uccisa dal marito, trovato con l’arma del delitto in mano. Redazione Online su Il Corriere della Sera il 24 Dicembre 2022.

La vittima è Maria Amatuzzo. Il femminicidio a Marinella di Selinunte è avvenuto in casa della coppia. Interrogato il marito Ernesto Favara

Un uomo ha ucciso la moglie a coltellate a Marinella di Selinunte, frazione marinara di Castelvetrano, un borgo di pescatori nel Trapanese. Secondo una prima ricostruzione il delitto sarebbe avvenuto nella loro abitazione. Sul posto è intervenuto personale del 118 con un’ambulanza, ma i soccorsi si sono rivelati inutili: la donna era già deceduta.

La vittima si chiamava Maria Amatuzzo e aveva 29 anni. Il marito Ernesto Favara, ex pescatore in pensione di 63 anni, è stato trovato con l’arma del delitto in mano: un grosso coltello sporco di sangue. È stato fermato e si trova nella caserma del Comando provinciale di Trapani per essere interrogato. Al momento non si conosce il movente dell’omicidio, ma pare che lei volesse lasciarlo e questo avrebbe fatto scattare la furia omicida.

Sarebbero stati i vicini ad avvisare l’ambulanza, poi i sanitari del 118 a loro volta avrebbero avvisato i carabinieri. Il marito della donna, nel momento in cui sono arrivati i carabinieri versava in stato confusionale, poco lucido. I militari hanno cercato di bloccarlo puntandogli un taser che però non è stato utilizzato: l’uomo infatti non è scappato ed è stato condotto in caserma per l’interrogatorio.

La casa a Marinella di Selinunte è presidiata dai carabinieri. Intorno alle 19.30 sono iniziati i rilievi da parte della sezione scientifica del Comando provinciale dei carabinieri all’interno dell’abitazione che si trova in via Cassiopea.

Maria Amatuzzo ed Ernesto Favara vivevano insieme da una decina di anni e avevano quattro figli, di cui due gemelline. La coppia aveva una rivendita di prodotti ittici.

La comunità marinara è sgomenta per l’omicidio. «Da quando era andato in pensione Ernesto non usciva più in barca — ricorda Giacomo Russo, presidente del Comitato “Sacro Cuore di Maria” che nella borgata vede riuniti i pescatori devoti alla Madonna —. Favara aveva comprato un tre ruote e vendeva pesce nella borgata, scegliendo punti strategici dove si fermava per i clienti. La moglie collaborava con lui».

Donna ventinovenne uccisa a coltellate nel Trapanese, fermato il marito di 63 anni. A cura della redazione di Palermo La Repubblica il 24 Dicembre 2022.

Femminicidio a Marinella di Selinunte. La vittima è Maria Amatuzzo. Indagano i carabinieri. La donna sembra che da tempo volesse separarsi

Una donna è stata uccisa a coltellate a Marinella di Selinunte, frazione marinara di Castelvetrano, nel Trapanese. Si chiamava Maria Amatuzzo e aveva 29 anni. Il femminicidio è avvenuto nella sua abitazione, in via Cassiopea. I carabinieri del comando provinciale di Trapani hanno bloccato il marito, Ernesto Favara di 63 anni.

Il luogo del delitto (ansa)In base alle prime informazioni raccolte nel vicinato, la coppia aveva tre figli due dei quali gemelli, affidati da tempo a una comunità per minori. La donna sembra che da tempo volesse separarsi. Maria Amatuzzo avrebbe tentato di difendersi dalla furia del marito ma non è riuscita a trovare scampo. E' morta per le ferire del grosso coltello utilizzato dal coniuge. I due vivevano insieme da una decina d'anni e lavoravano nel commercio del pesce.

Osservatorio femminicidi

Solo pochi giorni fa, il 16 dicembre, un uomo aveva ucciso la moglie a Villabate, alle porte di Palermo, e poi si era tolto la vita con la stessa arma, un bisturi.

Trapani, il pescatore arrestato per l'omicidio della moglie resta in silenzio davanti al pm. Ha sferrato dodici coltellate. La Repubblica il 25 dicembre 2022.

Dopo l'allarme dei vicini, i carabinieri sono arrivati nel giro di pochi minuti. L'uomo aveva ancora il coltello in mano

Si è avvalso della facoltà di non rispondere Ernesto Favara, 63 anni, l'uomo che ieri pomeriggio ha ucciso a coltellate la moglie Maria Amatuzzo, 29 anni, a Marinella di Selinunte, provincia di Trapani. Durante l'interrogatorio di ieri sera davanti al magistrato Stefania Tredici, il pescatore in pensione è rimasto in silenzio, non fornendo elementi utili al fine di individuare il movente.

Donna ventinovenne uccisa a coltellate nel Trapanese, fermato il marito di 63 anni

a cura della redazione di Palermo24 Dicembre 2022

Quando ieri sono arrivati i carabinieri in via Cassiopea, l'uomo aveva ancora in mano il coltello. Al termine dell'interrogatorio, Ernesto Favara è stato arrestato per omicidio e trasferito nel carcere di Trapani. La scientifica dei carabinieri ha effettuato i rilievi nella casa dove la donna è stata assassinata. Drammatica la scena che si è presentata agli investigatori: Maria Amatuzzo avrebbe tentato di difendersi dalla furia del marito, ma non è riuscita a trovare scampo. E' morta per le ferite del grosso coltello utilizzato dal coniuge, l'uomo avrebbe sferrato dodici fendenti all'addome della donna.

Sembra che la donna volesse separarsi, ormai esasperata dalle continue violenze dell'uomo. "La conflittualità tra i due era nota", dice il capitano dei carabinieri di Castelvetrano Pietro Calabrò. Ieri, forse, l'ennesima lite finita in tragedia. Una storia d'amore nata poco più di 5 anni fa, quella tra i due. Lui pescatore, lei, invece, di origini palermitane. Entrambi avevano storie di matrimoni alle spalle. Ernesto Favara ha due figli da un precedente matrimonio (la moglie era morta per malattia), Maria Amatuzzo, anche lei, ha due figli nati da storie precedenti che non vivevano più con lei. Quattro anni fa il matrimonio civile tra Favara e Amatuzzo e, lo stesso anno, la nascita dei gemellini.

"Da quasi un anno i bambini erano stati affidati a una comunità alloggio", spiega il capitano Calabrò. La coppia ha continuato a vivere in una casa modesta nel quartiere dei pescatori di Marinella di Selinunte, dove ieri si è consumato il femminicidio.

Irma Forte.

Santa Maria del Molise (Isernia), uccide marito 72enne: arrestata. Storia di Redazione Tgcom24 il 24 dicembre 2022.

A Santa Maria del Molise (Isernia) un uomo di 72 anni, Carlo Giancola, è stato ucciso nella sua abitazione, i carabinieri hanno fermato con l'accusa di omicidio la moglie Irma Forte, 66 anni. Le forze dell'ordine sono state chiamate dai vicini di casa. L'uomo è morto a causa di una grave ferita alla testa inferta da un corpo contundente. Pare che la tragedia si sia consumata al culmine di una lite domestica.

Da chiarire movente e dinamica del delitto  La vittima era allettata in seguito a un incidente avvenuto un paio di mesi fa. Gli investigatori hanno sequestrato dall'abitazione un oggetto che si ritiene possa essere stato l'arma del delitto. Da chiarire il movente e la dinamica di quanto accaduto. È il secondo omicidio della vigilia di Natale che si verifica in Molise da un anno a questa parte. Lo scorso anno la sera del 24 dicembre un 36enne di Campobasso, Cristiano Micatrotta, era stato accoltellato a morte in via Giambattista Vico.

La donna si trova agli arresti domiciliari  Irma Forte è stata portata in caserma a Isernia dopo una visita in pronto soccorso per stato confusionale. Avrebbe ammesso le responsabilità, ma non ci sono ancora conferme ufficiali. I figli dei coniugi, residenti in Molise, non erano in casa al momento della tragedia. La Procura di Isernia ha disposto l'autopsia sulla salma dell'uomo. La moglie è stata accompagnata agli arresti domiciliari. Questa la misura a suo carico, al termine della giornata, nella quale gli inquirenti hanno avviato gli accertamenti anche di natura scientifica. La coppia, molto conosciuta in paese e bene integrata, era considerata affiatata da vicini e conoscenti, increduli per l'accaduto.

Angelo Di Lella.

Femminicidio Apricena: voleva lasciare il marito la donna uccisa in casa per gelosia. L’appartamento dove si è consumata la tragedia. Domani il presunto omicida sarà ascoltato dal gip per la convalida del fermo e per fornire la sua versione dei fatti. Antonio D'Amico su La Gazzetta del Mezzogiorno il 18 Dicembre 2022.

Pare volesse lasciare il marito e con le figlie tornare dai suoi familiari a Cerignola. Quella vita fatta di pressioni e continui litigi forse non piaceva più a Giovanna Frino, 44 anni, la donna uccisa con due colpi di pistola da Angelo Di Lella, 56enne, suo compagno di vita e padre delle tre figlie della coppia. A parlarne sono amiche della donna vittima del femminicidio, il primo in provincia di Foggia dall’inizio dell’anno (15esimo omicidio con 16 vittime del 2022).

È una nuova e importante chiave di lettura che ovviamente deve trovare riscontro nel lavoro e nelle indagini degli investigatori coordinati dalla Procura della repubblica presso il Tribunale di Foggia. Di Lella è ora rinchiuso in carcere a Foggia e, nelle prossime ore, sarà ascoltato dal Gip per la convalida del fermo e per fornire la sua versione dei fatti. L’indagato, difeso dall’avvocato Pasquale Solimando, era in uno stato confusionale al momento dell’arresto ma pochi minuti prima dell’arrivo del «118» era uscito sul balcone per chiedere aiuto mentre il corpo della moglie giaceva esanime nella cucina dell’appartamento al primo piano di via Saragat 2. In quel momento in casa si trovava la seconda figlia della coppia, una 17enne, allettata perché alle prese con l’influenza. Subito dopo l’arrivo dei carabinieri è stata ospitata da alcuni amici di famiglia che abitano nei paraggi del luogo della tragedia. L’altra figlia, di 7 anni, era a scuola, mentre la più grande, una ventenne, è studentessa universitaria a Firenze.

Una famiglia come tante, con i problemi di tante famiglie. Con il marito (ex guardia giurata) che, nel 2017, resta senza lavoro) e con la donna costretta a lavorare in un bar del centro e a racimolare altri soldi con lavori presso alcune famiglie. Una situazione non facile da gestire per la vittima e per le tre ragazze. Da corollario, il marito Angelo impegnato saltuariamente come operaio in una ditta di trasporti. Una situazione che, a quanto sembra, non rendeva felice nemmeno l’uomo che, sabato, mattina, avrebbe impugnato la pistola calibro 9 pare regolarmente detenuta ed esploso tre colpi all’indirizzo della donna, due dei quali l’hanno colpita mortalmente al torace non lasciandole nessuna possibilità. Nelle prossime ore, il pubblico ministero affiderà l’incarico al perito affinché venga eseguita l’autopsia sul corpo della donna.

Salvatore Patinella.

Da  tgcom24.mediaset.it il 16 dicembre 2022.

Omicidio-suicidio a Villabate, paese alle porte di Palermo. Un uomo di 41 anni, Salvatore Patinella, ha ucciso l'ex compagna di 46 anni, Giovanna Bonsignore, e poi si è tolto la vita. La tragedia è avvenuta nell'appartamento della donna. L'uomo, un operatore sociosanitario, ha colpito la vittima con diversi fendenti al culmine di una lite e poi, con lo stesso bisturi, si è tolto la vita. Prima di compiere il delitto, Patinella, aveva scritto un lungo post su Facebook annunciando di fatto il gesto. 

Alcuni amici, leggendo il post sul social, si sono allarmati e hanno chiamato i carabinieri che sono entrati in casa grazie all'intervento dei vigili del fuoco e hanno trovato i due corpi. Secondo gli stessi conoscenti, Patinella e Bonsignore si erano lasciati, ma l'uomo non aveva accettato la separazione.

Il post su Facebook - "Chiedo in ginocchio umilmente scusa a Dio e a Carlotta, sei stata come una figlia per me, per il dolore atroce che purtroppo, non avrei mai immaginato di recarti, ma è lo stesso dolore che io sto provando da un mese circa, non riesco più a dormire, più a mangiare, consapevole che l'avrei provato per tutta la vita, arrivando alla follia, senza mai darmi una spiegazione per la perdita: del MIO UNICO AMORE MERAVIGLIOSO TESORO MIO GIOVANNA, LA MIA PRINCIPESSA, IL MIO UNIVERSO, IL MIO TUTTO, di te Carlotta cresciuta come una figlia, della mia casa, eravate la MIA FAMIGLIA".

Lo ha scritto su FB, prima di compiere il delitto, Salvatore Patinella. "Chiedo SCUSA ai miei genitori, alle nostre famiglie, alle sorelle e fratelli, ai nipoti, ma non di meno ai miei compari, per me come fratelli, persone uniche, meravigliose e speciali e a tutte le persone che ci hanno voluto bene, nonostante il gesto atroce che io sto per compiere", ha aggiunto.

"Senza di te non vivo". Il messaggio sui social poi uccide l'ex fidanzata. L'omicidio suicidio nell'appartamento della vittima. Il post per chiedere scusa del gesto. Valentina Raffa il 17 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Senza Giovanna per lui non era più vita. Per sua stessa ammissione sui social, provava troppo dolore. Così ha posto fine a tutto uccidendola e suicidandosi subito dopo con la stessa arma, un bisturi. Salvatore Patinella, 41 anni, operatore socio sanitario all'ospedale di Partinico, giovedì sera è andato a trovare Giovanna nell'appartamento di via Giovanna D'Arco, a Villabate (Palermo), in cui aveva vissuto con lei e con Carlotta, 16 anni, figlia di lei, che lui - come scrive su Facebook - considerava una figlia.

Hanno cenato (Carlotta era fuori casa), poi la lite. Da un mese non stavano insieme dopo 4 anni di convivenza, e Salvatore non si dava pace. Giovanna si definiva «single» su Facebook, ma forse voleva rifarsi una vita. Salvatore probabilmente ha provato un'ultima volta a ricucire un rapporto che lei si era gettata alle spalle e, non riuscendovi, ha scaricato la frustrazione con un bisturi su di lei. Poi ha posto fine anche alla propria vita. Perché non concepiva di stare senza lei. È stato un amico della coppia ad allertare i carabinieri dopo avere letto su Fb il post in cui Salvatore chiedeva scusa a Dio, ai familiari e agli amici. Un post che rivela la sua disperazione, ma anche la lucidità nel commettere il delitto. «Chiedo in ginocchio umilmente scusa a Dio e a Carlotta, sei stata come una figlia per me, per il dolore atroce che, purtroppo, non avrei mai immaginato di recarti, ma è lo stesso dolore che io sto provando da un mese circa, non riesco più a dormire, più a mangiare, consapevole che l'avrei provato per tutta la vita, arrivando alla follia, senza mai darmi una spiegazione per la perdita: del mio unico amore, meraviglioso tesoro mio, Giovanna, la mia principessa il mio universo, il mio tutto. Di te Carlotta cresciuta come una figlia, della mia casa, eravate la mia famiglia». E ancora: «Chiedo scusa ai miei genitori, alle nostre famiglie, alle sorelle e fratelli, ai nipoti, ma non di meno ai miei compari, per me come fratelli, persone uniche, meravigliose e speciali e a tutte le persone che ci hanno voluto bene, nonostante il gesto atroce che io sto per compiere». Parole da cui trapelano il dolore e l'angoscia che Salvatore ha ritenuto di non riuscire a sopportare per il resto della vita, ma averli provati non lo ha distolto dal condannare a subirli tutti coloro che amavano Giovanna. «Ho imparato che tutto accade per una ragione», scriveva lei su Fb nel giugno 2021, ma la sua morte resta senza un perché se non quello di un amore distorto, che amore proprio non si può chiamare. «Rip. Non lo perdonare mai», si legge tra i commenti su Fb.

A rinvenire i due corpi esanimi sono stati i carabinieri e i vigili del fuoco. Le salme sono all'Istituto di Medicina legale del Policlinico di Palermo perché la procura ne ha disposto l'autopsia per stabilire l'ora esatta della tragedia, avvenuta tra le 20 e le 22, e quale o quali fendenti sono stati letali per Giovanna. A Villabate sarà lutto cittadino il giorno del funerale. Già ieri le luminarie natalizie sono state spente, come annunciato dal sindaco, Gaetano Di Chiara, che ha ricordato il buon cuore di Giovanna, volontaria dell'associazione Archè: «La nostra comunità è sconvolta ha detto -. Conoscevamo tutti Giovanna, una donna da anni impegnata nel sociale, che ha avuto un ruolo importante nel periodo della pandemia. Si è candidata 2 volte al consiglio comunale. Una donna che amava la vita e si prodigava per i più deboli. Non meritava la fine che ha fatto».

Estratto dell'articolo di Alessio Campana per “la Repubblica - Edizione Roma” il 16 dicembre 2022.

Ha costretto la sua fidanzata a subire atti sessuali, e per umiliarla l'ha obbligata a subire le violenze pretendendo che la finestra dell'abitazione restasse aperta affinché " gli estranei potessero assistere". Non solo. Per i pm, l'avrebbe aggredita e strattonata, tirandole i capelli e sferrandole calci che le hanno causato lesioni, tra cui una contusione del setto nasale e un trauma cranico. E poi le frasi urlate contro di lei: " se mi fai passare i guai ti faccio sparire" oppure " te la farò pagare", condite da insulti sessisti .

(...)

Per il legale del 43enne, l'avvocato Massimo Titi, la vittima avrebbe invece continuato a cercare l'uomo anche dopo il divieto di avvicinamento: «lei lo andava a cercare a casa, in palestra e a lavoro» , è stata la tesi difensiva. Secondo l'avvocato ci sarebbero incongruenze nel racconto della vittima e sarebbero dimostrate da dodici esposti dell'uomo presentati alle forze dell'ordine tra il novembre 2016 e il gennaio 2018. Ieri mattina i giudici - dopo la richiesta del pm, la ricostruzione del legale di parte civile e l'arringa dell'avvocato difensore - si sono riuniti in camera di consiglio per prendere la decisione. Il verdetto del collegio di primo grado è giunto intorno all'ora di pranzo: per l'uomo è arrivata una sentenza di condanna a sei anni.

Da ilgiorno.it il 21 dicembre 2022.

È stato condannato a 2 anni e 4 mesi, con rito abbreviato, Francesco Angelini, 52 anni, finito in carcere a fine giugno scorso perché accusato di stalking ai danni di Marialuisa Jacobelli, giornalista sportiva e conduttrice su Dazn, figlia del noto giornalista Xavier Jacobelli, che lo aveva denunciato una decina di giorni prima. 

Aveva trovato il coraggio di parlare di quel "clima di terrore" in cui lui, con cui aveva avuto una breve relazione, l'avrebbe costretta a vivere, tra minacce, violenze fisiche e psicologiche. Lo ha deciso oggi, a seguito delle indagini della Squadra mobile della Polizia coordinate dal pm di  Milano Pasquale Addesso, la gup Angela Minerva.

Con la sentenza sono state riconosciute all'imputato l'attenuante di aver risarcito il danno (ha versato una cifra consistente alla 30enne conduttrice, che non era parte civile) e le attenuanti generiche perché sta seguendo un percorso di cure in una clinica in regime di domiciliari. 

Il giorno del suo compleanno Jacobelli, come ha messo a verbale, si era accorta che avrebbe dovuto lasciare quell'uomo che, dopo aver visto una sua foto postata su Instagram, "ha iniziato a insultarmi". Troncata la relazione è iniziato «l'incubo», andato avanti da gennaio scorso e fino alla denuncia pochi mesi dopo.

Andrea Siravo per “la Stampa” il 29 dicembre 2022.

Dal carcere di San Vittore a Milano agli arresti domiciliari in una comunità del Novarese. L'imprenditore monegasco Francesco Angelini ha scelto di intraprendere un percorso terapeutico dopo essere stato arrestato a luglio per aver perseguitato la sua «fiamma» Marialuisa Jacobelli, giornalista di SportMediaset e protagonista nel 2020 del reality «Temptation Island». Era stato un gossip su un presunto flirt risalente a un anno prima con il campione francese del Paris Saint Germain Kylian Mbappé a scatenare l'esplosione d'ira di Angelini.

Insulti, minacce e mani al collo in una stanza del Palace Hotel di Montecarlo che il 2 gennaio 2022 hanno costretto la 29enne a chiamare in suo aiuto un'amica e a scappare via in «preda all'ansia e alla paura». Erano poi arrivate dal 51enne le scuse e un tentativo di riconciliazione.

Ma al breve periodo di calma era seguita la tempesta. «Il 23 gennaio per il mio compleanno - ha raccontato Jacobelli - organizzò un weekend a Parigi», ma, «dopo aver visto una mia foto su Instagram, ha iniziato a insultarmi con le solite frasi "sei una m..." e "ti rovino". Da quel momento ho capito che dovevo troncare la relazione».

Una volta in Italia, «gli ho detto che se non la smetteva con i suoi comportamenti, l'avrei denunciato». Ed è stato dalla sua risposta («Non ho paura, sono stato già denunciato ma dopo dieci giorni ho pagato e sono tornato libero») che la presentatrice da 2,1 milioni di follower ha scoperto il precedente dell'uomo. Una vicenda analoga di stalking con un'altra donna per la quale Angelini aveva patteggiato nel 2018 2 anni di pena sospesa.

«Da quel momento sono iniziati gli appostamenti sotto la mia abitazione, le ingiurie e le minacce», ha poi denunciato alla Squadra mobile lo scorso giugno. Un martellamento - come ricostruito dalle indagini coordinate dal pm Pasquale Addesso - fatto di 600 mail, 278 telefonate alla giovane, 1.072 all'utenza intestata alla madre e appostamenti documentati dalle 1.422 volte nelle quali lo smartphone di Angelini è stato agganciato dalle celle telefoniche vicine alla casa della ragazza.

In uno di questi, come quello del 1° aprile, l'ex è riuscito a farsi aprire la porta. «Jacobelli - si legge nell'ordinanza - è risultata nuovamente vittima della follia di Angelini manifestatasi con insulti, minacce di morte, calci ai polpacci, spinte e sberle sul viso». Una scena che si è ripetuta quarantott' ore dopo. «Dopo le ormai abituali scuse in lacrime simulate», l'uomo si è presentato ancora nell'appartamento dove «appena ha avuto di fronte la ragazza l'ha afferrata per il collo strattonandola per poi scagliarle un borsone addosso».

Il clima di paura ha costretto Jacobelli «a cambiare casa» e «a non pubblicare sul mio profilo Instagram foto o video per paura di essere localizzata». È stato poi il confronto con un amico avvocato a convincerla ad andare alla Polizia. Per il «pesante turpiloquio afferente la sfera sessuale, aggressioni fisicamente condotte, messaggi ripetuti e sempre mortificanti, ossessiva volontà di conoscere movimenti e frequentazioni» il gip Livio Cristofano aveva disposto la custodia cautelare in carcere. Misura poi affievolita anche con il parere favorevole della ragazza, assistita dall'avvocato Federico Cecconi. Il processo con rito abbreviato a carico di Angelini inizierà a metà novembre.

Elvira Serra per corriere.it il 29 dicembre 2022. 

Quello che ha vissuto in prima persona lo aveva solo sentito dire. Una frequentazione promettente, qualche piccola sbavatura, le prime osservazioni fuori luogo, gli attacchi di gelosia, gli insulti, le percosse, le scuse, le ricadute, i pedinamenti, le minacce, la valanga di messaggi. Marialuisa Jacobelli, però, ha scelto la cosa giusta da fare, difficilissima: denunciare. La giustizia, poi, ha fatto la sua parte. 

Così il 21 dicembre Francesco Angelini, imprenditore monegasco di 52 anni, è stato condannato a due anni e quattro mesi con rito abbreviato: era stato arrestato a giugno per atti persecutori nei confronti della influencer e giornalista sportiva con cui aveva allacciato una breve relazione, deragliata presto nell’incubo.

Marialuisa, qual è il suo stato d’animo adesso?

«Sollevato, come se finalmente si fosse chiuso un cerchio dolorosissimo. Sono stata fortunata. Devo dire grazie ai miei avvocati, Federico Cecconi e Massimiliano Mariani, alla magistratura, al capo della squadra mobile di Milano, Marco Calì, un uomo meraviglioso e di grande umanità».

Almeno non ha perso la fiducia nel genere maschile.

«Beh, sinceramente ancora non l’ho recuperata. Non mi fraintenda: ho amici, fratelli, conosco tanti uomini che sono bravi e consapevoli, a partire da mio padre (Xavier Jacobelli, già direttore di Tuttosport, ndr). Però non penso di essere ancora pronta per una relazione, questa esperienza mi ha segnata molto».

Com’era cominciata?

«Con una partita del Chelsea a Londra, un anno fa. Amici comuni mi presentarono questo uomo, che all’apparenza era normalissimo, gentile, interessante. La storia è iniziata così». 

Quali sono stati i punti di non ritorno?

«Il 2 gennaio a Montecarlo fu molto violento con me, mi mise le mani addosso. Aveva l’irrazionale convinzione che avessi una storia con il calciatore Mbappé. Lì chiamai subito la mia amica Christine, il mio faro, sapeva tutto di noi dal primo giorno: è stata lei a calmarmi e a tranquillizzarmi in più di un’occasione. Lui poi si scusò moltissimo, disse che non sapeva cosa gli fosse successo, mi chiese di dargli un’altra possibilità».

Gliela diede a Parigi.

«Con un’amica avevo organizzato un viaggio per il mio compleanno, il 23 gennaio. Lui si aggregò. E lì ho capito che dovevo chiudere. Perché dopo che ho postato una fotografia su Instagram, cominciò a darmi della prostituta, con minacce e insulti pesanti».

A giugno finalmente lo ha denunciato.

«È stato un percorso lento per me. Ormai soffrivo di attacchi di panico, ero seguita da uno psicologo che vedo tuttora, avevo paura di uscire di casa e paura di trovarmelo dentro casa all’improvviso, come se potesse succedere qualcosa di irrimediabile. Ho dovuto traslocare. Mi è rimasto l’istinto di guardarmi a destra e a sinistra per strada».

Non si era confidata con i suoi genitori?

«A mia madre avevo detto qualcosa, ma non tutto, perché non volevo che si preoccupasse: lui poi ha cominciato a mandare centinaia di messaggi anche a lei, per convincerla a farci tornare insieme. Con mio padre ne ho parlato tardi, e mi pento, perché in questi casi bisogna subito cercare degli alleati, tra i parenti, gli amici, le forze dell’ordine, gli avvocati. È che noi donne pensiamo sempre di risolvere le cose da sole».

Angelini in passato aveva tormentato un’altra donna: le è venuta voglia di conoscerla?

«Mi piacerebbe e un giorno lo farò. Sapere che si era già comportato allo stesso modo mi ha fatto capite tante cose». 

Ora lui sta seguendo un percorso di recupero.

«Un percorso psichiatrico che spero lo aiuti a capire la gravità di quello che ha fatto».

Quali sono i suoi sogni adesso?

«Adesso i miei sogni sono solo professionali. Il più grande di tutti è Sanremo: penso lo sia per tutti quelli che fanno il mio mestiere. Dietro l’angolo mi aspetta il calcio mercato, che seguirò per SportMediaset. Anche se restando in tema di sogni mi piacerebbe fare la Champions League. E poi il resto si vedrà».