Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

NESSUN EDITORE VUOL PUBBLICARE I  MIEI LIBRI, COMPRESO AMAZON, LULU E STREETLIB

SOSTIENI UNA VOCE VERAMENTE LIBERA CHE DELLA CRONACA, IN CONTRADDITTORIO, FA STORIA

NOTA BENE PER IL DIRITTO D'AUTORE

 

NOTA LEGALE: USO LEGITTIMO DI MATERIALE ALTRUI PER IL CONTRADDITTORIO

LA SOMMA, CON CAUSALE SOSTEGNO, VA VERSATA CON:

SCEGLI IL LIBRO

80x80 PRESENTAZIONE SU GOOGLE LIBRI

presidente@controtuttelemafie.it

workstation_office_chair_spinning_md_wht.gif (13581 bytes) Via Piave, 127, 74020 Avetrana (Ta)3289163996ne2.gif (8525 bytes)business_fax_machine_output_receiving_md_wht.gif (5668 bytes) 0999708396

INCHIESTE VIDEO YOUTUBE: CONTROTUTTELEMAFIE - MALAGIUSTIZIA  - TELEWEBITALIA

FACEBOOK: (personale) ANTONIO GIANGRANDE

(gruppi) ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE - TELE WEB ITALIA -

ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI

(pagine) GIANGRANDE LIBRI

WEB TV: TELE WEB ITALIA

108x36 NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA

 

 

 

 

 

L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

ANNO 2023

LA SOCIETA’

TERZA PARTE


 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO


 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2023, consequenziale a quello del 2022. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.


 

IL GOVERNO


 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.


 

L’AMMINISTRAZIONE


 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.


 

L’ACCOGLIENZA


 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.


 

GLI STATISTI


 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.


 

I PARTITI


 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.


 

LA GIUSTIZIA


 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.


 

LA MAFIOSITA’


 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.


 

LA CULTURA ED I MEDIA


 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.


 

LO SPETTACOLO E LO SPORT


 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.


 

LA SOCIETA’


 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?


 

L’AMBIENTE


 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.


 

IL TERRITORIO


 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.


 

LE RELIGIONI


 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.


 

FEMMINE E LGBTI


 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
 


 

LA SOCIETA’

INDICE PRIMA PARTE


 

AUSPICI, RICORDI E GLI ANNIVERSARI.

Controllare il tempo: Il Calendario.

La Fine del Mondo.

Le profezie per il 2023.

I festeggiamenti di capodanno.

Halloween.

I Mostri.

La Superstizione.

Il Carnevale.

Pesce d’Aprile.

Le Ricorrenze.

71 anni dalla morte di Eva (Evita) Peron.

63 anni dalla morte di Ferdinando Buscaglione, detto Fred.

60 anni dalla morte di Édith Piaf.

56 anni dalla morte di Otis Redding. 

53 anni dalla morte di Janis Joplin.

52 anni dalla morte di Jim Morrison.

50 anni dalla morte di Bruce Lee.

50 anni dalla morte di Anna Magnani.

48 anni dalla morte di Joséphine Baker.

46 anni dalla morte di Elvis Presley.

46 anni dalla morte di Maria Callas.

33 anni dalla morte di Greta Garbo.

33 anni dalla morte di Ugo Tognazzi.

32 anni dalla morte di Walter Chiari.

30 anni dalla morte di Federico Fellini.

30 anni dalla morte di Frank Zappa.

30 anni dalla morte di River Phoenix.

30 anni dalla morte di Sora Lella Elena Fabrizi. 

30 anni dalla morte di Audrey Hepburn.

30 anni dalla morte di Rudolf Nureyev.

29 anni dalla morte di Gustavo Adolfo Rol.

29 anni dalla morte di Mario Brega.

29 anni dalla morte di Gian Maria Volonté.

29 anni dalla morte di Massimo Troisi.

29 anni dalla morte di Moana Pozzi.

29 anni dalla morte di Domenico Modugno.

28 anni dalla morte di Ginger Rogers.

27 anni dalla morte di Tupac Shakur.

27 anni dalla morte di Mia Martini.

26 anni dalla morte di Giorgio Strehler.

25 anni dalla morte di Lucio Battisti.

24 anni dalla morte di Fabrizio De Andrè.

23 anni dalla morte di Vittorio Gassman.

22 anni dalla morte di Maurizio Arena.

22 anni dalla morte di Anthony Quinn.

21 anni dalla morte di Alex Baroni.

21 anni dalla morte di Carmelo Bene.

20 anni dalla morte di Charles Bronson.

20 anni dalla morte di Johnny Cash.

20 anni dalla morte di Leopoldo Trieste.

20 anni dalla morte di Giorgio Gaber.

20 anni dalla morte di Alberto Sordi.

20 anni dalla morte di Sandro Ciotti.

19 anni dalla morte di Nino Manfredi.

17 anni dalla morte Mario Merola.

16 anni dalla morte Anna Nicole Smith.

15 anni dalla morte di Gianfranco Funari.

14 anni dalla morte di Michael Jackson.

14 anni dalla morte di Dino Risi.

14 anni dalla morte di Mike Bongiorno.

14 anni dalla morte di Farrah Fawcett.

13 anni dalla morte di Mario Monicelli.

13 anni dalla morte di Lelio Luttazzi.

12 anni dalla morte di Amy Winehouse.

12 anni dalla morte di Elizabeth Taylor.

11 anni dalla morte di Lucio Dalla.

11 anni dalla morte di Whitney Houston.

10 anni dalla morte di Lou Reed.

10 anni dalla morte di Mariangela Melato.

10 anni dalla morte di Enzo Jannacci.

10 anni dalla morte di Franco Califano.

7 anni dalla morte di Marta Marzotto.

7 anni dalla morte di George Michael.

7 anni dalla morte di David Bowie.

7 anni dalla morte di Giorgio Albertazzi.

7 anni dalla morte di Paolo Poli.

6 anni dalla morte di Gianni Boncompagni.

6 anni dalla morte di Paolo Villaggio.

5 anni dalla morte di Sergio Marchionne.

5 anni dalla morte di Irina Sanpiter.

5 anni dalla morte di Fabrizio Frizzi.

4 anni dalla morte di Jeffrey Epstein.

4 anni dalla morte di Franzo Zeffirelli.

3 anni dalla morte di Little Richard.

3 anni dalla morte di Diego Armando Maradona.

3 anni dalla morte di Kobe Bryant.

3 anni dalla morte di Franca Valeri.

3 anni dalla morte di Ennio Morricone.

3 anni dalla morte di Ezio Bosso.

2 anni dalla morte di Carla Fracci.

2 anni dalla morte di Franco Battiato.

2 anni dalla morte di Raffaella Carrà.

2 anni dalla morte di Milva.

1 anno dalla morte di Mino Raiola.

1 anno dalla morte di Letizia Battaglia.

1 anno dalla morte di Eugenio Scalfari.

1 anno dalla morte di Pelè.

1 anno dalla morte di Barbara Walters.

I Queen.

I Lynyrd Skynyrd.

I Led Zeppelin.

I Kiss.

I Beatles.

I Lunapop.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI? (Ho scritto un saggio dedicato)



 

INDICE SECONDA PARTE


 

I MORTI FAMOSI.

Il Lutto.

Vivi per sempre.

Morti del cazzo.

Diritto di Morire.

È morta l’attrice Itziar Castro.

Morto l’attore Ryan O’Neal.

Morto il principe Costantino del Liechtenstein.

E’ morto l’attore Benjamin Zephaniah.

E’ morto l’attore Norman Lear,

E’ morto il chitarrista Marco “Jimmy” Villotti.

E’ morto l’agente di cambio Attilio Ventura.

Morto il pittore Carlo Guarienti.

E' morto il cantautore Shane MacGowan.

Addio al fotografo Ivo Saglietti.

Addio al maestro della fotografia Elliott Erwitt.

Morto il regista Aldo Lado.

Morta l'attrice Anna Kanakis.

Se ne va uno l’attore Joss Ackland.

Morto il Senatore Nino Strano.

Morto l’astronauta Frank Borman.

E’ morto l’attore Evan Ellingson.

E’ morta l'attrice Sibilla Barbieri.

E’ morta l’attrice Micaela Cendali Pignatelli.

È morto l’attore Andrea Iovino.

E’ morta l’attrice Marina Cicogna.

E’ morto l’astronauta Thomas Kenneth Mattingly II.

È morto il giornalista Lanfranco Pace.

Morto lo sceneggiatore Peter Steven Fischer.

Morto l’ex Ministro Luigi Berlinguer.

Addio all’editore Ernesto Ferrero.

È morto l’attore Matthew Perry.

Se ne è andato l’attore Richard Roundtree.

Se ne va l’attore Jesús Guzmán.

Addio al vignettista Sergio Staino.

Addio all’attrice Marzia Ubaldi.

Addio all’attore Burt Young.

Morta la musicista Carla Bley.

È morta l’attrice Suzanne Somers.

È morto il giornalista Cesare Rimini.

Se ne va l’attrice Piper Laurie.

Morta la poetessa Louise Glück.

Addio a Charles Feeney, l'uomo più generoso d'America.

È morto il giornalista Ettore Mo.

È morto il giornalista Eugenio Palmieri.

È morto il banchiere Pierfrancesco Pacini Battaglia.

E’ morto il giornalista il Luca Goldoni.

Addio all’attore Keith Jefferson.

Morto l’attore-regista Franco Brocani.

È morto l’attore Tommasino Accardo.

È morta l’attrice Ketty Roselli.

Morto l’attore Michael Gambon.

Morto il giornalista Armando Sommajuolo.

Morto l’attore David McCallum.

Morto il giornalista Francesco Cevasco.

E’ morto il Presidente Giorgio Napolitano.

E’ morto l’autore Franco Migliacci.

È morto l’artista Fernando Botero.

Morto il sociologo Domenico De Masi.

Morto l’imprenditore Flavio Repetto.

È morto il regista Giuliano Montaldo.

Addio al cantante Steve Harwell.

È morto il chitarrista Jack Sonni.

E’ morto il cantautore Jimmy Buffett.

Addio all’imprenditore Mohamed al Fayed.

Addio all’imprenditore web Alessandro Vento.

È morta l’attrice Hersha Parady.

E' morto lo sceneggiatore e produttore David Jacobs.

E’ morto il cantante Salvatore Toto Cutugno.

Addio all’inventore John Warnock.

Addio all’attore Ron Cephas Jones.

Addio al manager Roberto Colaninno.

È morta il soprano Renata Scotto.

Morto il sociologo Francesco Alberoni.

Addio al Professore Marcello Gallo.

È morta l'attrice Antonella Lualdi.

E’ morto l’artista Jamie Reid.

Si è spento il cantante Peppino Gagliardi.

Addio al cantante Sixto Sugar Man Rodriguez.

Addio al cantante Robbie Roberston.

E’ morto il regista William Friedkin.

È morto il politico e filosofo Mario Tronti.

Addio all’industriale Lorenzo Ercole.

È morto il giornalista Idris Sanneh.

Morto l’attore Angus Cloud.

E’ morto l’attore Paul Reubens.

Morta la giornalista Daniela Mazzacane.

Morto lo scrittore Luca Di Meo.

Morto il cantante Randy Meisner.

Morta la cantante Sinead O'Connor.

E’ morto l’antropologo e filosofo Marc Augé.

E’ morto il pittore Emilio Leofreddi.

E’ morta l’attrice Josephine Chaplin.

E’ morto il cantante Tony Bennett.

E’ morto il giornalista Andrea Purgatori.

Muore l’attrice-cantante Jane Birkin.

E’ morto lo scrittore filosofo Milan Kundera.


 

INDICE TERZA PARTE


 

I MORTI FAMOSI.

E’ morto il giornalista Fabrizio Zampa.

E’ morto l’attore Alan Arkin.

E’ morto l’attore Julian Sands.

E’ morto il velocista olimpico e stuntman Dean Smith.

E’ morto l’attore Frederic Forrest.

E’ morto il fumettista Graziano Origa.

E’ morto il musicologo Adriano Mazzoletti.

E’ morta l’attrice Glenda Jackson.

Morto il biologo Roger Payne

È morto il manager e discografico Matteo Romagnoli.

E’ morto il fotografo Paolo Di Paolo.

Morto l’attore Treat Williams. 

È morto lo scrittore Cormac McCarthy.

E’ morto Francesco Nuti.

Addio all’attore Paul Geoffrey.

Morto il sociologo francese Alain Touraine. 

Morto lo storico Nuccio Ordine.

E’ morta la pittrice Françoise Gilot.

E’ morto il wrestler Hossein Khosrow Ali Vaziri, alias The Iron Sheik.

Addio al giornalista Pasolini Zanelli.

Morto l’attore Barry Newman.

Addio a Astrud Gilberto.

E’ morto l’imprenditore Emilio Rigamonti.

E’ morto l’Architetto Paolo Portoghesi.

Morta l’attrice Isa Barzizza.

E’ morta la fotografa Daniela Zedda.

E’ morto il chitarrista Sheldon Reynolds.

E’ morta la cantante Tina Turner.

È morta la giornalista Maria Giovanna Maglie.

E’ morto l’attore Ray Stevenson.

E’ morto lo scrittore Martin Amis.

E’ morto il bassista Andy Rourke.

E’ morto il regista e direttore artistico Giorgio Ferrara. 

E’ morto l’attore Helmut Berger.

È morta la ballerina Maria Miceli.

E’ morto il giornalista Carlo Nicotera.

E' morto l'imprenditore Giordano Riello.

E’ morto lo storico Gioacchino Lanza Tomasi.

È morto lo sceneggiatore e regista Enrico Oldoini.

Morto il vignettista Massimo Cavezzali.

Morta l’attrice Jacklyn Zeman.

Morto l’imprenditore Enzo Bonafè.

E’ morto lo scrittore Philippe Sollers (pseudonimo di Philippe Joyaux).

Morto il generale che catturò Che Guevara Gary Prado Salmón.

È morta ex concorrente del Grande Fratello Monica Sirianni.

Morto l’ex campione mondiale e allenatore di pattinaggio Michele Sica.

Addio al regista Alessandro D'Alatri.

È morto il conduttore Jerry Springer.

Si è spento l’ex magistrato Nicola Magrone.

E’ morto il Senatore Andrea Augello.

E’ morto il regista Angeles Mohamed Farouk Agrama detto Frank Agrama 

E’ morto l’attore Giovanni Lombardo Radice.

E’ morto il cantante Harry Belafonte.

E’ morto il giornalista Corrado Ruggeri.

E’ morto il cantautore e cabarettista Federico Salvatore.

Morto l’inventore-industriale Renato Caimi.

E’ morta Anna Marcacci Brosio.

E’ morto il pianista jazz Ahmad Jamal.

È morto il chitarrista Mark Sheehan.

Morto lo scrittore Meir Shalev.

E’ morto il chitarrista Lasse Wellander.

E’ morto il talent scout Seymour Stein.

E’ morto il regista Nico Cirasola.

E’ morto il musicista Ryuichi Sakamoto.

Morta la scrittrice Ada d’Adamo.

E’ morto il batterista Alfio Cantarella.

È morto il re dei viaggi organizzati Franco Rosso.

E’ morto il giornalista Gianni Minà.

È morto l’attore Ivano Marescotti.

Morto il batterista Luca Bergia.

E’ morto l'attore Paul Grant.

E’ morto il regista Francesco “Citto” Maselli.

E’ morto il giornalista Pier Attilio Trivulzio.

E’ morto l'attore Lance Reddick.

E' morta l’attrice Bice Biagi.

Morto il disegnatore Luigi Piccatto.

E’ morto l’autore televisivo Marco Zavattini.

E’ morta la speaker Clelia Bendandi.

È morto lo scrittore Kenzaburo Oe.

Muore il manager musicale Vincenzo Spera.

E’ morto il regista Bert I. Gordon, detto Mr B.I.G.

E’ morto l’attore Robert Blake.

E’ morto l’attore Ed Fury.

E’ morto il Giornalista Rino Icardi.

E’ morto il chitarrista Gary Rossington.

È morto l'attore Tom Sizemore.

È morto il musicista Steve Mackey.

È morto il musicista Wayne Shorter.

E’ morto il giornalista Curzio Maltese.

E’ morto il giornalista Maurizio Costanzo.

E’ morto il regista Michel Deville.

E’ morto l’attore Richard Belzer.

È morto il fumettista Leiji Matsumoto.

Morto il regista Maurizio Scaparro.

È morto il chitarrista Alberto Radius.

E’ morta l'attrice Raquel Welch.

È morto il cantante David Jolicoeur.

E’ morto l'attore Cody Longo.

È morto il regista Hugh Hudson.

E’ morto il regista Carlos Saura.

E’ morto il musicista compositore Burt Bacharach.

E' morto il critico letterario Nicolò Mineo.

E' morto il giornalista Pio D'Emilia.

È morto il fotografo Massimo Piersanti.

E’ morto l’ex presidente Pakistan Musharraf. 

E’ morto l’attore Sergio Solli.

Morta l’attrice Monica Carmen Comegna.

Addio allo stilista Paco Rabanne.

Morta la redattrice Josè Rinaldi Pellegrini.

È scomparso l’imprenditore Giuseppe Benanti.

Morta l’attrice Cindy Williams.

È morta l’attrice Lisa Loring.

E’ morto il giornalista Roberto Perrone.  

E’ morto il giornalista Ludovico Di Meo.  

Morto il telecronista Christian Scherpe.

È morto il chitarrista Tom Verlaine.

E’ morta l’attrice Sylvia Syms.

E’ morto il regista Eugenio Martín.

È morto lo scrittore Pino Roveredo.

Morta l'imprenditrice Daniela Gavio.

E’ morto il rocker David Crosby.

E’ morto il regista Giorgio Mariuzzo.

E’ morto il regista Paul Vecchiali.

È morto il coreografo e regista televisivo e teatrale Gino Landi.

E’ morta l’attrice Gina Lollobrigida.

E’ morto l’artista Gianfranco Barucchello.

E’ morto il Tiktoker Taylor LeJeune, noto con il nickname Waffler69.

E’ morta Lisa Marie Presley.

E’ morta Tatjana Patitz.

Morto l’avvocato Roberto Ruggiero.

Morto il criminologo Francesco Bruno.

Morto il chitarrista Jeff Beck.

Morto il poeta Charles Simic.

E’ morto il direttore di fotografia Owen Roizman.

E’ morto l’attore Adam Rich.

È morto lo speaker Roberto Gentile.

E’ morto Michael Snow.

Morta la scrittrice Fay Weldon.

È morto il disegnatore Gosaku Ota.

E’ morto l’astronauta Walter Cunningham.

E’ morto il batterista Fred White.

E’ morto il pilota Ken Block.


 

INDICE QUARTA PARTE


 

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Scandali Reali.

Gli scandali dei Windsor.

Elisabetta.

Carlo.

Diana.

Camilla.

Anna.

Andrea.

Sarah Ferguson.

Edoardo.

William e Kate.

Harry e Meghan.
 


 

LA SOCIETA’

TERZA PARTE


 

I MORTI FAMOSI.

Estratto dell’articolo di Totò Rizzo per leggo.it martedì 4 luglio 2023.

È morto Fabrizio Zampa, una vita per la musica e per il giornalismo, cronista e critico dei principali eventi nazionali e internazionali delle sette note dai primi anni ’70 ad oggi, firma storica de “Il Messaggero” per il sito del quale, aveva continuato a curare la rubrica “Il sopravvissuto”. 

Zampa è morto alla clinica Ars Medica di Roma, assistito dai figli Massimiliano e Daniele. Aveva 85 anni.

L’amore per la musica Zampa lo aveva prima coltivato di persona suonando la batteria nei Flippers, complesso (a quei tempi non usava dire band) che era formato tra gli altri da Lucio Dalla, clarinetto e voce solista, Franco Bracardi, pianoforte e Massimo Catalano (lanciato poi verso la popolarità da Renzo Arbore in tv) contrabasso. 

Ebbero un discreto successo, i Flippers, arrivarono perfino secondi al Cantagiro anche se da supporters con “I watussi”, hit di Edoardo Vianello che accompagnavano nei concerti e nelle tournée. Ma qualche loro brano “in proprio” ebbe una buona eco tra i giovani che apprezzavano quel primo beat di casa nostra che aveva radici sia nel jazz che nel rock’n’roll.  […]

Marco Molendini per Dagospia martedì 4 luglio 2023.

L’inarrestabile Fabrizio Zampa si è fermato.  Lo chiamava “inarrestabile” Renzo Arbore ai tempi dell’Altra domenica di cui Fabrizio era uno degli inviati. L’ho conosciuto più o meno in quel periodo, anzi tre anni prima, quando sono arrivato al Messaggero. 

Lui era già una firma con una lunga storia, raffigurato in un grande affresco, assieme a Maoloni, Prunas, Ronchetti, Bergami e Manisco paladini della battaglia del giornale contro la defenestrazione di Alessandro Perrone e la vendita a Rusconi.

C’era poi l’aura  del  papà, grande regista autore di film memorabili (Il vigile è un capolavoro irresistibile). C’erano le sue avventure musicali da batterista, in quella Roma notturna e avvincente dove si poteva suonare e ascoltare con il gusto della scoperta e dell’incontro. 

C’erano i Flippers, in  cui era entrato giovanissimo al fianco di Lucio Dalla, Franco Bracardi, Massimo Catalano, Jimmy Polosa ai tempi del cha cha cha (Il cha cha cha dell’impiccato uno dei loro successi): lo si intravede in una sequenza di Totò, Peppino e  la dolce vita. C’erano i successi accompagnando Edoardo Vianello in hit come I Watussi. 

E poi sono arrivati Arbore e la tv. È arrivato il cinema con Il Papocchio, dove aveva contribuito alla sceneggiatura e anche come attore. Conosceva tutti nel mondo della musica, dai tempi mitici del Cantagiro. Era inarrestabile e pieno di entusiasmi: non solo la musica, la fotografia, la tecnologia  (è stato uno dei più elettrizzato all’arrivo dei computer), i tropici, i banani (aveva riempito la sua terrazza di quegli arbusti), Cristiana, le sigarette. 

Fabrizio è stato un protagonista di un Messaggero leggendario, un riferimento di una redazione singolare e fortissima, con Gigi Vaccari, Gloria Satta, Rita Sala, Paolo Zaccagnini, Guglielmo Biraghi, Renzo Rian, Teodoro Celli. Rideva, scherzava, lanciava battute, voleva di più.  

Aveva già rischiato di andarsene trent’anni fa, investito da una macchina a Rio mentre filmava l’orchestra di Renzo Arbore chiamata a sfilare al neonato Sambodromo di Oscar Niemayer. Stavolta se ne è andato davvero, a 85 anni. Un ricordo indelebile

Addio a Fabrizio Zampa, storico giornalista che aveva dedicato la vita a scrivere di musica. Scomparso all'età di 85 anni la storica firma musicale de "Il Messaggero" Fabrizio Zampa. Iniziò come batterista dei "The Flippers" in cui suonava anche Lucio Dalla. Roberta Damiata il 4 Luglio 2023 su Il Giornale.

Grave lutto nel mondo del giornalismo, è scomparso all'età di 85 anni nella clinica Ars Medica di Roma, Fabrizio Stampa, storica firma musicale de Il Messaggero. A darne la notizia proprio il quotidiano in cui Zampa lavorava dal 1970. Innamorato da sempre dal mondo della musica, era il figlio del regista Luigi Zampa, uno dei padri del neorealismo e della commedia all'italiana. Iniziò da giovanissimo come batterista dei The Flippers la band di cui faceva parte anche Lucio Dalla, Franco Bracardi e Massimo Catalano.

Si era poi dedicato alla scrittura, senza però abbandonare l'altra sua passione per la fotografia. Era arrivato a Il Messaggero nel 1970 diventando in poco tempo una delle firme di punta come critico musicale. Arguto e schietto, la sua scrittura negli anni ha appassionato migliaia di lettori, che amavano il suo stile diretto nel raccontare la musica e i fenomeni culturali del Paese. Negli ultimi tempi aveva creato la sua rubrica nel sito del quotidiano dal titolo Il sopravvissuto, dove con la sua ironia raccontava un mondo, quello della musica, che girava sempre più veloce e di cui pochi altri, oltre a lui, riuscivano a cogliere le sfumature e il valore artistico.

Inviato storico del Festival di Sanremo, Zampa non era un semplice cronista, ma anche un grande amico di molte grandi star del nostro panorama musicale, da Mina, a cui aveva anche presentato il primo marito Virgilio Crocco a Fabrizio De Andrè. Amava raccontare le cose vivendole personalmente, che fosse un concerto, o l'intervista di una star dall'altro capo del mondo. Durante la sua lunga carriera, aveva anche partecipato a molte produzioni televisive, mondo che lo affascinava molto.

Negli anni '70 era stato inviato per il programma L’Altra Domenica di Renzo Arbore, che lo chiamava “l’inarrestabile” e con cui ha lavorato come sceneggiatore ai suoi film Il Pap’occhio (dove aveva anche girato un cameo) e FF.SS, oltre a partecipare come ospite al programma cult Quelli della notte. Negli anni 2000 aveva celebrato una reunion con i The Flippers, la sua storica band, riportando al successo brani come Siamo I Watussi e Hully Gully cantate da Edoardo Vianello.

Paolo Zaccagnini per professionereporter.eu il 5 Luglio 2023.

Firma storica? Che vuol dire? Un giornalista. Un giornalista vero Fabrizio Zampa, che è morto a Roma a 85 anni. Un giornalista impegnato che, ahimé, nessuno prendeva su serio per il suo approccio divertente e scherzoso alla vita. Ci ho lavorato a stretto contatto per anni e mai l’ho visto senza il sorriso. Quando l’atmosfera in redazione si faceva pesante, c’era lui a riportarci con i piedi per terra dicendo: “A regà’, su, sono solo cazzate”. 

Molti, e meglio di me, hanno sviscerato la sua vita, io no, voglio ricordare il collega. Che mi prese con sé al mio primo festival di Sanremo e, cronista vero, mi indicava dove cercare notizie e personaggi – adesso non si fa più – e gioiva veramente dei miei piccoli successi. “Bravo, Pa’”, e sotto con la prossima notizia. 

Entrato agli Spettacoli mi aveva chiesto cosa volessi fare e io gli dissi che avrei voluto occuparmi di musica rock. 

“Ma di quella mi occupo io”. 

“No, tu ti occupi di musica italiana, sbaglio?”. 

“Hai ragione, non fa una piega”.

Grazie a Marco Molendini, iniziò una stagione irripetibile per il giornalismo dello Spettacolo in Italia. Molendini-Zaccagnini-Zampa-Leonardi-Satta-Tian-Sala-Celi-Gasponi. 

E Fabrizio ci stupiva sempre. Con i suoi viaggi meravigliosi, la sua splendida compagna bionda Cristiana Caimmi – in redazione dietro il suo tavolo c’era una magnifica fotografia di Cristiana nuda, appoggiata su un grande albero tropicale – la sua passione per la fotografia – era eccellente – e la tecnologia – fu tra i primi ad avere, e usare magnificamente, il computer al giornale- e il suo passato di musicista -era stato batterista nei Flippers, che accompagnavano Edoardo Vianello nel suo successo “I Watussi”.

E poi davvero abbracciò il giornalismo con amore, educazione, passione. Sì, educazione, perché non l’hai mai sentito o visto litigare, o alzare la voce. Un signore. Dei Parioli. Figlio del regista Luigi Zampa – “Il vigile” e “L’onorevole Angelina” vi bastano? – di cui non parlava mai. Lavoratore allegro e indefesso.

“Marco, questa storia è un po’ strana”. 

“Mandiamoci Fabrizio”. 

E Fabrizio, col suo perenne sorriso e i suoi baffi, tornava sempre con la notizia. Senza mai vantarsi. Aveva fatto il suo lavoro. Io lo apprezzavo e lo leggevo da lettore, vedermelo lì accanto che mi trattava come un suo pari mi scosse assai. E poi quel ricorrente “Salve ragazzi, come state? Tutto bene? Che c’è da fare?”, sempre pronto a impegnarsi nel lavoro. 

Fabrizio, lasci un grande, allegro, divertente vuoto. Sai cosa devi fare adesso? Riposati. Magari salutami Krupa e Bohman nel paradiso dei batteristi. Sai che casino farete. Ciao, amico mio.

Marco Giusti per Dagospia il 30 giugno 2023.

E’ un duro colpo perdere Alan Arkin, scomparso oggi a 89 anni. Un attore di teatro e di cinema, e un cantante in gioventù, di incredibile duttilità, preparato per ogni ruolo, dal sadico assassino Harry Roat di “Gli occhi della notte” di Terence Young, un ruolo che odiava, dove terrorizzava Audrey Hepburn cieca e ovviamente anche, noi piccoli spettatori, al nonno premio Oscar e premio Bafta di “Little Miss Sunshine”, dal buffo produttore hollywoodiano di “Argo” di Ben Affleck, dove venne ancora candidato all’Oscar al John Yossarian, incredibile protagonista di “Comma 22” di Mike Nichols, un film che non venne mai abbastanza capito, amato, ma che spiegava perfettamente cosa sono gli americani e gli americani in guerra.

Ma anche  un attore che, in tanti anni che abbiamo passato al cinema fino alle serie di oggi, non ci ha mai lasciato senza la sua irriverenza, la sua sottile intelligenza, la sua carica grottesca e la sua profonda umanità. Pensiamo solo alla sua interpretazione ne “Il metodo Kominsky” a fianco di Michael Douglas, ai suoi bellissimi cortometraggi degli anni ’60, uno, “People Soup” con due dei suoi tre figli venne candidato all’Oscar nel 1964, ai pochi film che ha diretto, assolutamente bizzarri, come “Piccoli omicidi” tratto da Jules Feiffer.

Uscito da una bella gavetta nei teatri sperimentali americani, lanciatissimo nei primi anni’60 tra Tony e nomination all’Oscar, venne costruito ai tempi di “Arrivano i russi, arrivano i russi” di Norman Jewison e di “L’urlo della notte” di Robert Ellis Miller tratto dal romanzo di Carson McCullers, altra candidatura all’Oscar per il suo ruolo di sordomuto, e poi di “Comma 22” come il grande protagonista ebreo-americano della New Hollywood. Un appuntamento che si perderà nel vuoto. Ma, al tempo stesso, ci ha però sempre fatto capire dove era e cosa stava facendo, ricostruendosi ogni volta una carriera.

Non funzionò come nuovo Ispettore Clouseau, ne “L’infallibile ispettore Clouseau?" di Bud Yorkin, anche se personalmente ebbe buone critiche, né in “Sette volte donna” di Vittorio de Sica con Shirley MacLaine, ma fu un Freud strepitoso in “Sherlock Holmes: Soluzione sette per cento” di Herbert Ross con Nicol Williamson e Robert Duvall. Forse non fu la scelta giusta per “Amiamoci così belle signore” di Gene Saks tratto dalla commedia di Neil Simon, ma ci piacque moltissimo in coppia con James Caan in “Una strana coppia di sbirri” di Richard Rush, un film fortunato che fece solo, come disse lui stesso, per la pagnotta.

Quando sembrava scomparso da anni, lo abbiamo ritrovato da caratterista come padre di Winona Ryder in “Edward mani di forbice”, il tipico americano così cosciente della propria identità che ha in vista sulla camicia sempre una carta d’identità per ricordare lui stesso chi è. Ora. E’ vero che non farà la carriera di Paul Newman o di Robert Redford, né di Jack Nicholson e Donald Sutherland, ma non ci rendiamo conto per quanto tempo Alan Arkin è rimasto fedele a se stesso con la sua eleganza, la sua intelligenza, illuminando ogni film che faceva.

 Credo che dai primissimi corti anni ’60, dai ruoli da protagonisti per i film e le commedie di Mike Nichols e Norman Jewison fino all’Oscar di “Little Miss Sunshine” e al successo del “Metodo Kominsky”, per il quale venne candidato ai Golden Globes è sempre stato lo stesso grande attore che avevamo conosciuto. Nato nel 1934 a New York da una famiglia ebrea di origini ucraine, tedesche, e russe, si sposta a 11 anni con la famiglia a Los Angeles, dove il padre venne assunto come scenografo a Hollywood, e presto perse il posto perché si ostinava a scioperare.

Lui stesso, ancora giovane, ebbe non pochi problemi perché ritenuto un comunista durante il maccartismo. Si dedica fin da ragazzino alla recitazione, che alterna con un’altra passione, quella della musica folklorica e caraibica. Diventa infatti popolare come cantante fin dagli anni ’50 con gruppi folk come The Tarriers, formata da lui, Eric Darling e Bob Carey, per i quali rielaborò nel 1956 un successo tradizionale come “Banana Boat” poi reso popolare in tutto il mondo dall’interpretazione di Harry Belafonte, e poi nel 1958 con The Babysitter.

Sposa nel 1955 Jeremy Yaffe, poi nel 1964 la cantante bianca di blues Barbara Dane, la prima che osò cantare e incidere dischi coi bluesman neri. Rimarranno sposati fino al 1999, quando si sposerà una terza volta, con Suzanne Newlander. Dalle prime due mogli ebbe tre figli maschi, Adam, Matthew e Anthony. Si sposta a Chicago per far parte del celebre gruppo di improvvisazione teatrale Second City, che tanta importanza avrà nella New Hollywood degli anni ’60 e lo metterà in contatto con tutti i più importanti autori e attori americani del tempo, da Mike Nichols a Elaine May.

Nel 1967 vince il suo primo Tony Award con “Enter Laughing”, l’altro sarà per “I ragazzi irresistibili” nel 1973, nel 1968 è candidato all’Oscar per “L’urlo del silenzio”, uno dei suoi primi film da protagonista, che gli aprirono quella che avrebbe dovuto essere una carriera sicura. Non fu così. Perché molti dei suoi film non funzionarono, da “L’infallibile Ispettore Clouseau", dove sostituì un insostituibile Peter Sellers, a “Comma 22”, che non fu certo un successo. Ma la sua carriera, dopo quarant’anni ci sembrò ancora luminosa proprio come l’avevamo pensata tutti, con una pioggia di premi, nomination a Oscar, Golden Globes, Tony Award e tutto il resto. Il tempo ci rese un Alan Arkin ancora perfetto.

 Negli ultimi trent’anni lo abbiamo visto ovunque, da “Argo” di Ben Affleck a “Dumbo” di Tim Burton, da “Havana” di Sydney Pollack all’episodio diretto da Steven Soderbergh in “Eros” dove recita con Robert Downey Jr, da “Big Trouble” di John Cassavetes dove divide la scena con Peter Falk a “Americani” di James Foley dove recita assieme a Al Pacino e Jack Lemmon. Fa di tutto, compare in “Will and Grace” e doppia J.D.Salinger nel cartoon di culto “BoJack Horseman”. Non sarà facile costruire un altro Alan Arkin.

Alan Arkin, morto l'attore premio Oscar di "Little Miss Sunshine". Roberta Damiata il 30 Giugno 2023 su Il Giornale.

Scomparso l'attore premio Oscar Alan Arkin nella sua casa Carlsbad, in California. Nella sua lunghissima carrierà si dedicò al cinema al teatro e anche alla regia

È morto all'età di 89 anni Alan Arkin, attore e regista vincitore di un Oscar come miglior attore non protagonista nel 2007 per Little Miss Sunshine. A dare l'annuncio della morte, avvenuta nella sua casa di Carlsbad, in California, i figli Adam, Matthew e Anthony: “Nostro padre era un talento e una forza della natura, un artista e un uomo. Marito adorato, padre, grande nonno, lo abbiamo amato e ci mancherà profondamente”.

Era nato a Brooklyn nel 1934 in una famiglia ebrea di origini ucraine, russe e tedesche, figlio del pittore e scrittore David I. Arkin e dell'insegnante Beatrice Wortis. A 11 anni si era poi trasferito con la famiglia a Los Angeles, dove il padre iniziò a lavorare negli studios di Hollywood come decoratore di scenografie. Affascinato dal mondo del cinema, Alan frequentò diverse scuole di recitazione fino a laurearsi al Bennington College.

Gli inizi

Iniziò a lavorare nel mondo dello spettacolo negli anni '50 insieme alla compagnia teatrale The Second City e inizia a scrivere canzoni e a pubblicare racconti di fantascienza sulla rivista Galaxy. Al cinema inizia invece a lavorare dieci anni dopo negli anni '60. Il primo ruolo importante nel 1966 con Arrivano i russi, arrivano i russi di Norman Jewison, al fianco di Carl Reiner ed Eva Marie Saint. Seguiranno Sette volte donna (1967) di Vittorio De Sica e Gli occhi della notte (1967) di Terence Young, accanto a Audrey Hepburn, L'infallibile ispettore Clouseau (1968) di Bud Yorkin, L'urlo del silenzio (1968) di Robert Ellis Miller, per il quale viene candidato all’Oscar, Papà... abbaia piano! (1969) di Arthur Hiller, Comma 22 (1970) di Mike Nichols, Amiamoci così, belle signore (1972) di Gene Saks, Pazzo pazzo West (1975) di Howard Zieff, Sherlock Holmes: soluzione settepercento (1976) di Herbert Ross, e ancora, Una strana coppia di suoceri (1979) di Arthur Hiller, Il mago di Lublino (1979) di Menahem Golan, Il grande imbroglio (1986) di John Cassavetes.

Gli anni da regista

Attirato anche dal mondo della regia, nel 1971 dirige Piccoli omicidi, interpretato da Elliott Gould e Marcia Rodd esperienza che ama particolarmente e che ripeterà anche nel 1977 nel film: Quella pazza famiglia Fikus (1977). Attore particolarmente poliedrico riuscì nella sua lunga carriera ad interpretare brillantemente vari generi cinematografici. Da Edward mani di forbice di Tim Burton ad Havana (1990) di Sydney Pollack, partecipa a Gattaca (1997) di Andrew Niccol, Jakob il bugiardo (1999) di Peter Kassovitz, I perfetti innamorati (2001) di Joe Roth e Tredici variazioni sul tema (2001) di Jill Sprecher.

Vincitore di un Oscar

Tra teatro e cinema, Arkin riesce anche a lavorare in tv. Il debutto in alcuni episodi di A cuore aperto. Nel 2001 prende parte alla serie tv 100 Centre Street e partecipa come guest star a Will&Grace nel ruolo del padre di Grace Adler. Vince un Oscar per il film Little Miss Sunshine dove interpreta magistralmente un nonno sboccato e cocainomane. Nel 2007 appare in Rendition - Detenzione illegale di Gavin Hood mentre nel 2013 arriva la sua quarta nomination, grazie a Argo di Ben Affleck che viene però vinta da Christoph Waltz per il ruolo in Django Unchained di Quentin Tarantino.

Negli anni recenti la sua popolarità era stata rilanciata anche dalle piattaforme grazie al ruolo interpretato nella serie Il metodo Kominsky al fianco di Michael Douglas, per il quale era stato candidato agli Emmy.

Dagospia il 30 giugno 2023.Riceviamo e pubblichiamo:

Caro Dago,

Julian Sands era sparito mesi fa, la settimana scorsa hanno trovato i suoi resti  in un bosco della California. La notizia mi aveva molto colpito, le sparizioni inquietano forse più della morte. 

Lo ricordavo in Camera con vista ma soprattutto nel set dell'ultimo lungometraggio di Mauro Bolognini, La Villa del venerdì, tratto da un racconto di Alberto.

Eravamo a Sabaudia, Villa Volpi, non lontano da casa. Cast internazionale, ricordo la gentilezza e la maestria di Bolognini che anni prima aveva girato Agostino, film potente, censurato e sempre difeso da Moravia. 

Intervistai Julian, timido e gentile, ancora molto bello. Dopo non l'ho più rivisto, era scomparso ancora prima della passeggiata nel bosco

Riposi in pace 

Carmen Llera Moravia

Marco Giusti per Dagospia il 26 giugno 2023.

Purtroppo, potrebbero appartenere a Julian Sands i resti umani trovati sul Monte Baldy, nella Contea di San Bernardino in California, esattamente nella zona dove il celebre attore inglese (“Camera con vista”, “Il fantasma dell’opera”, “Gothic”, “Dexter”), 65 anni, provetto esploratore e scalatore, è scomparso dallo scorso gennaio senza dar più nessun segno di vita. I familiari, la moglie, la scrittrice Evgenia Citkowitz, e le tre figlie vogliono sperare che Sands sia ancora vivo, anche se sono passati sei mesi dalla sua scomparsa e finora le ricerche non hanno portato a nessun risultato.

E la scalata al Monte Baldy, per la quale Sands era partito in solitaria era piuttosto difficile. Le ricerche si erano però intensificate in questo ultimo periodo, coinvolgendo circa ottanta persone, elicotteri, droni. “Continuiamo a tenere Julian nei nostri cuori con ricordi luminosi di lui come un meraviglioso padre, marito, esploratore, amante del mondo naturale e delle arti, e come artista originale e collaborativo" è la risposta della famiglia al ritrovamento dei resti.

Julian Sands, nato in Inghilterra nel 1958, biondo, alto, bello, dal grande fisico atletico, aveva avuto il suo momento da star negli anni ’80 in film come “Urla dal silenzio” di Roland Joffé con John Malkovich, col quale rimarrà amico tutta la vita, e sarà proprio Malkovich a presentargli la sua seconda e attuale moglie, “Il dottore e i diavoli”, diretto da Freddie Francis, prodotto da Mel Brooks con Timothy Dalton, Jonathan Pryce, Twiggy, Stephen Rea, il primo dei suoi tantissimi horror, “Camera con vista” di James Ivory con Helena Bonham-Carter e Maggie Smith dal romanzo E. M. Forster, “Gothic” di Ken Russell, dove interpreta addirittura Shelley, lo sballato “Siesta” di Mary Lambert con Ellen Barkin, Gabriel Byrne e Grace Jones. 

Pur girando film del tutto diversi, da “Lamerica” di Gianni Amelio, un piccolo ruolo senza essere accreditato, o “Mario e il mago” di Klaus Maria Brandauer o “Via da Las Vegas” di Mike Figgis, che frutterà l’Oscar a Nicolas Cage, col suo fisico che, invecchiando, diventa sempre più da tipico attore inglese si specializza da una parte in ruoli da horror classici e da un’altra in ruoli tratti da personaggi letterari. Lo troviamo così protagonista di “Il fantasma dell’opera” di Dario Argento con Asia Argento, in “I delitti della luna piena” di Paco Plaza, in “Vatel” di Roland Joffé dove è Louis XIV.

Ma ricordiamo che per la scrittrice Anne Rice era la migliore delle scelte possibile (altro che Tom Cruise) per il suo vampiro Lestat in “Intervista col vampiro” e David Lean lo voleva come protagonista nel 1991 di quello che avrebbe dovuto essere il suo ultimo film, “Nostromo”, tratto da Joseph Conrad. 

Negli ultimi vent’anni sviluppa, tra serie tv anche famose, come “Dexter”, “Smallville”, “I Medici” e una marea di film di serie B davvero impressionante, questa tendenza all’horror e al genere letterario. Fra i titoli più interessanti degli ultimi anni “Ocean’s Thirteen" di Steven Soderbergh, “Seneca” col suo amico John Malkovich, ben due film italiani girati da poco, “Body Odyssey" di Grazia Tricarico e “Double Soul” di Valerio Esposito, che devono ancora uscire.

Julian Sands, i resti trovati in California sono dell’attore scomparso. Corriere della Sera il 27 giugno 2023.

I resti umani trovati nelle montagne della California sono quelli dell’attore britannico Julian Sands, scomparso durante un’escursione a gennaio. Lo riferisce la Cnn citando la polizia, tre giorni dopo il ritrovamento dei resti da parte di alcuni escursionisti. «Il processo di identificazione per il corpo trovato sul Monte Baldy il 24 giugno è stato completato ed è stato identificato positivamente come Julian Sands, 65 anni. La modalità della morte è ancora oggetto di indagine, in attesa di ulteriori risultati dei test», ha dichiarato il dipartimento dello sceriffo della contea di San Bernardino in una nota.

L’attore aveva fatto perdere le sue tracce dalla sera del 13 gennaio, quando era uscito per un’escursione sul Monte Baldy, nell’area delle San Gabriel Mountains. Julian Sands aveva iniziato la carriera d’attore nell’84, conil film Urla del silenzio di Roland Joffé, ma la sua prima parte da protagonista è arrivata l’anno successivo con Camera con vista di James Ivory, il film tratto dall’omonimo romanzo di E. M. Forster che vinse tre Oscar e consacrò lui e la coprotagonista Helena Bonham Carter: interpretavano due innamorati a Firenze nei primi anni del 1900. Dopo il successo del film di Ivory e di Gothic di Ken Russell ha girato numerose pellicole: Warlock (1989), Il sole anche di notte (1990), Aracnofobia (1990), Il pasto nudo (1991), Boxing Helena (1993), Via da Las Vegas (1995) e Ocean’s Thirteen (2007).

(ANSA-AFP il 25 luglio 2023) La causa della morte dell'attore britannico Julian Sands, scomparso durante un'escursione su una montagna della California, è stata ufficialmente dichiarata "indeterminata". Lo hanno reso noto le autorità locali. Sands, diventato famoso per l'eroe romantico del dramma in costume degli anni '80 'Camera con vista', era scomparso a gennaio sul Monte San Antonio, alto 3.000 metri e conosciuto localmente come Mount Baldy.

Ma è stato solo a giugno che resti umani successivamente determinati come quelli di Sands sono stati scoperti dagli escursionisti. L'attore aveva 65 anni. "La causa è 'indeterminata', viste le condizioni del corpo e poiché non sono stati scoperti altri fattori durante le indagini del medico legale", ha detto una portavoce del dipartimento dello sceriffo della contea di San Bernardino. "Questa cosa è comune quando si tratta di casi di questo tipo", hanno aggiunto le autorità.

Addio a Dean Smith, è morto il velocista olimpico e stuntman hollywoodiano. Scomparso all'età di 91 anni, il velocista campione olimpico Dean Smith, diventato uno dei più grandi stuntman hollywoodiani. Aveva lavorato con Paul Newman e John Wayne. Roberta Damiata il 26 Giugno 2023 su Il Giornale.

Se n'è andato sabato all'età di 91 anni, ma la notizia è stata resa nota solo oggi, Dean Smith, il velocista medaglia d'oro alle Olimpiadi di Helsinki del 1952. Si è spento nella sua casa di Breckenridge, in Texas, in seguito ad un tumore. L'annuncio della scomparsa è stato dato dall'amico Rob Word a The Hollywood Reporter. Dopo la carriera sportiva Dean ottenne ancora più fama intraprendendo quella di stuntman ad Hollywood, lavorando in una dozzina di film con John Wayne.

Nato a Breckenridge il 15 gennaio 1932, ha trascorso i suoi primi anni di vita nel vasto ranch dei nonni, trovando ispirazione dalle star dei film western sul grande schermo. Ha giocato a football e corso in pista all'Università del Texas e alle Olimpiadi estive del 1952 in Finlandia si classificò quarto nei 100 metri piani conquistando poi la medaglia d'oro nella staffetta 4×100 metri con Harrison Dillard, Lindy Remigino e Andy Stanfield. Tornò poi al college e fece parte della squadra dei Longhorns che vinse il Cotton Bowl nel 1953.

Giocò anche per un breve perido con i Los Angeles Rams. Iniziò la carriera nel cinema grazie al compagno di stanza olimpionico James Garner, che lo aiutò a ottenere lavori come stuntman, iniziando a comparire in film e telefilm dal 1957. Smith è stato la controfigura in sette film di Paul Newman, tra cui La gatta sul tetto che scotta (1958), Butch Cassidy (1969), L'uomo dai 7 capestri (1972), La stangata (1973) e L'inferno di cristallo (1974).

Il "texano" come veniva soprannominato sui set, era anche un abile cavallerizzo che riusciva in imprese quasi impossibili tanto da essere molto richiesto nell'ambiente. Per questo la sua "arte" di compiere dei veri miracoli senza usare, come succede ora, effetti speciali, lo vide protagonista in molti telefilm come Cheyenne, Laramie, La conquista del West e Il virginiano.

Ma fu soprattutto al cinema che venne molto richiesto, e le sue acrobazie possono essere ammirate in varie pellicole, da Un dollaro d'onore, Cavalcarono insieme, La battaglia di Alamo, I Comanceros, Il grande sentiero, Rio Conchos, El Dorado, Carovana di fuoco, Il Grinta, Non stuzzicate i cowboys che dormono. Fu anche la controfigura di Maureen O'Hara nel film di John Wayne McLintock! (1963), compiendo le sue acrobazie con indosso una parrucca rossa e un bustino da donna per interpretare l'attrice.

Addio a Dean Smith, è morto il velocista olimpico e stuntman hollywoodiano. Scomparso all'età di 91 anni, il velocista campione olimpico Dean Smith, diventato uno dei più grandi stuntman hollywoodiani. Aveva lavorato con Paul Newman e John Wayne. Roberta Damiata il 26 Giugno 2023 su Il Giornale.

Se n'è andato sabato all'età di 91 anni, ma la notizia è stata resa nota solo oggi, Dean Smith, il velocista medaglia d'oro alle Olimpiadi di Helsinki del 1952. Si è spento nella sua casa di Breckenridge, in Texas, in seguito ad un tumore. L'annuncio della scomparsa è stato dato dall'amico Rob Word a The Hollywood Reporter. Dopo la carriera sportiva Dean ottenne ancora più fama intraprendendo quella di stuntman ad Hollywood, lavorando in una dozzina di film con John Wayne.

Nato a Breckenridge il 15 gennaio 1932, ha trascorso i suoi primi anni di vita nel vasto ranch dei nonni, trovando ispirazione dalle star dei film western sul grande schermo. Ha giocato a football e corso in pista all'Università del Texas e alle Olimpiadi estive del 1952 in Finlandia si classificò quarto nei 100 metri piani conquistando poi la medaglia d'oro nella staffetta 4×100 metri con Harrison Dillard, Lindy Remigino e Andy Stanfield. Tornò poi al college e fece parte della squadra dei Longhorns che vinse il Cotton Bowl nel 1953.

Giocò anche per un breve perido con i Los Angeles Rams. Iniziò la carriera nel cinema grazie al compagno di stanza olimpionico James Garner, che lo aiutò a ottenere lavori come stuntman, iniziando a comparire in film e telefilm dal 1957. Smith è stato la controfigura in sette film di Paul Newman, tra cui La gatta sul tetto che scotta (1958), Butch Cassidy (1969), L'uomo dai 7 capestri (1972), La stangata (1973) e L'inferno di cristallo (1974).

Il "texano" come veniva soprannominato sui set, era anche un abile cavallerizzo che riusciva in imprese quasi impossibili tanto da essere molto richiesto nell'ambiente. Per questo la sua "arte" di compiere dei veri miracoli senza usare, come succede ora, effetti speciali, lo vide protagonista in molti telefilm come Cheyenne, Laramie, La conquista del West e Il virginiano.

Ma fu soprattutto al cinema che venne molto richiesto, e le sue acrobazie possono essere ammirate in varie pellicole, da Un dollaro d'onore, Cavalcarono insieme, La battaglia di Alamo, I Comanceros, Il grande sentiero, Rio Conchos, El Dorado, Carovana di fuoco, Il Grinta, Non stuzzicate i cowboys che dormono. Fu anche la controfigura di Maureen O'Hara nel film di John Wayne McLintock! (1963), compiendo le sue acrobazie con indosso una parrucca rossa e un bustino da donna per interpretare l'attrice.

Marco Giusti per Dagospia il 25 giugno 2023.

Tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80, Frederic Forrest, attore di culto amato da Francis Coppola, Jack Nicholson, Wim Wenders, scomparso a 87 anni a Santa Monica, passa da un sogno da star di prima grandezza, grazie alla sua partecipazione a film come “Apocalypse Now” di Coppola, dove è le Chef del barcone (ricorderete la battuta: Mai uscire dalla barca!”), “La conversazione”, sempre di Coppola, dove ha un piccolo ruolo, ma importantissimo, l’uomo spiato da Gene Hackman, “The Rose” di Mark Rydell, dove venne candidato all’Oscar, al dimenticatoio per essere stato il protagonista di due sfortunati incredibili flop autoriali che segnarono la crisi (o la fine) della New Hollywood, cioè “Un sogno lungo un giorno” o “One From the Heart”, musical capolavoro ultrasperimentale di Coppola, dove Forrest, uomo qualunque in quel di Las Vegas si innamora di Nastassja Kinski, e “Hammett” di Wim Wenders, prodotto da Coppola, omaggio al genere noir, che venne così odiato dai produttori al punto da costringere Wenders a girarne una seconda versione, che è quella che si vide. 

Già nel 1985 Forrest diventa un attore un po’ imbarazzante. Al punto da finire tra gli attori americani da esportazione in Italia come Petronius nel polpettone “Quo Vadis?” diretto da Franco Rossi.

E scivolare poi in un anonimato che gli offrirà solo raramente qualche ruolo interessante solo grazie ai vecchi amici che lo avevano lanciato. E dire che aveva incominciato davvero bene. Nato in Texas nel 1936, appare nel 1966 tra i protagonisti dell’opera teatrale di Megan Terry, portata anche al cinema, “Viet Rock”, che spiana la strada a “Hair”. Ma è solo nel 1972, dopo piccole apparizioni televisive, a fare il suo vero e proprio esordio al cinema da coprotagonista di “Quando le leggende muoiono” di Stuart Millar, piccolo film intelligente con Richard Widmark vecchio insegnante di rodeo tratto da un romanzo di Robert Dozier che mette davvero in luce le qualità di Frederic Forrest. 

Il suo aspetto bello e triste da angelo caduto che lo accompagnerà per tutta la vita. Lo ritroviamo come Tony Fargo, fratello adddirittura di Al Lettieri nel curioso mafia movie “Il boss è morto” di Robert Fleischer con Anthony Quinn protagonista, uscito subito dopo “Il Padrino”. Dopo essere stato fratello di Al Lettieri è fratello di Stacy Keach in un altro film che mi piacerebbe molto rivedere, “The Gravy Train” o “I fratelli Dion”, diretto da Jack Starrett, che sostituì Terrence Malick in un film che era stato pensato per Martin Scorsese. Anche se Starrett non ha la stessa statura di Scorsese e di Malick, il film offrì a Forrest un buon ruolo da coprotagonista. Nello stesso periodo lo chiama Coppola prima per “La conversazione” e poi per “Apocalypse Now”, che uscirà solo nel 1979.

Nel frattempo Forrest girerà "Missouri" di Arthur Penn con Marlon Brando e il suo amico Jack Nicholson, verrà candidato all’Oscar per la sua partecipazione a “The Rose”, biopic di Janis Joplin diretto da Mark Rydell. Nei primissimo anni ’80, Forrest diventa il protagonista ideale di Coppola sia per “One From the Heart” sia, da produttore, per “Hammett” di Wim Wenders, dove dividerà le scena, nella prima versione con Brian Keith e Ronee Blakley, e nella seconda con Peter Boyle e Marilu Henner, che sposerà sul set del film nel 1980. Il non funzionamento dei due film porterà Coppola alla bancarotta e Forrest in una sorta di inferno per attori che non ce l’hanno fatta. Girerà ancora dei buoni film, “Tucker” di Coppola nel 1988, “Music Box” nel 1989, “Il grande inganno” di Jack Nicholson nel 1990, “Un giorno di ordinaria follia” nel 1993, ma senza riuscire a ricostruire davvero la sua carriera. 

Lo vorrà anche Johnny Depp per il suo film da regista, “Il coraggioso” con Marlon Brando. Proprio dal fallimento della sua carriera, per ogni cinefilo cresciuto con la New Hollywood, Frederic Forrest diventa una sorta di attore feticcio. E il suo film di punta, “One From the Heart”, con le canzoni di Tom Waits e Nastassia Kinski che si muove sul filo, è ancora oggi qualcosa di irresistibile.

Cagliari, trovato morto in mare il fumettista Graziano Origa, lavorò con Warhol e Haring: oggi l’autopsia, forse un malore o un gesto volontario. Storia di Alessandro Fulloni e Alberto Pinna su Corriere della Sera il 19 Giugno 2023. 

Un funambolo del fumetto che aveva lavorato, negli anni Ottanta, con artisti del calibro di Andy Warhol e Keith Haring. Fanzinaro da giovanissimo, poi disegnatore, sceneggiatore, critico apprezzatissimo, talent-scout, pittore e scrittore, editore fantasioso. Graziano Origa, nome celeberrimo nel mondo della «nona arte», quella delle strisce animate, amava definirsi «artista di carta», perché con la carta si è sviluppato il suo percorso artistico, quello di un giovanissimo grafico, poi illustratore, saggista, direttore. Nella notte tra sabato e domenica un corpo è stato trovato in mare ma solo nella serata di ieri si è accertato che quell’uomo senza vita ripescato al Poetto di Quartu, a Cagliari, era proprio lui.

Il corpo scoperto da un passante

Da chiarire cosa sia accaduto, forse un malore, forse un gesto volontario. In giornata è attesa l’autopsia, disposta dalla Procura. Origa viveva da tempo a Dolianova, centro di 10 mila abitanti a circa 15 chilometri da Cagliari, anche se risultava residente a Malo, in provincia di Vicenza. Il corpo è stato visto poco dopo la mezzanotte da un passante che ha dato l’allarme. È stata la Guardia costiera a recuperare il cadavere trasferito poi all’obitorio di San Michele dove saranno eseguiti gli accertamenti necroscopici. Da un primo esame esterno condotto dal medico legale non sarebbero emersi segni di violenza. Gli investigatori ipotizzano una caduta in mare dopo un malore, forse l’ipotesi del gesto volontario.

Origa era stato direttore negli anni Settanta della rivista underground Gong e aveva aperto con un gruppo di aspiranti fumettisti, oggi disegnatori, tra i più grandi, di testate come Dylan Dog e Tex, lo «Studio Origa». Parliamo di vere e proprie star come Corrado Roi, Fabio Civitelli, Enea Riboldi. Sono sue, inoltre, la creazione dell’apprezzata testata «Fumetti d’Italia» e dei personaggi Videomax e Vampirella. Ha scritto su centinaia di quotidiani, settimanali e mensili, italiani e stranieri, e ha girato il mondo, finendo, negli Usa, a collaborare con Warhol e Haring. Sterminata la sua produzione saggistica, da scritti su Tex all’«Enciclopedia del fumetto», opera cult in due volumi edita negli anni Settanta.

Le opere apprezzate nel mondo dell’arte

Ma sterminato, soprattutto, è il catalogo delle sue raffigurazioni di personaggi della cultura ritratti sovente in stile punk, Mina, Battisti, Pasolini, opere assai apprezzate dagli appassionati dell’arte. Sul web c’è il cordoglio di chi lo conosceva bene. Fumo di China, punto di riferimento del fumetto italiano di cui Origa era stato per anni valente collaboratore, parla di «bruttissima notizia». Il sindaco di Dolianova, Ivan Piras, ha espresso il dolore a nome dell’intera comunità: «Perdiamo un artista, un amico. Graziano ha dato lustro al nostro paese».

Marco Molendini per Dagospia il 18 giugno 2023.

Adriano Mazzoletti se ne è andato a 88 anni appena sfiorati, li avrebbe compiuti domani, e quasi tutta la vita, da quando era poco più di un ragazzo e già organizzava un Jazz club a Perugia facendo suonare Louis Armostrong, l’ha dedicata alla missione del jazz. Funzionario Rai (dove ha fatto carriera realizzando programmi di intrattenimento). Ricercatore certosino, quasi maniacale. Soprattutto formidabile archivista. Fondamentale cronista. Divulgatore antiretorico. Produttore discografico. Ha tenuto insieme il jazz italiano per settant’anni e lo ha raccontato in modo quasi notarile in un manuale storico di migliaia di pagine (Il jazz in Italia) e che da anni stava ansiosamente completando.

Mazzoletti, al di là delle formalità di circostanza, è stato davvero una colonna del jazz in Italia da quando, quel mondo incerto e provinciale, doveva ancora diventare adulto, fino ad oggi. Musicisti, giornalisti, appassionati: non c'è nessuno che non lo abbia incrociato con le sue imprese. 

C'era un tempo in cui la Rai faceva servizio pubblico e lui infilava la musica dei suoi eroi dovunque poteva, organizzava trasmissioni, ospitate, vere e proprie stagioni concertistiche. Parlo degli anni Sessanta con gli appuntamenti di via Asiago per la favolosa serie Jazz Concerto, che ricordo come fosse oggi, tanta era l'emozione di quei pomeriggi passati nella sede della radio, aspettando dal portiere il passi per entrare. 

Nel deserto musicale di quei tempi quegli appuntamenti erano un improvviso e imperdibile squarcio sul gran jazz, sfilata di giganti da Earl Hines a Phil Woods, da Dexter Gordon a Johnny Griffin, da Hampton Hawes a Ornette Coleman, da Kenny Clarke a Tony Scott. Sono stati una palestra per chi suonava, e il jazz italiano ha avuto largo spazio, e per chi ascoltava, allora un circolo ristretto composto sempre dalle stesse persone che portavano nella Rai di quei tempi una fresca ventata di novità. 

Nella mia formazione sono stati un passaggio fondamentale, come professionalmente è stato emotivamente trascinante lavorare per lui in quei programmi serali da Radio Uno in cui si poteva discutere e ascoltare il jazz liberamente e mandarlo anche in onda.

(ANSA il 15 Giugno 2023) - L'attrice inglese due volte vincitrice dell'Oscar Glenda Jackson, che è stata anche deputata, "è morta serenamente" oggi all'età di 87 anni. È stato reso noto dal suo agente. "Glenda Jackson, attrice e politica due volte vincitrice dell'Oscar, è morta serenamente nella sua casa di Blackheath Londra questa mattina dopo una breve malattia con la sua famiglia al suo fianco", ha detto Lionel Larner.

Nata a Birkenhead, vicino a Liverpool, da una famiglia operaia, Glenda Jackson fece il suo esordio teatrale nella pièce Tavole separate di Terence Rattigan. Dopo il debutto cinematografico nel film The Extra Day, avvenuto nel 1956, entrò a far parte della Royal Shakespeare Company e lavorò con il regista Peter Brook in molte piece, incluso il Marat/Sade di Peter Weiss, nella parte di Charlotte Corday, ruolo che interpretò anche nella versione cinematografica girata nel 1967. 

Nel 1971 per il suo ruolo in Donne in amore vinse il primo Oscar cui seguì il secondo nel 1974 per Un tocco di classe. Nel 1992 ha abbandonato la carriera artistica per dedicarsi alla politica ed è stata deputato laburista alla Camera dei comuni per il collegio di Hampstead and Kilburn fino al 2015. 

Nel 2016, dopo venticinque anni dal ritiro dalle scene, è tornata a recitare a teatro nei panni di Re Lear all'Old Vic di Londra e nel 2018 è tornata sulle scene newyorchesi dopo trent'anni di assenza nell'opera teatrale di Edward Albee Tre donne alte, per cui ha vinto il Tony Award alla miglior attrice protagonista. Glenda Jackson ha vinto anche due Premi Emmy, due Premi Bafta e un Golden Globe.

Marco Giusti per Dagospia il 15 Giugno 2023.

Brutti tempi. Perdiamo anche la leggendaria Glenda Jackson, 86 anni, protagonista di film come “Marat/Sade”, “Donne in amore”, “L’altra faccia dell’amore”, “Triplo eco”, “Domenica, maledetta domenica”, “Una romantica donna inglese”, “Due sotto il divano”, capace di passare da personaggi come Charlotte Corday a Sarah Bernhardt, dalla Nina di Ciakowski a Hedda Gabler, di recitare con partner totalmente diversi come Oliver Reed, Walter Matthau, Michael Caine, George Segal.

Una delle pochissime attrici inglesi (con Vivien Leigh, Olivia de Havilland e Elizabeth Taylor) in grado di vincere ben due Oscar, “Donne in amore” e “Un tocco di classe” e non essersi degnata neanche di andarli a ritirare. “Mia madre li lucida fino a un centimetro della loro vita fino a quando il metallo non si vede. Questo sono in definitiva gli Oscar: tutto luccichio all'esterno e metallo di base. Bei regali per un giorno. Ma non ti rendono migliore”. 

Dalla fine degli anni ’60 a tutti i ’70, grazie a grandi film innovativi diretti da Ken Russel, John Schlesinger, Joseph Losey, Robert Altman, dominò la scena sia inglese che americana cambiando del tutto le regole della recitazione del tempo (“Non avevo alcuna vera ambizione riguardo alla recitazione. Ma sapevo che doveva esserci qualcosa di meglio del lavoro in farmacia”) e lo stesso concetto di bellezza femminile. Bella? Brutta? Glenda Jackson è sempre stata solo se stessa fino alla fine.

 Da poco era anche tornata a recitare, aspettiamo un appena finito “The Great Escaper”, dove recita ancora assieme a Michael Caine, suo vecchio partner, dopo una lunga parentesi politica che l’ha vista sottosegratria ai trasporti tra il 1997 e il 1999 e membro del Parlamento Inglese tra il 2010 e il 2015. Lo fa per passione politica, ovviamente. ”Una delle osservazioni più deprimenti che è stata fatta quando sono arrivato per la prima volta alla Camera dei Comuni è stata fatta da un parlamentare che mi ha detto: "Perché vuoi venire qui? Sei già famosa".

Nata nel 1937 a Birkenhead nel Cheshire, studia al Dundee Repertory Company nei primi anni ’60 assieme a Edward Fox, Michael Culver, Nicol Williamson. Fa qualche particina al cinema, “The Extra Day” nel 1956 e nel più celebrato “Io sono un campione” di Lindsay Anderson nel 1963, ma esplode sia a teatro che al cinema solo nel 1967 con il “Marat/Sade” diretto da Peter Brook, tratto dalla commedia di Peter Weiss, dove è una straordinaria Charlotte Corday, di incredibile forza. “Se sono troppo forte per alcuni spettatori, questo è un problema loro”.

Da ragazzo ne fui talmente conquistato che assieme a altri compagni di classe al Liceo Classico D’Oria di Genova ricordo che cercai di rimetterlo in scena. Il cinema inglese allora era una bomba, grazie ai loro registi e ai loro attori. Quando nel 1969 arrivò “Donne in amore” di Ken Russel con Oliver Reed, Alan Bates, Jennie Linden e Glenda Jackson fummo tutti conquistati da questo approccio finalmente fisico, muscolare col sesso e la passione. Era la prima volta che si vedevano maschi recitare totalmente nudi e dove un’attrice, la Jackson, poteva un Oscar recitando totalmente nuda, inoltre nuda e incinta di cinque mesi (“mai avuto un petto così florido”).

Diventa da subito l’attrice di riferiumento per Ken Russel, che ritroverà in “L’altra faccia dell’amore” dove interpreta Nina, la sfortunata moglie di Ciakowski, Richard Chamberlain, che scopre l’impossibilità di essere penetrata da lui in una incredibile scena in treno, ma anche in “The Boy Friend” e anni dopo in “L’ultima Salomé” e “The Rainbower”. Dirà di Ken Russell”. “Adoro lavorare con lui, Non sa niente di recitazione. Ma ma ti lascia libero di fare cosa vuoi”.

E incontra per la prima volta uno dei suoi partner più noti, Oliver Reed, altro attore muscolare e forte. “Oliver ed io non abbiamo assolutamente niente da dirci fuori dallo schermo. Come persone, siamo gesso e formaggio. Quello che ammiro in Oliver è la sua professionalità. Non importa in che stato si trovi fisicamente, quando dicono "Azione!", lui è pronto, e quello era l'aspetto del lavorare con lui che mi piaceva. Ho lavorato molto con lui ed è un attore infinitamente migliore di quanto si dia credito”.

 In “Domenica, maledetta domenica” di John Schlesinger interpreta Alex Graville la moglie di Peter Finch che si scoprirà non solo gay, ma anche innamorato di Murray Head. Un film che fece scandalo, perché erano temi che non erano mai stati trattati con tale fermezza. E mai si era visto, mi sa, un bacio tra due uomini sullo schermo. La ritroviamo in film diversi, come i polpettoni “Maria Stuarda” di Charles Jarrott con Vanessa Redgrave e “La storia di Lady Hamilton” di James Cellan Jones con Peter Finch, in “Triplo Eco” di Michael Apted dove ritroviamo Oliver Reed e un curioso triangolo sentimentale con un giovane disertore che durante la guerra si traveste da donna.

Con “Un tocco di classe”, scritto e diretto da Melvin Frak, dove fa coppia con George Segal, vince il suo secondo Oscar come migliore attrice. Non solo non ci va, ma ha pure qualcosa da dire a riguardo. “Stavo lavorando ma dubito che ci sarei andata anche se avessi potuto esserci. Guardando la televisione qui nella mia suite d'albergo, continuavo a ripetermi che avrei dovuto spegnerla e andare a letto. Mi sentivo disgustata di me stesso, come se stessi assistendo a un'impiccagione pubblica. . . Nessuno dovrebbe avere la possibilità di vedere tanto desiderio, tanto bisogno di un premio e tanto dolore quando non lo vinci”.

L’Oscar americano le apre nuove prospettive internazionali. In Italia gira il curioso “Il sorriso del grande tentatore”, drammone religioso diretto da Damiano Damiani che allora ci sembrò parecchio oscuri, Con Christopher Miles gira una bellissima versione di “Le serve” di Jean genet assieme a Susannah York e Vivien Merchant, con Joseph Losey gira “Una romantica donna inglese”, scritto da Tom Stoppard, dove recita per la prima volta con Michael Caine e uno svitatissimo Helmut Berger.

Torna in America per una serie di commedie divertenti e di successo, ma non bellissime, “Visite a domicilio” di Howard Zieff con Walter Matthau, “Un marito in prova” di Melvin Frank con George Segal, “Due sotto il divano” di Ronald Neame con Matthau. “Idealmente”, dice nel 1974, “uno vorrebbe lavorare in Inghilterra. Ma se nessuno in Inghilterra prende il coraggio a due mani e fruga nelle proprie tasche e finanzia film, allora dovrai lavorare all'estero”. Intanto in America incontra Robert Altman che la dirigerà in “Health” nel 1980 e poi nel 1987 in “Terapia di gruppo”. Ricordo che ci colpì molto in “Tartaruga ti amerò” di John Irvin, tratto da “Turtle Diaries”, dove recita in coppia con Ben Kingsley.

 Scompare dalle scene, presa dalla politica, per una ventina di anni. La ritroviamo recentemente al cinema "Elizabeth Is Missing" diretto da Aisling Walsh nel 2019, dove è una malata di Alzheimer, in “Secret Love” diretto nel 2021 da Eva Husson con il giovane Josh O’Connor, che troveremo in “Challengers” di Luca Guadagnino e nel già nominato, e non ancora uscito, “The Great Escaper” dove incontra di nuovo Michael Caine. “Un attore maschio”, dirà, “può fare tutto, da "Amleto" a "King Lear", uomini di ogni età e di ogni intensità di crescita spirituale. Dov'è l'equivalente per le donne? Non mi piace andare in giro a fare l'infermiera in "Romeo e Giulietta". La vita è troppo corta”. 

Morto Roger Payne, il biologo che scoprì il canto delle balene. By adnkronos su L'Identità il 15 Giugno 2023 

Il biologo statunitense Roger Searle Payne, famoso per la scoperta del canto delle balene tra le megattere nel 1967 con Scott McVay, è morto sabato 10 giugno nella sua casa di South Woodstock, nel Vermont, all'età di 88 anni. La causa del decesso è stata un carcinoma metastatico a cellule squamose, ha dichiarato la moglie Lisa Harrow al "New York Times", che ha pubblicato oggi la notizia.  Dopo aver scoperto che le balene si fanno la serenata l'una con l'altra, Payne registrò il loro repertorio cacofonico di boati, strilli, mugolii dando vita a un album di successo e a un grido di protesta per vietare la caccia alle balene a scopo commerciale. Payne ha unito la sua avvincente ricerca scientifica con il potere emotivo della musica per stimolare una delle campagne di conservazione dei mammiferi di maggior successo al mondo. Ha amplificato la voce delle balene per contribuire a ottenere un giro di vite del Congresso americano sulla caccia commerciale alle balene negli anni '70 e una moratoria globale negli anni '80. Ha inoltre fondato Ocean Alliance, un'associazione di ricerca e sviluppo che si occupa di conservazione delle balene, oltre a programmi presso la Wildlife Conservation Society e altri enti che continuano il suo lavoro pionieristico. E' stato professore di biologia alla Rockefeller University e, contemporaneamente, ricercatore di zoologia presso l'Institute for Research in Animal Behaviour, gestito dalla Rockefeller University e dalla New York Zoological Society. Nato a New York il 29 gennaio 1935, Payne si era laureato in biologia alla Harvard University e aveva conseguito il dottorato in zoologia sistematica ed evolutiva alla Cornell University. Dopo studi sul comportamento dei pipistrelli e i gufi, si è poi dedicato alla ricerca sulle balene: con lo zoologo Scott McVay nel 1967 ha scoperto con i microfoni subacquei le complesse composizioni sonore eseguite dai maschi delle megattere durante la stagione riproduttiva. 

Payne descrive i canti delle balene come "fiumi di suono esuberanti e ininterrotti" con "temi" ripetuti a lungo: ogni canzone dura fino a 30 minuti ed è cantata da un intero gruppo di megattere maschi contemporaneamente. Payne ha condotto numerose spedizioni negli oceani del mondo studiando le balene attraverso le loro migrazioni.  Alcune delle registrazioni di Payne furono pubblicate nel 1970 come un disco chiamato "Songs of the Humpback Whale" che contribuì a dare visibilità al movimento Save the Whales che cercava di porre fine alla caccia commerciale alle balene (la caccia commerciale alle balene è stata vietata dalla International Whaling Commission nel 1986). Nel 1975 Payne pubblicò un secondo disco e nel 1987 collaborò con il musicista Paul Winter aggiungendo il canto delle balene nella musica umana. Le registrazioni di balene di Frank Watlington (con il commento di Roger Payne) furono pubblicate su un Flexi-disc all'interno della rivista "National Geographic" del gennaio 1979; questo numero, con 10,5 milioni di copie, divenne la più grande tiratura a stampa singola di tutti i tempi. Oltre alle registrazioni di balene, Payne ha anche pubblicato libri e lavorato con troupe cinematografiche in diverse produzioni di documentari televisivi. Nel 1971 Payne fondò la Ocean Alliance, un'organizzazione che lavora per la conservazione delle balene e degli oceani, di cui è stato a lungo il direttore. (di Paolo Martini) —culturawebinfo@adnkronos.com (Web Info)

Lutto nel mondo della musica. È morto il manager e discografico Matteo Romagnoli, papà de Lo Stato Sociale e di Garrincha Dischi. Aveva 43 anni. La sua creatura discografica protagonista dell'indie e dell'Itpop degli anni 10. Aveva scritto "Una vita in vacanza", il brano con cui Lo Stato Sociale sfiorò la vittoria a Sanremo. Antonio Lamorte su L'Unità il 15 Giugno 2023 

Matteo Romagnoli scopriva band emergenti, soprattutto nell’ambiente della canzone alternativa e del cosiddetto Itpop degli anni dieci, e le coltivava, le portava a pubblici via via più grandi. Era stato anche lui a scrivere Una vita in vacanza, per esempio, il più grande successo de Lo Stato Sociale che aveva prodotto con la sua etichetta. Il manager, produttore e fondatore della Garrincha Dischi, label che negli ultimi anni si era creata un suo posto autorevole e neanche così piccolo nella musica italiana è morto a 43 anni, dopo una lunga malattia. La notizia è stata diffusa sui canali social della stessa Garrincha Dischi e dello Stato Sociale.

“Matteo amava le canzoni, scrivere canzoni. Andare ai concerti, fare i concerti. Collezionare dischi, fare dischi. ‘Uno che se non avesse speso tutti quei soldi in musica avrebbe comprato una casa di proprietà … anche bella grande’. Un visionario capace di tracciare una strada dove una strada ancora non c’era. Matteo ha dato vita ad una scena, scoprendo e producendo con la sua creatura, Garrincha Dischi, alcune tra le band seminali per la scena indipendente italiana. Matteo ha saputo immaginare e creare un nuovo mondo musicale: libero ‘perché, anche se gli altri non ci volevano, noi eravamo convinti che la nostra musica potesse arrivare a tante persone’. Sapeva vedere la bellezza nei difetti e confezionava, a mano e con amore, le canzoni dalla demo (‘che è sempre meglio!’) alla copertina. Matteo ha sempre amato unire le persone, per questo Garrincha rimane una festa”.

Matteo “Costa” Romagnoli aveva cominciato a fare musica con il nome d’arte di Costa!. Garrincha Dischi era stata fondata nel 2008, aveva prodotto tra gli altri artisti come Lo Stato Sociale, gli Ex Otago, gli Extraliscio, La Rappresentante di Lista, Gazebo Penguins, Camillas e L’Orso. Si era inserito in quel grande stravolgimento che la musica italiana ha attraversato dalla fine degli anni Zero fino a oggi, oggi che band e solisti allora considerati di nicchia e a malapena da club arrivano senza troppi patemi anche al Festival di Sanremo.

“Inizialmente volevo fare i dischi miei perché non li voleva fare nessuno – aveva raccontato in un’intervista alla pagina “Sei tutto l’indie di cui ho bisogno” – poi ho iniziato a fare i dischi degli altri che non voleva pubblicare nessuno, poi è arrivato un pubblico innamorato di quei dischi che gli altri non volevano pubblicare e ad un certo punto mi son trovato in un vortice caotico che poi ho riordinato in questa che di lì a poco è diventata una famiglia. Volevo dar risalto ai testi, alla lingua italiana, canzoni pop, per quanto sbilenco e trasversale. Dare voce ad un nuovo pop vero, che non passa in radio, fatto di gente che poi a fine concerto vengono con te a bersi una birra“.

Anche lui, autore di tantissimi brani, aveva contribuito a scrivere Una vita in vacanza, il brano più noto dello Stato Sociale che nel 2018 aveva sfiorato la vittoria all’Ariston. La stessa band bolognese ha ricordato Romagnoli in un post sui social:

“Se questa vita è un inferno

la metteremo su un foglio

ma non ci faremo la spesa

sarà solo un gioco in attesa

che un milione di nuvole passi

e il cuore riprenda il suo corso

Ciao Matteo, ciao Johnny, ciao Mareo, ciao J, ciao Quincy, ciao Romagolo, ciao Gennaro e ciao un altro milione di modi in cui ti abbiamo chiamato in questi anni di vita con te dove ci hai salvato la vita, ci hai sgridato, ci hai amato più di tutti. Senza di te siamo solo 5 stronzi, prima eravamo in 6 ed era molto meglio. Prima eravamo in un milione ed era bellissimo, perché facevi entrare tutti e solo dentro la tua creatura potevano convivere così tanti freak, solo dentro Garrincha è possibile trovare il tuo amore per i difetti e la perfezione. Ora siamo a pezzi, ma da questi pezzi proveremo a costruire qualcosa di IMPUBBLICABILE, che tu, da ovunque sarai, renderai musica”. Antonio Lamorte 15 Giugno 2023

Estratto dell’articolo di Michele Smargiassi per repubblica.it il 13 giugno 2023.

"Io, fotografando, sono stato felice". Un anno fa, nella penombra dell'auditorium del Mast di Bologna, Paolo Di Paolo confessò così, come si fa degli amori lontani e perduti, la sua passione incontenibile per "quella macchinetta dei miracoli", che tuttavia abbandonò, da un giorno all'altro, come a volte succede ai grandi amori. Ieri, a 98 anni da poco compiuti, Di Paolo ha abbandonato anche la sua esistenza terrena, vogliamo pensare con la stessa malinconica leggerezza con cui, più di mezzo secolo fa, chiuse in scatola circa 250 mila negativi, metà in bianco e nero metà a colori, e li depositò in cantina ("e dove, sennò?"). 

Laggiù li ritrovò per caso, negli anni Novanta, cercando un paio di sci, la figlia Silvia, che nulla sapeva di quel passato. "Papà, e queste?" "Ah, sono mie. Sono stato un fotografo", rispose con noncuranza. E che fotografo. In quelle scatole c'era l'immaginario di un'Italia risorgente, orgogliosa e divertita, la presuntuosa Italia del benessere; c'erano tutte le facce che contavano nello spettacolo, nella politica, nella cultura, e tutte riprese in un certo modo, quel certo modo che a Pannunzio, che le sceglieva personalmente, per Il Mondo, piaceva molto: non semplici ritratti, ma piccole storie rivelatrici di aspetti nascosti di un carattere che, da personale, diventata italiano.

Era arrivato a Roma, Di Paolo, dal nativo Molise, con tutt'altre intenzioni. 

Di studiare filosofia, e intanto mantenersi con un lavoro da pubblicitario al Cit, agenzia per il turismo che aveva sede ai piani superiori della stazione Termini. "Ma sotto c'era un ottico, e aveva in vetrina una Leica. Io non riuscii a togliermela dalla mente finché non la comprai". E dopo, fu amore travolgente. Autodidatta vorace. Comprava Il Mondo perché ci scriveva un suo professore, e quella "bella fotona in copertina" lo convinse a salire le scale di quel palazzo dietro il Pantheon. Pannunzio gliene comprò tre: "Era velocissimo a scegliere", e sicuro dei suoi criteri. Gli scartò un magnifico ritratto di un Pier Paolo Pasolini pensieroso sul Monte dei Cocci perché "troppo bello".

Bene, tagliamo corto: Di Paolo fu il fotografo più pubblicato sul Mondo: 573 immagini pubblicate, tra queste la prima a cui fu riconosciuto l'onore della firma, e l'ultima prima della chiusura di quel rotocalco, ricordava col suo sarcasmo da dandy, "che nessuno leggeva ma che tutti dicevano di leggere". Durò una decina d'anni, durante i quali Di Paolo lavorò come un matto. Forse il suo capolavoro è La lunga strada di sabbia, il reportage che a due mani e due occhi che fece assieme a Pasolini, di cui vinse la diffidenza citandogli Rilke a memoria; vennero incaricati entrambi dal Tempo Illustrato di percorrere passo dopo passo le coste d'Italia (in realtà Pasolini era un misantropo, viaggiarono separatamente) e narrarla, diciamo così, dal bordo.

Però arrivò la fine del Mondo. In molti sensi, per Di Paolo. Nel 1966 la rivista chiuse. E il suo fotografo, addolorato, scrisse a Pannunzio un telegramma definitivo: "Per me muore oggi l'ambizione di essere fotografo". Un'ambizione letteralmente sepolta. Di Paolo finì per lavorare alla sezione storica dell'arma dei Carabinieri. Senza mai più premere un bottone d'otturatore. Ci vollero vent'anni, a Silvia, dopo quella riesumazione fortunosa, per convincere papà a rendere di nuovo pubbliche quelle immagini assieme a tante altre mai viste. Non voleva essere "la Greta Garbo della fotografia".

 (...) 

(ANSA Dagospia il 13 giugno 2023) - Dal leader hippie di Hair, l'adattamento cinematografico di Milos Forman del musical di Broadway per cui ottenne una nomination ai Golden Globe al dottor Andy Brown della serie Everwood. 

Ma anche C'era una volta in America di Sergio Leone e 1941 - Allarme a Hollywood di Steven Spielberg e serie tv famose come Deep Rising, Blue bloods e Chicago Fire. Il mondo del cinema piange l'attore Treat Williams scomparso improvvisamente ieri a seguito di un incidente in moto a 71 anni.

La morte dell'attore è stata confermata a People dal suo agente Barry McPherson secondo cui "un'auto gli ha tagliato la strada". "Sono devastato. Era un uomo meraviglioso - ha detto - e aveva così tanto talento. Era un grande attore. I cineasti lo adoravano. È stato il cuore di Hollywood dalla fine degli anni '70".   

La sua eclettica carriera ha spaziato in tantissimi ruoli al cinema, in tv e al teatro. Sono moltissimi i colleghi che lo ricordano in queste ore con affetto. "Treat e io - ha scritto James Woods - abbiamo trascorso mesi a Roma per girare C'era una volta in America. Poteva essere un periodo stressante e solitario ma il suo buon umore e il suo senso dell'umorismo sono stati una manna dal cielo. Lo amavo davvero e sono devastato dal fatto che se ne sia andato".

Morto l’attore Treat Williams. Il carismatico George Berger di Hair. VALERIA COSTA su Il Domani il 13 giugno 2023

Il famoso attore è morto in un incidente stradale. Tra le tante esperienze nel cinema il musical di Milos Forman lo ha destinato all’eternità

Treat Williams, icona del cinema hollywoodiano è morto lunedì, a 71 anni in un incidente stradale. Stava viaggiando sulla sua motocicletta quando una macchina gli ha tagliato la strada. L’attore è morto nel tragitto verso l’ospedale.

Williams era nato il primo dicembre del 1951 a Stamford, nel Connecticut. Durante gli anni del college era entrato a far pare del mondo dello spettacolo, ma è nel 1979 che raggiunge la fama mondiale. In quell’anno il regista Milos Forman lo vuole per il ruolo di George Berger, uno degli hippie protagonisti del film Hair, già spettacolo di successo di Broadway. Grazie a questa parte l’attore verrà candidato ai Golden Globe.

Williams, con poche esperienze nel cinema alle spalle, non sa che grazie a questo personaggio entrerà nel mito, rimarrà per tutta la vita l’idolo della generazione pacifista al tempo del Vietnam e non troverà mai più un ruolo altrettanto carismatico.

Sebbene altre occasioni importanti non gli mancheranno. Nel 1984 Sergio Leone lo ingaggia per interpretare un ruolo secondario ma degno di nota nel suo tanto desiderato capolavoro “C’era una volta in America”. Nel film Williams è James Conway un sindacalista corrotto dalla banda di Robert De Niro (Noodles) e James Woods (Max/senatore Bailey). Proprio quest’ultimo sarà il primo a ricordarlo sui social con un tweet

Williams avrà fortuna anche fuori dal grande schermo. Agli inizi del Duemila sarà il protagonista perno su cui girerà l’intera serie televisiva “Everwood” candidata due volte agli Emmy Awards.

VALERIA COSTA. Laureata in Scienze politiche. Studia Governo amministrazione e politica alla Luiss a Roma

Camilla Tagliabue per Il Fatto Quotidiano - Estratto il 19 Giugno 2023.

Cormac McCarthy è morto: ci lascia in un “inferno darwiniano”, come Raul Montanari, suo storico traduttore, ha definito l’opera dello scrittore americano.

Ci spiega meglio?

McCarthy ha raccontato l’inferno terreno in cui conta soltanto la lotta per la sopravvivenza, la legge del più forte: specie nella prima fase della sua produzione, quella dei romanzi più duri e difficili, scrive di violenza in modo radicale; per lui il nodo della natura umana è la ferocia, la guerra, la sopraffazione. È un autore talmente intransigente e privo di compromessi, nella rappresentazione di questi lati oscuri e inconfessabili, che è difficile trovare precedenti. È stato accostato a Melville e persino a Omero, ma è ancor più radicale.

La concezione hobbesiana dell’homo homini lupus torna nell’ultimo romanzo Il passeggero (uscito con Einaudi e primo del dittico che si chiude a settembre con Stella Maris): il protagonista compulsa Il Leviatano, è pessimista, eppure c’è Dio da qualche parte...

McCarthy poteva anche essere ateo, ma come scrittore si pone il problema teologico. Interrogarsi sul male significa interrogarsi su Dio e sul silenzio di Dio, il suo mancato intervento, il suo distacco. Nei suoi libri c’è sempre una tensione religiosa, un interesse per le domande ultime. Non a caso, il realismo di McCarthy è confinato alle descrizioni, mentre i dialoghi sono filosofici, platonici, oltretutto in bocca a pezzenti, assassini e banditi che parlano con un linguaggio altissimo, impossibile, nella realtà, per chi come loro è incolto e miserabile.

Il suo Sunset Limited per il teatro è quasi irrappresentabile tanto il dialogo è tra il bianco e il nero, il bene e il male…

…………………………….. 

Squisitamente americano, anche l’immaginario è diverso dal nostro: i cowboy, la frontiera... Che difficoltà ha avuto nel tradurlo?

Il cinema, ma non solo, ci ha reso il west tutto sommato familiare, in primis grazie a Sergio Leone, che forse McCarthy ha visto e amato. La sua lingua invece è difficilissima: ha un lessico sterminato, influenzato da una notevole cultura scientifica. La qualità della sua sintassi è poi “dondolante”: ha un ritmo binario che sembra davvero quello del cavallo al galoppo.

Posso aggiungere una cosa legata alla sua fama? 

Prego...

La sua notorietà in Italia esplode solo negli anni 90, ma poteva accadere già nei ’60. Nel 1965 il suo primo romanzo ‘Il guardiano del frutteto’ finisce in Mondadori per una eventuale pubblicazione: viene subito bocciato da Vittorini che lo giudica “troppo letterario”. Vittorini muore poco dopo, nel 1966, e la pratica passa a Oreste Del Buono, che conferma le osservazioni del predecessore – anch’egli sente l’eco di Faulkner e la grande tradizione del Sud degli States – e però lo considera un “mostro, un fuoriclasse” e propone di pubblicarlo. Il comitato di redazione, tuttavia, si oppone e finisce lì.

ORESTE DEL BUONO

McCarthy in Italia ha perso così trent’anni di notorietà: molto ha fatto per lui Baricco, come divulgatore e influencer ante litteram. E poi è arrivato il cinema, con i film tratti da Non è un paese per vecchi e La strada. 

Anche in patria impiegò tempo per farsi amare: gli americani lo giudicavano vecchiotto rispetto a colleghi tipo Roth... Aveva la Bibbia come fonte: come è stato possibile che una letteratura così archetipica diventasse di massa?

McCarthy fu accolto con molti dubbi negli Usa: c’è così poco in lui di newyorchese, di minimalista, di glamour... Tuttavia, quando uscì Meridiano di sangue (1985), fu talmente evidente la grandezza dell’autore che si creò un’alleanza tra docenti, critici e letterati per aiutarlo e spingerlo, trattandolo come un classico. È uno di quegli scrittori la cui attualità consiste nell’essere deliberatamente inattuale grazie alla capacità di attingere ad archetipi letterari e di coscienza collettiva come i testi sacri, l’Antico testamento più che il Vangelo. In esergo al Meridiano appunta: “Un rituale ha bisogno di sangue”. Il sangue, la violenza e il sacrificio sono in stretta relazione con l’atto religioso. 

Un conservatore con il fucile e Dio: McCarthy è il Clint Eastwood della letteratura?

Lo definirei reazionario, mentre Eastwood è un vero conservatore con un’immagine edulcorata, oleografica, anche un po’ infantile del west e delle radici. La rappresentazione di McCarthy, viceversa, è talmente aggressiva e violenta che non è conciliante nei confronti del passato americano, al di là di ogni intenzione politica. Una volta dichiarò di non aver mai votato in vita sua, sostenendo addirittura che “i poeti non dovrebbero votare”; gli artisti cioè fanno già politica con il proprio lavoro, non hanno bisogno di schierarsi.

……………………

 È morto Cormac McCarthy, lo scrittore di Non è un paese per vecchi. Aveva 89 anni. Il Domani il 13 giugno 2023

Autore anche del bestseller La strada che gli è valso il Pulitzer. A lungo è stato considerato fra i possibili vincitori del Nobel per la Letteratura. La notizia della morte è stata data dal suo editore

È morto lo scrittore americano Cormac McCarthy, autore di bestseller come La strada e Non è un paese per vecchi, diventati poi film di successo. Aveva 89 anni e a lungo è stato considerato fra i possibili vincitori del Nobel per la Letteratura. La notizia della morte è stata data dal suo editore, che ha citato come fonte il figlio, come riporta il New York Times.

Ha scritto di un’America fatta di outsider, con uno stile che ben ricalcava la sua visione del mondo. Ha costruito romanzi che sono diventati iconici e ha vinto il premio Pulitzer nel 2007. Da poco era uscito Il passeggero (pubblicato da Einaudi per la traduzione di Maurizia Balmelli). A settembre è già prevista l’uscita di Stella Maris.

Era conosciuto per il carattere schivo, ha concesso pochissime interviste e non amava frequentare il mainstream letterario. Ma è stato amato dai lettori che lo hanno consacrato nell’olimpio degli scrittori americani contemporanei più noti.

Figlio di un noto avvocato del Rhode Island, il suo primo romanzo è stato Il guardiano del frutteto, a cui seguirono Il buio fuori e Figlio di Dio. Fra i suoi libri più conosciuti c’è Non è un paese per vecchi (2005), anche grazie alla trasposizione cinematografica dei fratelli Coen. Del 2007 è La strada, che gli farà conquistare il Pulitzer per la narrativa.

Morto Cormac McCarthy, lo scrittore di «Non è un paese per vecchi»: aveva 89 anni. Antonio Carioti su Il Corriere della Sera il 13 Giugno 2023 

Aveva vinto il premio Pulitzer per il romanzo post apocalittico «La strada». Autore cupo e crudo fino a generare orrore, raccontava l’America profonda e i suoi personaggi lacerati 

È morto a 89 anni lo scrittore e sceneggiatore statunitense Cormac McCarthy, autore di romanzi di grande successo e vincitore del premio Pulitzer per il romanzo post-apocalittico «The Road», «La strada», nel 2006 da cui fu tratto l’omonimo film. La sua morte è stata annunciata in una dichiarazione dal suo editore, Penguin Random House. 

Cupo, crudo fino a generare orrore, a volte decisamente apocalittico. Ma capace anche di descrizioni paesaggistiche liriche, vivide come non mai.

Nello scrittore americano Cormac MacCarthy la prosa aspra e spesso angosciante si accompagnava a una straordinaria ricchezza di riferimenti culturali, che spaziava dai più illustri romanzieri della sua terra (Mark Twain, Herman Melville, William Faulkner) ai grandi classici e alle Sacre Scritture.

Uomo schivo, dalla vita randagia e densa di traversie, completamente estraneo all’ambiente letterario delle metropoli, refrattario alle interviste (alla televisione ne aveva concessa una sola, realizzata con Oprah Winfrey nel 2007), si era conquistato passo per passo un enorme prestigio, tanto che un critico esigente come Harold Bloom aveva consacrato il suo «Meridiano di sangue» (1985; Einaudi, 1996) come il western «definitivo», il più «possente e memorabile» romanzo scritto da un americano vivente, da collocare accanto a Moby Dick.

Nei libri di McCarthy la narrazione, benché tutt’altro che piana, ha spesso un andamento drammaturgico, tanto da renderli piuttosto adatti alla trasposizione cinematografica. Opere da lui firmate, come «Non è un paese per vecchi» e «La strada», sono più note al grande pubblico internazionale per gli adattamenti sul grande schermo che per la versione letteraria originale. Ma la schiera dei lettori affascinati dai suoi libri è vasta e fedele: per esempio in Italia gli è stato dedicato un sito apposito, ricco di informazioni interessanti.

Nato a Providence, nello Stato americano del Rhode Island, il 20 luglio 1933, McCarthy, che all’anagrafe si chiamava Charles, era cresciuto a Knoxville, in quello Stato rurale del Tennessee dove è ambientato il suo primo romanzo «Il guardiano del frutteto» (1965, Einaudi, 2002). Ma quando lo aveva pubblicato l’autore aveva già alle spalle l’esordio letterario su un giornale per studenti, quattro anni nell’Aeronautica militare, un doppio abbandono degli studi universitari e un matrimonio fallito, oltre che la nascita del primo figlio.

A metà degli anni Sessanta McCarthy aveva viaggiato in Europa e si era risposato. Intanto il ritmo di uscita dei suoi romanzi si era fatto regolare: nel 1968 aveva pubblicato «Il buio fuori», nel 1973 «Figlio di Dio». Sempre vicende scabrose, personaggi lacerati, sperduti in quell’America profonda di cui era diventato l’interprete più efficace con il suo periodare dotato di una «gravità biblica», la punteggiatura ridotta all’osso, i lunghi dialoghi con frasi secche senza mai l’ombra di virgolette.

McCarthy era tornato nel Tennessee, dove aveva condotto una vita appartata, in un casolare da lui stesso ristrutturato. Nonostante le difficoltà vissute in quella fase della sua esistenza, sosteneva di essere stato sempre molto fortunato. Ma anche il suo secondo matrimonio non aveva retto e lui si era poi trasferito in Texas, a El Paso, nel 1976. Nel 1979 era uscito «Suttree» (Einaudi, 2009), costato vent’anni d’impegno e considerato da diversi critici il capolavoro di McCarthy: la storia ambientata negli anni Cinquanta del XX secolo, parzialmente autobiografica, di un personaggio che ha spezzato tutti i legami famigliari e mondani per vivere alla giornata da pescatore in una baracca galleggiante sul fiume Tennessee, in una zona gravemente degradata di Knoxville, circondato da un’umanità di reietti destinati alla rovina. Altri studiosi di letteratura preferiscono invece «Meridiano di sangue», pubblicato da McCarthy nel 1985. Romanzo terribile, costellato di violenza atroce, che si svolge ai confini tra Stati Uniti e Messico a metà del XIX secolo. Qui un ragazzo sbandato si unisce a un’accolita di efferati cacciatori di scalpi indiani (realmente esistita: la banda Glanton), la cui figura più carismatica, di fatto il vero protagonista della vicenda, è il giudice Holden, titanico, crudele e geniale, quasi un essere mitologico indecifrabile. Con questo libro l’interesse di McCarthy si era spostato dal Sud al selvaggio West, perché «oltre alla Coca-Cola, l’altra cosa conosciuta in tutto il mondo sono i cowboy e gli indiani». Aveva pubblicato così sette anni dopo «Cavalli selvaggi» (Guida, 1993; Einaudi, 1996), vincitore del National Book Award e molto apprezzato dal pubblico, il suo primo bestseller, a cui erano seguiti altri due romanzi, «Oltre il confine» e «Città della pianura», a comporre una potente Trilogia della frontiera.

Anche «Non è un paese per vecchi» (2005; Einaudi, 2006), concepito all’inizio come una sceneggiatura per il cinema, si svolge tra Texas e Messico, ma nel 1980, al crocevia del narcotraffico: è un thriller che trasmette una tensione divorante, dominato da una brutalità assoluta, per quanto sempre descritta in tono asciutto. In ballo ci sono quasi due milioni e mezzo di dollari, trovati per caso in una valigetta da un cacciatore. Si confrontano l’assassino psicopatico Anton Chigurh e il malinconico anziano sceriffo Ed Tom Bell. Dal romanzo era poi stato tratto un film, diretto dai fratelli Coen, con Tommy Lee Jones, Javier Bardem e Woody Harrelson, premiato con ben quattro Oscar nel 2008. Nel frattempo McCarthy aveva pubblicato «La strada», vincitore del Pulitzer nel 2007 e trasposto nel 2009 in un film omonimo, diretto da John Hillcoat, con Viggo Mortensen e l’allora undicenne Kodi Smit-McPhee. Siamo in uno scenario post-apocalittico, dovuto a una catastrofe globale di cui non conosciamo la natura, nel quale la vita umana è ridotta a una disperata lotta per la sopravvivenza. Qui si aggirano un padre e un figlio undicenne nella desolazione più orribile, ma legati ancora da un affetto tenace, dal quale possono scaturire barlumi di speranza. Un romanzo che nasce anche dal rapporto tra l’autore e il bambino avuto in età matura dalla terza moglie: «Molti dei dialoghi del libro — aveva riferito McCarthy — sono conversazioni, trascritte parola per parola, tra me e mio figlio John». A quel punto era cominciato il lungo lavoro per il romanzo «The Passenger» e per l’ultimissimo «Stella Maris»: due romanzi intrecciati che sono stati pubblicati a poche settimane l’uno dall’altro nel 2022.

Uomo dalla personalità sfaccettata e per alcuni versi contraddittoria, soprattutto negli ultimi anni McCarthy aveva trovato la sua realizzazione nel lavoro e negli affetti famigliari. «La mia giornata perfetta consiste nello starmene seduto in una stanza con un po’ di fogli bianchi. Questo è il paradiso», aveva confessato. Al tempo stesso ammetteva che «il lavoro creativo spesso è stimolato dal dolore». Ma pur avendo descritto a fondo nelle sue opere lo squallore, la miseria, la violenza e la disperazione, ad Oprah Winfrey McCarthy aveva consegnato un messaggio ottimista: «La vita è bella anche quando sembra brutta. E dovremmo apprezzarla di più. Dovremmo essere riconoscenti. Non so a chi, ma dobbiamo essere riconoscenti per ciò che abbiamo».

Estratto dell'articolo di Riccardo De Palo per “Il Messaggero” il 14 giugno 2023.

[….]  Cormac McCarthy, il grande e sfuggente scrittore del Sud Ovest americano, l'autore de La Strada e di Non è un paese per vecchi - diventato un magistrale film dei fratelli Coen - è venuto a mancare. Aveva 89 anni. McCarthy, come nota il New York Times, amava raccontare il lato oscuro dell'esistenza, e i suoi libri erano spesso infarciti di violenza, tra cannibalismo, stupri, necrofilia. «Non esiste vita senza spargimento di sangue», aveva detto una volta, in una delle sue rarissime interviste. «Credo che l'idea che la specie possa essere migliorata, in qualche modo, e che tutti possano vivere in armonia, sia molto sopravvalutata».

Scrittore "invisibile" per eccellenza, alla pari di Thomas Pynchon e J.D. Salinger, era amato anche da un critico dai gusti difficili come Harold Bloom, che lo aveva inserito nei "Fantastici Quattro" della letteratura americana, con Don DeLillo, Philip Roth e lo stesso Pynchon. I suoi personaggi erano spesso degli outsider, come lui stesso. Tuttavia, il riconoscimento unanime che ha ottenuto non era certo tipico di uno scrittore di nicchia. Cavalli selvaggi (1992), gli valse il national Book Award; con La strada (2006) arrivò direttamente al Pultizer. […]

Nato nel 1933, McCarthy viveva in una zona remota del Nuovo Messico, a Tusuque, con la moglie Jennifer Winkley e il figlio John. Un posto davvero in mezzo al nulla, non lontano da Santa Fe, con una riserva di nativi, iscritto nel registro dei luoghi storici degli Stati Uniti. Un luogo degno, appunto, dei fratelli Coen. 

Da poche settimane era stato pubblicato in italiano (da Einaudi) Il passeggero, un romanzo che racconta la storia di un sub sulle tracce di un disastro aereo, e del mistero di un decimo passeggero scomparso. Un romanzo che aveva ricordato a qualcuno un capolavoro antico come Meridiano di sangue (1985), definito dal solito Bloom «il più grande libro singolo dai tempi di Montre morivo di Faulkner».

McCarthy piaceva ai critici, che elogiavano il suo modo di elevare la lingua inglese, saccheggiando Shakespeare, Melville, Conrad e persino la Bibbia, anche se qualcuno lamentava l'eccesso di violenza. 

Lo scrittore di Santa Fe si era affacciato alla scrittura nel 1965, ben 58 anni fa, con Il guardiano del frutteto. E talvolta, il suo humour era strabordante, come quando - in Suttree - un personaggio, forse attratto dalle rotondità, desta scandalo congiungendosi carnalmente con un intero campo di cocomeri.

Il McCarthy della maturità arriva però dopo, con la Trilogia della frontiera, (in Italia fu presentato da Baricco) che include Cavalli selvaggi. Stella Maris è l'ultimissimo libro ancora inedito da noi: è la storia di una matematica di vent'anni, ricoverata in una struttura psichiatrica, che non vuole assolutamente sentir parlare di suo fratello. «La paziente aveva in borsa un sacchetto di plastica pieno di banconote da cento dollari per un totale di circa quarantamila che ha tentato di consegnare alla receptionist». […]

La forza del West. Cormac McCarthy ha raccontato l’America febbricitante come nessun altro. Gianluca Herold su L'Inkiesta il 15 Giugno 2023

I libri dello scrittore texano parlano della frontiera e degli uomini che la abitano con una prosa che ha l’asciuttezza ruvida di Hemingway e il ritmo ipnotico di Faulkner

L’America non esiste. È un costrutto ipotetico, una mera semplificazione geografica. Si tratta di un continente troppo vasto e contraddittorio per potergli applicare un’etichetta con un nome. Se la chiamiamo America è solo per pigrizia o difetto di immaginazione. Per questo abbiamo bisogno che ce la racconti la grande letteratura, per questo ci mancherà Cormac McCarthy, morto l’altro ieri a ottantanove anni. Perché era uno dei più bravi a farlo.

Leggendo i suoi romanzi la sensazione era quella di conoscerne una parte. Non tutta, una parte. E nemmeno quella più rassicurante. La sua è l’America profonda, in senso geografico ma soprattutto esistenziale. Un’America oscura, brutale, insondabile. Quella di un quattordicenne che se ne va di casa perché «cova dentro un gusto per la violenza insensata», e inizia a vagare verso Sud tra paesaggi torridi e desolati finché non viene arruolato come cacciatore di scalpi. Questa è l’America di “Meridiano di sangue”, «il western che mette la parola fine a tutti i western», secondo David Foster Wallace; «il più grande romanzo mai scritto dai tempi di Faulkner», a detta del grande critico Harold Bloom.

Nato il 20 luglio 1933 a Providence, Rhode Island, McCarthy la sua America se la va a cercare come uno di quei mercenari malconci di cui scrive, uomini che scommettono sulla frontiera con un lancio di moneta: redenzione o dannazione. È lui stesso a dire: «Sono finito nel Sudovest perché sapevo che nessuno ne aveva mai scritto. Oltre alla Coca Cola, l’altra cosa conosciuta in tutto il mondo sono i cowboy e gli indiani. Ma nessuno prendeva l’argomento sul serio, da due secoli a questa parte. Ho pensato: ecco un buon soggetto».

In quegli anni vive ritirato in una baracca sperduta da qualche parte nel Tennessee, come un eremita letterario. In un certo senso, quindi, neanche McCarthy esiste. O meglio: Cormac McCarthy sembra un personaggio di Cormac McCarthy, e viceversa. Poco più di una leggenda. Indossa jeans con le pieghe e stivali da cowboy marroni con le fossette. Non tiene lezioni, non fa presentazioni o firmacopie. Quando i giornalisti gli offrono duemila dollari per un’intervista, lui rifiuta perché ha altre cose da fare. Eppure al tempo non ha nemmeno i soldi per comprarsi il dentifricio. Ha sempre saputo di non voler lavorare e che la vita è troppo breve per passarla a fare quello che gli altri ti dicono di fare. Tutto quello che gli occorre sono cibo, scarpe e un posticino tranquillo dove scrivere. «La mia giornata perfetta consiste nello starmene seduto in una stanza con un po’ di fogli bianchi. Questo è il paradiso. È oro puro e tutto il resto è solo una perdita di tempo», dirà anni dopo in una delle rarissime interviste concesse. E non gli interessano neppure le storie brevi: «Qualunque cosa che non ti occupi anni interi della vita e non ti spinga al suicidio mi sembra che sia qualcosa che non vale la pena».

La scommessa paga. Dopo “Meridiano di Sangue”, McCarthy porta avanti il suo personale ritratto dell’America cupa e selvaggia nella Trilogia della frontiera, il cui primo capitolo, “Cavalli selvaggi”, si aggiudica il prestigioso National Book Award nel 1992 e diventa un best-seller. Il suo stile è subito riconoscibile per via di una prosa muscolare, quasi sprovvista di punteggiatura. Non usa il punto e virgola, ma non usa nemmeno le virgolette nei dialoghi. «Credo nelle lettere maiuscole, nelle virgole occasionali, e questo è tutto», dice in un’altra delle poche interviste.

Attraverso una prosa che unisce l’asciuttezza ruvida di Hemingway al ritmo ipnotico di Faulkner, sembra dare al western una vividità e una forza evocativa fin lì propria solo del cinema. Parliamo di descrizioni come questa: «In lontananza fra i nuvoloni neri balenavano lampi silenziosi che sembravano saldature incandescenti tra fumi di metallo fuso. Pareva che riparassero un guasto nell’oscurità metallica del mondo».

Nonostante la fama crescente, McCarthy continua a mantenere uno stile di vita da fuggiasco e a raccontare l’America della frontiera. Nei primi Duemila butta giù la sceneggiatura di “Non è un paese per vecchi”, ma nessuno sembra essere interessato alla storia di un texano che va a caccia al confine col Messico ed entra casualmente in possesso di una valigetta contenente oltre due milioni di dollari, attirando sulle proprie tracce un killer sadico provvisto di una pistola ad aria compressa per il bestiame come strumento di morte.

In un mondo in cui il mainstream hollywoodiano cavalca ancora l’onda lunga e stanca dell’american dream e i film devono essere innanzitutto rassicuranti, è difficile convincere qualcuno a produrre una storia il cui vero protagonista è il Caso. E quella dipinta in “Non è un paese per vecchi” è un’America fatta di violenza, avidità, stupidità, ma soprattutto dominata da una casualità cieca e senza nome: è questo il vero volto del Male. Lui se ne frega, lo pubblica quasi tale e quale nel 2005 sotto forma di romanzo. Un paio di anni dopo i fratelli Coen decidono di adattarlo e la notte degli Oscar il film accumula sul loro tavolo un premio dopo l’altro come fossero lattine di birra. Quando arriva quello per la miglior sceneggiatura, Ethan Coen si gira verso Cormac e gli dice: «Beh, io non ho fatto niente, però me lo tengo».

Ma è una notte, più di altre, a entrare nell’aneddotica di McCarthy. È il 2003, sono le due o le tre del mattino. Lo scrittore si trova in una stanza di un vecchio albergo di El Paso e guarda fuori dalla finestra mentre il figlio dorme. La città è immobile, in lontananza si sente solo il suono solitario dei treni che arrivano e ripartono. Improvvisamente nella sua testa si forma l’immagine del mondo fra cinquanta o cento anni. Fuochi sulle colline e una distruzione assoluta. Ogni cosa ricoperta di cenere. Così inizia a pensare a suo figlio, che allora ha quattro anni, e si mette a scrivere qualche pagina. Tutto sembra finire lì. Poi qualche anno dopo riprende in mano quei fogli e si accorge che non sono semplicemente appunti: sono un libro.

Questo libro, “La strada”, parla di quell’uomo e quel bambino che si fanno largo in un’America post-apocalittica in cui l’oscurità è «cieca e impenetrabile. Un’oscurità che faceva male alle orecchie a forza di ascoltare». Le strade sono «affollate di profughi imbacuccati dalla testa ai piedi. Protetti da maschere e occhialoni, seduti fra gli stracci sul bordo della strada come aviatori in rovina. Carriole piene di cianfrusaglie. Carri e carretti al seguito. Gli occhi spiritati in mezzo al cranio. Gusci di uomini senza fede che avanzavano barcollanti sul selciato come nomadi in una terra febbricitante. La rivelazione finale della fragilità di ogni cosa. Vecchie e spinose questioni si erano risolte in tenebre e nulla. L’ultimo esemplare di una data cosa si porta con sé la categoria».

Si potrebbero dire tantissime cose su “La strada”. Che vince il Premio Pulitzer nel 2007. Che costruisce un nuovo immaginario, quello di “The last of us” e molti altri. Che se il suo autore ne ha conservate duecentocinquanta copie autografate come garanzia per il futuro economico del figlio, un motivo c’è. Ma la cosa più urgente e importante da dire è: leggetelo. Conosco persone che l’hanno iniziato una sera e sono andati dritti fino alla mattina successiva senza quasi sbattere le palpebre. Perché adesso che Cormac McCarthy è morto, e sulla tomba anche il suo nome ormai è solo un’etichetta, un costrutto ipotetico, una mera semplificazione anagrafica, c’è un pezzo dell’America – passata, presente e futura – che sta scritta solo là dentro, in tutti i suoi libri.

Marco Giusti per Dagospia il 14 giugno 2023.

Magari non ve ne siete resi conto. Ma gran parte dell’immaginario violento, zombesco, desolante, sempre giocato sul senso del viaggio, della frontiera, con in vista un futuro di poche speranze che circola nelle serie tv e al cinema viene più o meno direttamente dalla penna di un genio come Cormac McCarthy. Appena scomparso. Ahimé per lui, un attimo dopo Berlusconi.

Basterebbero due romanzi capolavoro come “Non è un paese per vecchi” e “The Road”, usciti all’inizio del 2000 e portati sullo schermo il primo dai Coen con Javier Bardem come il terribile killer Anton Chigurn e il secondo da John Hillcoat con Viggo Mortensen, per farci capire le strade aperte da McCarthy nell’immaginario americano di questi ultimi vent’anni. In maniera più originale di Tarantino che, in fondo, opera su un immaginario pre-esistente, quello formato dalle commistioni del cinema di genere anni ’60 e ’70 internazionale.

Pensate a “Kill Bill” che mischia kungu fu, revenge movie spaghetti western, animazione giapponese o sub-Corman. McCarthy è più originale. 

Il suo romanzo più celebre e più violento, “Blood Meridian – Maridiano di sangue”, scritto nel 1985, non solo ha ispirato decine e decine di film e filmacci western o post-western di questi ultimi tempi, penso a “Bone Tomahawk" di S. Craig Zahler, ma anche a tante serie tv western di pochi mesi fa (“The English”), ma è stato l’oggetto imprendibile di tanti registi, come Ridley Scott. Che alla fine accettò l’offerta dello stesso McCarthy, portare sullo schermo un copione del tutto originale, pensato per il cinema, “The Counsellor”, che Scott girò con un cast da paura, Michael Fassbender, Penelope Cruz, Javier Bardem, Brad Pitt, Bruno Ganz, Cameron Diaz.

Ma non era “Blood Meridian”, una follia tutta americana che punta alle matrici della violenza del paese. Un po’ come “The Hateful Eight”. Tutti a dire che non si poteva fare. “Tutte stronzate”, disse McCarthy a riguardo. “Il fatto che sia una storia cupa e sanguinosa non ha nulla a che fare con il fatto che si possa o meno metterla sullo schermo. Non è questo il problema. Il problema è che sarebbe molto difficile da fare e richiederebbe un regista dotato di una ricca immaginazione e un sacco di palle. Ma la ricompensa potrebbe essere straordinaria”.

E’ notizia di solo due mesi fa che “Blood Meridian”, alla fine si farà. Lo girerà l’australiano John Hillcoat, lo stesso regista di “The Road” con McCarthy padre e figli come produttori esecutivi. Aspettiamo di capire. Perché in questi ultimi vent’anni, in realtà, ha funzionato più l’atmosfera alla McCarthy, pensiamo solo a serie come “The Walking Dead” o “The Last of Us” che a precise ricostruzioni dei suoi romanzi.

Billy Bob Thornton girò nel 2000 “Passione ribelle”, dotta ricostruzione del suo romanzo “All the Pretty Horses” del 1992, con Matt Damon, Penelope Cruz e Henry Thomas protagonisti, ma si vide massacrare il film dal Harvey Weinstein. Tre ore di director’s cut diventarono 1h 56 di montaggio del produttore. Lo stesso McCarthy, anche sceneggiatore del film, accusò Weinstein. Inutilmente. 

Più interessante il film che Tommy Lee Jones, amico di vecchia data di Mc Carthy, girò nel 2011 da un suo testo, “The Sunset Limited”, dove due personaggi diversi, interpretati dallo stesso Tommy Lee Jones e Samuel L. Jackson si confrontano in una stanza. Mai arrivato da noi. Da recuperare.

James Franco girò poco dopo “Child of God”, tratto dalla terza novella di McCarthy, con Scott Haze e Tim Blake Nelson. Ma non venne accolto benissimo, anzi venne proprio odiato a Venezia, come del resto tutti i film di James Franco. Ma era un'operazione coraggiosa. 

Diversi i casi di “Non è un paese per vecchi” dei fratelli Coen, riconosciuti da tutti come una messa in scena fedele e perfetta del romanzo di McCarthy, che sembra già una sceneggiatura, a dire il vero, e del più sofferto “The Road”, che ebbe una prima visione a Venezia in piena Mccarthymania. 

Ma, ripeto, alla fine troviamo più i suoi temi e le sue atmosfere di frontiera, di avventura, di solitudini nelle tante serie tv che abbiamo visto in pandemia che nei film tratti dalle sue opere. Aspettando che arrivi la versione “ufficiale” di “Blood Meridian”, il film che nessuno sarebbe mai riuscito a fare.

(Adnkronos il 12 giugno 2023.) - E' morto stamani a Roma l'attore Francesco NUTI. Aveva 68 anni ed era malato da tempo. Lo ha reso noto la figlia Ginevra assieme ai familiari che ringraziano di cuore il personale sanitario e tutti coloro che hanno avuto in cura l'attore nel lungo periodo della malattia, in particolare il personale di Villa Verde di Roma. La data e il luogo delle esequie saranno rese note nelle prossime ore. La famiglia, con un comunicato, chiede che sia rispettato il momento di grande dolore e per questo motivo non intendono rilasciare dichiarazioni.

Da cinquantamila.it - la storia raccontata da Giorgio Dell'Arti

Francesco Nuti, nato a Firenze il 17 maggio 1955. Attore. Regista. Due David di Donatello come miglior protagonista: Io, Chiara e lo Scuro (Maurizio Ponzi 1983, anche Nastro d’argento), Casablanca, Casablanca (Ponzi 1985). 

• Figlio di un barbiere di Narnali, frazione di Prato, e di una casalinga calabrese: «Mio padre disse: vai in fabbrica. Durante la settimana in fabbrica e il sabato al negozio da mio padre, la sera il cabaret. Nel 1979 incontrai i Giancattivi (Alessandro Benvenuti e Athina Cenci – ndr)».

• Messosi in proprio, divenne «uno dei più popolari autori di quelle che il critico Stefano Reggiani aveva definito “melancommedie”» (Simonetta Robiony). 

• «Una vita difficile dopo i successi degli anni Ottanta e Novanta, da Caruso Paskoski a Donne con le gonne (25 miliardi d’incasso nel 1992), quando quel ragazzo toscano, che aveva iniziato l’avventura con i Giancattivi per poi correre da solo, collezionava David di Donatello. A 47 anni ha confessato all’agenzia Adnkronos: “Se entro il 15 febbraio 2003 non riuscirò a fare uno dei film che ho scritto, volerò via. Sì, mi suiciderò perché è troppo duro ricevere solo rifiuti dai produttori, che con me si sono arricchiti, e non realizzare film”. Tutto cominciò quando confessò la condizione d’alcolista, fors’anche per troppo successo piombato su un estroso giovanotto cresciuto in una famiglia semplice, tra le fabbriche che riciclavano montagne di stracci, in quella sua Prato dove diceva di voler sempre tornare “per ritrovarsi“. Da allora, la strada è stata piena di trabocchetti: fece lo sciopero della fame perché per Il signor Quindicipalle lo avevano licenziato giudicandolo “inaffidabile” e, prima, aveva combattuto per concludere OcchioPinocchio» (Giovanna Grassi). 

• Nel settembre 2006 finì in coma per un trauma cranico. «Stava bene, aveva ormai superato i problemi di alcol e depressione. Era tornato a Roma per firmare il contratto per il suo nuovo film come regista: Olga e i fratellastri Billi», disse la ex compagna Anna Maria Malipiero. Uscì dal coma due mesi più tardi e cominciò una lunga riabilitazione. È uscito dall’ospedale nel giugno 2008 «felice di essere tornato a vivere» ma «ha ancora molto da lavorare per recuperare appieno l’uso della parola».

• Nel 2011 è uscita la sua biografia per Rizzoli, curata dal fratello Giovanni, Sono un bravo ragazzo – Andata, caduta e ritorno.

• Nel settembre del 2013 rilasciò un’intervista via mail al Corriere della Sera, in cui disse di aver scritto una canzone con il fratello Giovanni, Olga tu mi fai morir (che mandarono a Sanremo ma senza successo), e di aver pronte due sceneggiature: «Sono vissuto per almeno 10 anni con la febbre a quaranta, ora la febbre è passata. Ai giovani dico: “Non bevetevi il cervello”. (…) Ho 57 anni, un po’ acciaccato e non parlo, ma capisco e vedo tutto, posso dire tutto con il mio comunicatore» (Marco Bernardini). 

• «Quante volte mi sono innamorato delle mie attrici? Tre convivenze. Clarissa Burt. Isabella Ferrari. E Anna Maria Malipiero» (dalla quale ha avuto la figlia Ginevra).

Morto Francesco Nuti, ecco chi è la donna che non lo ha mai abbandonato. Libero Quotidiano il 12 giugno 2023

Francesco Nuti, l'attore scomparso oggi a 68 anni, ha avuto una sola donna importante nella sua vita privata. Il suo nome è Annamaria Malipiero, anche lei attrice. I due furono sposati dal 1992 al 2000 e dalla loro relazione nacque la figlia Ginevra. Anche dopo la separazione, però, la Malipiero ha continuato a essere presente nella vita di Nuti, sia nel periodo prima dell’incidente del 2006 sia in quello successivo. 

“L’ho conosciuto grazie a mia madre: mi ero appena trasferita a Roma e avevo appena fatto il primo film. Lei era stata invitata a casa di Francesco Nuti. Alla fine sono andata, ho passato una serata piacevolissima - aveva raccontato Annamaria durante un’intervista a Vieni da Me -. Lui è stato molto gentile, è stato corretto. Ginevra? L’abbiamo cercata molto, non è arrivata subito: è stato un lavoro faticoso”.

“Prima di uscire, ha chiesto a mia madre se poteva corteggiarmi: da lì… Devo dire che è stato un corteggiamento abbastanza lungo, lui ha 17 anni più di me, anche se io sono stata più matura di quelle della mia età e lui è sempre stato un giocherellone”, raccontò ancora l’attrice. Che poi parlò anche della depressione di Nuti prima dell’incidente del 2006: “Francesco ha passato un lungo periodo ‘blu’, come lo chiamava lui. Io ci sono sempre stata. Già quando lo avevo conosciuto aveva affrontato dei periodi difficili. La depressione non derivava dalla separazione, è per il periodo nero che i suoi film non sono andati bene: non riusciva ad avere idee, non stava bene. Ma il suo non stare bene risaliva ad anni prima”. 

"Sorride, mi guarda, spero non capisca". Francesco Nuti, dramma infinito: la testimonianza straziante di Giovanni 

Francesco Nuti, morto l’attore toscano, aveva 68 anni. Maurizio Porro su Il Corriere della Sera il 12 Giugno 2023

Lo rende noto la figlia Ginevra assieme ai familiari che ringraziano il personale sanitario e tutti coloro che hanno avuto in cura l’attore nel lungo periodo della malattia 

L’attore toscano Francesco Nuti è morto questa mattina a Roma. Aveva 68 anni ed era malato da molti anni. Ad annunciare la sua scomparsa con una nota è stata la figlia Ginevra insieme ai famigliari che hanno ringraziato chi avuto in cura l’attore nel lungo periodo della malattia

Francesco Nuti ci ha lasciato a 68 anni dopo quasi due decenni di sofferenze e solitudine. Era disabile dal 4 settembre 2006 , quando si procurò in un incidente domestico un ematoma cranico: sofferente già di depressione, l’attore rimase in coma alcuni mesi, curato dalla madre e dal fratello Giovanni, musicista. Ogni tanto gli amici colleghi toscani di sempre, da Conti a Pieraccioni, da Panariello a Benvenuti, s’industriavano per fargli sentire la loro presenza, fu organizzata anche una diretta tv con l’effetto imbarazzante di mostrare in pubblico un uomo devastato e che aveva avuto anche una pubblica lite con il badante. Poi, nel 2016, di nuovo una caduta nella sua casa di Narnali, frazione di Prato, la corsa in ospedale, il trasferimento a Firenze.

L’avevano definito, centrando il bersaglio, «malincomico», Francesco Nuti. Era un commediante ma con una sua vena di tristezza autentica che proveniva in modo sotterraneo dall’ambiente proletario toscano, lui nato a Firenze il 17 maggio 1955. Sapeva far sorridere in modo originale ed era uno dei pochi commedianti in cui il copione riservava sempre anche una conquista femminile: prima De Sio e poi Muti sono state le partner più fedeli in un gioco che non coinvolgeva solo la fiction. Era diventato popolare nei bar col biliardo impersonando un campione della stecca in «Io, Chiara e lo Scuro» nell’83: sapeva fare l’«ottavina reale a nove sponde», mossa da re.

Francesco Nuti aveva una vis comica discreta e stralunata basata sull’osservazione deformata del reale, una faccia da bravo ragazzo di borgata (nato in famiglia operaia a Prato, tradizione familiare comunista alla Benigni) e, come tutta la sua generazione, aveva scalato il successo partendo dal cabaret, nelle cantine e poi in tv, approdando al cinema con lo stesso stile. Studente e attore dilettante, era stato visto e preso dai Giancattivi, trio tutto toscano piuttosto velenoso: Nuti, Benvenuti e Athina Cenci, amici che poi presero strade separate. Insieme erano una forza e negli anni 70 imposero una satira ruvida e sferzante anche in tv con «No stop» e «La sberla» dove debuttarono Troisi e Verdone.

Nell’81 il Trio, con regìa di Benvenuti, firma l’opera prima, «Ad Ovest di Paperino» che racconta una giornata a Firenze in amaro stil novo, il repertorio del gruppo. L’anno dopo Nuti è scritturato da Ponzi, che diventerà il suo regista di fiducia, per un altro ritratto lunare e malinconico di un giovane a Prato, nella società operaia: «Madonna che silenzio c’è stasera». Funziona il mix dell’umorismo dell’attore giovane introverso e un po’ surreale con l’intellettualismo di un regista ex critico che otterrà il grande successo nel film sul biliardo con cui Nuti vince il Nastro d’argento e si impone al pubblico. E dove c’è una vena di realismo rosa autentico nella descrizione delle tipologie popolari, con Marcello Lotti, vero campione di biliardo.

Nell’85 il seguito di questa storia di spacconi, in cui Giuliana De Sio è la partner, «Casablanca Casablanca», fa già acqua nella struttura narrativa e nella scrittura, segnando il debutto di Nuti regista che non sorregge il discorso originale di Nuti attore. Sarà l’inizio di un sogno di gloria (va perfino a cantare a Sanremo) ma poi anche il motivo del tracollo quando, dopo una stagione di successi popolari, di gossip sui giornali, di ospitate in tv, dirige lo sfortunato kolossal su Pinocchio. Intanto era passato un decennio, gli anni 80, in cui egli diventò uno dei protagonisti, anche negli incassi miliardari, della nuova commedia all’italiana sganciata dalla satira sociale e incanalata nel sentimentalismo, tenendo presente la sua aria da seduttore, playboy di provincia con acclusa tristezza generazionale. Nuti era amato dai giovani, scherza anche pesante, allontana la primitiva malinconia con storie assurde, passa dai perdenti simpatici ai vincitori un po’ sbruffoni. E va sui rotocalchi per le conquiste, fino al matrimonio e alla paternità degli ultimi anni quando già il dramma dell’alcool l’aveva segnato e costretto a interrompere la fortunata carriera.

Lascia Ponzi dopo «Son contento», nel 1983, storia tristemente profetica di un comico che non riesce più a far ridere, porta la sua privacy sul palcoscenico, ma paga con gli interessi della solitudine. Si mette in proprio, è autore sceneggiatore e attore. E sforna best seller anche natalizi tra l’85 e il 95, quasi un titolo l’anno, perdendo poco alla volta la sua genuina vena originaria pseudo poetica e di buon cuore, volendosi troppo bene. In «Tutta colpa del paradiso» (con la Muti, la Betti e il caratterista toscano Novelli che sarà spesso suo complice) fa, come in un melò, il papà ex galeotto che rinuncia al figlioletto per non turbare la serenità della nuova famiglia, lassù in montagna; in «Stregati», ’86, ancora con la Muti, è un taxista che rapisce una sposa il giorno delle nozze, conquistandola poi con una filosofia da strapazzo e un narcisismo sempre più pericoloso. «Caruso Pascoski» (stavolta la bellona è Clarissa Burt) lo rende psicanalista ma abbandonato dalla moglie per un paziente ritenuto gay: crescono le ambizioni ma insieme anche le volgarità. In «Willy Signori vengo da lontano» con Isabella Ferrari, è un cronista di nera che provoca la morte di un uomo ma poi si prende cura della sua ragazza incinta. In «Donne con le gonne» un dentista maschilista processato per violenze alla moglie Carole Bouquet in una storia violentemente misogina (e socialmente profetica).

Il sogno si spezza quando Nuti mette in cantiere l’ambizioso «Occhiopinocchio» con Cecchi Gori che, dopo molte traversie, liti e tagli, esce senza successo nel Natale del 94 segnando l’inizio della fine. Spende, girando in Usa quasi 18 miliardi per una storia lacrimosa e assurda, poco o niente collodiana, in cui Nuti è il figlio orfano che dall’ospizio scappa in una reggia dorata americana. Dopo 4 anni si tenta il recupero, ma già l’attore è schiavo del bere, nasconde la fiaschetta sul set: Sabrina Ferilli, con generosità, lo affianca nel «Signor quindicipalle» per riportare in vita il personaggio del campione di biliardo in una commedia ad equivoci con la prostituta buona. Il resto è quasi silenzio, ma la sua volontà di ricominciare con filmetti sempre più modesti («Io amo Andrea», «Caruso zero in condotta», «Concorso di colpa») non acchiappa più un pubblico che si è già diretto verso altri eroi, altre risate, altre seduzioni. Il colpo da quindici palle non gli riesce più, ma fa tristezza pensare alle tante occasioni perse di un genuino talento che ha consumato la sua fortuna in anni di reclusione amara, dolorosa, faticosa...

Estratto dell’articolo di Carmen Plotino per roma.corriere.it il 13 giugno 2023.

Nuti, il ricordo di Carlo Verdone: «Caro Francesco affettuoso e pieno di talento»

«Caro Francesco, compagno di lavoro generoso, affettuoso e pieno di talento sarai sempre nei miei migliori ricordi. Un forte abbraccio alla tua famiglia a tuo fratello Giovanni e ai tuoi geniali "Giancattivi' Athina Cenci e Alessandro Benvenuti. Gran dolore, tanta nostalgia». Carlo Verdone ricorda con queste parole piene d'affetto e di stima Francesco Nuti, morto oggi a Roma, e accompagna il messaggio postando un toccante scatto con l'attore fiorentino. 

Nuti era ricoverato in una casa di cura a Roma, Villa Verde, dopo una rovinosa caduta dalla quale l'attore non si era più ripreso. Negli ultimi giorni le sue condizioni erano peggiorate tanto da rendersi necessario un trasferimento al policlinico Gemelli dove è morto, lunedì 12 giugno. Il mondo dello spettacolo ha reso omaggio all'artista scomparso a 68 anni.

Estratto dell’articolo di Arianna Finos per repubblica.it il 13 giugno 2023. 

“Ho sempre pensato che quando Francesco Nuti sarebbe morto avrebbe finito di soffrire, ma non avevo pensato che avrei iniziato io. Ora tocca a me”. Giovanni Veronesi ha fatto un lungo pezzo di strada e cinema con l’amico scomparso: “Lui aveva le spalle più grosse delle mie, per dieci anni ho scritto con lui rischiando poco, protetto dal suo immenso talento. Mi ha fatto entrare dalla porta principale nella vita e nel cinema. Abbiamo scritto tanti successi e malgrado fosse protagonista assoluto, mi ringraziava, diceva che era fondamentale. Era generoso e divideva sempre il suo successo con tutti”.

Cosa lo rendeva speciale?

“Aveva dei tempi di reazione unici. Benigni è un attore d’azione, fa cose che fanno ridere, Francesco di reazione, per far ridere gli deve capitare qualcosa accanto. Benigni, Troisi, Nuti e Verdone sono comici nati nello stesso periodo, non hanno fatto un film insieme ma i loro film uscivano negli stessi anni ed era tanta roba, una pacchia per gli spettatori. Erano quattro moschettieri, che poi si sono divisi per varie vicissitudini, Troisi è morto, Nuti ha avuto grandi problemi. Ma che regalo ci hanno fatto negli anni Ottanta e Novanta. E tra loro Francesco era quello che aveva il sorriso da guascone, da impunito che piaceva tanto a uomini e donne”.

I suoi film che ha amato?

“Quelli che ho scritto con lui. Più di tutti Tutta colpa del paradiso, con Cerami, in cui toccava il tema dell’adozione e dell’affido in tempi in cui non si faceva. E Donne con le gonne, uno dei primi film in cui si parlava di scambi di coppia, di uomini in crisi che non capivano l’emancipazione. Sotto la maschera della commedia toccava problemi e temi importanti, penso all’omosessualità in Caruso Pascoski. Nei film di Francesco c’è un retrogusto molto sociale e questo non gli è mai stato riconosciuto, come succede ai comici”. 

Perché andò in crisi?

“Non era legata alla paura del successo, al non saper gestire alcune cose. Era curioso, ha messo il naso dove non doveva, scavato nelle sue paure senza avere sostegno di un terapeuta. Per cercare gli stimoli e le motivazioni di un film ha scavato troppo a fondo e ha trovato quel lato oscuro che non va stuzzicato. Questo gli ha creato depressione e dipendenza dall’alcol”. 

Il ricordo personale più bello?

“Quando decidemmo di prendere una casa insieme e fare da mangiare. Nessuno dei due sapeva cucinare, lui preparò spaghetti scotti col pomodoro crudo, mi guardò e disse col suo sorriso guascone: 'Alle volte tra amici è meglio non dirsi la verità'”. 

E quello professionale?

“Il primo da regista, sequel di Io, Chiara e lo Scuro di Maurizio Ponzi che lo vedeva come protagonista. Casablanca, Casablanca vinse il David di Donatello per l’opera prima. Francesco disse che quello sarebbe stato un momento indimenticabile e malgrado i successi più grandi che sono arrivati dopo, lo è rimasto. Quel film segnò l’inizio di una carriera folgorante, durata pochi anni”.

(...)

Estratto dell’articolo di Laura Zangarini per corriere.it il 13 giugno 2023.

«Sto immaginando la mia vita professionale come un presepe con tante luci che si stanno spegnendo una dopo l’altra. Finché si tratta di “grandi vecchi” — Monicelli, Lizzani, Wertmüller — il vuoto è terribile ma “fisiologico”. 

Quando tocca a qualcuno con cui sei cresciuto insieme, un coetaneo, il dolore è insopportabile», racconta sconsolata Giuliana De Sio, 67 anni, attrice che di Francesco Nuti è stata «amica, collega e per un breve tempo compagna». L’incontro nel 1983 sul set di «Io, Chiara e lo Scuro», film diretto da Maurizio Ponzi, per il quale lei e Francesco furono entrambi premiati con il David di Donatello e il Nastro d’Argento come migliore attrice e migliore attore protagonista. Due anni dopo girano insieme il sequel, «Casablanca Casablanca», con Nuti anche in veste di regista.

«Francesco è parte della mia storia — prosegue l’attrice —, gli sono stata vicina nella sua prima prova da regista partecipando a paure, preoccupazioni, incertezze. L’ho visto singhiozzare quando è morto suo padre, emozionarsi per la partecipazione al Festival di Sanremo — sembrava avesse vinto il Nobel! —, ho apprezzato i suoi quadri: Francesco dipingeva benissimo». Le sere fuori a cena, le zingarate, le cantate con la chitarra. 

«Sembra ieri», sospira De Sio, sottolineando «che il declino di Francesco è cominciato prima della caduta del 2006, quando qualcosa si è rotto nel suo equilibrio. La sua è una parabola misteriosa, incomprensibile di uno che aveva tutto e ha deciso di perdere tutto. Nessuno sa spiegare perché, all’apice del successo, Francesco abbia cominciato a cadere. La sua è stata un’autodistruzione». Oggi restano i ricordi: «Sono andata a trovarlo quando stava male, un’ultima volta qualche anno fa a Prato, in una situazione sconfortante. Non sono più voluta tornare. Francesco se ne era già andato tanto tempo fa».

Nuti, Troisi e la donna contesa. Quando Clarissa Burt lasciò l'attore toscano e scelse Massimo: «L'ho invidiato tanto». Natascia Festa su Il Corriere della Sera il 13 Giugno 2023 

Nuti, scomparso ieri a 68 anni, raccontò la vicenda nella sua autobiografia. La rivalità al botteghino e l'amore conteso: «Provai rabbia, orgoglio e gelosia» 

Non ha mai nascosto le sue fragilità Francesco Nuti. Amori compresi. L’attore scomparso ieri a 68 anni le aveva confessate, insieme con i successi, nell’autobiografia scritta con il fratello Giovanni, «Sono un bravo ragazzo. Andata caduta e ritorno» (Rizzoli). Il sottotitolo di uno dei capitoli centrali potrebbe essere «Credevo fosse amore invece era Clarissa». Clarissa come Clarissa Burt, la bella americana contesa tra Nuti e Massimo Troisi, che lasciò l’uno per l’altro con uno strappo raccontato come in una scena di un film dallo stesso regista toscano. L’incontro nel 1986 con la bellissima top model avviene a Roma. «Francesco è stato una delle prime persone che ho conosciuto in Italia» racconterà lei. Lui si innamora subito tanto da convincere i produttori di «Caruso Pascoski (di padre polacco)» a sceglierla come protagonista. Nuti si fa dunque pigmalione della fidanzata con la quale ormai convive ai Parioli. Amore, cinema e risate. Tutto sembra procedere al meglio quando la coppia, ricercatissima, viene invitata a una festa capitolina da sorrentiniana “grande bellezza”. «Sapete quelle feste – scrive Nuti - dove non si fa niente: ci si guarda, si chiacchiera, si beve, a volte si rimorchia. Furoreggiava il Craxismo… io ero comunista (mah, comunista si fa per dire). Quella sera passò il tempo e tutto finì nel solito triangolo delle bevute romane. Ma successe qualcosa».

La teoria dell’angolo

Quel qualcosa è in realtà qualcuno. «Le coppie – racconta - solitamente si mettevano al centro e quella sera ero io al centro con Clarissa. All’angolo c’era Massimo Troisi. Capii subito che Massimo era a caccia». Prima aveva spiegato: «Quando non ero fidanzato e andavo alle feste – diciamo a caccia – per corteggiare qualcuna mi mettevo sempre in un angolo della casa. Stare in un angolo mi permetteva infatti di avere una visuale migliore…». Finita la festa si crea però un triangolo: «Non so perché e non so come, ma tornammo a casa insieme, con la stessa auto… Non so perché e non so come, ma so di certo che dopo un mese Clarissa fece baracca e burattini e lasciò il mio attico ai Parioli. Mi lasciò e si fidanzò con Massimo Troisi, andando ad abitare nella sua villetta a cento metri da casa mia. Qui cominciò tutto: dolore, rabbia, orgoglio, gelosia e soprattutto invidia».     

L’appostamento

Nelle pagine autobiografiche, Nuti si mette a nudo e confessa anche di aver fatto un appostamento alla sua ex. «…lei abitava un po’ in casa propria e un po’ a casa di Massimo. Con la macchina mi piazzai in una posizione strategica». Armato di vodka e sigarette, aveva solo un obiettivo masochistico, capire dove andasse a dormire quella notte la donna che gli aveva spezzato il cuore. Ma fu tutto inutile. Si fece mattina, lui uscì dall’auto mentre una frotta di ragazzi entrava a scuola e gli toccò firmare una ventina di autografi perché, all’apice del successo, gli studenti lo avevano riconosciuto.

Il film uscì nel 1988 e fu un successo con quindici miliardi di lire al botteghino. Fu però un dolore vedersi sullo schermo con Clarissa e nella realtà senza. Il successo «non me lo sono goduto – raccontava – stavo ancora male, non riuscivo a vedere quel film. Non so se era dolore, rabbia, rancore orgoglio … era invidia». Poetica la definizione che ne dà: «Mi pare il quarto vizio capitale. Bando alle ciance, ebbene sì, l'invidia, una volta e per lungo tempo mi ha graffiato l'anima con unghie da felino adulto». Invidiava Troisi già «per la sua sincera arte di comico di razza, ma questo era veramente troppo». Così Nuti lascia tutto e se ne va a Los Angeles. Da lì confessa di aver addirittura goduto dello scarso successo che ebbe al botteghino il film del suo rivale, «Che ora è» di Scola-Troisi. 

Amore e calcio

I due attori si rincontrano sul campo di calcio. «Tornai in Italia e incontrai Massimo – annota - durante gli allenamenti della Nazionale italiana. Giocavamo a centrocampo, eravamo due mezze ali. Di sicuro ero il migliore di tutti, perché avevo un passato calcistico. Massimo non correva tanto, anche per la sua cardiopatia, però vi posso assicurare che aveva piedi buoni». Negli spogliatoi il gelo. «…ci salutammo a malapena, e andò avanti così per molti anni».

Natale 1991

Durante le feste di Natale del 1991 escono «Donne con le gonne» di Nuti e «Pensavo fosse amore e invece era un calesse» di Troisi. La sfida amorosa si trasforma in sfida di incassi. Nuti narra la sua rivincita: «Feci quasi 25 miliardi, Massimo 15». 

Intanto la storia d’amore tra Troisi e Burt era finita. La stessa attrice racconterà al Corriere i dettagli. Dal corteggiamento che fu così: «Nel 1988, a cena da amici, era inverno, io mi lamentavo per il riscaldamento ma avevo in casa un camino. Massimo il giorno dopo mi mandò un furgoncino pieno di legna con un bigliettino: per tenerti al caldo». Alla fine per infedeltà dell’attore napoletano: «Ci lasciammo perché quando si sta insieme si sta in due e non in duecento. Ci lasciammo per questo».  

Nel '94 Nuti finisce «con la lingua in terra» il suo Pinocchio, Massimo muore. Il toscano restituisce così il suo conflitto interiore: «Ero molto indeciso se andare. Poi, con un amico, vado… lì c’è tutto il cinema italiano. Lì c’è tutta la stampa. Lì ci sono tutte le televisioni. Lì mi sembra ci sia tutto il mondo. Arrivo trafelato. Secondo me non mi vede nessuno. Arrivo al letto dove riposa Massimo. Mi piego. Gli do un bacio sulla fronte. Gli sussurro: t'ho invidiato tanto». 

Francesco Nuti, ecco cosa ha nascosto nei suoi film: perché ora tutto torna. Giorgio Carbone su Libero Quotidiano il 14 giugno 2023

L’attore e regista Francesco Nuti, uno dei personaggi di maggior successo nel cinema italiano degli anni '80 e '90 (ricordiamo “Casablanca Casablanca”, “Io Chiara e lo Scuro”, “Willy Signori e vengo da lontano”) è deceduto ieri a Roma all’età di 68 anni. Da molto tempo era gravemente malato. Una caduta rovinosa in casa gli aveva procurato un trauma che l’aveva quasi completamente privato delle capacità motorie e dell’uso della parola. La figlia Ginevra gli è stata accanto fino all’ultimo. 

L’ultima volta che ci eravamo sentiti la parola ce l’aveva ancora. E la voglia di scherzare e di lavorare. Doveva essere il 2004 (due anni prima che cominciasse il suo calvario). Era euforico perché dopo un lungo periodo di crisi era tornato al cinema. E in un ruolo drammatico: in “Concorso di colpa” era un ex contestatore degli Anni di Piombo che viveva sotto il tormento di un delitto commesso allora. Vedeva la cosa come un bel ritorno e con me fu simpatico. Per la prima volta. Anni prima, all’epoca del maggior successo, lo era stato meno. Ma in quel periodo si sentiva molto autore unico (regista oltreché attore), da toscano incazzoso non gradiva molto i critici che arrivavano in ritardo alle anteprime. Allora, era senz’altro tra i primi dieci in Italia. I suoi film erano destinati ai giorni di Natale, quelli degli incassi garantiti. Al top Nuti era pervenuto agli inizi degli Anni '80, nell’ondata degli anni del cabaret rivelati dalla tv in trasmissioni come “No Stop” e “Black Out”.

Nuti è uno dei Giancattivi, un terzetto di comici toscanissimi, gli altri sono Athina Cenci e Alessandro Benvenuti (tanto bravi e tanto sfigati).  Francesco sembra dei tre il timido e introverso, una specie di Pinocchio in cerca della Fata Turchina. Ma già dal film d’esordio “Ad Ovest di Paperino” dimostra che lui la sua fatina non è disposto ad aspettarla (e difatti la troverà presto negli anni seguenti e avranno i volti di Ornella Muti, di Giuliana De Sio, di Clarissa Burt).  Un anno dopo “Ad Ovest” Nuti trova il regista giusto in Maurizio Ponzi, un intellettuale che dopo pomposi esordi ha imboccato decisamente la strada del cinema popolare. Dopo un film di rodaggio (“Madonna che silenzio che c’è stasera”) azzarda Nuti come protagonista in un film destinato al Natale, “Io Chiara e lo Scuro”, dove il personaggio è già rifinito: un giovanotto toscano introverso e apparentemente perdente, che però si rivela vincente su tutta la linea: si porta a casa la bella (la De Sio) e batte a biliardo il campione dei campioni, lo Scuro. Dopo, la strada per qualche anno è tutta in discesa . “Casablanca casablanca”, “Tutta colpa del paradiso”, “Stregati”, “Caruso Paskoski di padre polacco” sono tutti hit al botteghino. Finché nel 1995 il primo flop “Occhio pinocchio”.

Un flop capita. Tanti della sua generazione di cabaret (Verdone, Troisi, Abatantuono) hanno toppato e poi sono passati al discorso successivo. Ma Nuti prende malissimo la primissima sconfitta. Dà la colpa al produttore Cecchi Gori, annuncia vari progetti e poi rinuncia. E intanto l’alcool comincia a essere il suo frequente compagno di strada. Col nuovo secolo il suo nome scomparirà dalle cronache cinematografiche per apparire in quelle di mesta vita metropolitana. Pure in quel 2004 sembrava convinto di poter risalire la china. E siccome fu sempre un bravo attore riuscì a convincere anche me.

Addio a Francesco Nuti, comico incantatore degli anni ’80. Simona Santoni su Panorama il 12 Giugno 2023

Tra commedie romantiche e sottili critiche sociali, con leggerezza acuta sbancò più volte al botteghino, da Tutta colpa del paradiso a Donne con le gonne. Fino al declino creativo e fisico

Toscanaccio, inequivocabilmente, affascinante e con quel piglio spiritoso e disincantato, ma anche capace di pungere. Nel giorno della scomparsa di Silvio Berlusconi, muore anche l’attore e regista Francesco Nuti, all’età di 68 anni. Il suo talento fulgente, però, ci aveva già lasciato già da un po’. Era il 2006 quando un incidente domestico gli segnò la vita, lasciandolo prima in coma per diversi mesi e quindi vincolandolo alla disabilità, fuori dai riflettori, con problemi di salute. È stata la figlia Ginevra, avuta dall'attrice Anna Maria Malipiero, a comunicarne il decesso. Ma brillano ancora i ricordi della sua beffarda verve comica, che ha incantato gli anni ’80. I suoi esordi furono da cabaret, in trio con Alessandro Benvenuti e Athina Cenci, con cui debuttò anche al cinema nel film Ad ovest di Paperino (1981), per proseguire poi presto da solista. Bella faccia da cinema, con la sua irresistibile fossetta sul mento, ancor prima che regista sfondò da attore: Io, Chiara e lo Scuro (1983) di Maurizio Ponzi lo vede protagonista, alle prese con le sue abilità da giocatore di biliardo, di cui era appassionato e a cui poi dedicò due suoi film (Casablanca, Casablanca del 1985 e Il signor Quindicipalle del 1998). Ed è alle prese, soprattutto, con una delle tante avvenenti donne di cui si è circondato, Giuliana De Sio. Fu subito successo: Francesco Nuti vinse David di Donatello e Nastro d'Argento come miglior attore protagonista.

Son contento, sempre alla regia di Ponzi, è il suo ultimo film da solo attore prima del salto verso la regia (accanto ha Barbara De Rossi). Dietro e davanti la macchina da presa e alla sceneggiatura Francesco Nuti dà il meglio di sé, con acume, in vorticoso crescendo. Dopo Casablanca, Casablanca (1985), calibrando le sue doti e prendendo consapevolezza della sue capacità, ecco che il brillante pratese classe 1955 cala una serie di assi: la sua ironia gradevole si sposa a un’intelligenza acuta, tra commedie romantiche e sottili critiche alla superficialità della società. Eccolo nei panni di un ex galeotto in Tutta colpa del paradiso (1985), accanto ad Ornella Muti e al suo attore feticcio Novello Novelli. C’è ancora la bellissima Ornella ad affiancarlo in Stregati (e anche Novelli, certo). In Caruso Pascoski (di padre polacco) (1988) ha come spalla la fidanzata Clarissa Burt, mollata poi per Isabella Ferrari che dirige in Willy Signori e vengo da lontano (1989). Era il 1991 e Donne con le gonne, sua sesta regia, batté ogni record di incassi incassando quasi 25 miliardi di lire. Ma quando ha voluto alzar la mira, con il suo film più ambizioso, è sopraggiunto il declino: nel 1994 OcchioPinocchio, produzione caratterizzata da ritardi e problemi di budget, fu un fiasco colossale, di critica e incassi: a fronte di più di 25 miliardi di lire di costi, ne racimolò appena 4. È l’inizio della discesa, sul pubblico Nuti non fa più presa. Nel 1998 si affida allora a un’esuberante Sabrina Ferilli per Il signor Quindicipalle ma non basta. E anche Io amo Andrea (1999) e Caruso, zero in condotta (2001) sono disfatte, mentre depressione e problemi di alcolismo sono il triste preambolo all’incidente domestico che gli troncò una carriera di tanti fiori e un inesorabile sfiorire. Tra le sue frasi: «La creatività è l'arma segreta per affrontare le difficoltà della vita».

Campione di incassi negli anni '80, poi l'incidente e le cadute. Addio all’attore Francesco Nuti, la morte nella casa di cura dopo una lunga malattia: “E’ il mio papà, è giusto che mi occupi di lui”. Redazione su Il Riformista il 12 Giugno 2023 

Addio all’attore Francesco Nuti. Aveva 68 anni ed era malato da tempo. L’artista è morto questa mattina nella casa di cura dove si trovava da tempo a Roma. A renderlo noto è la figlia Ginevra assieme ai familiari che ringraziano di cuore il personale sanitario e tutti coloro che hanno avuto in cura l’attore nel lungo periodo della malattia, in particolare il personale di Villa Verde di Roma. La data e il luogo delle esequie saranno rese note nelle prossime ore.

La stessa famiglia – comunica l’agenzia di comunicazione Galli Torrini – chiede che sia rispettato il momento di grande dolore e per questo motivo non rilasceranno dichiarazioni.

Nel luglio del 2017 la figlia Ginevra Nuti diventa maggiorenne e si offre di fargli da tutrice legale, affermando in un’intervista al Corriere della Sera, dopo l’ennesimo incidente domestico e il ricovero prima in gravi condizioni in ospedale, poi in una clinica specializzata per la riabilitazione: “Francesco è e sarà sempre il mio papà anche se non può più parlare, muovere le mani e camminare ed è giusto che mi occupi di lui”.

Nato a Firenze il 17 maggio del 1955, papà originario del Mugello, madre di Crotone, Nuti ha mosso i primi passi nel mondo dello spettacolo quando era ancora studente, portando in scena diversi monologhi scritti di suo pugno e proseguendo con una certa assiduità anche dopo essere stato assunto come operaio presso un’impresa tessile di Prato.

A fine anni Settanta divenne membro del trio cabarettistico dei Giancattivi – gruppo già composto da Alessandro Benvenuti e Athina Cenci – in sostituzione di Antonio Catalano. In quegli anni, i Giancattivi partecipano a trasmissioni di grande successo, come la radiofonica Black Out e la televisiva Non stop. Il trio, dietro la regia dello stesso Benvenuti, compie poi il suo esordio cinematografico nel 1981, con il film Ad ovest di Paperino, che ripropone parte del repertorio storico del gruppo.

Nel 1982, abbandona il trio, che di lì a tre anni si scioglierà definitivamente, ed inizia una carriera cinematografica “solista“, prendendo parte, in veste di sceneggiatore ed interprete protagonista, ad alcuni film diretti da Maurizio Ponzi: Madonna che silenzio c’è stasera (1982), Io, Chiara e lo Scuro (1983) e Son contento (1983), che gli conferiscono una certa notorietà, in particolar modo il ruolo di Francesco Piccioli, presente nella seconda delle tre pellicole, con cui si aggiudica il David di Donatello ed il Nastro d’argento come migliore attore protagonista.

Nel 1985 il debutto da regista con Casablanca, Casablanca, séguito di Io, Chiara e lo Scuro, grazie al quale vince il premio come miglior regista esordiente al Festival internazionale del cinema di San Sebastián ed il secondo David di Donatello come miglior attore. Realizza, tra la seconda metà degli anni ottanta e l’inizio degli anni novanta, altre pellicole di grande successo: Tutta colpa del paradiso (1985), Stregati (1986), Caruso Pascoski (di padre polacco) (1988), Willy Signori e vengo da lontano (1989) e Donne con le gonne (1991).

Nello stesso periodo si dedica anche alla musica. Nel 1988 partecipa al Festival di Sanremo con la canzone Sarà per te, in seguito incisa anche da Mina, e, duettando con Mietta, col brano Lasciamoci respirare, composto dal cantautore Biagio Antonacci ed inciso poi nel 1992.

Nel 1994, dopo una lunga e travagliata produzione, realizza l’ambizioso OcchioPinocchio, che però non incontra i favori del pubblico e della critica, rivelandosi un cocente flop. Pertanto, tenta di riprendere il filone che decretò il suo grande successo, ma non riesce a ripeterne i fasti: Il signor Quindicipalle (1998), Io amo Andrea (2000) e Caruso, zero in condotta (2001) ottengono tiepidi consensi ai botteghini, non paragonabili ai successi degli anni precedenti.

La depressione e il tentativo di suicidio

Negli anni successivi comincia a soffrire di depressione, ha gravi problemi di alcolismo e tenta persino il suicidio. Nel 2005 è protagonista del film Concorso di colpa, poliziesco diretto da Claudio Fragasso, in cui veste i panni dell’ispettore Francesco De Bernardi, impegnato in un intricato delitto legato al caso Moro. È il suo ultimo film. Il 12 maggio 2006 è protagonista di un’intervista a Radio 24 da parte di Giuseppe Cruciani, che viene interrotta anticipatamente a causa del suo stato di forte alterazione.

L’incidente e il coma 

Alla vigilia del suo ritorno sui set, il 3 settembre 2006, entra in coma a causa di un ematoma cranico dovuto ad un incidente domestico, venendo ricoverato ed operato d’urgenza alla testa presso il Policlinico Umberto I di Roma. Pare che sia violentemente precipitato dalle scale della propria abitazione. Il successivo 24 novembre esce dal coma e viene trasferito nell’ospedale Versilia di Lido di Camaiore, centro specializzato nella riabilitazione neuromotoria. Nel maggio del 2007 alcune notizie di stampa affermano un miglioramento e la possibilità che torni a camminare. Ai primi di giugno del 2008 l’ex-compagna Annamaria Malipiero, da cui ha avuto la figlia Ginevra nel 1999, comunica che l’attore è uscito dall’ospedale e continua la riabilitazione. Nel febbraio del 2009 il fratello Giovanni rilascia un’intervista al quotidiano fiorentino La Nazione, annunciando il suo ritorno a casa e, nel maggio dello stesso anno, durante la presentazione del saggio di Matteo Norcini Francesco Nuti. La vera storia di un grande talento, dichiara che con Francesco ha iniziato a scrivere una raccolta di versi, intitolata Poesie raccolte. Nel giugno del 2009 la Cineteca Nazionale gli dedica una retrospettiva alla Sala Trevi di Roma.

Un documentario a lui dedicato dal titolo Francesco Nuti… e vengo da lontano viene presentato al Festival Internazionale del Film di Roma 2010. Il comunicato che annuncia il documentario contiene anche aggiornamenti sul suo stato di salute: costretto su una sedia a rotelle e muto dal giorno dell’incidente. Nell’occasione il fratello ha affermato di sentire «un sentimento nuovo e forte: il compito di ridare voce a mio fratello, compito impossibile per il medico». Il 18 novembre 2010, l’attore e regista riappare in pubblico al cinema Eden di Prato in occasione della presentazione del CD Le note di Cecco, realizzato dal fratello Giovanni e Marco Baracchino. Il seguente 29 novembre torna ad apparire in TV, dopo quattro anni di assenza, ospite della trasmissione di Rai 2 I fatti vostri, dove appaiono evidenti i danni neurologici conseguenti all’incidente, tra cui l’incapacità di parlare e di muoversi: in una lettera scritta dal fratello Giovanni, che idealmente dà voce a Francesco, afferma la sua tenacia nel continuare a vivere. Il 16 gennaio 2011 compare nella trasmissione di prima serata di Canale 5 Stasera che sera!, condotta da Barbara D’Urso. Quest’intervento ha suscitato notevoli critiche e ha in parte contribuito alla chiusura della trasmissione che, secondo i critici, non avrebbe esitato a spettacolarizzare la sofferenza dell’artista.

Il 29 settembre 2011 esce presso la casa editrice Rizzoli la biografia Sono un bravo ragazzo – Andata, caduta e ritorno, a cura del fratello Giovanni Nuti. Il 17 maggio 2012, in occasione del 57º compleanno dell’attore e regista toscano, debutta lo spettacolo Sono un bravo ragazzo, diretto da Milo Vallone ed interpretato da Francesco Epifani. La pièce, incentrata sulla vita dell’attore e regista toscano, è tratta dall’omonima biografia scritta dallo stesso Nuti e curata dal fratello Giovanni. Nel 2013 viene presentato tramite il web il videoclip musicale Olga tu mi fai morir, canzone scritta da suo fratello Giovanni ed ispirata a lui, cantata da Niki La Rosa e proposta, ma scartata, per il 63º Festival di Sanremo. L’11 maggio 2014 prende parte ad una festa organizzata per il suo 59º compleanno dagli amici di sempre, Leonardo Pieraccioni, Carlo Conti, Giorgio Panariello e Marco Masini al Mandela Forum di Firenze, alla quale partecipano circa 7.000 persone.

Il 5 agosto 2014 va in scena lo spettacolo teatrale/musicale Francesco Nuti – Andata, caduta e ritorno per la regia del romano Valerio Groppa. Lo spettacolo, tratto dalla sua biografia, è interpretato dall’attore e cantautore pratese Nicola Pecci, accompagnato da una band di cinque elementi, diretta dal chitarrista livornese Marco Baracchino. Il 21 settembre 2016 viene ricoverato in gravissime condizioni presso il CTO di Firenze a seguito di una ennesima caduta. In seguito all’incidente, viene ospitato in una clinica romana specializzata. Il 7 dicembre 2019 ha ricevuto il Premio Internazionale Vincenzo Crocitti 2019 “Alla carriera”, ritirato dalla figlia Ginevra in occasione della serata evento, che risulta così essere il primo riconoscimento alla carriera assegnatogli nella sua storia cinematografica e artistica.

Marco Giusti per Dagospia il 12 giugno 2023.

In questa assurda giornata iniziata con la morte di Silvio Berlusconi e proseguita con speciali di tutte le reti che non lasceranno spazio a altro, ci arriva la notizia della morte di Francesco Nuti mentre sono andato a trovare Massimo Ceccherini. Sfortuna nella sfortuna. Diventare un morto da prima pagina e scomparire come terza notizia della giornata. “Ogni volta che c’è un film di Nuti in televisione io comunque io lo guardo”, mi dice Cecche. “Anche in alcuni film suoi orrendi lo riesci a guardare perché lui è più forte del film che ha fatto”. Mi dice Cecche che doveva fare un film in coppia col Nuti, “I fratelli Billy”, quando scivolò solo in casa e si fece davvero male

Nuti fu un protagonista fondamentale del cinema italiani degli anni ’80. Vinse anche ben due David di Donatello per “Io, Chiara e lo Scuro”, quando era ancora diretto da Maurizio Ponzi, e per “Casablanca, Casablanca”, primo film diretto da lui. Dopo l’incontro con i Giancattivi, cioè con Athina Cenci e Alessandro Benvenuti, che lo diresse anche nel loro film di esordio, “Ad ovest di Paperino” del 1981, Nuti si staccò dal gruppo e iniziò a fare cinema da solo molto aiutato da Maurizio Ponzi, sofisticato critico militante ai tempi di “Cinema e Film”, rivista legata ai Cahiers du Cinéma, Fu Ponzi a impostarlo, prendendo le distanze da una vaga somiglianza con Benigni, e a dirigerlo nel suo vero primo film da protagonista, “Madonna che silenzio c’è stasera”, che venne presentato al Festival di Venezia per volere di Gianluigi Rondi.

Ricordo che vidi il film lì, a Venezia, con pochi critici in sala del tutto indifferenti, e capii che Nuti aveva un talento vero più adatto al cinema popolare che al cinema da festival. Il vero successo gli arrivò con “Io, Chiara e lo Scuro”, ancora diretto da Ponzi con Giuliana De Sio e un vero campione di biliardo, Marcello Lotti, al quale seguì “Son contento”, per il quale venne candidato come miglior attore ai David nel 1984. Con “Casablanca, Casablanca” diventò regista dei suoi film, che furono quasi tutti grandi successi di cassetta.

Non si capisce bene perché si lasciò con Ponzi, ma certo ebbe ancora più successo nei film che si diresse da solo, aiutato da sceneggiatori come Vincenzo Cerami, Ugo Chiti e un giovane Giovanni Veronesi, che si forma sui suoi set. I suoi tanti fan, tutti ragazzi che son cresciuti con lui, adorano e sanno quasi a memoria film come “Caruso Paskoski di padre polacco”, “Stregati”, “Willy Signori e vengo da lontano”, “Tutta colpa del Paradiso”, “Stregati”, che gli costruirono una carriera di serie A in produzione dei Cecchi Gori, assieme a partner del calibro di Ornella Muti, Francesca Neri, Giuliana De Sio, Isabella Ferrari, Clarissa Burt, che ne fecero una star a livello di Verdone, Troisi e Benigni.  “OcchioPinocchio” fu il suo vero disastro.

Troppo costoso, pensato per fare un grande film internazionale girato in Texas, allungato per gli scontri continui con Chiara Caselli, venne interrotto dai Cecchi Gori a metà lavorazione, ripreso con molti meno soldi, e non incassò quanto si pensava. Si disse che Nuti era andato fuori di testa, che non era più attendibile, che beveva. Abbandonato dai Cecchi Gori, diresse altri film, ma non ritrovò la vena di commedia leggera e sentimentale che il pubblico aveva amato. Diresse ancora “Il signor Quindici Palle”, “Io amo Andrea”, “Caruso, zero in condotta”, tutti film di lavorazione difficile.

Ricordo una conferenza stampa terribile dove si presentò completamente ubriaco e disse che non aveva paura dei giornalisti, ma solo del vino. Il suo fu un tragitto in discesa che ne fece uscire tutta la fragilità. Ma vogliamo ricordarlo con affetto. Lui i suoi film, le sue storie d'amore, i suoi caratteristi, come Novello Novelli. Con lo stesso affetto che aveva dato al suo pubblico nei suoi film più riusciti. 

Da lanazione.it il 15 Giugno 2023.

Addio Francesco Nuti. L’attore e il regista pratese che con i suoi film ha fatto ridere e piangere l’Italia viene salutato da parenti e amici nei funerali in forma privata a San Miniato al Monte a Firenze. La chiesa sopra la città accoglie diversi amici e volti noti. Grande il dolore e la commozione.

La cerimonia finisce. Fuori dalla chiesa Leonardo Pieraccioni ricorda l’amico: “Era un grande e meraviglioso talento. Andai a trovarlo un anno fa ma era in quella fase in cui si preparava a quello che poi è successo. Francesco rimarrà nei suoi film. Ci ha regalato tanta allegria. Auguriamoci che passino sempre i suoi film e che anche i giovanissimi scoprano il suo talento”.

L’abate cita la canzone di Francesco Nuti “Sarà per te”. “Sarà sarà sarà per te... la frase segnala attenzione verso l altro e verso l’oltre. Una ricerca essenziale nella vita di Francesco”.

Padre Bernardo Gianni rivela dall’altare: “Quando ero studente al Cigognini di Prato fui spettatore delle riprese di un suo film, ‘Madonna che silenzio c’è stasera’. E’ un bel ricordo di gioventù”. 

“Una delle celebri battute di Francesco è quella sull'andare in Perù, vincere al totocalcio e sullo spostare la Chiesa. Oggi mi piace pensare che con il suono delle campane con cui abbiamo iniziato la cerimonia la chiesa si sia spostata e abbia avvicinato Francesco verso nostro signore, verso l'assoluto, verso quel futuro espresso in ogni sua opera e in ogni sua canzone. Nuti ha reso leggera e dolce la nostra esistenza attraverso i suoi turbamenti".

Dagospia il 14 giugno 2023. Da Radio 2 – I Lunatici

Vittorio Cecchi Gori è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in onda dal lunedì al venerdì notte dalla mezzanotte alle quattro, anche su Rai 2 tra l'1.20 e le 2.30. 

Cecchi Gori ha ricordato Francesco Nuti: "Con Francesco avevo un bellissimo rapporto e bei ricordi. Sia personali che professionali. E' stato male poco dopo aver prodotto 'Occhiopinocchio', quel film che tante burrasche ci ha creato. Peccato, avrebbe potuto dare ancora molto. Io ho prodotto tanti suoi successi, tutti bei film. Nuti era amico di tutti. Di Verdone, di Troisi. Lui ha avuto una delusione sentimentale che forse ha creato le premesse di quello che è successo.

Rimase male da questa delusione sentimentale, iniziò a bere e il bere gli è stato fatale. Io gli volevo bene, lo volevo anche aiutare, ma non è facile se non trovi la forza da solo di correggerti. 'Occhiopinocchio' costava troppo e non finiva mai. Poi siamo riusciti a finirlo ma si vedeva che aveva qualche lacuna. Nuti era un grande attore, la sua dipartita fisica ci ricorda ancora di più quello che è stato. Non è stato sottovalutato, è uscito dai giochi troppo presto. Valeva come Benigni e Verdone. Era sensibile, divertente, un attore hollywoodiano. Il primo incontro con Nuti? Credo a Roma, andai a vederlo a teatro. L'ho conosciuto a Roma, non a Firenze".

Sul Silvio Berlusconi: "Abbiamo collaborato insieme trent'anni. Facemmo anche una società insieme: noi producevamo i film e lui prendeva la fruizione televisiva. Per me è stato il più grande imprenditore che abbiamo avuto. Per il cinema si affidava a noi, riusciva a capire quando uno era bravo, lo riconosceva e ci si affidava. Il nostro sodalizio fece la fortuna di tutti: le sue televisioni ebbero tanti film di qualità, noi avevamo la sicurezza della fruizione televisiva e anche quello ci ha potenziato e tutto andò a vantaggio del cinema italiano, che ha vissuto vent'anni meravigliosi. E' stato un miracolo che avrebbe dovuto durare di più. I rapporti miei con Berlusconi erano buonissimi. Poi purtroppo gli anni passano ed è arrivato internet... . Con Berlusconi non ho mai parlato di politica, lui per prima cosa era un grande imprenditore. Era un fuoriclasse in questo campo, me lo ricordo, era un incantatore".

Sui rapporti tra presidenti, quando Cecchi Gori era presidente della Fiorentina e Berlusconi presidente del Milan: "Quando prendemmo la Fiorentina Berlusconi ci incoraggiò, poi le cose sono un po' cambiate. Mi chiedeva sempre Rui Costa, ma non glie l'ho dato. Lo prese alla fine quando mi levarono di mano la Fiorentina. Mi ricordo una volta ero ad Arcore da lui e vennero a trovarlo Gullit, Riijkard e Van Basten che erano in scadenza di contratto. Lui mi diceva 'questi vengono a chiedermi un sacco di soldi'. Lui ci si mise a parlare, sentii anche le voci alzarsi, poi concluse un accordo. E io gli dissi che aveva fatto bene, tanto quei tre lì non li avrebbe più trovati. Aveva ad Arcore tutte le Coppe dei Campioni, le teneva nel seminterrato. Sul calcio alla fine gli ho dato fastidio, stavo per vincere il campionato nell'anno in cui lo vinse il Milan. Batistuta non me l'ha mai chiesto, lui voleva Rui Costa".

Addio a Paul Geoffrey, l'attore che interpretò Sir Perceval in Excalibur. Pur continuando a interpretare alcune piccole parti, Geoffrey lavorava da tempo come agente immobiliare. La morte dopo una dura battaglia contro il cancro. Federico Garau il 10 Giugno 2023 su Il Giornale.

Si è spento all'età di 68 anni l'attore britannico Paul Geoffrey, conosciuto dal pubblico per le sue interpretazioni nei film Excalibur (1981), Greystoke - La leggenda di Tarzan, signore delle scimmie (1983) e Cime tempestose (1992).

È stata la rivista settimale statunitense Variety a dare per prima la notizia. Sul giornale locale Santa Fe New Mexican è stato pubblicato un necrologio in cui è stato ricordato l'attore, deceduto lo scorso 3 giugno, dopo una dura battaglia contro il cancro.

La vita e la carriera

Nato nel Surrey (Regno Unito) il 12 febbraio 1955, Paul John Geoffrey viene ricordato per il ruolo di Perceval in Excalibur, un film fantasy medievale basato sulla leggenda di Re Artù e dei cavalieri della tavola rotonda. Un film che ebbe successo, e che nello stesso anno di uscita, 1981, vinse il miglior contributo artistico a Cannes e una nomination all'Oscar per la migliore fotografia.

Nel 1984 lo vediamo poi recitare in Greystoke - La leggenda di Tarzan, signore delle scimmie. Geoffrey interpretava la parte di Lord John 'Jack' Clayton. È poi la volta di Cime tempestose, trasposizione cinematografica del romanzo di Emily Bronte. L'attore ricopriva il ruolo di Mr. Lockwood.

Paul Geoffrey è poi comparso in altri film, come Gioco a due, Zina, Anna Karenina e Una scala per il Paradiso, ma sono le sopracitate pellicole ad averlo reso famoso. L'attore reciterà anche per alcuni telefilm, come The Jewel in the Crown, Robin Hood, Napoleone e Giuseppina, Ispettore Morse e Poirot.

Nel corso degli anni lasciò il Regno Unito per trasferirsi, a inzio anni '90, negli Stati Uniti d'America, per la precisione a Santa Fe, nel Nuovo Messico. Pur continuando a interpretare alcuni ruoli, Geoffrey intraprese una nuova carriera, quella di agente immobiliare.

La famiglia

Paul John Geoffrey lascia la moglie Sue Taylor e i suoi tre figli, Alex, Oliver e Daisy. "Paul ha continuato a recitare per il resto della sua vita. Amava il vino e il cibo francese, aveva una straordinaria conoscenza della storia, è stato un tifoso dell'Arsenal per tutta la vita ed eccelleva nell'essere il ragazzo più dolce del mondo", si legge nel necrologio pubblicato su Santa Fe New Mexican.

Morto il sociologo francese Alain Touraine. ANTONIO CARIOTI su Il Corriere della Sera l'11 Giugno 2023.

Si è spento il 9 giugno all’età di 97 anni. Studiò i movimenti operai, il femminismo e raccontò il golpe di Pinochet. Nel suo lavoro ha sempre privilegiato la dimensione culturale rispetto a quella economica

Anche se proveniva da una famiglia benestante, il sociologo francese Alain Touraine, scomparso venerdì 9 giugno all’età di 97 anni, aveva scelto di lavorare come minatore, tra il 1947 e il 1948, allo scopo di provare sulla sua pelle la fatica quotidiana delle classi più umili. Il suo primo libro, uscito nel 1955, era stato dedicato alla gestione della manodopera nelle officine automobilistiche Renault e anche in seguito si era occupato spesso della condizione operaia, per esempio con un saggio sul sindacato indipendente polacco nel volume a più mani Solidarnosc, edito in Italia da Franco Angeli nel 1982.

Ciò nonostante, era ben lontano dall’essere un operaista. Anzi al grande pubblico Touraine era noto soprattutto per aver coniato l’espressione che dà il titolo al suo saggio La società post-industriale, uscito nel 1969 e tradotto l’anno dopo da il Mulino. Quando ancora il marxismo era egemone tra gli intellettuali progressisti come lui, si era accorto che la conoscenza, nelle sue varie forme, si era imposta come principale motore della crescita e il conflitto di classe non era più al centro dello scenario sociale, mentre era divenuta cruciale «la lotta per la creatività contro i poteri e le costrizioni degli apparati». Convinto che fosse più corretto «parlare di alienazione piuttosto che di sfruttamento», sulla scia del Sessantotto era giunto alla conclusione che l’università fosse «il luogo privilegiato di formazione delle nuove lotte sociali». Una tendenza a privilegiare la dimensione culturale rispetto a quella economica che era rimasta sempre la cifra portante del suo pensiero.

Nato il 3 agosto 1925 in Normandia, Touraine aveva studiato, sia pure in modo discontinuo, alla prestigiosa Ena (École normale supérieure) e poi si era dedicato alla sociologia, lavorando prima al Centro nazionale della ricerca scientifica e poi alla Scuola di alti studi in scienze sociali. Si era specializzato ad Harvard e aveva viaggiato molto in America Latina, soprattutto in Cile, dove aveva conosciuto la moglie Adriana Arenas. Molti anni dopo, nel 1973, aveva assistito di persona alla caduta della democrazia in quel Paese, con il sanguinoso golpe del generale Augusto Pinochet contro il presidente socialista Salvador Allende, e aveva pubblicato un diario di quei mesi con il titolo Vita e morte del Cile popolare (Einaudi, 1974). Nel frattempo Touraine aveva sostenuto la tesi di dottorato alla Sorbona: nell’occasione aveva chiesto a Raymond Aron, il famoso studioso liberale conservatore, di presiedere la commissione d’esame. Una scelta quanto mai azzardata, poiché l’interessato aveva sostanzialmente demolito il lavoro del candidato, che a suo avviso spaziava molto più nella filosofia che nella sociologia.

Nonostante l’episodio spiacevole, Touraine non portava rancore: anzi aveva reso omaggio, quarant’anni dopo, al «coraggio intellettuale» di Aron nell’opporsi all’egemonia culturale marxista con «efficaci critiche». Attento osservatore dei nuovi movimenti, dall’ecologismo al femminismo, negli anni Duemila Touraine si era persuaso della necessità di elaborare un «nuovo paradigma» d’interpretazione della realtà, che aveva esposto nel volume La globalizzazione e la fine del sociale (il Saggiatore, 2008). Considerava il trionfo dell’individualismo ormai irreversibile, poiché lo scavalcamento di ogni frontiera da parte di forze economiche senza controllo aveva portato «alla frammentazione di ciò che veniva chiamato società». Né confidava molto in quella che liquidava come «un’Europa senza europei», incapace di sviluppare una coscienza comune e condannata all’inettitudine. Ai processi disgregativi era però possibile opporre, argomentava Touraine, la rivendicazione di nuovi diritti culturali, fondata sulla «volontà dell’individuo di essere l’attore della propria esistenza». Il sociologo francese chiamava questo lato positivo dell’individualismo «il soggetto» e ne metteva in rilievo la «resistenza al mondo impersonale del consumo», prodotto di un liberismo per il quale «la vita sociale si riduce a un mercato senza regole in cui ognuno cerca di appropriarsi di un prodotto che definisce un buon affare».

Qui Touraine scorgeva il «conflitto fondamentale» della nostra epoca, nel quale assegnava un ruolo di primissimo piano alla componente femminile, a suo avviso destinata a plasmare il futuro: non a caso uno dei suoi ultimi libri s’intitolava appunto Il mondo è delle donne (il Saggiatore, 2009). Lo studioso francese sosteneva che l’unica via per «infondere alla nostra società una nuova forza creativa» fosse promuovere «una possibile ricomposizione tra la vita sociale e l’esperienza personale». E vedeva le donne all’avanguardia in questa impresa per la loro capacità di pensare e agire «in termini ambivalenti», più adatti al tempo della complessità. Dopo essere stato il profeta della società post-industriale, aveva così proclamato l’avvento di un «post-femminismo» ancora più rivoluzionario rispetto alla tradizione della civiltà occidentale.

Libertà, uguaglianza, fraternità... e dignità. Alain Touraine, scomparso a 93 anni: “Non saremo mai in mondo normale se otto persone su dieci non sono uguali”. Mario Lavìa su Il Riformista l'11 Giugno 2023 

«Il tema dei migranti è un banco di prova. Se cedi sui migranti, cedi su tutto. In particolare sull’Europa. L’immigrazione è anche nel nostro interesse. Molte delle nostre regioni hanno bisogno di essere reindustrializzate, altre devono far fronte alla desertificazione, altre ancora soffrono di una carenza di servizi pubblici. Non bisogna dimenticare che la popolazione francese è molto poco globalizzata. Abbiamo soltanto due città globali in Francia: Lione e Parigi». È un recente pensiero di Alain Touraine, il grande sociologo scomparso alla bella età di 97 anni: uno dei massimi intellettuali francesi della seconda metà del Novecento, e non è definizione da poco.

Touraine lavorò moltissimo, e infatti la sua produzione è enorme, ma tentando di coglierne alcuni punti forti e rileggendo le parole con cui abbiamo iniziato questo articolo diremmo che l’illuminista Touraine alla triade libertà- uguaglianza-fraternità sentisse l’ansia di aggiungere la parola “dignità” che nel nostro tempo (si pensi appunto all’immigrazione, ma non solo) è tornata effettivamente ad assumere, come nei secoli bui, una meta incerta: «Non saremo mai in un mondo normale – scrisse – finché otto persone su dieci non sono uguali». Qui c’è tutta l’acutezza di un uomo che aveva trascorso la vita indagando i meccanismi della società industriale e poi post-industriale e che era giunto a questa conclusione: cercare i nuovi soggetti in grado di coniugare la soggettività (i diritti) con la complessità del mondo post-industriale, lo stesso rovello su cui si cimentano ormai almeno da 25 anni i filosofi e gli intellettuali più avanzati, da Sen a Beck a Giddens, per fare solo tre nomi.

Il problema dell’analisi sociologica è in fondo quella della Politica con la “p” maiuscola è cioè quello che Touraine si poneva fin dal 1992 in “Critica della modernità”: cercare le condizioni per una democrazia che non sia più solo formale. Nel senso che la modernità deve essere il risultato delle complementarietà tra l’attività della ragione e la liberazione del soggetto. Partendo dunque dalla critica della società industriale (qui c’entra la Scuola di Francoforte), Touraine ha tentato di cogliere il momento del superamento della vecchia società industriale, e dunque l’aria positiva della prima globalizzazione, riconducendolo al cospetto di una politica riformatrice: e furono gli anni del maggiore impegno del sociologo con i socialisti mitterrandiani e post mitterrandiani (Michel Rocard), esperienza poi conclusasi quasi contemporaneamente alla crisi degli anni Duemila.

È da qui che parte lo sfarinamento della società post-industriale e della stessa idea della Stato-Nazione e contemporaneamente si fa strada l’illusione del governo mondiale. La sfida diventa allora quella della ricerca di attori sociali in grado di preservare l’essenza dell’idea democratica perché questo è l’unico luogo storico e filosofico in cui sono possibili tutte le relazioni, le sinergie e le mediazioni tra individuo, collettività e potere istituzionalizzato ma questa si rivelerà una ricerca incompiuta per una ragione fondamentale: l’insufficienza, se non l’assenza, di movimenti culturali in grado di riattivare la «circolazione sanguigna» e il «sistema nervoso» delle nostre democrazie. Di qui, il pessimismo dell’ultimo Touraine che vede il fallimento delle élite politiche mondiali incapaci di governare il problema dei diritti e delle libertà e da noi di costituzionalizzare l’idea di Europa.

Insomma, l’idea illuminista e kantiana che nel nuovo millennio alza bandiera bianca. È addirittura la «decomposizione» – afferma nel 2010 – di tutto un sistema istituzionale e sociale. Ancora una volta la sociologia diventa “sociologia della crisi”. Qui emerge la difficoltà della politica, non solo dei “movimenti culturali”, che certo ne dovrebbero essere il propellente: si crea così quel cortocircuito tra politica e tecnica, “weberianamente”, che sta contraddistinguendo i nostri sistemi democratici, un cortocircuito che non deriva dal conflitto ma dal suo contrario: la separatezza del loro ruolo dai canali nevralgici della democrazia che sono o dovrebbero essere i partiti politici, i sindacati, persino i mass media. Mario Lavìa

Morto Nuccio Ordine, storico della cultura. Storia di PIERLUIGI PANZA Corriere della Sera il 10 giugno 2023 

Nuccio Ordine, scomparso sabato 10 giugno a 65 anni, ha incarnato la figura del saggista, ovvero quella di un conoscitore non arido e chiuso nello specialismo universitario fine a sé stesso, ma di stampo francese, capace di confrontarsi con un vasto campo del sapere e di saperlo comunicare. Era nato a Diamante, uno dei più bei paesi del litorale tirrenico della Calabria, noto per i suoi cedri e per le scorribande dei Turchi, nel 1958. Pur essendo un sincero europeista, anzi, uno studioso che privilegiava la ricerca su temi e personaggi d’interesse europeo, restò a insegnare Letteratura italiana e Teoria della Letteratura nell’università di Arcavacata in Calabria ed era molto legato alla sua terra. Fu però anche fellow dell’Harvard University Center for Italian Renaissance Studies e della Alexander von Humboldt-Stiftung e ha svolto lezioni alla Sorbona. Milano era diventata quasi una seconda città per i legami stretti con il «Corriere della Sera» come collaboratore delle pagine culturali e con le case editrici dirette da Elisabetta Sgarbi, ed ebbe rapporti con Roma come membro del Comitato scientifico dell’Enciclopedia Treccani.

La sua figura non è solo quella di uno storico della letteratura bensì di storico della cultura, un’area estesa che la postmodernità ha reso fascinosissima e che Ordine frequentava con capacità e relazioni. I suoi studi sono perimetrabili all’interno di almeno due aree: quella degli studiosi post warburghiani sul Rinascimento per quanto riguarda gli argomenti e quella seguita alla rivoluzione storiografica de «Les Annales» per quanto riguarda i metodi di indagine del passato. I suoi modelli o compagni di viaggio sono tutti francesi: da Attali (ma Ordine non assunse mai incarichi politici o di dirigente) a Fumaroli e Morin, mentre in Italia possiamo annoverarlo tra gli epigoni di Umberto Eco, anche per il rapporto che strinse con la Bompiani, prima, e La nave di Teseo, poi, come curatore di collane di storia della cultura. Ne diresse altre in Francia, con Yves Hersant, presso Les Belles Lettres e in diversi altri Paesi con generosità e anche bulimia. Un impegno, connesso a una capacità di divulgazione e di relazioni che gli meritarono riconoscimenti accademici, un numero infinito di premi, un vasto medagliere di onorificenze, un inesauribile elenco di dottorati e lauree honoris causa e la membership in varie accademie.

Ordine è noto agli studiosi per i suoi lavori sul Rinascimento e su Giordano Bruno, che per biografia e oscurità è stato un’attrazione per molti studiosi almeno dal 1964, quando Frances A. Yates pubblicò un libro illuminante: Giordano Bruno e la tradizione ermetica. Un libro come La soglia dell’ombra. Letteratura, filosofia e pittura in Giordano Bruno (Marsilio, 2003) diede prova delle capacità di Ordine di intersecare varie discipline, capacità che gli vennero riconosciute con la nomina a Presidente del Centro Internazionale di Studi Telesiani, Bruniani e Campanelliani. Negli studi sul Rinascimento, i suoi lavori — anche sul dialogo e la novella cinquecentesca — costituirono un’alternativa a quelli della scuola fiorentina di Vasoli, Fubini, Grayson (più legati agli studi su Leona Battista Alberti) e, in generale, a quelli degli allievi di Eugenio Garin come anche Michele Ciliberto, Paolo Rossi, Rita Sturlese e altri. Una prefazione di Garin è comunque presente in La cabala dell’asino. Asinità e conoscenza in Giordano Bruno, libro che nel 1987 lo impose all’attenzione. Ordine studiò anche Pierre de Ronsard, Gabriel García Márquez e Steiner (George Steiner. L’ospite scomodo, La nave di Teseo, 2022): proprio a Ordine, Steiner ha rilasciato la sua ultima intervista da pubblicare postuma.

Quella di Ordine è stata una straordinaria cavalcata libera e solitaria di un outsider, non legato a scuole o proveniente da pedigree particolari e che non ha fondato, a sua volta, una scuola. Nel recente L’utilità dell’inutile edito da Bompiani (23 lingue, tradotto in 33 Paesi con paragrafi che spaziano da Rousseau a Shakespeare, da Ovidio a Montaigne), Ordine ribadiva la necessarietà di quei saperi il cui valore essenziale è totalmente scevro da finalità utilitaristiche. Gli ultimi suoi articoli sono stati dedicati a La muraglia e i libri di Borges contro la costruzione di muri, alla giustizia minorile e su Galileo solo pochi giorni fa (nella rubrica «Classicamente» per «la Lettura» #601 del 4 giugno).

Estratto dell’articolo di Emanuela Minucci per lastampa.it l'8 giugno 2023.

La pittrice Françoise Gilot, nota per essere stata la musa di Picasso, è morta a New York all’età di 101 anni. Chi conosce bene la sua storia può dire che è arrivata a questa veneranda età in salute perché ha avuto la saggezza di lasciare per prima il genio spagnolo che aveva 40 anni più di lei. 

Tra le innumerevoli donne che ha avuto Picasso (che hanno avuto crolli mentali o sono morte suicide), Françoise Gilot è stata l’unica a trovare la forza di dirgli addio prima che lui la trascinasse nel solito gorgo di cui sono rimaste vittima tutte le sue compagne. 

«Pablo è stato il più grande amore della mia vita, ma dovevi prendere provvedimenti per proteggerti. L’ho fatto, me ne sono andata prima di essere distrutta- aveva dichiarato a Janet Hawley nel libro del 2021 «Artists and Conversation» – Le altre si sono aggrappate al potente Minotauro e hanno pagato un prezzo alto».

Probabilmente si riferiva alle storie delle quattro altre famose amanti del gigante dell’arte moderna: la prima moglie di Picasso, la ballerina Olga Khokhlova, caduta in depressione dopo che lui l’aveva lasciata per Marie-Therese Walter, la sua ex amante giovanissima, morta impiccata; la sua seconda moglie Jacqueline Roque che si è sparata e l’artista Dora Maar, che ha avuto un esaurimento nervoso. 

Nata il 26 novembre 1921 a Neuilly-sur-Seine, a ovest di Parigi, da una famiglia benestante, ha seguito le orme della madre iniziando come acquarellista, prima di passare al disegno e alla pittura. I suoi genitori volevano che diventasse avvocato, ma abbandona gli studi all’età di 19 anni. 

A 21 anni era già una delle artiste più rispettate della nascente Scuola di Parigi, che raggruppava artisti francesi ed emigrati nella capitale durante la prima metà del XX secolo. Nel corso della sua carriera ha firmato almeno 1.600 tele e 3.600 opere su carta.

Françoise Gilot conosce Picasso in un ristorante a Parigi nel 1943, quando lei aveva solo 21 anni e lui 61. Amanti per 10 anni, non si sono mai sposati e hanno avuto due figli, Claude e Paloma nati nel 1947 e nel 1949. Picasso ha dipinto Francoise Gilot spesso, tra i più noti ritratti si ricorda «Femme assise» del 1949, venduto all’asta a Londra nel 2012 per 8,5 milioni di sterline. Ma forse più famosa e iconica è la fotografia scattata alla coppia nel 1948 da Robert Capa, che cattura i due su una spiaggia. Gilot ha lasciato Picasso nel 1953 e da lì in poi riprendere a dipingere, con non poche difficoltà. 

Nel 1964 pubblica il libro «La mia vita con Picasso» dove lo ritrae come un tiranno. L’artista ha fatto di tutto per impedirne la pubblicazione: le fa causa tre volte, perdendo ogni volta ma dopo l’ultima sconfitta in tribunale […] la chiamò per complimentarsi: «Congratulazioni, hai vinto. Sai che a me piacciono i vincitori». […]

Nel 1991 Françoise Gilot scrisse un libro anche sul complicato rapporto di amore-odio di Picasso con l’altro gigante dell’arte moderna, Matisse, di cui era amica. 

Gli altri due uomini della sua vita sono stati il pittore Luc Simon, dal quale ha avuto una figlia Aurelia, e il virologo americano Jonas Salk, inventore del primo vaccino antipolio, che ha sposato nel 1970 e con cui ha vissuto in California fino alla sua morte nel 1995. Gilot ha trascorso gli ultimi anni della sua vita a New York […]

Estratto dell'articolo di Giuseppe Di Giovanni per gazzetta.it l'8 giugno 2023.  

Si è spento a 81 anni Hossein Khosrow Ali Vaziri, meglio conosciuto come The Iron Sheik, uno dei wrestler più iconici e più importanti della storia della Wwe e non solo. La notizia del decesso è stata comunicata proprio sul suo profilo Twitter dai familiari […]

IL PERSONAGGIO

[…] The Iron Sheik è stato uno dei cattivi più importanti di sempre, colui che ha contribuito a far nascere la stella di Hulk Hogan e il mito dell’Hulkamania. Il primo titolo massimo dell’Hulkster arrivò proprio dopo il successo sul wrestler iraniano, nell’iconico match del 23 gennaio 1984 al Madison Square Garden. […] Sheik, che è nato a Teheran, prese parte alle Olimpiadi del 1968 come membro della squadra iraniana di lotta greco-romana. Dopo l'avventura olimpica si trasferì negli Stati Uniti, arrivando fino al debutto nel mondo del wrestling. 

IL RITIRO

La sua carriera ad alti livelli terminò a inizio anni ‘90, ma Khosrow ebbe il tempo di vincere la Gimmick Battle Royal a WrestleMania 17 (nel 2001), un match che vedeva coinvolte altre leggende Wwf degli anni ottanta e novanta. Fu proprio il suo amico-nemico Sgt. Slaughter a introdurlo nella Hall of Fame, nel 2005. L'ultimo match ufficiale di Iron Sheik si è tenuto a MWF Soul Survivor VI, il 24 aprile 2010, dove lottò in coppia con "Black Machismo" Jay Lethal sconfiggendo "Stalker" Dylan Kage (con Paul Bearer). […]

Addio a Pasolini Zanelli, colonna del "Giornale" di Montanelli. Una vita in giro per il mondo a raccontare i grandi leader e fatti internazionali. L'amore per Parigi, la stima e amicizia per Reagan e quel rifiuto di guidare il "Giornale" su proposta di Montanelli. Federico Bini l'8 Giugno 2023 su Il Giornale.

Lo ricordava con affetto il direttore, "il mio migliore amico" diceva con un certo orgoglio, che gli propose anche la direzione: "Ti faccio condirettore con la promessa di successione". Ma rifiutò. Indro Montanelli fece il "broncio" come tipico di quei toscani un po’ permalosi e capricciosi. Ma erano uomini di mondo navigatori di mari tempestosi e bastò una stretta di mano per chiarirsi.

Appartenevano ad un’epoca dove la storia non solo l’avevano studiata e respirata ma vissuta da protagonisti. Da un lato Montanelli con la sua vita romanzesca, gli incontri e gli aneddoti; dall'altro lui, Alberto Pasolini Zanelli, il nobile emiliano-romagnolo, penna fine ed eccelsa, appassionato di politica internazionale, dai tratti e lineamenti immancabilmente aristocratici portava su di sé il peso di un illustre casato. Il nonno era stato senatore liberale con Giovanni Giolitti: "Eravamo inoltre imparentati con il regista Pasolini".

Come Guido Piovene era un altro conte al servizio del Giornale. Non partecipò alla fondazione nel 1974 ma arrivò tra “l’argenteria di famiglia” montanelliana (Di Bella) nel 1977 tramite Enzo Bettiza. L’affascinante scrittore, giornalista ed esperto di comunismo che dalle colonne del quotidiano smascherò il socialismo reale nel suo volto violento e repressivo anticipandone il declino. E insieme al fraterno amico Frane Barbieri dettero vita (più merito del secondo) al termine di “eurocomunismo”. Bettiza, Barbieri, Corradi, Cervi, Pasolini Zanelli, Mezzetti, Gualazzini, Caputo etc. Quante firme straordinarie di politica internazionale in quel quotidiano.

Si trattava di un giornale che non solo era un manifesto dei migliori principi del liberalismo e conservatorismo europeo ma espressione di un mondo in cui l’eleganza, il garbo, la gentilezza e galanteria facevano parte del codice genetico per chi ne volesse varcare il massiccio portone (di via Negri 4 a Milano).

Alberto Pasolini Zanelli viaggiò in ogni parte del mondo, seguendo regimi, autocrazie, colpi di Stato, democrazie in ascesa e caduta. Ovunque c’era un fatto lui prendeva l’aereo e partiva. Conobbe e descrisse da vicino i grandi leader della terra: Eltsin, Gorbaciov, Allende, Castro, Brandt, Kohl e Mitterrand, tra i tanti.

Ma tra i ricordi più belli c’erano i due storici alleati di ferro: Margaret Thatcher e Ronald Reagan.

Di lei, donna pragmatica, risoluta e apparentemente fredda ricordava invece il tratto femminile (spesso secondario) e le giarrettiere che mostrò in modo non volontario durante uno dei tanti festeggiamenti elettorali: “Fu l’artefice del miracolo economico inglese. Non lo fece in modo bonario come Reagan ma con durezza”.

Il presidente americano, “un amico stimato e apprezzato” – “di cui era stato spesso ospite alla Casa Bianca” diceva il nostro comune amico Valerio Barghini rispettandone la riservatezza – fu un modello di leadership che consentì al mondo intero di riprendere il difficile cammino del dialogo, della distensione tra potenze e della libertà. Tutti elementi alla base di quella storica “dottrina Kissinger” che continuò felpatamente a influenzare – più o meno tutti – i tanti inquilini dello “studio ovale”.

Proprio alla morte di Reagan raccontava commosso e ammirato di quando alla fine del funerale la moglie e Gorbaciov andarono entrambi in silenzio verso la bara dell’ex presidente e deposero due fiori in suo omaggio.

Il giorno della caduta del muro di Berlino che sancì la sconfitta storica, politica ed economica del comunismo (ma non la sua forza ideologica) come modello di società, era a Milano, nello studio di Montanelli. Insieme assistettero alle immagini di quei tanti ragazzi che picconavano le pietre. Immancabile il suo commento: “Indro preparo il pezzo!”. “No, è uscito un tuo fondo oggi e non è elegante che esca con la stessa firma due giorni di fila”. Prontamente replicò: “Allora fallo tu”. “No, alle otto ci aspetta a cena Marisa”. “Sua compagna e donna bellissima”. Commento finale con moderata risata che sa tanto di tempi passati e che portavano con sé una dolce nostalgia: “Montanelli era un uomo molto puntuale”.

Dall’America dove viveva da tantissimi anni sognava Bologna ma soprattutto amava Parigi e sperava di rivederla ma era già tanto tempo che non stava bene. Chissà se dall’alto, nel lungo tragitto che porta nel regno dei cieli, riesca anche solo per un minuto a rivedere la città rigogliosa di gerani e gemme preziose.

Roteando occhi e volto, gesticolando e borbottando come solo i “toscanacci” sanno fare, avrebbe detto Indro: “Bada bischero! Se n’è andato anche lui”. In silenzio e senza fare chiasso, come tipico di quei vecchi galantuomini nobili e gran borghesi che ancora tanto avrebbero da insegnarci.

Morto l’attore Barry Newman, avvocato star anticonformista della serie “Petrocelli”. Barry Newman aveva 92 anni

Aveva 92 anni. Al cinema ha interpretato il memorabile ruolo di Kowalski, ex poliziotto in fuga nel road movie "Punto zero". su Il Dubbio il 6 giugno 2023

L'attore statunitense Barry Newman, che si è affermato come interprete televisivo grazie al ruolo dell'avvocato italo-americano Tony Petrocelli nella serie "Petrocelli" (1974-1976) e al cinema per il memorabile ruolo di Kowalski, ex poliziotto in fuga nel road movie "Punto zero", è morto al NewYork-Presbyterian Columbia University Irving Medical Center per cause naturali all'età di 92 anni. L'annuncio della scomparsa, avvenuta l'11 maggio, è stato dato solo oggi dalla moglie Angela a "The Hollywood Reporter".

Dopo aver a lungo calcato i palcoscenici di Broadway, Barry Newman aveva voglia di cambiare aria quando gli fu offerto il ruolo di un uomo incaricato di trasportare un'auto da Denver a San Francisco nel film "Punto zero" (1971), ricco di azione e diretto da Richard C. Sarafian. Il taciturno personaggio di Newman, Kowalski, era un veterano del Vietnam, ex pilota di auto da corsa e poliziotto congedato con disonore che non aveva nulla da perdere: sotto effetto di anfetamine, cerca di guidare un'auto Dodge Challenger R/T 440 Magnum bianca del 1970 verso la sua destinazione, San Francisco, in California, il più velocemente possibile. Il personaggio di Anthony Petrocelli è stato impersonato per la prima volta da Newman nel film "Al di là di ogni ragionevole dubbio" (1970) di Sidney J. Furie, dove il giovane avvocato difende un medico dall'accusa di aver ucciso la moglie, una storia liberamente basata sul famigerato caso del 1954 in cui il neurochirurgo di Cleveland Sam Sheppard fu inizialmente condannato per il brutale omicidio a bastonate della moglie.

Quattro anni dopo, Newman tornò a vestire i panni dell'avvocato anticonformista nel telefilm "Petrocelli", trasmesso dalla rete americana Nbc dal settembre 1974 al marzo 1976 per 45 episodi (la serie arrivò in Italia solo nel 1980 su Rai Uno, in seguito è stata replicata da Canale 5). "Petrocelli" racconta le vicende di un avvocato italo-americano di Boston che abbandona il ritmo frenetico della metropoli per trasferirsi a San Remo, tranquilla (e immaginaria) cittadina dell'Arizona. In ogni episodio l'avvocato Tony Petrocelli si muove come un astuto detective coadiuvato dalla moglie Maggie (Susan Howard, pseudonimo di Jeri Lynn Mooney, 1944) e da Peter Ritter (Albert Salmi, 1928-1990), un ex vice sceriffo vestito da cow-boy che ha assunto come collaboratore.

L'anticonformismo del personaggio si cela anche nei dettagli: trovandosi spesso senza monete, Petrocelli inventa ogni espediente per parcheggiare il suo pick up coperto senza pagare; a volte appone sul cruscotto la scritta 'evidence' relativa alla sua attività di avvocato penalista, oppure apre il cofano anteriore fingendo d'essere in panne.

Tra le altre interpretazioni di rilievo di Newman figurano quella del dottor Frank Whitman nel film catastrofico "Città in fiamme" (1979) di Alvin Rakoff, del dottor Garrett Braden nel medical drama tv "Infermiere a Los Angeles" (1989), del superstite Norman Bassett in "Daylight - Trappola nel tunnel" (1996), diretto da Rob Cohen ed interpretato da Sylvester Stallone, dell'agente Hal in "Bowfinger" (1999), di Jim Avery ne "L'inglese" (1999) di Steven Soderbergh, accanto a Terence Stamp. Tra le sue ultime apparizioni cinematografiche "40 giorni e 40 notti" (2002).

La carriera di Newman era stata interrotta dopo che nel 2007 gli era stato diagnosticato un cancro alle corde vocali, anche se poi si era ripreso. Barry Foster Newman era nato a Boston il 7 novembre 1930. Si diploma alla Boston Latin School e alla Brandeis University, suona il sassofono e il clarinetto nella banda dell'esercito americano e studia recitazione con Lee Strasberg dopo aver abbandonato l'idea di diventare antropologo. Nel 1957 ha debuttato a Broadway interpretando un musicista jazz nella commedia di Herman Wouk "Nature's Way" e un anno dopo è apparso con Alice Ghostley in "Maybe Tuesday".

Nel 1964-65, mentre continua a recitare in teatro, interpretò anche un giovane avvocato nella serie tv "Ai confini della notte", prima di essere licenziato dopo un litigio con un regista. Newman ha recitato in numerosi episodi di telefilm come "La parola alla difesa", "Get Smart", "Quincy", "Miss Marple", "Avvocati a Los Angeles", "La signora in giallo".

La canzone diventata indimenticabile. La ragazza di Ipanema è morta: addio a Astrud Gilberto, poetessa della bossa nova. Redazione su Il Riformista il 6 Giugno 2023 

Astrud Gilberto, la cui interpretazione della prima versione della canzone “Garota de Ipanema”, la ragazza di Ipanema, è diventata indimenticabile, è morta all’età di 83 anni.

Paul Ricci, collaboratore della Gilberto, ha confermato la notizia sui social media, scrivendo che gli era stato chiesto di annunciarla dal figlio della Gilberto, Marcelo. “È stata una parte importante di tutta la musica brasiliana nel mondo e con la sua energia ha cambiato le vite di molti”, ha aggiunto.

Nata nel 1940 nello stato brasiliano di Bahia e cresciuta a Rio de Janeiro, Astrud Weinert ha sposato il musicista João Gilberto nel 1959. Nel 1963 lo accompagnò in un viaggio a New York, dove lui doveva registrare con il jazzista Stan Getz e la star della bossa nova brasiliana Antônio Carlos Jobim. Il produttore voleva una cantante in lingua inglese per aiutare “The Girl from Ipanema” a raggiungere il pubblico statunitense e Astrud, che non aveva precedenti esperienze di registrazione, era l’unica persona in grado di parlarlo.

La versione originale era in un duetto con il marito: Astrud fu però tagliata fuori dai diritti d’autore e ricevette solo un piccolo compenso come musicista. Ma dopo che “La ragazza di Ipanema” fu prodotta nuovamente senza la voce in portoghese di João come solista singolo, divenne un grande successo nel 1964 e raggiunse la Top 5 degli Stati Uniti e la Top 30 del Regno Unito. Vinse il Grammy Award per la canzone dell’anno e Gilberto ottenne anche la nomination per la migliore interpretazione vocale femminile. Quell’anno lei e João divorziarono e Astrud andò in tournée negli Stati Uniti con Getz e la sua band, un’esperienza che in seguito descrisse come “molto difficile… essere nel bel mezzo di una separazione e affrontare le responsabilità di essere una madre single e una nuova carriera impegnativa”.

The Girl from Ipanema sarebbe stato il suo unico grande successo – anche se tornò nelle classifiche nel 1984, quando la bossa nova ritornò in auge – ma Astrud mantenne una certa popolarità per una serie di successivi album da solista per l’etichetta jazz Verve, a partire da” The Astrud Gilberto Album” del 1965. Registrò anche con Chet Baker e ha continuato ad andare in tournée fino al 2002. Nel 2008 le è stato conferito un premio alla carriera dai Latin Grammy. 

Estratto dell'articolo di repubblica.it il 6 giugno 2023.

È morta Astrud Gilberto, nota come "la ragazza di Ipanema" per aver interpretato la versione in inglese dell'omonima canzone, una delle grandi protagoniste dell'epoca d'oro della Bossa Nova. Astrud Evangelina Weinert, moglie del famoso chitarrista brasiliano Joao Gilberto (1931-2019), è morta nella serata di lunedì 5 giugno all'età di 83 anni. Divenne popolare a metà degli anni Sessanta per lo straordinario successo di Garota de Ipanema, la canzone composta da Vinícius de Moraes e Antônio Carlos Jobim, tradotta in decine di lingue, di cui lei incise la versione inglese The Girl from Ipanema, conquistando un Grammy Award.

A diffondere la notizia della scomparsa è stata sua nipote, la cantante Sofia Gilberto sul suo profilo Instagram. "Mia nonna Astrud Gilberto ha scritto una canzone per me, si chiama Linda Sofia. In effetti, voleva che il mio nome fosse Linda Sofia. La vita è bella, come dice la canzone, ma vengo a portare la triste notizia che mia nonna è diventata una stella oggi ed è accanto a mio nonno João Gilberto. Astrud è stata la vera ragazza che ha portato la Bossa Nova da Ipanema nel mondo. Era la pioniera e la migliore", ha scritto Sofia Gilberto.

[…] Nata il 30 marzo 1940 a Salvador de Bahia, in Brasile, da madre brasiliana e padre tedesco, Astrud intraprese la carriera musicale nel 1960 e nel 1963 si trasferì con João negli Stati Uniti. […]

L'addio della nipote. Chi era Astrud Gilberto, la ragazza di Ipanema scomparsa a 83 anni. Dopo anni trascorsi nel dimenticatoio fu George Michael a riaccendere la sua stella con Desafinado. Graziella Balestrieri su L'Unità il 7 Giugno 2023

«Vengo a portare la triste notizia che mia nonna oggi è divenuta una stella ed è accanto a mio nonno Joao Gilberto. Astrud è stata la vera ragazza che ha portato la Bossa Nova da Ipanema nel mondo. Era la pioniera e la migliore». Con queste affettuosissime e delicatissime parole, la nipote Sofia Gilberto, ha annunciato su Instagram la morte della nonna Astrud Evangelina Weinart, 83 anni, divenuta famosa nel mondo come la ragazza di Ipanema e per essere stata il simbolo femminile nell’epoca della Bossa Nova.

Tutto ha inizio quando a metà degli anni Sessanta, Astrud incide la versione in inglese del famoso brano composto da Vinicius de Moraes e Antonio Carlos Jobim Garota de Ipanema che diventa The Girl from Ipanema e che non solo le regala una fama planetaria ma anche un Grammy Award. Basti pensare che dopo Summertime di George Gershwin, La ragazza di Ipanema diventerà la seconda canzone più registrata nel mondo della musica. Poco più che ventenne, Astrud si ritrova il brano in mano solo perché il marito non riesce a cantarla in inglese: è così, per un banalissimo caso, che inizia la carriera della ragazza nata nel 1940, a Salvador De Bahia, da madre brasiliana e padre tedesco, che una volta trasferitasi con la famiglia a Rio De Janeiro, conosce quello che presto sarà suo marito, ma anche una delle figure centrali nella musica brasiliana, ovvero Joao Gilberto.

Ma il Brasile nel quale si affacciano i giovani musicisti è un Paese in preda al caos, che presto verrà sotterrato e insanguinato dalla dittatura militare che imperverserà dal 1964 fino al 1985 e non darà ai giovani nessuna chance per pensare al futuro e lascerà poco spazio all’immaginazione e alla fantasia dei movimenti che sotto la superficie stavano nascendo e che porteranno poi, fortunatamente venti di libertà. E così se da un lato la Bossa Nova perderà la sua leggerezza che l’aveva contraddistinta sin dagli inizi, tramutando i testi d’amore e spensieratezza in testi impregnati di voglia di libertà e di protesta contro la dittatura in artisti come Chico Buarque o Clara Nunes agli inizi degli anni 70, la Bossa Nova interpretata e incarnata da Astrud nella prima metà degli anni 60 troverà nelle morbide corde vocali di quest’artista leggiadra e singolare l’espressione di un Brasile che anche se non parla e canta di dittatura cerca e vuole trovare un modo nella sofisticata arte della Bossa Nova, una forma di espressione artistica per essere leggeri.

Una forma che, detto per inciso, non è mai stata sinonimo di stupidità. Al contrario, quella particolare maniera di essere leggeri, fatta propria da Astrud. è una forma di protesta contro chi ti vuole zittire. Sta di fatto però che Astrud Gilberto sarà molto più apprezzata e famosa fuori dal suo Brasile che imparerà ad amarla e giustamente ad apprezzarla come un’icona e simbolo femminile di quegli anni solo dopo la fine della dittatura. Ha ragione la nipote, da questo punto di vista, quando la definisce una pioniera.

In un contesto così terrificante e brutale come quello del regime dei Gorillas la grazia di Astrud e il suo modo sensuale di interpretare The Girl From Ipanema si sono guadagnati la giusta fama in patria con il tempo. Ne è dovuta passare di acqua sotto i ponti, prima che tutti comprendessero appieno che cosa raccontavano le sue movenze, la sua lentezza. Non era nient’altro che l’identificazione totale con la bellezza della sua terra.  Orgogliosa, fiera, bella, Astrud deve al marito il fatto di averle ceduto un brano che poi lei renderà così importante, e quindi a lui il fatto di averla introdotta negli ambienti musicali.

Ma la riconoscenza verso Joao Gilberto si ferma davvero qui, perché passo dopo passo, esacerbata dalle innumerevoli infedeltà del coniuge, deciderà di rompere e chiedere il divorzio. Oltre la siepe, ad attendere Astrud, c’è la collaborazione con il famoso jazzista Stan Getz, che però presto si rivelerà anche lui non proprio uno stinco di santo. Dopo aver affrontato continui rimproveri e maltrattamenti durante la tournée, finalmente la nostra riesce a separarsi anche da lui ma scoprirà ben presto a che prezzo. nel senso che mister Getz che non le darà nemmeno un soldo. E a poco vale la successiva collaborazione con uno dei suoi veri idoli, ovvero Chet Baker alla fine degli anni Settanta, che per quanto di spessore, come spesso accade nel mondo della musica, non ridarà a miss Weinart la stessa fama ottenuta con “The Girl from Ipanema”.

Passeranno molti anni, prima che la campanella del mainstream tornerà a suonare per Astrud. Succede solo alla fine degli anni 90, precisamente nel 1998, con l’album Ladies and Gentlemen, quando una delle voci più belle e intense in assoluto del panorama maschile musicale, il mai troppo compianto George Michael la vorrà con sé per reinterpretare il brano Desafinado. Ne vien fuori una versione intensa e sensualissima, sofisticata, baciata dall’unione di due tra le più belle voci che il panorama della musica internazionale possa vantare a quell’epoca. E così l’astro di Astrud Gilberto torna a brillare, complice l’intuizione di George Michael, che per un verso riesce ad omaggiare la sensualità brasiliana e per un altro riesce a cogliere tutta la portata simbolica della parabola della ragazza di Ipanema: una stella che era sorta tanto velocemente e in tutto il mondo e che poi con altrettanta velocità si era spenta.

La ragazza dai capelli neri con il fiocco in testa e gli occhi grandi, che teneva lo sguardo fisso verso un pubblico di donne sedute e sorridenti ad ammirarla e a seguire il suo modo lento e disincantato di interpretare una nazione tutta, si riprende in qualche modo il suo posto, con quella voce ferma e delicata, tanto sensuale da non far notare la sua non perfetta intonazione. Chi meglio di lei avrebbe potuto rappresentare la sua terra? Chi meglio di lei ha saputo intonare la leggerezza di un popolo che ha subito una feroce e brutale dittatura? Chi meglio di lei con la sua placidezza ha saputo rappresentare quelle sconfinate spiagge brasiliane che ti assalgono con quella saudade di cui la voce di Astrud è impregnata?

È così che se ne è andata la ragazza che passeggiava sulla spiaggia, che cantava, che sapeva di essere osservata ma che manteneva lo sguardo dritto verso di sé, non curandosi degli altri, non curandosi della tristezza intorno a sé: andando avanti, guardando in avanti, come poi avrebbe fatto la sua terra finalmente liberata. “La leggerezza è propria dell’età che sorge”, diceva Marco Tullio Cicerone. E con Astrud Gilberto stava nascendo una nuova età. Peccato che ce ne se ne renda conto sempre troppo tardi.

DI Graziella Balestrieri 7 Giugno 2023

Sondrio, morto il re della bresaola Emilio Rigamonti: colpito da un malore a 92 anni. Barbara Gerosa su Il Corriere della Sera il 31 Maggio 2023

Si è accasciato a terra in piazzale Bertacchi, attorno all'ora di pranzo.  Inutili i soccorsi. L'imprenditore aveva 92 anni

Ha reso la bresaola un prodotto conosciuto e consumato in tutto il mondo. Emilio Rigamonti, l’ex patron dell’omonima azienda di bresaole, è morto nella tarda mattinata di mercoledì a Sondrio. Si è accasciato nel piazzale della stazione ferroviaria. Aveva appena salutato un amico, con cui aveva preso un aperitivo, quando è stato colto da un malore. Inutili i soccorsi.

Aveva 92 anni e per decenni era stato alla guida dello storico salumificio che porta ancora oggi il nome di famiglia, anche se nel 2011 l’azienda è passata nelle mani del colosso brasiliano della carne Jbs. Ancora ragazzino Rigamonti era subentrato insieme al fratello Giovanni nella conduzione dell'attività di macelleria e salumeria aperta dal padre nel 1913. Lo stabilimento produttivo di Montagna in Valtellina, insieme a quelli di Poggiridenti e Mazzo in Valtellina, impiega oltre 200 dipendenti. 

Amante dello sport, aveva legato il suo nome come sponsor a diverse società, in particolare nel calcio e nella pallacanestro. Fondamentale anche il contributo nel sociale. Nel 2013 aveva partecipato alla festa per il centenario dell'azienda che ha fatto conoscere il salume principe della Valtellina in tutto il mondo. «Ci uniamo al dolore della famiglia - ha detto il presidente del Consorzio di tutela bresaola della Valtellina, Mario Moro -. Il nostro pensiero va all'uomo e all'imprenditore che era. Ci lascia una persona di estremo valore. Fondamentale è stato il suo contributo per il riconoscimento e la valorizzazione del nostro prodotto Igp. La sua passione per il lavoro e per il territorio ci sono di esempio».

(ANSA il 30 maggio 2023) – È morto questa mattina nella sua casa di Calcata vicino Roma dove viveva da molti anni l'architetto Paolo Portoghesi, 92 anni. Lo conferma all'ANSA l'architetto Luca Ribichini professore della Sapienza. 

Lucido fino alla fine stava scrivendo un libro sulla bellezza. Docente universitario, progettista di fama, teorico, Portoghesi è stato il principale esponente in Italia del Postmodernismo. Tra i suoi tantissimi lavori, la moschea di Roma, Casa Papanice, sempre nella capitale, e la Chiesa della Sacra Famiglia di Salerno.

In tanti anni di carriera con una personalità poliedrica e impegni che hanno spaziato dal lavoro storico-critico alla progettazione, dall'insegnamento universitario alle cariche istituzionali (nel 1979 direttore architettura della Biennale di Venezia della quale poi è stato presidente dal 1983 al 1993), Portoghesi ha visto realizzati moltissimi dei suoi progetti, disegnando e costruendo di tutto in Italia e all'estero. L'elenco è lungo, dalla Casa Baldi del 1959 alla moschea di Roma, forse la sua opera più nota, passando per i complessi residenziali dell'Enel di Tarquinia, l'Accademia di Belle Arti dell'Aquila, il teatro di Catanzaro.

Suo anche il restauro della piazza del Teatro alla Scala di Milano, mentre fra i lavori per l'estero ci sono residenze (Berlino), giardini (Montpellier), alberghi, fast food (Mosca), la moschea di Strasburgo. ''Dovendo scegliere tre che mi rappresentano, indicherei la chiesa della Sacra famiglia a Salerno (1974), la piccola chiesa di San Cornelio e Cipriano a Calcata (2009) e la moschea di Roma (1995)'', spiegò lui anni fa in un'intervista all'ANSA. "Ma non solo, perché i progetti sono un po' tutti figli, ogni tanto li vado a trovare''.

Da molti anni, insieme alla moglie Giovanna Massobrio, anche lei architetto, viveva nel borgo medievale di Calcata, alle porte della capitale in una grande e bella casa immersa in un giardino maestoso pieno di animali e abbellito da piante secolari dove aveva trovato posto anche la sua biblioteca e dove ha ospitato spesso anche i gli studenti di geoarchitettura, il corso che ha tenuto per anni alla Sapienza. 

Nel 2016 ha donato il suo archivio al Maxxi. L'ultimo lavoro realizzato è del 2019, la concattedrale di Lamezia Terme, un'opera che appare un po' la summa di tutte le sue riflessioni sul sacro, con gli svettanti campanili in acciaio corten che citano la Sagrada Famiglia di Gaudì e la facciata che quasi sembra abbracciare i fedeli invitandoli a entrare. Amareggiato per le condizioni di degrado di Casa Papanice, Portoghesi era in queste settimane al lavoro su un Manifesto per la conservazione delle opere architettoniche contemporanee.

"Resta un tabù", spiegava, sottolineando battagliero le responsabilità dei politici ma anche degli stessi architetti: "Casa Papanice era un ritorno alla natura e alla bellezza, voleva differenziarsi in modo netto dalle architetture che la circondavano. Voleva essere una profezia della città nuova. Ecco, questa è l'innovazione che, forse, è la cosa che meno è stata compresa".

Paolo Portoghesi morto a Roma, aveva 92 anni: suoi la Grande Moschea e il restyling di piazza San Silvestro. Laura Martellini e Carmen Plotino su Il Corriere della Sera il 30 Maggio 2023

Portoghesi era nato nel 1931 cuore della Roma barocca, sua principale fonte d'ispirazione estetica. Professore emerito di Geoarchitettura alla Sapienza

È morto a Roma l'architetto Paolo Portoghesi, aveva 92 anni. Figlio di un ingegnere, è cresciuto nel rione Pigna del centro storico della Capitale, nel cuore della Roma Barocca, sua principale fonte d'ispirazione estetica. A Roma sarà ricordato soprattutto per la Grande Moschea dei Parioli e per la ristrutturazione di piazza San Silvestro. Il professore, prima con Casa Baldi del 1960 (ispirata ai ruderi romani) e in seguito con Casa Papanice, nel quartiere Prati del 1968, ha anticipato i temi del movimento postmoderno in Architettura, corrente di cui diverrà poi, fra gli anni Settanta e Ottanta, capofila in Italia.

La Moschea dei Parioli

Come si legge su Wikipedia, la grande moschea di Roma fu voluta e finanziata dal re Faysal dell'Arabia Saudita, capostipite della famiglia reale saudita. Il progetto fu affidato a Paolo Portoghesi, che si affiancò a Vittorio Gigliotti, Sami Mousawi e Nino Tozzo. Come si legge nell'epigrafe esterna, la sua costruzione ha richiesto più di vent'anni: la donazione del terreno fu deliberata dal consiglio comunale romano nel 1974, ma la prima pietra fu posta dieci anni dopo, nel 1984, alla presenza dell'allora presidente della Repubblica Sandro Pertini, e l'inaugurazione avvenne il 21 giugno 1995. Il progetto di Portoghesi cerca un incontro con la storia e la tradizione locale, ad esempio attraverso l'uso di materiali che generano colori tipicamente romani, come il travertino e il cotto rosato, ma ispirato al  modello di moschea  «della foresta», caratteristico del Maghreb e della Grande moschea di Cordova, nella Spagna meridionale; a quello della moschea ottomana  e quello della moschea persiana, caratterizzato dall'alternanza tra grandi corti e spazi aperti. L'apparato decorativo, assai discreto nell'ampiezza dello spazio che lo contiene, è costituito da ceramiche invetriate di colori delicati. Il tema coranico ripetuto è «Allah è luce».

Piazza San Silvestro

E poi piazza San Silvestro, dove anticamente sorgeva il tempio del Sole, voluto dall'imperatore Aureliano nel 273. Prende nome dalla chiesa di San Silvestro in Capite, fondata nell'VIII secolo da papa Paolo I, che abitò nelle vicinanze: nell'Alto Medioevo, infatti, l'area era chiamata Catapauli, cioè «presso la dimora di Paolo». Il convento annesso alla chiesa fu sostituito dopo l'Unità d'Italia dal un nuovo edificio, adibito dapprima a ministero dei Lavori pubblici, quindi a Palazzo centrale delle poste. Una parte rimase ai padri Pallottini, cui tuttora è affidata la chiesa. Spariti invece il monastero delle Convertite e della chiesa di Santa Lucia della Colonna. Tra gli anni '40 e '50 la piazza divenne il principale capolinea delle linee Atac, finché nel 2011 si decise la chiusura della piazza al traffico, quando venne pedonalizzata e riqualificata dall'architetto Portoghesi. Il progetto originario prevedeva anche la presenza di alberi, che però non furono piantati. Tanto che ancora oggi romani e turisti protestano per la mancanza di ombra, col sole a picco  che d'estate rende bollenti e quasi inutilizzabili le panchine bianche

Gli architetti: «Ha difeso la bellezza, sempre»

In linea con la teoria della decrescita di Serge Latouche, Portoghesi definiva la geoarchitettura come un'architettura «umanistica» che rispetta sette criteri fondamentali: imparare dalla natura, confrontarsi con il luogo, imparare dalla storia, impegnarsi nell'innovazione, attingere alla coralità, tutelare gli equilibri naturali e contribuire alla riduzione dei consumi. Dal 2007, nella Facoltà di Architettura della Sapienza, è attivo il corso di Geoarchitettura di cui fu Portoghesi il primo docente. «Un grande dolore una grande perdita per l'architettura e il mondo della cultura: un amico, un maestro e un intellettuale che ha contribuito a difendere la bellezza, sempre». Il cordoglio del presidente dell'Ordine degli Architetti di Roma e provincia, Alessandro Panci, nell'apprendere la notizia della scomparsa di Portoghesi. «Una grande perdita per il Paese e per Roma, la sua città. La sua lezione sull'architettura resterà un caposaldo per tutti noi: professionisti, cultori e cittadini».

PORTOGHESI, L’ARCHITETTO DELLA STORIA…Pierluigi Panza per fattoadarte.corriere.it il 30 maggio 2023.

 PIERLUIGI PANZA - IL PRESIDENTE DELL ORDINE DEGLI ARCHITETTI DI ROMA PAOLO PORTOGHESI - FRANCO PURI - IL PRESIDENTE DELL ACCADEMIA ADRIANEA PIERFEDERICO CALIARI

Ho incontrato l’ultima volta Paolo Portoghesi un anno fa quando, insieme a Franco Purini, gli è stato conferito il Prix Piranesi alla carriera dall’Accademia adrianea. Eravamo nella Casa dell’Architettura di Roma, la sua casa sebbene meno di quella del borgo medioevale di Calcata dove viveva da decenni con la moglie, architetto, Giovanna Massobrio, una casa con quella musicalità, quella preziosa biblioteca e quei suoi magnifici giardini pieni di animali e abbelliti da piante secolari. 

Quello di Portoghesi è stato un viaggio interminabile verso ciò che il passato poteva alimentare. La sua idea di architettura era di un modello cosmico, anche se si trattava di una semplice casa. La storia lo ha guidato nel coraggio di voler andare sempre aventi nella memoria. Il suo è stato un viaggio verso ciò che il passato poteva dare, un modo per portare il passato nel futuro. Una lotta per il passato che l’architettura realizzata rende riflesso nella comunità vi abita.

Leon Battista Alberti, Guarino Guarini, Victor Horta, Gardella, Michelucci, Aldo Rossi… ma anche Rilke e Holderlin, Corelli e Beethoven… architetti, poeti e musicisti hanno riempito l’agenda delle sue giornate e delle sue lezioni sin da quando fu preside alla Facoltà di Architettura di Milano. Così come l’architetto veneziano Giovan Battista Piranesi ha dialogato a lungo con Borromini per il progetto dell'abside del Laterano, analogamente Portoghesi aveva dialogato con entrambi.

Portoghesi era nato in una casa di Borromini, Palazzo Nari di via Monterone, che sfocia in piazza dei Caprettari davanti a Sant’Eustachio, dove era stato battezzato. Di lì si vede la cupola di Sant’Ivo che si libera dalle gabbie tortuose dell’urbanistica capitolina, si libera da Palazzo Maccarani e si svolge come un fuso nel cielo. Indicando questa come modello, al pari di Borromini e Piranesi Portoghesi rivelava come il tema dell’ossessione – le spire della conchiglia come ossessione - costituisse gran parte della verità in architettura. L’architettura come distopia, orizzonte di riferimento per far sì che possa rispondere ai bisogni stagione dopo stagione. 

Lucido fino alla fine, Portoghesi stava scrivendo un libro sulla bellezza. Docente, progettista di fama, teorico, tra i suoi tantissimi lavori figura la Casa Papanice sulla quale sono stati lanciati vari allarmi e la Chiesa della Sacra Famiglia di Salerno. Nella moschea di Roma ha fatto coincidere il sogno con l'idea stessa di un'architettura realizzabile.

Superata l’idea materialistica della storia, Portoghesi si prese a modello Robespierre, il quale raccontava come la Rivoluzione francese fosse stata un modo per riportare in vita l’antica Roma. Dissodando come un minatore l’intero percorso della storia, nel 1971, al Politecnico di Milano, si servì del metodo dialettico di Benjamin nelle lezioni di storia e sperimentò, anziché la cronologia, un sistema genealogico basato sulle vite parallele: Borromini con Frank Lloyd Wright, Mies van der Rohe insieme al tempio greco, Louis Khan insieme al classicismo settecentesco, gotico e architettura del ferro... Il metodo di Portoghesi, però, non è fu Palladio in Alva Aalto ma Alvar Aalto in Palladio, dall’oggi allo ieri.

La genealogia è un compito dell’uomo moderno ed un modo attraverso il quale lo storico diventa anche politico poiché disvela un piano operativo dell’arte. La modernità è sempre un processo di ribellione e la storia nasconde sempre risvolti che si trovano “con il balzo di tigre” citato da Benjamin. La genealogia non è cronologia e costringe alla oscillazione tra i campi. L’Angelo della storia di Benjamin è qualcosa di più tangibile attraverso l'architettura, qualcosa che rimane tra noi per un po' di tempo. 

L’Angelus Novus di Klee pare allontanarsi da qualcosa, ha gli occhi spalancati cammina in avanti, fuggendo dalla storia in cui non vede una successione di eventi di rischiaramento ma una catastrofica rovina. Vorrebbe trattenersi e resuscitare i morti di quella rovina, ma un forte vento non gli permette di chiudere le ali. E deve avanzare. E questa tempesta lo spinge verso il futuro, verso quello che chiamiamo progresso, ciò da cui ci avviciniamo involontariamente perché memoria e amore convivono e chi non ha memoria non ama.

In tanti anni di carriera, con una personalità poliedrica, Portoghesi ha svolto impegni che hanno spaziato dal lavoro storico-critico alla progettazione, dall'insegnamento universitario alle cariche istituzionali come nel 1979 direttore architettura della Biennale di Venezia della quale poi è stato presidente dal 1983 al 1993.

“La strada novissima” presentata alla Prima Biennale di Architettura del 1980 intitolata La Presenza del Passato fu una esperienza collettiva da lui orchestrata e rispondeva alla volontà di proporre una riflessione sul tema della strada urbana attraverso un percorso di 70 metri, dieci facciate di case per lato, a grandezza naturale, progettate da Frank O. Gehry, Rem Koolhaas, Hans Hollein, Franco Purini, Arata Isozaki, Robert Venturi, Ricardo Bofill, GRAU. Seguì il Postmodern che ci liberò dal Movimento Moderno più engagé.

Estratto dell'articolo di repubblica.it il 29 maggio 2023.

Addio a Isa Barzizza. L'attrice è morta a 93 anni a Palau, in provincia di Sassari. Aveva iniziato giovanissima la sua carriera in teatro e nel varietà e fu ironica spalla e musa di Totò in numerosi film (tra cui Un turco napoletano, Totò cerca pace, Totò al Giro d'Italia). [...] 

L'annuncio della scomparsa è stato dato su Facebook da don Paolo Pala, parroco di Palau dove l'attrice si era trasferita da più di 40 anni. 

Era nata a Sanremo (Imperia) il 22 novembre 1929, figlia del compositore e direttore d'orchestra Pippo Barzizza e Tatina Salesi, Luisita "Isa" esordì giovanissima a teatro con la compagnia di Ruggero Ruggeri e poi con quella dei fratelli De Filippo. Subito dopo la seconda guerra mondiale si affermò come una delle soubrette più amate del teatro di rivista, stella di punta negli spettacoli firmati da Erminio Macario e Remigio Paone. 

Sposata con il regista Carlo Alberto Chiesa […]

Non ancora trentenne l'attrice si allontanò dal mondo dello spettacolo e in seguito divenne direttrice di doppiaggio. Tornò al cinema grazie a Ettore Scola che la volle nel film C'eravamo tanto amati. Per Rai 3 condusse Mai dire mai nel 1989 con Fabio Fazio e Giampiero Mughini e partecipò alle due serie della fiction di Rai Uno Non lasciamoci più (1999 e 2001).

Nel 2012 nel film Viva l'Italia [...] La sua ultima apparizione a cinema è stata dieci anni fa in Indovina chi viene a Natale? di Fausto Brizzi.

Marco Giusti per Dagospia il 31 maggio 2023.

Non abbiamo davvero idea di quale divinità fosse, neanche ventenne, Isa Barzizza divisa tra cinema e varietà in un’Italia che iniziava a uscire dalla guerra e finalmente a ridere. Totò la incorona per sempre nella celebre scena del wagon-lit già nella rivista 

“C’era una volta il mondo” nel 1948, e quattro anni dopo i due ripetono la stessa scena nel primo film italiano a colori, “Totò a colori”. Fanno ridere i battibecchi con l’onorevole Trombetta, ma gli spettatori hanno gli occhi fissati sulle gambe affusolate di Isa Barzizza. I giornalisti riportano che non è stato necessario cambiare nulla a Isa, né colori dei capelli, né tonalità della pelle, per le riprese a colori.

Per lanciare in America “Dove sta Zazà” con Nino Taranto e Isa nel ruolo di Zazà, sui giornali d’oltre Oceano si scrive “”Italy’s most beautiful girl in her first strip tease”. A quel punto la Barzizza è una star di prima grandezza, un’attrice che guadagna 16 milioni di lire all’anno. Un manager teatrale importante come Paone, le chiede 154 milioni di lire per la rottura di contratto. Una notizia che finisce per giorni in prima pagina. Ha detto di essere malata e invece gira un film alla Farnesina.

Giuseppe Marotta insorge a difesa dell’attrice “più gentile d’Italia”, che non può essere chiusa a chiave da un impresario per nove anni. E’ un patrimonio nazionale. Alla fine si metteranno d’accordo e Isa Barzizza apparirà nel varietà “Gran Baldoria” assieme a Elsa Merlini e Enrico Viarisio al Teatro Nuovo di Milano, con un pubblico che viene da ogni parte d’Italia solo per vedere lei e le sue gambe. Orio Vergani, che è pazzo di lei, la definisce sulle pagine del Corriere, “un fiore da vetrina, Boucher e Fragonard se la sarebbero certamente contesa come modella”. Nel film “Milano miliardaria” di Steno e Marchesi, tra le tifoserie milaniste e napoletano si scommette di tutto.

Tino Scotti, meglio noto come il Cavaliere, scommette sua moglie, la bellissima Isa Barzizza, col napoletano Dante Maggio se il Napoli vincerà sul Milan. Altri tempi. Figlio di un maestro amatissimo come Pippo Barzizza, di una bellezza elegante, bionda, scoperta quindicenne da Erminio Macario nel 1947 con “Le educande di San Babila” e “Follie d’Amleto”, poi passata al Totò di “C’era una volta il mondo e “Bada che ti mangio”, Isa Barzizza non ha il tempo di diventare davvero una soubrette che è già una star del nostro cinema. Gira una ventina di film in quattro-cinque anni.

Tutti con i più grandi comici del momento. “I due orfanelli” con Totò, il già citato “Dove sta Zazà” con Nino Taranto, “Totò al Giro d’Italia” con Totò, ma anche con Coppi e Bartali. Ne “I pompieri di Viggiù” la troviamo a fianco di Totò che fa il manichino e poi si finge pazzo di fronte al marito geloso. Quando Totò accetterà il duello con l’Onorevole Mazza che si lamenta delle battute satiriche sulla politica nei varietà di Totò, proprio Totò si porterà dietro come secondi due grandi soubrette del tempo, Isa Barzizza e Elena Giusti.

 Ma il duello con l’Onorevole Mazza diventerà un numero comico, pronto a essere ripreso nella scena del wagon-lit con l’Onorevole Trombetta. Ma mi faccia il piacere… In “Adamo ed Eva” di Mattoli non può che essere Eva e Macario è Adamo. A Isa regalai un manifesto stupendo del film, quando abitava ancora a Roma. Ma aveva un rapporto particolare con i suoi spettacoli e i suoi film, come se li avesse fatti un’altra Barzizza. Poi incontra Dapporto in “Il vedovo allegro”, Walter Chiari in “L’inafferabile 12”, torna con Totò in “Figaro qua, Figaro là”.

E, ancora, “Sette ore di guai”, “Il mago per forza” con Tino Scotti, “Era lui, sì sì”. In “Porca miseria” di Giorgio Bianchi con Carlo Croccolo il critico del Corriere si lamenta che non si vedono le celebri gambe di Isa Barzizza. E’ bella, ma non è Sofia Loren. E’ una ragazza di classe, istruita, ha fatto il Liceo Gioberti a Torino, è figlia di una stella dello spettacolo italiano, di un grande innovatore, non corrono voci maligne su di lei. E lei stessa, molti anni dopo, dirà che nessun produttore o regista o capocomico l’ha mai importunata sul set.

La definiscono rosea, gentile. Quando nel 1953, nel pieno del suo successo, si sposerà con Carlo Alberto Chiesa, il direttore del telegiornale della Rai, sceglierà un orario assurdo, le 5 e tre quarti di mattina, nella chiesetta di Monte Mario a Roma, per non farsi fotografare da nessuno. Profilo basso. La porterà all’altare suo padre, amatissimo. I due avranno una figlia, e già nel 1955 Isa non girerà più nulla. Quando, in un brutto incidente d’auto sull’Aurelia, il marito Carlo Alberto Chiesa perderà la vita nel 1960, Isa Barzizza prenderà la decisione di lasciare cinema e teatro, lasciandosi solo il doppiaggio.

 Quando tornerà negli anni ’70 non sarà più la Isa Barzizza che faceva impazzire il pubblico italiano del dopoguerra, la soubrette giovanissima che poteva stare a fianco di Totò, Macario, Viarisio, Dapporto, Chiari, senza mai perdere la sua eleganza naturale. Nelle varie volte che l’ho intervistata sembrava che avesse fatto tutti i film e gli spettacoli che aveva fatto senza grande sforzo. Il mondo dello spettacolo italiano allora era una grande famiglia, tutti erano gentili. Sembrava non avere grandi aneddoti da raccontare, erano rapporti di lavoro molto professionali. E del resto era così giovane. Ma quando la invitai a parlare di Totò in una serata di Rai Due a Napoli con Renzo Arbore, Serena Rossi, Carlo Croccolo, già vederla sul palco con De Luca era uno spettacolo.  

Addio Isa Barzizza, attrice simbolo del cinema italiano. Il Quotidiano del Sud il 29 Maggio 2023 su La Gazzetta del Mezzogiorno.

Lutto nel mondo del cinema. E’ morta all’età di 93 anni Isa Barzizza, attrice e interprete della rivista, del cinema e della televisione, fin dalle prime trasmissioni sperimentali, celebre spalla di Totò e figlia del musicista Pippo Barzizza. A comunicare il decesso don Paolo Pala, parroco di Palau, sul proprio account Facebook.

“Comunico che è venuta a mancare la nostra compaesana acquisita, cittadina onoraria di Palau, Isa Barzizza. Alla figlia Carlotta, al genero Gigi, ai nipoti Martino e Nicola vadano le nostre più affettuose condoglianze. Isa è stata una protagonista dello spettacolo e del cinema. Il funerale sarà celebrato domani pomeriggio alle ore 17 nella chiesa del Redentore”, ha scritto don Paolo.

Nata a Sanremo (Imperia) il 22 novembre 1929, dopo aver terminato gli studi liceali, fu lanciata nel mondo del teatro da Erminio Macario. Debuttò con ‘Le educande di San Babila’ del 1947, seguita poi da ‘Follie’ di Amleto del 1947-48 diventando per la sua spigliata ironia, una delle beniamine del teatro leggero e musicale del dopoguerra italiano. Il suo secondo padrino fu Totò. In campo teatrale interpretò con l’artista napoletano due spettacoli, ‘C’era una volta il mondo’ (1948) e ‘Bada che ti mangio’ (1949). La Barzizza con Totò debuttò anche al cinema nel film ‘I due orfanelli’ del 1947 e realizzò con lui 11 film, tra cui Fifa e Arena e I pompieri di viggiù.

Spalla dei principali comici italiani, il suo unico ruolo da protagonista lo ebbe in ‘Viva la rivista!’ del 1953, Si cimentò anche nel teatro di prosa recitando William Shakespeare ne La dodicesima notte per la regia di Renato Castellani. Il 3 gennaio 1954, giorno d’inizio dei programmi ufficiali della televisione italiana, la Rai trasmise l’atto unico di Carlo Goldoni ‘Osteria della posta’ nel quale Barzizza era l’attrice protagonista.

Interruppe la carriera a soli 31 anni, nel 1960, in seguito alla morte del marito, il regista televisivo Carlo Alberto Chiesa, deceduto in un incidente stradale. Tornò a teatro solo nei primi anni Novanta, di nuovo in commedie come ‘La pulce nell’orecchio’ per la regia di Gigi Proietti, o ‘Arsenico e vecchi merletti’, di Joseph Kesselring, per la regia di Mario Monicelli. Nello stesso periodo è tornata a lavorare anche al cinema e in televisione. Condusse per Rai3 il rotocalco ‘Mai dire mai’ nel 1989 con Fabio Fazio e Giampiero Mughini e ha partecipato alle due serie della fiction di Rai 1 ‘Non lasciamoci più ‘(1999 e 2001). Nel 2012 il ritorno al cinema interpretando Marisa nel film ‘Viva l’Italia’.

La qualità dell'informazione è un bene assoluto, che richiede impegno, dedizione, sacrificio. Il Quotidiano del Sud è il prodotto di questo tipo di lavoro corale che ci assorbe ogni giorno con il massimo di passione e di competenza possibili.

Aveva 93 anni. È morta l’attrice Isa Barzizza, soubrette della rivista e spalla di Totò. Donna di spettacolo che ha segnato un'epoca. Lavorò con Macario, Nino Taranto, Garinei e Giovannini, Ettore Scola, Walter Chiari e Carlo Dapporto. Redazione Web su L'Unità il 29 Maggio 2023 

Per tanti era una delle spalle naturali di Totò, spalla comica quando ancora non era abituale che fosse una donna a ricoprire quel ruolo. Isa Barzizza è morta a Palau, in provincia di Sassari, dove viveva da oltre 40 anni. Aveva 93 anni. A dare la notizia don Paolo Pala, parroco di Palau. “Comunico che è venuta a mancare la nostra compaesana acquisita, cittadina onoraria di Palau. Alla figlia Carlotta, al genero Gigi, ai nipoti Martino e Nicola vadano le nostre più affettuose condoglianze”.

Barzizza aveva recitato con grandi e grandissimi come Carlo Campanini, Nino Taranto, Walter Chiari e Carlo Dapporto. Era nata a Sanremo nel 1929. Da bambina aveva vissuto la Seconda Guerra Mondiale. Quando la famiglia viveva a Torino venne soccorsa da un amico del padre e trasferita a Sanremo. Il padre era Pippo Barzizza, compositore e direttore d’orchestra che aveva la passione di riprendere tutto con una telecamera. Non esaltato dall’idea della figlia attrice.

Barzizza aveva cominciato quando durante la guerra c’era bisogno di una bambina a teatro e chiamavano lei. A otto anni iniziò con Eduardo De Filippo. “Diceva che un attore non deve sentire lui le emozioni che esprime, non si deve emozionare, deve essere capace di emozionare gli altri”, aveva raccontato in una lunga intervista a Serena Bortone nella trasmissione Rai Oggi è un altro giorno nell’estate scorsa. Il salto di qualità con il re della rivista, Macario, quando aveva 17 anni. Divenne in pochissimo una diva, una soubrette capace di segnare anche il cambio di passo della presenza di una donna in scena con la sua fisicità e sensualità.

Con Totò recitò in due spettacoli di grande successo, C’era una volta il mondo e Bada che ti mangio. Lavorò con Garinei e Giovannini, Renato Castellani ed Ettore Scola in C’eravamo tanto amati. Sposò nel 1953 il regista Alberto Chiesa che morì nel 1960 in un incidente automobilistico. Da quel momento decise di dedicarsi alla figlia Carlotta. “Non è stata una scelta, è stato quello che mi sentivo di fare. Quella era la mia scelta, l’amore per mia figlia”. Tornò come attrice e doppiatrice, nei musical e al cinema. In tutto 55 film, undici al fianco di Totò. Non mancò la televisione con trasmissioni e fiction. Barzizza è morta domenica 28 maggio. I funerali si terranno oggi pomeriggio alle 17:00 nella chiesa del Redentore.

Daniela Zedda, morta la fotografa degli artisti. Il ricordo di Beppe Severgnini: «I suoi ritratti specchi onesti». Storia di Beppe Severgnini su Il Corriere della Sera il 28 maggio 2023.

Se n’è andata Daniela Zedda, fotografa sarda. L’aggettivo non è limitativo: Daniela era una magnifica professionista, nota a livello nazionale e internazionale. Ma la Sardegna era nel suo sguardo, nelle sue immagini, nel suo accento, nel modo in cui liquidava vanità e indecisioni. E trattando con artisti, musicisti e scrittori, ne vedeva parecchie. Anche le mie, devo dire.

Daniela Zedda era dolcemente autoritaria: decideva, di solito per il meglio, e comunicava le sue decisioni. Ci siamo conosciuti a Cagliari in occasione della presentazione di un libro, nel 1992. Mi ha dato appuntamento il mattino dopo alla spiaggia del Poetto. Mare d’inverno e cabine. Mi ha squadrato: «Bello non sei, ma qualcosa possiamo tirar fuori».

Beppe Severgnini in un ritratto di Daniela ZeddaMi è piaciuta dal primo minuto; e poi, quando ho visto le immagini, ancora di più. In quelle foto c’ero io: i suoi ritratti erano specchi onesti. Come lei. Era dolce e polemica. Ci sono grandi fotografi che puntano sull’empatia con il soggetto — Giovanni Gastel, ad esempio. Daniela adottava invece il modello maestra d’asilo, giusta ma inflessibile. Bisognava fidarsi di lei, punto.

In tanti ci siamo fidàti. Musicisti e giornalisti, scrittori e artisti, testate ed editori in Italia e all’estero. Il diamante nel suo curriculum era l’affetto e la stima che suscitava nei corregionali (i sardi non si fanno fregare, e sanno leggere il cuore). Uno scultore rude come Pinuccio Sciola e un artista delicato come Antonio Marras si sono messi nelle sue mani. Basalto e seta, di questo era fatta Daniela.

Se ricordate un mio ritratto, sul Corriere o nel risvolto di un libro, è probabilmente di Daniela Zedda. Ho conosciuto e lavorato con molti fotografi bravi, ma con lei era nato qualcosa di speciale. Ci intendevamo al volo: lavorava in fretta e mi prendeva in giro. Ci incontravano dopo un anno, mi squadrava: «Invecchiato sei. Bene. Domani ti fotografo. Mettiti carino, nei limiti del possibile».

Ogni volta che passavo da Cagliari, la chiamavo, le scrivevo, la invitavo. Daniela Zedda diceva che non dovevo perder tempo con lei, invece era contenta. Le nostre professioni sono promiscue, ma sapeva che ero sincero. Vorrei chiamarla anche stasera, da Santa Teresa di Gallura, in questa bella sera di maggio, e prenderla in giro. Non posso farlo. Devo accontentarmi di ricordare i suoi monosillabi e i suoi scatti, entrambi impeccabili.

Estratto da ilmessaggero.it il 24 maggio 2023

Sheldon Reynolds, talentuoso chitarrista e membro chiave di band funk e soul popolarissime come i The Commodores e gli Earth, Wind & Fire, è morto all'età di 63 anni. La morte di Reynolds è stata annunciata sui social martedì da Philip Bailey, suo ex compagno di band negli Earth, Wind & Fire. 

La morte di Reynolds è stata annunciata sui social media martedì da Philip Bailey, suo ex compagno di band negli Earth, Wind & Fire. «[…] Sheldon è stato un'aggiunta eccellente alla band, un grande scrittore e produttore, e una persona gentile e amorevole. Ci mancherà. Le nostre condoglianze alla sua famiglia».

(ANSA il 24 maggio 2023) - Tina Turner è morta all'età di 83 anni. Lo ha annunciato il suo portavoce, secondo quanto riporta Sky News. "Tina Turner, la Regina del Rock'n Roll, è morta serenamente oggi all'età di 83 anni dopo una lunga malattia nella sua casa di Küsnacht vicino a Zurigo, in Svizzera. Con lei, il mondo perde una leggenda della musica e un modello". (ANSA). 

BIOGRAFIA DI TINA TURNER

Da cinquantamila.it – la storia raccontata da Giorgio Dell’Arti 

Tina Turner, nome d’arte di Anna Mae Bullock, nata a Nutbush, negli Stati Uniti, il 26 novembre 1939 (80 anni). Cantante afroamericana

• «La regina del rock and roll» • «La tigre del rock» • È al diciassettesimo posto della lista dei cento migliori cantanti di sempre secondo la rivista Rolling Stones (2008)

• Dodici premi Grammy. Più di 200 milioni di dischi venduti nel mondo. Dieci album in studio (e due dal vivo) pubblicati tra il 1974 e il 2014. Sei raccolte di canzoni. Quasi un milione e 500 mila seguaci su Spotify (a novembre 2019)

• «Ha costruito la sua prorompente forza espressiva sulla sensualità e l’energia [...] una delle più straordinarie storie della musica pop americana. Una storia segnata da illuminazioni fragorose, momenti bui, rilanci inaspettati. Incredibile a dirsi, da piccola Tina raccoglieva il cotone nelle piantagioni del Tennessee. Difficile immaginare allora un esito così brillante. Sembra un romanzo, la quintessenza del sogno americano, anche se nel suo caso il successo l’ha pagato a caro prezzo» (Gino Castaldo, la Repubblica, 24/10/2004)

• «Una delle vite più esaltanti e sofferte della musica leggera» (Paolo Giordano, il Giornale, 28/12/2017)

• Arrivò al successo grazie al primo marito, il cantante Ike Turner (1931-2007): lui «la prese come corista e poi, cambiandole nome in Tina Turner, la sposò e diede vita a un duo famosissimo di soul e rock con successi come River Deep, Mountain High, A Fool in Love e una cover di Proud Mary che vinse il Grammy. Nel 1976 Tina chiese il divorzio, esasperata dalle continue violenze fisiche di Ike: lasciò a lui tutti i proventi dell’attività artistica, in cambio si tenne soltanto il nome d’arte» (Corriere della Sera, 13/12/2007) 

• «È diventata la cantante più popolare del rock afroamericano degli anni Ottanta, grazie a una voce e a una presenza tra le più aggressive, sexy e ispirate. Ha cantato in coppia con artisti come Mick Jagger (in Live Aid) ed Elton John, Eric Clapton, David Bowie» (Treccani) 

• «La mia vita è la dimostrazione che è possibile trasformare il veleno in medicina».

Vita «A Nutbush, Tennessee, la ragazzina che sarebbe diventata Tina Turner “si divertiva a saltare i fossi di slancio”. Odiava lavorare nei campi di cotone ma, a parte quello, della “minuscola cittadina sulla Strada statale 19 che passava quasi inosservata sulle mappe”, oggi – scrive – non cambierebbe niente» (Paola Piacenza, iO Donna, 20/10/2018)

• È la più piccola di tre sorelle, suo padre è un bracciante nella zona, i suoi nonni sono diaconi di una congregazione battista e lei canta nel coro della chiesa 

• Ha un’infanzia difficile, i suoi cambiano città moltissime volte. Poi, quando lei ha undici anni, sua madre li abbandona; quando ne ha tredici il padre sposa un’altra donna e si traferisce a Detroit

• Anna vive per un po’ con la nonna, a Brownsville, Tennessee, poi con la madre a Saint Louis, in Missouri • «Ho passato la vita a farmi strada in una tempesta di karma negativo. Come ci si sentiva a essere una figlia indesiderata?»

• Dopo la scuola, lavora come assistente al Barnes-Jewish Hospital di Saint Louis

 • «Imbevuta della cultura musicale del sud, nei dintorni di Memphis, perfetto crocevia tra gospel, blues e rhythm and blues, iniziò a cantare da adolescente nei locali della zona» (Castaldo) 

• «Deve il successo a Ike Turner, l’uomo che la scopre, le insegna a perfezionare il canto, le sceglie il nome d’arte, la sposa e la fa diventare solista della sua band, i Kings of Rhythm» (Simona Siri, La Stampa, 26/10/2017) 

• «Sarei stata persa senza di lui a quel punto della mia vita. Voglio dire, avrei potuto fare due cose: lavorare in un ospedale o rimanere nella band di Ike. Non sapevo cosa altro fare. Non conoscevo nessun altro. E volevo cantare» (lei nel 1984)

• «Si conobbero in un Club di St. Louis in Missouri sul finire degli anni ‘50. […] “Pensai fosse molto brutto, ma ero in minoranza, tante donne bianche o nere impazzivano per lui, perché aveva quell’aura pericolosa”. Ma non era solo un’aura, un look. Si rincorrevano già all’epoca voci sul suo caratteraccio, il suo essere violento e manesco. Una sera Tina prese un microfono e salì sul palco. Il duo iniziò così. Prima amici, poi compagni. Nel frattempo lei restò incinta del suo ragazzo, aveva 18 anni, era il ‘58, e il padre scappò via. Rimase single a crescere il piccolo. Dava una mano in ospedale e avrebbe voluto fare l’infermiera. “Ma chi prendevo in giro. Mi piaceva girare nei vestiti alla moda che Ike mi comprava”» (Massimiliano Mattiello, Huffington Post, 9/10/2018)

• Lui, in realtà, ha già una moglie, ma si porta comunque Anna in Messico e, senza aspettare il divorzio, le chiede di sposarlo 

• «“Decise che il nostro matrimonio sarebbe stato a Tijuana e, se mi fossi opposta, avrebbe dato di matto. Non volevo un occhio nero al mio matrimonio”. [Quel giorno] Ike cercava un modo per divertirsi. “Divertirsi alla sua maniera e mi portò in una casa chiusa”. L’evento fu traumatico e lei inventò una versione distorta, diversa e romantica da dare in pasto ai curiosi […] Nel 1960 Tina rimase incinta di Ike. Lui decise di sfruttare il momento e cambiò il nome alla band. Nacquero così Ike and Tina Turner. Lei […] non voleva cambiare il suo nome.

 “Glielo dissi. Fu la prima volta che mi picchiò. Mi colpì in testa con un pezzo di legno, cominciai a piangere”. L’incubo era appena iniziato. “Mi disse di salire sul letto, l’ultima cosa che volevo era fare l’amore, se così possiamo chiamarlo”. Ike si comportava da star, lei si sentiva “una schiava che non era più pagata per le sue esibizioni”. L’unico conforto era ballare con le Letters, coriste e ballerine che seguivano il duo.

Ike controllava tutta la parte musicale, quando Tina provò ad obiettare qualcosa ricevette come risposta uno sputo. Due giorni dopo la nascita del secondo figlio era di nuovo su un palco perché lui aveva deciso così. “Ike era il peggior nemico di se stesso. Da ragazzo aveva visto il padre morire di una morte lenta e dolorosa. Picchiato da alcuni bianchi perché si era messo a fare il cretino con una donna bianca”» (Mattiello) 

 • «Nel giro di pochi anni arrivò il successo, culminato con River deep mountain high (prodotta dal genio del suono Phil Spector) e soprattutto Proud Mary, ma anche l’incubo privato del rapporto con Ike, sempre più violento e disfattista. A quei tempi in scena Tina era un autentico ciclone. I filmati ci restituiscono un corpo scosso da sussulti elettrici, una sensualità incontenibile e una voce che illuminava il buio. Ma la sua vita personale era un inferno. Del suo pigmalione era in qualche modo succube» (Castaldo)

• «Oltre ai Grammy vinti, ai tour e al successo sono gli anni degli abusi, delle botte che Ike, strafatto di cocaina, le dà prima di salire sul palco, degli spettacoli portati avanti nonostante la faccia gonfia e il gusto di sangue che le riempie la gola» (Siri) • «La prima cosa che mi chiesero fu di trovare un modo per procurargli la droga» (il produttore musicale David Zard) 

 • «In un modo perverso i lividi, il naso gonfio, l’occhio nero, il labbro rotto erano i segni della sua proprietà. Un modo per dire: È mia e posso fare quello che voglio» • Lui le versa il caffè addosso, torna a casa ubriaco in compagnia di altre donne. Le rompe la mascella 

• «Allora la violenza domestica non era un problema sentito come oggi. Avevo scoperto che un po’ di trucco, un bel sorriso e qualche passo di danza provocante potevano distrarre il pubblico dalle mie ferite. Se anche i medici ritenevano che mi presentassi in pronto soccorso troppo spesso, che i miei incidenti fossero troppi, non chiesero mai nulla. Probabilmente pensavano che fosse normale per i neri, soprattutto per le coppie sposate, litigare in quel modo» 

• «Ike una volta mi mandò addirittura da uno psicologo. Oh, sì, era proprio un bel tipo. […] Io raccontai tutto. Alla fine della seduta lo psicologo mi disse: “Credo che la persona che devo vedere sia suo marito”» 

 • «Ike aveva sempre una strategia. Arrivò a registrare il marchio Tina Turner, in modo che appartenesse a lui e non a me» 

 • «La personale ribellione di Tina iniziò un giorno del ’68. Ike stava facendo sesso con tre donne, tutte di nome Ann, una era incinta di lui. Prese la decisione di inghiottire 50 sonniferi. 

Secondo i suoi calcoli avrebbero dovuto fare effetto dopo il numero di apertura portandola al suicidio, dice Tina: “Così avrei superato il numero di apertura e Ike sarebbe stato pagato. Ero così ben addestrata che anche il mio suicidio doveva essere conveniente per lui”. Invece le pillole fanno effetto prima e viene portata d’urgenza all’ospedale. Davanti ai medici Ike fece la perfetta scena del marito premuroso. Il giorno dopo, quando Tina si era ormai ripresa, la insultò. “Dovresti morire figlia di pu***na”»

• «Acquistò sicurezza solo quando Ken Russell la chiamò a interpretare la “acid queen” nel film tratto dall’opera rock Tommy. Era un tributo alla sua forza devastante, e quel numero risplende ancora oggi in un film assai discutibile» (Castaldo) 

• «Una volta soltanto lei lo insultò. In una macchina a Dallas. Lo mandò a quel paese […] Ike disse: “Non si era mai rivolta così a me”. “Poi mi gonfiò di botte e disse che avevamo avuto un incidente”. 

 Quella notte Tina scoppiò. Dopo anni di abusi e violenze aspettò che Ike si addormentasse prese una borsa e una sciarpa e fuggì via. Attraversò una statale trafficata, per poco non fu colpita da un camion. Entrò in una locanda con “36 centesimi in tasca, la faccia malconcia e i vestiti sporchi e macchiati di sangue”. Il razzismo a Dallas si fermò quel giorno e il gestore si commosse e la portò in una suite, così si salvò» (Mattiello)

• Due amici le comprarono un biglietto aereo per Los Angeles

 • «Ho passato due mesi a spostarmi dalla casa di un amico a un’altra. Mentre i padroni di casa erano fuori, lavavo i loro appartamenti da cima a fondo. Era il mio modo di creare ordine dal caos e di guadagnarmi il posto in cui stavo. Ike pensava che mi sarei uccisa senza di lui, che sarei tornata da lui gattonando, ma io avevo solo un obiettivo: dimostrare che ce l’avrei fatta senza di lui. Quando non mi sono presentata da lui è stato Ike a venire da me: si è presentato con un gruppo di tirapiedi e io ho chiamato la polizia. A quel punto mi ha spedito i nostri quattro figli e i soldi per il primo mese di affitto. Era come se fosse una sfida. Era come se mi dicesse: “Ci vediamo presto, implorerai la tua vecchia vita”» 

• «Da quella storia uscì destabilizzata e smarrita» (Castaldo)

 • Nella causa di divorzio, lei riesce a ottenere il diritto a usare il suo nome d’arte, ma non l’assegno di mantenimento. Ormai ha 45 anni, sembra che nessuno voglia sentir cantare Tina senza Ike 

 • «Piena di debiti, suona nei bar, fa spettacoli a Las Vegas, registra album di scarso successo Fino all’incontro, grazie a Olivia Newton-John, con il manager Roger Davies»

• Lui la riporta a cantare e inizia la sua seconda vita 

 • «Il mio incontro con David Bowie..., beh, sono sicura che ogni ragazza avrebbe voluto incontrarlo, e lui fece qualcosa per me di molto speciale. In quel tempo era uscito il pezzo Let’s dance, e i dirigenti della Capitol avevano appena firmato il suo nuovo contratto e volevano festeggiare a cena, ma lui disse: ‘no, mi dispiace, ma questa sera andrò a vedere la mia cantante preferita’. E chi è, chiesero loro? ‘Tina Turner rispose Bowie. La Capitol era la mia stessa casa discografica ma loro non erano certi di voler firmare il contratto con me. C’erano dei problemi. […] videro tutto e pensarono: è molto amata, è molto popolare, e tutti questi grandi artisti sono qui per vederla. E così il contratto fu firmato”» (Castaldo)

• «Negli Anni 80 Tina Turner diventa quello che è ancora oggi: una performer straordinaria e una regina rock, genere che le apre le porte a un pubblico più giovane. Private Dancer vince quattro Grammy Awards e il singolo What’s Love Got To Do With It diventa il suo più grande successo, seguito, nel 1985, da We Don’t Need Another Hero che fa parte della colonna sonora del film Mad Max con Mel Gibson e da altri singoli di strepitoso successo come Typical Male e I Don’t Wanna Fight» (Siri) • «David Bowie mi chiamava la fenice che sorge dalle ceneri» 

• Nel 1985 è sul palco del Live Aid con Mick Jagger, che l’aveva conosciuta nel 1969 quando lei e Ike avevano cantato nella sua tournée americana: «Insieme misero in scena una performance indimenticabile, un duetto vertiginoso e sfrontato culminato in una sorta di spogliarello in cui Jagger [le] strappava la gonna di dosso» (Castaldo)

• Nel 1995 canta Goldeneye, scritta da Bono e The Edge, la colonna sonora di un film di 007

 • «Dopo la registrazione Bono si complimentò per come avevo cantato e mi disse: avrei dovuto saperlo, la tua voce equivale a uno strumento» 

• «Decise di concedersi una seconda possibilità: un nuovo amore, Erwin, tedesco, dirigente della Emi, più giovane di lei di 16 anni. Non che la cosa le abbia mai provocato inibizioni… “Una sera in cui eravamo seduti vicini, a un’ennesima cena di lavoro, mi dissi: ‘Non me ne importa niente. Ora glielo chiedo’. 

Lo guardai – era così bello con la camicia Lacoste, i jeans e i mocassini senza calze – e sussurrai: “Erwin, quando verrai in America voglio che tu faccia l’amore con me”. Lui voltò la testa lentamente e mi guardò come se non credesse alle sue orecchie. Neanch’io potevo credere di aver pronunciato sul serio quelle parole! Il suo primo pensiero fu: ‘Però, queste ragazze californiane sono proprio disinibite’. Ma io non ero così. Stentavo a riconoscermi”. Nel 1989, quando la relazione durava già da tre anni, Erwin Bach la chiese in moglie. 

Lei prese tempo, 24 anni… Quando lui glielo chiese di nuovo, accettò, e nel 2013 si sono sposati. “Avevo 73 anni e stavo per diventare una sposa, per la prima volta. Esatto, per la prima volta. Mi chiamo Tina Turner, e sono stata sposata con Ike Turner, ma non sono mai stata una sposa vera e propria”» (Piacenza) • Nel 2009 si ritira dalle scene: «Sono una pensionata» 

 • Si converte «definitivamente» al buddhismo e va a vivere in Svizzera (prende anche la cittadinanza) • «Ho faticato per tutta la vita. Nessuno mi ha mai regalato niente. Dopo tanti anni di duro lavoro, e dopo tante sofferenze, francamente non vedevo l’ora di vivere nel momento, con mio marito Erwin (Bach), di potermi svegliare ogni mattina con tranquillità, senza pensieri, bisogni o progetti. Ho raggiunto il mio nirvana, pensai. 

Quello stato di felicità assoluta, senza più desideri, è un luogo meraviglioso. Tre mesi dopo, all’improvviso mi svegliai terrorizzata. […] Un fulmine mi aveva colpito la testa e la gamba destra - o almeno così mi sembrava - e avevo una strana sensazione alla bocca, che mi impediva di chiedere aiuto a Erwin»

• Ha un ictus e deve fare mesi di riabilitazione per imparare a camminare di nuovo

• Nel 2016 le scoprono un cancro all’intestino, lei vuole curarsi con metodi omeopatici che le causano un’insufficienza renale

• Dice di aver pensato al suicidio assistito, poi il nuovo marito si offre di donarle un rene

• Come se non bastasse, nel 2018 suo figlio Craig si suicida, sparandosi un colpo di arma da fuoco nella propria casa in California

• «Craig era uno spirito tormentato. Lo rivedo ancora da piccolo, a due o tre anni, quando desiderava tanto sedersi in braccio a me al mio ritorno dai tour, ma Ike lo mandava in camera sua. Sono certa che nella sua testolina non trovava le parole per spiegare quanto voleva la sua mamma, o la solitudine che provava»

• «Dopo la morte di Craig […] per la cantante è stato un momento molto difficile […], “mi sono convinta che la morte fosse la mia unica via d’uscita” ma oggi che vive in una casa sul lago di Zurigo ammette “sono così serena. Ho avuto una vita molto dura. Ma non ho messo la colpa su niente e nessuno”» (Paolo Travisi, Il Messaggero, 2/7/2019)

• «Sarò onesta con voi. Sicuramente sto cercando di essere onesta con me stessa». 

Figli Craig Raymond Turner (1958-2018), avuto dal sassofonista Raymond Hill, poi adottato da Ike Turner; Ronald Turner (n. 1960), avuto da Ike; ha poi adottato due figli del primo marito, Ike Turner Junior (n. 1958) e Michael Turner (n. 1960), crescendoli come propri. 

Giudizi «Quando balli con Tina, ti guarda negli occhi» (David Bowie)

 • «Le voglio ancora bene e sicuramente anche lei me ne vuole ancora, visto che continua a parlare tanto di me. E poi ha tenuto il mio nome, Turner, non l’ha cambiato, se per lei ero davvero così cattivo avrebbe dovuto cambiare il suo nome in Tina ‘qualcos’altro’. Ma ho altro in mente, io, grande musica, concerti, dischi. Magari anche un film, che racconti la mia vita dal mio punto di vista. Spero di riuscire a farlo, un giorno o l’altro» (Ike Turner nel 1993).

Buddismo «La meditazione mi ha aiutato a diventare più forte e più sei forte, più eviti di prendere decisioni sbagliate. In ogni caso, non ci crede nessuno ma ho impiegato solo tre giorni a rispondere a tutte le domande sulla mia vita». 

Curiosità È alta 1 metro e 63 e pesa 58 chili

 • Il suo idolo è Jacqueline Kennedy

• Ha insegnato lei a ballare a Mick Jagger

• Per ottenere la cittadinanza elvetica ha dovuto studiare l’Hochdeutsch, l’alto tedesco che si parla in Svizzera

 • «Non mi piace separare la mia vita da cantante rock dalla mia vita spirituale. La preghiera è sempre stata con me. Rossetto rosso e minigonna mi sono stati utili per costruirmi un personaggio. Credo di aver fatto un buon lavoro come “cantante rock”. Ma questo non sarebbe stato possibile senza il mio lato spirituale» (Laura Berlinghieri, Amica, 17/4/2018)

 • Tutti le mattine recita il Nam-myoho-renge-kyo, una litania buddista: lo faceva anche quando era in tournée. «Di questi tempi svolgo la mia pratica mattutina per iniziare bene la giornata e poi, visto che sono felicemente in pensione, a volte posso concedermi il lusso di ritornare a dormire!»

 • Nel 2008, in Svizzera ha incontrato il Dalai Lama, ma dice ancora il Padre Nostro

• «Cosa pensa degli scandali a sfondo sessuale che stanno riempiendo le cronache internazionali? Darebbe un consiglio alle giovani per non piegarsi agli abusi maschilisti? “Preferirei non rispondere a queste domande”» (Cristiano Sanna, Tiscali)

• «Ricevo lettere e cartoline, persone che mi scrivono dicendomi che gli dò forza: è un’eredità che sento di dover trasmettere»

 • «A chiunque abbia una relazione violenta dico questo: Se ti alzi e parti, se ti alzi dalle ceneri, la vita si aprirà di nuovo per te»

È morta Tina Turner, aveva 83 anni: «Perdita enorme». Storia di Andrea Laffranchi su Il Corriere della Sera il 24 maggio 2023.

Se il rock non è solo un affare per uomini è merito di Tina Turner: la sua presenza elettrizzante sul palco, la sua acconciatura leonina, una voce che graffiava e le gambe diventate un simbolo di eleganza e provocazione tanto che lei arrivò a dire che era famosa tanto per l’una che per le altre, l’hanno resa una delle regine della musica. «Serenamente» e «dopo una lunga malattia» — come ha fatto sapere il suo portavoce — la star è morta ieri a Küsnacht, in Svizzera, il Paese dove risiedeva da tempo. Aveva 83 anni.

Nata Anna Mae Bullock nel 1939 a Brownsville, nel Tennessee, Tina è stata una delle protagoniste assolute della musica degli anni Ottanta e Novanta, ma i suoi primi successi risalgono agli anni Sessanta, quando divenne una stella dell’r&b in coppia con il marito Ike. Proprio con lui, nei Kings of Rhythm, aveva iniziato da ragazzina e presto aveva scalato sia il cuore del leader che i ruoli nel gruppo, tanto che la band presto divenne Ike and Tina Turner Revue.

Nella seconda metà degli anni Sessanta arrivò la popolarità internazionale, grazie anche al supporto dei Rolling Stones che chiamarono Ike e Tina ad aprire alcuni show e a hit come «River Deep Mountain High» e «Proud Mary», una cover fra soul e rock dei Creedence Clearwater Revival. La vita privata di Ike e Tina non ebbe però lo stesso successo. Gli eccessi di lui trasformarono la relazione in un incubo al punto che lei, confessò nell’autobiografia I, Tina, tentò pure il suicidio. Ike, complice un’eccessiva confidenza con la cocaina, era un violento e spesso abusò, fisicamente e psicologicamente, della compagna. Tina trovò la forza di andarsene — con uno spirito in anticipo sui tempi — e nel 1978 ottenne il divorzio.

Andò avanti da sola. I suoi album da solista non arrivavano in classifica, le venue dei tour si restringevano e nel 1979 addirittura finì in Italia a fare l’ospite fissa di Luna park di Pippo Baudo. Era tutto da ricostruire. Bisognava solo aspettare l’occasione giusta. Che arrivò quando Tina aveva 45 anni, età in cui le carriere di molti — figuriamoci quella di una donna con una fisicità così evidente — si trascinano sull’onda della nostalgia. Un duetto con Bowie su «Tonight» che convinse la casa discografica a puntare tutto su di lei. E a ragione. Il suo album «Private Dancer», uscito nel 1984 e trascinato da «What’s Love Got to Do with It», vendette 10 milioni di copie nel mondo e vinse 3 Grammy.

Il suo era pop che aveva l’energia e l’intensità del rock e la sensualità del soul e dell’r&b. Hollywood la chiamò per recitare in Mad Max a fianco di Mel Gibson: sexy, afroamericana e aggressiva. Non era cosa comune. La sua performance incendiaria al benefico Live Aid del 1985 con Mick Jagger che le strappò la gonna oggi sarebbe virale sui social, ma anche allora fece il giro del mondo.

Capace di entrare in pezzi tagliati su misura per lei («Typical Male») e forte di un timbro che metteva qualcosa di personale anche nelle reinterpretazioni di successi di altri («The Best» di Bonnie Tyler ad esempio), le azzeccava tutte. I suoi tour divennero kolossal da record di incasso, più ricchi di quelli degli amici Stones. La volevano tutti. Eros Ramazzotti, al massimo della popolarità internazionale, duettò con lei nel 1997 su «Cose della vita». «È stata per tutti noi un simbolo sotto ogni forma, artistica e umana. Ti sarò sempre riconoscente», l’ha ricordata con queste parole che accompagnano un video pieno di dolcezza e malinconia. Anche Elisa collaborò con lei nel 2006 in «Teach Me Again».

Intanto, nel 2000, ancora nel pieno della forma e sempre con le gambe più belle del rock, aveva annunciato il ritiro dai palchi. Si era trasferita sul lago di Zurigo dove si sposò nel 2013 dopo relazione trentennale con Erwin Bach, un suo ex discografico. Il suicidio del figlio Craig, un tumore all’intestino e un trapianto di rene (donato dal marito) hanno segnato gli ultimi anni della vita di una protagonista della storia della musica: ancora i graffi della vita, profondi come quelli che lei lasciava sulle canzoni.

'Simply the best', addio a Tina Turner. La 'regina del rock' aveva 83 anni. Tiziano Toniutti su La Repubblica il 24 Maggio 2023 

La cantante si è spenta dopo una lunga malattia. È diventata una superstar a 40 anni dopo la rottura con il marito Ike

È morta Tina Turner. La cantante aveva 83 anni, ad annunciarlo è stato il suo portavoce: "Tina Turner, la regina del rock'n roll, è morta serenamente oggi all'età di 83 anni dopo una lunga malattia nella sua casa di Küsnacht vicino a Zurigo, in Svizzera. Con lei, il mondo perde una leggenda della musica e un modello". La Casa Bianca ha commentato la morte dell'artista: "Una notizia incredibilmente triste, è una perdita enorme per tutti quelli che la amavano".

Tra i suoi successi, (Simply) the best  e Nutbush City limits, e gli altri insieme al marito Ike Turner, con cui ha collaborato per diversi album. L'esplosione della sua carriera solista è avvenuta negli anni Ottanta, con brani che hanno segnato un'epoca come We don't need another hero, colonna sonora di Mad Max, o la bellissima Private Dancer, scritta da Mark Knopfler e che le porterà quattro Grammy. Grande voce soul dal graffio sempre espressivo e mai forzato e dalla potenza immediatamente riconoscibile, Tina Turner è riuscita a rialzarsi dopo la fine della relazione devastante con Ike, che l'aveva lasciata in dissesto finanziario e psicofisico. E rinasce quindi come l'araba fenice, così la vedeva David Bowie, tornando di nuovo a volare risorgendo dalla sua distruzione. Dopo aver recuperato il suo nome, che Ike le aveva portato via depositandolo a nome proprio come marchio registrato, ad aspettare Tina Turner nel suo viaggio c'era una nuova vita, sotto i riflettori accesi, dopo il buio e le violenze degli anni precedenti.

Così Turner, nome vero Anna Mae Bullock, diventa una superstar internazionale a 40 anni. Vende più di 150 milioni di dischi in tutto il mondo, vince 11 Grammy, è entrata insieme a Ike nella Rock and Roll Hall of Fame nel 1991 (e da sola nel 2021) ed è stata premiata al Kennedy Center nel 2005. E' stata la Acid Queen nella versione cinematografica dell'opera rock degli Who Tommy, in cui introduce il protagonista ai viaggi lisergici. Partendo dal Tennessee ha attraversato il soul, il rhythm and blues e il pop rock con un talento naturale espresso nei dischi ma soprattutto sul palco, in una rinascita artistica parallela a quella personale. 

Oltre ai brani originali, ha realizzato cover di alto livello come Proud Mary dei CCR e Let's stay together di Al Green. Anche nelle espressioni più pop, Tina Turner non ha mai perso la caratura della grande artista. La vita non le ha risparmiato altri dolori: l'ictus prima e la scoperta del cancro, e il suicidio del figlio Craig. Ma è una vita che è diventata anche un film, un musical di Broadway e un documentario della Hbo nel 2021, quello con cui ha preso commiato dal suo pubblico.  Che nel giorno dell'addio la saluta con migliaia di post e tweet tra persone comuni ed artisti.

E’ morta Tina Turner, aveva 83 anni: “Il mondo perde una leggenda della musica”. Rossella Grasso su L'Unità il 24 Maggio 2023

Tina Turner è morta all’età di 83 anni. Lo ha annunciato il suo portavoce, secondo quanto riporta Sky News. “Tina Turner, la Regina del Rock’n Roll, è morta serenamente oggi all’età di 83 anni dopo una lunga malattia nella sua casa di Küsnacht vicino a Zurigo, in Svizzera. Con lei, il mondo perde una leggenda della musica e un modello”.

Pochi artisti al mondo sono stati icone indiscusse attraverso i decenni e le generazioni come Tina Turner. Una carriera lunga più di mezzo secolo, “regina del rock” dagli anni 60 ai duemila. Voce potente dalla presenza scenica straordinaria, Tina Turner è stata un esempio per le generazioni di artisti. Nella sua autenticità, la sua influenza e il suo impatto sulla cultura pop sono indiscutibili. Una vera e propria leggenda.

I suoi brani diventati immortali sono stati la colonna sonora dei momenti più belli della vita di tanti. Brani come “(Simply) the best”, “We don’t need another hero” e “Nutbush City limits”, e gli altri insieme al marito Ike Turner. Nel 2008 aveva annunciato il suo ritiro dalle tournee ma ha continuato a lavorare su progetti musicali e cinematografici. Poi la triste notizia della sua morte a 83 anni.

Nata in Tennesee il 26 novembre 1939, ha avuto una carriera straordinaria. Nel 1991 è stata inserita assieme all’ex marito Ike Turner nella Rock and Roll Hall of Fame, e nel 1967 è diventata la prima artista afrostatunitense e la prima donna ad apparire sulla copertina della rivista Rolling Stone. Nel 1986 ha ricevuto una stella sulla Hollywood Walk of Fame. E’ proprio con Ike che i due raggiungono le vette del successo tra gli anni ’60 e ’70 con il duo Ike & Tina Turner, con il quale ha inciso singoli di fama internazionale come It’s Gonna Work Out Fine, River Deep – Mountain High, Nutbush City Limits e, in particolare, la celebre cover di Proud Mary dei Creedence Clearwater Revival.

I due divorzieranno professionalmente e sentimentalmente nel 1976 a seguito di un rapporto diventato ormai burrascoso. Durante gli anni ottanta ritorna al grande successo internazionale con l’album Private Dancer del 1984, certificato platino in vari paesi con milioni di copie vendute e la hit What’s Love Got to Do with It che diventa il suo unico primo posto nella U.S. Billboard Hot 100. Nel 1999 pubblica il suo ultimo album Twenty Four Seven mentre al termine del Tina!: 50th Anniversary Tour nel 2009 si ritira dalle scene pubbliche.

Ha ricevuto 12 Grammy Awards di cui otto competitivi e quattro onorari, oltre a tre Grammy Hall of Fame e un Grammy Lifetime Achievement Award. Con oltre 100 milioni di copie vendute in tutto il mondo, la Turner è una delle artiste di maggior successo nella storia della musica contemporanea. Nel 1993 è stato realizzato Tina – What’s Love Got to Do with It, un film biografico sulla sua vita, adattato dalla sua omonima autobiografia. La Turner ha raccolto consensi anche come attrice, recitando nei film Tommy (1975), Mad Max oltre la sfera del tuono (1985) e Last Action Hero – L’ultimo grande eroe (1993).

E’ morta in Svizzera dove viveva da molti anni con il compagno Erwin Bach nel paesino di Küsnacht, nei pressi di Zurigo, e per questo motivo aveva anche ricevuto la cittadinanza elvetica. Turner ha rivelato nel suo libro di memorie del 2018 Tina Turner: My Love Story di avere sofferto di malattie potenzialmente letali. Nel 2013 dopo il matrimonio con Bach, ha avuto un ictus e ha dovuto affrontare un lungo periodo di riabilitazione per ritornare a camminare. Nel 2016 le è stato diagnosticato un cancro intestinale. Numerosi i dolori affrontati tra cui la perdita di due figli. Una vita incredibile, una voce, che continuerà a vibrare nell’anima di tutti. Rossella Grasso

Estratto dell'articolo di Marinella Venegoni per “la Stampa” il 25 maggio 2023.

La diva. L'unica autentica diva nera del rock e r'n'b dei tempi ruggenti. Rispettata e ammirata e invitata dal parterre del rock più maschilista: dai Rolling Stones a Rod Stewart o Eric Clapton, tutti l'hanno trattata come loro pari e invitata a duettare; non si ricordano altri casi del genere, anche se poi tante volte da sola è riuscita, sui palchi di mezzo mondo, ad esibire una grinta che valeva per quattro. 

La regina, sexy e scatenata. E l'unica, anche, a non esser morta giovane dopo una vita sregolata: Tina Turner se n'è andata ieri a 83 anni a Zurigo, dopo una lunga malattia e con accanto il secondo marito, il discografico tedesco Erwin Bach, del quale scrisse nella sua autobiografia, «Mi ha fatto il regalo della vita stessa». Vivevano insieme in Svizzera dai secondi Anni 80 ma si erano sposati nel 2013: lui le aveva donato un rene nel 2017, in uno dei tanti delicati momenti che hanno costellato l'ultima parte dell'esistenza della star, funestata da vari problemi di salute; un ictus, appunto l'insufficienza renale, un cancro.

(…)

Che fosse destinata a diventare una regina, si capì da subito con pezzi come la celeberrima Proud Mary dei Creedence Clearwater, Nutbush City Limits, River Deep Mountain High: la sua voce era ruggente, fisico e gambe meravigliose, una forza della natura alla quale era difficile resistere. Nel ‘75, aveva recitato in Tommy di Ken Russell. Eppure furono proprio quelli con Ike anni durissimi per le violenze casalinghe, finché Tina se ne scappò via lasciandosi tutto alle spalle, ricominciando quasi da capo come solista in un ambiente mai generoso con le donne soprattutto sole.

Passo dopo passo, con l'aiuto del manager Roger Davies, rifiorita anche nel look con un'eleganza molto rock e una pettinatura molto copiata, ricostruì da capo dal 1980 la sua carriera in una chiave più popolare, con cover e pezzi che lasciavano il segno: Private Dancer fu il primo album a vendere milioni di copie, ma i dischi tenevano dietro a imperdibili concerti nei quali esibiva grinta e canzoni dinamiche, con balletti che la coinvolgevano e singoli che si appiccicavano alle orecchie: We don't need another hero colonna sonora di Mad Max oltre la sfera del suono nell'85 dove ebbe una parte, Break Every Rule come album ebbe una montagna di date quando girò in tour, e a Rio entrò nel Guinness per 180 mila spettatori. Nel 1993 duettò perfino con Eros Ramazzotti in una sensuale Le cose della vita.

Mai nessuna aveva osato tanto, ma era la sua natura che prendeva il sopravvento e i rockettari stavano a guardare e imparavano: Mick Jagger confessò di aver preso da lei il modo di stare in scena. Era ammirata, fu a lungo e forse ancora oggi senza rivali: va detto che solo occasionalmente il mondo del giornalismo musicale (sessista quanto i rockettari) le diede lo spazio che avrebbe meritato, e la sua bravura finì sempre in secondo piano rispetto alle disavventure che ne avevano segnato la vita, sorte tipica delle star femmine.

Ha venduto in tutto più di 200 milioni di dischi, e "Foreign Affaires" è stato il primo tour di una donna negli stadi, un tour dell'addio che nei primi ‘90 tagliò fuori gli Stati Uniti, come a rimarcare la distanza verso la sua vita passata. Successo strepitoso pure lì. In carriera ha vinto 12 Grammy Awards, 7 premi Billboard, la rivista Rolling Stone l'ha messa al posto n. 17 fra i cantanti migliori di sempre. Ma quando dopo il tour d'addio si rifugiò finalmente in Svizzera, a trovare un po' di pace accanto al marito, chi la conosceva bene pensò che aveva trovato il riconoscimento più adatto.

Estratto dell’articolo di Matteo Persivale, apparso su «Sette» ad aprile 2021

«Vivevo una vita fatta di morte». La voce di Tina Turner arriva dal passato remoto della sua vita straordinaria, da un vecchio nastro magnetico con il fruscio di sottofondo del registratore impolverato, il tasto «play» sbiadito. Autunno 1981. Tina decide di raccontare alla rivista People, cinque anni dopo la separazione, perché ha lasciato il marito Ike, suo mentore, collaboratore e talent scout. Racconta, al giornalista che registra incredulo - «doveva essere un’intervista come le altre, niente di speciale» - le botte, le intimidazioni, la paura costante, i pestaggi continui - in tour, in macchina, a casa - gli occhi neri, i tentativi di suicidio per cercare di uscire da quella vita impossibile.

L'orrore

Riascoltati oggi, tanti anni dopo,quei nastri fanno ancora orrore e sono alla base del documentario, Tina, mandato in onda dalla Hbo negli Stati Uniti con successo tanto clamoroso quanto imprevisto (ma lei, che oggi ha 81 anni, ha passato la vita a stupire chi la sottovalutava). L’unica cosa che impressiona più delle vecchie registrazioni? L’intervista in video del 2019 nella quale Tina racconta ancora una volta la storia dei pestaggi ma aggiungendo dettagli in più, quasi in modo clinico, come se parlasse di un’altra. Ike che impugna le forme di legno delle scarpe o le grucce dell’armadio, la pesta, la butta sul letto, «e poi mi prendeva», gonfia e sanguinante. Lei che finalmente decide di scappare dopo il pestaggio di Dallas, 3 luglio 1976, punita con un manrovescio per aver rifiutato un cioccolatino ciancicato. Tina che si ribella per la prima volta, attraversa la superstrada a piedi («Ricordo il boato dei clacson di quei tir enormi») e si rifugia senza soldi nell’albergo di fronte: «Ho solo la carta a punti del benzinaio, se mi date una camera per questa notte vi manderò i soldi appena arrivo a casa».

(…) 

La libertà

Lei nel 1966 cerca di affrancarsi incidendo River Deep - Mountain High con Phil Spector, il genio del «muro del suono», altro uomo mostruoso (morto in carcere dopo una condanna per omicidio, sparò in testa a una ragazza conosciuta in un locale) ma dal talento senza limiti, Spector le dice «non cantare solo la melodia» e le regala per la prima volta, finalmente, libertà, pagando Ike per stare fuori dalla sala di registrazione (peraltro Spector ai funerali di Ike, 2007, insulterà Tina in un’orazione funebre meschina e crudele: la sua tesi è che Ike avrebbe potuto scegliere una fan a caso e trasformarla in Tina Turner). River Deep - Mountain High per George Harrison era «un disco perfetto» ma inizialmente va male negli Usa perché era troppo avanti (in Italia ne fece una cover Iva Zanicchi ma questo purtroppo nel film non c’è), Spector perde molti soldi e Tina incassa la prima sconfitta senza Ike al suo fianco - e i registi vanno a recuperare un filmato del marito con ciuffo impomatato e baffetti che gongola, «era un disco troppo nero per i bianchi e troppo bianco per i neri», mentre a lei che finge di succhiare una caramella vengono i lucciconi. 

(…)

La ripartenza

I primi anni di Tina senza Ike - lei gli lascia tutto, diritti sulle canzoni, casa, soldi e macchine, chiede solo al giudice i diritti sull’utilizzo del nome «Tina Turner», «voglio solo la pace» - sono difficili, economicamente e artisticamente. Concerti dove capita, la diva diventata supporter finita a cantare nei casinò, comparsate ai quiz televisivi per ex celebrità bollite dove a Tina - bella come il sole - il conduttore con cravattone e giacca inamidata chiede viscido «dov’è Ike?» e lei risponde «non lo so», sorridendo, nella voce il dolore di colei che capisce che non si libererà mai del suo aguzzino. Il buddhismo la aiuta a ritrovare equilibrio - ascoltiamo anche il suo mantra, ipnotico, affascinante - e lei continua a studiare ballo, nuove coreografie, migliora la tecnica perché «non credevo di avere una bella voce, non avevo la voce di Diana Ross», e il trionfo di Tina Turner è anche il trionfo di una voce da mezzosoprano per niente classica, non la più agile né la più bella né la più cristallina, ma la più indimenticabile.

Il sogno

Un giovanissimo impresario australiano va a vederla in un night, lei che potrebbe essere sua madre canta mentre la gente sta cenando. Una delle più grandi artiste musicali del dopoguerra canta cercando di sovrastare il rumore di posate e chiacchiere, lui dopo, forse per gentilezza, le chiede quale sia il suo obiettivo e lei risponde sicura «riempire gli stadi» come Mick Jagger al quale aveva insegnato a ballare tanti anni prima, una frase che adesso suona come la profezia che è stata in realtà ma allora deve essere sembrata il sogno impossibile e un po’ patetico di una cantante ultraquarantenne passata dal successo discografico anni 60 ai piano bar del 1980. 

Invece Tina si trasferisce a Londra, «tanto non avevo amici in America quando stavo con Ike», il tempo passa, l’impresario tenta il tutto per tutto e le presenta un tizio che ha scritto una canzone. «Entro in studio e c’è questo omino seduto su una sedia, con i piedi che non toccano terra, e penso: chi è, uno gnomo?». L’omino, però, ha scritto una canzone che si chiama What’s Love Got to Do with I t. E qui Tina diventa la storia della vittoria contro tutti: i milioni di copie vendute dal disco del ritorno di Tina sul suo trono, Private Dancer. I concerti, la pioggia di Grammy, il tour senza fine che riempie gli stadi come aveva previsto lei anni prima in quel night che sapeva di cucina e sigarette, Rock in Rio e 180 mila persone che la acclamano, lei che scende dal cielo su un enorme braccio meccanico e scavalca la rete di sicurezza per sporgersi, perché tanto non ha paura più di niente.

La fama globale mentre Ike musicalmente scompare, la ricchezza, la lunga solitudine che viene spazzata via nel 1986 da quello che dopo decenni di amore diventerà il suo secondo marito, il manager discografico Erwin Bach, tedesco, 17 anni più giovane ma sembrano 27, pare un ragazzino ma è l’uomo al mondo più diverso da Ike: educatissimo, premuroso gentleman che le apre sempre la porta, assoluta discrezione (finiranno a vivere in una bella villa lacustre in Svizzera, lei ha anche preso la cittadinanza), profilo bassissimo, indipendenza («Per splendere non ha bisogno di togliermi luce», spiega Tina, ultima stoccata per il fantasma di Ike). 

Nell’ultimo atto del documentario Bach è il quieto supereroe che risolleva non solo l’umore di Tina, a quel punto nel 1986 vincente ma sola: salva anche la reputazione del genere maschile dopo la parata di uomini osceni - il padre di Tina, Ike, Spector - che si avvicendano nel film. Bach, quando Tina ormai anziana si ammala gravemente, le dona un rene salvandola dalla condanna alla dialisi e confermando ancora una volta tutto quello che lei aveva sempre pensato di lui: «Mi ha insegnato cos’è l’amore».

Prima dei titoli di coda c’è tempo per l’epilogo con il musical sulla vita di Tina che trionfa a Londra nel West End, poi a Broadway, e qui i registi trattano con infinito rispetto il passo non più spedito di Tina quando arriva alla prima, al braccio del marito non più ragazzino ma bel signore ultrasessantenne. La tigre si risveglia però dietro le quinte: quando la protagonista la invita in scena, Tina entra con la grinta dei bei tempi, illuminata dai riflettori, avvolta da un uragano di applausi che sembra non finire mai.

Estratto dell'articolo di Mario Luzzatto Fegiz per il Corriere della Sera il 25 maggio 2023. 

Tina Turner aveva un debole per Eros Ramazzotti. Si sentiva un po’ mamma e aveva verso il giovane cantante italiano una particolare benevolenza. Così Tina era felice di lavorare con lui. Questa amicizia aveva portato a un duetto che era divenuto popolarissimo sul brano «Cose della vita». E Tina non poteva mancare nella lista degli invitati alle nozze di Eros Ramazzotti con Michel Hunziker...

What’s age got to do with it. Gli anni Ottanta, i miei undici anni e l’immortalità di Tina Turner. Guia Soncini su L'Inkiesta il 26 Maggio 2023

In "Air", ambientato nel 1984, la cantante americana non compare neanche in un fotogramma. Eppure è in quell’anno che è entrata nell’immaginario di un’intera generazione per non andarsene più. Era quando «La vita comincia a quarant’anni» pareva un concetto sovversivo 

C’è stato un tempo in cui i ragazzini che non sanno niente eravamo noi. Noi quelli per cui un cantante nasceva solo se passava sui nostri canali, se appariva nei nostri giornaletti, se ci colpiva il ritornello nuovo pur ignorando decenni di ritornelli vecchi.

Per me Tina Turner nasce a quarantaquattro anni, quando io ne ho undici e lei canta quella canzone così spettacolare che poi ci intitoleranno i documentari su di lei, che poi resterà uno slogan nei decenni, che poi molte vite dopo capiremo essere una grande verità dalla quale non eravamo state capaci di imparare.

What’s love got to do with it, cosa c’entra l’amore, chiedeva Tina Turner, all’epoca non ancora per tutti «quella picchiata dal marito», riduzione a figurina vittimaria che poi avrebbe fatto slittare anche la domanda della canzone: non stava dicendo, come una Barbara D’Urso volenterosa di liberarti dal marito violento, che chi ti ama non ti picchia; stava dicendo che quella storia di cui cantava era roba di lussuria, mica d’amore. Not love, but a second-hand emotion. Stava dicendo che il desiderio andava benissimo, purché non lo scambiassimo per altro: eravamo troppo piccole per capirlo.

Era la prima volta che quelli della mia generazione la vedevano, tutti, anche quelli che poi da grandi hanno deciso di darsi un tono e dire che vuoi mettere gli anni dell’R&B, mica quelle schifezze commerciali degli anni Ottanta. Era, anche, la prima volta che vedevamo una vecchia con le gambe da ragazza, giacché tutto è relativo e per noialtre alle scuole medie un’ultraquarantenne era decrepita, e già «La vita comincia a quarant’anni» pareva un concetto sovversivo: non sapevamo che ne avremmo avuti quaranta (e quelli a seguire) in un secolo in cui le ottantacinquenni sono più in forma delle trentenni e le donne (e un po’ anche gli uomini) sono condannate a mantenersi appetibili fino alla tomba.

Tutto è relativo, e quando l’altroieri Mick Jagger ha ringraziato Tina Turner per averlo aiutato tanto quando lui era giovane ho voluto credere che si riferisse a quel duetto di metà anni Ottanta, quando di anni Jagger ne aveva quaranta, che se stai per compierne ottanta ti sembrano pochissimi.

Nel 1997 Rolling Stone mette in copertina Tina Turner assieme a due delle mie preferite di quegli anni: Courtney Love e Madonna. La Love si è liberata di quella coperta bagnata che doveva essere il marito, è dimagrita (che è una scorciatoia efficace per sembrare eleganti), ha imparato a conciarsi come una signora e non come una scappata di casa (lei e Madonna hanno la stessa stylist), un anno dopo farà il suo più bel disco. Madonna è Madonna, ha trentanove anni ed è al massimo del suo splendore, pure lei l’anno dopo farà il suo miglior disco (nel 1998 dev’esserci stato un allineamento di pianeti). Tina Turner è una venerata maestra che sta lì a benedirle, una decrepita cinquantaseienne la cui presenza deve dare una qualche gravitas alla copertina, ma soprattutto una di cui noialtre venticinquenni imbecilli possiamo trasecolare: visto che gambe, alla sua età.

A settant’anni mia nonna metteva la dentiera nel bicchiere da non so quanti anni, sono nata che ne aveva sessantadue e non ricordo d’averla mai vista non vecchia, non decrepita, non mia nonna. A settant’anni Tina Turner organizza il suo tour d’addio, e i giornalisti la intervistano straniti. Ma perché è stufa di mettersi la minigonna e la parrucca? Perché non ne può più di sgambettare su un palco? Perché dà l’addio alle scene? È il 2009, da We are the world (un altro dei modi in cui noi allora ragazzine l’avevamo scoperta) sono passati venticinque anni, il secolo è cambiato: le settantenni hanno perso il diritto a mettere la dentiera nel bicchiere e riposarsi le gengive.

Quando ho preso appunti guardando “Air”, il miglior film dell’anno, mi sono annotata che come sempre per gli americani esiste solo l’America: i primi minuti del film, quelli che ci dicono forte e chiaro «siamo nel 1984», non contengono Fotoromanza o Vasco Rossi, né Benigni e Troisi. Ha senso: come tutte le storie universali, “Air” è molto personale, e quei minuti lì sono plausibilmente il 1984 di Ben Affleck, che è mio coetaneo ma è cresciuto in Massachusetts, e quell’anno ha plausibilmente passato il tempo come vediamo in quei minuti; col cubo di Rubik e con l’A-Team, col Nintendo e con Eddie Murphy, con “Ghostbusters” e con Reagan, coi telefoni a bottoni (che ci parevano un’avanguardia di modernità, rispetto a quelli a disco) e con Supercar, coi Dire Straits e con Springsteen.

Non c’è, nella rievocazione temporale, Tina Turner, e l’omissione potrebbe essere dovuta al fatto che Affleck ha, come molti cinquantenni, deciso di darsi un tono e di dire che lui Tina la preferiva prima che diventasse commerciale. Ma potrebbe anche essere che quei minuti lì sono fatti per darti un’atmosfera, mica per rappresentare un compendio enciclopedico del 1984: non c’è neanche Prince, ed è improbabile che il giovane Affleck non fosse quell’anno inciampato in Purple Rain. (Magari non ha ottenuto i diritti delle immagini né di Prince né di Tina).

“Colazione da Tiffany”, il libro, esce quasi in contemporanea all’incontro di Anna Mae Bullock e Ike Turner. La protagonista immaginaria di Truman Capote, Lulamae, si fa chiamare Holly Golightly per liberarsi del suo passato di provincia. Nella realtà, Ike decide che Anna Mae si chiamerà Tina Turner per spogliarla d’un’identità e trasformarla in una sua appendice.

È la fine degli anni Cinquanta, le ottantenni non hanno gambe da schianto, Mick Jagger suona Muddy Waters in garage, e nessuno, neanche quel marchio di gioielli con le confezioni verde acqua, può immaginare che un secolo dopo tutti loro avranno ancora un solido posto nel nostro immaginario, perché quel che hanno fatto senza troppo annunciarlo è stato costruirsi l’immortalità.

Estratto dell'articolo di Marinella Venegoni per “la Stampa” il 26 maggio 2023.

Della storia d'amore con Tina Turner si sapeva. Adriano Aragozzini, sulfureo patron del Festival di Sanremo a cavallo fra gli ‘80 e i ‘90, l'aveva raccontata nella sua autobiografia del 2017, «Questa sera canto io». Ma adesso che Tina se n'è andata, Adriano sommerso di telefonate ha la voce rotta dal pianto, e anche i più scettici si debbono arrendere a un racconto lungo e dettagliato, e alla memoria prodigiosa di questo indomito quasi ottantacinquenne che fu manager, fra i ‘70 e i ‘90, di tutto il mondo della musica che contava: da Modugno a Gino Paoli, da Tenco a Patty Pravo, più la Lollobrigida.

Intanto, caro Adriano, siamo sicuri che Tina Turner sarebbe contenta delle sue rivelazioni?

«Ci siamo sentiti prima che scrivessi il libro, le raccontai e dissi che avevo questo progetto. E lei rispose: "ma certo, scrivilo" con una risatina. Era di una simpatia straordinaria, spiritosa, con la battuta sempre pronta. Insieme ci siamo fatti un sacco di risate. Spesso gli artisti vengono dipinti come non sono: anche Luigi Tenco era una persona affabile, un uomo di scherzi e sorrisi. Diventava serio solo quando doveva conquistare una donna: si metteva cupo in un angolo e loro correvano».

Come l'aveva conosciuta?

«A metà dei ‘70 scritturai Ike&Tina Turner per l'Italia, versai il 50 per cento del dovuto ma all'ultimo minuto non vennero. Successe una seconda volta: finché, mentre sono a New York, scopro che fanno un concerto al Waldorf Astoria e la sua agenzia - memore dei bidoni - mi dà un posto in prima fila. All'ora dello show, Tina esce sul palco e dice: "Ike sta male, il concerto non si farà". Mi portano dietro le quinte, me la presentano, le racconto la storia, le do il mio biglietto da visita e le dico: "Quando sarai sola ti scritturerò". Nel ‘75, sempre a New York, un lunedì mi chiama il manager: "Tina mi dice di dirle che giovedì debutta a Las Vegas da sola". Vado e resto basito: era una forza della natura, in miniabito, con 4 ballerine e coriste pazzesche. Al party dopo lo show mi abbraccia e mi dice: "Hai visto che mi sono ricordata?"».

Poi lei la scrittura, e Tina viene finalmente in tour in Italia

«Era il ‘77, apriva al Covo di Santa Margherita poi Carpi. Successone ma io non ci vado perché ho da fare. Chiede di me, mi manda a dire che se non vado ad ascoltarla a Rimini non canta. Vado, lei ordina la cena sulla terrazza di camera sua. Dico: mi autorizzi a fare una pazzia? Lei pensa che voglia baciarla e invece io tiro fuori la rivoltella e sparo tre colpi in aria. Paura, poi risate, poi: "Ma perché porti la pistola?"». 

E ormai l'amore che si prende il suo spazio.

«Ci rivediamo la sera dopo a Roma, andiamo a cena a Trastevere, mi abbraccia e mi accarezza la schiena. Poteva essere un one shot, è durata due anni. Mesi dopo mi chiama da Londra e io vado: e lì nasce la storia vera, dice che mi vuole per il suo compleanno a Los Angeles. Ci vado, le porto un gioiello antico meraviglioso. Viveva in una villa tutta di cristallo, in camera aveva un Buddha enorme e mi dice che era appena diventata buddista. Il mattino dopo entra in camera un figlio suo e di Ike, nerissimo. Io ero a letto e mi sono vergognato, e lei mi spiega: "Gli ho detto che mi sono innamorata, e lui è tutto contento".

(...)

Finito l'amore, ma non l'amicizia.

«Quando veniva in Italia la incontravo sempre. Mi mandò una foto della casa di Zurigo, un villone circondato da un muro enorme. Mi disse che il marito era una persona straordinaria. È vero: molto carino, poco tedesco. Proprio lui me l'ha passata al telefono qualche tempo fa, ma non parlava quasi. Stava già molto male, aveva un sacco di problemi ai polmoni, ai reni, l'ictus. Aveva di tutto». 

E qui la voce si spezza. Al telefono dalla sua villa di Palombara Sabina il prode Aragozzini tace, poi riprende quasi parlando a se stesso: «Non avrei mai pensato dopo tanti anni di provare un simile dolore».

Estratto dell'articolo di Mattia Marzi per “il Messaggero” il 26 maggio 2023.

La foto che le ritrae insieme, condivisa ieri dalla voce di Non sono una signora sui social per ricordare la grande Tina Turner, scomparsa mercoledì a Zurigo a 83 anni dopo una lunga malattia, fu scattata a Milano quasi quarant'anni fa. Era il settembre del 1984. Loredana Bertè e Tina Turner si erano conosciute pochi giorni prima a Riva del Garda. 

Alle due leonesse era bastato annusarsi a vicenda pochi secondi per riconoscersi simili, e non solo per la voce, caratterizzata da quel graffio che aveva reso Tina Turner la "regina del rock'n'roll" e Loredana Bertè una sorta di sua corrispettiva italiana. 

Anche se una, Tina, era nata a Brownsville, nel Tennessee, dall'altra parte dell'Atlantico, undici anni prima dell'altra, Loredana, che era nata invece a Bagnara Calabra, un ex borgo marinaro bagnato dal mar Tirreno. «Non dimenticherò mai quell'incontro e i giorni passati a Milano insieme ad Azzedine», dice Loredana Bertè. 

Mi perdoni, ma chi è Azzedine?

«Azzedine Alaïa, naturalmente. Uno dei designer più famosi e influenti della storia della moda (è scomparso nel 2017, ndr)». 

E che c'entra con lei e Tina Turner?

«Se io e Tina cominciammo a parlare, nell'ascensore dell'hotel a Riva del Garda, fu grazie a un giubbotto disegnato da Alaïa che lei indossava. Nessuno lo conosceva. Tranne me e Cesare Zucca, che in quel periodo mi faceva da stylist, prima di andare a Los Angeles a lavorare per Madonna». 

Facciamo un passo indietro. Cosa ci facevate entrambe a Riva del Garda, in quel settembre del 1984?

«Eravamo entrambe ospiti a un festival che era uno degli appuntamenti fissi della musica dal vivo dell'estate, la Vela d'oro. Si svolgeva a settembre, alla fine della stagione, per premiare i successi dell'annata. Tina Turner stava promuovendo la sua hit What's Love Got To Do With It?. All'epoca accadeva spesso che le star della musica mondiale venissero in Italia a fare promozione. 

(...) Così vi trovaste insieme in ascensore. E lei attaccò bottone parlando del giubbotto di Alaïa. E poi?

«Lei era con il suo manager di allora. Quando le nominai Azzedine Alaïa, Tina sgranò gli occhi: "Come fai a conoscerlo?", mi chiese. Le risposi: "Se sa che ti sei messa un suo giubbotto, diventa matto". "No, divento matta io", ribatté lei. Quando le dissi che potevo metterli in contatto, impazzì di gioia». 

Alaïa lei quando lo aveva conosciuto?

«Durante un viaggio che avevo fatto un po' di tempo prima a Parigi. Eravamo diventati amici». 

Con Tina come andò?

«Quella sera in ascensore chiese subito al manager: "Tra quanto sarò libera da tour e promozione?". E quello: "Credo tra non meno di due anni". Allora si girò verso me e Cesare: "Quando andate a Milano?". Saremmo partiti due giorni dopo. "Vengo con voi", rispose».

E lo fece?

«Eccome. Partì con noi. Una volta a Milano, io e Cesare chiamammo Azzedine. Da quel momento in poi Alaïa vestì solo Tina Turner, mollando pure Grace Jones, che aveva consigliato fino ad allora e che non la prese benissimo (ride)». 

In cosa Tina Turner è stata per lei una fonte di ispirazione?

«Per il suo vissuto. La sua grinta. Il suo stile. E poi per la sua capacità di reinventarsi sempre. Era un'araba fenice come me. Una sopravvissuta. Era la quintessenza del rock. Non a caso la soprannominarono la "regina del rock'n'roll": ne aveva tutte le caratteristiche».

(...)

Addio a Tina Turner “You are simply the best”.  Nicola Santini su L'Identità il 26 Maggio 2023 

Tina Turner, la leggendaria “Regina del Rock ‘n’ Roll”, è morta a 83 anni. La sua è stata una fine serena, come riportano le persone che l’hanno accompagnata al suo ultimo giorno. “Aveva sofferto per una lunga malattia e se ne è andata nella sua casa di Küsnacht vicino a Zurigo, in Svizzera”, ha detto il suo portavoce. “Con lei – ha voluto aggiungere – il mondo perde una leggenda della musica e un modello”.

Icona mondiale con una vita tanto affascinante quanto la sua carriera.

Conosciuta al mondo come Tina Turner, ma nata Anna Mae Bullock, ha conquistato il pubblico con la sua voce potente e la sua energia inarrestabile sul palco, ma dietro le luci accecanti e l’applauso fragoroso, c’è una donna con una storia di vita di trionfo e tribolazioni.

Cresciuta in una famiglia turbolenta, Tina ha trasformato la sua passione per il canto, nata nel coro della chiesa, in un’incantevole carriera nel rock and roll quando ha incontrato Ike Turner. Quest’uomo avrebbe sì catapultato la sua carriera musicale, ma sarebbe diventato anche la sua più grande prova personale. Unitisi in matrimonio nel 1962, Tina e Ike formarono il formidabile duo Ike & Tina Turner Revue, scalando le classifiche con hit come “River Deep – Mountain High” e “Proud Mary”.

Nonostante le sfide che ha dovuto affrontare nella sua vita privata, come il matrimonio abusivo con Ike Turner, Tina ha scelto di mantenere molti aspetti della sua vita lontano dagli occhi del pubblico. Per esempio, i dettagli delle sue difficoltà nel periodo successivo alla separazione da Ike sono stati tenuti lontano dallo sguardo del mondo. Questo periodo di difficoltà economiche, durante il quale Tina ha lottato per mantenere la sua carriera solista, è stato affrontato con una discrezione che è in netto contrasto con l’energia vibrante delle sue esibizioni sul palco.

Nel 1976, la tenace Tina prese una decisione coraggiosa: lasciò Ike, marcando una svolta radicale nella sua vita personale.

Seguì un periodo di lotta, con Tina che si sforzò di mantenere a galla la sua carriera solista. Ma nel 1984, fece un ritorno trionfale con l’album “Private Dancer”, che sfornò successi come “What’s Love Got to Do with It” e la premiò con tre Grammy Awards.

La vita sentimentale di Tina ebbe un dolce rivolgimento nel 1986, quando incontrò l’affascinante dirigente discografico tedesco Erwin Bach. Dopo una storia d’amore di 27 anni, la coppia si legò in matrimonio nel 2013 in una cerimonia idilliaca. La cerimonia si è tenuta nella loro villa a Kusnacht, una cittadina sul Lago di Zurigo, in Svizzera.

La celebrazione ha avuto un carattere buddista, in linea con la fede di Tina, e si è svolta all’aperto, nel giardino della loro villa. La lista degli ospiti era notevole e includeva amici intimi e celebrità. Tra questi c’erano Oprah Winfrey, David Bowie, Giorgio Armani e Bryan Adams.

Il tocco finale alla festa è stato dato da un’incredibile quantità di rose rosse e gialle – 70.000 in totale – importate dall’Olanda.

Il suo legame con Bach ha rappresentato una nuova fase della sua vita, all’insegna della felicità e della stabilità. La loro unione è stata una fonte di pace e amore per Tina dopo i turbolenti anni con Ike.

Un’altra affascinante collaborazione di Tina è quella con il camaleonte del rock, David Bowie. Il loro duetto “Let’s Dance” al “Live Aid” nel 1985 è ancora un momento musicale iconico, mostrando la loro ineguagliabile chimica sul palco.

Tina Turner aveva perso già due figli: il primogenito, Craig Raymond Turner, che aveva avuto a 18 anni dalla relazione con Raymond Hill, il sassofonista della sua band Kings of Rhythm, è stato trovato morto a 59 anni, il 4 luglio 2018, suicida. Il figlio Ronnie Turner, invece, avuto dal secondo marito Ike Turner, è morto a 62 anni, il 9 dicembre 2022, dopo aver lottato a lungo con diversi problemi di salute, tra cui il cancro.

Tina Turner, con la sua resilienza di acciaio e il suo talento strabiliante, ha venduto oltre 200 milioni di dischi nel corso della sua carriera di oltre cinque decenni.

Anche se nel 2021 ha annunciato il suo ritiro definitivo dalla vita pubblica, il suo spirito indomabile continuerà a risuonare nel panorama musicale e nei cuori dei fan in tutto il mondo.

Tina Turner, "cosa faceva prima di morire". La rivelazione dei vicini. Libero Quotidiano il 26 maggio 2023

Tina Turner ha perso la battaglia contro la lunga malattia ed è scomparsa all'età di 83 anni. Un lutto che ha sconvolto il mondo della musica e la sua comunità, quella di Kusnacht, situata sulle rive del lago di Zurigo in Svizzera, dove da anni la star del rock ha vissuto. Qui gli abitanti parlano dell'artista come una persona amata anche fuori dalle scene, "spesso si fermava a parlare con chi la riconosceva". Capitava al parco, durante una passeggiata o mentre faceva shopping. La Turner infatti non si sottraeva mai ai saluti.  

Leo Scherer, un 65enne che gestisce un'azienda di riscaldamento in città ha detto: "Era una persona molto buona. Era felice qui e salutava sempre chi la vedeva per strada. Aveva una vita tranquilla. Quando la incontravi in giro era umile, non si è mai comportata come una grande star". Anzi, la cantante ha sempre cercato di integrarsi nella vita della comunità. 

Non a caso aveva imparato il tedesco e frequentava corsi di yoga. Dopo il suo ritiro, nel 2009, si esibiva per gli amici. Solo negli ultimi giorni di vita l'artista era restia a farsi vedere fuori casa, mantenendo riservatezza e rimanendo in famiglia. Gli ultimi momenti li ha passati accanto al marito Erwin. 

Estratto dell’articolo di Maria Vittorio Prest per blitzquotidiano.it il 21 giugno 2023.

Tina Turner, leggenda della musica, si è spenta serena nella sua casa di Kusnacht, vicino a Zurigo, in Svizzera, mercoledì 24 maggio a 83 anni. Un portavoce della cantante ha confermato cheTina Turner è morta per cause naturali dopo una lunga e sofferta malattia dovuta ad una grave insufficienza renale e a una pressione molto alta […]

Tina Turner ha lottato molto a lungo per riuscire ad avere una qualità di vita sopportabile sino a che, in un momento di grave difficoltà, si era iscritta al gruppo di suicidio assistito Exit e aveva iniziato a prendere accordi sul fine vita. Nel 2017 però il marito, Erwin Bach, 67 anni, le ha donato un rene […].

Il marito si era ripreso molto bene dall’operazione, invece Tina, dopo aver subito anche un rigetto, aveva dovuto continuare la terapia con forti dosi di immunosoppressori che, però, non sono serviti a salvarle la vita. 

La cantante ha trascorso gli ultimi mesi tra paura e molte medicine. Prima di morire, Tina ha raccontato la sua lotta contro la malattia renale che aveva definito un killer silenzioso e di come stanca e provata si fosse anche avvalsa ingenuamente di cure omeopatiche mettendo così ancora più a rischio la sua vita.

Nel 2009, in seguito ad un ictus causato dall’ipertensione incontrollata, la star aveva scoperto che i suoi reni avevano già perso il 35% delle loro funzioni. 

In una sua dichiarazione a Show your Kidneys Love, Tina Turner ha confessato di aver sempre considerato il suo corpo indistruttibile e questa sua convinzione l’ha portata a sottovalutare l’ipertensione che la distruggeva dall’interno. […] 

In occasione della Giornata mondiale del rene, in uno dei suoi ultimi messaggi social, la grande artista ha invitato i suoi fans a controllare i loro organi perché i reni cedono senza dolore.

Maria Giovanna Maglie è morta: addio a 70 anni alla giornalista. Il Tempo il 23 maggio 2023

È morta all’età di 70 anni Maria Giovanna Maglie, ex giornalista del Tg2 e notissima saggista e opinionista tv. A darne notizia sui social è stata questa mattina l’amica e collega Francesca Chaoqui: “È tornata questa Mattina alla Casa del Padre. È stata portata al San Camillo Forlanini la scorsa notte per una complicazione venosa ed è spirata poco fa. Ero accanto a lei, ha lottato fino alla fine come sempre. Adesso è in pace”. Tra la seconda metà del 2022 e il febbraio 2023 Maglie è stata ricoverata in ospedale per vari interventi chirurgici, come lei stessa aveva fatto sapere tramite i social, pubblicando alcuni scatti che testimoniavano le proprie condizioni di salute.

L'ultimo intervento di Maglie su Twitter, social dove era molto attiva, risaliva al 12 febbraio, nel periodo del Festival di Sanremo e delle elezioni regionali in Lombardia: "Sopravvissuti all'occhio a forma di euro di Amadeus? Al corpus della Ferragni? Al fatto che le canzoni ascoltabili avessero almeno 50 anni? Siete sfiniti e scontenti? Bene andate a rinfrescarvi il cervello di tanto vecchiume votando per il centrodestra. Io voto Lega".

È morta la giornalista Maria Giovanna Maglie all’età di 70 anni. Il Domani il 23 maggio 2023

Maglie era malata da tempo e si trovava all’ospedale San Camillo Forlanini di Roma 

È morta all’età di 70 anni Maria Giovanna Maglie, saggista e opinionista nata a Venezia nel 1952. A dare l’annuncio su Twitter è la sua amica Francesca Chaouqui, che ha scritto: «Ha lottato fino alla fine come sempre. Adesso è in pace».

Maglie era malata da tempo e si trovava all’ospedale San Camillo Forlanini di Roma. Qualche mese fa era stata operata al cuore per un aneurisma all’aorta, era stata poi ricoverata per due mesi a causa delle complicazioni che le avevano causato una forte anemia.

Nel 1990, durante la prima guerra del Golfo, fu inviata in Medioriente per il Tg2. Divenne poi corrispondente da New York fino al 1993. Negli anni ha collaborato con importanti testate giornalistiche e radiofoniche tra cui: Il Giornale, Il Foglio, Radio Radicale, e Radio24.

È morta Maria Giovanna Maglie, la giornalista aveva 70 anni. Redazione Online su Il Correre della Sera il 23 maggio 2023.

Maglie aveva parlato della sua malattia lo scorso dicembre. È morta oggi a Roma, al San Camillo Forlanini 

Maria Giovanna Maglie è morta martedì 23 maggio: la giornalista e opinionista aveva 70 anni. A dare l’annuncio, su Twitter, Francesca Chaouqui: «Ero accanto a lei, ha lottato fino alla fine come sempre». 

Lo scorso dicembre Maglie aveva parlato della sua malattia e degli interventi chirurgici a cui era stata sottoposta.

+++Amici miei, @mgmaglie è tornata questa Mattina alla Casa del Padre. È stata portata al San Camillo Forlanini la scorsa notte per una complicazione venosa ed è spirata poco fa. Ero accanto a lei, ha lottato fino alla fine come sempre. Adesso è in pace. +++

— Francesca Chaouqui (@FrancescaChaouq) May 23, 2023

Il lungo calvario della giornalista era iniziato a dicembre dello scorso anno. «Ero in tv, la notte della maratona elettorale, ospite a Quarta Repubblica... A un certo punto mi si è come spenta la luce». Maglie raccontò così in una intervista al Corriere. dal suo letto d’ospedale, il momento più difficile della sua vita. Il cuore della giornalista stava per cedere. Un intervento d’urgenza all’European hospital di Roma le salvò la vita. Sembrava tutto risolto, poi sono arrivate le complicazioni: «Una dopo l’altra, una maledizione».

La giornalista, dopo un esordio a l’Unità e tanti anni in Rai, da tempo era impegnata come opinionista in vari programmi tv. Ma dopo quei delicatissimi interventi cardiaci le cose non si sono mai più rimesse a posto a livello clinico. Nel quotidiano fondato da Gramsci, Maglie fu inviata in America Latina. Poi, per profonde divergenze con il Pci, lasciò il giornale e passò in Rai. Nella tv pubblica, alla scoppio della Guerra del Golfo, nel 1990 fu inviata in Medioriente per il Tg2. Negli ultimi anni si era avvicinata politicamente alle posizioni della Lega, guidata da Matteo Salvini.

Tra i primi a ricordarla c’è Enrico Mentana: «Se n’è andata Maria Giovanna Maglie, giornalista battagliera, donna forte, con le sue idee e la sua vis polemica. Ognuno la ricorda a modo suo, secondo le sue passioni e le sue sensibilità».

È morta Maria Giovanna Maglie. Francesca Galici il 23 Maggio 2023 su Il Giornale. A causa di una complicanza clinica si è spenta Maria Giovanna Maglie, saggista e opinionista italiana spesso presente in tv.

Dopo un lungo ricovero, si è spenta questa mattina Maria Giovanna Maglie. A dare l'annuncio Francesca Chaouqui: "Amici miei, Maria Giovanna Maglie è tornata questa Mattina alla Casa del Padre. È stata portata al San Camillo Forlanini la scorsa notte per una complicazione venosa ed è spirata poco fa. Ero accanto a lei, ha lottato fino alla fine come sempre. Adesso è in pace", si legge sul suo profilo Twitter.

Era stata lei stessa a informare di aver avuto complicanze mediche alla fine del 2022 a causa di un problema al cuore per il quale era stata sottoposta a un intervento chirurgico. Purtroppo, quell'intervento aveva causato degli strascichi gravi, inclusa un'anemia violentissima. Dal momento del ricovero, la giornalista non è mai uscita dall'ospedale. Le cause primarie del ricovero erano state spiegate da lei stessa come "un aneurisma che non è scoppiato. Avevo, e grazie a Dio non ho più, un aneurisma dell’aorta". Il malore è sopraggiunto nell'opinionista durante uno dei suoi tanti collegamenti televisivi con i programmi di informazione politica: "Ho avuto un malore che ho cercato di mascherare. Ho concluso il collegamento e poi ho spiegato che avevo bisogno di staccare. Non so nemmeno se ne siano accorti gli spettatori"

Da qui, però, è stato un susseguirsi di problemi. Solo pochi giorni fa, il 20 maggio, Francesca Chaouqui scriveva: "Inizia a reagire alla terapia antibiotica per le infezioni. È vigile e tranquilla, sta dimostrando una tenacia e una forza non comune. Grazie di cuore a tutti i medici e gli infermieri della terapia intensiva dell’European Hospital di Roma e a tutti voi". L'epilogo, però, non è stato quello sperato.

Maria Giovanna Maglie ha iniziato la carriera come giornalista negli anni Settanta presso il quotidiano L'Unità e nel 1989 è arrivata in Rai come inviata negli scenari di guerra. Dal Medio Oriente durante la prima Guerra del Golfo è stata poi per lunghi anni corrispondente da New York. Ha scritto innumerevoli libri e saggi, diventando opinionista per i principali programmi televisivi, senza nascondere di essersi avvicinata, soprattutto negli ultimi anni, alle posizioni politiche del centrodestra, diventando protagonista indiscussa del dibattito politico in Italia.

Complicazioni dopo intervento d'urgenza dei mesi scorsi. Addio a Maria Giovanna Maglie, giornalista e saggista: “Adesso è in pace, ha lottato fino alla fine”. Redazione su Il Riformista il 23 Maggio 2023

Addio a Maria Giovanna Maglie, giornalista e saggista scomparsa nelle scorse ore a Roma. Aveva 70 anni e da tempo aveva problemi di salute. A dare la notizia del decesso è stata Francesca Chaouqui, amica e collega. “E’ tornata questa Mattina alla Casa del Padre. È stata portata al San Camillo Forlanini la scorsa notte per una complicazione venosa ed è spirata poco fa. Ero accanto a lei, ha lottato fino alla fine come sempre. Adesso è in pace”.

Nata a Venezia il 3 agosto del 1952, Maria Giovanna Maglie era già stata ricoverata in ospedale negli ultimi mesi del 2022  e nei primi del 2023 “per una serie di interventi chirurgici, ecco la ragione della mia latitanza” aveva scritto all’epoca la giornalista mostrando, via Twitter, il suo ultimo libro su Emanuela Orlandi.

Nel settembre 2022  aveva raccontato sempre tramite i social di aver sofferto un malore durante la diretta tv della trasmissione Quarta Repubblica, dove era stata invitata per commentare le elezioni politiche del 25 settembre. A Il Corriere della Sera ha raccontato che a salvarle la vita dopo il malore a Quarta Repubblica era stato un intervento d’urgenza al cuore per un aneurisma all’aorta all’European hospital di Roma. Poi sono intervenute le complicazioni ed era stata ricoverata per diversi mesi a causa di una forte anemia.

La sua carriera giornalistica era iniziata nel 1979 all’Unità, da cui si era dimessa per divergenze ideologiche. Nel 1989 l’assunzione in Rai e l’anno successivo, allo scoppio della prima guerra del Golfo, era stata in Medio Oriente come inviata del Tg2. In seguito era diventata corrispondente da New York, imponendosi per il suo stile esuberante e polemico. Nel 1993 si era dimessa dalla Rai per un caso di presunti rimborsi spese gonfiati che si concluse con l’archiviazione delle accuse. In seguito aveva collaborato con Il Giornale, Il Foglio, Radio Radicale, Radio24 e Dagospia.

Sempre per Dagospia ha commentato la campagna elettorale del 2016 per la presidenza degli Stati Uniti d’America, che ha portato alla elezione di Donald  Trump, di cui aveva previsto sin dall’inizio la vittoria e di cui viene considerata una fervida ammiratrice avendo anche incentrato su di lui uno dei suoi saggi. Sostenitrice del segretario federale della Lega Nord Matteo Salvini, dal 2016 non risulta più iscritta all’Ordine dei giornalisti per mancato pagamento delle quote annue di iscrizione.

La giornalista era stata data in corsa alle elezioni politiche dello scorso 25 settembre, con la Lega, cui si è avvicinata negli ultimi anni. Candidatura poi smentita.

Un’amica nella buona e nella cattiva sorte. Ciao Maria Giovanna, la penna brillante accusata di “craxismo” che smontò la “falsa rivoluzione”. Stefania Craxi su Il Riformista il 25 Maggio 2023.

Conobbi Maria Giovanna Maglie molto tempo fa e, dopo esserci perse per un qualche tempo, per alcune incomprensioni, avevamo ripreso a sentirci e a frequentarci negli ultimi anni. Accadde dopo uno dei tanti attacchi, al quale io intesi replicare con forza e con sdegno, che aveva subito nel corso della vita da alcuni suoi colleghi ben pensanti e di regime perennemente intenti ad arrogarsi il diritto alla verità assoluta ancor prima che quello di rilasciare patenti morali e di idoneità professionale.

Correva l’anno 2019 e Maria Giovanna, cresciuta professionalmente all’Unità, era “accusata” di “craxismo”: la vicinanza umana prima che politica con Bettino Craxi costitutiva una ragione per impedirle il rientro nella tv pubblica, quella Rai in cui pluralismo e professionalità dovrebbero essere la norma, non l’eccezione. Era quella una situazione paradossale, una delle tante che riguardano l’intera vicenda craxiana, che però ha ben testimoniato le ipocrisie di cui si nutre una certa intellighenzia nostrana e, al contempo, la personalità di cui era dotata Maria Giovanna.

Infatti, i tanti che hanno dimenticato i loro ascendenti o i loro passaggi nelle fila socialiste, fino ad abiurare o sbianchettare la propria storia, hanno potuto in questi decenni assurgere alla guida di posizioni di comando e a ruoli primari; chi invece, come la Maglie, con coerenza ancor prima che per fede, non ha rinnegato i suoi trascorsi vedeva preclusa ogni possibilità! Una doppia morale che sa tanto di opportunismo, un modus operandi al quale lei non intese mai sottostare. Maria Giovanna è stata un’amica nella buona e nella cattiva sorte. Non solo non rinnegò mai la sua amicizia con il leader socialista con cui intrattenne, anche e soprattutto nei tristi anni dell’esilio tunisino, un rapporto di stima e di amicizia (ricordo che era tra i non molti che continuò a scrivere e telefonare ad Hammamet), ma non smise mai di dire parole di verità sul biennio ’92-’94 e sugli effetti nefasti della “falsa rivoluzione”. Lealtà e coerenza con le proprie idee che con tutta evidenza le costarono a lungo incarichi e carriera, e che smentisce con i fatti la vulgata di comodo e di dileggio di quanti videro nel suo abbracciare, a suo modo, Craxi e i socialisti, una scelta di convenienza e opportunismo.

Chi ha avuto modo di conoscere questa professionista mossa da un grande fiuto, dotata di una penna brillante quanto incisiva, sa che la sua dote, non sempre amata ma apprezzabile, era la schiettezza, accompagnata da una durezza tipica di molte personalità forti e al contempo fragili. La politica internazionale, suo vero amore fin dagli esordi, e alla base del suo distacco da un PCI che si attardava in formule bizantine pur di non fare i conti con la storia, sembrava contrastare con la sua indole per la provocazione. Con la sua scomparsa, dopo una malattia lunga e dolorosa che ha affrontato con forza e dignità, perdiamo una personalità forte, segnata da grandi passioni. Personalmente voglio ricordare Maria Giovanna con quello sguardo profondo con il quale era solita scrutare i suoi interlocutori, con quell’entusiasmo contagioso, con quella voglia di futuro che trasudava dai suoi ragionamenti. Voglio ricordare però anche la donna, l’amica che ad Hammamet, nel ventennale della scomparsa di Craxi, commossa e in preda ad uno slancio di ottimismo, mi disse che avevo raggiunto il compito che mi ero prefissata, di essere riuscita a prendere per la coda la rabbia che avevo dentro. Sono parole che mai potrò dimenticare. Ciao, Maria Giovanna! Stefania Craxi

Chi era Maria Giovanna Maglie, dagli esordi all'Unità fino al sostegno aperto alla Lega di Salvini. Paolo Conti su Il Corriere della Sera il 23 maggio 2023.

La carriera e le posizioni più provocatorie: al lavoro fino all'ultimo, il malore durante la maratona elettorale in tv

Addio a Maria Giovanna Maglie, scomparsa a 70 anni dopo una lunga battaglia con i tanti e gravi problemi cardiaci che non le hanno dato tregua nell’ultimo capitolo della sua complessa vita. 

Maria Giovanna Maglie nasce a Venezia ma nei primi anni Sessanta si trasferisce a Roma, città di cui adotta rapidamente lo spirito, i modi, persino l’inflessione. Si laurea in filosofia a La Sapienza di Roma. Nel 1979 comincia la prima fase della sua esperienza professionale: entra a L’Unità, l’organo ufficiale del Pci, e si occupa immediatamente e con grande successo di politica internazionale, in particolare di America Latina. 

Corrispondenze dense e appassionate, com’è nel suo carattere già forte e divisivo (per sua stessa ammissione). Infatti entra in rotta di collisione col quotidiano e soprattutto con la linea politica del Pci, si dimette nel 1987 e approda alla Rai nel 1989 con l’aiuto (lo racconterà lei stessa) dell’allora segretario del Psi, Bettino Craxi. Infatti entra nella redazione del Tg2 (ai tempi filo-socialista, secondo la logica della lottizzazione Rai della Prima Repubblica) e riprende le sue cronache di politica e di attualità internazionale: il Medio Oriente, la Guerra del Golfo, poi una discussa corrispondenza da New York. 

Francesca Reggiani ne prende lo spunto per una delle sue più famose imitazioni in «Avanzi», la trasmissione satirica di Rai3. Nel 1993 si dimette volontariamente dalla Rai nelle settimane incandescenti dello scandalo delle note spese truccate, che coinvolge molti giornalisti in molte redazioni. Girano voci su un dossier con accuse per 150 milioni di lire di note spese non giustificate. Si apre un lungo audit interno, ovvero un’inchiesta negli uffici di viale Mazzini. Ma poi tutto viene archiviato dal giudice. Racconterà poi lei, anni dopo: «Cominciò una spaventosa campagna di stampa contro di me, mi si accusava di aver estorto soldi, ma il giudice archiviò tutto e tutto finì nel nulla….».

Chiusa la pagina Rai, comincia la nuova stagione di Maria Giovanna Maglie, quella mediaticamente più famosa: le collaborazioni a «Il Giornale », «Il Foglio», a «Libero ». Libri polemici e anche provocatori come «Oriana: incontri e passioni di una grande italiana » (Mondadori, 2002) una biografia esplicitamente non autorizzata di Oriana Fallaci, poi «Il mostro cinese» (Piemme, 2020) e «Puttane. Il mestiere più antico del mondo ai tempi di internet e del Covid » (Piemme, sempre 2020) fino all’ultimo «Addio Emanuela. La vera storia del caso Orlandi » (Piemme, 2022). Per il sito Dagospia, tra il 2015 e il 2016, segue e commenta le vicende degli Stati Uniti, in particolare l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca.

Il grande pubblico la conosce, negli ultimi anni, soprattutto per la sua effervescente e provocatoria presenza come opinionista in tante trasmissioni televisive: «L’isola dei famosi», «La vita in diretta», «l’Arena», «Stasera Italia». Una presenza mai banale, sempre pronta alla polemica e alla battuta: negli ultimi anni Maria Giovanna Maglie ostenta il suo aperto sostegno alla Lega e al suo segretario Matteo Salvini, così come Stati Uniti e Israele restano i punti di riferimento delle sue analisi di politica internazionale. Gioca ironicamente con la sua corporatura proponendo originalissimi abiti e vistosi accessori, interpretando di fatto un personaggio televisivo a metà tra giornalismo e spettacolo, perfettamente a suo agio col trash televisivo, con sarcasmo e col sorriso. Infotainment, insomma.

Lavora fino all’ultimo, si sente male durante la maratona elettorale condotta da Nicola Porro, Quarta Repubblica. Appena si riprende saluta i suoi fan sui social, le sue foto appaiono fino a pochi giorni fa sulla sua pagina Instagram. Poi ieri l’ultima crisi, il ricovero d’urgenza al San Camillo di Roma. La saluta così Enrico Mentana, direttore del Tg L7: «Se n’è andata Maria Giovanna Maglie, giornalista battagliera, donna forte, con le sue idee e la sua vis polemica. Ognuno la ricorda a modo suo, secondo le sue passioni e le sue sensibilità». Lei stessa, lo sa chiunque l’abbia conosciuta, avrebbe detestato ogni santificazione nell’ora dell’addio.

Addio Maria Giovanna Maglie, il volto ruvido dell’intelligenza. Dagli anni dell’Unità all’amore per Trump, Maglie era abituata a dar battaglia, non si offendeva mai se la prendevi di petto. Era animata da una passione autentica per il giornalismo e per i piaceri della vita, priva di rancori e malanimi. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 23 maggio 2023

Di giornalisti innocui e corifei, sempre alla ricerca dell’applausetto e del consenso da casa ne è pieno il mondo e non sappiamo proprio cosa farcene.

Di questa cosa te ne accorgi quando se ne vanno via gli altri, quelli che stanno dell’altra sponda, che mai li troverai a fare le vittime o i paraculi pedanti, che se ne fregano dei fischi, dei buu o di piacere al pubblico, nemici del conformismo, dell’etichetta e del moralismo. Persone intelligenti e libere, che non si nascondono mai, anche se ti snervano con la polemica con il gusto della logomachia, schiette persino nella malafede.

Maria Giovanna Maglie era così, eccessiva, aspra ai limiti dell’antipatia, indisposta a cercare mediazioni e punti di equilibrio sulle sue opinioni, nette, radicali, tagliate con l’accetta e difese a suon di metaforici montanti in quel ring che per lei era il giornalismo. E siccome era abituata a dar battaglia, non si offendeva mai se la prendevi di petto, magari ti gridava addosso le sue ragioni, con sgarbo, ma senza mai varcare il limite della maleducazione e della volgarità. La frase «più scema» che potevi pronunciare in un talk show per lei era «fammi continuare, io non ti ho interrotto» e tutto la pretesca ipocrisia delle madonnine infilzate che piagnucolano in tv.

A Maria Giovanna Maglia potevi interromperla come e quando volevi e senza causare chissà quali drammi, anche perché lei lo faceva molto spesso, sovrastandoti con le sue ruvidezze, anche quando si ritrovava sola contro tutti quasi compiaciuta nel recitare il ruolo della “cattiva” e di causare attacchi di nervi nei suoi antagonisti, specie quando discuteva della “sua” attualità internazionale.

Le posizioni filoatlantiche e guerrafondaie ai limiti della faziosità, il sostegno incondizionato ai governi israeliani, le uscite a volte spiacevoli contro l’islam e i musulmani non le hanno certo creato pletore di amici. Sapeva di provocare ed era ciò che voleva, probabilmente anche per indole personale. Eppure tutte le persone che l’hanno conosciuta, anche e soprattutto gli avversari ai quali sapeva rendere l’onore delle armi, dicono tutte la stessa cosa: dietro i riflettori sapeva essere una donna simpaticissima e generosissima, animata da una passione autentica per il giornalismo e per i piaceri della vita, priva di rancori e malanimi.

Apparteneva a quella generazione che viveva il giornalismo politico come una seconda pelle, un’immersione totale che rende superflua la separazione tra pubblico e privato. Ha attraversato lo stesso sentiero politico e professionale di molti suoi coetanei: nata a sinistra nella culla del Pci, è stata giovane redattrice de L’Unità alla fine dei ‘70, nella stagione più cruenta degli anni di piombo.

Folgorata dall’astro di Bettino Craxi, nel 1987 lascia il giornale fondato da Antonio Gramsci e approda in Rai al Tg2 su suggerimento diretto dell’ex segretario socialista, attirandosi così l’odio degli ex compagni di partito. Un passaggio che racconta lei stessa con grande senso dell’umorismo: «Ero circondata da persone che pensavano che fossi una stronza, che aveva tradito il Pci. E poi ero considerata "la grande amica di Craxi". Ma io ero la raccomandata di Craxi, non “la grande amica”».

Il grande pubblico la conosce nel 1990 allo scoppio della prima guerra del Golfo che copre come inviata in Medio Oriente. A conflitto terminato conquista l’ambito ufficio di corrispondenza da New York dove rimane per alcuni anni. Durante la seconda repubblica è stata sì berlusconiana ma con moderazione, poco interessata alle beghe intestine del Cavaliere, sempre concentrata sull’amata geopolitica.

Capace di fiutare lo spirito dei tempi intuisce le potenzialità del cosiddetto sovranismo, pronostica contro ogni previsione il trionfo di Donald Trump e nell’ultimo decennio si è situata genericamente a destra, appoggiando la Lega di Matteo Salvini. Con le dovute proporzioni Maria Giovanna Maglie era una versione pop di Oriana Fallaci sulla quale ha scritto una bella biografia e con la quale condivideva l’ispirazione “neo con” degli ultimi anni, ma di erto non l’aristocratico livore...

Nicola Porro distrutto per la Maglie: "Cos'è successo dopo quel malore". Libero Quotidiano il 23 maggio 2023

Un ricordo commosso e commovente, quello di Nicola Porro, per l'amica e collega Maria Giovanna Maglie morta a Roma a 70 anni. Il conduttore di Quarta repubblica dedica la sua video-rassegna stampa quotidiana Zuppa di Porro proprio alla giornalista e opinionista diventata negli ultimi anni un punto di riferimento del "sovranismo" e di quel centrodestra, anzi destra-centro che ha fatto appena in tempo a vedere arrivare a Palazzo Chigi con Giorgia Meloni.

"Oggi sono molto triste perché è morta Maria Giovanna Maglie. Oltre che ad essere una collega giornalista, Maria Giovanna era un'amica", esordisce Porro, che ricorda come "l'ultima volta che la intervistai fu in occasione delle elezioni politiche e, proprio durante Quarta Repubblica, ebbe un malore. Da lì in poi, è successo quello che è successo ovvero la sua malattia si è aggravata e l'ha portata alla morte". Un malore che, aveva spiegato la stessa Maglie rendendo pubbliche le sue difficili condizioni di salute, aveva fatto di tutto per mascherare durante quella diretta.

"Era intelligente, controcorrente e decisamente troppo giovane per morire", prosegue Porro risalendo con la memoria ai giorni dei loro primi incontri. "Mi sembra che fosse quando lavoravo ancora in Rai e la invitai all'Alien di Roma dove facevo il PR. Stiamo parlando di quando avevo 22-23 anni, quindi insomma si parla di una vita fa. All'epoca Maria Giovanna aveva tendenze più o meno socialiste, mentre io più o meno liberale e lì iniziò quel rapporto con lei che è avanti per gli anni". 

La giornalista e gli ultimi mesi in ospedale. Come è morta Maria Giovanna Maglie, il malore in tv “che ho cercato di mascherare”, l’intervento e le complicazioni. Redazione su Il Riformista il 23 Maggio 2023 

“Ho avuto un malore che ho cercato di mascherare. Ho concluso il collegamento e poi ho spiegato che avevo bisogno di staccare. Non so nemmeno se ne siano accorti gli spettatori”. Aveva raccontato così quanto accaduto lo scorso settembre nel corso della trasmissione Quarta Repubblica, in onda su Rete4 e condotta dal collega Nicola Porro.

Da quel giorno per Maria Giovanna Maglie è iniziato un lungo calvario in ospedale, fino alla scomparsa nelle prime ore del 23 maggio all’età di 70 anni in seguito ad una serie di problemi di salute e alle complicanze di un intervento chirurgico subito nello scorso mese di settembre.

A dare la notizia del decesso, avvenuto in un ospedale romano, è stata Francesca Chaouqui, amica e collega. “E’ tornata questa Mattina alla Casa del Padre. È stata portata al San Camillo Forlanini la scorsa notte per una complicazione venosa ed è spirata poco fa. Ero accanto a lei, ha lottato fino alla fine come sempre. Adesso è in pace”.

Nata a Venezia il 3 agosto del 1952, Maria Giovanna Maglie era già stata ricoverata in ospedale negli ultimi mesi del 2022 e nei primi del 2023 “per una serie di interventi chirurgici, ecco la ragione della mia latitanza” aveva scritto ad inizio dicembre la giornalista mostrando, via Twitter, il suo ultimo libro su Emanuela Orlandi.

Nel settembre 2022 aveva raccontato sempre tramite i social di aver sofferto un malore durante la diretta tv della trasmissione Quarta Repubblica, dove era stata invitata per commentare le elezioni politiche del 25 settembre. A Il Corriere della Sera ha raccontato che a salvarle la vita dopo il malore a Quarta Repubblica era stato un intervento d’urgenza al cuore per un aneurisma all’aorta all’European hospital di Roma. Poi sono intervenute le complicazioni ed era stata ricoverata per diversi mesi a causa di una forte anemia.

La sua carriera giornalistica era iniziata nel 1979 all’Unità, da cui si era dimessa per divergenze ideologiche. Nel 1989 l’assunzione in Rai e l’anno successivo, allo scoppio della prima guerra del Golfo, era stata in Medio Oriente come inviata del Tg2. In seguito era diventata corrispondente da New York, imponendosi per il suo stile esuberante e polemico. Nel 1993 si era dimessa dalla Rai per un caso di presunti rimborsi spese gonfiati che si concluse con l’archiviazione delle accuse. In seguito aveva collaborato con Il Giornale, Il Foglio, Radio Radicale, Radio24 e Dagospia

Fu anche scrittrice: tra i suoi libri la biografia di Oriana Fallaci e alcuni saggi su argomenti di politica internazionale. Molto presente in tv come opinionista in diversi programmi politici, è sempre stata vicina a idee di destra. All’inizio del 2019 fu al centro di una polemica perché la Rai era intenzionata ad affidarle una striscia informativa subito dopo il Tg1. Di fronte alle proteste di Pd e Movimento 5 Stelle, il progetto non si realizzò.

Sostenitrice del segretario federale della Lega Nord Matteo Salvini, dal 2016 non risulta più iscritta all’Ordine dei giornalisti per mancato pagamento delle quote annue di iscrizione.

La giornalista era stata data in corsa alle elezioni politiche dello scorso 25 settembre, con la Lega, cui si è avvicinata negli ultimi anni. Candidatura poi smentita.

Qui l’ultima intervista che Maria Giovanna Maglie ha rilasciato, dall’ospedale, a Giuliano Guida Bardi per Giornale Radio ( “IL PUNTO G”, 27 NOVEMBRE 2022) 

Partiamo dall'attualità politica statunitense. In Alaska si registra una doppia sconfitta di Trump. Che succede, c'è del marcio nella gelida Alaska o Trump ha perso il controllo del Grand Old Party?

No, Trump non ha perso assolutamente il controllo del partito, anche se c'è un gran pezzo di repubblicani che non lo vorrebbe come candidato. Trump ha sbagliato ancora una volta nel pensare che Sarah Palin fosse qualcosa di più di un grande folklore. Ha prevalso la moderata nativa e mezzatinta americana, la quale tra l'altro è stata così furba da dire “se non sono la vostra prima scelta, fate che io sia la vostra seconda”. In Alaska c'è un metodo stravagante di eleggere il governatore,  per cui tu puoi indicare la tua prima e la tua seconda scelta, quindi si possono scegliere tutte e due. La Palin ha vinto come seconda scelta.

Quanto a Lisa Murkowski, è una spina nel fianco dei pubblicani da decenni, non da oggi. Lei vota sempre contro i repubblicani, che si tratti di giudici della Corte costituzionale, che si tratti di Bush, che si tratti di chiunque. E solo grazie a quel pugnetto di repubblicani che gli americani chiamano RINO, repubblicani solo nel nome, che lei ce la fa sempre. Evidentemente ha un drappello di fedeli in Alaska. Ma questo non vuol dire niente: l’elezione in Alaska, l’hanno pompata i giornali democratici. 

Ritieni che il controllo di Trump sul Partito repubblicano sia ancora forte?

Ci sono delle frange di gente che non ne vuole sapere più di lui. C'è una grossa fetta di gente che vuole Ron De Santis, che però creerebbe un sacco di problemi. E’ giovane, ha quarant'anni, è cattolico, è in ascesa irresistibile dalla Florida a Washington. Se fosse lui il candidato obbligherebbe Biden a farsi da parte e i democratici a trovare uno giovane anche loro. È tutta da scrivere questa storia, bisogna vedere chi vincerà le primarie.

Se Atene piange, Sparta non ride. I democrats hanno un presidente uscente che è ottuagenario, i Clinton sono sullo sfondo come una promessa mancata e Obama non sfonda più. L'asinello che fa?

Non solo Biden è ottuagenario, ma è il peggio ridotto ottuagenario che abbia mai visto in vita mia. Perché ci sono ottuagenari belli in salute. E Biden non è più in salute fisica né mentale, ed è tenuto lì in un gesto di autentica crudeltà. I democratici, a leggere lo spirito dei Clinton, che è uno spirito da gang, soprattutto per quanto riguarda Hillary. Obama ha esaurito la sua famosa spinta. 

Quindi i democratici sono in una grande crisi perché si sono spinti a sinistra come mai avevano fatto nella loro vita. Io non mi ricordo un periodo in cui i democratici fossero così “diritti civili e non diritti sociali”, “tutto ciò che è nuovo, tutto ciò che è diverso, contro tutto ciò che è tradizionale”. Rischiano di brutto, anche perché io non vedo le candidature di ricambio, non le vedo proprio. Vedo soltanto tanta fuffa su work, politically correct, me too, tutte cose che pagheranno carissime. 

La società americana come sta vivendo la guerra in Ucraina?

Da quello che ho capito io gliene frega poco, come sempre succede per queste cose così lontane. Restano tali fino a che non devono mettersi gli scarponi da guerra; e per il momento nessuno ha chiesto ai soldati americani di andare in Ucraina. Però non gli piace questa guerra, vorrebbero che finisse, vorrebbero il negoziato. Non sono soddisfatti di questa guerra, non la sentono. E’ una guerra che si è sentita in Europa. Gli statunitensi non hanno questa affezione per Zelenksy, uomo da cui noi, invece, siamo stati rapiti. È una cosa lontana ma non spinosa; sarebbe bene avviare un negoziato per chiudere la faccenda. 

Sullo sfondo c'è sempre il confronto con la Cina, la grande potenza. La strategia è consolidata oppure tra repubblicani e democratici esiste una diversa visione geopolitica?

Ammesso che in questo momento esista negli Stati Uniti e nei suoi politici una visione geopolitica qualunque, cosa sulla quale non sarei pronta a giurare, tra Dem e Rep il punto di vista è profondamente diverso. I democratici in questo momento sono schierati sulla Cina come  causa di tutti i vizi e di tutti i mali. Esattamente come hanno fatto con la Russia. I repubblicani sono più ragionevoli. Resta il fatto che la Cina è fortissima e loro sanno perfettamente che la situazione di grande debolezza in questo momento, è dell'America. 

La Cina sa quanto è debole l'America in questo momento. La Cina sa quanto è tossico il processo elettorale e quindi questo può far sì che la sua rapacità cresca. 

Invece, per quanto riguarda i rapporti transatlantici, gli Stati Uniti hanno a cuore la vecchia Europa in sé o si accontentano della relazione particolare con il Regno Unito?

Gli Stati Uniti, per quanto riguarda la vecchia Europa, vorrebbero che si faccia come dicono loro. D’altronde l’Unione Europea è nata perché  gli stati europei facciano come vogliono loro. In questo momento agli Usa, l’Europa serve per l'Ucraina. Non hanno aiutata in nessun modo con l'energia i loro alleati europei. Nè in nessun modo con la Libia e con i clandestini. 

Senza considerare poi che  Regno Unito ormai è una cosa completamente staccata, con rapporti completamenti staccati dall’UE. L'Unione Europea per gli americani è un accidente che non deve trasformarsi in un pericolo. I rapporti atlantici vanno bene; nel senso che vanno bene se c’è obbedienza da parte europea. Se da parte europea c'è un qualunque sollevamento di sopracciglio…

Spostiamoci sul Pacifico. Mi sembra che Washington abbia sempre voluto controllare militarmente le rotte commerciali. Ora nel Pacifico, che cosa succede? Chi è che controlla il traffico merci? Sullo sfondo c’è la questione di Taiwan che abbiamo accarezzato prima parlando della Cina, e poi tutte le nuove rotte che arrivano ai nuovi porti di Hormuz.

Se posso dirla chiara è un casino. Nel senso che è lì che si misurerà tutta la potenza, le minacce e le possibilità di chi comanda. Perché è là che si gioca la partita di controllo del Pacifico e quindi anche la nuova realtà mondiale, che si è spostata di là. Noi continuiamo a credere che sia di qua, ma si è spostata di là. Taiwan è fondamentale, la Cina è molto minacciosa. Ripeto, ci vorrebbero degli Stati Uniti degni di questo nome, come erano fino a qualche anno fa. Ora gli Stati Uniti sono il marasma, come non erano dai tempi del Vietnam. 

Mentre la Russia è ancora un attore fondamentale nello scacchiere internazionale o si avvera la profezia di Dwight Eisenhower sul rischio di un'implosione della Federazione russa e dunque di un grande disordine?

Io per il momento implosa non la vedo. Per il momento vedo che è aggressiva e in avanti, diciamo così. Implosioni non ne vedo. Certo, è una società chiusa, con dei limiti terribili, di diritti civili, quindi non è una società tranquilla. Però guardate l'impatto della guerra come lo stanno sopportando… 

E anche delle sanzioni a cui stanno reggendo abbastanza bene, mi pare.

Esatto. E anche delle sanzioni. Oramai sono 9-10 mesi di guerra.

L'Italia adesso ha un nuovo governo, per la prima volta un premier donna e il mainstream continua a dirci che invece la posizione dell'Italia in Europa e nel panorama internazionale sia indebolita per la mancanza di Mario Draghi. Tu pensi che sia così o pensi che in realtà un governo con una solida maggioranza parlamentare che ha la prospettiva di durare 5 anni non sia un governo che va trascurato in Europa?

Penso che quella su Draghi sia una clamorosa balla. Le balle che sono state raccontate dall'inizio del governo Draghi continuano ad essere raccontate anche ora. Draghi non ha fatto niente per dimostrare autorevolezza e supremazia dell'Italia. Draghi ha subito quello che doveva subire, come avrebbe fatto qualunque tecnico preposto al Consiglio dei ministri. Questo governo si gioca tutta qui, si deve conquistare autorevolezza e deve avere soldi. Perché senza soldi, fallisce.

Una domanda finale a risposta flash: gli Stati Uniti controllano ancora l'Italia?

In buona parte sì.

Da notizie.virgilio.it il 25 maggio 2023. 

Ultimo saluto a Maria Giovanna Maglie. I funerali della giornalista si sono tenuti dalle 12 di giovedì 25 maggio 2023 in piazza del Popolo a Roma, presso la chiesa degli Artisti. Per il 24 maggio dalle 15 alle 18, invece, era prevista la camera Ardente presso la sala della Protomoteca in Campidoglio. 

L’ultimo saluto

Il feretro con la salma di Maria Giovanna Maglie, che si è spenta il 23 maggio 2023, è arrivato alla chiesa degli Artisti in piazza del Popolo intorno alle 11.45.

Alla cerimonia era presente il marito della giornalista, Carlo Spallino, artista ed esperto di galateo. Ad accogliere l’arrivo del feretro anche Miguel Gotor, Assessore alla cultura, e Matteo Salvini, Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, come riportato da Il Sole 24 Ore. 

A fornire le informazioni sul funerale, oltre che ad avvisare della morte di Maglie, era stata Francesca Chaouqui, molto legata alla giornalista e saggista. 

Il cordoglio sui social

Tra i primi a scrivere un messaggio di cordoglio sui social era stato Matteo Salvini, che l’aveva ricordata come “Amica dalla voce forte e originale, oratrice appassionata, giornalista e intellettuale raffinata, soprattutto donna coraggiosa, indipendente e libera”.

Un messaggio in ricordo della giornalista era arrivato anche dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni: “Forte, intelligente, combattiva, una professionista seria e sempre pronta al confronto. Ci mancherà” aveva scritto sui social. 

A loro si erano accodati tanti altri politici, giornalisti, personaggi dello spettacolo, tra cui Vittorio Sgarbi, che l’aveva ricordata come “Coraggiosa e tenace. Donna di mille battaglie. Giornalista preparata e scrupolosa che rifuggiva dai luoghi comuni. Con me complice anche d’incursioni nella politica, senza pregiudizi, ma con una grande voglia di fare”. Dal letto d’ospedale Maria Giovanna Maglie, pochi mesi prima della sua morte, aveva presentato il libro sul caso di Emanuela Orlandi

Chi era Maria Giovanna Maglie

Maria Giovanna Maglie era nata a Venezia nel 1952 e aveva cominciato a lavorare nel mondo del giornalismo poco più che 20enne a L’Unità. Per il giornale si occupò prevalentemente di politica internazionale, fino a quando non abbandonò nel 1989 per divergenze con il Partito comunista. Passo quindi alla Rai, dove fu inviata di guerra per il Tg2 nella prima Guerra del Golfo per poi stabilirsi a New York e lavorare come corrispondente da lì fino al 1993.

Ray Stevenson, morto improvvisamente sul set l'attore della serie "Roma". Morto ad Ischia mentre stava lavorando ad un film. L'attore Ray Stevenson aveva girato molte pellicole per la Marvel. La grande notorietà con la serie tv "Roma". Roberta Damiata il 23 Maggio 2023 su Il Giornale.

È morto ad Ischia l'attore inglese Ray Stevenson. Si trovava sull'isola verde per girare il film "Cassino a Ischia", diretto da Frank Ciota, quando ha accusato un malore per cui è stato necessario un ricovero d'urgenza. Da subito le sue condizioni sono apparse molto serie, e dopo un'ulteriore peggioramento, è morto all’ospedale Rizzoli. Nato a Lisburn, nell’Irlanda del Nord, il 25 maggio 1964, Stevenson era noto al grande pubblico soprattutto per aver interpretato Tito Pullone nella serie Roma del 2005.

Amatissimo anche il suo personaggio di Volstagg in Thor di Kenneth Branagh e nei sequel The Dark World e Thor: Ragnarok. Sposato con l’antropologa italiana Elisabetta Caraccia, l'aveva conosciuta proprio sul set della serie Roma. La coppia ha avuto tre figli: Sebastiano Derek (2007), Leonardo George (2011) e Lodovico (2013). La scomparsa improvvisa ha lasciato tutti sgomenti, e nonostante l'intervento immediato dei soccorritori, non è stato possibile salvarlo. Non sono stati resi noti i motivi del decesso, ma è molto probabile che si sia trattato di un attacco di cuore, anche se non ci sono al momento conferme.

Tanti sono i ruoli che l'attore irlandese aveva interpretato nella sua carriera sia per il grande che per il piccolo schermo. A cominciare da quello di Dragonet in King Arthur condividendo il set con Clive Owen, Keira Knightley e Ioan Gruffudd. Poi la fortunatissima serie Roma, del 2005 dove interpreta il personaggio di Tito Pullone. Poi ancora in Outpost e Aiuto Vampiro con Willem Dafoe e Salma Hayek. Nel 2008 è ancora protagonista in Punisher - Zona di guerra e qualche anno dopo, nel 2011, interpreta nel film Thor diretto da Kenneth Branagh: saga del supereroe figlio di Odino nella quale compare successivamente in The Dark World e Ragnarok. E ancora, è Porthos ne I tre moschettieri e un boss della mafia ucraina in Dexter.

Era stato chiamato anche per Ahsoka, la serie legata a Star Wars. L’attore aveva un ruolo da antagonista, quello di un ex ammiraglio imperiale. Aveva prestato la sua voce al comandante mandaloriano appartenente al clan Viszla apparso nelle due serie animate Star Wars: Clone wars e Star wars: Rebels. Recentemente Stevenson aveva lavorato anche in Vikings e interpretato il pirata Barbanera nella serie Black Sails. Il suo ultimo lavoro, quello sul set di Cassino, a Ischia, dove interpretava il personaggio di Nic Cassino, girato proprio sull'Isola verde, purtroppo non l'ha potuto portare a termine.

Morto Martin Amis, romanziere dei tempi inquieti che guardava in faccia la storia. CRISTINA TAGLIETTI su Il Corriere della Sera il 20 maggio 2023.

Lo scrittore di «Money» e de «La freccia del tempo» aveva 73 anni. Aveva esordito mezzo secolo fa. Il suo nuovo libro «La vita da dentro» (Einaudi) uscirà postumo martedì 23 maggio

È morto della stessa malattia dell’amico Christopher Hitchens, un cancro all’esofago, Martin Amis. Lo scrittore è scomparso venerdì a 73 anni, nella sua casa di Lake Worth, in Florida: lo ha annunciato la moglie, la scrittrice Isabel Fonseca. Nato a Oxford il 25 agosto 1949, romanziere formidabile e discontinuo, polemista fuori dagli schemi, intellettuale nemico dei cliché, con la sua prosa divagante e controllata Martin Amis ha contribuito a ridefinire, negli anni Ottanta e Novanta, la narrativa britannica, influenzando un’intera generazione di scrittori britannici come Zadie Smith e Will Self.

Un’amicizia duratura e profonda lo legava a Christopher Hitchens, come lui saggista, critico, mente brillante, spirito polemico e dalla verve anticonformista, «la sola bionda di cui mi sia innamorato», come lo definì una volta con l’ironia caustica che lo contraddistingueva. Era stata proprio la sua morte, nel 2011, a ispirargli l’ultimo libro, La storia da dentro (sottotitolo Come scrivere) che Einaudi martedì manda in libreria: una sorta di fluviale autobiografia romanzesca in cui, mescolando realtà, memoria, persone vere con nome e cognome, personaggi d’invenzione, riallaccia i fili della sua vita, già raccontata in uno dei libri più amati dai lettori, Esperienza, in cui aveva messo al centro il complesso rapporto con il padre Kingsley, anche lui scrittore.

La storia da dentro, che si configura a questo punto come il suo testamento letterario e umano, è uno zibaldone in cui si ritrovano tutte le persone che hanno lasciato un segno profondo, oltre che nella sua formazione, anche nella letteratura contemporanea di lingua inglese in generale. All’interno c’è tutto: le donne amate, il padre, la moglie di lui, Elizabeth Jane Howard (autrice della saga dei Cazalet) l’amico di famiglia e grande poeta Philip Larkin, i numi tutelari Saul Bellow e Vladimir Nabokov (che chiamava Twin Peaks). E poi Iris Murdoch, oltre a quel gruppo di autori coetanei che si è formato in gran parte durante gli studi universitari a Oxford e che comprende Ian McEwan e Salman Rushdie. Anche con loro c’era un’amicizia e una complicità profonde, rafforzate dalla fatwa di Khomeini lanciata contro l’autore dei Versi satanici: più volte hanno raccontato le fughe per vedersi, nonostante la vita blindata a cui la scorta costringeva Rushdie.

Inserito dal «Time» tra i cinquanta intellettuali più influenti dal 1945, Amis è stato un osservatore attento del Novecento e delle sue ferite: «Ho scritto due libri su Hitler e due libri su Stalin, quindi ho già passato circa otto anni in loro compagnia. Ma non c’è modo di sfuggire a quei due, per come la vedo io», annuncia nel Preludio del nuovo libro. Nel 1973 vinse il premio Somerset Maugham con il primo libro, Il dossier Rachel, il più tradizionale dei suoi romanzi, trasformato in un film di scarso successo, che racconta la storia di un adolescente brillante ed egoista (dai tratti dichiaratamente autobiografici ) e la sua relazione con la fidanzata nell’anno prima di andare all’università . Con quel riconoscimento si mise subito in pari con il padre, che lo aveva ricevuto per Lucky Jim nel 1954.

Negli anni successivi Amis ha messo sulla graticola gli eccessi e le assurdità della società occidentale «tardo-capitalista», spingendo sul pedale della satira e del grottesco. Lo ha fatto con romanzi come Money, dove ha messo al centro un regista pubblicitario che tra Londra e New York sta girando il suo primo film e si trova davanti a divi egocentrici, produttori rampanti e amanti infedeli; con London Fields, mistery comico in una Londra post-thatcheriana dura e ferita; con L’informazione , s toria di due quarantenni che dopo gli studi insieme a Oxford, sono diventati entrambi scrittori, uno di successo, l’altro un fallito . Con La zona d’interesse , da cui il regista Jonathan Glazer ha tratto un film presentato a Cannes proprio in queste ore, ha raccontato la storia di un ufficiale nazista che si innamora della moglie del comandante del campo di sterminio. La «zona di interesse» era il nome usato dai nazisti per descrivere l’area di 40 chilometri quadrati che circondava il campo di concentramento di Auschwitz e quella storia a tre voci aveva suscitato polemiche feroci al punto che alcuni editori europei si erano rifiutati di pubblicarlo. Ha parlato d’amore con La vedova incinta, ambientato in una lunga estate italiana degli anni Settanta, vissuta da un gruppo di ragazzi alle prese con gli imprevisti della rivoluzione sessuale.

Polemista provocatorio («È stato uno degli scrittori più acclamati e discussi degli ultimi 50 anni», ha dichiarato in una nota il Booker Prize), nel tempo ha fatto arrabbiare le femministe, ha inveito contro l’islam (dopo l’attentato alle Torri gemelle dichiarò che per fermare la nuova strategia dell’«orrorismo» e gli stragisti islamici «la comunità musulmana avrebbe dovuto soffrire e rimettere ordine al suo interno»); ha criticato la rivoluzione sessuale e addirittura s’è scagliato contro la vecchiaia, proponendo una eutanasia di massa per gli over settanta.

La sua morte lascia un vuoto enorme nel panorama culturale non soltanto britannico ma mondiale. Mancherà una voce a volte aspra e disturbante, ma sempre libera, capace di rompere i preconcetti e di raccontare storie che non lasciavano mai indifferenti. «Sono spesso accusato di concentrarmi sul lato repellente della vita, in realtà penso di essere un sentimentale», aveva detto al «New York Times» nel 1985, con uno di quegli sberleffi in cui, probabilmente, diceva la verità.

Addio a Martin Amis, lo scrittore di "Money" e "La freccia nel tempo". Storia di Federico Garau su

Il Giornale il 20 maggio 2023.

Si è spento all'età di 73 anni lo scrittore britannico Martin Amis, conosciuto per i suoi romanzi caustici, arguti, dallo humor nero tipico della narrativa inglese degli anni ottanta e novanta. Secondo quanto riferisce la stampa estera, Amis è morto oggi nella sua casa in Florida a causa dell'aggravarsi della patologia di cui era affetto. La moglie Isabel Fonseca ha infatti rivelato che l'autore stava combattendo contro un tumore all'esofago.

La vita

Nato a Orxford il 25 agosto 1949, Martin Amis era figlio d'arte. Suo padre, Kingsley Amis, era uno scrittore apprezzato, oltre che docente di letteratura inglese all'Università di Cambridge e poeta tradizionalista. Aveva un fratello maggiore, Philip, e una sorella minore, Sally. Sua madre, invece, era Hilary A. Bardwell.

Sopportò il trauma della separazione dei genitori. Riuscì, con qualche difficoltà, ad accedere all'Exeter College di Oxford, laureandosi poi con lode nel 1971. Nel 1972 fu assistente editoriale per The Times Literary Supplement, diventandone successivamente l'editore di narrativa e poesia. Nel 1975 è entrato a far parte della redazione della rivista The New Statesman.

Martin ereditò molto dello stile del padre, ispirandosi anche ad autori come Saul Bellow, Vladimir Nabokov, James Joyce ed Elmore Leonard. Col tempo divenne un rappresentante della letteratura postmoderna inglese. Da sempre in competizione con la figura paterna. Martin Amis conobbe il mondo dell'editoria fin da giovane. Scrisse il suo primo romanzo, The Rachel Papers, di notte e nei fine settimana. Il lavoro venne pubblicato in Inghilterra nel 1973. Il suo vero successo arrivò a metà degli anni '90. Nel 1994 lasciò la sua prima moglie, Antonia Phillips, per Isabel Fonseca, a sua volta scrittrice.

La produzione

Amis ha pubblicato 15 romanzi, un libro di memorie ben considerato ("Experience", nel 2000), diverse opere di saggistica e raccolte di saggi e racconti. I suoi lavori più conosciuti sono Money (1984), Territori londinesi (1989) e La freccia del tempo (1991). L'ultimo, in particolare, colpì per i personaggi: scritto come racconto autobiografico, riportava la storia di un medico che partecipò alle atrocità commesse contro gli ebrei durante l'Olocausto. Nel 1991 il libro fu candidato per Booker Prize. La casa editrice italiana Einaudi ha nel tempo pubblicato tutti i suoi libri. Fecero scalpore alcune sue dichiarazioni nel 2013. Amis propose di installare delle cabine telefoniche nelle strade da destinare alla eutanasia degli anziani, così da trovare una soluzione all'invecchiamento. Le polemiche che seguirono quella provocazione furono feroci.

La voce unica. Sei divagazioni sonciniane per ribadire che Martin Amis è il più bravo di tutti. Guia Soncini su l'Inkiesta il 22 Maggio 2023.

Come si fa il necrologio di uno scrittore gigantesco? Forse ricordando che i suoi saggi sono un esaustivo trattato sul presente e le sue interviste citabili quanto i suoi romanzi per chiarezza ed esposizione. E La vedova incinta è il libro che contiene la più spettacolare pagina sull’invecchiare della storia della letteratura

«È questo che tentano disperatamente d’intendere quando dicono che sto diventando Kingsley. Si rilassino: sono già Kingsley». Arriva, ogni mezzo secolo, un’eccezione alla regola empirica per cui il talento fiorisce solo se sei figlio di nessuno, se hai avuto fame, se hai fatto fatica a entrare in un settore, se non hai ereditato l’azienda di famiglia. L’eccezione della prima metà del Novecento fu Eduardo De Filippo, che almeno uno svantaggio parziale ce l’aveva: il cognome della madre, non quello di Scarpetta, di cui era figlio illegittimo.

Kingsley Amis, probabilmente altrettanto certo di entrare nella storia del suo settore quando lo era Vincenzo Scarpetta, si è trovato oscurato dallo stesso ineluttabile destino: generare uno più bravo di lui, più bravo di tutti, più bravo di quanto possano valere i «più bravo» d’un coccodrillo, un genere letterario che non prevede che sia morto un mediocre, e le cui lodi hanno quindi un’intrinseca inutilità.

Specialmente quando il più bravo ha già scritto meglio di quanto possa fare tu della vita e della morte. La vita così come vista da chi abbia le esigenze d’un romanziere in Esperienza, il memoir che Martin Amis scrisse a cinquant’anni: «Guardala: poca trama, carenze tematiche, sentimentale, ineluttabilmente ritrita. Il dialogo è poca cosa, o comunque di qualità incostante. I colpi di scena o sono prevedibili o sono sensazionalisti. E sempre lo stesso inizio, e sempre la stessa fine».

Ma torniamo al problema della bottega di famiglia. «In verità, questo è il mio tratto più raro: sono l’unico romanziere ereditario nella letteratura inglese. Epperciò, sono lo smanioso e zelante, e a questo punto molto anziano, principe Carlo delle lettere inglesi. E sono qui da più tempo di quanto ne avesse previsto chi mi ha invitato alla festa». È il 2010. Carlo ha sessantadue anni e sarà il figlio di sua madre per altri tredici. Martin Amis ne ha sessanta, ed è orfano di padre da quasi quindici: Kingsley è morto nel 1995, sei mesi dopo la pubblicazione dell’Informazione.

L’informazione è molte cose. È l’incipit più citato da gente che per il resto non ha mai letto Martin Amis (che invidia, quante meraviglie da scoprire), è la prova di forza d’un talento così eccezionale da sfidare il disinteresse dei lettori di romanzi per le piccinerie delle vite dei romanzieri, è il segno della stupidità dei critici che riescono a considerarla un’opera declinante rispetto a Money o a La freccia del tempo, ed è il libro che uccide Kingsley, la regina Elisabetta delle lettere.

Poiché non posso andare avanti troppe righe tradendo lo schema «Amis è morto: parliamo di me», dirò che L’informazione è anche il modo in cui io sono solita spiegare cosa succedeva quando la nostra finestra sul mondo erano le edicole, e la letteratura era una cosa viva quanto i pettegolezzi (e viceversa).

La prima volta in cui vidi il nome di Martin Amis non fu sulla copertina d’un libro, ma in un ritratto giornalistico di Tina Brown. Tina Brown è un lascito dell’epoca in cui i direttori di giornale potevano divenire leggendari. Quando ero al liceo dirigeva Vanity Fair. Quello americano, che all’epoca era l’unico che esistesse e una vetrina di pasticceria inarrivabile per le ragazze di provincia. In quel ritratto era riportata una frase che, ora che sono adulta e so i giornali, mi pare plausibile Tina Brown non avesse davvero detto. Richiesta di motivare il suo trascorso fidanzamento con Martin Amis, Brown secondo quell’articolo aveva risposto: mi scoperei chiunque sapesse scrivere così. (Sì, l’ho già raccontato, e sì, è un criterio che funziona meglio se sei Amis che non se sei Brown – ma questo nel Novecento non lo sapevo).

Quando uscì il libro con cui Martin uccise (letteralmente) il padre, avevo ventidue anni, e – a raccontarlo oggi non sembra neanche vero – bramavo il giorno d’uscita dell’Espresso e di Panorama (i vegliardi dei giornali ogni tanto si raccontano di quando ci si rubava la copia che arrivava in redazione, e non si capisce mai se rievochiamo quel tempo con più voluttà o incredulità). Potrei sbagliarmi ma mi pare che la storia di Martin che tradisce l’amico Julian Barnes, la cui moglie era la sua storica agente, per farsi rappresentare da Andrew Wylie, detto Lo squalo, e farsi dare un anticipo vertiginoso per un libro in cui racconta un odio amicale tra uno scrittore di successo e uno d’insuccesso, mi pare che quella storia la lessi sull’Espresso.

Ma non è importante, quel che voglio dire è: c’era un tempo in cui i pettegolezzi letterari facevano colpo sulle ventenni, e finivano per far leggere loro romanzi magnifici che si sarebbero altrimenti perse. Mentre lo scrivo sembra fantascienza anche a me.

E quindi è il 2010 (mica avrete perso il filo), e Amis pubblica La vedova incinta, il romanzo che contiene la più spettacolare pagina sull’invecchiare della storia della letteratura, e si lancia in una polemica di quelle del mondo di prima. Quelle in cui gli intellettuali si dicevano cose crudelissime in prosa splendida, prima che iniziassimo a chiamare i litigi “dissing” e a baccagliare a mezzo video su TikTok.

No, scusate, devo fare un’altra divagazione. La differenza tra uno scrittore bravo e uno pazzesco è: il secondo sa parlare. Non esistono scrittori grandiosi che balbettino banalità se intervistati, che costruiscano male le frasi su un palcoscenico, che non sappiano far fare cose invidiabili alle parole se non le hanno prima limate per giorni nella loro stanzetta.

Amis parlava benissimo. Le sue interviste sono citabili quanto i suoi libri, e c’è una serata dedicata a Larkin, a Harvard nel 1997, il video della quale è spettacolare quanto una pagina di romanzo. Amis butta lì con disinvolta ferocia verità su, per esempio, le persone prive di senso dell’umorismo, che non solo non riconoscono le cose che fanno ridere, ma non riconoscono quelle serie; risponde alle domande come comporrebbe un paragrafo: la prostituta che gli chiede di lady Diana è l’immagine che ogni lettore desidera; è, nell’esattezza con cui ritrae l’imbecillità americana, impeccabile quanto lo era The Moronic Inferno, la raccolta dei suoi articoli giovanili sulla cultura americana.

Quando il poeta Robert Bly si alza e gli dice che gli inglesi sono infantili con quella loro smania di prendere in giro tutti, è la perfetta chiusura di cerchio non solo rispetto alla mancanza di senso dell’umorismo ma anche rispetto a un titolo su Larkin che Amis ha citato qualche minuto prima: «Un vecchio amico che non m’è mai piaciuto», sinossi minima dell’Informazione ma anche perfettissima categorizzazione d’un genere di polemica sofisticata estintasi assieme alla società letteraria.

Ulteriore divagazione. Una cosa che mi fa dare testate al muro sono i critici che parlano della lingua d’un autore che leggono e recensiscono in traduzione. Tradurre l’inglese in italiano, lo sa chiunque conosca un po’ le due lingue, è inevitabilmente uno scempio lessicale e sintattico; per quanto si possa fare un lavoro accurato, quella che recensisci sarà la lingua del traduttore, non quella dell’autore. Il fraseggio di Amis, tuttavia, ha la forza d’un miracolo che non ho mai visto in altri: lo riconosci anche da tradotto.

Credo sia a quel tipo di forza, «una voce letteraria che era al tempo stesso unica e istantaneamente riconoscibile», che si riferisce Salman Rushdie, che ha scritto sul New Yorker «Solo Martin aveva il suono di Martin Amis, e non era saggio tentare d’imitarlo». (Amis è tradotto in italiano da Einaudi; domani, con un tempismo del quale è difficile capacitarsi, esce La storia da dentro, il libro su Bellow e Larkin e Hitchens che avrei dovuto capire fosse un testamento, ma è andata come con Nora Ephron: quando fanno libri per dirci il più chiaramente possibile che stanno morendo, io mi rifiuto sempre di capirlo. Sia Amis sia Hitchens sia Larkin sono morti di cancro all’esofago).

Ennesima divagazione. Una cosa che si porta molto, ho notato nelle ultime trentasei ore, è dire sì, bravo romanziere, ma io preferisco i suoi lavori saggistici. Non so, ma non avevo notato, da vivo, che i titoli delle sue tre raccolte di critica culturale – oltre a The Moronic Inferno, L’attrito del tempo e La guerra contro i cliché – sono già da soli un esaustivo trattato sul presente.

Insomma è il 2010 (mica avrete perso il filo), e sul Guardian Amis si lancia in una polemica contro la stampa e la riduzione a titolo acchiappallocchi di qualunque cosa lui dica. La vedova d’un vecchio amico, il disegnatore Mark Boxer, decide che ora è troppo, pure lamentarsi di venire decontestualizzato dalla stampa, ci sono un paio di cose che ti voglio dire da un po’, a proposito di gente che si ferma più di quanto avrebbe fatto piacere a chi l’ha invitata.

«Sei venuto a trovare Mark Boxer, mio marito, mentre stava morendo. Eri con Chris Hitchens. Mark era esausto perché siete rimasti troppo a lungo. Hai fumato vicino al suo letto. Più tardi ho appreso che la lunghezza della visita non era motivata dall’affetto ma dal fatto che avessi delle ore di buco prima di prendere un aereo a Heathrow. Quando te ne sei andato hai scritto un articolo sui tuoi sentimenti e le tue lacrime: non ho visto sentimenti né lacrime».

Ne nasce uno scambio di lettere che è difficile ricostruire con esattezza: non si è «Lo squalo» per nulla, e Andrew Wylie non ha concesso al Guardian i diritti sulle risposte di Amis abbastanza a lungo da trovarsi esse ancora nel loro archivio. Anna Ford, la vedova, ha il lessico del futuro: lo accusa di narcisismo e di mancanza di empatia; ma anche, più grave per noi gente del Novecento, di «lagne petulanti». Amis ci tiene a precisare che era Hitchens che fumava, che l’aereo l’hanno preso il giorno dopo, ma soprattutto che la sua contro la stampa non era lagna petulante ma «allegra ritorsione».

Chissà se Amis ha mai pensato di scrivere un romanzo non tanto sulle specifiche recriminazioni della vedova, ma sui ventidue anni trascorsi tra la morte di Boxer e il rinfaccio del suo fumoso capezzale. La vedova che per ventidue anni medita di fare un cazziatone a quello stronzo dell’amico del marito è un personaggio di Amis, ammesso che questa definizione abbia senso. Solo Martin aveva il suono di Martin Amis, solo Amis sapeva concepire un personaggio di Amis.

Dice Rushdie che Amis era figlio di tre padri: che da Nabokov aveva preso l’intellettualismo; da Saul Bellow il primato dello stile e la convinzione che sia il fraseggio che fa la letteratura («Lo stile è connaturato, mica qualcosa che si applica in un secondo tempo», aveva detto spiegando al Guardian perché proprio non poteva apprezzare gli scrittori che usavano frasi fatte); da Kingsley l’umorismo. Nella Guerra contro i cliché c’è una recensione della Controvita, il romanzo di Philip Roth; Amis dice che, dopo Portnoy, volevamo di più del sublime autore comico che Roth aveva dimostrato d’essere, e lui ce ne aveva dato di meno.

Non so perché, delle migliaia di citazioni citabili che la prosa di Amis ha prodotto nei decenni, mi venga in mente proprio quel dettaglio. Forse perché c’è questa esclusiva caratteristica della morte: essere il fastidio contro cui è impossibile inscenare allegre ritorsioni.

Estratto dell'articolo di Gaia Martino per fanpage.it il 19 maggio 2023.

Johnny Marr pochi minuti fa ha annunciato la morte del suo amico d'infanzia e collega Andy Rourke, che assieme a Morrissey e Mike Joyce aveva fondato, nel 1982 gli Smiths. Il bassista britannico si è spento a causa di un cancro al pancreas: "[…]

Il messaggio di Johnny Marr

"È con profonda tristezza che annunciamo la scomparsa di Andy Rourke dopo una lunga malattia causata da un cancro al pancreas. Andy sarà ricordato come un'anima gentile e bella da coloro che lo conoscevano e come un musicista estremamente dotato dagli appassionati di musica. Chiediamo di mantenere la privacy in questo triste momento": con queste parole Johnny Marr […]

La carriera di Andy Rourke

Rourke ha suonato in tutti gli album degli Smiths, l'omonimo del 1984, Meat Is Murder del 1985, The Queen Is Dead del 1986 e Strangeways, Here We Come del 1987, mettendo la firma su canzoni come "This Charming Man", "There Is a Light That Never Goes Out", "Heaven Knows I'm miserable now", continuando a suonare con Morrissey anche quando la band si sciolse e il cantante cominciò la sua carriera da solista. […]

(ANSA il 19 maggio 2023) – È morto oggi a Roma all'età di 76 anni il regista e direttore artistico Giorgio Ferrara. A confermare la notizia all'ANSA, fonti vicine alla famiglia. Malato da qualche tempo, Ferrara era ricoverato in un ospedale romano. 

Nato a Roma il 19 gennaio del 1947, fratello maggiore del giornalista e scrittore Giuliano, aveva cominciato la sua attività come aiuto di Luca Ronconi, passando poi lui stesso alla regia con opere anche di Luigi Pirandello, August Strindberg, Carlo Goldoni, Enzo Siciliano, Franca Valeri, Natalia Ginzburg, Cesare Musatti, Corrado Augias, con protagonisti attori come Valeria Moriconi, Andrea Giordana, Franco Citti, Gato Barbieri, Paolo Bonacelli, Ilaria Occhini, Ugo Pagliai. E l'attrice Adriana Asti, divenuta poi sua moglie nel 1982, compagna e musa di una vita.

Per il cinema Ferrara aveva diretto anche Un cuore semplice, vincendo il premio speciale ai David di Donatello 1977 e il Nastro d'argento come miglior regista esordiente. Ma anche opere liriche con l'Orchestra Sinfonica Giuseppe Verdi di Milano. 

Negli ultimi anni si era poi intensificatala la sua attività di direttore artistico. Dal 2003 al 2007 ha guidato l'Istituto Italiano di Cultura di Parigi e dal 2007 al 2020 il Festival dei Due Mondi di Spoleto. In quest'ultima stagione aveva accettato di far parte lui stesso del cast dello spettacolo Testimone d'accusa, tratto da una pièce di Agatha Christie, sostituito poi dal regista Geppy Gleijeses. Nel 2021 era stato nominato direttore artistico dello Stabile del Veneto, ruolo da cui si era dimesso ad aprile scorso.

Da corriere.it il 18 maggio 2023.

È morto a Salisburgo l’attore Helmut Berger, storico compagno di vita di Luchino Visconti. Era stato definito «l’uomo più bello del mondo». Tra i suoi film, «Il giardino dei Finzi Contini» e «Ludwig».

Da fanpage.it

Bello e angelico nel ruolo di Alberto Finzi-Contini ma anche in quello di Martin von Essenbeck ne La caduta degli dei. È morto a Salisburgo l'attore Helmut Berger, storico compagno di vita di Luchino Visconti. Definito "l'uomo più bello del mondo" e "il diavolo dal viso d'angelo", nacque a Bad Ischl il 29 maggio 1944 e si trasferì in Italia a 18 in cerca di fortuna come fotomodello e, al contempo, studiando all'Università di Perugia.

La relazione con Luchino Visconti

È il 1964 quando, nel corso delle riprese del film Vaghe stelle dell'Orsa, incontra Luchino Visconti. Da quel momento, la svolta privata e professionale. La loro relazione durò fino alla morte del regista, ovvero fino al 1976. La relazione fu tenuta nascosta da principio, considerato che la morale negli anni '60 considerava ancora l'omosessualità come uno stigma e un tabù. Luchino Visconti non aveva mai nascosto il suo orientamento bisessuale. Era Helmut Berger che non voleva si sapesse della loro storia, da quanto raccontano le cronache di quegli anni.

La carriera

Helmut Berger fu diretto da Luchino Visconti nel 1967 per "La strega" nell'episodio "La strega bruciata viva. Il successo arrivò due anni più tardi: La caduta degli dei. Per quel film, l'attore riceve la nomination al Golden Globe come miglior attore giovane. Nel 1970 è Alberto Finzi-Contini nel film di Vittorio De Sica Il giardino dei Finzi Contini. Nel 1975 è il protagonista dell'apprezzatissimo Salon Kitty di Tinto Brass. 

La depressione

Dopo la morte di Luchino Visconti, nel 1976, Helmut Berger entra in un periodo di forte depressione che lo costrinse a una sosta molto lunga. Nel 1977 rischia di morire per eccesso di stupefacenti. Nel 1980 riesce a farsi scritturare per lo sceneggiato televisivo Fantômas dall'amico Claude Chabrol. Negli anni successivi, il declino fisico lo tenne lontano dalle produzioni importanti fino a rinascere nel ruolo di Egidio nello sceneggiato tv de I Promessi Sposi. Nel 1990 Francis Ford Coppola lo scritturò per Il Padrino III, affidandogli il ruolo di Frederick Keinszig, un ricco e potente banchiere svizzero. Nel 1992 un video scandalo con Madonna lo riportò in auge.

Marco Giusti per Dagospia il 18 maggio 2023. 

Non possiamo che rattristarci per la tragica fine di Helmut Berger, lui così bello, ricco e celebrato che era crollato nella miseria e nell’incapacità di provvedere alla sua vita. Solo pochi anni fa a Venezia passò l’incredibile "Helmut Berger, actor" dell'austriaco Andreas Horvath, scuola Ulrich Seidl. 

Ovvio che un film che inizia con Helmut Berger a culo nudo e addosso solo una maglietta sporca di "Emmanuelle a Saint Tropez" e finisce con lui che si masturba di fronte alla foto del suo Luchino Visconti ("Aristocratico") e chiede al regista di tirarselo fuori e di farglielo toccare e quando pochi secondi dopo viene si asciuga con la maglia di cachemere non può che essere un capolavoro. In quello che doveva essere un film sulla sua vita, Helmut diceva poco o niente di sé, a parte le battute sulla "moglie lesbica" di Bertolucci, qualcosa sulla sua nascita e il rapporto con la mamma, ma Andreas Horvath lo segue nella sua casa non proprio ospitale di Salisburgo, poi in un delirante e tristissimo Capodanno dagli amici ricchi a Saint-Tropez.

Un museo degli orrori di vecchie glorie. Quando la fedele governante tedesca, morta a film finito, cerca di mettere ordine nella casa del suo un tempo bellissimo padrone, e si lamenta delle pareti piene di morti, come Romy Schneider, Helmut ci spiega da subito il rapporto suo e di Luchino col sesso. "Visconti senza il sesso non sarebbe stato nulla", spiega a Horvath, e gli racconta che ai bei tempi scopava almeno quattro volte al giorno, "sempre partouze". Anche nel film si dichiara ancora attivo ("Andreas”, dice al regista, “ti faccio un pompino e la finiamo lì”).

Un paio d’anni dopo a Torino, dove è venuto sulla sedia a rotelle stava molto peggio, però, e diceva poco e niente. Non so cosa sia stato il cinema per Helmut Berger, scoperto da Visconti nel paesino austriaco dove era nato, a Bad Ischl. Se vi capita di vedere il bellissimo episodio di Visconti “La strega bruciata viva” de “le streghe”, vedete anche Hemut ragazzino al tempo del suo incontro con Visconti. Ancora bello e ingenuo. Sarà Visconti, come ha sempre sostenuto, a rubargli l’anima, a farne qualcosa che non era. Anche se avrà storie di sesso con una marea di star di prima grandezza nei folli anni ’70 del cinema italiano, è Visconti a segnarlo per sempre.

Marina Cicogna glielo ruba per farlo esordire nell’ormai lontano “I giovani tigri” di Antonio Leonviola assieme a altri giovani “figli di”, cioè Luca Della Robbia alias Luca De Filippo e Massimo Farinelli figlio di un celebre esercente perugino. Farà carriera al cinema solo Helmut. Poi lo presta a Rizzoli produttore e a Maurizio Liverani regista esordiente, comunista col Principe di Galles, per il divertente ma disastrato “Sai cosa faceva Stalin alle donne”, satira del cinema romano di sinistra che non piacerà ai critici del tempo.

Ma Helmut parte solo quando si mette le piume, le calze e il cappello di Marlene in “La caduta degli dei” di Luchino. Perché prendere Marlene che scrive tutti i giorni, sembra, per avere un ruolo nel film, quando ha Helmut come sua nuova Marlene. E poi lo mette nella camera da letto della mamma Ingrid Thulin e sistema gli affari di famiglia. Helmut diventa una star. Le mie compagne di classe al liceo D’Oria di Facevano la fila per vedere “Il bel mostro”. Massimo Dallamano, con la passione del cinema erotico, lo chiama come “Il dio chiamato Dorian”, nuova versione di Dorian Gray. La scena sotto la doccia di Helmut e Herbert Lom è qualcosa da antologia.

Sul set di “Il giardino dei Finzi Contini” di Vittorio De Sica si porta dietro il marchio di Visconti. E la notte lui e Dominique Sanda, diceva i presenti, facevano impazzire tutti. E’ sfrenato, bello, ricco, una macchina del sesso, chi c’è c’è, pare di capire. Gira film come “Così bello, così corrotto, così con teso” di Sergio Gobbi che ben rappresenta quello che vedevano i giovani dei primi anni’70 in lui. Il sesso senza differenze di generi. “Ludwig” di Visocnti sarà il suo punto più alto. E la fine ecomnomica del prodotture Ugo Santalucia, esercente del cinema barese, venuto a Roma con una valigia piena di soldi, per girare i primi film di Franco e Ciccio con Lucio Fulci ma con l’idea, un sogno, di fare un giorno un film con Luchino Visconti. Eccolo!

Perderà tutto. Non fare più né il cinema da produttore né l’esercente. Poco importa al clan Visconti. Voleva un film come “Ludwig”? Lo ha avuto. Fino a “Salon Kitty” di Tinto Brass i film di Helmut Berger sono macchine funzionanti. “Il girotondo dell’amore”, tratto da Schnitzler, non bello, ma pieno di volti noti, lo stracultissimo “Mercoledì delle ceneri” di Larry Peerce con Liz Taylor e Henry Fonda, un film dedicato alla chirurgia plastica delle donne, “Gruppo di famiglia in un interno” di Luchino, dove deve fare impazzire il vecchio professore Burt Lancaster, “Una romantica donna inglese” di Joseph Losey con Glenda Jackson e Michael Caine, dove Glemda Jackosn lo odiava.

In “Salon Kitty” è già la parodia del tedesco viscontiano che sarà dopo. Non sapeva che molti anni dopo Quentin Tarantino lo citerà per i suoi film di genere, in barba a Visconti&Co, come “La belva col mitra” di Sergio Grieco, dove Samuel Jackson lo confonde però con Rutger Hauer. Sul set di quel film c’è una delle sue compagne di bagordi notturni preferita, Marisa Mell. Faranno una grande coppia. Col cinema di genere avrà una sorta di nuova vita, “Il grande attacco”, “L’alba dei falsi dei”, il terribile “le rose di Danzica” di Alberto Bevilacqua con Franco Nero, uno dei film più comici che abbia mai visto, “Eroina” di Massimo Pirri, dove fa coppia con Corinne Clery, che si buca proprio lì in primissimo piano.

Tanti anni fa a Venezia mi fece impazzire. Ma gira film assurdi come “Femmes” di Tana Kaleya, dove interpreta un quasi se stesso. Con la morte di Visconti nel 1976 Helmut perde ogni possibilità di ritornare al successo come star internazionale. Le sue storie notturno fanno il giro d’Italia. Sempre imbarazzanti. Se ne va dall’Italia, rompe con la famiglia Visconti, dirà sempre che Luchino non gli ha lasciato nulla. Gira film imbarazzanti. Ogni tanto qualcuno gli offre un piccolo ruolo illuminante. Povero Helmut.

Fama di riflesso. La morte di Helmut Berger, il Luchino di Testori e l’ereditarietà dei prodotti culturali. Guia Soncini su L'Inkiesta il 20 Maggio 2023

La biografia di Visconti pubblicata da Feltrinelli a dicembre, con cinquant’anni di ritardo, ci ricorda quanto fosse difficile lavorare con lui senza rimanerne in qualche modo impigliato. È successo anche all’attore austriaco che fu rivale di Delon 

Una volta l’ereditarietà dei prodotti culturali funzionava diversamente. Adesso non mi è chiaro perché un ragazzino dovrebbe guardare la serie Paramount che dilata a otto ore “Attrazione fatale”, ma sono abbastanza certa che se lo facesse non sarebbe perché ha visto quello con Glenn Close; così come, se TikTok gl’insegna a cantare che il povero gabbiano ha perduto la compagna, il ragazzino di questo secolo non s’insospettisce circa l’esistenza d’una canzone sul gabbiano, e neppure incisa l’altroieri.

Un secolo fa, la roba che consumavano i nostri genitori era perlopiù noiosissima, e tuttavia non potevamo ignorarla del tutto: non c’era altro. In casa mia erano fissati con Visconti. Visconti e Bergman: il fatto che non sia morta di noia entro le scuole medie è un mezzo miracolo.

Visconti e, quindi, Helmut Berger.

Anche se, leggendo lo stupendissimo “Luchino”, la biografia scritta da Giovanni Testori nel 1972 e pubblicata da Feltrinelli solo nel dicembre scorso, le parti migliori non riguardano Berger e Visconti, ma la rivalità tra Berger e Delon nei dintorni di Visconti.

Quando il film tratto dalla Recherche non si fece perché Helmut era geloso che Alain facesse la voce narrante. Quando Visconti, disperato per la cotta ingestibile per Delon, andò in analisi da Lacan. Quando Visconti chiama un cane Konrad (il personaggio interpretato da Berger in “Gruppo di famiglia in un interno”) o quando paragona i suoi attori a cavalli, «Delon è latino, europeo, più capriccioso, meno segnato dal metodo. Berger è un giovane puledro, pieno d’ispirazione e di qualità, ma deve ancora farsi le ossa».

Insomma nella vita si riproduceva la stessa tensione di casa mia, dove i grandi guardavano i Visconti con Berger e a me interessava solo “Il gattopardo”, con quella moglie con la camicia da notte col buco che valeva seicento pagine di saggio sulla società italiana (Arbasino diceva che “Il Gattopardo” era una «pastorale dell’Altroieri», ma per fortuna la giovane me non lo sapeva, altrimenti se lo sarebbe fatto dispiacere).

Quando sono nata, Helmut Berger aveva già interpretato “La caduta degli dèi” e “Ludwig”, e anche i suoi due film che più avrei amato una volta raggiunta l’età della ragione (“Il giardino dei Finzi Contini” e “Metti, una sera a cena”). Ma non mi importava nulla di lui, finché non comparve in qualcosa che i miei non avrebbero visto mai: “Dynasty”. Ero alle medie, non conoscevo ancora i codici dello spettacolo hollywoodiano, e comunque lo guardavo doppiato: non sapevo che un tizio che parla l’inglese con un accento da Europa dell’est non può che essere cattivissimo.

In “Dynasty”, seduceva per interesse Fallon, la figlia bellina di Blake, inscenava il rapimento d’un cavallo per farsi pagare un riscatto, e infine moriva precipitando con un aereo privato: era il ricco cattivo di cui avrei voluto innamorarmi, almeno quanto Joan Collins era la ricca cattiva che sarei voluta essere.

Chissà perché i miei genitori andavano così pazzi per Visconti. Potrebbe essere per quella cosa che scrisse Alberto Arbasino, citata nel Testori postumo da Giovanni Agosti, curatore ma soprattutto annodatore di fili dei cinquant’anni di viscontismo che mancano dal testo originale (sì, Visconti è morto nel 1976, ma il viscontismo è immortale): quella tendenza viscontiana alla ridondanza estetica, all’addobbo, al barocco lombardo, «La vera eleganza è mai abbastanza». O per «l’eclettismo sistematico, la contaminazione fra un’epoca e l’altra nonché fra cultura e modisteria, il gusto sadico della violenza pur con tutti i trumeaux a posto in salotto, le bicchierate decadenti con le frange più sexy della classe lavoratrice senza dover per questo rinunciare all’automobile o alla cuoca».

Ma io credo c’entri proprio Berger: credo che “Gruppo di famiglia in un interno” fosse, per una coppia fondamentalmente frigida, una forma di pornografia, e ogni tanto mi balocco con l’idea di scrivere un romanzo sull’inconsapevole omosessualità di mio padre. Che mi avrebbe sfidata a duello se mi avesse sentita fare un’insinuazione così infamante, ma insomma, cosa dice di te che i tuoi preferiti al cinema siano Helmut Berger e Audrey Hepburn?

A parte per le ragazzine ignoranti che lo ricordano per “Dynasty” o per “Mia moglie è una strega”, è esistito un Berger senza Visconti? Forse no: «L’insegnamento di Luchino porta con sé qualcosa dell’intrigo. Ora l’intrigo lascia attorno flabelli, filapperi, cordoni, corde, elastici e perfino cordicelle; l’intrigo, insomma, impiglia. Chi, lavorando con Luchino, non è rimasto in qualche modo impigliato?».

Helmut Berger è morto giovedì ma io, come tutti, credevo fosse morto da anni. Non dico da quando, quarantasette anni fa, è morto Visconti – altrimenti non avrebbe fatto “Dynasty” negli anni Ottanta, diamine – ma quasi.

«Il discorso della morte, con Luchino, mi son trovato a doverlo fare tante volte, anzi, ce lo siam trovato lì, tra i piedi, come se per noi, parlarne, fosse un debito reciprocamente contratto. Credo che anche Luchino sia uno dei maledetti (o dei benedetti) che, tra i piedi, la cagna o, se preferite, la dolce sorella riparatrice delle offese, delle improntitudini e dei dolori, se la son trovata fin dalla giovinezza e dall’infanzia».

Di Berger non so: pensava alla morte? L’aveva rimossa o era una prospettiva che considerava tutti i giorni? La sua autobiografia non è pubblicata in Italia, non so se per la distrazione per cui il Testori su Visconti non è stato pubblicato per cinquant’anni, o perché Helmut Berger era una di quelle figure che abbiamo abolito dal discorso pubblico ma temo esistano persino dopo il Novecento: le persone famose solo di riflesso, solo per l’irraggiungibile personalità con cui praticano commerci carnali, solo perché tutti da loro vogliamo sapere non come stiano loro ma – dicci, com’era Luchino?

Marina Cicogna: «Vi racconto Helmut Berger, i suoi eccessi, il suo talento, la sua imprevedibilità...» Valerio Cappelli su Il Corriere della Sera il 19 Maggio 2023  

La «regina» del cinema italiano ha prodotto il primo film dell’attore austriaco, grande amore di Visconti. «Ma una volta in Grecia lo insultò davanti a tutti. Luchino morì senza lasciargli niente e lui diventò bellicoso e pericoloso» 

«Sono sorpresa, siamo dello stesso giorno, il 28 maggio, lui aveva dieci anni meno di me», dice Marina Cicogna col suo consueto charme. Morte di uno scavezzacollo di talento. Se n’è andato Helmut Berger.

Marina, eravate amici?

«Gli volevo molto, molto bene, gli sono stata particolarmente amica sul set di Le Streghe, film a episodi. l’anno dopo ho prodotto il suo secondo film, I giovani tigri, perché ci teneva molto Luchino Visconti. Quel film segnò anche il debutto di Luca De Filippo come attore».

Quando vi eravate conosciuti?

«Io con le date non vado d’accordo, direi fine Anni ’60. L’ho conosciuto perché Visconti frequentava ‘sto ragazzino. Gli amici di Luchino, Enrico Medioli, Lorenzo Ripoli e altri, erano furibondi. C’è stato quel famoso episodio in Grecia…».

Può ricordarlo?

«Helmut stava provando tanta roba in un negozio di indumenti, la commessa commentò rivolta a Luchino, eh, bisogna avere pazienza con i figli. Ma quale padre, sbottò Helmut, questo è un vecchio fr... italiano».

E Luchino come lo trattava?

«Con una certa crudeltà, però era diverso, lo dico anche nella mia autobiografia appena uscita, Ancora spero. Luchino era già un regista affermato, di una famiglia nobile, Helmut invece era un ragazzetto in cerca di fortuna che fino allora si era arrangiato come poteva. Mi fece venire voglia di conoscerlo il racconto delle sue spacconate divertenti».

E poi?

«Poi andammo a Ischia, nella casa che Luchino stava rimettendo a posto. Helmut era carino, adorabile, simpatico, divertente, talentuoso».

Ma i suoi eccessi?

«Sono arrivati dopo, è stata la persona più autodistruttiva che abbia conosciuto».

Quando cominciò a esserlo?

«La situazione si appesantì quando scoprì che, a parte una casa, non aveva avuto una lira da Luchino, che scriveva un testamento dopo l’altro».

Spesso era sopra le righe.

«Era bellicoso, aggressivo, anche pericoloso. L’ultima volta che lo vidi mi buttò in faccia un posacenere di cristallo. Mi faceva tristezza».

Alcol o droga?

«Direi tutti e due».

Ma quando morì il suo mentore?

«Ero con Helmut a Rio de Janeiro. 17 marzo 1976. Prese il primo aereo per Roma, andò al funerale e il giorno dopo ritornò in Brasile, sconvolto, senza più un orizzonte davanti a sé. Lui era la vedova, come si definì in quel periodo. Non era attrezzato per affrontare il dolore».

Era una persona di gusto?

«Direi di sì. Fregava tutto quello che poteva da casa di Luchino e portò tutto dai genitori in Austria. Un quadro, oggetti vari…Gli piacevano molto i disegni».

Di cosa parlavate?

«Di cinema e un po’ di tutto, però con lui non si facevano lunghe conversazioni, non era particolarmente colto. Parlava un italiano con un forte accento tedesco».

Era preso da Visconti?

«Ma sai, a Helmut non fregava niente di nessuno, dal punto di vista sentimentale».

Era fluido, come si dice oggi?

«C’è stato un momento in cui stava per sposare Marisa Mell, che era molto presa da lui. Saltò tutto».

Era un bravo attore?

«Secondo me abbastanza».

L’ultima volta che l’ha visto?

«Un incontro fortuito, al backstage di un concerto dei Rolling Stones a Berlino».

Come vuole ricordarlo?

«Aveva un desiderio nascosto di ribellione che incarnava senza condizionamenti, ammiravo la sua assoluta libertà, che a volte sconfinava nella maleducazione, la sua sfida inconsapevole al perbenismo. Adorava sciare, apriva le piste anche se aveva dormito mezz’ora. A Cortina, in una discoteca, lui e Florinda Bolkan erano insopportabili, non volevano mai lasciare la pista da ballo. Non c’erano limiti per lui. Quando perdeva i freni inibitori era impossibile stargli accanto. È stata un’amicizia segnata dall’imprevedibilità».

La moglie di Helmut Berger: "Voglio la verità sulla sua morte, troppe cose non tornano". La Repubblica il 19 Maggio 2023

Parla la sceneggiatrice e regista Francesca Guidato separata dall'attore da molti anni ma dal quale non aveva mai divorziato. "Ultimamente non mi ci facevano parlare, ancora non si sa di cosa sia morto "

Racconta di essere sconvolta dalla tragicca notizia Francesca Guidato, moglie di Helmut Berger da cui si era separata anni fa senza mia divorziare però. E ora chiede di sapere la verità su come è deceduto l'attore due giorni fa in Austria a pochi giorni dal suo 79mo compleanno.

"Sono sconvolta da questa tragica notizia. Ma voglio chiarezza sulla morte di mio marito e su tutto l'ultimo periodo della sua vita in Austria. Troppe cose non tornano, e ancora adesso, dopo 48 ore dalla sua morte, non è chiaro quale sia stata la causa". Lo dice chiaramente all'Adnkronos  Francesca Guidato che sposò l'attore nel 1994 e da cui si separò nel 2007 senza, però, mai divorziare. "C'è stato molto ostruzionismo per tenermi lontana da lui - continua - nonostante Helmut avesse dichiarato ai media più volte che voleva fossi io a prendermi cura di lui nella sua vecchiaia, negli ultimi tempi però non riuscivo nemmeno a parlarci". 

E le perplessità della donna erano nate, come racconta lei stessa al telefono parlando con l'agenzia, già qualche tempo fa: "Sono cominciate un anno fa. Le comunicazioni avevano cominciato a diradarsi, lui era circondato da un entourage che non mi piaceva. Penso che l'abbiano gestito male. Non so dire cosa sia successo, ma è bene accertarlo". Poi aggiunge: "I messaggi erano strani, a volte c'era di mezzo un'altra persona che parlava per lui, lui non è mai stato un uomo molto tecnologico. Io ho vissuto con lui in simbiosi per una vita. Non ho bisogno di molte parole per capire quello che gli accadeva".

Ma sopratutto spiega "ancora oggi, dopo due giorni, non si riesce a capire di cosa sia morto. Oggi mi hanno riferito che è morto alle 4 del mattino in casa, ma questo non mi basta". Guidato vuole, dunque, vederci chiaro. "C'è qualcosa che non mi torna e invocherò con tutti i mezzi possibili le autorità giudiziarie austriache affinché indaghino per accertarne le reali cause della morte, le circostanze e come abbia vissuto lui questi ultimi mesi". A tal proposito, fa sapere all'Adnkronos, "ho già contattato il consolato e le ambasciate austriache e italiane. A loro, chiedo giustizia e chiarezza sulle circostanze".

Quindi, rimarca Guidato "ho chiesto di andare a dargli l'ultimo saluto ma non è stato possibile. Mi sto comunque organizzando per andare a Salisburgo. Chiedo verità, controlli, accertamenti da parte delle autorità giudiziarie".

E poi regala, sempre all'Adnkrono,s un ritratto del suo rapporto con Helumt Berger: "Siamo stati molto animaleschi, molto istintivi - dice -  lui viaggiava molto ma sapevamo sempre le cose l'uno dell'altro. Le sentivamo. Lui diceva sempre 'l'unica che mi trova sempre anche se non sa dove sono è lei'. Il momento più bello che mi viene in mente è del giorno che ci siamo sposati in chiesa. Helmut non aveva capito che il sacerdote ancora non ci aveva sposato, mi ha preso dalla vita e mi ha fatto saltare in aria dicendo con il suo accento 'Finalmente, Francesca!'. Fu indimenticabile".

Angelo Pannofino per “GQ” - gqitalia.it ARTICOLO DELL'11 NOVEMBRE 2014

La telefonata arriva da una clinica di chirurgia estetica di Padova. Helmut Berger è lì dopo un intervento di plastica facciale e ha voglia di parlarne. Ma chi è Helmut Berger? Meglio: chi sono Helmut Berger? E chi lo sa. Dalle Rete emergono due foto fatte di parole. La prima l’ha scattata Billy Wilder: «È curioso che il più grande attore italiano sia un austriaco». 

La seconda è di Paul Morrissey: «A parte Helmut Berger, non ci sono più belle donne». Seguono immagini fatte di immagini, che il capriccio del motore di ricerca mette una accanto all’altra, senza una logica apparente: un ragazzo a torso nudo, sguardo lascivo, coperto solo da una sciarpa viola, bello di una bellezza assoluta; un uomo gonfio e trascurato, con gli occhi spiritati; di nuovo giovane e bellissimo, con Luchino Visconti che, sul set di Ludwig, gli abbottona amorevolmente il colletto mentre indossa i panni di Ludovico II di Baviera; ancora lui, in autoreggenti, in una scena de La caduta degli dei.

Varie. Eventuali. Oggi è un signore leggermente claudicante, che fa il suo ingresso nella sala d’attesa della clinica Pallaoro Medical Laser con i modi che immagino potrebbe avere Elizabeth Taylor, se Elizabeth Taylor fosse un uomo di 70 anni che è sopravvissuto alla fama mondiale e alla sua fine, a una relazione di 12 anni con Visconti e alla sua morte, a un tentativo di suicidio, alla droga, all’alcol, alle donne, agli uomini, agli scandali, ai paparazzi, a una casa incendiata, a un arresto, a Dynasty, a un matrimonio andato male. Alla sua stessa bellezza. Uno che per il gusto di provocare potrebbe dare dieci risposte diverse a ogni domanda che gli ho fatto. Chi lo sa.

Perché ha voluto farsi intervistare in una clinica di chirurgia estetica?

«Io non ho voluto niente». 

I personaggi pubblici che si sottopongono a interventi di questo tipo in genere fanno di tutto per tenerlo nascosto...

«Perché sono stupidi. A me ha fatto bene, perché sentivo di non corrispondere alla mia faccia. E poi il dottor Pallaoro fa anche l’intervento per allungare il pene». 

Ha fatto anche quello?

«Sì, sì. Funziona. E non è doloroso». 

Se ora è felice, vuol dire che prima dell’intervento stava male?

«Vivevo in Austria. Sa, in Austria si beveva... Vabbè, prendevo eccitanti, lavoravo 16 ore al giorno, non riuscivo a dormire, serviva qualcosa che mi tirasse su. Solo che tirava su me ma non il mio cazzo». 

E quindi ha deciso di venire qui...

«Sì. Il dottore e la sua famiglia sono i miei migliori amici in Italia. Perché l’Italia mi ha molto deluso». 

Perché?

«Ho vissuto a Roma, con Luchino, ma quando lui è morto sono stato derubato del suo testamento. È stata la famiglia Visconti: io sapevo che quel testamento c’era, il segretario l’ha visto e io l’ho letto. Invece è sparito. Luchino mi aveva detto che non avrei dovuto mai preoccuparmi nella mia vita, perché in questo lavoro non si sa mai quello che può succedere. Invece quei mascalzoni mi hanno derubato. Mi hanno tolto i quadri che erano nella casa di via Salaria e nella villa a Ischia... Non mi hanno restituito nemmeno le mie calze, comprate con Luchino a Milano, da Truzzi».

E perché, secondo lei, si sarebbero comportati così?

«È l’avidità di quella famiglia. Non mi sopportavano. Avevo rapporti solo con donna Uberta, la sorella di Luchino». 

Che cosa è successo dopo la morte di Visconti?

«Io “ho fatto” il suicidio. Perché non sapevo che fare, dove andare, mi sentivo solo. Mi è mancata la terra sotto i piedi, non avevo più una lira... Sono dovuto tornare da mia mamma, in Austria. Nell’ambiente del cinema sono tutti falsi. Dopo la morte di Visconti tutto il mondo mi ha fatto le condoglianze tranne i grandi amici di Luchino, come Adriana Asti o Umberto Orsini. Persone che invitavo sempre a mangiare con noi e che invece mi hanno tradito. Sono venuti nella nostra villa a Ischia, hanno goduto della mia bontà, mentre alle mie spalle la Asti portava altri omosessuali (l’ultimo era un polacco) per buttare fuori me...». 

Come ha tentato di uccidersi?

«Facilissimo. Un po’ di whisky, un po’ di pillole e zac!». 

Ma voleva farlo davvero?

«Sì, avevo calcolato tutto: mi hanno trovato a terra con la schiuma alla bocca. Mi hanno rinchiuso in manicomio. Mi chiamavano Romy Schneider e Marisa Mell. Così, dopo due notti, ho deciso di scappare: sono andato a ballare al night e sono tornato alle sei, con le flebo...». 

E la storia dell’incendio del suo appartamento a Roma?

«Sono uscito lasciando accesi giradischi e televisore, perché avevo paura dei ladri. Qualcosa deve aver fatto cortocircuito». 

Torniamo a parlare del presente: sono in una clinica dove si diventa più belli con un uomo che per anni è stato etichettato come “l’uomo più bello del mondo”...

«Ma no, quella era una cosa che scrivevano i giornali...». 

Com’è essere così belli?

«Non era qualcosa di cui ero consapevole, non mi guardavo mai allo specchio. L’ho sempre vissuta come la vivo anche adesso... Così, bah». 

Ma allora perché l’intervento di plastica facciale? Forse non la viveva così bene come vuole far credere?

«Naaa! Na! Na! L’intervento non aveva a che fare con questo. Un giorno mi sono visto come una palla austriaca, pfff!, e mi sono detto: “Devo fare qualcosa”. Il dottor Carlo mi ha operato, poi mi ha invitato a casa sua: sono diventati la mia famiglia. Nella loro villa mi sono ripreso, ho fatto fisioterapia. Sa, soffro sempre di mal di schiena, perché gli attori sono pagati per aspettare, non per recitare: aspetto dieci ore per fare due ciak». 

Come va il lavoro? Qualche anno fa aveva detto di vivere con una pensione di 200 euro che le dava lo Stato italiano: è vero?

«Il lavoro va bene. Ora sto bene. Sì, sto bene». 

Oggi chi è per lei “l’uomo più bello del mondo”?

«Brad Pitt. E Johnny Depp. E Sean Connery». 

 E Alain Delon? Dicono che non le stava molto simpatico. È vero?

«Non lo conosco». 

Fa ancora uso di droghe?

«All’epoca sì, ma ora basta. Ho smesso da molto tempo, ormai. Sa, io ho vissuto sette vite: Spagna, America, Santo Domingo, Brasile, Francia...». 

La più bella?

«Quella con Visconti, a Cinecittà, con Fellini...». 

La rimpiange?

«Io non rimpiango niente». 

È innamorato?

«No. Non ancora. Ci vuole tempo».

Dopo Luchino ha mai provato un amore così?

«No. Lui era un genio». 

È lui che le ha insegnato a capire il bello?

«Ha migliorato il mio senso estetico». 

E le ha insegnato a non dare valore al denaro.

«Quello lo facevo già: sono sempre stato uno con le mani bucate». 

Si è mai limitato?

«Solo con zucchero e sale» (ride). 

Qual è stato il momento più imbarazzante delle sue sette vite?

«Mai sentito in imbarazzo. Io lavoro per i paparazzi: hanno famiglia, e se non fanno foto scandalose i loro bambini non mangiano, allora tiro fuori il cazzo volentieri e piscio sul poliziotto, lo faccio per loro. Sono anche stato in prigione: sa, a Roma dicono che se non sei mai stato in prigione non sei romano». 

Quando è successo?

«Quando c’erano le Brigate Rosse. Ho insultato un siciliano, poliziotto, e mi hanno fatto passare un bel weekend in prigione. Ne ho approfittato per leggere Marcel Proust, perché Luchino voleva farci un film, ma io non avevo voglia di studiare». 

Però per interpretare Ludwig aveva dovuto studiare eccome: libri di storia, documenti, biografie...

«Sì, sì. È stato faticoso: trucco alle tre di mattina, lavoravo 16 ore al giorno. Ma non mi vedevo come Ludwig...». 

Non si identifica con lui? Eppure nel film c’è una frase che mi sembra adatta a lei: «Voglio restare un enigma, anche per me stesso».

«Quello sono proprio io. Non voglio essere una leggenda né finire in un museo... Sono sempre stato controcorrente». 

E come vuole essere ricordato?

«Come una bella musa. Come Cleopatra ». 

Si sente ancora “la vedova di Visconti”?

«La vedova allegra». 

Oggi si sente un dio caduto?

«Na».

Allora si sente un dio?

«Na». 

E come si sente?

«Un bel mostro». 

Incontrare Visconti è stata la sua fortuna e anche la sua sfortuna?

«No, solo fortuna. Se non ci fosse stato lui, mi avrebbe beccato Pasolini alla stazione Termini e sarei finito a Ostia o a Fregene. Avrei potuto finire addirittura con Zeffirelli... Per carità! Sono più un tipo da Elizabeth Taylor o Faye Dunaway, io». 

Si è mai pentito di aver fatto qualcosa?

«Sì, I Promessi Sposi». 

E di non aver fatto?

«Un figlio». 

È stata una scelta?

«Volevo farlo con la mia fidanzata, Marisa Berenson, ma viaggiavamo troppo, lavoravamo troppo». 

 Com’è passare da girare con Visconti a girare Dynasty?

«Divertente. Ho fatto Dynasty così, per ridere, perché Joan Collins era amica mia e Linda Evans la conoscevo attraverso Ursula Andress, altra mia grandissima amica». 

Ha ancora amici o si sente solo?

«Sì, ne ho. Me ne bastano cinque. Non mi sento mai solo. A proposito: vorresti sposarmi?».

Ma non è già stato sposato?

«Sì, con una *****. Com’è che si chiama...? Ah sì, Francesca Guidato». 

Perché questo astio verso di lei?

«Perché mi ha sposato per i soldi, è venuta a dormire nel mio appartamento, mi ha ingannato». 

Le andrebbe bene se intitolassi questa intervista “un dio caduto”?

«Naaaa. Il titolo deve essere “Il frutto proibito”». 

E chi sarebbe il frutto proibito?

È morta Maria Miceli, la ballerina che aveva lavorato a Camera Café: aveva soli 35 anni, è spirata dopo una lunga malattia. Simona Marchetti su Il Corriere della Sera il 15 Maggio 2023.

Coreografa, direttrice artistica, modella e appassionata di cultura mediorientale, aveva lavorato in teatro e in televisione ed era stata anche protagonista del videoclip del brano «Grande Amore» de Il Volo. Lascia i genitori e cinque fratelli. 

A rileggere oggi il suo ultimo post del 30 aprile scorso, quella frase - «Love is the bridge between you and everything» (ovvero, «L’amore è il ponte fra te e tutto») - del grande poeta mistico persiano Jalal ad-din Rumi, conosciuto semplicemente come Rumi, suona come un messaggio di addio. Con queste parole Maria Miceli ha infatti scelto di uscire di scena, spegnendosi in punta di piedi giovedì 11 maggio all’età di appena 35 anni, dopo una lunga malattia. Coreografa, direttrice artistica, modella e appassionata di cultura mediorientale (aveva due lauree, in Lettere classiche e in Archeologia e Culture del mondo antico), la ballerina bresciana (in realtà era nata a Milano, ma viveva da anni a Manerbio) aveva lavorato in teatro e in televisione («Camera Café», «I soliti ignoti») ed era stata anche protagonista del videoclip del brano «Grande Amore» de Il Volo.

«Continuo a lavorare tutti i giorni su me stessa, perché penso che ci sia sempre qualcosa di nuovo da scoprire e approfondire. La mia infinita passione mi spinge a puntare a nuove sfide e nuovi traguardi», scriveva la Miceli presentandosi sul proprio sito. Nel 2013 il lavoro di ballerina l’aveva portata anche all’estero, con molte esibizioni sui palcoscenici di tutto il mondo. «Lascia che i tuoi sogni siano le tue ali - si legge ancora sulla sua home - . L’unico modo per fare un grande lavoro, è amare quello che fai». Decine i messaggi di cordoglio sulla sua bacheca da parte di amici e fan per la sua morte, che ha lasciato tutti attoniti e sgomenti. La Miceli lascia mamma Annarita, papà Raffaele e cinque fratelli (Teresa, Alelign, Maddalena, Selam e Andualem). 

Addio a Maria Miceli, la ballerina bresciana che incantava a teatro e in tv. Valerio Morabito su Il Corriere della Sera il 12 Maggio 2023.

È stata protagonista del video Grande Amore del Volo, ma vanta partecipazioni anche nei cast di trasmissioni Rai, Sky e Mediaset, senza dimenticare Camera Café. 

Mondo dello spettacolo in lutto. Ieri è morta Maria Miceli, 35 anni, che viveva a Manerbio ormai da anni anche se era nata a Milano. La giovane artista ha iniziato la sua carriera come ballerina classica e si è formata in Accademia. Ha conseguito due lauree, una in Lettere antiche e l’altra in Archeologia e Culture del mondo antico. La 35enne vantava un curriculum importante: è stata protagonista del video Grande Amore del Volo. Ma è stata nei cast di varie trasmissioni Rai, Sky e Mediaset e ha partecipato alla nota sit-com Camera Café. Maria Miceli lascia la madre Annarita e il padre Raffaele, oltre ai fratelli Andualem, Selam, Maddalena, Alelign e Teresa. I funerali si svolgeranno nella parrocchia di Manerbio sabato 13 maggio alle 15. La camera ardente è allestita in via Palestro 23, sempre nel paese della Bassa bresciana. 

Maria Miceli, nel suo ultimo post su Instagram e Facebook, aveva pubblicato la frase «Love is the bridge between you and everything»: L’amore è il ponte tra te e tutto». Si tratta di un verso delle poesie più celebri di Jalal ad-din Rumi, conosciuto come Rumi, ovvero il più grande tra i poeti mistici persiani. Una poesia, quella scelta dalla ballerina, che parla della vita, del viaggio, dell’amore e della speranza. 

Una vita al Mattino, nel 2019 protagonista del nuovo Riformista. Addio a Carlo Nicotera, Napoli piange il giornalista gentiluomo: “L’ultimo viaggio di un signore brillante”. Redazione su Il Riformista il 15 Maggio 2023 

Napoli piange Carlo Nicotera, 69 anni, giornalista poliedrico, “smart” oggigiorno. Una carriera vissuta a “Il Mattino“, dove è entrato nel 1980, assunto dall’allora direttore Roberto Ciuni, e dove nel 2008 è stato il ‘papà’ della prima edizione online del quotidiano fondato da Edoardo Scarfoglio e Matilde Serao. Nella sede di via Chiatamone, Nicotera ha lavorato in quasi tutti i settori fino a diventare capocronista.

Per decenni ha rappresentato un punto di riferimento per tanti giovani che si avviavano alla professione di giornalista. Laureato in scienze politiche, Nicotera è stato autore anche di diversi libri (Lettera dal faro, Le ventiquattro ballate della fortuna, Gli orti della Sirena). Nel 2019 è stato tra i protagonisti del ritorno in edicola e sul web del Riformista, edito da Alfredo Romeo e diretto da Piero Sansonetti, giornale per il quale ha scritto diversi articoli ma, soprattutto, ha formato e fatto crescere tanti giovani colleghi.

Dopo i primi passi professionali mossi nel calcio minore – ricorda Il Mattino – Nicotera diventò giornalista professionista partecipando al primo corso della prima scuola di giornalismo italiana a Milano. Nipote di Carlo Nazzaro, scrittore e già direttore del Mattino, i funerali di Carlo Nicotera si terranno alle 11.30 di martedì 16 maggio a Napoli, nella chiesa di San Luigi Gonzaga Padri Gesuiti, in via Petrarca, a Posillipo.

Tantissimi i messaggi di cordoglio e di vicinanza alla famiglia che stanno arrivando in queste ore per la grave perdita. Tra questi anche quelli di tanti colleghi giornalisti che hanno sempre apprezzato di Nicotera la professionalità e sobrietà.

“Una notizia che non ti aspetti, inevitabile lo smarrimento, il dolore di dover salutare verso l’ultimo viaggio un caro Amico, un signore, un giornalista rispettoso dei fatti, aperto all’innovazione, uno scrittore brillante, peraltro mio coetaneo. Addio a Carlo Nicotera, già redattore capo de Il Mattino. Era nato a Napoli nel 1954, aveva compiuto 69 anni il primo aprile scorso. Professionista a novembre 1979, viene assunto al Mattino dal direttore Roberto Ciuni nel 1980, la laurea in Scienze politiche arriverà successivamente. Lavora in quasi tutti i settori del giornale fino a diventare nel novembre del 2004 capo della cronaca di Napoli. Due anni più tardi passa al vertice della redazione Italia, prima di ricevere nel novembre 2008 l’incarico di varare e dirigere l’edizione on line del Mattino. Lascia il giornale il 31 dicembre del 2011, ma non il giornalismo. Tantissime esperienze professionali in questi anni, partecipando, tra l’altro, al progetto per il rilancio del Riformista con l’editore Romeo”. 

È morto un amico, un fratello, un collega con il quale ho mosso i primi passi nell’agitato mondo del giornalismo. Napoletano, per me Carlo Nicotera rappresentava tutta Napoli, e oggi è come fosse mancata tutta quella bellissima e amata città. Carlo era forte, sorridente, carico di vita. Amava il mare e un’isola su tutte: Pantelleria, dove andai a trovarlo, un’estate di qualche anno fa. Carlo, a lungo giornalista al Mattino (ne aveva fondato la parte online), era anche scrittore: “Lettere dal faro”, “Gli orti della Sirena”, pagine di cui mi parlava mentre nascevano. Ci siamo visti raramente, negli anni, ma bastava la nostra comunanza in giovane età – lavorava a Milano, avevamo fatto insieme la prima scuola riconosciuta di giornalismo – per mantenere un’amicizia vera, fatta di telefonate e, come ho detto, episodici incontri. Di sicuro tra i miei contatti c’è chi lo ha conosciuto. Carlo non amava i social, mi canzonava per il mio essermi messo al passo con consuetudini più adatte a generazioni fresche (ma sapeva benissimo che qui è pieno di gente con tanti anni nelle gambe). Chissà cosa penserebbe di questo saluto in Facebook. Un abbraccio a Carlo e ai fortunati che hanno potuto volergli bene.

L’assessore  alla Cultura del comune di Napoli Teresa Armato lo ricorda così: “Negli anni in cui abbiamo condiviso lavoro, impegni, sogni e risate nel piccolo spazio della redazione interni-politico del Mattino la frase che più ripetevi era: sono un libero fringuello nel libero cielo. Vola davvero, ora, caro Carlo Nicotera. Giornalista e gran signore”

(ANSA il 14 maggio 2024) - E' morto a 97 anni nella sua casa di Porto di Legnago (Verona) l'imprenditore Giordano Riello. Uomo cresciuto a pane e officina in una delle grandi famiglie che hanno segnato la storia dell'industria veneta e italiana, è riuscito, con quel pallino per la ricerca impresso nel dna, a rivoluzionare il mercato internazionale della climatizzazione plasmando nel 1961 dal nulla l'Aermec di Bevilacqua, capofila di un gruppo che raggruppa oggi cinque aziende con più di 1.700 addetti e ricavi per oltre 500 milioni di euro.

L' Aermec può essere considerata uno dei primi produttori di condizionatori in Europa Ma l'ingegner Giordano Riello, ultimo rappresentante di una blasonata stirpe di industriali alla maniera di Marzotto, Olivetti e Zanussi, è stato fino all'ultimo un instancabile frullatore di idee e progetti. Fedele alla ricetta tramandatagli dal nonno Ettore, che ai primi del Novecento diede vita a Porto di Legnago alla prima officina diventata nel tempo la roccaforte dei bruciatori.

Morto Giordano Riello, padre dei climatizzatori in Italia. Storia di Francesca Gambarini su Il Corriere della Sera il 14 maggio 2024.

Alla domanda se uno nasce imprenditore o lo diventa, aveva sempre risposto: «Mi è servito molto essere nato in una famiglia di imprenditori dove il lavoro era una costante persino a tavola, così come sono stato fortunato ad aver avuto bravi maestri». È morto ieri, all’età di 97 anni, Giordano Riello, il «papà» dei condizionatori, che ha contribuito a diffondere in Italia e nel mondo con la sua Aermec. Riello è stato uno dei protagonisti del boom economico e della modernizzazione del Paese, insieme agli altri fratelli della grande famiglia veneta, una dinastia industriale del peso e importanza dei Marzotto, Olivetti e Zanussi.

L’azienda

Il fondatore di Aermec si è spento nella sua casa di Porto di Legnago, nel Veronese. Tanti e immediati gli omaggi dalla politica e dal territorio. A dare la notizia è stato il ministro della Difesa Guido Crosetto, nel pomeriggio di ieri, con un tweet, definendolo «uno dei grandi dell’industria italiana, uno degli ultimi grandi imprenditori che hanno reso possibile il miracolo economico e manifatturiero italiano». «È morto una grande innovatore dell’imprenditoria del Veneto, capace di condurre la propria azienda restando fermo nella capacità di produrre nel segno della tecnologia e di una nuovo tipo di impresa — ha fatto eco il governatore del Veneto Luca Zaia — dove l’impegno sociale è andato di pari passo con la crescita economica».

Le origini

Giordano Riello, attivo in azienda fino all’ultimo, ha sempre avuto un rapporto diretto con il territorio, con un’attenzione importante alla redistribuzione diffusa della ricchezza, ed è ricordato anche come un antesignano del moderno welfare aziendale, con cui ha premiato quelli che amava chiamare i suoi collaboratori, non dipendenti. Tutta la sua vita da imprenditore è stata segnata dal pallino per l’innovazione e la ricerca. Ricerca che ha permesso alla Aermec di Bevilacqua (Verona) di crescere fino a diventare capofila di una holding, la Giordano Riello International, che oggi conta più di 1.700 addetti, otto stabilimenti e ricavi per mezzo miliardo di euro. Al suo attivo ha la climatizzazione di strutture di ogni genere, tra cui l’hotel Danieli di Venezia, la Cappella di San Francesco ad Assisi fino al campo da tennis numero uno di Wimbledon.

La famiglia

Tutto comincia a inizio Novecento quando Ettore Riello, capostipite della famiglia di industriali, di ritorno dal Brasile, fonda le «Officine Fratelli Riello». Produceva caldaie ma con il passare degli anni Giordano, nipote di Ettore — il capostipite imprenditoriale della dinastia Riello — per far fronte alla stagionalità del prodotto, dopo un viaggio negli Usa inizia a importare l’aria condizionata in Europa. Oggi la Riello Condizionatori, diventata poi Aermec, è un leader della climatizzazione dell’aria. Nonché unica azienda del comparto a controllo familiare. Nel consiglio della capogruppo siedono infatti i figli Alessandro e Raffaella.

Gli imprenditori

«Con Giordano Riello se ne va un grande uomo, un capitano coraggioso che ha fatto la storia dell’imprenditoria italiana — ha detto il presidente dell’Ice Matteo Zoppas —. Con la sua azienda ha contribuito a rendere il made in Italy un punto di riferimento nel mondo intero, restando sempre legato al suo territorio. Ogni ramo della famiglia Riello ha espresso ed esprime oggi talenti imprenditoriali». Lo scorso settembre la famiglia era stata colpita da un altro lutto, la scomparsa di Andrea Riello, classe 1962, a capo della Riello Sistemi, una delle tante aziende della galassia omonima, stroncato da un infarto.

Morto Gioacchino Lanza Tomasi: addio all’ultimo Gattopardo. HELMUT FAILONI su Il Corriere della Sera l'11 Maggio 2023

Figlio adottivo dello scrittore, era musicologo e direttore artistico. Riccardo Chailly: «Esplorava e riscopriva». Ha anche guidato l’Istituto italiano di Cultura di New York 

Gioacchino Lanza Tomasi, Roma, 1934- Palermo, 2023 (foto Contrasto)

Era tornato da pochissimo a casa sua — nello storico Palazzo Lanza Tomasi di via Butera a Palermo — dopo un ricovero, per problemi polmonari e cardiaci, all’ospedale palermitano Buccheri La Ferla, ma mercoledì 10 maggio, verso sera, il musicologo Gioacchino Lanza Tomasi, a 89 anni, ha chiuso gli occhi: si è «arreso».

Era nato a Roma l’11 febbraio 1934 ed è stato per tutta la vita anche il custode dell’eredità de Il Gattopardo, tenendo viva la memoria del capolavoro letterario del padre adottivo, Giuseppe Tomasi di Lampedusa (Palermo, 1986 - Roma, 1957), ma va ricordato soprattutto per la sua attività nel campo della musica e della cultura. Non è semplice riassumere la sua lunga attività fra libri, recensioni, saggi, teatri, partiture e direzioni artistiche, ma vanno citati — in quest’ultima veste — i suoi incarichi all’Accademia Filarmonica Romana (1973-75 e 1988-92), al Teatro Massimo di Palermo (1971-75), al Teatro dell’Opera di Roma (1976-1984), all’Orchestra Sinfonica e Coro di Roma della Rai (1984-1992), al Teatro Comunale di Bologna (1992-1995), al Teatro San Carlo di Napoli (2001-2006).

Il maestro Riccardo Chailly lo ricorda al «Corriere» quando erano insieme a Bologna: «Era il direttore artistico del teatro. Lo ricordo prima di tutto come una persona di una cultura sconfinata. Era attentissimo anche alla ricerca su repertori poco battuti e aperto a qualsiasi confronto. Abbiamo lavorato bene insieme: sono stati anni belli».

Lanza Tomasi è stato anche direttore generale della Fondazione Roma Europa Arte e Cultura e dal 1996 al 2000 è stato alla guida dell’Istituto italiano di Cultura di New York. «Mio padre — spiega al “Corriere” il figlio Giuseppe — era uomo d’altri tempi, l’ultimo Gattopardo, l’ultimo barlume di un mondo estinto. Con lui si chiude un’epoca. Amava ripetere una frase che ho imparato a memoria: “Non si può più andare avanti pensando che la musica sia un elemento trascurabile. Per motivi di dominio delle masse, oggi lo stadio è diventato essenziale, l’opera no”».

Nel suo lavoro, come ha sottolineato Chailly, Lanza Tomasi ha lungamente promosso la ripresa di opere uscite dal repertorio e la diffusione delle nuove tendenze del teatro musicale contemporaneo, affidando gli allestimenti a pittori e scultori di fama, collaborando, tra gli altri, con Roberto De Simone, Arnaldo Pomodoro e Michelangelo Pistoletto. Lo spiega bene lo storico della musica e amico Jacopo Pellegrini: «Come organizzatore musicale puntava su autori (poco frequentati, ndr) come Jacques Offenbach, Saverio Mercadante, ma anche Philip Glass. Fu lui a portare per primo in Italia Glass e Bob Wilson. Cercava collaborazioni qualificate di artisti visivi alle scenografie. Ha lavorato anche con Corrado Cagli e Anselm Kiefer, fra i tanti. Gli piaceva mettere insieme registi, scenografi e direttori e poi indirizzarli verso le idee che lui personalmente aveva a proposito del titolo che sarebbe andato in scena. Era un direttore artistico demiurgo».

Lo ricordano al «Corriere» anche due amici palermitani, Gigi Planeta e Costanza Tasca Camporeale. «Gioacchino aveva un paio di anni più di me, frequentavamo le stesse scuole», racconta Planeta. «Ha fatto poi parte del gruppo dell’intellighenzia palermitana degli anni Settanta con Francesco Agnello. Non ci siamo mai persi di vista e ci siamo frequentati spesso, in questi ultimi anni anche di più». Aggiunge Tasca: «Ci conoscevamo tutt’e tre fin da piccoli. Negli ultimi anni, quando Gioacchino stava male, cercava sempre la compagnia di Gigi perché lo metteva di buon umore. Ascoltavamo sempre musica insieme, opera sopratutto».

Aggiunge Pellegrini: «Aveva una predilezione per Bellini. Nel 2001 gli aveva dedicato un piccolo libro incantevole, Vincenzo Bellini per Sellerio: diceva che se non fosse morto così giovane, il melodramma da noi avrebbe avuto un altro percorso». Ha scritto anche su Giuseppe Verdi ed Erik Satie. Il funerale è il 12 maggio (ore 10) nella chiesa di Santa Maria di Gesù a Palermo. Con musica.

Estratto dell’articolo di Emanuela Minucci per lastampa.it l'11 maggio 2023.

È stato il custode dell'eredità de «Il Gattopardo» e ha tenuto viva la memoria dell'autore del capolavoro letterario, il suo padre adottivo, il principe scrittore Giuseppe Tomasi di Lampedusa (Palermo 1986 - Roma 1957): il musicologo e storico del teatro d'opera e del melodramma Gioacchino Lanza Tomasi ha chiuso per sempre gli occhi ieri sera, mercoledì 10 maggio, all’età di 89 anni nello storico Palazzo Lanza Tomasi in via Butera a Palermo, dove era tornato dopo un ricovero, per problemi polmonari e cardiaci, all'ospedale palermitano Buccheri La Ferla. 

Lanza Tomasi era presidente onorario dell’Istituzione Giuseppe Tomasi di Lampedusa e della giuria dell'omonimo Premio letterario. Dell’illustre padre adottivo ha curato la pubblicazione dell’opera letteraria, conclusa con il «Meridiano» Mondadori (1994-95). 

Ed è stato pure autore di «Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Una biografia per immagini» (1998) e «I luoghi del Gattopardo» (2001), entrambi editi da Sellerio

Nato a Roma l’11 febbraio 1934, Gioacchino Lanza Branciforte Ramírez era il terzogenito del senatore Fabrizio Lanza Branciforte Ruffo, conte di Mazzarino e di Assaro, e di Conchita Ramírez Camacho, figlia ed erede di Venceslao marchese di Villa Urrutia. 

Si trasferì con la famiglia a Palermo dopo la Seconda guerra mondiale. Nel 1953 insieme ad altri giovani intellettuali palermitani, fra cui il coetaneo Francesco Orlando, futuro critico letterario, iniziò la frequentazione di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, suo lontano cugino, cui restò vicino negli ultimi quattro anni di vita e dal quale nel 1957 venne adottato, assumendo quindi il cognome Lanza Tomasi.

Dopo la morte dello scrittore siciliano, Lanza Tomasi ne raccolse l'eredità intellettuale, conservandone la memoria e recuperando, dopo lunghi anni di restauro, l’ultima dimora, il Palazzo Lampedusa alla Marina (divenuto poi Palazzo Lanza Tomasi), in cui il principe autore del «Gattopardo» visse fino alla morte e in cui raccolse la sua biblioteca storica. 

Avviata la carriera come critico musicale, nel 1965 Lanza Tomasi inizia la sua attività di organizzatore musicale e sarà via via direttore artistico di varie istituzioni: l’Accademia Filarmonica Romana (1973-75 e 1988-92), il Teatro Massimo di Palermo (1971-75), il Teatro dell’Opera di Roma (1976-1984), l’Orchestra Sinfonica e Coro di Roma della Rai (1984-1992), il Teatro Comunale di Bologna (1992-1995).

È stato direttore generale della Fondazione Roma Europa Arte e Cultura e consulente per la ricostruzione del Teatro Vittorio Emanuele di Messina. Dal 1996 al 2000 ha diretto l'Istituto Italiano di Cultura di New York. Specialista dell’opera di Vincenzo Bellini e Giuseppe Verdi, dal 1983 è stato professore ordinario di Storia della Musica presso l'Università di Palermo […] 

Gioacchino Lanza Tomasi è stato dal 2001 al 2006 alla guida del Teatro San Carlo di Napoli: in qualità di sovrintendente ne ha rilanciato l'attività in grande stile, promuovendo la ripresa di opere uscite dal repertorio, la diffusione delle nuove tendenze del teatro musicale contemporaneo e l'affidamento degli allestimenti a pittori e scultori di fama, collaborando, tra gli altri, con Roberto De Simone, Arnaldo Pomodoro e Michelangelo Pistoletto.

Ha pubblicato numerose opere tra cui: «Le ville di Palermo» (Il Punto, 1966, con introduzione di Cesare Brandi), «Castelli e monasteri siciliani» (Lito-Tipografiche Ires, 1968, con Enzo Sellerio), «Guida all'opera» (Mondadori, 1971), «Ernani di Giuseppe Verdi. Guida all’opera» (Mondadori, 1982), «Erik Satie e la musica del surrealismo» (Officina Edizioni, 1976), «Vincenzo Bellini» (Sellerio, 2001). Ha firmato articoli e saggi anche su musicisti contemporanei: Bussotti, Pousseur, Sciarrino, Stockhausen, Kagel, Berio. […]

(ANSA l'11 maggio 2023) È morto lo sceneggiatore e regista Enrico Oldoini. Aveva 77 anni appena compiuti: era nato a La Spezia il 4 maggio 1946 ed è morto a Roma. L'annuncio è stato dato durante la cerimonia dei David di Donatello da Carlo Conti e il pubblico gli ha tributato un lungo applauso. Regista di cinepanettoni che spesso vedono protagonista la coppia Boldi-De Sica, firma anche sul piccolo schermo il grande successo di Don Matteo. Dopo essersi laureato alla Sapienza studiò all'accademia d'arte drammatica senza però diventare mai attore ma lasciando il segno con grandi successi al box office e d'ascolto come regista e sceneggiatore.

L'esordio dietro la macchina da presa nel 1984 quando dirige Adriano Celentano e Renato Pozzetto in Lui è peggio di me. Per il piccolo schermo firma tra l'altro due stagioni di Dio vede e provvede con Angela Finocchiaro, Un passo dal cielo, Provaci ancora prof!. Enrico Oldoini comincia come sceneggiatore lavorando con Alberto Lattuada, Pasquale Festa Campanine, Nanni loy, Carlo Verdone, Lina Wertmuller, Marco Ferreri. Firma tra le altre le sceneggiature di Borotalco, Acqua e Sapone, Io Chiara e lo Scuro, Nessuno è Perfetto. Nel 1984 esordisce alla regia con Cuori nella Tormenta con Carlo Verdone e Lello Arena, e poi Yuppis2, Vacanze di Natale 90, 91 Miracolo Italiano, Anni 90, 91. Dal 1996 comincia la carriera televisiva firmando la regia di tante serie tra le quali Incompreso, Dio Vede e Provvede, Nuda Proprietà, Il Giudice Mastrangelo, Capri, A un Passo dal Cielo, Provaci ancora Prof. E' l'ideatore assieme a Alessandro Jacchia di Don Matteo una delle più longeve e amate serie della televisione Italiana.

Addio a Enrico Oldoini: è morto il regista di Don Matteo e cinepanettoni. Scomparso all'età di 77 anni il regista e sceneggiatore Enrico Oldoini. Sue le sceneggiature e la regia di film cult da "Vacanze di Natale" alla serie tv "Don Matteo". Roberta Damiata su Il Giornale l'11 Maggio 2023

È stato Carlo Conti, durante la premiazione dei David Di Donatello, a dare l'annuncio della scomparsa all'età di 77 anni del grande regista e sceneggiatore, Enrico Oldoini. Tanti i messaggi di cordoglio da parte dei colleghi, tra tutti quello di Christian De Sica: "Ciao amico mio, ti ho voluto molto bene". Nato a La Spezia, dopo gli studi di recitazione, passione innata, si trasferisce a Roma negli anni '70, dove comincia la carriera come sceneggiatore con i più grandi, Paolo Cavara, Alberto Lattuada, Pasquale Festa Campanile, Nanni Loy, Sergio e Bruno Corbucci, Maurizio Ponzi, Carlo Verdone, Lina Wertmüller e Marco Ferreri.

Dopo aver dato vita a pellicole diventate vere e propri cult, uno tra tutti Borotalco di Carlo Verdone, debutta alla regia nel 1984, sempre con Verdone, nella nostalgica commedia Cuori nella Tormenta. L'anno dopo insieme a Bernardino Zapponi firma la sceneggiatura e dirige Lui è peggio di me, che vede come protaginisti Adriano Celentano e Renato Pozzetto. Lavora anche con i fratelli Vanzina in Yuppies, dirigendo la seconda parte della pellicola. Sia il primo con Celentano che il secondo con i Vanzina, diventano campioni d'incasso in un periodo in cui il cinema macinava numeri impressionanti.

Arriva poi Bellifreschi con Christian De Sica e Lino Banfi, un vero capolavoro della commedia ancora oggi tra i più amati. Ancora, dirige Luca Barbareschi, Carol Alt e Brigitte Nielsen raccontando in Bye bye Baby, il periodo d'oro della Milano da bere. Nel successivo, lavora con un mostro sacro come Alberto Sordi in Una Botta di Vita e infine nei sequel dei cinepanettoni che vede formarsi la coppia Boldi e De Sica. Dello stesso filone, arrivano tra il '92 e il '93, sempre scritti e diretti da lui, Anni 90 e Anni 90 parte seconda spaccato di un'Italia dell'epoca che fa sì ridere, ma amaramente, anche riflettere.

Dal 2000, Oldoini si allontana dal cinema per dedicarsi al mondo della tv. Sua l'idea di Don Matteo la serie tv più amata, ancora oggi campione di share. Tutti lo ricordano come un regista e sceneggiatore appassionato e di grande spessore, che sapeva dare alle sue opere una leggerezza mai fine a se stessa, ma piena di contenuti sottili che hanno reso le sue opere non sono campioni d'incasso, ma veri e propri cult.

"Cavez", scomparso il noto vignettista, suo il fumetto di Vasco Rossi. Morto all'età di 73 anni il grande vignettista Massimo Cavezzali, conosciuto da tutti come Cavez. Papà della sexy papera Ava aveva disegnato il fumetto su Vasco Rossi. Roberta Damiata su Il Giornale l'11 Maggio 2023

Lutto nel mondo dei fumetti, è scomparso all'età di 73 anni, il fumettista Massimo Cavezzali, conosciuto da tutti come Cavez. Il triste annuncio è stato dato via social da alcune pagine del settore. Nato a Ravenna l'11 febbraio 1950, era fiorentino d'adozione e aveva esordito negli anni '70 sulla rivista di fumetti Il Mago di Arnoldo Mondadori Editore.

Grazie al suo tratto molto riconoscibile con i suoi omini dal grande naso e gli occhi spalancati. Aveva poi collaborato con molti quotidiani come L'Unità, Paese Sera, La Repubblica, nell'inserto Musica, per il quale ha realizzato dei ritratti-caricatura di cantanti famosi, con Tuttolibri de La Stampa, i settimanali Dolly, Il Monello, Tango, supplemento satirico dell'Unità, e le riviste Comix, Lupo Alberto, Il Grifo.

Negli anni '90 la notorietà, grazie al personaggio della papera sexy e disinibita pronta a tutto per il successo e l'amore, a cui il giornalista Vincenzo Mollica diede il nome di Ava. Altre strisce famose erano quelle dedicate a Dio e all'omino con il nasone, senza fronte e gli occhi spalancati sul mondo, che diffondeva ironia e perle di saggezza. È stato autore anche di tante divertenti biografie a fumetti di musicisti, come quella di Vasco Rossi (Ogni volta che sono Vasco).

In un'intervista uscita nel 2012 aveva raccontato i suoi esordi: "Ho iniziato sul Mago a fare fumetti con Dio come protagonista. Poi li ho continuati su un sacco di altre riviste, e ancora adesso continuo con una striscia che si chiama Big Bang, praticamente una specie di 'La Bibbia di Cavezzali'. È un argomento che non smette di interessarmi", affermava svelando poi il segreto per una striscia di successo: "Umorismo+ filosofia+psicologia+imprevedibilità".

È stato un disegnatore estremamente prolifico, non mancava un giorno senza pubblicare alcune vignette sul suo blog, cariche del suo inconfondibile umorismo. Tanti i messaggi di cordoglio arrivati tramite social da appassionati e colleghi che lo ricordano come un personaggio unico dal grande talento: "Grande cartoonist, fine umorista, ha segnato un epoca e graffiato, con il suo stile unico, manie e pregiudizi della nostra società" si legge in uno dei tanti commenti sui social.

Televisione, morta a 70 anni Jacklyn Zeman: recitò in General Hospital. Vestì i panni dell'infermiera Bobbie in oltre 800 puntate di General Hospital: il mondo della televisione piange la scomparsa di Jacklyn Zeman. Valentina Mericio su Notizie.it il 12 Maggio 2023

Recitò per quasi 50 anni nella famosissima Soap Opera General Hospital, recitando nel ruolo dell’infermiera Barbara Spencer (meglio nota come Bobbie): il mondo della spettacolo sta piangendo la scomparsa di Jacklyn Zeman. L’attrice, classe 1953, è scomparsa all’età di 70 anni dopo essere stata colpita da un tumore. L’annuncio è stato dato su Twitter dal produttore della soap, Frank Valentini: “Ho il cuore spezzato”, ha dichiarato quest’ultimo.

Morta Jacklyn Zeman: la lunga carriera

La carriera di Jacklyn Zeman è stata molto prolifica. Oltre a General Hospital nella quale ha recitato tra il 1977 e il 2010 e il 2013 e il 2023, Zeman ha anche vestito i panni di Sofia Madison nella serie tv “The Bay” tra il 2010 e il 2013. Nel 1982 è stata diretta invece da Michael Miller nella pellicola “National Lampoon’s class Reunion”. La sceneggiatura di quest’ultimo film porta la firma del grande John Hughes che, proprio qualche anno dopo, dirigerà “Sixteen Candles” e “Breakfast Club”. Sono state diverse le candidature ai Daytime Emmy Award sia per The Bay che per General Hospital.

Il cordoglio sui social

Nel frattempo sono stati in molti a dedicare all’attrice un ultimo pensiero sui social. Così il produttore di General Hospital, Frank Valentini: “A nome della nostra famiglia di General Hospital, ho il cuore spezzato nell’annunciare la scomparsa della nostra amata Jackie Zeman. Proprio come il suo personaggio, la leggendaria Bobbie Spencer, era una luce brillante e una vera professionista che ha portato con sé tanta energia positiva al lavoro”.

Morto Enzo Bonafè, re delle scarpe: tra i suoi clienti Ciampi e Reagan. Redazione Online su Il Corriere della Sera l'11 Maggio 2023

Bologna, a dare la notizia della scomparsa del celebre artigiano è stata la Cna 

È morto a 88 anni, l'altro ieri, Enzo Bonafè, uno tra i più famosi artigiani italiani della calzatura. A darne notizia, piangendo la sua scomparsa, è la Cna di Bologna, città in cui è stata fondata, nel 1963, la maison di Bonafè. Iniziata la sua attività insieme alla moglie Guerrina, l'artigiano felsineo ha raggiunto le vetrine delle più prestigiose boutique d'Italia, d'Europa e del mondo, da Oslo a Roma, da New York a Tokyo ed è diventato famoso per avere confezionato le scarpe a grandi personalità, tra cui il presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan e il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. «Avevo già realizzato delle scarpe per un famosissimo gioielliere di New York - raccontava Bonafè in una sua intervista alla Cna - e fu lui a proporci di realizzare delle scarpe per il presidente Reagan. Ci facemmo inviare una sua scarpa e Reagan ne volle due modelli, uno elegante da indossare con lo smoking e uno per tutti i giorni».

Diceva sempre: «Il nostro è un lavoro manuale»

Anche il presidente Ciampi, indossò le calzature Bonafè, così come molti altri uomini della politica e dello spettacolo. «Oggi come ieri - raccontava ancora Bonafè - il nostro è soprattutto un lavoro manuale, in cui i macchinari si utilizzano pochissimo. Realizziamo circa 30 paia di scarpe al giorno e siamo circa una ventina di persone, compresi i miei due figli e mia moglie, che mi ha seguito fin dall'inizio, quando lavoravo in un piccolissimo garage, girando personalmente a vendere le mie scarpe. Questo resta uno dei lavori più difficili, in cui non bastano le capacità, ma serve una gran volontà. Noi abbiamo formato tanti giovani, ma come mi diceva sempre il mio maestro: se tu questo lavoro lo fai per 50 anni, quando ti alzi hai ancora da imparare».

Estratto dell’articolo di Mario Baudino per lastampa.it il 9 maggio 2023.

[…] Philippe Sollers (pseudonimo di Philippe Joyaux,) è stato uno dei più influenti intellettuali e scrittori francesi, di cui ha condiviso e forse ispirato vizi e virtù – per esempio quando si schierarono a difesa di Cesare Battisti, il terrorista pluriomicida riparato a Parigi e successivamente in Brasile. E tuttavia la sua scomparsa, - a 86 anni, qualche giorno fa – da noi è passata sostanzialmente inavvertita, a differenza ovviamente che in Francia. 

Sollers ha scritto moltissimo, e non solo opere letterarie fortemente sperimentali, ma anche per il teatro e per i giornali, come Le Monde des Livres o il Nouvel Observateur. Quest’ultimo lo ha salutato con un lungo necrologio che comincia con una definizione singolare: «papista e sporcaccione» (detto con grande affetto) sottolineando la sua concezione gioiosa e per nulla perbenista del sesso, che per lui rappresentava un grimaldello contro le trappole sociali e culturali, ma anche la conversione religiosa, dopo tante avventure.

Che poi amasse stupire, è indubbio. […] Sollers era inafferrabile, e beffardo, come beffarda – o tragicomica – era la sua idea di letteratura. Il romanzo più importante Femmes (1983, tradotto da noi anni dopo per l’editore Tullio Pironti, sperimentale e persino metafisico) non fu certo un best seller. In italiano venne anche tradotto Paradis, un flusso di coscienza fra Dante e Artaud scritto senza punteggiatura. 

Sono ancora disponibili Il mirabile Casanova, tra saggio e fiction dedicato all’avventuriero veneziano, e alcuni testi su pittori come Bacon o Cezanne. Insomma, in libreria è come se non esistesse – o quasi -, e da tempo. Ma Sollers va oltre i romanzi; ha incarnato una certa figura di intellettuale che fa della propria libertà una condizione assoluta, che non si nega neppure a manifestazioni di irresponsabilità, perché le considera, al fondo, metafore. Una figura che sembra irrimediabilmente al tramonto.

Proprio sul “Nouvel Observateur” Didier Jacob, autor del lungo necrologio, gli ricorda che lo intervistò dopo le feroci polemiche che seguirono alla pubblicazione di Il Consenso, libro in cui Vanessa Springora denuncia il rapporto che la legò ancora minorenne a Gabriel Matzneff, fino a quel momento stimatissimo scrittore, travolto di lì in poi dall’accusa di pedofilia.

C’era tuttavia un curioso precedente, del 1990, quando ad “Apostrophe”, la celebre trasmissione televisiva di Bernard Pivot, la giornalista e scrittrice Denise Bombardier aveva sollevato lo stesso tema, che peraltro traspariva abbondantemente dalle opere di Matzneff, attirandosi una valanga di insulti volgarissimi e maschilisti proprio da parte di Sollers. Jacob gliene chiede conto, il mondo è cambiato, forse anche lui ha cambiato idea? La risposta è articolata e divagante, ma in sostanza può essere riassunta in una sola frase (testuale): «ero ubriaco». Sia o non sia vero, poco importa.

(ANSA-AFP il 7 maggio 2023) Il generale boliviano Gary Prado Salmon, che catturò l'icona rivoluzionaria comunista Ernesto Che Guevara nel 1967, è morto all'età di 84 anni. Lo ha annunciato il figlio Gary Prado Arauz su Facebook, precisando che l'uomo si è spento ieri, mentre "era in compagnia della moglie e dei figli". 

"Ci ha lasciato un'eredità di amore, onestà e coraggio. Era una persona straordinaria", ha aggiunto. Il generale era a capo di una pattuglia nel sud-ovest della Bolivia l'8 ottobre 1967, quando riuscì a catturare il rivoluzionario argentino, ferito durante l'operazione militare. 

Il giorno dopo, l'esercito boliviano giustiziò Guevara, che si era fatto un nome insieme a Fidel Castro durante la rivoluzione comunista cubana. Dallo scorso mese di aprile Prado Salmon soffriva di problemi di salute ed era in cura in un ospedale. Il congresso della Bolivia lo ha dichiarato eroe nazionale per il ruolo avuto nella cattura del Che. Prado Salmon è rimasto paralizzato dopo essere stato accidentalmente colpito alla spina dorsale nel 1981. Si è ritirato dall'esercito nel 1988.

Estratto dell’articolo di Sara Gandolfi per corriere.it l'8 maggio 2023.

«Non sparate, io sono Che Guevara e valgo più da vivo che da morto». Con queste parole il rivoluzionario argentino si arrese al generale boliviano Gary Prado Salmón, che gli rispose: «Non si affanni capitano, è la fine. È finita». Il militare che guidava la pattuglia nella selva boliviana quell’8 ottobre 1967 poi entrato nei libri di storia e della leggenda. Da allora Salmón, morto sabato all’età di 84 anni, ha ricordato decine di volte la cattura del più famoso guerrigliero di sempre. Il giorno dopo, l’esercito giustiziò Guevara, alla presenza di un agente della Cia che riferì una delle sue ultime frasi: «Non avrei mai dovuto cadere prigioniero vivo». 

Salmón l’anno successivo fu nominato ufficialmente dal Congresso boliviano «eroe nazionale» per aver fermato una «invasione straniera sovversiva». Nel 1981, un colpo di pistola accidentale lo colpì alla spina dorsale, costringendolo su una sedia a rotelle, ma soltanto sette anni dopo si ritirò dalla carriera militare. Durante la presidenza di Evo Morales finì agli arresti domiliari per il suo coinvolgimento in una cospirazione golpista. Nel 2009 venne infatti processato e condannato per terrorismo su denuncia del governo di sinistra, con l’imputazione di aver incoraggiato la secessione del Paese durante la crisi politica di quell’anno quando si scontrarono da una parte il governo nazionale e il Movimento al Socialismo (MAS) e dall’altro i prefetti dipartimentali della regione conosciuta come il “Media Luna”. 

Fu assolto soltanto nel 2020. È morto sabato per complicazioni renali nella città di Santa Cruz. «Ci lascia un’eredità di amore, onestà e coraggio. Era una persona straordinaria», ha scritto suo figlio Gary Prado Araúz sul suo account Facebook

 Morto a 84 anni il generale che catturò Che Guevara. Gary Prado aveva 84 anni. Il Congresso boliviano lo nominò eroe nazionale per la sua difesa del territorio nazionale. Il Dubbio l'8 maggio 2023

E' morto a 84 anni, nella città di anta Cruz, In Bolivia il generale boliviano Gary Prado, famoso per ver catturato il leader della guerriglia Ernesto “Che" Guevara, nel 1967, mentre combatteva nel sud della Bolivia. Lo riporta la stampa locale. Nello stesso anno, il Congresso boliviano lo nominò eroe nazionale per la sua difesa del territorio nazionale contro quella che, all'epoca, quando governava un altro militare, il generale René Barrientos, era considerata una «invasione straniera sovversiva».

Prado prese le distanze dalle posizioni della destra militare e, negli anni '70, quando aveva già il grado di maggiore, si oppose alla dittatura del generale Hugo Banzer (1971-1978), che provocò la sua espulsione dalla carriera militare e il suo esilio in Paraguay. Dopo la caduta di Banzer, ha ripreso il suo incarico nell'esercito boliviano ed è stato nominato ministro della pianificazione nel gabinetto del successore militare David Pereda. Da allora è stato considerato un soldato "istituzionalista", cioè uno del gruppo di ufficiali che cercava di restituire il potere politico ai civili.

 Morto Gary Prado Salmón, il generale che catturò Che Guevara. Disse: «Non mi pento, era l’invasore». Sara Gandolfi su Il Corriere della Sera l'8 Maggio 2023

Gary Prado Salmón fu dichiarato «eroe nazionale» dal Congresso boliviano ma poi finì agli arresti domiciliari per un complotto golpista. È morto all’età di 84 anni 

«Non sparate, io sono Che Guevara e valgo più da vivo che da morto». Con queste parole il rivoluzionario argentino si arrese al generale boliviano Gary Prado Salmón, che gli rispose: «Non si affanni capitano, è la fine. È finita». Il militare che guidava la pattuglia nella selva boliviana quell’8 ottobre 1967 poi entrato nei libri di storia e della leggenda. Da allora Salmón, morto sabato all’età di 84 anni, ha ricordato decine di volte la cattura del più famoso guerrigliero di sempre. Il giorno dopo, l’esercito giustiziò Guevara, alla presenza di un agente della Cia che riferì una delle sue ultime frasi: «Non avrei mai dovuto cadere prigioniero vivo».

Salmón l’anno successivo fu nominato ufficialmente dal Congresso boliviano «eroe nazionale» per aver fermato una «invasione straniera sovversiva». Nel 1981, un colpo di pistola accidentale lo colpì alla spina dorsale, costringendolo su una sedia a rotelle, ma soltanto sette anni dopo si ritirò dalla carriera militare. Durante la presidenza di Evo Morales finì agli arresti domiliari per il suo coinvolgimento in una cospirazione golpista. Nel 2009 venne infatti processato e condannato per terrorismo su denuncia del governo di sinistra, con l’imputazione di aver incoraggiato la secessione del Paese durante la crisi politica di quell’anno quando si scontrarono da una parte il governo nazionale e il Movimento al Socialismo (MAS) e dall’altro i prefetti dipartimentali della regione conosciuta come il “Media Luna”. Fu assolto soltanto nel 2020. È morto sabato per complicazioni renali nella città di Santa Cruz. «Ci lascia un’eredità di amore, onestà e coraggio. Era una persona straordinaria», ha scritto suo figlio Gary Prado Araúz sul suo account Facebook.

Nelle molteplici interviste, si è sempre detto orgoglioso di aver catturato Che Guevara, lasciando intendere che l’argentino era caduto vittima di un complotto ordito dai suoi stessi amici. «Credo che l’abbiano mandato qui per sbarazzarsi di lui. Fidel già l’aveva spedito in Africa. A Cuba non lo tolleravano per quegli atteggiamenti violenti che aveva», raccontava, aggiungendo che «neppure i “campesinos” lo sostenevano»: «Per i contadini erano stranieri, un’invasione di stranieri armati che voleva imporci un modello politico che non era quello che volevamo noi boliviani». Una tesi ripetuta anche nel suo libro “La Guerrilla Inmolada”.

Salmón ci teneva a sottolineare di aver consegnato al suo comandante di divisione, arrivato in elicottero nel territorio impervio dove il Che fu catturato, «un prigioniero vivo, sano. Quando sono tornato il giorno dopo ho scoperto che era stato giustiziato».

Estratto dell'articolo di biccy.it l'8 maggio2023

A soli 37 anni Monica Sirianni. La donna – nota ai più per aver partecipato alla dodicesima edizione del Grande Fratello – è deceduta a Catanzaro dopo un malore improvviso mentre si trovava con degli amici in un bar. A nulla sarebbe servito l’immediato trasferimento in ospedale. 

Monica Sirianniè [...] è stata una gieffina [...] della dodicesima edizione del Grande Fratello [...] Monica, nata a Sydney ma di origini calabre, è rimasta nella casa più spiata d’Italia circa un mese dove ha avuto un flirt con il gieffino Fabrizio Conti.

Classe 1986, la Sirianni tornando a vivere in Italia sfidò il volere dei genitori emigrati che avrebbero voluto impedirle il trasferimento nella terra d’origine che, tanti anni fa, decisero di abbandonare.

È morta Monica Sirianni, ex concorrente del Grande Fratello: aveva 37 anni. Redazione Online su Il Corriere della Sera l'8 Maggio 2023

La donna aveva partecipato alla 12esima edizione del reality di Canale 5. Al momento della tragedia si trovava a Catanzaro

Monica Sirianni, 37 anni, è morta, nella tarda serata di venerdì 5 maggio, a Soveria Mannelli, in provincia di Catanzaro: si trovava in un bar e ha accusato un malore. Sirianni aveva partecipato come concorrente al Grande Fratello 12. A dare la notizia le testate locali.

Secondo quanto riferiscono i giornali locali che per primi hanno dato la notizia della sua scomparsa, la donna ha accusato un malore improvviso: gli amici che erano con lei hanno subito lanciato l’allarme ed è stata trasportata d’urgenza in ospedale. Per lei, però, non c’è stato nulla da fare: è deceduta poco dopo l’arrivo in pronto soccorso. Sono in corso accertamenti sulle cause del decesso, per verificare cosa abbia provocato il malore fatale. Non è escluso che la giovane Monica sia stata colpita da un infarto.

Monica, insegnante d’inglese, era salita alla ribalta quando aveva partecipato alla dodicesima edizione del reality di Canale 5, quella andata in onda a cavallo tra il 2011 e il 2012: all’epoca, a condurre il Grande Fratello c’era Alessia Marcuzzi e opinionista Alfonso Signorini.

Monica fu scelta per entrare a far parte del cast del popolare reality show quando aveva solo 25 anni. Figlia di emigrati calabresi che avevano scelto di trasferirsi a Sidney, Monica era rientrata in Italia nonostante il parere contrario dei genitori. Lavorava come insegnante di inglese. L’edizione del GF che la vide tra i partecipanti fu vinta da Sabrina Mbarek. Inoltre la partecipazione di Monica al Grande Fratello coincise con l’inizio della sua storia d’amore con Fabrizio Conti, coinquilino conosciuto nella Casa di Cinecittà. Per inseguire quella passione, Sirianni decise di lasciare il fidanzato dell’epoca, Diego Bevilacqua. Conti si rivelò essere a tal punto coinvolto da Monica da accantonare la passione con Martina Pascutti, altra concorrente conosciuta nella Casa. Un legame importante quello nato tra i due nella Casa, che tuttavia si interruppe dopo la fine del reality show. Monica, da tempo, era tornata alla sua vita di sempre, abbandonando il piccolo schermo. Nonostante i genitori all’estero, aveva scelto di restare a vivere in Italia.

Monica Sirianni, la procura indaga sulla morte dell’ex del Grande Fratello. L’ipotesi dei pm: notevole assunzione di alcol. Carlo Macrì su Il Corriere della Sera il 12 maggio 2023.

La 37enne è morta in Calabria a Soveria Mannelli lo scorso 5 maggio. Era in compagnia di alcuni amici. L’inchiesta nata dalla denuncia dei genitori

Si tinge di giallo il caso della morte di Monica Sirianni, l’ex concorrente del Grande Fratello scomparsa lo scorso 5 maggio all’età di 37 anni. La giovane donna si era sentita male mentre era con degli amici a Soveria Mannelli, in provincia di Catanzaro. Ed era arrivata già senza vita in ospedale. La procura, ora, ha aperto un’inchiesta, dopo una denuncia presentata dai genitori della vittima, e ha già disposto l’autopsia (di cui ora si attendono gli esiti). Secondo le prime ipotesi, Sirianni, la sera del decesso, avrebbe assunto una notevole quantità di alcol.

Monica Sirianni, era stata concorrente del Grande Fratello nel 2011, quando aveva 25 anni: nata a Sidney da genitori calabresi emigrati in Australia, era tornata da alcuni anni in Italia e risiedeva in una città della Lombardia. La morte è avvenuta a Soveria Mannelli, centro della provincia di Catanzaro in cui si trovava da qualche giorno e di cui erano originari i suoi genitori.

Le indagini sono state delegate ai carabinieri della Compagnia di Soveria Mannelli. Monica Sirianni faceva l’insegnante di inglese e, dopo la partecipazione al Grande Fratello, aveva lasciato il mondo dello spettacolo e della televisione.

Estratto dell'articolo di Ida Artiaco per fanpage.it l'8 maggio 2023.

Lutto nel mondo dello sport italiano: è morto a soli 26 anni Michele Sica, ex campione di pattinaggio artistico. Il ragazzo, secondo le prime indiscrezioni riportate da Il Resto del Carlino, sarebbe caduto dal balcone di casa a Sala Bolognese [...] 

"Siamo sconvolti, era uno di famiglia", lo ricorda il presidente della Polisportiva Giovanni Masi di Casalecchio (Bologna), Andrea Ventura. Nato nel 1997, Sica seguiva il settore pattinaggio proprio dell'associazione sportiva di Casalecchio, dove era arrivato nel 2016. 

[…]

"È con immenso dolore e incredulità che comunichiamo l’improvvisa e prematura scomparsa del giovane allenatore di Polisportiva Masi Pattinaggio e amico Michele Sica – si legge nel post del gruppo sportivo -. Michele era con noi da alcuni anni, era nato nel 1997 e prima di dedicarsi all'allenamento aveva avuto una importante carriera da pattinatore artistico con un titolo Mondiale juniores nel 2016 e un argento Europeo senior nel 2018. Le più sentite condoglianze a tutta la famiglia". 

Matteo Sica stato due volte campione mondiale juniores e ha ottenuto l’argento ai Campionati Europei della massima categoria nel 2018 a Lagoa (Portogallo). Il nonno è l'ex campione europeo di pugilato, Elio Cotena. Biologo nutrizionista, laureato in Scienze motorie all'ateneo felsineo, da istruttore seguiva in special modo il gruppo degli agonisti del corso di pattinaggio, atleti attorno ai 15-16 anni d'età. […]

Morto Michele Sica, ex campione mondiale e allenatore di pattinaggio: suicidio o incidente. Mauro Giordano e ​Marco Merlini su Il Corriere della Sera l'8 Maggio 2023

Aveva 26 anni. Ne ha dato notizia la Polisportiva Masi in provincia di Bologna dove il giovane sportivo allenava le ragazze: i successi con la Nazionale 

Una terribile notizia ha colpito il mondo del pattinaggio artistico a rotelle. Nelle scorse ore è morto infatti all’età di 26 anni Michele Sica, allenatore e volto notissimo nell’ambiente visto i recenti successi con la Nazionale italiana maggiore. 

La carriera e i successi sportivi di Michele Sica

A diffondere la notizia sui social è stata la Polisportiva Giovanni Masi, società di Casalecchio di Reno che aveva accolto il napoletano come allenatore dopo un percorso trionfale da atleta. Michele Sica, nipote del celebre pugile Elio Cotena, nel corso della sua carriera ha infatti raggiunto risultati estremamente rilevanti, conquistando per due anni di seguito la medaglia d’oro ai Mondiali Junior nel 2015 (Cali) e nel 2016 (Novara) oltre che l’argento ai Campionati Europei della massima categoria nel 2018 a Lagoa (Portogallo). 

Il lutto e il cordoglio della sua Polisportiva

«È con immenso dolore ed incredulità che comunichiamo l’improvvisa e prematura scomparsa del giovane allenatore di Polisportiva Masi Pattinaggio e amico Michele Sica - il messaggio della Polisportiva -. Michele era con noi da alcuni anni, era nato nel 1997 e prima di dedicarsi all'allenamento aveva avuto una importante carriera da pattinatore artistico con un titolo Mondiale juniores nel 2016 e un argento Europeo senior nel 2018. Le più sentite condoglianze a tutta la famiglia»

La mamma: «Non si sarebbe mai ucciso»

«E’ stato un incidente», si sforza di dire mamma Rossana che dal napoletano è salita immediatamente in Emilia per cercare di capire che cosa è successo. Sul fronte investigativo, però, le convinzioni sono altre: per gli inquirenti l’ipotesi principale è quella del suicidio, ma per chiarire la dinamica il pm di turno Nicola Scalabrini ha disposto l’autopsia che si celebrerà domani, martedì 9 maggio. A raccontare le ultime ore del ragazzo è proprio la mamma, che ci ha parlato al telefono poco prima della tragedia. Michele al termine di una serata in discoteca è tornato a casa con il compagno con cui avrebbe avuto una discussione: «Una cosa tra fidanzati – racconta la mamma – magari si dice qualche parola di troppo, come “io mi ammazzo”, ma poi non succede. E’ capitato anche me quando ero giovane. Non credo assolutamente che quello che è accaduto sia intenzionale, Michele voleva vivere, sono sicura non avrebbe mai fatto volontariamente un gesto così». Per Rossana la situazione sarebbe sfuggita di mano, Michele si sarebbe spinto oltre le intenzioni, senza poter più tornare indietro. Una tragica fatalità, dunque, per la famiglia che non sporgerà denuncia e attenderà solo l’esito degli esami.

Oltre allo sport aveva preso due lauree

Michele Sica, napoletano di origine, aveva scoperto il pattinaggio artistico tardi, all’età di 12 anni: una carriera fulminante, in cui solo la società beneventana Jolly Skate aveva creduto, e che lo aveva portato a diventare campione del mondo juniores. Poi la scelta di dedicarsi agli studi, con il conseguimento di due lauree e studi portati avanti a Napoli prima, a Rimini, poi a Firenze, infine a Bologna dove è arrivato tre anni fa. Qui il contatto con la Polisportiva Masi con cui ha intrapreso il ruolo di istruttore: “Michele era adorato dalle sue allieve – racconta il presidente della polisportiva Andrea Ventura – era un istruttore con “i” maiuscola”. “Si occupava del settore formativo e di quello agonistico – gli fa eco il coordinatore del settore Vincenzo Scarpa – curava la preparazione di bambine e adolescenti, era davvero un professionista serio, oltre che una persona splendida». L’auspicio di chi lo conosce è quello di potergli dedicare un ultimo saluto, magari allestendo una camera ardente. «Lo faremo – promette mamma Rossana – una volta finiti gli accertamenti, organizzeremo un saluto qui e poi ci riporteremo Michele a casa, a Pozzuoli. E lo ricorderemo per quella splendida persona che era».

Da repubblica.it il 3 maggio 2023.

È morto Alessandro D'Alatri, regista di molti film per il cinema come Senza pelle con Kim Rossi Stuart e  tanti successi televisivi come I bastardi di Pizzofalcone, Il commissario Ricciardi e Un professore. È morto oggi dopo per malattia. 

 Una carriera iniziata giovanissimo prima come attore, poi come regista pubblicitario, settore in cui si fa le ossa per cui quando nel 1991 fa il suo debutto sul grande schermo con il film Americano rosso vince subito il David di Donatello e il Ciak d'Oro come miglior film esordio. Con il secondo titolo presentato alla Quinzaine des Réalisateurs di Cannes Senza pelle con Kim Rossi Stuart e Anna Galiena conquista il pubblico internazionale e il David di Donatello per la miglior sceneggiatura. Negli anni ha realizzato nove film per il cinema, l'ultimo è stato The Startup, storia vera di un ventenne romano che ha inventato durante il liceo un social network basato sul merito per far trovare lavoro.

Negli ultimi anni si è dedicato molto alla fiction tv Rai firmando progetti di grandissimo successo come I bastardi di Pizzofalcone, Il Commissario Ricciardi e Il Professore. Qualche stagione fa parlando di Ricciardi aveva raccontato il privilegio di portare in tv le pagine di Maurizio de Giovanni e la città di Napoli: "Il rapporto tra la vita e la morte è celebrato ogni giorno, ovunque vedi ‘le capuzzelle’: i teschi li vediamo all’ingresso delle chiese, il napoletano vede il rapporto con la morte non solo con il dolore, ma per l’esorcizzarla. Napoli nella storia di Ricciardi ha un peso specifico che gli è stato dato da anni di storia".

Da cinquantamila.it - la storia raccontata da Giorgio Dell’Arti il 3 maggio 2023. 

Alessandro D'Alatri, nato a Roma il 24 febbraio 1955. Regista. Nel 1991 ha vinto il David di Donatello come miglior esordiente per Americano rosso. Nel 1995 David e Nastro d’argento per la sceneggiatura di Senza pelle. Poi, tra gli altri, Casomai (2002), La febbre (2005), Commediasexi (2006). «Sono uno che non ha mai fatto lo stesso film, non propongo piatti riscaldati, mi metto sempre in gioco».

Tra gli spettacoli teatrali Il sorriso di Dafne (2005): «Ho vinto agli Olimpici di Vicenza. È una commedia sull’eutanasia: il sacrosanto diritto che ha ciascuno di noi di decidere quando morire»; nel 2007 Diatriba d’amore contro un uomo seduto; nel 2011 Scene da un matrimonio, poi Disco risorgimento – una storia romantica e Tante belle cose. 

«Grazie al lavoro della madre entra a otto anni nel mondo dello spettacolo come attore. Al Piccolo Teatro di Milano recita con Giorgio Strehler, a Roma lo dirige Luchino Visconti, in televisione lavora con Sandro Bolchi, al cinema lo sceglie De Sica per Il giardino dei Finzi Contini» (Miro Silvera). 

«È un cane sciolto. Un po’ cattolico e un po’ no, un po’ rivoluzionario e molto pacifista, un po’ leggero nel modo di girare e molto pesante in quello di pensare» (Simonetta Robiony). 

«Sono stufo di una certa intellighenzia chiusa nei suoi salotti. La tv fa schifo? Fatela voi. I film di Natale non vi piacciono? Fatene altri. Gli attori di cassetta non vi convincono? Scegliete facce nuove. Avete un paio di idee per migliorare il paese? Raccontatele alla gente. In tv, sui giornali, nei film, perfino alla radio. E ascoltatene le risposte».

Apprezzatissimo regista di spot pubblicitari: quello per la Telecom con Massimo Lopez, quello per la Lavazza con Tullio Solenghi, e quello per “3” con Luciana Littizzetto (2008). 

«Occhi azzurri, di un azzurro innocente. Dentro c’è la luce dell’intelligenza. Se gli piaci, è fatta: hai una persona generosamente battagliera su cui poter contare, ed è capace di travolgerti con la sua carica di quotidiana umanità. In caso contrario, l’azzurro si fa ghiaccio duro, in grado di respingerti con cortese fermezza come se il pensiero fosse rivolto altrove, perso in terre irraggiungibili.

Ogni tanto lo si vede con la barba, ogni tanto con i baffi o il pizzo, oppure torna improvvisamente più giovane, col mento nudo, il volto difeso solo dagli occhiali con la montatura di metallo. Ecco, gli occhiali sono il suo scudo, l’argine agli assalti del mondo, il filtro di ogni immagine che giunge da fuori. Perché Alessandro D’Alatri con le immagini ci lavora e sono il suo pane quotidiano sin da quando era piccolo» (Miro Silvera) 

Di sinistra, ma critico col Pd. 

Appassionato di automobilismo sportivo

Sposato dal 1995 con Cristiana, due figlie (Federica e Carolina).

Estratto dell’articolo di Giovanni Berruti per “la Stampa” il 4 maggio 2023.

I Bastardi di Pizzofalcone, il Commissario Ricciardi, Un professore. Alessandro D'Alatri, morto ieri a 68 anni dopo una lunga malattia, era l'uomo dietro la macchina da presa di alcuni dei più grandi successi recenti della serialità televisiva. 

«Un genio», ne parla così lo scrittore Maurizio De Giovanni che ha visto D'Alatri dare a tanti suoi libri forma di fiction. Ma la sua carriera inizia molto tempo fa, quando è ancora un ragazzo. Regista di tv e di cinema, oltre che sceneggiatore, sul grande schermo in realtà esordisce come attore, da adolescente: dopo “Il ragazzo dagli occhi chiari” di Emilio Marsili, è il turno de “Il Giardino dei Finzi Contini” di Vittorio De Sica che lo vuole nella versione adolescenziale del protagonista. 

È poi anche il figlio di un capitano ridotto in miseria e bullizzato dai compagni di scuola nello sceneggiato I fratelli Karamazov di Sandro Bolchi, anche se D'Alatri ha sempre ricordato con entusiasmo un'esperienza ancora precedente, quando aveva 8 anni: un provino per Luchino Visconti. […] 

L'esordio cinematografico dietro la macchina da presa è di quelli importanti: al primo film, Americano Rosso (1991), vince il David di Donatello come miglior regista esordiente. Con il progetto successivo, Senza Pelle, va al Festival di Cannes. Lancia poi la carriera da attore di Fabio Volo con Casomai, con cui poi si ritrova nella pellicola successiva, La febbre. Tra i suoi lavori, anche Commediasexi, con protagonista un inedito Paolo Bonolis, al fianco di Sergio Rubini, Margherita Buy e Stefania Rocca.

L'ultima volta al cinema con The Startup, nel 2017, che ricostruisce la storia di Matteo Achilli e del suo progetto imprenditoriale. Un omaggio a una generazione, D'Alatri ci teneva ai ragazzi. «Sono il futuro, devo stare al loro fianco», diceva spesso.

La serialità ha segnato l'ultima parte della sua carriera. 

D'Alatri era uno di quei registi amati dalla troupe, privo di ogni presunzione, mai snob, cosa mai scontata nelle gerarchie spesso rigide dei set. Lo chiamavano «il Capitano», come Francesco Totti, perché era romano e romanista; e proprio l'AS Roma lo chiamò per girare uno spot per il lancio della società in Borsa, girato all'Olimpico con tutti i giocatori di allora. […]

CI ha lasciato Alessandro D’Alatri, regista di spot, cinema e tv. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 4 maggio 2023. 

Privo di ogni presunzione, mai altezzoso, cosa mai scontata nelle gerarchie spesso rigide dei set, D'Alatri era uno di quei registi amati dalla troupe

di Antonello de Gennaro

I Bastardi di Pizzofalcone, il Commissario Ricciardi, Un professore. Alessandro D’Alatri, morto ieri a 68 anni dopo una lunga malattia, era l’uomo dietro la macchina da presa di alcuni dei più grandi successi recenti della serialità televisiva. Il Festival di Cannes Alessandro D’Alatri lo aveva frequentato a lungo. Come regista pubblicitario prima, vincitore anche di un Leone d’argento, come regista cinematografico poi. Non ci tornerà più.

Ho conosciuto Alessandro insieme a sua moglie Cristiana circa 15 anni fa, grazie ai nostri cani che giocavano insieme, e mi aveva colpito il suo sorriso amichevole, sin dal primo incontro, la sua disponibilità allo scambio di idee, battute, ti sembrava di averlo amico da una vita. Commuoversi per la scomparsa di Alessandro per chi lo conosce è inevitabile, persona dotata di quella zero arroganza che non sempre si trova fra i suoi colleghi.

Privo di ogni presunzione, mai altezzoso, cosa mai scontata nelle gerarchie spesso rigide dei set, D’Alatri era uno di quei registi amati dalla troupe. Lo chiamavano tutti “il Capitano”, come Francesco Totti, perché era romano e romanista; e fu proprio l’AS Roma a chiamarlo per girare uno spot per il lancio della società in Borsa, girato all’Olimpico con tutti i giocatori di allora.

La telecamera Alessandro l’ aveva nella pelle. Anche a distanza di tanto tempo e tanti lavori, amava raccontare di aver recitato da bambino in teatro per Luchino Visconti. Mentre su grande schermo da attore era stato chiamato da Vittorio De Sica, ai tempi del ‘Giardino dei Finzi Contini’.

Il ricordo dello scrittore De Giovanni

“Perdo un amico, ed è un fulmine a ciel sereno, perché Alessandro aveva tenuto riservata la malattia, pensavamo fosse in clinica per un problema ortopedico. Una notizia atroce“, ha commentato lo scrittore Maurizio de Giovanni ricordando con affetto il poliedrico artista, con il quale ha collaborato per la trasposizione televisiva in Rai delle serie tratte dai suoi romanzi. “Era un uomo di una sensibilità, intelligenza, attenzione, gentilezza inusitata per questo ambiente. Faceva migliori i personaggi che gli affidavi, gli davi dei sogni e te li restituiva reali. Il meglio che un autore può sperare da un regista”. E conclude: “Napoli perde un cittadino, perché qui è stato tanto ed è diventato a tutti gli effetti un napoletano. Una persona in grado di mettere la città in scena conservando per la città il ruolo di protagonista che merita”.

Ciao caro Alessandro fai buon viaggio, un giorno ci ritroveremo lassù e torneremo a giocare insieme ai nostri amici a quattro zampe. .Ci mancherai

Redazione CdG 1947

Marco Giusti per Dagospia il 4 maggio 2023.

Se ne va, ancora giovane, 68 anni, un regista di cinema, tv, pubblicità, di grande esperienza e di grandissimo talento come Alessandro D’Alatri. Intelligente, simpatico, aperto, sempre pronto alla battuta, era un piacere parlarci di cinema o di pubblicità, che conosceva in Italia, meglio di quasi tutti, avendola frequentata fin da piccolissimo come attore.

Infatti, al di là dei film che ha diretto, una decina, degli attori che ha spinto, scoperto e riscoperto, penso alla Sabrina Ferilli di “Americano rosso”, al Kim Rossi Stuart di “Senza pelle”, al Fabio Volo di “Casomai”, perfino al Paolo Bonolis di “Commediasexi”, ai grandi successi televisivi degli ultimi anni, “I bastardi di Pizzofalcone”, “Il commissario Ricciardi”, ai  video musicali per Zero, Pausini, Negramaro, Elisa, ai più di 100 spot che ha diretto nella pubblicità, era tra i pochi che potessero vantarsi di essere nati e cresciuti dentro il mondo dello spettacolo.

Alessandro viene infatti scoperto già ai tempi di Carosello come attore bambino adatto sia alle celebri scenette pubblicitarie che alla tv. Nato a Roma nel 1955, lo troviamo attore in tv “I fratelli Karamazov” (1969), “Il ragazzo dagli occhi chiari” (1970), al cinema in “Il giardino dei Finzi Contini” (1970) di Vittorio de Sica nel ruolo del protagonista da piccolo. Contemporaneamente viene scelte come protagonista della serie di Carosello “Ladri di motorette” girata per la Lambretta da Giuliano Biagetti nel 1970, ma lo troviamo in decine di altre pubblicità come un Cirio del 1972 accanto a Romolo Valli.

Diventa in breve uno degli attori bambino più ricercati dalla tv italiana assieme a Giusva Fioravanti. Nel 1981 gira come attore ormai cresciuto per la regia di Francesco Barilli il film per la tv “Una mattina come le altre”, ma soprattutto si lega a Barilli come aiuto regista e diventa ben presto lui stesso uno dei maggiori registi pubblicitari della fine degli anni ’80 e ’90. Gira la celebre serie Kodak del marziano Ciripirirì con Davide Marotta e Roberto Della Casa, ricordo che lo andai a trovare sul set a Cinecittà, Tonno Maruzzella, la prima serie della pasta di Giovanna Rana, quella della Sip con Massimo Lopez fermo davanti al plotone d’esecuzione della Legione Straniera che chiede come ultimo desiderio proprio la telefonata che ti allunga la vita.

Per non parlare di quella con Tullio Solenghi in Paradiso che offre il caffè Lavazza a Riccardo Garrone, San Pietro barbuto, per non parlare dei Lavazza con Brignano. Diresse nella pubblicità molte delle bellezze di questi ultimi anni, da Alba Parietti a Simona Ventura a Lorenza Forteza. Mi raccontò di aver diretto negli anni ’80 la ormai introvabile campagna dei biscotti Saiwa con Moana Pozzi che venne interrotta quando si scoprirono i film hard di Mona.

E D’Alatri ricordava bene i racconti che gli faceva al tempo Moana sul suo rapporto con Bettino Craxi. In qualche modo attraversa tutto il periodo della Milano da bere berlusconiana e craxiana prima di arrivare, con “Americano rosso”, prodotto dalla Rai Tre di Angelo Guglielmi, a tentare la carta del cinema. Senza per questa perdere però vista di essere uno dei più celebri e meglio pagati registi pubblicitari del momento.

Tra i pochi, inoltre, che conoscano bene i gusti ancora carosellistici, da piccoli sketch, del pubblico italiano. Con “Senza pelle” con Kim Rossi Stuart, Massimo Ghini e Anna Galiena, D’Alatri entra nel giro dei registi giovani italiani più interessanti, iniziando davvero una nuova carriera, che proseguirà con un bellissimo documentario tv su Sergio Citti, e poi con l’ambizioso “I giardini dell’Eden”, interpretato da Kim Rossi Stuart e Jovanotti, presentato a Venezia non con grande successo.

Grazie a due film di successo, “Casomai” e “La febbre”, si posiziona come regista di commedie più moderne e civili, riesce a sviluppar prima la coppia Fabio Volo e Stefania Rocca, poi quella Volo – Valeria Solarino grazie a copioni ben scritti, tra gli sceneggiatori notiamo Anna Pavignano, Domenico Starnone e Gennaro Nunziante, ma anche a un modo di girare più attuale e da cinema internazionale.

Con “Commediasexi” con Paolo Bonolis, Sergio Rubini e Elena Santarelli, pensato come cinepanettone intelligente da contrapporre a quelli di Aurelio De Laurentiis, ha la strepitosa intuizione della commedia pochadistica ambientata ai tempi del primo governo Berlusconi e delle star del Bagaglino, ma il film non ottiene il successo che si meritava, Bonolis non viene riconosciuto come attore, e il modo di girare di D’Alatri è particolarmente costoso per una commedia del genere.

Non solo non si tenterà più l’operazione, ma Bonolis non girerà più nulla al cinema. D’Alatri proverà a girare qualcosa di completamente nuovo, in digitale, per il tempo una cosa rivoluzione, con il piccolo romanzo sentimentale ambientato a Capri “Sul mare” che vede protagonisti gli inediti Alberto Angrisano, figlio nella realtà di Peppino Di Capri, e Martina Codecasa. Un film assolutamente originale che non viene capito, seguito poi da “The Start-Up: Accendi il tuo futuro” con Andrea Arcangeli e Matilde Gioli.

Divenne anche direttore artistico del Teatro Stabile d’Abruzzo qualche anno fa. D’Alatri ritornerà al successo con le serie televisive di questi ultimi anni, “I bastardi di Pizzofalcone”, “Il commissario Ricciardi”, “Un professore”, ma non tenterà più di muovere con idee fresche e metodi del tutto innovativi il nostro cinema popolare. Lascia due figlie avute da Christiane Horedt durante una relazione durata 26 anni.

Addio a Alessandro D'Alatri: morto il regista di "Senza Pelle" e "I bastardi di Pizzofalcone". Scomparso prematuramente a 68 anni, il regista Alessandro D'Alatri. Grandi successi nella sua carriera, dove al suo primo esordio alla regia aveva vinto un David di Donatello. Roberta Damiata il 3 Maggio 2023 su Il Giornale.

Grave lutto nel mondo del cinema italiano, è morto all'età di 68 anni per una grave malattia Alessandro D'Alatri, regista di molti film per il cinema, come Senza pelle con Kim Rossi Stuart, e tanti successi televisivi da I bastardi di Pizzofalcone, a Il commissario Ricciardi e Un professore. Era nato a Roma dove aveva iniziato la carriera da giovanissimo come attore, esordiendo nel 1969 con il film Il ragazzo dagli occhi chiari di Emilio Marsili e l’anno seguente nel film Il giardino dei Finzi Contini di Vittorio De Sica.

Passa poi alla regia di spot pubblicitari imparando i rudimenti di un mestiere che da subito gli regala grandi soddisfazioni. Il suo primo film per il cinema nel 1991, Americano Rosso, con cui vince il David di Donatello e il Ciak d'Oro come miglior film d'esordio. La sua magistrale bravura e la sua grande sensibilità, diventano poi cult con la sua seconda pellicola presentata alla Quinzaine des Réalisateurs di Cannes. Quel, Senza pelle, intepretato magistralmente da un giovane Kim Rossi Stuart e da Anna Galiena, che conquista il pubblico internazionale vincendo anche un David di Donatello per la miglior sceneggiatura.

Sempre con Kim Rossi Stuart, attore che amava particolarmente, ha girato anche I giardini dell'Eden presentato alla Mostra di Venezia. Con lui debutta come attore anche Fabio Volo nel film Casomani del 2002, e poi ancora in La febbre del 2005. Nel 2006 sua anche la commedia che vede protagonista un insolito Paolo Bonolis, nelle vesti di un onorevole, in Commediasexy, con un cast d'eccezione, tra cui Margherita Buy, Stefania Rocca, Elena Santarelli, Rocco Papaleo, Sergio Rubini e Michele Placido. Lo stesso anno vince l’Angelo alla carriera al Festival cinematografico Cielo e Terra di Terni, che gli rende omaggio anche con una proiezione de I giardini dell’Eden.

Suo anche il videoclip di Ancora qui, che nel 2009 vede il grande ritorno di Renato Zero. Nel 2010 esce Sul mare, film di cui D’Alatri è sia sceneggiatore che regista, vincitore del premio speciale 2010, al festival Alabarda d’oro. Dai successi cinematografici, negli ultimi tempi, si era dedicato anche a molte fiction tv di grande successo come I bastardi di Pizzofalcone, Il commissario Ricciardi e Un professore. L'ultimo film che ha visto la sua firma è The Startup.

Uno dei primi a ricordare il suo grande estro Alessandro Gassman, con lui sul set della fiction I Bastardi di Pizzofalcone: "È partito per un altro viaggio il mio amico regista, sceneggiatore, ma soprattutto essere umano dolce, generoso, pieno di talento, uomo di cultura. Grazie per l’opportunità di averti conosciuto. A chi lo amava un abbraccio", scrive commosso l’attore sui social.

È morto Alessandro D'Alatri, regista di Senza pelle e Il commissario Ricciardi Alessandro D'Alatri. Simona Santoni su Panorama il 03 Maggio 2023

Aveva 68 anni. Tra i suoi successi le serie tv per la Rai I bastardi di Pizzofalcone e Un professore. Al cinema conquistò il David di Donatello come miglior esordiente con Americano rosso. Il suo ultimo film: The Startup 

Eclettico, attore per Visconti e De Sica, regista e sceneggiatore romano tra cinema, televisione, pubblicità e teatro, è morto all’età di 68 anni Alessandro D'Alatri. Il suo lavoro più recente: la regia dello spettacolo teatrale Mettici la mano, una storia passata dal libro di Maurizio De Giovanni alla serie tvIl Commissario Ricciardi che lui stesso ha diretto fino ad approdare a teatro. I suoi successi più freschi sono proprio da ricondurre al piccolo schermo: oltre a guidare Lino Guanciale come commissario Luigi Alfredo Ricciardi, ha diretto Alessandro Gassman prima come commissario di polizia neI bastardi di Pizzofalcone, quindi come prof di filosofia in Un professore, sempre per la Rai. Al cinema come regista fece un impressionante debutto nel 1991 con il film Americano rosso, che vinse subito il David di Donatello e il Ciak d'Oro come miglior film esordio, una commedia su un’estate italiana di fascismo trionfante con Fabrizio Bentivoglio. Senza pelle (1993) con Kim Rossi Stuart e Anna Galiena si meritò il Festival di Cannes nella sezione Quinzaine des réalisateurs e il David di Donatello per la miglior sceneggiatura. Sempre affidandosi a Kim Rossi Stuart, nel 1998 approdò al concorso della Mostra del cinema di Venezia con I giardini dell'Eden. E poi commedie con Fabio Volo protagonista, da Casomai (2002) a La febbre (2005). Il suo ultimo lavoro cinematografico è The Startup del 2017 con Andrea Arcangeli, Paola Calliari e Matilde Gioli, la storia di un giovane romano che durante il liceo inventò un social network basato sul merito per far trovare lavoro. In mezzo, anche spot pubblicitari tanto da vincere nel 2000 al festival della pubblicità di Cannes il Leone d'argento per lo spot della posta prioritaria. Come attore, da giovanissimo, debuttò a teatro sotto Luchino Visconti con Il giardino di ciliegi, quindi al cinema recitò nel dramma Il giardino dei Finzi Contini (1970) di Vittorio De Sica. Su Instagram poche settimane fa aveva ringraziato il pubblico del teatro Ambra Jovinelli di Roma così: «Questa sera è terminata la splendida avventura romana di Mettici la mano presso l’Ambra Jovinelli. Un grazie al teatro, a tutti i suoi lavoratori, alla compagnia, ma soprattutto al pubblico romano. Grazie di cuore e a presto!».

Estratto dell’articolo da tgcom24.mediaset.it il 28 aprile 2023.

È morto Jerry Springer, re della tv spazzatura americana e una delle figure più influenti e controverse della storia del piccolo schermo. Aveva 79 anni e si è spento nella sua casa alla periferia di Chicago, come ha annunciato un portavoce della famiglia. 

Al celebre conduttore, che fu anche, per un breve periodo alla fine degli anni Settanta, sindaco di Cincinnati, era stato diagnosticato un tumore al pancreas pochi mesi fa, come rivela TMZ, che questa settimana sarebbe improvvisamente peggiorato. Per 27 anni, dal 1991 al 2018, ha condotto il talk show a stampo sindacalista 'The Jerry Springer Show' dagli altissimi indici di ascolto grazie ad ospiti in studio pronti a scandalizzare e a fare a botte davanti alle telecamere. 

Ogni giorno Springer proponeva ai suoi spettatori una svariata collezione di fauna umana, disposta a mettere a nudo i suoi più bassi segreti: madri che confessavano alla figlia di andare a letto con la sua migliore amica, marito e moglie che scoprivano di avere lo stesso amante. 

Il tutto condito, come in un rituale, dalla fatidica rissa finale, con tanto di tirate di capelli, calci e ceffoni, aizzata dal conduttore e dal pubblico al grido di "Jerry, Jerry". […] 

Famoso per il lancio della sedia e le discussioni piene di 'bip' lo show di Springer era così popolare alla fine degli anni 90 che superò quello di Oprah Winfrey in diverse città. […]

Si è spento Nicola Magrone, ex magistrato e politico pugliese. Il cordoglio del sindaco di Modugno. È stato parlamentare e sindaco di Modugno. E tra i magistrati che vennero definiti «pretori d’assalto» occupandosi anche di reati ambientali. REDAZIONE ONLINE su La Gazzetta del Mezzogiorno il 28 APRILE 2023

È morto nel pomeriggio ad 82 anni Nicola Magrone, ex magistrato e politico pugliese. Magrone, entrato in magistratura nel 1971, è stato deputato per una legislatura (1994-1996) e sindaco di Modugno prima da 2013 al 2014, e nuovamente dal 2015 al 2020.

Pretore del lavoro a Monza, è stato tra i magistrati che vennero definiti «pretori d’assalto» occupandosi anche di reati ambientali. È stato sostituto procuratore a Bari dove si è occupato di criminalità organizzata, poi presidente della Corte d’assise di Potenza e dal 2003 al 2010 è stato a capo della Procura di Larino in Molise dove si è occupato, tra l’altro, delle indagini sulla morte di 27 bambini e di una maestra nel crollo della scuola di San Giuliano di Puglia per il terremoto del 2002. Successivamente ha ricoperto l’incarico di procuratore generale aggiunto onorario presso la Corte di Cassazione.

Nel 1994 è stato eletto deputato per i movimenti Italia Giusta secondo la Costituzione e Alleanza Democratica tra le file dei Progressisti. Dopo un primo mandato da sindaco nel 2012 durato poco più di un anno, è stato rieletto nel 2015 e ha portato a termine il mandato fino al 2020.

IL CORDOGLIO

«Il sindaco Magrone, sotto un’apparente corazza, sapeva essere uomo di grande allegria, estrema profondità ed indiscutibile moralità». E’ il messaggio di cordoglio che il sindaco di Modugno, Nicola Bonasia, ha postato su facebook ricordando il suo predecessore, Nicola Magrone morto oggi. Bonasia cita una frase che Magrone gli disse al passaggio di consegne e che dice di portare «ancora nel cuore": «È dura lasciare questo ruolo, questa fascia; mi dispiace aver perduto questo clima che avevo nella mia vita, ma poi guardo te e penso… meglio così».

«Oggi lo salutiamo - aggiunge - ringraziandolo per l’impegno che ha profuso negli anni in cui ha guidato la nostra città e soprattutto per l’intensa e integerrima attività come uomo di legge. Il suo contributo straordinario come magistrato a presidio di legalità, resterà per sempre un faro di speranza ed un esempio da seguire». «Piangiamo la sua perdita - conclude - ma celebriamo il suo impegno nell’aver reso la nostra terra un posto migliore».

«Non solo la comunità di Modugno ma l'intera area metropolitana perde una personalità di grande valore che ha dedicato la sua vita al servizio della legge e a difesa della Costituzione. Nicola Magrone è stato un magistrato che ha fatto del rigore e del rispetto delle regole uno stile di vita tanto da fare di questi i capisaldi del suo impegno da amministratore locale. Tante sono le battaglie che ci hanno visto impegnati insieme a difesa dell’ambiente e a tutela della salute. Di lui conserverò il ricordo di un sindaco rigoroso, appassionato della cosa pubblica e amante della sua comunità. A lui oggi vorrei dire grazie per l’esempio che in tante occasioni ha dato a tutti noi e per aver lavorato con la grande famiglia dei sindaci dell’area metropolitana di Bari». Lo afferma in una nota di cordoglio il sindaco di Bari, Antonio Decaro.

Andrea Augello, il dramma: morto a 62 anni il senatore FdI. Libero Quotidiano il 28 aprile 2023

E' morto il senatore Andrea Augello, un lutto che travolge la premier Giorgia Meloni e tutta la comunità di Fratelli d'Italia di cui l'onorevole era una storica e stimatissima colonna.  A darne la notizia su Facebook la moglie, Roberta Angelilli, con poche commoventi parole: "In cielo ti accompagnino gli angeli. Addio Andrea Augello, rimarrai per sempre nei nostri cuori", ha scritto. Il senatore era malato da tempo ed è scomparso a soli 62 anni. 

Commosso l'annuncio a Palazzo Madama dato da Ignazio La Russa, presidente del Senato e suo compagno di partito. "Purtroppo è arrivata la conferma: qualche ora fa è venuto a mancare un nostro collega, il senatore Andrea Augello. Credo fosse doveroso riferirlo e dedicargli qualche secondo di silenzio". Dall'Assemblea si è poi levato un applauso in onore del parlamentare.  

Immediati i ricordi dei meloniani. "Ad Andrea Augello va riconosciuto il carisma, il coraggio e l'intelligenza dei ragazzi di Sommacampagna, dei fratelli maggiori che, negli anni '80 e '90, ci formarono, guidarono e ci fecero diventare quello che siamo, insieme ai nostri padri. La morte è solo un andare oltre. Non ci vedrà mai vinti. In alto i cuori per Andrea", sono le parole di Federico Mollicone, presidente della Commissione Cultura alla Camera. Al suo cordoglio si aggiunge quello di Marco Silvestroni, segretario di Presidenza e presidente provinciale della federazione romana di Fratelli d'Italia: "Le mie personale vicinanza e le condoglianze di tutta la federazione provinciale di Fratelli d'Italia di Roma per la scomparsa del senatore e carissimo amico Andrea Augello".

L’annuncio in aula e il lungo applauso. Chi era Andrea Augello, senatore FdI morto a 62 anni dopo una lunga malattia: “Punto di riferimento”. Redazione su Il Riformista il 28 Aprile 2023 

Dopo aver combattuto a lungo contro un brutto male, si è spento a 62 anni il senatore Andrea Augello. Era stato eletto nel Lazio nelle scorse elezioni politiche nelle file del partito della premier Giorgia Meloni. “Ci ha lasciato Andrea Augello, senatore di Fratelli d’Italia. Un punto di riferimento per tanti, un politico estremamente capace, un uomo intelligente, determinato, divertente. Ci mancherà, e molto. Alla sua famiglia, alle sue figlie, e a tutti coloro che gli hanno voluto bene come gliene volevamo noi, condoglianze sincere”, ha scritto sui social la premier Meloni.

A dare la notizia Ignazio La Russa durante la discussione in Aula sulla votazione del Def: “Purtroppo è arrivata la conferma: qualche ora fa è venuto a mancare un nostro collega, il senatore Andrea Augello. Credo fosse doveroso riferirlo e dedicargli qualche secondo di silenzio”, subito dopo dall’Assemblea è scattato un accorato applauso. “I senatori del gruppo Fratelli d’Italia hanno appreso con dolore la notizia della morte del caro collega Andrea Augello. Una vita dedicata all’impegno culturale, alla militanza politica, proseguita anche durante la lunga malattia che lo ha colpito. Alla moglie e ai figli vanno i sensi del nostro cordoglio e la nostra vicinanza”, ha detto il presidente dei senatori di Fratelli d’Italia, Lucio Malan.

Nato a Novara nel 1961, Augello è stato uno storico esponente del centrodestra romano. Ha iniziato l’attività politica da giovanissimo militando nel Fronte della gioventù. È stato iscritto ad Alleanza nazionale e al Popolo della libertà. È stato sottosegretario alla Pubblica amministrazione nel quarto governo di Silvio Berlusconi. Era tra gli esponenti di rilievo del partito di Giorgia Meloni a Roma e nel Lazio. 

Estratto dell'articolo di Erica Della Pasqua per corriere.it il 2 maggio 2023.

«Ricordo quando venne a dirmi del suo male, pensavo dovesse dirmi qualcosa sul prossimo appuntamento elettorale e io gli dissi: "Dimmi Andrea, ho solo 20 minuti". Lui mi guarda e senza muovere un muscolo dice "Sto morendo". Io non riesco a dire niente. Allora lui mi dice: "Dai, Giorgia, non fare così, pensa a me che devo dirti che devo morire in 20 minuti..."». 

E' il ricordo sentito, interrotto più volte dalla commozione, che la premier Giorgia Meloni ha dedicato ad Andrea Augello, il senatore di Fratelli d'Italia morto il 28 aprile dopo una lunga malattia.

Al suo funerale, oggi 2 maggio nella basilica Santa Maria in Ara Coeli a Roma, tanti amici e volti della politica, di tutti i partiti. La moglie Roberta Angelilli, vicepresidente della Regione Lazio, ha ringraziato tutti, più volte. Tra gli altri, erano presenti il presidente del Senato, Ignazio La Russa, il sindaco di Roma, Roberto Gualtieri, il presidente della Regione Lazio, Francesco Rocca, il neo presidente del Cnel Renato Brunetta, oltre a diversi membri del governo (da Alfredo Mantovano a Raffaele Fitto, Andrea Abodi, Eugenia Roccella, Maurizio Leo), il ministro Francesco Lollobrigida, l'ex sindaco di Roma Gianni Alemanno, il senatore e sottosegretario Giovanbattista Fazzolari e parlamentari della maggioranza, l'esponente del Pd e storico amico di Augello, Goffredo Bettini.

La premier Meloni […] ha voluto parlare pubblicamente, molto emozionata: «È difficile parlare al funerale di una persona che viveva come una responsabilità il suo essere al mondo. Credo che questa sia la cosa che più ha sofferto. Non il dolore, non la malattia ma il senso di responsabilità verso le persone che amava e per le quali era un punto di riferimento. Diceva che la malattia era un tradimento verso le sue figlie. Ma chi sapeva che tipo di padre era non lo può considerare un traditore». 

E infine quel ricordo, sui 20 minuti: «Era un uomo coraggioso, spavaldo - ha concluso la premier - di quella spavalderia guascona che riesce a strapparti un sorriso anche da avversario: sapeva ridere e far ridere di tutto». […]

Dagospia il 2 maggio 2023. ARCHEO-FLASH! - PRIMI GIORNI IN SENATO DEL 2008. GLI SI AVVICINA MASSIMO D'ALEMA E GLI FA: ‘’TU SEI ANDREA AUGELLO?’’. LUI: ‘’SÌ, DIMMI’’. E MASSIMO: ‘’VOLEVO CONOSCERTI. DICONO CHE SEI STRONZO QUANTO ME…’’

Da adnkronos.com il 2 maggio 2023.

Si commuove e commuove la premier Giorgia Meloni ai funerali del senatore di Fdi Andrea Augello, che ha voluto che fosse proprio lei, insieme all‘’avversario’ politico di una vita, Goffredo Bettini, a ricordarlo nel giorno del suo funerale.

“Non è una cosa facile quella che Andrea ha voluto facessi - ha esordito Meloni nella Basilica di Santa Maria in Ara Coeli - Non solo perché gli volevo sinceramente bene, ma perché è difficile parlare al funerale di una persona che viveva come una responsabilità il suo essere al mondo. 

Ecco, credo che questa è la cosa che più ha sofferto. Non il dolore, non la malattia ma il senso di responsabilità verso le persone che amava e per le quali era un punto di riferimento. Quel che non sopportava, era di non poter fisicamente camminare a testa alta e combattere in prima linea, come ha sempre fatto. Era un uomo coraggioso, spavaldo… Di quella spavalderia guascona che riesce a strapparti un sorriso anche da avversario.

E averlo avversario non era una buona notizia”, anche se, pur giocando dall’altra parte del campo, “era capace di un’umanità straordinaria, di quell’ironia che appartiene solo alle persone intelligenti. Sapeva ridere e far ridere di tutto. Ricordo quando venne a dirmi del suo male, pensavo dovesse dirmi qualcosa sul prossimo appuntamento elettorale e io gli dissi: ‘dimmi Andrea, ho solo 20 minuti. 

Lui mi guarda e senza muovere un muscolo mi dice ‘sto morendo’. Mi dice quel che sta succedendo e io non riesco a dire niente. Allora lui mi dice: 'dai, Giorgia, non fare così, pensa a me che devo dirti che devo morire in 20 minuti…'”, ricorda Meloni in lacrime, strappando un sorriso commosso della Chiesa gremita di persone e autorità.

La premier prosegue visibilmente commossa, come lo stesso Bettini che ha preso la parola subito prima di lei. Si sofferma ancora sull’ironia di Augello, uno dei suoi tratti distintivi. 

“In questi due anni di malattia - ricorda ancora - lo invitarono a consultare la psicologa del reparto, lui rispose: ‘se vuole ci parlo, ma non penso di avere le competenze necessarie ad aiutare questa signora’. Andrea era così, ma è stata questa sicurezza così ferma a renderlo un punto di riferimento per tutti. Sapevi di poterci contare, io conservo ancora i messaggi di qualche giorno fa pieni di consigli, di spunti, di intuizioni”.

Meloni ricorda la preoccupazione del senatore di Fdi per “la sua famiglia e soprattutto le sue figlie, la cosa che in assoluto amava di più. Viveva la malattia come un tradimento nei loro confronti, ma io penso fermamente che mai chi ha avuto un padre così potrà considerarlo un traditore”. 

La premier ricorda il suo ultimo intervento pubblico, in cui, ricordando gli anni di dura lotta politica, Augello ha parlato di questi come degli “anni del nostro riscatto. Quando arriveranno gli anni difficili ricordiamoci di questo riscatto”, dice Meloni citando Augello, “un testamento alla nostra schiena dritta. Io non dirò cose patetiche, perché Andrea non lo avrebbe sopportato.

Oggi abbiamo davanti progetti che Andrea non ha potuto realizzare e che forse sono a portata, ad Andrea dico che ci saremo come ci sei stato tu, e noi useremo le stesse parole che hai usato per Tony (il fratello del senatore venuto a mancare diversi anni fa, ndr): c’era una volta mio fratello”, conclude Meloni sollevando un caldo e lunghissimo applauso dei presenti. 

LA MOGLIE ROBERTA: "SE OGGI FOSSE QUI SAREBBE FELICE" - “Voglio ringraziarvi per la straordinaria partecipazione, per l’affetto, la commozione, l’amore e la vicinanza di oggi e di questi giorni. Andrea era un uomo sobrio e essenziale, non amava la retorica, le ritualità, però oggi sono sicura che se fosse qui sarebbe, anzi lui oggi è felice”. Così Roberta Angelilli, vicepresidente della Regione Lazio, ha ringraziato i presenti al funerale del marito.

Nel ricordarlo, Angelilli - prima di lasciare la parola a Goffredo Bettini e Giorgia Meloni - ha usato 3 parole “che Andrea, un paio di mesi fa, prima di un’importante manifestazione politica, mi disse di usare per un intervento pubblico: forza, coraggio e onore. Forza, dunque. Perché per fare grandi cose bisogna avere forza, forza delle idee e dei valori, forza delle grandi visioni. Il coraggio di gettare sempre il cuore oltre l’ostacolo, di chi ci crede sempre e comunque, ci mette sempre fede e determinazione. E poi onore, che è sincerità e integrità, lealtà e rispetto. Queste tre parole io oggi ve le consegno. Andrea è stato un grande uomo, un combattente, e in questi quasi due anni di malattia è stato un esempio. Andrea rimarrà per sempre”.

IL RICORDO DI BETTINI - Bettini ha ricordato Augello come “un dirigente forte, che ha sempre lottato per le sue idee”, con il quale “abbiamo incrociato spade e cuori. Ora, riposte le spade, è rimasto solo il mio affetto vivo e la mancanza di un’amicizia autentica”, ha detto Bettini visibilmente commosso. 

“Siamo stati avversari e amici”, nel segno di una “lealtà che non è mai venuta meno. Io oggi parlo di amicizia, perché gli amici si appartengono e si attraversano, Andrea è stato un combattente, energico e intransigente. Ci siamo misurati, in lui mai è venuta meno la voglia di vincere. Io ero a sud, lui a est”, ma tra i due, ha raccontato Bettini, c’era “un patto di lealtà che mai è venuto meno”.

“Con Andrea abbiamo condiviso tutto, politica famiglia, figli, abbiamo parlato tanto di filosofia e poesia. L’ultima volta mi ha parlato della sua malattia, come di un segreto, ma con un distacco quasi disincantato”. E’ andato avanti senza mai rinunciare al “fare, che è onorare la vita mentre essa scorre”. Nonostante l’incedere del male “Giorgia Meloni lo ha voluto al Senato, segno di sensibilità ma anche di stima”. Dunque Bettini ha concluso con un ricordo dell’ultimo incontro, “in una bella giornata di sole, con un caffè al tavolino, al termine del quale mi strinse con affetto”.

Alle esequie erano presenti molti membri del governo - tra questi i sottosegretari alla presidenza Alfredo Mantovano e Giovan Battista Fazzolari - nonché il presidente del Senato Ignazio La Russa, volti noti della destra italiana ma anche deputati e senatori dell’intero arco parlamentare. A portare un ultimo saluto al senatore di Fdi si è affacciato nella celebre chiesa a due passi dai Fori Imperiali anche il numero uno del Coni, Giovanni Malagò.

Il commovente ricordo di Giorgia Meloni al funerale in memoria di Andrea Augello. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 3 Maggio 2023 

"Quando arriveranno gli anni difficili ricordiamoci di questo riscatto”, dice Meloni citando Augello, “un testamento alla nostra schiena dritta. Io non dirò cose patetiche, perché Andrea non lo avrebbe sopportato. Oggi abbiamo davanti progetti che Andrea non ha potuto realizzare e che forse sono a portata, ad Andrea dico che ci saremo come ci sei stato tu, e noi useremo le stesse parole che hai usato per Tony (il fratello del senatore venuto a mancare diversi anni fa, ndr): c’era una volta mio fratello”, ha concluso Giorgia Meloni sollevando un caldo e lunghissimo applauso dei presenti

La chiesa gremita per l’ultimo saluto ad Andrea Augello, senatore di Fratelli d’Italia, scomparso a 62 anni lo scorso 28 aprile. Molti gli esponenti delle istituzioni e del mondo della politica che hanno dato l’ultimo commosso saluto a Roma nella basilica Santa Maria in Ara Coeli. Tra questi, il presidente del Senato, Ignazio La Russa; il ministro dell’Agricoltura, Francesco Lollobrigida; il ministro per lo Sport, Andrea Abodi; il ministro per gli Affari Regionali, Raffaele Fitto; la ministra per la Famiglia, Eugenia Roccella; il Viceministro dell’Economia, Maurizio Lei; il presidente della Regione Lazio, Francesco Rocca; il sindaco di Roma, Roberto Gualtieri. Erano presenti numerosi esponenti di Fratelli d’Italia, tra questi, il capogruppo alla Camera, Tommaso Foti; il capogruppo al Senato di FdI, Lucio Malan; il vicepresidente della Camera, Fabio Rampelli; il responsabile dell’organizzazione di FdI, Giovanni Donzelli, i sottosegretari di Palazzo Chigi Alfredo Mantovano e Giovanbattista Fazzolari , il governatore abruzzese Marco Marsilio, la sottosegretaria Isabella Rauti, Francesco Storace e Gianni Alemanno, il neo presidente del Cnel Renato Brunetta insieme a tantissimi parlamentari e assessori e consiglieri comunali. Di oggi e di ieri.

Andrea Augello, storico esponente della destra romana, è entrati per la prima volta in Parlamento nel 2006, venne riconfermato in Senato alle elezioni politiche del 2009. Dopo la storica rottura tra Gianfranco Fini e Silvio Berlusconi, Augello decise di restare nel PDL e nel 2010 viene nominato sottosegretario alla Pubblica Amministrazione. Nel 2013, aderisce al Nuovo Centrodestra guidato da Angelino Alfano che poco dopo abbandonerà. Nel 2018 aderisce a Fratelli d’Italia e viene candidato, per poi essere rieletto in Senato, lo scorso 25 settembre in occasione delle elezioni politiche anticipate. 

Commuovente il ricordo a sua volta commosso del premier Giorgia Meloni ai funerali del senatore Andrea Augello storico esponente di destra e Fdi , il quale aveva voluto che fosse proprio lei, insieme a Goffredo Bettini del Pd, “avversario politico di una vita” a ricordarlo nel giorno del suo funerale. “Non è una cosa facile quella che Andrea ha voluto facessi – ha esordito Meloni nella Basilica di Santa Maria in Ara Coeli – Non solo perché gli volevo sinceramente bene, ma perché È difficile parlare al funerale di una persona che viveva come una responsabilità il suo essere al mondo. Credo che questa sia la cosa che più ha sofferto. Non il dolore, non la malattia ma il senso di responsabilità verso le persone che amava e per le quali era un punto di riferimento. Diceva che la malattia era un tradimento verso le sue figlie. Ma chi sapeva che tipo di padre era non lo può considerare un traditore“, il discorso commosso del presidente del Consiglio, interrotto più volte dalle lacrime “è difficile parlare al funerale di una persona che viveva come una responsabilità il suo essere al mondo. Ecco, credo che questa è la cosa che più ha sofferto. Non il dolore, non la malattia ma il senso di responsabilità verso le persone che amava e per le quali era un punto di riferimento”.

“Quel che non sopportava, era di non poter fisicamente camminare a testa alta e combattere in prima linea, come ha sempre fatto – ha continuato la Meloni – Era un uomo coraggioso, spavaldo… Di quella spavalderia guascona che riesce a strapparti un sorriso anche da avversario. E averlo avversario non era una buona notizia”, anche se, pur giocando dall’altra parte del campo, “era capace di un’umanità straordinaria, di quell’ironia che appartiene solo alle persone intelligenti. Sapeva ridere e far ridere di tutto. Ricordo quando venne a dirmi del suo male, pensavo dovesse dirmi qualcosa sul prossimo appuntamento elettorale e io gli dissi: ‘dimmi Andrea, ho solo 20 minuti. Lui mi guarda e senza muovere un muscolo mi dice ‘sto morendo’. Mi dice quel che sta succedendo e io non riesco a dire niente. Allora lui mi dice: ‘dai, Giorgia, non fare così, pensa a me che devo dirti che devo morire in 20 minuti…’”, ricorda Meloni in lacrime, strappando un sorriso commosso della Chiesa gremita di persone e autorità.

La premier prosegue visibilmente commossa, come lo stesso Bettini che ha preso la parola subito prima di lei. Si sofferma ancora sull’ironia di Augello, uno dei suoi tratti distintivi. “In questi due anni di malattia – ricorda ancora – lo invitarono a consultare la psicologa del reparto, lui rispose: ‘se vuole ci parlo, ma non penso di avere le competenze necessarie ad aiutare questa signora’. Andrea era così, ma è stata questa sicurezza così ferma a renderlo un punto di riferimento per tutti. Sapevi di poterci contare, io conservo ancora i messaggi di qualche giorno fa pieni di consigli, di spunti, di intuizioni”. 

Giorgia Meloni ha ricordato l’unica preoccupazione del senatore di Fdi per “la sua famiglia e soprattutto le sue figlie, la cosa che in assoluto amava di più. Viveva la malattia come un tradimento nei loro confronti, ma io penso fermamente che mai chi ha avuto un padre così potrà considerarlo un traditore”. La premier ha ricorda il suo ultimo intervento pubblico, a sostegno della candidatura alla Regione Lazio di sua moglie Roberta Angelilli, in cui, ricordando gli anni di dura lotta politica, Augello ha parlato di questi come degli “anni del nostro riscatto. Quando arriveranno gli anni difficili ricordiamoci di questo riscatto”, dice Meloni citando Augello, “un testamento alla nostra schiena dritta. Io non dirò cose patetiche, perché Andrea non lo avrebbe sopportato. Oggi abbiamo davanti progetti che Andrea non ha potuto realizzare e che forse sono a portata, ad Andrea dico che ci saremo come ci sei stato tu, e noi useremo le stesse parole che hai usato per Tony (il fratello del senatore venuto a mancare diversi anni fa, ndr): c’era una volta mio fratello”, ha concluso Giorgia Meloni sollevando un caldo e lunghissimo applauso dei presenti, che accompagnerà il feretro avvolto nel tricolore e coperto di rose rosse del senatore di Fratelli d’Italia nel suo ultimo viaggio verso il cimitero del Verano di Roma.

Bettini, nel suo lungo intervento, ricco di aneddoti e citazioni, ha richiamato anche il gioco degli scacchi. “Andrea – ha detto – era un dirigente forte, che ha sempre lottato per le sue idee”, con il quale “abbiamo incrociato spade e cuori. Ora, riposte le spade, è rimasto solo il mio affetto vivo e la mancanza di un’amicizia autentica”, ha detto l’esponente Pd visibilmente commosso. “Siamo stati avversari e amici”, nel segno di una “lealtà che non è mai venuta meno” e che è stata suggellata anche da un vero e proprio “patto di lealtà”, che Augello gli propose contro “gli aspetti subdoli, volgari, maligni della politica”. 

Eccolo il messaggio di Andrea Augello passato attraverso Bettini: il richiamo a vivere la politica come campo dell’onore, dell’intelligenza, della curiosità e del rispetto anche per l’altro da sé. “Andrea sapeva che fuori le mura della politica c’è un magma incandescente che spetta a ciascuno saper governare”, ha detto Bettini, sottolineando che “io oggi parlo di amicizia, perché gli amici si appartengono e si attraversano, Andrea è stato un combattente, energico e intransigente”. “Con Andrea abbiamo condiviso tutto, politica famiglia, figli, abbiamo parlato tanto di filosofia e poesia. L’ultima volta mi ha parlato della sua malattia, come di un segreto, ma con un distacco quasi disincantato, con l’unica preoccupazione che i suoi cari avessero il tempo di abituarsi al suo destino”. È andato avanti senza mai rinunciare al “fare, che è onorare la vita mentre essa scorre”. Nonostante l’incedere del male “Giorgia Meloni lo ha voluto al Senato, segno di sensibilità, ma anche di stima”. Poi Bettini ha concluso con un ricordo dell’ultimo incontro, “in una bella giornata di sole, con un caffè al tavolino, al termine del quale mi strinse la mano con affetto”.

Al termine della celebrazione funebre, alla quale hanno preso parte i più alti rappresentanti del mondo politico, Meloni ha accompagnato il feretro al carro funebre, celando il proprio sguardo commosso dietro un paio di occhiali scuri. Poi, rimanendo in disparte quasi a volersi confondere tra la folla dei convenuti, si è unita al lungo appluso che ha salutato la bara al termine del rito. La leader di Fratelli d’Italia ha infine ricordato il compianto senatore come “un punto di riferimento che era e che sarà sempre per tanta, tantissima gente“. “Sapevi che potevi contare su di lui, sapevi che ci sarebbe stato sempre, ci abbiamo potuto contare fino alla fine“, ha concluso. 

“Voglio ringraziarvi per la straordinaria partecipazione, per l’affetto, la commozione, l’amore e la vicinanza di oggi e di questi giorni” ha affermato Roberta Angelilli, moglie del senatore, nonché vicepresidente della Regione Lazio, ringraziando i presenti al funerale “Andrea voleva che vi trasmettessi tre parole: forza, coraggio e onore”, ha raccontato. “La forza di fare grandi cose, delle idee, dei valori, delle grandi visioni. Il coraggio di gettare il cuore oltre l’ostacolo, di credere anche quando le cose sono difficili. Ma prima di tutto l’onore, che è sincerità, onestà, integrità. Queste tre parole io oggi ve le consegno. Andrea – ha concluso Angelilli – era un grande uomo e non solo un grande combattente, e in questi due anni di malattia è stato un esempio. Andrea rimarrà per sempre”.

Redazione CdG 1947

Marco Giusti per Dagospia il 27 aprile 2023.

Se ne va in quel di Los Angeles Mohamed Farouk Agrama detto Frank Agrama, 93 anni, incredibile regista e produttore egiziano e poi internazionale di B-movies (ma anche Z movies), “Dawn of Mummy”, “L’amico del padrino”, “Queen Kong”, fondatore e ceo della società di distribuzione Harmony Gold, ma più noto da noi per essere stato legato a filo doppio con Silvio Berlusconi ai tempi dello scandalo Mediatrade, oltre che per essere considerato uomo di appoggio della Fininvest in America per parecchi anni.

Nel 2012 venne condannato a tre anni di reclusione dal tribunale di Milano, per la compravendita di diritti televisivi nel quale era coinvolto anche Silvio Berlusconi. Lo stesso Berlusconi finì, per gli stessi fatti, ai servizi sociali nell'aprile 2014. Venne invece assolto nel 2014 nel processo Mediatrade-RTI assieme a Confalonieri e allo stesso Berlusconi. Molti, insomma, sono stati i chiaroscuri della sua vita, come si dice, ma è indubbia la sua passione per il cinema di genere che lo porterà da una parte all’altra del mondo. 

Agrama era nato nel 1930 a El-Arish, Nord del Sinai, in Egitto. Iniziò la sua carriera da attore bambino nel 1949, diviso tra cinema e tv, dove aveva il suo show. Figlio di un celebre chirurgo, divenne anche lui medico a 23 anni, ma lasciò l’Egitto nel 1960 per iscriversi all’Università di California a Los Angeles l’UCLA, nel 1960, dove ottenne il Bachelor of Theater Arts. E’ allora che, sognando il cinema, si sposta nel 1964 in Libano per produrre e dirigere film. 

Dirige e produce una decina di titoli, tra questi “El Ainab el murr” (1965), “Al kahirun” (1966),”Bazi-e-eshgh” (1966), “Muhghamarat Filfila” (1966), “Wada almoth” (1967). Ma già nel 1967, con moglie e due figli, si sposta a Roma, dove fonda la Film Association di Roma, una casa di produzione e distribuzione cinematografica. 

E’ con base in Italia che scrive, produce e gira nel 1972 “L’amico del padrino” coprodotto con la Turchia, dove è in gran parte girato, che vede protagonisti Richard Harrison, Erika Blanc e Krista Nell. Produce “Si più fare molto con sette donne”, scritto e diretto da Fabio Piccioni, suo collaboratore ufficiale, interpretato da Richard Harrison, Marcella Michelangeli, Marie Louise Sinclair, poliziesco italo-egiziano.

Lo segue nel 1976 l’ancor più delirante “Queen Kong” con Robin Askwith nel ruolo di Ray Fay (sic!), Valerie Leon come Regina dei Nabongas, Rula Lenska, John Clive, un film che non ebbe mai un’uscita in Inghilterra e in America per colpa delle cause legale che subì da De Laurentiis. Ma divenne uno stracult in molti paesi, Ad esempio in Giappone, dove venne ridoppiato da attori giapponesi e distribuito in dvd nel 2001. 

Dal 1976, facendo spola con l’Italia, si stabilisce in California, seguito presto dal suo amico Richard Harrison, dove seguita a girare e produrre film. Nel 1981 esce un altro horror con troupe in gran parte italiana, “Dawn of the Mummy” con Brenda King, Barry Sattels, George Peck.

Diventa anche questo un film di superculto in tutto il mondo e viene considerato uno dei peggiori film mai girati. Nel 1983 fonda la Harmony Gold con la quale distribuisce la miniserie “Shaka Zulu” del South African Broadcasting Corp. E molti cartoni animati giapponesi. Tra i programmi che produce con la Harmony Gold la serie animata Robotech e la miniseries Heidi del 1993. Ma manda avanti fino a oggi la lunga serie Robotech.

Marco Giusti per Dagospia il 27 aprile 2023.  

Se ne va uno degli attori italiani di maggior culto del nostro cinema horror e di genere, ma anche ottimo attore di teatro e personaggio assolutamente anomalo dello spettacolo italiano, Giovanni Lombardo Radice, 67 anni, noto anche come John Morghen in una serie di film che fecero il giro del mondo, da “Apocalypse domani” di Antonio Margheriti a “Paura nella città dei morti viventi” di Lucio Fulci, da “Cannibal Ferox” di Umberto Lenzi a “La chiesa” e “La setta” di Michele Soavi. 

Figlio del matematico Lucio Lombardo Radice, fratello dello psicanalista e scrittore Marco (“Porci con le ali”), nipote di Laura Lombardo Radice, sposata con Pietro Ingrao, e nipote, da parte di madre, di Arturo Carlo Jemolo, giurista, avvocato della Fiat e della Banca d'Italia, Giovanni Lombardo Radice si mosse in un mondo fin troppo ricco di cultura e politica e, per non venirne schiacciato, si dedicò presto, e attivamente, al teatro.

Prima quello underground, poi le scene più politicizzate con Gian Maria Volonté e quelle più classiche con Giorgio Strehler, Aldo Trionfo, Giancarlo Cobelli (“Il Mercante di Venezia”), Carlo Cecchi, Gigi Proietti ("Gaetanaccio"), ma fu anche direttore artistico del Teatro della Cometa di Roma, dove recitò assieme alla moglie, Alessandra Panelli, la figlia di Paolo Panelli e Bice Valori.

Bello, atletico, colto, intelligente, con un inglese fluente, cosa rara al tempo, Inizia a lavorare nel cinema nel 1980 con i maggiori registi di thriller e horror, da Ruggero Deodato, che gli offrì il suo primo ruolo in “La casa sperduta nel parco”, a Antonio Margheriti in “Apocalypse domani” da Lucio Fulci, autore di “Paura nella città dei morti viventi”, dove viene trapanato nel cervello (aiuto!) a Umberto Lenzi in “Cannibal Ferox”, col quale litiga tutto il tempo e rompe per sempre.

Tutti film dove Giovanni Lombardo Radice si ritagliò personaggi violenti pronti a una brutta fine inseguiti da zombi e cannibali. E’ con quei titoli che si impone come una star del nostro cinema bis prendendo il nome di John Morghen, un nome non usurpato, visto che tra i Morghen c'erano dei suoi suoi avi, incisori tedeschi. Lo troveremo anche in “Impatto mortale” di Fabrizio De Angelis, in ben tre film di Michele Soavi, “Deliria”, La chiesa” e “La setta”, in “Body Puzzle” di Lamberto Bava.

Ma farà anche film diversi, da “I soliti ignoti vent'anni dopo” di Amanzio Todini, supervisionato da Mario Monicelli, a “Ricky & Barabba” di Christian De Sica, all’erotico “Eleven Days, Eleven Nights” di Joe D'Amato. Negli anni ’80 è attivo anche in tv in produzione interessanti e non tradizionali. Lo troviamo così in “Flipper” di Andrea Barzini, nello sperimentale “Majakowski” di Gianni Toti, in “Progetto Atlantide” di Gianni Serra. Duttile, pronto a qualsiasi ruolo, arrotonda però anche con produzioni più popolari, come il curioso “L'isola del tesoro” di Antonio Margheriti, dove la celebre storia di Robert Louis Stevenson diventa una storia di fantascienza.

Con la crisi del cinema di genere negli ultimi vent’anni, si alternerà tra piccoli ruoli in produzioni anche importanti, “Gangs di New York” di Martin Scorsese, “Prendimi l'anima” di Roberto Faenza e piccole produzioni internazionali indipendenti. Qualche anno fa scrisse una imponente autobiografia, “Una vita da zombie”, ricca di aneddoti di ogni tipo, soprattutto sulla sua importante famiglia.

Estratto da corriere.it il 25 Aprile 2023.

Harry Belafonte è morto. Mito della musica, attore e attivista per i diritti civili, è scomparso all'età di 96 anni nella sua casa dell'Upper West Side di Manhattan. 

Nato a Harlem da genitori giamaicani, Belafonte aveva portato la musica caribica negli Stati Uniti con canzoni come «Day-O (The Banana Boat Song)» e «Jamaica Farewell»: il suo album «Calypso», che le conteneva entrambe, fu il primo di un artista a vendere più di un milione di copie.

Come ricordato da Aldo Grasso qui, aveva cambiato la storia della tv americana il 6 febbraio 1968: 

«L’allora giovane conduttore Johnny Carson cedette per cinque giorni il suo programma, "The Tonight Show", a Harry Belafonte lasciandogli (più o meno) carta bianca per la scelta degli ospiti (...) 

[…]  Quindici dei suoi 25 ospiti erano afro-americani, tra cui le star di Hollywood Sidney Poitier e Lena Horne, la cantante Dionne Warwick, il comico Nipsey Russell, la star del basket Wilt Chamberlain, Martin Luther King. 

Gli altri erano personaggi del calibro di Paul Newman, della cantante inglese Petula Clark e di Robert F. Kennedy. […] di quell’indimenticabile settimana rimangono pochi frammenti, tra cui le interviste al reverendo Martin Luther King e a Bob Kennedy, che restano tra le ultime apparizioni televisive prima che fossero entrambi assassinati. […] ». 

Negli anni 50 e 60 Belafonte ha continuato a incidere dischi, contribuendo anche a portare al successo cantanti come Miriam Makeba e Nana Mouskouri. 

Nel suo disco «Midnight special» del 1962 compare anche Bob Dylan, in veste di armonicista. 

Affiancando sempre l’attività artistica all’impegno civile, nel 1985 Belafonte è uno dei 45 artisti che incide «We are the world», per il progetto USA for Africa […].

È morto Harry Belafonte, mito della musica e dei diritti civili. Storia di Matteo Persivale su Il Corriere della Sera il 25 Aprile 2023.

«Quando sono nato ero “colorato”, poi sono diventato “negro”, poi “nero”. Di recente sono stato promosso al rango di “afroamericano”. Direi che è stata una bella evoluzione, ma ero e resto tuttora in cerca di libertà». La vita lunghissima e straordinaria di Harry Belafonte è finita ieri dopo 96 anni, nella sua New York – nacque da genitori giamaicani in quello che era allora un ghetto, Harlem, è morto nell’Upper West Side – dopo quasi un secolo di successo mondiale senza fare sconti, mai, neanche una volta, all’America dei bianchi.

Arrivò alla gloria nei primi anni Cinquanta battendo anche Elvis – il primo artista a vendere un milione di copie fu Belafonte con «Calypso», non Presley – portando in cima alle classifiche la world music con i Caraibi, e l’Africa, nel cuore, decenni prima che qualcun altro ne inventasse il nome.

Ecco allora «Day-O ( The Banana Boat Song)», « Jamaica Farewell», un singolo dopo l’altro per far ballare il mondo. La voce baritonale inconfondibile e inimitabile, il blues, il folk, Broadway ma anche Gershwin e se avesse avuto tempo e voglia di studiare l’opera avrebbe dominato Verdi e Mozart.

Hollywood lo rincorse mettendolo sotto contratto: cantava, recitava, bello come pochissimi. Uomini diversi da Belafonte si sarebbero accontentati. Del successo, dei milioni, dell’adorazione del pubblico. Hollywood lo scrittura per Carmen Jones, L’isola nel sole, La fine del mondo Strategia di una rapina, lui apre una sua casa di produzione con l’idea di mettere in cantiere i film che gli interessano.

Video correlato: Addio Belafonte il re del calypso (Mediaset)

Non vuole finire marchiato come un altro pioniere afroamericano, Sammy Davis jr, «song and dance man» (intrattenitore canterino e ballerino). Belafonte, che nel frattempo diventa sempre più vicino a un giovane predicatore e attivista per i diritti civili del Sud, un certo Martin Luther King, fa una delle molte cose rivoluzionarie della sua vita: dice no grazie. No ai film che non gli interessano, no alle parti da “professore nero”, “avvocato nero”, “poliziotto nero” (che finiscono a un altro protagonista della lotta dei neri per l’uguaglianza, il suo vecchio collega dell’American Negro Theatre di Harlem negli anni Quaranta, Sidney Poitier, che con Belafonte ebbe un rapporto di grande ammirazione ma non sempre semplicissimo).

Al culmine del successo Belafonte si chiama fuori da Hollywood, torna alla musica ma soprattutto si tuffa nell’attivismo, nelle marce contro la segregazione, andando in Alabama a chiamare «Bombingham» la cittadina di Birmingham nella quale gli attentati dinamitardi del Ku Klux Klan erano una consuetudine.

Artisti e attori neri, in quegli anni Sessanta complicati, optavano per la linea tracciata da Poitier: agire dall’interno del sistema per piantare il seme del progresso. Non abbastanza per Belafonte (dopo l’assassinio del suo amico fraterno Martin Luther King voleva far seguire al funerale una marcia antirazzista, Poitier disse no per evitare disordini, i due amici non si parlarono per qualche anno).

Belafonte, al contrario dei colleghi, va nei campus dove ribolle la protesta pre e post ’68, usando nei suoi discorsi metafore inusuali nella loro brutalità – «il razzismo defeca sull’umanità» – che oggi appaiono forti ma allora facevano scandalo. Lo marchiarono non come «song and dance man» ma direttamente come sovversivo: l’Fbi lo sorvegliò attentamente dal 1954 al 1981. Torna al cinema nel 1972 diretto dall’amico Poitier con il quale ha fatto pace, ma è una piccola parentesi prima delle grandi comparsate della vecchiaia, per Robert Altman (I protagonisti, 1994) e Spike Lee (BlacKkKlansman, 2018). In questo millennio attacca con la virulenza che gli costò la carriera George W. Bush e la guerra in Iraq, sempre con il cuore a sinistra scrive libri tra i quali spicca un’autobiografia di enorme interesse (My Song). In extremis, nel 2018, anno secondo dell’era Trump, la biblioteca del Congresso lo onora includendo Calypso tra le grandi opere americane conservate nel suo archivio. E lui festeggia l’ingresso nel pantheon andando in tv a dire che «l’America è corrosa dal razzismo, ha un dna fallato. La lotta contro il razzismo sarà permanente… Ero al fianco di Martin, e di Bobby Kennedy. Faccio parte del loro lascito, finche vivrò».

Aveva 96 anni. Chi era Harry Belafonte, il principe nero che sfidò l’America razzista. David Romoli su Il Riformista il 27 Aprile 2023 

Sulla sua tomba avrebbe voluto che venisse scolpito “Harry Belafonte, patriota”: come Woody Guthrie e Bruce Springsteen si considerava un difensore dei veri valori americani e per questo impegnato per tutta la vita in una strenua lotta non solo contro il razzismo ma anche contro il neocolonialismo e l’imperialismo del suo Paese. È stato un gigante del movimento per i diritti civili perché questa era la sua vera passione, la sua ragione di vita: considerava Paul Robeson, come lui cantante e attore e come lui militante appassionato, il suo primo punto di riferimento, la sua “spina dorsale”.

L’anima, aggiungeva, la aveva ispirata Martin Luther King. Ma quando si trovò ad affrontare Colin Powell e Condoleeza Rice, segretari di stato delle odiate amministrazioni del presidente Bush jr., entrambi neri, ricorse al famoso apologo di Malcolm X sui “neri dei campi e di casa” con i secondi a cui “era permesso di vivere nei palazzi del padrone finché accettano di servire il padrone secondo i suoi interessi”. Powell la prese malissimo. Condoleeza Rice anche peggio. Non ci andava leggero Belafonte, non era un radicale da salotto. Si era sporcato le mani, aveva marciato, organizzato proteste, sborsato una quantità di soldi ovunque nel mondo sin dagli anni 50: con i Freedom Riders dei primi anni 60, nelle mobilitazioni di Birmingham e nella marcia su Washington organizzate dall’amico Luther King, con la Sncc nella Mississippi Freedom Summer del 1964, ma anche contro l’embargo con cui le amministrazioni di Washington cercavano di soffocare Cuba, per la riabilitazione dei Rosenberg, giustiziati negli anni 50 come spie russe, contro l’invasione di Grenada e quella dell’Iraq, a sostegno umanitario di diversi Paesi africani: Sudafrica, Senegal, Rwanda, Kenya.

Vicino al Venezuela di Chavez definì Bush “il più grande tiranno e terrorista del mondo”. Incontrandolo pochi giorni dopo a una premiazione Hillary Clinton, imbarazzatissima, fece finta di non conoscerlo. Era troppo radicale per il perbenismo democratico, anche se l’artista era stato grande sostenitore di Kennedy, che lo aveva nominato “consigliere” dei suoi Peace Corps e di Johnson contro il candidato repubblicano razzista Goldwater, e lo sarebbe stato di nuovo, già molto anziano, a favore di Bernie Sanders. Belafonte, all’anagrafe Harold George Bellanfanti jr., nato ad Harlem da genitori giamaicani nel 1927, con nelle vene anche il sangue scozzese della nonna materna e quello ebreo della nonna paterna, infanzia passata in un villaggio vicino a Kingston con la madre, è stato cantante e attore di gran talento e immenso successo: il primo cantante nella storia a vendere oltre un milione di dischi in un solo anno, premiato con tre Grammy Awards, gli Oscar della musica, ma anche con un Emmy, il premio omologo per la televisione, e un Tony Award per il teatro. Ma l’impegno politico ha condizionato e orientato sempre anche le sue scelte artistiche, imponendogli di rifiutare ruoli che gli avrebbero assicurato ancora più successo, sfuggendo alle regole che definivano il ruolo dei neri lo show-biz di allora.

Dopo il servizio militare, in marina nella guerra mondiale, si era innamorato del teatro: con l’amico e coetaneo Sidney Poitier, altro giovane attore nero con grandi speranze e pochissimi dollari, si divideva la poltrona a teatro: un atto per uno, mettendosi reciprocamente al corrente degli sviluppi della trama al momento del cambio di turno. Cominciò a cantare per pagarsi la scuola di recitazione e la prima volta che salì sul palco di un jazz club newyorchese ad accompagnarlo c’erano leggende del jazz come Charlie Parker, Miles Davis e Max Roach. Cominciò a incidere e ad apparire sullo schermo nel 1953 ma il grande successo arrivò l’anno seguente: vinse il Tony per il miglior musical di Broadway, per il John Murray Anderson’s Almanac, spopolò sugli schermi con Carmen Jones di Otto Preminger, a fianco della grandissima Dorothy Dandridge. Nonostante fosse un musical, trasposizione all black della Carmen di Bizet, né Belafonte né Dandridge cantavano con le loro voci.

Musicalmente Belafonte aveva iniziato come cantante jazz, poi si era avvicinato al folk, allora la musica “di protesta” per eccellenza. Il trionfo arrivò con il calypso, ritmo africano di Trinidad, usato inizialmente dagli schiavi anche per comunicare tra loro sfidando il divieto. Da Trinidad si era diffuso in tutte le Antille, assumendo nelle varie isole forme lievemente diverse: in Giamaica era il Mento, una delle principali origini del Reggae. Negli Usa dischi calypso erano già usciti. Nel 1945 le Andrews Sisters avevano già scalato le classifiche con Rum and Coca Cola, ma l’esplosione fu la versione calypso di un pezzo tradizionale giamaicano, Banana Boat Song, inciso col titolo Day-O da Belafonte nel suo travolgente album Calypso nel ‘56. Ancora oggi la conoscono e la cantano tutti ovunque.

Dopo aver bissato nel ‘57 il successo di Carmen Jones con L’isola nel sole e quello di Calypso con una serie di album in una varietà di stili, Belafonte avrebbe potuto arrivare facilmente ovunque. Fece una scelta politica la cui rilevanza non era ai tempi chiara: quella di sottrarsi a tutti gli stereotipi ai quali dovevano assoggettarsi allora i neri dello show-biz. Non voleva essere “un ballerino intrattenitore” nella musica, rifiutava i ruoli tipici del “professionista nero” che Hollywood continuava a proporgli. Allora erano in pochissimi a farlo: Miles Davis, col suo stile volutamente gelido, qualche anno più tardi Mohammed Alì. Proprio perché trovava il testo troppo stereotipato declinò la proposta di recitare di nuovo con Otto Preminger e Dorothy Dandridge nella versione cinematografica di Porgy and Bess e lasciò la parte all’amico Sidney Poitier. Fondò una sua casa di produzione la HarBel per garantirsi piena libertà, scelta pionieristica, ed esordì con un film che scandagliava il razzismo, Strategia di una rapina, sceneggiato da Abraham Polonsky, una delle principali vittime della caccia alle streghe che proprio per questo non potè firmare la sceneggiatura.

Rifiutò di esibirsi negli stati del Sud dove erano in vigore le Jim Crow Laws, il pilastro dell’apartheid e della discriminazione e finì per decenni nel mirino della Cia. Belafonte ha continuato a cantare e recitare e comparire in show televisivi nazionali per tutta la vita: l’ultima comparsata sullo schermo è stata in BlacKkKlansman di Spike Lee, cinque anni fa. Ha avuto tre mogli, quattro figli e cinque nipoti. Era dotato di grande ironia e scevro da ogni presunzione: «La mia grande fortuna – diceva – fu quella di cantare canzoni semplici che piacevano alla gente. Non avevo una grande voce né una grande personalità ma piacevano quella musica melodica, il mio umorismo, la mia curiosità. Le mie canzoni davano un’opportunità di capire il diverso». E ancora: «Quando sono nato ero ‘colorato’, poi ‘negro’ e poi ‘nero’. Di recente mi hanno promosso al rango di ‘afroamericano’. Ma resto in cerca di libertà». David Romoli

Addio a Harry Belafonte che conquistò il mondo con Banana Boat Song. Gianni Poglio su Panorama il 25 Aprile 2023

Aveva novantasei anni ed era nato a Harlem da genitori giamaicani. Calypso, il suo album cult, è stato il primo a superare il milione di copie vendute negli Stati Uniti E morto a Manhattan Harry Belafonte, musicista, attore da sempre attivo nelle battaglie per i diritti civili. Era nato a New York il primo marzo del 1927. Era stato ribattezzato iil re del calypso per aver reso popolare negli Stati Uniti la musica caraibica negli anni Cinquanta grazie allo straordinario successo del brano Banana Boat Song. La canzone è un canto popolare giamaicano che racconta un momento della vita dei lavoratori del porto, che dopo aver caricato le navi durante la notte non vedono l'ora di tornare a casa. Il brano è contenuto nell'album Calypso inciso nel 1955 alla Webster Hall di New York e pubblicato nel 1956. Il disco rimase in classifica per novantanove settimane consecutive e fu il primo 33 giri della storia a superare il milione di copie vendute. Tra i suoi album migliori c'è Midnight Special del 1962 che vede la partecipazione di Bob Dylan all'armonica. Nel 1985 Belafonte prende parte al progetto USA for Africa ed è uno degli artisti (tra gli altri Bob Dylan, Michael Jackson e Bruce Springsteen) che partecipa alle registrazioni di We are the world prodotta da Quincy Jones. Belafonte si è esibito dal vivo per l'ultima volta nel 2003. ©Riproduzione RiservataSono 42 le aggressioni al personale medico nell'Asl Bari solo nel 2022

Marco Giusti per Dagospia il 26 aprile 2023.   

Da bambino, ascoltando i suoi 45 giri di calypso, mi sembrava che nessuno cantasse come Harry Belafonte. Ascoltavo per ore “Banana Boat” o “Coconut Woman” senza capire una sola parola di inglese a parte banana. Bellissimo, nero, attivista, attore, cantante, Harry Belafonte fu molto di più di un artista nella seconda metà degli anni ’50. Oltre a lottare per i diritti civili dai tempi dei Freedom Riders e di Martin Luther King, ci aprì un mondo, artistico musicale politico, per noi completamente sconosciuto.

Lui stesso si definiva non un artista che era diventato attivista ma esattamente il contrario. Al punto che con tutta la sua popolarità, molte delle sue scelte finirono per penalizzarlo soprattutto a Hollywood. Ma la sua esplosione come cantante e attore negli anni '50 con spettacoli e dischi di calypso fu clamorosa. Il suo disco, “Calypso”, che comprendeva “Banana Boat” e “Jamaica Farewell” nel 1956 rimase in cima alla classifica di Billboard per 31 settimane vendendo un milione di copie.

Senza pensare al successo nel 1954 di un film importante come "Carmen Jones" diretto da Otto Preminger dove non resisteva alla Carmen di Dorothy Dandridge. E nella scena della seduzione ci rendevano conto di quanta carica sessuale ci fosse fra di loro. Era qualcosa di totalmente nuovo non solo per il pubblico nero, che finalmente trovava dei protagonisti in cui identificarsi, ma anche per il pubblico bianco, che nella Hollywood puritana degli anni ’50 vedeva finalmente aprirsi un varco.

Nato come Harold George Bellanfante Jr nel 1927 a Harlem, da una famiglia povera delle West Indies, da padre martinicano cuoco in giro per le navi, e da una madre che nel 1936 prova a riportare la famiglia in Giamaica per qualche anno per poi ritornare definitivamente a Harlem nel 1940, studia recitazione a New York con Marlon Brando e Tony Curtis, lavora nell’American Negro Theatre assieme a Sidney Poitier, ma arriva al successo con spettacoli e dischi legati al calypso e alla cultura musicale delle isole già alla fine degli anni ’40 dove, a differenza, dei giovani cantanti neri del tempo, rifiuta gli arrangiamenti jazz e si rifà alla tradizione folklorica caraibici diventando un balladeer alla Burl Ives.

Per il suo successo immediato viene chiamato “The Cinderella gentleman” sui giornali o, come lo aveva definito Walter Winchell, il Lena Horne uomo. Diventa presto popolarissimo grazie a spettacoli teatrali, a Broadway, recital, apparizioni in tv. E alla fine il cinema, prima col piccolo dramma realistico “Bright Road” accanto a Dorothy Dandridge e poi con il musical kolossal “Carmen Jones” di Otto Preminger ancora accanto a Dorothy Dandridge, dove però venne doppiato da un tenore.

La maggior parte dei suoi fan, scrive oggi “The New York Times”, era bianca. Aggiungerei a bianca, anche colta e sofisticata. Il suo film successivo, “L’isola nel sole” di Robert Rossen, dove avrebbe dovuto avere una storia con Joan Fontaine, venne massacrato al montaggio, al punto che non si capiva bene cosa accadesse tra i due, ma già l’idea di vederli vicini dette così fastidio al pubblico del Sud che Nella South Carolina venne vietato farlo vedere in sala. Da parte sua, Belafonte, che era la prima scelta per “Porgy and Bess”, l’opera di George Gershwin prodotto da Samuel Goldwyn nel 1957 e diretta prima da Rouben Mamoulian poi da Otto Preminger, rifiutò il ruolo di Porgy perché gli sembrava che desse un’immagina stereotipata del nero.

La parte andò al suo amico Sidney Poitier, che fu quasi obbligato a accettarla. Ma questo rifiuto probabilmente costò cara a Belafonte, che vide la sua carriera nel cinema decisamente scomparire. Di fatto gira pochissimi film, rispetto alla sua popolarità. L’apocalittico “La fine del mondo” di Ranald MacDougall nel 1959, il bellissimo noir “Strategia di una rapina” di Robert Wise nello stesso anno per poi rimanere fermo fino al 1970, dove ricomparirà a fianco di Zero Mostel nel curioso “The Angel Levine” di Jan Kadar tratto dal romanzo di Bernard Malamud.

 Lo recupera davvero al cinema il suo amico/rivale Sidney Poitier in piena blaxploitation col curioso western all-black “Non predicare… spara” dove faranno coppia da protagonisti. Poitier, in disaccordo con il regista bianco Joseph Sargent, finirà per dirigerlo lui stesso. Non solo. Seguiterà nella regia richiamando Belafonte per una sorta di imitazione del Padrino di Marlon Brando in “Uptown Saturday Night”, dove troveremo insieme a loro Bill Cosby, Richard Pryor, Calvin Lockhart. Siamo già in un mondo del tutto diverso rispetto a quello di “Carmen Jones”. Ritroveremo Belafonte solo in piccole caratterizzazioni negli anni successivi, “Kansas City” e The Layer” di Robert Altman, “Bobby!” di Emilio Estevez, “BlackKklansman” di Spike Lee.

 Ebbe tre mogli, la prima, Marguerite Byrd sposata nel 1948 che gli dette due figli, la seconda, Julia Robinson, unica ballerina bianca del gruppo di Katherine Dunham, sposata nel 1958 con un matrimonio che fece scalpore sia tra i bianchi che tra i neri. The Amsterdam News scrisse, “Molti neri si domandano perché un uomo che si è avvolto della bandiera di giustizia per la sua razza abbandoni una moglie nera per una moglie bianca”. Da Julia Robinson ebbe altri due figli. E infine ebbe una terza moglie, sposata nel 2008, la fotografa Pamela Frank. "Riguardo alla mia vita, non ho lamentele", ha scritto nella sua autobiografia. "Eppure i problemi affrontati dalla maggior parte degli americani di colore sembrano terribili e radicati come lo erano mezzo secolo fa".

Harry Belafonte è morto. Il re del calypso aveva 96 anni. Il tempo il 25 aprile 2023

Addio a Harry Belafonte, leggenda dei diritti civili e dell’intrattenimento che iniziò come attore e cantante rivoluzionario, diventando poi un attivista. Aveva 96 anni. Belafonte è morto a causa di un’insufficienza cardiaca nella sua casa di New York, con la moglie Pamela al suo fianco, ha riferito il portavoce dell’artista, Ken Sunshine.

Con il suo viso luminoso e la sua voce vellutata, Belafonte è stato uno dei primi artisti di colore a ottenere un ampio seguito nei film e a vendere 1 milione di dischi come cantante. Molti lo conoscono ancora per il suo successo "Banana Boat Song (Day-O)". Ma l’artista forgiò un’eredità più grande una volta ridimensionata la sua carriera di attore negli anni ’60 e seguendo l’esempio del suo modello, il cantante e attivista Paul Robeson, secondo cui gli artisti sono «custodi della verità». Pochi sono riusciti a tenere il passo con il tempo e l’impegno di Belafonte e nessuno ha eguagliato la sua statura come punto d’incontro tra Hollywood, Washington e il movimento per i diritti civili.

Belafonte non solo ha partecipato a marce di protesta e concerti di beneficenza ma ha contribuito a organizzarli e ad aumentare il sostegno nei loro confronti. Ha lavorato a stretto contatto con Martin Luther King Jr., intervenendo spesso a suo nome sia con politici che con altri intrattenitori e aiutandolo finanziariamente. Ha fissato standard elevati per le celebrità di colore più giovani: Belafonte rimproverò Jay Z e Beyoncé per non aver rispettato le loro «responsabilità sociali». Ha fatto poi da mentore a Usher, Common, Danny Glover e molti altri. Nel film di Spike Lee del 2018 "BlacKkKlansman" Belafonte è stato opportunamente scelto nel ruolo di un anziano statista che istruisce i giovani attivisti sul passato del paese.

Belafonte è stato un artista importante sin dagli anni ’50. Ha vinto un Tony Award nel 1954 per il suo ruolo da protagonista nel musical "Almanac" di John Murray Anderson e cinque anni dopo è diventato il primo artista di colore ad aggiudicarsi un Emmy per lo speciale televisivo "Tonight with Harry Belafonte". Nel 1954, ha recitato insieme a Dorothy Dandridge nel musical diretto da Otto Preminger "Carmen Jones": una svolta, perché per la prima volta era interamente composto da attori di colore. Il film del 1957 "L’isola nel sole" è stato bandito in diverse città del sud, dove i proprietari dei cinema sono stati minacciati dal Ku Klux Klan a causa della presenza, nel film, di una storia d’amore tra un personaggio di colore, Belafonte appunto, e uno bianco, Joan Fontaine. Il suo "Calypso" pubblicato nel 1955, è diventato il primo album da un milione di vendite ufficialmente certificato da un artista solista. Il lavoro contribuì a diffondere a livello nazionale i ritmi caraibici. Belafonte fu soprannominato "Re del Calypso".

Batté Elvis e diventò il primo artista a vendere più di un milione di copie. Morto Harry Belafonte, il mito della musica calypso e dei diritti civili aveva 96 anni. Redazione su Il Riformista il 25 Aprile 2023 

Harry Belafonte è morto ieri a 96 anni nella sua New York. Nacque da genitori giamaicani in quello che era allora un ghetto, Harlem, è morto nell’Upper West Side – dopo quasi un secolo di successo mondiale. Nei primi anni Cinquanta batté Elvis quando diventò il primo artista a vendere un milione di copie con Calypso portando in cima alle classifiche i Caraibi e l’Africa. Day-O, The banana boat song, Jamaica farewell, con un singolo dopo l’altro fa ballare il mondo con la sua voce baritonale e inconfondibile.

Hollywood lo mise sotto contratto e lo scrittura per Carmen Jones, L’isola nel sole, La fine del mondo, Strategia di una rapina. Lui apre una sua casa di produzione con l’idea di mettere in cantiere i film che gli interessano, non voleva essere marchiato come Sammy Davis jr.

Belafonte si avvicina a un giovane predicatore e attivista per i diritti civili del Sud, Martin Luther King, e inizia a dire no ai film che non gli interessano, no alle parti da ‘professore nero’, ‘avvocato nero’, ‘poliziotto nero’ che finiscono a un altro protagonista della lotta dei neri per l’uguaglianza, il suo vecchio collega dell’American Negro Theatre di Harlem negli anni Quaranta, Sidney Poitier.

Belafonte si tuffa nell’attivismo, nelle marce contro la segregazione, andando in Alabama a chiamare ‘Bombingham’ la cittadina di Birmingham nella quale gli attentati dinamitardi del Ku Klux Klan erano una consuetudine. Artisti e attori neri, in quegli anni Sessanta complicati, optavano per la linea tracciata da Poitier: agire dall’interno del sistema per piantare il seme del progresso. Non abbastanza per Belafonte che dopo l’assassinio del suo amico fraterno Martin Luther King voleva far seguire al funerale una marcia antirazzista. Poitier disse no per evitare disordini, i due amici non si parlarono per qualche anno.

L’Fbi lo sorvegliò attentamente dal 1954 al 1981. Lui torna al cinema nel 1972 diretto dall’amico Poitier con il quale ha fatto pace, ma è una piccola parentesi prima delle grandi comparsate della vecchiaia, per Robert Altman (I protagonisti, 1994) e Spike Lee (BlacKkKlansman, 2018).

Attacca George W. Bush e la guerra in Iraq, scrive libri e nel 2018, secondo anno dell’era Trump, la biblioteca del Congresso lo onora includendo Calypso tra le grandi opere americane conservate nel suo archivio. E lui festeggia l’ingresso nel pantheon andando in tv a dire che “l’America è corrosa dal razzismo, ha un dna fallato. La lotta contro il razzismo sarà permanente… Ero al fianco di Martin, e di Bobby Kennedy. Faccio parte del loro lascito, finché vivrò”.

Dagospia il 25 Aprile 2023. Dal profilo Facebook di Marco Molendini

Quando stavano registrando We are the world una voce cantò: Day oh. E tutti gli altri 44 artisti, impegnati nella registrazione, risposero: Daylight come and me wan' go home. Harry Belafonte cominciò a ridere. Perfino Bob Dylan, che per tutta la session era rimasto quasi silente, si lasciò andare a un sorriso. 

Al Jarreu continuò a cantare. Lionel Richie si esaltò. Ray Charles cominciò a saltare di gioia. Stevie Wonder improvvisò una frase: “If you drink too much, I’ll have to say/ You’re gonna have to be driven home by me or Ray/ Day-o. Day-ay-ay-ay-o”. (Se bevi troppo, ti dovrò dire/ che sarai riportato a casa da me e da Ray). Belafonte, quasi con timidezza, partecipò a quel formidabile coro, un tributo a un suo antico e indelebile successo. Allora Harry aveva 58 anni.

A marzo scorso ne ha compiuti 96 e oggi se ne è andato, lasciando una scia lunghissima di ricordi, prima fra tutte quella canzone pescata dal repertorio tradizionale giamaicano per la quale Tony Scott, il direttore d’orchestra e clarinettista, inventò quel grido contagioso che introduce Banana boat: Day oh”. Il video di quel break durante la session di We are the world è il più grande omaggio  che si può immaginare alla canzone e a Belafonte.

DAGOREPORT il 24 aprile 2023.

E’ morto il giornalista Corrado Ruggeri, per anni capocronista del “Corriere della Sera” a Roma e che, per un caso di omonimia, era finito nel cosiddetto polverone della P4. Quanto avvenne al povero Ruggeri nel 2011 fu davvero qualcosa di sconcertante, e qualcuno dovrebbe ancora scusarsi. 

Il 23 giugno del 2011 sul “Corriere della Sera”, diretto da De Bortoli e dove Ruggeri era caporedattore, comparve il suo nome inserito fra quelli che componevano la “rete” di Bisignani. La notte precedente, prima che il giornale andasse in stampa, Ruggeri aveva cercato di chiarire che lui non c’entrava nulla.

Scrisse: “E’ falso: non lo conosco, non ci ho mai parlato, non ho nemmeno letto i suoi libri. Escludo che nelle intercettazioni possa essere stato fatto riferimento alla mia persona. Ho provato a spiegarlo la notte scorsa a chi dal giornale mi ha gentilmente avvisato, ma evidentemente non è servito a niente, neppure a dare conto della mia smentita. Questo modo di fare informazione cancella perfino ogni possibilità di replica e di precisazione, contro ogni principio di legge, di deontologia e di civiltà”. 

La direzione di De Bortoli inserì il suo nome tra quelli che comparivano nelle intercettazioni e Ruggeri messo alla gogna anche all’interno del giornale. La verità invocata dal povero Ruggeri emerse mesi dopo: il suo era un caso di omonimia mentre De Bortoli era tra gli intercettati che parlavano con Bisignani.

Lo stesso Bisignani lo raccontò in un suo libro scritto per Chiarelettere. “In una delle informative della Guardia di finanza – disse, scrisse e testimoniò Bisignani - veniva riportata un'annotazione secondo la quale tra i miei contatti c'era Corrado Ruggeri, indicato come giornalista del “Corriere della Sera”, responsabile della cronaca di Roma. 

Quei fogli il più delle volte sono pieni di annotazioni raccogliticce. Io ignoravo chi fosse il giornalista. Infatti, si trattava di un caso di omonimia con un altro Corrado Ruggeri, manager di valore nonché stimato gentiluomo di sua santità, con il quale sono in rapporti amichevoli.

Successe che il giornalista Ruggeri, sospettato di conoscermi, venne quasi messo alla gogna all'interno del giornale, tanto da essere pochi mesi dopo sostituito nel suo importante incarico da Gianna Fregonara (ndr, moglie di Enrico Letta). Due pesi e due misure: un direttore, che mi frequentava assiduamente, miracolato dalla furia giustizialista e un suo giornalista, di cui ignoravo l'esistenza, brutalmente travolto”.

A essere intercettato era stato De Bortoli. “Favorii certamente – scrisse a questo proposito Bisignani - i suoi rapporti con Cesare Geronzi, ma non con D'Alema, visto che i due si detestavano cordialmente. E durante il governo Berlusconi i motivi di contatto sono stati molteplici”. Tre anni dopo i fatto Ruggeri “andò” in prepensionamento. Oggi la scomparsa.

Addio a Corrado Ruggeri, collega del Corriere, scrittore e grande viaggiatore. Goffredo Buccini su Il Corriere della Sera il 24 Aprile 2023 

 E' scomparso dopo una breve e inesorabile malattia, lascia la moglie Carla, la figlia Eleonora e l'amatissimo nipotino Vittorio. I funerali si terranno mercoledì 26 aprile alle 15.30 presso la Basilica di San Lorenzo in Damaso (piazza della Cancelleria 1) 

Uno dei miei primi ricordi di Corrado è una costola rotta. Ero tornato dall’America, da poco ero capo dell’edizione romana e lui era responsabile del nostro “secondo sfoglio”, cultura e spettacoli. Finita la riunione in via Tomacelli c’era una specie di mezz’oretta di ricreazione prima di ributtarsi a fare il giornale che ci eravamo raccontati, il clima della cronaca si alleggeriva. E Corrado, con quel suo corpaccione da lottatore di sumo, era un maestro di leggerezza. Così un giorno abbiamo preso la rincorsa nel corridoio tra le scrivanie e ci siamo sfidati a… “panzate”. Io pesavo abbastanza, lui parecchio di più: il risultato, traumatico per me, lo ricordo con tenerezza. Perché Corrado Ruggeri era questo, un sorriso al momento giusto. Se un uomo si misura sull’autoironia e sulla capacità di sdrammatizzare e infine di riconnetterci tutti in quella grande comunità precaria e balenga, misteriosa e magica che per noi è stata il giornalismo, beh, lui era monumentale.

Figlio del Corriere da prima di me, aveva cominciato all’Occhio con Costanzo e poi era venuto in questo nostro giornale che a Roma aveva cronisti come Andrea Purgatori e Paolo Conti a fare da chiocce ai ragazzini. Lui era un ragazzone colto, che mascherava la sua cultura sotto uno spesso ragù di bonomia, le buone letture sotto uno sberleffo sapido, era un piatto saporito Corrado. Giocava a fare il “destro”, e lo era, e si accapigliava talvolta amabilmente con il mio vice di allora, Paolo Fallai, che la sua identità di ragazzo di sinistra prendeva invece sempre orgogliosamente sul serio. Si provocavano un po’. E ne nascevano siparietti, scazzi, ma anche idee, frammenti di giornalismo per la nostra cronaca di Roma, a cavallo tra gli anni di Veltroni e quelli di Alemanno. Poi, nei momenti cruciali, quando arrivava la notizia all’ora sbagliata, quando dovevi correre contro le lancette per chiudere le pagine, Corrado sapeva essere freddo e serio come tutti i grandi professionisti, un punto di riferimento nei frangenti di dubbio, rigoroso quando era necessario, perché così ci hanno insegnato in via Solferino e noi quello siamo: corrieristi.

Ed era un papà naturale, gli brillavano gli occhi quando ci parlava di “Ele”, Eleonora, quella sua figlia sportiva che lo riempiva d’orgoglio, della sua Carla e della famiglia che avevano costruito con amore, brandelli della loro quotidianità che si portava appresso, da noi in redazione, come un profumo buono che t’accompagna sempre.

Sognava, Corrado. E aveva fatto dei suoi sogni un secondo mestiere, il viaggiatore-narratore, tra Asia ed Estremo Oriente, che da noi viveva con discrezione ma che gli ha riempito un’intera vita parallela e gli anni passati fuori dal nostro giornale, l’ultimo scorcio, per noi una mancanza. Era allergico alle ipocrisie, alle pose. Così a volte eccedeva in senso opposto, gli scappava lo sproposito (quasi sempre di proposito), faceva drizzare i capelli in testa a qualche vestale del politicamente corretto. Si coccolava la sua brutta fama, ridendoci su. Di sicuro non apprezzava lacrimoni e retorica. E adesso, mi direbbe: Goffre’, dacci un taglio prima che ti scappa la mano. Così la smetto, Corra’. Ricordati di noi.

I funerali si terranno mercoledì 26 aprile alle 15.30 presso la Basilica di San Lorenzo in Damaso (piazza della Cancelleria 1)

Federico Salvatore, addio al "cantattore" di "Azz...". La moglie: è successo tutto in un'ora. Il Tempo il 19 aprile 2023

Lutto nel mondo dello spettacolo: è scomparso Federico Salvatore, cantautore e cabarettista famoso per la canzone "Azz..." e la partecipazione al Festival di Sanremo con "Sulla porta" sul difficile rapporto tra un ragazzo omosessuale e la madre. Nell'ottobre del 2021 aveva avuto un'emorragia cerebrale  che lo aveva segnato profondamente. Ad annunciarlo la moglie Flavia D’Alessio: "Sono stati i mesi più difficili e dolorosi della nostra storia d’amore – ha scritto la donna - mesi in cui ho pregato e sperato che lui tornasse a casa da me e dai ragazzi e che tornasse tra le persone che lo amano e che in questi mesi ha pregato e sperato con me. La cosa più complicata è gestire il dolore".

"Federico è andato via in un’ora. È successo tutto velocemente. In un primo momento avevo pensato a una cerimonia privata ma non sarebbe stato giusto. Federico non avrebbe voluto. Le persone che hanno seguito Federico nella sua carriera artistica non sono semplicemente fans. Sono suoi amici", scrive ancora la moglie. "Tutti gli artisti che hanno collaborato con lui non sono stati solo colleghi. Sono i suoi amici. Mi sembra giusto dare a tutti loro la possibilità di un ultimo saluto a Federico. Cosa che non sono riuscita a fare io. Non sono riuscita a salutarlo".

Salvatore si definiva “cantattore” e nella sua cifra artistica univa cantautori, tradizione napoletana e comicità. Il suo album “Azz…”, nel 1995 aveva venduto 700.000 copie. I funerali saranno celebrati il 20 aprile, alle 12.30, nella Basilica di San Ciro a Portici. 

Federico Salvatore, morto il cantautore e cabarettista napoletano. La moglie Flavia D'Alessio: «Se n'è andato via in un’ora, non sono riuscita a salutarlo». Carmine Aymone su Il Corriere della Sera il 19 aprile 2023

Aveva 64 anni. Nel 2021 fu colpito da un'emorragia cerebrale e non si era più ripreso. Il successo con «Azz..», la censura a Sanremo per un brano sull'omosessualità 

È stata Flavia D’Alessio, la moglie del cantautore e cabarettista napoletano Federico Salvatore, a raccogliere tutte le sue forze per annunciare che il marito non c'è più. Aveva 64 anni.  Nell'ottobre del 2021 aveva avuto un'emorragia cerebrale e da allora non si era più ripreso. «Sono stati i mesi più difficili e dolorosi della nostra storia d’amore – ha scritto Flavia - mesi in cui ho pregato e sperato che lui tornasse a casa da me e dai ragazzi e che tornasse tra le persone che lo amano e che in questi mesi ha pregato e sperato con me. La cosa più complicata è gestire il dolore. Federico è andato via in un’ora. È successo tutto velocemente. In un primo momento avevo pensato a una cerimonia privata ma non sarebbe stato giusto. Federico non avrebbe voluto. Le persone che hanno seguito Federico nella sua carriera artistica non sono semplicemente fans. Sono suoi amici. Tutti gli artisti che hanno collaborato con lui non sono stati solo colleghi. Sono i suoi amici. Mi sembra giusto dare a tutti loro la possibilità di un ultimo saluto a Federico. Cosa che non sono riuscita a fare io. Non sono riuscita a salutarlo». I funerali saranno celebrati domani 20 aprile, alle 12.30, nella Basilica di San Ciro a Portici. 

La carriera e il successo con «Azz..»

Il “cantattore”, così amava definirsi Federico, che strizzava l’occhio a Giorgio Gaber e a Fabrizio De Andrè, immergendo tutto il suo sapere nella tradizione culturale partenopea, sospeso tra Basile, Di Giacomo, gli Squallor e Pino Daniele, non c’è più. Federico Salvatore è stato artista vero, colto e popolare, prerogativa di pochi. Ogni parola, ogni strofa che ha scritto e cantato era “pensata”, figlia di un sentimento popolare ma anche di tanta cultura. Il suo album “AZZ…”, nel 1995, con 700.000 copie vendute, collezionò due Dischi di Platino. Da allora brani tormentoni di successo e piccoli capolavori come “Napolitudine” e “Sulla porta”. E proprio quest'ultimo brano che parlava di omosessualità fu censurato a Sanremo. Federico Salvatore è stato un cantastorie dei nostri giorni che si muoveva funambolico, tra denunce sociali e momenti di poesia, affidate all’orecchio dell’ascoltatore come un montaggio cinematografico.

Da repubblica.it il 19 aprile 2023.

E' morto il comico napoletano Federico Salvatore. Aveva 63 anni. Nel 2021 era stato colpito da una emorragia cerebrale e aveva affrontato un percorso di riabilitazione. Chansonnier e cabarettista, era noto per i suoi testi comico-satirici ambientati soprattutto nel mondo napoletano. Come i brani umoristici della serie Incidenti: "Incidente in Banca", "Incidente al Vomero", "Incidente in Paradiso", "Incidente telefonico", nei quali proponeva episopdi grotteschi e battibecchi in cui contrapponeva il personaggio snob e arrogante di federico a quello popolano e rozzo di Salvatore.

 Da napolitoday.it il 19 aprile 2023.

Sono passati 20 anni dai primi successi musicali di album come - Azz... e Il mago di Azz che hanno venduto più di 500.000 copie e fatto ottenere due dischi di platino nel 1995. 

Che ricordo ha di quel periodo e come è nata l'idea di creare i due personaggi, Federico e Salvatore, che ancora oggi sono emblematici delle due facce di Napoli?

Più che ricordare quel periodo, non ho mai archiviato le emozioni di alcuni momenti particolari: la prima volta da Costanzo, l’incontro con Pino Daniele, il palco di Sanremo, l’indimenticabile chiacchierata con Giorgio Gaber, gli apprezzamenti di Roberto Benigni, i consigli di Gigi Proietti, la sigaretta con Nino Manfredi, le terme con Umberto Eco, un pomeriggio con Alberto Sordi. Riguardo i due personaggi, non ho fatto altro che portare sul palco il Federico che ha condiviso il liceo con i figli di papà del Collegio Bianchi e il Salvatore che ha condiviso il marciapiede con i figli di mammà del quartiere Stella. 

(…) Nel 2002 l'uscita dell'album "L'osceno del villaggio" segna una svolta nella sua carriera con un crescente impegno autorale culminato nella lucidissima "Se io fossi San Gennaro", della quale ha fatto diverse versioni.

Oggi a chi dedicherebbe i versi cardine del brano e sbaglio se vedo dei rimandi al Gaber di Io Se fossi Dio? Finchè vivremo nell’attesa che possa succedere qualcosa e nulla facciamo perché possa accadere, Se io fossi San Gennaro è un evergreen, è uno sprone per la nuova generazione dell’iPod che non ha memoria storica di quanti figli illustri ha partorito Napoli. Avevo 21 anni quando acquistai il ½ LP di Gaber “Io se fossi Dio”, con quella sola traccia di 14 minuti sul lato A e niente sul lato B. I 14 minuti più coraggiosi del cantautorato italiano. Quando il successo mi ha poi permesso di incontrarlo, la sua lusinghiera considerazione mi ha spinto ad emularlo: lui Dio? io San Gennaro!

Pino Daniele come prese le strofe a lui rivolte nella canzone "Se io fossi San Gennaro?

Credo le abbia ascoltate con il proposito e il bisogno di ritornare a cantare quelle canzoni che cito nel mio testo. Le canzoni di Terra mia, di Nero a metà, della rabbia e dei mali di Napoli, che tanto hanno influenzato la mia crescita artistica, portandomi da Azz a Napocalisse.

Morto Renato Caimi, l'inventore della «schiscetta», simbolo della rinascita industriale italiana: aveva 97 anni. Giampiero Rossi su Il Corriere della Sera il 17 Aprile 2023 

Il portavivande in alluminio per le pause pranzo fu brevettato nel 1952 nell'azienda «Caimi Brevetti» di Nova Milanese. L'idea nacque da un pentolino rovesciato su un tram

È morto lunedì Renato Caimi, 97 anni, fondatore assieme al fratello Mario della Caimi Brevetti, azienda di Nova Milanese, entrato nella storia industriale e del design come l’inventore della schiscetta, uno dei simboli della rinascita industriale dell’Italia post-bellica. 

Il brevetto risale al 1952, ma l’intuizione dell’imprenditore brianzolo risale al 1949. Caimi stesso ha raccontato che un giorno, sul tram da Nova Milanese per Milano, la sua attenzione fu catturata dalla disperazione di un operaio che aveva perso l’equilibrio per una frenata, rovesciando la minestra che trasportava in un pentolino addosso a un altro passeggero. 

Da quell’incidente nacque l’idea: un contenitore in alluminio con chiusura ermetica per trasportare in modo sicuro i pasti dei pendolari. Il nome schischetta viene dal dialetto milanese: «schiscià», cioè «schiacciare» con il coperchio. Fu un successo immenso. Il nuovo contenitore diventò una presenza fissa durante la pausa pranzo nelle fabbriche del boom economico: con il cibo al sicuro, schiacciato nel suo contenitore.  

Poi sono arrivate le declinazioni in nuovi materiali, il design e le imitazioni. E la schiscetta di Renato Caimi è diventata anche un simbolo dell’industria lombarda, ricevuta addirittura al Quirinale dal presidente Mattarella. La Caimi Brevetti è presente nei musei di design internazionali, ha ricevuto decine di riconoscimenti e premi in tutto il mondo, tra i quali due Compassi d’Oro, tre German Design Awards e il DesignEuropa Awards, assegnato dall’Ufficio dell’Unione Europea per la proprietà intellettuale. 

(ANSA il 18 aprile 2023) - E' morta stamani nella clinica San Camillo di Forte dei Marmi (Lucca), Anna Marcacci Brosio, madre del giornalista e personaggio tv Paolo: il 7 aprile scorso aveva compiuto 102 anni. Nata a Marina di Pisa da tempo la donna viveva in Versilia, a Vittoria Apuana con il figlio Paolo. 

Recentemente aveva avuto problemi di salute per i quali era stato necessario il ricovero all'ospedale Versilia venendo poi trasferita al San Camillo. Anna Marcacci Brosio aveva acquisito notorietà partecipando, al fianco del figlio, al programma 'Quelli che il calcio' su Rai2 e registrando con lui spot pubblicitari.

L'addio di Paolo Brosio alla mamma Anna: «L’ho vista morire al telefono, in video chiamata». Simone Dinelli su Il Corriere della Sera il 19 Aprile 2023

Il racconto del giornalista Paolo Brosio al «Tirreno» sulla morte della madre: «Ero a Brescia per alcuni impegni non rinviabili, legati alla costruzione di un pronto soccorso a Medjugorje. Ho fatto in tempo a fare una videochiamata, a parlarle, a guardarla ancora una volta» 

«L’ho vista morire davanti ai miei occhi, al telefono, in video chiamata». È la toccante testimonianza del giornalista e personaggio televisivo Paolo Brosio, nel raccontare al quotidiano Il Tirreno gli ultimi istanti di vita della madre Anna Marcacci, deceduta nella giornata di martedì all’interno della clinica San Camillo di Forte dei Marmi. 

La donna aveva raggiunto lo scorso 7 aprile lo straordinario traguardo dei 102 anni di vita. 

«Non mi sono mai staccato da lei in questo ultimo periodo – ha detto Brosio –, se non nella giornata di martedì per raggiungere Brescia per alcuni impegni non rinviabili, legati alla costruzione di un pronto soccorso a Medjugorje. Mi hanno chiamato per dirmi che era peggiorata, che stava molto male. Ho fatto in tempo a fare una videochiamata, a parlarle, a guardarla ancora una volta. Pochi istanti, gli ultimi: poi è morta. È un vuoto incolmabile quello che sto provando. È stata mamma, nonna, amica, maestra di vita. Mi ha lasciato un’eredità spirituale straordinaria, perché mi ha insegnato la preghiera e la carità. Attraverso la fede, mi ha salvato la mia stessa esistenza». 

Tante le testimonianze di vicinanza e cordoglio, a partire da quelle del sindaco di Forte dei Marmi Bruno Murzi e del presidente della Fondazione La Versiliana di Marina di Pietrasanta Alfredo Benedetti. 

I funerali di Anna Brosio si svolgeranno venerdì alle 15 nella chiesa di Vittoria Apuana, frazione di Forte dei Marmi. 

"Lo stringeva al petto prima di morire". Le lacrime di Paolo Brosio per la madre. Su Instagram Paolo Brosio ha raccontato gli ultimi istanti di vita della madre, commuovendosi: "Provo un dolore che mi trafigge il cuore". Novella Toloni il 20 Aprile 2023 su Il Giornale.

Non si placa il dolore di Paolo Brosio per la scomparsa della madre Anna. La donna è deceduta nella notte tra il 17 e il 18 aprile all'età di 102 anni nella clinica San Camillo di Forte dei Marmi, dove era ricoverata da giorni in seguito a un malore. L'annuncio della morte era arrivato in diretta a Mattino Cinque per bocca di Federica Panicucci e poco dopo il giornalista e conduttore televisivo aveva affidato ai social un breve messaggio.

A due giorni di distanza dal grave lutto che lo ha colpito, Paolo Brosio è tornato sui social network per ringraziare i media e la stampa, oltre agli amici e ai fan, per l'affetto a lui dimostrato per la scomparsa della madre: "Mamma è volata in cielo e qui in terra c'è un gran baccano", ha esordito il giornalista nelle storie del suo profilo Instagram, proseguendo con la voce rotta dalla commozione: "Grazie di cuore. I vostri messaggi e le vostre condoglianze sono come balsamo sul mio cuore trafitto e spaccato a metà".

Gli ultimi istanti di vita della madre

Nel descrivere il suo profondo dolore per la scomparsa della donna, che è stata una figura chiave nella sua vita, Brosio ha raccontato degli ultimi istanti di vita della signora Anna, come a volersi liberare di un peso troppo grande da sostenere da solo. Se al Tirreno, pochi giorni fa, il popolare conduttore aveva confessato di avere visto la madre morire in diretta in videochiamata, su Instagram Brosio ha fatto un'altra toccante rivelazione, mostrando il cucciolo di pezza, che la famiglia le aveva regalato poco tempo fa: "Glielo abbia regalato quando è morto Bobo e lei se lo teneva stretto stretto al petto in ospedale poco prima di morire. Questa era la mia mamma, la mamma un po' di tutti".

Poi con le lacrime agli occhi e la voce rotta dalla tristezza della perdita ha ringraziato nuovamente tutti per la vicinanza e ha scritto un lungo messaggio di saluto a suo madre, che pochi giorni fa aveva festeggiato il suo 102esimo compleanno. "È un dolore infinito. È stata una madre unica, straordinaria, grande e piccola allo stesso tempo, che mi ha lasciato un'eredità spirituale e umana enorme", ha concluso Paolo Brosio, pubblicando alcune foto della signora Anna in alcuni momenti felici degli ultimi anni.

Paolo Brosio ricorda la mamma Anna: «Diceva che in tv sembravo un pazzo. Poi la invitò Fazio e piacque a tutti». Elvira Serra su Il Corriere della Sera il 26 Aprile 2023

Il giornalista dopo la scomparsa di sua madre Anna Marcacci Brosio: «Da piccolo mi cazziava sempre, ero la pecora nera». Il progetto: «Grazie a mamma costruirò un ospedale a Medjugorje. Mi ha insegnato il perdono, ma non a vestirmi bene come lei»

Anna Marcacci Brosio è mancata il 18 aprile alle 7.40 al terzo piano della casa di cura San Camillo di Forte dei Marmi. Pochi giorni prima aveva compiuto 102 anni. Suo figlio Paolo ha visto in diretta i suoi ultimi minuti, grazie alla videochiamata del medico di guardia, la dottoressa Roberta Bruschi che, con la caposala Amelia, lo aveva avvertito non appena si era aggravata in modo irreparabile. Il giornalista era stato con la madre fino al giorno prima. Da tutta Italia sono arrivati tantissimi attestati di affetto: la signora era diventata una beniamina della tv alla fine degli anni ‘90 grazie a Quelli che il calcio».

Si aspettava quest’ondata di amore?

«No e sono davvero grato, ho ancora 500 messaggi sul telefonino che non sono riuscito ancora a leggere. Alla camera ardente sono venuti il ct Marcello Lippi, il conduttore Carlo Conti, l’ex calciatore Nicola Zanone. Andrea Bocelli e sua moglie mi hanno scritto una lettera bellissima. I giornali locali hanno dedicato le locandine alla mia mamma».

È riuscito a salutarla?

«Sì, il 17 pomeriggio dovevo andare a Brescia per lavoro e sono passato da lei a darle il solito bacio. Dormiva. Me ne sono andato, ma davanti all’ascensore ho sentito qualcosa che mi richiamava indietro. Allora sono tornato, mi sono inginocchiato accanto al suo letto, ho recitato un Pater, un Gloria e un’Ave Maria e sono scoppiato a piangere. Le ho detto: “Mamma, ci rivediamo in cielo”».

Se le chiedo un ricordo, cosa le viene in mente ora?

«Quando da bambino, nel Monferrato dove sono nato, mi portava a sgambare tra i boschi e a posare la manina sulla casa di Giovanni Bosco e della mamma Margherita».

Che mamma è stata?

«Mi cazziava sempre. Del resto ero la pecora nera. Per andare a scuola mi faceva mettere i pantaloni di vigogna, maglione blu e camicia bianca: non sa quanto mi prudevano, io sognavo i jeans come i miei compagni. Poi passammo al velluto».

Sua madre era sempre elegantissima.

«E infatti mi rimproverava di non esserlo. Diceva che dovevo indossare la cravatta, essere più elegante, spazzolare le scarpe, che in tv sembravo un pazzo, ma che vergogna!, mio padre era sempre inappuntabile».

Anna Marcacci Brosio conquistò il piccolo schermo.

«Sì, grazie a Fabio Fazio, che mi voleva a Quelli che il calcio e all’inizio, non potendo avere me, invitò mia madre. Divenne presto una “Mamma d’arte”».

Si pettinava da sola.

«Sapeva fare tutto, la mia mamma. Il successo fu immediato, e venne rafforzato poi grazie a Maurizio Costanzo».

Nel 1996 entrò nell’«Enciclopedia della televisione» di Aldo Grasso come «deliziosa tifosa milanista».

«Lui adorava mia mamma e bacchettava me, spero che adesso abbia più misericordia. Mi ha bacchettato perfino sulla Madonna».

Portò sua mamma da Papa Francesco.

«Il 9 aprile del 2015, due giorni dopo lo scherzo diabolico delle Iene e la finta telefonata del pontefice... Volli farle una sorpresa e le dissi che l’avrei portata a visitare i Musei Vaticani. Poi, dopo un labirinto di passaggi, arrivammo al Palazzo Apostolico e in fondo al corridoio spuntò la sagoma di un sacerdote vestito di bianco che ci salutava con la mano destra, facendo segno di raggiungerlo».

Il Papa vero...

«Tenga conto che la mia mamma camminava con il deambulatore, aveva già 95 anni e lamentava dolori fortissimi a schiena, gambe e ginocchia. E invece fece uno scatto da centometrista e spinse il deambulatore a una velocità incredibile finché raggiunse il Papa, lo baciò tutto e lo strinse forte: disse che era il giorno più bello della sua vita».

Ha scritto tanti libri. Il prossimo sarà per lei?

«Sto già prendendo appunti. Parlerò della sua eredità morale, del decalogo che mi ha lasciato negli ultimi giorni. Sono sicuro che mi aiuterà a realizzare la costruzione di un Pronto Soccorso a Citluk, vicinissimo a Medjugorje. Ho ricevuto la Pec che mi annunciava l’avvio dei lavori tre giorni prima che morisse».

Cosa dice il decalogo etico?

«Per esempio, mamma mi ha detto di fare pace con tutti coloro che mi hanno voltato le spalle. Per questo ho deciso di ritirare due querele per diffamazione, una contro un personaggio famoso dalla quale avrei potuto ricavare una cifra importante, che avevo già deciso di devolvere all’ospedale. Ma perdono tutti».

(ANSA-AFP il 17 aprile 2023) - Dopo una lunga malattia è morto il pianista jazz statunitense Ahmad Jamal, compositore e leader di band la cui carriera ha attraversato più di sette decenni. Aveva 92 anni. 

La morte è stata confermata dalla moglie, Laura Hess-Hey, secondo quanto riferisce il Washington Post. Jamal era amico di grandi della musica come Miles Davis. Nato come Frederick Russell Jones a Pittsburgh, si è convertito all'Islam nel 1950.

Ha vinto una miriade di premi nel corso della sua carriera, tra cui il prestigioso Ordre des Arts and des Lettres francese nel 2007 e un Grammy Lifetime Achievement Award nel 2017. La svolta per Jamal fu un album del 1958 intitolato "Ahmad Jamal at the Pershing: But Not for Me" che rimase nelle classifiche della rivista Billboard per più di 100 settimane.

Dadospia il 17 aprile 2023.Dal profilo Facebook di Marco Molendini 

Ahamd Jamal raccontava una storia che spiega l'arte di improvvisare nel jazz. La storia è questa: "Una volta Ben Webster stava suonando una ballad in modo assolutamente ispirato. Poi, a un certo punto, si ferma di botto. Perché ti sei fermato, Ben? La risposta: Ho dimenticato il testo».

Suonare come cantare. Jamal, conosciuto per il suo stile pianistico estremamente percussivo, adorava le ballads e imparava a memoria tutti i testi dei pezzi che ha suonato. Vecchia scuola, certo. Ma era la scuola che metteva in mostra ogni volta che saliva sul palco. Lo abbiamo visto decine di volte in azione, era uno dei beniamini di Umbria jazz: la sua musica era sempre formalmente rigorosa, scarna, ineccepibile, nervosa, piena di cambi ritmici, fatta di riff, di frasi brevi, di accordi densi, i celebri block chords, esaltata da un suono spettacolare, nitido, cristallino, piena di silenzi eloquenti.

Con il classico Poinciana, il suo cavallo di battaglia, a esaltare le sue galoppate. A volte poteva essere ripetitivo, come se fosse imprigionato nel suo schema musicale, ma il segno dell'originalità è sempre stato un innegabile condimento. 

Se ne è andato a 92 anni, per un cancro alla prostata, Ahamd Jamal, nato Frederick Russell Jones e diventato mussulmano all'inizio degli anni 50, quando l'islamismo era il rifugio di molti afroamericani, segno di rifiuto verso una società che negava loro i più elementari diritti civili. 

Ha attraversato anni travolgenti nella storia del jazz affermando una personalità solida che ha affascinato maestri come Miles Davis, un suo tifoso che portava i suoi musicisti a vedere i concerti di Jamal (e in uno dei suoi dischi capolavoro con Gil Evans, Miles Ahead, ha inciso un pezzo di Ahmad, New Rhumba). Fra i solisti che hanno guardato al suo pianismo ci sono McCoy Tyner, Herbie Hancock, Keith Jarrett. 

Nel sua carriera ha avuto successi, riconoscimenti compresi un Grammy alla carriera e l'inserimento nell'Ordine delle Arti e delle Lettere della Francia. Ha svolto un gran ruolo come educatore e il mondo dell'hip hop ha campionato le sue frasi più volte (per esempio De La Soul in Stakes Is High dove viene campionata la frase di Swahililand).

È morto Mark Sheehan, chitarrista e fondatore degli Script: aveva 46 anni. Matteo Cruccu su Il Corriere della Sera il 15 Aprile 2023

È deceduto all’ospedale per una malattia ancora ignota

A un certo punto erano diventati la band più famosa del loro Paese, naturalmente dopo gli U2: parliamo degli irlandesi Script che piangono oggi la scomparsa del loro chitarrista, Mark Sheehan, cofondatore del power trio insieme al cantante Danny O’Donoghue e al chitarrista Glen Power

Malattia ignota

Sheehan aveva solo 46 anni ed è deceduto in ospedale dopo una breve malattia, di cui ancora però non si conoscono i dettagli. Anche perché il chitarrista era molto riservato sul suo privato, sposato con tre figli, ma poco altro si sapeva del suo quotidiano, anche perché non aveva alcun profilo social, cosa incredibile al giorno d’oggi.Parlava però con la chitarra Sheehan: con i due sodali, scalò le classifiche di Irlanda e Gran Bretagna, come appunto solo Bono e soci erano riusciti a fare, centrando il primo posto con il primo album eponimo nel 2o08 e il loro pop delicato e intenso. Altri successi anche nella decade successiva, ma Sheehan aveva già preso una pausa l’anno passato, perché «desideroso di dedicarsi alla famiglia». Era tornato però . E quest’estate la band avrebbe dovuto accompagnare Pink nella sua tournèe estiva. Chissà come farà ora: gli Script si conoscevano da bambini, specie lui e O’Donoghue ed erano legatissimi

Morto lo scrittore israeliano Meir Shalev, l’etica ruvida del pioniere. DAVIDE FRATTINI, nostro corrispondente a Gerusalemme su Il Corriere della Sera l’11 Aprile 2023.

L’autore tradotto in 26 lingue con libri come «Fontanella», «Il ragazzo e la colomba», «La montagna blu» aveva 74 anni. È morto dopo una lunga malattia

Meir Shalev (1948-2023); La passione per i lunghi viaggi sulle mulattiere con la moto (come molti israeliani), il giubbotto di pelle e mai la cravatta (come quasi tutti gli israeliani), l’inglese parlato con l’accento un po’ aspro del sabra, il fico d’India in ebraico, simbolo e soprannome dei pionieri venuti su tra le ruvidità di questa terra mediorientale. Meir Shalev, scomparso martedì 11 aprile all’età di 74 anni, era nato pochi mesi dopo lo Stato israeliano — nel 1948 —, ne aveva combattuto una delle guerre più importanti (quella dei Sei giorni), era popolare quanto una rockstar (anche grazie alla rubrica settimanale su «Yedioth Ahronoth», il quotidiano più venduto), chiacchierava più volentieri di etica che di politica e fuori dal Paese — nonostante il successo e i libri tradotti in 26 lingue come Fontanella, Il ragazzo e la colomba, La montagna blu — quasi non gli perdonavano la militanza meno accesa di altri romanzieri come Amos Oz, Abraham B. Yehoshua, David Grossman. Lui — che leggeva e rileggeva la Bibbia — non voleva «essere un profeta», forse proprio perché aveva conosciuto troppo bene gli interpreti delle parole e a volte del furore divino.

Di Grossman era amico — vicini per generazione — e insieme avevano passato le settimane del conflitto tra il luglio e l’agosto del 2006, da un rifugio antimissile all’altro per leggere i loro racconti ai più piccoli e discutere della guerra con i più grandi. David gli aveva detto che il figlio si era portato dietro il nuovo libro di Shalev per le ore di attesa sulle montagne al confine tra Israele e Libano. Sdraiato sul carro armato ad aspettare l’ordine di avanzare. L’ordine di avanzare per Uri era arrivato proprio quando il cessate il fuoco stava per essere messo in atto ed era stato ucciso dai miliziani di Hezbollah in quell’ultima offensiva.

La violenza, la crudeltà. Il titolo originale di Due vendette è in ebraico Due orse: riprende l’episodio in cui il profeta Eliseo maledice i ragazzini che l’hanno preso in giro per la calvizie e 42 di loro vengono sbranati dai due animali. «Non credo che la letteratura — aveva commentato — debba educare i lettori alla moralità. Deve forzarli a fronteggiare situazioni morali come uno specchio che non si possa evitare di guardare».

Dopo il divorzio dalla prima moglie, era rimasto a vivere nella valle di Jezreel, verso il lago di Tiberiade: lo sguardo dalla collina rivolto sulla piana di Megiddo, elencava — lui pacifista muscolare — gli eserciti che ci avevano combattuto. Era tornato a essere un pioniere come la nonna di origine russa ricordata nelle memorie, più ironiche che autobiografiche, pubblicate nel 2009: a differenza di lei, ossessionata dalla polvere e dallo sporco, si era immerso nella natura e nel terriccio. Al posto dell’aratro manovrato dai primi immigrati, la zappa, il rastrello e la carriola di cui fa un elogio in Il mio giardino selvatico: «Tutti, non solo giardinieri, contadini e muratori, dovrebbero avere in casa una carriola. Con delle piccole modifiche la si potrebbe usare per riportare le pile di libri dal comodino sugli scaffali, il partner che si è addormentato davanti alla televisione in camera da letto, alzando semplicemente i manici per riversarlo/a sul materasso».

Ogni anno produceva 10 litri di limoncello — amava l’Italia — e gli piaceva berlo con i vicini: «Quanto al coltellino, preferisco quello svizzero perché ha anche un apribottiglie — i suoi inventori, in sostanza, ammettevano che l’uomo non è nato solo per faticare».

(ANSA il 10 aprile 2023) - E' morto all'età di 70 anni Lasse Wellander, storico chitarrista degli Abba. E' lo stesso gruppo svedese ad annunciarlo con un post sui social. "E' con incredibile tristezza - si legge - che dobbiamo annunciare che il nostro amato Lasse si è addormentato per sempre.

 Lasse è stato colpito di recente da un cancro diffuso e nel giorno di Venerdì Santo è morto tranquillamente, circondato dalle persone più vicine".

 Sei stato un fulcro nelle nostre vite, ed è inimmaginabile che ora dobbiamo vivere senza di te. Ti amiamo e ci manchi tanto", scrivono ancora i componenti della band.

È morto Lasse Wellander, suonava la chitarra per gli Abba. Storia di Redazione Online su Il Corriere della Sera il 10 aprile 2023.

È morto all’età di 70 anni Lasse Wellander, storico chitarrista degli Abba. È stato lo stesso quartetto svedese ad annunciarlo su Facebook: «È con indescrivibile tristezza che dobbiamo annunciare che il nostro amato Lasse si è addormentato per sempre. Lasse si è recentemente ammalato di quello che si è rivelato essere un cancro diffuso e all’inizio del Venerdì Santo è morto tranquillamente, circondato da coloro che gli erano più vicini». E ancora: «Sei stato un grande musicista e umile come pochi, ma soprattutto sei stato uno splendido marito, padre, fratello, zio e nonno. Gentile, sicuro, premuroso e amorevole... e molto altro ancora, che non può essere descritto a parole. Un fulcro nelle nostre vite, ed è inimmaginabile che ora dobbiamo vivere senza di te. Ti amiamo e ci manchi tanto».

La carriera

Video correlato: Addio al chitarrista degli Abba (Mediaset)

Lasse ha accompagnato gli Abba tra gli anni 70 e 80 e ha registrato con loro le prime hit come «Intermezzo no 1» «Crazy World ». Ha anche partecipato al recente album/reunion «Voyage» (2021) con cui il celebre gruppo pop formato da Björn Ulvaeus, Benny Andersson, Agnetha Fältskog e Anni-Frid Lyngstad è tornato sulle scene. Nato il 18 giugno 1952 a Nora, suonava da quando era piccolo e dall’età di 16 anni aveva iniziato a lavorare come chitarrista e produttore a livello professionale, collaborando con vari gruppi sia in studio sia dal vivo.

Con gli Abba aveva partecipato a gran parte delle registrazioni dei dischi così come ai loro tour degli anni 70, continuando poi a lavorare con Ulvaeus e Andresson anche dopo lo scioglimento del quartetto e per le colonne sonore dei due film «Mamma mia!».

Estratto dell'articolo di rainews.it il 4 aprile 2023.

Seymour Stein, co-fondatore della Sire Records, che ha lanciato la carriera di artisti del calibro di Madonna, Ramones,  Talking Heads e Ice-T, è morto a Los Angeles all'età di 80 anni. Era malato da tempo.

 Profondo conoscitore della musica, Stein è stato un grande ‘talent scout’ e ha lasciato il segno intorno alla metà degli anni Settanta scritturando band come Talking Heads, Ramones e Pretenders. È anche grazie a lui che il termine New Wave è diventato popolare in tutto il mondo.

[…]

 Nato nel 1942 a New York, a soli 16 anni lavorava già per "Billboard Magazine". Assistente di Tommy Noonan, Stein partecipava alle riunioni per decidere quali nuovi dischi recensire e aiutava a compilare la Hot 100, allora appena lanciata.

Nel 1961 Stein ottenne il suo primo lavoro in una casa discografica alla King Records di Cincinnati, l'etichetta di James Brown, e a venticinque anni aveva già fondato con Richard Gottehrer, la Sire Productions, che presto sarebbe diventata Sire Records, etichetta d'avanguardia con una missione: introdurre nel mercato americano della seconda metà degli anni Sessanta band britanniche, underground e progressive, meno conosciute.

Ma il suo nome è legato in maniera indissolubile al successo della New Wave tra gli anni Settanta e Ottanta. Stein ha raccontato a "Billboard" che il primo artista che ha scritturato è stato Steven Tallarico, diventato poi Steve Tyler degli Aerosmith, che all'epoca faceva parte di un gruppo chiamato Chain Reaction.

 Il grande colpo commerciale della sua carriera Stein lo fece all'inizio degli anni '80 quando, dopo aver ascoltato la cassetta demo di una cantante-ballerina poco conosciuta nella scena dei club del centro di New York, Madonna, decise di scritturarla.

[…]

 Tra gli artisti che negli anni sono entrati a far parte del ‘roster’ della Sire ci sono gli Smiths, i Depeche Mode, i Replacements, gli Echo and the Bunnymen e Ice-T e k.d. lang negli anni Novanta.

 Anche Brian Wilson e Lou Reed hanno pubblicato con l'etichetta di Stein. L'ex Velvet Underground, che firmò per la Sire alla fine degli anni Ottanta dopo aver chiuso con la RCA, ha pubblicato per l'etichetta di Stein alcuni dei suoi lavori più belli dell'ultima fase della sua carriera da “New York” a “Ecstasy” passando per il tributo a Andy Warhol con John Cale, “Songs for Drella”.

[…]

Marco Giusti per Dagospia il 3 aprile 2023.

Se ne va anche il battagliero Nico Cirasola, 71 anni, produttore, regista, sceneggiatore, ma anche esercente e editore, ma soprattutto decano dei cineasti indipendenti italiani e pugliesi in particolare. Non si è mai fermato di fronte a nessun ostacolo, né creativo né ministeriale per portare avanti un progetto. Il suo corpo a corpo con le istituzioni per fare il suo cinema è leggendario. Magari non faceva film perfetti e da grande sale, ma riusciva sempre a stupirci con mille idee produttive e con la grande simpatia. Era molto amato. "Tutti i registi pugliesi gli devono qualcosa", ho letto.

Nato a Gravina di Puglia nel 1951, si era spostato a Bari per frequentare l’Università, dando vita a una grande attività culturale al Centro Santa Teresa dei Maschi nel cuore di Bari. Non ha mai voluto trasferirsi a Roma , dove forse avrebbe trovato più fortuna, e lasciare la Puglia. E in Puglia si è mosso da cineasta indipendente. Il suo primo film, “Odore di pioggia” con Totò Onnis, Agnes Vissgard, Renzo Arbore, Nico Salatino, é del 1989, seguito dalla regia di un film collettivo a episodi, “Corsica”, nel 1991.

Il suo titolo più surreale e più curioso, “Da do da” “Da do da”, cioè “da qui a là”, con Totò Onnis, Gilla Novak e Donato Castellaneta, aprì nella Venezia del 1994 il “Salon des Refusés”, i film rifiutati dalla Mostra del Cinema. Ero in prima fila. Non ci capii assolutamente nulla. Parla già di immigrati illegali con “Albania Blues”, 2000, scritto assieme a Agostino Ferrente con Valentina Chico, suo figlio Luca e lui stesso nel ruolo di un antennista.

 Col più tardo “Bell’epoker”, interpretato da Dino Abbrescia, Totò Onnis, Laura Marinelli, Nino Frassica, gira nel 2003 una specie di storia del Teatro Petruzzelli di Bari. Nel 2009 con “Focaccia Blues” che vede tra gli interpreti Dante Marmone, Renzo Arbore, Lino Banfi, Michele Placido, Nichi Vendola, fa un omaggio alla focaccia di Altamura. Più complessa l’operazione di dar vita al mito di Valentino con “Rudy Valentino”, finito nel 2009 e interpretato da Claudia Cardinale, Celeste Casciaro, Alessandro Haber, Nicola Nocella, Lucio Montanaro.

 Ha fatto anche l’attore in film di amici. “L’estate di Bobby Charlton” di Massimo Guglielmi, “Un altro giorno ancora” di Tonino Zangardi, “Sangue vivo” di Edoardo Winspeare, “Francesca e. Nunziata” di Lina Wertmuller, “Se sei così ti dico sì” di Eugenio Cappuccio. La sua ultima apparizione al cinema è come attore in “Il maledetto” di Giulio Base, versione pugliese addirittura del “Macbeth” di Shakespeare.

 Leggo che ha pure messo in scena il cortometraggio "Dear Silvestro", omaggio a Silvestro Stallone, nonno del celebre attore Sylvester, barbiere di Gioia del Colle che nel 1932 partì per l’America in cerca di fortuna. Negli ultimi anni, sembrava aver superato la grave malattia che lo aveva colpito qualche tempo fa. E’ morto improvvisamente mentre stava a Roma con la moglie.

Cinema in lutto: scomparso il regista Nico Cirasola, oggi i funerali a Roma, dopo Pasqua un momento di saluto in Puglia. Nato a Gravina, ha debuttato accanto a Renzo Arbore in Odore di Pioggia (1989). Ultimo saluto all'ABC di Bari dopo la cremazione. REDAZIONE ONLINE su La Gazzetta del Mezzogiorno il 3 Aprile 2023

Giorno di lutto per il cinema nazionale, specialmente pugliese: all'età di 72 anni non ancora compiuti è morto a Roma il regista Nico Cirasola, nato a Gravina in Puglia. Oggi 4 aprile alle 16.15 nella chiesa di S. Elena al Pigneto a Roma (ingresso da Via Avellino, 4) il saluto con gli amici romani. Dopo Pasqua previsto un saluto nella sua Puglia.

Si interessa da giovanissimo al mondo del cinema e nel 1982 cura il libro "Da Angelo Musco a Massimo Troisi. Il cinema comico meridionale" per Edizioni Dedalo. Debutta a 38 anni, accanto a Renzo Arbore, in Odore di pioggia (1989). Poi continua ad abbinare regia e interpretazione in Corsica (1991) e in Da do da (in dialetto significa: “da qua a là”, 1994). Recita, quindi, nel 1995 in due film: in Un altro giorno ancora interpreta un portiere d'albergo e ne L'estate di Bobby Charlton ha il ruolo di cameriere. Nel 2000 è l'interprete di Sangue vivo.

Dopo queste esperienze, decide di ritornare alla regia con Albania blues (2000), poi con Bell'epoker (2003–2004) ed infine con Focaccia blues (2009). In questi lavori si distingue per lo stile asciutto relativamente a scene, ambienti, personaggi, narrazione e dialoghi. Nel 2010 firma il corto Signor Gi Bi, sulla vita di Gino Boccasile.

IL CORDOGLIO DI DECARO ED EMILIANO

«Nico Cirasola è stato un uomo di cinema a tutto tondo, una figura eccentrica e irregolare che si è misurata con la scrittura, la regia, l’interpretazione e la produzione. Un entusiasta, un artigiano del cinema, un uomo profondamente legato a questa terra, ai suoi volti e alle sue storie.

Con ‘Odore di pioggia’ ci ha regalato un insolito racconto on the road di una Puglia mitica, mentre con ‘Focaccia blues’ ha firmato un documentario che è un piccolo gioiello sul conflitto tra locale e globale declinato sui temi dell’alimentazione. Di Nico Cirasola mi hanno sempre colpito la vitalità, la capacità di innamorarsi di progetti sempre nuovi, lo sguardo libero e originale con cui ha guardato il mondo e ha scelto di vivere la sua vita.

Nel suo lavoro si è circondato dei migliori attori pugliesi, ma molti sono anche i protagonisti della scena nazionale apparsi nei suoi film. Oggi Bari perde un testimone sensibile e originale: ai suoi familiari e a chi gli ha voluto bene giunga l’abbraccio di tutta la città».

«Per cercare di riassumere e descrivere l’uomo, il regista e l’artista Nico Cirasola bisogna forse rivedere il film “Il mio nome è Nico Cirasola”, che Giovanni Piperno gli ha dedicato nel 1998. Certo, da allora, Nico di film ne ha girati tanti. E ha girato il mondo per presentare le sue opere, raccontando storie che hanno quasi sempre avuto la Puglia come comune denominatore. Uomo dall’intelligenza e creatività vivacissime, sempre disponibile, appassionato del suo lavoro e grande animatore di iniziative culturali, Nico Cirasola lascia a tutti coloro che lo hanno conosciuto, stimato e amato, tracce significative del suo percorso.

Ogni volta che ci incontravamo era sempre l’occasione per condividere una sua nuova idea, frutto della sua inesauribile progettualità. La Puglia oggi saluta e rende onore a un vero cineasta indipendente che ha dedicato una vita intera alla cultura, al cinema, all’arte. Alla sua famiglia, ai suoi cari, al suo pubblico vanno il mio affetto e il mio sentito cordoglio». Sono le parole di cordoglio del presidente della Regione Puglia Michele Emiliano per la scomparsa del regista, sceneggiatore e artista Nico Cirasola. 

Estratto dell'articolo di Angela Calvini per “Avvenire” il 4 aprile 2023.

Il prolifico compositore, produttore e artista Ryiuchi Sakamoto è morto all'età di 71 anni, dopo aver lottato contro il cancro, il 28 marzo scorso […] ma la sua musica vive ancora. […] E’ uscito a inizio anno per Milan Records 12, il quindicesimo album in studio da solista di Sakamoto e il primo di nuovo materiale solista dal 2017. L'album contiene 12 canzoni selezionate da una raccolta di schizzi musicali che Sakamoto ha registrato come un diario sonoro tra il 2021 e il 2022 durante la sua continua battaglia contro il cancro. […]

 […] scriveva Sakamoto all’uscita del disco -. Verso la fine d marzo, proprio quando il mio corpo si sentiva un po' più leggero, mi sono ritrovato a mettere le mani sul sintetizzatore. Non avevo intenzione di comporre qualcosa; volevo solo essere sommerso dal suono. Avevo la sensazione che avrebbe avuto un piccolo effetto curativo sul mio corpo e sulla mia anima danneggiati.

Fino a quel momento, avevo a malapena l'energia per ascoltare la musica, per non parlare di suonare qualcosa. Ma dopo quel giorno, ho iniziato a toccare di tanto in tanto i tasti del sintetizzatore e del pianoforte e ho iniziato a registrare piccoli schizzi di suoni come per scrivere un diario. Ho provato a scegliere 12 dei miei schizzi preferiti per questo album. Non ci sono ornamenti: li sto intenzionalmente proponendo così come sono. D'ora in poi, fino a quando il mio corpo non cederà, probabilmente continuerò a tenere questo tipo di “diario”».

[…]

Marco Molendini per Dagospia il 2 aprile 2023.

«Questo potrebbe essere il mio ultimo concerto»: aveva annunciato Ryuichi Sakamoto a dicembre, presentando una sua quadrupla performance trasmessa in streaming in tutto il mondo. Un concerto frutto di un montaggio, registrato canzone per canzone, senza nascondere le difficoltà fisiche: "Le mie forze sono davvero diminuite, quindi fare un normale concerto di novanta minuti sarebbe molto complicato", la confessione pubblica di una battaglia contro durata dieci anni, da quando gli era stato diagnosticato un cancro alla gola e poi, più recentemente, al colon.

 Se ne è andato ieri Ryuichi, coi suoi 71 anni e lasciando, come addio, un filmato visivo rigoroso in bianco e nero, il suo viso scavato, circondato dai capelli bianchi e da grandi occhiali, le mani su un Yahama dal suono pastoso, un raccoglimento assoluto, testimonianza di una storia potente, larga, sentimentalmente forte.

Sakamoto amava far musica, l'amava a tal punto da non conoscere confini. Compositore e esecutore alla ricerca della creazione continua fin dal suo esordio, quando negli anni 80 era ancora giovanissimo, con la Yellow magic orchestra, formazione pioniera nell'uso di sintetizzatori (che dovevano produrre suoni "fatti su misura per gli amanti del divertimento»), computer, drum machine. Era un primo deciso tentativo di avviare la musica giapponese alle contaminazioni senza perdere la propria identità. Strada, questa, che Ryuichi ha sempre seguito in ogni sua avventura pur non nascondendo il profondo debito verso la musica occidentale, tutta la musica occidentale.

E le sue avventure sono state tante. Si è mosso nei territori del rock, della dance music, ha collaborato con David Sylvian, Cesaria Evora e Caetano Veloso, si è spostato nei lidi morbidi della bossa nova (tra l'altro ha realizzato un sofisticatissimo omaggio a Antonio Carlos Jobim). E' stato indispensabile autore di colonne sonore cinematografiche per Bernardo Bertolucci (da Il te nel deserto a L'ultimo imperatore, dove c'è anche la firma di David Bowie, a Piccolo Buddha), dimostrazione piena della sua inclinazione per le melodie di stampo occidentale ma coniugate da riferimenti al gusto orientale come quel tema, Goodbye, Mr.Lawrence, scritto per il film Furyo, in cui faceva anche l'attore accanto a Bowie.

 A un certo punto, a conferma di quale fosse la passione e il suo divertimento nel giocare con i suoni, si è dilettato perfino a comporre suonerie per i telefonini: Ricordo perfettamente una sera a Londra, dopo essersi esibito con Alva Noto, sound artist di origini tedesche, mostrare soddisfatto sul suo cellulare un elenco di invenzioni sonore per i cellulare: «Mi diverte moltissimo» confessò con la sua riservatezza.

Una riservatezza culturale per cui, quando ha scoperto di avere un tumore alla gola, annunciando di dover interrompere la sua attività concertistica, dichiarò: «Sono profondamente dispiaciuto del fatto di causare notevoli disagi a così tante persone. Tuttavia, la prima ricchezza è la salute, e quindi questa è la mia amara decisione».

Il giorno del suo compleanno, lo scorso 17 gennaio, è uscito un suo ultimo album intitolato 12 (numero che in simbologia rappresenta i passaggi difficili): sono dodici brani manifesto di un dolore e di uno smarrimento che Ryuichi poteva raccontare solo in musica accompagnandola con una preghiera: «Spero di poter fare musica fino ai miei ultimi momenti, proprio come i miei amati Bach e Debussy».

Estratto da lastampa.it il 2 aprile 2023.

Il musicista giapponese Ryuichi Sakamoto è morto all'età di 71 anni, come riportato dal quotidiano Yomiuri. Il famoso compositore a gennaio del 2021 aveva fatto sapere di avere un cancro al colon, dopo quello alla gola che lo aveva colpito nel 2014. Il musicista si è spento il 28 marzo, ma l’annuncio della sua morte è stato dato solo oggi. È già stato celebrato il funerale – ha fatto sapere il suo manager – a cui hanno partecipato solo i familiari più stretti, su sua richiesta. […]

Nato a Nakano nel 1952, e considerato uno dei primi sperimentatori tra la musica etnica orientale e i suoni elettronici dell'Occidente, Sakamoto aveva ricevuto numerosi riconoscimenti in carriera tra cui il premio Oscar nel 1987 per la colonna sonora del film L'Ultimo imperatore, diretto dal regista italiani Bernardo Bertolucci. […]

Dalla pagina dei necrologi del “Corriere della Sera” il 3 aprile 2023.

Mi stringo alla cara Norika per la perdita dell’immenso e sublime Ryuichi Sakamoto

Luca Guadagnino. - Milano, 2 aprile 2023.

 L'importanza cruciale di Ryuichi Sakamoto nella cultura mondiale dell'ultima parte del Novecento e delle prime due decadi del successivo è legata alla sue impressionante comprensione delle trasformazioni della vita che erano e sono tantopiù in corso.-

Solo attraverso un incontro profondo e spesso gioioso con l'altro-da-sé macchinico, seppe arrivare al nucleo più inscalfibile della nuova sentimentalità residua degli umani, struggente e per questo devastante.-

 Non si trattava solo di un eccelso compositore musicale, ma di uno dei più importanti filosofi biopolitici dalla ricerca incessante, dall’umiltà e eleganza senza uguali.- È anche grazie a Sakamoto se siamo ancora noi, e vedremo per quanto.  Carlo Antonelli, Luca Guadagnino - Milano, 2 aprile 2023

Addio a Ryuichi Sakamoto, il genio delle colonne sonore. Gianni Poglio su Panorama il 02 Aprile 2023

Musicista e compositore, ha legato il suo nome a indimenticabili colonne sonore di film. Tra le tante, quella de L'ultimo Imperatore di Bernardo Bertolucci con cui ha conquistato un Oscar nel 1987

È morto a 71 anni Ryiuchi Sakamoto, il musicista e compositore giapponese che ha legato il suo nome e la sua carriera a musiche da film indimenticabili. Dopo aver esordito come solista nel 1978 con l'album Thousand Knives, Sakamoto entrò nella Yellow Magic Orchestra la band giapponese che inventò una nuova formula musicale combinando gli ingredienti classici del pop con la musica elettronica. Ad accrescere la sua fama mondiale le colonne sonore scritte per film che hanno segnato un'epoca. A cominciare da quella di Furyo, diretto da Nagisa Oshima, in cui il compositore recitava con David Bowie. Nel 1987 ha conquistato un Premio Oscar per la colonna sonora de L'ultimo Imperatore (composta con David Byrne e Cong Su) il capolavoro di Bernardo Bertolucci. Sempre opera sua sono le musiche che accompagnano le immagini di Il tè nel deserto e Piccolo Buddha diretti entrambi da Bertolucci. Nel 1992 ha scritto la soundtrack di Tacchi a spillo di Pedro Almodovar. Tra i suoi lavori più recenti come compositore il commento sonoro di Revenant - Redivivo, il film diretto da Alajandro Gonzàles Inàrritu. Numerose le sue collaborazioni con altri artisti. Tra le tante spiccano quelle con David Sylvian , Iggy Pop, Caetano Veloso, Cesaria Evora e Alva Noto.

Ryuichi Sakamoto, morto il compositore giapponese premio Oscar nel 1988. Barbara Visentin su Il Corriere della Sera il 2 aprile 2023.

Premio Oscar per «L’Ultimo imperatore», film del 1987 di Bernardo Bertolucci

«Sinceramente non so quanti anni ho ancora davanti. Ma so che voglio continuare a fare musica. Musica che non mi vergognerò di lasciare dietro di me, significativa». Ryuichi Sakamoto già nel 2017, raccontandosi nel documentario sulla sua vita «Ryuichi Sakamoto: Coda», immaginava che il cancro alla gola debellato tre anni prima avrebbe potuto ripresentarsi. Il suo interesse per la musica era però rimasto incessante, forse si era fatto ancora più ostinato.

Il compositore giapponese, premio Oscar per la colonna sonora del film «L’ultimo imperatore», si è spento martedì scorso a 71 anni e ha «vissuto con la musica fino all’ultimo», sottolinea il comunicato del suo entourage che ha divulgato la notizia della sua morte solo oggi. In cura per un nuovo tumore, questa volta al retto, scoperto nel 2020 e arrivato lo scorso anno al quarto stadio, coinvolgendo anche i polmoni, «ha continuato a lavorare nel suo studio casalingo ogni qualvolta la salute glielo abbia permesso».

D’altra parte, Sakamoto era la sua arte: nato nel 1952 a Nakano, Tokyo, aveva studiato pianoforte e si era laureato in composizione. Alle superiori, racconta la biografia del suo sito ufficiale, doveva prendere un treno affollatissimo per andare a lezione: «Impossibilitato a muoversi, tutto ciò che il teenager Sakamoto poteva fare era ascoltare», individuando oltre 10 suoni diversi prodotti dal treno e andandoli a cercare ogni mattina. Un allenamento che l’aveva reso un ascoltatore curioso e instancabile, convinto che «qualsiasi cosa possa essere musica».

Affascinato tanto dai Beatles quanto da Debussy, da John Cage e John Coltrane, alla fine degli anni 70 era entrato negli Yellow Magic Orchestra, gruppo antesignano del synth pop che già dava spazio alla sua passione per l’elettronica e la sperimentazione. Ma è con la musica per i film, proseguita in parallelo a una lunga schiera di album solisti, che il suo nome è diventato uno dei più apprezzati degli ultimi decenni.

A segnare la svolta è stato «Furyo» da cui arriva la celebre «Forbidden colours», versione cantata da David Sylvian del tema del film: bastano cinque note per identificarla e per immortalare uno dei tratti distintivi del genio di Sakamoto, ovvero il saper fondere i suoni orientali agli strumenti occidentali, arrivando a toccare l’anima di chi ascolta. Nel film del 1983, diretto da Nagisa Oshima, Sakamoto debutta anche come attore, capitano dell’esercito rinchiuso in un durissimo campo di prigionia, attratto da un ufficiale neozelandese, interpretato niente di meno che da David Bowie. «Il regista mi chiese come prima cosa di recitare. E in effetti prima vennero fatte le riprese, poi feci la colonna sonora. Sono quasi caduto dalla sedia guardando la mia recitazione pessima, ma tutta l’emozione è finita nella musica», disse Sakamoto di quell’esperienza. E anche se tornò a recitare in altre occasioni, si riconosceva solo nelle sue composizioni.

Con «L’ultimo imperatore», (1987) arrivò l’Oscar, uno dei nove vinti dal film di Bernardo Bertolucci nel 1988: Sakamoto condivise le musiche con David Byrne e Cong Su, in un esperimento del regista di far incontrare Oriente e Occidente con i compositori oltre che nella lavorazione. «La cosa divertente è che molta gente ha pensato che io avessi scritto le parti cinesi della musica e David Byrne quelle occidentali. Invece è stato il contrario», raccontò poi Sakamoto. Tornò a lavorare con il regista italiano anche ne «Il piccolo Buddha» e «Il tè nel deserto», definendolo «un padre, un fratello, un amico». Tra le colonne sonore di oltre 30 film (da «Tacchi a spillo» di Almodovar a «Revenant» di Inarritu), fece incursioni disparate, come la musica per l’apertura dei Giochi olimpici di Barcellona nel 1992 e, in tempi più recenti, per un episodio della serie «Black Mirror».

Fitti capelli bianchi e occhialini tondi, elegante e minimalista nella sua immagine così come nelle sue composizioni, si definiva «timido e non esibizionista». Oltre alla musica, però, era un acceso attivista ambientale, coinvolto nei movimenti contro l’uso del nucleare soprattutto in seguito al disastro di Fukushima. Il suo funerale, si legge nel comunicato, verrà svolto in maniera privata, aperto solo alla famiglia. E lui viene ricordato attraverso una delle sue citazioni preferite: «Ars longa, vita brevis», l’arte è lunga, la vita è breve.

Quando Ryuichi Sakamoto raccontò: "Per la morte di Bertolucci mi sono seduto al piano e ho scritto per lui". Nel 2019 il grande autore giapponese, premio Oscar per la colonna sonora de 'L'ultimo Imperatore', venne in Italia per un'installazione, un concerto con Alva Noto e un film a lui dedicato da Giulio Boato nell'ambito del Festival Romaeuropa. Qui racconta la sua visione dell'arte e della musica, il suo impegno per l'ecologia e l'amore per Bernardo Bertolucci. Luca Valtorta su La Repubblica il 3 aprile 2023

Guardo sul taccuino per l’ennesima volta i nomi delle band che Ryuichi Sakamoto mi ha consigliato di ascoltare dopo l’intervista. Era il 23 novembre 2019. Il giorno successivo avrebbe suonato all’Auditorium Parco della musica di Roma insieme ad Alva Noto: un concerto dove si incontrano due stili, due anime e due tradizioni musicali molto diverse, anticipato pochi giorni prima dall’album Two, la registrazione di un concerto all’Opera House di Sidney che ne svela le trame anche se ogni concerto sarà inevitabilmente molto diverso (dopo sveleremo il perché). Un mese prima era uscita per la prima volta fuori dal Giappone, la riedizione di A Thousand Knives, il suo primo album.

Il racconto dell'incontro

Sul tavolo dell’incontro bottigliette di plastica tranne che per Sakamoto che ha portato la sua borraccia a dimostrazione che il suo impegno ecologista non è di facciata

Il concerto è estremamente raffinato: vi si incontrano i suoni evanescenti e minimalisti del piano di Sakamoto e l’elettronica rarefatta del compositore tedesco. Non è neppure necessario chiudere gli occhi perché la mente possa vagare in spazi siderali, mondi inesplorati dove il calore umano e la freddezza aliena si intrecciano dando luce (e buio) a nuove forme di vita.

Dopo l'evento c’è un incontro per festeggiare i due musicisti: Sakamoto, uno degli uomini che ha davvero cambiato la faccia della musica contemporanea a partire dal pioneristico lavoro con la Yellow Magic Orchestra per poi passare da colonne sonore indimenticabili alla sperimentazione sonora e a un’arte sempre più multimediale, è gentile e disponibile ma soprattutto, non altero e distaccato ma incredibilmente curioso. Vuole sapere se ci sono artisti interessanti in Italia e alla domanda analoga sul Giappone risponde facendo tre nomi. Il primo è quello dei Bo Ningen, un gruppo noise psichedelico, il secondo le Otoboke Beaver, una art-punk band femminile di Kyoto e la terza sono i C.C.C.C. (Cosmic Coincidence Control Center) influenzati dal teatro Butoh (non a caso troviamo uno dei grandi interpreti di questa arte, Min Tanaka, collaborare in diverse occasioni con Sakamoto).  

Dall’annuncio della malattia molte volte il pensiero è andato a quella persona dall’aspetto sobrio ed elegante ma inaspettatamente gentile e ironica, capace di costruire mondi sonori sempre diversi. Proprio su Robinson, il settimanale culturale di Repubblica di questa settimana, una serie di circostanze mi ha portato a scrivere del suo ultimo lavoro “12”, il suo testamento in musica. Un ascolto che lascia colpiti, a cui si arriva alla fine stremati, un’opera impossibile da dimenticare. Mi sono trovato a pensare che ho ascoltato questo album probabilmente proprio negli ultimi momenti della vita terrena di Sakamoto ma non so cosa voglia dire o se significhi qualcosa. Per Jung, che definiva eventi come questo “sincronicità”, esiste una rilevanza tra fenomeni non collegati dalla causalità.

L'intervista del 23 novembre 2019

Questa intervista è stata da me realizzata come evento pubblico al Palazzo delle Esposizioni di Roma il 23 novembre del 2019 per presentare il documentario di un giovane regista italiano, Giulio Boato, intitolato Shiro Takatani. Between nature and technology di cui Sakamoto è uno dei protagonisti. Fino ad oggi è rimasta inedita.

Lei, oltre a essere un grande compositore e pianista, è anche uno dei maggiori innovatori e sperimentatori della musica contemporanea. Con Takatani ha avuto modo di collaborare in diverse occasioni con progetti come Life del 1999, Garden Live del 2005, Collapsed del 2012 fino a Plankton. Come è nata questa lunga e importante collaborazione?

"All’inizio degli anni Novanta sono rimasto profondamente colpito dalla visione di uno spettacolo teatrale della compagnia Dumb Type di cui Takatani era il fondatore. Mescolava danza e tecnologia e quello che più mi piaceva era la crudeltà del loro immaginario che era al tempo stesso futuristico e postmoderno. Takatani ha avuto un ruolo fondamentale nella definizione dell’aspetto visuale e il design di quella performance. Qualche anno dopo quando ho iniziato a lavorare al mio primo lavoro teatrale, Life, ho chiesto a Shiro di occuparsi di tutti gli aspetti estetici di questo lavoro che era veramente molto ambizioso perché includeva un’orchestra, un coro di bambini e altre varie componenti da legare sotto il profilo visivo oltre che da quello sonoro. Shiro realizzò un lavoro veramente meraviglioso e così quello fu l’inizio della nostra lunga collaborazione. Da Life è stata tratta anche una installazione proprio traducendo e decomponendo lo spettacolo teatrale. L’abbiamo chiamata Digital Life e la potete vedere qui a Roma allo Spazio Pelanda di Testaccio: è stato molto interessante per noi realizzare questo lavoro di traduzione e adattamento da una forma espressiva a un’altra".

Un’altra collaborazione si intitola Plankton e affronta un altro rapporto che nella cultura giapponese è profondamente innervato: quello tra natura e tecnologia. Come avete lavorato a questo particolare progetto?

"Mmm (pensa e intanto annuisce, ndr)… Fin dai primi anni Novanta, anzi dal 1992 per essere precisi, la questione dell’ambiente per me è diventata centrale e ho iniziato a chiedermi cosa potessi fare per salvare il pianeta Terra e siccome il plancton ha un ruolo centrale nel nostro ecosistema ho cercato un modo esprimere questi concetti attraverso il mio lavoro da compositore. Il mio processo lavorativo funziona così: prima rifletto a lungo e poi lentamente metabolizzo questi pensieri ma in un modo non diretto. Probabilmente se fossi un cantante o uno scrittore sarebbe diverso, credo che li affronterei in maniera molto più immediata ma essendo un compositore fluiscono nella mia opera in modo astratto. Nel senso che non canto, non urlo cose come 'forza, salviamo tutti quanti l’ambiente!'. Quindi chi ascolta deve codificare qualcosa di molto simbolico, di astratto che, spero, riesce a trasmettere i miei pensieri, le mie sensazioni. Diciamo che questa è proprio la mia modalità di espressione rispetto ai temi che di volta in volta affronto attraverso la musica".

Lei è stato un grande anticipatore: si occupava di questi temi molto tempo prima che lo facessero i Radiohead, i Coldplay o molti altri artisti che, per fortuna, oggi sono diventati a loro volta portatori di un messaggio ecologista. So che non si è limitato al suo lavoro artistico ma ha proprio contribuito con del denaro a un’opera di riforestazione della foresta amazzonica.

"Lei conosce molto bene i miei sforzi in difesa dell’ambiente, mi fa piacere (ride, ndr). Ho iniziato questa pratica concreta di darmi da fare contro i danni che arrechiamo all’ambiente a partire da un concerto del 2001 in Giappone in cui ho piazzato delle cyclette nel foyer del teatro nel quale facevo il concerto e ho chiesto al pubblico di pedalare affinché potessero generare dell’energia elettrica che sarebbe poi stata utilizzata per il concerto".

Ha funzionato?

"Certo! Simbolicamente la pedalata degli spettatori ha fornito l’energia necessaria per illuminare una potente lampadina piazzata sul palcoscenico del teatro".

Come è avvenuta invece la sua collaborazione con Alva Noto, un altro grande compositore e artista multimediale tedesco? Insieme a lui ha fatto ben otto album.

"Collaboro con lui dai primi anni 2000. Oltre che compositore è anche un artista visivo e fa entrambe le cose molto bene tanto che le sue opere sono esposte alla Tate Modern di Londra o al Guggenheim di New York. Il modo in cui lui compone musica mi ispira moltissimo perché è completamente diverso dal modo tradizionale, è davvero molto, molto particolare…".

Ovvero?

"Carsten (Carsten Nicolai è il vero nome di Alva Noto, ndr) ha un approccio alla musica molto simile a quello che avrebbe un matematico: è molto concentrato sui numeri mentre io ho ricevuto una formazione assolutamente classica, ma al tempo stesso sono molto incuriosito da nuovi approcci alla composizione musicale e alla musica in generale. Qualche tempo fa abbiamo fatto delle session di musica improvvisata nella Glass House, un edificio dalle pareti fatte di vetro che si trova nel Connecticut costruito dall’architetto Philip Johnson. È un luogo veramente iconico: ci sono delle foto d’epoca di Andy Warhol seduto sul retro ed un luogo interessante perché ci sono delle rifrazioni sonore molto particolari, così abbiamo deciso di farci un concerto".

Avevate già fatto delle improvvisazioni in concerto?

"No, mai. Questa è stata la prima volta in assoluto, non ci era mai capitato prima e penso che ad ispirarci sia stata sia la particolarità del luogo ma anche la meravigliosa natura che ci stava intorno. Così abbiamo improvvisato per trenta lunghi minuti. Il primo ad essere sorpreso è stato Carsten, che avendo questo approccio matematico non ha mai apprezzato molto l’idea di improvvisare però in quell’occasione ha deciso di farlo. E visto che era venuto così bene da quel momento abbiamo deciso di inserire un momento di improvvisazione anche nei nostri concerti".

Anche nel concerto di domani sarà così?

"Sì. Ci saranno naturalmente dei brani strutturati ma tra un pezzo e l'altro ci dedicheremo anche a dei momenti di improvvisazione. Quindi sarà uno spettacolo con dei pezzi noti che verranno eseguiti in maniera letterale ma ci saranno anche cose assolutamente imprevedibili".

(reuters)Lei ha vinto un Oscar e un Grammy per la colonna de L’ultimo Imperatore di Bernardo Bertolucci con cui ha lavorato anche per Il tè nel deserto e Il piccolo Buddha. Che ricordo ha di lui?

"Sono proprio un maniaco dell’opera di Bernardo (lo dice in italiano, ndr). La mattina in cui ho appreso della sua morte ho avuto come una sorta di illuminazione, come un’ispirazione: è come se la forza della sua arte mi avesse accarezzato ancora una volta. Ho sentito l’impulso di sedermi al pianoforte e di comporre un brano che ho registrato e mandato a Clara, la moglie di Bertolucci, affinché questo breve video potesse essere utilizzato e proiettato per la cerimonia commemorativa in suo onore".

Lo suonerà?

"È la prima volta che vengo a Roma dalla sua morte. Ho scritto quel pezzo pensando a lui e non posso non suonarlo. Bernardo ha rappresentato qualcosa di davvero importante per me, per la mia vita".

Morta Ada d’Adamo, la scrittrice candidata al Premio Strega. Redazione Cultura su Il Corriere della Sera l’1 aprile 2023

Abruzzese, 55 anni, era appena entrata nella dozzina dei semifinalisti con il suo romanzo d’esordio, «Come d’aria», pubblicato da Elliot. «Il libro resta in gara»

Addio ad Ada d'Adamo. La scrittrice è morta nella notte tra il 31 marzo e il primo aprile nella sua casa di Roma. Nata a Ortona, in Abruzzo, nel 1967, aveva 55 anni e da tempo era malata. Era appena entrata nella dozzina del Premio Strega 2023 con Come d'aria, il suo romanzo d'esordio pubblicato a gennaio 2023 da Elliot, la casa editrice che ne ha annunciato la scomparsa. Giovedì 30 marzo, a Roma, la scrittrice non aveva potuto partecipare alla conferenza stampa in cui avevano annunciato i nomi dei dodici finalisti.

«Solo due giorni fa festeggiavamo la candidatura allo Strega del suo libro - si legge sull’account Twitter di Elliot -. Oggi piangiamo la sua scomparsa: Ada d’Adamo non c’è più. Se n’è andata stanotte circondata dai suoi affetti più cari. Un pezzetto del nostro cuore se ne va con lei».

Come da regolamento, il romanzo di Ada d’Adamo resterà in gara al Premio Strega 2023: «La morte di Ada D’Adamo ci rattrista profondamente. Non c’è stato il tempo di conoscerla, eppure l’abbiamo amata grazie al suo libro. Nel presentare al pubblico Come d’aria Elena Stancanelli, che lo ha proposto al Premio Strega, ha detto che “incontrare questa storia è un dono”. Ecco, è una consolazione sapere che le parole della scrittrice potranno continuare a raggiungere i suoi lettori. Ai suoi cari va l’abbraccio commosso di tutto il Comitato direttivo del premio Strega».

Nel suo libro, scritto nell'arco di molti anni, una madre racconta alla figlia disabile la scoperta della malattia. Laureata in Discipline dello Spettacolo e diplomata all'Accademia Nazionale di danza, d’Adamo aveva scritto vari saggi sul teatro e sulla danza contemporanea. Grande esperta di libri per l'infanzia, collaborava come editor con l’editore Gallucci.

Ada d'Adamo, morta la scrittrice semifinalista allo Strega. A cura di redazione Cultura su La Repubblica l’1 aprile 2023

La scrittrice Ada D'Adamo (1967-2023) 

Era stata appena nominata tra i 12 candidati al premio con il suo romanzo "Come d'aria", pubblicato per Elliot. Aveva 55 anni ed era da tempo malata

E' morta nella sua casa di Roma la scrittrice Ada d'Adamo. Era appena entrata, solo un paio di giorni fa, nella dozzina finalista del premio Strega con il suo romanzo d'esordio Come d'aria, pubblicato a gennaio da Elliot. Dove dava voce a una madre arrabbiata, che ama follemente la sua bambina.

Nata a Ortona, in Abruzzo, nel 1967, aveva 55 anni e da tempo era malata: non aveva partecipato infatti alla conferenza stampa dello Strega che ha decretato i nomi dei 12 semifinalisti. La sua scomparsa è stata comunicata dalla casa editrice Elliot. Laureata in Discipline dello Spettacolo e diplomata all'Accademia Nazionale di danza, aveva scritto vari saggi sul teatro e sulla danza contemporanea. Grande esperta di libri per l'infanzia, collaborava anche come editor con la casa editrice Gallucci.

Come d'aria è stato presentato allo Strega da Elena Stancanelli. La scrittrice era malata da tempo e lo stesso libro, scritto nell'arco di molti anni e con cui ha ricevuto straordinari e unanimi consensi, racconta la storia di una madre cinquantenne che scopre di essersi ammalata e di sua figlia Daria, il cui destino è segnato sin dalla nascita a causa di una mancata diagnosi. Una storia vera, l'ultima storia di Ada d'Adamo, offerta al lettore con uno straordinario senso per la verità. La sua ultima presentazione del libro era realizzata proprio nel suo Abruzzo, il 24 marzo al Museo delle Genti d'Abruzzo di Pescara.

La casa editrice Elliot ha pubblicato un messaggio sulle sue pagine social per dare la notizia dove si legge: "Siamo molto addolorati per la scomparsa della scrittrice Ada d'Adamo, che da pochi mesi aveva pubblicato con noi il suo meraviglioso Come d'aria. È difficile trovare le parole giuste, ci stringiamo forte ad Alfredo e a Daria, e a tutte le persone a lei care".

"Come d'aria è un libro che fruga dentro il cuore del lettore. Serviva la lingua esatta e implacabile di questa scrittrice per riuscire a sostenere un sentimento tanto feroce". Con queste parole, Elena Stancanelli ha presentato il libro di Ada d'Adamo per il Premio Strega 2023. Il libro è arrivato tra i dodici finalisti ed è quindi in corsa per la vittoria. È una storia che prende inevitabilmente spunto dalla vita della scrittrice, raccontando la scoperta della sua malattia e il rapporto con sua figlia, nata con una grave malformazione cerebrale.

Alfio Cantarella, morto a 81 anni il batterista dell'Equipe 84. Matteo Sorio su Il Corriere della Sera il 30 Marzo 2023

Verona, Cantarella si era ritirato a vivere a Villafranca. Era stato anche il produttore di Zucchero

C’era lui dietro i rullanti e tamburi di «29 Settembre», «Nel cuore e nell’anima», «Un angelo blu». Cioè alcuni dei grandi successi di quello ch’è stato il gruppo beat più popolare. È morto Alfio Cantarella, batterista storico dell’Equipe 84. La notizia arriva da Villafranca, il paese veronese dove Cantarella viveva da una trentina d’anni. Siciliano d’origine — nato a Biancavilla, Catania, nel 1941 — Cantarella era ricoverato da qualche giorno nel reparto di terapia intensiva dell’ospedale Magalini, nel paese a quindici minuti d’auto dalla città. Lui, Maurizio Vandelli (chitarra, voce), Victor Sogliani (basso) e Franco Ceccarelli (chitarra) sono la formazione storica dell’Equipe 84, quella del successo negli anni Sessanta e Settanta, un capitolo indimenticabile di quel periodo. 

Organizzatore di eventi musicali negli anni '90

Finita quell’avventura, Cantarella è rimasto nel mondo della musica come produttore (Zucchero) e organizzatore, stabilendosi a Villafranca insieme alla moglie Lina, veronese. Proprio lì, nella cornice del Castello Scaligero, sono stati diversi gli eventi propiziati da Cantarella soprattutto negli anni Novanta: tra gli altri i concerti di New Trolls, Le Orme, Banco del Mutuo Soccorso. A Verona poi, Cantarella, è stato anche curatore di Verona Beat fra 2000 e 2006, dopo aver ricevuto il testimone da Renato dei Kings. Alla scomparsa di Lina, Cantarella era rimasto a Villafranca, trasferendosi però in un centro servizi per anziani, la Piccola Fraternità, nella frazione di Dossobuono, dove lo scorso luglio aveva festeggiato gli 81 anni insieme agli amici dell’epoca del Beat.

Dario Salvatori per Dagospia il 5 aprile 2023.

Maurizio Vandelli piange il suo batterista, Alfio  Cantarella, morto il 30 marzo a 82 anni. “Ormai unico rimasto di quei quattro ragazzi di Modena che amavano tanto la musica inglese e americana  -  dice Vandelli  -  la notizia della sua scomparsa mi è arrivata proprio il 30 marzo, il giorno del mio compleanno.”

 Insieme dal 1963, l’Equipe 84, fu la prima formazione a fare del merchandising.

 Perché Equipe 84?

Perché  ci piace –L’ Equipe- un giornale famoso che non abbiamo  mai letto.”

 E’ vero che 84 è la sommatoria della vostra età

No, quasi…”

 E’ vero che avete il bassista più alto del mondo e il batterista più basso del mondo?

Questo si. Victor è alto 1,96 e suona il basso, Alfio è alto 1,51 e suona la batteria”

 E’ vero che siete proprietari del – Club 84- il night più famoso di Roma?

No, magari!”

 E’ vero che siete sponsorizzati dallo Stock 84?

Ci sarebbe piaciuto, ma quando ci hanno visto hanno chiamato subito la sicurezza”.

Tipica intervista beat.

Maurizio Vandelli non ama parlare del passato, nel suo caso glorioso, ama rimanere su pezzo, preferisce fidelizzare gli amici e stupirli suoi sui gusti musicali, sempre avanti. Informatissimo, recita nomi che sfuggono anche agli addetti ai lavori.

 Allora Maurizio, chi ti piace in questo momento?

Achille Lauro.”

Possiamo cambiare discorso?

Ok, mi piace non rimanere indietro, rispetto a certi miei colleghi, ascolto emittenti notturne. Mi placo solo quando sento di aver fatto una scoperta.”

 Per la verità lo facevi anche quasi sessant’anni fa. Quando di notte ti sintonizzavi su Radio Luxembourg e con il tuo Geloso registravi quello che potevi e il giorno dopo lo proponevi agli altri del gruppo.

Proprio così. Se ci penso ero un pazzo. Ascoltavo gli Stones, Beach Boys, Sonny & Cher, Barry Mc Guire, tutti coverizzati ad orecchio. Con sistemi arcaici già allora.”

 In queste ultimi settimane si è parlato molto dei  -Due Lucio-, Dalla e Battisti. Per te due grandi amici, due fratelli anche se in queste ricordanze fra libri, televisione, addirittura dibattiti, il tuo nome è stato ricordato raramente.

Vero. Dalla arrivò terzo al Festival di Sanremo del 1971 con -4 marzo 1943-. Un botto. Noi la interpretammo in modo lirico ma non teatrale. E questo non lo sottolineò nessuno. Comunque successo per Lucio. Meritato. Al Sanremo del 1966 non arrivammo nemmeno in finale noi con “Un giorno tu mi cercherai” e lui con “Paff… bum”.

 Con Battisti il rapporto fu stretto, soprattutto disco graficamente.

Pietruccio dei Dik Dik era amico stretto di Battisti, fino all’ultimo. I primi ad incidere brani di Lucio furono i Ribelli e i Dik Dik, noi però portammo due canzoni al n.1 “29 settembre” e “Nel cuore, nell’anima”, che Lucio non aveva ancora inciso”

29 settembre” chiuse l’epoca beat, si guardava altrove, al modo di incidere dei Beatles, alla psichedelica, ad usare strumenti inediti, tu eri già in prima linea.

Stava cambiando tutto. Vedendo i gruppi inglesi e americani che rimanevano in sala per un anno, cercammo di fare lo stesso e -29 settembre- ne costituisce l’esempio. Divenne una data importante. Quando arrivò Berlusconi, tutti notarono che era nato proprio quel giorno. Quando Lucio pubblicò il suo ultimo disco nel 1994, -Hegel-, fece in modo di farlo uscire il 29 settembre. Data simbolica? Superstizione? Chissà”

 Comunque l’amicizia con Battisti era solida?

In quegli anni certamente si. Ma non perché piazzavamo al n.1 le sue canzoni, cosa che  a lui non era ancora successo.  Nel caso di –Nel cuore, nel anima-, che stava per finire ai Dik Dik, intervenne Mogol. Ma l’amicizia c’era, eccome, era l’unico romano del gruppo. Semplice, comunicativo, simpatico.

Almeno in quegli anni. Comunque nel caso di –Nel cuore, nell’anima-, fui io a scrivere l’arrangiamento, poi si decise di coinvolgere  l’Orchestra della Scala di Milano. Quando si posizionarono tutti i musicisti, il primo violino mi si avvicinò e mi disse che  l’orchestra della Scala non poteva essere diretta da me. Gli dimostrai che avevo scritto io l’arrangiamento, nota per nota. Mi rispose che non poteva essere un musicista non diplomato a dirigerla. Allora  chiamarono Detto Mariano, l’arrangiatore del Clan Celentano.”

 Battisti che rapporto aveva con le sue canzoni, quelle non ancora interpretate da lui?

Fino al 1968, quando portò in gara al Cantagiro –Balla Linda-, si sentiva esclusivamente autore. Mi accorsi che scalpitava. Nel brano –Viaggio di un poeta-, scritto da me, i Dik Dik non suonarono. In studio eravamo io, Lucio , Ellade Bandini alla batteria e alla fine arrivò la voce di Lallo dei Dik Dik”

 Ad un certo punto l’immagine di Lucio cambiò: capelli afro, baffi, foulard. Anche lui psichedelico?

Per niente. I capelli erano naturali, i baffi furono momentanei, i foulard li veniva a prendere, a gratis, nella nostra boutique, “Il cammino mistico”.  Del resto ai Beatles avevamo copiato la Rolls con cui andavamo in giro, la boutique e forse anche il misticismo, ma un po’ alla modenese.”

Estratto da ilsole24ore.com il 28 marzo 2023.

È morto Franco Rosso, l'inventore dei viaggi organizzati in Europa e dei cataloghi per le crociere. Un pioniere nel settore del turismo: cominciò da Torino, da dove aprì nel 1953 la prima sede dell'Ufficio turistico “Franco Rosso”.

 L’imprenditore aveva 94 anni. Il boom negli anni ‘70, con una vastissima offerta di viaggi vacanza in Africa. Negli anni '90, la cessione del ramo viaggi, ceduto quasi interamente ad Alpitour. Successivamente, l’esperienza nel ramo turistico è continuata con la Planhotel group resorts, società di gestione alberghiera con 13 strutture nel mondo, di cui 7 di proprietà. […]

La morte.

La Famiglia.

Le interviste agli altri.

Le interviste a lui.

Il Ricordo di…

La morte.

Da ilfattoquotidiano.it il 27 marzo 2023.

A causa di una breve malattia cardiaca, è morto a 84 anni Gianni Minà. L’annuncio della scomparsa del giornalista e scrittore è comparso sulla sua pagina Facebook ufficiale. Nel breve post, accompagnato da una sua foto, si legge che l’autore di storiche interviste, tra gli altri, ai grandi dello sport, della politica mondiale e del cinema, “Non è stato mai lasciato solo, ed è stato circondato dall’amore della sua famiglia e dei suoi amici più cari”. I familiari hanno voluto inviare un ringraziamento speciale al “professor Fioranelli e allo staff della clinica Villa del Rosario che ci hanno dato la libertà di dirgli addio con serenità”.

Da cinquantamila.it - La storia raccontata da Giorgio Dell'Arti

Torino 17 maggio 1938. Giornalista. Grande esperto di Sudamerica. «Sono amico personale di quattro presidenti: Morales, Castro, Chávez e Lula» (nel 2006).

 • Iniziò la carriera a Tuttosport, quotidiano che avrebbe poi diretto (1996-1998). Dal 1970 alla Rai, nel 1976 curò la sezione spettacolo de L’altra domenica di Renzo Arbore e Maurizio Barendson. Quattro anni dopo collaborò a Mixer. La lunga e discussa intervista a Fidel Castro (immortalata dalla citazione nel film di Oliver Stone Assassini nati) è dell’87. Dal 1991 al 1993 condusse su Raiuno La domenica sportiva.

«Ero precario alla Rai. Collaboravo alla rubrica Dribbling di Maurizio Barendson, che è stato il mio maestro. Era direttore generale Ettore Bernabei, il miglior direttore che la Rai abbia mai avuto. Ricordo Willy De Luca, allora direttore del Tg, che quando andavo a chiedergli lavoro mi diceva: “Senti Minà, ma ce l’hai un santo in paradiso?”. Io gli confermavo che non ce l’avevo. Lui si incazzava: “Ma allora che vuoi?”.

 Poi chiamava i suoi assistenti e diceva: “Vedete di farlo lavorare un po’ di più, per favore”.

 Sempre meglio del periodo socialista quando, dopo Blitz, per 12 anni non riuscii a fare nulla per la Rete Due. Un dirigente cinico ma simpatico mi ha confessato:

 “Mo te lo posso dì. Non te potevo dà da lavorà perché tu stavi su le palle all’omone”» (“omone” era il termine con cui, ai tempi, si indicava Craxi; da un’intervista di Claudio Sabelli Fioretti).

Da ultimo ha fatto undici dvd su Maradona per La Gazzetta dello Sport (dieci li aveva presentati già nel 2007). Ha ricevuto il premio Trabucchi d’Illasi alla Passione Civile 2012 e quello alla carriera Berlinale Kamera 2007, nel 2008 è stato celebrato alla Casa del cinema di Roma nella retrospettiva Una vita da cronista («Rivedere tutte queste cose è il mio riscatto dopo tanti anni di ostracismo da parte della Rai»).

 • Sposato con Loredana, una figlia

Estratto da agenzianova.com il 28 marzo 2023.

Il giornalista e conduttore televisivo Gianni Minà è morto all’età di 84 anni. Lo si apprende dal profilo Facebook dello stesso Minà dove si legge: “Gianni Minà ci ha lasciato dopo una breve malattia cardiaca. Non è stato mai lasciato solo, ed è stato circondato dall’amore della sua famiglia e dei suoi amici più cari. Un ringraziamento speciale va al professor Fioranelli e allo staff della clinica Villa del Rosario che ci hanno dato la libertà di dirgli addio con serenità”.

 Il giornalista torinese inizia la sua carriera come cronista sportivo a Tuttosport, poi è la volta della Rai dove segue cinque Olimpiadi, tre mondiali di calcio e i più importanti incontri di pugilato. Per il Tg2 realizza invece non solo servizi sportivi ma anche reportage dall’America Latina.

Minà è noto per le sue interviste con i grandi personaggi dell’attualità, soprattutto della politica e dello sport. “Due grandi passioni che non si incontrano. Ho provato a far raccontare lo sport ad alcuni grandi scrittori: Osvaldo Soriano ed Eduardo Galeano per il calcio e il Sudamerica. Non so se ci sono riuscito”, dice. Famose le interviste a Fidel Castro e al “Sucomandante” Marcos: la prima durata quasi 16 ore, la seconda passata a indagare ragioni e contesto dell’insurrezione zapatista in Chiapas. Dagli scrigni della memoria riemergono poi i dialoghi con il velocista Pietro Mennea. “Il più grande. Un uomo verticale che ha dovuto lottare non solo sulle piste di tutto il mondo ma anche contro l’incomprensione di un ambiente egoista. Ha dovuto sempre correre e fare il suo mestiere con pochissimi soldi”, dice Minà della “Freccia del Sud”.

Oltre che con l’attore Massimo Troisi –  che usava scherzare con i cronisti: “Cosa invidio a Gianni? La sua agendina” – celebre è l’amicizia di Minà con il pibe de Oro, Diego Armando Maradona: a chi gli chiedeva cosa avessero in comune i due, lo scrittore piemontese era solito rispondere: “L’amore per Cuba e per i più deboli”.

(...)

E’ morto Gianni Minà, un “grande” del giornalismo italiano. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 28 Marzo 2023.

Nell'ambiente giornalistico era invidiato dai colleghi e lavorava da solo: fu l'unico giornalista a chiedere in conferenza stampa prima dei Mondiali di Argentina '78 ai membri della giunta militare: "Qui si rincorrono voci su persone che spariscono".

Il giornalista e noto conduttore televisivo Gianni Minà è morto all’età di 84 anni. L’annuncio della scomparsa sulla sua pagina ufficiale di Facebook. “Gianni Minà ci ha lasciato dopo una breve malattia cardiaca. Non è stato mai lasciato solo, ed è stato circondato dall’amore della sua famiglia e dei suoi amici più cari. Un ringraziamento speciale va al Professor Fioranelli e allo staff della clinica Villa del Rosario che ci hanno dato la libertà di dirgli addio con serenità“

Nato a Torino il 17 maggio 1938, Gianni Minà ha iniziato la carriera da giornalista nel 1959 a ‘Tuttosport’ (di cui fu poi direttore dal 1996 al 1998). Nel 1960 debutta in Rai collaborando alla realizzazione dei servizi sportivi sui Giochi Olimpici di Roma. Approdato a ‘Sprint‘, rotocalco sportivo, diretto da Maurizio Barendson, a partire dal 1965 si occupa di documentari e inchieste per numerosi programmi, tra cui ‘Tv7‘, ‘AZ, un fatto come e perché’, ‘Dribbling‘, ‘Odeon. Tutto quanto fa spettacolo’ e ‘Gulliver‘. Con Renzo Arbore e Maurizio Barendson fonda ‘L’altra domenica‘. Nel 1976 viene assunto al ‘Tg2‘, diretto da Andrea Barbato. Nel 1981 vince il ‘Premio Saint Vincent‘ in qualità di miglior giornalista televisivo dell’anno. Dopo aver collaborato con Giovanni Minoli a ‘Mixer‘, debutta come conduttore di ‘Blitz‘, programma di Raidue di cui è anche autore, che accoglie ospiti come Eduardo De Filippo, Federico Fellini, Jane Fonda, Enzo Ferrari, Gabriel Garcia Marquez e Muhammad Alì.

Gianni Minà ha seguito otto mondiali di calcio e sette olimpiadi, oltre a decine di campionati mondiali di pugilato, fra cui quelli storici dell’epoca di Muhammad Ali. Nel 1987 Minà diventa famoso in tutto il mondo per un’intervista di sedici ore con Fidel Castro, il presidente cubano, per un documentario da cui viene tratto un libro: il reportage intitolato ‘Fidel racconta il Che’.

Le interviste a Fidel Castro sono state un punto di svolta della sua vita professionale. La prima intervista durava sedici ore e c’è il “Lìder Màximo” che inizia dicendo “Cercherò di sintetizzare”. La vollero per trasmetterle le tv di tutto il mondo. In Natural Born Killers c’è uno che dice: “Voglio un’intervista come quella che ha fatto quell’italiano a Castro!!!“. Ma nell’edizione del film che è arrivata da noi quella battuta non l’hanno messa. Gianni venne accusato di aver fatto un’intervista accondiscendente e ne soffrì.

Nell’ambiente giornalistico era invidiato dai colleghi e lavorava da solo: fu l’unico giornalista a chiedere in conferenza stampa prima dei Mondiali di Argentina ’78 ai membri della giunta militare: “Qui si rincorrono voci su persone che spariscono“. “Non ci risulta” rispose dal tavolo l’ammiraglio torturatore, ma poi funzionari Rai gli consigliarono di ripartire subito.

Perdiamo un giornalista originale, attento e mai banale, un uomo che amava la cultura. Ciao Gianni” twitta il ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano. “Una delle ultime visite in Puglia di Gianni Minà fu durante il Bifest del 2019 che proprio in questi giorni celebra la sua quattordicesima edizione. Fu ospite a Bari per un incontro con il pubblico sulla sua straordinaria carriera, fatta di incontri e testimonianze irripetibili – da Maradona a Fidel Castro, dai Beatles a Muhammad Alì – interpretando il senso di un servizio pubblico radiotelevisivo che restituisse agli spettatori la spiegazione di terre lontane e vicine e di personaggi controversi ma protagonisti dei loro tempi. Esprimo quindi il cordoglio mio e della Regione per la scomparsa di Gianni Minà, un giornalista e conduttore che resterà con i suoi lavori nella memoria collettiva degli italiani”. Così il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, appresa la notizia della scomparsa di Gianni Minà, ha voluto ricordarlo.

È morto Gianni Minà, maestro di un giornalismo che non esiste più. Scompare a 84 anni il grande intervistatore che, con quella sua aria sempre sgualcita ma accudente, entrava nel mondo dello sport, della musica, del cinema con la naturalezza timida ed educata di uno di famiglia. Beatrice Dondi su L’Espresso il 28 Marzo 2023.

Quando nella semi finale dei Campionati del mondo l’Argentina batté l’Italia ai rigori, Maradona scansò tutti i giornalisti e disse: scusate ma devo parlare con il mio amico Gianni Minà. Carmelo Bene stava per apparire alla Madonna e si lasciò andare in tutte le intonazioni di cui era capace a cose inaudite contro Giorgio Albertazzi negli anni in cui, era il 1982, il Teatro si scriveva con la T maiuscola. E Gianni Minà era lì in studio, a Blitz con la sua cartellina dai fogli scomposti che sfogliava come un direttore d’orchestra. Minà che intervistava sul set Bob De Niro e Sergio Leone, come se fosse una cosa qualsiasi. Minà sulla cui agendina telefonica Massimo Troisi costruì una gag sontuosa, pensando alla F di Fidel, alla C di Cassius, che non era ancora Mohammed Ali ma che lo sarebbe diventato a breve, stringendo con Gianni un legame a doppio filo.

Gianni Minà, giornalista incapace di urlare, con quella sua aria sempre sgualcita ma accudente che entrava nel mondo dello sport, della musica, del cinema con la naturalezza timida ed educata di uno di famiglia. Maestro di una professione quasi perduta, era capace di passare da Vasco ai Beatles, da Platini a Sepulveda animato sempre dalla stessa curiosità. Il 28 marzo del 1976 sbuco davanti alle telecamere presentando un signore di nome Charlie Mingus a Renzo Arbore. Era la prima puntata dell’Altra Domenica, quella rivoluzione televisiva che avrebbe spalancato le porte alla nuova era. Di Gianni Minà ora pioveranno parole e ricordi, lui il giornalista stimato da Sandro Pertini ma dimenticato da una tv ingrata, l’intervistatore generoso che arrivava ovunque, l’uomo che conosceva tutti e che tutti volevano abbracciare.

Come ha fatto Favino con un ultimo quanto inconsapevole omaggio. In Call my agent, quando resta imprigionato nella parte di Che Guevara e la moglie gli chiede sconsolata: ma con chi sei al telefono? Con Gianni Minà.

Gianni Minà, la "breve malattia" che l'ha stroncato: come è morto. Libero Quotidiano il 28 marzo 2023

La notizia della morte di Gianni Minà, scomparso all'età di 84 anni, ha sconvolto il mondo del giornalismo e non solo. Ieri sono stati gli stessi familiari del noto giornalista a informare il suo amato pubblico. E, stando a quanto riferito, pare che il decesso sia stato causato da un problema cardiaco. 

 "Gianni Minà ci ha lasciato dopo una breve malattia cardiaca - questo il messaggio comparso ieri sulla pagina Facebook del giornalista -. Non è stato mai lasciato solo, ed è stato circondato dall’amore della sua famiglia e dei suoi amici più cari. Un ringraziamento speciale va al Prof. Fioranelli e allo staff della clinica Villa del Rosario che ci hanno dato la libertà di dirgli addio con serenità".

Nato a Torino il 17 maggio 1938, Minà ha iniziato la carriera da giornalista nel 1959 a Tuttosport. A seguire il debutto in Rai e la realizzazione dei servizi sportivi sui Giochi Olimpici di Roma. E poi ancora Sprint, programma sportivo; documentari e inchieste per numerose trasmissioni. Con Renzo Arbore e Maurizio Barendson ha poi fondato L'altra domenica. Nel 1976 approda al Tg2, mentre nel 1981 vince il "Premio Saint Vincent" come miglior giornalista televisivo dell'anno. Dopo aver collaborato con Giovanni Minoli a Mixer, debutta come conduttore di Blitz su Rai 2. Minà ha seguito otto mondiali di calcio e sette olimpiadi, oltre a decine di campionati mondiali di pugilato, fra cui quelli storici dell'epoca di Muhammad Ali. Nel 1987 Minà diventa famoso in tutto il mondo per un'intervista di sedici ore con Fidel Castro, il presidente cubano, per un documentario da cui viene tratto un libro. Il giornalista, inoltre, era anche un grande amico di Diego Armando Maradona.

Negli ultimi anni aveva già iniziato a raccogliere tutto. Gianni Minà, la sua eredità in un archivio con migliaia di foto e video: “Sognava di condividere tutto con i giovani”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 28 Marzo 2023

Aveva già iniziato a lavorarci nell’ultimo periodo della sua vita. Gianni Minà, scomparso il 27 marzo a 84 anni, stava mettendo insieme un poderoso archivio con tutte le interviste fatte nella sua vita. Era consapevole che quella era l’eredità più grande che avrebbe potuto lasciare all’umanità. “Il suo, si sa, era un immenso archivio video e audio, migliaia di ore, aveva oltre 100 ore di materiale inedito e il suo sogno era di trasferire tutto in digitale per renderlo accessibile, soprattutto ai giovani“, ha raccontato all’Ansa Andrea Conforti, vicepresidente della Fondazione Gianni Minà, appena nata nel gennaio scorso. E chissà se tra il materiale raccolto c’è anche la famosa rubrica con i numeri di telefono delle persone più famose del mondo che tanto gli invidiava Massimo Troisi.

Certo è che Minà amava il suo lavoro e sapeva che un giorno qualcuno avrebbe voluto vedere una delle sue interviste mitologiche a personaggi immortali come il subcomandante Marcos, Mohammed Alì, Fidel Castro, il Dalai Lama e Diego Maradona. “Niente andrà perduto, proprio come lui stesso fino all’ultimo voleva: ha lavorato fino a pochissimo tempo fa per preparare tutto”, ha continuato Conforti. Tempo fa aveva avviato una raccolta fondi per realizzare l’ambizioso progetto Minà’s Rewind. Conforti racconta che il progetto aveva avuto parecchio supporto. Prima collaboratrice di tutto questo è stata sua moglie, la regista Loredana Macchietti, presidente della Fondazione.

A maggio uscirà postumo il suo ultimo libro “Fame di storie”, e ci sarà una mostra fotografica a Napoli su tutta quella che è stata la sua vita professionale. L’idea di questo progetto di archivio digitale era nata 7-8 anni fa, “inizialmente – racconta Conforti – Gianni era diffidente rispetto al web, era, certo, di un’altra generazione, poi ha visto che se utilizzate bene le piattaforme online possono svolgere una grande funzione culturale, così mise insieme uno staff di sei persone e si lanciò nel progetto che poi è diventato a gennaio una Fondazione con lui presidente onorario”.

Racconta anche di un unicum, forse, nella storia dei personaggi famosi sui social che Minà utilizzava abitualmente: “Nessun hater, nessun veleno nei suoi social ma solo tanto amore. 135mila follower su Fb, 58mila su Instagram in meno di un anno. Le persone, quelle della sua epoca cresciute con le sue interviste e i suoi programmi, quelli che ne hanno solo sentito parlare, sapevano chi era: un grande giornalista, certo, con una curiosità immensa, ma anche un uomo dal grande cuore, sempre dalla parte dei più deboli”, conclude Conforti.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

La Famiglia.

La moglie di Gianni Minà, Loredana, le tre figlie e gli ultimi giorni regalati. Elvira Serra su Il Corriere della Sera il 28 Marzo 2023.

Il giornalista e gli incontri mitologici. L’amore della sua famiglia. I taccuini e le mille ore registrate che diventeranno un archivio digitale per tutti

È stata la famiglia ad annunciare la scomparsa di Gianni Minà sui suoi profili social: Loredana Macchietti, dolcissima moglie e madre delle figlie Francesca e Paola, 26 e 24 anni, e la primogenita, Marianna, 49 anni, nata dal precedente matrimonio con Georgina García Menocal, che vive a Città del Messico. Ma è Loredana l’angelo che ha preso in custodia Gianni Minà da quando lei aveva 25 anni ed era una studentessa lavoratrice che aveva accettato di aiutare questo giornalista a scrivere un libro sulla boxe.

Era il 1985 e lei sapeva battere a macchina velocemente. Stava studiando per diventare assistente sociale, la vita deviò il percorso. Minà, dopo, le chiese di farle da assistente, in attesa del concorso del Comune di Roma che sarebbe arrivato quindici anni più tardi.

Un sodalizio durato quasi quarant’anni

Hanno lavorato gomito a gomito per quasi dieci anni. Poi si sono guardati negli occhi e hanno capito che non bastava. Dopo un mese di fidanzamento, nel 1994 si sono sposati. «Io sono introversa, faccio fatica a fare amicizia, e questo suo modo mi aveva affascinato. Gli invidiavo questo dono che ha di far sentire accolto senza pregiudizio chiunque intervisti, ma la sua non è mai piaggeria perché quando non è d’accordo lo dice e fa diventare l’intervista un confronto e non uno scontro, una cosa basilare soprattutto oggi. E poi lui è un cronista!», mi aveva raccontato Loredana nella loro casa romana alla Camilluccia, quando ero andata a intervistare Gianni Minà a febbraio del 2020. Alla sua battuta, «Il Cronista» aveva replicato fulmineo: «Insmentibile!».

La famiglia

Dall’amore con Loredana sono nate Francesca e Paola. Ma il legame con Marianna, la figlia della prima moglie, è sempre rimasto forte e saldo. Tant’è che per una serie di coincidenze prese al volo, come talvolta si dice, erano riusciti a festeggiare le nozze di Marianna in una chiesa sconsacrata di Roma assieme a tutti i parenti di lei arrivati dal Messico, a pochi giorni di distanza dagli 80 anni del patriarca, a maggio del 2018. Loredana Macchietti ha firmato, e nessun altro avrebbe potuto, il docufilm uscito lo scorso anno: Una vita da giornalista, dedicato alla straordinaria carriera del marito. Lei regista, sodale,moglie, mamma, sussurro gentile, lo ha preso per mano nella malattia che nel 2018 aveva reso così fragile l’uomo dalle mille interviste, quello che non riusciva a non diventare amico dei miti che incontrava, ed erano davvero dei miti.

L’archivio personale

Marianna in questi quarant’anni è stata anche custode della sua produzione monumentale: dalle decine di taccuini, agende e quaderni, accatastati con l’etichetta sul dorso che indica l’anno (1980-2010-1981) e protetti dentro un mobile di legno massiccio alle oltre mille ore di servizi di telegiornali, programmi televisivi e documentari che hanno attraversato più di sessant’anni di storia italiana e non solo, e che lei, con il marito, si era dato il compito di digitalizzare per non perderne la memoria. Per questo progetto avevano lanciato una raccolta fondi «dal basso», contando sul supporto e l’affetto di decine di estimatori «comuni» che ammiravano il suo lavoro. Del resto, non si poteva non inchinarsi alla statura dei suoi incontri: a una puntata del suo «Blitz», per dire, andarono Federico Fellini, Giulietta Masina, Sergio Leone, Robert De Niro, Claudia Cardinale ed Ennio Morricone. Insieme. Di Fidel Castro, Mennea e Muhammad Ali divenne amico. Ma questa è storia.

I modi gentili

«Io ho i modi che favoriscono le relazioni umane. Io ho fatto questa carriera con le mie forze e quando mi dicevano no, e ne ho presi di no, mica me la sono presa», mi aveva detto quel giorno di febbraio del 2020 sul suo divano di casa, appena prima che il Covid stravolgesse le vite di tutti. Loredana era lì vicino a lui, ricordando insieme i momenti memorabili, le soddisfazioni prese nel tempo (che è gentiluomo), gli stop e le ripartenze. «È vivo per miracolo», aveva ammesso. Da allora, sono stati giorni regalati. Loredana e le figlie non ne hanno sprecato nemmeno uno.

Le interviste agli altri.

Dagoreport il 26 maggio 2023. 

Racconti inediti, aneddoti, spaccati di vita e di sport. Questo e tanto altro in «Fame di Storie», l’ultimo lavoro letterario di Gianni Minà, scomparso nel marzo scorso. Un grande giornalista, scrittore, che ha lasciato un segno indelebile nell’Italia dei oggi. Oltre 60 anni di carriera, di storie, personaggi, di rapporti umani sviscerati in 288 pagine da pochi giorni in libreria per la «Roberto Nicolucci Editore». E di storie, fantastiche, in effetti, Minà, torinese di nascita e napoletano d’adozione, ne ha vissute tantissime.

Come l’amicizia con due «monumenti» dello sport: Muhammad Alì e Diego Armando Maradona. Ne ha narrato le vicissitudini sportive ma anche umane. Ha fatto sì che la gente comune potesse conoscere, nel profondo, due idoli intramontabili. Ma ha contribuito, in modo indelebile, alla descrizione di un mondo in continua evoluzione, anche nel cinema, nella musica e nella politica. 

Il libro «Fame di Storie» sarà presentato oggi, a Napoli, alle 18, presso il salotto letterario «Le Zifere», in Piazzetta Nilo 7, con la partecipazione di Roberto Nicolucci, editore e professore di storia dell'arte; di Loredana Macchietti Minà, presidente della fondazione Gianni Minà; e di Gennaro Carotenuto, docente di storia contemporanea all'università Vanvitelli. 

Maradona, Minà e il napoletano d’adozione

Minà è stato definito da tutti un torinese ma napoletano d’adozione. Perché con la città partenopea ha sempre avuto un rapporto molto stretto, anche grazie all’amicizia con Diego Armando Maradona, campione indiscusso e stella della Ssc Napoli. Grazie anche a questo rapporto, e alla sua bravura di «cantastorie», il grande giornalista ha saputo narrare quel che c'era di nascosto nel team azzurro. 

«Con Maradona - racconta Minà nel libro - il mio rapporto è stato sempre speciale. Fin dalla sua prima stagione in Italia (1984-85) potei proporre a “La Repubblica”, con la quale collaboravo, un’intervista non solo calcistica. Mi sorprese subito la sua franchezza, non aveva paura di esporsi.

La nostra confidenza crebbe rapidamente nei primi due anni a Napoli, quando ancora non era palese, per il valore medio della squadra, che la sua sola presenza in campo avrebbe mutato radicalmente gli equilibri non solo del Napoli, ma di tutto il campionato italiano. Io rispettavo il genio del pallone, ma anche l’uomo, sul quale sapevo di non avere alcun diritto solo perché lui era un personaggio pubblico e io un giornalista. 

Per questo credo lui abbia sempre rispettato anche i miei diritti e la mia esigenza, a volte, di proporgli domande scabrose. Una certo modo di fare comunicazione spesso crede di poter disporre di un campione, di un artista, soltanto perché la sua fama lo obbligherebbe a dire sempre di sì alle presunte esigenze giornalistiche e commerciali dell’industria dei media. Maradona, che ha spesso rifiutato questa logica ambigua, è stato tante volte criminalizzato». 

«Per i Mondiali del ‘90 - si legge ancora in «Fame di Storie» - mi ero ritagliato uno spazio notturno di mezz’ora con “Zona Cesarini”, che però aveva suscitato il fastidio di alcuni cronisti. La circostanza non era sfuggita a Maradona ed era stata sufficiente per avere tutta la sua simpatia e collaborazione.

Così, nel pomeriggio prima della semifinale Argentina-Italia, allo stadio di Fuorigrotta di Napoli, davanti a un pubblico diviso fra l’amore per la nostra nazionale e la passione per lui, Diego mi promise per telefono: “Comunque vada verrò solo al tuo microfono a darti il mio commento”. Fu un’intervista unica e giornalisticamente irripetibile, solo per l’abitudine di Diego Maradona a mantenere le parole date». 

Minà, Muhammad Ali e la Storia della boxe 

Gianni Minà ha vissuto da vicino anche il mondo della grande boxe, quella fatta dai campionissimi che hanno aperto la strada ai boxeur di oggi e li ha raccontati anche nel volume attraverso il rapporto con Muhammad Ali. EAncoraccone alcuni stralci:

«Se guardiamo la storia, solamente due pugili hanno inciso in profondità nella società: Muhammad Ali, per il quale negli USA è stata cambiata la legge sull’obiezione di coscienza, e il cubano Teofilo Stevenson che, pur avendo vinto due Olimpiadi, ebbe il coraggio di rifiutare 5 milioni di dollari per passare al professionismo. 

Nel 1996 i due campioni si incontrarono a L’Avana perché Ali scortò una delegazione umanitaria che portava medicinali in una Cuba sempre oppressa dal blocco economico. Ebbi la fortuna di essere presente a quell’incontro insieme ad Assata Shakur, militante delle Pantere Nere in esilio a Cuba da decenni e per la quale la nostra Silvia Baraldini andò in galera, e Aleidita Guevara, l’indomita figlia del Che». 

«“La mia storia incomincio a raccontarvela oggi in albergo”, ci urlava Ali, sballottato, malgrado la sua enorme mole, da frotte di ammiratori. Mia moglie Georgina mi aiutava come interprete. Stavamo a Miami Beach, nel suo stesso albergo, il Fontainbleau Hotel, monumento al cattivo gusto, ma reso famoso per la permanenza di Frank Sinatra». 

«Andai a trovare Muhammad Ali nella grande “farm” che possedeva nel Michigan, subito dopo aver parlato della sua malattia e dichiarato il silenzio stampa. Ma «aveva voglia di vedere un amico che lo aveva portato dal Papa». Ali non c’era. Arrivò guidando un furgone pieno di libri sulla religione islamica: “La religione e il lavoro sociale sono la base della mia vita, adesso. Ho fatto la boxe dall’età di 12 anni e ora, a 45, posso dire che è stato un lavoro duro, ma che ho ricavato tanto, insomma la boxe mi ha trattato bene. Sarei matto però se avessi nostalgia di un lavoro così difficile”».

Dagospia il 28 marzo 2023. Da “Un Giorno da Pecora” – Rai Radio1

La mitica foto di Gianni Minà insieme a Muhammad Alì, Garcia Marquez, Robert De Niro e Sergio Leone in un ristorante romano? Fu fatta titolare del locale ‘Er Carrettiere’ Filippo Porcelli, la cui figlia, Stefania, anche lei presente in quella storica serata, oggi è intervenuta a Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1 per raccontare come nacque quello scatto.

Quella fu una foto epocale, la scattò mio padre con la macchinetta di Minà, Gianni era un amico e un cliente e veniva sempre da noi”. Chi c’era a tavola quella sera? “Una decina di persone legate al mondo dello spettacolo. Mi ricordo che appena vidi entrare Alì stavo per svenire. Un uomo di due metri, bello come il sole, stupendo”.

Ma c’era anche De Niro. “Insignificante e piccoletto rispetto al pugile. Si presentò con dei pantaloni bianchi di lino e infradito, passava inosservato rispetto agli altri”. Cosa mangiarono quella sera? “Amatriciana e pezza in padella, Gianni voleva far assaggiare ai suoi ospiti della cucina tipica romana. Ad offrire la cena fu lui, ovviamente”.

Nello scatto c’è una donna in basso a sinistra. Chi è? “Non si può dire, all’epoca ci venne chiesto riserbo…”

Gianni Minà, gli sportivi amici e le interviste: da Alì e Maradona a Pantani e Mennea. Andrea Sereni su Il Corriere della Sera il 27 marzo 2023

Il celebre giornalista e i rapporti di amicizia e stima con i protagonisti del mondo dello sport

Gianni Minà, morto a 84 anni

Dopo una breve malattia cardiaca, lunedì 27 marzo è morto Gianni Minà. Il celebre giornalista, scrittore e conduttore tv aveva 84 anni. Nella sua carriera è diventato amico, anche confidente di tanti sportivi di primo piano. Aveva un rapporto speciale con Diego Maradona, un legame stretto con Muhammad Alì. Icone dello sport mondiale. E poi Pietro Mennea, Marco Pantani, Adriano Panatta. E non solo.

Minà e Maradona

Con Diego Maradona Minà aveva un rapporto speciale, di stima e rispetto reciproco. Era uno dei pochi di cui il campione argentino si fidava, sempre e comunque. «Io rispettavo il campione, il genio del pallone, ma anche l’uomo, sul quale sapevo di non avere alcun diritto, solo perché lui era un personaggio pubblico e io un giornalista — raccontava Minà —. Per questo credo lui abbia sempre rispettato anche i miei diritti e la mia esigenza, a volte, di proporgli domande scabrose». Fu lo stesso Minà a condurre la festa per lo scudetto del Napoli. Sosteneva, Minà, che a Diego fosse stata tesa una sorta di trappola quando, nel 1991, fu fermato dall’antidoping dopo una partita con il Bari. «Un modo per farlo andare rapidamente via dall’Italia, e non pagargli gli ultimi due anni di contratto», spiegava il giornalista. Che con Maradona fece alcune interviste indimenticabili: dopo il Mondiale del 90, e anche nel 2005.

Minà e Muhammad Alì

Una cena speciale. A Roma, Trastevere, da «Checco er carrettiere», con al tavolo Muhammad Alì, Robert De Niro, Gabriel Garcia Marquez, Sergio Leone e Gianni Minà. «Era passato a trovarmi Muhammad Ali, che in quei giorni era a Roma, e stavamo per andare a cena, quando mi chiama Robert De Niro, di cui sono amico, per vederci — il racconto di Minà della serata —. Gli dico con chi sono e gli propongo di raggiungerci e lui risponde che si considerava già invitato. Stavamo per uscire quando squilla di nuovo il telefono, questa volta era Sergio Leone, appena bidonato da De Niro: “A fijo de ‘na mignotta voglio veni’ pur’io!”. Buon ultimo chiama Gabo (García Márquez) e il gruppo era fatto». Solo uno degli incontri del giornalista con Alì, da lui stesso definito «un pugile, ma prima di tutto un combattente della vita». Con lui Minà aveva costruito un rapporto intimo, di amicizia e stima. Lo conobbe dopo il match in cui battè Liston e vinse il titolo mondiale. Su di lui ha realizzato documentari e libri, il più recente è «Il mio Ali», in cui sono raccolti gli articoli scritti su di lui dal 1971 agli anni 2000.

Minà e Ronaldo

Minà era vicino anche a un altro campionissimo del pallone, Ronaldo, che intervistò nel 1998 nel suo programma «Storie», su Rai Due. «Il giovane Ronaldo era molto timido e di poche parole, ma capace di esprimere anche molta poesia — diceva Minà—. Gli ricordai una sua frase: “Si diventa bravi non per talento o per soldi, ma per fame o per amore in quello che si fa. Adesso non ho più fame, ma per fortuna conservo intatto l’amore in ciò che faccio”. Ma la poesia fu ben presto stemperata dal puro divertimento scaturito dagli ospiti Mazzola e Suarez, il gatto e la volpe del football».

Minà e Marco Pantani

In uno dei momenti più difficili della sua carriera, Marco Pantani chiese a Gianni Minà se poteva essere intervistato. Lo ha ricordato lo stesso giornalista: «Pochi giorni dopo il Giro d’Italia del ’99 per il valore degli ematocriti troppo alti, Marco Pantani, a sorpresa, mi cercò per farsi intervistare, pur sapendo che fui uno dei primi a denunciare il doping nello sport. Mi sorprese la sua telefonata, ma ne ammirai la dignità: “Almeno lei mi starà ad ascoltare” mi disse. Lo raggiunsi a casa sua e lo intervistai. Andai solo con un operatore, senza nessun altro, era troppo delicata la situazione. La stampa era accalcata fuori dal suo cancello. Questa foto è stata estrapolata dall’intervista che è su Youtube perché non ho voluto neanche un fotografo. Ho un ricordo struggente di Marco, travolto da una situazione e da un sistema più grande di lui, spezzato e messo all’angolo, completamente solo».

Minà e Mennea

Minà seguì quasi tutte le gare di Pietro Mennea. Lo fece incontrare con Muhammad Alì, nel 1980 a Las Vegas: «Quando Ali perse con Holmes. Dissi a Pietro, che era lì per un’iniziativa con Tommie Smith: ‘perché non vieni a vedere il match con me?’. Andammo, s’incontrarono”». Così Minà raccontava Mennea: «Era diverso da come lo conoscevamo: compagnone, ridanciano». E ancora: «Mennea era un figlio del Sud, un campione di corsa che spesso non aveva neanche una pista per allenarsi, ma che però ha saputo smentire, nella sua attività di velocista, tutti i luoghi comuni, anche quelli espressi dai più esperti. Mennea soffriva per quell’incomprensione e anche, talvolta, per la sua timidezza dialettica che non gli permetteva, sempre, di rispondere per le rime a tanti presuntuosi. Il ricordo della sua ironia tagliente e delle nostre risate, però, trasformano la sua assenza in una “acuta presenza”».

Minà e Panatta

Minà aveva un bel rapporto anche con Adriano Panatta. Che ha ricordato un aneddoto a RaiNews24: «Minà è stato l’unico giornalista a farmi un’intervista in un cambio di campo (in una partita contro Vilas al Foro Italico, ndr). Se non fosse stato Gianni non l’avrei mai fatta, ma lui poteva perché era un fuoriclasse. A Gianni volevano bene tutti, non ho mai sentito una parola di critica contro di lui, ma è normale perché era speciale. Aveva una dote singolare, non avevi la sensazione di trovarti di fronte a un giornalista, aveva una grande empatia ed era una persona perbene. Aveva questo garbo, quest’ironia e voleva bene agli atleti, voleva bene allo sport. Riusciva a capire l’animo dei campioni».

Minà e Paolo Rossi

Minà dedica a Paolo Rossi una puntata del suo «Una vita da goal», in cui racconta Pablito maturo, già eroe azzurro dopo il Mondiale del 1982. Prima, il 12 luglio 1982, un’altra intervista a Mixer, all’indomani del successo Mundial in Spagna. «Ti sei rinforzato dentro — scherza Minà —. Rossi pesa meno di quanto pesasse in campionato, prima cadeva sempre... adesso non cade più. Cosa è successo?». Un rapporto sincero tra i due che è proseguito fino alla morte di Rossi.

Gianni Minà, l’uomo che dava del tu a Maradona, Castro e De Niro e non seguiva copioni. Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 27 marzo 2023

Il giornalista e conduttore televisivo è morto a 84 anni a causa dopo una breve malattia cardiaca. Le imitazioni di Fabio Fazio, Fiorello e del suo amico Troisi: «L'agendina telefonica che c’ha Gianni Minà è una cosa da invidiarlo»

Gianni Minà è morto: il noto giornalista e conduttore aveva 84 anni. La notizia della morte — avvenuta in seguito a una breve malattia cardiaca — è stata data dal suo profilo Facebook.

«Io vulisse avè l’agenda e’ Minà». È uno degli sketch più famosi di Massimo Troisi, ospite di Gianni Minà in una delle sue rare apparizioni televisive: «L'agendina telefonica che c’ha Gianni Minà è una cosa da invidiarlo. La apri, ecco Cassius Clay. E quello mica sbatt 'o telefono: gli risponde! in teleselezione per ore. (...) Lui alla F c’ha Fidel, senza Castro solo co' 'o prefisso. E Pino Daniele (...) ha detto: Gianni, chiama a Massimo! Lui ha preso l'agenda, ta ta ta, alla T, Fratelli Taviani, Little Tony, Toquinho e Troisi!». Invidiandola, in molti hanno scherzato sulla mitica agenda di Minà, dove in ordine alfabetico c’era una parata di uomini importanti, di sportivi, di musicisti, di tutti quelli che il giornalista torinese aveva conosciuto e intervistato.

Era anche molto imitato, specie da Fabio Fazio, quando iniziava le frasi immancabilmente con «non credo che è». Ma anche da Fiorello, per prendere in giro quella foto dove a cena appare con Gabriel Garcia Marquez, Sergio Leone, Robert De Niro, Muhammad Ali: «Eravamo io, Fidel, De Niro…» e giù una sfilza di nomi famosi. Ecco, se le prime immagini che vengono in mente di Minà sono gli omaggi di Troisi, di Fazio e di Fiorello significa che “Una vita da giornalista” (così recita il titolo di un docufilm a lui dedicato) era diventata una vita da vero personaggio e che l’arte dell’incontro ha fatto di lui “un uomo non comune” (come recita il titolo del suo ultimo libro).

Minà ha iniziato la carriera come giornalista sportivo a «Tuttosport» e nel 1970 è entrato in RAI come collaboratore esterno. Nel 1976 ha curato la sezione spettacolo de “L’altra domenica” di Renzo Arbore e Maurizio Barendson. Sulla stessa rete, quattro anni dopo, ha collaborato a “Mixer”, rotocalco di Minoli e Bruno per il quale curava rubriche e servizi di musica e sport. Dal 1981 (anno in cui gli è stato assegnato il premio giornalistico Saint-Vincent), ha presentato insieme a Milly Carlucci “Blitz”, intervistando, durante i tre anni di vita del programma, personaggi come Fellini, De Niro, Cassius Clay e molti altri. Al programma giornalistico sono seguiti “Facce piene di pugni” (1985), “Una vita da goal,” “Domani si gioca” e “L’altro spettacolo” (1987-88).

Nel 1984 ha fondato una società di produzioni televisive indipendenti per programmi di attualità, la GME. Questa società è stata promotrice di documentari, interviste e contributi come le due interviste a Fidel Castro realizzate nel 1987 e 1990, in cui il leader cubano ha raccontato della sua amicizia con Che Guevara, della religione e del Papa. Nel 1987 ha presentato in diretta da Napoli “Notte per uno scudetto”; nello stesso anno è stata trasmessa la sua lunga e discussa intervista a Fidel Castro (immortalata dalla citazione nel film di Oliver Stone “Assassini nati”, 1994). Raiuno gli ha affidato dal 1991 al ’93 la conduzione della “Domenica sportiva”.

Dopo l’esperienza di “Alta classe. Voglio vivere così” (1991), nel 1993 è tornato al varietà a fianco di Simona Marchini ed Enrico Vaime con “Ieri, oggi e... domani?”, mentre dal 1996 al '98 ha proposto una serie di interviste con illustri personaggi (Diego Maradona, Martin Scorsese, Luis Sepulveda, il giudice Caponnetto, Vittorio Gassman, Andrea Bocelli) nel talk show “Storie”. Nella sua lunga carriera televisiva Minà si è guadagnato la fama di nostalgico degli anni 60, di cui ha proposto in varie occasioni appassionate rievocazioni.

Non seguiva mai un copione e se c’era qualche intoppo se la cavava sempre con la frase tormentone: «questo è il bello della diretta». Per anni ha collaborato con quotidiani quali la Repubblica, l’Unità, Corriere della Sera e Manifesto; ha all’attivo numerose pubblicazioni, tra le quali: Il racconto di Fidel (1988), Il mio Alì (2014), Così va il mondo. Conversazioni su giornalismo, potere e libertà (2017, con G. De Marzo). Rischiando non poco, ha avuto la capacità di essere sempre nel posto giusto, al momento giusto.

Gianni Minà è morto: addio al giornalista testimone del tempo che andava in auto con i Beatles. Giuseppe Smorto su La Repubblica il 27 Marzo 2023

Ha seguito otto mondiali di calcio, sette olimpiadi e innumerevoli mondiali di pugilato. Vicino soprattutto a Muhammad Ali

Gianni Minà ha passato gli ultimi tempi a raccontare la sua vita su Instagram, e che vita. Non aveva voglia di mostrarsi, non dava interviste, aveva bisogno dei suoi tempi per rispondere, e ormai i tempi delle tv e dei giornali sono diventati feroci. Ha detto tante volte no, però si andava da lui con devozione, aspettando un racconto sulle sue stelle ribelli, Muhammad Ali, Pietro Mennea, Maradona. Proprio Diego gli aveva lasciato un messaggio sulla segreteria poco prima di andarsene, e Gianni ne soffriva ancora.

L'annuncio della sua morte è stato dato dalla famiglia sui social, che sono anche un modo per misurare la sua straordinaria popolarità. Stava anche su Facebook perché non voleva censure né misure, stava preparando un libro sulla boxe, aveva portato ai Festival il film della sua vita, ma a Bari c'era andata solo sua moglie Loredana, regista. Non si sentiva più nemmeno uomo Rai e aveva lanciato un crowdfunding per riprendersi l'archivio delle immagini.

Rideva di gusto della gag di Fiorello "Eravamo io..." perché era la pura verità. Casa sua era un misto fra Cinecittà e le Olimpiadi, fra Sanremo e un festival di musica latinoamericana. Passava Monica Bellucci in completo di pelle, e c'era Arbore che suonava, i cubani Moncada che facevano Guantanamera. O Massimo Troisi che portava Jennifer Beals, la ballerina di Flashdance. Ma poteva capitare di pranzare con Frei Betto, teologo della liberazione, che invitava tutti alla preghiera. Gianni Minà era un giornalista magnete e raccontava compiaciuto di quando aveva messo allo stesso tavolo del ristorante García Marquez, Sergio Leone, Muhammad Ali e Robert De Niro. La foto è storica, sulla sinistra c'è una donna che guarda lui, non loro e si chiede: come avrà fatto?

Per il docufilm Una vita da giornalista aveva ritirato fuori la 500 con cui accompagnò i Beatles in giro per Roma nell'anno di grazia '65. È vero, arrivarono davanti al Piper e c'era troppa fila, Gianni li portò al Club 84. Forse nacque lì quel suo racconto sui favolosi anni 60, anche se mi viene da dire che l'intera sua esistenza professionale è stata qualcosa di favoloso.

Nell'ambiente era invidiato e lavorava da solo: prima dei Mondiali di Argentina '78 fu l'unico giornalista a chiedere in conferenza stampa ai membri della giunta militare: "Qui si rincorrono voci su persone che spariscono". "Non ci risulta" rispose dal tavolo l'ammiraglio torturatore, ma poi funzionari Rai gli consigliarono di ripartire subito.

La stagione di Blitz è antologia della televisione. Portava su Rai2 la domenica pomeriggio Fellini, Celentano, Bene, naturalmente Proietti, Pino Daniele. Poteva capitare che De Niro lo chiamasse a Venezia, in mezzo a cento microfoni: Gianni, vieni qui tu per favore!

Sicuramente le interviste a Fidel Castro furono un punto di svolta della sua vita. La prima dura sedici ore e c'è il Lìder Màximo che inizia dicendo "Cercherò di sintetizzare". La prendono le tv di tutto il mondo. In Natural Born Killers c'è uno che dice: "Voglio un'intervista come quella che ha fatto quell'italiano a Castro!!!". Ma nell'edizione del film che è arrivata da noi quella battuta non l'hanno messa. Gianni fu accusato di aver fatto un'intervista accondiscendente e ne soffrì.

Ha lavorato con Robert Redford, ha conosciuto e intervistato gli amici del Che. Ha portato a spasso per Roma Eduardo Galeano, che un giorno arrivò a Repubblica perché voleva scrivere un libro sul calcio. Sì, Gianni scriveva anche per questo giornale, per la verità sforava con lo spazio, ogni volta era un problema, ma come potevamo tagliare uno scoop... Sarà forse ora sulla stessa nuvola di Gianni Mura e Mario Sconcerti: insieme hanno portato un racconto dello sport mai banale, che andava oltre il campo di gioco, che toccava il cuore della gente. Abbiamo avuto sue esclusive con Mennea, con Maradona. Io ho lavorato tanto al suo fianco, non è stato sempre facile, ma all'ombra dei giganti si sta benissimo, e si impara sempre. Ogni tanto scompariva, magari era dentro la Selva Lacandona, alla ricerca del subcomandante Marcos. Che gli aveva fatto arrivare un biglietto scritto a mano, recapitato da un bambino. Quel giorno, Gianni era a Città del Messico insieme a Manuel Vázquez Montalbán. "Mi è mancato solo Mandela" diceva negli ultimi tempi "però ci ho provato". E ora è il momento delle lacrime.

Da rainews.it il 28 marzo 2023.

Si intitola “Pelé sposino”, è un servizio del 1966 di Gianni Minà. Il calciatore brasiliano durante la sua luna di miele passa anche da Riccione. Rosemeri Dos Reis Cholbi è la prima moglie. Dal loro matrimonio nascono tre figli Kelly, Edinho, Jennifer, i due divorziarono nel 1982.

 Minà intervista qui, sulla riviera romagnola, curiosi, tifosi, e altri giornalisti, e lo stesso O’ Rei. In questo gioiello dalle teche RAI.

Da video.lastampa.it il 28 marzo 2023.

Questa la storica intervista del 25 novembre 1990 ad un Maradona in crisi col Napoli e desideroso di andare via perché “un ciclo si è chiuso” dice il campione. L’intervista è stata trasmessa ieri da Dribbling su Rai 2 e su RaiPlay.it . Il giornalista, che aveva grande amicizia e confidenza con il Pibe de Oro riesce a far raccontare al campione argentino il suo male oscuro da cui non riusciva ad uscire.

Le interviste a lui.

Intervista a Gianni Minà, da Castro a Maradona al giornalismo di oggi: “Il mio rimpianto resta Mandela”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 28 Marzo 2023

Pubblichiamo l’intervista a Gianni Minà che lo stesso autore aveva realizzato nel giugno del 2017 per “Inchiostro”, il periodico della Scuola di Giornalismo dell’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli. Minà, giornalista e documentarista, è morto ieri, a 84 anni, “dopo una breve malattia cardiaca. Non è stato mai lasciato solo, ed è stato circondato dall’amore della sua famiglia e dei suoi  amici più cari”, si leggeva nel post sui canali social ufficiali da cui è emersa la notizia. Dopo aver esordito nel 1959 con il quotidiano “TuttoSport” Minà ha attraversato circa sessant’anni di attività giornalistica ai massimi livelli. Ha intervistato protagonisti dello sport, dello spettacolo e della cultura, della politica. Con alcuni di questi aveva stretto amicizie durate una carriera intera. È stato un testimone del Novecento.

Non sono mica un tuttologo”, risponde e sorride Gianni Minà. L’ennesima domanda riguarda Muhammad Alì, o forse il Subcomandante Marcos, oppure i Beatles. Il punto è che è difficile resistere alla tentazione di chiedere di 60 anni di carriera che hanno attraversato gli argomenti più disparati. Le condizioni per replicare l’intervista di sedici ore che lo stesso giornalista fece nel 1987 a Fidel Castro ci sarebbero tutte, ma evidentemente non è il caso. Si finisce così a parlare del ruolo del giornalismo, tema presente anche nell’ultimo libro di Minà dal titolo Così va il mondo. Conversazioni su giornalismo potere e libertà. Un lavoro che attraversa personaggi e fatti che hanno segnato un’epoca. Da Barack Obama a Hugo Chávez passando per Papa Francesco. L’opera viene presentata a Napoli al centro sociale “Scugnizzo Liberato”, lo stesso posto che nel 1984, quando ancora era un carcere minorile, ospitò una storica puntata di Blitz. Il cortile è pienissimo, centinaia di persone.

Napoli le ha dimostrato ancora una volta un affetto sincero. Cos’è per lei questa città?

È un posto speciale. Una terra di contraddizioni e creatività che non perderà mai il suo ruolo di capitale. Del resto, ogni dieci anni vi nasce un artista che dà vita a una nuova musica popolare.

Nel suo libro torna a parlare di giornalismo. Che tipo di giornale fonderebbe se dovesse ricominciare oggi?

Non fonderei proprio niente. Sarebbe uno spreco di energie perché il giornalismo è finito, non serve più, non racconta più la verità. Le nuove tecnologie hanno peggiorato tutto e continueranno a farlo. Riuscire a dominarle è un’utopia. Oggi il ricco è tornato a soverchiare il più povero. E Trump è il rappresentante di questa tendenza.

Ma quando incominciò avrà avuto un altro entusiasmo. Ricorda la sua prima intervista?

Era il 1960, c’erano le Olimpiadi a Roma. Dovevo intervistare “la locomotiva umana”, il maratoneta cecoslovacco Emil Zátopek. Volevo incontrarlo e non avevo messo in conto di non riuscirci. Avrei trovato un modo. C’era questo cecoslovacco nella hall dell’albergo dove si trovava la nazionale olimpionica. Gli chiesi di fare da interprete. Una volta uscito da quell’albergo mi sentivo un dio: avevo parlato col mito della corsa dell’epoca.

Altre interviste sarebbero arrivate, anche più importanti di quella. Incontri di lavoro dai quali sarebbero nate delle vere e proprie amicizie. Come con Castro, Maradona o Muhammad Alì. Come riusciva a costruire certi rapporti?

Con il rispetto, credo di aver sempre dato e ricevuto rispetto. In questo modo, quello che non ti aspettavi di venire a sapere, te lo diceva direttamente l’intervistato. Una volta, in Argentina, mentre gli psicologi visitavano Maradona all’inizio della sua battaglia contro la cocaina, Diego mi disse di filmare tutto. Ma alla fine io non avrei mai usato quel materiale perché credo che nessuno abbia il diritto di saccheggiare l’intimità di una persona. Da questo punto di vista il giornalismo di oggi è ridicolo, non ha etica. E poi si stupiscono se la gente risponde male. Non condivido l’aggressività con la quale i giornalisti si pongono oggi.

Crede che le amicizie con i suoi interlocutori possano condizionare il suo lavoro?

Anche la pressione che hai quando intervisti uno sconosciuto può condizionare il risultato. E poi è inevitabile che tra le persone nasca simpatia o antipatia.

Per questo motivo si disse che quella a Castro dell’’87 fosse una “intervista in ginocchio”?

Innanzitutto quello era un colpo mondiale. Il Corriere della Sera smentì il giorno dopo le 20 righe dove si usava quell’espressione. A riguardo vinsi anche una causa con un dissidente cubano mantenuto in Italia dai socialisti. Il giudice di Trento, nel dispositivo della sentenza, non solo mi diede ragione ma anche l’elogio per come era stata condotta quell’intervista.

Crede che il giornalista possa essere imparziale?

Nessuno può essere realmente imparziale. È già tanto riuscire ad essere onesti.

Secondo lei Nicolás Maduro e il suo governo hanno fatto abbastanza per evitare la crisi attuale del Venezuela?

Contro le grandi agenzie americane non si può niente. Fanno saltare i presidenti come tappi. È difficile fare qualcosa quando c’è qualcuno che non ti fa arrivare da mangiare e fornisce le armi all’opposizione.

Ma le armi le hanno anche i colectivos che appoggiano il governo.

Ma quando si armano persone che non hanno morale finisce male. Il Venezuela prima di Chávez era quello del Caracazo, un Paese senza ospedali né scuole. Oggi c’è un accerchiamento contro Maduro che nel 2013 ha vinto le elezioni. Io ho anche firmato una lettera contro Amnesty International che accusava le autorità venezuelane di violare i diritti umani e la democrazia. L’hanno firmata anche Adolfo Pérez Esquivel, Nobel per la pace carcerato e torturato dalla dittatura argentina, e Frei Betto, teologo della liberazione brasiliano. Anche loro sono dei criminali?

Cosa pensa dei tanti venezuelani che lasciano il lor Paese?

In certe condizioni tutto il mondo scappa.

Nel 2007 ha ricevuto il premio alla carriera del Festival di Berlino. A un certo punto ha cominciato a riscuotere più consensi all’estero che in patria. Come se lo spiega?

Sono stato epurato e ancora mi devono spiegare il perché. Ma invece di fare la vittima sono andato avanti. Ho lavorato con Robert Redford e il regista Walter Salles al film I diari della motocicletta sul giovane Che Guevara. Poi su altri documentari.

C’è un personaggio dell’attualità che vorrebbe intervistare?

Il mio rimpianto resta Nelson Mandela, nessuno mi ha fatto cambiare idea. L’ho conosciuto ma non ho fatto in tempo a fare la lunga intervista che avevamo programmato.

A cosa sta lavorando ora?

Mi sto occupando del Centro Che di l’Havana. Camilo Guevara, il figlio del Che, mi ha chiesto di dargli una mano perché vuole che sia completamente funzionante per l’anniversario della nascita del padre. L’anno prossimo saranno novant’anni.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

L’unico rimpianto di Gianni Minà: “Non sono mai riuscito a intervistarlo”. Storia di Antonio Lamorte su Il Riformista il 28 marzo 2023.

Quella fotografia al ristorante da Checco Il Carrettiere a Trastevere a Roma. Gianni Minà con Muhammad Alì, Robert De Niro, Sergio Leone e Gabriel Garcia Marquez. Quello scatto a sintetizzare una carriera lunga oltre sessant’anni, che ha raccontato lo sport, lo spettacolo e la cultura, la politica. Da una parte all’altra del mondo. Minà testimone del Novecento che ha incontrato i più grandi. La sua amicizia con Muhammad Alì, quella anche più intima con Diego Armando Maradona, quel giro in 500 nella notte romana con i Beatles, l’intervista di sedici ore a Fidel Castro nel 1987.

È morto ieri, a 84 anni, dopo una breve malattia cardiaca, come ha fatto sapere la sua famiglia. “Non è stato mai lasciato solo, ed è stato circondato dall’amore della sua famiglia e dei suoi amici più cari. Un ringraziamento speciale va al Prof. Fioranelli e allo staff della clinica Villa del Rosario che ci hanno dato la libertà di dirgli addio con serenità”. Aveva cominciato la sua carriera a Tuttosport nel 1959, nel 1960 aveva debuttato in Rai collaborando alla realizzazione dei servizi sportivi sui Giochi Olimpici di Roma. La sua prima intervista quella volta fu al maratoneta cecoslovacco Emil Zaopek. Soltanto l’inizio di una carriera lunghissima che lo aveva portato a intervistare e incontrare grandissimi protagonisti del Novecento.

Video correlato: Gianni Minà racconta l'intervista di 16 ore a Fidel Castro al Maurizio Costanzo Show 1988 (Mediaset)

Però con un rimpianto, uno solo, che si sarebbe portato dietro per tutta la vita. “Il mio rimpianto resta Nelson Mandela, nessuno mi ha fatto cambiare idea. L’ho conosciuto ma non ho fatto in tempo a fare la lunga intervista che avevamo programmato”, aveva raccontato in una lunga intervista a InchiostroOnline, periodico dell’Università Suor Orsola Benincasa, pubblicata nel giugno 2017. Mandela è morto il 5 dicembre del 2013, era stato il primo presidente sudafricano a essere eletto dopo la fine dell’apartheid e aveva ricevuto il premio Nobel per la pace nel 1993. Diceva in quella stessa intervista che oggi non avrebbe fondato alcun tipo di giornale. “Non fonderei proprio niente. Sarebbe uno spreco di energie perché il giornalismo è finito, non serve più, non racconta più la verità. Le nuove tecnologie hanno peggiorato tutto e continueranno a farlo. Riuscire a dominarle è un’utopia”.

Quei rapporti con i protagonisti del Novecento riusciva a costruirli “con il rispetto, credo di aver sempre dato e ricevuto rispetto. In questo modo, quello che non ti aspettavi di venire a sapere, te lo diceva direttamente l’intervistato. Una volta, in Argentina, mentre gli psicologi visitavano Maradona all’inizio della sua battaglia contro la cocaina, Diego mi disse di filmare tutto, ma alla fine io non avrei mai usato quel materiale perché credo che nessuno abbia il diritto di saccheggiare l’intimità di una persona. Da questo punto di vista il giornalismo di oggi è ridicolo, non ha etica. E poi si stupiscono se la gente risponde male. Non condivido l’aggressività con la quale i giornalisti si pongono oggi”.

Gianni Minà: «Ero un nemico per la Cia e scrivevo a Castro quando non ero d’accordo con lui. Elvira Serra su Il Corriere della Sera il 28 marzo 2023

Il giornalista, scrittore e conduttore tv è morto a 84 anni. Memorabili le sue interviste ai grandi personaggi, dallo sport alla politica al cinema. Incontri ricchi spesso di aneddoti curiosi come racconta in questa intervista a Elvira Serra

Gianni Minà, popolare giornalista e conduttore tv è morto a 84 anni dopo una breve malattia cardiaca. Lo ha annunciato il suo profilo Facebook nella serata di lunedsì 27 marzo. Qui ripubblichiamo una delle ultime interviste in cui racconta i suoi memorabili incontri

Testiamo la sua memoria. Eravate lei, Fidel, Iván Pedroso, Paco Peña, Cassius Clay, Dorando Pietri, i Supertramp, John Cassevetes, Red Canzian, Carlo Croccolo, Valerij Borzov. E...?

«... e anche Fiorello ha dovuto alzare le mani con me! È stato molto affettuoso. Del resto, se ha preso spunto dalla mia vita per farne degli sketch significa che avevo colpito duro».

Allora proviamo con questa: eravate lei, Muhammad Ali, Bob De Niro, Sergio Leone e Gabo García Márquez. E...?

«... e andammo da Checco Er Carettiere».

Come fece a metterli insieme?

«Era passato a trovarmi Muhammad Ali, che in quei giorni era a Roma, e stavamo per andare a cena, quando mi chiama Robert De Niro, di cui sono amico, per vederci. Gli dico con chi sono e gli propongo di raggiungerci e lui risponde che si considerava già invitato. Stavamo per uscire quando squilla di nuovo il telefono, questa volta era Sergio Leone, appena bidonato da De Niro: “A fijo de ‘na mignotta voglio veni’ pur’io!”. Buon ultimo chiama Gabo (García Márquez, ndr) e il gruppo era fatto».

Chi pagò il conto?

«Io! Abbiamo speso un po’...».

A Gianni Minà si illuminano gli occhi quando parla dei suoi amici, dell’affetto che gli hanno tributato negli anni, delle cose memorabili che ha fatto. Ogni tanto si rabbuia. Più di tutto, adesso, gli dispiace di non essere citato in nessun manuale di giornalismo: «Mia figlia Francesca, all’esame di Storia della radio e della televisione, non ha trovato il mio nome da nessuna parte». La sua celebre intervista a Fidel Castro del 1987, che durò 16 ore, l’ha donata alla Cineteca di Bologna come «Fondo Minà». Le agende con i numeri di telefono più incredibili, da Luis Sepúlveda a Robert Redford, su cui Massimo Troisi costruì un indimenticabile sketch per il compleanno di Pino Daniele, che si può ancora trovare su YouTube, sono allineate in ordine di anno dentro il mobiletto dell’ingresso. Con noi, discreta e affettuosa, c’è anche Loredana Macchietti, la moglie e madre delle figlie Francesca e Paola, 23 e 21 anni, mentre la primogenita, Marianna, 46 anni, è nata dal precedente matrimonio con Georgina García Menocal.

Il 3 giugno 2016 morì Muhammad Ali. Chi l’avvisò?

«Mi chiamò sua moglie, Lonnie. A casa loro ero uno di famiglia, la mamma di Ali mi preparava i sandwich che faceva per il figlio».

Fidel Castro morì il 25 novembre dello stesso anno. Quella volta da chi fu avvisato?

«La morte di Fidel mi fu annunciata almeno cinque volte, dai colleghi. Ma quando successe davvero mi avvisò da Cuba la zia di un mio figlioccio due ore prima che Raul Castro desse l’annuncio in tv».

Devo chiederle di un altro lutto: molte delle persone che ha intervistato e che erano sue amiche non ci sono più. «Purtroppo». Come andò con Pietro Mennea, il 21 marzo 2013?

«Quella volta a telefonarmi fu un giornalista. “Due battute per Mennea che è morto”. E io: “Ma che è successo?”. E quello: “Ma che, non lo sai?”. Riattaccai».

Vi volevate bene.

«Manuela, la vedova, per i miei 80 anni mi ha regalato quello». E indica una foto incorniciata dove lui e l’atleta sono insieme dopo il traguardo di Città del Messico e a destra c’è un foglio dell’agenda privata di Mennea in cui aveva annotato l’orario della finale dei 200 metri, 15.20, e il tempo, 19.72.

De Niro lo sente ancora?

«Mi ha chiamato l’ultima volta per gli ottant’anni, il 17 maggio 2018. Mi ha anche mandato un bellissimo biglietto di auguri». Mina? «Ci chiamiamo per parlare delle nostre vite. Un’artista immensa. Contrariamente a quel che succede oggi, tutto il repertorio di Antonello Falqui era stato prima approvato da lei».

Luis Sepúlveda?

«Un amico fraterno. Quando dirigevo la collana “Continente desaparecido” di Sperling & Kupfer lo intercettai per intervistarlo in due puntate di Storie. Purtroppo oggi non si riesce a metterle di nuovo in onda perché i diritti cinematografici costano troppo».

Maradona?

«Il più grande calciatore mai nato».

Più di Pelé?

«Ai tempi di Pelé era un calcio più lento».

Come spiega l’affetto di personaggi così diversi?

«Credo sia una questione di intimità. Io ho i modi che soddisfano le relazioni umane. E quando mi dicevano no, non insistevo».

I suoi colleghi furono molto duri con lei. Valerio Riva in una lettera al «Corriere della Sera» definì la sua intervista a Castro come «la più lunga in ginocchio». Franco Escoffiér sul «Gazzettino» scrisse di lei: «È irritante. Di gradevole ha assai poco. Non di rado, moltiplicando con smorfie inopportune una già scarsa avvenenza, si rende ridicolo».

«L’intervista a Castro mi costò una causa con Riva e Carlos Franqui al Tribunale di Trento. La vinsi, ma spesi in avvocati tutto quello che avevo guadagnato con il documentario. Agli altri non ho mai replicato: sono sempre stato fedele a una certa classe di giornalismo».

Persino Enzo Tortora la accusò di non amare il sapone e che i primi piani del suo collo gli davano le vertigini.

«E invece, dopo che lo difesi in tivù a Blitz dal linciaggio mediatico, mi chiamò a casa e mi disse: “Tu sei stato un uomo”».

Si è mai chiesto perché tanta acredine?

«Il mio lavoro di contro informazione sull’America Latina dava fastidio alla Cia e all’Usaid. Credo mi facessero cattiva stampa». Addirittura? «Il mio peccato è stato ridicolizzare il loro liberismo, aver dimostrato che la democrazia può essere più dittatrice della dittatura».

Come con Silvia Baraldini.

«Con lei ora ci sentiamo un po’ più raramente. L’aiutammo a tornare a casa della madre, a Roma, in via del Babuino, e venti giorni dopo le fecero lo sfratto esecutivo».

Lei è stato editore (della rivista «Latimoamerica»), direttore (di «Tuttosport»), autore e giornalista (per la Rai) e scrittore (di numerosi saggi). Quale ruolo l’ha divertita di più?

«Fare il cronista è la cosa più bella». Ha intervistato chiunque, dai Beatles a Frei Betto, dal Subcomandante Marcos a Tommie Smith.

Nessun rimpianto?

«Mi è sfuggito Nelson Mandela. Ci eravamo messi d’accordo e mi aveva invitato in Sudafrica. Poi dovetti rinviare per tre quattro giorni e non siamo più riusciti a vederci».

Qualcuno le ha mai detto di no?

«Obama, quando era presidente. Per valutare la nostra proposta chiesero le copie dei miei documentari, poi vollero che trovassimo un politico che perorasse la nostra causa. Hanno chiesto anche le domande per iscritto e dopo due mesi ci fecero sapere che non erano ancora pronti per quel genere di intervista».

Ci rimase male?

«Più che altro ho notato la differenza di stile con Castro. Prima della famosa intervista dell’87 chiesi al Comandante se voleva leggere in anticipo le domande. Mi rispose: le pare che noi possiamo avere paura delle parole?».

Castro è una figura controversa.

«Quando sono stato in disaccordo con lui gli ho scritto che dissentivo dalle sue scelte e spiegavo perché. Lui mi rispondeva difendendo a sua volta le sue idee». Per l’intervista-scoop a Fidel Castro Oliver Stone la cita nel film «Assassini nati».

Peccato che quel passaggio in Italia sia stato tagliato.

«Sì, confesso che mi è dispiaciuto». A una puntata del suo «Blitz» vennero Federico Fellini, Giulietta Masina, Sergio leone, Robert De Niro, Claudia Cardinale, Ennio Morricone. Cose che oggi neanche da Fazio o De Filippi.

Adesso chi vorrebbe intervistare?

«Vasco Rossi. Sa che fui io a presentargli Fellini? Ci incontrammo a Rimini sulle colline del Bandiera Gialla».

Chi erano i suoi maestri?

«I miei maestri sono stati Antonio Ghirelli e Maurizio Barendson, e avevo stima di Enzo Biagi. Un uomo di grandissima onestà intellettuale. Durante un viaggio con Pertini a Città del Messico García Márquez mi chiese di incontrare il nostro presidente perché voleva parlargli di Julio César Turbay e dei suoi modi dittatoriali in Colombia. Maccanico gli aveva detto che non era possibile. Io intercessi con Pertini e Márquez per ringraziarmi si fece intervistare. Io allargai l’invito a Biagi, che si impegnò a far uscire l’intervista sul Corriere dopo che fosse uscita la mia in Rai. Fu di parola».

Tifa sempre il Toro?

«Mio papà era del Toro. Io e mio fratello abbiamo fatto una cosa molto sentimentale: abbiamo comprato due seggiolini nel nuovo Stadio Filadelfia, come due ragazzini».

E ci andate?

«No». E ride.

Ha ricevuto moltissimi premi. A quale è più affezionato?

«Al Kamera della Berlinale. Mi ha ripagato di tutto». Due anni fa la vita ha fatto uno sgambetto a Gianni Minà. Lui ha reagito impegnandosi per organizzare il matrimonio della primogenita in coincidenza del suo ottantesimo compleanno. Prima che il cuore gli tirasse l’ultimo scherzo aveva scritto per Minimum Fax Storia di un boxeur latino: il libro uscirà a maggio.

 Roberta Scorranese per corriere.it pubblicato da Dagospia il 25 luglio 2022

Che cosa c’è da dire ancora sulla vita di Gianni Minà, oggi 84 anni, che non sia stato magistralmente riassunto nella battuta di Fiorello «Eravamo io, Bob De Niro, Fidel Castro e Gabo Márquez»? Ben poco. O forse no. Perché giornalisti come Minà hanno il dono di trasformare ogni racconto in una piccola epica del quotidiano, illuminando ogni volta un particolare decisivo, come sapevano fare gli impressionisti. Suoi sono programmi storici come Blitz o Alta Classe, suoi documentari su personaggi come Che Guevara, Muhammad Ali, Fidel Castro.

 Certo, quella foto memorabile che la ritrae assieme a Sergio Leone, Robert De Niro, Muhammad Ali e Gabriel García Márquez sta lì a dimostrare una vita-carosello di incontri straordinari. Può dirsi felice a questo punto della sua carriera? E che cosa vuol dire per lei la felicità?

«C’è un uso improprio, anzi un abuso della parola “felicità”. Implica uno stato di grazia che quasi mai si raggiunge. Possono esserci degli attimi, la nascita di una figlia, lo scoop inarrivabile, lo sconcerto di pensare “è successo proprio a me”. Ma se uno si sofferma troppo sulla propria felicità perde di vista gli altri, il mondo. 

La nostra identità si esprime attraverso di loro, in un rapporto virtuoso. Invece da troppi decenni ci hanno voluto inculcare la balla che la felicità si raggiungere consumando tutto. Se guardo indietro posso dirmi soddisfatto della mia carriera. Ma non l’ho mai considerata “carriera”. È stata, lo è tutt’ora, parte importante della mia vita, un atteggiamento interiorizzato da quando sono un adolescente, sempre alla ricerca di persone da conoscere, da ascoltare, sempre alla ricerca di fatti cui valga la pena raccontare» .

 Nato a Torino, nella sua bella autobiografia, Storia di un boxeur latino (minimum fax), lei rievoca l’esperienza di sfollato a Brusasco.

«Non ho molti ricordi, perché ero piccolo. Ma ho imparato a ricordarli soprattutto attraverso mio fratello, poco più grande di me, il cui breve sequestro di mia madre lo ha ferito nel profondo. Mi è rimasta la paura, l’orrore per i gesti violenti. Non so gestirli, né ho mai reagito ad attacchi verbali. Non riesco, mi blocco. Ma sono immune dal risentimento. Se dovessi pensare all’unica qualità che ho, è proprio questa, non provare risentimento. Ho visto troppe persone consumarsi dalle amarezze».

 Sanno che per un breve periodo della sua giovinezza lei ha lavorato con il generale De Lorenzo, quello del Piano Solo del 1964, secondo molti un tentativo di colpo di Stato (anche se questa finalità è stata esclusa dalle indagini). Che clima si respirava all’epoca?

«Io ero molto giovane, già preso dal lavoro, facevo i servizi al telegiornale, avevo la percezione di essere già arrivato, così giovane. Sapevo però che incombeva su di me l’obbligo della leva, mio padre era scomparso, mio fratello l’aveva schivata, io forse no. Ma tutti in Rai mi dicevano che se fossi partito militare sarebbe sceso il diluvio. E infatti, partii.

 Fu una delle rare esperienze spiacevoli della mia vita, il generale De Lorenzo, era un uomo sfuggente, non ti guardava mai in faccia, godeva a umiliare i ragazzi e io non ero escluso dal trattamento. Mi misero nell’Ufficio Stampa del Ministero della Difesa. Andavo alle sei del mattino, a lavorare, come mi aveva insegnato Ghirelli. Compilavo la rassegna stampa e gliela portavo. Lui alzava appena la testa, sistemava tutto sulla sua scrivania e ogni mattina, mi redarguiva: “Hai la cravatta fuori posto”, “Gli scarponi non sono lucidi”, e così via».

 E vennero i formidabili anni Sessanta.

«In una taverna romana, eravamo io, Toquinho, Ungaretti e Vinícius de Moraes. Ungaretti recitava poesie con la sua voce di cartavetrata. Poi continuava Vinícius, in portoghese.

Erano cene interminabili. Ungaretti era già vecchio ma, accanto, aveva sempre belle donne. João Gilberto, invece, lo avevo visto suonare per la prima volta al tendone della Bussola. Tra gli spettatori fissi che ogni sera venivano a osannarlo c’era anche Gianni Agnelli, l’avvocato.

 D’estate si finiva in Versilia perché da lì passavano i più grandi campioni della nuova musica, dal rock’n’roll al samba, ma si viveva anche delle trovate estemporanee di Franco Califano, er Califfo, pronto a dare lezioni sul come conquistare una donna attraverso i versi di una canzone e non solo».

 Lei ha vissuto i concerti epici.

«Mi ero perso Woodstock, non potevo perdermi Wight (edizione 1970, ndr). Il biglietto d’entrata costava solo tre sterline. Solo tre sterline per Joni Mitchell, Miles Davis, Jethro Tull, Leonard Cohen... Nella notte avevo visto l’esibizione dei Doors e sentito Jimi Hendrix interpretare prima If 6 Was 9 e poi stravolgere con la sua chitarra l’inno americano.

 La sera dopo l’intervento di Jimi Hendrix, Georgina (la prima moglie di Minà, ndr) era venuta trafelata a dirmi: “Dietro le quinte c’è un nero che si sente male. Cercano un’automobile, possiamo prestargli quella che abbiamo affittato noi?” Era proprio Jimi Hendrix. Sia per lui che per Jim Morrison sarebbe stata l’ultima esibizione».

 Lei ha incontrato molti dei protagonisti del Novecento. Da Fidel Castro a Maradona. Ma vorrei un ricordo dei Beatles.

«Eravamo ragazzini, tutti quanti. Io avevo più feeling con Paul Mc Cartney e il legame con lui mi permise di incontrarlo nell’89, in occasione del suo tour da solista perché avrei voluto imbastire un documentario su di lui prodotto da Mimmo D’Alessandro (con cui poi anni dopo avrei fatto, insieme a Sergio Bernardini, il programma registrato alla Bussoladomani “Alta Classe”). Ma i rispettivi impegni ce lo impedirono. Questo errore ancora lo rimpiango».

Una carriera è fatta anche di occasioni mancate, passi falsi.

«Ancor più rimpiango la mancata intervista a Nelson Mandela, dove ci rincorremmo per due anni e poi non se ne fece più nulla».

 Mina è ancora una sua grande amica?

«È una persona amabile, adorabile. Con una personalità e sensibilità fuori dagli schemi. Ci conosciamo dal ’61, non ci frequentiamo più da tempo e fino a prima della pandemia ci sentivamo al telefono, ma l’affetto e la stima rimangono immutabili. Un’artista, a parer mio, inarrivabile.

 Si è ritirata molto presto, ma ha saputo rimanere nell’immaginario collettivo degli italiani, vestita solo dell’interpretazione dei suoi brani che periodicamente ci regala. Solo di Mina, di Chico Buarque de Hollanda e di Joan Manuel Serrat ho tutti i dischi. In questo periodo sto riscoprendo le loro meravigliose sonorità e la mia collezione di più di duemila lp che non ho mai avuto il tempo di ascoltare».

 Com’era Pasolini? Lei ha raccontato che nel calcio picchiava duro.

«Pier Paolo era appassionato di calcio, giocava con passione senza risparmiare o risparmiarsi nulla, come ha sempre fatto vivendo la sua vita. Io lo considero più di uno scrittore, un poeta che ha scritto testi profetici, sulla società e il ruolo della televisione. Mi colpì profondamente lo scempio del suo corpo, le foto mostrate. Mi ricordarono subito quelle del Che Guevara, che, come un moderno Cristo, fu fotografato subito dopo la sua uccisione con intorno i suoi assassini soddisfatti dell’esibizione del loro trofeo».

Che idea si è fatta della sua morte?

«Ricordo bene che ci obbligarono a pensare che fosse stato un omicidio a scopo sessuale, ma in quel periodo, in un’Italia turbolenta, che aveva e avrebbe subito stragi di cui ancora non sappiamo i mandanti, questa spiegazione mi è sempre risultata offensiva. Pasolini è un altro, ennesimo buco nero della storia della nostra disgraziata Repubblica».

Qual è stata la più grande lezione che lei ha tratto dalla vita e dalla sua amicizia con Muhammad Alì?

«La sto vivendo sulla mia pelle: sono vecchio e con acciacchi più o meno seri che mi hanno complicato la vita. Non vedo più tanto bene, faccio molta fatica a leggere, ma continuo a farlo, a studiare, a scrivere. Mi sono fermato psicologicamente durante la pandemia, pensavo fosse una disgrazia insopportabile accaduta proprio a me. Poi semplicemente, mia moglie Loredana mi ha fatto ricordare la lezione di Muhammad Alì, che quando passava a Roma ci veniva sempre a trovare con la sua Lonnie.

Lui, “the greatest”, il più grande, colpito proprio nella parola che aveva usato così mirabilmente per difendere i diritti civili della sua gente diceva spesso: “Ho ricevuto così tanto dal mio Dio che neanche questa malattia può minimamente pareggiare quello che ho ricevuto da Lui”. In fondo, è così pure per me. Sono state quindi le parole di Muhammad Alì a farmi trovare un modo altro, diverso per continuare la mia professione di giornalista. Anzi, ora ho imparato ad ascoltare di più e meglio».

 E dall’amicizia con Gabo? Secondo lei Gabriel García Márquez era consapevole di essere uno scrittore immenso?

«Sicuramente è stato lui a farmi scalare la lunga fila di giornalisti che anelavano un’intervista a Fidel Castro. Io da tempo mi ero preparato con Saverio Tutino e con il suo aiuto pensai a più di cento domande da fare al Comandante. Pura follia. Nel frattempo, nel corso degli anni, avevo incontrato e tessuto la mia amicizia con il Premio Nobel varie volte.

 Lo avevo incontrato inizialmente a Città del Messico, dove viveva e dove lo avevo aiutato ad avere un incontro tra lui e il nostro presidente Pertini e poi a Cuba, dove aveva fondato la Scuola di Cinema a pochi km dall’Avana. L’aveva intitolata a Zavattini, perché con gli altri registi cubani, avevano tutti frequentato la Scuola sperimentale di cinematografica a Roma.

Mi raccontava spesso, divertito, che quando parlava agli italiani dell’orgoglio di aver conosciuto Zavattini, questi spesso rispondevano: “Zavattini chi?”. In quella Scuola dava lezioni di scrittura creativa e di giornalismo; poi più tardi aveva creato una Scuola di giornalismo in Colombia. Era un uomo molto colto e molto divertente. Più che scrittore immenso, lui aveva l’urgenza di essere utile socialmente, perché – sosteneva convinto - è questa la funzione sentita dagli intellettuali in America Latina».

 Maradona. Se dovesse riassumere questo personaggio senza confini in poche parole?

«Insieme a Pietro Mennea è stato un dolore immenso la notizia della sua morte. Mi ha concesso il privilegio di attraversare ombre e luci della sua vita. Non l’ho mai giudicato, perché non è questo il compito che ci si deve aspettare da un giornalista. Ho tentato di raccontarlo nella maniera più aderente possibile. Con mia moglie Loredana abbiamo deciso di distruggere parte del materiale filmico riguardante le sue sedute dallo psicologo che mi aveva fatto filmare a forza».

Me lo racconta un errore giornalistico? O, come diciamo noi, un “buco”?

«L’ho detto prima, due: la mancata intervista a Nelson Mandela e a Paul Mc Cartney. Un altro “buco” è stato l’intervista a Barack Obama. Subito dopo il mio documentario “Cuba nell’epoca di Obama” del 2011, come avevo fatto con Fidel Castro, ho chiesto l’intervista al Presidente nordamericano. 

 Ho seguito le solite procedure burocratiche che si fanno per le interviste ai capi di stato, la richiesta all’Ambasciata di appartenenza. Mi hanno fatto produrre una montagna di documenti: sulla mia società, su tutti i miei documentari, la mia biografia, le mie domande, addirittura la lettera di accompagnamento di un membro del Partito Democratico e poi mi risposero dopo un bel po’ di tempo che per quel tipo di intervista non erano ancora maturi i tempi. Succede».

 Ci parla del progetto Minà’s Rewind?

«Da circa dieci anni, con Loredana, stiamo lavorando alla conservazione della memoria di tutto quello che ho fatto come giornalista. Abbiamo privilegiato inizialmente i libri, poi un documentario “Minà, una vita da giornalista” che presenteremo a ottobre e infine questo meraviglioso progetto, “Minà s Rewind”, il più poetico di tutti, quello a cui tengo di più: la condivisione con chi ne vorrà sapere di più, delle interviste che ho fatto nel corso della mia vita professionale e che non hanno mai visto la luce, per svariati motivi. 

Questa nuova idea l’ho potuta intraprendere grazie alla sagacia di Loredana che ha messo su un gruppetto di collaboratori: la più giovane, la mascotte, Ludovica Piccialuti, 21 anni che si occupa di grafica e dei contatti con la stampa insieme a Bruno Martirani che gestisce materialmente i miei profili, Dario Caregnato, un vero genio delle strategie dei social; dopo 15 anni di lezioni semplificative di questo che per me era un mondo inconcepibile, mi ha fatto capire che potevo arrivare ai miei lettori anche senza giornali o tv; Eugenio Baldassarri Hernandez, il mio iperattivo figlioccio che sa tutto su tecniche di montaggio e riversamenti e infine Andrea Conforti, che supervisiona tutti e tutto con l’amore e l’amicizia che mi riserva da molto tempo».

 Un nuovo modo di fare giornalismo?

«Per me, vecchio ultraottantenne, è la rinascita ad un nuovo modo di vivere il mio mestiere, ma soprattutto la mia vita. Non è vero che i due modi di fare giornalismo, il mio, quello investigativo tradizionale e quello fatto sui social sono inconciliabili. Minà’s Rewind vuole essere proprio questo anello di congiunzione: mettere nel mio sito e sul mio canale You Tube informazione verificata senza dipendere economicamente da nessuno, dove chi vuole può fermarsi a leggere un mio articolo o un libro o un numero della rivista “Latinoamerica” o vedere un’intervista filmata.

 Con produzionidalbasso.it abbiamo iniziato una raccolta fondi che ci ha permesso di iniziare questo lavoro. È per me sconvolgente quanta gente mi legge, gli attestati di affetto. Sono onorato, e anche felice di aver trovato un nuovo modo di condivisione con gli altri. È questo il sale della vita».

Gianni Minà: «Io, Fidel e quell’intervista di 16 ore. Vi spiego perché non è stato un dittatore»

Lo scrittore e saggista, autore di trasmissioni storiche della Rai, ha conosciuto il lider maximo meglio di molti altri giornalisti occidentali. Paolo Conti su Il Corriere della Sera il 27 novembre 2016.

Gianni Minà, scrittore e saggista, autore di trasmissioni storiche della Rai («Blitz», solo pe fare un esempio, ma fu anche tra i fondatori de «L’altra domenica») ha conosciuto Fidel Castro meglio di molti altri giornalisti occidentali.

«Il comandante» gli rilasciò due interviste televisive (poi trasferite nei suoi libri): la più famosa è quella, fluviale, del 1987 perché durò sedici ore, tutte registrate, un record imbattuto nella storia della Rai.

Ma come andò, Minà?

«Stavo realizzando una serie di interviste con i presidenti dell’America Latina. Attendevo a Cuba da dieci giorni la possibilità di incontrare Fidel Castro. Avevo già pronte ben ottanta domande avevo preparato insieme all’amico Saverio Tutino, grande intellettuale e giornalista, ex partigiano, che fu corrispondente dell’America Latina. Mi aiutò molto, i quesiti erano puntuali, mai banali. Venni convocato. Chiesi subito a Fidel se per caso volesse sapere prima le domande, come fanno sempre i capi di Stato e molti interlocutori. Mi diede una risposta che non dimenticherò: “Con la storia che abbiamo, possiamo aver paura delle parole? Risponderò a tutte le domande”. Capii subito che non sarebbe stata una navigazione facile. Finimmo alle 6 del mattino, rischiai di perdere l’aereo per il Messico dove avevo fissato un appuntamento col presidente di quel Paese».

Intorno a Minà (che sta presentando in Italia il suo film documentario «Papa Francesco, Cuba e Fidel», che racconta la visita del Pontefice nell’isola caraibica dal 19 al 22 settembre 2015), le tracce di una vita professionale. Molti premi, tra cui il Kamera della Berlinale alla carriera, il più prestigioso per i documentaristi. Sulla parete, i ritratti della moglie e delle due figlie di Minà firmati dal pittore messicano Omar Cuevas Manueco. Racconta Minà «che allora si girava in pellicola a 16 millimetri, e il materiale della Rai stava per finire. C’era con Fidel il suo assistente che improvvisamente sparì e tornò con un cartone pieno di pellicola giapponese dell’archivio cinematografico delle Forze armate rivoluzionarie».

Mangiaste qualcosa in quelle sedici ore?

«Noi qualche panino. Fidel molto tè tiepido e basta. Ricordo che l’intervista si trasformò in un vero e proprio happening, vista la lunghezza».

Se si chiede a Minà quale sia stato il particolare che lo colpì di più, risponde così: «Capii che non si sarebbe alzato da quella sedia se non avesse finito di parlare di Che Guevara. Gli dedicò cinquanta minuti».

Fidel Castro, lo ha ricordato la stampa italiana e straniera, ha anche imprigionato molti dissidenti, intellettuali, omosessuali. Lei ebbe la sensazione che Fidel lo ammettesse?

«Vorrei dire che a Cuba avviene ciò che succede anche in tanti Paesi occidentali….ammetteva che la Cia lavorava nell’ombra a Miami, organizzando anche molti atti terroristici nell’isola. Molti responsabili sono ancora vivi e non sono mai stati processati, non credo sia una bella pagina nella storia degli Stati Uniti…».

Però anche Pietro Ingrao su «Liberazione» definì Cuba «una pesante dittatura», e tutto era, Ingrao, tranne che un uomo di destra…

«Ingrao è stato un padre della sinistra, un grande politico e intellettuale.

Ma in quel caso scrisse senza conoscere la realtà, non sapendo come stavano le cose. Mi dispiace dirlo, ma dette un giudizio superficiale. Per criticare, occorre sapere. Io ho diretto per quindici anni la rivista «Latinoamerica e tutti i sud del mondo» e ho ospitato molte voci del dissenso. Ma parlando dall’interno dell’isola».

Per Cuba, secondo Minà, si deve parlare di rivoluzione tradita o attuata?

«Sicuramente non tradita. Funziona un sistema che assicura alla gente la casa, il cibo, la sanità pubblica uguale per tutti, l’istruzione, la cultura. Oggi sarebbe uno dei tanti Paesi dell’America Latina che attendono che almeno qualcosa cambi, anche di poco, ma cambi. Invece a Cuba funziona, per fare un solo esempio, un centro di ingegneria genetica all’avanguardia nel mondo. Così come Cuba può inviare i suoi atleti alle gare internazionali e alle Olimpiadi, e in molti casi vincerle».

Minà è convinto che con la morte di Fidel Castro a Cuba non cambierà niente:

«No, sull’isola non credo ci saranno contraccolpi. Sarà Trump a doverci dire se vuole ringraziare quelli che, a Miami, hanno pagato parte della sua campagna elettorale. Cuba ha avuto e ha attori politici che sono entrati nella storia e hanno acquisito una grande credibilità. Ci sarà una ragione se papa Francesco ha voluto incontrare Fidel nella sua abitazione privata a Cuba durante il suo viaggio. E ci sarà sempre una ragione se proprio lì papa Francesco e il Patriarca Kirill hanno raggiunto un’intesa dopo mille anni di divisioni. Il Vaticano ha una visione ben diversa di Cuba rispetto a quella presentata da tanta stampa occidentale».

A proposito di papa Francesco, Minà: lei pensa che Fidel possa essersi convertito –lui, ex alunno dei gesuiti- in punto di morte?

«Su questo punto, l’ultima volta in cui ci siamo visti, nel settembre 2015, è stato chiaro. Non ha mai usato la parola fede. Mi ha detto: “Sono stato educato da un’altra cultura. Poi ho incontrato questa, con cui tuttora vivo”. No, direi proprio nessuna conversione…»

Gianni Minà morto: addio al giornalista e conduttore tv. Il Tempo il 27 marzo 2023

Gianni Minà è morto. Dopo una breve malattia cardiaca il giornalista e conduttore televisivo è deceduto oggi: la notizia è stata data sulle sue pagine social ufficiali. "Non è stato mai lasciato solo - si legge nel post Facebook - ed è stato circondato dall’amore della sua famiglia e dei suoi amici più cari. Un ringraziamento speciale va al Prof. Fioranelli e allo staff della clinica Villa del Rosario che ci hanno dato la libertà di dirgli addio con serenità".

Nato a Torino, incominciò la carriera giornalistica nel 1959 a Tuttosport, di cui fu poi direttore dal 1996 al 1998. Nel 1960 ha esordito alla RAI come collaboratore dei servizi sportivi per le Olimpiadi di Roma. Nel 1965, dopo aver esordito al rotocalco televisivo di genere sportivo Sprint, diretto da Maurizio Barendson, ha cominciato a realizzare reportage e documentari per rubriche che hanno cambiato il linguaggio giornalistico della televisione, come "Tv7" e "AZ, un fatto come e perché", i "Servizi speciali del TG", "Dribbling", "Odeon. Tutto quanto fa spettacolo" e  "Gulliver".

Ha seguito otto mondiali di calcio e sette olimpiadi, oltre a decine di campionati mondiali di pugilato, fra cui quelli a cui partecipò Muhammad Ali. Ha anche realizzato una Storia del Jazz in quattro puntate, programmi sulla musica popolare centro e sudamericana (come ad esempio “Caccia al bisonte” con Gianni Morandi) e una storia sociologica e tecnica della boxe in 14 puntate, intitolata "Facce piene di pugni".

Minà è stato tra i fondatori de L’altra domenica con Maurizio Barendson e Renzo Arbore. Nel 1976, dopo 17 anni di precariato, è stato assunto al Tg2 diretto da Andrea Barbato e ha incominciato a raccontare la grande boxe e l’America dello show-business, ma anche i conflitti sociali delle minoranze. Sono cominciati in quegli anni anche i reportage dall’America Latina che hanno caratterizzato la sua carriera.

Nel 1978, mentre seguiva come cronista il campionato mondiale di calcio, venne ammonito e poi espulso dall’Argentina per aver fatto domande sui desaparecidos al capitano di vascello Carlos Alberto Lacoste (capo dell’ente per l’organizzazione del mondiale) durante una conferenza stampa.[2] Nel 1981 il Presidente Sandro Pertini gli consegnò il Premio Saint Vincent come miglior giornalista televisivo dell’anno. Nello stesso periodo, dopo aver collaborato a due cicli di Mixer di Giovanni Minoli, dal 1981 al 1984 ha esordito come autore e conduttore di Blitz, programma domenicale di Rai 2 con il quale intervistò personaggi del calibro di Fellini, Eduardo De Filippo, Muhammad Ali, De Niro, Jane Fonda, García Márquez, Enzo Ferrari e tanti altri. Nel 1987 intervistò una prima volta per 16 ore il presidente cubano Fidel Castro. Da quell’incontro è stato tratto il reportage "Fidel racconta il Che", dove il generale cubano per la prima e unica volta racconta il "compagno" Ernesto Guevara, con il prologo di Gabriel García Márquez.

Nel 1991 ha realizzato il programma "Alta classe", su artisti come Ray Charles, Pino Daniele e Massimo Troisi. Nello stesso anno ha presentato "La Domenica Sportiva" e ideato il programma di approfondimento "Zona Cesarini", rubrica riservata agli eventi agonistici. Tra gli altri programmi realizzati: "Un mondo nel pallone", "Ieri, oggi… domani?" con Simona Marchini ed Enrico Vaime, "Te voglio bene assaje", show ideato da Lucio Dalla. Fra i documentari di maggior successo, alcuni di carattere sportivo su Nereo Rocco, Diego Maradona e Michel Platini, Ronaldo, Carlos Monzón, Nino Benvenuti, Edwin Moses, Tommie Smith, Lee Evans, Pietro Mennea e Muhammad Ali, che Minà ha seguito in tutta la sua carriera e al quale ha dedicato un lungometraggio intitolato "Cassius Clay, una storia americana".

Nel 1992 incomincia un ciclo di opere rivolte al continente latinoamericano, tra cui un reportage sulla marcia degli indigeni Maya dal Chiapas a Città del Messico. Nel 2001 Minà ha realizzato "Maradona: non sarò mai un uomo comune" reportage-confessione di 70 minuti con Diego Maradona alla fine dell’anno più sofferto per l’ex calciatore. Nel 2004 si è dedicato ancora una volta al "Che", realizzando un progetto basato sui diari giovanili del "comandante", redatti nel 1952 attraversando in motocicletta l’America Latina. Progetto che ispirerà il film intitolato "I diari della motocicletta" diretto da Walter Salles e prodotto da Robert Redford e Michael Nozik. A sua volta, Minà ha realizzato il lungometraggio "In viaggio con Che Guevara", ripercorrendo quella mitica avventura con l’ormai ottantenne scrittore argentino e amico del Che, Alberto Granado.

E’ morto Gianni Minà, un “grande” del giornalismo italiano. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 28 marzo 2023

Nell'ambiente giornalistico era invidiato dai colleghi e lavorava da solo: fu l'unico giornalista a chiedere in conferenza stampa prima dei Mondiali di Argentina '78 ai membri della giunta militare: "Qui si rincorrono voci su persone che spariscono".

Il giornalista e noto conduttore televisivo Gianni Minà è morto all’età di 84 anni. L’annuncio della scomparsa sulla sua pagina ufficiale di Facebook. “Gianni Minà ci ha lasciato dopo una breve malattia cardiaca. Non è stato mai lasciato solo, ed è stato circondato dall’amore della sua famiglia e dei suoi amici più cari. Un ringraziamento speciale va al Professor Fioranelli e allo staff della clinica Villa del Rosario che ci hanno dato la libertà di dirgli addio con serenità“

Nato a Torino il 17 maggio 1938, Gianni Minà ha iniziato la carriera da giornalista nel 1959 a ‘Tuttosport’ (di cui fu poi direttore dal 1996 al 1998). Nel 1960 debutta in Rai collaborando alla realizzazione dei servizi sportivi sui Giochi Olimpici di Roma. Approdato a ‘Sprint‘, rotocalco sportivo, diretto da Maurizio Barendson, a partire dal 1965 si occupa di documentari e inchieste per numerosi programmi, tra cui ‘Tv7‘, ‘AZ, un fatto come e perché’, ‘Dribbling‘, ‘Odeon. Tutto quanto fa spettacolo’ e ‘Gulliver‘. Con Renzo Arbore e Maurizio Barendson fonda ‘L’altra domenica‘. Nel 1976 viene assunto al ‘Tg2‘, diretto da Andrea Barbato. Nel 1981 vince il ‘Premio Saint Vincent‘ in qualità di miglior giornalista televisivo dell’anno. Dopo aver collaborato con Giovanni Minoli a ‘Mixer‘, debutta come conduttore di ‘Blitz‘, programma di Raidue di cui è anche autore, che accoglie ospiti come Eduardo De Filippo, Federico Fellini, Jane Fonda, Enzo Ferrari, Gabriel Garcia Marquez e Muhammad Alì.

Gianni Minà ha seguito otto mondiali di calcio e sette olimpiadi, oltre a decine di campionati mondiali di pugilato, fra cui quelli storici dell’epoca di Muhammad Ali. Nel 1987 Minà diventa famoso in tutto il mondo per un’intervista di sedici ore con Fidel Castro, il presidente cubano, per un documentario da cui viene tratto un libro: il reportage intitolato ‘Fidel racconta il Che’.

Le interviste a Fidel Castro sono state un punto di svolta della sua vita professionale. La prima intervista durava sedici ore e c’è il “Lìder Màximo” che inizia dicendo “Cercherò di sintetizzare”. La vollero per trasmetterle le tv di tutto il mondo. In Natural Born Killers c’è uno che dice: “Voglio un’intervista come quella che ha fatto quell’italiano a Castro!!!“. Ma nell’edizione del film che è arrivata da noi quella battuta non l’hanno messa. Gianni venne accusato di aver fatto un’intervista accondiscendente e ne soffrì.

Nell’ambiente giornalistico era invidiato dai colleghi e lavorava da solo: fu l’unico giornalista a chiedere in conferenza stampa prima dei Mondiali di Argentina ’78 ai membri della giunta militare: “Qui si rincorrono voci su persone che spariscono“. “Non ci risulta” rispose dal tavolo l’ammiraglio torturatore, ma poi funzionari Rai gli consigliarono di ripartire subito.

Perdiamo un giornalista originale, attento e mai banale, un uomo che amava la cultura. Ciao Gianni” twitta il ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano. Redazione CdG 1947

Il Ricordo di…

Estratto dell’articolo di Paolo Zaccagnini per mowmag.com il 30 marzo 2023.

(...)

A 84 anni ha tolto il disturbo anche il torinese Gianni Minà. “Zaccagnì come stai?” A Gianni, sei di Torino, nun fare il romano. “Sì, sono torinese, ti disturba se faccio il romano?”.

 Grande, piccolo, rotondo Gianni. Giornalista. Una vita, quelle di una volta, per la notizia. Che per lui poteva essere Cassius Clay, Robert De Niro, Martin Scorsese, Massimo Troisi, Pino Daniele, Fidel Castro, Ernesto "Che" Guevara, Sergio Leone. Oppure i programmi Blitz e Mixer. Una persona seria e vera. Che, bonariamente come il Bartleby di Hermann Melville, diceva no. Adesso tutti lo lodano e lo ricordano e lo piangono, ma quante risate e sbertucciamenti ha dovuto sopportare, quante prese in giro? No, lui non era nel giro, non si inchinava.

Piemontese tutto d'un pezzo. Anche i documentari che realizzò con la sua società sono grandi pezzi di giornalismo televisivo. Poco più che ragazzo, tra i crassi sghignazzi della stampa tutta, i Beatles alla loro prima, e ultima, tournée italiana. Anche lì disinteresse totale. Capelloni? Pussa via.

 Un ricordo? Rivedetevi il film che vinse l'Oscar per la musica, ma siccome c'era coinvolto lui la stampa italiana ne parlò poco e male. “I diari della motocicletta”, l'epico viaggio in moto dell'allora giovane dottore Ernesto Guevara. Film di grande poesia e semplicità. Giornalista castrista, Gianni, perché fece un'intervista di 16 ore all'amico Fidel Castro? E allora? Gianni non rinnegò mai il suo credo nella libertà, mai si mise in vetrina. 

(...)

Gianni Minà, lo schiaffo della sinistra: cos'hanno scordato. Giampiero De Chiara su Libero Quotidiano il 30 marzo 2023

La notizia è arrivata quando nelle redazioni c’è la corsa a chiudere il giornale, ma nonostante ciò la scomparsa di Gianni Minà è stata raccontata con grande trasporto da tutti i quotidiani. Una perdita grave e dolorosa per chi fa questo mestiere, ma anche per chi ha seguito, fin dai “mitici anni sessanta”, il lavoro del giornalista torinese. Segno che le sue idee politiche (il suo essere di sinistra, il suo anti-americanismo e la passione spesso incomprensibile per certi dittatori sudamericani) non hanno mai inficiato il suo lavoro. Bastava fare un giro sui social per capire quanto Minà, che mancava dal piccolo schermo da quasi trent’anni con un programma tutto suo (a parte il documentario su Che Guevara del 2004 che passa ogni tanto in replica su Rai Storia), fosse amato, ricordato e omaggiato.

Il video con Pino Daniele e Massimo Troisi che lo prendeva in giro sulla sua famosa agendina: «per arrivare a me ha aperto l’agendina, ha letto: Fratelli Taviani, Toquinho, Troisi», o Carla Fracci che negli studi di Blitz balla il rock’n’roll, o sempre da Blitz Gigi Proietti che davanti a Vittorio Gassman lo imita perfettamente nel quinto canto dell’Inferno di Dante, mentre Adriano Celentano gli tiene il microfono. Pezzi di televisione che sono storia del costume italiano. E che sono stati giustamente osannati e ricordati immediatamente. Tanta gratitudine che però, per tanti anni, non è stata data dal giornalista scomparso all’età di 84 anni. Nessuna chiamata da parte della Rai. Possibile che uno spazio non poteva essere trovato per un professionista del servizio pubblico che in questi anni ha continuato a lavorare, girare documentari e scrivere libri?

Marco Ciriello per mexicanjournalist.wordpress.com il 28 marzo 2023.

1)      Piacere, Gianni: in Italia un nome che è investimento. Rivera, Brera, Mura, fiducia ad oltranza. Vicinanza e trasversalità, come Boncompagni e Morandi. Educazione per Rodari. Eccellenza per Agnelli. Gianni Minà le ha riassunte tutte.

 2)      Il destino scritto da chi l’aveva preceduto: da nipote di garibaldino avrebbe indossato una camicia rossa, erede di sfollati del terremoto di Messina corse per primo per raccontare il Friuli per la Rai. E anche se il padre fu fascista salvò la vita e aiutò comunisti a scappare. Sempre dalla parte del buonsenso.

 3)      Come il jazz che amava, ha vissuto senza confini prestabiliti, annegando nelle vene aperte dell’America Latina tra Brasile, Cile, Messico e Cuba, capace di virtuosismi nell’Argentina di Videla, narrando l’Africa senza mostrarla come succube, mantenendo sempre il grigio fumé del cielo di Torino, sognando una rivoluzione in LA.

4)      Come un tridente d’attaccanti, i suoi maestri furono Antonio Ghirelli, Maurizio Barendson e Sergio Zavoli. Dai napoletani imparò a costruire l’analisi e la connessione, mentre dal romagnolo la possibilità di arrivare a tutti. Sempre guidato dalla curiosità, spirito di avventura salgariana e senza perdere la tenerezza.

 5)      In una controstoria mai fuori tempo massimo, da europeo, si fece conquistare dall’altro Brasile: Vinícius de Moraes, Toquinho, Chico Buarque, seduti alla tavola del Moro, a Roma. Il poeta raccontando di Ungaretti a San Paolo, gli altri alternandosi alla chitarra. La “patria umana” di esuli assediava Fontana di Trevi.

6)      Preferiva i velocisti perché donavano l’illusione che l’evoluzione dell’uomo sarebbe arrivata prima del previsto. In Messico nel ’68 vide i pugni chiusi di Tommie Smith e John Carlos colpire il razzismo, e con Pietro Mennea, nel ’79, pianse vedendo il Sud correre con orgoglio e un record verso il futuro.

 7)      A pensarci bene la copertina di “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band” potrebbe essere solo una pagina dell’infinito album di Minà. Probabilmente neanche la migliore.

 8 )     Perdendo Woodstock, nel ’70 si imbarcò per l’isola di Wight. Joni Mitchell, Miles Davis, Jethro Tull, Leonard Cohen, The Doors. Ed ebbe il tempo di soccorrere con la propria macchina un musicista nero che si era sentito male dietro le quinte. Fu l’ultima apparizione di Jimi Hendrix.

9)      Diede quasi fuoco alla casa di Dizzy Gillespie. Durante un’intervista mentre il jazzista sfoderava la propria tromba da un sacchetto di carta «È per questo che mi chiamano Dizzy, lo sgualcito», un faro aveva incendiato uno degli architravi. Tra la mortificazione di Minà e le urla di sua moglie, il musicista concluse «Mai vista una luce più calda».

 10)    Da anarchici e non amanti delle serie tv italiane, l’unico Blitz che riconosciamo è quello di Gianni Minà.

 11)    Partecipò alla produzione de “I diari della motocicletta”, film sul viaggio di Alberto Granado e Che Guevara attraverso l’America Latina. Mise in contatto la famiglia Guevara con Robert Redford, perché Minà coltivava progetti collegando mondi distanti. Un enzima per reazioni chimiche in pellicola.

12)    E se pensate che non abbiamo fatto in tempo a vedere il nuovo mondo, questo terzo scudetto, non dubitate: Minà sapeva essere anche oracolo e visione: come Cheyenne, vede l’arrivo della ferrovia, ma non la stazione di Sweetwater.

 13)    Da satellite indipendente, mai sovietico, viaggiava nell’America Latina catturando una prospettiva che la maggioranza non amava mostrare: l’istanza di un continente arretrato per gli occidentali, ma che al contrario era progressista, smascherato dal folklore, restituendo dignità alle donne e agli uomini migliori. E a 51 mila cubani che liberarono l’Angola.

 14)    A Kinshasa, quando eravamo re, mangiò per quattro giorni pane e formaggini in attesa dell’incontro. Quando Foreman crollò a terra, con la troupe raggiunse negli spogliatoi Angelo Dundee che li fece entrare: «Fatelo passare, fatelo passare, chillo è frate mio». E fuori la porta c’era Norman Mailer non Chiara Ferragni.

15)    Alla Rai è stato il lupo di Wes Anderson in “Fantastic Mr. Fox”: non apparteneva a nessuno e pure chi lo odiava non poteva che ripetere: guarda che grande esemplare. Poi per dodici anni non riuscì a fare nulla per la seconda rete. Agli omoni socialisti, le creature selvagge non sono mai piaciute.

 16)    Con i suoi baffi a metà tra attore porno della Germania dell’Est e un messicano dei film di Damiano Damiani, è stato la domenica pomeriggio dell’opposizione a Pippo Baudo, riuscendo ad essere Piero Angela e Moana Pozzi, col cardigan.

 17)    James Brown gli confidò che in un istituto correzionale per minori era costretto a rubare pezzi di auto per avere qualcosa da mangiare. Così aveva potuto frequentare la scuola come gli altri ragazzi, e diventato famoso aveva iniziato ad aiutare la sua gente. Il welfare che aveva visto la luce.

 18)    “Gianni Minà Intervista” è la più lunga serie tv della storia delle serie tv.

 19)    Il più grande rammarico è stato non riuscire a intervistare Nelson Mandela, mentre per Obama, quando era in carica come presidente, il suo staff gli rispose che non erano ancora pronti per quel genere di intervista. Figuriamoci per il socialismo.

20)    Sarebbe stato un poster da attaccare nella cameretta di Oliver Stone, o un telefono – che amava come Lucio Dalla – con il filo per legare con parole paesi distanti, e anche un microfono panoramico per registrare le voci più lontane. Gianni Minà era un elettrodomestico multiuso, che non fu mai televisione.

 21)    Come fece Mario Sconcerti – a “La Repubblica” – con un suo pezzo troppo lungo e troppo bello, impossibile da tagliare, lo spezzò e scrisse: continua domani [e domani e domani e domani].

Da ilnapolista.it il 28 marzo 2023.

Ieri è morto Gianni Minà. Aveva 84 anni. Oggi Tony Damascelli lo ricorda su Il Giornale. Un giornalista spinto dalla voglia di narrare ascoltando. Uno che “sapeva accomodarsi di fianco a chiunque, illustre o sconosciuto e regalarci pietre verdi della scoperta”.

 Gianni Minà ha girato il mondo, spesso con ritmi frenetici ed orari improbabili, riuscendo a cogliere il gusto e il senso della vita altrui ma spesso smarrendo il proprio, scrive Damascelli. E’ stato compagno di Diego Maradona e di Fidel Castro, ha portato in giro per Roma i Beatles a bordo della sua Cinquecento Fiat.

 “Andava a cena con De Niro e Cassius Clay, Fellini e la Masina, era tifoso del Toro, sapeva di sport e di letteratura, era giornalista di razza, a tratti un po’ narciso.

 Mohammed Alì gli raccontava tutto.

Questo era il suo pregio, un valigia piena di memorie e di conoscenze poi tramutatesi in amicizie vere, pure improbabili e illustri, il premio Nobel Gabriel Garcia Márquez e attori, e registi e allenatori e pugili e ciclisti, il mondo di tutti, il suo luna park privato”.

Eppure è morto in solitudine, abbandonato dalla Rai e dalle altre televisioni, considerato ormai troppo datato.

Il suo tramonto è stato malinconico e non soltanto o certamente per la malattia. Ignorato dalla Rai e dalle altre emittenti, ai margini di una televisione frettolosa e superficiale, scomodo infine, Gianni non aveva più diritto di cittadinanza nemmeno nelle trasmissioni riservate all’epoca vintage, la sua, quella di cui è pieno l’archivio televisivo. Oggi, come accade puntualmente, si radunano gli amici smarriti, si esibiscono pensieri e parole finiti nel dimenticatoio.

 In fondo lo aveva previsto in uno dei suoi favolosi racconti, quando incontrò e intervistò Gabriel Garcia Márquez. Gianni ha vissuto bene e ha concluso la sua esistenza dopo ottantaquattro anni, in solitudine”.

Estratto dell’articolo di Silvia Fumarola per repubblica.it il 28 marzo 2023.

Amici da una vita. Renzo Arbore non trattiene le lacrime: "Conoscevo Gianni da sempre, abbiamo fatto tante cose insieme. Era una colonna della Rai, come me non l'ha mai tradita. Il servizio pubblico gli deve tanto, è stato un innovatore". La prima puntata de L'altra domenica, storico programma di Arbore, debuttava il 28 marzo 1976: c'era Minà con Charles Mingus che parlava di jazz.

 Il primo incontro?

"Collaborava con Maurizio Barendson al Tg2, si occupava di sport ma in realtà era onnivoro, sapeva di musica, spettacolo".

Dote principale?

"La curiosità e una grande gentilezza, era una persona a cui nessuno sapeva dire di no. Infatti, quando poi fece Blitz, il programma domenicale che andava in onda su Rai 2, ha avuto ospiti pazzeschi. Era amico dei grandi: li invitava e andavano".

 Lo sa che per questo poi lo prendevano in giro: "C'eravamo, io De Niro, Fidel Castro, Cassius Clay".

"Lo so ma era tutto vero, perché Gianni diventava davvero loro amico. Ci sono foto in cui è con le leggende del cinema e dello sport e ti dici: "Ma non è possibile, tutti insieme". Per questo quando collaborava a L'altra domenica, per noi era un inviato di costume, faceva interviste con tutti".

 Che anni sono stati?

"Bellissimi. Era il Tg2 di Andrea Barbato, noi de L'Altra domenica ci incrociavamo con i giornalisti, ci sentivamo di far parte dello stesso gruppo. Una grande redazione ".

 L'amicizia di Minà con Fidel Castro?

"Era davvero amico personale, se andavi a Cuba e dicevi di conoscere Gianni, avevi tutte le porte aperte. Mi colpiva la sua passione, la curiosità che lo guidava. Aveva una conoscenza profonda dell'America Latina: chiedevi le cose e lui e spiegava".

La dote che lo caratterizzava?

"Proprio questa curiosità, lo sguardo sulle cose del mondo. Non era mai banale, faceva domande e il personaggio si apriva".

 Diceva prima che è stato una colonna della Rai.

"Certo, è un simbolo, un protagonista della buona televisione. La nostra generazione è rimasta sempre fedele all'azienda. Ultimamente lo seguivo su Facebook e mi faceva tanto piacere leggere gli attestati di stima per il suo giornalismo, c'erano tanti appassionati".

Oggi come vorrebbe che fosse ricordato?

"Vorrei che la Rai tirasse fuori le cose più belle del suo repertorio per rendergli omaggio, sono servizi e interviste in cui viene fuori tutta la voglia di conoscere e di far conoscere, la sua intelligenza".

Estratto dell'articolo di Alberto Infelise per “la Stampa” il 28 marzo 2023.

L'ultima volta che si sono sentiti è stata poche settimane fa. Ma non si sono sentiti. «Gian Paolo, non posso passartelo. Se ti sente ora si mette a piangere». La voce di Gian Paolo Ormezzano, grande firma del giornalismo sportivo del Novecento e amico fraterno di Gianni Minà è rotta dall'emozione. «Gianni era tutto, il più bravo, il più onesto, il più pulito. Non so nemmeno dire che cosa provo ora e cosa è più importante che io dica di questo uomo meraviglioso».

Quando vi siete conosciuti?

«Allora, io sono arrivato a Tuttosport nel '53 e lui è arrivato due o tre anni dopo. In redazione qui a Torino è subito nata un'amicizia che andava molto oltre il rapporto professionale. Tra di noi mai una rivalità, mai uno sgarbo o un'invidia».

Che cosa vi divideva?

«Mennea. Lui era pazzo di Pietro Mennea, io di Livio Berruti. E all'inizio della sua carriera Mennea era visto come l'antagonista di Berruti. Due passioni inconciliabili».

 A parte questo?

«A parte questo tutto il resto ci univa. Anche quando se ne andò da Torino a Roma.

Dicevano di lui che era un farfallone, che gli interessava la bella vita, ma non era così. Era preparatissimo e appassionato di tutti gli sport.

 Ma eravamo sempre vicini e uniti e ogni occasione per stare insieme la prendevamo al volo. Quando c'era Sanremo io mi facevo mandare dal giornale per fare gli allenamenti dei ciclisti, ma passavo le nottate con Gianni e il suo giro di cantanti e musicisti. Conosceva tutti e tutti lo amavano».

Il mito di Minà che conosce tutti i più famosi e passa il tempo con loro. Era davvero così?

«Certo che era così. Una sera mi chiama e mi dice: senti, vieni a Roma che domani sera siamo a cena con Cassius Clay, Robert De Niro e Sergio Leone. E gli rispondo: eh certo, e io invece sono a cena con il Papa. Diavolo, era tutto vero».

 Chi era il suo preferito tra tutti i nomi dello spettacolo che aveva intorno?

«Senza dubbio Massimo Troisi. Per lui aveva un amore particolare. Poi era molto divertito quando Fabio Fazio lo imitava, si divertiva davvero molto».

 E di Fidel Castro ha mai raccontato qualcosa?

«Niente, neanche una parola. Era stato molto vicino a Fidel e a Che Guevara. Ma per lui erano miti talmente grandi che non voleva farne parola con nessuno, non voleva raccontare nulla di loro. Ma erano sicuramente molto legati».

 Aveva un rapporto stretto con i figli del Che.

«Sì, tanto che rischiarono di fargli guadagnare qualche soldo quando gli cedettero i diritti sui racconti del padre. Ma non so se Gianni sia riuscito a fare soldi nemmeno con quelli. Gianni era troppo pulito, non pensava al denaro, non ha mai voluto rincorrere i soldi. Ha avuto un milione di occasioni di farne di facili, con i suoi racconti, magari scrivendo qualche canzonetta per raccattare qualche diritto. Ma non era fatto così, andava dritto per la sua strada e la sua strada non prevedeva i soldi. Credo sia morto povero».

 Quando è stata l'ultima volta che vi siete visti?

«Qualche tempo fa a Torino, sulla scalinata del palazzo dei giornali in corso Valdocco. Siamo rimasti lì a chiacchierare e poi siamo andati a mangiare una pizza da Picchio. Lui adorava Torino, era nato e cresciuto a Torino. Era di quei torinesi che stanno benissimo ovunque nel mondo, a Roma soprattutto, ma quando tornano a Torino sentono che qualunque cosa in questa città è più bella».

(...)

Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 28 marzo 2023.

«Io vulisse avè l’agenda è Minà». È uno degli sketch più famosi di Massimo Troisi, ospite di Gianni Minà in una delle sue rare apparizioni televisive: «L’agendina telefonica che c’ha Gianni Minà è una cosa da invidiarlo.

La apri, ecco Cassius Clay. E quello mica sbatt ‘o telefono: gli risponde! in teleselezione per ore. (...) Lui alla F c’ha Fidel, senza Castro solo co’ ‘o prefisso. E Pino Daniele (...) ha detto: Gianni, chiama a Massimo! Lui ha preso l’agenda, ta ta ta, alla T, Fratelli Taviani, Little Tony, Toquinho e Troisi!». Invidiandola, in molti hanno scherzato sulla mitica agenda di Minà, dove in ordine alfabetico c’era una parata di uomini importanti, di sportivi, di musicisti, di tutti quelli che il giornalista torinese aveva conosciuto e intervistato. Era anche molto imitato, specie da Fabio Fazio, quando iniziava le frasi immancabilmente con «non credo che è».

 Ma anche da Fiorello, per prendere in giro quella foto dove a cena appare con Gabriel Garcia Marquez, Sergio Leone, Robert De Niro, Muhammad Ali: «Eravamo io, Fidel, De Niro…» e giù una sfilza di nomi famosi. Ecco, se le prime immagini che vengono in mente di Minà sono gli omaggi di Troisi, di Fazio e di Fiorello significa che «Una vita da giornalista» (così recita il titolo di un docufilm a lui dedicato) era diventata una vita da vero personaggio e che l’arte dell’incontro ha fatto di lui «un uomo non comune» (come recita il titolo del suo ultimo libro).

 Minà ha iniziato la carriera come giornalista sportivo a «Tuttosport» e nel 1970 è entrato in Rai come collaboratore esterno. Nel 1976 ha curato la sezione spettacolo de «L’altra domenica» di Renzo Arbore e Maurizio Barendson. Sulla stessa rete, quattro anni dopo, ha collaborato a «Mixer», rotocalco di Minoli e Bruno per il quale curava rubriche e servizi di musica e sport. Dal 1981 (anno in cui gli è stato assegnato il premio giornalistico Saint-Vincent), ha presentato insieme a Milly Carlucci «Blitz», intervistando, durante i tre anni di vita del programma, personaggi come Fellini, De Niro, Cassius Clay e molti altri. Al programma giornalistico sono seguiti «Facce piene di pugni» (1985), «Una vita da goal», «Domani si gioca» e «L’altro spettacolo» (1987-88).

 Nel 1984 ha fondato una società di produzioni televisive indipendenti per programmi di attualità, la Gme. Questa società è stata promotrice di documentari, interviste e contributi come le due interviste a Fidel Castro realizzate nel 1987 e 1990, in cui il leader cubano ha raccontato della sua amicizia con Che Guevara, della religione e del Papa. Nel 1987 ha presentato in diretta da Napoli «Notte per uno scudetto»; nello stesso anno è stata trasmessa la sua lunga e discussa intervista a Fidel Castro (immortalata dalla citazione nel film di Oliver Stone «Assassini nati», 1994). Raiuno gli ha affidato dal 1991 al ’93 la conduzione della «Domenica sportiva».

 Dopo l’esperienza di «Alta classe. Voglio vivere così» (1991), nel 1993 è tornato al varietà a fianco di Simona Marchini ed Enrico Vaime con «Ieri, oggi e... domani?», mentre dal 1996 al ’98 ha proposto una serie di interviste con illustri personaggi (Diego Maradona, Martin Scorsese, Luis Sepulveda, il giudice Caponnetto, Vittorio Gassman, Andrea Bocelli) nel talk show «Storie».

Nella sua lunga carriera televisiva Minà si è guadagnato la fama di nostalgico degli Anni ’60, di cui ha proposto in varie occasioni appassionate rievocazioni. Non seguiva mai un copione e se c’era qualche intoppo se la cavava sempre con la frase tormentone: «questo è il bello della diretta». Per anni ha collaborato con quotidiani quali la Repubblica , l’Unità , Corriere della Sera e Manifesto ; ha all’attivo numerose pubblicazioni, tra le quali: Il racconto di Fidel (1988), Il mio Alì (2014), Così va il mondo. Conversazioni su giornalismo, potere e libertà (2017, con G. De Marzo). Rischiando non poco, ha avuto la capacità di essere sempre nel posto giusto, al momento giusto.

Estratto dell’articolo di Raffaella Troili per il Messaggero il 29 Marzo 2023

 Solo lui, Gianni Minà, poteva riunire al "volo" un po' di amici del calibro di Muhammad Ali, Gabriel García Márquez, Robert De Niro e Sergio Leone nel suo ristorante di fiducia a Trastevere.

Unioni improbabili, come la sua famosa agenda, commistioni magiche che solo un giornalista che nella semplicità ha intessuto rapporti autentici, poteva realizzare. La foto di quella cena - maggio 1982 - da "Checco er carrettiere" a Trastevere è un po' il simbolo di Minà. C'è l'amico storico, il regista Sergio Leone, il mega attore americano, il più grande pugile di sempre, il grande scrittore e nobel per la Letteratura sudamericano, «Gabo, Sergio, Ali e Bob», come li chiamava lui.

 (...) Lui stesso raccontò di come si creò per caso quel raduno. «C'era Muhammad Ali, lo avevamo fatto venire per Blitz... mentre uscivo per andare a prenderlo all'Hilton strilla il telefono: era De Niro, uno che camminava rasente i muri, a cui gli assembramenti, le persone che lo vogliono toccare, non piacciono. Gli dico: "Vado a mangiare con Muhammad Alì", e lui: "E non mi inviti?!"; gli dico "Va bene, sei invitato!"; Non passa un secondo che suona il telefono ed era Sergio Leone: "Ma allora sei un fijo de...

ma come, io ho riunito De Niro e ora te lo porti via tu e a me non mi inviti?!"; "Vieni, allora!"; di nuovo suona il telefono, rispondo: "Adesso penserai che sono un figlio di buona donna".

Era Márquez, gli chiedo: "E perché?!". "Sono alcuni giorni che sono a Roma... io sono un "figlio di" perché non ti ho ancora telefonato, ma lo sei anche tu! Vai a mangiare con Ali e non mi dici niente?! È il sogno della mia vita!". Allora gli dico "Dai, vieni pure tu!". Mezz'ora dopo eravamo tutti da Checco er carrettiere e così abbiamo riunito senza pensarci qualcosa che, lo riconosco, è patrimonio dell'umanità».

 Oggi dalle 10 alle 19 nella sala della Protomoteca in Campidoglio sarà allestita la camera ardente.

Stefano Semeraro per “la Stampa” il 29 Marzo 2023

Era il 1976, c'era Adriano Panatta in campo al Foro Italico a Roma per la finale degli Internazionali d'Italia contro Guillermo Vilas. E poi c'era quel signore con i baffi e il microfono in mano, la faccia buona e intelligente, capace di avvicinarsi con la leggerezza di un Comanche, quasi gattonando sulla terra rossa del centrale di allora, per chiedere a Panatta, in diretta tv durante un cambio di campo: «Adriano come ti senti?». Un signore educatissimo e ubiquo, di nome Gianni Minà.

 «Oggi una cosa del genere sarebbe impossibile», sorride Panatta. «Per un giornalista è diventato quasi impossibile fare un'intervista normale a un giocatore, figuriamoci entrare in campo durante la partita. Ci sono come degli sceriffi: se ti avvicini ti arrestano. Gianni era così, riusciva a fare quello che gli altri non pensavano nemmeno». Ma che sapeva di potersi permettere: per abilità e per conoscenza del mondo. «A quei tempi eravamo già amici, cenavamo spesso insieme, quindi in realtà vedermelo spuntare vicino non mi diede neanche fastidio, anche se in quel momento stavo perdendo. Magari ad un altro avrei dato una racchettata in testa… Ci provò poi una seconda volta, e allora lo fermarono. Quindi credo che rimanga un episodio unico, nella storia del tennis e forse dello sport. E irripetibile».

Formidabili, quei decenni.

Fatti di frequentazioni continue, assidue, di amicizia vera; di cene e incontri fra il casalingo e il surreale. Minà era l'amico geniale e gentile a cui nessuno sapeva dire di no. «A Gianni, del resto, che volevi dirgli? Era amico di tutti. A quei tempi ci trovavamo spesso insieme, a casa sua, con noi c'erano Gianni Boncompagni, Franco Bracardi, Mario Marenco, Renzo Arbore, erano serate molto divertenti».

 (...)

«Gianni era, soprattutto, una brava persona. Mai malizioso, come i giornalisti, anche per mestiere, a volte devono essere. Mai sopra le righe.

(...)

«Una volta, ai tempi della motonautica, andai a Cuba per una gara del mondiale. A quei tempi lavoravo per Tele Monte Carlo, la 7 di oggi. Facevo i servizi per il telegiornale e alla gara d'esordio si presentò Fidel Castro. Ci salutò tutti, poi stava per montare sullo starter, la barca che dà l'avvio alle gare. Mi feci coraggio e da lontano gli dissi: "Comandante, sono un amico di Gianni Minà…". Castro si fermò, mi guardò e mi sorrise: "Gianni Minà, certo. Allora vieni, vieni con me…". E ottenni l'intervista».

Ivano Marescotti rip. Marco Giusti per Dagospia il 28 marzo 2023.

Perdiamo anche Ivano Marescotti, 77 anni, preparatissimo attore di cinema, teatro, tv, capace di passare dalla complessa lettura in romagnolo delle poesie di Raffaello Baldini al teatro di Carlo Cecchi, Mario Martone, Leo de Berardinis, dal cinema realistico di Marco Risi o Daniele Luchetti e Marco Tullio Giordana a quello comico grottesco di Roberto Benigni.

 Fino a esplodere come il partner comico ideale di Checco Zalone in “Cado dalle nubi” e “Che bella giornata” di Gennaro Nunziante, l’uomo di potere un po’ trombone che subiva i lazzi del comico. In “Cado dalle nubi” è il leghista che nella festa di partito si sente cantare “Gli uomini sessuali” da Checco e scoprirà che nell’ampolla contenente le acque del fiume Po c’è ben altro che acqua.

Basta vedere la faccia di Ivano Marescotti per ridere nei film di Checco, perché sappiamo sempre come andrà a finire. Il suo è il ruolo che nei film di Laurel & Hardy spettava a grandi comici come James Finlayson o a Billy Gilbert. L’uomo che subisce. Ci vuole un grande talento per sostenere questo ruolo. Credo che Marescotti lo avesse imparato sui set dei film di Roberto Benigni, “Il mostro” e “Johnny Stecchino”, mentre costruisce nei film diretti da Sandro Baldoni, come “Strane storie” un modello di grottesco quasi da cartoon dove la rabbia del personaggio cresce fino a esplodere. Che è un altro procedimento delle comiche americane, lo “slow burn”.

Nato nel 1946 a Villanova di Bagnocavallo, decide di fare l’attore a tempo pieno solo dopo aver passato dieci anni nell’ufficio urbanista del comune di Ravenna. Fa di tutto, teatro, cinema e tv. Passa da “La neve nel bicchiere”, film tv di Florestano Vancini girato a Ferrara a “Ladies a gentlemna” di Tonino Pulci con Anja Pieroni e Maurizio Micheli, da “La cintura” di Giuliana Gamba con Eleonora Brigliadori a “L’aria serena dell’Ovest” di Silvio Soldini. Frequenta il cinema impegnato, “Il portaborse” di Daniele Luchetti, “Il caso Martello” di Guido Chiesa, “Il muro di gomma” di Marco Risi, ma anche il cinema comico di Roberto Benigni, “Johnny Stecchino” e “Il mostro”.

Con una faccia ossuta, dura, la pronuncia perfetta, diventa l’interprete ideale di un cinema dove si passa con estrema facilità dal dramma alla commedia, dal realismo al comico. Lo si nota protagonista in “Strane storie” di Sandro Baldoni, dove ha modo di scatenare le sue doti di interprete grottesco.

 Ma è attivo anche nel cinema internazionale, visto che lo troviamo in “Il talento di Mr Ripley” di Anthony Minghella, “Hannibal” di Ridley Scott e “King Arthur” di Antoine Fuqua con Clive Owen, che rafforzano il suo status di attore perfetto per qualsiasi ruolo.

Diventa popolarissimo con le apparizioni a fianco di Checco Zalone, “Cado dalle nubi” e “Che bella giornata”, al punto che Neri Parenti lo chiama per uno dei tardi cinepanettoni, “Vacanze di Natale a Cortina”. Farà ancora qualche film e qualche serie in tv, ma negli ultimi anni, forte anche del successo cinematografico, si era impegnato soprattutto nella lettura delle poesie di Raffaello Baldini, nello studio e nell’insegnamento del romagnolo. Si era sposato, in questi ultimi anni, con cerimonia in romagnolo.

Roberta Bezzi ed Enea Conti per corriere.it il 26 Marzo 2023

Lutto nel mondo del cinema. Oggi pomeriggio, al termine di lunga malattia, è morto l’attore Ivano Marescotti, originario di Villanova di Bagnacavallo in Romagna, 77 anni compiuto lo scorso 4 febbraio. 

 […] Il debutto al cinema risale al 1989, in una piccola parte nel film “La cintura”. Poi incontra Silvio Soldini e partecipa al film “L’aria serena dell’ovest”. La sua è una carriera ricca e longeva, con circa 130 lavori sia in Italia che all’estero, tra fiction e film, fra tv e cinema. Incredibile è la sua capacità di calarsi in personaggi anche molto diversi fra loro, dal dottor Randazzo in “Johnny Stecchino” al leghista padre della ragazza che ha una relazione con Checco Zalone nel film “Cado dalle nubi”, e fino al papà di Alex in “Jack Frusciante uscito dal gruppo”.

Ha lavorato anche su set internazionali, avendo ruoli in film come “Il talento di Mr Ripley” di Anthony Minghella, “Hannibal” di Ridley Scott e “King Arthur” di Antoine Fuqua. Nel 2022, si è ritirato dalle scene per dedicarsi all’insegnamento.

Ivano Marescotti, le ultime parole alla moglie: «Diceva “Non ho paura della morte ma di morire”, otto anni fa era guarito dal tumore». Roberta Bezzi su Il Corriere della Sera il 27 marzo 2023

Erika Leonelli, terza moglie di Ivano Marescotti, aveva sposato l’attore un anno fa: «La nostra differenza d’età non contava nulla. Aveva perso un figlio di 40 anni con lo stesso male, sul palco si dimenticava della malattia»

Un amore intenso, consapevole e maturo, che è quello che capita ai fortunati che si scelgono da adulti. È ciò che legava Erika Leonelli (49 anni) al grande attore e regista Ivano Marescotti, originario di Villanova di Bagnacavallo in Romagna, morto domenica pomeriggio all’età di 77 anni, dopo una lunghissima malattia che ne aveva sfibrato il corpo ma non la mente. Insieme hanno vissuto, nel bene e nel male ancor prima di unirsi in matrimonio nel 2022, questi ultimi sei anni. Per tutti coloro che vorranno porgergli l’ultimo saluto, martedì 28 marzo dalle 14 alle 18, e mercoledì 29 dalle 10 alle 15, la camera ardente sarà allestita nella Sala Oriani dell’ex convento di San Francesco di via Cadorna 14 a Bagnacavallo. Alle 16.30 di mercoledì, il feretro partirà alla volta di Ravenna per la cremazione. 

Erika Leonelli, cosa è successo negli ultimi giorni poco prima della morte? «Da oltre un mese era piuttosto debilitato, ma le sue condizioni di salute si sono aggravate improvvisamente e irreversibilmente nell’ultima settimana, al punto che è stato ricoverato all’ospedale civile S. Maria delle Croci di Ravenna per le ultime terapie». 

Di cosa soffriva Marescotti?

«Da tre anni stava combattendo con coraggio contro un tumore alla prostata, un ‘cancro’ come preferiva chiamarlo lui senza peli sulla lingua. Inizialmente sembrava reagire alle terapia, poi però nel tempo la malattia si ripresentava in forma sempre più aggressiva. Pensavamo di poterla gestire ma il male ha preso il sopravvento». 

Quella con il tumore è una battaglia che in passato aveva sconfitto… 

«Sì, ce l’aveva fatta otto anni fa, quando si era presentato in un’altra forma. Questa è ormai la peste più grave della modernità, che invade un po’ tutte le famiglie. Fra l’altro Ivano, aveva perso un figlio quarantenne proprio di tumore. La ricerca deve fare ancora molti passi avanti. Per questo, seguendo la sua volontà, raccoglieremo offerte per lo IOR – Istituto Oncologico Romagnolo».

 Come avete vissuto quest’ultimo periodo? 

«Ivano e io eravamo in sintonia come coppia, perché uguali su tanti aspetti, per cui abbiamo sempre cercato di vivere in modo intenso e autentico, senza dare per finito ciò che ancora non lo era, raccogliendo le giornate buone e attraversando quelle cattive. Abbiamo pianto e gestito insieme il dolore, soprattutto in questi ultimi mesi in casa. Certo, speravamo di avere più tempo… ». 

Cosa pensava della morte Ivano? 

«Si è spesso interrogato sul tema e amava ripetere: “Non ho paura della morte, ho paura di morire”. Da ateo poi, si lasciava scappare: “Non sapevo dov’ero prima di nascere, non saprò dove andrò”. Per quello che ho potuto, l’ho aiutato ad avvicinarsi a una visione meno pragmatica, perché siamo fatti non solo di materia ma anche di energia e questo modo di di restare in qualche forma aiuta chi se ne va e chi deve sopravvivere».

Si era ritirato ufficialmente dalle scene l’anno scorso a causa della malattia? «In parte sì. Ma di fatto lui ha sempre continuato ad andare sul palco, che fosse nella sua accademia o in un teatro per le prove o degli eventi. Sul palco si dimenticava del suo male, era un’esigenza vitale e preziosa». 

Ricordando i momenti belli, cosa le viene in mente per prima cosa? 

«Ivano era unico nel suo genere, non ci si annoiava mai… La mattina mi alzavo prima di lui, poi lui trovava sempre l’occasione di farmi una sorpresa o di farmi paura con degli scherzetti. Ci siamo incontrati da grandi, con grande consapevolezza di ciò che eravamo e di quello che volevamo… Da contemplativi quali eravamo, anche stare mano nella mano davanti al caminetto in silenzio, era una gioia». 

Lei è stata una sua ex allieva. Come vi siete conosciuti? 

«In realtà, abbiamo avuto un primo incontro che io definisco karmico, nel 2011. Io stavo camminando sotto i portici di via Lame a Bologna e mi sono incrociata con lui, restando subito colpita dalla sua figura. Mi ha sorriso e salutato e io ho ricambiato ma è finita lì. Nel 2017, dopo aver già fatto un po’ di teatro amatoriale, mi sono iscritta al corso “100 ore con Marescotti” e ci siamo rincontrati. A fine anno, mi si è avvicinato e da lì è nata ufficialmente la nostra storia. Lui non solo ricordava di quel primo incontro di tanti anni prima, ma anche di come ero vestita. Era destino!». 

Nonostante la grande differenza di età, poi vi siete sposati il 26 marzo 2022… 

«In amore l’età non conta nulla, ci si vuole bene e basta. Per chiedermi di sposarci, dopo cinque anni che stavamo insieme, si è messo in ginocchio e insieme abbiamo organizzato una cerimonia speciale. Lui è stato il primo uomo a farmi credere in un “Noi” che non è solo la sommatoria di due persone… E mi è piaciuto subito chiamarlo “marito” e sentirmi chiamare “moglie”». 

A dimostrazione di quanto Ivano abbia creduto sino in fondo di farcela contro la malattia, proprio qualche settimana fa aveva presentato a Ravenna il progetto di Accademia Marescotti con una compagnia di giovani di talenti… 

«Sì. Ora cercherò di rispettare la sua volontà, perché lui aveva piacere che qualcosa gli sopravvivesse e credeva molto nell’insegnamento ai giovani. Chiaramente senza di lui che era un genio creativo, resto io che sono un’organizzatrice. Spero di riuscire ad avvicinare persone che abbiano il suo stesso ‘tono’, per trasmettere un po’ di quello che lui era». 

Voi vivevate nella casa di Villanova di Bagnacavallo, una scelta? 

«Sì, dopo essere stato a lungo all’estero e aver vissuto a Roma e a Bologna, Ivano è ritornato con piacere nei luoghi in cui è nato, perché credeva molto nell’importanza delle radici. Ed è anche per questo suo essere profondamente romagnolo che è entrato nel cuore delle persone». 

La notizia della sua morte ha sconvolto il mondo del cinema e non solo. Ha sentito l’affetto dei suoi fan e amici? 

«Sono ancora stordita da quanto accaduto. Non ho ancora avuto la forza di leggere qualche giornale. Per contro sto cercando di rispondere a messaggi ed e-mail. Ce n’è stata una molto commovente di Checco Zalone. Immagino già cosa direbbe Ivano in dialetto: “A siv sicur?”. Lui era così, si sarebbe stupito di tanto clamore perché tutto quello che ha fatto, è stato per passione e non per i riconoscimenti». 

La morte del figlio Mattia, gli anni da senzatetto: la vita di Marescotti nella sua autobiografia. Francesca Angeleri su Il Corriere della Sera il 26 Marzo 2023

Ivano Marescotti, morto il 26 marzo, aveva raccontato nella sua autobiografia «Fatti veri» la morte di suo figlio Mattia, per un tumore, e di sua madre. E poi la sua carriera da impiegato, gestore di bar, e «attore per caso»

Ivano Marescotti è morto sabato 26 marzo, all'età di 77 anni. In questa intervista, pubblicata per la prima volta nel 2020 in occasione della pubblicazione della sua autobiografia, raccontava la morte del figlio Mattia e della madre, e gli episodi della sua vita.

«Ciao Mattia, ci vediamo domani, ciao. Aprì gli occhi. Le labbra accennarono un movimento, ma non ne uscì nulla. Non stetti a insistere e lui si riassopì. Uscendo dalla stanza lo guardai, disteso sul letto, fra altri due malati. Pensai che quell’immagine sarebbe stata probabilmente l’ultima di lui vivo». 

La vita è un susseguirsi spesso bastardo di Fatti veri, il titolo del libro di racconti autobiografici che Ivano Marescotti ha pubblicato con la torinese Vague edizioni. 

Aveva 44 anni suo figlio Mattia quando si spense per una malattia che lo divorava e, mentre si legge di lui, pare di sentire la voce paterna di attore consumato che non ha perso una sfumatura romagnola verace e al tempo stesso rassicurante. 

Come è nato questo libro? 

«Con Elena Bucci decidemmo di fare uno spettacolo sulla memoria che ripercorresse un po’ 1984 di Orwell e Fahrenheit 451. Ogni attore doveva scrivere degli episodi della propria vita. Qualche tempo dopo un’editrice li lesse e mi propose di pubblicarli. A quelli originali ne ho aggiunti due, il primo e l’ultimo». 

È un’autobiografia? 

«Sono episodi veri della mia vita. Ho scritto cercando di tenere sempre a mente che le mie parole dovevano essere comprese da altri. Il libro ruota intorno al tema della direzione della propria vita». 

Lei la sua la cambiò a 35 anni. Cosa accadde? 

«Per 10 anni sono stato impiegato nel settore urbanistica del Comune di Ravenna. Mi trovavo in una crisi profonda. A un certo punto ebbi il coraggio di lasciare tutto e presi in gestione un locale a Bologna, Il Cassero in Porta Saragozza, che poi andò in fiamme». 

E la recitazione?

 «Per caso. Un giorno un amico attore mi chiese di sostituirlo in uno spettacolo. Disse: non sei un professionista, se toppi non succede niente. Il regista era Maurizio Roversi che mi prese al volo. Ho debuttato senza aver mai fatto nemmeno una prova nella vita. Poi però ho fatto una gavetta durissima. Prima che Albertazzi mi notasse e mi prendesse per una tournée di 5 mesi, ero quasi ridotto a fare il barbone. Mangiavo panini e dormivo in un sacco a pelo, senza una casa. Ma non ho desistito. Tanti hanno mollato, bisogna pur vivere». 

Invece lei ha avuto molto successo. 

«Oltre al teatro ho fatto tanto cinema. Da Soldini a Zalone che è un genio, un disturbatore sociale che manda in crisi non solo le credenze ma anche i comò degli italiani. Recito anche in America. Agli studenti dico sempre, in romagnolo, che sono necessari tre punti: occ, stomig e bus de cul. Bisogna cercarsi le occasioni e ingoiare rospi ma senza fortuna niente sarà sufficiente». 

Scrive anche della morte di Primo Levi. Cosa rappresentò per lei? 

«Il suo suicidio mi cambiò nel profondo. Mi sentivo in colpa per aver letto la sua opera da adulto pensando di sapere già tutto. Invece, finché non le leggi non puoi comprendere davvero cosa accadde. Volevo fargli sapere la mia emozione, conoscerlo, stringergli la mano. Rimandai. Fino ad arrivare a quell’11 aprile dell’87 in cui si gettò dalle scale. Fu una lacerazione emozionale, storica e politica». 

Quanto coraggio ci è voluto a narrare la fine di suo figlio? 

«Il libro termina con la sua morte e con quella di mia mamma. Ci sono dolori che non si possono superare. Sono andato in scena il giorno del funerale di mio padre e anche di quello di Mattia. È stata la mia elaborazione del lutto. Fu incredibile la sovrapposizione delle risate del pubblico e del mio pianto. Ma è proprio lì che mi sono sentito più vicino a loro, molto di più che accanto alla bara».

Ivano Marescotti e l’addio alle scene: «Fino a 35 anni ho fatto l’impiegato, a Gibson ho detto di no e Zalone non sapevo chi fosse». Emilia Costantini su Il Corriere della Sera il 26 Marzo 2023

L’attore racconta i suoi esordi e la sua decisione di dire basta: «Mi ritirerò in campagna»

Al termine di una lunga malattia, l’attore Ivano Marescotti, originario di Villanova di Bagnacavallo in Romagna, è morto a 77 anni domenica 26 marzo 2023.

Quella volta che ha dovuto rifiutare un contratto con Mel Gibson, Ivano Marescotti se lo ricorda ancora, ma senza troppo rammarico. «Ero stato contattato dal grande attore e regista per interpretare il ruolo di Ponzio Pilato nel suo film La passione di Cristo — racconta —. Avevo fatto un provino che, evidentemente, gli era piaciuto molto e aveva detto: “Ti voglio”. Però io, quando seppi che mi aveva preso ed era pronto il contratto, ero in tournée con uno spettacolo e non potevo abbandonare la compagnia, altrimenti avrei pagato una penale piuttosto salata. La produzione del film si attivò immediatamente e sostenne le spese, affinché io potessi essere sostituito nello spettacolo teatrale. Cominciai dunque a lavorare sul personaggio molto importante della Passione: studiavo il copione che era in latino, ebraico, aramaico... Purtroppo, l’avvio delle riprese slittò di parecchi mesi e io, nel frattempo, avevo già firmato un contratto per un’altra tournée. Quando venni di nuovo chiamato da Gibson, dovetti rispondere: mi spiace, non sarò Ponzio Pilato».

Se n’è pentito?

«Non posso affermare che sia stato contento di rifiutare un lavoro di quel livello, ma mi sarei pentito di non rispettare l’impegno che avevo già preso con i miei colleghi teatranti».

Una carriera, la sua, ricca di titoli importanti, fra teatro, cinema, televisione, ma che è iniziata per caso e che ora annuncia ufficialmente di abbandonare...

«Non solo iniziata per caso, ma pure molto in ritardo! Finito il liceo artistico, mi ero iscritto alla facoltà di Architettura, poi vengo assunto come impiegato nell’ufficio di Urbanistica nel Comune di Ravenna, mi occupavo del piano regolatore, un lavoro che ho svolto fino all’età di 35 anni. Nel 1981, un mio amico mi propone di sostituirlo in uno spettacolo e mi chiedo ancora perché avesse pensato proprio a me, dato che non avevo alcuna esperienza scenica. Senza arte, né parte, senza conoscere il mestiere dell’attore, ho deciso di licenziarmi e di accettare questa avventura che, all’inizio, si prospettava come una occasione unica in tutti i sensi. Abbandonavo il certo per l’incerto assoluto, non sapevo dove sarei finito e non potrei consigliare a nessuno di compiere una scelta del genere, così radicale».

Coraggio o incoscienza?

«Incoscienza. Non avevo mai recitato in vita mia e, per affrontare un mestiere da zero, ci vuole stomaco forte, pelo sul cuore e anche tanto cu...».

E la facoltà di Architettura?

«Abbandonata... ormai a che mi serviva? Mi sono iscritto al Dams di Bologna, per costruirmi un po’ di formazione. Anche perché non posso dire di aver mai avuto la cosiddetta vocazione, né interesse per la recitazione. La vocazione è una base che può esserci oppure no, quello che conta è il talento, che se c’è in qualche modo viene fuori. D’altronde, esistono altri colleghi che hanno iniziato tardi come me, perché magari facevano gli impiegati di banca, però la sera lavoravano nei locali di cabaret, facevano gavetta. Io niente di tutto ciò: sono spuntato in palcoscenico in maniera del tutto anomala».

E dopo quella prima sostituzione attoriale, ha ottenuto subito altri contratti?

«Innanzitutto, quando mi sono dimesso dal mio impiego non avevo un soldo in tasca».

È stato mantenuto dai suoi genitori?

«Per carità! A parte che avevo una certa età, quindi non era giusto dipendere ancora dai miei, e poi mia madre era disperata, mi pigliava per matto, mi ripeteva “perché ti sei licenziato per fare il cumigènt“, che da noi in romagnolo significa commediante. E infatti, quando sei a terra, noi romagnoli diciamo: hai una fame da commediante... e la prima cosa che mi chiedeva mamma, preoccupata, era “hai mangiato?”. Gli amici del mio paese, Villanova di Bagnacavallo, i parenti, i conoscenti che incontravo, dicevano: “Ah, adesso fai l’attore? Ma di lavoro che cosa fai? E con quello che guadagni riesci a vivere veramente?”».

Commenti non proprio incoraggianti...

«Certo che no, e per racimolare quindi altri contratti, decisi di andare a Roma. Giravo per le varie produzioni come un cretino e, mentre vagavo per la città, guardavo i clochard che dormivano per strada. Mi chiedevo: finirò come loro?».

Per fortuna non è finito sotto i ponti come i clochard...

«Dopo vari contrattini, la vera fortuna è stata l’incontro, nel 1984, con Giorgio Albertazzi. Ero angosciato, ma non volevo sentirmi sconfitto e mi presento al grande attore: sapevo che stava lavorando alla messinscena di una commedia, Il genio, firmata da due grandi autori, Damiano Damiani e Raffaele La Capria. Lui mi guarda ed esclama: questo ha una faccia che viene giù dal palcoscenico. Una frase che non dimenticherò mai e che mi ha dato la forza necessaria per insistere, per andare avanti. E infatti, poi, ho lavorato con Leo de Berardinis, Carlo Cecchi, Mario Martone, Sergio Fantoni, Thierry Salmon...».

Non solo teatro, anche televisione e tanto cinema...

«Il primo film per il grande schermo l’ho girato con Silvio Soldini, nel 1990: era L’aria serena dell’ovest, il primo film anche per lui. La nostra strada era partita un po’ in salita, poi è iniziata la discesa e sono arrivate le proposte di Marco Risi, Marco Tullio Giordana, Roberto Benigni...».

Con Checco Zalone due film...

«Quando mi chiamò per impersonare un leghista in Cado dalle nubi, non lo conoscevo, non sapevo chi fosse, così vado a vedere su internet e scopro che era uno che faceva ridere e ho subito accettato. Ricordo che era molto ossequioso con noi attori, addirittura si inginocchiava accogliendoci sul set... Nel secondo film, Che bella giornata, Checco è diventato più sgamato. E dopo due film insieme, basta, altrimenti sembrava una compagnia di giro».

E poi «Hannibal» con Anthony Hopkins e la regia di Ridley Scott, dove lei interpretava il ruolo di Carlo Deogracias...

«Ho un ricordo straordinario di Anthony. Avevamo girato una parte del film in Italia, ma poi dovevamo tornare negli Stati Uniti e venimmo imbarcati su di un aereo privato. Quando arriviamo a Los Angeles, Anthony scende per primo, aspetta che io lo raggiungessi e, appena tocco il suolo americano, mi applaude e mi abbraccia esclamando: benvenuto in America!».

Insomma, per uno che non doveva fare l’attore, non c’è male.

«In effetti non posso lamentarmi, ho avuto tante belle occasioni e anche dei riconoscimenti, dei premi importanti...».

Ma allora perché abbandonare?

«Sa che me lo sono chiesto anch’io? È stata una decisione che ho preso dal giorno alla notte, tuttavia era da qualche tempo che ci stavo pensando, forse mi ero stancato? Forse erano meno interessanti le proposte che mi venivano fatte? Oppure mi sembrava di fare sempre le stesse cose, quindi non vivevo più l’entusiasmo necessario degli anni passati...».

Che risposta si è dato?

«Nella mia vita, così come in quella di tutti, ci sono tre fasi: per quanto mi riguarda, fino ai 35 anni ho fatto l’impiegato, poi mi sono licenziato e ho iniziato la seconda fase svolgendo la mia carriera, adesso a 76 anni ho dato il via alla terza. E posso affermare di aver concluso la carriera in bellezza. Nel cinema, uno degli ultimi film che ho girato è Bar Giuseppe con la regia di Giulio Base, e abbiamo girato anche Criminali si diventa con un cast corale e la doppia regia di Luca Trovellesi Cesana e Alessandro Tarabelli; sul piccolo schermo, è andata in onda la fiction di successo Màkari con la regia di Michele Soavi; in teatro Zio Vanja con Paolo Pierobon, uno spettacolo di rango, prodotto dallo Stabile di Torino con la regia della ungherese Kriszta Székely, un bel lavoro che però è stato interrotto a causa del lockdown pandemico. Le repliche sono andate avanti dal 7 al 26 gennaio 2020, inoltre abbiamo fatto anche una gitarella a Budapest per soli 4 giorni... l’8 marzo tutto sospeso, tutto finito».

Perché ha deciso di annunciare pubblicamente di essere arrivato al capolinea?

«Non è frequente che uno abbandoni la carriera, ma l’ho annunciato perché continuavano a farmi altre proposte... dovevo continuare a dire di no a tutti, anche perché le tournée sono piuttosto stancanti, così come sono faticosi i set... E l’aver detto che seguivo l’esempio di Jack Nicholson è stata solo una battuta, non intendevo paragonarmi a lui, che oltretutto ha lasciato le scene a 73 anni, mentre io ne ho tre di più».

Come intende occupare le sue giornate?

«Sono un tipo rurale, mi ritiro nel mio paese, dove vivono le mie due sorelle, si respira una bella aria e si parla solo in dialetto. Di sicuro non lo farò da pensionato, in ciabatte, al parco: non si nasce vecchi, lo si diventa, ma io ho il mio da fare e tanto tempo libero da gestire finalmente a mio piacere. Prima cosa, continuo a seguire la mia scuola di teatro: mi piace trasmettere ai giovani quello che ho saputo, che so fare, inoltre ho una pila di libri da leggere che, in tutti gli anni trascorsi nella frenesia lavorativa, ho trascurato».

A proposito di giovani, sua figlia ha intenzione di seguire le sue orme?

«Ha 18 anni e frequenta il liceo artistico a Bologna e non mi ha manifestato desideri da attrice».

Perché si chiama Iliade?

«Perché la mamma è greca, e dovevamo trovare un compromesso».

Un suo sogno irrealizzato?

«Posso dire che, nella mia incoscienza iniziale, li ho realizzati tutti... ma se mai dovesse chiamarmi Spielberg per interpretare Re Lear, dato che ho pure l’età giusta per affrontare questo personaggio, bè... a lui non direi di no»

Ivano Marescotti morto a 77 anni: lutto nel mondo del cinema. Roberta Bezzi ed Enea Conti su Il Corriere della Sera il 26 Marzo 2023

L'attore era ricoverato a Ravenna dopo una lunga malattia. Originario di Villanova di Bagnacavallo, lascia la moglie Erika e la figlia Iliade

Lutto nel mondo del cinema. Ivano Marescotti è morto nel pomeriggio di oggi, domenica 26 marzo, all'Ospedale Civile di Ravenna, al termine di una lunga malattia. Oginario di Villanova di Bagnacavallo in Romagna, aveva 77 anni, compiuti lo scorso 4 febbraio; lascia la moglie Erika e la figlia Iliade.

L'intervista

A febbraio di un anno fa Marescotti, in un’intervista al Corriere,  aveva ripercorso la sua carriera che diceva essere iniziata per caso. «Non solo iniziata per caso, ma pure molto in ritardo! Finito il liceo artistico, mi ero iscritto alla facoltà di Architettura, poi vengo assunto come impiegato nell’ufficio di Urbanistica nel Comune di Ravenna, mi occupavo del piano regolatore, un lavoro che ho svolto fino all’età di 35 anni – raccontava - Nel 1981, un mio amico mi propone di sostituirlo in uno spettacolo e mi chiedo ancora perché avesse pensato proprio a me, dato che non avevo alcuna esperienza scenica. Senza arte, né parte, senza conoscere il mestiere dell’attore, ho deciso di licenziarmi e di accettare questa avventura che, all’inizio, si prospettava come una occasione unica in tutti i sensi. Abbandonavo il certo per l’incerto assoluto, non sapevo dove sarei finito e non potrei consigliare a nessuno di compiere una scelta del genere, così radicale».

La carriera

 Dopo il diploma al liceo artistico Nervi-Severini di Ravenna e dopo aver lavorato per dieci anni all’ufficio urbanistica del Comune di Ravenna, ormai trentenne, si era lanciato con coraggio nel mondo del teatro e del cinema, riuscendo a conquistare il successo in pochi anni. In teatro aveva lavorato, fra gli altri, con Leo De Bernardinis, Mario Martone, Carlo Cecchi, Giampiero Solari, Giorgio Albertazzi. Il debutto al cinema risale al 1989, in una piccola parte nel film «La cintura». Poi aveva incontrato Silvio Soldini e aveva partecipato al film «L’aria serena dell’ovest». La sua è stata una carriera ricca e longeva, con circa 130 lavori sia in Italia che all’estero, tra fiction e film, fra tv e cinema. Incredibile è stata la sua capacità di calarsi in personaggi anche molto diversi fra loro, dal dottor Randazzo in «Johnny Stecchino» di Roberto Benigni al leghista padre della ragazza che ha una relazione con Checco Zalone nel film «Cado dalle nubi», e fino al papà di Alex in «Jack Frusciante è uscito dal gruppo» di Enza Negroni tratto dall’omonimo romanzo di Enrico Brizzi. Ha lavorato anche su set internazionali, avendo ruoli in film come «Il talento di Mr Ripley» di Anthony Minghella, «Hannibal» di Ridley Scott e «King Arthur» di Antoine Fuqua. 

Nel 2022 si era ritirato dalle scene per dedicarsi all’insegnamento. 

La famiglia e la passione per la politica

Dopo un anno didattico sperimentale con le “Cento ore con Marescotti” nel 2016, sono seguite sei edizioni di Tam – Teatro Accademia Marescotti, organizzate in collaborazione con il Circolo degli attori di Ravenna. Proprio nei giorni scorsi, intervistato, aveva parlato del desiderio di mettersi in proprio con la nuova «Accademia Marescotti» e con l’annessa compagnia teatrale formata dagli allievi più promettenti il cui debutto era in programma per il prossimo 16 aprile al Teatro Socjale di Piangipane con lo spettacolo «Nudi». Un progetto correlato alla nuova associazione “Accademia Baccano”, con l’intento di avere da un lato un radicamento sul territorio e dall’altro una vocazione nazionale. In molti ricordano anche l’impegno politico di Marescotti. A chi lo intervistava, ripeteva sempre di essere nato con la tessera del Pci, al punto da guadagnarsi la fama di ‘comunista’ del cinema. A lungo simpatizzante del Pd, aveva però finito col rimanerne deluso. Così cinque anni fa, dopo un’attenta riflessione, si era deciso a dare il suo sostegno pubblico al Movimento 5 Stelle, «l’unica alternativa utile al governo di destra».

Lascia la moglie Erika Leonelli (49 anni) sua ex allieva sposata il 26 marzo 2022 con rito civile, nei locali dell’Ecomuseo delle erbe palustri, dove sono custoditi diversi manufatti della prima metà del XX secolo, alcuni dei quali realizzati dal padre dell’attore. Un matrimonio volutamente celebrato in dialetto, per rimarcare il suo attaccamento alla tradizione romagnola. Dal 1993 infatti ha iniziato un approfondito lavoro di recupero del romagnolo, tornano in teatro con i testi di Raffaello Baldini, per poi rileggere e riscrivere alla sua maniera grandi come Dante e Ariosto. L’attore ha scritto anche un’autobiografia «Fatti veri», dove ha ricordato, fra le altre cose, la morte del figlio Mattia. Marescotti lascia anche la figlia Iliade, nata nel 2003.  «Apprendiamo con enorme dispiacere della morte di Ivano Marescotti, artista e attore di grande talento del nostro territorio, con una carriera di successo ricca e poliedrica. - ha detto il sindaco di Ravenna Michele de Pascale - Amatissimo e stimato, era un punto di riferimento per la comunità culturale ravennate». Parole di cordoglio anche dal sindaco di Bologna Matteo Lepore: « «Con Ivano Marescotti se ne va un grande attore figlio della nostra terra e orgoglio per l'Italia. La sua vita professionale è stata una autentica storia d'amore per la recitazione, le radici e il coraggio delle idee».  

L'attore che salì per caso sul palco e non scese più. Alice Sforza il 27 Marzo su Il Giornale.

Era un impiegato ma sostituì un amico. Iniziò così la carriera a teatro e al cinema

Grande attore per caso. Perché Ivano Marescotti, scomparso ieri, all'età di 77 anni, all'ospedale civile di Ravenna, dove era ricoverato a causa di una grave malattia, era un grandissimo caratterista, nel senso più nobile che si può dare, nel cinema, a questa importante figura. Che non era da meno anche da protagonista, come nel bellissimo Bar Giuseppe, diretto da Giulio Base o in Strane Storie di Sandro Baldoni. Per certi versi, era lo Stanley Tucci italiano, anzi romagnolo, ricordando il suo grande sforzo culturale nel nobilitare questo dialetto, affiancando, anzi riscrivendo, autori come Dante nel suo Dante, un patàca o nel Bagnacavàl ispirato all'Orlando Furioso. Per dire, lo scorso anno si era sposato nella nativa Villanova di Bagnacavallo, con Erika Leonelli, sua ex allieva di 27 anni più giovane, con una cerimonia celebrata nella più antica forma dialettale romagnola.

Si diceva della casualità. Nato nel 1946, fino a 35 anni aveva fatto tutt'altro. Dopo il liceo artistico si era iscritto ad Architettura, venendo assunto, nel frattempo, dal Comune di Ravenna come impiegato nell'ufficio di Urbanistica per occuparsi del piano regolatore. Nel 1981, un amico, Maurizio Roversi, gli propone di sostituirlo in uno spettacolo, pur senza esperienza. A differenza del personaggio di Checco Zalone in Quo Vado?, lui lascia il posto fisso, licenziandosi, per lanciarsi in questa avventura senza la certezza di un domani. E per lui, il teatro diventa una grande palestra, non solo di vita, ma professionale, considerando con chi si è trovato a confrontarsi. A cominciare dalla sua partecipazione a Il genio, diretto dal grande Giorgio Albertazzi, che lo vuole in una tournée di 5 mesi. In un momento, tra l'altro, critico della vita di Marescotti, mentre mangiava panini e dormiva in un sacco a pelo, quasi ridotto a fare il barbone, come ha confessato in una intervista. Ha recitato, a teatro, anche nel Woyzeck di Mario Martone, in vari spettacoli per la regia di Leo De Bernardinis, nell'Amleto portato in scena da Carlo Cecchi o in Vizio di famiglia, sotto la guida di Giampiero Solari. E l'elenco è lunghissimo, perché la grandezza di cui sopra non si improvvisa, ma è grazie al teatro che conta che uno fa la differenza poi anche sul grande schermo.

E al cinema, ma anche in televisione, la sua carriera è stata straordinaria, fatta da almeno 130 titoli, tra tv (come in Don Matteo) e settima arte. E non solo in Italia dove è stato diretto, tra gli altri, da Soldini, Luchetti, Chiesa, Risi, Avati, Mazzacurati, Muccino, Parenti, perché Ivano Marescotti è uno dei pochi attori che potevamo esportare anche all'estero. Aveva fatto parte di cast internazionali come Il talento di Mr Ripley di Anthony Minghella, Hannibal di Ridley Scott e King Arthur di Antoine Fuqua. Si diceva di Checco Zalone. Che poi uno ha un simile curriculum, come vantava Marescotti, ma, magari, al grande pubblico, rimane immortale per la sua parte del leghista Mauro Mantegazza che butta via le orecchiette a Zalone in Cado dalle Nubi, o del colonnello dei Carabinieri Gismondo Mazzini alle prese con l'aspirante guardia del corpo Checco in Che bella giornata. Eppure, aveva recitato in film importanti e altrettanto famosi come quelli di Benigni, Johnny Stecchino, Il Mostro e con Aldo Giovanni e Giacomo in La leggenda di Al John e Jack. Pazzesco che abbia avuto un solo Nastro d'argento per l'interpretazione nel cortometraggio «Assicurazione sulla vita», anno 2004. Nella vita di Marescotti c'era un grande peso sul cuore. La morte del figlio Mattia, scomparso a 44 anni per un tumore. Nel 2014, aveva tentato anche la carriera politica nelle Europee, con la Listra Tsipras. Con tanto di polemica annessa. La Rai, infatti, aveva deciso di tagliare, nella fiction Una buona stagione, le scene in cui compariva Marescotti, per la par condicio, scatenando le ire dell'attore, con tanto di causa. Lo scorso anno, a febbraio, in un post su Facebook aveva dato il suo addio alle scene. Voleva dedicarsi esclusivamente al Teatro Accademia Marescotti, la sua scuola di teatro, con sede a Ravenna. Perché quella è la palestra per diventare un grande attore, come lo è stato Ivano Marescotti.

Aveva 77 anni. È morto Ivano Marescotti, addio all’attore e regista: ha lavorato con Checco Zalone, Scott, Benigni. Antonio Lamorte su Il Riformista il 26 Marzo 2023

È morto oggi pomeriggio, al termine di una lunga malattia, l’attore Ivano Marescotti. Aveva 77 anni, era originario di Villanova di Bagnacavallo in Romagna. Protagonista di una carriera longeva, ricchissima di titoli, cominciata in modo piuttosto non convenzionale, Marescotti si era ritirato nel 2022 dalle scene per dedicarsi all’insegnamento. Lascia la moglie Erika Leonelli, su ex allieva sposata in rito civile nel 2022, e la figlia Iliade nata nel 2003 nata dal matrimonio precedente. L’attore era da qualche giorno ricoverato all’ospedale civile di Ravenna a causa di un peggioramento improvviso della malattia.

Marescotti si era diplomato al liceo artistico Nervi-Severini di Ravenna. Per dieci anni aveva lavorato all’ufficio urbanistica del Comune di Ravenna, ormai trentenne si era lanciato con coraggio nel mondo del teatro e del cinema. Ha lavorato a teatro con Leo De Bernardinis, Mario Martone, Carlo Cecchi, Giampiero Solari, Giorgio Albertazzi. Ha lavorato al cinema in tantissime commedie, oltre 130 titoli in tutta la sua ricca carriera. Sul grande schermo aveva esordito con una piccola parte nel film La cintura. Tra i ruoli che ha ricoperto quello del dottor Randazzo in Johnny Stecchino di Roberto Benigni, quello del padre di Alex in Jack Frusciante è uscito dal gruppo tratto dall’omonimo romanzo cult di Enrico Brizzi, quello del padre leghista della protagonista nel film Cado dalle nubi di Checco Zalone.

Marescotti aveva maturato esperienza anche in campo internazionale con le parti ne Il talento di Mr Ripley di Anthony Minghella, in Hannibal di Ridley Scott e in King Arthur di Antoine Fuqua. Dopo il ritiro aveva coondotto un anno didattico sperimentale con le Cento ore con Marescotti nel 2016, sei edizioni di Tam-Teato Accademia Marescotti, organizzate in collaborazione con il Circolo degli attori di Ravenna.

Non solo iniziata per caso, ma pure molto in ritardo! Finito il liceo artistico, mi ero iscritto alla facoltà di Architettura, poi vengo assunto come impiegato nell’ufficio di Urbanistica nel Comune di Ravenna, mi occupavo del piano regolatore, un lavoro che ho svolto fino all’età di 35 anni – aveva raccontato in un’intervista a Il Corriere della Sera – Nel 1981, un mio amico mi propone di sostituirlo in uno spettacolo e mi chiedo ancora perché avesse pensato proprio a me, dato che non avevo alcuna esperienza scenica. Senza arte, né parte, senza conoscere il mestiere dell’attore, ho deciso di licenziarmi e di accettare questa avventura che, all’inizio, si prospettava come una occasione unica in tutti i sensi. Abbandonavo il certo per l’incerto assoluto, non sapevo dove sarei finito e non potrei consigliare a nessuno di compiere una scelta del genere, così radicale

L’attore aveva anche svolto un lavoro di recupero del romagnolo, era molto legato alla tradizione, e scritto l’autobiogradia Fatti Veri. Aveva vissuto anche la tragedia della perdita di un figlio, Mattia.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

"Non credo in dio, non ne ho bisogno". Ivano Marescotti, il dolore per la morte del figlio Mattia e la carriera di attore cominciata per caso: “Ho vissuto da senzatetto”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 27 Marzo 2023

Ivano Marescotti non aveva paura della morte – “ho paura di morire, come diceva mia nonna: è il modo in cui si muore che fa paura” – “ma la morte di un figlio”, aveva lasciato intendere senza finire, intervistato da Gigi Marzullo nella trasmissione Sottovoce. A 77 anni, dopo una lunga malattia, l’attore e regista si è spento ieri all’Ospedale Civile di Ravenna. Era originario di Villanova di Bagnacavallo in Romagna, lascia la moglie Erika e la figlia Iliade. Anni fa però, nel 2009, aveva perso un figlio, Mattia, a causa di una grave malattia.

Ciao Mattia, ci vediamo domani, ciao. Aprì gli occhi. Le labbra accennarono un movimento, ma non ne uscì nulla. Non stetti a insistere e lui si riassopì. Uscendo dalla stanza lo guardai, disteso sul letto, fra altri due malati. Pensai che quell’immagine sarebbe stata probabilmente l’ultima di lui vivo”, aveva raccontato l’attore in Fatti veri, il libro di suoi racconti autobiografici che aveva scritto, edito da Vague edizioni. In quel libro aveva raccontato anche la morte del figlio. “Il libro termina con la sua morte e con quella di mia mamma. Ci sono dolori che non si possono superare. Sono andato in scena il giorno del funerale di mio padre e anche di quello di Mattia. È stata la mia elaborazione del lutto. Fu incredibile la sovrapposizione delle risate del pubblico e del mio pianto. Ma è proprio lì che mi sono sentito più vicino a loro, molto di più che accanto alla bara”, ha detto in un’intervista a Il Corriere della Sera.

Una carriera cominciata per caso quella di Marescotti, che prima di fare l’attore si era iscritto alla facoltà di Architettura. Lavorava da impiegato nell’ufficio di Urbanistica del Comune di Ravenna fino al 1981. Tutta colpa di un amico, di un provino fatto per fare un favore, di un’improvvisa malìa che il palcoscenico e la recitazione hanno esercitato su di lui. Aveva raccontato in un’intervista a Gigi Marzullo: “Avevo cominciato a 35 anni, ho cominciato a lavorare decentemente a 40 anni. Prima ero dipendente, impiegato dell’ufficio urbanistica del Comune di Ravenna. Mi piaceva molto ma avevo esaurito la vena”.

È cominciato tutto per caso. “Ospitavo un mio amico attore per caso. Mi disse che il giorno dopo doveva andare a vedere uno spettacolo per sostituire un attore, in una compagnia professionale per ragazzi, che se ne sarebbe andato e le successive repliche avrebbe dovuto sostituirlo lui. Mi disse: ‘Io là non ci vado più, vai tu al posto mio, vedi cosa ti dicono, mi togli un po’ le castagne dal fuoco’. Mi presi un giorno, da Ravenna andai a Bologna, mi presi un giorno di ferie, andai con il mio Ducati Scrambler giallo. Poi una volta lì il regista mi aveva preso per il mio amico, mi disse: ‘Guarda lo spettacolo, ti fai degli appunti, domani lo fai tu. Sei un professionista, vai a braccio’. Io pensai che non mi avrebbero visto più, il mio amico mi disse di andare anche domani. ‘Se ti mandano che t’importa, tanto non sei un attore, mica ti sputtani più di tanto’. E io mi sono anche un po’ arrabbiato e lui mi ha detto una frase storica: ‘Ti do un’opportunità che potrebbe cambiare la tua vita da così a così’. Ho fatto lo spettacolo, pensando mi cacciassero via dopo dieci minuti, ho finito e alla fine il regista mi disse: ‘Bravo, sei meglio di quell’altro’. E per tutto il mese ho fatto lo spettacolo prendendo le ferie dal Comune”.

Marescotti ha lasciato il lavoro, ha studiato al Dams di Bologna. La svolta è arrivata nel 1984 quando ha incontrato Giorgio Albertazzi che lo scelse per interpretare la commedia Il genio scritta da Damiano Damiani e Raffaele La Capria. Prima però si era quasi ridotto a fare il barbone: “Mangiavo panini e dormivo in un sacco a pelo, senza una casa. Ma non ho desistito. Tanti hanno mollato, bisogna pur vivere”. Marescotti ha avuto una carriera molto prolifica, anche internazionale, che gli ha ha fruttato tra le altre soddisfazioni sei nomination al Nastro d’Argento, che ha vinto nel 2004 per l’interpretazione nel cortometraggio Assicurazione sulla vita di Tomaso Cariboni e Augusto Modigliani. Ivano Marescotti non credeva in dio, “non ne ho bisogno”.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

(ANSA il 23 marzo 2023) - Luca Bergia, 54 anni, ex batterista e tra i fondatori del gruppo rock cuneese Marlene Kuntz, è stato trovato senza vita in casa, questa mattina.

 Aveva suonato nei Marlene dal 1989, anno di nascita del gruppo che aveva contribuito a fondare assieme a Riccardo Tesio. Nel 2020 la decisione di abbandonare la band per dedicarsi all'insegnamento, assumendo l'incarico di professore di Scienze alle scuole medie di Madonna dell'Olmo di Cuneo e Chiusa Pesio. Nello stesso anno aveva superato anche un difficile momento dopo aver contratto il Covid. Lascia due figli Tommaso e Alessandro e due fratelli; da stabilire la data dei funerali.

Morto Luca Bergia, fondatore ed ex batterista dei Marlene Kuntz: aveva 54 anni. Storia di Floriana Rullo Corriere della Sera il 23 marzo 2023.

Lo hanno trovato senza vita nella sua casa di Cuneo, nella mattinata di giovedì. Luca Bergia, musicista, fondatore e storico batterista dei Marlene Kuntz, aveva 54 anni. Le cause della morte non sono ancora state chiarite, ma gli inquirenti non escludono alcuna ipotesi, nemmeno quella del suicidio. A trovare Bergia è stata la sorella Elisabetta, che ha immediatamente dato l’allarme ai carabinieri di Cuneo. Era stata avvisata dell’assenza dagli insegnanti della scuola media di Madonna dell’Olmo dove il batterista lavorava da qualche anno come docente di scienze. Nato l’11 settembre 1968, insieme con il chitarrista Riccardo Tesio tra i fondatori del gruppo che, col fossanese Cristiano Godano come frontman, grande successo avrebbe avuto sulla scena nazionale a partire dai primi Anni Novanta (undici gli album in studio realizzati dalla band a partire da «Catartica», del 1994), da poco più di due anni si era ritirato dalla scena artistica dedicandosi all’insegnamento. Aveva suonato nei Marlene dal 1989, anno di nascita del gruppo che aveva contribuito a fondare. Il nome del gruppo nacque così: poco prima del primo concerto, il gruppo era alla ricerca di un nome. Alex Astegiano (prima voce del gruppo) propose Marlene in omaggio all’attrice Marlene Dietrich a cui Godano aggiunse «Kuntz», dopo aver ascoltato un pezzo dei Butthole Surfers intitolato appunto Kuntz, deformazione di cunts. Dal 2020 Bergia aveva rinunciato alla musica, una decisione maturata dopo aver superato anche un difficile momento e aver contratto il Covid. Un addio alla musica che aveva voluto spiegare ai suoi fan in un post pubblicato il 10 dicembre scorso. “Vado dritto al sodo – aveva scritto–. Personalmente sto molto bene e sono molto eccitato dall’essermi proiettato in una nuova fase della mia esistenza. Ma faccio un breve rewind e parto un po’ dal punto dove ci siamo lasciati, ovvero la fine del tour celebrativo 30/20/10 agli albori dell’undicesimo disco di casa Marlene. Sono uscito da quel tour letteralmente spossato, spaesato, privo di energie mentali e creative. Avevo necessità di staccare la spina e prendermi un anno di stop (che poi sarebbero diventati due) per rimettermi in sesto sia fisicamente che psicologicamente: questa l’origine dei generici ‘motivi personali’ che vi comunicammo all’epoca. Avevo bisogno di tempo e giusta calma per poter rispondere alle inattese domande che si facevano sempre più pressanti e urgenti alla mia mente. E quando i miei fratelli di vita mi chiedevano se ci sarei stato o meno per lavorare al nuovo progetto rispondevo in questi termini, denunciando il mio smarrimento. Ma quasi subito ho risposto di no. E ringrazio Cristiano e Riccardo che hanno capito e permesso di mettere tutto in stand by per concedermi del tempo che fosse solo mio. Sinceramente non mi sentivo pronto, nè fisicamente nè creativamente, per affrontare l’ennesimo disco cruciale: da un versante il precipizio del fallimento, dall’altro uno sperabile successo, per quel che possa significare al giorno d’oggi una parola così inconsistente». Quindi il distacco dal mondo della musica e l’insegnamento, una sfida intrapresa con entusiasmo: «È un po’ quello che vorrei fare nel mio futuro a breve termine» scriveva. E ancora: «Per ora è tutto, grazie a chi abbia avuto voglia di seguirmi, spero di aver sciolto qualche vostra incognita o allontanato preoccupazioni inopportune. Pertanto, auguro una buona vita a voi e stringo in un vigoroso e sincero abbraccio di amore, rispetto e gratitudine i miei biscius». Bergia lascia due figli — Tommaso e Alessandro — oltre al fratello Antonello e alla sorella Elisabetta. Resta ancora da stabilire la data dei funerali, mentre le due date del frontman Cristiano Godano, oggi a Milano, domani a Rimini sono state annullate e rinviate a data di destinarsi.

Il fondatore della band cult del rock alternativo. Lutto nella musica italiana: ritrovato morto in casa Luca Bergia, batterista dei Marlene Kuntz. Antonio Lamorte su Il Riformista il 23 Marzo 2023

Luca Bergia aveva fondato i Marlene Kuntz, uno dei gruppi di rock alternativo più importanti e seguiti della musica italiana. Il batterista era rimasto nella band cuneese fino al 2020, si era dedicato all’insegnamento. È stato ritrovato senza vita questa mattina in casa, aveva 54 anni. Bergia aveva due figli, Tommaso e Alessandro, e due fratelli, Antonello ed Elisabetta.

Era il 1988 quando con il chitarrista Riccardo Tesio aveva deciso di fondare i Marlene Kuntz. Successivamente si sarebbe unito il frontman Cristiano Godano, chitarrista e paroliere. Ha inciso con la band dieci album in studio, ha girato l’Italia in centinaia di concerti, ha collaborato con tanti artisti anche internazionali come Patti Smith e Skin. Con il gruppo aveva partecipato al Festival di Sanremo nel 2012. Aveva lavorato anche alla sonorizzazione di due video-installazioni del duo Masbedo ad Art Basel, Biennale di Venezia e Indeepandance e con il Teatro Stabile di Torino per lo spettacolo Fatzer di Brecht del 2012.

Dal 2020 aveva deciso di lasciare il gruppo e di dedicarsi all’insegnamento di scienze alle scuole medie di Madonna dell’Olmo di Cuneo e Chiusa Pesio. “Sono uscito dal tour celebrativo 30/20/10, agli albori dell’undicesimo disco di casa Marlene, letteralmente spossato, spaesato, privo di energie mentali e creative – aveva spiegato così in un post la sua decisione – Avevo necessità di staccare la spina e prendermi un anno di stop (che poi sarebbero diventati due) per rimettermi in sesto sia fisicamente che psicologicamente: questa l’origine dei generici ‘motivi personali’ che vi comunicammo all’epoca. Avevo bisogno di tempo e giusta calma per poter rispondere alle inattese domande che si facevano sempre più pressanti e urgenti alla mia mente”.

Ringrazio Cristiano e Riccardo – continuava in quel post – che hanno capito e permesso di mettere tutto in stand by per concedermi del tempo che fosse solo mio. Sinceramente non mi sentivo pronto, né fisicamente né creativamente, per affrontare l’ennesimo disco cruciale: da un versante il precipizio del fallimento, dall’altro uno sperabile successo, per quel che possa significare al giorno d’oggi una parola così inconsistente”.

Da stabilire la data dei funerali.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Estratto dell’articolo da lastampa.it il 21 marzo 2023.

L'attore britannico Paul Grant, uno dei folletti di Harry Potter,  è morto a 56 anni dopo essere collassato giovedì scorso a King's Cross, a Londra. È stato trasportato d'urgenza in ospedale dove è stata dichiarata la morte cerebrale. Per una triste coincidenza la stazione è centrale nei libri di J.K.Rowling, diventata una meta di pellegrinaggio per tutti i fan di Harry Potter. Proprio dal fantastico  "Binario 9 ¾ " infatti, tra le piattaforme 9 e 10 parte   l'Hogwarts Express, il treno che porta i piccoli maghi e streghe nella leggendaria scuola di magia al Castello di Hogwarts.

Domenica  la sua famiglia ha preso la decisione di spegnere la macchina di supporto vitale. La figlia Sophie Jayne Grant, 28 anni, si è detta "devastata" e ha definito il padre "una leggenda sotto molti aspetti". […]

La drammatica ultima intervista di Paul Grant in cui rivelava di aver "bevuto troppo", ammettendo di aver sprecato la fortuna che gli aveva regalato "Star Wars".

 L'attore, in un'intervista realizzata alla stazione londinese di King's Cross il mese scorso, ha spiegato come avesse speso i suoi soldi in prostitute e droga. «Questo è il mio ultimo giorno da ubriaco – dichiarava - Devo smetterla di farlo. I soldi? Mi sono goduto la vita, non sono dipendente da sostanze. Posso bere un intero fottuto giorno o un mese, ma non ne sono dipendente.

Mi sono goduto la vita. Si vive una volta sola, no?». L’attore raccontava di come abbia perso il controllo della sua vita dopo aver rotto con la moglie. Ha ammesso di averla tradita diverse volte, prendendosi la colpa del fallimento del loro matrimonio. In un’intervista di qualche anno fa con “The Sunday Mirror” raccontava: «Ho bisogno di aiuto. Mi faccio di cocaina. 

Bevo e fumo quello che posso. Avevo una famiglia, ero sposato, ora sono divorziato. Ho perso tutto. Non ho niente, le mie cose, le foto, i vestiti. Non so cosa voglio in questo momento. Avevo i soldi, li ho buttati tutti, li ho spesi in droga e prostitute». 

L’utopia combattiva del regista comunista Citto Maselli. TERESA MARCHESI su Il Domani il 21 marzo 2023

Gli ex sono quelli che guardano indietro. Come si chiamano le persone tenacemente ostinate a guardare avanti comunque, com’è stato tutta la vita Citto Maselli? 

Ennio Flaiano lo soprannominò il “patito comunista italiano”. È morto a 92 anni il regista che aveva fatto del cinema una missione politica: un cinema d’autore per capire il mondo di cui si è persa memoria

Ad annunciare la sua scomparsa il segretario del suo partito di elezione, il Partito della rifondazione comunista: «La sinistra perde un intellettuale militante e un esempio di rigore e di coerenza»

Ornella Muti e Citto Maselli: «Ero incinta di 7 mesi, mi volle per girare Codice privato». Renato Franco su Il Corriere della Sera il 21 Marzo 2023

«Mi diede la patente di attrice vera? Ho lavorato con grandi registi, non nasco con Celentano e le poppe all’aria, sono stata la più pudica: mi sono stati attribuiti anche nudi che non ho fatto»

«Codice privato» (1988) e «Civico zero» (2007), i due film di Ornella Muti con Citto Maselli. Il primo incontro?

«Proprio per il film. Non ci conoscevamo e venne apposta con quel favoloso regalo. Ma io incinta, al settimo mese. Gli dissi di no, gli spiegai che una donna in quei momenti si prepara ad altro, ma cercò di convincermi lo stesso».

Come finì?

«Io gli dissi: Citto fammi fare questo bambino perché non posso prendere un impegno così importante in questo momento. Lui mi rispose di non preoccuparmi e di stare serena».

Quindi nacque suo figlio Andrea.

«E Citto fu il primo a venire. Subito. Mi ha coccolato tutto il tempo, mi mandava disegni, mi scriveva bigliettini e dediche».

Fu dolcemente insistente.

«Mi è stato tanto appresso. Io avevo paura, con un bambino piccolo hai la testa fagocitata da un’altra parte. Ma lui non indietreggiò e mi diede la possibilità di fare quel film in modo pazzesco, con il bambino sereno. Fu un’esperienza fantastica».

«Codice privato» è la storia di una vendetta: la figlia di un fruttivendolo che si trasforma in una donna di cultura e la vuole far pagare al compagno che l’ha lasciata.

«Mi ha regalato un film incredibile, perché raramente un attore può avere questa fortuna di fare un film dove è protagonista in tutto e per tutto, sempre lui. Con me Citto fu favoloso».

Poi «Civico zero», film-documentario in tre episodi in cui lei era una rumena emigrata in Italia senza permesso di soggiorno. Combatteva contro la solitudine e l’esclusione sociale.

«Lavorare con Citto era un arricchimento costante, era molto attento al sociale, alle esigenze delle donne, delle minoranze. Lì andò a indagare nell’anima segreta di una donna che scappa».

Che uomo era?

«Speciale. La sua casa rispecchiava le sue ricerche artistiche, era intessuta dei suoi film: era un pezzo d’arte».

Le diede la patente di attrice «vera» perché la critica la snobbava.

«Questo è stato il leitmotiv della mia vita. Eppure nel mio primo film L a moglie più bella interpretavo una siciliana che viene violentata. Ho lavorato con grandi registi. Non nasco con Celentano e le poppe all’aria, sono stata la più pudica: mi sono stati attribuiti anche nudi che non ho fatto».

BIOGRAFIA DI CITTO MASELLI

Da cinquantamila.it – La Storia raccontata da Giorgio Dell’Arti

 Citto Maselli (Francesco), nato a Roma il 9 dicembre 1930. Regista. «Veltroni predica l’adeguamento all’esistente. Io non mi adeguo e combatto».

 • «Figlio di un intellettuale raffinato che frequenta letterati (da Emilio Cecchi a Corrado Alvaro a Massimo Bontempelli), pittori (da Scipione a Mafai ad Amerigo Bartoli) e musicisti (da Casella a Malipiero), imparentato e figlioccio di Pirandello che molto lo ama, il bambino si forma nel clima culturalmente fervido di una colta élite borghese, dove con una certa elasticità antifascisti (sia pur del genere sommesso dei “mormoratori”, come suo padre) e fascisti in qualche modo convivono e familiarizzano. Con la guerra si manifesta la vocazione politica e l’adesione al Partito comunista, nei cui ranghi appena quattordicenne tenta vanamente di entrare; e altrettanto presto si accende (scatenata dalla visione di L’age d’or di Buñuel/Dalì e di Giovanna d’Arco di Dreyer) la passione per il cinema» (Alessandra Levantesi).

Diplomatosi diciannovenne al Centro sperimentale di cinematografia, lavorò come aiuto regista di Antonioni, Visconti e Pasolini. Esordio registico nel 1949 con Bagnaia paese italiano poi, tra gli altri, I delfini (1960), Gli indifferenti (1964), Lettera aperta a un giornale della sera (1970), Il sospetto (1975), Storia d’amore (1986), L’alba (1990),Il compagno (1999), Le ombre rosse (2009).

«Nei miei film, da Gli sbandati, finanziato personalmente da Nicola Caracciolo con i soldi di una sua eredità e stroncato dall’Unità, a Gli indifferenti, distrutto dai critici militanti perché non ambientato durante il fascismo e interpretato da attori stranieri, a Lettera aperta a un giornale della sera fino al Sospetto, condannato sull’Espresso da Pietro Ingrao e Giorgio Amendola perché irriverente e ingeneroso con il partito, salvato poi da Luigi Longo con un “Bravo Maselli!” pronunciato dopo una gelida proiezione alle Botteghe Oscure, ho sempre cercato di spiegare come è stato difficile, per me, ma anche per tanti, conciliare la vita personale con quella del partito e l’essere nato borghese con l’adesione agli ideali marxisti» (a Barbara Palombelli).

 Estratto dell’articolo di Chiara Ugolini per repubblica.it il 21 marzo 2023.

È morto il regista Citto Maselli. Aveva 93 anni e ha scritto pagine importanti del cinema italiano. Tra i suoi film più celebri Gli indifferenti dal romanzo omonimo di Alberto Moravia, I delfini con Tomas Milian e Claudia Cardinale.

 La notizia della morte è arrivata da Maurizio Acerbo, segretario nazionale del Partito della Rifondazione Comunista - Sinistra Europea: "Con grande dolore debbo comunicare la notizia della morte, avvenuta poco fa, del compagno Citto Maselli. L'ho appena appreso dalla moglie, Stefania Brai, che gli è sempre stata vicina e a cui va l'abbraccio solidale di tutte le compagne e i compagni del Partito''. Seguito dal cordoglio dell'Anpi. [...]

Marco Giusti per Dagospia il 21 marzo 2023.

Se ne va, a 92 anni, Francesco “Citto” Maselli, importante regista del cinema italiano nato sotto il segno del Neorealismo nel primo Dopoguerra, storico assistente di Luigi Chiarini, Michelangelo Antonioni, Luciano Emmer, che lo ricordava quasi ragazzino sul set di “Le ragazze di Piazza di Spagna”, autore di una serie di celebri cortometraggi prima di esordire con film che, a cavallo tra la fine degli anni’ 50 e i primi ’60, ne definirono per sempre il vero interesse, “Gli sbandati”, “La donna del giorno”, “I delfini”, “Gli indifferenti”. Tutti prodotti da Franco Cristaldi, che molto lo seguì anche negli anni successivi.

 Non riuscì, sempre, a ritrovare l’ispirazione dei suoi esordi alle prese con la commedia, “Fai in fretta ad uccidermi… ho freddo” con Monica Vitti e Jean Sorel o “Ruba al prossimo tuo” con Claudia Cardinale e Rock Hudson, mentre fu uno strepitoso regista “poetico” per celebri serie di Caroselli negli anni ’60, come “Questi nostri ragazzi” della Buitoni, “Il momento più bello” per i Baci Perugina, dando vita perfino alla prima serie di “Chiamami Peroni” con Terence Hill e Solvi Stubing.

In un cinema dominato da figure imponenti e di grande richiamo internazionale come Roberto Rossellini, Federico Fellini, Luchino Visconti, Michelangelo Antonioni, Pier Paolo Pasolini, e da una scena dove non fu possibile la nascita di una vera e propria Nouvelle Vague, formò assieme ai registi più politicamente impegnati della sua generazione, Ugo Gregoretti, Franco Giraldi, Giuliano Montaldo, i Taviani, Nanni Loy, Ettore Scola, Lionello Massobrio, una sorta di gruppo di cineasti civili e di sinistra, molto vicini al vecchio PCI, che cercarono di tenere una linea coerente anche in anni dove non era facile avere una linea.

Al punto che per le loro attività carosellistiche vennero chiamati “quelli di Motta Continua”. Combattivo, si scontrò spesso con cineasti e critici che cercavano nel cinema qualcosa di più innovativo e politicamente meno conservatore. Ma va riconosciuto a Citto Maselli una bella tempra che ha avuto fino alla fine.

Nato a Roma nel 1930, interruppe gli studi liceali entrando a soli 19 anni al Centro Sperimentale di Cinematografia negli anni di Luigi Chiarini. Fu proprio Chiarini a chiamarlo come assistente su “Patto col diavolo” (1950), condividendolo con  Michelangelo Antonioni per il corto “L’amorosa menzogna” (1949), e poi per capolavori come “Cronaca di un amore” (1950), “La signora senza camelie” (1954), con Luciano Emmer per “Le ragazze di Piazza di Spagna” (1952) e con Luchino Visconti per il memorabile episodio con Anna Magnani di “Siamo donne” (1953).

Contemporaneamente aveva dato vita a una lunga serie di cortometraggi che diresse in prima persona rivelando un sicuro talento e un forte interesse per il sociale, “Costruiamo la scuola centrale sindacale”, “Bagnaia, paese calabro” (1949), “Finestre” (1950), “Stracciaroli”, “Opera dei pupi”, “Sport minore”, che lo portarono a dirigere l’episodio “Storia di Caterina” nel film a più mani supervisionato da Cesare Zavattini “Amore in città” (1953).

E quindi a esordire da regista nel lungometraggio con “Gli sbandati” (1956) con Lucia Bosé, Isa Miranda, Jean-Pierre Mocky e con la sua prima moglie, Goliarda Sapienza, dove tratta un episodio della Resistenza “con giovanile baldanza, acume psicologico e vigore narrativo”, come scrive Gianni Rondolino, e venne premiato a Venezia. Ispirandosi al cinema di Antonioni, dirige subito dopo “La donna del giorno”, 1957, con Virna Lisi, Haya Harareet, Serge Reggiani, dove il tema è il mondo dei rotocalchi e della pubblicità.

Più successo ebbe con “I delfini”, 1960, con Claudia Cardinale, Gérard Blain, Anna Maria Ferrero, Tomas Milian, ritratto della giovane borghesia italiani degli anni del Boom economico, al quale seguì l’episodio “Le adolescenti” nel film a più mani “Le italiane e l’amore”, 1961. Nei primi anni ’60 seguiterà a girare cortometraggi, “Fioraie”, “Città che dorme”, “Campione per due ore”, “Un fatto di cronaca”, “Bambini al cinema”, che lo porteranno a sviluppare la sua passione per il realismo.

Passerà poi a “Gli indifferenti”, 1964, il suo film più noto, scritto con Suso Cecchi D’Amico, tratto dall’omonimo romanzo di Alberto Moravia, prodotto da Franco Cristaldi con un cast memorabile, Claudia Cardinale, Paulette Goddard, Shelley Winters, Rod Steiger, Tomas Milian. Non funzioneranno molto le sue commedie, “Fai in fretta ad uccidermi… ho freddo” (1967) con Monica Vitti e Jean Sorel e “Ruba al prossimo tuo” (1968), girato in inglese, scritto con Luisa Montagnana, sceneggiatrice di molti dei suoi Caroselli del tempo, con Claudia Cardinale, Rock Hudson, Tomas Milian, pensato per il mercato internazionale.

Mentre verrà salutato positivamente il suo più divertente e sincero “Lettera aperta a un giornale della sera” (1969) con Nanni Loy, sua moglie Goliarda Sapienza, Tanya Lopert, sua sorella Titina Maselli, l’artista, dove prende di mira ironicamente l’impegno vero o meno nel politico di tutto un mondo di cinematografari romani comunisti anticipando le critiche alla sinistra in cachemire che ben conosceva.

Negli anni ’70 sembra quasi il sopravvissuto di un cinema neorealista che non è più di moda. Girerà “Il sospetto” (1975) e il televisivo “Tre operai” (1979), ma ritornò al successo, soprattutto di critica, col notevole “Storia d’amore” (1986), scritto assieme a Fiore DE Rienzo, il padre di Libero, premio speciale a Venezia, che lanciò una nuova stella come Valeria Golino, che vinse il premio per la migliore interpretazione femminile. Negli anni successivi non sempre riuscirà a trovare la stessa ispirazione con film, perennemente invitati a Venezia, come l’imbarazzante “Codice privato” con Ornella Muti che parla per 88' con un computer, “Il segreto” con Nastassja Kinski e Stefano Dionisi, “L’alba” con Nastassja Kinski e Massimo Dapporto (1990), che strabordavano spesso in una comicità non volontaria. 

Cronache del terzo millennio” (1996), definito "fantascienza sociologica anni'60", dove relitti umani aspettano l'apocalisse, venne accolto a Venezia da non pochi sberleffi e trovò la sua giusta difesa in Fausto Bertinotti ("Citto ci ha narrato una tragedia e ci ha dato una speranza"). Più che girare film interi, negli ultimi anni, collabora a progetti, come “Intolerance”, il film sul GB di Genova “Un altro mondo è possibile”, per poi dirigere “Civico zero” (2007), “Le ombre rosse” (2009) e “Scossa” (2011) firmato assieme a altri due grandi vecchi del nostro cinema, Carlo Lizzani e Ugo Gregoretti.

Molto si dedicò a dar vita a eterni dibattiti sul cinema italiano e su come uscire dalle decine e decine di crisi ricorrenti che attraversava. Magari siamo (sono) stato cattivi nel vederlo spesso come un sopravvissuto di un cinema troppo legato alla politica. Certo non mi stupì vederlo chiamato, assieme al letterato Ruggero Guarini, come esperto di parte nel celebre processo per diffamazione che vide il giornalista supercraxiano del Tg2 Onofrio Pirrotta fare causa a me e a Enrico Ghezzi per un passaggio un po’ cattivo di “Blob”. Il nostro esperto era invece Beniamino Placido. Un processo, in realtà, dove tutti ridevano e che venne chiuso dalla Rai del tempo con un accomodamento. Cronache di altri tempi… 

Morire in solitudine, oggi i funerali di Pier Attilio Trivulzio: il figlio non ci sarà. Rintracciato al telefono, il figlio di Pier Attilio Trivulzio ha fatto sapere che non potrà partecipare alle esequie del padre: "Non sono stato avvertito. E non sapevo fosse destinato alla fossa comune". Federico Garau il 17 Maggio 2023 su Il Giornale.

Quella di Pier Attilio Trivulzio sarà purtroppo ricordata come una triste storia di solitudine. Morto da solo nella propria casa di Novara, il giornalista milanese è stato abbandonato anche nella morte, tanto che nessuno si è fatto avanti per chiedere la sua salma. Si è parlato però di un figlio, una figura di cui inizialmente non si è avuta conferma. A distanza di mesi, proprio quel figlio si è fatto sentire per comunicare che non potrà partecipare al funerale.

Trovato morto dopo 7 mesi, ora nessuno reclama la salma di Pier Attilio Trivulzio

Il funerale grazie alla generosità di un'impresa funebre

Come riferito al Corriere di Novara da Raffaella Navarra, volontaria alla mensa del convento dei frati di San Nazzaro della Costa, nessuno ha reclamato il corpo di Trivulzio per dargli degna sepoltura.

Alla fine, tuttavia, grazie alla generosità dell'impresa funebre Mittino le esequie ci saranno, e si terranno proprio oggi, mercoledì 17 maggio, nella chiesa del cimitero di Novara. La funzione è fissata per le ore 14, e al termine di questa la salma verrà tumulata in una fossa comune.

Il figlio Federico non assisterà

Dopo mesi di silenzio, Federico, il figlio di Pier Attilio Trivulzio, ha fatto sapere che non potrà essere presente ai funerali del padre. "Non sapevo nemmeno fosse stata stabilita una data. Non sono stato avvertito. E non sapevo fosse destinato alla fossa comune", ha dichiarato, come riportato dal Corriere della Sera. "Non ci siamo mai frequentati. I miei genitori si sono separati molti anni fa, ero molto piccolo, e con lui non ho mai avuto rapporti", ha raccontato il 48enne. "Io abito a Rimini, ma a Novara sanno della mia esistenza. Mi hanno notificato il verbale dell'autopsia. Con i suoi fratelli si stava decidendo che cosa fare. Non potevamo portare il corpo a Monza, non era residente, e nemmeno qui in Romagna. Ci penserà il Comune di Novara? Avevamo già deciso rimanesse lì".

Il Comune, in ogni caso, ha preso atto che nessun parente si è presentato per il giornalista ed ha avuto l'onere di provvedere alla sepoltura.

Morire in solitudine

Pier Attilio Trivulzio sarà dunque solo anche nel suo ultimo viaggio. Neppure i colleghi giornalisti, salvo forse qualche eccezione, parteciperanno alle esequie. "Ci hanno chiamato dall'ordine dei giornalisti della Lombardia e alcuni colleghi del defunto. Qualcuno ci ha chiesto informazioni ma alla fine la sepoltura verrà pagata dal Comune", raccontano al Corriere i funzionari delle pompe funebri Mittino.

Novara, trovato morto il giornalista Pier Attilio Trivulzio. Il decesso risale ad agosto. Floriana Rullo su Il Corriere della Sera il 18 marzo 2023.

L'83enne giaceva nel suo appartamento da almeno sette mesi. Non aveva parenti: a dare l'allarme sono stati alcuni suoi amici brianzoli che non avendo notizie da tempo  hanno allertato la polizia

Pier Attilio Trivulzio, a destra, con Jackie Stewart  a Monza (foto M. Pirola)

Lo hanno trovato senza vita in un appartamento del quartiere di S.Agabio a Novara, Pier Attilio Trivulzio, giornalista milanese in pensione, di 83 anni. 

Il suo corpo era a terra, mummificato, da almeno sette mesi. Il decesso infatti, avvenuto per cause naturali, secondo una prima ricostruzione, risalirebbe al mese di agosto. 

Nessuno si era accorto della sua sparizione. Non aveva figli o parenti prossimi. E a Novara si era trasferito dopo la pensione. A dare l'allarme della sua sparizione un collega brianzolo, Marco Pirola che, non avendo sue notizie da tempo, aveva allertato le forze dell'ordine e pubblicato un messaggio di ricerca sui social a cui nessuno era stato in grado di rispondere.

Fino ad oggi quando i vigili del fuoco sono entrati nell'abitazione di corso Trieste, zona est della città, e hanno trovato il corpo senza vita, ormai mummificato. Sul posto anche il personale della questura e il medico legale. 

Trivulzio, classe 1940 conosciuto da tutti come «Pat», grande appassionato di auto. 

In passato aveva collaborato in passato con L'Espresso, La Notte, Il Giorno, l'Ansa, occupandosi specialmente di Motori avendo avuto un passato come pilota di automobilismo. 

«Purtroppo l'ho trovato io – dice l'amico Marco Pirola-. E non era nemmeno tanto lontano da noi. A Novara. Era steso per terra da mesi in un appartamento che una mano caritatevole gli aveva concesso in uso da anni. Morto. Pier Attilio Trivulzio se ne è andato come aveva sempre vissuto. Un fantasma. Solo. Come del resto lo era stata la sua esistenza. Quando eravamo a L'Esagono ero uno dei pochi che riuscivano a contenere la sua esuberanza giornalistica».

Trovato morto in casa dopo 7 mesi il giornalista Pier Attilio Trivulzio. Carlotta Rocci su La Repubblica il 18 marzo 2023.

La scoperta in un appartamento di Novara: il decesso risale ad agosto, nessuno finora si era accorto di lui

Era in pensione da tempo Pier Attilio Trivulzio, 83 anni, giornalista milanese che nella sua carriera aveva collaborato con L'Espresso, La Notte, Il Giorno, l'Ansa, occupandosi specialmente di Motori avendo avuto un passato come pilota di automobilismo. È stato trovato morto, in un appartamento del quartiere di Sant'Agabio, a Novara, dove si era trasferito ma dove non aveva famigliari e amici. Era morto da sette mesi, il corpo mummificato. 

Il decesso per cause naturali, secondo una prima ricostruzione, risalirebbe al mese di agosto. Lo hanno trovato perché gli amici della Brianza che hanno condiviso con lui in pezzo di vita privata e lavorativa, hanno dato l'allarme. Il giornalista è stato trovato dalle forze dell'ordine che sono entrati in casa con l'aiuto dei vigili del fuoco. Trivulzio è stato trovato ieri.

Pat, lo chiamano gli amici in decine di messaggi di cordoglio. "Addio vecchio trombone", scrive Marco Pirola, giornalista, che dedica all'amico e collega un "pezzo" sui social. "Purtroppo l'ho trovato. E non era nemmeno tanto lontano da noi. A Novara. Era steso per terra da mesi in un appartamento che una mano caritatevole gli aveva concesso in uso da anni. Morto. Pier Attilio Trivulzio se ne è andato come aveva sempre vissuto. Un fantasma. Solo. Come del resto lo era stata la sua esistenza che per anni ha incrociato la mia. Me lo aspettavo. Ce lo aspettavamo. Però fa male".

Si erano incrociati quando entrambi lavoravano all'Esagono. "Ero uno dei pochi che riuscivano a contenere la sua esuberanza giornalistica", prosegue l'amico. "Un giorno già vecchio si era presentato nel mio ufficio con un sacchetto di plastica. "C'è dentro tutto quello che mi è rimasto della vita". Non scherzava. Era disperato ma manteneva una dignità assoluta. Era in fuga dall'ennesimo padrone di casa che non pagava da mesi perché era senza soldi. Lo avevano sistemato al piano di sopra della redazione nella stanza che era il mio ufficio. Era felice che qualcuno si fosse interessato di lui".

"Era l'amico matto ma geniale, sempre al limite in tutto e spesso oltre. Frequentavamo lo stesso bar da ragazzi, amavamo il mondo dei motori e per tantissimi anni è stato un grande giornalista con il fiuto di quello che c'era dietro la pura e semplice notizia", lo ricorda un altro amico , Ercole Colombo.

Trovato morto in casa il giornalista Pier Attilio Trivulzio: il decesso sette mesi fa. Cristina Balbo il 18 Marzo 2023 su Il Giornale.

È stato trovato senza vita il corpo del giornalista Pier Attilio Trivulzio ormai scomparso da diversi mesi

Pier Attilio Trivulzio, giornalista milanese in pensione, classe 1940, è stato trovato morto nel suo appartamento a Novara nel quartiere di S. Agabio. A quanto pare, stando alle prime ricostruzioni, il decesso sarebbe avvenuto per cause naturali e risalirebbe al mese di agosto.

L’ottantatreenne, da quel che si sa, a Novara dove si era trasferito, non aveva parenti né strette amicizie. Infatti, a darne l’allarme sono stati alcuni suoi amici ed ex colleghi di Monza, quelli con i quali aveva condiviso tante giornate in autodromo, alla frenetica ricerca di notizie. Era da tempo che il giornalista sembrava essere sparito nel nulla e per questo, avevano segnalato il fatto alle forze dell’ordine.

A trovare il corpo senza vita, ormai mummificato del giornalista, sono stati i vigili del fuoco entrati nella sua abitazione di corso Trieste, zona est della città. Sul posto vi erano anche il medico legale ed i rappresentanti della questura.

L’annuncio dell'amico e collega

A dare l’annuncio della triste notizia è stato proprio il collega e amico Marco Pirola che aveva lanciato un appello su Facebook per scoprire dove fosse finito Trivulzio. "ADDIO VECCHIO TROMBONE - Purtroppo l'ho trovato. E non era nemmeno tanto lontano da noi. A Novara. Era steso per terra da mesi in un appartamento che una mano caritatevole gli aveva concesso in uso da anni. Morto. Pier Attilio Trivulzio se ne è andato come aveva sempre vissuto. Un fantasma. Solo. Come del resto lo era stata la sua esistenza che per anni ha incrociato la mia. Me lo aspettavo. Ce lo aspettavamo. Però fa male". Queste le parole, piene di stima ed affetto, dell’amico tramite un lungo e commovente post su Facebook.

Chi era il “PAT”

Pier Attilio Trivulzio era un giornalista in gamba, nonostante la sua “esuberanza giornalistica”, come ricorda l’amico Pirola. Infatti, aveva collaborato in passato con La Notte, L'Espresso, Il Giorno, l'Ansa e l’Esagono. Proprio su quest’ultimo, settimanale brianzolo, aveva firmato inchieste sulla ‘ndrangheta e su altre vicende scottanti. Stando alle parole degli amici, il giornalista non concepiva il lavoro di squadra ed era molto geloso delle sue notizie.

Inoltre, in quanto ex pilota di automobilismo, era anche molto conosciuto nel mondo dei Motori, dei quali, spesso, si occupava. "Era l'amico matto ma geniale, sempre al limite in tutto e spesso oltre. Frequentavamo lo stesso bar da ragazzi, amavamo il mondo dei motori e per tantissimi anni è stato un grande giornalista con il fiuto di quello che c'era dietro la pura e semplice notizia", lo ricorda così un altro amico, Ercole Colombo.

Novara, il giornalista morto in solitudine da sette mesi. Il nipote in Spagna: «Con lui mai un contatto». Un figlio forse è a Londra. Luca Caglio, Floriana Rullo su Il Corriere della Sera il 20 marzo 2023

Pier Attilio Trivulzio è scomparso a 83 anni.  La casa era in comodato d'uso, offerta da una mano caritatevole. E c'è chi dice che abbia un figlio all'estero, forse a Londra

Nel quartiere Sant’Agabio a Novara, uno dei più popolosi e multietnici della città, nessuno si fa domande sulla morte di Pier Attilio Trivulzio, il giornalista di 83 anni di origine monzesi, trovato mummificato giovedì scorso nell’appartamento in cui viveva in comodato d’uso da qualche anno. Morto sette mesi fa, senza che nessuno se ne accorgesse. Nemmeno i campanelli sembrano raccontare qualcosa di quell’uomo. Nessun cognome. Solo un elenco di numeri (nella foto il palazzo in cui abitava). 

Con Trivulzio nessuno sembra aver avuto contatti. Un vero e proprio fantasma, inghiottito dalla solitudine. Perfino il suo unico nipote che vive in Spagna non ha mai avuto contatti con Pat. «Era mio zio, ma non ho mai avuto contatti né con lui né con la famiglia», risponde al Corriere Luca Trivulzio, che vive e lavora in Spagna. Qualcuno parla anche di un figlio emigrato all’estero, forse a Londra. 

«Ne parlava senza fare il nome, nessuna foto — accenna Gianni Cattaneo, ex capo ufficio stampa dell’autodromo dove Trivulzio aveva a lungo lavorato —. Tre anni fa, l’ultimo cenno di Pat. Diceva che soffriva di labirintite, che stava dalle parti di Fidenza insieme alla compagna, che voleva scrivere un libro». Ne aveva già firmato uno, «Nato per correre» (1967), un tributo al ferrarista Lorenzo Bandini. Una vita difficile quella vissuta da Trivulzio.

 Divisa tra il suo essere un grande giornalista sempre a caccia di scoop e quella trascorsa da solo, senza nemmeno uscire di casa. Pane e motori, la Formula 1 ma anche le gare «minori», in pole position all’autodromo di Monza dove era nato il 7 novembre 1940 e dove era diventato pilota. Poi vari problemi, anche economici, e la scelta, forse obbligata, di farsi aiutare con un appartamento messo a disposizione «da una mano caritatevole», a quanto pare l’editore del giornale, come racconta il collega e amico Marco Pirola. Meglio di un giaciglio alla stazione. 

«Era in fuga dall’ennesimo padrone di casa, disperato, e s’era presentato in redazione con un sacchetto di plastica: ”C’è dentro tutto quello che mi è rimasto”. Non perse la dignità», gli riconosce Pirola. Un uomo solo. Che nella sua casa novarese non era mai riuscito a costruire nessun rapporto. Lui che era stato il cronista che nell’estate del ’95, quando la Ferrari annunciò Schumacher, riuscì a sorprendere anche Gianni Agnelli. L’avvocato aveva lasciato la tenuta di Villar Perosa per Monza, dove la Rossa provava in vista della gara: «B-52», il bombardiere brianzolo, lo mise presto nel mirino a caccia della notizia, lo scoop, e una volta a tiro, dietro i box, scattò staccando il gruppone di colleghi, lui che voleva arrivare prima. «Cappottò e cadde di schiena — ride ancora Cremonesi —. Si rialzò con i pantaloni stracciati, nulla di cui vergognarsi di fronte all’uomo più potente d’Italia: “Avvocato, chi farà il secondo di Schumi?”. Risposta: “Berger”». Arrivò Irvine. Per lui i funerali verranno organizzati dal Comune. «Abbiamo appreso della sua morte quando lo hanno trovato — racconta il sindaco Alessandro Canelli —. Nessuno si è dato una ragione sul perché fosse così solo».

È morto Lance Reddick, la star di "The Wire" e "John Wick". Non ci sarebbe nessun mistero dietro il decesso a 60 anni del celebre attore originario di Baltimora. Federico Garau il 18 Marzo 2023 su Il Giornale.

Non ci sarebbe nessun mistero dietro la morte di Lance Reddick, deceduto ieri all'età di 60 anni: l'attore, reso celebre dalle sue interpretazioni in "The Wire" e "John Wick", avrebbe perso la vita per cause naturali, stando almeno a quanto riferito dalla sua agente.

La salma di Reddick è stata rinvenuta all'interno della sua abitazione di Los Angeles durante la mattinata di venerdì 17 marzo, e dopo la diffusione della notizia da parte del portale di gossip Tmz avevano iniziato a circolare diverse ipotesi relativamente alle cause del decesso, avvenuto a soli 60 anni. "Lance Reddick è morto improvvisamente per cause naturali", ci ha tenuto a precisare in un breve comunicato la sua agente Mia Hansen. Probabile, quindi, che si sia trattato di un infarto. "La polizia è stata chiamata a casa dell'attore intorno alle 09:30 ora locale", ha aggiunto ancora la donna. "Lance mancherà moltissimo", ha dichiarato Hansen in conclusione,"vi preghiamo di rispettare la privacy della sua famiglia in questo momento".

L'attore si trovava impegnato proprio in questi giorni in un tour promozionale, con l'obiettivo di anticipare e pubblicizzare l'uscita del quarto capitolo della saga di John Wick, previsto per venerdì 24 marzo. In quello che è uno dei suoi ultimi ruoli, l'attore si cala nei panni di Charon, concierge dell'hotel del centro criminale clandestino di New York, il Continental Hotel.

Sempre per il piccolo schermo, Reddick ha recitato anche nella celebre serie "Lost" (2008-2009), dove interpretava Matthew Abaddon, in "Fringe" (2008-2013), nel ruolo dell'agente speciale Phillip Broyles, e in "Bosch" (2014-2021), nei panni di Irvin Irving. È noto anche per aver interpretato Papa Legba nella terza stagione di "American Horror Story" (2014), ricoprendo poi il medesimo ruolo anche nell'ottava stagione. Dotato di una voce profonda, Reddick ha assunto spesso il ruolo di doppiatore, anche in alcuni videogiochi, partecipando a progetti come "The Vindicators", "DuckTales", "Rick and Morty" e "Castlevania".

Originario di Baltimora, nel Mariland, Reddick era nato il 31 dicembre del 1962. Dopo aver concluso con successo il proprio percorso di laurea presso la Eastman School of Music dell'Università di Rochester, approdò alla Yale School of Drama. Dopo più di una decina di ruoli di rilievo, tra cui spicca la partecipazione alla serie "Oz", l'attore raggiunse il pieno successo fin dalla prima stagione in "The Wire" (2002-2008), tuttora considerata come una delle serie televisive più importanti di tutti i tempi. Prima di morire era riuscito a concludere alcuni altri progetti, tra i quali lo spinoff di "John Wick The Ballerina" e il remake di "White Men Can't Jump", in uscita il prossimo 19 maggio.

Lance Reddick, morto a 60 anni l'attore di 'John Wick' e 'The Wire'. La Repubblica il 17 marzo 2023

L'attore, nel cast della saga con Keanu Reeves, è stato trovato morto nella sua casa a Los Angeles, nel quartiere di Studio City

Lance Reddick, tra i volti noti della saga di John Wick, è stato trovato morto nella sua casa di Studio City, quartiere nella città di Los Angeles, nelle prime ore della mattina di venerdì 17 marzo. Aveva 60 anni.

La causa della morte di Lance Reddick non è stata ancora svelata, ma alcuni media Usa sostengono che il decesso sia avvenuto per cause naturali, probabilmente un infarto. L'attore aveva ripreso il ruolo di Charon in John Wick: Chapter 4, appena arrivato nelle sale di tutto il mondo.

Reddick in questi giorni, era impegnato nella promozione del nuovo capitolo della saga con Keanu Reeves e avrebbe dovuto apparire nel salotto del The Kelly Clarkson Show la prossima settimana. Tra i suoi progetti futuri c'erano inoltre il remake di White men can't jump (Chi non salta bianco è, film di Ron Shelton del '92) e la serie Percy Jackson e gli dei dell'Olimpo, oltre allo spinoff di John Wick intitolato Ballerina.

Lance aveva ottenuto il suo primo ruolo importante nella quarta stagione della serie Oz, nel 2004, interpretando l'agente sotto copertura Johnny Basil. Hbo aveva poi deciso di collaborare nuovamente con lui in occasione di The Wire, affidandogli la parte di uno dei protagonisti, Cedric Daniels, apparso in tutte le 60 puntate dello show. La sua carriera è poi proseguita con un ruolo in Lost e in Fringe, collaborando quindi con J.J. Abrams. Per il piccolo schermo ha poi recitato in show come Law & Order, Csi, American Horror Story, The Blacklist, Bosch, Castle e recentemente Resident Evil e Young Sheldon.

Tra i lungometraggi ci sono invece Godzilla vs Kong, Attacco al potere 3, Quella notte a Miami e Sylvie's Love. L'attore ha inoltre collaborato alla realizzazione di numerosi videogiochi come Quantum Break, Destiny e Horizon Zero Dawn.

Nato a Baltimora, nel Maryland, il 31 dicembre 1962, Reddick ha studiato alla Eastman School of Music dell'Università di Rochester a New York, dove ha conseguito la laurea, e dopo è approdato alla Yale School of Drama. Reddick lascia la moglie Stephanie Diane Day e i figli Yvonne Nicole e Christopher. 

(ANSA il 16 marzo 2023) - E' morta Bice Biagi, figlia di Enzo, giornalista e scrittrice. Lo rende noto Articolo 21, associazione alla quale Bice Biagi contribuiva nel ruolo di garante.

 Originaria di Bologna, 75 anni, si è spenta la mattina del 16 marzo. "Forte e volitiva, ironica e franca, Bice è sempre stata accanto al padre nella lotta contro l'editto bulgaro di Berlusconi che si abbatté su di lui, Luttazzi e Santoro il 18 aprile 2002, quando era alla Rai. Ha sempre avuto come impegno - ricorda Articolo 21 - la difesa dei diritti delle donne e come baluardo di riferimento la Costituzione.

All'epoca dei primi movimenti studenteschi era iscritta alla Facoltà di Lettere alla Statale di Milano ed era già molto attiva nel sostenere battaglie di libertà". "Ho imparato da mio padre che, a rendere "davvero libera" una donna, era soprattutto il lavoro. Su tale principio ho basato la mia attività di giornalista e quella personale", diceva di sé.

Dall'attentato di Piazza Fontana fino alla rivoluzione culturale del '68 e agli anni 70 Bice Biagi è stata testimone dei profondi cambiamenti del mondo e della società da protagonista, raccontandoli. "Una perdita dolorosa, un vuoto incolmabile come quello lasciato da Enzo, tra i fondatori insieme a Bice di Articolo 21", si legge sul sito dell'associazione.

Estratto dell’articolo di Stefano Lorenzetto per il “Corriere della sera” – 3 novembre 2018 – da  cinquantamila.it – la storia raccontata da Giorgio Dell’Arti

[…] Bice Biagi è la primogenita di Enzo. «Parlo con lui tutti i giorni. Da un lato mi manca, dall’altro c’è sempre. Mi sembra ieri quando la sera facevamo a gara con L’eredità di Carlo Conti. Leggeva le cinque parole e subito imbroccava la sesta». È l’unica in famiglia ad aver scelto il mestiere del padre. Ma con il giornalismo ha chiuso. Dall’11 agosto 2015 fa la nonna. […]

A che età decise di fare la giornalista?

«Non lo decisi. Ero laureata in lettere, davo lezioni di latino. Papà mi disse: “La Rizzoli ha comprato Il Mondo. Quasi quasi chiedo che ti prendano, senza pagarti”. Mi ritrovai in un’accozzaglia di figli e nipoti. C’era anche Francesco Merlo. Dicevano che non era bravo, pensi quanto sono lungimiranti i nostri colleghi».

 Fu un esordio duro?

«Sgobbavo tanto per far dimenticare che ero “la figlia di”. Mi è sempre mancata l’ambizione. Da doverista, come papà, volevo solo fare la mia parte».

[…] Ha perdonato Silvio Berlusconi per l’«editto bulgaro» che nel 2002 estromise suo padre dalla Rai?

«Mi sembra una parola così importante... Chi sono io per perdonare? Diciamo che mi ricordo. Quell’anno perse la moglie, perse il lavoro. Non aveva né hobby, né passioni. Fu come togliergli tanto, tanto, tanto... Rachele, figlia di mia sorella Carla, ricorda sempre: “In un giorno vedemmo il nonno diventare vecchio”».

 Che cosa direbbe Enzo Biagi dell’Italia governata da M5S e Lega?

«Sarebbe angosciato. Le sue preoccupazioni di allora mi sembrano bazzecole al confronto con ciò che accade oggi. Perché la mia generazione non è riuscita a trasmettere i valori che ci hanno insegnato i nostri genitori? Perché tutto questo odio, questa aggressività?».

[…] Ha il carattere di suo padre.

«Me lo dicono in tanti. Io sono più paziente. E non ho vissuto solo per il lavoro: anche per la famiglia, per le amicizie, per giocare a burraco. Alle 12.15 della domenica la mamma radunava a pranzo figlie, generi e nipoti. Si mangiava con l’imbuto, perché lui doveva correre nella sede Rai di corso Sempione a seguire le partite di calcio in bassa frequenza. Alla fine interrompemmo la consuetudine».

 Poveruomo, dopo tanto lavoro...

«L’unica volta che mi portò a vedere un film avevo 9 anni, Moby Dick, al cinema Missori, ma io avrei preferito Sette spose per sette fratelli. Era fissato con il circo: se arrivava a Pianaccio, ci toccava sorbircelo pure lì. Mi prometteva sempre di accompagnarmi in gita a Venezia. Per fortuna Carla ha sposato Stefano Jesurum, che ha i parenti in laguna, altrimenti non avrei mai visto il Canal Grande».

Qual era la sua miglior dote?

«La coerenza. Per quella, gli perdonavi l’eccesso di permalosità. Avrebbe querelato persino chi scriveva che portava gli occhiali. Mi toccava rimproverarlo. Allora mi sbatteva giù il telefono. Dopo tre ore richiamava. Non chiedeva scusa, ma ti faceva capire che era costernato».

 […] Comunque, un’avventura irripetibile.

«Sì, papà ci ha regalato una vita straordinaria. Una volta al mese, Giuseppe Prezzolini giungeva a trovarci in treno, da Lugano, con la consorte Gioconda. Mamma gli preparava la crostata di fragole. Lui mangiava quelle e lasciava nel piatto la pastafrolla. Venne a pranzo a casa nostra persino Tommaso Buscetta, con la moglie Cristina e il figlio di 19 anni, del quale non si sapeva neppure il nome. Lo chiamavano Junior. Gli leggevi la tristezza negli occhi. Non poteva avere né identità, né morosa, né amici. Arrivarono in via Vigoni su tre vetture diverse. L’ex boss di Cosa nostra si fece precedere da un fascio di rose. Alla fine lo accompagnai giù in strada. Mentre attendevamo l’auto blindata della polizia, mi disse: “Lo sa che stando qui potrebbe beccarsi una sventagliata di kalashnikov?”. Risalii in casa con la schiena ingessata».

[…] Quali furono le sue ultime parole?

«“Bice, e il mio orologio?”. Era un Piaget. Gli promisi che glielo avrei rimesso al polso».

 Quando pensa a lui, come lo vede?

«Sorridente, nella sua casa di campagna, seduto sotto il portico».

Morte di Bice Biagi: i litigi e il lavoro col padre, la carriera nei giornali e il carattere «ribelle». Marco Marozzi su Il Corriere della Sera il 16 Marzo 2023

Nata a Bologna, aveva collaborato a Rotocalco con il padre Enzo Biagi che ripeteva alle figlie: «Lavorare, studiare, la vera indipendenza che avrete è quella economica». E lei: «Papà aveva ragione»

Sarà sepolta nel cimitero di Pianaccio (Bologna). Accanto a papà Enzo, mamma Lucia, la sorella Anna. Nella terra sotto casa dei Biagi, che i Biagi regalarono al Comune e dove una grande parte delle tombe è di un qualche Biagi o di un qualche Guccini. «Quando per strada da ragazza mi chiedevano se ero figlia di Enzo Biagi, il primo istinto era dire di no», raccontava lei, Bice, la più ribelle delle Biagi, quella che ha seguito le orme del padre giornalista, l'unica di tre ragazze che non sempre è stata allineata alle sue scelte, dal '68 a Berlusconi, per il pubblico e il privato ogni tanto litigavano di brutto, poi per tutti «la famiglia non si tocca» e a pranzo la domenica tutti a pranzo dal patriarca. È morta mercoledì sera nella sua casa milanese, era nata nel centro di Bologna il 5 maggio 1947, «nello stesso giorno in cui morì Napoleone», si pavoneggiava il babbo, che pochi mesi dopo sarebbe andato per la prima volta all'estero: a Londra, a seguire il matrimonio fra Elisabetta e Filippo come inviato del Giornale dell'Emilia, il Carlino epurato dopo la guerra. Il funerale sarà a Pianaccio sabato 18 marzo. 

Si è occupata di terrorismo e astrologia

Del borgo di Lizzano in Belvedere lei e la sorella più giovane, Carla, moglie del giornalista Stefano Jesurum, hanno fatto il luogo in cui partendo da Enzo Biagi e il Centro a lui dedicato si ragiona sul giornalismo ieri e oggi. Lascia una figlia, Lucia, come la nonna. «Dovete essere come un uomo», diceva il padre con linguaggio antico. «Lavorare, studiare, la vera indipendenza che avrete è quella economica». «Papà aveva ragione», rideva lei non più ragazza. Il cognome le ha aperto strade, le sue capacità gliele hanno spalancate. È diventata direttrice di Novella 2000, Insieme, Intimità, vice di Oggi, si è occupata di terrorismo e astrologia, nel 2007 assistette il padre Enzo, già malato, a RT Rotocalco Televisivo, l'ultimo programma tv di Biagi, rientrato in Rai dopo i cinque anni di esilio ordinato con l'«editto bulgaro» da Silvio Berlusconi premier contro lui e Michele Santoro. È stata per sette anni assistente di Giorgio Fattori, già gran direttore della Stampa, amministratore e presidente del Gruppo Rizzoli-Corriere della Sera dal 1986 al 1994, quando Vittorio Feltri, compagno di Bice Biagi, divenne direttore e reiventò L'Europeo. 

Le divergenze con il padre

Non sempre padre e figlia son filati sulla stessa strada. Ha scritto sul Giornale di Montanelli e sul Carlino di Feltri. «I figli non devono essere la clonazione dei padri» disse nel 1997 quando si presentò a Milano capolista in Comune per il Ccd di Pier Ferdinando Casini, allora berlusconiano critico. Sul Tempo di Maurizio Belpietro scriveva di Romano Prodi premier: «Dottor Jekyll di Bologna e mister Hyde di Palazzo Chigi, che non può che portarci alla rovina. Più che di uno sprone avrebbe bisogno di una spinta, non per avanzare, caso mai per togliersi dai piedi». Casini ora è senatore Pd. Bice si è allontanata dal berlusconismo ben prima, in nome della libertà di stampa. Enzo è morto nel 2007, lei ha scritto con Carla il libro «Casa Biagi», da sola «In viaggio con mio padre».

Lutto nel mondo del giornalismo. È morta Bice Biagi, la figlia di Enzo Biagi aveva 75 anni: “Ho imparato da mio padre che a rendere libera una donna era il lavoro”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 16 Marzo 2023

Bice Biagi, figlia di Enzo Biagi, si è spenta a Bologna a 75 anni. Giornalista e scrittrice da tempo aveva il ruolo di garante nell’associazione Articolo 21, che ne ha dato il triste annuncio. “Forte e volitiva, ironica e franca, Bice è sempre stata accanto al padre nella lotta contro l’editto bulgaro di Berlusconi che si abbatté su di lui, Luttazzi e Santoro il 18 aprile 2002, quando era alla Rai. Ha sempre avuto come impegno – ricorda Articolo 21 – la difesa dei diritti delle donne e come baluardo di riferimento la Costituzione. All’epoca dei primi movimenti studenteschi era iscritta alla Facoltà di Lettere alla Statale di Milano ed era già molto attiva nel sostenere battaglie di libertà”.

Nella sua carriera è stata direttrice di Novella 2000, poi vicedirettrice di Oggi. Nel 2007 ha lavorato insieme al padre, Enzo Biagi, nella redazione della trasmissione televisiva RT Rotocalco Televisivo. “Ho imparato da mio padre che, a rendere ‘davvero libera’ una donna, era soprattutto il lavoro. Su tale principio ho basato la mia attività di giornalista e quella personale”, diceva di sé. Dall’attentato di Piazza Fontana fino alla rivoluzione culturale del ’68 e agli anni 70 Bice Biagi è stata testimone dei profondi cambiamenti del mondo e della società da protagonista, raccontandoli.

Per un periodo è stata sentimentalmente legata a Vittorio Feltri. “Sono rimasto sbigottito, apprendere la notizia mi ha fatto davvero molto male. Penso soprattutto alla figlia Lucia, che era attaccatissima alla madre e adesso soffrirà parecchio, e questo mi duole moltissimo” – ha detto feltri all’Adnkronos con voce rotta dall’emozione – Ho di lei un ricordo molto. Come giornalista era bravissima, ma non era molto abile nel valorizzarsi”. La figlia di Enzo Biagi “conosceva l’inglese e il francese perfettamente, e io tante volte quando andavo all’estero mi facevo accompagnare perché mi aiutava parecchio”, ricorda sorridendo Feltri. Che sul rapporto con il padre Enzo, aggiunge: “Era molto simile al padre ma non aveva la stessa personalità, quindi non gliene fregava neanche niente di svettare. Anche se poi ha fatto una carriera più che buona”, conclude commosso.

Forte. Determinata. Attenta”, così la ricorda la Fnsi, la Federazione nazionale della Stampa. “Sempre dalla parte delle donne, strenuamente impegnata contro i bavagli e nella difesa dei valori costituzionali. Anche per questo tra le fondatrici di Articolo 21, all’indomani dell’editto bulgaro che prese di mira il papà Enzo, e del Centro documentale a lui dedicato a Pianaccio, vicino Bologna”.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Morto Luigi Piccatto, addio allo storico disegnatore di Dylan Dog. Mondo del fumetto in lutto: è morto il fumettista Luigi Piccatto, storico disegnatore della Bonelli che ha realizzato ben 47 albi di Dylan Dog. Ilaria Minucci su Notizie.it il 14 Marzo 2023

Addio al fumettista Luigi Piccatto, noto principalmente per essere stato uno dei principali disegnatori di Dylan Dog. La sua carriera ha avuto inizio nel 1987, quando realizzò le tavole per l’ottavo volume della collana intitolato Il ritorno del mostro.

Luigi Piccatto si è spento martedì 14 marzo 2023. Nato a Torino nel 1954, il disegnatore aveva cominciato a realizzare fumetti alla fine degli anni ’70, poco dopo aver compiuto vent’anni. ha esordito su Corrier Boy con la serie Chris Lern. Successivamente, ha collaborato ad altri progetti e con altre riviste fino a entrare a far parte della Sergio Bonelli Editore nel 1986 per lavorare a Dylan Dog, nuovo progetto della casa editrice.

Nel corso della sua carriera, il fumettista ha realizzato 47 volumi di Dylan Dog, diventando con il trascorrere del tempo uno dei disegnatori più iconici e più amati dai lettori. Il suo stile si contraddistingueva per il tratto cupo e ricco di particolari che ben si adattava ai toni del racconto. Proprio grazie al suo tratto caratteristico, Piccatto venne scelto per disegnare la miniserie spin-off in 9 volumi dedicata a Groucho che è stata pubblicata fino all’estate 2000.

Carriera

Dylan Dog non è stato l’unico progetto al quale Piccatto ha lavorato con assiduità. Ha realizzato, infatti, anche molti volumi di Nathan Never, di Zagor e molti altri ancora. Nel 2012, in collaborazione con Paola Barbato, ha pubblicato il romanzo a fumetti Darwin.

Nel 2007, ha creato la miniserie fantasy Khor per Star Comics dopo aver aperto uno studio ad Asti. Nel 2020, invece, è stata allestita una mostra interamente dedicata all’artista.

Estratto dell'articolo da repubblica.it il 13 marzo 2023.

È morto oggi a Roma Marco Zavattini, autore diprogrammi di successo del tv italiana, come Domenica in e Porta a porta e figlio del grande regista, sceneggiatore e scrittore Cesare Zavattini. L'annuncio è stato dato da Massimo Liofredi, già direttore di Rai 2, Rai Ragazzi e delle sedi Rai di Abruzzo e Molise.

 L'annuncio di Liofredi

"È venuto a mancare il mio amico di una vita Marco Zavattini. Un grande autore televisivo e un maestro dello spettacolo italiano, una persona con cui ho condiviso in Rai numerose trasmissioni televisive, tra cui Domenica in. Con la scomparsa di Marco Zavattini se ne va un altro pezzo di storia dello spettacolo italiano", dice Liofredi. […]

Il cordoglio di Bruno Vespa

"Con Marco Zavattini scompare una delle figure più rappresentative nella storia di Porta a porta - dice Bruno Vespa anche a nome della redazione - È stato con noi fin dall'inizio e non è voluto mancare nemmeno nei periodi di difficoltà fisica con i suoi raffinati consigli per il mondo dello spettacolo e non solo. Ci stringiamo con tutto il nostro affetto alla moglie e ai figli".

Estratto dell'articolo da repubblica.it il 13 marzo 2023.

È morto oggi a Roma Marco Zavattini, autore diprogrammi di successo del tv italiana, come Domenica in e Porta a porta e figlio del grande regista, sceneggiatore e scrittore Cesare Zavattini. L'annuncio è stato dato da Massimo Liofredi, già direttore di Rai 2, Rai Ragazzi e delle sedi Rai di Abruzzo e Molise.

 L'annuncio di Liofredi

"È venuto a mancare il mio amico di una vita Marco Zavattini. Un grande autore televisivo e un maestro dello spettacolo italiano, una persona con cui ho condiviso in Rai numerose trasmissioni televisive, tra cui Domenica in. Con la scomparsa di Marco Zavattini se ne va un altro pezzo di storia dello spettacolo italiano", dice Liofredi. […]

Il cordoglio di Bruno Vespa

"Con Marco Zavattini scompare una delle figure più rappresentative nella storia di Porta a porta - dice Bruno Vespa anche a nome della redazione - È stato con noi fin dall'inizio e non è voluto mancare nemmeno nei periodi di difficoltà fisica con i suoi raffinati consigli per il mondo dello spettacolo e non solo. Ci stringiamo con tutto il nostro affetto alla moglie e ai figli".

Estratto da ilmessaggero.it il 13 marzo 2023.

La radio resta senza voce. Lutto nel mondo della radiofonia per la morte di Clelia Bendandi, storica speaker passata, in quasi 50 anni di carriera, dalle emittenti romane a Radio Rai e ultimamente in forza a Rtl Best. A dare la notizia della sua scomparsa sui social, i colleghi.

 «L'incredulità, il dolore sordo, il vuoto improvviso - ha scritto Federica Gentile su Instagram - Clelia, riempi tu questo silenzio assordante con la tua voce, da lassù. Porta le tue cuffie con te, noi ti teniamo stretta. Tengo strette le nostre chiacchierate, la nostra musica, i nostri commenti notturni alle partite di tennis in orari improbabili. E i tanti ricordi di una vita, i primi passi alla radio, le cene sul barcone… Fai buon viaggio, Cleliuccia mia», ha concluso. Bendandi aveva iniziato a lavorare a metà degli '70 su Radio Elle, poi era passata a Radio Luna e negli anni '80 era approdata alla radio Rai, entrando nella squadra di Rai Stereodue e di altre trasmissioni. Negli ultimi anni lavorava a Rtl Best.

 Radio in lutto, morta Clelia Bendandi. Il ricordo di Federica Gentile su Instagram. Francesco Fredella su Il Tempo il 13 marzo 2023

La sua voce rimarrà nel cuore e nella mente di migliaia e migliaia di ascoltatori. Clelia Bendandi, un mito per la radiofonia italiana, è andata via per sempre. E' morta nella tarda serata nella sua casa romana nel quartiere Fleming nel corso di una domenica come tante altre, che solitamente trascorreva con amici, parenti o leggendo libri e giornali al sole tiepido della primavera romana. Ovviamente sempre in compagnia della musica, che non mancava mai nella sua vita.

Negli ultimi anni era entrata nella famiglia di RTL 102.5 Best, in onda dalle 13 alle 15 tutti i giorni. Gli aneddoti di una vita vissuta sempre intensamente restano indimenticabili: i viaggi in giro per il mondo, la passione per lo sci, il mare (che amava in modo incondizionato), il ristorante a New York (dove ha vissuto per molti anni) e poi il "barcone" sul Tevere. Tutti a Roma conoscevano Clelia. Tutti l'apprezzavano. Lei, sempre sorridente, viveva ogni singolo giorno con un'energia invidiabile. Parlava perfettamente inglese, pensava sempre in italiano. Leggeva giornali americani e fumava (purtroppo) tante sigarette. Con il suo pubblico, in onda a RTL 102.5 Best, amava parlare della sua vita piena di emozioni. Vissuta sempre al massimo. Una carriera iniziata nelle emittenti romane fino Radio Rai. E poi l'arrivo a RTL 102.5 Best. "L'incredulità, il dolore sordo, il vuoto improvviso - scrive Federica Gentile su Instagram - Clelia, riempi tu questo silenzio assordante con la tua voce, da lassù. Porta le tue cuffie con te, noi ti teniamo stretta. Tengo strette le nostre chiacchierate, la nostra musica, i nostri commenti notturni alle partite di tennis in orari improbabili. E i tanti ricordi di una vita, i primi passi alla radio, le cene sul barcone. Fai buon viaggio, Cleliuccia mia".

Da rsi.ch il 13 marzo 2023.

 È morto lo scrittore giapponese Kenzaburo Oe. Aveva 88 anni. Icona progressista e anticonformista, venne insignito del Premio Nobel per la letteratura nel 1994. Fu il secondo giapponese a ricevere l’onorificenza dopo Kawabata, che lo aveva vinto nel 1968.

 La notizia è stata confermata dall’editore Kodansha, che ha comunicato la morte per vecchiaia nelle prime ore del 3 marzo, aggiungendo che i funerali sono già stati celebrati dalla famiglia.

Conosciuto anche per le sue campagne pacifiste e antinucleari, Kenzaburo Oe ha scritto libri sui bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki e sull'Hibakusha (il termine giapponese per designare i sopravvissuti al bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki, ndr.). Nella sua carriera ha scritto una trentina di romanzi, nonché svariati saggi e racconti.

È morto il premio Nobel Kenzaburo Oe, lo scrittore giapponese che lottava per la pace. ERICA SOLLAZZO su Il Domani il 13 marzo 2023

Diceva che nulla era superiore alla democrazia. L’autore era anche noto per le rivendicazioni liberali e per il contrasto al nucleare

È morto lo scrittore giapponese e premio Nobel per la Letteratura Kenzaburo Oe. A renderne nota la scomparsa, lunedì, è il suo editore, Kodansha: l’autore è deceduto lo scorso 3 marzo, a 88 anni. La famiglia dello scrittore ha preferito ritardare la diffusione della notizia, per poter celebrare i funerali in privato.

Oe, nato nel 1935 nella cittadina di Uchiko, ha ricevuto numerosi riconoscimenti nella propria carriera, tra cui il Nobel per la letteratura nel 1994. La sua attività, tuttavia, non si è esaurita in ambito letterario: attento a questioni politiche e sociali, era un pacifista, anticonformista e contrario al nucleare.

LA MINACCIA NUCLEARE

È proprio la tematica nucleare a essere al centro del suo saggio del 1965, Note su Hiroshima, in cui ha narrato una città distrutta, una realtà dilaniata dagli effetti dell’atomica, attraverso interviste a sopravvissuti e medici. Nel suo libro, Oe offre ai lettori un’analisi morale e politica degli eventi in chiave fortemente anti nucleare.

Sebbene abbia dichiarato di rivolgersi prevalentemente a un pubblico giapponese, con quest’opera Oe è stato in grado di catturare, negli anni Sessanta, anche l’interesse di lettori internazionali. Il suo attivismo nelle campagne antinucleari è rimasto vivo nel corso degli anni e si è tradotto in varie iniziative, tra cui la protesta del 2013, da lui organizzata a Tokyo.

VICENDE PERSONALI

Kyodo

Un’esperienza personale è il titolo del romanzo autobiografico del 1964, ispirato alle difficoltà nel rapporto con il figlio, nato con lesioni celebrali. 

Oe ha rivelato di aver utilizzato la scrittura come una catarsi, un modo per analizzare e accettare dei conflitti interiori. Nelle sue opere, infatti, s’incontra di frequente la rappresentazione di un mondo sconquassato da forze oscure e disturbanti. 

SCRIVERE COME ATTO DI LIBERTÀ

Lo scrittore giapponese, che ha sempre avuto a cuore battaglie pacifiste, è noto anche per le sue rivendicazioni liberali.

È divenuto celebre il suo rifiuto, nel 1994, dopo essere stato insignito del Nobel, del riconoscimento dell’Ordine della Cultura giapponese da parte dell’imperatore. Oe, infatti, nell’occasione ha detto di non riconoscere alcuna autorità «più in alto della democrazia».

ERICA SOLLAZZO. Laureata in Lettere Moderne all'Università La Sapienza di Roma, dove attualmente studia Editoria e Scrittura

Il Nobel giapponese dal "sorriso diabolico" che non temeva di essere impopolare. Il pacifismo, Hiroshima, il figlio autistico: non si risparmiò mai, nella vita e nella scrittura. Stefania Vitulli il 14 Marzo 2023 su Il Giornale.

Prendeva tutto sul serio, tranne se stesso. Così in una intervista di alcuni anni fa la Paris Review descriveva la contraddittoria e affascinante personalità letteraria e umana di Kenzaburo Oe, il Nobel per la letteratura 1994 scomparso il 3 marzo: «Kenzaburo Oe è morto di vecchiaia nelle prime ore del 3 marzo», ha dichiarato ieri l'editore giapponese Kodansha, aggiungendo che i funerali sono già stati celebrati dalla famiglia.

Era noto nel suo Paese per essere un attivista e in tutto il mondo per essere un progressista che non temeva né il conflitto né l'impopolarità, anticonvenzionale sia nel contenuto sia nella forma della sua prosa. Aveva un'opinione su tutto, dalle vittime dell'atomica di Hiroshima alle lotte della gente di Okinawa, dalle sfide cui sono sottoposti i disabili alla disciplina della scuola dell'obbligo, ma poi indossava una t-shirt sportiva e un gran sorriso («Un sorriso diabolico», secondo Henry Kissinger) ed era cordiale con tutti. Forse la sua più grande dote letteraria è stata unire grandezza ideale a miseria quotidiana, tensione nell'assoluto e umiltà nella perdita: «Il lavoro dello scrittore è quello del clown, un clown che parla anche del dolore». Sono le parole di un uomo nato in un piccolo villaggio dell'isola di Shikoku nel 1935, Ose, ed allevato per credere che l'imperatore fosse un dio, ma che fin dall'inizio oppone ad una visione conformista e totalizzante degli eventi una prospettiva critica oggettiva al punto da risultare impietosa.

Pubblicato in Italia da Garzanti (tra i libri tradotti Il salto mortale, La vergine eterna, L'eco del paradiso, La foresta d'acqua, Il bambino scambiato) si espone in prima persona, Kenzaburo Oe, in un modo autobiografico che oggi chiameremmo autofiction, fin dagli anni Sessanta, quando decide di trasformare in scrittura uno dei più grandi drammi della sua vita, il rapporto con il figlio Hikari, autistico: questa paternità straordinaria per amore e tenacia Hikari, stimatissimo compositore, ha vissuto sempre con lui a Tokyo, nello stesso quartiere in cui avevano abitato Akira Kurosawa e Toshiro Mifune - è esplorata in modo teso, ossessivo e poetico in Un'esperienza personale (Garzanti, 1964), Insegnaci a superare la nostra pazzia (Garzanti, 1969) e Il verbale di un pinch runner (1976), dove la figura del ragazzino con ritardo mentale, innocente e vulnerabile, si radica nella vitalità naturale insopprimibile, volontà cosmica così potente da diventare l'unica salvezza possibile.

Di pari importanza per lui il tema pacifista, che gli costò più volte la stigmatizzazione delle istituzioni politiche, ma a cui rimase fedele: gli esperimenti atomici e le armi nucleari vengono affrontati in brevi racconti e in molti saggi, il più famoso dei quali è Note su Hiroshima (Garzanti, 1965), su cui, con il consueto vigore esegetico, scrisse: «Questo libro non significa che la Hiroshima che esiste adesso nella mia interiorità sia giunta a un punto d'arrivo. Al contrario posso affermare di avere finora appena scalfito la sua superficie. La realtà di Hiroshima può essere accantonata solo da quanti, di fronte all'evidenza, osano restare muti, sordi e ciechi». A dimostrarlo, riprese l'argomento alla fine del secolo scorso in un carteggio con lo scrittore tedesco Günter Grass, Ieri 50 anni fa (Archinto, 1997).

Pluripremiato a livello globale citiamo solo alcuni tra i riconoscimenti come il Mondello, il Grinzane Cavour, il Premio Akutagawa, il Premio Shinchosha, il Premio Tanizaki e nel 1994, lo stesso anno dell'assegnazione del Nobel, il rifiuto dell'Ordine della Cultura, onorificenza assegnata dalla Casa imperiale giapponese, mentre nel 2002 l'accettazione della Legion d'Onore della Repubblica francese fu il secondo autore giapponese a ottenere appunto il Nobel dopo Yasunari Kawabata: «Con forza poetica crea un mondo immaginario in cui vita e mito si condensano per formare uno sconcertante ritratto dell'attuale condizione umana», era la motivazione dell'Accademia reale di Svezia.

Kenzaburo rispose a Stoccolma con un discorso dal titolo «Il Giappone, l'ambiguità e io», in cui affrontava il terzo dei temi a lui più cari, quello del legame con memoria, passato e tradizione. Legame che può diventare obbligo fantasmatico, cui nella realtà si può opporre forse solo un lucido, e inquieto, anticonformismo. La letteratura, però, offre ben altre armi per affrontarlo e Kenazaburo Oe le ha usate tutte: solo per citare i titoli più noti, in M/T e il racconto delle meraviglie della foresta (1986), il gruppo di ribelli protagonisti è protetto da forze magiche, mentre in Gli anni della nostalgia (Garzanti, 1987), Kei, l'io narrante, e Gii, lo sciamano eremita già apparso ne Il grido silenzioso creano una di quelle coppie indimenticabili per cui la parola poetica è l'ala che permette il volo tra culture e opere occidentali come la Divina Commedia o Huckleberry Finn sono già tutta l'educazione sentimentale che un ragazzo può desiderare.

Il presidente di Assomusica Vincenzo Spera muore a Genova investito da uno scooter. Ferruccio Pinotti su Il Corriere della Sera il 14 settembre 2023.

Da Beppe Grillo a Fabrizio De André; da Bob Dylan a Miles Davis, lunga la lista degli artisti seguiti dal fondatore e direttore di DuemilaGrandiEventi

È morto intorno all’una del mattino a Genova il manager musicale Vincenzo Spera, fondatore e direttore di DuemilaGrandiEventi: il manager era stato investito in serata da uno scooter in corso Magenta. L’imprenditore è stato trasportato in codice rosso al Pronto Soccorso del San Martino. Vani i tentativi di rianimarlo da parte dell’equipe di anestesisti diretta dal dottor Giordano Casalini, che ha constatato il decesso pochi istanti dopo l’una.

Attraversava la strada quando un 18enne lo ha investito

Le sue condizioni, apparse subito gravissime, sono peggiorate nel corso delle ore. Giordano Casalini, a capo dell’equipe di anestesisti del policlinico, «ha constatato il decesso pochi istanti dopo l’una», si legge in una nota del San Martino. L’investimento è avvenuto intorno alle 21, all’altezza di via Bertani, non lontano dall’abitazione di Spera. Come ricostruito dagli inquirenti, Spera stava attraversando la strada quando è stato travolto dallo scooter. Lo schianto è stato molto violento e anche il conducente del mezzo, un diciottenne, è rimasto ferito: è ora ricoverato in gravi condizioni al pronto soccorso del Galliera.

Presidente di Assomusica e manager di grandi artisti

Manager, fondatore e direttore di Duemilagrandieventi nonché presidente di Assomusica, l’associazione che riunisce tutti i promoter d’Italia, Vincenzo Spera è stato un grandissimo appassionato di musica, come racconta in A un metro dal palco, il titolo della sua autobiografia, scritta a quattro mani con l’amico Renato Tortarolo. Lunghissima la lista degli artisti con cui ha lavorato: da Beppe Grillo a Fabrizio De André, guardando la sola Genova, sua città d’adozione; da Bob Dylan a Miles Davis guardando gli internazionali. Nel 2020 aveva ricevuto l’onorificenza di commendatore dell’Ordine «al merito della Repubblica italiana», che aveva così commentato: «Per me è un grande motivo di orgoglio e felicità. Credo che sia anche significativo, perché il nostro lavoro è spesso tenuto in scarsa considerazione. Un riconoscimento ad una professione che è di grande importanza socio-culturale e di aggregazione emozionale». E ancora: «In tutti questi anni, attraverso la musica, ho avuto modo di creare relazioni internazionali e di sostenere, grazie soprattutto alla disponibilità degli artisti, iniziative sociali legate alla ricerca e alla medicina, insieme a progetti in occasione di calamità naturali, in Italia e non solo».

Marco Giusti per Dagospia il 10 marzo 2023.

Il cinema di mostri e effetti speciali a buon mercato perde un vero gigante del settore, Bert I. Gordon, detto Mr B.I.G. sia per il nome sia per la sua passione di film dedicati proprio ai giganti, 100 anni e a settembre 101, regista, sceneggiatore e produttore di una trentina di film più o meno memorabili ma sempre divertenti, popolari, tutti indipendenti, che formano un corpo incredibile di fantasy, horror, anche porno, che vanno dalla metà degli anni ’50 alla fine degli anni ’80.

Titoli come “I giganti invadono la terra”, “The Cyclops”, “Village of the Giants” con Tommy Kirk e Ron Howard, “la spada magica” con Gary Lockwood e Basil Rathbone, “La bambola di pezza” con Don Ameche, “Il potere di Satana” con Orson Welles e Pamela Franklin, “Il cibo degli dei” con Marjoe Gortner e Ida Lupino, vincitore del Gran Prix del Festival del Fantastico a Avoriaz, distribuito dalla AIP di Samuel Z. Arkoff, assiema l successivo “L’impero delle termiti giganti” con Joan Collins e Robert Lansing, definito da qualcjhe critico il più stupido film mai fatto sulle formiche, dimostrano la precisa scelta di campo di Bert I. Gordon.

Impossibile, per chi si occupa di cinema, però, non averne visti almeno un paio, anche se, ovviamente non sono considerati capolavori. Anzi. Gordon riuscì a fare il suo cinema, profondamente autoriale, con un certo successo, legandosi alla United Artist, alla Embassy, alla AIP, lanciando nuove giovani star, da Pamela Franklin a Beau Bridges e recuperando vecchie glorie di Hollywood, Ida Lupino, Basil Rathbone, Zsa Zsa Gabor. Del resto si era sempre sentito un cinefilo e metteva tra le sue medaglie aver potuto dirigere perfino Orson Welles.

Non riuscì a far qualcosa di molto diverso dal suo cinema di effetti speciali, anche se tentò, alla fine degli anni ’50  di dar vita a qualcosa di più impegnativo, come la vita e la morte di Babe Didrikson, gran star dell’atletica morta giovane di cancro. Troppo legato ai desideri del pubblico, Gordon gli dette esattamente quel che voleva da lui. Mostri, giganti, dinosauri, ragni e termiti enormi.

Nato come Bertram Ira Gordon nel 1922 a Kenosha nel Wisconsin, figlio di due ebrei russi, Sadelina Barnett e Charles Abrahams Gordon, già a nove anni cercò di girare in 16 mm un film di effetti speciali. Dopo aver studiato all’Università del Wisconsin, dal 1947 al 1952 si sposta a Minneapolis, dove diventa un prolifico autore e produttore di pubblicità a effetti speciali. Si sposta quindi a Los Angeles dove fin dal primo film, scritto, prodotto e diretto, “King Dinosaur” con William Bryant e Wanda Curtis, nel 1955, definisce quel che vuole fare a Hollywood.

 Negli anni ’50 gira una serie di film di mostri e giganti in bianco e nero e, ovviamente, a basso costo, che vanno da “Beginning of the End” con Peter Graves, Peggie Castle, “I giganti invadono la terra” con Glenn Langan, Cathy Downs, “The Cyclops” con James Carig, Gloria Talbot e Lon Chaney Jr, il vecchio uomo-lupo della Universal. Sono tutti film in bianco e nero dove Gordon sperimenta la sua tecnica, “Attack of the Puppet People” con John Agar e John Hoyt, “La vendetta del ragno nero” con Edward Kemmer, June Kenney.

Nei primi anni ’60, inventandosi anche un metodo di ripresa originale, la Super Perceptor Vision, decide di dedicarsi al cinema per ragazzi, notando che a Hollywood si producono soprattutto film per adulti. E’ una vera e propria svolta, anche se i film sono ancora pieni di elementi fantasy e di effetti, come dimostrano “The Boy and the Pirates” con sua figlia Susan Gordon, Charles Herbert, “Delitto al faro” e il più noto “La spada magica”, il suo primo film a colori, nato come “St George and the Seven Curses” con Gary Stockwell e Basil Rathbone.

 Lo segue il divertente “Village of the Giants” con Tommy Kirk, Beau Bridges e Ron Howard, dove siamo già dentro al mondo giovanile degli anni ’60. E’ una produzione tutto sommato maggiore quella di “La bambola di pezza”, che produce e dirige per la Embassy con Don Ameche, Martha Hyer e Zsa Zsa Gabor, che prende il posto della mitica Hedy Lamarr, abbandonata perché era stata scoperta autrice di piccoli furti e non sembrava troppo a posto per poter girare nelle ultime tre settimane. Peccato, perché doveva essere il film del suo grande ritorno al cinema dopo 14 anni di assenza.

How To Succed With Sex” del 1970 è il suo primo film erotico con Zack Taylor, Linda Vair e Bambi Allen. E’ invece una produzione più importante “Necromancy”, da noi uscito come “Il potere di Satana” dove è protagonista addirittura Orson Welles assieme a Pamela Franklin, Lee Purcell e Michael Ontkean. Sembra che Welles, che aveva fatto il film solo per soldi, ovvio, fosse insopportabile con gli attori minori. Leggo che nel film fa il suo esordio, ma si può vedere solo nelle copie in vhs uscite due anni dopo, la scream queen Brinke Stevens, che ha una scena totalmente nuda a 16 anni, e quindi non si poteva far vedere prima che fosse arrivata alla maggiore età.

E’ un film assolutamente diverso dai suoi fantasy il curioso "Mad Bomber” con Vince Edwards come bombarolo, Chuck Connors e Neville Brand. Furono dei successi e dei sani ritorni al suo cinema degli anni ’50 i due film prodotti per la AIP di Samuel Z. Arkoff,  “Il cibo degli dei” con Marjoe Gortner , Ralph Meeker, Pamela Franklin e Ida Lupino, e “L’impero delle termiti giganti” con Joan Collins.

Poi tenta la carta del porno, “Let’s Do It” con Victoria Wells del 1982, “Una donna una preda” con Kim Evenson, Miss Playboy 1984, e Sylvia Kristel. Il suo ultimo film, uscito davvero in sordina è “Secrets of a Psychopath" con Karu Wuhrer, Mark Famiglietti, ma siamo ormai al 2015.

Estratto dell’articolo di Gl. S. per “il Messaggero” l’11 marzo 2023

Assassino e detective sullo schermo, accusato dell'omicidio della moglie (e poi assolto) nella realtà: è morto a 89 anni Robert Blake, l'attore americano [...] aveva girato una quarantina di film [...] e ricevuto un premio Emmy e un Golden Globe prima che la sua lanciatissima carriera si arrestasse la notte in cui sua moglie Bonnie Lee Blakely venne assassinata.

Era il 4 maggio 2001 e la donna, sposata con Blake da sei mesi, fu colpita a morte in auto da due colpi di pistola sparati a bruciapelo dopo aver cenato al ristorante con l'attore. Lui venne subito incolpato di averla uccisa [...] Venne tuttavia condannato e quasi quattro anni dopo, dopo averne trascorso uno in prigione, fu assolto non solo dall'accusa di aver assassinato la moglie ma anche da quella di aver ingaggiato una ex controfigura (i[...]) per togliere di mezzo la donna.

Di lei, al processo venne rivelata la vera identità: era una truffatrice navigata che aveva una decina di pseudonimi e si era sposata ben 10 volte. Blake l'aveva impalmata nel 2000 dopo aver ottenuto la certezza, attraverso il test del dna, che la figlia avuta dalla donna fosse sua. L'assoluzione non salvò tuttavia l'attore dal pagare in sede civile 30 milioni di dollari ai 4 figli della moglie. Nel 2006 Blake dichiarò bancarotta e non recitò mai più.

Marco Giusti per Dagospia

Se ne va, con tutti i suoi misteri, la sua incredibile carriera di attore bambino nella Hollywood degli anni ’40, un successo ottenuto con il ruolo ultrarealistico di un celebre assassino, il Perry Smith di “A sangue freddo” di Richard Brooks che ne riattivò la carriera, la sua presenza sulfurea mediata da David Lynch in “Strade perdute” dove era il Mystery Man, il suo ultimo film, che contribuirà non poco a accusarlo dell’omicidio della moglie vent’anni fa, Robert Blake, detto Bobby Blake, 89 anni, ma noto anche da bambino come Mickey Gubitosi nella serie “Our Gang” o Little Beaver nei piccoli western del Lone Texas Ranger.

Piccolo o, se volete, mai cresciuto, specializzato fin da bambino nei ruoli di messicano o latino o indiano o italiano, viene massacrato da Hollywood che lo utilizza in una quantità incredibile di film dal 1939 ai primi anni ’60. Secondo il critico Roger Ebert “per tutta la sua carriera professionale è stato segnato dal risentimento per come gli Studios di Hollywood e i suoi genitori lo avevano trattato da attore bambino”.

 La sua carriera è segnata da alti e bassi, non escludendo anni di gloria, che lo porteranno dopo il successo di “A sangue freddo” a fare il protagonista di film clamorosi come “Ucciderò Willie Kid” di Abraham Polonsky assieme a Robert Redford nel 1969 o il cult di una generazione “Electra Glide in Blue”, unico film del produttore musicale James William Guercio, dove la sua moto era quasi più alta di lui o la serie “Baretta”, più di 80 episodi tra il 1975 e il 1978, mentre i bassi sono segnati da anni di crisi profonda, che lo vedono eroinomane e violento, ricuperabile nella sua caduta solo dallo sguardo pietoso di David Lynch.

 “Se non fosse stato per la recitazione sarei già morto a trent’anni o avrei un fucile in mano” dice già ai tempi del film di Brooks. Per concludere anni dopo che quanto a autodistruzione ne sapeva talmente tanto da poterci scrivere un libro.

 Robert Blake era nato nel 1933 da genitori italiani che lavoravano nel vaudeville nel 1933 come Michael James Gubitosi. Sono loro che lo portano in cerca di fortuna a Los Angeles alla fine degli anni ’30 e lo spingono al cinema. Il piccolo Mickey fa il suo esordio nel 1939 in “Bridal Suite”, un film con Robert Young e Annabella, ma contemporaneamente gira, come Mickey Gubitosi, il primo episodio, "Joy Scouts", della lunga e fortunata serie “Our Gang”, con tutti attori bambini.

Girerà da piccolo protagonista tra il 1939 e il 1944 qualcosa come 40 episodi della serie, senza per questo non comparire, spesso anonimamente in tanti film di Hollywood. Lo troviamo così in “Lone Texas Ranger”, 1945, “I Love Again” con Mirna Loy, “La donna del ritratto”, ma soprattutto come il piccolo messicano del capolavoro di John Huston “Il tesoro della Sierra Madre” nel 1948. Negli anni successivi, rimasto piccolo di statura, seguiterà a alternarsi tra ruoli di messicano e di piccolo indiano in decine di film.

La rosa nera”, 1950, “Apache War Smoke”, 1952, “Screaming Eagles”, “The Tijuana Story”, 1956. Durante la lavorazione di un western rifila un pugno al regista e non si rende conto di aver compromesso la sua carriera. Recita in ben 26 dei 32 show prodotti e interpretati da Richard Boone per la tv. Forse ve li ricordate.

 Torna al cinema nei primi anni ’60, in “PT109” con Cliff Robertson, “La più grande storia mai raccontata” di George Stevens dove è Simone lo Zelota, “Questa ragazza è di tutti” di Sydney Pollack. Sarà però “A sangue freddo”, clamorosa versione cinematografica di Richard Brooks del libro di Truman Capote, dove è uno dei due assassini, Perry Smith, assieme a Scott Wilson, a rilanciarlo. In un primo tempo pensavamo che questo magistrale Robert Blake, così realistico, così crudele sulla scena, fosse un esordiente. O forse cercava la Columbia di farcelo passare per tale.

Nessuno avrebbe sospettato che nella sua carriera, ancora trentenne, ci fosse un elenco sterminato di film e episodi di serie tv. Nelle interviste e nei servizi su di lui si punta sempre a farne un tipo pericoloso e border line. Come probabilmente era. ”Se non fosse stato per Quinn Martin, Lewis Milestone, Sydney Pollack e Dick Boone sarei probabilmente in galera”, dice a più riprese. Rifiuta una nuova commedia a teatro di Tennesse Williams, rifiuta contratti con le majors per sei film. “Per la maggior parte della mia vita sono stato uno spostato”, dice incontrando i critici a Londra, “Anche adesso non credo di essere cambiato molto rispetto a come ero sei mesi fa”.

 L’impatto di “A sangue freddo”, del suo bianco e nero magistrale e del suo freddo realismo sul mondo del cinema fu tale che Anthony Hopkins, cercando di trovare qualche ispirazione per Hannibal Lecter se lo studierà prima di girare “Il silenzio degli innocenti”.

 E’ un originale”, scrive di lui Roger Ebert che ne rimase, come tutto, profondamente colpito. Dal successo del film di Brooks, Robert Blake inizia una carriera davvero interessante nella New Hollywood. E’ il protagonista nel ruolo dell’indiano inseguito dalla posse bianca in “Ucciderò Willie Kid” di Abraham Polonsky. Il cinema italiano lo chiama protagonista del curioso “Un uomo dalla pelle dura” di Franco Prosperi dove si tenta di farne un nuovo Charles Bronson.

 Assieme a lui recitano Tomas Milian, Catherine Spaak, Ernest Borgnine. James William Guercio e il direttore della fotografia Conrad Hall ne fanno l’eroe di “Electra Glide in Blue”, dove gira per l’Arizona sulla sua incredibile moto la Electra Glide dell’Harley Davidson.

Guercio, che non aveva mai fatto un film in vita sua e era il produttore musicale dei Chicago, entrò nel film a dieci giorni dall’inizio delle riprese, ma chiese a tutti i costi la presenza dell’esperto Conrad Hall alla fotografia. Di fatto, ricordava Blake, il film lo girò Conrad Hall. E’ grazie a questo ruolo che ritroviamo Robert Blake prima poliziotto in coppia con Elliott Gould in “Mani sporche sulla città” di Peter Hyams, poi protagonista della lunga serie, 80 episodi, “Baretta” prodotta da Stephen J. Cannell.

 Dopo l’uscita di Tony Musante dalla serie poliziesca “Toma”, il produttore cercava un altro italo-americano adatta a fare il poliziotto e trovò appunto Blake. Così nacque “Baretta”. Lo troviamo in qualche film degli anni ’80 ormai in ruoli di gangster, come il Jimmy Hoffa di “Blood Feud" nel 1983, ma sarà David Lynch a rispolverarlo, ormai irriconoscibile, per il Mystery Man di “Strade perdute”, uscito nel 1997.

L’omicidio della sua terza moglie, Bonny Lee Blake, che aveva sposato nel 2000, e che gli aveva dato un a figlia, porterà alla rovina della sua carriera sotto tutti i punti di vista. Ritenuto colpevole di omicidio, Bonny Lee era stata uccisa nella sua macchina nel parcheggio del ristorante italiano dove erano andati a mangiare a Los Angeles, il Vitello’s, a Blake sonostati chiesti 30 milioni dollari da dared alla figlia. Cosa che lo ha ridotto sul lastrico. “Se non fossi stato così malato e turbato, mai avrei sentito il bisogno di fare l’attore”, dirà. E’ morto però nella sua casa di Los Angeles di un attacco di cuore.

Marco Giusti per Dagospia il 7 marzo 2023.

 Ecco! Se ne va un altro celebre forzuto del cinema peplum, protagonista di ben tre film di Ursus. Ed Fury, 94 anni, nato a Long Island, New York, nel 1928 come Rupert Edmund Holovchik, biondo, belloccio, gran fisico da culturista diventò noto sulla scena dei bodybuilder della West Coast e dei giornaletti già negli anni ’40, subito dopo la guerra, dove venne ribattezzato Adonis e diventò indossatore e modello di celebri fotografi come Bob Mizer e Bruce Bellas.

Fa già qualche particina non accreditato in film come "Because of Him" (1946), "Abbott and Costello Go to Mars" (1953), “Nebbia sulla Manica” con Esther Williams, dove è Hercules, "Gli uomini preferiscono le bionde" (1953), “Athena e le sette sorelle”, “Il marchio del bruto”, "Fermata d’autobus" (1956), dove ovviamente non ha battute, ma mostra i muscoli. Qualcosa di meglio lo ottiene in "The Wild Women of Wongo"di James L. Woilcott (1958). Passa qualche piccolo guaio con la legge, sia nel 1954, dove deve scegliere se pagare 150 dollari o farsi 30 giorni di prigione per aver picchiato un buttafuori di un teatro e poi nel 1958, dove è accusato di aver rubato 50 candele da accensione da Macy’s.

Scoperto e rincorso dalla polizia dice che non se la sta passando bene. Un paio d’anni dopo però, quando scoppiò la moda del peplum e, col nome di Ed Fury, sembra legato a quello della moglie, Marceline Yvette Dubois, sposata nel 1959, approda in Italia, e lì diventa un vero e proprio protagonista del genere. Anche se, biondo e belloccio, non è il massico come Ercole e Maciste.

Infatti lo troviamo prima nel quasi parodistico “La regina delle amazzoni” di Vittorio Sala con Rod Taylor e Dorian Gray, nel ruolo di Glauco, diventato presto un film stracult in America (“Non so fast, big boy” era una delle sue battute che facevano più ridere il pubblico), mentre in “Maciste contro lo sceicco” di Domenico Paolella, è un Maciste barbuto, cosa abbastanza strana per il genere, e Erno Crisa è lo sceicco.

 Raggiunge il massimo della carriera nella trilogia che lo vede protagonista come Ursus di Mileto, che inizia con "Ursus" diretto da Carlo Campogalliani e prodotto da Italo Zingarelli nel 1960. Se ne parla, sui giornali del tempo, già dall’agosto 1960, con gran lancio di Ed Fury. Apprendiamo che arriverà in Spagna, per girare ai Sevilla Studios, alla fine del 1960. Poi che per la grande scena realistica della lotta con il toro venne sostituito da uno specialista portoghese in quest’arte.

In un articolo di pura cronaca, in data 2 gennaio 1962 (“Stampa Sera”), si legge che l’attore Edmund Rupert, in arte Ed Furi (Furi è il cognome della moglie, Marcellina) è stato ricoverato in un ospedale psichiatrico a Napoli dopo aver ingerito una forte dose di barbiturici e aver dato sintomi di “agitazione psicomotoria”. Cosa alquanto oscura… . Proprio come Ursus, per il lancio di “The Mighty Ursus”, così si chiamerà il film in America, venne fotografato sulla copertina della celebre rivista di culturismo "Physique Pictorial" di Bob Mizar.

 Lo ritroviamo ancora come Ursus in "Ursus nella valle del leoni " (1961), diretto da Carlo Ludovico Bragaglia per la Filmar dei Fratelli Maggi, dove oltre ai nemici nel film e alle bestie feroci, deve sfidare pure la concorrenza, cioè un nuovo Ursus, Samson Burke, protagonista di “La valle di Ursus” diretto da Luigi Capuano e prodotto da Fernando Felicioni. Ma come spiegano i flani del tempo, “C’è solo un Ursus, Ed Fury! Mai si era visto un Ursus così spettacoloso!”.

 Va da sé che in tutta la prima parte del film, che vede Ursus spassarsela coi leoni nella foresta come una specie di Tarzan, non troviamo Ed Fury, ma ben visibilmente il domatore Orlando Orfei. L’Ursus di Ed Fury qui sembra proprio un Tarzan col ciuffo. Interpreta infine, sempre per la Filmar, "Ursus nella terra del fuoco” (1963), che sarà il terzo e ultimo film della serie, diretto da Giorgio Simonelli ma terminato da Nick Nostro con Luciana Gilli e una giovane Claudia Mori.

In una delle scene clou Ursus, incatenato e imprigionato, deve liberarsi da un pesante masso che lo sta schiacciando sotto gli occhi delle guardie sadiche. Lo troviamo anche in “Le sette sfide” di Primo Zeglio, prodotto da Emimmo Salvi, dove interpreta Ivan e divide la scena con una vera attrice americana, Elaine Stewart e la giovane cubana Bella Cortez, che sposò proprio sul set il produttore Emimmo Salvi. Fu il suo ultimo peplum girato in Italia. Per una serie di curiose circostanze, i film italiani di Ed Fury passarono così tanto in tv tra la fine degli anni’60 e i primi anni ’70 in America da farne una star.

 Così, tornato a Los Angeles, Fury continuò a fare apparizioni da guest star in serie e show popolari, “The Dating’s Game”, "Gilligan's Island" (1965), "Star Trek" (1968), "Mission: Impossible" (1968), "The Doris Day Show" (1969), "La strana coppia" (1971). Lo troviamo anche in due episodi del "Tenente Columbo" (1973 & 1974), e "Fantasy Island" (1979). Lo ritroviamo molti anni dopo nel cartoon parodistico "Dinosaur Valley Girls" (1996), dove interpreta Ur-so. Pensa un po’…

Una delle sue ultime apparizioni in pubblico fu nel 2001 a Venice Beach coi suoi compagni del tempo, Peter Lupus, Reg Lewis, Mickey Hargitay, Brad Harris, Mark Forest, Richard Harrison and Gordon Mitchell.

Estratto da lastampa.it il 7 marzo 2023.

Il mondo del giornalismo e gli appassionati di sport oggi piangono la scomparsa di Rino Icardi, una delle storiche voci della Rai nelle trasmissioni radiofoniche sportive e non solo. Padre, insieme a personaggi storici della radio come Bortoluzzi, Ameri, Ciotti, Provenzali, di Tutto il calcio minuto per minuto. Iniziò con la Gazzetta dello Sport per poi approdare in radio, alla Rai. Voce del calcio era un grande appassionato di ippica.

 Il giornalista è morto oggi a Roma, dove viveva da molto tempo. Era nato ad Alessandria il 18 maggio 1937. Nella città piemontese da studente fondò con altri compagni, nei primi anni al liceo classico Plana (oggi “Umberto Eco”), il 'Raglio', considerato uno dei primi giornali studenteschi d'Italia. Alla Rai fu tra i fondatori della trasmissione radiofonica “Tutto il calcio minuto per minuto”.

 Tra i suoi reportage quello ai Giochi di Monaco '72 sulla strage al villaggio olimpico; nell'ottobre 1978 fu inviato in Vaticano per l'elezione di papa Giovanni Paolo II; come caporedattore del Giornale Radio 2 fu tra i primi a dare la notizia dello scoppio della bomba alla stazione di Bologna il 2 nell'agosto 1980. 

(...)

 Estratto dell’articolo di Simone Canettieri per ilfoglio.it il 7 marzo 2023.

L’assessore alla Sicurezza del Comune di Roma, Monica Lucarelli, dimentica o omette un particolare non secondario. Non è vero che la sua ex collaboratrice Camilla Marianera, arrestata il 14 febbraio con l'accusa di essere la talpa in Procura della malavita romana a partire dai Casamonica,  "ha partecipato solo una volta senza di me a un tavolo in prefettura con il capo di gabinetto del Campidoglio per l’organizzazione dei funerali di papa Ratzinger", come ha dichiarato Lucarelli, esponente della giunta Gualtieri appena scoppiato il caso.

Da quanto risulta dai documenti in possesso del Foglio, la giovane aspirante avvocato (assunta dal Comune con un contratto da 48mila euro all'anno), lo scorso 27 gennaio andò in Prefettura per Roma Capitale per fare il punto sulla situazione degli immobili occupati. […] Su alcuni di questi c'è il racket della malavita romana.

 Marianera, in quanto fiduciaria dell'assessore Lucarelli, in quella circostanza rappresentò il Comune insieme ai dirigenti di Palazzo Senatorio, all'assessore al Patrimonio Tobia Zevi, ai delegati dell'Ater, della Regione Lazio. Il tavolo quel giorno era presieduto dal prefetto Bruno Frattasi.

Lucarelli non risulta indagata nell'inchiesta che riguarda la sua ex collaboratrice (ora fuori dall'amministrazione pubblica) […] A proposito del rapporto con Marianera, […] ha sempre di non ricordarsi che gliela avesse presentata. E soprattutto ha sempre minimizzato il ruolo della collaboratrice nei dossier comunali. Fino a dire che la giovane partecipò in Prefettura solo a una riunione logistica sui funerali di Benedetto XVI. Ma non è così.

Rino Icardi e Ciotti, Ameri, Provenzali: come ci manca quel trasalire a ogni interruzione. Storia di Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 7 marzo 2023.

È morto Rino Icardi, una delle storiche voci di “Tutto il calcio minuto per minuto” e di tante trasmissioni radiofoniche della Rai, sportive ma non solo. Si è spento a Roma, dove viveva da molti anni. Era nato ad Alessandria il 18 maggio 1937, amava le corse dei cavalli. Icardi era l’ultimo superstite del nucleo dei primi radiocronisti della storica trasmissione, che lui stesso aveva contribuito a lanciare insieme a Roberto Bortoluzzi, Enrico Ameri, Sandro Ciotti e Alfredo Provenzali.Dal 10 gennaio 1960, la domenica pomeriggio, Tutto il calcio minuto per minuto è stato il più straordinario punto d’incontro virtuale per intere generazioni di calciofili. E non solo. Proprio in quegli anni, Franco Fortini scrisse una canzone per Laura Betti (entrata poi nel repertorio di Enzo Jannacci) che a un certo punto diceva: «Nella nebbia gelata, sull’erbetta; un occhio alla lambretta, l’orecchi a quei rintocchi che suonano dal borgo la novena; e una radio lontana dà alle nostre due vite i risultati delle ultime partite...».

Quelle voci erano tutto, erano la magia della radio. A coordinare la trasmissione, nata sull’entusiasmo delle Olimpiadi di Roma, c’era un distino signore, Roberto Bortoluzzi. Il suo stile e la sua professionalità scandivano la cerimonia attraverso collegamenti con i principali campi di gioco (inizialmente la copertura era limitata ai quattro campi principali). Era una specie di radiodramma dal vivo che serviva gli squisiti veleni dell’attesa e della speranza. Nel 1977/78 la formula fu ampliata per raccontare lo svolgimento di tutte le partite, a partire dal primo minuto (Bortoluzzi sarà poi sostituito da Massimo De Luca, quindi da Alfredo Provenzali).

Quelle domeniche pomeriggio con l’orecchio incollato al transistor, quei trasalimenti per un’interruzione («scusa Ameri, scusa Ameri»), quella gente accalcata attorno alla radio di un bar sono schegge di una cerimonia tanto emozionante quanto lontana: una colonna sonora collettiva, il mito dell’Italia finalmente unita. Tutto il calcio metteva in scena un’idea di racconto sociale (la diretta coi campi di calcio scandita dall’interruzione dei gol), negli anni in cui la radio era ancora il medium egemone.

Col tempo, la drammaturgia della trasmissione è cambiata. Un tempo, per conoscere se la squadra del proprio cuore aveva segnato o meno, bisognava percorrere tutta la litania dei collegamenti: l’attesa era misteriosa, gravida di suspence. Era un calcio raccontato in diretta ma con un pizzico di differita che ne esaltava l’apprensione, la morbosa inquietudine. Poi le interruzioni che annunciano il sospirato o disperante goal sono state innescate a tambur battente, provocando sostanziali variazioni di stile.

(ANSA-AFP Il 6 marzo 2023) - Il chitarrista Gary Rossington, l'ultimo membro fondatore dei Lynyrd Skynyrd, è morto all'età di 71 anni. Lo ha annunciato la band americana, senza specificare le cause del decesso Gruppo southern rock, gli Skynyrd sono noti specialmente per le due canzoni cult 'Sweet Home Alabama' e 'Free Bird'.

 Rossington soffriva di problemi cardiaci e si era sottoposto a un intervento chirurgico al cuore d'urgenza nel 2021. Nato nel 1951 in Florida, aveva fondato i Lynyrd Skynyrd nel 1964 con il batterista Bob Burns e il bassista Larry Junstrom. Il suo assolo di chitarra in 'Free Bird', una canzone di quasi dieci minuti, è considerato uno dei più grandi nella storia del rock. 

Estratto dell’articolo Renato Franco per corriere.it il 4 marzo 2023.

«Ero un ragazzo che veniva quasi dal nulla ed era salito in alto. Avevo avuto la casa da multimilionario, la Porsche, il ristorante che possedevo in parte con Robert De Niro. E ora non ho assolutamente niente»: così scriveva Tom Sizemore nel suo libro di memorie del 2013, Per miracolo sono uscito da lì.

 L’attore — l’apice della carriera con Salvate il soldato Ryan — è morto venerdì in un ospedale di Burbank, in California. Aveva 61 anni e all’alba del 18 febbraio scorso era stato colpito da un aneurisma cerebrale nella sua casa di Los Angeles. Oltre a Salvate il soldato Ryan, l’attore era salito nel gotha di Hollywood — un gradino sotto le grandi star — grazie ai ruoli in film come Assassini nati - Natural Born Killers e nel thriller di Michael Mann Heat - La sfida.

Ma la grave dipendenza dalle sostanze stupefacenti, le accuse di abusi sessuali e diversi guai giudiziari hanno devastato la sua carriera, lo hanno lasciato senza casa e indebitato per milioni di dollari. […]

 Il suo tallone d’Achille è la droga — la tossicodipendenza si manifesta già a 15 anni — che spinge l’attrice Maeve Quinlan a chiedere il divorzio nel 1999 dopo tre anni di matrimonio. Nel 2005 a dare scandalo invece sono le sue doti da (porno) attore: Vivid Entertainment pubblicò The Tom Sizemore Sex Scandal, un video hard che vedeva Sizemore impegnato con diverse donne e raccontava di aver fatto sesso con Paris Hilton, un’accusa che l’ereditiera aveva smentito, sostenendo che si trattava di una scorciatoia per aumentare le vendite.

Intanto era già stato condannato nel 2003 per violenza domestica nei confronti della sua fidanzata (ricapiterà 13 anni dopo con un’altra compagna), l’ex «signora di Hollywood» Heidi Fleiss. Quindi arriva anche il carcere (sette mesi) per aver ripetutamente fallito i test antidroga mentre era in libertà vigilata. Poi è un continuo: arresto per possesso di metanfetamina, diffamazione contro l’ex fidanzata Elizabeth Hurley che lui sosteneva avesse avuto una relazione con Bill Clinton, il nuovo arresto per possesso di «vari narcotici illegali» a Burbank. Set e carcere, passione e dipendenza.

È morto l'attore di Salvate il soldato Ryan, addio a Tom Sizemore. Dopo l'aneurisma cerebrale, l'attore era caduto in un coma irreversibile e la famiglia doveva decidere sul fine vita. In queste ultime ore il comunicato del manager. Federico Garau il 4 Marzo 2023 su Il Giornale.

Si è spento all'età di 61 anni l'attore Tom Sizemore, celebre per aver interpretato il sergente Michael Horvath nel film cult Salvate il soldato Ryan, Jack Scagnetti in Natural born killers e Danny McKnight in Black Hawk Down. L'attore, candidato anche a un Golden Globe per il suo ruolo in L'occhio gelido del testimone, ha lavorato con cast stellari ed è stato scelto da registi come Ridley Scott, Michael Bay, Steven Spielberg e Oliver Stone.

Il mese scorso l'interprete era stato colpito da un grave aneurisma al cervello, e col passare dei giorni le sue condizioni non hanno fatto che peggiorare, tanto che i medici avevano già escluso una ripresa.

Il coma dopo l'ictus

La notizia del grave stato di Sizemore era arrivata lo scorso 18 febbraio, quando i familiari avevano comunicato che l'attore si trovava ricoverato in terapia intensiva dopo un aneurisma cerebrale causato da un ictus. Il malore lo aveva colpito mentre era nella sua casa di Los Angeles, quindi la corsa in ospedale. Le sue condizioni, tuttavia, erano apparse da subito molto critiche.

Da giorni i fan sapevano che l'attore era in uno stato di coma irreversibile, e si attendeva solo la decisione della famiglia di staccare i macchinari.

"Tom è ancora in terapia intensiva in condizioni critiche. I medici hanno informato la famiglia che non ci sono più speranze e hanno raccomandato la decisione del fine vita", è quanto comunicato a Variety dal manager dell'attore americano, Charles Lago.

Oggi, purtroppo, è arrivata la notizia.

"Non ci sono più speranze". In fin di vita l'attore di "Salvate il soldato Ryan"

Addio all'attore di Salvate il soldato Ryan

A dare la notizia della morte di Tom Sizemore è stato il manager Charles Lago, come riferisce il Guardian. "È con grande tristezza e dolore che devo annunciare che l'attore Thomas Edward Sizemore... si è spento serenamente nel sonno oggi al St Joseph's Hospital di Burbank. Suo fratello Paul e i suoi due gemelli Jayden e Jagger (17 anni) erano al suo fianco", ha dichiarato Lago nella giornata di ieri, venerdì 4 marzo.

La famiglia di Sizemore ha ovviamente chiesto il rispetto della privacy per il grave lutto subito. Paul Sizemore si è definito profondamente addolorato per la perdita dell'adorato fratello maggiore, un uomo che ha influenzato la sua vita. Un uomo di talento, amorevole e generoso.

La grandiosa carriera

Nato a Detroit nel 1961, Tom Sizemore è stato un attore di grande successo che ha interpretato ruoli indimenticabili. Conosciuto per i film Blue Steel, Lock Up, Rude Awakening (tutti del 1989), che hanno dato avvio alla sua carriera, è divenuto celebre per aver interpretato il poliziotto Jack Scagnetti nel film Assassini nati – Natural Born Killers (1994, regia di Oliver Stone). Poi sono arrivati i ruoli del rapinatore Michael Cheritto in Heat – La sfida (1995, regia di Michael Mann), di Michael Horvath in Salvate il soldato Ryan (1998, regia di Steven Spielberg) e del tenente colonnello Danny McKnight in Black Hawk Down (2001, regia di Ridley Scott). Sempre nel 2001, Sizemore ha interpreto Earl Sistern in Pearl Harbor, di Michael Bay.

Nel 2003 lo abbiamo poi visto nel ruolo del Ten. Owen Underhill ne L'acchiappasogni, di Lawrence Kasdan. E molto, molto altro. Tantissimi i ruoli da lui interpretati, fino alla comparsa nella serie Tv Twin Peaks. È stato candidato a un Golden Globe per il suo ruolo in L'occhio gelido del testimone (1999). Nella sua vasta carriera cinamatografica ha lavorato al fianco di colleghi famosi come Sylvester Stallone, Keanu Reeves, Tom Hanks e i grandi Al Pacino e Robert De Niro.

L'attore è stato anche il cantante della band Day 8, gruppo formato nel 2002.

 (ANSA il 2 marzo 2023) - E' morto a 56 anni Steve Mackey, il bassista dei Pulp negli anni di grande successo della band pop britannica. La notizia è stata diffusa dalla moglie, Katie Grand, in un post su Instagram, secondo cui il musicista era ricoverato in ospedale da tre mesi. "Steve era l'uomo più talentuoso che abbia mai conosciuto, un musicista, produttore, fotografo e regista eccezionale", ha scritto. "Era amato da quanti in diverse discipline hanno incrociato il loro percorso col suo", si legge nel post.

Mackey è stato protagonista nei sette album in studio dei Pulp, fra i gruppi più importanti durante il fenomeno 'Brit-pop' degli anni Novanta. Dopo la sua carriera con la band è stato un produttore di fama per artisti come Florence + the Machine e Arcade Fire. Il leader dei Pulp Jarvis Cocker aveva da poco annunciato una nuova reunion del gruppo per i festival della prossima estate, ma Mackey aveva declinato l'invito a partecipare, spiegando di voler "continuare i progetti nel campo della musica, del cinema e della fotografia".

È morto Wayne Shorter, icona del sassofono jazz: aveva 89 anni. Storia di Matteo Cruccu su Il Corriere della Sera il 2 marzo 2023.

È stato un grandissimo virtuoso del sassofono percorrendo l’intera temperie del XX secolo: a 89 anni è scomparso Wayne Shorter a Los Angeles. La sua carriera corre lungo tre gruppi fondamentali per la storia del genere: prima i Jazz Messengers del batterista Art Blakey con cui fissarono i canoni dell’hard bop. Poi con una delle tante incarnazioni del genio di Miles Davis, il quintetto del periodo elettrico nei tardi anni 60 e infine con il combo leggendario della fusion, i Weather Report nella decade successiva.

Con Pino Daniele

Ma Shorter non disdegnò incursioni in altri campi, collaborando con Joni Mitchell in almeno dieci dei suoi album, duettando in rock con Carlos Santana e gli Steely Dan: un eclettismo apprezzatissimo che lo portò a vincere ben 11 Grammy. Ma anche da noi fece delle puntate, ospite apprezzato in varie stagioni ad Umbria Jazz. E cameo finissimo in «Bella Mbriana» di Pino Daniele nel 1982. Amico Pino di cui ebbe a dire: «Era il gitano di Napoli, un innovatore, un musicista a 360 gradi. Voleva cambiare la musica della sua città, peraltro città della musica. E l’ha fatto».

Estratto dell’articolo di Giorgio Li Calzi per la Stampa il 3 marzo 2023.

Si è spento a 89 anni Wayne Shorter, gigante della musica afroamericana e del XX secolo. Sassofonista, da sempre ideatore e compositore dei linguaggi su cui improvvisavano lui e le sue band sin dagli anni ‘60 quando militava nei Jazz Messanger di Art Blakey.

 Musicista discreto e al servizio della musica, ma anche di grande carisma e talento, veniva invitato a suonare nei gruppi dei grandi jazzisti come Art Blakey e Miles Davis, firmandone la progettualità musicale, nonostante nel frattempo producesse a suo nome, dalla metà degli anni ’60, una serie di album fondamentali di jazz per la Blue Note (come JuJu, Speak no evil, Adam’s Apple), lavori a metà strada tra l’impressionismo, il minimalismo e il beat pulsante dei sixties, grazie alla collaborazione con musicisti straordinari come McCoy Tyner, Elvin Jones, Freddie Hubbard e Herbie Hancock.

 (...)

Nel frattempo, nella seconda metà degli anni ’60, nel quintetto di Miles Davis, Shorter firma i percorsi musicali progettati con Miles, oltre a pezzi straordinari come E.S.P., Prince of darkness, Pinocchio, Nefertiti. Fino ad arrivare all’album “elettrico" di Miles, In a silent way in cui Shorter incontra un altro genio della musica del ‘900, Joe Zawinul, con cui fonda nel 1971 i Weather Report, gruppo di svolta tra jazz, rock ed elettronica, un vero scontro di titani musicali in cui si inserirà, tra Shorter e Zawinul, un altro straordinario talento della musica, Jaco Pastorius. Il gruppo abbatte i generi e, seguendo la strada di Miles, sdogana una musica di matrice strumentale e jazzistica presso il pubblico del rock.

 Altro passo fondamentale di Shorter è la collaborazione con un grande artista della musica brasiliana come Milton Nascimento in Native Dancer (1975) un album extra-genere di musica crossover e world che apre la strada a nuove generazioni di musicisti.

Esattamente come sono importanti gli album elettrici nella seconda metà degli anni ’80 (Atlantis, Phantom navigator, Joy ryder), la sua collaborazione in numerosi album di Herbie Hancock e di Joni Mitchell (citiamo anche un solo brano, perfetto, in uno degli ultimi album della Mitchell, Both sides now) e le numerosissime collaborazioni discografiche, dagli Steely Dan a Pino Daniele e ai Rolling Stones, in cui basta sentire anche solo due note per capire che quello è il suono del grande Wayne Shorter. 

Ma non è facile riuscire a riassumere in poche righe un mondo di musica così complesso. Il suo suono pieno di silenzi è stato fondamentale per la musica del XX secolo e per il popolo del jazz. Per fortuna la sua musica resta qui con noi.

Curzio Maltese, la vita troppo breve di un fuoriclasse. Storia di Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 26 febbraio 2023.

Curzio Maltese è stato il miglior giornalista della sua generazione, che poi sarebbe anche la mia. Nessuno aveva la sua qualità di scrittura. Potevi non essere d’accordo con una sua idea, ma mai con un suo aggettivo. Aveva messo questo straordinario talento al servizio di una mente lucida e malinconica, da milanese vecchio stampo. Era pigro, dispersivo, romantico, profondo, generoso, intuitivo, fulminante. Un fuoriclasse, ma non di quelli innamorati del pallone e basta: lui aveva il senso del gol. Era nato in una famiglia operaia e aveva talmente rispetto dei soldi che detestava chi li rubava come chi li ostentava. La sua allergia per i nuovi ricchi nasceva da lì, non dall’odio sociale come credevano i suoi critici, che evidentemente non lo conoscevano. Curzio non odiava nessuno, a parte ogni tanto sé stesso, come tutti. Cominciò dallo sport, dal suo adorato Milan. Ricordo un suo pezzo su Franco Baresi che andrebbe studiato nelle scuole di giornalismo. Allora lavorava per la redazione milanese del Corriere dello Sport. Ogni tanto il suo capo mi chiamava: «Per caso hai notizie del tuo amico? È sparito». Allora andavamo a cercarlo nei bar dove passava le ore davanti a un flipper. Lo trascinavamo in ufficio per le orecchie e in un quarto d’ora scriveva un capolavoro che naturalmente si dimenticava di spedire al giornale, per cui bisognava inseguirlo fino a casa per ricordarglielo. Ogni grande giornalista si sceglie un bersaglio grande. Il suo fu Silvio Berlusconi. Ne intuì la bravura e la pericolosità. Passarono dallo sport alla politica praticamente insieme. Curzio fu il primo a capire che la tv commerciale era la nuova ideologia dominante e a ipotizzare che il proprietario di quella tv avrebbe fondato un partito. Non gli credette nessuno, e invece mi pare che abbia avuto ragione. Berlusconi era la sua simpatica ossessione. Ricordo una nostra vacanza: bagno di mezzanotte con le fidanzate sotto la luna e lui che immergendosi in mare mi spiega come la sinistra avrebbe dovuto scrivere la legge sul conflitto di interessi. Ma poi era il primo a riderne, perché ogni tanto Curzio poteva essere cupo, ma non era mai pesante. Quando Berlusconi, come da lui previsto, fondò un partito e andò al potere, ci chiudemmo per una settimana in casa con Pino Corrias per scrivere un libro a sei mani sul nuovo padrone d’Italia. Curzio passava le giornate sdraiato sul divano a guardare il soffitto e a strimpellare la chitarra. Poi la notte, mentre io e Pino dormivamo, lui scriveva e al risveglio ci faceva trovare sul comodino un capitolo pressoché perfetto. La vita gli aveva tolto precocemente una sorella amatissima e lo aveva ricompensato con una moglie e un figlio meravigliosi. Adesso mi piace immaginarlo al bar in compagnia di Gaber, Jannacci, Dario Fo e Beppe Viola: a parlare di cinema, l’altra sua grande passione, e a giocare a flipper per tutto il tempo che vuole, finalmente.

È morto Curzio Maltese, addio al giornalista: aveva 63 anni. Il Tempo il 26 febbraio 2023

Il mondo del giornalismo piange Curzio Maltese. Storica firma di Repubblica, poi passato al Domani, Maltese si è spento oggi all'età di 63 anni dopo una lunga malattia. È stato un apprezzato giornalista, ma anche scrittore, autore televisivo e politico. Maltese era nato a Milano il 30 marzo 1959. Fratello della giornalista sportiva della Rai, Cinzia Maltese, precocemente scomparsa nel 2002, dopo un periodo tra fabbrica e radio libere si è dedicato al giornalismo occupandosi inizialmente di sport e cronaca per i quotidiani La Notte, La Gazzetta dello Sport e La Stampa. Per il quotidiano torinese inizia a occuparsi di commenti politici, oltre che di cinema e teatro. Dal 1995 al 2021 è editorialista per il quotidiano la Repubblica. Dal 1996 al 2021 ha curato la rubrica Contromano sul settimanale Il Venerdì di Repubblica. Dal febbraio 2022 è editorialista per il quotidiano Domani.

Nel 2014 si è candidato alle elezioni europee come capolista nella circoscrizione del nord-ovest italiano per L'Altra Europa con Tsipras a sostegno della Coalizione della Sinistra Radicale per Alexis Tsipras come Presidente della Commissione europea, ottenendo 31.980 preferenze. Pur risultando il primo dei non eletti della sua lista è entrato nel parlamento europeo grazie alla rinuncia di Moni Ovadia.

Come autore televisivo ha collaborato con Corrado Guzzanti nella realizzazione del programma cult Il caso Scafroglia. Ha inoltre collaborato con altri autori, come Maurizio Crozza ed Enrico Bertolino. Ha ideato e scritto due documentari, rispettivamente su Renzo Piano e Paolo Conte, per Canal+ Italia.

Era stato lo stesso Maltese a rivelare pubblicamente il dramma che stava vivendo nei suoi ultimi anni di vita. "Un intervento alla testa mi ha ridotto alle corde e ho dovuto ricominciare a camminare, parlare e scrivere", aveva detto in un post sui social nell'estate del 2021. Purtroppo, non è riuscito a vincere la sua battaglia.

Estratto dell'articolo di Pino Corrias per “il Fatto Quotidiano” il 27 febbraio 2023.

Curzio ci ha lasciato in un giorno di pioggia. Era un fuoriclasse. Il primo a capire che la politica ormai imitava la cattiva televisione. Nei suoi anni d’oro – prima che la malattia lo consumasse – alle nove di sera accendeva la sua trentesima Marlboro, finiva il penultimo caffè, diceva “ora scrivo” e lo faceva come niente fosse: 80 righe filate in venti minuti. Buone per la prima pagina.

 Aveva il talento naturale del narratore. Pescava indizi dai nuovi paesaggi della politica, per trasformarli in un viaggio dentro agli eterni vizi della società italiana. A cominciare dall’anomia delle classi dirigenti, laiche o cattoliche, disposte a qualunque corruzione per il potere e il privilegio. Il conformismo ottuso della borghesia, che campa grazie al compromesso, all’ipocrisia, al piagnisteo.

 La subalternità culturale della sinistra orfana di identità e dunque abbagliata dalle mode e dalla ricchezza, ma con l’aggravante del moralismo che l’eccesso di spocchia volta in aceto. L’eterna sudditanza dei ceti più deboli che al netto del rancore, si piegano volentieri all’inchino per il favore, per la raccomandazione, per la mancia. Tutti vizi che si sono moltiplicati durante gli anni Novanta, che in uno dei suoi ultimi libri ha chiamato “il decennio dei servi”.

[…] Era partito dalla faticosa periferia di Sesto San Giovanni, anno 1959, orfano da piccolissimo, lavoratore studente fino alle aule di Scienze politiche. Veloce di sguardo. Ironico sempre. Arrivato agli inchiostri de La Notte, il quotidiano del pomeriggio che campava di cronaca nera e titoli a scatola, e poi del giornalismo sportivo dove tutti si prendevano sul serio tranne lui, che amava più il ciclismo del calcio […]

 Ci siamo conosciuti nella Torino del 1987. Al quotidiano La Stampa, via Marenco 32. Tutti e due esuli temporanei dalle luci di Milano, un tristissimo Residence a testa, che sembrava Detroit, ingegneri giapponesi compresi, le notti in tipografia, mentre fuori la città-fabbrica andava a nanna alle nove di sera, per salire all’alba sui tram, direzione Mirafiori e le cento ciminiere dell’indotto.

 Noi in controtempo, e in contromano, fuori all’una di notte, dopo la chiusura della seconda edizione, due sole pizzerie aperte più un ristorante, il Montecarlo, che era quasi lusso. Siamo diventati amici per colpa di una certa collega degli Esteri, che si invaghì di Curzio, o viceversa, ma a scapito di un tizio delle Cronache italiane con sfida all’Ok Corral nel parcheggio, un pugno a testa, Curzio soccombente, un livido sullo zigomo, e dunque birra per risarcimento e chiacchiere fino all’alba a dirci come sarà la vita, come sarà. Furono anni notevoli.

Prima con il formidabile Gaetano Scardocchia, poi con Paolo Mieli e infine con Ezio Mauro (“si può sapere dov’è Curzio? Perché non risponde al telefono?) abbiamo fatto, tutti insieme, la migliore Stampa di sempre, seguendo la ghiaia bianca che si lasciavano alle spalle i vecchi del firmamento – che si chiamavano Norberto Bobbio, Galante Garrone, Massimo Mila – e certi inviati d’alta scuola come Igor Man, Guido Vergani e Lietta Tornabuoni, la più brava di tutti.

Notevoli cose accaddero. […] E in cima al danno, Berlusconi Silvio, con la sua macchina spettacolare che avrebbe di lì a poco, riciclato i rifiuti della prima repubblica per edificare la seconda. Di quello ci occupammo per due anni. Tutta l’avventura, minuto per minuto, che poi trasformammo in “Colpo grosso”, libro sulla ascesa del Dottore fino alla cima del varietà Italia, 27 marzo 1994 […]

 [….] Da allora, Curzio seguì Ezio Mauro a Repubblica, editorialista per una ventina d’anni filati, amato dai lettori, detestato dai politici, come è giusto, l’incontro della vita con Paola, la nascita di Zeno, le estati in California e a Sperlonga, le partite di poker che qualche volta duravano una notte.

L’amicizia con Renzo Piano. Il sodalizio con Sabina e Corrado Guzzanti. Il litigio con Beppe Grillo, “il miliardario sovversivo”. Il libro inchiesta sui forzieri del Vaticano, “La questua”; sul declino della nazione, “Come ti sei ridotto”; sulla fine dell’inganno berlusconiano “La bolla”.

 Nel 2014, la scelta di candidarsi alle Europee con la lista Tsipras, sinistra radicale, anche per disincanto professionale, “il giornalismo sta diventando ornamentale”. Era vero e non era vero, tant’è che avrebbe voluto tornarci a fine mandato.

La malattia lo ha circondato e fatto prigioniero per cinque anni. “Ho dovuto ricominciare da capo, un passo alla volta, una parola alla volta”. Voleva scrivere, voleva ricordare. Lo ha fatto, sino all’ultimo, sulla prima pagina di Domani e in un nuovo libro autobiografico appena terminato, che uscirà postumo. Lo angosciava la brutta Italia che vedeva, il futuro che si mangiava la parte buona del passato. Ha scritto: “E poi ti trovi davanti questi ragazzi assiepati in un’aula universitaria, tutti aspiranti giornalisti. Dove, come, chissà. Ora tocca a voi raccontare l’Italia agli italiani. Noi abbiamo perso”. Nel suo caso è stato vero il contrario.

 Postilla di Marco Travaglio

Grazie, caro Pino, per aver fatto ciò che il dolore, la commozione e il ricordo di tutto quello che devo a Curzietto impediscono a me di fare. Abbraccio Paola, Zeno e gli altri suoi cari, anche a nome di tutti gli amici del “Fatto quotidiano”. m. trav.

Curzio Maltese, la vita troppo breve di un fuoriclasse. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 26 Febbraio 2023.

Curzio Maltese, morto domenica 26 febbraio a 63 anni, è stato il miglior giornalista della sua (e nostra) generazione. Nato in una famiglia operaia, allergico ai nuovi ricchi, fu il primo a ipotizzare che Berlusconi stesse scendendo in campo

Curzio Maltese è stato il miglior giornalista della sua generazione, che poi sarebbe anche la mia. Nessuno aveva la sua qualità di scrittura. Potevi non essere d’accordo con una sua idea, ma mai con un suo aggettivo.

Aveva messo questo straordinario talento al servizio di una mente lucida e malinconica, da milanese vecchio stampo. Era pigro, dispersivo, romantico, profondo, generoso, intuitivo, fulminante. Un fuoriclasse, ma non di quelli innamorati del pallone e basta: lui aveva il senso del gol.

Era nato in una famiglia operaia e aveva talmente rispetto dei soldi che detestava chi li rubava come chi li ostentava. La sua allergia per i nuovi ricchi nasceva da lì, non dall’odio sociale come credevano i suoi critici, che evidentemente non lo conoscevano.

Curzio non odiava nessuno, a parte ogni tanto sé stesso, come tutti.

Cominciò dallo sport, dal suo adorato Milan. Ricordo un suo pezzo su Franco Baresi che andrebbe studiato nelle scuole di giornalismo. Allora lavorava per la redazione milanese del Corriere dello Sport. Ogni tanto il suo capo mi chiamava: «Per caso hai notizie del tuo amico? È sparito». Allora andavamo a cercarlo nei bar dove passava le ore davanti a un flipper.

Lo trascinavamo in ufficio per le orecchie e in un quarto d’ora scriveva un capolavoro che naturalmente si dimenticava di spedire al giornale, per cui bisognava inseguirlo fino a casa per ricordarglielo.

Ogni grande giornalista si sceglie un bersaglio grande.

Il suo fu Silvio Berlusconi.

Ne intuì la bravura e la pericolosità.

Passarono dallo sport alla politica praticamente insieme. Curzio fu il primo a capire che la tv commerciale era la nuova ideologia dominante e a ipotizzare che il proprietario di quella tv avrebbe fondato un partito. Non gli credette nessuno, e invece mi pare che abbia avuto ragione.

Berlusconi era la sua simpatica ossessione. Ricordo una nostra vacanza: bagno di mezzanotte con le fidanzate sotto la luna e lui che immergendosi in mare mi spiega come la sinistra avrebbe dovuto scrivere la legge sul conflitto di interessi.

Ma poi era il primo a riderne, perché ogni tanto Curzio poteva essere cupo, ma non era mai pesante. Quando Berlusconi, come da lui previsto, fondò un partito e andò al potere, ci chiudemmo per una settimana in casa con Pino Corrias per scrivere un libro a sei mani sul nuovo padrone d’Italia.

Curzio passava le giornate sdraiato sul divano a guardare il soffitto e a strimpellare la chitarra. Poi la notte, mentre io e Pino dormivamo, lui scriveva e al risveglio ci faceva trovare sul comodino un capitolo pressoché perfetto.

La vita gli aveva tolto precocemente una sorella amatissima e lo aveva ricompensato con una moglie e un figlio meravigliosi.

Adesso mi piace immaginarlo al bar in compagnia di Gaber, Jannacci, Dario Fo e Beppe Viola: a parlare di cinema, l’altra sua grande passione, e a giocare a flipper per tutto il tempo che vuole, finalmente.

Addio alla storica firma di Repubblica. È morto Curzio Maltese, il giornalista aveva 63 anni: “Provato dalla malattia, si è impegnato fino all’ultimo per un paese più giusto”. Carmine Di Niro su Il Riformista il 26 Febbraio 2023

È morto a soli 63 anni Curzio Maltese, giornalista, scrittore, politico e autore televisivo, oltre ad europarlamentare dal 2014 al 2019.

Il nome di Maltese è legato a quello di Repubblica, il quotidiano con cui ha collaborato dal 1995 al 2021 come editorialista e cronista politico. Dal 2014 al 2019 era stato europarlamentare per la lista L’Altra Europa con Tsipras.

A dare notizia della sua scomparsa è stato su Twitter il direttore del ‘Domani‘, Stefano Feltri, con cui Maltese collaborava dal 2022. “Ci ha lasciati un grande giornalista, Curzio Maltese, che abbiamo avuto il privilegio di avere sul Domani. Pur provato dalla malattia, forte della sua passione civile e dell’amore della moglie Paola, si è impegnato fino all’ultimo per un paese più giusto“, scrive Feltri sul social.

Nel 2021, dopo tre anni di assenza, tornò sui social spiegando di aver subito un intervento alla testa che lo costrinse a una lunga riabilitazione per recuperare l’uso della parola e del movimento: “Un intervento alla testa mi ha ridotto alle corde e ho dovuto ricominciare a camminare, parlare e scrivere – rivelò Maltese -. E’ stato ed è un percorso complesso ma oggi mi sento pronto a ritornare tra le persone. Ancora con alcune difficoltà, ma felice di esserci”.

In questo ultimo anno ho ricominciato a scrivere per Repubblica, ma adesso ho un grande desiderio di aprirmi, anche attraverso questo spazio, per tornare a confrontarmi con vecchi e nuovi amici. Mi piacerebbe parlare con voi di tutto, di politica, di cinema, teatro e anche di sport e di tutto quello che salterà fuori“, scriveva il 63enne nella nota pubblicata sul suo profilo Twitter.

Nato a Milano e cresciuto a Sesto San Giovanni, Maltese iniziò la sua carriera di giornalista occupandosi di sport e cronaca per i quotidiani La Notte, La Gazzetta dello Sport e La Stampa: proprio per il quotidiano torinese inizò a occuparsi di commenti politici, oltre che di cinema e teatro. Era fratello della giornalista sportiva della Rai, Cinzia Maltese, scomparsa nel 2002. E’ stato attivo anche come autore televisivo, collaborando con Corrado Guzzanti ai testi del programma satirico “Il caso Scafroglia”, ma anche con Maurizio Crozza ed Enrico Bertolino, e come autore di due documentari per Canal+, sull’archistar Renzo Piano e su Paolo Conte.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

MAURIZIO COSTANZO, 28 AGOSTO 1938 – 24 FEBBRAIO 2023

La Notizia.

La Camera ardente.

Il Funerale.

La Malattia.

Le Tartarughe.

La Famiglia.

Il Maurizio Costanzo Show.

L’Attentato di Mafia.

La Massoneria.

Il Ricordo di…

La Notizia.

(ANSA il 25 febbraio 2023) - E' morto poco fa a Roma Maurizio Costanzo, giornalista, conduttore tv, autore, sceneggiatore. Aveva 84 anni. Lo comunica il suo ufficio stampa

 Nato a Roma il 28 agosto 1938, Costanzo ha firmato decine di programmi radiofonici e televisivi e di commedie teatrali (Il marito adottivo, Vuoti a rendere ecc.).

 Ha raggiunto la grande popolarità nel 1976, conducendo in Rai il talk-show Bontà loro. Ma il suo nome è legato anche al Maurizio Costanzo show, in onda dal 1982 su Mediaset. Tra i suoi programmi più noti, anche Buona domenica.

 Ha scritto numerosi libri, tra i quali Chi mi credo di essere (2004, in collab. con G. Dotto), E che sarà mai? (2006), La strategia della tartaruga (2009), Sipario! 50 anni di teatro. Storia e testi (2015), Vi racconto l'Isis (2016) e Smemorabilia. Catalogo sentimentale degli oggetti perduti (2022). Dal 1995 è sposato con Maria De Filippi.

Estratto dell’articolo di Laura Martellini per roma.corriere.it il 25 febbraio 2023.

È morto nella clinica Paideia, a Roma, Maurizio Costanzo, conduttore, giornalista, per un certo periodo politico, uomo di spettacolo. Ma non solo. Talmente versatile da aver trascorso gli ultimi anni della sua vita - sofferente di cuore e con numerosi ricoveri, oltre a un'operazione a cuore aperto alle spalle - a fare il direttore della comunicazione della sua squadra, la Roma.

 «Più passa il tempo più mi affeziono - commentava -. Si diventa selettivi con gli anni. La donna con cui dividi l’esistenza, i figli, i nipoti, le persone con cui lavori da sempre, le tartarughe, i cani, i gatti e la Roma. Mancava solo lei nella mia vita di tutti i giorni. Mi ha fatto soffrire, mi ha fatto tanto inorgoglire, è venuto il momento di fare qualcosa per lei e per la sua gente». Un anno e mezzo fa dei giallorossi divenne «advisor delle strategie di comunicazione». Ci teneva a quel nome altisonante. Compito poi lasciato, senza rimpianti: Costanzo rimarcava di non essere informato adeguatamente e di non avere margini di azione. Coerente sempre, anche se dichiarandosi «fedele a Mourinho».

Impegnato con nuove sfide fino ai suoi ultimi anni, vigile fino a pochi giorni prima di spegnersi, Costanzo ha seguito da una camera della Paideia il festival di Sanremo. La camera ardente sarà allestita sabato e domenica presso la Sala della Protomoteca in Campidoglio (ingresso dal Portico del Vignola; sabato dalle 10.30 alle 18, domenica dalle 10 alle 18, raccomandato l’utilizzo della mascherina FFP2). I funerali si svolgeranno lunedì 27 febbraio, alle 15, presso la Chiesa degli Artisti in Piazza del Popolo.

 Un legame inscindibile, quello fra il conduttore nato a Roma il 28 agosto 1938 e la sua città natale, di cui conservò sempre un certo spirito sornione, ironico, capace di accogliere anche l'elemento più estraneo e all'apparenza disturbante, come dimostrò con il Maurizio Costanzo Show dal Teatro Parioli, di cui fu anche per una stagione direttore artistico.

 (…)

Biografia di Maurizio Costanzo.

LA STORIA RACCONTATA DA GIORGIO DELL'ARTI su cinquantamila.it

  • Roma 28 agosto 1938. Giornalista. «Io gliel’avevo detto: “A Giampa’” gli avevo detto “io ti dò ‘sto consiglio: bordeggia...”» (appena nominato direttore di Canale 5 al posto di Giampaolo Sodano).

Vita Figlio di Iole e Ugo, impiegato al ministero dei Trasporti: «Dopo la guerra lo promossero a direttore della mensa del ministero. Allora mamma fu costretta ad andare a fare la spesa a chilometri di distanza da casa, dove non ci conoscevano. I negozianti delle nostre parti – via Livorno, piazza Bologna – speravano nelle commesse della mensa e a noi erano pronti a farci mangiare gratis». Figlio unico, bambino complicato, martirizzava la madre, stava in ansia, s’annoiava, passava le giornate incollato ai vetri della finestra. Grasso già a nove anni, a suo dire per una cura ricostituente di Nestrovit che gli fece male. Si diplomò ma non andò all’università. Il nonno aveva affittato una camera a Vittorio Veltroni, padre di Walter e allora dirigente Rai, che lo portò a fare un giro per gli studi televisivi appena messi in piedi (sarà stato perciò il 1954 o il 1955). «Fin dai nove anni pensavo di fare il giornalista, e mi scrivevo un giornale da solo. Leggevo ad alta voce intere commedie di Goldoni, cosa che esasperava i miei genitori, e poi mi chiudevo in camera e ascoltavo alla radio Corrado e Mario Carotenuto».

«Passavo ore con in mano un portasapone rovesciato, come se fosse un microfono. Oppure con un mio amico, Lucio, giocavo con le lattine, io ero per Bartali, lui per Coppi, e alla fine della tappa scrivevo la radiocronaca».

«Mio zio mi faceva leggere le terze pagine del Corriere della Sera. C’erano firme illustri, Vittorio G. Rossi, Enrico Emanuelli, Virgilio Lilli, ma soprattutto Indro Montanelli. Io mi appassionai a Montanelli; a 14 anni gli scrissi una lettera. Come avrei potuto scrivere a un calciatore: “Io vorrei conoscerla”. Lui mi telefonò. A me prese un colpo. “Sono Indro Montanelli”. Credevo di morire. Mi disse: “Vieni dopodomani in via della Mercede, nella redazione romana del Corriere della Sera”. Io dissi: “Senz’altro”. E marinai la scuola. Mi disse: “Io capisco che tu hai questa voglia di fare il giornalista. Se proprio vuoi farlo, comincia a farlo il prima possibile”. Cominciai quasi subito a collaborare a un’agenzia di stampa che si chiamava Italmondo, agenzia fatta da un intelligente e strano tipografo del Giornale d’Italia, Francesco Casadio, un fanatico dell’esperanto. Poi cominciai a scrivere qualche articolo per La Giustizia, il quotidiano di Giuseppe Saragat. Avevo 17 anni, facevo il liceo al Giulio Cesare, il mio professore di italiano si chiamava Umberto Massi e scriveva per il Popolo. Ogni tanto mi chiamava e diceva: “È uscito niente di tuo? Il mio articolo è uscito, guarda”. Finito il liceo andai come volontario nel mese di agosto al Paese Sera di Roma. Arrivai presentato da Felice Chilanti, che era un inviato storico di Paese Sera. Il direttore era Dario Beni. Per anni mi chiamò il “volontario di agosto”. Mi mandarono allo sport, capo servizio era Marcello Sabatini, vice caposervizio era Antonio Ghirelli. Ghirelli mi disse: “Tu che sport conosci?”. Dissi: ciclismo. “Va bene, farai l’inviato al Giro del Belgio”. Mi mise in mano le agenzie e disse: “Ecco, scrivi il resoconto della prima tappa”. Firmai “Maurice Constance”».

Luciano Rispoli: «Anni Sessanta, ero capo del settore Riviste e varietà della radio. Conoscevo Costanzo che allora scriveva testi brillanti su periodici. Lo chiamai e gli proposi un programma, come autore. Nacque così Canzoni e nuvole, lo conduceva Nunzio Filogamo» (a Paolo Bracalini) [Grn 1/3/2009].

«Alla fine degli anni Sessanta, mentre lavoravo alla radio, scrivevo una commedia per il Sistina, collaboravo a un sacco di giornali, avevo già il diritto di darmi un po’ di arie per il testo di Se telefonando cantato da Mina, e nonostante questo mi feci prendere da Afeltra al Giorno come redattore ordinario, per la Cronaca e gli Spettacoli. Solo perché sentivo il bisogno del giornale, delle notizie. Ci ritornai con lo stesso spirito con cui si va a passare una settimana alle terme per ritemprarsi».

«Grazie a Brunello Vandano, capo dell’ufficio romano di Grazia, entrai alla Mondadori. Diventai quasi subito capo dell’ufficio romano di Grazia. Era un giornale molto importante, vendeva quasi 500 mila copie. Lavoravo tantissimo, facevo decine di interviste, cronaca e spettacolo, la mia cultura televisiva nasce dall’aver frequentato la tv in bianco e nero di allora, dal Musichiere a Telematch, Mario Riva, Enzo Tortora, Enza Sampò. Feci gli esami da professionista insieme a Furio Colombo».

Alla fine degli anni Settanta cominciò la collaborazione con la Rizzoli: prima diresse La Domenica del Corriere (1978), poi fondò L’Occhio, “quotidiano popolare” con scarse vendite. Guai seri quando promosse una campagna a favore della pena di morte: il magistrato Giovanni D’Urso ordinò il sequestro di tutte le copie. Il giornale fallì nel 1981.

Nello stesso periodo successo in televisione, dove aveva debuttato nel 1976 con un talk-show di seconda serata chiamato Bontà loro.

«Mi feci crescere di nuovo i baffi. Pensai: vanno di moda le facce che lanciano messaggi e su ‘sta faccia mia mettiamoci qualcosa».

Programma semplicissimo, in cui Costanzo metteva a frutto l’esperienza di un giornalismo colloquiale fatta in radio nel programma Buon pomeriggio (con Dina Luce e Pasquale Chessa). In Bontà loro si limitava a far sedere in un salotto tre personaggi più o meno famosi e a chiacchierare con loro [...]

La Camera ardente. Estratto dell'articolo di corriere.it il 25 febbraio 2023.

Poco dopo le 9.30 è arrivato in Campidoglio il feretro di Maurizio Costanzo, giornalista e conduttore televisivo morto ieri all'età di 84 anni. Ad accoglierlo il sindaco di Roma, Roberto Gualtieri.  Il suo volto sornione, una foto sulla bara, guarda le centinaia di  persone in attesa di entrare nella camera ardente, allestita oggi e domani nella Sala della Protomoteca - con ingresso dal Portico del Vignola - sarà aperta dalle 10.30 alle 18, e domani, domenica, dalle 10 alle 18.

Tra i primi a salutare Costanzo l'ex-sindaco di Roma Francesco Rutelli, oggi presidente dell'Anica, arrivato veloce tra la gente in attesa con la moglie Barbara Palombelli. Fu lui a  sposare il giornalista con Maria De Filippi. Mano nella mano e in lacrime entrano Maria Venier e Pierluigi Diaco, quest'ultimo molto legato al conduttore.

 [...]  I funerali si svolgeranno lunedì alle 15 nella Chiesa degli Artisti a piazza del Popolo a Roma.

Da fanpage.it il 25 febbraio 2023.

Il saluto commosso di Rosario Fiorello nella camera ardente di Maurizio Costanzo, le mani che tengono stretta la sua bara, la vicinanza calorosa a Maria De Filippi e Gabriele, come a Camilla e Saverio, gli altri figli del noto giornalista scomparso, stretti in un abbraccio appena entrato. Gesti che sono frutto di stima e affetto maturati nel tempo, ma anche di una riconoscenza che non potrà mai finire.

 Come lui, anche Valerio Mastandrea si è recato in Campidoglio per poggiare una rosa sul feretro. Non sono nomi casuali, sono personaggi che oggi fanno la differenza, grandi talenti della tv e del cinema che un tempo, quando erano solo dei ragazzi desiderosi di tenere la scena, furono visti e lanciati da Maurizio Costanzo.

 (...)

Maurizio Costanzo per “Libero Quotidiano” il 25 febbraio 2023.

 Fiorello sa cos' è la tv e, infatti, è difficile che sbagli un programma. Anche questa volta, con Viva Rai2!, in onda tutti i giorni alle 7.15 su Raidue, ha fatto centro. Non a caso, viene replicato anche verso l'una di notte su Raiuno. Fiorello non conosce regole, se non quelle suggerite dalla fantasia e dalla voglia di mischiare le carte.

È stato sempre così. Poi, siccome suppongo che sia pigro, mette sempre tempo in mezzo, tra un programma e l'altro. In questo Viva Rai2! c'è proprio l'anima di Fiorello nella sua voglia di far diventare uno sconosciuto un suo luogotenente, nel far cantare a quasi sconosciuti canzoni, nel far diventare vincente un qualcosa che, in altre mani, sarebbe stato perdente. Insomma, uno bravo.

 Mi piace raccontare la prima volta che lo incontrai. Ero stato incaricato dalla società Valtur, che ha molti villaggi turistici, di fare un giro in Italia per vedere se c'erano intrattenitori da proporre a un pubblico nazionale e non solo ai villeggianti. Feci questo viaggio e, in uno dei cinque-sei villaggi che visitai, incontrai questo giovanotto che intratteneva in maniera originale e divertente il pubblico, sia sulla spiaggia come al momento del pasto.

Lo volli conoscere e prendemmo un appuntamento a Roma. Lui partecipò a qualche puntata del Costanzo Show, ottenendo sempre un ottimo successo. Poi, fece alcuni suoi spettacoli di Karaoke e io, chiamato da Canale 5 a fare Buona Domenica, lo misi nel cast. Fu un grande successo. Si può dire che, da quel momento, cominciò la straordinaria carriera di Rosario.

(ANSA il 25 febbraio 2023) - "Appena arrivai a Roma, la prima intervista importante me l'ha fatta Maurizio: era il 1960, l'anno delle Olimpiadi a Roma, lui scriveva allora sul settimanale Grazia. E' il primo personaggio che ho conosciuto, da lì è nata una relazione di grande amicizia e rispetto".

L'emozione incrina la voce di Pippo Baudo nel ricordo di Maurizio Costanzo, morto oggi a Roma a 84 anni. Aneddoti, racconti, confronti, ospitate reciproche e qualche scaramuccia, le sliding doors tra Rai e Mediaset, "ma nessuna rivalità", assicura oggi Baudo interpellato dall'ANSA. "Certo, per me è stato sempre uno stimolo, intelligente e acuto, ma in fondo tutti gli dobbiamo qualcosa. Il Costanzo show è stata un'invenzione enorme, eccellente: ha raccontato l'Italia. Ci sarò stato almeno venti, trenta volte. E in ogni occasione Maurizio regalava un gadget a tutti, una conchiglietta portafortuna... Ne ho una collezione".

Costanzo "ha raccontato molto bene il Paese. Non dimentichiamo che ha avuto una vita molto difficile, vissuta a 360 gradi e con tanti pericoli, come dimostra l'attentato subito da parte della mafia". Ma è stato anche "una personalità poliedrica, un artista e un creatore a 360 gradi", sottolinea ancora Baudo, citando la celeberrima 'Se telefonando' che Costanzo scrisse per Mina. "E poi quel suo rapporto bellissimo con Maria... nessuno, forse, ci avrebbe scommesso: sono due personalità diverse, ma legate da un grande rispetto e stima reciproca". "Cosa ci resta di lui? L'attaccamento al lavoro, il lavoro come servizio per il Paese", conclude il conduttore.

(Adnkronos il 25 febbraio 2023) - "Non lo sapevo e sono senza parole, è una notizia dolorosissima. E' stato importantissimo. Ha inventato un nuovo modo di fare televisione, ha scoperto tanti personaggi, è stato un uomo tuttofare. E' un uomo che ha vissuto anche pericolosamente, ha subito diversi attentati... un uomo completo". Con profonda commozione Pippo Baudo commenta così con l'Adnkronos, a caldo, la notizia della scomparsa del giornalista e conduttore Maurizio Costanzo, venuto a mancare all'età di 84 anni.

Estratto dell'articolo di Aldo Cazzullo per il “Corriere della Sera” del 31 ottobre 2021

[…] Quanto conta il potere nella seduzione?

«Può agevolare. Ma il potere vero ce l’hanno gli Andreotti, i Draghi. Che potere è quello di invitare un cantante?».

 Però quando a Canale 5 arrivò Pippo Baudo, lei gli fece la guerra.

«Un po’ sì. Ma quello voleva comandare. Cominciò a sgridare la gente... Ora siamo in ottimi rapporti».

 Sgridò anche lei?

«Non esageriamo».

Estratto dell'articolo di Raffaella Serini per vanityfair.it del 2 febbraio 2018

Sullo schermo alle loro spalle fanno capolino i volti di Corrado, Mike Bongiorno, Enzo Tortora, Raimondo Vianello. Amici e colleghi che, insieme a loro: Pippo Baudo e Maurizio Costanzo, hanno fatto la storia della televisione italiana. «Hai notato che siamo rimasti vivi solo noi?», commenta alla fine del video Costanzo. Accompagnando l'analisi a suon di corna: tiè, tiè.

 Sul palco de L'Intervista, il talk minimal e intimista condotto in seconda serata da Maurizio Costanzo su Canale 5, va in onda la storia della tv. L'incontro, giovedì 1 febbraio, è tra Costanzo e Pippo Baudo, mostri sacri del piccolo schermo, due baluardi inossidabili della cultura nazional-popolare. […]

«Era il 1958 quando mio padre comprò la televisione», racconta Baudo, 81 anni all'insegna dell'«ho inventato io**»**. «Quell'anno Sanremo lo vinse Domenico Modugno con Volare. Mi colpì molto e pensai: "Devo per forza riuscire ad entrare in quella scatoletta"».

 […] Ma c'è una vita di Baudo anche dietro le telecamere. Per esempio quella che ha riguardato il rapporto con la figlia Tiziana, avuta dal suo primo grande amore Angela Lippi, e con Alessandro, il figlio riconosciuto come legittimo in tarda età: «Come padre penso di essere stato sensibile e vicino. Con Alessandro abbiamo oggi un rapporto molto bello. Quando i figli di mia figlia mi chiamano nonno, invece, mi scatta la "nonnitudine", una malattia fantastica», racconta Pippo orgoglioso.

Alla conta dei tanti volti noti lanciati nel corso della sua carriera, il conduttore ha un solo rimorso: Fiorello. «In un provino del 1986 lo scartai perché parlava troppo, è l'unica volta che ho toppato».

 Alla voce eredi, invece, non ce n'è per nessuno. «Perché "eredi"? Ognuno di noi ha il suo stile ed è unico», dice. E a guardarli insieme, lui e Costanzo, non c'è dubbio: alcuni sono inevitabilmente «più unici» di altri.

(ANSA il 25 febbraio 2023) - ''Un pezzo di storia giornalismo, della comunicazione, il più grande della nostra storia insieme a Enzo Biagi ed Indro Montanelli, dire chi era Maurizio era scontato ma io voglio dire che ho perso un grande amico uno dei punti di riferimento della mia vita''.

A dirlo all'ANSA è una commossa Mara Venier per la scomparsa di Maurizio Costanzo: ''un amico col quale ci confidavamo continuamente, uno dei pilastri della mia vita''. Quando vi eravate conosciuti? ''Ci conoscevamo da sempre direi. Non mi ricordo esattamente quando ci siamo incontrati per la prima volta di persona ma posso dire che mi ricordo che quando avevo 18 anni ho avuto una brutta epatite virale che mi ha costretta 40 giorni a casa. Sentivo allora 'Buon pomeriggio', il programma che faceva in Rai con Dina Luce. Così quando l'ho incontrato di persona per prima cosa l'ho ringraziato di quei 40 giorni che avevo passato in isolamento a farmi le flebo e nei quali lui mi aveva fatto compagnia''.

Per la conduttrice di Domenica in: ''da allora la sua è stata una presenza continua costante che ora mi mancherà moltissimo. L'avevo sentito appena qualche settimana fa, lo avevo chiamato perché era morto Roberto Ruggiero ed abbiamo parlato a lungo. Sinceramente lo avevo sentito bene, ora questo grande dolore''. Mara Venier è stata tante volte protagonista al Maurizio Costanzo show: ''su quel palco io correvo ogni volta che mi chiamava, non mancavo mai. Anche da quando sono in Rai il permesso di andare me lo davano sempre''. Ma il legame era anche molto privato: ''Era con lui e con Maria un rapporto di famiglia.

 Maria mi ha aiutato nei momenti di difficoltà, con la malattia di mia madre, insomma un gran miscuglio di cose, di sentimenti importanti''. Che cosa lascia Costanzo? ''Lascia la professionalità, la comunicazione, l'intelligenza e l'ironia. Soprattutto l'ironia che aveva dalla sua e che faceva la differenza con gli altri. Lascia un patrimonio. Personalmente da quando ci incontravamo negli anni 80 perchè abitavamo anche vicini, mi sembra di averlo avuto sempre vicino''.

Il barbiere che inventò i baffi di Maurizio Costanzo: "Gli dissi io di farseli crescere". Marco Juric su La Repubblica il 25 Febbraio 2023

Fu Mauro Esposito, della barberia B70 di via Col di Lana, ad avere l'idea: "All'inizio non era convinto, ma si fidò di me. È venuto qui ogni settimana per quasi vent'anni. Si fidava solo di me"

 "I famosi baffi li ho inventati io". A parlare è Mauro Esposito che per due decenni è stato il barbiere di fiducia di Maurizio Costanzo. Un legame profondo, nato negli anni '70 tra le mura del suo locale. Il B70, una barberia a Via Col di Lana, a pochi metri dal Teatro delle Vittorie: "È venuto qui ogni settimana per quasi vent'anni.

Dall'attico di via Poma ai diritti d'autore della celebre canzone “Se telefonando”, ecco il tesoro lasciato da Maurizio Costanzo

Maurizio Costanzo e lo spot delle camicie: "Ti ricorderemo sempre come l'uomo coi baffi".  Valentina Lupia su La Repubblica il 24 Febbraio 2023.

Nella memoria collettiva dei telespettatori non ci sono solo i talk show. Ma anche la pubblicità di un'azienda di Carpi che ha raggiunto il successo proprio quando nello spot delle camicie dal colletto comodo è comparso il giornalista e conduttore tv. "È come se se ne fosse andato uno di famiglia", dicono ora i proprietari della Dino Erre

"Una camicia coi baffi, se va bene a me, va bene a tutti". Nella memoria collettiva dei telespettatori non c'è solo il Maurizio Costanzo dei talk show. Ma anche quello della pubblicità di un'azienda di Carpi nata nel 1946 che ha raggiunto il successo proprio quando nello spot delle camicie "giusto collo" è comparso il conduttore morto ieri a 84 anni, diventando una delle aziende del tessile più importanti d’Italia proprio grazie alla grande notorietà del marchio Dino Erre.

Estratto dell’articolo di Fernando Pellerano per corrieredibologna.corriere.it il 26 febbraio 2023.

«Maurizio Costanzo, spot dopo spot, diventò un amico di famiglia. Lo ricordo bene a tavola nella nostra casa di Carpi, quando era ancora nel complesso della fabbrica, col nonno Dino e la nonna Leda, tutti in attesa della mitica insalata "Dino Erre" condita con l’aceto balsamico», racconta Giorgio Righi, nipote del fondatore della Camiceria Righi, nata nel 1946.

 […] Soprattutto fu un formidabile testimonial per l’azienda di famiglia (in origine la nonna aveva un laboratorio di sartoria in piazza e i nipoti vendevano le camicie col carretto andando per mercati ndr), già nota a Carpi per i tanti posti di lavoro che offriva anche prima del boom pubblicitario.

Lo spot con Costanzo che reclamizzava «il collofit» della Dino Erre ebbe un incredibile successo. Il brevetto di quel colletto sempre in ordine lo fece Franco, il fratello di Dino: lui era il tecnico, l’altro era il commerciale. La svolta arrivò col volto di Costanzo. E con quelle tre battute rimaste nella memoria collettiva: «una camicia coi baffi», «se va bene a me va bene a tutti» e «buona camicia a tutti».

 Semplice semplice, ma ci voleva dello «sbuzzo». Le battute non sono sue, ma del regista e autore Guido De Maria, un gigante della pubblicità ai tempi di Carosello e poi con «Gulp!» e «Supergulp!» i fumetti in tv, che realizzò tutte le reclame con la camicia.

«Il nonno cercava un volto televisivo noto e la scelta cadde su Costanzo anche perché costava molto meno degli altri. Pippo Baudo chiedeva tanto e così gli altri che erano in voga. Dino stava molto attento alle spese», dice Giorgio. «L’idea nacque quasi per gioco. All’inizio si giravano gli spot un po’ ovunque: a casa dei miei, in salotto o in camera da letto, magari in strada all’aperto. Una volta anche io e il nonno entrammo in una réclame, c’era bisogno di movimentare la scena… Poi la cosa è cresciuta e sono arrivate altre location: lo studio di De Maria, il cinema Raffaello, la nostra fabbrica di Carpi».

 Fabbrica che non c’è più, così come quella di Este, aperta successivamente e dove si realizzavano i «collofit»: una gestita da Dino, con le camicie Dino Erre, e una da Franco, con le camicie Frarica. «All’epoca arrivammo ad avere fino a mille dipendenti».

Con la chiusura delle linee produttive negli anni sono stati ceduti anche i brand, ora nel gruppo Alea. Giorgio però resiste, ha mantenuto lo storico marchio Camiceria Righi dal 1946 [...] Se n’è andato un amico di famiglia. «Sì, si era creato un bel rapporto, proseguito anche quando Costanzo non potè più fare il testimonial (negli anni ’90 uscì una legge che vietava ai giornalisti iscritti all’Ordine di fare pubblicità ndr), anche se di straforo ogni tanto faceva qualche riferimento alla Dino Erre, così, per puro piacere, per amicizia»

[...] Le battute, brevi e fulminanti, sono di De Maria e Costanzo stava al gioco. «Diciamo che aveva un collo importante, perciò lo slogan finale, ‘se va bene a me va bene a tutti’, fu efficacissimo». Non da meno ‘i baffi’ che Costanzo amava lisciare. «A tal punto che quando scegliemmo un nuovo testimonial, il bolognese Andrea Roncato, a un certo punto lui si metteva dei baffi finti». Va da sé che non fu la stessa cosa. E neppure dopo col successivo testimonial, Marco Tardelli.

Gerry Scotti: "Maurizio mi insegnò come era bella una vita da mediano". Silvia Fumarola su La Repubblica il 25 Febbraio 2023

Il ricordo del presentatore: "Quando era direttore di Canale 5 si sentiva un allenatore. Mi disse: 'Fai il quiz preserale e conquisterai il pubblico'"

«Maurizio Costanzo mi ha insegnato tante cose», dice Gerry Scotti. «Conosceva la televisione come poche persone al mondo. Gli devo molto, mi diede consigli preziosi. Devo a lui se sono diventato il conduttore che sono, se ho costruito un rapporto solido col pubblico. È stato fondamentale».

La prima lezione?

«Essere sempre curiosi, non accontentarsi mai.

"A lui devo tutto". Il commosso ricordo di Gerry Scotti per Costanzo. Dai primi consigli agli esordi della sua carriera fino alla consacrazione di essere diventato il re del quiz: ecco il percorso che ha legato Maurizio Costanzo e Gerry Scotti. Alessandro Ferro su Il Giornale il 26 Febbraio 2023

Tra i tanti ricordi di chi l'ha conosciuto e ha lavorato con Maurizio Costanzo c'è stato anche quello significativo e toccante di Gerry Scotti. Il popolare e stimatissimo volto della tv ha raccontato di essere diventato il conduttore che è riuscendo a instaurare un solido rapporto con il pubblico proprio grazie a Costanzo. "Maurizio Costanzo mi ha insegnato tante cose - ha affermato a Repubblica - conosceva la televisione come poche persone al mondo. Gli devo molto, mi diede consigli preziosi. È stato fondamentale".

La curiosità nella vita

Per fare bene il proprio mestiere, nella vita come nel lavoro, il primo insegnamento che Costanzo diede a Gerry Scotti fu quello di non accontentarsi mai e mettere la curiosità al primo posto: dal giornalismo agli artisti, era sempre un vulcano di idee. "È vero che era goloso di pasticcini ma anche di tutto il resto, era goloso di vita, e coltivava la curiosità: voleva sapere tutto quello che succedeva intorno a lui". Il loro incontro avvenne a Mediaset ma prima ancora Gerry Scotti lo ammirava già guardandolo in tv come il resto degli italiani: il conduttore era solito anche ascoltarlo alla radio e seguire tutte le puntate dello storico "Maurizio Costanzo show".

Il "ruolo" del mediano nella tv

Il calcio, tra i due, divenne una metafora importante sul lavoro: "Tutti si vergognano del ruolo di mediano, ma in una squadra è un ruolo fondamentale e tu devi essere il nostro mediano", gli disse Costanzo, consigliandogli di dedicarsi al preserale per molto tempo, almeno fino a quando gli italiani non avrebbero associato il volto di Gerry Scotti a quella determinata fascia oraria. Grazie anche a quel consiglio, il popolare conduttore si è saputo far amare da milioni di persone. "Devo a lui la mia collocazione. E negli anni ho capito quanto è stato importante per costruire il rapporto col pubblico", ha sottolineato a Repubblica. Affabile e alla mano, Maurizio Costanzo "incuteva timore, aveva il suo carattere" ma diceva sempre le cose in faccia e aveva le idee chiare.

Nel corso degli anni sono state molto numerose le ospitate a "Buona domenica" e al "Maurizio Costanzo show": un aneddoto che in pochi conoscono era il regalo che spesso Costanzo faceva a Scotti, una piccola tartaruga portafortuna. Il copione non era mai scritto, si andava a braccio. "'Che devo dirti Gerry, quando c’è un argomento che ti interessa, intervieni'. Era formidabile, con tutti quegli ospiti". Uno dei ricordi più commoventi e intensi che li ha visti interagire a stretto contatto senza la presenza di altri ospiti è stato durante una puntata del "Cubo" per un'intervista che Scotti ricorda come "una delle esperienze più belle, un incontro intimo. Dentro quello studio, quadrato come una scatola, circondato dalle foto, ho provato un’emozione fortissima. Avevo già 60 anni e mi sono reso conto di essere diventato qualcuno con quell’intervista. È stato come se mi avesse dato un diploma. Gli sono riconoscente".

Infine, in una puntata speciale, Maurizio Costanzo ha voluto omaggiare tre grandi volti della tv, due di Mediaset e uno della Rai: Gerry Scotti, Paolo Bonolis e Carlo Conti. Ideò quella puntata per ricordare "i tre tenori - Raimondo Vianello, Mike Bongiorno e Corrado. Carlo, Paolo e io eravamo i tre tenorini e quasi ci sentivamo imbarazzati. Ci fece un omaggio meraviglioso ", ha dichiarato. E poi, l'onore di dire il celebre "Sipario" quando Costanzo, per una puntata dedicata a Mike Bongiorno, gli disse di essere diventato lui il re del quiz e che lo stesso Mike lo considerava il suo erede. "Quindi apri tu. E ho avuto l’onore di dire: 'Sipario'".

Costanzo, la confessione di Pupi Avati: “Ultimamente era più amaro”. Libero Quotidiano il 26 febbraio 2023

"Mi addolora ricordare che negli ultimi tempi l’ho sentito molto cambiato": Pupi Avati ha parlato del suo amico Maurizio Costanzo in un'intervista al Messaggero. Il regista ha rivelato che lui e il giornalista continuavano a sentirsi. E proprio nell'ultimo periodo lui avrebbe notato un cambiamento: "Stare con lui era sempre stata una festa, ma l’uomo propositivo ed estremamente ironico che conoscevo ultimamente esprimeva un senso di amarezza. Aveva perso la capacità di auto-illudersi". 

"Maurizio dava l’impressione di aver rinunciato ai sogni, agli scherzi, alla goliardia che lo avevano contraddistinto in gioventù - ha continuato Avati -. Contrariamente a me, che alla mia età sono ancora pronto a mettermi gioco, in lui prevaleva la consapevolezza che non poteva più fare certe cose. In poche parole era diventato adulto. Ma io non potrò mai dimenticare che insieme a lui ho vissuto il periodo più bello della mia vita".

Parlando del loro primo incontro, il regista ha raccontato: "A presentarci, nel 1972, fu Paolo Villaggio che era stato scoperto da Maurizio e avrebbe dovuto girare un film con me. Costanzo voleva conoscermi perché intendeva lavorare nel cinema. Diventammo subito amici. Lui poi ci introdusse alla Rai e mio fratello Antonio gli presentò Alberto Silvestri che sarebbe diventato il principale autore del suo Show". Alla domanda sul perché lui non sia mai andato come ospite al Maurizio Costanzo Show, Avati ha risposto: "Lui e io ci conoscevamo troppo bene, la nostra intimità era così profonda che lui non avrebbe avuto molto da chiedermi".

 Verissimo, Signorini: "Solo una cosa divideva Costanzo e la De Filippi". Libero Quotidiano il 26 febbraio 2023

C’era solo una cosa che li divideva, il gatto": Alfonso Signorini ha fatto questa rivelazione su Maurizio Costanzo e Maria De Filippi nello studio di Silvia Toffanin a Verissimo su Canale 5. "Il gatto di Maurizio non va d’accordo con i cani di Maria e allora lui ha trasformato il suo ufficio ai Parioli come casa di Pippo”, ha spiegato il direttore del settimanale Chi.

Quella di Verissimo andata in onda oggi, domenica 26 febbraio, è stata una puntata speciale, dedicata al grande conduttore, giornalista, sceneggiatore e scrittore e alla sua recentissima scomparsa. Tra gli ospiti il conduttore del GfVip, che ha raccontato che Maurizio amava molto ridere e che lui e Maria ridevano molto insieme. Nel corso dell’intervista Signorini, con gli occhi lucidi e la voce rotta dal pianto, ha parlato della prima volta che ha incontrato e intervistato Costanzo, ovvero 24 anni fa per celebrare i suoi sessant'anni: "Le premesse erano un po’ faticose perché lui non amava le celebrazioni. Ero sicuro mi avrebbe accolto con una certa diffidenza, non l’avevo mai visto. Invece tra noi si era imposto un rapporto speciale”.

Signorini si è detto sconvolto dalla sua scomparsa improvvisa: "Credo che nessuno si aspettasse un’uscita di scena quasi in punta di piedi”. Infine ha aggiunto che nell’ultimo periodo Maurizio pensava spesso alla morte e a che cosa ci sarebbe stato dall'altra parte. A tal proposito il giornalista ha chiosato: “Lui che era un uomo molto curioso adesso l’avrà scoperto”.

Era come un padre...”. Luca Laurenti non trattiene le lacrime per Costanzo. Francesca Galici il 25 Febbraio 2023 su Il Giornale.

Lacrime e singhiozzi per Luca Laurenti nel ricordare Maurizio Costanzo: i due hanno lavorato per 9 anni insieme a Buona Domenica

La puntata odierna di Verissimo è stata dedicata a Maurizio Costanzo. Silvia Toffanin ha ospitato nel suo salotto Luca Laurenti, che per tantissimi anni ha fatto parte del cast fisso di Buona Domenica, programma che per oltre 10 anni è stato condotto proprio dal giornalista. Era un appuntamento fisso nel giorno festivo degli italiani, che puntuali all'ora di pranzo trovavano su Canale5 Maurizio Costanzo e il suo variegato gruppo di ospiti. Davanti al ricordo del giornalista, scomparso ieri a 84 anni, Luca Laurenti non è riuscito a trattenere il pianto.

"Ciao Maurizio, ti vogliamo bene". Il ricordo di Pier Silvio Berlusconi

"Mi dispiace, scusate... So che un uomo pubblico che fa televisione come me da 36 anni non dovrebbe... Avevo fatto anche le prove per non piangere, scusate", ha ripetuto lo showman, che è sempre strato una validissima spalla per Maurizio Costanzo. Impossibile dimenticare i siparietti tra i due, le parentesi musicali e gli sketch in cui lo stesso giornalista amava mettersi in gioco. La partecipazione di Luca Laurenti a Buona Domenica è durata per ben 9 anni, un tempo lunghissimo che ha permesso ai due di costruire un rapporto stretto e amichevole, che oggi ha toccato nel profondo la sensibilità del doppiatore e showman.

"Lo metto nella mia cornice familiare", ha aggiunto Laurenti, che non è più riuscito a parlare senza piangere per la troppa commozione dovuta alla scomparsa del padre del talk show della tv italiana. "È come essere un equilibrista a metà tra lacrime e sorrisi. Come le canzoni che scrivo, le vivo nel silenzio del mio cuore e mi dispiace piangere qui davanti a tutti, perché io le cose più belle, i segreti, li tengo racchiusi nel cuore", ha proseguito senza mai riuscire a smettere di singhiozzare, mostrando una sensibilità che finora il grande pubblico non aveva mai apprezzato.

Anche domani, Silvia Toffanin dedicherà interamente la puntata di Verissimo al ricordo di Maurizio Costanzo con ospiti e interviste realizzate allo scopo di ricordare il giornalista tra lavoro e vita privata. Tra gli ospiti Alfonso Signorini, Lorella Cuccarini, Gigi D'Alessio, Katia Ricciarelli, Paola Barale, Enrico Papi, Enzo Iacchetti, Orietta Berti e Vladimir Luxuria. Ci sarà spazio anche per un'intervista a Pier Silvio Berlusconi, che intervistato dalla padrona di casa racconterà del suo legame personale e lavorativo con Maurizio Costanzo.

"Perdiamo un grande giornalista". Anche Giorgia Meloni saluta Costanzo. Accompagnata da Maria De Filippi e Roberto Gualtieri, Giorgia Meloni ha salutato il feretro di Maurizio Costanzo: "Perdiamo un grande giornalista". Francesca Galici il 25 Febbraio 2023 su Il Giornale.

Sono state tante le persone che quest'oggi hanno reso omaggio a Maurizio Costanzo nella camera ardente allestita in Campidoglio. Fin dall'apertura era presente il sindaco Roberto Gualtieri ma nel corso della mattina ha fatto il suo arrivo anche il presidente della Regione Lazio Francesco Rocca. Numerosi i politici che hanno salutato il feretro del giornalista, che in oltre mezzo secolo di lavoro ha raccontato i cambiamenti dell'Italia, ospitando nei suoi programmi tutti gli esponenti, di qualunque orientamento politico, per raccontarli e dare loro modo di raccontarsi al pubblico popolare. In Campidoglio, subito dopo pranzo, si è presentata anche Giorgia Meloni, che ha salutato Maurizio Costanzo accompagnata da sua moglie, Maria De Filippi.

"Ci lascia una grande eredità. Un giornalismo capace di dialogare con tutti, capace di capire che la dimensione umana era molto importante. Aveva le sue idee, ma era una persona viva che cercava di capire tutti. E gli interessava moltissimo il carattere umano delle persone", ha detto il presidente del Consiglio uscendo dalla camera ardente. Tra Costanzo e Meloni c'è sempre stato un rapporto di stima reciproca, come testimoniano i numerosi inviti accolti dal premier al Maurizio Costanzo Show fin dalla tenera età. Ed è anche questo che ha voluto ricordare prima di lasciare il Campidoglio: "Non posso dire di essere un talento che ha scoperto ma le mie primissime partecipazioni televisive sono state al Maurizio Costanzo Show, avevo più o meno 17 anni. È una persona che ha attraversato la nostra storia che aveva un suo chiaro punto di vista sulle vicende, perdiamo un grande giornalista".

Quindi, Giorgia Meloni, ci ha tenuto a sottolineare come il giornalista fosse un vero unicum nel panorama italiano, e non solo. "Non ce ne sono moltissimi capaci di fare quello che ha fatto lui in questi anni. È stato anche un grandissimo scopritore di talenti, una persona alla quale piaceva cercare di capire anche cosa potesse dire chi non aveva ancora grandi responsabilità", ha detto il premier prima di andare via. Oltre a lei, quest'oggi hanno fatto visita al feretro anche, tra gli altri, il ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, il leader dei 5 stelle, Giuseppe Conte e Gianni Letta.

"Ciao Maurizio, ti vogliamo bene". Il ricordo di Pier Silvio Berlusconi. Quello tra la famiglia Berlusconi e Maurizio Costanzo è stato un legame di profonda stima, prima di amicizia che di lavoro, come dimostrano le parole di Pier Silvio e Silvio Berlusconi. Francesca Galici il 25 Febbraio 2023 su Il Giornale.

Con Maurizio Costanzo se n'è andato uno dei pilastri della televisione italiana. Ha inventato i talk show come oggi siamo abituati a conoscerli e, come ha detto Vittorio Sgarbi, è stato un "padre" per tutti quelli che fanno quel lavoro. Gran parte dei programmi di approfondimento che oggi vengono mandati in onda sono più o meno indirettamente figli o nipoti del Maurizio Costanzo Show. Mediaset è stata a lungo la sua casa televisiva e lo è stata fino alla fine. Per questo motivo non poteva che essere partecipato il ricordo da parte di Pier Silvio Berlusconi, attuale editore del broadcaster di Cologno Monzese, e di suo padre, Silvio Berlusconi, che quella televisione l'ha fondata.

"Dopo 30mila ospiti sono ancora curioso. Che serate con Sordi, la Vitti e i tre tenori"

"La scomparsa di Maurizio Costanzo tocca profondamente tutti noi di Mediaset. Maurizio è stato un grandissimo professionista, una persona a cui eravamo legati umanamente e professionalmente, ha dato tantissimo alla nostra azienda e quindi a lui va tutta la nostra gratitudine", ha detto l'attuale amministratore delegato Mediaset ricordando il giornalista, che per Mediaset ha realizzato, tra le altre cose, decine di edizioni del Maurizio Costanzo Show. "Ha cambiato il modo di fare televisione, ha fatto un giornalismo nuovo, un giornalismo che ha reso più calda tutta la televisione italiana. E per me è impossibile non ricordare anche degli episodi personali che mi hanno legato moltissimo a lui", ha proseguito Pier Silvio Berlusconi, che ha sottolineato come l'empatia fosse uno dei tratti distintivi della personalità di Costanzo: "Quindi oggi io e tutti noi di Mediaset diciamo: 'Ciao Maurizio, ti vogliamo tanto bene'".

Ugualmente sentito è stato il ricordo di Silvio Berlusconi, che intervenuto in diretta durante lo speciale di Matrix, in collaborazione con il Tg5, dal titolo “Costanzo, l’uomo che ha cambiato la tv”, condotto da Nicola Porro e dalla giornalista del TG5 Susanna Galeazzi. "Io ho veramente sentito un grande dolore per la sua scomparsa. È stata la prima star già affermata nel giornalismo e nella televisione che ha avuto il coraggio di venire da noi: in una televisione privata appena agli inizi che non si sapeva se potesse davvero continuare ad esistere", ha detto il Cavaliere con grande emozione. Ma tra i due i rapporti erano prima di tutto amicali: "Mi è sempre stato vicino e mi ha sempre sostenuto, mi ha sempre consolato nei miei momenti di difficoltà. Con lui non c'è mai stata neppure una discussione sui suoi compensi. Lui ha sempre accettato quello che gli offrivamo, ci ha sempre trasmesso serenità, positività e coraggio".

Impossibile per il presidente di Forza Italia non ricordare l'attentato mafioso al quale scampò solo per un caso del destino. "Maurizio è stato davvero un protagonista e l'ha fatto sempre con acume, con garbo, con ironia, con amore. Mancherà davvero moltissimo a tutti noi, a me in particolare, mancherà per la sua amicizia, per il suo affetto, per i suoi consigli. Io, lo porterò sempre nel cuore e lo ricorderò sempre come un grande professionista, come un grande esempio, come un grande amico", ha proseguito il Cavaliere. Fino a lunedì, la programmazione Mediaset sarà dedicata al giornalista, del quale verranno trasmessi in diretta i funerali da Roma.

Dolore e commozione alla camera ardente di Costanzo. Tanti personaggi noti si sono presentati in Campidoglio per la camera ardente di Maurizio Costanzo. Il governatore del Lazio suggerisce di intitolargli un teatro. Francesca Galici il 25 Febbraio 2023 su Il Giornale.

Questa mattina è stata aperta la camera ardente di Maurizio Costanzo in Campidoglio. Tanti i volti noti che si sono avvicendati davanti al feretro del conduttore e giornalista per un ultimo saluto prima dei funerali, che si terranno in forma solenne lunedì 27 febbraio presso la chiesa degli Artisti, in piazza del Popolo a Roma. Passando da un ingresso laterale per evitare la folla in fila, Maria De Filippi è arrivata alla camera ardente insieme a suo figlio Gabriele. Entrambi con un completo scuro, si sono seduti in prima fila e lei ha continuato a parlare con il ragazzo che è entrato piangendo nella sala della Protomoteca.

"Poche volte ho visto un tributo che fosse anche un plebiscito. È come se giovani e vecchi di questo paese si fossero inchinati tutti di fronte a Maurizio Costanzo", ha detto Gianni Letta uscendo dalla camera ardente dove era arrivato insieme al figlio Giampaolo, ad di Medusa. Letta conosceva molto bene il giornalista: "Ho di lui un ricordo bello, positivo. Ha raccolto tutto quello che in una vita così operosa e così lunga ha seminato. Possiamo dire che prima di altri aveva intuito il potere della televisione e l'ha ben gestito come un sovrano illuminato". Anche il ministor della Cultura, Gennaro Sangiuliano, è arrivato in Campidoglio. È stato lui ad annunciare i funerali solenni per il giornalista. "Quand'è nato il Tg2 Post, gli telefonai per avere le sue impressioni e lui me le diede, insieme anche ad alcuni consigli molto affettuosi e amichevoli, l'avevo apprezzato grandemente. Era un maestro di televisione, credo che abbia lasciato un segno importante nel giornalismo e nella tv italiana", ha detto il ministro.

Tra i primi a rendere omaggio a Costanzo c'è stato Fiorello, anche lui entrato da un ingresso laterale insieme alla moglie Susanna. Lo showman siciliano ha sostato in raccoglimento davanti al feretro, poggiando le mani sulla bara e si è poi intrattenuto con i familiari per le condoglianze. Grandi abbracci con la vedova e il figlio, prima di lasciare spazio agli altri che si sono recati in Campidoglio. Nessuna dichiarazione da parte di Fiorello una volta lasciata la camera ardente. "L'ho conosciuto a 15 anni. È stato tutto nella mia vita: un alleato, un maestro, un papà", ha invece dichiarato Pierluigi Diaco uscendo dal Campidoglio con evidente commozione. Nessuna dichiarazione nemmeno per Mara Venier, arrivata alla camera ardente mano nella mano proprio con Diaco.

"Un uomo eccezionale. Grande orgoglio essere stato suo amico", ha, invece, detto Giovanni Floris lasciando il Campidoglio. Presente alla camera ardente anche Francesco Rocca, appena eletto governatore della Regione Lazio: "È un gigante della televisione, della cultura, però è anche come se ci avesse lasciato uno di famiglia. Costanzo era una costante delle nostre serate, lo ricordo dai tempi di 'Bontà loro' e poi gli anni del 'Maurizio Costanzo show'. Mia nonna diceva: 'C'e Maurizio'. E questo sintetizzava quello che era per gli italiani". Quindi, Rocca ha aggiunto: "Sarebbe giusto dedicargli un teatro".

"Ora è con mia moglie". Lo struggente ricordo di Banfi per Maurizio Costanzo. Il comico e la figlia Rosanna presenti alla Camera ardente del Campidoglio per l’ultimo saluto al giornalista scomparso venerdì. Massimo Balsamo il 25 Febbraio 2023 su Il Giornale.

È grande il cordoglio per la morte di Maurizio Costanzo, scomparso venerdì all’età di 84 anni. Da questa mattina è aperta la camera ardente in Campidoglio e sono tanti, tantissimi i protagonisti del mondo della cultura e dello spettacolo passanti davanti al feretro del giornalista per un ultimo saluto prima dei funerali, in programma lunedì 27 febbraio nella sua Roma. Tra i volti noti anche quello di Lino Banfi, accompagnato dalla figlia Rosanna. Un enorme dolore per il comico, che pochi giorni fa è stato costretto a salutare la moglie Lucia Zagaria, da tempo malata di Alzheimer.

Il commovente ricordo di Lino Banfi

Intercettato dai cronisti presenti, Lino Banfi ha provato a mantenere il sorriso sulle labbra: “Voglio continuare a fare il comico sennò piangiamo tutti. Stanno morendo quasi tutti e Maurizio con la sua galanteria che lo distingueva avrà fatto passare prima mia moglie. Ora staranno insieme”. Un ricordo struggente, ricco di emozione: “In questi giorni gira un video che avevamo fatto io e Maurizio -ha aggiunto- Intorno agli anni '90 facevamo i vecchietti. Lui mi diceva, scherzando, 'A Li tu morirai prima di me perché hai due anni in più di me’. 'E chi l'ha detto?', gli rispondevo. Ma come è strano il destino. In questi giorni è morta anche mia moglie”.

Il dolore per la scomparsa della moglie Lucia

Un altro lutto nel giro di pochi giorni per Lino Banfi, che lo scorso 22 febbraio ha perso la sua compagna di vita dopo una lunga battaglia con la malattia. Più di una volta l’attore pugliese si è commosso nel corso delle ultime interviste parlando di lei, del loro amore e delle difficoltà legate all’Alzheimer.

Io dicevo sempre con mia moglie: abbiamo costruito bene, con materiale buono, il calcestruzzo quello che conta, il ferro, e abbiamo fatto questa casa inossidabile, che non si rompe mai, antisismica, anti-cattiveria, anti-tutto, non mi aspettavo che diventasse così forte”, ha ammesso con commozione al termine dei funerali celebrati a Roma. Banfi ha potuto contare sull’affetto e sulla vicinanza di tutti, anche di Papa Francesco. Il pontefice ha infatti deciso di scrivergli una lettera: “Caro fratello, nell'apprendere la notizia della scomparsa di Lucia, porgo a te e alla tua famiglia le mie condoglianze, assicurando la preghiera di suffragio per la sua anima”.

Tantissimi i messaggi di cordoglio. “Che tu possa aprire un sipario migliore”, Maurizio Costanzo e il ricordo dei vip. Redazione su Il riformista il 24 Febbraio 2023

Il grande giornalista e conduttore televisivo ha intervistato e conosciuto migliaia di persone, moltissimi i vip legati a lui e così nel giorno della sua morte i social sono esplosi. Tantissimi i messaggi di cordoglio, di dediche, di foto e di addii comparsi online.

L’opinionista Gianni Sperti, al fianco della moglie Maria De Filippi in tantissimi programmi, ha postato una foto di Maurizio e ha scritto: “Ciao Maurizio. Sentiremo tutti la tua mancanza. La mancanza di un uomo forte e comunicativo che ha segnato la storia della televisione italiana. Nessuno dimenticherà mai il coraggio che hai trasmesso lottando contro la mafia senza paura. Hai chiuso il sipario, ma per noi resterà sempre aperto. Riposa in pace”. La conduttrice Mara Venier ha voluto salutare il suo collega postando una foto che li ritrae insieme: “Ciao Maurizio… una vita assieme. Riposa in pace”.

Anche Fabrizio Corona, legatissimo al giornalista, ha affidato a Instagram una lunga dedica e degli scatti che li vedono vicini. “Era il 2006 quando per la prima volta venni invitato nel più importante talk show televisivo italiano del momento il Maurizio Costanzo Show – scrive il re dei paparazzi – Fino ad allora ero un giovane imprenditore con tanti sogni da realizzare. Era il periodo di Vallettopoli e avevo scritto su questo caso il mio primo libro. Posso affermare con assoluta certezza – continua Fabrizio Corona – che tante delle mie fortune sono iniziate dopo che l’Italia mi ha conosciuto grazie all’opportunità che mi ha dato Maurizio. Nei periodi più difficili mi è sempre stato vicino – ricorda Corona – una delle poche persone che hanno creduto in me come uomo, uno dei pochi che ha saputo vedere il vero Fabrizio. Maurizio ha sempre supportato le mie cause come un padre, un amico, un fratello. Tra noi grande stima e affetto. Considero Maurizio un gigante del suo mestiere, per me un maestro, è in suo onore la dedica di un tatuaggio che porterò sempre sulla mia pelle: Maurizio maestro mio. Grazie per quello che hai fatto per me – chiosa Corona – e per aver dato una coscienza critica a questo Paese. Per sempre nel mio cuore, fai buon viaggio Maestro”.

L’attrice Vanessa Incontrada ha pubblicato, invece, una foto insieme con Maurizio Costanzo e il collega Claudio Bisio. “Ricordo la prima volta che ci siamo conosciuti – racconta Incontrada – io avevo vent’anni e tu sei stato così protettivo nei miei confronti che non lo dimenticherò mai. Un bacio immenso Maurizio, riposa in pace”.

Lunghissima la lettera, pubblicata sui social, dalla showgirl Alba Parietti. Un estratto: “Hai fatto battaglie difficili contro poteri forti come la mafia, dato voce e coraggio a chi non l’aveva. Non eri tenero, una personalità fortissima e narcisistica, geniale, un grande scopritore di talenti, un seduttore affascinante di esseri umani. L’unica persona che riusciva a tenerti testa, non a caso, era la tua Maria. È stato un piacere lavorare con un grande come te. Fai buon Viaggio”.

L’attrice Laura Chiatti ha scritto invece: “Ciao Maurizio, tu che ci hai raccontato l’Italia nelle sue bellezze e nelle sue magagne. Tu che riuscivi a essere poetico anche nel profondo disincanto. Che tu possa con l’allegria trascendentale che nascondevi dietro quel buffo ghigno burbero, non chiudere, ma aprire un miglior “sipario”. Sono ancora centinaia i vip che stanno dedicando un messaggio a Maurizio.

La Camera ardente.

La camera ardente di Maurizio Costanzo in Campidoglio: l'omaggio della città, della politica e degli amici. Edoardo Sassi, Maria Rosaria Spadaccino, Giuliano Benvegnù  su Il Corriere della Sera il 25 Febbraio 2023.

L'omaggio nella Sala della Protomoteca (con ingresso dal Portico del Vignola) oggi dalle 10.30 alle 18, e domani, domenica, dalle 10 alle 18. «Commovente l'affetto dei romani», commenta il sindaco Gualtieri

Il suo pubblico in coda per salutarlo l'ultima volta, gli amici e la famiglia. Nella sala della Protomoteca in Campidoglio il feretro di Maurizio Costanzo, morto venerdì alla clinica Paideia, è circondato da fiori, il giornalista e conduttore sorride da una grande foto sulla bara di legno chiaro. I figli Saverio e Camilla lo hanno accolto all'arrivo, intorno alle 10, col sindaco Gualtieri, prima dell'arrivo degli amici: fra i primi  Mara Venier, Francesco Rutelli (da sindaco fu  lui a sposare il giornalista con Maria De Filippi) con la moglie Barbara Palombelli, Fiorello con la moglie, che abbracciano i figli e si fermano con loro a lungo. Alle 12.17 fa il suo ingresso  Maria De Filippi, occhiali scuri e completo pantaloni nero, accompagnata da Gabriele, figlio adottivo della coppia, il più commosso di tutti. Gli abbracci sono tutti per lei, che si siede in prima fila, saluta tutti i presenti sforzandosi di sorridere e accarezza a lungo sulla testa il suo ragazzo. Li abbraccia entrambi uno storico volto del cinema italiano, l’attrice Giovanna Ralli, che poi manda un bacio alla bara e va via. Poi alle 14.08 ecco la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, accolta dal sindaco Gualtieri e qualche passo indietro, al riparo da microfoni e telecamere, Maria De Filippi. 

«È un omaggio commovente dei romani a un gigante della TV, della cultura e del giornalismo italiano. Una persona molto dolce, molto empatica, un professionista inarrivabile, un pezzo della storia del costume e della cultura italiana. È una persona cui tutti quanti dobbiamo molto», commenta il sindaco Gualtieri. «Se ci sarà una via o una piazza a lui intitolata? «Roma saprà ricordarlo, ora è il momento del cordoglio». «Da lui ho avuto un insegnamento di vita e umano. Una cosa che ci siamo sempre detti è che ci siamo conosciuti tardi. Insieme abbiamo provato a tirar fuori idee per la città che entrambi amiamo. Ho scoperto una persona di un'umanità profondissima», commenta l'ex-sindaca di Roma Virginia Raggi. Quando la folla un po' diminuisce arrivano anche Massimo Giletti, che rimane in silenzio un minuto davanti al feretro, e Nicola Porro. Lino Banfi, che ha da poco perso la moglie Lucia, arriva con la figlia Rosanna. Poi, di nuovo, un flusso ininterrotto. 

Non mancano gli amici di una vita, gli artisti scoperti da lui che gli devono tanto, come Valerio Mastandrea, arrivato con una rosa, Gianni Ippoliti, Rudy Zerbi, Ermete Realacci. Arrivano anche l’ ex sindaco Franco Carraro e sua moglie Sandra, e Alessandro Preziosi, che saluta la bara, Maria, e se ne va.  Poco prima dell’una arriva Giovanni Floris. Si ferma un istante e commenta: «Maurizio era un uomo eccezionale, è un onore essergli stato amico». E ancora il neopresidente della Regione Lazio, Francesco Rocca, che commenta: «Per far capire chi era Maurizio Costanzo e cosa abbia rappresentato per tanti italiani, ricordo che quando ero molto giovane ogni volta che c’era la sua trasmissione mia nonna diceva: silenzio, c’è Maurizio. Solo il nome bastava». 

Ancora Gianni Letta: «Maurizio Costanzo è la televisione. Prima di altri ne ha capito l’enorme importanza. E ha saputo gestirne il potere come un sovrano intelligente e illuminato».  Poco dopo arriva il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, accolto dal sindaco Gualtieri. E l'ex premier Giuseppe Conte. Nel tardo pomeriggio arriva anche Valeria Marini, che davanti alla bara si mette gli occhiali scuri, scuote la testa e lascia la sala della Protomoteca. Ancora: il presidente del Coni Giovanni Malagò.

È il giorno della camera ardente. L’ omaggio di Roma a Maurizio Costanzo. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 25 Febbraio 2023

La camera ardente, è stata allestita e resterà aperta oggi e domani nella Sala della Protomoteca – con ingresso dal Portico del Vignola , dalle 10:30 alle 18:00 e domenica dalle 10:00 alle 18:00. I funerali si svolgeranno lunedì alle 15:00 nella Chiesa degli Artisti in piazza del Popolo a Roma.

Del suo ricovero lo sapevano in pochissimi. Ovviamente la famiglia, e qualche addetto ai lavori a lui molto vicino. Però che le condizioni di Maurizio Costanzo, potessero degenerare così, non se l’aspettava nessuno. Neanche Maria De Filippi, distrutta dal dolore, che andava a trovarla nella clinica Paideia dove era ricoverato la mattina prima di cominciare a lavorare e e sera, una volta finita la sua giornata lavorativa. Con amici e colleghi, il giornalista ha avuto contatti fino a giovedì, e lui si è addormentato per sempre venerdì mattina a 84 anni.

Camilla Costanzo, Saverio Costanzo ed il sindaco di Roma, Roberto Gualtieri

Questa mattina intorno alle 10 il feretro di Maurizio Costanzo, giornalista e conduttore televisivo, è arrivato in Campidoglio . Ad accoglierlo il sindaco di Roma, Roberto Gualtieri e due dei figli del giornalista, il regista Saverio Costanzo e la sceneggiatrice Camilla Costanzo. La camera ardente, è stata allestita e resterà aperta oggi e domani nella Sala della Protomoteca – con ingresso dal Portico del Vignola , dalle 10:30 alle 18:00 e domenica dalle 10:00 alle 18:00. I funerali si svolgeranno lunedì alle 15:00 nella Chiesa degli Artisti in piazza del Popolo a Roma.

Tra i primi ad arrivare Francesco Rutelli con la moglie Barbara Palombelli ed Emanuela Aureli. Insieme alla bara sono stati portati all’interno quattro vasi di rose bianche. In fondo alla sala, tra le corone quella di Roma Capitale e della Regione Lazio. “Lui ha aiutato milioni di italiani a capire e esplorare la vita. Nel suo modo spiritoso, sobrio, curioso, per capire cosa c’è dietro l’angolo” ha detto Francesco  Rutelli all’uscita della camera ardente. Da stamattina sono centinaia le persone in fila per rendere l’ultimo saluto a Maurizio Costanzo, gente comune, cittadini, famiglie con bambini che desiderano rendere omaggio al noto giornalista e conduttore. Tra i volti noti arrivati, anche Gianni Ippoliti, Mara Venier, Pierluigi Diaco, in lacrime. Presenti anche Rudy Zerbi, Ermete Realacci.

Passando da un’entrata laterale è arrivato Rosario Fiorello. Lo showman in segno di omaggio si è fermato in raccoglimento ponendo le mani ai due lati del feretro e insieme alla moglie Susanna si è fermato a lungo con familiari e amici del giornalista. Ricordi e aneddoti su Costanzo in un capannello composto da Fiorello, Saverio Costanzo, Valerio Mastrandea, il regista Valentino Tocco, Vincenzo Salemme. Poco distanti Rossella Brescia e Paola Barale.

Poco prima dell’una è arrivato Giovanni Floris. Si ferma un istante e commenta: “Maurizio era un uomo eccezionale, è un onore essergli stato amico”. Ed anche il neopresidente della Regione Lazio, Francesco Rocca, ha voluto ricordarlo commentando: “Per far capire chi era Maurizio Costanzo e cosa abbia rappresentato per tanti italiani, ricordo che quando ero molto giovane ogni volta che c’era la sua trasmissione mia nonna diceva: silenzio, c’è Maurizio. Solo il nome bastava“. Anche Gianni Letta gli ha reso omaggio: “Maurizio Costanzo è la televisione. Prima di altri ne ha capito l’enorme importanza. E ha saputo gestirne il potere come un sovrano intelligente e illuminato”.  

Alle 13  è arrivata alla camera ardente Maria De Filippi passando anche da un ingresso laterale. Con lei, il figlio adottivo della coppia, Gabriele, in lacrime, ed insieme si sono seduti in prima fila nei posti per parenti e amici. La conduttrice, completo e occhiali neri, ha parlato a lungo con il figlio per consolarlo, osservando anche il flusso di persone che arriva a rendere l’ultimo omaggio al marito.

Il premier Giorgia Meloni e Maria De Filippi hanno salutato Maurizio Costanzo e si sono fermate per alcuni secondi davanti al feretro. La Meloni è stata accolta dal sindaco di Roma Roberto Gualtieri e da Maria De Filippi e da suo figlio Gabriele. “Ci lascia una grande eredità. Un giornalismo capace di dialogare con tutti, capace di capire che la dimensione umana era molto importante. Aveva le sue idee, ma era una persona viva che cercava di capire tutti. E gli interessava moltissimo il carattere umano delle persone. Non ce ne sono moltissimi capaci di fare quello che ha fatto lui in questi anni – ha aggiunto -. È stato anche un grandissimo scopritore di talenti, una persona alla quale piaceva cercare di capire anche cosa potesse dire chi non aveva ancora grandi responsabilità“.

Sono legata a lui da ricordi molto antichi. – ha aggiunto la Meloni – Non posso dire che sono un talento che ha scoperto ma le mie primissime partecipazioni televisive sono al Maurizio Costanzo Show . Parliamo di tantissimi anni fa. Io quando rivedo quei video, che lui puntualmente mi faceva rivedere ogni volta che mi intervistava di recente, gli dicevo: “Ti prego non farlo“. Avevo 17 anni. Maurizio Costanzo ha attraversato tanta parte della nostra storia nazionale che sapeva raccontare con il suo chiaro punto di vista sulle vicende. Perdiamo un grande giornalista”, ha concluso.Sono state le parole commosse del presidente del Consiglio Giorgia Meloni all’uscita dalla camera ardente.

Anche il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano è arrivato alla camera ardente allestita in Campidoglio per rendere omaggio a Maurizio Costanzo. “Quando è nato “Tg2 Post” ho chiamato Maurizio Costanzo per avere le sue impressioni. Era un maestro di televisione e mi ha dato dei consigli molto affettuosi e amichevoli che ho apprezzato grandemente. Credo che abbia lasciato un segno importante nel giornalismo e nella televisione italiana e anche per questo, d’intesa con Palazzo Chigi, abbiamo deciso di proclamare i funerali in forma solenne“.

Maurizio Costanzo è stato un gigante della storia della televisione, della cultura, del giornalismo italiano. L’omaggio oggi dei romani, delle romane, degli italiani è commovente” ha dichiarato il sindaco di Roma Roberto Gualtieri prima di lasciare la Camera ardente di Costanzo allestita in Campidoglio.

Ricordo quando Maurizio ospitò la squadra dopo la vittoria dello scudetto al Teatro Parioli. Da lì è nato un bellissimo rapporto di amicizia. Era un uomo carismatico, estremamente intelligente, ironico. Scherzavamo molto sulle vicende della Roma. Il giocatore più importante è stato sicuramente Francesco Totti“. Lo ha detto Rosella Sensi, ex presidente del club giallorosso e figlia di Franco Sensi, arrivata in Campidoglio per l’ultimo saluto a Maurizio Costanzo.  Redazione CdG 1947

Da ansa.it il 26 febbraio 2023.

Sono ancora tantissime le persone che vogliono dire addio a Maurizio Costanzo nella seconda giornata di apertura della camera ardente nella sala della Protomoteca in Campidoglio che ha aperto alle 10 e chiuderà alle 18.

Tra i prima ad arrivare stamani Nicola Zingaretti. "C'è sempre stato da parte sua l'impegno civile per Roma, la sua curiosità e non smetterò mai di ringraziarlo per i suoi consigli. Per tutti noi è come se fosse parte del nostro appartamento.

Costanzo c'è da sempre" ha detto  l'ex presidente della Regione Lazio. "Nella mia vicenda politica lui è sempre stato, distante, autonomo come doveva essere - ha aggiunto - ma al tempo stesso presente per dare un consiglio.

Sono convinto lo facesse per il suo amore per Roma, una città a cui ha dato tanto da uomo curioso e creativo".

 "La prima cosa che mi viene in mente con lui sono le belle chiacchierate. Io sono stata spesso sua ospite in radio e in tv, mi sembrava doveroso essere qua". Lo dice Veronica Pivetti arrivata in sala della Protomoteca in Campidoglio. "Era un fan de La Prof, mi diceva sempre che gli piaceva quella fiction e mi chiedeva perché non la rifacessi, io scherzando rispondevo di non dirlo a me ma alla Rai... Era un gioco fra di noi. Ho un ricordo molto bello di Maurizio".

"Nei programmi di Maurizio Costanzo anche "dopo 30 anni vedi qualcosa che è sempre attuale. Per me è stato soprattutto un amico. Ho cominciato a lavorarci a fianco da direttore del nascente telegiornale (di Canale 5) e quando hai quell'occasione storica te la giochi per quello che sai. Nella sua esposizione pubblica ha sempre valorizzato gli altri e giocato di squadra". Lo dice Enrico Mentana in Campidoglio.

"In questa tv rimane tutto di lui, è stato la televisione. Mi ricordo anche quando da adolescente guardavo Bontà loro - ha aggiunto - dove lui iniziava aprendo le finestre, come se la televisione avesse aperto la finestra sulla realtà. Non però nel senso populista del termine, perché entravano persone notevoli, ciascuna nel suo campo e questo portava una ventata di novità". Era "il talk nella sua espressione un po' salottiera ma anche molto contenutistica.

 Lui ha continuato a far questo con la forza di uno che sa tenere la lunghezza d'onda. Il suo insegnamento è proprio questo, saper prendere la lunghezza d'onda degli interessi, le curiosità, le passioni, a volte anche delle morbosità". Mentana ha incontrato per la prima volta Costanzo nell'87-88 a Venezia, "dove teneva il filo delle conferenze alla Mostra del cinema. Nel 1991 sono passato a Mediaset e lui è sempre stato per me un fratello maggiore, più che maestro. In 18 anni sono mille cose fatte insieme... I ricordi però li tengo per me".

"Per me è stato come un padre. Facevo già degli spettacoli a Roma, un giorno vidi che c'era Iacchetti in platea e un mese dopo mi chiamò Maurizio Costanzo. Ho praticamente vissuto con lui nove anni al Parioli, era casa. Ci facevo i miei spettacoli oltre al Costanzo Show, ho avuto anche la possibilità di esserne direttore artistico, di scrivere con Enrico Vaime". Lo ricorda uno dei talenti lanciati dal giornalista, Antonio Giuliani, all'uscita della camera ardente per Maurizio Costanzo in sala della Protomoteca in Campidoglio. "Maurizio mi trattava come un figlio - ha aggiunto -. E pensare che la prima volta con lui feci una battuta stupida. Dopo qualche anno mi disse che quella volta dopo che ero andato via aveva riso per 20 minuti. Se sto qui è grazie a lui".

Fabrizio Corona. Estratto dell'articolo da lastampa.it il 26 febbraio 2023.

Un tatuaggio sul collo per ricordare Maurizio Costanzo, il suo «maestro». [...]

 «Era il 2006 quando per la prima volta venni invitato nel più importante talk show televisivo italiano del momento, il Maurizio Costanzo show. Fino ad allora ero un giovane imprenditore con tanti sogni da realizzare. Era il periodo di Vallettopoli e avevo scritto su questo caso il mio primo libro. Posso affermare con assoluta certezza che tante delle mie fortune sono iniziate dopo che l'Italia mi ha conosciuto grazie all'opportunità che mi ha dato Maurizio».

«Nei periodi più difficili della mia vita – aggiunge – mi è sempre stato vicino, una delle poche persone che hanno creduto in me come uomo, uno dei pochi che ha saputo vedere il vero Fabrizio. Maurizio ha sempre supportato le mie cause come un padre, un amico un fratello. Tra noi grande stima ed affetto. Considero Maurizio un gigante del suo mestiere, per me un maestro è in suo onore la dedica di un tatuaggio che porterò per sempre sulla mia pelle: “Maurizio maestro mio”. Grazie per quello che hai fatto per me e per aver dato una coscienza critica a questo Paese. Per sempre nel mio cuore, fai buon viaggio Maestro».

Da repubblica.it il 26 febbraio 2023.

Secondo giorno di camera ardente per Maurizio Costanzo.  Una compostissima Maria De Filippi, davanti al feretro del marito, accoglie e stringe la mano a tutti coloro che arrivano a rendergli omaggio. Ma c'è chi si spinge ben oltre chiedendo un selfie alla vedova, proprio davanti alla bara. Lei non si ritrae.

Alla camera ardente di Costanzo chiedono selfie a Maria De Filippi: bufera social. Chiara Maffioletti su Il Corriere della Sera il 26 Febbraio 2023.

Maria De Filippi è stata presente anche nel secondo giorno alla camera ardente del marito, ma alcune persone arrivate per salutare Costanzo le hanno chiesto di scattare assieme una foto, scatenando le polemiche social

Protetta dai suoi grandi occhiali scuri, Maria De Filippi è stata anche oggi alla camera ardente del marito. Ha stretto le mani alle tantissime persone che, senza sosta, hanno voluto fare un ultimo saluto a Maurizio Costanzo.

Personaggi noti — molti — ma anche un mare di gente comune, unita dall’impressione che il grande giornalista fosse in parte anche una persona di famiglia, della famiglia di ognuno.

Lui, che aveva fatto dell’attenzione al prossimo la sua firma, probabilmente di questo sarebbe stato felice, e bisogna forse ripensare a questo suo insegnamento per capire dove sua moglie abbia trovato la forza, in queste ore, di abbozzare un timido sorriso e prestarsi perfino a fare una foto assieme a chi, anche in quel luogo, in quel momento, non si è sentito inopportuno nel chiederle un selfie.

Il commento di Rita Dalla Chiesa

Un gesto duramente criticato sui social, che dei selfie sono il regno.

Tutti hanno espresso grande solidarietà a De Filippi, apprezzando la dignità e la signorilità di chi riesce a comprendere gli altri perfino nel momento in cui dovrebbe accadere naturalmente il contrario.

«Questa è la faccia di chi ha voluto farsi un selfie con Maria… Chi lo riconosce lo eviti. Per sempre», ha scritto su Twitter Rita Dalla Chiesa: ma il suo è solo uno dei moltissimi commenti che hanno stigmatizzato chi, anche di fronte al lutto, non ha esitato a chiedere l’inchiedibile.

«Ma siete cresciuti come bestie per chiedere un selfie a Maria de Filippi in queste circostanze. Nella camera ardente, davanti alla bara di suo marito. Follia», dice uno dei tanti commenti che hanno reso queste richieste un caso.

Estratto da leggo.it il 2 marzo 2023.

Un selfie può cambiarti la vita in peggio. E' successo all'uomo che ha chiesto e ottenuto una foto a Maria De Filippi durante la camera ardente del marito Maurizio Costanzo. Tutta Italia si è scagliata contro il protagonista di questo episodio che, dopo la pioggia di insulti e critiche che lo hanno travolto, ha deciso di abbandonare i social. Lo racconta il Corriere della Sera.

Il protagonista dell'ormai nota vicenda è emiliano, più precisamente reggiano di Boretto, un paese della Bassa, ed è stato riconosciuto da diversi compaesani dopo aver postato sui social il selfie incriminato. 

 (...)

Un'altra descrizione è stata affidata a Facebook da Michele Dalai, amministratore delegato della squadra parmense Zebre Rugby, che ha viaggiato sulla stessa carrozza ferroviaria del reggiano.

«Sono in treno con il tizio che si è fotografato con Maria De Filippi - si legge nel post di due giorni fa -. Lo so perché continua a parlarne al telefono tra un ‘voglio morire’, un ‘non mangio più’ e una risata. Gli hanno anche proposto di monetizzare il fattaccio. Ha messo una mascherina chirurgica per non farsi riconoscere. In due ore di viaggio ha affrontato mille temi e fatto seimila ipotesi sulle cose mirabolanti che potrebbero accadergli, per esempio grazie a un suo amico dirigente delle Poste sa che non deve rispondere a domande di Striscia la Notizia né a quelle delle Iene. In tutto ciò nemmeno per un secondo ha detto di aver fatto una stronzata. Non una volta. Ora però dice che non ha mai avuto tante visualizzazioni».

Il selfie con De Filippi? Chi s’indigna non ha capito Costanzo...Molto più violenta e sacrilega di un “selfie” è l’indignazione di un branco rapace che pretende di insegnare ai parenti del morto in che modo devono soffrire. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 27 febbraio 2023

Stavolta il tribunaletto ambulante dell’indignazione si è spostato nella camera ardente del Campidoglio, puntando il dito contro Maria De Filippi, vedova di Maurizio Costanzo.

È ritenuta colpevole di aver concesso un “selfie” a un suo giovane fan davanti alla bara del marito. E invece di mandarlo a quel paese, come avrebbe voluto il coro degli indignados, De Filippi ha ritenuto accettabile soddisfare quella richiesta. Si tratta di un gesto perfettamente congruo con la dimensione pubblica della conduttrice che è intrecciata in ogni sua fibra con la sua vita privata e nel “familismo” con cui, da oltre un quarto di secolo, coltiva il rapporto con la sua fanbase.

Intere generazioni sono nate in quell’immaginario, nella giostra di Amici e Uomini e donne, dove si muove un esercito di aspiranti star e starlette, bellimbusti, ballerini, cantanti neomelodici, fidanzati cornuti e di massaie dal robusto buon senso, una factory nazionalpopolare in servizio permanente, intrisa di giovanilismo e pubblicità (in senso etimologico).

In quel mondo un “selfie” con la vedova non suona come il titolo di un volgare cinepanettone ma è un gesto normale. Se il cosiddetto popolo del web lo ritiene un atto osceno, immorale, o si sente autorizzato nel mettere alla gogna lo sprovveduto fan come ha fatto la povera Rita Dalla Chiesa, o persino a sdottoreggiare su quanto “siamo caduti in basso” con le solite banalità sulla società dell’immagine e “la perdita dei valori” e bla, bla, bla, quello è un problema e una proiezione tutta sua.

Molto più violenta e sacrilega di un “selfie” però: è l’indignazione di un branco rapace e mitomane, che pretende di insegnare ai parenti del morto in che modo devono soffrire o possono esprimere il proprio dolore, che dà lezioni di morale a colpi di linciaggi. L’empatia verso Maria De Filippi e i familiari di Costanzo non c’entra davvero nulla, altrimenti avrebbero fatto quello che esigono dagli altri: rimanere zitti e buoni.

Selfie col morto. Cosa spinge una persona a chiedere una foto a funerale? E la celebrità a concederla? Egidio Lorito su Panorama il 03 Marzo 2023

Mauro Magatti, sociologo, prova a ragionare sull'ultima moda e sull'immagine della camera ardente di Maurizio Costanzo che ha diviso anche il web

Dopo gli scatti chiesti da alcuni fan a Maria De Filippi, praticamente davanti al feretro del marito Maurizio Costanzo durante il secondo giorno della camera ardente in Campidoglio, non si placano sdegno e polemiche per comportamenti diventati una prassi all’indomani della morte di celebrità dello spettacolo e dello sport. «Che si tratti di classe scolastica, di uno stadio, di una camera mortuaria, aumentiamo la nostra ansia di apparire»: Panorama.it ha incontrato il sociologo della Cattolica di Milano Mauro Magatti per cercare di capire senso e degenerazione di un comportamento che non sembra conoscere limiti. Neanche innanzi ad un cadavere appena ricomposto nella bara.

Professor Magatti, il “selfie con il morto” è l’ultima frontiera dell’invasività dei social media.

«Questa prassi - perché tale sembra essere diventata la posa fotografica anche durante i funerali di celebrità - appare una delle tante espressioni della cultura contemporanea nelle quali non si riescono più a porre limiti e a distinguere le diverse situazioni in cui ciascuno si trova calato. Che sia durante un funerale o sul luogo di un raccapricciante fatto di cronaca, non possiamo non registrare come l’Io sia arrivato alla fase di voler immortalare semplicemente il momento che passa: un tentativo un po' goffo di rendere indelebile ciò che è fuggitivo. Naturalmente, alla fine, si è trattato dell’occasione di essersi trovati “anima e corpo” in un momento che andava vissuto profondamente».

Siamo al teatro dell’horror? Ad un punto di non ritorno?

«I comportamenti inopportuni ci sono sempre stati, oggi capita soltanto che a riprenderli ci siano telecamere ed obiettivi che ne amplificano la portata. Semmai il tema di fondo su cui riflettere profondamente è la totale assenza dell’educazione: tutti gli strumenti tecnologici, come il cellulare, necessitano che le persone siano educate al loro uso, nelle situazioni normali come in quelle “borderline” , come trovarsi ad una funzione funebre. Ma il tema, a mio parere, è un altro…».

Quale, professore?

«La partecipazione, personale e collettiva, ad un momento così decisivo nella vita di ciascuno come la morte, che elaboriamo proprio recandoci a portare al defunto il nostro ultimo saluto, soprattutto se il “de cuius” è stato in vita una celebrità del mondo dello spettacolo, dello sport, della politica, nel quale ci siamo forse anche identificati. E’ chiaro che la visibilità mediatica elevata non fa altro che amplificare sia il senso di dolore per la scomparsa, che la nostra stessa voglia di esorcizzare la morte come aspetto connaturale della nostra esistenza. Certo, i comportamenti poco consoni lasciano l’amaro in bocca».

Partecipare al dolore altrui è un comportamento antropologico…

«Recarsi al funerale della Regina d’Inghilterra, di Gianluca Vialli o di Maurizio Costanzo significa riprodurre schemi cristallizzati nel tempo: da sempre nelle nostre città o nei piccoli centri si va al funerale, anche di persone che si conoscevano solo di vista. Gli eventi di questi ultimi giorni, ovviamente, ci hanno spinto a guardare queste manifestazioni popolari, con tanto di selfie, con uno sguardo severo che non andrebbe utilizzato, perché alla fine, si tratta i tentativi poco consoni di esprimere un’esigenza profonda».

Passiamo all’antropologia: emerge il bisogno di esorcizzare la morte?

«Dobbiamo distinguere: la partecipazione collettiva al dolore, anche per la scomparsa di una persona mediaticamente nota, rimane pur sempre un nobile atto di pietà, con il funerale trasformato in rituale laico collettivo. Quando, invece, all’interno di questa manifestazione si sviluppa un comportamento del tutto inappropriato, come il farsi riprendere accanto la bara, ad esempio vicino alla vedova, si perde quella naturale ritualizzazione, finendo per non capire realmente il senso della cerimonia cui si sta partecipando».

Una sorta di uso improprio della ritualizzazione?

«Si vorrebbe sfruttare il funerale di una celebrity per ottenere una foto da conservare o, nella peggiore delle ipotesi, da pubblicare come trofeo sul profilo del proprio social network».

Cosa si nasconde dietro la smania di apparire sui social o di avvicinare le persone famose anche nelle situazioni meno appropriate, come un funerale?

«Sicuramente la nostra sete di apparire. La nostra società contemporanea è diventata veloce e immediata, nella quale le relazioni appaiono instabili o anche evanescenti, per cui ognuno di noi - nel “quarto d’ora di celebrità” di Woody Allen - va alla ricerca di una foto cimelio da pubblicare su Facebook o Instagram. Così si prova la sensazione, aggrappandoci alla notorietà della persona scomparsa, di dare lustro, valore e senso ad una vita invece condannata, in qualche caso, nella spirale dell’irrilevanza».

Tornando al funerale di Maurizio Costanzo, ha colpito l’atteggiamento della moglie Maria De Filippi, dimostratasi apparentemente molto disponibile, accettando di farsi immortalare accanto a due fans.

«Eh, bisognerebbe chiederlo alla De Filippi. Sono convinto, visto che per il suo spessore mediatico non ha certo bisogno di una foto in più sui social, che il suo comportamento in quel frangente debba essere letto nel senso di dare comunque valore al rapporto con i propri fans anche nel momento del dolore. Una situazione analoga a quella che si verifica nei contesti “ordinari” , quando durante un funerale arriva un parente che non si vede da tempo, e lo si abbraccia come se nulla fosse».

L’uomo che ha osato chiedere un selfie con la De Filippi pare sia scomparso da tutti i profili social. Anche i social network soggiacciono alla dura legge del “contrappasso”?

«Anche con la complicità della De Filippi, quel fan si è esposto al giudizio del popolo dei social media: forse si sarà vergognato, sopraffatto dall’implacabile tribunale dell’opinione pubblica e ha dovuto piegare verso un ritiro della sua immagine social, prima di divenire oggetto di attacchi pubblici di ogni sorta».

Lei è un sociologo, forse occorrerebbe uno psicologo…

«Mah, stiamo parlando del piano dei comportamenti sociali e non di quelli personali deviati, per cui il sociologo è la figura adatta. In realtà mi viene da sottolineare che quello del “selfie con il morto” sia, alla fine, uno dei tanti aspetti della società contemporanea: viviamo con la sensazione che con i social siamo legittimati ad ogni comportamento, senza distinguere una classe scolastica da uno stadio, una camera mortuaria da un seguìto programma del palinsesto televisivo. Mettendo tutto sullo stesso piano, aumentiamo la nostra ansia di apparire…».

Mauro Magatti, milanese, classe 1960, è ordinario di sociologia all’Università Cattolica di Milano di cui è stato preside di facoltà. Sociologo ed economista, dirige il Centro di Ricerca ARC (Centre for the Anthropology of Religion and Cultural Change) ed è editorialista del Corriere della Sera e di Avvenire. È membro dell’Editorial Board dell’International Journal of Political Anthropology, del Comitato Scientifico di Sociologica e del Comitato di redazione di Studi di Sociologia e Aggiornamenti Sociali. L’ultimo saggio, Supersocietà. Ha ancora senso scommettere sulla libertà? -scritto a due mani con la collega e moglie Chiara Giacccardi, (Il Mulino 2022) - è una serrata analisi sul definitivo tramonto della stagione della globalizzazione.

A corto di superiorità morale. I poricristi del selfie con la bara famosa e noi che ci sentiamo forti coi deboli. Quello che si è fatto la foto con Maria De Filippi al funerale di Costanzo è diventato subito una foto segnaletica sui social. Guia Soncini su L’Inkiesta il 2 Marzo 2023

Molti anni fa morì un tizio con cui avevo intrattenuto dei commerci carnali. Ci eravamo persi di vista da un pezzo, ma non mi venne neanche in mente di non andare al suo funerale.

Ero giovane, e avevo pochissima esperienza di amori che ti muoiono, e di certo non sapevo che tutti gli esseri umani, pure quelli più sensibili, arrivano a un punto della vita in cui una persona cara che ti muore è un dolore ordinario.

Andai al funerale, che era all’inizio di gennaio, a Roma che come tutti sappiamo è Roma: un posto i cui abitanti hanno deciso di non potersi permettere alcuna sensibilità. Alla me ventiequalcosenne, assistendo allo spettacolo della borghesia romana che tratta un funerale come fosse un brunch, prese un colpo.

Certo che c’era anche gente straziata, singhiozzante, o anche solo contrita; ma la più parte era gente che era lì perché era il modo più rapido di raccontarsi le vacanze: com’era Cortina, com’erano le Maldive, ma non sai con chi scopa Tizia, Caio si sta separando. Ricordo ancora la mia indignazione.

Ci ho ripensato in questi giorni che abbiamo – noialtri che prendiamo parte alla conversazione collettiva – trascorso a processare i poricristi che, alla camera ardente per Maurizio Costanzo, hanno fatto ciò che fanno i poricristi di provincia che conducono vite di tranquilla disperazione: hanno chiesto un autoscatto a Maria De Filippi.

C’è stato chi ha ingrandito la foto del porocristo ripreso dalle telecamere e l’ha messa sui social come fosse una foto segnaletica: guardatelo, questo schifoso che non ha rispetto dei morti. Ci sono stati gli aspiranti sociologi – una pletora – che ci hanno spiegato che d’altra parte questa è l’umanità che è stata creata dalla De Filippi, e l’autoscatto davanti alla bara del marito è un contrappasso (avevano l’aria di sentirsi intelligentissimi, mentre affermavano questa imbarazzante stronzata).

C’è stata anche la variante in difesa di Maria De Filippi (da quanti sostenevano fosse lei a doversi sottrarre ai cercatori d’autoscatti), variante che parlava della vedova incapacitata giacché il lutto è shock e trauma: e cosa c’era sotto ognuno di questi post? Decine di uh, sì, quando è morta mia madre io ho fatto questa cosa assurda, io ho dimenticato quella cosa importante, io Costanzo è morto e io non bisogna chiedere autoscatti però io e per favore parliamo di io.

Poi è arrivato il funerale. Il funerale di Maurizio Costanzo, con la diretta televisiva, tutte le celebrità nelle panche della chiesa, e prima l’immaginabile traffico delle indulgenze delle soubrette decadute che elemosinavano un invito, e dopo i prevedibili articoli sullo share. La versione all’ennesima potenza di quel funerale altrettanto romano ma un pochino meno di famosi al quale ero andata da giovane. 

E noialtre ce lo siamo guardato in televisione, in diretta come fosse Sanremo: uh guarda c’è Eleonora Giorgi, uh c’è Montezemolo che saluta la vedova, cosa le dirà, uh Luxuria che fa la comunione, uh c’è più gente che panche e Bonolis è rimasto in piedi, uh la De Filippi s’è seduta vicino a Piersilvio, uh guarda Piersilvio che montatura di occhiali da benzinaio, uh Lele Mora in fila per la comunione dietro a Giancarlo Leone, che fantastico soggetto di Fellini.

E loro, loro così fortunati da avere un invito a quell’evento mondano che è un funerale romano, si sono instagrammati nella loro brava inquadratura funeralizia così come avrebbero fatto a una qualunque prima di cinema. Non tutti, è chiaro: anche lì c’era di certo gente autenticamente addolorata che a quel funerale elaborava il lutto, in mezzo a gente per cui era una cena in piedi senza canapé.

Giacché la differenza tra la gente che piace e la gente che si dispera è che il primo gruppo ha i numeri giusti in rubrica, non ha bisogno di chiedere l’autoscatto davanti alla bara per esistere: ha bisogno che l’assistente di Costanzo le conceda un posto in chiesa.

Pensare che la gente dentro la chiesa sia spiritualmente diversa da quella che aspetta fuori con la telecamera del telefono pronta svela una certa imbecillità. Credere che ci sia gente orrenda e incapace di guardare Uomini e donne con distacco ironico, e separati da apposite transenne ci siamo noialtri dell’alta società che abbiamo sobrio rispetto del dolore, è, oltre che classista, ottuso: tutti vogliono esistere, ma la disperazione di alcuni è meno scomposta.

Nel fermoimmagine più condiviso sui social, quello del porocristo che sorride al telefono di fianco a Maria De Filippi paziente e composta, di fianco a una vedova in occhiali neri e consapevolezza che in quel momento sta accontentando un disgraziato senz’altre soddisfazioni, in quel fermoimmagine lì c’è, pochi metri più in là, un tizio che di mestiere pubblica cattiverie sui famosi. Quel tizio era alla camera ardente perché è sensibile e addolorato, o per osservare l’antropologia del luogo e poi raccontare a cena o nel suo serbatoio kitsch di osservazioni sulla romanità chi avesse una calza smagliata e chi una faccia nuova, ahò quella ma non sai quanto s’è rifatta? E altri tizi che erano al funerale ma mai sarebbero andati al Costanzo Show di quando la sua dominazione televisiva era bella che finita, loro erano più sensibili della Vongola75 che chiede «Maria, che ce la possiamo fare una foto?» – o siamo noi che non sappiamo sfuggire al riflesso pavloviano di sentirci migliori di fronte al niente?

Riusciamo, una volta, a essere meno compiaciuti nel nostro essere forti coi deboli? A non accanirci sempre e solo sui disgraziati, siano questi disgraziati il tizio senza alcun potere personale che dal funerale del famoso vuole solo autoscatti coi famosi ancora vivi, o il poveraccio che dice che gli piace Baudelaire per darsi un tono ma poi non sa neanche un titolo di poesia, o qualunque altra vittima della nostra facile superiorità? Riusciamo a non mettere su il tono delle ragazze in visita al campo di concentramento, quelle alle quali, in “Serge”, Yasmina Reza fa dire «Le tracce delle unghie sulle pareti sono qualcosa di indicibile», «Le tracce sulle pareti sono qualcosa di terribile, vero?», «Terribile» – riusciamo?

Forse no. Forse siamo anche noi dei poricristi che s’illudono di sembrare brave persone dicendo che i campi di concentramento sono una cosa proprio brutta, forse siamo così a corto di superiorità morale che riusciamo a esercitarla solo sull’ultimo anello della catena alimentare: quelli il cui picco di felicità, in mezzo a giornate di tranquilla disperazione, è l’autoscatto con la bara famosa.

"Mi chiese di non pubblicizzare il suo aiuto". “Maurizio Costanzo mi salvò la vita”, il ricordo ai funerali: “Ero tra il pubblico, mi pagò hotel e trovò un medico in sala”. Redazione su Il riformista il 27 Febbraio 2023

Era tra le centinaia di persone radunatesi oggi all’esterno della Chiesa degli Artisti a piazza del Popolo per l’ultimo saluto a Maurizio Costanzo, il giornalista e conduttore televisivo scomparso a 84 anni. Antonio Buoninconti, 61 anni, non è voluto mancare ai funerali dell’uomo che – a detta sua- gli salvò la vita negli anni ’80 dopo aver ascoltato il suo appello proprio durante il “Maurizio Costanzo Show“, la cui sigla ha accolto quest’oggi l’uscita della bara dalla chiesa.

A raccontare la storia di Buoninconti, napoletano di origini, è il quotidiano Repubblica con l’inviata Romina Marceca che ha intercettato l’uomo all’esterno della Chiesa degli Artisti, visibilmente commosso.

A quell’uomo io devo la vita. Era il 1984 quando – ricorda il 61enne – ero tra il pubblico del Maurizio Costanzo Show e mi alzai in piedi in piena trasmissione. Gli raccontai la mia storia. Avevo bisogno di un intervento al cervello per un tumore ma non avevo i soldi e lui mi ascoltò”.

Costanzo a fine trasmissione “mi mise in contatto con un chirurgo che si mise a disposizione, anche lui era nel pubblico come me quella sera. Mi operò poche settimane dopo al San Filippo Neri. Io facevo su e giù da Napoli. Costanzo mi ha pagato l’hotel e mi regalò 500 mila lire“. Quella sera però lo stesso Costanzo pregò l’uomo di non pubblicizzare il suo aiuto.

L’intervento andò bene e da allora – ricorda Buoninconti – non ha più avuto problemi di salute.

Estratto da liberoquotidiano.it il 27 febbraio 2023.

Corre lo sdegno sui social e non solo per i selfie chiesti da alcuni fan a Maria De Filippi, davanti al feretro del marito Maurizio Costanzo durante il secondo giorno della camera ardente in Campidoglio. La conduttrice, a un certo punto della giornata, ha voluto ringraziare di persona, con una stretta di mano, le tantissime persone che per due giorni hanno fatto lunghe file per poter entrare nella Sala della Protomoteca e dare un ultimo saluto al giornalista scomparso venerdì 24 febbraio a 84 anni. Ma alcuni, dopo la stretta di mano, hanno estratto il cellulare dalla tasca per scattare un selfie con lei.

 Un gesto che ha indignato molti tanto che molti vip hanno espresso solidarietà a Maria De Filippi. Tra le più dure, Rita Dalla Chiesa, che ha postato la foto di un signore che si faceva il selfie con la De Filippi, e ha commentato: "Questa è la faccia di chi ha voluto farsi un selfie con Maria… Chi lo riconosce lo eviti. Per sempre".

Durissima anche Selvaggia Lucarelli: "Il selfie con la vedova famosa. Non perdo neppure tempo a dire qualcosa su quella gente perché ci somiglia più di quanto crediamo, ma penso a Maria De Filippi e all'enorme sforzo di dare a chi chiede con violenza, in quelle ore in cui hai dato fondo anche alle riserve. Per me era un vaffan*** al primo telefono che vedevo". E Sabrina Ferilli aggiunge: "Minimo… Perché se a casa non ti hanno insegnato l’educazione non credo te la possa insegnare io… Ma ti farei capire che non si fa". 

 (...)

Il Funerale.

Estratto dell’articolo di Marcello Veneziani per “La Verità” il 3 marzo 2023.

Ogni volta che muore un Vip osannato dal mainstream, sembra che sia morto il più grande uomo di tutti i tempi. […] Così sta succedendo a Maurizio Costanzo […] Il salotto di Costanzo nacque quando la tv non era a colori, quando c’erano ancora l’Urss, la Dc e il Pci e non c’era ancora il telefonino. Sopravvisse a quelle mutazioni, e si protrasse per alcuni decenni, con uno strascico fin quasi ai nostri giorni ma diventò la testimonianza di un mondo trascorso.

[…] Un salotto affacciato su una platea di guardoni. Finiva l’era furente del «tutto è politica» e si scopriva il privato, gli individui, i gusti e i disgusti. Il Maurizio Costanzo Show traghettò dal pubblico al privato, anzi rese pubblico il privato. Promosse il soggettivismo di massa. Era un salotto, un circolo, un caffè ma usava il modello cattolico della confessione. Quando Costanzo si spostava col suo trespolo e parlava a turno coi suoi ospiti, usando un tono confidenziale, per carpire confessioni e segreti, praticava in senso laico e «libertino» la confessione (e un po’ la seduta psicanalitica).

Con la variante che lasciava spazio per qualche intromissione degli altri ospiti, a volte pilotati e fomentati da lui, in modo da intrecciare il pubblico col privato, l’intimo col conviviale e vivacizzare con le rivalità il coming out. Furono prove tecniche di narcisismo interattivo. Così nacque il talk show in tv. Oggi se dici talk show pensi a programmi con una caratterizzazione prevalentemente politica. Al tempo, invece, uscivamo dall’era ideologica e panpolitica degli anni Settanta; nel salotto di Costanzo anche il politico veniva risucchiato dal lato umano, a volte intimo e perfino giocoso.

[…] Il talk show come lo costruì Costanzo […] rispondeva a un preciso stadio della società, dopo il Sessantotto, prima dei social. In quel tempo si chiamava riflusso, riscoperta del privato, teneva a battesimo il nascente egocentrismo di massa, l’interazione tra Vip e gente comune, il contrasto tra modelli di vita «emancipati» e altri ritenuti «coatti», «antiquati». Era la fiera degli stravaganti, di chi dava spettacolo di sé o accettava il ruolo di galletto nella sfida in video allestita da Costanzo, che si fingeva paciere ma era il sobillatore. Era, però, ancora il tempo della conversazione. Ora c’è, al più, esibizione del privato, denudamento dell’io e del tu, fiera dei sentimenti e dei risentimenti; ma non c’è più civiltà della conversazione […]

[…] Per […] quasi un trentennio, Maurizio Costanzo è stato il principale influencer dei costumi della nostra società. […] La piazza d’Italia si era trasferita nel video salotto; il messaggio prevalente che lui veicolava ogni sera era di tipo radicale, permissivo e vagamente progressista a uso domestico e ludico; a volte con qualche tratto umanitario.

 Il suo show modificava in pubblico la vita privata degli italiani, conformandola ai nuovi canoni e luoghi comuni di una società scristianizzata, più global, più edonista; in versione pop, romanesca e neoborghese […]Le prime prove tecniche di omotransgender passarono in video dal suo salotto. Costanzo fu un ibrido tra Pannella e sora Lella, la sorella di Aldo Fabrizi. Detestavo in modo particolare una sua massima che ripeteva spesso: la coerenza (o la fedeltà) è la virtù degli imbecilli. Così allevò generazioni di imbecilli incoerenti, fluidi e infedeli.

Certo, fu un grande impresario di tv, un potente […] un intervistatore brillante, scopritore di talenti, squinzie e stravaganti, autore prolifico, grande animatore radiofonico. […] Invecchiò precocemente, fu lungo il suo declino, fisico e lessicale. Fu il baffo più vistoso della tv e il collo più nascosto del video. Il suo salotto finì quando la conversazione si trasferì nel display di un telefonino o di un pc. Se telefonando segnò il suo inizio, il telefonino segnò la sua fine.

Costanzo, quando i funerali dei personaggi tv diventano una liturgia mediale. Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 27 Febbraio 2023

Non succede in altri Paesi dove la solennità è riservata a reali, a governanti, a figure eminenti

Canale 5, con la conduzione di Silvia Toffanin e Rai1, con Serena Bortone (e con Francesco Rutelli) hanno trasmesso in diretta i funerali solenni di Maurizio Costanzo «alla presenza di molti vip e della gente comune». Da un po’ di anni, le esequie dei personaggi televisivi più noti stanno diventando una sorta di funerali di Stato. Non succede in altri Paesi dove la solennità è riservata a reali, a governanti, a figure eminenti. Da noi, spesso il funerale diventa una liturgia mediale, la continuazione di un programma, come se la tv fosse l’unica istituzione che ci richiama ancora al rito, al simbolo, alla cerimonia. La tv è soprattutto consuetudine, essa stessa è una presenza quotidiana, più che una «finestra sul mondo» un ospite fisso che racconta quel che succede nel mondo.

Ci sono poi programmi, come i talk show, che sembrano fatti apposta per accentuare questo carattere confidenziale. Si reggono infatti su tre pilastri: la «prossimità», attraverso cui la complessità del quotidiano trova attraverso la parola una dimensione quotidiana, quasi famigliare; la «convivialità», cioè l’insistenza retorica sul valore dello stare insieme, del partecipare; la «ripetizione», la più sobria e pacata legge della comunicazione. Nulla, infatti, rende più felice lo spettatore dell’«ancora una volta». Non dobbiamo stupirci se un programma incontra il favore del pubblico all’ennesima replica. Ogni esperienza televisiva desidera insaziabilmente la ripetizione e il ritorno, il ripristino di una situazione originaria da cui ha preso le mosse. Per questo i conduttori diventano figure di riferimento, «padri della patria», confidenti, membri della famiglia. Le persone che inopportunamente sono andate a chiedere un selfie a Maria De Filippi hanno chiesto un favore a un’amica, a una persona considerata tale. Ecco cosa c’era dietro l’angolo.

I funerali di Maurizio Costanzo, la figlia Camilla: «Papà, farai un talk in Paradiso». Edoardo Sassi su Il Corriere della Sera il 28 Febbraio 2023

Piazza gremita, omaggio del mondo della tv e del cinema da Amadeus a Sorrentino. Lacrime di Maria De Filippi, Gerry Scotti legge la Preghiera degli Artisti

«Papino, ti immaginiamo in Paradiso che organizzi un grande talk show. Ora sei per mano a Sordi e Gassman. A noi lasci un’eredità importante, l’umiltà. Non ti saresti mai aspettato una così grande manifestazione di affetto. Avresti detto: ma ti rendi conto? Tutto questo per me»: le parole commosse della figlia Camilla, seguite dalla lettura della Preghiera degli Artisti da parte di Gerry Scotti, hanno chiuso il funerale di Maurizio Costanzo, ieri nella chiesa degli Artisti di Piazza del Popolo a Roma.

Una piazza già gremita due ore prima dell’inizio delle esequie. Folla fuori, dietro le transenne e con maxischermi. E folla dentro, con tantissimi volti noti della televisione, dello spettacolo, dell’imprenditoria, molti costretti a rimanere in piedi, dal regista Premio Oscar Paolo Sorrentino ad Amadeus. Inizio anticipato di un quarto d’ora sull’orario previsto (le 15), tanto che il sindaco di Roma Roberto Gualtieri, con fascia tricolore, arriva in ritardo. La bara fa il suo ingresso nella chiesa alle 14.27, accolta da un applauso durato ben quattro minuti e da canti sacri eseguiti dal vivo. A seguire la famiglia dell’anchorman — Maria De Filippi, i tre figli, i nipoti — che occupa le prime file.

A celebrare le esequie è don Walter Insero, rettore della basilica: «Ho conosciuto Maurizio due anni fa, pensavo di trovarmi davanti un mangiapreti e invece ho scoperto una persona accogliente e amorevole. La prima cosa che mi ha chiesto è stata: ma tu sei un prete vero?». Il sacerdote si è poi soffermato sui tanti e diversi aspetti del Costanzo professionista e uomo, compreso l’amore per tutti gli animali: «L’adorato gatto Filippo, Maurizio era felice quando gli saltava sul tavolo dell’ufficio». Viene ricordato anche il suo non essere credente: «Non lo era in senso stretto — ha ricordato don Insero — ma era molto rispettoso. Si è sempre più avvicinato ai valori cristiani e ha sempre avuto in mente la domanda che faceva anche ai suoi ospiti: cosa c’è dietro l’angolo?».

Ad ascoltare le sue parole gli amici e i colleghi di una vita. Accanto a De Filippi (sua una corona di sole rose rosse, alla sinistra dell’altare, con scritto solo «Maria») e al figlio adottivo della coppia, Gabriele, è seduto l’ad di Mediaset Pier Silvio Berlusconi, la cui corona di rose bianche è poggiata nella prima cappella a destra con la frase «Un abbraccio». «Una persona che ci rimarrà per sempre nel cuore», aveva detto entrando in chiesa, rivolto alle telecamere, battendo la mano sul petto.

La commozione è visibile ovunque, non solo tra i congiunti più stretti, il figlio Saverio con la compagna Alba Rohrwacher, sua sorella Camilla, i quattro nipoti di Costanzo. In piedi e tra i banchi centinaia di volti noti che di lì a poco, fuori dalla chiesa, scateneranno la caccia al selfie: ci sono Mara Venier, Paolo Bonolis, Vittorio Sgarbi, Fedele Confalonieri, Luca Cordero di Montezemolo, Emanuele Filiberto, l’ad della Rai Carlo Fuortes, Luciana Littizzetto, Giorgio Panariello, Christian De Sica, Carlo Conti, Giancarlo Giannini, Valeria Marini, Simona Ventura, Lorella Cuccarini, Sabrina Ferilli, Fiorella Mannoia, Ultimo, Daniele Silvestri, Alex Britti, Enrico Brignano, Cristina Parodi e Giorgio Gori, Massimo Lopez, Tullio Solenghi... Mentre fuori risuonano le note del Costanzo Show...

Funerali Maurizio Costanzo, piazza del Popolo gremita per l'ultimo saluto. Francesco Fredella suIl Tempo il 27 febbraio 2023

È il giorno dell'addio, il giorno dell'ultimo saluto a un grande della tv, un gigante: Maurizio Costanzo. Ci mancheranno le sue frasi: "Boni, state boni" ma anche i suoi lanci pubblicitari con i "Consigli per gli acquisti". Una vita sempre in prima linea per il pubblico e con il pubblico: dalle 15 nella Chiesa degli Artisti di Roma l'ultimo saluto. In coda decine e decine di persone: casalinghe, pensionati, studenti, aspiranti attori o cantanti. Tutti, in religioso silenzio, pronti a salutare Costanzo. C'è chi dona un fiore e chi una tartaruga, animale da sempre amato da Maurizio - che solitamente regalava a chi transitava al Maurizio Costanzo Show. Con la morte di Costanzo finisce un'epoca, un modo di fare tv che tutti hanno cercato di emulare invano. Costanzo sapeva intercettare il gusto del pubblico, quello che la gente amava. E poi il "fritto misto": di tutto di più all'interno dei suoi programmi, dove si ritrovavano - fianco a fianco - big, politici e gente comune.

Sui social, intanto, continua lo sdegno nei confronti di tante persone che hanno deciso di scattare un selfie con Maria De Filippi alla camera ardente. Maria De Filippi ha voluto stringere la mano a decine e decine di fan di Costanzo ma qualcuno di loro - sicuramente esagerando - le ha chiesto un selfie. Un gesto che, sicuramente, non è passato inosservato in Rete e ha fatto storcere il naso a molte persone sui social. Tra i commenti più duri c'è quello di Rita Dalla Chiesa che ha scritto: "Questa è la faccia di chi ha voluto farsi un selfie con Maria. Chi lo riconosce lo eviti. Per sempre". Affonda anche Selvaggia Lucarelli: "Il selfie con la vedova famosa. Non perdo neppure tempo a dire qualcosa su quella gente perché ci somiglia più di quanto crediamo ma penso a Maria De Filippi e all'enorme sforzo di dare a chi chiede con violenza, in quelle ore in cui hai dato fondo anche alle riserve. Per me era un vaffan....al primo telefono che vedevo". E, infine, c'è anche il commento di Francesca Barra: "La maggior parte delle persone pensa che i protagonisti della televisione popolare appartengano a chiunque per diritto. E questo diritto oggi si trasforma in abuso, davanti a una donna che ha perso un marito. Maria De Filippi accetta di fare i selfie stordita dal dolore ma con la pazienza e l'empatia che l'ha resa così amata. Tuttavia c'è un limite che dovevano rispettare questi personaggi inopportuni che le hanno chiesto una foto ricordo (?). Sono in tanti a sbrodolare in questo identico modo, con un commento, un selfie, una pretesa violenta. Questo dimostra che voi, che pretendete di giudicare tutti perché se siete famosi dovete accettare tutto, dovete aspettarvelo, non avete invece nessun diritto di prelazione sulla vita degli altri".

Funerali Maurizio Costanzo, la figlia: "Con Sordi e Gassman talk-show in Paradiso". Giada Oricchio 27 Il Tempo il febbraio 2023

Giornalista, in prima fila nella lotta alla mafia, scrittore, sceneggiatore, compositore, scopritore di talenti, innovatore del linguaggio e inventore di un genere televisivo: l’Italia si è fermata per dare l’ultimo saluto a Maurizio Costanzo, scomparso venerdì 25 febbraio all'età di 84 anni. Nella Chiesa degli Artisti - la Basilica di Santa Maria in Montesanto – si sono svolti i funerali solenni, dopo due giorni di camera ardente aperta al pubblico.

A officiare la messa, Don Walter Insero: “Fratelli e sorelle, siamo qui oggi per accompagnare con la nostra preghiera l'anima di Maurizio torna nella casa del padre, lo facciamo con la consapevolezza che è vero, si è chiuso il sipario, ma è finito il primo atto. Oggi siamo al cospetto di un Dio che non è dei morti ma della resurrezione e della vita”.

Durante l’omelia, Insero ha rivelato gli ultimi istanti di vita di Costanzo: “Si è sempre più avvicinato ai valori cristiani. Si chiedeva da tempo cosa c'è dietro l’angolo, o declinandola meglio cosa c'è dietro la morte. Abbiamo parlato a lungo di religione. Non era un praticante credente ma alla fine ha alzato lo sguardo al cielo e ha invocato la protezione della vergine Maria”.

Il Monsignore ha ricordato il primo incontro (“pensavo di trovarmi davanti un giornalista con un approccio magari un po' 'mangia-preti', ma ho trovato invece una perdona accogliente e amorevole”) e la grande vocazione di Maurizio Costanzo che fin da bambino voleva fare il giornalista: “E’ stato un uomo molto intelligente, estremamente curioso, sempre a cercare la novità e scoprire”.

Don Walter Insero ha sottolineato: “E' stato un uomo umile, conduceva una vita molto semplice, era un uomo leale, manteneva la parola data ed evitava di giudicare gli altri”. Il punto debole era il “cioccolato che nascondeva ovunque” ha detto l’alto prelato prima di disegnare il rapporto con la moglie Maria De Filippi (sempre mano nella mano con il figlio Gabriele) e la famiglia: “Era di tenerezza, stima, amore, complicità. Un forte senso di protezione verso le persone della sua famiglia e quelle che lavoravano con lui, ha aiutato tanti artisti che avevano bisogno di tornare a lavorare. Non dava importanza al denaro, non era avido, riusciva anche a condividere con gli altri. Lo commuoveva la povertà delle persone ha aiutato per diverso tempo chi era in difficoltà. Incontrò una volta una poetessa che era in miseria, la aiutò mensilmente”.

Il teatro è stata la sua grande passione, l'amicizia un valore da preservare, mentre forte era la stima per Papa Giovanni Paolo II e per Papa Francesco. Al termine della messa, la figlia Camilla ha letto una breve e toccante testimonianza: “Papino, l'ondata d'amore che ci ha sommersi è merito del bene che hai dato a tantissime persone. Non hai avuto tre figli ma molti di più. In molti ti hanno considerato un padre. Ci lasci un'eredità importante, il tuo più grande insegnamento, l'umiltà. Non ti saresti mai aspettato una grande dimostrazione d'aspetto. Ci avresti detto come sempre 'ma vi rendete conto? Tutto questo per me'. Ora sei per mano a Sordi e Gassmann, ti immaginiamo mentre in Paradiso organizzi un altro dei tuoi talk-show”.

Ha chiuso Gerry Scotti con la lettura della preghiera degli artisti. Numerosi i volti noti accorsi a dire addio a Costanzo: da Pier Silvio Berlusconi a Paolo Bonolis con la moglie Sonia Bruganelli, da Gerry Scotti a Carlo Conti, passando per Mara Venier, Milly Carlucci e Sabrina Ferilli. Un abbraccio a Maria De Filippi anche da Enrico Mentana, Fedele Confalonieri, Aurelio De Laurentiis, Luciana Littizzetto, Vittorio Sgarbi, Lorella Cuccarini e Valentino Tocco, lo storico cameraman del “Maurizio Costanzo Show”.

All’esterno, sul sagrato della chiesa, una gran folla. La sua “parentela televisiva” ha accolto l’arrivo del feretro con un applauso liberatorio, ha seguito in silenzio l’omelia e  si è lasciata andare a un altro applauso quando la bara ha ripreso il suo viaggio per una tappa al teatro Parioli, la sua casa televisiva. E adesso “non fate troppi pettegolezzi”. Così aveva chiesto Maurizio Costanzo con la sua inconfondibile vena ironica. 

Maurizio Costanzo, cosa spunta sul feretro durante i funerali: "Toccante". Il Tempo il 28 febbraio 2023

Sotto una pioggia leggera il feretro di Maurizio Costanzo è arrivato davanti alla chiesa degli Artisti, Roma, dove si sono tenuti i funerali del noto giornalista e conduttore televisivo. Centinaia di persone hanno accolto l'arrivo del carro funebre con un lungo applauso, tra gli ultimi personaggi televisivi e artisti ad arrivare, Alessia Marcuzzi, Rudy Zerbi e Luciana Littizzetto. All'arrivo del feretro e al suo ingresso in chiesa, i tantissimi presenti fuori alla chiesa lo hanno accolto con un lungo applauso.

Poi nel corso della celebrazione dei funerali con il feretro al centro non è passato inosservato un dettaglio toccante proprio sulla bara del conduttore. Non solo il quadro con la sua foto ma anche un'altra immagine, quella del suo gatto. Costanzo amava tantissimo gli animali, soprattutto i felini. E in particolar modo Filippo, un certosino che lo stesso Costanzo aveva adottato da una cucciolata abbandonata. Una volta raccontando la passione per i mici aveva rivelato: "È stato amore a prima vista". Il dettaglio della foto ha commosso tutti: "Toccante" scriveranno gli utenti sui social ricondividendo lo scatto.

L’ Italia saluta per l’ultima volta Maurizio Costanzo. Si chiude il sipario per un grande uomo e giornalista. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 27 Febbraio 2023

In piazza del Popolo a Roma la cerimonia solenne per l'ultimo saluto al giornalista, conduttore, scrittore e autore romano scomparso venerdì scorso all'età di 84 anni. Ad officiare la messa è don Walter Insero, recentemente nominato cappellano da Papa Francesco Bergoglio. Il sacerdote aveva già officiato i funerali di Gigi Proietti. Negli ultimi mesi ha condiviso con Maurizio Costanzo diverse iniziative intraprese in aiuto dei più bisognosi: “Si è chiuso il sipario ma è finito il primo atto”.

di Antonello de Gennaro

Da un’ora prima dell’inizio del funerale di Maurizio Costanzo, giornalista scomparso venerdì scorso a 84 anni, la Chiesa degli Artisti e l’intera piazza era già affollata da migliaia di persone. Lettere di ringraziamenti, foto, chi ha portato i colori della propria squadra del cuore, questi alcuni degli omaggi degli italiani a uno dei più grandi personaggi della televisione. Nella Chiesa degli Artisti – la Basilica di Santa Maria in Montesanto in piazza del Popolo a Roma si è svolta a cerimonia funebre dopo due giorni di camera ardente aperta al pubblico. Alle 14.20 è arrivata nella Chiesa la bara, accolta da un grande applauso, durato quattro minuti, e preceduto da quello della piazza.

Tanti applausi, e grida “bravo”, “grazie” hanno accolto l’arrivo del feretro di Maurizio Costanzo alla Chiesa degli artisti. Maria De Filippi ha fatto il suo ingresso presso la chiesa degli artisti, pochi minuti dopo l’arrivo del feretro di Maurizio Costanzo che era passato sotto i suoi uffici e la sua abitazione prima di arrivare in chiesa. Affianco a lei in auto, c’era Raffaella Mennoia, autrice di ‘Uomini e Donne’. Al suo ingresso, De Filippi, completo e occhiali da sole neri, è stata accompagnata per mano dal figlio Gabriele. Seduta accanto a lei Pier Silvio Berlusconi.

In prima fila in chiesa davanti al feretro sono seduti Maria De Filippi con il figlio Gabriele, che ha continuamente accarezzato, quasi a volerlo proteggere e consolare, e gli altri due figli di Costanzo Saverio e Camilla con i quattro nipoti del giornalista.

Ad officiare la messa è don Walter Insero, recentemente nominato cappellano da Papa Francesco Bergoglio. Il sacerdote aveva già officiato i funerali di Gigi Proietti. Negli ultimi mesi ha condiviso con Maurizio Costanzo diverse iniziative intraprese in aiuto dei più bisognosi: “Si è chiuso il sipario ma è finito il primo atto”, ha detto dal sagrato. Assieme a don Walter, concelebrano le esequie, don Armando, un missionario amico di Costanzo, e i due sacerdoti della Chiesa degli Artisti.

La prima volta ho incontrato Costanzo due anni fa. Pensavo di trovarmi davanti un giornalista anticlericale, un pò un mangiapreti, e invece ho incontrato una persona accogliente, amorevole, che mi ha rivolto subito una battuta: è un prete vero? Ci provo, gli ho risposto”. È il ricordo di don Walter Insero, durante l’omelia ai funerali di Maurizio Costanzo. “Mi colpì perché mi raccontò la sua infanzia, la sua parrocchia in zona piazza Bologna, e parlò di quanto lavoro fanno le parrocchie sul territorio, riuscendo ad avvicinare le persone fragili, rendendo un servizio spirituale e sociale. E alla fine mi disse: mi sa che dovrò venire da lei… Dottor Costanzo – gli risposi – non accetto prenotazioni. E poi mi confidò un desiderio: potere un giorno, quando il Signore lo avrebbe chiamato a sé, pregare per lui”, continua Insero.

Poi il sacerdote ha ricordato gli inizi della carriera di Costanzo, la collaborazione al quotidiano Paese Sera, i suoi primi articoli sul Tour de France: “Maurizio era un uomo molto intelligente, estremamente curioso, portato sempre a cercare novità, a scoprire, non riusciva a stare fermo, era molto attivo, anche negli ultimi giorni in clinica“. Don Insero nel ritratto di ,Costanzo “è stato un uomo umile, leale, manteneva la parola data e rispettava opinioni degli altri, senza giudicare le diversità, propenso a capire le ragioni degli altri. Era tendenzialmente pigro, amava la Roma, non era uno sportivo praticante. Voleva ascoltare gli altri, conoscere le persone, le loro storie, intuiva prima di ascoltare il carattere delle persone“.

E poi “era molto goloso, so che gli veniva spacciato del cioccolato fondente di nascosto“, sottolinea mentre Maria De Filippi accenna un sorriso. Verso i suoi cari “ha avuto un forte senso protezione, ma ha aiutato anche tanti artisti nel momento del bisogno“, ricorda ancora Insero. “Non dava importanza al denaro, non era avido, riusciva a dosarlo per condividerlo con gli altri“.

Presenti i vertici di Mediaset tra cui il presidente Fedele Confalonieri, l’amministratore delegato Pier Silvio Berlusconi ed il direttore generale Alessandro Salem., l’amministratore delegato della Rai Carlo Fuortes, il direttore de La7 Andrea Salerno. 

Innumerevoli i volti noti Mediaset e Rai: Giancarlo Giannini, Gerry Scotti, Mara Venier, Alessia Marcuzzi, Paolo Bonolis, Luciana Littizzetto, Giorgio Panariello, Salvo Sottile, Christian De Sica, Carlo Conti, Lorella Cuccarini con il marito Silvio Testi, Sabrina Ferilli con il compagno Flavio Cattaneo, Roberto Giacobbo. E ancora: Vittorio Sgarbi, Paolo Sorrentino, Fiorella Mannoia, Valerio Scanu, Massimo Lopez, Tullio Solenghi, Emanuele Filiberto di Savoia, il presidente del Napoli Aurelio De Laurentis, Paolo Sorrentino, Emanuele Filiberto di Savoia, Fiorella Mannoia, Ermal Meta, Paolo Ruffini, Tullio Solenghi e Massimo Lopez, Kledi, Pio e Amedeo.

Adesso sei vicino ai tuoi genitori, Sordi e Gassman e tutti quelli che sono andati via prima di te e non hai mai smesso di rimpiangere“. È la la lettera di addio per Maurizio Costanzo letta dalla sua figlia primogenita Camilla, figlia del giornalista e di Flaminia Morandi, che parla anche a nome dei suoi fratelli Saverio e Gabriele “Papino l’ondata di amore dal quale siamo stati sommersi è merito tuo. Siamo stati investiti dalla gratitudine, non hai avuto tre figli, ma molti di più”.

In tantissimi hanno detto che per loro sei stato padre, maestro, guida, hai cambiato destini, intuito talenti, incoraggiato e spronato. Abbiamo consolato persone in lacrime, più attonite di noi nel sapere che non c’eri più. A noi figli lasci un’eredità importante e il tuo più grande insegnamento: l’umiltà. Avevi ancora l’anima del ragazzo che a 17 anni scriveva a Montanelli e ti stupivi se un giornale importante ti chiedeva una collaborazione. Non ti saresti mai aspettato una così grande dimostrazione di affetto e già ci sembra di sentirti mente ci dici: ‘Vi rendete conto? Tutto questo per me‘.

Ti immaginiamo in paradiso mentre organizzi un talk show con Bracardi al pianoforte, Alberto Silvestri e Giselda Testa dietro le quinte. Continuerai a vivere in tutti noi e nulla di ciò che abbiamo imparato da te andrà perduto, è una promessa. Ti vogliamo bene, papi“.

Alla fine, fuori dalla chiesa degli Artisti Maria De Filippi assistendo al trasporto della bara di Maurizio Costanzo al termine dei funerali solenni, cede e il suo viso si è contratto in una smorfia di dolore. Ha le mani giunte e si commuove. Sotto i suoi grandi occhiali neri scendono delle lacrime. Al suo fianco c’è il figlio che se ne accorge e la stringe a sé con un bacio.

È stata la sigla del Maurizio Costanzo Show, ad accompagnare l’uscita del feretro di Maurizio Costanzo dalla Chiesa degli artisti, tra gli applausi delle centinaia di persone in Piazza del Popolo, alle quali si sono uniti anche Maria De Filippi accanto al figlio Gabriele. Un ultimo saluto per il giornalista è arrivato anche al Teatro Parioli di Roma, la “casa” del Maurizio Costanzo Show, di fronte al quale, il corteo funebre, ha fatto una sosta per un minuto di silenzio poi rotto dagli applausi della gente, prima di concludersi al Cimitero del Verano.

scritto e raccontato in lacrime da Antonello de Gennaro Redazione CdG 1947

L’uscita dalla chiesa sulle note del “Costanzo Show”. L’ultimo saluto a Maurizio Costanzo, applausi e commozione per il giornalista: “Sei in paradiso a fare un talk show”. Elena Del Mastro su Il riformista il 27 Febbraio 2023

La pioggia non ha scoraggiato quanti hanno voluto dare l’ultimo saluto a Maurizio Costanzo, scomparso venerdì a Roma a 84 anni. Non solo i familiari, i colleghi e gli amici dello spettacolo, o semplici cittadini che hanno voluto rendere omaggio al giornalista che ha fatto la storia della Tv italiana. All’arrivo della bara nella Chiesa degli Artisti è stato accolto con un applauso lungo 4 minuti di una piazza del Popolo gremita. Tra i fiori in chiesa spicca quella di rose bianche con la scritta “geniaccio infinito” firmata Pier Silvio (Berlusconi, ndr). Fuori alla chiesa, svettava un cartello con su scritto “Maurizio grandioso, insostituibile, arrivederci”.

Seduti in prima fila c’erano Maria De Filippi con il figlio Gabriele e gli altri due figli di Costanzo Saverio e Camilla con i quattro nipoti del giornalista. Presenti i vertici di Mediaset, tra cui il presidente Fedele Confalonieri, l’amministratore delegato Pier Silvio Berlusconi e Alessandro Salem. Tra le decine di volti noti Mediaset e Rai Gerry Scotti, Mara Venier, Paolo Bonolis, Luciana Littizzetto, Giorgio Panariello, Salvo Sottile, Christian De Sica, Carlo Conti, Lorella Cuccarini con il marito Silvio Testi, Sabrina Ferilli con il marito Flavio Cattaneo, Roberto Giacobbo. E ancora: Vittorio Sgarbi, Fiorella Mannoia, Valerio Scanu, Massimo Lopez, Tullio Solenghi, Emanuele Filiberto di Savoia, il presidente del Napoli e Aurelio De Laurentis, il direttore de La7 Andrea Salerno, Giancarlo Giannini, Ricky Tognazzi, Fabrizio Corona. In piedi, dopo le ultime file, il premio Oscar Paolo Sorrentino. Ci sono Alex Britti, Eleonora Giorgi e Amadeus.

È stata la primogenita Camilla, a nome dei fratelli Saverio (anche lui figlio di Maurizio Costanzo e Flaminia Morandi) e Gabriele (figlio di Maurizio e Maria De Filippi) a leggere in chiesa, a funerale terminato, un ricordo per il papà. Visibilmente commossa, Camilla Costanzo sull’altare ha detto: “Sarò breve e spero di arrivare fino in fondo come avrebbe voluto papà”. “Papino, l’ondata d’amore che ci ha sommersi è merito del bene che hai dato a tantissime persone. Non hai avuto tre figli ma molti di più. In molti ti hanno considerato un padre. Ci lasci un’eredità importante, il tuo più grande insegnamento, l’umiltà. Non ti saresti mai aspettato una grande dimostrazione d’aspetto. Ci avresti detto come sempre ‘Ma vi rendete conto? Tutto questo per me’. Ora sei per mano a Sordi e Gassmann, ti immaginiamo mentre in Paradiso organizzi un altro dei tuoi talk show”.

Il rettore della basilica don Walter Insero, durante l’omelia, ha ricordato l’incontro con Maurizio, due anni fa: “Ma lei è un prete vero?” fu la prima cosa che mi chiese. Poi ha proseguito: “Ho incontrato Maurizio circa due anni fa, pensavo di trovarmi davanti un giornalista con un approccio magari un po’ ‘mangia-preti’, ma ho trovato invece una persona accogliente e amorevole. Maurizio fin da bambino voleva fare il giornalista, giocava con la saponetta e con quella faceva finta che era un microfono, perché aveva una grande voglia di comunicare. Dai 17 anni, quando si propose a Paese Sera, è stato un uomo molto intelligente, estremamente curioso, sempre pronto a cercare la novità e alla scoperta”.

Ha proseguito: “Era molto attivo, non riusciva mai a stare fermo. È stato un uomo umile, conduceva una vita molto semplice. Un personaggio leale, manteneva la parola data ed evitava di giudicare gli altri. Sempre propenso a capire le ragioni di tutti. Molto abitudinario, amava lo sport e la Roma ma era un pigro e non era certo uno sportivo praticante. Era una persona sincera, non aveva secondi fini”.

Ancora: “Il suo rapporto con Maria era di tenerezza, stima, amore, complicità. Provava un forte senso di protezione verso le persone della sua famiglia e quelle che lavoravano con lui, ha aiutato tanti artisti che avevano bisogno di tornare a lavorare. Non dava importanza al denaro, non era avido, riusciva anche a condividere. Il teatro è stata la sua grande passione. L’amicizia, poi, un suo valore portante: con Vittorio Gassmann, Giorgio Assumma, Alberto Sordi, Enrico Vaime… Aveva un grande amore per gli animali, i cani ma anche gli uccellini ai quali faceva avere del cibo”, ha aggiunto don Insero, ricordano la stima che Costanzo provava per papa Giovanni Paolo II e per papa Francesco. “Lo commuoveva la povertà delle persone – ha quindi concluso il parroco – e ha aiutato per tanto tempo chi era in difficoltà. Incontrò una volta una poetessa che era in miseria, la aiutò mensilmente”.

Signore, volgi i tuoi occhi sul nostro lavoro, quello dei tuoi artisti, quelli che mettono la benzina alle ali per essere più vicino a te e aiutare i fratelli. Perdonaci se siamo fragili, incostanti, ma siamo uomini. Donaci la tua forza. Preghiamo per tutti gli artisti, fa che possiamo aiutare gli uomini attraverso la nostra arte. Donaci ali stupende per farci alzare fino a te”. Questi alcuni dei versi più belli della preghiera degli artisti letta da Gerry Scotti durante la cerimonia, poco prima della fine della messa. Applausi e la sigla. Così è uscito dalla chiesa il feretro di Maurizio Costanzo. In diffusione nell’aria la sigla del ‘Maurizio Costanzo Show’, Se Penso A Te, scritta da Franco Bracardi e da Gianni Boncompagni. L’ultimo viaggio è al cimitero del Verano dove Costanzo verrà tumulato.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Dagonews il 27 febbraio 2023.

"Papino, non hai avuto solo tre figli. Ma molti di più”. La figlia Camilla ricorda Maurizio Costanzo e commuove tutti durante il funerale alla Chiesa degli Artisti, in piazza del Popolo, a Roma. “Non ti saresti aspettato neanche così tante persone oggi, qui.

Avresti detto: 'Ma vi rendete conto, tutto questo per me'. E noi ti immaginiamo con Alberto Sordi e Vittorio Gassman, in paradiso a organizzare un talk show, con Alberto Silvestri e Giorgio Bracardi al piano”. Il regista Valentino Tocco confessa alle telecamere di Verissimo: “Ci ha insegnato a prendere la vita di sguincio”.

 Vittorio Sgarbi ricorda nel 1987 il primo invito nel suo show: “Litigai con lui. Gli dissi di non essere convinto degli ospiti che aveva scelto, mi rispose: “Se lo faccia lei lo spettacolo”. Tornai nel 1989. Lui è carne viva, la televisione oggi ne parla come se fosse ancora vivo. Maria De Filippi mi ha abbracciato e mi ha ringraziato per aver detto che Costanzo non è morto. Non può morire un’idea. L’incontro tra le persone, l’estetica dell’imprevisto. Con lui la tv è diventata vita…”

Da open.online il 27 febbraio 2023.

Ai funerali di Maurizio Costanzo, scomparso a Roma venerdì scorso e celebrati nella Chiesa degli Artisti di piazza del Popolo lunedì 27 febbraio, durante l’omelia don Walter Insero ha raccontato alcuni momenti intimi del conduttore tv, per condividerli con le centinaia di persone venute a dargli l’ultimo saluto. «È stato un uomo umile, leale, manteneva la parola data e rispettava le opinioni degli altri, senza giudicare le diversità», ha detto il parroco, che ha conosciuto Costanzo due anni prima, «era tendenzialmente pigro, amava la Roma, non era uno sportivo praticante.

 Voleva ascoltare gli altri, conoscere le persone, le loro storie, intuiva prima di ascoltare il carattere delle persone». E poi l’aneddoto che ha strappato un sorriso a Maria De Filippi. «Era molto goloso, so che gli veniva spacciato del cioccolato fondente di nascosto», ha detto il don, mentre le telecamere indugiavano sulla moglie e sullo scambio di sguardi con Pier Silvio Berlusconi, al suo fianco. Poi, all’uscita del feretro dalla chiesa, è stata diffusa la storica sigla del suo Show

Da repubblica.it il 27 febbraio 2023.

Lettere di ringraziamenti, foto, chi ha portato i colori della propria squadra del cuore, questi alcuni degli omaggi degli italiani a uno dei più grandi personaggi della televisione. Nella Chiesa degli Artisti - la Basilica di Santa Maria in Montesanto - la cerimonia funebre dopo due giorni di camera ardente aperta al pubblico.

 Hanno preso il via, presso la Chiesa degli Artisti a Roma, i funerali solenni. Ad officiare la messa è don Walter Insero, recentemente nominato cappellano da papa Francesco. Il sacerdote aveva già officiato i funerali di Gigi Proietti. Negli ultimi mesi ha condiviso con Maurizio Costanzo diverse iniziative intraprese in aiuto dei più bisognosi: "Si è chiuso il sipario ma è finito il primo atto", dice dal sagrato.

Adriana Marmiroli per “La Stampa” il 27 febbraio 2023.

«La notizia mi ha colto impreparato. Sapevo che non stava benissimo, ma nulla faceva presagire...». La voce di Alfonso Signorini non si rompe ma si interrompe. «Mancano le parole». Amico di vecchia data di Maurizio Costanzo, risponde immediatamente alla richiesta di ricordarlo.

[…]

Quando vi siete visti per l'ultima volta?

«A pranzo a casa sua un po' prima di Natale, in una delle nostre domeniche romane. Andavo sempre con gran piacere da lui a via Poma. Ho questa immagine: io con un calice di vino, lui con la cannuccia e un'aranciata. Ci eravamo appena fatti una gran risata. Arrivando mi si erano scaricate le "chioccioline" audio: avevo fatto finta di niente, ma continuavo a rispondere a capocchia alle cose che mi dicevano lui e Maria. Finché gli era venuto il dubbio: "Ma sei sordo?". Alla mia ammissione: "E che, lo potevi di'. Anch'io"».

La prima volta?

«25 anni fa: inviato ad Ansedonia per intervistarlo in occasione dei suoi 60 anni. […]Da allora avrebbe tenuto a battesimo ogni mio step professionale. Io ho ricambiato: ogni volta che mi chiamavano a dirigere un giornale, gli affidavo una rubrica».

 Cosa pensava Costanzo del Grande Fratello?

«Non lo amava ma lo intrigava […] Lo stigmatizzava e mi criticava, ma lo vedeva assiduamente. Insieme respinto e attratto, era per lui una specie di piacere oscuro, che è lo stesso che provo io da conduttore».

Condividevate l'amore per il giornalismo popolare e la tv. Le ha lasciato qualche insegnamento particolare?

«La vivacità dello sguardo. Essere sempre curioso e interessato a tutto. Che alto e basso non esistono. E poi mi ha insegnato […] l'arte dell'ascolto».

 Un altro flash dai suoi ricordi?

«Tecnicamente in tv era uomo di grande sangue freddo: non lo scomponeva nulla. Una sera un grosso attore aveva dato forfait all'ultimo. Nessuno osava dirglielo, temendo fuochi e fulmini. E invece lui, sornione: "E be', che problema c'è? Togliete la sedia, no?". Nessuno come lui sapeva destrutturare la tv, che è la cosa più strutturata che esista. Per questo dico di avere perso un amico e un maestro».

Da corrieredellosport.it il 27 febbraio 2023.

Un ricordo emozionante, con gli occhi lucidi. È la dedica speciale di Fiorello nel giorno del funerali di Maurizio Costanzo, arrivata durante il programma Viva Rai 2! a poche ore dai funerali del noto giornalista. Fiorello ha voluto ricordare l'amico con cui ha vissuto numerosi momenti nella sua carriera in un'anteprima speciale per il programma con un lungo discorso.

 La dedica di Fiorello per Costanzo

"Sono tre giorni che penso a cosa dire di te senza essere banale, ridondante… Maurizio,  sono tre giorni che parlano di te, che dicono cose stupende di te, del grande uomo che eri, di come hai rivoluzionato il mondo della tv e di come hai cambiato la vita a tante persone che fanno questo mestiere, me per primo”, esordisce Fiorello. "So quanto ti piacesse ridere e noi ci siamo divertiti, eh Maurizio! Abbiamo fatto di tutto: ti ho fatto fare Porthos dei Tre Moschettieri, hai suonato il sax per finta, abbiamo ballato il cha cha cha, abbiamo riso di cose assurde che per gli altri invece non volevano dire niente e adesso sono qua e devo fare lo show. E oggi cercheremo di fare la puntata più divertente in tuo onore. Speriamo di riuscirci perché deve essere ancora e ancora più divertente”.

Poi la dedica speciale cantando "Se telefonando", canzone scritta proprio dal giornalista nel 1966 e portata al successo da Mina: "Voglio omaggiarti cantando la tua canzone più celebre, Se telefonando, che in questi giorni l’hanno suonata mille volte, guarda, e adesso mi ci metto pure io". Infine il saluto con gli occhi lucidi: "Ciao Maurizio".

Estratto dell'articolo di Federica Bandirali per corriere.it l’1 marzo 2023.

 Maria De Filippi, provata e addolorata per la morte del marito Maurizio Costanzo, è in questi momenti circondata da tanto amore […]

Era con lei alla camera ardente in Campidoglio, ma è arrivata insieme a De Filippi nel giorno del suo funerale e si seduta in prima fila accanto a Gabriele.

Si tratta di Raffaella Mennoia, 48 anni, autrice storica di Uomini e Donne e Temptation Island, tra le più care amiche di Maria De Filippi.

 Insomma Mennoia, apparsa anche lei addolorata e scioccata per la morte inaspettata di Costanzo, è per Maria una di famiglia. Dal 2007 al 2013 Raffaella è stata fidanzata con l’ex tronista Jack Vanore, conosciuto proprio durante la trasmissione Uomini e Donne ma attualmente è legata al campione di arti marziali Alessio Sakara, con cui convive a Roma.

Le due si sono conosciute nel 2010 a C’è posta per te, dove Mennoia ha esordito come postina ma, poco dopo l’esordio, la conduttrice la chiama nella redazione di Uomini e Donne e inizia a lavorare come autrice per poi diventare dopo qualche anno responsabile del programma.

[…]

L’immensità di Maria De Filippi. Non solo regina degli ascolti e amata da ragazzi, famiglie e anziani, ma dopo il selfie al funerale di Maurizio Costanzo anche sinonimo d’immensità morale. Stefano Bini su Notizie.it Pubblicato il 1 Marzo 2023

Non c’è programma televisivo che a Maria De Filippi, da vent’anni a questa parte, vada male. Pensando alla stagione in corso, Uomini e Donne viaggia sul 25% di share, Tu si Que vales idem, C’è posta per te (tralasciando la puntata contro il Festival di Sanremo) veleggia intorno al 27; la lista di successi posizionati in altre stagioni è lunghissima.

Mai un gossip se non qualche diceria che attanaglia qualsiasi persona di successo, mai uno sbaffo televisivo personale se non qualche spruzzata trash nel dating show pomeridiano, mai uno screzio con i colleghi; Maria De Filippi rappresenta un potere di televisivo di basso profilo, vincente, per niente sopra le righe e che spesso condivide. Con Uomini e Donne prende un target ampissimo che va dai giovanissimi agli over, per la felicità di Publitalia, con Amici fa un terno a lotto con i giovani e le famiglie, Tu si que vales regna tra le giovani famiglie e gli over che stanno in casa il sabato sera; in sintesi, è amata ormai dalle due ultime generazioni, senza contare quella degli anni ‘40, ‘50, ‘60, ‘70, ‘80 e ‘90. Essere moglie di Maurizio Costanzo gli è servito per i primissimi anni, ma ha ben presto imparato le basi del mestiere e ad essere “la De Filippi” invece che “la moglie di”.

Se la sua immensità artica, per risultati concreti, è chiara a tutti, quella personale è rimasta spesso nascosta; è successo si sbilanciasse, nelle varie interviste, a parlare di suo marito, fino addirittura a fare qualche intervento tv insieme, però la morte è altra cosa. Maurizio Costanzo si è spento il 24 febbraio scorso, amatissimo dal pubblico di tutte le età, dagli addetti ai lavori come dagli artisti, che ha sempre sostenuto se meritevoli. La camera ardente è stata allestita in Campidoglio il giorno dopo, per dar modo alle persone di rendergli l’ultimo saluto; qui, due ragazzi, vedendo Maria De Filippi seduta accanto al feretro, hanno pensato bene di chiederle un selfie. Gesto osceno, brutto, maleducato, fuori luogo, ma “donna Maria” non ha fatto una piega: si è alzata, ha fatto la foto, ha elargito un sorriso e si è riseduta.

La spiegazione è presto detta, per lei che ama e lavora con adolescenti e ventenni: i due giovani erano lì per Maurizio, per consolare lei, per la morte di un pezzo della televisione; siamo certi che, più che alle foto, Maria De Filippi abbia pensato di regalare un momento magico ai due come loro lo stavano regalando a lei con la semplice presenza. Un atto che fa capire la grandezza e la forza di una donna e di un’artista che, anche in un momento buio e privatissimo, sa regalare emozioni come in tv. E questa volta elargite in nessun copione da seguire.

Maria De Filippi, chi è Raffaella Mennoia, l’inseparabile amica nei giorni del lutto. Federica Bandirali su Il Corriere della Sera l’1 marzo 2023.

Maria De Filippi, provata e addolorata per la morte del marito Maurizio Costanzo, è in questi momenti circondata da tanto amore, non solo dai fan ma anche dalla famiglia, in primis dal figlio Gabriele, oggi 31enne, adottato con Costanzo quando aveva 13 anni.

Lui non l’ha mai lasciata sola in queste giornate di lutto e il loro legame profondo è stato ulteriormente sotto i riflettori durante il funerale del grande giornalista. Ma c’è anche un’altra persona che non l’ha mai lasciata sola.

Era con lei alla camera ardente in Campidoglio, ma è arrivata insieme a De Filippi nel giorno del suo funerale e si seduta in prima fila accanto a Gabriele.

Si tratta di Raffaella Mennoia, 48 anni, autrice storica di Uomini e Donne e Temptation Island, tra le più care amiche di Maria De Filippi.

Insomma Mennoia, apparsa anche lei addolorata e scioccata per la morte inaspettata di Costanzo, è per Maria una di famiglia. Dal 2007 al 2013 Raffaella è stata fidanzata con l’ex tronista Jack Vanore, conosciuto proprio durante la trasmissione Uomini e Donne ma attualmente è legata al campione di arti marziali Alessio Sakara, con cui convive a Roma.

Le due si sono conosciute nel 2010 a C’è posta per te, dove Mennoia ha esordito come postina ma, poco dopo l’esordio, la conduttrice la chiama nella redazione di Uomini e Donne e inizia a lavorare come autrice per poi diventare dopo qualche anno responsabile del programma.

Da quel momento il loro rapporto si intensifica e si trasforma in una grande amicizia. Si sostengono da sempre reciprocamente: Maria De Filippi le è stata vicina qualche anno fa quando Raffaella è stata operata alla tiroide e ho dovuto stare ferma dal lavoro per un po’ di tempo.

Maria De Filippi torna in tv dopo la morte di Costanzo: «Ricomincio a lavorare, così mi hanno insegnato». Redazione Spettacoli su Il Corriere della Sera il 3 Marzo 2023.

Maria De Filippi è tornata in studio per registrare la nuova puntata di «Amici», in onda domenica pomeriggio su Canale 5. Domani andrà in onda «C’è posta per te»

«Ricomincio a lavorare perché così mi hanno insegnato». Così — a quanto si apprende — avrebbe detto Maria De Filippi tornando negli studi Elios di via Tiburtina per registrare la nuova puntata di «Amici», che andrà in onda domenica pomeriggio su Canale 5.

La conduttrice riprende così i suoi impegni a una settimana dalla scomparsa del marito, Maurizio Costanzo , avvenuta una settimana fa, venerdì 24 febbraio.

Sabato 4 marzo torna in onda in prima serata «C’è posta per te», con la puntata — sospesa la settimana scorsa per il lutto — che ospita Tiziano Ferro e Carmine Recano, Giacomo Giorgio e Kyshan Wilson, volti della serie «Mare fuori».

Domenica 5 marzo torna poi «Amici», in vista del serale che dovrebbe partire il 18 marzo. Da lunedì 6 marzo tocca a «Uomini e donne». La conduttrice si è mostrata in pubblico molto provata dopo la morte del marito, una fine inattesa: il giornalista era ricoverato in clinica per un piccolo intervento, «un problemino fastidioso, ma non grave». La situazione però è presto precipitata e le complicanze hanno portato alla morte del giornalista. La conduttrice, sempre presente nella camera ardente di Costanzo, ha salutato ogni volta che ha potuto le persone — famose e non — mostrandosi disponibile verso il suo pubblico oltre ogni aspettativa, concedendo anche dei selfie, poi molto discussi.

Dopo tutto il dolore, raccontato anche dai funerali trasmessi in diretta tv, la conduttrice sente quindi il bisogno di tornare. Così come le è stato insegnato, quasi certamente anche da Costanzo.

Estratto dell'articolo di Romina Marceca per “la Repubblica” Il 6 marzo 2023.

I troppi fiori nascondono il sorriso sornione di Maurizio Costanzo sulla foto attaccata con il nastro adesivo di carta. Rose, margherite, tulipani nei vasi sul piccolo davanzale, ridipinto con l'arrivo del nuovo ospite lì dove fino a mesi prima c'era Monica Vitti. "Ma dove sta Monica? L'hanno tolta?", si chiede Ennio, sorpreso per il cambiamento. E adesso la cerca nel cimitero monumentale del Verano. Che non è cosa da poco.

 Da lunedì in un condominio di loculi a piani c'è il giornalista morto il 24 febbraio, è stato sistemato in quel "posto di passaggio". È una sepoltura provvisoria, proprio come era stato per Monica Vitti che adesso si trova in una tomba fatta costruire dalla famiglia, sempre al Verano. L'affetto dei fan di Costanzo è tutto qui, davanti alla sua foto dove chi arriva lascia lettere e piccoli doni.

(…)

Parla Giorgio Assumma, il migliore amico di Maurizio Costanzo: «Maria De Filippi mi preoccupa, il distacco è solo apparente». Federica Bandirali su Il Corriere della Sera il 9 Marzo 2023.

L’avvocato ha rilasciato un’intervista a «Nuovo», raccontando il tuo timore per la conduttrice: «Mi preoccupa, dietro l’apparente distacco nasconde un’emotività profonda»

Giorgio Assumma, avvocato ma anche migliore amico di Maurizio Costanzo, morto il 24 febbraio a 84 anni, ha rilasciato un'intervista al settimanale Nuovo, e non ha nascosto una forte preoccupazione per Maria De Filippi: «Mi preoccupa», ha detto. «Dietro l’apparente distacco nasconde un’emotività profonda, come ho capito quando l’ho vista soffrire per la perdita dei genitori».

De Filippi, ha aggiunto Assumma, «può sempre contare sul sostegno del figlio Gabriele e sulla valvola di sfogo del lavoro, ma avrà bisogno di tanto amore da parte di noi amici per colmare, nei limiti del possibile, il vuoto che sente».

Assumma in tv (ospite da Mara Venier a «Domenica In») ha raccontato di essere corso subito al capezzale di Maurizio Costanzo appena ha appreso che le sue condizioni di salute erano peggiorate.

«Era ancora cosciente. La figlia Camilla gli ha chiesto di recitare l’Ave Maria e lui ne ha sussurrato i primi versi per poi interrompersi e dirle: “Non ce la faccio, continua tu a pregare per me”» ha raccontato, con le lacrime agli occhi.

In una intervista con il «Corriere della Sera», Assumma aveva rivelato di aver fatto incontrare De Filippi e Costanzo:

«Maria era una brillante laureata in legge, consulente dell’associazione fonografici italiani, a Milano. La sentivo spesso. Mi chiese se potevo trovarle un moderatore famoso per un convegno sulla pirateria discografica a margine della Mostra di Venezia. Baudo era impegnato, Vespa pure, Maurizio traccheggiò e infine accettò. Maria venne a prenderci in aeroporto, lui manco la guardò, quasi seccato. Al Lido, scesi dalla barca, si fece sotto un fotografo. Al che Maurizio le disse secco: “Per favore, dottoressa, mi resti lontana, non voglio paparazzate”. E anche a cena la fece sedere dall’altra parte del tavolo. Tornammo a Roma e per due volte l’aereo incontrò una brutta turbolenza sopra Tarquinia, il pilota atterrò in verticale, manovra rischiosissima, che paura. “Siamo stati fortunati, oggi comincia una nuova vita”, commentammo una volta a terra». E infatti. «Dieci giorni dopo, era sabato, incontrai Maria in un bar di viale Mazzini. “Sono venuta a trovare una zia”. Finsi di crederle. Il lunedì Maurizio mi disse: “Sai, quella dottoressa De Filippi è in gamba, la vorrei come assistente”. E così andò». Tutto il resto è vita. Nozze in Campidoglio nel 1995, celebrante Francesco Rutelli, ricevimento per cento invitati a villa Assumma. «“Grazie a te ho trovato la donna che sognavo, quella che vorrei guardare negli occhi quando me ne andrò”, mi confidò.

E ancora:

«Giovedì gli avevo telefonato in clinica. Maurizio stava molto meglio, aveva superato bene il piccolo intervento, una sciocchezza, nessuno di noi era preparato al peggio. Era di ottimo umore, abbiamo parlato di lavoro, di una nuova sceneggiatura per il cinema, di un contratto per la tv. Mi ha salutato così: “Ci vediamo presto, tanto non questa, ma la prossima settimana esco”. E invece una polmonite se l’è portato via. Il giorno dopo è morto. Era il mio unico vero amico. Adesso con chi parlerò?”.

Ora i suoi pensieri di preoccupazione vanno a Maria De Filippi le cui trasmissioni sono riprese dopo la morte del marito.

La Malattia.

"L'ha portato via in un giorno". La rivelazione dell'amico di Costanzo. Giorgio Assumma, l'avvocato e amico fraterno di Maurizio Costanzo, in un'intervista racconta le cause della morte del mattatore tv, spazzando via le illazioni sul suo stato di salute. Roberta Damiata su Il Giornale il 26 Febbraio 2023

Non esistono parole per commentare una morte, un fatto tragico ed inevitabile della vita che spinge ognuno di noi a rimescolare le carte, soprattutto quando si tratta di una persona cara. Si ricordano le gioie e si tende a dimenticare i dolori; l'unico presente, che non dà pace, è quello della causa, il motivo per cui qualcuno, che è stato al nostro fianco tutta la vita, ci è stato strappato via. È questo il ricordo di Giorgio Assumma, ex presidente Siae, avvocato e confidente di molte star di cinema e tv, ma soprattutto il miglior amico di Maurizio Costanzo, che oggi sulle pagine del Corriere, ha raccontato cosa, inaspettatamente, lo ha portato via da questa vita.

Costanzo non era malato, come molti vociferano in questi giorni, si trovava in ospedale per un piccolo intervento superato brillantemente. "Una sciocchezza, nessuno di noi era preparato al peggio" racconta Assumma: "L'ho sentito per parlare di lavoro, era di ottimo umore, stavamo pensando ad una nuova sceneggiatura per il cinema. Mi ha salutato dicendomi: 'Ci vediamo presto, non questa settimana, ma la prossima'”. Ma invece le cose non sono andate così: "Una polmonite se l’è portato via. Il giorno dopo è morto", rivela Assumma ancora incredulo, cancellando con le sue parole, tutte le varie ipotesi che in questi giorni si sono fatte sulla scomparsa di uno dei più grandi giornalisti italiani.

Costanzo e Assumma si conobbero nel 1973: "Ero presidente della Rusconi Film, lo contattai per un biopic su De Gasperi, poi la politica ci impose Rossellini. Lui non se la prese: “Le cose al mondo vanno così”. Da allora però non ci siamo più persi. Almeno una telefonata al giorno, caffè ogni lunedì e mercoledì al bar Vanni, davanti alla Rai. Mi chiedeva un giudizio su ogni progetto, io consiglio sulle cause legali, mai uno screzio". Un'amicizia la loro, che somiglia molto ad un rapporto fraterno: "Era il mio unico vero amico. Adesso con chi parlerò?", confessa sconsolato l'avvocato, che con Costanzo oltre la carriera ha condiviso anche le piccole e grandi cose della sua vita. Era scaramantico e al teatro Parioli, per il Maurizio Costanzo Show, c’era sempre una poltrona in prima fila prenotata per Assumma: “Se ci sei tu io mi sento più tranquillo” mi diceva, l’unica volta che mancai gli misero la bomba in via Fauro. Da allora mi fece promettere che non avrei più perso una puntata".

«Costanzo? Gli presentai io Maria De Filippi. Giovedì mi disse: ci vediamo presto. Invece se l'è portato via una polmonite». Giovanna Cavalli su Il Corriere della Sera il 26 Febbraio 2023.

Giorgio Assumma, avvocato e grande amico di Costanzo: «Quando la conobbe, fu duro con Maria. Poi mi disse: "È brava, la vorrei come assistente". Lo mise a dieta, ma lui si comprava di nascosto le caramelle. Mi disse: "Nell'aldilà si potrà avere una tv? Se no, che noia"»

«Maurizio mi chiese: “Secondo te, quando si va all’altro mondo, di là che succede?” Risposi: “Non lo so, però si va a stare meglio”. “E potrò avere un televisore?”. “Non credo”. “Sai che noia allora”. “Ma no, vivrai nella pace del Signore”. Vabbè, allora facciamo che chi arriva primo aspetta l’altro».

Migliori amici da 50 anni, Maurizio Costanzo e Giorgio Assumma, 88, ex presidente Siae, avvocato e confidente di molte star di cinema e tv, si conobbero nel 1973. «Ero presidente della Rusconi Film, lo contattai per un biopic su De Gasperi, poi la politica ci impose Rossellini. Lui non se la prese: “Le cose al mondo vanno così”. Da allora però non ci siamo più persi. Almeno una telefonata al giorno, caffè ogni lunedì e mercoledì al bar Vanni, davanti alla Rai. Mi chiedeva un giudizio su ogni suo progetto, io consiglio sulle cause legali, mai uno screzio».

 Al teatro Parioli, per il Maurizio Costanzo Show, c’era sempre una poltrona in prima fila prenotata per Assumma. «“Se ci sei tu io mi sento più tranquillo”. L’unica volta che mancai gli misero la bomba in via Fauro. Da allora Maurizio mi fece promettere che non avrei più perso una puntata». 

Fu Giorgio a presentargli la signorina De Filippi. «Maria era una brillante laureata in legge, consulente dell’associazione fonografici italiani, a Milano. La sentivo spesso. Mi chiese se potevo trovarle un moderatore famoso per un convegno sulla pirateria discografica a margine della Mostra di Venezia. Baudo era impegnato, Vespa pure, Maurizio traccheggiò e infine accettò. Maria venne a prenderci in aeroporto, lui manco la guardò, quasi seccato. Al Lido, scesi dalla barca, si fece sotto un fotografo. Al che Maurizio le disse secco: “Per favore, dottoressa, mi resti lontana, non voglio paparazzate”. E anche a cena la fece sedere dall’altra parte del tavolo. Tornammo a Roma e per due volte l’aereo incontrò una brutta turbolenza sopra Tarquinia, il pilota atterrò in verticale, manovra rischiosissima, che paura. “Siamo stati fortunati, oggi comincia una nuova vita”, commentammo una volta a terra». 

E infatti. «Dieci giorni dopo, era sabato, incontrai Maria in un bar di viale Mazzini. “Sono venuta a trovare una zia”. Finsi di crederle. Il lunedì Maurizio mi disse: “Sai, quella dottoressa De Filippi è in gamba, la vorrei come assistente”. E così andò». 

Tutto il resto è vita. Nozze in Campidoglio nel 1995, celebrante Francesco Rutelli, ricevimento per cento invitati a villa Assumma. «“Grazie a te ho trovato la donna che sognavo, quella che vorrei guardare negli occhi quando me ne andrò”, mi confidò. 

Ogni agosto partivamo tutti per Ansedonia. Alle 7, noi due soli, facevamo colazione leggendo i giornali, poi Maurizio si metteva a mollo in piscina, senza nuotare, fermo nell’acqua con la testa di fuori. Si portava dietro le cassette dei film di Totò, li avrà visti decine di volte, quanto rideva. La sera si andava a ballare il liscio in un paesino della Maremma, con l’orchestrina del posto, lui solo i lenti però, quelli del mattone, si divertiva. Dopo tre giorni di ferie però cominciava a smaniare, non riusciva a stare senza lavorare. “Beato te”, mi diceva quando ripartivo per Roma. 

Prima di conoscere Maria non aveva mai fatto una vacanza. E non si era mai messo a dieta. Una mattina, a San Giuseppe, prendemmo un caffè e, dietro mia insistenza, pure una piccola zeppola con la crema. Nel pomeriggio tornai nello stesso bar e il titolare mi disse: “Sa avvocato, quel suo amico è ripassato e si è mangiato dodici bignè, uno dopo l’altro”. Poi è arrivata Maria che lo teneva a stecchetto e chiedeva alle segretarie di farle la spia, se il marito sgarrava. Maurizio di nascosto si comprava le caramelle».

 Si sono sentiti l’ultima volta giovedì. 

«Gli ho telefonato in clinica. Maurizio stava molto meglio, aveva superato bene il piccolo intervento, una sciocchezza, nessuno di noi era preparato al peggio. Era di ottimo umore, abbiamo parlato di lavoro, di una nuova sceneggiatura per il cinema, di un contratto per la tv. Mi ha salutato così: “Ci vediamo presto, tanto non questa, ma la prossima settimana esco”. 

E invece una polmonite se l’è portato via. Il giorno dopo è morto. Era il mio unico vero amico. Adesso con chi parlerò?” 

Gli ultimi giorni di Costanzo in clinica. L'amico avvocato: «Giovedì abbiamo parlato di lavoro». Giovanna Cavalli su Il Corriere della Sera il 25 Febbraio 2023.

Giorgio Assumma: «Si era ripreso dall'intervento, non c'era alcun sentore che potesse finire così»

«Per cinquant’anni io e Maurizio ci siamo sentiti ogni giorno. Anche giovedì mattina, dalla clinica Paideia, dove era ricoverato da un paio di settimane. Mi ha fatto chiamare dalla segretaria che era in camera con lui per assisterlo nelle incombenze quotidiane. Si era ripreso dopo l’intervento, stava molto meglio, in gran forma, era lo stesso Costanzo di sempre, lucido, con la mente perfettamente a posto, ironico, pieno di idee, non c’era alcun sentore che potesse finire così», racconta l’avvocato Giorgio Assumma, 88 anni, storico legale e confidente di moltissime star dello spettacolo italiano, l’amico di una vita («Ci siamo conosciuti che ero presidente della Rusconi Film, lo volevo come sceneggiatore per una pellicola sulla vita di De Gasperi, poi fu scelto Roberto Rossellini ma lui non se la prese, da allora però non ci siamo più persi, mai uno screzio tra noi, anche se su tante cose avevamo opinioni opposte»). 

Tra i pochissimi ammessi nella stanza del giornalista e conduttore tv, a parte i familiari più stretti: la moglie Maria De Filippi – completamente distrutta dal dolore, confida chi l’ha vista - i figli Saverio, Camilla e Gabriele. 

Del ricovero non sapeva niente nessuno o quasi. Nemmeno il personale della Paideia, celebre ospedale privato di Roma Nord, nuova sede in fondo a Corso Francia. La famiglia aveva chiesto, sia dentro che fuori, il massimo riserbo. La consegna del silenzio assoluto. Lo ha protetto fino all’ultimo. Persino la prima camera ardente, ristretta agli affetti più vicini, è stata allestita in un’area riservata. Ingresso vietato ai non autorizzati.

«Voleva parlarmi del contratto per una delle sue trasmissioni, che andava rinnovato. E di una nuova sceneggiatura per il cinema che aveva in mente. No, della partita della Roma non me ne ha accennato, non so se è riuscito a vederla, spero di sì», aggiunge Assumma. 

Pare invece che Costanzo abbia seguito tutte e cinque le serate dal Festival di Sanremo. «Dovevo andarlo a trovare proprio venerdì mattina, come avevo già fatto altre volte. Poi mi hanno avvisato che si era aggravato all’improvviso. E quando sono arrivato era già morto». Fuori dalla Paideia nessun curioso, pochi fotografi (loro sì, sapevano da giorni di quel ricoverato eccellente), un’auto dei Carabinieri, niente consegne di fiori. 

«Ero quasi certo che non sarei riuscito a vederlo, però ci sono andato lo stesso, volevo comunque rendergli omaggio con la mia vicinanza fisica», racconta il regista e autore Rai Michele Guardì. Ingresso sbarrato anche per lui, altro amico dei bei tempi («Mi fece esordire come autore per la radio, credo nel 1975, nel programma Il Distintissimo con Pino Caruso»). «Non sapevo che stesse così male, la sua scomparsa mi ha colto di sorpresa. L’ho sentito al telefono una decina di giorni fa, evidentemente era già in clinica, però ha fatto finta di niente. Era sereno, di buonumore, con la stessa voce di sempre, sembrava stesse benissimo. Abbiamo chiacchierato del più e del meno, del mio programma I fatti vostri, Maurizio lo guardava sempre, poi mi faceva i suoi appunti, garbati, positivi, dote rara in un ambiente di invidiosi, che aspettano soltanto lo scivolone altrui. Andavo a trovarlo in ufficio almeno due volte a settimana. Prendevamo il caffè insieme e Maurizio mi regalava una delle sue tartarughine di ceramica, la sua passione». 

Maurizio Costanzo, "tracollo in 12 giorni": cos'è successo in ospedale. Libero Quotidiano il 25 febbraio 2023

Un tracollo rapido, imprevedibile, doloroso. Maurizio Costanzo ha passato gli ultimi 12 giorni alla clinica Paideia di Roma, dov'era stato ricoverato per una operazione al colon. L'intervento per togliere dei polipi era andato bene, ma il discorso ha avuto una evoluzione negativa. Secondo quanto riferisce un retroscena di Dagospia, il sistema immunitario di Costanzo, scomparso ieri a 84 anni, "ha iniziato a perdere giri e sono sopraggiunte varie infezioni, compresa una renale. Quindi sono spuntati problemi respiratori con finale di broncopolmonite". 

Un decorso purtroppo classico per chi, come il grande giornalista e padre dei talk televisivi italiani (prima con Bontà loro in Rai, quindi con il leggendario Maurizio Costanzo Show su Canale 5) ha dovuto scontare, oltre ai problemi dell'età avanzata, anche una patologia cardiaca. Fino all’ultimo comunque, non ha mai smesso di lavorare: "Anche il sabato - prosegue il Dago-report del sito fondato e diretto da Roberto D'Agostino - era sempre presente in ufficio e il giorno che più detestava era la domenica. Preparava il suo salotto-show per Canale 5 e le sue trasmissioni radio, più le varie rubriche sui giornali. I suoi ultimi futuri progetti riguardavano la sceneggiatura di un film e l’organizzazione di una scuola di televisione per autori e tecnici". Instancabile, come hanno potuto apprezzare anche i lettori di Libero e Liberoquotidiano.it.

Secondo il Corriere della Sera, Maria De Filippi (dal 1990 compagna di Maurizio, e dal 1995 sua moglie con rito civile) sarebbe comprensibilmente "sotto choc". Non solo per il lutto tremendo la scomparsa dell'uomo della sua vita, ma anche perché la morte è sopraggiunta improvvisa. "Non si aspettava che Maurizio se ne andasse in una stanza di ospedale".

 Le Tartarughe.

Maurizio Costanzo, cani, tartarughe e il grande amore per il gatto Filippo. Tutti conoscevano la passione di Maurizio Costanzo per le tartarughe, ma in realtà il grande giornalista amava tutti gli animali, con un legame particolare con i cani e per il suo gatto Filippo. Roberta Damiata su Il Giornale il 26 Febbraio 2023

Oltre ad essere uno dei più grandi giornalisti e conduttori italiani, Maurizio Costanzo era un grande amante degli animali. Cani, tartarughe e una grande passione, arrivata ad un'età matura per i gatti, nata dall'incontro con Filippo, il certosino con cui condivideva le sue giornate in ufficio. Il gatto faceva parte di una cucciolata abbandonata, di cui una sua collaboratrice gli aveva parlato: "Le dissi, portamene uno... ed è stato amore a prima vista".

Dei felini, e del suo Filippo, amava dire: "I gatti si fanno i fatti loro, poche smancerie. Io ogni giorno vado in ufficio e lo passo a salutare. Poi qualche volta lui viene ad affacciarsi al mio studio e spesso la sera, dorme sulla mia poltrona. I gatti sono straordinari per la loro dignità e penso che siano riservati nei sentimenti". Parlando di lui aveva anche svelato un piccolo particolare della vita familiare con Maria De Filippi, grande appassionata di cani, che per evitare baruffe in casa lo aveva pregato di lasciarlo nel suo ufficio al centro di Roma invece che nella villa dove abitavano.

Il suo amore per gli animali in genere, arrivava da lontano, addirittura da quando in quinta elementare vinse un premio dell'Enpa per un tema che aveva scritto sulle farfalle: "Ero un animalista, senza saperlo" si divertiva a raccontare. Un volto inedito di profonda umanità, che spiega ancora meglio l'animo e la personalità del grande giornalista. Agli animali aveva dedicato anche una rubrica, “Animali Come Noi” con gli interventi del professor Francesco Petretti, biologo, docente presso l'Università di Perugia, membro del comitato scientifico del WWF, che dopo la sua morte ha lasciato sulla sua pagina Facebook un toccante ricordo: “Sosteneva che non si annoiava mai a parlare e ad ascoltare storie di animali, partecipando con entusiasmo a ogni evento, piccolo o grande”.

Tutti conoscevano la sua passione per le tartarughe, per lui anche sinonimo di buona sorte, che regalava spesso alle persone che incontrava. Ne aveva un'intera collezione, di cui era gelosissimo, composta da migliaia di pezzi perché, come aveva scritto nel libro "La strategia della tartaruga. Manuale di sopravvivenza" (Mondadori), con il loro guscio protettivo erano per lui il simbolo della resilienza, della capacità di resistere alle avversità che possono accadere nel corso della vita, e amava la loro indipendenza e longevità.

Ma quello non fu quello l'unico libro che scrisse sugli animali, in "Preferisco i cani (e un gatto)" (Mondadori) scrisse: “Gli animali sono superiori a noi in tante faccende, come la capacità di esprimere affetto, di dimostrare fedeltà, di essere sinceri e di prevaricare l’altro solo per lo stretto necessario alla sopravvivenza. L’uomo no, l’uomo prevarica per gioco, per noia, per insicurezza, per vuota ambizione. L’osservazione del mondo animale è stata per me una lezione di vita”.

Legatissimo ai cani, i tanti che insieme alla moglie Maria aveva preso e che erano diventati parte della famiglia: “Mi considerano uno come loro, un pari grado, e devo dire che a me non dispiace affatto”, raccontò una volta. Il gatto Filippo gli aveva rubato il cuore, tanto che quando il sabato e la domenica non andava in ufficio, si sincerava che qualcuno andasse sempre a controllare che tutto fosse a posto, e che il Certosino non restasse mai solo.

L’amore di Maurizio Costanzo per le tartarughe: perché le regalava a tutti i suoi ospiti. Chiara Maffioletti su Il Corriere della Sera il 25 Febbraio 2023.

Il giornalista aveva una collezione di 5mila pezzi raffiguranti il suo animale preferito, per lui simbolo di longevità. Le donava agli amici come portafortuna

Da quando è morto Maurizio Costanzo, sui social si stanno moltiplicando, oltre alle parole di ricordo, anche le immagini di variopinte tartarughine di ceramica. Costanzo ne aveva una intera collezione: 5mila pezzi con le sue iniziali dipinte all’interno.

Le regalava ai suoi ospiti, suggerendo loro di tenerla in tasca, come amuleto porta fortuna. La tartaruga era infatti il suo animale preferito, a cui aveva anche dedicato un libro: «La strategia della tartaruga. Manuale di sopravvivenza» (Mondadori).

In quelle pagine scriveva che la tartaruga era per lui il simbolo della longevità, grazie alla sua paziente resistenza di fronte a imprevisti e difficoltà.

Generoso, condivideva questa riflessione attraverso questo dono, pronto non solo per i suoi ospiti ma anche per gli amici, per chi si trovava a parlare con lui.

Ora questo esercito di tartarughine torna a salutarlo, nelle mani dei tanti che l’hanno ricevute e che ora più che mai ne colgono la dimensione simbolica. «È un animale antico e io non mi sento proprio giovanissimo», aveva spiegato. Aggiungendo: «Però chi l’ammazza la tartaruga?».

Estratto dell'articolo di Gabriele Romagnoli per “la Repubblica” il 25 febbraio 2023.

Il primo ricordo, mentre elimino il suo numero dalla rubrica del cellulare, è legato a un momento di decadenza, condizione umana che non rende più fragili, ma più autentici. Gli avevano cancellato la sua creatura, il Maurizio Costanzo Show, dai palinsesti, quelli che puoi leggere su Sorrisi e canzoni. Lo avevano mandato “sul digitale”. Una specie di esilio. Napoleone all’Elba sapeva che sarebbe tornato.

 Frattanto trasmetteva nel vuoto cosmico, dal teatro Parioli, senza pubblico in sala. Viveva lì dentro, barricato: «Ho paura che se esco mi cambino la serratura». La sua stanza era piena di manufatti firmati Fornasetti e di tartarughe di ogni foggia e materiale. Gli era bastato metterne una sulla scrivania e gliene avevano regalate mille. E sì che considerava l’adulazione una perdita di tempo. Aveva trasformato lo sproposito in collezione. Mangiava lì, rigorosamente in bianco, servito da un cameriere in livrea e guanti, perplesso.

Una porta conduceva al bagno dove andava di continuo. Aver continuato a frequentarlo mentre era in relativa disgrazia lo convinse che cercassi in lui qualcosa di diverso dai più. E così era. L’attrazione era la forza narrativa del generale nel suo bunker, dell’uomo che si specchia in una telecamera, esistendo di riflesso. Le amicizie più profonde, e in fondo anche gli amori, sono quelli tra opposti. Riconoscono però l’uno nell’altro, al riparo dall’altrui curiosità, un carattere comune che vale più di 999 differenze. In questo caso: l’irregolarità. Domata o vissuta nel privato, la sua, eppure fremente; e quanto avrebbe voluto farne la sua bandiera. Avrebbe significato rinunciare a molta parte del successo, al 90% delle ragioni per cui da ieri lo ricordano.

Che altro c’era? Un mondo.

Dovessi provare con tre indizi che Maurizio Costanzo era un atipico rabdomante del talento e della vita scriverei: uno, al suo show negli Anni Ottanta portò Alessandro Bergonzoni. Due: quando divenne presidente di Mediatrade, la fiction Mediaset, volle come direttore Roberto Pace, che lo scavalcava da ogni lato. In un’estate di oltre vent’anni fa concepimmo un programma per la “prima serata e mezza” di Canale 5. Doveva introdurlo Costanzo di profilo alla Hitchcock. Seguivano otto telefilm di 45 minuti tratti da racconti di genere fantastico scritti appositamente da Paul Auster, Emmanuel Carrère e Niccolò Ammaniti.

Che non si sarebbe mai avuto il via libera era scontato e lo sapevamo. Tre: Roberto Pace lasciò poi la famiglia, il lavoro, le inchieste dei magistrati e sparì. Lo rividi a cena in un ristorante vietnamita a New York: frequentava una scuola di scrittura e viveva con un tedesco. Il successivo, ultimo incontro fu in Thailandia, dove Costanzo gli spediva cinquemila euro al mese mentre lui cercava di morire di eccessi. Quando ci riuscì, ricordammo la sua “vita da film” e scrivemmo un soggetto che nulla ometteva, ma lo riscattava nel finale. È “chiuso a chiave” in un file criptato.

(...)

La Famiglia.

Maurizio Costanzo.

Maria De Filippi.

Marta Flavi.

Giovanna Ralli.

I Figli.

L’Eredità.

Maurizio Costanzo.

Estratto dell’articolo di Paolo Scotti per il Giornale pubblicato da Dagospia il 27 luglio 2018

 (...)

Maurizio Costanzo ha sempre sognato di fare il giornalista?

«O il batterista. Suonare la batteria mi piaceva molto. Ma non ho mai dubitato su quale sarebbe stata la mia strada. Da ragazzino mia madre mi beccò con un porta-sapone girato a mo' di microfono, mentre declamavo una commedia di Goldoni. Poveretta: m' avrà preso per matto. Alla maturità mi rimandarono perché il tema era scritto in modo troppo giornalistico. Beh: non potevano farmi complimento migliore».

 (...)

 Tanto successo, tanti applausi ma anche tanti nemici.

«I nemici bisogna conservarseli per la vecchiaia, mi disse Enzo Biagi. Basilare. Il giorno che non ne avessi più sarebbe la fine. Così li ho conservati quasi tutti. Non ho più rapporti con Adriano Celentano, che si offese quando definii qualunquista una delle sue uscite, né con Nanni Moretti, che si stupiva fossi un simbolo della lotta alla mafia.

Per il Molleggiato mi dispiace; per Moretti non me ne frega niente. Col critico tv Aldo Grasso non ho mai chiuso i miei conti. Ne mai lo farò: se ne faccia una ragione. Anche con Pippo Baudo per anni ci siamo stati cordialmente sulle scatole. Ma la vecchiaia aggiusta tutto. Anzi, oggi vorremmo fare insieme un programma: I videosauri. Io e lui su un divano, a commentare la tv di oggi».

 (...)

 Nella sua carriera tutto è macroscopico. Anche le leggende metropolitane che la riguardano.

«Due in particolare sono memorabili. Quando Buona domenica era al top del successo dissero che Fiorello era il mio amante. E perfino che mi concedevo un menàge a trois: io, Maria e Paola Barale. Figuriamoci».

 Per i politici lei ha sempre manifestato nei suoi programmi una malcelata intolleranza.

«Che provo tuttora. Restano lontani dalla vita vera della gente. A Massimo D' Alema consigliai di salire le scale d' un condominio, di quelli dove senti la puzza dei broccoli. Non so se l' ha fatto. Ammirai invece Giancarlo Pajetta, che alla mia domanda-tormentone Cosa c' è dietro l' angolo? rispose: Un altro angolo. Berlusconi, le prime volte che veniva da me, si portava uno che controllava luci e posizioni delle telecamere. Poi ha smesso. Gli dissi: Non voterò mai per te. Non me ne ha mai voluto. Ci siamo sentiti proprio ieri, per augurarci buone vacanze».

 È vero che ha già deciso quale epigrafe far mettere sulla sua tomba?

«Sì. E' la frase vergata da Cesare Pavese, prima del passo estremo: Non fate troppi pettegolezzi».

Articolo di Francesco Persili per Dagospia pubblicato il 15 febbraio 2021

"Mi hanno offerto di fare politica ma ho detto sempre di no. Mi hanno proposto anche di fare il sindaco di Roma ma l’idea che l’avversario mi potesse riempire di insulti sui manifesti, mi ha fatto dire: “Ma chi me lo fa fare”. La quota 100 fa un baffo a Maurizio Costanzo che racconta a “Che tempo che fa” 65 anni di carriera. “Non ho faticato. Volevo fare il giornalista sin da bambino e non ho mai cambiato idea”.

 Gli inizi a "Paese Sera", come inviato al Giro del Belgio, anche se lui in Belgio non c'è mai stato. “Il mio caposervizio, Antonio Ghirelli, mi girava le agenzie e io raccontavo la tappa. Mi mise in firma come "dal nostro inviato, Maurice Costance”. Una storia alla Simenon, una delle sue grandi passioni. Fu grazie al commissario Jules Maigret, ad esempio, che si accorse che Maria De Filippi era tagliata per la tv. "Mi fece un riassunto perfetto di un libro Simenon. Da lì ho capito che poteva fare televisione. Direi che non mi sono sbagliato".

Come faccio a ricordarmi tutto del mio lavoro e di quelli che ho intervistato? “Sono anziano e quindi vivo di passato”, confessa Maurizio Costanzo che ricorda la nascita del talk in Italia con “Bontà loro”. “La seconda puntata fece 11 milioni di spettatori”. Arrivò il riconoscimento del pubblico. “Mi accorsi che la gente per strada iniziava a fissarmi. E io mi dicevo: “Ma che c’avranno questi da guardà”. Ospitò Andreotti, il primo presidente del Consiglio che partecipò a un talk: “Mi sembrava Alighiero Noschese”. In un’altra occasione il Divo Giulio gli confessò che due suoi amici della scuola avevano fatto carriera. Erano diventati cardinali. "E invece lei è disoccupato...", la risposta sarcastica di Costanzo.

Si parla dell’intervista a Trump (“i capelli li aveva sempre di quel colore biondo lì”) e del gemellaggio con il “Late Show” di David Letterman: “Ho imparato tantissimo dai talk show americani. Lì avevano uno che gestiva le persone del pubblico. Quelle più carine, andavano nei punti in cui finiva l'inquadratura. Quelle orrende, le spostavano tutte da un’altra parte". Dai talk show americani ha tratto ispirazione anche per l'orchestra in studio. "E mi sono inventato Demo Morselli…”

 Si ripercorrono interviste, immagini, aneddoti su Totò, Pasolini, Falcone (“Ho la sua foto nel mio studio, è il mio protettore”). Fino a quando Costanzo infilza Fazio, con un sorriso sornione: “Ti porti avanti per il giorno in cui devi fare il necrologio…”

E' morto Maurizio Costanzo.  L’intervista di Paolo Conti per corriere.it/sette pubblicata da Dagospia il 24 ottobre 2022

 Maurizio Costanzo scrive un libro di ricordi e di bilanci, riannoda i fili del tempo vissuto, ritrova oggetti e abitudini perdute. Perché mettersi a ricostruire il passato in questo libro Smemorabilia/Catalogo sentimentale degli oggetti perduti (Mondadori) scritto con Valerio de Filippis? «All’inizio del libro cito Sergio Caputo che in Rifarsi una vita canta così: “Fuori si fa sera/che luna pensierosa/ vorrei dimenticare/ ma non ricordo cosa...”. Direi che non mi piace ricordare, ma ancora meno amo dimenticare. Infatti, eccomi qui col libro».

C’è un catalogo di oggetti e abitudini perduti.

«Sì. Sono abitudini superate da una società che cambia e oggetti messi da parte da una tecnologia sempre più avanzata. Lo chiamerei “Il paradiso della smemoria” che riemerge con l’avanzare dell’età. Sono stato sempre diffidente comunque verso la memoria, ho spesso detto che è una cosa sciocca raccontarsi. Che è meglio vivere che raccontarsi. Ecco invece un libro di memoria: come rinnegare sessant’anni di una professione fondata sul racconto altrui»

C’è una dedica struggente all’inizio: «Al Parioli col Maurizio Costanzo Show , dopo 40 anni: 1982-2022 e che non vada perduta nemmeno una goccia. Dedico questo libro ad Alberto Silvestri, Paolo Pietrangeli, Luisella Testa, Franco Bracardi».

«Per un libro del mio amico Michele Santoro ho rivisto la staffetta tv “Samarcanda- Maurizio Costanzo Show” del 1991 con Giovanni Falcone. Mi si è stretto il cuore vedere al pianoforte Franco Bracardi, pensare che nel pulmino della regìa c’era Paolo Pietrangeli, ricordare che dietro le quinte mi rassicurava il coautore Alberto, rievocare la passione di Luisella Testa.

Non c’è più nessuno, a loro dedico il libro per gli anni di bellissimo lavoro insieme. Meglio vivere che raccontarsi, bisognerebbe dire a questo punto... ma l’uomo è un animale al quale l’esperienza non serve a niente. Continuo a contraddirmi, a raccontare prima di vivere».

 Giochiamo con la memoria, allora. Decenni di tv significano potere. Maurizio Costanzo è stato cambiato dal potere?

«Non posso garantirlo ma spero di essere rimasto intatto dentro. Non ho mai valicato il limite del Marchese del Grillo: io so’ io e voi... eccetera. Certo, per gestire il potere occorre una dose di cattiveria. Quella ce l’ho e credo si veda nelle interviste. Ma la cattiveria è anche rispetto verso l’intervistato».

 In che senso?

«La cattiveria è curiosità, voglia di tirar fuori la verità da chi non vorrebbe dirla. Comunque, all’inizio il potere è euforizzante. Ora il mio rapporto si è molto ridimensionato: il vero potere è diventato la salute. Pensiamo alla pandemia, alle quarantene, ai lockdown».

 Rapporto col denaro, con la ricchezza?

«Non ho mai voluto arricchirmi per il gusto di arricchirmi. Ho maneggiato somme anche ingenti. Ma alla fine il mio rapporto col denaro è minimo. Mi serve per vivere bene. Ma ne ho rispetto. Non lo spreco, non subisco il fascino dell’accumulo, non ho mai investito in speculazioni».

 Nemmeno in borsa?

«Diciamo che per me la parola indica un orpello femminile atto al trasporto di oggetti che, una volta finiti lì dentro, non si trovano più. Ho anche bruciato molti soldi proprio per il teatro Parioli e la sua gestione. Una volta dovetti vendere casa per ripianare i debiti. Ma riperderei volentieri quel denaro. L’amore infinito per il teatro, lo so, è un vizio costoso».

 Altri vizi, per esempio automobili?

«Con i primi guadagni mi comprai una Porsche. Non arrivavo nemmeno ai pedali. La usai pochissimo. Poi una MG e un’altra Porsche. Chissà perché, poi... non sono mai stato un vero appassionato di auto potenti. Ora, per fortuna mia e degli automobilisti romani, non guido più dal 1976».

La memoria ha qualche pregio?

«Sa cancellare alcune cose. La vita è piena di appuntamenti mancati. Quelli più amari li ho dimenticati».

Cosa dimentica più facilmente nella vita quotidiana?

«Le chiavi di casa. Ho risolto non portandole più. Suono e mi aprono, a casa c’è sempre qualcuno».

 Nel libro lei ricorda puntate e interviste storiche, indimenticabili.

«Ho intervistato Gheddafi a Tripoli, Donald Trump a New York nel 2002, Sean Connery a Londra... Mi fermo qui, mi pare già abbastanza, no?».

 Le memorie d’amore?

«L’ho detto, l’uomo non apprende nulla dall’esperienza. E a distanza di anni tante storie appaiono incomprensibili: si capisce perché ci si lascia, meno perché ci si era messi insieme. Me ne rendo conto quando, sempre più raramente, ripenso ai miei trascorsi sentimentali».

Nomi, errori?

«Ma su, figuriamoci...».

 E Maria De Filippi?

«Soprattutto in questo caso, molto ma molto meglio vivere. E vivere per me è Maria».

Veniamo alle Smemorabilia. Partiamo dall’infanzia, dai soldatini di piombo.

«Una meraviglia. Ci giocavo tanto, era il tipico passatempo adatto a un figlio unico come me. Battaglie infinite senza nemmeno una goccia di sangue. Interi battaglioni schierati, contro quelli del vicino di casa, stesi sui pavimenti gelidi. Cresciuto, sono passato al Monopoli. Più adatto al mio carattere».

 Un tempo si scrivevano e si spedivano tante cartoline. Sparite, purtroppo, dalla circolazione.

«Erano un modo per far partecipare alla propria vacanza il destinatario. “Saluti da...”. Credo ci siano persone che, collezionandole, abbiano fatto il giro del mondo restando a casa. Oggi sono gli infiniti scatti dai cellulari con un saluto allegato. Un click e via».

 (...) 

 Poi c’è dell’altro. Anche l’adulterio. È davvero sparito?

«Sparito come reato penale, come fenomeno violentemente osteggiato. Decenni fa ebbi una storia con una donna sposata. Il marito sporse denuncia, arrivarono i carabinieri. Per fortuna eravamo vestiti. Fecero la famosa prova della mano sotto le lenzuola per vedere se il letto fosse caldo. La prova fallì, niente denuncia. Rimasi a piede libero. Che follia... Oggi l’adulterio di un tempo è l’occasione per un sorriso di smemoria».

 C’è un capitolo sul corteggiamento. Finito anche quello?

«Tutto passa per il web. Ho l’impressione che oggi con i social la parola “detta” così funzioni meno. Il corteggiamento come lo intendo io si fa con la pazienza, le attenzioni, l’ascolto, nel far capire alla persona corteggiata che ti stai dedicando a lei in maniera esclusiva. Sono stato un corteggiatore tenace, insistere con garbo ma con determinazione può portare alla conquista. Senza mai, sia assolutamente ben chiaro, sfociare nella petulanza, nella barbarie della molestia».

 Nella parte iniziale lei elenca tanti protagonisti a suo avviso non ricordati come meriterebbero: Ettore Scola, Age e Scarpelli, Pasolini, Bertolucci, Alighiero Noschese... Come vorrebbe essere ricordato?

«Mi ricorderanno i figli, alcune persone più vicine. Spero semplicemente di essere ricordato come una brava persona che ha fatto un programma durato quarant’anni».

 Moltissimi, un record

«Sì, un long seller della tv italiana. Spero che nel 2050 si potranno regalare i cofanetti del Maurizio Costanzo Show come documento, e in mia smemoria. Sempre meglio...».

 Sempre meglio?

«Di una targa su una via».

Elvira Serra per il Corriere della Sera - ARTICOLO DEL 28 NOVEMBRE 2018

Pensa alla morte?

«Sì, ma non è che ci penso adesso che ho fatto 80 anni, ci ho sempre abbastanza pensato, non con spavento. Mi preoccupa perché mi spiace lasciare le persone a cui voglio bene, non per me: il dolore sarebbe quello».

 Per Marcello Marchesi l' importante è che la morte ci colga vivi.

«Sì è vero, è così. Marchesi 45 anni fa fece da padrino di battesimo a mia figlia Camilla».

 Crede nell' aldilà?

«Penso che dopo qualcosa ci sia, non credo in Dio. Quando non ci sarò più, so che avrò incontrato di nuovo mio padre e mia madre».

 Li va a trovare al cimitero?

«No, ma per andare alla Voxon, dove registro il Maurizio Costanzo Show , passo accanto al Verano e non c' è volta nell' andare e tornare che io non pensi a loro. Il culto dei morti non è sulla tomba, ma dentro di te».

 La prima immagine felice con suo padre.

«Me ne ricordo altre... Quando era malato, cominciavo a fare il giornalista, andai a trovarlo all' Ospedale Fatebenefratelli di Roma e gli dissi: "Sai papà, ho cominciato a scrivere su questo giornale" e lui "Sono contento". Questo è un mio rammarico assoluto: non ha visto quello che ho fatto, mamma sì. I personaggi indimenticabili sono il padre e la madre: da lì nasciamo, non c' è niente da fare. Io mi arrabbio con chi litiga con la madre: magari ce l' avessi ancora...».

Cos' ha ereditato dai suoi genitori?

«Da mio padre sicuramente l' ironia, da mia madre il fatto che mio nonno, friulano, da giovane voleva fare il giornalista. E siccome io credo nel Dna...».

 Maurizio Costanzo è un signore pieno di garbo, espertissimo d' interviste, s' intende, capace, con il gesto semplice di offrire una caramella, di cambiare argomento quando serve.

Studio romano nel rione Prati, pareti tappezzate con foto di nipoti e personaggi che ha incontrato, in bella vista la laurea honoris causa dello Iulm in Giornalismo, editoria e multimedialità, la scrivania assediata da tartarughe: «Ne ho più di cinquemila, ne presi anche una viva, che tenevo al Parioli in una scatola con la terra, ma dovevo starle antipatico perché quando mi vedeva si nascondeva: l' ho dovuta dare allo zoo».

 L' occasione per incontrarci è l' uscita del suo nuovo libro Mondadori, Il tritolo e le rose , che si apre con una lunga dichiarazione d' amore a Maria De Filippi, sua moglie da ventitré anni. Ma di questo parleremo dopo.

Mi diceva del Dna.

«L' ho trasmesso a Saverio, lo vedo. Sono un suo fan accanito. Adesso incrocio le dita per questo debutto dell' Amica geniale, Elena Ferrante ha voluto proprio lui come regista».

 Riconosce il Dna in suo nipote Brando?

«Viene il più possibile dietro le quinte del Costanzo Show. Sì, io spero nel Dna».

 Quanti anni hanno i suoi nipoti?

«Brando 14, Nina 8, Bernardo 8 e Tito 11».

 Come si sente quando sta con loro?

«Mi piace, mi dà un senso di futuro. Poi devo dire una cosa banale, ma i figli di mio figlio portano avanti il cognome».

 Un ricordo di sua figlia Camilla, avuta con Flaminia Morandi, come Saverio.

«La vedo piccolissima che battaglia con me perché le avevo spostato un gioco, con una forza tale che dissi: "Promette bene, questa..."».

 Un ricordo del fratello.

«Avrà avuto dieci o undici anni, c' era una mia commedia a teatro e noi eravamo seduti dietro in platea. Il pubblico rideva e lui mi chiese: "Se la gente ride sei orgoglioso?"».

Un ricordo di Gabriele, adottato nel 2002.

«Beh, con lui c' è grande complicità... Cerco di farmi raccontare i suoi amori se non ci arriva prima la madre».

 Maria De Filippi. Ha dedicato a lei il primo capitolo del nuovo libro.

«Ci siamo conosciuti a Venezia, ero andato durante la Mostra del Cinema per un dibattito sulle videocassette. Era venuta a prenderci all' aeroporto, faceva l' avvocato. Ci ritrovammo a pranzo con altri».

 Non fu galante, le chiese di sedersi più in là.

«Mi parve subito intelligente, infatti le diedi la possibilità di lavorare con me a Roma. Iniziò a fare questo lavoro. Poi cominciò la nostra storia».

 Andò abbastanza presto a conoscere i suoi genitori, nel Pavese.

«Purtroppo sono mancati ambedue. Il padre fu molto carino con me, mangiammo insieme: in qualche modo lo rassicurai sul fatto che mi stavo separando, come è stato. Dopo la sua morte, la madre è venuta a vivere con noi a Roma. Una famiglia semplicissima, come la mia di origine, del resto: bello. Tra poco con Maria facciamo le nozze d' argento».

 Quattro mogli e una convivenza. Le donne le conquistava per talento o per sfinimento?

«Spero per talento. Ma sa, malgrado l' aspetto sono sempre stato fortunato con le donne, in genere sono meglio degli uomini: più intelligenti, sensibili. A una donna posso raccontare un segreto, a un uomo non mi viene».

A proposito di ex, ora che ha 80 anni è riuscito a perdonare Marta Flavi, con cui il divorzio fu burrascoso?

«Non ci parlo. Chi è? Guardi, con Simona Izzo, che non avevo sposato, ho un ottimo rapporto; con la madre dei miei figli, pure. La mia prima moglie, Lori Sammartini, più grande di me di una quindicina d' anni, è morta nel '71, mi avvisarono mentre ero in radio che facevo Buon pomeriggio . Grande fotografa, mi fece conoscere lei Flaiano. La sentivo spesso...».

 Qual è stato il giorno più bello, e quello più brutto, della sua vita?

«Il più brutto il 14 maggio 1993, quando la mafia mi dedicò 70 chili di tritolo mentre tornavo a casa in macchina con Maria. Il più bello è stato accorgerci che eravamo vivi».

 Perché lei?

«Io faccio il giornalista, avevo molto parlato di mafia al Costanzo Show e la mafia si è difesa. Arrivavano lettere con la mia testa in un vassoio, le mandavo alla Digos».

 È ancora sotto scorta?

«Sì, ora mi seguono due persone, prima quattro. Sono diventati dei parenti, per me».

Il ministro dell' Interno Salvini ha lanciato un piano taglia scorte.

«Il mio nome, in campagna elettorale, non è mai stato fatto. Penso che ogni persona con la scorta sia diversa.  Sono l' unico tra tutti i minacciati che ce l' ha fatta a sopravvivere».

 Ha un telefono antichissimo.

«È un Nokia. Avevo scritto a Stoccolma in fabbrica, perché hanno smesso di farli. Un mio amico carinamente me ne ha comprato quattro. Ho calcolato che ce campo».

 Quanti numeri ha in rubrica?

«Una quindicina: Maria, i miei figli, una delle segretarie, il mio avvocato, una collaboratrice di mia moglie che lavora anche con me...».

 A proposito di avvocato. Perché non ha mai querelato Riccardo Bocca, che nel '96 le dedicò un libro al vetriolo?

«Ne ho un po' sofferto. Potevo andare in trasmissione, parlare del saggio e smontarlo.

Non l' ho fatto per non dargli visibilità».

 L' ha più sentito? Le ha chiesto scusa?

«Sì, ci siamo risentiti e no, non mi ha chiesto scusa».

Prende la cartelletta nera alla sua sinistra, la apre e mostra un articolo dell' Espresso .

«Ma l' anno scorso ha scritto un pezzo in cui mi faceva gli auguri per i miei 79 anni. E che devo vole' di più?»

E per gli 80 chi le ha fatto auguri inattesi?

«La novantunenne Gina Lollobrigida mi ha chiamato sul cellulare il 28 agosto a mezzanotte e cinque. Quella donna è pazzesca...».

 Ha contato quante persone ha intervistato?

«Una volta ne avevano contate 45 mila».

 Di quale intervista è più orgoglioso?

«Sono orgoglioso di aver fatto chiudere una fabbrica di mine antiuomo, con Gino Strada: ottenni l' impegno a far ricollocare gli operai».

 So che vorrebbe intervistare Bergoglio.

«Sarebbe un grande regalo di carriera».

 Quale domanda gli farebbe per prima?

Riprende la cartelletta nera. «Ce l' ho qua, devi mandarle mesi prima. Eccola: "Con riferimento ai suoi nonni, cosa ha pensato dopo il conclave quando ha saputo che sarebbe venuto in Italia come Papa"?».

Dei politici che ha incontrato a quale riconosce maggior spessore?

«Mi ha sconvolto Andreotti, era ironico. Una volta mi disse: "Lo sa che al Tasso due miei compagni di scuola sono diventati cardinali?".

Pausa. "Hanno fatto carriera, loro..." Come se lui fosse un poveretto!».

 Non abbiamo parlato della P2.

«Può sfumare?».

 Certo. Però vorrei chiederle: rifarebbe l' intervista con Giampaolo Pansa in cui ammise: «Ho fatto uno sbaglio, da vero cretino»?

«Sì, anche se sono l' unico. Se potessi tornare indietro non mi iscriverei alla P2».

 Non ha mai ricevuto onorificenze. Quale le piacerebbe?

«Ho lavorato molto, forse cavaliere del lavoro».

 Quando ha mangiato l' ultimo bignè?

«Il 19 marzo, per San Giuseppe».

 E se telefonando...

«Mi ricordo finché campo una saletta e un pianoforte in via Teulada, Morricone fa sentire la melodia, Mina gli prende il foglio e prodigiosamente la canta. Ancora oggi ricevo royalties da tutto il mondo ed è l' unica canzone che ho scritto».

 Oggi ci si lascia davvero per telefono.

«E, ma allora no. Cinquantadue anni fa».

Maria De Filippi.

Estratto da leggo.it il 29 Marzo 2023

È passato poco più di un mese dalla morte di Maurizio Costanzo ma il dolore per Maria De Filippi è ancora troppo vivo. […] Durante i funerali, la De Filippi ha ricevuto tanto sostegno e affetto da parte dei colleghi e ora a distanza di un mese anche da Ezio Greggio.

 Il conduttore ha scritto una commovente lettera in cui invita Maria ad andare avanti, a continuare a fare il suo lavoro e a non mollare mai. […]

Alcune indiscrezioni hanno rivelato che Maria De Filippi avrebbe l'intenzione di abbandonare la televisione perché il dolore per la perdita di Costanzo è diventato troppo forte da sopportare.

 Attraverso le pagine del settimanle Novella 2000, Ezio Greggio ha scritto: «Cara Maria ho letto la tua voglia di mollare tutto, di fermarti nel tuo lavoro. Mi auguro sia stato solo un momento di smarrimento. Io a nome di tanti tuoi amici ti dico che si deve andare avanti, che devi continuare. Mi auguro sia stato solo un momento di smarrimento. Io, a nome di tanti tuoi amici, ti dico che si deve andare avanti, che devi continuare.

Lo devi a una platea sterminata che ti segue, lo devi ai centinaia di talenti che aspettano l’occasione che gli darai sul tuo palcoscenico per emergere e coronare i loro sogni. Va fatto, Maria, per le persone che ci hanno lasciato, perché la loro volontà è di non dimenticarli, di andare avanti e di proseguire in quel percorso lungo nel quale ci hanno sostenuto. Hai tuo figlio Gabriele al tuo fianco, e poi Sabina, Giuseppe… tanti collaboratori per i quali sei immensamente importante», ha scritto Ezio Greggio.

Poi il conduttore conclude così augurando a Maria De Filippi di potersi riprendere da questo momento di smarrimento e si augura che sia solo momentaneo: «Maria per noi tutti è bello sapere che continuerai a parlarci attraverso le tue trasmissioni, raccontandoci le storie di tante persone ed aiutandone altre a trovare la propria strada. Ciao Maria, un abbraccio da me, Enzo e Roberto».

Estratto dell'articolo di Valentina Baldisserri per corriere.it il 29 Marzo 2023

C’è stato un momento dei funerali di Maurizio Costanzo in cui in molti si sono chiesti: chi è la donna che è rimasta sempre a fianco di Maria De Filippi, prima alla camera ardente e poi in chiesa nel banco in prima fila per la cerimonia funebre?

 Quella donna si chiama Raffaella Mennoia, è la persona di cui più si fida Maria, il suo braccio destro, nonché storica autrice di Uomini e Donne, il programma pomeridiano di Mediaset che macina ogni giorno ascolti impressionanti per il day time (quasi tre milioni di spettatori e uno share vicino al 30. «Non ho ben capito cosa succedesse in quei giorni, nulla è stato deciso a priori, era semplicemente un assecondare gli eventi, tutto molto spontaneo. Non c’è stato alcun genere di ragionamento» racconta, in occasione dell’uscita del suo libro Cupido Spostati (Vallardi editore).

Prosegue Mennoia, che ha un ruolo centrale nel mondo di De Filippi e di Uomini e Donne, si occupa del casting del dating show ed è autrice di C’è posta per te e tutti gli altri programmi di Fascino (la società di produzione di De Filippi): «Oltre a me c’erano tante persone del nostro gruppo, ci siamo stretti tutti intorno a lei. Ci siamo messi a servizio di quello che stava succedendo, non come persone che lavorano lì ma come persone che provano un affetto. Se vuoi bene a una persona le stai vicino». «A Maria, filo conduttore della mia vita» è la dedica sul libro scritto da Raffaella Cupido spostati (Vallardi editore).

 «Con Maria c’è un legame di amicizia da tanti anni, è la persona che, insieme ad Alberto Silvestri, mi ha insegnato tutto del mio lavoro. È una persona molto esigente ma che rispetta il lavoro degli altri. Da noi, in Fascino, c’è meritocrazia. Fai strada se lavori e ti impegni».

[…]

 Perché Uomini e donne ha successo?

«Perché il programma è un po’ una fotografia di cosa succedeva una volta nelle piazze, di persone che si incontravano e magari si innamoravano. Oggi questa piazza siamo noi. E a casa si immedesimano nelle storie che mandiamo in onda. Le persone ci ringraziano per la compagnia che diamo loro. Credono a quello che vedono, ed è un patto tra noi e loro».

In quanti scrivono per partecipare?

«Sono tantissimi. Donne e uomini in egual misura. Solo per dare un numero, l’ultimo tronista ha ricevuto più di 1500 richieste dalle ragazze che vogliono conoscerlo. È una cifra pazzesca».

 Uomini e donne è un programma trash?

«Non penso che facciamo trash e comunque non penso che trash sia una parola negativa. Penso che il trash sia negli occhi di chi guarda, di chi si approccia con la puzza sotto il naso».

Le storie sono vere o costruite?

«È tutto vero, per noi è fondamentale la verità del programma. Cerchiamo di evitare che chi viene da noi voglia fregarci. Però è chiaro che c’è un margine di errore, non possiamo garantire al 100% che tutti vengano per cercare l’amore piuttosto che la notorietà». [...]

Dopo aver scampato all’attentato decisero di rimanere per sempre insieme. Maurizio Costanzo e Maria De Filippi, la storia di un grande amore: dal matrimonio al figlio. Elena Del Mastro su Il riformista il 24 Febbraio 2023

Maurizio Costanzo & Maria De Filippi, 23 anni di differenza, una coppia indissolubile, sia a casa sia in tv di cui hanno indiscutibilmente fatto la storia. Solo la morte di lui avvenuta a Roma 84 anni il 24 febbraio 2023 li ha potuti separare. Ma loro restano certamente un duo inscindibile, da quando si sono conosciuti alla fine degli anni ’80. E in effetti anche Maria De Filippi è stata una delle felici intuizioni di successo di Maurizio Costanzo: fu lui a lanciarla la prima volta nella conduzione di “Amici”. E ci vide giusto. Oggi sarà lei a portare avanti l’importante eredità televisiva dei due.

Il loro matrimonio dura da 27 anni, si sono sposati il 28 agosto del 1995 in Campidoglio. A celebrare la loro unione fu Francesco Rutelli, pronunciò una frase diventata un impegno: “Mi fermo qui”. Si erano conosciuti alla fine degli anni ’80 a Venezia in occasione di un convegno sulla pirateria. Lui rimase folgorato e la invitò a lavorare a Roma. Costanzo veniva già da 3 matrimoni e altre relazioni più o meno durature. Era stato sposato nel 1963 con la fotoreporter Lori Sammartino, poi dal 1973 al 1984, il matrimonio con la giornalista Flaminia Morandi, dalla quale ha avuto due figli: Camilla e Saverio Costanzo (noto regista de il regista de L’amica geniale e La solitudine dei numeri primi). L’ultimo matrimonio quello con la conduttrice televisiva Marta Flavi è durato formalmente dal 1989 al 1995.

La differenza di età per loro non è mai stato un problema. Ma quando Costanzo andò a conoscere i genitori di Maria De Filippi riuscì a vincere anche le resistenze di mamma Pina e papà Giovanni che in un primo momento storsero il naso: lui non solo veniva da 3 matrimoni ma era anche molto più grande. “Maurizio – raccontò Maria a Domenica in – fu un paravento come al solito, lo intervistò senza farlo parlare e tornammo a Roma felici e contenti”. Dopo anni di fidanzamento i due decisero di sposarsi. Una decisione che avvenne dopo un evento traumatico per la coppia: l’attentato di via Fauro a cui scamparono miracolosamente.

Era il 14 maggio 1993 quando Costanzo fu preso di mira da Totò Riina e i suoi, tra cui Matteo Messina Denaro, per il suo impegno contro la mafia. Così, mentre usciva dal Teatro parioli, una Fiat Uno imbottita di tritolo esplose. Per un puro caso l’auto su cui viaggiavano Costanzo, De Filippi e il loro autista tardò e riuscirono a salvarsi. “Quello che è successo ha segnato un prima e un dopo – ha raccontato in una delle ultime interviste a Repubblica- Ma siamo stati molto fortunati, ci siamo salvati tutti: io, Maria, l’autista e il cane. Se devo essere sincero mi ha fatto più impressione il teatro, ricordo ancora i cani della polizia che fiutavano nei camerini”.

Però una cosa l’avevano capita: volevano passare tutto il resto della vita insieme. “Capii una cosa fondamentale: è lei la persona che voglio che mi tenga la mano quando morirò”, ha detto recentemente Costanzo. Dopo il matrimonio in Campidoglio, pochi invitati e molte telecamere, la scelta di prendere in affido nel 2002 un bambino, Gabriele, all’epoca di dieci anni, adottato definitivamente due anni dopo e che oggi lavora nella redazione di Uomini e donne.

La loro è stata anche un’unione professionale sugellata dalla fascino, società che ha esordito nel 1982 con la produzione del Maurizio Costanzo Show e poi ha realizzato negli anni tutti i programmi di maggior successo della Mediaset come Amici a Uomini e donne a C’è posta per te. Fu Costanzo a mandare de Filippi in onda per la prima volta. “Non ci fosse stato Maurizio non sarei andata in onda, ero considerata un’idiota… Però, sia chiaro, li capivo, gli altri. Pensavano è quella del momento, lasciamo a Costanzo lo sfizio di mandarla in video, l’anno prossimo ce ne sarà un’altra”. E così una giovanissima Maria De Filippi butta in tv il 26 settembre 1992, subentrando a Lella Costa (che era rimasta incinta) nella conduzione di Amici.

Tempo fa circolò la voce che i due dormivano in letti separati e qualcuno ipotizzò che si fossero separati. Era stato poi lo stesso Maurizio Costanzo a spiegare a Vanity Fair il motivo del talamo nuziale separato: “Sono uno che guarda la televisione fino a tarda notte, anzi fino al mattino, insopportabile. Avremmo finito per litigare. Oltretutto prima russavo pure”. E avevano ironizzato sul loro rapporto: “Io sono un vecchio goloso finito con una che lo tiene a stecchetto. Maria mi bullizza, non mi rivolgo ad Amnesty International, però…”. Poi più serio: “Lei rappresenta la donna più importante che io abbia incontrato”.

Qualche anno fa a Domenica in avevano provato a scherzare sulla morte: “Lo sai che a me non piace andare ai funerali”, aveva ironizzato De Filippi. E Costanzo di rimando: “Ma lì ce devi veni’ per forza”. Qualche mese fa, però, in un’intervista a Oggi, la conduttrice aveva confessato: “Non so se ne sarò capace, se avrò la forza e il coraggio di tendergli la mia mano quel giorno lì. Troppo dolore. Non voglio che mi resti come ultimo ricordo l’intreccio di quelle dita”.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Anticipazione di Chi - Articolo del 2017

 «Mia moglie Maria è la cosa più importante della mia vita. Ieri avrei risposto il mio lavoro. Oggi no, vivo per mia moglie». Questa semplice, diretta e semplice dichiarazione d'amore è il punto più commovente della lunga intervista che Maurizio Costanzo ha rilasciato in esclusiva al settimanale Chi (in edicola da mercoledì 1 febbraio).

 Un’intervista che anticipa il lungo faccia a faccia che il giornalista e la regina della tv, sua moglie da 22 anni, hanno fatto nella trasmissione "L'Intervista" in onda giovedì 2 febbraio su Canale 5. «Alla fine ci sono cascato anch'io», spiega Maurizio Costanzo a "Chi".

«Mia moglie mi ha fregato, alla grande! Avevamo pensato a questa intervista per l'ultima puntata. Io avrei preparato i filmati per lei, e lei sarebbe stata un'ospite come gli altri. Io sono molto meticoloso e avevo già fatto montare i filmati con titoli e narrativa, per usarli quando sarebbe venuta.

 E invece, mentre aspettavo un altro ospite, è sbucata all'improvviso e mi ha fregato. Me l'ha fatta. Segno che anche quando pensi di controllare tutto, poi il tutto controlla una parte di te. È stato un momento emozionante. Alla mia età, dopo aver combattuto la mafia, dopo aver raccontato le tragedie d'Italia e avere incontrato i personaggi che hanno fatto la storia, da Totò a Oriana Fallaci a Donald Trump, non credevo di potermi emozionare ancora così. Di dover trattenere il fiato per portare a termine il mio lavoro».

Costanzo nell'intervista parla ovviamente dell’esperienza sanremese di Maria De Filippi, che la conduttrice ha accettato anche grazie a lui. «Quando mi ha chiesto cosa ne pensavo di una sua partecipazione a Sanremo le ho detto di andare e divertirsi.

 Però avrei preferito che si presentasse il giorno stesso della kermesse. Invece va via due settimane. Questo un po' mi spiace. A un certo punto ho cambiato idea e avrei voluto dirle: “Ma vai per una sola sera". Ma era troppo tardi. Morale: a volte è meglio tacere anche quando dentro sei felice e vorresti dare  il meglio per la persona che ami».

Il conduttore scherza anche sulla recente indisposizione che aveva fatto correre voci allarmistiche sulla sua salute. «Quando lavori bene succede che molti ti vorrebbero non in salute», scherza Costanzo. «Io sono già morto cinque o seicento volte. Come ho detto siamo sotto Sanremo. C'è voglia di cantare e di sparare cavolate».

Estratto dell’articolo da “Oggi” del 10 agosto 2022

HO PAURA DELLA MORTE” – «Ho corazze che però non mi hanno mai davvero resa immune dagli “ostacoli” e dalle paure vere che la vita inevitabilmente e con ferocia sbatte in faccia a ciascuno di noi. In primis per me la paura della morte», racconta Maria De Filippi a Oggi. Il suo primo vero dolore «è stato la morte di mio padre… Un lutto mai superato.

Ci ho messo solo un tappo. Così come ho chiuso a chiave e a più mandate un armadio a casa mia con tutte le cose più care di mia madre quando ci ha lasciati… Tappo e chiudo a chiave il dolore per andare avanti. È il mio modo per affrontare il futuro. L’unico che conosco».

L’ADDIO A MAURIZIO COSTANZO…” – Sul marito Maurizio Costanzo, che dichiara da sempre di volere la mano di lei che stringe la sua nell’ultimo istante, dice: «Le confesso che non so se ne sarò capace, se avrò la forza e il coraggio di tendergli la mia mano quel giorno lì. Troppo dolore. Non voglio che mi resti come ultimo ricordo l’intreccio di quelle dita». E poi: «Sogno di prendere la vita con più leggerezza… Fantastico di essere libera da ciò che io stessa ho costruito».

Dice di «rifuggire ciò che potrebbe esercitare un qualsivoglia controllo sulla mia libertà», dall’alcol «alla dipendenza dalle serie tv. Ne ero bulimica». E ammette: «Sono selvatica, istintiva e vera. Proprio come gli animali».

Maria De Filippi scioccata dalla morte del marito Maurizio Costanzo: non se lo aspettava. Renato Franco su Il Corriere della Sera il 25 Febbraio 2023.

La conduttrice andava a trovarlo mattina e sera in clinica e non immaginava questa evoluzione. Erano uniti da 33 anni e insieme avevano anche un figlio adottivo

Molto provata, scioccata, basita. È questo lo spettro di sentimenti che attraversa l’animo di Maria De Filippi, che è stata colta di sorpresa dalla morte di Maurizio Costanzo. Non se lo aspettava, non c’erano avvisaglie. Lui era stato ricoverato in una clinica romana per un piccolo intervento, «un problemino fastidioso, ma non grave». Lei lo andava a trovare mattina e sera, poi come sempre al lavoro, a registrare Amici. Una routine normale ed eccezionale li legava ogni giorno da 33 anni. La cena insieme, sempre, ma anche le vacanze (tranne in montagna a sciare, andava solo lei), una convivenza quasi simbiotica che il Covid aveva cementato ancor di più. Con il tempo lei era diventata il suo sergente di ferro — come scherzavano tra loro: controllava dieta e salute, centellinava cibi e dolci.

Il loro è stato un amore (insieme hanno avuto un figlio adottivo Gabriele, oggi 30enne), ma anche un’alleanza e una staffetta. L’intesa che si rinsalda in un passaggio di testimone. Prima lui potentissimo e lei una signora nessuno, ma con tanta stoffa. Infatti cresce alla velocità della luce. Arriva il momento in cui in coppia sono «la» televisione, ascolti & potere. Un sodalizio (non solo sentimentale) che continua finché lei — forte dei 23 anni in meno — diventa il pilastro di Mediaset come un tempo era stato lui. Costanzo & De Filippi, un marchio, un brand, una coppia indissolubile, la più potente della tv. Mai ci fu connubio più influente. Due che hanno fatto (lei la sta ancora facendo) la storia della tv.

Maurizio Costanzo e Maria De Filippi si conoscono nel 1989 quando il giornalista era già un nume tutelare di Canale 5, successi e insuccessi passavano per la vetrina del suo talk show, che decreta trionfi e disfatte, apre o stronca carriere. Un trampolino di lancio, quei 15 minuti di celebrità che se riuscivi a bucare lo schermo si potevano ripetere in un istante che diventava eterno. Anche Maria è una sua intuizione (tra i tanti che ha lanciato si deve aggiungere anche lei). All’inizio Queen Mary era ancora una principessa povera: «Quando ancora non ero popolare, e arrivavamo nei posti, mi sentivo messa da parte, direi sicuramente di essere stata gelosa di Maurizio. Poi ho imparato che Maurizio sa esserci, è un punto fermo, penso che mi abbia rasserenato. Io avevo due lati diversi. Uno molto forte, la certezza di saper fare, mentre dal punto di vista emotivo ero insicura».

La scelta di mandarla per la prima volta in onda è sua: «Ero considerata un’idiota... Però, sia chiaro, li capivo, gli altri. Pensavano è quella del momento, lasciamo a Costanzo lo sfizio di mandarla in video, l’anno prossimo ce ne sarà un’altra». Quanto si sbagliavano. Debutta in tv il 26 settembre 1992, subentrando a Lella Costa (che era incinta) nella conduzione di Amici. Molti furono sorpresi, anche Berlusconi che si occupava ancora di tv più che di politica: «Dovevo fare la tv a modo mio soprattutto perché in un’altra maniera non avrei mai potuto o saputo farla, ma qualche problema all’inizio si presentò e se non ci fosse stato Maurizio, che di Amici era il produttore, forse non avrei continuato. Silvio Berlusconi lo chiamò per chiedergli se fosse sicuro della bontà della sua scelta, io rappresentavo l’antitesi di tutto quello che passava in tv». Con il tempo invece diventa la tesi di quello che va in onda, un modello per tutti e la cassaforte di Mediaset con la Fascino, la sua casa di produzione che offre chiavi in mano e ascolti nel bagagliaio i maggiori successi di Mediaset: Amici, C’è posta per te, Uomini e donne e Tú Sí Que Vales . E poi proprio il Maurizio Costanzo Show , quasi a rendere il favore a chi aveva capito tutto per primo: «Cercavo una donna che mi tenesse la mano prima di morire e l’ho trovata».

Marta Flavi.

Ivan Rota per Dagospia il 5 marzo 2023.

La solitamente defilata Marta Flavi, che non é andata ai funerali di Maurizio Costanzo per “discrezione”, non si fa scrupoli a rivelare un aneddoto risalente al tempo andato quando il giornalista già era sposato con Maria De Filippi con una mancanza di tatto degna di nota. “Dieci anni fa ci siamo ritrovati – ha confidato la Flavi al settimanale Nuovo – Una verità mai emersa per una dote che nessuno potrà mai negarmi, la discrezione“. In questo modo la ex moglie di Costanzo ha fatto sapere di aver rivisto l’ex marito a Roma, proprio per volontà dell’ex che aveva piacere di vederla: “Mi fece contattare da un agente famoso dal quale seppi che aveva desiderio di rivedermi . Per incontro al teatro Parioli m’infilai una parrucca nera in testa. Volevo passare inosservata. Quando mi vide si mise a ridere e mi chiamò ‘madame’“.

Marta Flavi: «Con Costanzo ci siamo scannati, ma il tempo cancella tutto. Io ai funerali? Non andrò, non sarebbe elegante». Maria Volpe su Il Corriere della Sera il 25 Febbraio 2023.

La conduttrice è stata la terza moglie di Maurizio Costanzo, un matrimonio durato solo un anno, seguito da una separazione turbolenta

Marta Flavi è stata la terza moglie di Maurizio Costanzo . Dopo di lei, il grande amore, la quarta moglie Maria De Filippi. Il grande giornalista e la conduttrice di «Agenzia matrimoniale» si sono sposati nel 1989: un matrimonio durato solo un anno, giunto dopo tre anni di fidanzamento, a cui è seguita una separazione turbolenta.

Signora Flavi, Maurizio Costanzo ci ha lasciato.

«Sono sconvolta da questa notizia, mi dispiace tanto. Maurizio Costanzo è stato un uomo importante nella mia vita».

Ci dà un suo ricordo di Maurizio?

«È stato un uomo importante, ci siamo amati, anche contro tanti pregiudizi. Io ero giovane e bella».

Ma non è finita bene.

«È vero. Ci siamo scannati, ma il tempo calma tutto».

Da ieri mattina c’è un coro unanime su Maurizio: grande maestro di televisione. Anche per lei è stato così?

«Certamente: ho sposato Maurizio quando era la Televisione. Un giorno a Milano, a cena, mi presentò tutti insieme: Sandra Mondaini, Raimondo Vianello, Corrado con la moglie. Stavo per svenire».

Ma cosa le ha insegnato davvero?

«Ad ascoltare. Tutti ormai parlano sopra l’ospite e spesso sono i conduttori a dare le risposte alle loro stesse domande. Questo Maurizio non lo avrebbe mai fatto».

Lei guardava il Costanzo show?

«Sì spesso. Tutti siamo cresciuti con il suo talk show. Lui ha portato in Italia quello che facevano gli americani».

Come lo ha conosciuto?

«Tornata dall’America gli proposi di fare un programma sugli animali domestici. Lui mi disse: “Dopo il cane e il gatto di che parliamo”? Era spiritoso».

Cosa la conquistò?

«La sua parola. Lui ti conquistava parlando».

Come siete arrivati al matrimonio?

«Lui mi parlava spesso dei suoi matrimoni precedenti e aveva appena terminato la storia con Simona Izzo. Io gli dissi che la nostra unione doveva essere ufficiale. Lui disse: “Va bene, mi separo ufficialmente da Flaminia (la sua seconda moglie, ndr) e poi ti sposo”. È stato di parola. Dopo tre anni mi sposò».

Che uomo e marito è stato?

«Un uomo molto intelligente e divertente. Chiacchierare con lui era bellissimo. Da 15 anni di lui, ricordo solo cose belle. Voglio solo ricordare le cose belle di uomo generoso e affascinante. Le cose meno belle non le ricordo più».

Dopo solo un anno di matrimonio è cominciata una separazione tumultuosa.

«Quattro anni di separazione lunga e dolorosa. Poi entrambi abbiamo trovato altre strade. Non potevamo andare avanti, perché eravamo troppo diversi».

In che modo diversi?

«Lui concepiva la vita come lavoro, la sua vita era il lavoro. Per me non è così, non sono ambiziosa e ho bisogno di altre cose».

Rimpianti?

«No, é andata bene cosi. Sono stata molto felice, poi non più. Dopo la nostra unione, entrambi abbiamo avuto una vita bella e ognuno è andato per la sua strada con grande soddisfazione».

Cosa resta ora?

«Ho cancellato le tante cose brutte e in questi ultimi anni ho avuto per lui una forma di affetto. Ha fatto parte della mia vita. Ormai c’era serenità da parte di entrambi».

Con Maria De Filippi ha mai avuto rapporti?

«No, nessuno. Mi dispiace tanto per lei e per i figli. La morte è orribile».

Andrà al funerale?

«Non andrò al funerale, sarebbe poco elegante».

Giovanna Ralli.

Estratto da ilsussidiario.net il 9 marzo 2023.

Giovanna Ralli, ai microfoni di “Domenica In”, trasmissione di Rai Uno condotta da Mara Venier e andata in onda nel pomeriggio di oggi, 26 febbraio 2023, ha ricordato la figura del giornalista Maurizio Costanzo, con cui l’attrice ha avuto una storia d’amore.

Non una rivelazione assoluta, in quanto entrambi avevano rivelato questo retroscena al Maurizio Costanzo Show, però Giovanna Ralli ha voluto aggiungere alcuni dettagli: “Quando incontrai per la prima volta Maurizio Costanzo, lui aveva 21 anni, io ne avevo due più di lui. Siamo stati fidanzatini e in quel periodo aveva cominciato a lavorare per ‘Grazia’”.

 (…) “Ci siamo frequentati e innamorati, è stata una bella storia, poi io sono dovuta andare a Parigi e per motivi di lavoro ci siamo persi.

Estratto dell’articolo di Paolo Graldi per “il Messaggero” il 9 marzo 2023.

(…)

 Che cosa le suggerisce la parola diva?

«Non credo di essere una diva. No. Diva era Gina Lollobrigida. È stata la prima che ha lavorato all'estero. Bellissima: il viso della Lollobrigida nessun'altra lo ha mai avuto. Lei è stata brava, molto».

 Cosa è per lei recitare?

«Non amo la parola recitare. Io non recito, io interpreto il personaggio».

 Come ha vissuto il suo matrimonio durato 38 anni?

«È stato stupendo. Sono otto anni che è scomparso Ettore: è stato un compagno straordinario. Eravamo una persona unica. Negli ultimi anni era subentrata la tenerezza: la cosa più bella dell'amore».

 Che effetto fa l'amore del pubblico?

«Come un vento avvolgente. Io non volevo fare l'attrice, ho cominciato a fare la comparsa a 13 anni, per aiutare la famiglia. Mi ricorderò sempre la prima volta che andai ad una visione privata di un mio film, Villa Borghese protagonista Vittorio De Sica. E tutti a dire: "Ma quanto è brava questa ragazza. Come si chiama questa attrice?". Ci fu una critica straordinaria di Filippo Sacchi su Epoca. È li che mi sono detta: "Devi continuare"».

 Gli applausi a teatro, un momento magico?

«Sì. Ho fatto teatro per otto anni.Alla fine con quel suono delle mani che battono ti assale un'enorme emozione. Prima di entrare in scena le mani sono umide, il terrore ti pervade. Si apre il sipario e tutto diviene naturale».

 Affetti, quali?

«Prima la famiglia, poi gli amici e le amiche. Pochi».

 Con chi ha lavorato meglio?

«Con Sordi, con Mastroianni, con Tognazzi, con Gassman.Con tutti sono andata d'accordo. Ho lavorato anche con Michael Caine, un partner straordinario».

I ricordi riscaldano la vita?

«Cerco di pensare sempre al presente. Ci sono delle vicende che magari puoi ricordare come in questi giorni dopo la scomparsa di Maurizio Costanzo, un carissimo amico, che ho conosciuto quando eravamo ragazzi. In questo frangente ho voluto ricordare, ma non sempre lo faccio volentieri».

 Il suo successo indimenticabile?

«Una giornata particolare, la riduzione teatrale della moglie di Scola. Quando Ettore mi offrì di farla io rifiutai. Era stata talmente grande Sofia sullo schermo che temevo i paragoni. Scola mi disse: "Ma tu sei romana, tu lo fai come ti senti, tu sei tu".

L'ho fatto. Critiche straordinarie e premio come migliore attrice dell'anno».

 Il peggior difetto degli attori?

«Non essere puntuali. Io sono di una puntualità pazzesca, per rispetto verso i miei compagni di lavoro».

(…)

I Figli.

Chi sono i figli di Maurizio Costanzo, Saverio, Camilla e Gabriele. Redazione Online su Il Corriere della Sera il 25 Febbraio 2023.

I primi due li ha avuti con la seconda moglie, Flaminia Morandi, l’ultimo, il più piccolo, lo ha adottato con Maria De Filippi nel 2001

Sono tre i figli di Maurizio Costanzo: Saverio e Camilla, avuti con la seconda moglie , la giornalista e scrittrice Flaminia Morandi, e Gabriele adottato con Maria De Filippi.

Camilla è la più grande. Nata nel 1973, è una scrittrice e sceneggiatrice, ha un marito e due figli. Non ama i riflettori e si tiene lontana dai social network. All’inizio della sua carriera si è cimentata nel ruolo dell’attrice ma poi ha cambiato strada.

Nel 2009 ha pubblicato il libro Ero cosa loro. L’amore di una madre può sconfiggere la mafia, con Giusy Vitale. Nel 2015 ha firmato il romanzo Una bellissima notte senza luna. Della sua vita privata si sa pochissimo.

Saverio è nato a Roma nel 1975, oggi ha 47 anni. Regista e sceneggiatore di successo anche lui ha avuto due figli dall’allora compagna Sabrina Nobile, ora è legato sentimentalmente all’attrice Alba Rohrwacher. Laureato in Sociologia della Comunicazione, ha iniziato la sua carriera come conduttore radiofonico, sceneggiatore e attore. Alla fine degli anni ‘90 si è trasferito a New York per perseguire la carriera da regista. Tra le sue opere più importanti ci sono L’Amica Geniale e la serie tv In Treatment, Private e La solitudine dei numeri primi.

Il più piccolo dei tre figli è Gabriele, nato nel 1992, ha 31 anni. Gabriele è il figlio di Costanzo e Maria De Filippi. È entrato nella loro famiglia nel 2002, quando aveva 10 anni. Dopo il diploma, Gabriele ha iniziato a lavorare per la Fascino come aiuto produttore in alcuni programmi condotti dai suoi genitori. Nel 2017 ha iniziato a collaborare anche con il Maurizio Costanzo Show. Nel 2021 ha fondato una casa discografica.

Estratto dell’articolo di Camilla Costanzo per “la Repubblica” venerdì 11 agosto 2023. 

Papà è stato prima di tutto il suo lavoro. Non ho mai conosciuto nessuno con una passione così grande per il proprio mestiere. Credo sia il motivo per cui tutti quelli che gli hanno voluto bene, gli hanno sempre perdonato le tante assenze e le distrazioni. […]

Con papà non siamo mai andati al cinema, al parco o a fare una passeggiata e, se volevi vederlo, dovevi essere tu ad andare dove stava lui.

Uno studio televisivo, il suo ufficio, il teatro. Eppure è stato padre e non solo per noi figli. Vedeva negli altri quello che nemmeno loro vedevano di sé stessi. Per questo è stato mentore per molti, ha cambiato destini e aiutato chi era in difficoltà.

Il successo e la fama hanno lasciato intatta la sua umanità e la curiosità per l’animo umano. Non ha mai smesso di essere quel ragazzo timido e grassottello che, fin da piccolo, sognava di fare il giornalista fingendo di commentare il giro d’Italia usando un portasapone come microfono. 

[…] Negli ultimi anni era cambiato. Si era intenerito. Anche se il suo lavoro continuava ad essere il centro della sua vita, dalla nascita del primo nipote qualcosa era cambiato in lui. Ha indossato i panni del nonno anche nel lavoro. Il suo ufficio era diventato un via vai continuo di persone che da lui cercavano consigli, suggerimenti, indicazioni. 

[…]Tra l’altro era un misantropo, non amava le feste o le cene e se da giovane era costretto alle pubbliche relazioni, ad un certo punto ha smesso del tutto. [...] La verità è che si divertiva solo lavorando. Il resto lo annoiava.

[…] Ascoltava e parlava con tutti, premio Nobel o persona comune che fosse. […] Era discreto, timido e teneva alla sua privacy. Smise di farlo appena cominciarono a riconoscerlo e a fermarlo. 

Tanti anni fa venne una volta a trovarci al mare. Abitavamo in una pineta e scoppiò un incendio. Detestava la spiaggia e ancora più farsi vedere in costume da bagno, ma in quel frangente fu costretto a rifugiarsi sulla spiaggia insieme agli altri. È l’unico ricordo che ho di lui al mare.

Fino a quando non ha incontrato Maria, la parola vacanza non ha mai fatto parte del suo vocabolario. Diceva che in vacanza si annoiava e siccome la noia è stato lo spauracchio della sua vita, la rifuggiva come la peste. Maria è stata la prima persona a convincerlo a fermarsi qualche giorno in estate. Con fatica accettava di fare due passi in giardino, al limite a mettere le caviglie nell’acqua della piscina ma, la maggior parte del tempo, lo passava in camera con l’aria condizionata al massimo. Ovviamente a lavorare.

[…] L’unica volta che facemmo un viaggio con lui, andammo negli Stati Uniti.

Era agosto, faceva caldo e lui, invece di fare il turista, si chiudeva in albergo a guardare la televisione. È tornato in Italia con una valigia piena di nuove idee. […] ha viaggiato tutta la vita senza o quasi muoversi da Roma. Adorava guardare la televisione. 

In ufficio aveva sette schermi sempre accesi che lui sbirciava con la coda dell’occhio mentre lavorava o parlava con qualcuno.[…] Se stavi con lui, c’era sempre un televisore acceso[…]

Papà ha passato la vita a dieta. Negli ultimi anni poi mangiava pochissimo e quasi mai carne. Diceva che invecchiava il cervello e non lo faceva pensare con lucidità. Per lui il corpo era una carrozza che lo trasportava, a cui non prestava troppa attenzione. Lo sport fa male, diceva, se sono arrivato alla mia età è perché mi sono ben guardato dal farne qualcuno.

[…] Era pigro in tutto, tranne se si trattava di lavorare. Credo che l’identificazione con la tartaruga sia nata da qui. Un animale lento, goffo, ma riflessivo e tenace. Ne aveva tantissime e ne regalava una a chi lo andava a trovare. […] Negli ultimi anni citava spesso una frase di Piero Angela: “Per non invecchiare bisogna sempre avere un progetto”. […] Non rifiutava mai un lavoro, nemmeno se veniva da una piccola tv privata. Non lo faceva per soldi, spesso non voleva nemmeno essere pagato. Quando è morto abbiamo trovato nel suo ufficio 500 metri quadrati di progetti, alcuni realizzati, altri ancora da realizzare. Montagne di idee che gli hanno fatto compagnia e aiutato a sconfiggere la noia.

L’Eredità.

Maurizio Costanzo, il patrimonio di ville e diritti d'autore lasciato ai figli e a Maria De Filippi. Il Tempo il 26 febbraio 2023

Un tesoro che erediterà la moglie Maria De Filippi e i suoi tre figli, Saverio e Camilla, avuti dalla seconda consorte Flaminia Morandi, e Gabriele, adottato con la conduttrice. In più di mezzo secolo di carriera il patrimonio accumulato sarebbe enorme: in un articolo Repubblica spiega che non ci sono solo beni immobiliari come appartamenti e ville ma anche proprietà intellettuali. Costanzo infatti è stato un grande giornalista ma anche un paroliere che ha scritto brani indimenticabili. Il più celebre è Se telefonando, del 1966, cantato da Mina. 

Solo a Roma, Costanzo possedeva con la De Filippi due appartamenti da oltre 150metri quadri nel prestigioso quartiere Prati. Di queste case il giornalista aveva l’usufrutto, mentre la nuda proprietà è in capo alla presentatrice. Ci sono poi le proprietà in Toscana dove il gigante della tv amava trascorrere le sue vacanze. La villa di Ansedonia, vista mare, è una di queste insieme a numerosi terreni.

Estratto dal “Corriere della Sera” il 3 marzo 2023.

La famiglia di Maurizio Costanzo e in particolare Maria De Filippi reagisce alle notizie diffuse nei giorni scorsi sull’eredità del giornalista morto a 84 anni il 24 febbraio […] con una nota dell’avvocato Pierluigi De Palma che definisce «false e del tutto inconferenti con la realtà dei fatti» le informazioni pubblicate dal Corriere «su un patrimonio di 70 milioni di euro e sulla proprietà di alcuni appartamenti a Roma e una villa ad Ansedonia».

Nell’articolo si raccontava che il giornalista, autore televisivo e maestro di spettacolo aveva lasciato in eredità alla moglie Maria De Filippi e ai tre figli Saverio, Camilla e Gabriele «numerosi immobili, tra cui uno ad Ansedonia [...], due in via Poma nel quartiere Prati di Roma ed ulteriori immobili in località Poderi di Sotto (in provincia di Grosseto, non distante dalle terme di Saturnia, ndr)».

 La reazione del legale è netta: «La valutazione fatta del patrimonio è immaginifica» e Maria De Filippi, è «sorpresa e addolorata perché in un simile momento vengano diffuse notizie non verificate e di macroscopica falsità». […]

LE PROPRIETÀ. L’eredità di Maurizio Costanzo: dalle ville all’Argentario e Parioli ai diritti d’autore. Valentina Iorio su Il Corriere della Sera l’1 marzo 2023.

Maurizio Costanzo, morto venerdì 24 febbraio all’età di 84 anni, ha lasciato in eredità un patrimonio di circa 70 milioni di euro che andrà a sua moglie Maria De Filippi e ai suoi tre figli: Saverio e Camilla e Gabriele. Oltre agli appartamenti a Roma e le villa, ci sono i diritti sulla proprietà intellettuale. Costanzo, oltre che anche di celebri programmi televisivi, è stato autore di sceneggiature, libri. Per fare un esempio, ha firmato la sceneggiatura del capolavoro di Ettore Scola Una giornata particolare, insieme allo stesso Scola e a Ruggero Maccari. Inoltre è autore della canzone Se telefonando resa immortale dalla voce di Mina. Anche queste proprietà rientrano nella lista dei beni che vanno agli eredi.

La villa all’Argentario

Il suo buen retiro era Villa Sadula, all’Argentario. L’aveva scelta e comprata insieme alla moglie Maria De Filippi, chiamata unendo le iniziali dei nomi dei loro cani, un pastore tedesco, un bracco, un bassotto, come ha raccontato La Repubblica. «Un posto magnifico, tanto che per averlo sempre davanti agli occhi, nel bagno del mio ufficio di Roma ho fatto mettere una grande fotografia che mi raffigura proprio davanti a quella scrivania. E quando la guardo penso: “Ma che imbecille sono a rompermi le palle qui!”. Però poi so che non potrei vivere senza lavorare e mi consolo», aveva raccontato Costanzo in un’intervista al Tirreno.

Gli appartamenti a Roma

A Roma Maurizio Costanzo possedeva, insieme alla moglie Maria De Filippi, due appartamenti da oltre 150 metri quadrati nel quartiere Prati. Per anni il giornalista ha vissuto in un attico in Via Carlo Poma,nota per l’omicidio di Simonetta Cesaroni, un caso ancora irrisolto.

Poderi di Sotto

A soli 40 chilometri da Villa Sadula, Costanzo ha un’altra proprietà in Località Poderi di Sotto, che dovrebbe essere divisa tra i figli Saverio e Camilla. Sempre nel Grossetano Costanzo ha anche diversi terreni di proprietà. Il giornalista aveva una casa anche vicino alle Terme di Saturnia.

Il patrimonio del giornalista andrà alla moglie, la conduttrice Maria De Filippi, e ai tre figli Camilla, Gabriele e Saverio. su La Repubblica il 25 Febbraio 2023

E' un piccolo tesoro quello che Maurizio Costanzo lascia alla moglie, la conduttrice Maria De Filippi e ai tre figli Camilla, Gabriele e Saverio. Non ci sono solo gli appartamenti, le ville. Oltre alle proprietà immobiliari ci sono anche quelle intellettuali. Costanzo ha infatti composto diverse canzoni. E’ stato un’icona del giornalismo e della tv ma anche un grande paroliere. Ha scritto brani indimenticabili, che hanno fatto la storia della musica italiana.

Estratto dell’articolo di Marco Carta e Giuseppe Scarpa per “la Repubblica - edizione Roma” il 26 febbraio 2023.

E' un piccolo tesoro quello che Maurizio Costanzo lascia alla moglie, la conduttrice Maria De Filippi e ai tre figli Camilla, Gabriele e Saverio. Non ci sono solo gli appartamenti, le ville. Oltre alle proprietà immobiliari ci sono anche quelle intellettuali. Costanzo ha infatti composto diverse canzoni. E’ stato un’icona del giornalismo e della tv ma anche un grande paroliere. […]

Il super-attico nel palazzo del giallo di via Poma

Per quanto concerne le proprietà immobiliari, solo a Roma, Costanzo ha due appartamenti con De Filippi nel prestigioso quartiere Prati. Due case che superano abbondantemente i 150metri quadri. Di queste case il giornalista ha l’usufrutto mentre la nuda proprietà è in capo alla presentatrice. Uno dei due appartamenti è un attico del condominio noto per l‘omicidio irrisolto di Simonetta Cesaroni in via Poma.

Le proprietà e la villa ad Ansedonia

Ci sono poi una serie di altre proprietà, in provincia di Grosseto, vicino alle terme di Saturnia, dove Costanzo amava spesso andare. […] ad Ansedonia dove si riposava nella sua celebre villa, non intestata a suo nome. Ad appena 40 chilometri in auto dalla sua residenza estiva, Costanzo ha un’altra dimora in Località Poderi di Sotto da 150 metri quadri. Nella stessa zona ha anche diversi terreni, in questo caso la nuda proprietà è in capo ai figli Saverio e Camilla.  

Il Maurizio Costanzo Show.

Estratto dell’articolo di Marco Lodoli per “la Repubblica” il 28 febbraio 2023.

[…] Costanzo ha sicuramente scritto pagine importanti nello spettacolo e nella comunicazione televisiva […] Nel suo salottino al teatro Parioli abbiamo conosciuto per la prima volta Sgarbi, Mastandrea, Iacchetti, Ricky Memphis e tanti altri personaggi che lì hanno iniziato a dimostrare le loro qualità. […]

 Però è giusto riconoscere che quella trasmissione, così brillante e vivace, è stata anche responsabile, in nome dello spettacolo a tutti i costi, di una sorta di omologazione culturale: sullo stesso palco ogni sera trovavamo fianco a fianco il comico e il disperato caso umano, la bellona scosciata e lo scrittore ambizioso con il suo nuovo romanzo, l’arrabbiato cronico e il buonuomo, il regista di tanto o poco talento e il politico chiacchierone […]

Tutti diventavano simpatiche marionette tra le mani abili e sornione di Costanzo, tutto era uguale a tutto purché ci accompagnasse senza scosse verso il sonno. Una grande invenzione televisiva, le interviste punzecchianti che diventavano teatro […] E poi il lancio strepitoso di Maria De Filippi, donna intelligente, amatissima dal pubblico televisivo: ma siamo sicuri che Uomini e donne abbia migliorato i rapporti tra gli uomini e le donne? Che C’è posta per te abbia veramente restituito uno spazio sincero alle emozioni? Ma questo ormai non conta più, la morte si porta via tutto quanto, un grande creatore e comunicatore e tutte le nostre inutili obiezioni. […]

Estratto dell’articolo di Maria Francesca Troisi per mowmag.com il 26 febbraio 2023.

Maurizio Costanzo ha creato dei mostri”. Dice proprio così Aldo Grasso, critico del Corriere della Sera, che nella carrellata di reazioni zuccherose postume diviene una delle poche voci fuori dal coro. […]

In un'intervista per i suoi 80 anni (concessa a Dagospia) Costanzo diceva: “Vorrei che Aldo Grasso possa un giorno comprendere che nel mio lavoro ho fatto qualcosa di buono”. A posteriori, ha cambiato idea?

«Dei morti bisogna sempre parlare bene, è la prima regola. Sicuramente ha portato in Italia un genere nuovo, ma non sono mai stato entusiasta della sua televisione. Certo, era un grandissimo professionista, ma...»

 Ma?

La sua era una Tv da uomo di potere. Amico della sinistra e amico di Silvio Berlusconi, consulente di tutti gli uomini politici e anche delle principali imprese italiane, insomma aveva la capacità di tenere sempre il piede in più scarpe.

E ha creato dei personaggi sopravvissuti a più di una stagione. Esempio Sgarbi, che individua anche degli eredi, Giletti, Porro, che pensa di questa lettura?

«[…] ha creato dei personaggi che sono sopravvissuti, ma ha creato anche dei mostri, nel senso di persone esaltate, fuori di testa, e proprio a causa delle apparizioni al Costanzo Show».

 La sua principale invenzione rimane sempre la moglie, Maria De Filippi? Forse la donna più potente d'Italia.

O forse il contrario? Anche questo è un caso strano. Costanzo aveva troppo di tutto, i programmi Tv, le collaborazioni giornalistiche, quattro mogli...

Filippo Facci sostiene: “È stato un giornalista utile sino alla fine degli anni '80... Il resto fu intrattenimento e divenne un banalizzatore”. Sposa questo pensiero?

Sì, direi che Facci è della mia stessa idea. Mi vanto di essere stato invitato tante volte al Maurizio Costanzo Show e di non esserci mai andato.

 Per una mancata stima, suppongo.

La verità? Il personaggio mi piaceva moltissimo, ma non mi piaceva la persona. Uno iscritto alla P2, uno che ha intervistato Licio Gelli, l'abbiamo rimosso?

Estratto dell'articolo di Massimo Gramellini per il "Corriere della Sera" il 25 febbraio 2023.

Muore Costanzo e sui social si parla della sua iscrizione alla P2. Peggio, ci si indigna perché nei ritratti e nelle testimonianze dei colleghi si parla troppo poco della sua iscrizione alla P2 (di cui peraltro si era ampiamente scusato). Vorrei attirare la vostra attenzione sul meccanismo psicologico che guida questo flusso di lapidatori.

Se n’è andato un signore che ha accompagnato la vita quotidiana di tre generazioni di italiani [...] Che esistenze integerrime, le loro. Evidentemente non hanno mai sbagliato un colpo, un gesto, un’amicizia.

Un tempo la morte era il colpo di gong che interrompeva le ostilità per dare il modo di rendere omaggio anche al peggiore dei nemici. Nell’era dei social si sta invece trasformando in una ghiotta occasione per scoperchiare vecchie pentole arrugginite e regolare conti lasciati in sospeso da decenni. Dai coccodrilli siamo passati agli avvoltoi, ma non mi sembra che si voli più alto.

Estratto dell'articolo di Renato Franco per il "Corriere della Sera" il 26 febbraio 2023.

[…]

Strano ma vero: non fu lui a scoprirla.

«Fu il contrario, ero io all’inizio che lo raccomandavo».

 Come vi siete conosciuti?

«In Rai. Io andai a fare uno spettacolo poverissimo, da solo in scena, cantavo e raccontavo aneddoti. Lui mi vide e mi chiamò per una trasmissione».

 «Alle 7 della sera».

«Aveva le idee chiare. Mi disse: tu farai il presentatore, ma non cercare di fare il simpatico, il bonario, il democratico, perché tu hai la faccia da figlio di papà, o meglio hai la faccia da stronzo... Quindi devi fare lo stronzo; devi parlare affettato, con il birignao, vestire in maniera fané, con i capelli tirati all’indietro e vedrai che pian piano la gente dirà: ma chi è questo stronzo? Ecco così ti noteranno».

 Era il 1974, «Bontà loro» arrivò due anni dopo.

«Si stava affermando come giornalista ma non aveva ancora fatto niente di importante, tant’è che quando feci il film di Duccio Tessari La madama proposi Maurizio tra gli sceneggiatori».

 Era cinico come sembrava?

«Era ironico, aveva quell’umorismo cinico che piace a me. Ma era anche facciata. Ricordo che nel 2006 mi chiamò per uno spettacolo scritto con Enrico Vaime, Parlami di me. Alla prima Maurizio venne dietro le quinte e ci disse: non abbiate paura perché stasera ci stanno tanti figli di buona donna che sperano che voi sbagliate per poter dire che lo spettacolo è brutto. Fregatevene. Lo spettacolo ebbe un tale successo che ci fu una standing ovation. Io e Maurizio ci siamo abbracciati nel backstage e lui piangeva. Credo di poter essere l’unico a poter dire di aver visto Maurizio piangere».

[…]

«mangiava sempre tramezzini, pizzette, niente di cucinato. Arrivava tutta roba dal bar, non ho mai visto una pasta o un risotto...».

[…]

Quella mano di Maria come sipario. Daniele Abbiati su Il Giornale il 26 Febbraio 2023

La vocetta da vecchio bambino sembrava quasi il vezzo che accompagna un capriccio, una giustificazione, una scusa. Ma suonava incrinata, grattava un po' come i vecchi dischi, e in fondo era un'imperfezione piacevole, come in Se telefonando (roba sua) nella versione dei Delta V. Piacevole perché quella vocetta da un pezzo non la si sentiva. «Buongiorno a tutti - disse - e scusate se vi disturbo, sono nel salotto di casa mia, ho qualche linea di febbre ma niente di grave, il frutto della stagione. Per questa ragione andrà in onda un meglio del Maurizio Costanzo Show con i momenti più significativi del programma. Poi tutto passerà e dalla settimana prossima torneremo a incontrarci, stavolta non dal salotto di casa mia ma dal teatro Parioli». Era il 7 ottobre scorso, e la puntata speciale del suo salotto televisivo non andò in onda. Con la stessa vocetta, un anno prima, in un'intervista aveva detto: «Vorrei morire senza accorgermene, senza soffrire, con la mano in quella di Maria». Non era un capriccio, una giustificazione, una scusa, ma un desiderio domestico e intimo, a riflettori spenti. Sotto gli occhi e vicino alle orecchie di Maurizio Costanzo sono passate migliaia di vite. Lui le esaminava, le auscultava, usando i semplici strumenti di altre parole, non invasive né invadenti, quando la sua voce sapeva ancora di sigarette e di lavoro indefesso. Ma la sua, di vita, stava parlando proprio in quel momento. Voleva che la mano di Maria fosse il suo sipario. Come vuole un qualsiasi uomo X da qualsiasi donna Y. La mano. Quando ci si sposa, gli uomini «chiedono la mano» della loro donna. Quando incominciano a camminare, i bambini chiedono la mano della mamma. E quando avvertì l'arrivo dell'unica ospite indesiderata della sua carriera, che è quasi perfettamente sovrapponibile alla sua vita, Maurizio Costanzo richiese la mano di Maria De Filippi. Dicono che la fine non fosse prevista come imminente, dicono che la sosta ai box della clinica romana fosse una pausa di quelle da «consigli per gli acquisti» che lui ha lanciato un milione di volte. Dicono che il diabete era ben sorvegliato. Si dicono tante cose, di una persona, quando le si vuole bene. Ma la cosa più bella da dire (da chiedere o da dare) è sempre quella che sta in una mano.

"Io in pensione? Non ci penso. A Silvio ho detto: vai al Colle". Paolo Giordano il 7 Dicembre 2021 su Il Giornale. Dopo 40 anni, il re del salotto tv si confessa: "Sono troppo curioso per fermarmi". E rivela: "Racconterò i personaggi famosi attraverso i loro figli".

«Mo' parliamo subito di cose belle», dice. D'accordo. Allora la prima notizia è che, nonostante sia in onda da quarant'anni, il Maurizio Costanzo Show aumenta gli spettatori giovani, quelli compresi tra i 15 e i 34 anni, quelli che seguono sempre meno la tv. La seconda notizia è che l'autorevolezza non ha età e quindi piace a tutte le età. «È il dato che mi fa più piacere, è una conseguenza del lockdown ma anche dell'attenzione che abbiamo dato a temi come il Ddl Zan», conferma lui, classe 1938, senza dubbio uno dei padri fondatori della televisione moderna.

Alla tv Maurizio Costanzo ha portato l'anima popolare e popolana, mescolando l'alto con il basso e diventando un «format». Non a caso oggi si dice «tv alla Costanzo». Difficile trovare qualcosa che non abbia fatto in oltre sessant'anni di carriera: autore, conduttore, giornalista, talent scout, testimonial e via elencando. Poi, con il suo Show, è diventato uno snodo fondamentale dell'attualità, del costume e della politica. È arrivato prima dei social, trasformando lo schermo in un luogo d'incontri e condivisioni. Un rituale che va avanti da quarant'anni, restando sempre al centro della scena. «E se va come deve andare, continuerò ancora con altre edizioni».

Si ricorda la prima?

«Andava in onda soltanto una volta alla settimana su Rete4, allora di proprietà della Mondadori. Poi la comprò Berlusconi e mi chiese di fare una puntata al giorno».

Adesso siamo arrivati a 70mila ospiti. Da Kirk Douglas a Carmelo Bene all'uomo qualunque, passando per politici, giornalisti, cantanti, star.

«L'ospite che per primo mi viene in mente adesso è Aïché Nana, sa la ballerina che negli anni Cinquanta improvvisò uno spogliarello citato anche da Fellini nella Dolce Vita?».

La famosa festa organizzata dall'appena scomparsa Olghina di Robilant al Rugantino di Roma che diventò il manifesto di un'epoca.

«Un atto casuale ma dirompente. Uno di quei gesti che entrano nella storia del costume. Mi piaceva la sua voglia di vivere, di rimanere sempre la Aïché del ristorante Rugantino, piena di entusiasmo».

Il bello del Costanzo Show è che talvolta diventa un «confessionale».

«Una volta Andreotti disse: Lo sa che quasi tutti i miei compagni di scuola sono diventati cardinali? Loro hanno fatto carriera. Ma come, gli risposi, loro hanno fatto carriera? E lei?».

Era presidente del Consiglio.

«Ma quella risposta era forse la conferma di un suo riflesso mentale, magari una conseguenza dell'educazione per la quale il Vaticano restava per lui sempre il punto di riferimento più importante».

Ci sono stati ospiti che, da soli, valevano il biglietto.

«Sordi. Oppure Gassman. Oppure i tre tenori Pavarotti, Carreras, Domingo. O Monica Vitti, che ha appena compiuto 90 anni e che ricordo con tenerezza. L'ultima volta che è venuta da me ne aveva 70 e quella sera ho intuito che non stava già bene. Non aveva nulla di visibile, per carità, solo una mia sensazione poi purtroppo confermata».

Costanzo ha «importato» il talk show dagli Stati Uniti.

«E ho voluto l'orchestra sul palco perché l'avevo vista da Johnny Carson nel Tonight Show».

Negli States i talk show hanno fatto opinione e lanciato protagonisti. L'Ed Sullivan Show, ad esempio, lanciò Elvis e i Beatles.

«Il mio rapporto con la tv americana è sempre stato molto stretto. Ricordo sempre quando sono stato ospite del David Letterman Show, credo fosse il 1984».

David Letterman è a godersi la pensione già da qualche anno. E lei?

«Ma perché? Sono curioso di tutto. Se mi chiedessero di intervistare uno per strada che chiede l'elemosina, probabilmente gli farei domande per mezz'ora».

Nell'epoca di Google e del «sotuttosubito», anche ai giovani piace chi vuole approfondire.

«E questa necessità porta ad aumentare il confronto generazionale. Perciò in questa edizione del Costanzo Show ho voluto avvicinare personaggi famosi e politici ai loro familiari. Abbiamo iniziato con Maurizio Gasparri in studio con la figlia. E poi Meloni, Salvini eccetera. Chiedo ai figli che genitori hanno. Faccio il percorso inverso rispetto al solito».

Dopotutto questa è sempre stata la cifra di Maurizio Costanzo. Andare al contrario. Partire dall'uomo della strada per capire l'uomo di potere. Una chiave di lettura che oggi sembra più attuale che mai, vista che spesso le due figure si sovrappongono. E usare questa chiave è meno facile di quel che sembra: ci vuole impegno, mica basta googolare per fare la scaletta del Costanzo Show. «Per individuare gli argomenti ci lavoriamo quattro o cinque ora ogni volta».

Lui, che non è più un giovanotto dall'alto dei suoi 83 anni, anche stavolta parla dal suo studio di Roma pieno di libri e schermi tv, appoggiato a una scrivania come gran parte della giornata. Usando una parola inglese, Costanzo è un «workaholic», lavora ogni giorno finché può. Dopotutto legge, scrive sui quotidiani, fa tv. «Ah sono anche su Rai1 in terza serata con S'è fatta notte ideato con Pino Strabioli». Inarginabile. Ed è così da ben più di mezzo secolo.

C'è un suo erede?

«Mi piace molto Giovanni Floris, ha un bel modo di condurre sin da quando era in Rai. E anche, specialmente per come tratta la politica, Paolo Del Debbio. Non so se sono miei eredi. Comunque mi piacciono».

Pochi però hanno il coraggio di portare in scena volti sconosciuti.

«Sì io l'ho fatto spesso. E spesso sono diventati personaggi. Talvolta sono proprio esplosi, come Vittorio Sgarbi oppure Giampiero Mughini. Altre volte, come nel caso di Carmelo Bene, sono diventati popolari, hanno dato un'immagine di sé magari diversa da quella conosciuta, come nel suo caso, soltanto nel mondo teatrale o letterario».

I comici poi.

«Enzo Iacchetti, Dario Vergassola, hai voglia... Ne ho scelti tanti, sono sempre una componente essenziale, dopotutto la risata è una parte decisiva delle belle chiacchierate, no?».

A proposito di chiacchiere, se ne sentono molte dai no vax.

«I no vax che non rompessero i cog...».

Qualche volta comunque ci riescono.

«Leggo che le terapie intensive sono purtroppo piene di no vax».

Parliamo di sì vax.

«A scanso di equivoci, ho fatto la terza dose. Il vaccino al momento è l'unica vera soluzione a questo contagio, no? E allora facciamolo».

Chi è Maurizio Costanzo sul palco?

«Un signore che lancia gli argomenti di discussione».

Quanto ci vuole a fare una puntata del Costanzo Show?

«Prima c'è la selezione degli argomenti. Poi c'è tutto il resto, che non è poco».

Nella puntata che celebrava i 20 anni, nel 2001, arrivò anche un messaggio del presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi: «La sua trasmissione ha contribuito a stimolare il confronto e il dialogo».

«Spero di continuare a meritare questo giudizio anche vent'anni dopo».

Il pubblico conferma.

«Una media del 15 per cento di share dopo così tanti anni di messa in onda è senza dubbio straordinaria. È una soddisfazione enorme per chi, come me, ci ha dedicato una vita».

70mila ospiti. Infinite interviste. Scoop. Attentati subiti. Polemiche. Successi. A furia di assorbire la vita degli altri, si rischia di farsene condizionare. Mai avuto momenti bui o depressione?

«No, depressione mai. Quando ho qualche periodo difficile, trovo sempre qualcosa da fare, qualche novità, un progetto nuovo. Mi viene spontaneo, è il mio modo di reagire».

C'è qualcosa che non sopporta?

«Forse il politicamente corretto si è preso uno spazio esagerato».

Nel 1978 Rino Gaetano la citò nella canzone Nuntereggaepiù.

«Lo invitai nel mio programma di allora su Raiuno che si chiamava L'Acquario».

Quello con un acquario sotto la scrivania come quello di Fazio a «Che tempo che fa».

«In studio c'era anche Susanna Agnelli».

Pure lei citata nella canzone di Rino Gaetano.

«Quando lo vide entrare, sorrise».

Lui la cantò quasi tutta.

«La Agnelli confermò di conoscere il pezzo perché gliel'avevano fatto ascoltare i figli. E, alla fine, aggiunse che, se fosse stata nel ruolo del cantante, avrebbe fatto la stessa cosa, ossia avrebbe scritto un testo del genere. Si comportò da grande signora».

Un confronto che oggi sarebbe difficile.

«E io spero che si torni ai tempi di Rino Gaetano quando, nel rispetto di tutti, si poteva parlare più liberamente. Non a caso lui fece una canzone di protesta eppure venne tranquillamente in tv su Raiuno a parlarne senza alcuna censura o protesta».

Quando parla, Maurizio Costanzo ha una lucidità storica impressionante. Se volesse, potrebbe scrivere un best seller soltanto con i ricordi di una carriera iniziata a diciott'anni a Paese Sera e transitata attraverso interviste gigantesche (anche Totò, lo sapete?), programmi tv, nuovi personaggi comici (si immaginò Fracchia con Paolo Villaggio) e persino canzoni come Se telefonando, di cui ha scritto il testo con Ghigo De Chiara, mentre la musica e gli arrangiamenti sono di Ennio Morricone. La voce, naturalmente, è quella eterna di Mina.

Ha voglia di scrivere un’altra canzone?

«Eh ma quelli so' colpi de culo. Hai Mina che canta ed Ennio Morricone che scrive la musica e la arrangia. Quando ti ricapita? Di certo ci ripenso spesso, è stato un momento meraviglioso».

Qualche volta sul palco del Costanzo Show ha suonato il sax. Che musica ascolta?

«Ascolto un jazz morbido che mi aiuti a rilassarmi e a concentrarmi. E poi qualche volta ritorno indietro nel tempo con Buscaglione, Bongusto, Carosone, insomma grandi musicisti che sapevano come emozionare il pubblico».

Anche i ragazzi li stanno scoprendo.

«È importante conoscere le nostre radici. In un certo senso, il periodo del lockdown ha aiutato ad approfondire, a guardarsi indietro, magari a scoprire i maestri.

E penso che il lockdown abbia anche aiutato la tv generalista a confermare e magari aumentare il consenso, specialmente presso il pubblico più giovane».

In che modo Maurizio Costanzo parla ai giovani?

«Cercando di pensare a cosa pensano loro. E senza giudicarli».

Anche la politica torna a interessare i ragazzi. Come vede Silvio Berlusconi alla presidenza della Repubblica?

«Penso che gli piacerebbe».

Ma Costanzo cosa ne pensa?

«Gliel'ho anche detto: Silvio vai al Quirinale. Anche se so bene che a qualcuno darà fastidio. Però...».

Però?

«Prima di fare politica, Berlusconi è stato un editore liberale e illuminato e mi pare che anche successivamente abbia confermato queste sue caratteristiche. E poi, per quanto mi riguarda, senza di lui quarant'anni di Costanzo Show non li avrei mai fatti». Paolo Giordano

Maurizio Costanzo: «Da Andreotti a Platinette, i miei 40 anni di Show». Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 31 ottobre 2021. Il giornalista: «Villaggio uno dei primi ospiti, a Montanelli devo tutto». Su Andreotti: «Mi disse: pensa che due miei compagni di scuola sono cardinali, loro sì che hanno fatto carriera». Su Baudo: «A Canale 5 gli feci un po’ la guerra. Ma lui voleva comandare».

Maurizio Costanzo, mercoledì parte la quarantesima stagione dello show che porta il suo nome. Come cominciò?

«Lo facevo una volta alla settimana, su Rete 4, che era di Mondadori. Berlusconi comprò tutto con me dentro. Mi chiamò a Portofino, c’era pure Freccero, e disse: d’ora in poi lo facciamo tutti i giorni».

Chi furono i primi ospiti?

«Eva Robbins, che si chiama in realtà Roberto Coatti. Dissi che era come le carte da gioco: metà uomo, metà donna. E Paolo Villaggio, che avevo scoperto io».

Cioè?

«A Genova mi suggerirono di andare in un teatro di piazza Marsala, dove si esibiva uno strano impiegato. Era lui. Uscimmo a cena e firmammo il contratto su un tovagliolo del ristorante. All’epoca avevo un cabaret a Roma, il Sette per Otto. Fu un trionfo, vennero a vederlo Flaiano ed Ercole Patti. Poi Villaggio andò in tv, e nacque Fracchia».

Al Costanzo Show cominciarono gli Uno contro tutti.

«Per Bossi scoppiò una rissa. Si menarono proprio: leghisti contro gli altri, sotto gli occhi dell’Umberto. Carmelo Bene invece litigò con il pubblico, e si prese gli insulti della prima fila».

Com’era Carmelo Bene? Antipatico?

«La simpatia non è la misura delle persone. Carmelo Bene era un uomo intelligentissimo. Quando morì, andai con Proietti nel Salento, a rendergli omaggio”.

E Alda Merini?

«Venne a raccontare gli elettrochoc che aveva subito. E’ stata una delle grandi voci del Novecento. La salvammo dallo sfratto».

Montanelli?

«Confessò che non si dava pace per non aver potuto aiutare sua moglie, Colette Rosselli, a morire. A Montanelli devo tutto».

Perché?

«Mio zio mi faceva leggere i suoi articoli sulla terza pagina del Corriere. Mi invaghii. Così, a 14 anni, gli scrissi una lettera. Incredibilmente mi rispose. Mi invitò alla redazione romana. Poi nella sua casa di piazza Navona, a pranzo con Carlo Laurenzi: un uomo raffinatissimo, che lo divertiva con i suoi bon mots. Montanelli mi ha seguito per tutta la vita. Mi fece pure assumere da Afeltra al Giorno».

Come aveva cominciato?

«Da volontario, a Paese Sera. Capo dello sport era Antonio Ghirelli. Mi assegnò un reportage sul giro del Belgio. Firmai Maurice Constance. Poi mi affidarono una serie di interviste: gli scrittori e lo sport».

Da chi andò?

«Da Pasolini. E da Curzio Malaparte, che viveva in albergo, circondato dai suoi bassotti, tra cui uno chiamato Curtino. Da allora pure io ho sempre avuto bassotti».

Maurizio Costanzo: «Dopo 45 mila interviste vorrei diventare cavaliere»

Maurizio Costanzo: «Quattro matrimoni e un solo errore, la P2»

Maurizio Costanzo: «Io, malato di tv: 12 televisori su 12 programmi diversi»

Anche Scalfari fu spesso suo ospite.

«Uomo di grande fascino. Lo incontrai in aereo: aveva appena fondato Repubblica, io dirigevo l’Occhio. Disse: mi sa che nel giornale devo metterci un po’ di sport anch’io».

Lei entrò nella P2. Perché?

«Per stupidità. Un amico — non lo nomino perché non c’è più — insistette, e io gli diedi retta. Stupidità in parte emendata dal fatto che confessai subito, e feci bene».

Di Andreotti che ricordo ha?

«La prima volta venne a Bontà loro. Arrivò in anticipo, lo trovai già seduto in studio, e pensai a uno scherzo, credevo fosse Noschese. Un’altra volta raccontò che aveva fatto la dichiarazione d’amore a Livia, la donna della sua vita, al cimitero. Alla fine mi disse: “Pensa che due miei compagni di scuola sono diventati cardinali; loro sì che hanno fatto carriera”. Andreotti era primo ministro. Ma per lui il Vaticano contava più dell’Italia».

Cossiga?

«Andai a trovarlo durante il caso Moro. Lui era ministro dell’Interno, io direttore della Domenica del Corriere. Gli chiesi cosa si sapesse. Cominciò a urlare: “Di Moro non sappiamo un cazzo!”. Capii che era disperato».

Trump?

«Lo intervistai a New York, dopo l’11 settembre. Gran paraculo. Poi andai al Madison Square Garden a parlare con gli italoamericani. Lì ho capito cos’è la ‘ndrangheta».

Cioè?

«Tutti tenevano in casa la foto di Mussolini. Una volta, nel New Jersey, chiesi del bagno: aveva i rubinetti d’oro».

Falcone?

«Venne allo speciale su Libero Grassi, che condussi con Santoro. Fu un grande amore. E fu un immenso dolore quando lo uccisero. Tornai a Palermo per la morte di Borsellino, sentii l’odore della polvere da sparo. Io la mafia l’ho vista».

Cos’ha pensato leggendo la rivelazione della Boccassini sul loro amore?

«Ci sono rimasto un po’ male. Sono felice se Falcone è stato contento, se sono stati bene insieme. Ma lui è morto con la moglie... Ci sono cose che è meglio tenersi per sé».

La mafia tentò di uccidere pure lei.

«Riina disse: “Questo Costanzo mi ha rotto”. Cominciarono a pedinarmi, a spedirmi lettere anonime, ma non ci feci caso. Seppi poi che Messina Denaro era venuto nel pubblico dello Show, per vedere il teatro».

Una bomba. La sera del 14 maggio 1993.

«Fu un miracolo. Il mio autista mi aveva chiesto un giorno libero, e l’avevo sostituito con un altro, che conosceva meno bene la strada. Esitò al momento di girare in via Fauro, e questo confuse il killer che doveva azionare il detonatore. Sentimmo un botto pazzesco. Tra me e Maria passò un infisso».

Come reagiste?

«Andammo a casa. Il telefono stava squillando: era Mancino, il ministro dell’Interno. Poi arrivarono poliziotti, carabinieri... solo allora realizzai di essere un sopravvissuto. Sono convinto che mi abbia salvato mio padre».

Suo padre?

«È morto che avevo ventidue anni, non ha potuto vedere quello che ho fatto. È il mio grande rimpianto. Non c’è mattina in cui mi sveglio e non penso a papà mio. È come un angelo protettore. Spero tanto di rivedere lui e la mamma».

Quindi crede nell’Aldilà?

«Ci spero. Credo un po’ anche alla reincarnazione: da secoli siamo sempre gli stessi. Io ad esempio penso di essere stato un monsignore. Ma mi sarebbe piaciuto vivere a Betlemme, e veder arrivare i Re Magi».

Fellini?

«Ho qui la sua foto con dedica. Federico mi ha sempre entusiasmato. Gli riusciva tutto, anche i disegni, le caricature. Abbiamo avuto grandi registi: su tutti, Antonioni e Scola, con cui scrissi la sceneggiatura di Una giornata particolare».

È vero che scrisse pure il testo di «Se telefonando» di Mina?

«Certo che è vero. Era il 1966, con Ghigo De Chiara dovevamo preparare la sigla di chiusura del programma Rai di cui eravamo autori, “Aria condizionata”. Cercammo Ennio Morricone. Lui aveva appena sentito passare una sirena della polizia: con quel suono nelle orecchie si mise al pianoforte, e in un baleno compose la musica. Mina cantò le nostre parole e suggerì una correzione. Il testo originale diceva: “Poi nel buio all’improvviso/ la tua mano sulla mia...”. Secondo Mina era ambiguo. Così le mani divennero due: “Le tue mani sulle mie...”».

Mina in tv non va più.

«Non capirò mai la sua sparizione. Un artista non abbandona mai la scena».

Sgarbi?

«Si rivelò fin dal debutto, quando insultò un’insegnante che aveva declamato una sua poesia: “Stronza!”».

Non «capra»?

«Quella venne dopo».

Platinette?

«Una sera si sfilò la parrucca, e ridiventò Mauro Coruzzi».

Berlusconi?

«Prima della discesa in campo ci chiamò tutti ad Arcore, c’erano anche Mentana e Giuliano Ferrara. Alla fine lo presi da parte e gli dissi: io non ti voterò mai, ma non dirò mai una parola contro di te».

Davvero può salire al Quirinale?

«A vedere i numeri, la possibilità c’è. Ma chi glielo fa fare?».

Salvini?

«Al Papeete si è evirato. Si è fatto del male da solo».

La Meloni?

«È molto sveglia».

Sarà lei la prima donna presidente del Consiglio?

«Non mi faccia dare una risposta maschilista».

Renzi?

«Mi aveva colpito all’inizio, poi mi ha deluso. Ora mi piace Draghi. E spero continui a piacermi».

I 5 Stelle?

«Ho avuto simpatia per loro; e non solo perché Grillo mi è simpatico. Stimo Di Maio. E Sileri, che mi ha raccontato che guardava le mie interviste in tv da bambino».

Lei è stato anche consulente della Raggi.

«Le ho solo dato qualche consiglio».

Che non è bastato.

«Il partito non le è stato molto accanto».

Chi ha votato a Roma?

«Raggi. Poi Gualtieri al ballottaggio. Ma l’ospite della prima puntata sarà Beppe Sala. Poi farò una serata arcobaleno, con Zan e Leo Gullotta. Giuseppe Cruciani scriverà alla lavagna i buoni e i cattivi della settimana. I politici verranno solo accompagnati da un parente: Gasparri con la figlia, la Meloni con la sorella... E raccoglierò gli sfoghi del pubblico. I racconti migliori sono quelli della gente comune».

Ad esempio?

«Ho trovato una donna che ha avuto due gemelle e le ha chiamate Maurizia e Costanza».

Come incontrò Maria De Filippi?

«A Venezia, in un convegno. Poi mi raggiunse a Roma. Monica Vitti la sentì parlare nella stanza a fianco, senza vederla, e mi disse: “Senti che voce profonda, pare la mia. Dev’essere una donna intelligente...”. Insomma, Maria ebbe la benedizione di Monica Vitti. L’anno scorso abbiamo festeggiato le nozze d’argento. Il quarto matrimonio finalmente è stato quello giusto».

Ma lei cosa fa alle donne?

«Le ascolto. E le trovo più intelligenti degli uomini».

Quanto conta il potere nella seduzione?

«Può agevolare. Ma il potere vero ce l’hanno gli Andreotti, i Draghi. Che potere è quello di invitare un cantante?».

Però quando a Canale 5 arrivò Pippo Baudo, lei gli fece la guerra.

«Un po’ sì. Ma quello voleva comandare. Cominciò a sgridare la gente... Ora siamo in ottimi rapporti».

Sgridò anche lei?

«Non esageriamo».

Anticipazione da "Oggi" l'11 agosto 2021. Maurizio Costanzo è il nuovo responsabile delle strategie di comunicazione della Roma calcio. E alla vigilia dell’inizio del campionato, in un’intervista esclusiva a OGGI, in edicola da domani, racconta: «Questo impegno con la Roma mi ha risvegliato passioni sopite, come un amore quando non te lo aspetti». E confida il perché, nonostante un amore viscerale, non vada mai allo stadio: «Sono stato amico di tutte le proprietà, gli allenatori. I Sensi mi invitavano allo stadio ma io non ci andavo e rispondevo: “Non ci sono mai venuto, se vengo e perdiamo io non posso più uscire per strada”». Poi spiega come ha intenzione di rilanciare l’immagine della squadra: «Chiamando Mourinho, i Friedkin hanno risolto già due problemi, uno di immagine uno di sostanza, perché Mourinho sta rafforzando la squadra. Nel frattempo, io ho incontrato i club storici, ho parlato con le tifoserie, i tassisti. Ma soprattutto sto cercando storie: quella per la Roma è una fede che va raccontata attraverso le storie dei suoi tifosi», dice a OGGI. A ottobre a Roma si vota. «Virginia Raggi ha fatto due cose belle proposte da me: ha intitolato il Teatro Valle a Franca Valeri e una piazza a Gabriella ferri. Quindi Viva la Raggi. Non so per chi voterò. Ma se risolve almeno in parte il problema dei rifiuti, voto la Raggi».

Andrea Malaguti per “Specchio - la Stampa” il 6 giugno 2021. Sembra lievemente surreale, ma la verità è che qualche matto ha fatto il calcolo. Quanti esseri umani ha intervistato Maurizio Costanzo con la sua flemma sacramentale? Cinquantacinquemila, decina in più decina in meno. Da Gheddafi a Woody Allen, da Fiorello a Totti, da Andreotti alla Sora Lella. E tutti gli hanno detto: prego, mi chieda pure. Come se avesse un trucco solo suo per far parlare le persone. "Cosa c' è dietro l'angolo?". Che sembra l'inizio del nulla e invece è la scoperta del passepartout universale, l'apriti-sesamo del flusso di coscienza, capace di far oscillare il pendolo della curiosità dai brevi cenni sull' universo al privato più inconfessabile. Ma lui? Come si intervista uno come lui? Risposta: boh. Oppure: facendo finta che non sia il Venerato Maestro del genere e contando sul fatto che Costanzo - pur rassicurato dalla certezza che per lui la magia si riproduce e dunque, in definitiva, il mondo gli obbedisce - ha uno sguardo sulle cose che resta divertito senza mai essere allegro, come se alla fine la malinconia e il disincanto fossero più forti di tutto, persino del successo. A parte c'è l'amore. Che in fondo, poi, è il segreto di Pulcinella. Nulla conta e tutto è decisivo. Soprattutto - come in questo caso - quando provi a capire qualcuno.

Maurizio Costanzo, come l'è riuscito?

«Che cosa?». 

Il successo. A 82 anni può ammettere di averlo avuto, no?

«Ottantatré ad agosto. Il successo come arriva può anche andarsene, diciamo che nel mio caso è stata una convivenza sull' uscio di casa». 

L'uscio sarà stato anche aperto, ma il successo ci sta comodo a casa sua.

«Per fortuna, si vede che mi applico». 

Se l'è meritato?

«Quello lo decide il pubblico, personalmente credo di sì. Sono un uomo fortunato. Ho capito a dieci anni quello che volevo fare e non ho più smesso. Direi che la mia è stata la vocazione assoluta». 

Se dovesse riassumersi in tre parole?

«Sono un giornalista che si è sperimentato in molti settori diversi, cercando sempre una cosa sola: il divertimento. Che è figlio della curiosità». 

Eppure, più che divertito lei sembra malinconico.

«Ci sono nato con un fondo di malinconia. Anzi, direi che la malinconia è mia sorella e se vuole gliela presento. È una convivenza a cui mi sono abituato e che mi aiuta a pensare».

Lei ha avuto quattro mogli, come si diventa mariti seriali?

«Cercando la migliore». 

Maria?

«Maria. Stiamo assieme da 27 anni, abbiamo da poco festeggiato le nozze d' argento. Non mi era mai accaduto». 

Le secca?

«Al contrario, mi riempie di gioia. Prima di lei le relazioni tendevano ad annoiarmi». 

È il primo uomo famoso che ha sposato una donna che è diventata più famosa di lui. O per lo meno quanto lui.

«È una cosa bellissima, pensi alla seccatura di tornare a casa e trovare una moglie immobile che si domanda: caro, ma io ora che cosa faccio?».

La cito: quando ho incontrato Maria ho avuto l'impressione che fosse la donna che mi avrebbe chiuso gli occhi.

«Non subito, però è vero che presto mi sono detto: è la donna nella mano della quale vorrei morire». 

Innamorato come un pischello?

«Un tempo si chiamava trasporto». 

Al liceo classico immaginava che avrebbe avuto questo successo con le donne?

«No, ma figurarsi. Non l'ho mai pensato, né ho mai coltivato l'idea. Direi che non l'ho nemmeno mai completamente saputo. Non importa quante persone incontri, importa chi».

L'ha festeggiata la festa della Repubblica?

«Sì, lo faccio da sempre. Vado in ufficio, accendo la tv, seguo la cerimonia e guardo le Frecce Tricolori che passano sopra l'Altare della Patria. Prima del Covid sono anche andato un paio di volte di persona». 

Hanno ancora senso le feste di unità nazionale?

«Il generale Figliuolo insegna che le persone in uniforme non vanno guardate con alterigia. Forse è l'età: ma la fanfara dei bersaglieri ancora un po' mi emoziona. Sarà perché mio padre, che lavorava al ministero dei trasporti, aveva l'ufficio vicino a Porta Pia, la statua del bersagliere mi ha sempre colpito».

Dopo 25 anni, Giovanni Brusca è uscito di galera.

«La mafia mi ha dedicato settanta chili di tritolo, dopo che Riina disse: questo Costanzo ha rotto i coglioni. I suoi uomini eseguirono l'ordine, ma gli andò male. È la vita. Però non posso fare a meno di pensare che la legge sui pentiti fu voluta da Falcone, un uomo illuminato. Mi auguro che sia stata applicata in maniera giusta». 

Brusca ha sciolto un bambino nell' acido e fatto saltare per aria Falcone, sua moglie e la scorta.

«Certo, rimane difficile pensare che l'abbiano liberato. Ma da quel che leggo un pezzo di mafia è stato demolito grazie alle sue rivelazioni. E io non sono abituato a criticare il lavoro dei magistrati, specie di quelli che si occupano di Cosa Nostra». 

Ha ancora gli incubi per la bomba in via Fauro?

«No. Ma penso di avere avuto una gran fortuna. Né io, né mia moglie, né l'autista, né il cane ci abbiamo rimesso la vita. Credo di avere avuto un angelo custode grande come un drone».

Lei crede in Dio?

«Non direi. Ma non sono nemmeno così presuntuoso da ritenere che nasciamo e moriamo per puro caso. Mi faccio tante domande. Da sempre. Ho perso mio padre quando avevo 20 anni e non passa giorno senza che pensi a lui immaginando che ci sia ancora». 

La morte le fa paura?

«Assolutamente no. Spero solo che il trapasso non sia doloroso».

Se le dico loggia Ungheria, lei che cosa mi risponde?

«Che tutti fanno delle cazzate. E una, grossa, l' ho fatta anch' io. Dopo la P2 ho passato un anno in solitudine. È stato uno sbaglio che mi ha fatto crescere e che ammetto. Credo di essere uno dei pochi». 

Quale fu l'esca?

«La sciocchezza. L' amicizia per una persona che non c'è più mi convinse a farlo, ma io di massoneria non sapevo assolutamente nulla». 

Nella sua vita il potere lo ha cercato o lo ha trovato?

«L'ho trovato. Come le dicevo prima, ho sempre inseguito il meglio divertendomi e lo faccio anche adesso. Piero Angela una volta mi disse: immagina sempre nuovi progetti per tenere allenato il cervello. Se no ti viene l'Alzheimer. Un consiglio che continuo a seguire». 

Angela sostiene che sia stato lei a dare a lui questo suggerimento.

«Lo so. E temo che non verremo a capo del dilemma». 

Silvio Berlusconi è un genio del bene o del male?

«Io ci ho lavorato 40 anni, è la persona che mi ha consentito di fare la mia carriera». 

Non ha risposto.

«Un genio del bene è eccessivo. E un genio del male pure».

Come si fa a essere lo spin doctor sia di D' Alema che di Alemanno?

«In verità l'ho fatto di più per Rutelli, che forse è stato in assoluto il miglior sindaco di Roma. Con D'Alema invece mi sentivo ogni lunedì. Mi piace dare consigli su cose che non mi riguardano direttamente, studio la comunicazione da sempre. E l'ho pure insegnata per diciassette anni alla Sapienza. Fui chiamato su consiglio di Umberto Eco, convinto che le cose andassero spiegate da chi le conosce». 

La Raggi conosce le cose che fa?

«La Raggi non mi è antipatica per due motivi: le ho chiesto di intitolare il Teatro Valle a Franca Valeri e mi ha ascoltato e poi le ho suggerito di intitolare una strada a Gabriella Ferri e ha fatto anche quello».

Ferri con due erre?

«Sì, Ferri, non Feri. Ma se stiamo parlando della targa col nome di Ciampi trasformato in Azelio, io temo che sia stata una trappola fatta apposta da qualcuno per mettere la Raggi in difficoltà». 

Fa il dietrologo?

«Mai. Ma a Roma tutto è possibile». 

Draghi o Conte?

«Draghi gode di una grande fama internazionale, però non lo conosco. Conte, col quale mi è capitato di chiacchierare, mi ha dato l'impressione di essere una persona attenta, accorta e perbene. Ma per i marosi attuali forse serve Draghi».

Ci avrebbe mai creduto di vedere Rocco Casalino a Palazzo Chigi?

«In effetti no. Ai tempi del primo Grande Fratello io facevo Buona Domenica e ogni settimana ospitavo uno degli eliminati della Casa. Rocco lo conobbi così, era difficile immaginare dove sarebbe arrivato. Ma con me è sempre stato molto corretto». 

In fondo anche il Maurizio Costanzo Show era uno straordinario luogo di potere, no?

«Sappia che quando ricomincio, a fine ottobre, festeggio i quarant' anni». 

Glielo chiedo diversamente: era più influente il Maurizio Costanzo Show o Porta a Porta?

«Io mi sono sempre trovato molto bene al Maurizio Costanzo Show, ma Vespa era a teatro in prima fila quando festeggiammo i nostri vent'anni. Ho un ottimo rapporto con lui».

Che cos' hanno in comune Vittorio Sgarbi e Nik Novecento?

«Nik Novecento era un ragazzo dolcissimo morto troppo presto. Vittorio Sgarbi, che lo si voglia o no, è una delle persone più preparate del suo settore e anche delle più intelligenti». 

Costanzo, è normale regolare la sessualità per legge?

«No, non è normale. Ognuno deve essere libero di amare chi vuole: uomini, donne, cani. Io sono per la libertà assoluta. Nell'ultima stagione ho ospitato un ragazzo nigeriano picchiato a Roma perché baciava il suo fidanzato e una ragazza cacciata di casa perché lesbica. Nella vita amiamo chi ci pare».

Perché la diversità ci fa paura?

«Perché ci sentiamo più comodi nella normalità, anche il ragioniere del terzo piano che sa tre lingue o canta la Traviata ci fa impressione. Abbiamo bisogno di sicurezze anche un po' banali». 

Che cosa è stata la tv per lei?

«La vita, porca miseria, il mio modo di esprimermi. Mi ha permesso di incontrare tanta gente anonima e importante».

 Fazio o Cattelan?

«Fazio mille volte, perché lo conosco da sempre. È un carissimo amico e lo sento spesso.

Cattelan lo conosco poco e penso debba crescere».

Bonolis o Amadeus?

«Sono diversi, stimabili entrambi. Bonolis è un creativo, lo zio matto che quando sei a cena si mette a cantare. Amadeus è il portiere attento e fedele al quale puoi affidare i tuoi segreti. L' amico che tutti vorremmo avere. Per conferme chiedere a Fiorello». 

Maria la Sanguinaria, che effetto le fa il soprannome di sua moglie?

«È una cretinata che si è inventato D'Agostino». 

A sua moglie dispiace?

«Direi proprio di no».

I tronisti sono una fotografia della società o semplicemente intrattenimento folkloristico?

«Sono la proiezione di come alcuni di noi vorrebbero essere». 

È una tv che le piace?

«Mi piace il gioco dell'umanità che gira lì dentro, persino da un punto di vista morfologico». 

Che cosa ci ha raccontato il Covid di noi?

«Che potevamo restare chiusi senza andare al ristorante e a trovare gli amici e sopravvivere. Anche se adesso non se ne può più e il lockdown è stato tremendo. Io per età mi sono vaccinato, ma ancora oggi giro con la mascherina. Bisogna che continuiamo a tenere presente la sicurezza degli altri. Il Covid è davvero una gran brutta cosa».

Il disastro della Funivia Stresa-Mottarone è figlio dell'avidità o della stronzaggine?

«Della stronzaggine. Purtroppo la mamma dei cretini è sempre incinta. Finalmente il ritorno alla libertà, le famiglie in gita, il sole, il dramma, il piccolo Eitan che sopravvive salvato dall' abbraccio del padre. Ci penso continuamente. Una mascalzonata orribile». 

Costanzo, Rai o Mediaset?

«Ho sempre pensato che la tv è una. C' è chi la fa bene e chi la fa male. Io l'ho fatta per entrambe e continuo così senza esclusive». 

La Rai è irredimibile?

«La Rai è la Rai. La Rai è Roma, è viale Mazzini, però è anche il posto dove sono nati Mike Bongiorno, Enzo Tortora o la tv d' intrattenimento. Io da ragazzino, prendevo tre autobus assieme a mio padre per andare a vedere la televisione da mio zio. E per Lascia o Raddoppia le persone si radunavano nei bar. Adesso, al bar, al massimo si prende un caffè».

Saverio, Camilla, Gabriele. Quanto la commuovono i figli?

«Molto. Ci vediamo a pranzo tutti i giovedì, anche con i nipoti. Quando io ero ragazzo, le bombe mi facevano scappare nei rifugi assieme a padre, madre e zii. Quello spareggio con la vita crea un legame forte». 

Costanzo, lei è cinico o solo romano?

«Solo romano. Ma quando alla gente non va di dire che uno è intelligente allora dice: quello è un cinico».

Maurizio Costanzo, la struggente frase su Maria De Filippi: "Come voglio morire", mai così intimo. Libero Quotidiano il 13 maggio 2021. Il prossimo agosto, Maurizio Costanzo compirà 83 anni, 43 primavere in più del suo eterno Maurizio Costanzo Show. Tempo di bilanci, per il conduttore, che si racconta in una lunga intervista al Corriere della Sera, in cui Costanzo si sbottona su politica, televisione, errori, scelte e vita privata. Ovviamente, parla anche di Maria De Filippi, con la quale ha festeggiato lo scorso 28 agosto le nozze d'argento. E sulla moglie spende una frase toccante: "Vorrei morire senza accorgermene, senza soffrire, con la mano in quella di Maria...".  E ancora, Costanzo ha spiegato: "Ho sempre sperato di avere un’unione duratura, di condividere un’esistenza. Non rinnego il passato, la vita va vissuta per quella che è. Per fortuna ho incontrato Maria. Più di una fortuna. Molto, molto di più", ammette. Il segreto del loro amore eterno? Nessuno, "capita o non capita. Succede che esci senza ombrello e poi piove, o invece che esci e te lo sei portato. Succede", spiega. Dunque, una battuta sui figli Saverio e Camilla e sui legami familiari: "Sono solidissimi. Tutti i giovedì pranzo con Saverio e Camilla". Sull'essere nonno di quattro nipoti, il conduttore spiega: "È splendido. Ora la pandemia rende difficile vedersi. Ma essere nonni è meraviglioso". Infine Gabriele, il figlio adottato con Maria De Filippi: "Altro legame familiare intenso. Lui lavora con Maria, sono unitissimi. Gabriele rafforza il mio profondissimo rapporto con Maria. Ricordo ancora la mia commozione quando, avrà avuto dodici anni, mi chiamò “papà” per la prima volta. All’inizio è una paternità diversa. Poi diventa uguale all’altra, a quella naturale. Ritengo il suo arrivo un miracolo", conclude Maurizio Costanzo.

Paolo Conti per corriere.it/sette il 13 maggio 2021.

Maurizio Costanzo, a ottobre grande festa per i quarant’anni del Costanzo Show…

«Quarant’anni e quasi 55.000 ospiti intervistati. E dire che, a ripensarci, è stata una intera vita professionale nata sugli inciampi. Nella fortuna, dico».

Per esempio?

«Dal 3 maggio ho ripreso a fare la radio su R101 con Carlotta Quadri, in “Facciamo finta che…”. Ecco, io da ragazzino, avrò avuto undici anni, giravo il portasapone in bagno, lo trasformavo nella mia testa in un microfono, e fingevo di trasmettere in diretta alla radio leggendo commedie. Mia madre, poveraccia, era disperata. Però avevo capito dove volevo arrivare. E anche lei, penso. Un inciampo della sorte…. ».

Altro inciampo?

«Beh, uno più concreto. Uno zio, che aveva capito la mia passione precoce per il giornalismo, mi mandava a casa i ritagli della terza pagina del Corriere della Sera. Mi invaghii di Montanelli, trovai il coraggio di scrivergli, ero al liceo, ai tempi si andava metà settimana al mattino e metà al pomeriggio. Lui una mattina mi chiamò, avevamo il telefono appeso sulla parete in corridoio. Non ci credevo… Lo vidi alla redazione romana in via della Mercede. Mi aiutò nelle prime collaborazioni e mi incoraggiò per tutta la vita. Mi chiamava Costanzino. Lo ha fatto fino alla fine».

Passione precoce, diceva prima.

«Precocissima. Alle medie, alla “Tito Livio”, dirigevo un giornalino scritto a mano, l’Araldo. E una volta vinsi un concorso di temi dell’Associazione Protezione animali. Mi inventai di sana pianta un acuto pentimento per aver strappato le ali a una farfalla. Grande storia di finzione ed emozione. Piacque. Mi premiarono».

Invenzione assoluta?

«Totale. Mai andato per farfalle in vita mia. Ma quando mai».

 Molti inciampi familiari…

«Eccone un altro. Mia madre, si chiamava Jole, era impiegata in un ufficio e conobbe Felice Chilanti, grande inviato di Paese Sera. Grazie a lui arrivai ad Antonio Ghirelli, che dirigeva lo sport di quel quotidiano. Cominciai a collaborare a 17 anni. Mi fece scrivere da Roma persino il Giro del Belgio di ciclismo sulle agenzie, mi firmò “dal nostro inviato Maurice Costance”. Mi affidò anche una piccola rubrica sugli intellettuali e lo sport, lì conobbi per esempio Pier Paolo Pasolini. Imparai molto, moltissimo».

Dicono che la noia sia il suo peggior nemico, Costanzo.

«Sempre a quella povera donna di mia madre, dicevo continuamente da bambino “mi annoio”. Non sapeva cosa fare. Per questo non sto mai fermo, e per questo lavoro ancora così tanto. Il telefono deve sempre squillare… La noia mi terrorizza».

È capitato che il telefono non squillasse?

«Sì. Quando dovetti smettere di lavorare e mi dimisi da tutto. Da tutto, dico».

Iscrizione nelle liste della P2, era il 1981. Addio alla tv, agli incarichi editoriali alla Rizzoli, al ruolo da direttore del quotidiano «L’Occhio»....

«Già. Ricordo ancora giorni e giorni di telefono muto. Ero solo, in quel periodo, nella mia casa romana di viale Mazzini. Poi arrivò la prima telefonata, dopo più di un mese di assoluto silenzio».

Di chi?

«Non lo dimenticherò mai. Di Sergio Zavoli. Che mi disse: la vuoi smettere di fare l’ambasciatore a San Marino? Mi spronò a riprendere, a rimettermi al lavoro. “Diamoci da fare”, mi disse. Ricominciai da zero. Da Videolina a Cagliari e da una tv di San Benedetto del Tronto, facevo le interviste lì».

Un giudizio sul capitolo P2?

«Un errore, un grosso errore. Ma gli errori fanno bene e fanno crescere. Non credo a chi dice di non averne mai fatti, che fesseria… Però c’è anche chi, di grossi errori, ne fa due o tre. Io uno: e lo ammetto».

A proposito di errori. Pippo Baudo si rammarica ancora di non aver capito bene il talento di un giovanissimo Fiorello. Lei ha qualche errore del genere da rimproverarsi?

«No, non mi viene in mente. Lo avrò fatto, certamente, ma non saprei… So però che per esempio, tra gli ospiti, c’è chi si secca quando scrivono che è stato scoperto dal Costanzo Show».

Chi?

«Valerio Mastandrea. Lui si dispiace quando gli ricordano degli esordi….Vabbè, è fatto così. Ma la verità è quella».

Un modello di ospite ideale?

«Vittorio Sgarbi. Intelligente, colto, sempre reattivo. E Giampiero Mughini, per le stesse ragioni. Comunque l’ospite ideale è sempre quello che risponde subito: con le risposte crei altre domande. Quando qualcuno non risponde, inutile accanirsi. Ma se nella puntata c’è la giusta atmosfera, parlano tutti»

Quasi 55.000 interviste…

«Una cittadina intera»

Se le ricorda tutte?

«Ma no…. Ho un meccanismo che tutela la memoria. Fatta una puntata, cancello tutto e via.»

C’è anche un «altro» Costanzo. Per esempio l’autore di Se telefonando, il cavallo di battaglia di Mina…

«Devo la scrittura di quel testo al vecchio amico Ghigo De Chiara, era il critico teatrale de l’Avanti, lo firmammo insieme; e a Ennio Morricone, il magnifico brano era suo. Ricordo ancora quando Mina la cantò per la prima volta. Un brivido irripetibile».

Poi lei è anche uno dei padri di Fracchia, il personaggio di Paolo Villaggio.

«Paolo aveva dato vita a Fantozzi. Io lavoravo a Quelli della domenica nel 1969, domenica pomeriggio sul Canale Nazionale Rai. Un giorno, io e l’altro autore, Umberto Simonetta, vedemmo Villaggio che in una scena stava al gioco con Gianni Agus nel ruolo del capoufficio. Ci lavorammo, c’era la poltrona “Sacco” in cui sprofondava….. Lo vide il regista Antonello Falqui. Ci puntammo. Fu un grande successo».

Perché, secondo lei?

«Perché siamo tutti un po’ Fracchia. Come siamo tutti un po’ Fantozzi».

Il lavoro uccide la noia. E l’invecchiamento.

«Piero Angela, che ha dieci anni più di me, molto tempo fa mi disse: devi sempre avere progetti per la testa, così il cervello rimane attivo. Grande insegnamento. Piero poi si è pentito e giura che il suggerimento glielo avrei dato io. Ma era roba sua, giuro».

Lei colleziona tartarughe. Perché?

«Ne ho cinquemila. Mi dà l’idea di un animale che va piano ma arriva sempre dove vuole. Mi sono fissato che porti fortuna. Mi piacciono anche i pinguini, tutti insieme sembrano personaggi importantissimi. Dai tetti di casa seguo una famigliola di gabbiani».

E poi qui, nel suo studio di Roma in Prati, c’è Filippo.

«Il mio gatto Filippo. A casa ci sono i due bassotti di Maria. Qui lavoro con Filippo. Il gatto è un animale pazzesco, intelligentissimo, di carattere. Se manco qualche giorno dallo studio, mi tiene il muso, mi ignora».

Vita sentimentale intensa, quella di Maurizio Costanzo. Quattro matrimoni (il primo con Lori Sammartino, il secondo con Flaminia Morandi, la madre dei figli Saverio e Camilla, il terzo con Marta Flavi, durato appena un anno, infine Maria De Filippi, 25 anni di nozze e 35 complessivi di storia) un lungo legame con Simona Izzo. C’è un capitolo nel quale non si riconosce?

«Sì. In uno. Non lo dirò nemmeno sotto tortura».

Qualcuno potrebbe arguire che…

«Cavoli di chi arguisce».

Tanti matrimoni forse, paradossalmente, tradiscono il desiderio di una storia stabile.

«Ho sempre sperato di avere un’unione duratura, di condividere un’esistenza. Non rinnego il passato, la vita va vissuta per quella che è. Per fortuna ho incontrato Maria. Più di una fortuna. Molto, molto di più».

Ci sono segreti, formule, per far durare una storia lunga e solida come la vostra?

«No. Capita o non capita. Succede che esci senza ombrello e poi piove, o invece che esci e te lo sei portato. Succede».

Mai avuto pensieri omosessuali?

«Mai. Ho fatto grandi campagne contro l’omofobia con la parola d’ordine “amate chi vi pare”. Ma non ho avuto attrazioni verso uomini. Se mi fosse capitato, le avrei seguite, nessun problema. La vita va vissuta, sempre».

La gelosia è una brutta bestia, vero?

«Bruttissima. In passato ho avuto una lunga storia con una donna gelosissima. Frugava nelle tasche, cercava numeri di telefono. Un’ossessione. Ho scoperto che quel clima ti porta istintivamente a mentire, a creare motivi di gelosia….».

I figli Saverio e Camilla, quattro nipoti. I legami familiari reggono?

«Sono solidissimi. Tutti i giovedì pranzo con Saverio e Camilla».

Saverio è ormai un prestigioso regista. Aveva intuito dall’inizio il suo talento?

«No. Devo essere onesto. Poi a un certo momento, sì. Sta avendo grandi soddisfazioni anche internazionali, mi sono profondamente emozionato con l’affermazione per L’amica geniale. Poi mi piace perché non si atteggia, non si dà arie, come si dice a Roma non se la tira. Sono orgoglioso nello stesso modo di Camilla, lavora tanto e scrive».

Quattro nipoti. Bello essere nonno?

«Splendido. Ora la pandemia rende difficile vedersi. Ma essere nonni è meraviglio».

C’è poi Gabriele, il figlio adottato con Maria De Filippi.

«Altro legame familiare intenso. Lui lavora con Maria, sono unitissimi. Gabriele rafforza il mio profondissimo rapporto con Maria. Ricordo ancora la mia commozione quando, avrà avuto dodici anni, mi chiamò “papà” per la prima volta. All’inizio è una paternità diversa. Poi diventa uguale all’altra, a quella naturale. Ritengo il suo arrivo un miracolo».

Non teme che qualcuno dica, smanettando col telecomando: che strazio, ancora Costanzo…

«Certamente ci sarà. Per fortuna noi, dall’altra parte, non li sentiamo».

Però la trasmissione va bene come ascolti.

«Benissimo. Incredibili punte del 14-15%. Dalle analisi del tipo di pubblico abbiamo scoperto che ora ci segue una nuova fascia di pubblico femminile giovane. Beh, gratificante, lo ammetto. È bello sapersi rivolgere alle nuove generazioni».

Lei ha detto che vorrebbe morire con la mano in quella di Maria.

«Sì, proprio così. Mi piacerebbe non accorgermene, cioè non soffrire».

L’appuntamento la preoccupa?

«Beh, un po’ mi rompe le scatole… Lo ammetto. Ma ditemi a chi non le rompe».

LA VITA — Maurizio Costanzo è nato il 28 agosto del 1938 a Roma. Il padre, Ugo, era impiegato al ministero dei Trasporti, la madre, Jole, casalinga. Si è sposato 4 volte: con Lori Sammartino, Flaminia Morandi (dalla quale ha avuto due figli, Camilla e Saverio), Marta Flavi e Maria De Filippi, sposata nel 1995, conosciuta nel 1989 a un convegno organizzato da lei sul tema della pirateria. Nel 2002 la coppia ha adottato Gabriele. È nonno di quattro nipoti, due avuti da Camilla e due da Saverio.

LA CARRIERA — Maurizio Costanzo ha esordito nel 1956, dopo il diploma in Ragioneria. Ha cominciato a collaborare al quotidiano Paese Sera e, l’anno successivo, al Corriere Mercantile. È giornalista, scrittore, sceneggiatore e conduttore televisivo.

"Dopo 39 edizioni sogno di intervistare Papa Bergoglio". Il "Costanzo Show" riparte su Canale 5. "L'ospite che avrei voluto avere? Fidel Castro. Ma dopo 39 anni sogno di 'confessare' Papa Bergoglio". Paolo Giordano - Mer, 24/03/2021 - su Il Giornale. Non a caso è il più longevo di tutti: stasera il Maurizio Costanzo Show compie 39 anni, dicesi 39, praticamente un record, non a caso è il padre di tutti i talk anche perché è stato il primo qui dalle nostre parti. «Stavolta all'inizio mi sono anche emozionato, ho sentito gli occhi velarsi di commozione», ha detto Maurizio Costanzo (82 anni) ieri dopo aver registrato la puntata in onda stasera in seconda serata su Canale 5. Per quattro decenni al Costanzo Show si è fatta e disfatta l'Italia mostrando gli italiani e l'italianità, vincendo scommesse (quanti personaggi nuovi) e scoperchiando scandali o magagne che altrimenti se ne sarebbero rimasti al buio ancora chissà quanto. Insomma, la cronaca della nostra vita in ben 4500 puntate, praticamente una enciclopedia.

Cosa accade quando si alza il sipario del Maurizio Costanzo Show?

«Me lo sono chiesto tante volte anche io. Non so, è come se si creasse una atmosfera magica, qualcosa di impalpabile ma positivo. Forse non sta a me dirlo, ma è come se fosse un effetto magico».

Stasera si riparte da Ornella Muti, Katia Ricciarelli, Eva Grimaldi e un altro plotone di ospiti.

«In tutti questi anni su queste poltroncine abbiamo avuto circa 45mila ospiti, mettiamo molta attenzione nello sceglierli».

Uno dei cardini del Costanzo Show è l'«Uno contro tutti». Stasera è un «Uno contro tutti» di nome e di fatto visto che c'è Giorgia Meloni che appunto rappresenta l'unico partito all'opposizione.

«Una grande ospite, molto chiara, davvero tosta».

Qual è un «Uno contro tutti» che per lei è davvero simbolico?

«Non dimenticherò mai quello con Carmelo Bene».

Della prima puntata chi l'ha impressionata?

«Tommaso Zorzi».

Attuale opinionista dell'Isola dei Famosi.

«È uno che potrebbe davvero andare lontano. La gente lo ama, lo percepisce come se fosse il figlio o il fratello. Una sorta di semi parente che attira fiducia».

E lei su questo se ne intende.

«In effetti al Costanzo Show sono nati tanti personaggi poi diventati famosi, talvolta si sono trasformati in opinion leader oppure hanno trovato la loro strada definitiva».

Quello cui è più affezionato?

«Beh direi senza dubbio Vittorio Sgarbi».

E poi?

«Ce ne sono tanti, da Enzo Iacchetti a Giampiero Mughini, che ho voluto anche in questo inizio della 39esima stagione».

A proposito di interviste, si parla moltissimo di quella fatta da Oprah Winfrey a Meghan Markle e al principe Harry.

«Beh Oprah è molto abile, si sa. E Meghan ha dimostrato di avere un carattere estremamente forte. Harry ha preso la debolezza di sua mamma Lady Diana mentre suo fratello, forse, ha preso altre caratteristiche più dure. Non sono un grande conoscitore della Casa Reale inglese. Di certo, tra tutti, la mia più grande simpatia va al principe Filippo che è stato capace di rimanere sempre tre passi dietro sua moglie, la Regina».

Quante puntate di Costanzo Show in questa stagione?

«Adesso sei. Poi ne faremo altre sei in autunno per la quarantesima stagione».

Chi avrebbe voluto intervistare?

«Fidel Castro, sarebbe stato un gran bell'incontro, ne sono sicuro. Invece è rimasto un sogno che non ho realizzato».

Quale invece vorrebbe realizzare adesso?

«Avere Papa Bergoglio al Costanzo Show. Se lei ha aderenze in Vaticano, glielo faccia sapere (sorride - ndr). Sarebbe un gran bel modo per chiudere la carriera».

Francesco Persili per Dagospia il 15 febbraio 2021. "Mi hanno offerto di fare politica ma ho detto sempre di no. Mi hanno proposto anche di fare il sindaco di Roma ma l’idea che l’avversario mi potesse riempire di insulti sui manifesti, mi ha fatto dire: “Ma chi me lo fa fare”. La quota 100 fa un baffo a Maurizio Costanzo che racconta a “Che tempo che fa” 65 anni di carriera. “Non ho faticato. Volevo fare il giornalista sin da bambino e non ho mai cambiato idea”. Gli inizi a "Paese Sera", come inviato al Giro del Belgio, anche se lui in Belgio non c'è mai stato. “Il mio caposervizio, Antonio Ghirelli, mi girava le agenzie e io raccontavo la tappa. Mi mise in firma come "dal nostro inviato, Maurice Costance”. Una storia alla Simenon, una delle sue grandi passioni. Fu grazie al commissario Jules Maigret, ad esempio, che si accorse che Maria De Filippi era tagliata per la tv. "Mi fece un riassunto perfetto di un libro Simenon. Da lì ho capito che poteva fare televisione. Direi che non mi sono sbagliato". Come faccio a ricordarmi tutto del mio lavoro e di quelli che ho intervistato? “Sono anziano e quindi vivo di passato”, confessa Maurizio Costanzo che ricorda la nascita del talk in Italia con “Bontà loro”. “La seconda puntata fece 11 milioni di spettatori”. Arrivò il riconoscimento del pubblico. “Mi accorsi che la gente per strada iniziava a fissarmi. E io mi dicevo: “Ma che c’avranno questi da guardà”. Ospitò Andreotti, il primo presidente del Consiglio che partecipò a un talk: “Mi sembrava Alighiero Noschese”. In un’altra occasione il Divo Giulio gli confessò che due suoi amici della scuola avevano fatto carriera. Erano diventati cardinali. "E invece lei è disoccupato...", la risposta sarcastica di Costanzo. Si parla dell’intervista a Trump (“i capelli li aveva sempre di quel colore biondo lì”) e del gemellaggio con il “Late Show” di David Letterman: “Ho imparato tantissimo dai talk show americani. Lì avevano uno che gestiva le persone del pubblico. Quelle più carine, andavano nei punti in cui finiva l'inquadratura. Quelle orrende, le spostavano tutte da un’altra parte". Dai talk show americani ha tratto ispirazione anche per l'orchestra in studio. "E mi sono inventato Demo Morselli…” Si ripercorrono interviste, immagini, aneddoti su Totò, Pasolini, Falcone (“Ho la sua foto nel mio studio, è il mio protettore”). Fino a quando Costanzo infilza Fazio, con un sorriso sornione: “Ti porti avanti per il giorno in cui devi fare il necrologio…”

Silvia Fumarola per “la Repubblica” il 22 febbraio 2021. «La regola è semplice», dice Maurizio Costanzo, «chiedere tutto e rispondere a tutto». A 82 anni non si è stancato di fare domande, dal 17 marzo torna su Canale 5 con il Maurizio Costanzo Show , è il 39esimo anno. Dal Teatro Parioli ai Lumina studios, il suo mondo è un palcoscenico dove incontra gli ospiti: politici, scrittori, attori, soubrette, registi e aspiranti famosi. Nel 1976 inventava il talk show in Italia grazie a Angelo Guglielmi.

Come ricorda il debutto?

«Mi convocò Gugliemi. Gli risposi: "Chi fa le domande?". Avevo paura, non avevo mai fatto tv, mai stato davanti a una telecamera. Ero autore, lavoravo alla radio. Prima ci sono stati Bontà loro, Acquario, Grand'Italia. Nel 1982 è nato il Costanzo Show. C'erano sceneggiati e varietà, l'impatto del talk show fu importante. Non c'era concorrenza, la seconda puntata di Bontà loro fu vista da 11 milioni di spettatori».

Né il "Maurizio Costanzo Show" con tanti ospiti, né "Che tempo che fa" hanno lo stile dei late show americani.

«Il talk all'americana lo fanno gli americani, appunto. Noi lo facciamo all'italiana. Andai ospite da Letterman, era bravissimo. A Johnny Carson rubai l'orchestra, scattò la simpatia, ho sempre risposto a tutto. Domandare è lecito, rispondere cortesia. Sono arrivato a 4455 puntate: se calcola ospiti e puntate vuol dire avere intervistato una cittadina».

Non è stufo di fare domande?

«No, mi sono rotto le scatole di non avere risposte».

Immaginava che il suo talk show sarebbe durato così tanto?

«No. Berlusconi dovette insistere per farmelo fare quotidiano. Gli dissi: "Silvio, è un azzardo, andiamo a sbattere contro un muro". Aveva ragione lui. Andavamo in onda la sera e la mattina veniva replicato, un incubo, diciamo la verità. Tutte le sere era un po' stancante però esaltante: avevo 40 anni di meno».

Sente ancora Berlusconi?

«Raramente. Lo chiamo per fargli gli auguri, gli devo molto».

Le pesa l'età?

«No. Mi pesa il Covid, meno male che mi sono vaccinato, sono più tranquillo. Ma è una sciagura».

I momenti più belli?

«Quelli col giudice Giovanni Falcone, ho la sua foto nel mio studio. Sono legatissimo alle serate antimafia con Michele Santoro. Ho intervistato varie volte Giulio Andreotti, era spiritoso, rispondeva pensando a altro. Mi disse: "Sa che tre compagni di scuola sono diventati cardinali? Hanno fatto carriera, loro". "Perché, lei no?"».

Che si fa con l'ospite antipatico?

«Si evita. Se si rivela odioso lo lascio perdere e vado da un altro. Più complicato quando erano solo tre. Però i peggiori sono quelli che per problemi di digestione hanno l' alito pesante, allora mi alzavo».

Capisce quando mentono?

«Ormai se ne accorge persino la sala, c'è un' abitudine al talk show che le persone capiscono subito. Però da qualche anno diminuiscono i mentitori».

Il personaggio di cui va più fiero?

«Tanti: Iacchetti, Sgarbi, Mughini, Ricky Memphis, Vergassola, David Riondino».

Si sarà pentito di qualcuno.

«No. Quando è successo ho pensato che era colpa mia, perché non ero riuscito a farlo venire fuori. Amo gli ospiti. Non mi vedo ai giardinetti o a controllare i lavori stradali. Però ogni volta che debutto spero in un terremoto o in un incendio, mi viene l' ansia. Non do per scontato che lo show venga bene».

È sempre affezionato alla formula dell'"Uno contro tutti"?

«Sì. Vorrei cominciare con Rocco Casalino».

Cosa vede in tv?

«Dimartedì con Giovanni Floris, che considero un po' il mio erede. Poi Maria (De Filippi, la moglie, ndr) a C'è posta per te perché mi piacciono le storie, Chi l'ha visto?, Quelli che il calcio. Stimo più di tutti Piero Angela e il figlio Alberto, persone che studiano. Seguo meno le serie. Amo la televisione "a pizzichetti"».

"L'amica geniale" diretta da suo figlio Saverio l'avrà vista.

«Quella sì. Mi ricorderò finché campo la telefonata di Christian De Sica: "È nato il nuovo neorealismo". Mi sono emozionato».

Come definirebbe lo stile di conduzione di sua moglie?

«Algido passionale. Sembra algida e non lo è, dentro è passionale. Tiene le emozioni agli arresti domiciliari».

Chi le piace tra i nuovi personaggi?

«Vincenzo De Lucia, imitatore bravissimo. Mi piace il clima di Stasera tutto è possibile , stimo Gigi e Ross, li ho avuti ospiti e sono belle persone».

Seguirà il Festival di Sanremo?

«Sanremo è come le feste comandate. Puoi non stare con i parenti a Natale? Allo stesso modo, puoi non vedere il festival? Ricordo Nunzio Filogamo alla radio, posso non seguire Fiorello e Amadeus? Chissene importa se non ci sarà il pubblico in sala».

Negli spot Fiorello ironizza col "Comitato ignora Sanremo".

«Io invece dico: "Seguitelo" o: "Ignorate Sanremo e poi andatevi a confessare"».

Le polemiche sulla presenza di Barbara Palombelli?

«È bravissima, è la persona che fa più ore di televisione tra Forum e Stasera Italia . Si documenta. Ho molta simpatia per lei, basta polemiche».

Cosa chiederebbe al neo premier Mario Draghi?

«Lo sa che tra un po' si dovrà trasferire? Al Quirinale, naturalmente. Mi sembra ovvio, dopo Cristoforo Colombo è l' unico italiano che mette d' accordo tutti».

Elvira Serra per il “Corriere della Sera” il 6 aprile 2020.

Dica la verità: il 19 marzo ha mangiato il bignè di San Giuseppe?

«Ah, ma lei vuole girare il coltello nella piaga! Ho fatto cercare ovunque sperando in un crumiro, ma tutte le pasticcerie erano chiuse. Quindi no, quest' anno niente bignè fritto alla crema».

Maurizio Costanzo scherza per telefono dal suo ufficio nel rione Prati di Roma. Il coronavirus non ha sconvolto (troppo) le sue abitudini. Continua ad andare nello studio ogni giorno, tre volte alla settimana registra con Carlotta Quadri (a distanza) la puntata quotidiana di Strada facendo , che va in onda su Isoradio dal lunedì al venerdì dalle 11 alle 12, scrive le sue rubriche per Il Tempo e Libero , pensa a quando tutto questo finirà e potrà, oltreché mangiare un bignè alla crema, ricominciare a realizzare le puntate delle sue interviste.

Lei indossa la mascherina?

«Certo, nel tragitto in auto. Ma la indossano soprattutto le persone che lavorano con me, dai due uomini della scorta alle segretarie».

Esce sempre con la scorta?

«La mafia non si mette in malattia».

Come è cambiata la sua vita a causa del virus?

«Devo ammettere che non sono mai stato un tipo mondano. Da piccolo c' era la guerra e non uscivo... Poi ho sposato Maria, un' altra casalinga... Io e lei siamo marito e moglie da quasi venticinque anni e prima siamo stati insieme altri tre. In tutto questo tempo non abbiamo mai frequentato salotti o fatto cene a lume di candela fuori di casa. Può anche pensare che siamo parenti stretti del coronavirus!».

Sempre in isolamento?

«Ma no, è che torniamo tardi. Mi piace aspettarla la sera per mangiare».

Certe abitudini, però, sono dovute cambiare. Ora non può più pranzare con i suoi figli il giovedì.

«Eh, quello mi dispiace molto. È una delle cose che mi dispiace di più. Aspetto che si allentino le misure di sicurezza per ripristinare un po' di vecchie abitudini. Ormai temo ai primi di maggio».

Però li sente i suoi figli, no?

«Certo, spessissimo».

E i nipoti? Vi videochiamate?

«Eh no, ci sentiamo all' orecchio, ma questo per colpa mia che sono antico. Il nonno, del resto, lo hanno visto tante volte in tv».

Cos' altro non riesce più a fare?

«Prima due volte alla settimana vedevo un mio carissimo amico, l' avvocato Giorgio Assumma. Ora possiamo solo telefonarci».

Non ha potuto fare il «Maurizio Costanzo Show».

«Eh no, per via del pubblico. Ma dopo Pasqua ripiglierò con L' Intervista il giovedì sera».

Cosa guarda in tv adesso?

«Interi speciali sul coronavirus. Poi guardo Dritto e rovescio perché mi piace Del Debbio. Floris con diMartedì e talvolta Bianca Berlinguer».

Ho letto che vede anche il Grande Fratello Vip, ne ha scritto pochi giorni fa.

«Ah sì. Quelli piangono quando vengono eliminati perché sanno che fuori li aspetta il coronavirus».

Non le è venuta voglia di riprendere in mano il sassofono?

«No, confesso di no. Non so perché ho smesso. Quando ho fatto Buona domenica c' era un clima caciarone e lo suonavo. Poi non essendo un grande artista forse è stato meglio che abbia smesso».

E a un nuovo libro sta pensando?

«Quello sì, ho cominciato qualche giorno fa. Ho già il titolo: Questo l' ho detto al gatto».

 Cosa gli ha detto?

«Parlo di tante cose, compreso il coronavirus. Ma non mi chieda altro».

È successo che persone a lei vicine siano scomparse per il Covid-19?

«No, però sono amico di Giorgio Gori, il sindaco di Bergamo. Poveraccio, sta passando un momento durissimo».

Guarda ogni sera la conferenza stampa della Protezione civile?

«Sì e faccio i conti dei contagi. Seguo sempre Borrelli. Per la verità mi piaceva molto anche Bertolaso ai tempi dell' Aquila. Certo, in Lombardia è stato sfortunato ad ammalarsi subito».

Avrebbe mai immaginato uno scenario simile per l' Italia e per il mondo?

«No. Ricordavo una influenza asiatica del 1969, dove morirono cinquemila italiani.

Ma sa, io sono di una generazione che non aveva il vaccino del morbillo e della rosolia e quando facevi una di queste malattie raccomandavi l' anima a Dio».

Mentre va nel suo studio vedrà una Roma inedita.

«Sa cosa mi dà tristezza? I negozi tutti chiusi. Penso con preoccupazione alla botta economica che avremo. Spero che il governo sia all' altezza».

Lei crede che alla fine andrà tutto bene?

«Sì. Mi sono emozionato a vedere i nostri connazionali che cantavano alle finestre.

Stupendo. Ho visto un senso di appartenenza che ci farà bene».

Diffamazione, se la vittima è una toga la vittoria è in tasca. Secondo lo studio di Sammarco e Zeno-Zencovich, i magistrati vincono sette volte su 10. E i risarcimenti valgono il doppio. Un esempio? I quarantamila euro che Maurizio Costanzo dovrà corrispondere al giudice del tribunale di Rimini. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 06 dicembre 2022.

Il maxi risarcimento di quarantamila euro che Maurizio Costanzo dovrà corrispondere al giudice del tribunale di Rimini Vinicio Canterini per avergli detto “complimenti” ha acceso ancora una volta i riflettori sul tema della diffamazione tramite i media.

Nel caso in questione, lo storico giornalista Mediaset, durante una puntata del “Maurizio Costanzo Show” andata in onda il 20 aprile del 2017, aveva ospitato Gessica Notaro, la ragazza di Rimini che era stata sfregiata l’anno prima con l’acido dal suo ex fidanzato Edson Tavares. La ragazza, rispondendo alle domande di Costanzo, aveva ripercorso le tappe della tragedia, affermando di aver denunciato a settembre del 2016 il suo ex che la stava perseguitando da tempo e che il magistrato aveva disposto nei suoi confronti il solo divieto di avvicinamento per tre mesi e mezzo.

Scaduto il divieto Tavares si era appostato sotto casa sua sfregiandola con l’acido e rendendola per sempre cieca ad occhio. Costanzo, senza mai fare il nome di Canterini, gli aveva fatto i “complimenti”, chiedendo all’allora ministro della Giustizia Andrea Orlando di aprire una inchiesta nei suoi confronti «perché non ha fatto quello che gli ha aveva detto il pm di mettere agli arresti domiciliari» Tavares, poi condannato a 15 anni e 5 mesi. Canterini, sentitosi diffamato dalle parole pronunciate da Costanzo, lo aveva denunciato ottenendo la scorsa settimana di essere risarcito.

Lo studio: diffamazione, le toghe vincono 7 volte su 10

Il settore dei risarcimenti ha confini quanto mail labili ed è sostanzialmente impossibile fare previsioni sul “quantum”. Sul Diritto dell’informazione e dell’informatica, periodico edito da Giuffrè, è stata pubblicata nelle scorse settimane una ricerca sul punto ad opera dei professori di diritto privato comparato Pieremilio Sammarco e Vincenzo Zeno-Zencovich. I due docenti hanno analizzato le sentenze per diffamazione, circa 700 depositate negli anni 2015/2020 presso il Tribunale di Roma. Le sentenze sono state acquisite presso il locale ced previamente anonimizzate nella identità delle persone fisiche attrici e convenute. In taluni casi la notorietà delle parti ha reso tale misura superflua. Sono invece rimaste identificate le persone giuridiche.

Il dato che balza subito all’occhio riguarda l’accoglimento: solo in tre casi su dieci. Delle oltre 400 sentenze di rigetto praticamente tutte decidono nel merito negando l’illecito. Vi sono poche decisioni su questioni preliminari, tipicamente per la competenza territoriale, ovvero di inammissibilità del giudizio oppure sulla sua estinzione. Nel caso si tratti di magistrati la domanda viene accolta però in sette casi su dieci. Esattamente il contrario, tre accoglimenti su dieci, quando il denunciante appartiene a qualsiasi altra categoria professionale (giornalista, politico, professore, imprenditore, eccetera).

Per quanto concerne gli importi, la media è 20mila euro, esattamente il doppio per le toghe. Un magistrato, ex pm di Mani pulite, nel quinquennio in questione ha imbastito ben 23 cause con un risarcimento complessivo pari a 578mila euro. Il convenuto, come detto, è solitamente un mezzo di comunicazione di massa, che poi corrisponde l’importo liquidato in quanto debitore di ultima istanza, anche rispetto ai propri giornalisti. Va peraltro segnalata la presenza di non poche decisioni in cui la contesa è fra persone fisiche, generate da offese diffuse attraverso i social media. Tenendo conto della sede di taluni editori a Roma e delle regole sulla competenza territoriale, i dati forniti da Sammarco e Zeno-Zencovich sono meramente indicativi, in quanto non possono tenere conto degli importi liquidati da altri Tribunali, sede della persona giuridica convenuta, ovvero dove uno dei convenuti è residente, ovvero ancora luogo di residenza dell’attore.

E veniamo, infine, ai “parametri” che i giudici dovrebbero tenere in considerazione ai fini del risarcimento. Il primo riguarda la natura del fatto falsamente attribuito alle parti lese. Il secondo l’intensità dell’elemento psicologico dell’autore. Il terzo il mezzo di comunicazione utilizzato per commettere la diffamazione e la diffusività dello stesso sul territorio nazionale. Il quarto il rilievo attribuito dai responsabili al pezzo contenente le notizie diffamatorie all’interno della pubblicazione in cui lo stesso è riportato. Il quinto, infine, l’eco suscitata dalle notizie diffamatorie. Il differente esito processuale, comunque, non può non indurre ad una riflessione sul fatto che esista una “giustizia domestica” fra le toghe per questo genere di cause.

Marcio Vigarani per corriere.it il 3 dicembre 2022.

Gli era costata già una diffida, adesso è arrivata una condanna per Maurizio Costanzo, 84 anni, giornalista e presentatore televisivo, accusato di diffamazione aggravata nei confronti del giudice per le indagini preliminari di Rimini, Vinicio Cantarini, 56 anni, nativo di Loreto (Ancona). 

La giudice Maria Elena Cola del Tribunale di Ancona ha inflitto un anno di reclusione, con la sospensione della pena subordinata al pagamento di 40mila euro come risarcimento danni alla parte offesa. La sentenza è arrivata mercoledì 30 novembre. Trattandosi di un giudice parte offesa, costituito parte civile con l’avvocato Nazzareno Ciucciomei, il processo è stato tenuto in un tribunale diverso da quello dove esercita; per Rimini ha competenza Ancona.

In una puntata del Maurizio Costanzo show, trasmessa il 20 aprile del 2017, Costanzo si era lasciato andare a commenti ritenuti offensivi dell’operato del giudice per una misura cautelare emessa nei confronti diEdson Tavares, ex fidanzato di Gessica Notaro, riminese sfregiata con l’acido il 10 gennaio del 2017. La misura cautelare riguardava episodi di stalking precedenti al fatto dell’acido, il gip aveva disposto il divieto di avvicinamento alla donna mentre la procura aveva chiesto gli arresti domiciliari. «Mi voglio complimentare col gip.

Dico al Csm, al Consiglio Superiore della Magistratura: fate i complimenti da parte mia a questo gip che ha deciso questo», aveva affermato il giornalista. La difesa di Costanzo ha sostenuto che non c’era alcuna volontà diffamatoria. Ora potrà ricorrere in appello. 

Il riferimento al gip

Quel giorno, in trasmissione, c’era anche Gessica Notaro che per la prima volta, dopo tre mesi dai fatti, parlava in pubblico. Costanzo aveva detto «complimenti a questo gip, vogliamo dire il nome del gip che ha fatto questo? Diamo il nome. Io mi voglio complimentare col gip. Dico al Csm, al Consiglio Superiore della Magistratura: fate i complimenti da parte mia a questo gip che ha deciso questo». Il nome di Cantarini non era stato fatto ma il riferimento era stato chiaro. Costanzo si era rivolto anche al ministro della Giustizia di allora, Orlando, incalzando «faccia un’inchiesta su questo gip perché non ha fatto quello che gli ha chiesto il pm di tenere questo qui agli arresti domiciliari, di dov’è? Di Rimini?».

Secondo la difesa di Costanzo non c’era alcuna volontà diffamatoria. Ora potrà ricorrere in appello. Per l’accusa avrebbe invece offeso la reputazione del giudice lasciando intendere che le conseguenze gravissime derivate alla donna fossero conseguenza dell’atteggiamento inoperoso o superficiale dello stesso giudice che, non era stato sufficientemente vigile nel seguire l’evoluzione della vicenda.

Da corriere.it il 4 dicembre 2022.

«Non commento le sentenze, parlano da sole. Io so solo di avere difeso una giovane donna che è stata sfregiata e che in conseguenza di ciò ha perso un occhio». Così Maurizio Costanzo, 84 anni, al «Corriere della Sera» in merito alla condanna inflittagli dal tribunale di Ancona a un anno di reclusione con la sospensione della pena, subordinata al pagamento di 40 mila euro come risarcimento danni per diffamazione nei confronti del gip che si era occupato di Gessica Notaro, sfregiata con l’acido dall’ex fidanzato Edson Tavares.

Durante la puntata del suo «Maurizio Costanzo Show» andata in onda il 20 aprile 2017, il conduttore aveva ospitato Gessica Notaro, che rispondendo alle domande di Costanzo aveva ripercorso le tappe della sua drammatica vicenda, ricordando come il gip avesse chiesto per Tavares, che Notaro aveva già denunciato per stalking, il solo divieto di avvicinamento e non, come richiesto dal pm, gli arresti domiciliari. «L’ho denunciato sperando che la facesse finita — aveva raccontato Gessica —. Vorrei sapere perché il pm ha deciso che andava arrestato e invece il gip gli ha dato solo gli obblighi domiciliari».

Costanzo aveva preso le difese della giovane, «complimentandosi» ironicamente con il giudice: «Complimenti a questo gip — aveva commentato il conduttore —, vogliamo fare il nome del gip che ha fatto questo? Io mi voglio complimentare col gip. Dico al Csm (il Consiglio Superiore della Magistratura, ndr): fate i complimenti da parte mia al gip che ha deciso questo». Il nome del togato — Vinicio Cantarini, in servizio al tribunale di Rimini — non era in realtà mai stato fatto da Costanzo, ma il riferimento era inequivocabile. Tanto che il giudice aveva prima diffidato Costanzo (che lo aveva invitato in trasmissione offrendogli il diritto di replica) e poi lo aveva querelato.

Una denuncia accolta, che ha portato alla condanna di Costanzo, benché i legali del conduttore avessero sottolineato che non c’era stata alcuna volontà diffamatoria nelle parole del loro assistito e che comunque, hanno fatto sapere, ricorreranno in appello. Nelle poche parole riferite da Costanzo al« Corriere», c’è anche l’invito a prendere nota di una ricerca pubblicata dal quotidiano «Libero» oggi in edicola. Secondo quanto riportato dal giornale, gli autori dell’indagine, i professori Pieremilio Sammarco e Vincenzo Zeno-Zencovich, hanno preso in esame tutte le sentenze, circa 700, emesse dal Tribunale di Roma negli anni 2015-2020 in materia di diffamazione.

Le sentenze di accoglimento erano state solo il 36%, con un importo complessivo a titolo di risarcimento di circa 20 mila euro. Quando la denuncia era stata presentata da un magistrato, le sentenze di accoglimento salivano però a quasi l’80%, con un quantum risarcitorio attestato su circa 40 mila euro, superiore alla media degli importi riconosciuti a qualsiasi altra categoria (politici, professionisti, imprenditori, medici, docenti universitari, giornalisti).

Magistratura solidale…vietato dire “complimenti al gip”? Maurizio Costanzo condannato a 1 anno di carcere. Una vergogna! Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 3 Dicembre 2022.

La giudice Maria Elena Cola del Tribunale di Ancona ha inflitto al giornalista un anno di reclusione, con la sospensione della pena subordinata al pagamento di 40mila euro come risarcimento danni alla parte offesa

Clamoroso, ma vero. E’ vietato dire “complimenti al gip”. A finire nel tritacarne giustizialista è Maurizio Costanzo, 84 anni, giornalista e simbolo della televisione italiana, condannato per diffamazione aggravata nei confronti del giudice per le indagini preliminari di Rimini, Vinicio Cantarini, 56 anni, nato a Loreto, in provincia di Ancona. A condannare Costanzo la giudice Maria Elena Cole del Tribunale di Ancona: un anno di reclusione, con sospensione della pena subordinata al pagamento di 40mila euro come risarcimento danni alla parte offesa.

Andiamo indietro nel tempo fino al 20 aprile del 2017 per capire cosa è accaduto. Maurizio Costanzo ospitava nel suo noto programma “Maurizio Costanzo show”  per la prima volta Gessica Notaro, che appariva in pubblico dopo essere stata sfregiata con l’acido dal suo ex fidanzato. Costanzo criticò (secondo noi e praticamente tutt’ Italia, quella sana…) il gip Cantarini per una misura cautelare emessa nei confronti dello sfregiatore, Edson Tavares, misura che riguardava precedenti episodi di stalking. La procura di Rimini aveva chiesto gli arresti domiciliari, mentre il gip dispose soltanto una misura cautelare, cioè un provvedimento meno restrittivo. E subito dopo, Tavares lasciato libero di imperversare sfregiò la Notaro buttandole l’acido in faccia sfigurandola.

Nel corso della trasmissione incriminata, Costanzo aveva detto: “Mi voglio complimentare col gip. Dico al Csm, al Consiglio Superiore della Magistratura: fate i complimenti da parte mia a questo gip che ha deciso questo”. e senza mai fare il nome di Cantarini. Maurizio Costanzo si era rivolto direttamente all’allora ministro della Giustizia, Andrea Orlando: “Faccia un’inchiesta su questo gip perché non ha fatto quello che gli ha chiesto il pm di tenere questo qui agli arresti domiciliari, di dov’è? Di Rimini?“.

Il gip Vinicio Cantarini ha pensato di querelare Costanzo per diffamazione. Ed una sua collega, incredibile vero un “magistrato donna“, gliel’ha data vinta. Secondo la difesa del conduttore televisivo non vi era alcuna volontà diffamatoria in quelle parole, per l’accusa al contrario avrebbe offeso la reputazione della toga lasciando intendere che Gessica fosse stata sfregiata in seguito alle decisioni del gip. Costanzo ora potrà ricorrere in appello.  Per l’accusa Costanzo avrebbe invece offeso la reputazione del giudice lasciando intendere che le conseguenze gravissime derivate alla donna fossero conseguenza dell’atteggiamento inoperoso o superficiale dello stesso giudice che, non era stato sufficientemente vigile nel seguire l’evoluzione della vicenda. In realtà i fatti sembrano provare proprio questo.

Per fortuna esiste anche quella che noi definiamo la “buona Giustizia” con la “G” maiuscola. Edson Tavares 30enne originario di Capo Verde, aggressore di Gessica Notaro che era stato lasciato a piede libero dal Gip di Rimini, è stato condannato in secondo grado nel novembre del 2018 a 15 anni, 5 mesi e venti giorni. Pena lievemente calata, rispetto ai 18 anni del primo grado (10 anni nel processo per l’aggressione e 8 in quello per stalking), ma che sostanzialmente conferma la gravità dei fatti che qualcuno aveva valutato in maniera più superficiale .

L’ avvocata di parte civile Elena Fabbri, aveva commentato duramente: “Per Gessica è un fine pena mai, ogni giorno che si guarderà allo specchio non vedrà più se stessa, ha subìto un omicidio di identità”. Resta da chiedersi cosa avrebbero detto e fatto il Gip Cantarini ed il giudice Maria Elena Cole del Tribunale di Ancona se qualcuno avesse fatto la stessa cosa, cioè sfregiare con l’acido la faccia di una loro moglie, o di una loro figlia. Ce lo chiedono i lettori e noi ci associamo a loro. Chissà cosa ne pensano il ministro di Giustizia, ed il Csm. Chiedere un’opinione è forse diventato un reato ? Redazione CdG 1947

Vietato ironizzare sul gip in televisione. Condanna con risarcimento per Costanzo. Il conduttore si era "complimentato" con la toga che non aveva disposto gli arresti per l'uomo che sfregiò con l'acido Gessica Notaro. Massimo Malpica il 4 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Guai a criticare i magistrati. Chiedere per conferma a Maurizio Costanzo, condannato a un anno di reclusione per sarcasmo. O, per essere precisi, condannato per diffamazione di un Gip, aggravata dal mezzo radiotelevisivo. Il giudice in questione è Vinicio Cantarini, in servizio al tribunale di Rimini. Il caso risale a cinque anni e mezzo fa, aprile 2017. Ospite del salotto tv di Costanzo era Gessica Notaro: la ragazza tre mesi prima, il 10 gennaio, era stata sfregiata con l'acido dal suo ex fidanzato, Edson Tavares, che già prima di quell'ultimo gesto aveva mostrato la sua indole violenta. Proprio Gessica, raccontando la sua terribile esperienza al presentatore, aveva ricordato come fosse stato proprio quel gip, in seguito a una precedente denuncia per stalking contro Tavares, a chiedere per l'uomo il solo divieto di avvicinamento e l'obbligo di dimora notturna e non, come richiesto dal pm, gli arresti domiciliari.

«L'ho denunciato sperando che la facesse finita. Vorrei sapere perché il pm ha deciso che andava arrestato e invece il gip gli ha dato solo gli obblighi domiciliari. Il giudice ha sentito solo la versione di Tavares, non la mia», s'era sfogata la ragazza. Costanzo aveva preso le sue parti attaccando il gip. «Complimenti a questo gip aveva detto vogliamo dire il nome del gip che ha fatto questo? Io mi voglio complimentare col gip. Dico al Csm: fate i complimenti da parte mia al gip che ha deciso questo». E aggiungendo, in collegamento telefonico con l'allora Guardasigilli Andrea Orlando, il suggerimento di indagare sul giudice.

Il nome di Cantarini, in realtà, non era stato fatto, anche se il riferimento era inequivocabile. E nemmeno l'arresto almeno dal punto di vista cronologico, e senza considerare l'effetto dissuasorio di una misura più severa - avrebbe cambiato le cose, considerato che Tavares sarebbe tornato libero il 30 dicembre 2016, undici giorni prima del suo attacco con l'acido alla ragazza. Proprio il gip aveva rimarcato questo punto, sottolineato anche nell'alzata di scudi a sua difesa dell'avvocatura riminese e dell'Anm, che oltre a rimarcare la correttezza formale del provvedimento adottato dal gip (Tavares non aveva violato quel divieto di avvicinamento), avevano condannato la «gogna mediatica» contro il collega, risparmiando solo Gessica dalle critiche. Ma all'interessato non era bastata la difesa di casta. Cantarini aveva diffidato Costanzo, e quest'ultimo lo aveva invitato in trasmissione, a maggio 2017, suggerendo di chiudere la questione offrendogli il diritto di replica: «Sono disponibile ad ospitarla per ascoltare la sua versione», aveva spiegato il conduttore. Ma Cantarini aveva in mente una diversa soluzione. Il giudice riminese ha preferito querelare Costanzo per quei «complimenti» sarcastici, e il 30 novembre scorso un altro giudice, Maria Elena Cola del tribunale di Ancona, ha dato ragione al collega. Stabilendo che è stato vittima di diffamazione aggravata, condannando Costanzo - che ha 85 anni - a un anno di reclusione, e infine subordinando la sospensione della pena al pagamento di un risarcimento danni a Cantarini di 40mila euro.

Costanzo, memoria, amore e cattiveria: «Rischiai una denuncia per adulterio, la prova del letto caldo mi ha salvato...» Paolo Conti su Il Corriere della Sera il 23 Ottobre 2022.

Maurizio Costanzo scrive un libro sugli oggetti una volta comuni e ora dimenticati: dai soldatini giocattolo agli elenchi telefonici, fino all’abitudine del pranzo in famiglia la domenica. «Sono stato un corteggiatore tenace. Oggi vivere per me è Maria»

Maurizio Costanzo scrive un libro di ricordi e di bilanci, riannoda i fili del tempo vissuto, ritrova oggetti e abitudini perdute. Perché mettersi a ricostruire il passato in questo libro Smemorabilia/Catalogo sentimentale degli oggetti perduti (Mondadori) scritto con Valerio de Filippis? «All’inizio del libro cito Sergio Caputo che in Rifarsi una vita canta così: “Fuori si fa sera/che luna pensierosa/ vorrei dimenticare/ ma non ricordo cosa...”. Direi che non mi piace ricordare, ma ancora meno amo dimenticare. Infatti, eccomi qui col libro».

C’è un catalogo di oggetti e abitudini perduti. 

«Sì. Sono abitudini superate da una società che cambia e oggetti messi da parte da una tecnologia sempre più avanzata. Lo chiamerei “Il paradiso della smemoria” che riemerge con l’avanzare dell’età. Sono stato sempre diffidente comunque verso la memoria, ho spesso detto che è una cosa sciocca raccontarsi. Che è meglio vivere che raccontarsi. Ecco invece un libro di memoria: come rinnegare sessant’anni di una professione fondata sul racconto altrui»

«PER GESTIRE IL POTERE OCCORRE UNA DOSE DI CATTIVERIA. QUELLA CE L’HO E CREDO SI VEDA NELLE INTERVISTE. MA LA CATTIVERIA È ANCHE RISPETTO VERSO L’INTERVISTATO» 

C’è una dedica struggente all’inizio: «Al Parioli col Maurizio Costanzo Show , dopo 40 anni: 1982-2022 e che non vada perduta nemmeno una goccia. Dedico questo libro ad Alberto Silvestri, Paolo Pietrangeli, Luisella Testa, Franco Bracardi».

«Per un libro del mio amico Michele Santoro ho rivisto la staffetta tv “Samarcanda- Maurizio Costanzo Show” del 1991 con Giovanni Falcone. Mi si è stretto il cuore vedere al pianoforte Franco Bracardi, pensare che nel pulmino della regìa c’era Paolo Pietrangeli, ricordare che dietro le quinte mi rassicurava il coautore Alberto, rievocare la passione di Luisella Testa. Non c’è più nessuno, a loro dedico il libro per gli anni di bellissimo lavoro insieme. Meglio vivere che raccontarsi, bisognerebbe dire a questo punto... ma l’uomo è un animale al quale l’esperienza non serve a niente. Continuo a contraddirmi, a raccontare prima di vivere».

Giochiamo con la memoria, allora. Decenni di tv significano potere. Maurizio Costanzo è stato cambiato dal potere?

«Non posso garantirlo ma spero di essere rimasto intatto dentro. Non ho mai valicato il limite del Marchese del Grillo: io so’ io e voi... eccetera. Certo, per gestire il potere occorre una dose di cattiveria. Quella ce l’ho e credo si veda nelle interviste. Ma la cattiveria è anche rispetto verso l’intervistato».

In che senso?

«La cattiveria è curiosità, voglia di tirar fuori la verità da chi non vorrebbe dirla. Comunque, all’inizio il potere è euforizzante. Ora il mio rapporto si è molto ridimensionato: il vero potere è diventato la salute. Pensiamo alla pandemia, alle quarantene, ai lockdown».

«HO MANEGGIATO SOMME INGENTI, CON I PRIMI GUADAGNI HO COMPRATO UNA PORSCHE: NON ARRIVAVO AI PEDALI. DAL 1976 NON GUIDO PIÙ... HO ANCHE BRUCIATO MOLTI SOLDI PROPRIO PER IL TEATRO PARIOLI E LA SUA GESTIONE»

Rapporto col denaro, con la ricchezza?

«Non ho mai voluto arricchirmi per il gusto di arricchirmi. Ho maneggiato somme anche ingenti. Ma alla fine il mio rapporto col denaro è minimo. Mi serve per vivere bene. Ma ne ho rispetto. Non lo spreco, non subisco il fascino dell’accumulo, non ho mai investito in speculazioni».

Nemmeno in borsa?

«Diciamo che per me la parola indica un orpello femminile atto al trasporto di oggetti che, una volta finiti lì dentro, non si trovano più. Ho anche bruciato molti soldi proprio per il teatro Parioli e la sua gestione. Una volta dovetti vendere casa per ripianare i debiti. Ma riperderei volentieri quel denaro. L’amore infinito per il teatro, lo so, è un vizio costoso».

Altri vizi, per esempio automobili?

«Con i primi guadagni mi comprai una Porsche. Non arrivavo nemmeno ai pedali. La usai pochissimo. Poi una MG e un’altra Porsche. Chissà perché, poi... non sono mai stato un vero appassionato di auto potenti. Ora, per fortuna mia e degli automobilisti romani, non guido più dal 1976».

La memoria ha qualche pregio?

«Sa cancellare alcune cose. La vita è piena di appuntamenti mancati. Quelli più amari li ho dimenticati». 

Cosa dimentica più facilmente nella vita quotidiana?

«Le chiavi di casa. Ho risolto non portandole più. Suono e mi aprono, a casa c’è sempre qualcuno».

Nel libro lei ricorda puntate e interviste storiche, indimenticabili.

«Ho intervistato Gheddafi a Tripoli, Donald Trump a New York nel 2002, Sean Connery a Londra... Mi fermo qui, mi pare già abbastanza, no?».

Le memorie d’amore?

«L’ho detto, l’uomo non apprende nulla dall’esperienza. E a distanza di anni tante storie appaiono incomprensibili: si capisce perché ci si lascia, meno perché ci si era messi insieme. Me ne rendo conto quando, sempre più raramente, ripenso ai miei trascorsi sentimentali».

Nomi, errori?

«Ma su, figuriamoci...».

E Maria De Filippi?

«Soprattutto in questo caso, molto ma molto meglio vivere. E vivere per me è Maria».

Veniamo alle Smemorabilia. Partiamo dall’infanzia, dai soldatini di piombo.

«Una meraviglia. Ci giocavo tanto, era il tipico passatempo adatto a un figlio unico come me. Battaglie infinite senza nemmeno una goccia di sangue. Interi battaglioni schierati, contro quelli del vicino di casa, stesi sui pavimenti gelidi. Cresciuto, sono passato al Monopoli. Più adatto al mio carattere».

«SONO ROMANO-ROMANO. HO QUELLA ROMANITÀ CHE DIVENTA CARATTERE, INDOLENZA DI CHI HA GIÀ VISTO TUTTO, NOI ROMANI CE L’ABBIAMO» 

Un tempo si scrivevano e si spedivano tante cartoline. Sparite, purtroppo, dalla circolazione.

«Erano un modo per far partecipare alla propria vacanza il destinatario. “Saluti da...”. Credo ci siano persone che, collezionandole, abbiano fatto il giro del mondo restando a casa. Oggi sono gli infiniti scatti dai cellulari con un saluto allegato. Un click e via».

Appare anche la Befana. Festa molto romana.

«Beh, io sono romano-romano. Ho quella romanità che diventa carattere, indolenza di chi ha già visto tutto, noi romani ce l’abbiamo. Ho amato la Befana, le scrivevo lettere piene di desideri, le lasciavo pezzetti di pane e latte caldo sperando che esaudisse le mie richieste. Mi elettrizzava l’idea che si calasse nei caminetti».

E gli elenchi telefonici?

«Un reperto pre-digitale. Non era previsto il diritto alla privacy, se avevi un telefono eri schedato e mappato con la via. Georges Simenon li usava aprendoli a caso per dare nomi ai suoi personaggi di fantasia».

Appare anche il monopattino in legno.

«Aveva le rotelle a sfera, ricordo un campo per noi ragazzini a Roma in via Como, vicino piazza Bologna. Usavamo anche le mazzafionde, altro oggetto smarrito. Senza fare mai grossi danni».

«I MICROFONI DI UN TEMPO COSTRINGEVANO A MAGGIORE CONCENTRAZIONE. OGGI SONO INVISIBILI, DICI QUELLO CHE CAPITA, RISCHIANDO IL DISASTRO» 

I microfoni d’acciaio della Radio di un tempo...

«Un feticcio a cui sono molto legato. Imponenti, impegnativi ma bellissimi. Costringevano a una maggiore concentrazione. Oggi sono invisibili e vai a ruota libera. Senza quel feticcio che ti frenava, dici un po’ tutto quello che ti capita e si rischia così il disastro».

Addio anche al pranzo della domenica.

«Chi ne nega il fascino, nega un pezzo di vita: occasioni belle, piene di calore, parenti che arrivavano in visita, il senso pieno della famiglia che forse si è perso».

Nell’elenco appaiono le preghiere in classe...

«Ai miei tempi il culto cattolico permeava la quotidianità a scuola: ora di religione, veniva il prete, preghiera in classe. La società è radicalmente cambiata. Non c’è più nulla di tutto questo, giustamente».

«L’ADULTERIO È SPARITO COME REATO PENALE... OGGI L’ADULTERIO DI UN TEMPO È L’OCCASIONE PER UN SORRISO DI SMEMORIA»

Poi c’è dell’altro. Anche l’adulterio. È davvero sparito?

«Sparito come reato penale, come fenomeno violentemente osteggiato. Decenni fa ebbi una storia con una donna sposata. Il marito sporse denuncia, arrivarono i carabinieri. Per fortuna eravamo vestiti. Fecero la famosa prova della mano sotto le lenzuola per vedere se il letto fosse caldo. La prova fallì, niente denuncia. Rimasi a piede libero. Che follia... Oggi l’adulterio di un tempo è l’occasione per un sorriso di smemoria».

C’è un capitolo sul corteggiamento. Finito anche quello?

«Tutto passa per il web. Ho l’impressione che oggi con i social la parola “detta” così funzioni meno. Il corteggiamento come lo intendo io si fa con la pazienza, le attenzioni, l’ascolto, nel far capire alla persona corteggiata che ti stai dedicando a lei in maniera esclusiva. Sono stato un corteggiatore tenace, insistere con garbo ma con determinazione può portare alla conquista. Senza mai, sia assolutamente ben chiaro, sfociare nella petulanza, nella barbarie della molestia».

Nella parte iniziale lei elenca tanti protagonisti a suo avviso non ricordati come meriterebbero: Ettore Scola, Age e Scarpelli, Pasolini, Bertolucci, Alighiero Noschese... Come vorrebbe essere ricordato?

«Mi ricorderanno i figli, alcune persone più vicine. Spero semplicemente di essere ricordato come una brava persona che ha fatto un programma durato quarant’anni».

Moltissimi, un record

«Sì, un long seller della tv italiana. Spero che nel 2050 si potranno regalare i cofanetti del Maurizio Costanzo Show come documento, e in mia smemoria. Sempre meglio...».

Sempre meglio?

«Di una targa su una via».

Maurizio Costanzo Show, 40 anni quell'insolita fragranza d'eternità. Vedevamo il talk da bambini, ha accompagnato la pubertà e la maturità. Ora. Francesco Specchia su Libero Quotidiano il 03 ottobre 2022

Francesco Specchia, fiorentino di nascita, veronese d'adozione, ha una laurea in legge, una specializzazione in comunicazioni di massa e una antropologia criminale (ma non gli sono servite a nulla); a Libero si occupa prevalentemente di politica, tv e mass media. Si vanta di aver lavorato, tra gli altri, per Indro Montanelli alla Voce e per Albino Longhi all'Arena di Verona. Collabora con il TgCom e Radio Monte Carlo, ha scritto e condotto programmi televisivi, tra cui i talk show politici "Iceberg", "Alias" con Franco Debenedetti e "Versus", primo esperimento di talk show interattivo con i social network. Vive una perenne e macerante schizofrenia: ha lavorato per la satira e scritto vari saggi tra cui "Diario inedito del Grande Fratello" (Gremese) e "Gli Inaffondabili" (Marsilio), "Giulio Andreotti-Parola di Giulio" (Aliberti), ed è direttore della collana Mediamursia. Tifa Fiorentina, e non è mai riuscito ad entrare in una lobby, che fosse una...

Quando si dice quella sottile fragranza d'eternità.

«Dagli studi De Paolis in Roma, il Maurizio Costanzo Show...» , tuonava, quel 14 settembre del '82 la voce fuoricampo, ad introdurti in una dimensione parallela nascosta nelle faglie dei palinsesti.

Con o senza «Teatro Parioli» nell'incipit, il ritorno del Maurizio Costanzo Show (Canale 5 venerdì seconda serata)- che di per sè rimane patrimonio dell'umanità- m' insuffla sentimenti potenti e contrastanti.

CHIAVE DI VOLTA Il salotto di Costanzo è stata la chiave di volta dei mille universi della cronaca, dello spettacolo e della politica. Ed è parte della mia giovinezza; l'ho goduto da fan bambino, da spettatore, perfino da ospite. Me ne sono abbeverato nella sua funzione di fucina di miti pop.

Oggi, col nuovo ciclo  il Costanzo Show compie 40 anni e rimane il programma più longevo della televisione italiana. Il problema è che ho scritto questo stesso pezzo dieci anni fa, e vent' anni fa. Io e il resto d'Italia siamo invecchiati (perfino il boss, Piersilvio Berlusconi, il quale ringrazia Costanzo con una lettera densa di rispetto e deferenza); e i miei stessi figli cominciano a guardarlo ipnotizzati dalla ruota del tempo. E, mentre accade tutto ciò, Maurizio, sempre risorto dalle sue innumerevoli ceneri, ha reso il suo programma il ritratto di Dorian Gray della nazione.

C'è stato un momento - quando pochi anni fa, il direttore di Rete 4 Sebastiano Lombardi, preso dalla nostalgia decise di rimandarlo in onda. Un momento in cui io pensai a un effetto - minestra riscaldata.

Maurizio, astutamente aveva riaperto il sipario proponendo le vedove di Funari, Corrado e Manfredi; o Rocco Siffredi e signora; o la Ferilli e il babbo; o Marina La Rosa in veste dominatrix; o la stessa Maria De Filippi, convocata nella sua onnipotenza a presidiare una fetta di pubblico e a rimettere il bollino di qualità su un esperimento di pura nostalgia. Sì certo, c'erano le interviste dell'anchorman, meno aguzze ma più sagge (il "metodo cerniera dell'anima", che descriveva nelle sue lezioni universitarie di semiotica alla Luiss) come quella ai coniugi Siffredi («Ho deciso di smettere, non potevo far sesso con ragazzine dell'età dei miei figli»).

Certo, c'era l'effetto-sicurezza della passerella, del sax suonato morbidamente nella sigla; ma, insomma, io, proveniente dal caleidoscopio della nuova tv, di Mtv, pensavo ad un afflato del passato, alla tigna di Maurizio nell'aggrapparsi alla telecamera fuori tempo massimo. Invece mi sbagliavo: Mtv è morta, e il Costanzo Show è rimasto.

Oggi, i comunicati ufficiali hanno presentano la puntata del 40° in pompa magna, mentre si apre sulle note di Se penso a te del compianto Bracardi: «Sono ospiti l'attore e showman Christian De Sica, l'imprenditore e membro della casa Savoia Emanuele Filiberto, il vice direttore, scrittore ed editorialista del Corriere della Sera Aldo Cazzullo, l'usignolo Di Cavriago ora opinionista del Gfvip7 Orietta Berti, il giornalista e divulgatore Scientifico Alessandro Cecchi Paone con il suo compagno Simone Antolini,...Eccetera. 

UNA LIVELLA E si torna al Teatro Parioli dietro le quinte del quale Costanzo istruiva preventivamente i suoi ospiti mettendoli tutti - dalla superstar americana, al ministro spocchioso, all'operaio diseredato - sullo stesso piano. Quel retropalco era la democrazia del consenso, era come la livella di Totò: tutti uguali davanti alla telecamera e nel salottino rosso. Sarebbe banale qui, peraltro, elencare l'impegno civile (Maurizio bersaglio di una bomba della mafia); o gli esperimenti tecnologici (fu il primo programma Mediaset trasmesso sul digitale terrestre; o i talenti che lo scouting del Costanzo Show ha scoperto e lanciato da Vittorio Sgarbi e Platinette, da Valerio Mastandrea al povero Nik Novecento, da Giobbe Covatta alla Parietti al redivivo Gigi Sabani, a politici come Gianfranco Fini che qui venne sdoganato in un' indimenticabile Uno contro tutti.

Maurizio - Che Costanza- Show, ci hai visto nascere, ci seppellirai tutti

Maurizio Costanzo compie 84 anni: storia dei suoi amori. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 27 agosto 2022.

Il giornalista e la futura regina della televisione italiana si sono sposati a Roma il 28 agosto 1995. Ma è l’ultima, lunghissima, tappa di una vita molto articolata in quanto a «sentimenti»

Un anniversario importante

Il 28 agosto è una data particolarmente significativa per Maurizio Costanzo e Maria De Filippi: nello stesso giorno la coppia festeggia il compleanno del giornalista e l’anniversario di matrimonio. Si sono sposati nel 1995, nella sala Azzurra del Campidoglio, davanti all’allora sindaco Francesco Rutelli: «Questa volta mi fermo qui», disse Maurizio. Visto che quest’anno saranno nozze d’argento mai parole furono più profetiche: «Nella mia vita ho immaginato di tutto, persino di dimagrire: ma arrivare a 25 anni di matrimonio, no — ha detto Costanzo in un'intervista a La verità — Io mi sono sposato quattro volte. Ci ho messo del tempo e tanta pazienza, ma alla quarta volta quella giusta la azzecchi».

I matrimoni precedenti

«Sono molto felice di averla incontrata. In vita mia mi sono sposato quattro volte, se sto con lei da 25 anni ci sarà un motivo», raccontava qualche settimana fa Costanzo intervistato da Pierluigi Diaco. Prima di dire sì a quella che sarebbe diventata la regina della televisione italiana era convolato a nozze altre tre volte. La prima nel 1963 con la fotoreporter Lori Sammartino (più grande di lui di quattordici anni). La sua seconda moglie — nel 1973 — fu la giornalista Flaminia Morandi, dalla quale ha avuto i figli Camilla e Saverio. Il terzo matrimonio, con Marta Flavi, è stato quello più burrascoso: celebrato nel 1989 un anno dopo era già finito.

L’incontro ad un convegno sulla pirateria

Nel 1989, dopo aver partecipato ad un convegno organizzato durante la Mostra del Cinema contro la pirateria, Maurizio e Maria si ritrovarono insieme a pranzo. Lei lo colpì subito per la sua intelligenza: «Le diedi la possibilità di lavorare con me a Roma. Iniziò a fare questo lavoro. Poi (dopo la separazione da Marta Flavi, ndr.) cominciò la nostra storia», ha raccontato al Corriere. Per dimostrare di avere intenzioni serie il giornalista andò fino a Pavia per conoscere i genitori della sua novella fidanzata: «Maurizio rappresentava un punto fermo, centrale — ha confessato la conduttrice intervistata da FQMagazine — Io ero meno solida, vivevo una relazione con un ragazzo in qualche modo trascinata da sei anni. Sono arrivata a Roma ho visto un uomo intelligente che mi capiva ed era profondamente buono, mi ha conquistato. Non è stato facile spiegarlo ai miei genitori ma la mia non era una forma di ribellione».

Il giorno più brutto

Il 14 maggio 1993 in via Ruggero Fauro a Roma, a poca distanza dal Teatro Parioli, esplose un'autobomba riempita con 70 chili di tritolo: l'obiettivo era Maurizio Costanzo, da sempre impegnato contro la mafia, che stava viaggiando in auto — di ritorno dalla registrazione del Maurizio Costanzo Show — insieme a Maria, al cane e all’autista. Si salvarono tutti miracolosamente perché quest’ultimo (che ha ricostruito quei momenti drammatici in un’intervista al Corriere) non schiacciò il pedale del freno: gli attentatori, ha raccontato, attendevano l’accensione degli stop per premere il pulsante di attivazione della bomba. L'evento viene ricordato dal Costanzo come il giorno «più brutto della sua vita», ma al tempo stesso «il più bello» perché lui e Maria erano ancora vivi. «Fu proprio il fatto di aver visto la morte in faccia con lei che mi spinse a chiedere Maria in moglie - ha rivelato il conduttore a DiPiù - perché capii una cosa fondamentale: è lei la persona che voglio che mi tenga la mano quando morirò».

Lontano dai dolci

Il segreto per un matrimonio longevo? L’amicizia, il sostegno reciproco ma anche il rispetto del lavoro («Non gli ho mai rotto le scatole. Quando l’ho conosciuto, lavorava tantissimo e io non ho mai fatto la parte della mogliettina che si sente trascurata. Ho iniziato a lavorare anch’io, non avevo alternative», diceva lei nel 2015 ad Oggi). Senza dimenticare le piccole cose («Mi piace aspettarla la sera per mangiare», ha confidato lui al Corriere). E la pazienza, da entrambe le parti, specialmente quando tua moglie ti tiene lontano dai dolci: «Maria mi bullizza» ha raccontato scherzando Costanzo in diretta a Che Tempo Che Fa nel 2018. Per lei farebbe qualunque cosa, persino «scalare l'Everest».

Il figlio Gabriele

Ad unire Maria e Maurizio c'è poi l'amore per Gabriele, preso in affidamento nel 2002 quando aveva soltanto dieci anni e adottato due anni dopo: «La cosa fantastica di quando fai questa scelta - ha confidato la conduttrice a Raffaella Carrà nel suo A raccontare comincia tu - è che hai un periodo di conoscenza. Anche lui ti sceglie: è un testone, aveva già non scelto due volte. Ci eravamo visti due volte, poi è venuto a Natale a casa ed è rimasto 10 giorni. In quei giorni sei sotto esame e fai fatica perché non era più lui ma l'assistente sociale a esaminarti». Gabriele oggi ha 28 anni, lavora dietro le quinte di molti programmi targati Fascino ed è andato a convivere da poco con la sua fidanzata. Lo ha svelato mamma Maria al settimanale Gente, a cui ha confidato anche un sogno segreto: «Un nipotino? Magari. Assolutamente sì. Ammazza se mi piacerebbe, ne sarei pazza di gioia».

Da corriere.it il 26 aprile 2022.

«La mafia mi ha messo 40 chili di tritolo qua fuori, erano risentiti. Ma devo a Michele (Santoro, ndr) l’emozione di aver fatto qualcosa dentro al Paese». Inizia così il ricordo di Maurizio Costanzo dell’attentato di via Fauro del 1993, proprio davanti al Teatro Parioli dove, oggi come allora, va in scena il suo celebre show. Nella prima puntata della nuova edizione, che celebra il quarantesimo anniversario del programma, Costanzo duetta sul palco proprio con Santoro.

«Io ti ho sempre paragonato a un gatto che srotola un gomitolo che non sai mai dove va a finire», dice Santoro, prima di ricordare la maratona evento Rai-Mediaset contro la mafia. «Una cosa incredibile che non si era mai vista. Ne è nata una speranza pazzesca. Il Paese ha acceso le luci e tutti i grandi giornali del mondo hanno parlato di questa staffetta». «Mi piacerebbe far crescere una tv indipendente», racconta ancora Santoro, tornando poi sul terribile attentato avvenuto davanti al Parioli.

«Qua fuori c’era un baratro, una scena da guerra. Lui era ancora frastornato, Maria sul letto che non riusciva a proferire parola. In quell’obiettivo c’eravamo tutti e due, era troppo facile, ma secondo me quell’attentato aveva un significato molto importante: era un attentato alla televisione, ci dicevano state esagerando, tornate nei ranghi». Maurizio Costanzo poi rivela: «Nelle indagini hanno scoperto a metà platea Messina Denaro, il grande latitante, veniva a vedere lo show e magari gli piaceva pure». E ancora: «Ricordo lo stupore di Enzo Biagi che mi chiedeva perché, è stato terribile» 

Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 29 aprile 2022.

I ricordi sono belli perché sopprimono i particolari fastidiosi. Sono come sogni raccontati in pubblico per sottolineare l'inadeguatezza del presente. Mercoledì notte, Maurizio Costanzo celebrava i 40 del suo show (dovrei abbandonarmi all'impudenza di stabilire i rapporti fra il Maurizio Costanzo Show e gli attuali talk popolati di sfessati; lo farò, prima o poi), e in uno dei tanti flashback è riapparso il fantasma di Telesogno.

Correva l'anno 1995 e Costanzo, affiancato da Michele Santoro, sul palcoscenico del Teatro Parioli di Roma leggeva un piccolo proclama: «La televisione che viviamo adesso è un po' figlia degli anni Cinquanta e un po' degli anni Ottanta. È sempre più uguale a se stessa e diversa da noi. Per questo, siamo in tanti a volere un'altra tv». Detto da uno che ha sempre fatto un solo tipo di tv, era un progetto ambizioso. 

In platea sedeva il meglio dell'intellighenzia mediatica: Curzi, Funari, Chiambretti, Guglielmi, Balassone, Dandini, Rosi, Salvatores e tanti altri «artisti associati» (in videoconferenza da Milano: Biagi, Fazio, Parietti, Ricci e Claudia Mori). Tutti erano pronti a imbarcarsi sulla nuova nave della libertà.

L'altra sera Costanzo e Santoro hanno ribadito che volevano fare una televisione indipendente, dimenticando però di aggiungere «con i soldi degli altri», o come altro si dice. Pochi giorni dopo la presentazione, Silvio Berlusconi fece dire al fedele Adriano Galliani: «Il Telesogno va benissimo purché questi due signori vadano da Mediobanca e comprino Tmc che è in vendita, oppure comprino Rete Mia o Rete A.

Noi abbiamo fatto tv investendo miliardi invece Santoro e Costanzo vorrebbero in regalo il terzo polo. Non capisco». E infatti Telesogno non si fece, Costanzo continua a lavorare per Rai e Mediaset, Santoro è stato meno furbo e più ideologico e, intanto, gli spettatori sopravvivono a spese dei ricordi degli altri. 

Estratto dell’articolo di Marco Lodoli per “la Repubblica” il 28 febbraio 2023.

[…] Costanzo ha sicuramente scritto pagine importanti nello spettacolo e nella comunicazione televisiva […] Nel suo salottino al teatro Parioli abbiamo conosciuto per la prima volta Sgarbi, Mastandrea, Iacchetti, Ricky Memphis e tanti altri personaggi che lì hanno iniziato a dimostrare le loro qualità. […]

 Però è giusto riconoscere che quella trasmissione, così brillante e vivace, è stata anche responsabile, in nome dello spettacolo a tutti i costi, di una sorta di omologazione culturale: sullo stesso palco ogni sera trovavamo fianco a fianco il comico e il disperato caso umano, la bellona scosciata e lo scrittore ambizioso con il suo nuovo romanzo, l’arrabbiato cronico e il buonuomo, il regista di tanto o poco talento e il politico chiacchierone […]

Tutti diventavano simpatiche marionette tra le mani abili e sornione di Costanzo, tutto era uguale a tutto purché ci accompagnasse senza scosse verso il sonno. Una grande invenzione televisiva, le interviste punzecchianti che diventavano teatro […] E poi il lancio strepitoso di Maria De Filippi, donna intelligente, amatissima dal pubblico televisivo: ma siamo sicuri che Uomini e donne abbia migliorato i rapporti tra gli uomini e le donne? Che C’è posta per te abbia veramente restituito uno spazio sincero alle emozioni? Ma questo ormai non conta più, la morte si porta via tutto quanto, un grande creatore e comunicatore e tutte le nostre inutili obiezioni. […]

Silvia Fumarola per “la Repubblica” il 28 aprile 2022.

È tornato al Teatro Parioli di Roma dove tutto è cominciato: il Maurizio Costanzo show compie quaranta anni e il giornalista, 83 anni, ha ripreso in mano il talk show su Canale 5. Nuova edizione, puntata 4466: sornione, un marchio di fabbrica, l'emozione stemperata nell'ironia e nel cinismo romano di chi ne ha viste tante e che gli fa dire, a chi si congratula per il record: «E vabbè, su, che volete che sia». 

Da quanto mancava dal Parioli?

«Dodici anni, l'impatto è stato forte. Mi sono venuti gli occhi lucidi, ho pensato ai miei amici Alberto Silvestri, Paolo Pietrangeli, Franco Bracardi che non ci sono più». 

La prima sensazione sul palco?

«Che era bello esserci. Il Costanzo show è una fotocopia della carta di identità». 

Sono successe tante cose al Parioli, la puntata con il giudice Giovanni Falcone è rimasta nella storia.

«I magistrati mi hanno detto che una sera in platea tra il pubblico c'era il latitante Messina Denaro. È emerso nelle indagini, ho visto il video. Veniva a venire lo show e magari gli piaceva». 

Via Ruggero Fauro è la strada a due passi dal teatro dove, nel 1993, è stato vittima di un attentato. La mafia aveva messo 40 chili di tritolo. Ci era più passato?

«Una volta sola» 

Ha ancora paura?

«Paura no, però rispetto. Perché quello che è successo ha segnato un prima e un dopo. Ma siamo stati molto fortunati, ci siamo salvati tutti: io, Maria, l'autista e il cane. Se devo essere sincero mi ha fatto più impressione il teatro, ricordo ancora i cani della polizia che fiutavano nei camerini». 

Anche dieci ospiti insieme: è più domatore o moderatore?

«Più ascoltatore». 

Il segreto è quello?

«Il problema vero è che nei talk show i conduttori, presi dal proprio ego, non ascoltano. Io mi sono sempre posto il problema di stare a sentire che dicono gli ospiti». 

Chi le dà filo da torcere?

«Quelli vaghi, che se fai una domanda su un certo argomento rispondono un'altra cosa». 

E le risse?

«Capitano. Quest' anno nella prima puntata c'è stata una lite sulla guerra tra Michele Santoro e Enrico Mentana». 

Dopo tanti anni si diverte ancora?

«Certo, se no smetterei. Ho una grande fortuna, ci sono ancora».

Ha avuto ospiti i più grandi artisti: oggi cos' è cambiato?

«Ho avuto Mastroianni, Tognazzi, Vitti, Sordi, Gassman, Villaggio. Cosa vado cercando? Certo che non ce ne sono più come loro». 

Il politico più bravo in tv?

«In assoluto Giulio Andreotti. Poi mi ha dato buone soddisfazioni Luigi Di Maio, però è tanto che non lo vedo. Ma io ho avuto Giorgio Amendola e Gian Carlo Pajetta, ripeto: cosa vado cercando?». 

L'amministratore delegato di Mediaset Pier Silvio Berlusconi le ha mandato gli auguri. Lei ha dichiarato che non ha mai votato il padre ma lo sentiva?

«Non l'ho mai votato, come Enrico Mentana. Quando ci annunciò che si candidava gli dicemmo che faceva una ca**ata. Gli dissi: "Non ti attaccherò mai ma non ti voterò mai". E così è stato. Certo che abbiamo avuto rapporti. Spero che Silvio venga alla seconda, alla terza puntata, o che si colleghi. Se non ci fosse stato lui a chiedermi di fare il Costanzo show tutte le sere, quando mai avrei festeggiato i 40 anni con una puntata settimanale?». 

La televisione è cambiata?

«Finge di cambiare ma è sempre la stessa, il problema è che bisogna farla pensando a chi la segue. In genere la fanno pensando a sé stessi. Dico sempre: preoccupatevi di chi sta a casa. Io quando lavoro penso agli "sfasciadivani"».

Chi sono?

«Sono le coppie non più giovanissime sedute davanti alla tv, dall'una del pomeriggio alla sera. Provi a immaginare un salotto: luci basse, un cane, due sul divano. L'Italia è piena di persone così, noi dimentichiamo sempre i fruitori». 

In teatro ritrova gli "sfasciadivani"?

«Certo ma in platea l'altra sera c'erano anche molti giovani. Per me è una seconda vita». 

Cosa le dicono?

«Sono carini, affettuosi, molti ripetono: "Sono cresciuto con lei". Vorrei aprire un asilo nido. Conclusi la scorsa stagione invitando due gemelle, sa come si chiamavano? Maurizia e Costanza». 

Va bene accompagnare gli italiani, ma non sarà troppo?

«Abbastanza» .

Tipologia degli ospiti: chi la spara grossa in genere è consapevole?

«Alcuni dicono stupidaggini senza stupirsi, altri stupendosi di quello che dicono. Poi c'è il cretino puro, va per conto suo»

Ha ospitato tutti, chi vorrebbe avere?

«Purtroppo ripeto sempre la stessa cosa: papa Francesco. C'ho provato due volte senza grande esito».

Senza cuscini. Il Maurizio Costanzo show e il tentativo impossibile di spiegarlo ai nativi digitali. Guia Soncini su L'Inkiesta il 29 Aprile 2022.

C’è stato un tempo in cui era l’unico talk della televisione italiana, dove passavano sia i freak sia i grandi della cultura, dove ogni tanto nasceva qualche talento e i mitomani e i velleitari apparivano come tali.

Una cosa difficile (impossibile) da spiegare ai nativi dei palinsesti a costo zero è che una volta c’era solo il Maurizio Costanzo Show. La tv non era un gigantesco talk-show indifferenziato, qualunque tasto del telecomando spingessi. E, quel che più conta, Maria De Filippi era la moglie di Maurizio Costanzo, mica viceversa.

(Vent’anni fa, se eravate vivi ve lo ricordate, Gianni Morandi apparve in mutande su Rai 1. In quel periodo conduceva il varietà del sabato sera, concorrente del C’è posta per te di Maria De Filippi, e mostrarsi in mutande era una trovata che polemizzava sugli espedienti per alzare lo share. Repubblica organizzò un forum sul tema dell’Auditel, dal quale ricopio questo sublime scambio. Morandi: «È chiaro che se voi finite a mezzanotte e mezza, è meglio che finisca anch’io a mezzanotte e mezza, magari a mezzanotte e 35»; Costanzo: «Io vorrei finire alle 10 e 20, figurati»; Morandi: «Se vogliamo metterci d’accordo, facciamo»; Costanzo: «Parlane con mia moglie, non lo faccio io»).

A settembre il Maurizio Costanzo Show compie quarant’anni. Se leggete i giornali, penserete l’anniversario caschi ora: è adesso che Costanzo ha fatto la sua puntata celebrativa, è adesso che i giornali l’hanno intervistato. È una delle cose che sono cambiate da allora. In tv ci sono alcuni milioni di talk-show (più talk-show che spettatori); con gli ascolti con cui allora un programma si chiudeva, adesso lo si considera un trionfo; l’identità sessuale è diventata un tema di dibattito assai più prescrittivo della guerra; e abbiamo così paura che qualcuno festeggi un anniversario prima di noi che arriviamo in anticipo di mesi.

Alla prima puntata, nel settembre dell’82, c’erano Paola Borboni, Paolo Villaggio, ed Eva Robin’s. Per gli altri due vale quel che ha detto Costanzo l’altro giorno a Repubblica: «Ho avuto Mastroianni, Tognazzi, Vitti, Sordi, Gassman, Villaggio: cosa vado cercando? Certo che non ce ne sono più come loro». Niente racconta il declino delle élite come il fatto che una volta da un talk-show uscissero sì i freak, ma anche i pochissimi grandi talenti di questo secolo (Valerio Mastandrea cominciò come ospite di Costanzo) e i giganti del Novecento: ve lo vedete, uno dei mille talk di oggi, che lascia tutto quello spazio a Carmelo Bene? L’idea dei covi di freak di oggi di utilizzo degli intellettuali è prendere uno scrittore e fargli mettere un cuscino sotto al maglione per esprimere la sua empatia con le donne incinte.

Eva Robin’s, invece, è il mio argomento preferito quando si parla di identità sessuali: io sono di Bologna, noi avevamo Eva Robin’s quando voi ancora stavate sugli alberi. Nel pezzettino della puntata dell’82 che Costanzo ha ritrasmesso l’altra sera, e in cui doveva spiegare che il corpo della signora era femminile di sopra e maschile di sotto, e altre indicazioni per principianti che a rivederle dopo quarant’anni, dieci dei quali passati a sfinirci su questi temi, fanno assai tenerezza, in quel pezzetto Eva diceva «se vogliamo essere sinceri, della donna ho preso solo le cose che mi facevano comodo», che è la frase più libera che abbia mai sentito sul tema dell’identità sessuale, ed è una frase per cui oggi verresti linciata dalle militanti dei cancelletti. Di fianco a lei l’altra sera c’era Drusilla Foer, ed era la rappresentazione plastica di come la tv di quarant’anni fa fosse assai più moderna di quella di oggi.

Quando avevo vent’anni, la mia più cara amica faceva l’attrice. Una sera la invitarono al Costanzo Show, ed è difficile spiegare, in questo secolo di frammentazione del pubblico e moltiplicazione delle nicchie, cosa significasse per un’aspirante qualcosa comparire al Costanzo Show. Il giorno dopo, raccontava la mia amica, il panettiere che non l’aveva mai salutata in tutti gli anni in cui aveva comprato il pane da lui, le aveva detto con gli occhi sgranati «Signorina, l’ho vista in tv». L’esempio non rende, giacché ancora oggi c’è una distorsione percettiva per cui, in qualunque programma tu compaia, il giorno dopo ti sembra tutti l’abbiano visto. Solo che oggi vai a guardare i dati e quelli che ti sembrano «tutti» sono in realtà poche centinaia di migliaia di persone; nel Novecento i mass media erano davvero di massa.

C’è una scena, in “Caterina va in città”, in cui il mitomane interpretato da Sergio Castellitto, un professore di liceo con velleità da romanziere, porta la classe al Costanzo Show. È la sua occasione per la gloria in un tempo in cui d’occasione ce n’era a malapena una (è un film del 2003, non esistevano i social). Chiede la parola dalla platea, si lamenta degli editori che non gli rispondono. È una scena che risulta vera a chiunque fosse vivo all’epoca, a chiunque abbia visto la disperazione dei mitomani prima ch’essa venisse sedata dai cuoricini, prima che ogni mitomane potesse aprirsi un Instagram, o prima che per ogni mitomane ci fosse un talk-show che non si limitasse a dargli dieci secondi il microfono in platea, ma che lo facesse ospite fisso.

D’altra parte, qual è l’alternativa: ce l’avete, voialtri, un Carmelo Bene da mettere in onda al posto di velleitari coi cuscini sotto al maglione? E, possibilmente, che venga in cambio di due buoni taxi: la tv fatta coi soldi è un relitto del Novecento come neanche il juke-box della Fondazione Prada.

"Ma se muoio...". Ecco l'ultimo amico che ha incontrato Costanzo, 4 giorni fa. Fabrizio Biasin Libero Quotidiano il 25 Febbraio 2023.

Una volta, nel bel mezzo di una puntata particolarmente chiassosa del suo Sciò, disse: «Bbbboni, state bbbboni!» con quattro o cinque B. Da quella volta tu sapevi che potevi fare macello fino a quando non arrivava lui a mettere il punto. Se era particolarmente infervorato aggiungeva «non famo la Curva Sud!», a rimarcare il desiderio di quiete ma pure la sua fede giallorossa. Nelle migliaia e migliaia di puntate del suo celebre salotto non poteva mancare la fondamentale e fastidiosa pubblicità che lui però ti faceva digerire presentandola come «consigli per gli acquisti!».

Indimenticabile la Dino Erre Collofit, «una camicia coi baffi» che si potevano permettere in pochi, lui e quelli come lui non dotati di collo “giraffesco”. In questi ultimi anni persino i giovanissimi hanno avuto il piacere di conoscerlo, forse anche perché il mito Maurizio si mangiava le parole ed era diventato cintura nera di meme sul web («Mariaaaaaa!»). Ma in testa abbiamo anche alcune delle sue straordinarie massime, quella sull’onestà («Una volta l’onestà era il minimo che si richiedesse ad un individuo. Oggi è un optional»), quella sull’odio («Io non odio. È troppo faticoso ricordarsi giorno dopo giorno chi e perché»), quella sui giornalisti («Il pettegolezzo diverte solo noi giornalisti: ce la cantiamo e ce la suoniamo»), quella sulla calvizie («L’unica cosa che arresta la caduta dei capelli è il pavimento»), quella sulla politica («Un governo dura meno di una gravidanza»). E alla fine, immancabile, arrivava sempre il suo «Sipario!». Ecco, è arrivato: sipario. 

Chi erano gli ospiti della prima puntata del Maurizio Costanzo Show. Redazione su Il riformista il 24 Febbraio 2023

Maurizio Costanzo ne ha scoperti tanti di talenti, molti i volti (oggi) noti grazie al giornalista e conduttore televisivo. Le sue intuizioni, le sue interviste, i suoi inviti hanno spalancato le porte dello spettacolo a moltissimi attori e attrici, giornalisti, opinionisti. Più di 50mila le interviste realizzate da Maurizio Costanzo, la maggior parte nel salottino del suo talk show Maurizio Costanzo Show. Quarant’anni di televisione. Ma come iniziò il viaggio nella storia italiana e tra i suoi protagonisti? E chi furono i primi ospiti di quel format nuovo che avrebbe segnato la storia della televisione italiana?

Le prime puntate del Maurizio Costanzo Show sono state registrate nello studio/teatro della ITS presso la Microstampa in via Salaria a Roma. Le puntate registrate al teatro Parioli sono state fatte molto tempo dopo tutte quelle itineranti in diversi teatri d’Italia tra cui il Petruzzelli di Bari e il teatro Sistina a Roma. Il regista fu Mario Conti per tutte queste serate. 

Il Maurizio Costanzo Show inizia il 14 settembre 1982 dal Teatro Parioli di Roma su rete 4 dell’allora gestione Arnoldo Mondadori Editore nella prima serata del martedì fino al 22 febbraio 1983, dal 3 marzo al 28 aprile in quella del giovedì, dal 26 settembre 1983 al 2 luglio 1984 in quella del lunedì e dal 10 ottobre 1984 all’8 gennaio 1986 in quella del mercoledì. Ospiti della prima puntata sono, tra gli altri, l’avvocato Nino Marazzita che è stato legale di parte civile nel processo per l’omicidio dello scrittore Pierpaolo Pasonili e il legale di Eleonora Moro nel processo sull’omicidio di Aldo Moro. Tra gli ospiti anche l’attore Paolo Villaggio, l’attrice Paola Borboni, Federica Moro ed Eva Robin’s.  In queste prime edizioni, in onda una volta alla settimana sempre in prima serata su Rete 4, il salotto è spesso itinerante e si sposta in vari teatri tra cui il Sistina di Roma.

Il grande successo del nuovo modo di fare tv, interviste, di dialogare con gli ospiti fa approdare lo show di Maurizio Costanzo su Canale5. Così dal 24 gennaio 1986 il programma trasloca su Canale5 dove è in onda nella seconda serata dell’ammiraglia Mediaset, in un primo momento ogni venerdì fino al 26 giugno 1987, poi dal 21 settembre 1987 al 25 giugno 2004 dal lunedì al venerdì, dove diventa un appuntamento fisso per milioni di telespettatori italiani. Inoltre lo spettacolo viene replicato il giorno seguente la mattina.

È il 1991 quando Costanzo propone in prima serata uno speciale della sua trasmissione dedicato alla morte di Libero Grassi, l’ imprenditore assassinato dalla mafia un mese prima, con ospiti in studio Giovanni Falcone, Rita dalla Chiesa, Francesco Di Maggio e Alfredo Grasso. 

Il 19 dicembre 2001 una puntata speciale in prima serata su Canale5celebra i 20 anni della trasmissione. Partecipano allo speciale molti personaggi dello spettacolo come Fiorello, Gigi Proietti, Massimo Dapporto e Luciana Littizzetto. Tra gli ospiti c’era anche l’allora Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, e politici come Bertinotti, Letta, Rutelli e Veltroni; giornalisti “rivali” come Vespa, Mentana, Fede e Lerner; Fabio Capello, Franco Sensi e la squadra della Roma. In diretta fu letto anche un telegramma del Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi: «La sua trasmissione ha contribuito a stimolare il confronto e il dialogo».

È morto Maurizio Costanzo, l’uomo che ha fatto della televisione uno show. Beatrice Dondi su L’Espresso il 24 Febbraio 2023.

Scompare a 84 anni il giornalista romano. Che ha inventato il salotto in cui gli ospiti si aprivano nel pubblico e nel privato

Maurizio Costanzo, l’uomo che ha vissuto il mondo dell’informazione e dello spettacolo con un istinto bulimico, per fare tutto, toccare tutto, scrivere tutto, radio, teatro, giornali cinema - non ultima la sua collaborazione per il nostro giornale Per buona memoria - esce di scena attraversando il palco con lo stesso passo con cui aveva calcato il Parioli oltre quattromila puntate fa.

84 anni passati perlopiù a comunicare, aveva creato una cifra del tutto inedita, inventando dal nulla un dialogo con gli ospiti, che metteva comodi come in salotto. Li chiamava, li coltivava, li blandiva, li sgridava, tutto in scena, perché fosse ben chiaro che lo show portava il suo nome non certo per caso.

Il tutto era cominciato nel 1976 con Bontà loro, nato da un’idea di Angelo Guglielmi, nel cui studio si accomodavano personaggi chiamati a rispondere di vicende pubbliche sì, ma soprattutto private. Così il politico di turno si scopriva capace di intrattenere, lo spettacolo si insinuava in meandri sino ad allora totalmente inesplorati e la strada della televisione che sarebbe arrivata da lì a breve era ormai segnata. E quando nacque Il Maurizio Costanzo Show non restava che ripassare l’aratro del mestiere su quei solchi che tanto piacevano allo spettatore curioso.

Con il salotto mediatico o, per dirla con Umberto Eco, con la nascita della neotelevisione, la distanza tra chi applaudiva la battuta e chi la battuta la regalava si era accorciata in un istante: addio quarta parete, addio format precostituiti, per dare spazio a un salotto condiviso che poi, nel bene e nel male ha fatto scuola ed eredi spesso maldestri.

Costanzo, col suo accento smaccatamente romano, la sua postura così antitelevisiva ha creato dal nulla comici, attori, opinionisti di vario genere e numero, David Riondino, Daniele Luttazzi Gioele Dix, Giobbe Covatta, Enzo Iacchetti, Dario Vergassola, Valerio Mastandrea. Ha accolto protagonisti importanti della società e della politica, facendosi portatore sano di battaglie sociali. Ma ha anche spalancato le porte e le quinte al tiro al bersaglio, alla provocazione urlata, alla briglia sciolta, l’insulto, l’attacco, i litigi spinti e sdoganati fino a diventare tormentoni attesi, dove tutto si faceva spettacolo, semi gettati sul terreno della tv in favore di platea, mentre lui, il Capocomico, teneva le fila, spingeva e frenava, tesseva e dirimeva, sera dopo sera, per poi ricominciare.

Oggi, la sua scomparsa fa rumore, in una televisione che perde i suoi pezzi fondanti. E viene da chiedersi quanto quei germogli così ben costruiti, lanciati nel tempo, abbiano dato i loro frutti. E quanto invece i pallidi eredi di Costanzo si riducano solo a un blando tentativo di imitazione, di quella costruzione minuziosa dello show, architettata da mani nate per tenere saldo quel setaccio. Dove la polvere diventava sostanza, tenuta insieme da un cercatore d’oro coi baffi.

L’ultima rubrica di Maurizio Costanzo per L’Espresso: «Servirebbe un alieno per risolvere i mali del mondo». Pubblichiamo il contributo che sarebbe dovuto uscire sul numero in edicola il prossimo 5 marzo. Maurizio Costanzo su L’Espresso il 24 Febbraio 2023.

Qualche giorno fa gli americani hanno abbattuto un pallone spia cinese. Dai resti recuperati, pare che ci fossero delle antenne usate per carpire informazioni. Da che mondo è mondo, le spie hanno sempre usato i mezzi che la tecnologia metteva a disposizione per esercitare il loro mestiere. Anche se nell’immaginario collettivo gli agenti segreti sono perennemente vestiti come James Bond nei vari 007 e bevono Martini molto secchi, non ci meraviglieremo se adesso sono telecomandati da qualcuno che sta dall’altra parte del mondo.

Ma la cosa interessante è che, dopo quel pallone spia, sono stati abbattuti altri oggetti volanti non identificati, i cosiddetti ufo, nei cieli degli Stati Uniti e del Canada. I militari statunitensi si sono subito premurati di smentire, dicendo di non sapere di cosa si trattasse, ma di essere certi che non fossero alieni. Come fanno a dirlo? Durante il seguitissimo programma televisivo mattutino “Viva Rai2!”, dalla sua postazione Fiorello si è messo a guardare nella stessa direzione verso cui il pubblico puntava i cellulari e ha notato un oggetto volante che poteva assomigliare a un ufo. Lo era davvero o anche quello era un pallone spia? Se era uno scherzo, peccato.

A dirla tutta, dopo averne viste tante, non mi sarebbe dispiaciuto fare conoscenza con un extraterrestre. Non gli chiederei di essere portato via, come dice la nota canzone di Eugenio Finardi. Ma, se gli alieni fossero davvero arrivati fino a qui, potrebbero aiutarci a risolvere la guerra in Ucraina e, perché no, qualche altro problemino che ci affligge.

Per esempio, con la loro supposta saggezza, potrebbero dire una buona parola su come ci si regola da loro con gli «sfruttati sessualmente». Gli attori Olivia Hussey e Leonard Whiting, entrambi sui settanta, solo adesso hanno citato in giudizio la Paramount Pictures che cinquantacinque anni fa, quando erano minorenni, li avrebbe costretti a girare una scena di nudo nel film "Romeo e Giulietta” di Franco Zeffirelli. Trauma di cui ancora porterebbero i segni e che, a detta loro, oggi varrebbe un risarcimento da 500 milioni di dollari, da incassare subito. Se erano tanto turbati, come mai ai due non era venuto in mente prima di sporgere denuncia?

In tempi di Lgbtq plus, in teoria, i tabù dovrebbero essere caduti e soprattutto non dovrebbe più sussistere l’annoso problema dei ruoli sessuali. Invece, una signora di Rho è stata accusata sui social di propagare nel Belpaese una «mentalità ottusa, patriarcale e retrograda» per avere organizzato dei corsi di bon ton, trucco, portamento, dizione e acconciatura, pubblicizzati da una locandina dove una bambina ha in testa una corona da principessa. Che cosa? Un corso solo per bambine? Precluso ai maschietti? Per insegnare da subito alle piccole donne che solo con un’apparenza da principesse potranno sfondare nella vita?

Ha avuto il suo bel da fare la povera organizzatrice, giovane madre di due femmine e un maschio, a dire che l’idea del corso le era venuta proprio giocando con i suoi figli: il maschio con lo smalto e le femmine con il martello di Thor. Perché, ha detto, tutto serve all’autostima e a incoraggiare i bambini a diventare qualsiasi cosa vogliano. Principesse, vichinghi o alieni.

Maurizio Costanzo show, i 40 anni del talk show dei record. Estratto da repubblica.it – articolo del 27 aprile 2022

Quarant'anni per uno show televisivo sono un record probabilmente irraggiungibile per chiunque, eppure Maurizio Costanzo li annuncia con un semplice "vabbè", come fosse una cosa di tutti i giorni. […] Dalla pandemia al gossip, dalla guerra alla musica, il suo spettacolo è il regno dell'infotainment, informazione e intrattenimento.

 "Dopo 12 anni torno al Parioli", ha esordito Costanzo aprendo la puntata della 40esima edizione al via mercoledì 27 aprile in seconda serata su Canale 5. Da lì è iniziato il 14 settembre del 1982, prima su Rete 4 e poi sulla rete ammiraglia Mediaset, uno degli show più longevi del piccolo schermo, scrivendo pagine di storia della televisione.

 Da Giulio Andreotti a Francesco Cossiga, da Silvio Berlusconi a Massimo D'Alema, tutti i grandi politici sono saliti su quel palco. E poi star del cinema, come Marcello Mastroianni, Vittorio Gassman, Monica Vitti, Paolo Villaggio, Massimo Troisi, Sophia Loren, Alberto Sordi. Così come artisti del calibro di Carmelo Bene, Andrea Camilleri, Alda Merini e Fernanda Pivano. Tanti personaggi sono figli di quello show, come Vittorio Sgarbi, Platinette o Giampiero Mughini.

Costanzo, sul 'suo' palco, ha chiamato più volte anche i magistrati Paolo Borsellino e Giovanni Falcone e la lotta alla mafia è stata a lungo uno dei punti fermi della trasmissione. Non a caso in via Fauro, a due passi dal teatro, il conduttore fu vittima di un attentato mafioso nel 1993.

 Costanzo ha poi ricordato un dettaglio, rivelato già due anni fa a Un giorno a pecora: "Nelle indagini hanno scoperto che a metà platea c'era Messina Denaro, il grande latitante, veniva a vedere lo show e magari gli piaceva pure". […]

Estratto da lastampa.it il 25 febbraio 2023.

 È morto poco fa a Roma Maurizio Costanzo, giornalista, conduttore tv, autore, sceneggiatore. Aveva 84 anni. Lo comunica il suo ufficio stampa. Giornalista, regista, conduttore televisivo, autore di testi musicali e sceneggiatore, è stato un monumento della tv italiana, uno dei volti più noti e amati del piccolo schermo.

 [...] Legato da un rapporto di stima e di amicizia col giudice Giovanni Falcone, ospite alle sue trasmissioni, Costanzo è sempre stato in prima linea nella lotta alla mafia. In seguito all'omicidio di Libero Grassi, appena un mese dopo, realizza con Michele Santoro una maratona Rai-Fininvest contro la mafia. Memorabile la scena in cui Costanzo brucia in diretta una maglietta con scritto "Mafia made in Italy".

 Proprio questo suo impegno sembra essere la causa di un attentato: il 14 maggio 1993 una Fiat Uno imbottita di novanta chilogrammi di tritolo esplode a Roma in via Ruggero Fauro mentre transita un'auto con a bordo Costanzo e la moglie Maria De Filippi che restano incolumi. Amante del calcio e grande tifoso della Roma, Costanzo nel giugno 2021 aveva accettato il ruolo di advisor della Comunicazione del club capitolino ma a fine febbraio dell'anno dopo si era dimesso lamentando che non veniva tenuto al corrente delle attività societarie. «Resterò per sempre giallorosso», aveva però assicurato.

[...] Tra le prime reazioni quella della premier Giorgia Meloni: «Ci lascia Maurizio Costanzo: icona del giornalismo e della tv, che ha saputo raccontare anni difficili con coraggio e professionalità. Grazie per aver portato nelle case degli italiani cultura, simpatia e gentilezza. Un pensiero a sua moglie Maria e ai suoi cari. Buon viaggio».

Estratto dell'articolo di Gabriele Bojano per corriere.it il 25 febbraio 2023.

[…] Maurizio Costanzo […] entrò nelle grazie di due numi tutelari d’eccezione: uno fu Indro Montanelli, al quale scrisse, quattordicenne, una lettera piena di ammirazione e che fino alla morte lo ha sempre chiamato “Costanzino”.

 L’altro invece fu Totò che in più di una occasione manifestò simpatia e vicinanza per quel giovane cronista romano. Ebbero modo di incontrarsi ai Parioli, a casa del Principe, il 3 agosto del 1959, per un’intervista che fu pubblicata pochi giorni dopo, il 13 agosto, su Tv Sorrisi e Canzoni. La foto che li ritrae insieme fu scattata dal fotoreporter Giuseppe Palmas ed è tra i ricordi più cari dell’anchorman televisivo. All’epoca Costanzo aveva 21 anni  […]

Nell’articolo che venne pubblicato Totò raccontava a Costanzo dei miglioramenti dopo l’operazione subita agli occhi  […] parlò anche dei suoi inizi e della sua vita a Napoli, al rione Sanità, nel cuore antico della città. Costanzo scrisse che Totò gli aveva rivelato che nel quartiere da ragazzo lo avevano soprannominato ‘o spione, in quanto era solito spiare dalla finestra quello che gli abitanti facevano all’interno delle proprie case. […]

Sempre durante quegli incontri, però, Costanzo non riuscì mai a estorcergli una confidenza: per chi aveva scritto la magnifica canzone “Malafemmena”. «Se ne son dette di tutti i colori - riflettè successivamente Costanzo - dedicata a Silvana Pampanini, a Franca Marzi, un’altra attrice degli anni di Totò, alla sua prima moglie o a sua figlia Liliana de Curtis. Non lo ha mai confessato». […]

Marco Giusti per Dagospia il 25 febbraio 2023.

Ma che vai da Costanzo? Non era facile, nei gloriosi anni della Rai Tre di Guglielmi, accettare l’invito di Maurizio Costanzo. Malgrado ci andassero tutti, ma proprio tutti i campioni grandi e piccoli della tv, ricordo che venni criticato, ai tempi di Blob, nonché firma del Manifesto e dell’Espresso, per essere andato non una, ma più volte al Maurizio Costanzo Show. Come fossi stato uno Sgarbi o un Mughini o un Busi. No. Diciamo che non era cool andarci.

 Diciamo che non solo la sinistra più snob, ma anche il cinema più militante lo vedeva come il male televisivo assoluto. Qualcosa che ti poteva sporcare nel profondo. E pensare che sia Valerio Mastandrea che Ricky Memphis sono nati su quel palco. E credo molti altri. Per tanti comici non ancora noti andarci sarebbe stato come essere arrivati.

Ma pesava la storia della P2, e pesava anche Canale 5. Io francamente mi divertivo, il giorno dopo al mercato sotto casa mi avevano visto tutti. Ma soprattutto mi sembrava giusto, proprio facendo Blob, sporcarmi con la tv, metterci la faccia. Non eravamo più nobili di quello che montavamo. La grande cattiva digestione televisiva.

 Magari c’era un po’ di vanità. Costanzo era il primo a saperlo e ci giocava. Il giorno dopo ero montato a Blob in maniera giustamente cattiva. Il mio socio del tempo, Enrico Ghezzi, non aveva proprio la stessa idea. Non solo non c’è mai andato, ma la seria dell’Uno contro tutti di Carmelo Bene disse che andava e poi lasciò la poltrona vuota. Eh, sì, mi dicevo.

Da Costanzo non ci si doveva andare. Ma ti faceva sentire a tuo agio. Facendo Blob, allora, devo dire che non piaceva mettere il Costanzo Show. Magari funzionava, con le sparate di Sgarbi fuori di testa, ma non erano mai inquadrature pulite, perfette. Con Costanzo che stava un po’ dietro, un po’ davanti, Franco Bracardi lì dietro. Non era bello da vedere. Ma lo vedevano tutti. Fino a tardi. Altro che Bruno Vespa.

 E veramente penso che non sarebbe male rivedere le prime puntate del Maurizio Costanzo Show, quelle a Rete 4, quelle itineranti in giro per i teatri negli anni’80. E poi quelle della grande stagione a cavallo tra gli anni ’80 e i ’90, che è la vera golden age della tv Rai&Mediaset, che unisce Funari a Ferrara, Freccero a Guglielmi, Blob a Donatella Raffai, Costanzo al Cinico Tv di Ciprì e Maresco. Una tv meravigliosa uccisa dall’arrivo in politica di Berlusconi.

Credo che negli anni che precedono la discesa in campo di Berlusconi, anche il Maurizio Costanzo Show abbia dato il meglio. Alternando ospiti celebri a apparizioni clamorose, Franchi e Ingrassia e Moravia, Sergio Corbucci e Demofilo Fidani in versione spiritista.

 Se c’è una cosa di grande che realmente Costanzo ha fatto nella sua carriera è stata quella di liberare il talk show dalla sacralità dell’ospite di riguardo isolato dal mondo. Fosse un politico o una star dello spettacolo. Eravamo tutti uguali sul palco. Vinceva chi agitava di più la platea. Ma era tutto molto istintivo e democratico.

Al punto che si poteva fare l’uno contro tutti (memorabile) con Carmelo Bene ma anche con Umberto Bossi, con Ciccio Ingrassia in platea che fa una domanda assurda, con Vittorio Feltri che viene rimproverato da me, pensa un po’, di mettere in prima pagina Ciampi con le dita nel naso. Alternando le sue star, scoprendone di nuove, da Valerio Mastrandrea a Ricky Memphis a Vittorio Sgarbi, mettendole insieme in maniera irriverente ma anche casuale, già negli anni ’80, Costanzo ridefiniva i confini dello spettacolo. Cambiandolo profondamente. Cosa che aveva già iniziato a fare ai tempi di “Bontà loro” e “Acquario” in Rai.

 Non so cosa gli fosse rimasto della sua grande esperienza da sceneggiatore per cinema-tv-teatro-cabaret negli anni ’60. Anche se firma con Maccari e Scola un film famoso e molto celebrato come “Una giornata particolare” dello stesso Scola, o, sempre con Maccari, un buon giallo comico come “Al piacere di rivederla” di Marco Leto, anche se collabora con un maestro della scrittura rapida come Augusto Caminito, “A qualsiasi prezzo” di Elio P. Miraglia e “L’altra metà del cielo” di Franco Rossi con Celentano e Vitti, e una marea di film di Pupi Avati, da “Bordella” a “La casa delle finestre che ridono”, Costanzo non trova nel cinema la sua vera fortuna.

 Ma molto gli serve per i suoi programmi in tv la grande esperienza che fa tra teatro cinema e cabaret con i comici del tempo. In fondo aveva lavorato con grandi comici negli anni della loro formazione.

Con Paolo Villaggio ai tempi prima del “Cab 37”, quando era in coppia con Carla Macelloni, che per anni fece l’acchiappa-ospiti al Costanzo Show, poi di Fracchia, in tv e in pubblicità. E aveva lavorato a lungo con Enrico Montesano, che incontra al Bagaglino con Castellacci e Pingitore, e ritrova al cinema con “I quattro del Pater Noster”, parodistico diretto da Ruggero Deodato con Villaggio-Lionello-Toffolo, e che dirige nel non eccelso film-saggio “Melodrammore” nel 1978.

Insomma, malgrado avesse scritto tante sceneggiature per il cinema e tanti programmi televisivi, credo che nel Costanzo Show si fosse portato dietro soprattutto un grande fiuto per i talenti comici e come metterli in scena. Oltre a un’attenzione per la narrazione del suo show, esattamente come farà Santoro su Rai Tre. Più un domatore intelligente che un vero e proprio presentatore con la domanda fatta. Come tutti gli autori dei comici, grandi o piccoli che siano, Costanzo si diverte infatti a buttarli dentro la scena, a farli esibire. Conosce perfettamente i tempi delle uscite e delle pause.

E lo stesso fa con le tigri da tv, con Sgarbi urlante contro il povero Zeri, con i pazzi che si esibiscono sul modello della Corrida. Ripeto. Non era facile da inserire dentro Blob, perché era un programma molto istintivo, ma era un gran piacere da vedere per lo spettatore. Fino a ore tardissime. Come ora si fa con le serie infinite di Netflix e di Sky.  Solo che lì facevi scoperte clamorose, avevi personaggi inaspettati, nascevano star dal nulla.

Detto questo, vederlo oggi ancora dirci il suo “Consigli per gli acquisti” dentro al “Viva Rai Due” di Fiorello faceva un certo effetto. E davvero credo che non ci sia stato un solo giorno negli ultimi quarant’anni che Costanzo non fosse apparso anche per pochi secondi in tv. Non poteva che morire dentro la tv.    

Estratto da corriere.it il 25 febbraio 2023.

Maurizio Costanzo con Paolo Villaggio e Paola Borboni durante la prima puntata del «Maurizio Costanzo Show»: era il 14 settembre del 1982. Il programma andava in onda il martedì su Rete4. Tra gli altri ospiti l’avvocato Nino Marazzita e Eva Robins

 Il «Costanzo Show» è andato in onda per 4.391 puntate e ha visto alternarsi 32.300 ospiti. Tra i più assidui frequentatori del salotto, il critico Vittorio Sgarbi, polemista di razza (basta accendere la telecamera)

 Un rapporto particolare lega Maurizio Costanzo e il capitano della Roma Francesco Totti: l’idea di un libro che raccogliesse tutte le barzellette su Totti fu di Costanzo. […]

Dopo averla ascoltata in radio, Maurizio Costanzo a fine anni 90 lancia nella sua trasmissione Platinette: è la prima drag queen ad arrivare al grande pubblico in Italia e la prima ad aprire la strada ad altri personaggi che erano una novità nel mondo della musica e dello spettacolo mainstream

 Tanto disimpegno ma altrettanto impegno, come le campagne contro la mafia che ebbero grande risonanza: il giudice Falcone (con lui nella foto) fu spesso ospite nel suo programma

 Altro grande polemista ospite a più riprese nel programma fu Giampiero Mughini: capace di attirare l’attenzione non solo con le sue parole taglienti, ma anche con il look decisamente estroverso, a partire dai coloratissimi occhiali

 «A 19 anni ho scritto a Maurizio Costanzo, volevo andare a raccontare i fatti miei. M’hanno chiamato. Un’esperienza che non rinnego, ho toccato con mano le potenzialità televisive. […] Così è iniziata la carriere d’attore di Valerio Mastandrea.

Un altro che trova il suo trampolino di lancio nel 1990 nel «Costanzo Show» è il comico Giobbe Covatta, che proponeva le sue parabole e iperboli […]

 A fine anni 80 Daniele Luttazzi diventa l’opinionista comico del programma […]

 Per i 20 anni del «Costanzo Show», il conduttore invita a festeggiare anche la moglie, Maria De Filippi. L’ultima puntata dello spettacolo è andata in onda mercoledì 9 dicembre 2009 […]

Francesco Persili per Dagospia il 25 febbraio 2023.

Costanzo insegnò a Totti a essere auto-ironico. Ricordo che fu lui a proporgli il libro di barzellette. Chiamò Francesco e glielo propose. E lui disse: “Però lasciamo stare Ilary”. Pablo Rojas, oggi giornalista di Radio Rai, snocciola ricordi e aneddoti su Maurizio Costanzo con cui ha lavorato sia come redattore del “Costanzo Show” che come assistente personale. “Ricordo la puntata in cui venne Totti, c’era anche Walter Veltroni che lo lodò perché l’incasso di quel libro che riuscì a vendere oltre 2 milioni di copie andò interamente in beneficenza”.

Nell'ultima intervista fatta a “Un Giorno da Pecora”, su Rai Radio1, disse: “Voglio vivere finché avrò la possibilità di lavorare, non voglio stare allettato”. “Era terrorizzato dalla noia” - prosegue Pablo Rojas - “ricordo che durante le vacanze di Natale del 2003 convocò tutti i redattori il giorno di Santo Stefano a casa sua. Quando arrivammo, fummo costretti a fare una lunga anticamera. Era in un’altra stanza a comporre una canzone con Alex Britti”.

 Non si fermava mai, neanche davanti alle condizioni meteo avverse. “Un giorno dovevamo prendere l’aereo privato per andare a Milano ma il pilota disse che era impossibile alzarsi in volo a causa della nebbia. E lui: “Ahò, ma non si può chiamà qualcuno?”.

 Il gusto della battuta e il pallino dei comici (“Coinvolgemmo Dado, Maurizio Battista e Dario Bandiera”) ma anche una vena malinconica. “Maurizio si sapeva mostrare con noi senza maschere. Dell’attentato di via Fauro ne parlava come qualcosa che lo aveva segnato nel profondo”. Scenate? “Non si arrabbiava mai e non urlava, era molto gentile con i suoi collaboratori ma chi sbagliava lo capiva dopo qualche mese. Senza dire nulla lo spostava ad altre mansioni”.

Si è molto parlato della collezione di tartarughe meno di quando si improvvisò grafico e disegnò il logo della campagna di comunicazione per Mondadori, "Regala un sorriso". Vizi? "Io ne ricordo uno: beveva solo aranciata amara San Pellegrino”. Accettava consigli? “Ascoltava moltissimo i suggerimenti di Maria De Filippi. In quegli anni il "Maurizio Costanzo show" stava cercando una identità nuova e lei suggerì di puntare su due cose: “Il Grande Fratello” e i tronisti di “Uomini e Donne”. La puntata con Costantino e Daniele Interrante fece il botto…”

Estratto da lastampa.it il 25 febbraio 2023.

 […] Amante del calcio e grande tifoso della Roma, Costanzo nel giugno 2021 aveva accettato il ruolo di advisor della Comunicazione del club capitolino ma a fine febbraio dell'anno dopo si era dimesso lamentando che non veniva tenuto al corrente delle attivita' societarie. «Resterò per sempre giallorosso», aveva però assicurato. […]

 Dagospia il 25 febbraio 2023. Da Un Giorno da Pecora

Ho sofferto più per la Roma che per amore”. Così Maurizio Costanzo a Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, nell'ultima intervista fatta in studio col programma condotto da Giorgio Lauro e Geppi Cucciari, il 10 maggio 2019. “La Roma è una fede, non vedo molto le partite ormai ma seguo sempre i risultati”. Perché non vede le partite? “Perché mi incazzo, preferisco vedere solo i risultati. Pensate che per un paio di anni ho diretto un giornale, il Romanista. Beh, il mal di fegato che avevo in quel periodo...”

 Giovanna Cavalli per corriere.it il 25 febbraio 2023.

Costanzo, Sgarbi:

«Ero convinto che Maurizio fosse immortale e in un certo senso lo è, perché è ancora qui tra noi, con noi. Anzi Costanzo siamo noi, lui vive in noi». Vittorio Sgarbi lo ha saputo in diretta (era ospite a L’aria che tira su La7) e di getto ha commentato: «Lui era nostro padre, è morto nostro padre».

 Nostro?

«Sì, il mio, di Lilli Gruber, di Nicola Porro, di Massimo Giletti, di Paolo Del Debbio, di Corrado Formigli, di Giovanni Floris, di tutti noi che siamo il suo lascito testamentario, lui che un delfino non l’ha mai scelto, proprio come non lo ha voluto Berlusconi, che quando se ne andrà non lascerà nessuno uguale a lui. Maurizio invece ha tanti figli di un modello di tv, un mix irripetibile di cronaca, teatro, cinema in cui l’imprevisto è la chiave del successo».

Ricorda il vostro primo incontro?

«Mi chiamò nel 1987, come critico d’arte, litigammo subito, perché aveva invitato un tizio noiosissimo. Tornai due anni dopo e feci filotto, uno due e tre: la lite con la professoressa a cui diedi della str…, gli insulti alle panchine di Sottsass e la dichiarazione di odio per Federico Zeri quando dissi che lo volevo morto. Maurizio intuì una verità: che l’imprevisto in tv è come un incidente stradale, non resisti e ti fermi a guardare. Lui è stato come un meteorite caduto sulla televisione italiana. Di Mike Bongiorno non è rimasto niente, forse lo stesso accadrà con Pippo Baudo, Costanzo invece sarà eterno, anzi lo è già, è ancora qui».

 Avete mai litigato? Costanzo non la rimproverava mai per le sue celebri sfuriate?

«Sì, quella prima volta nel 1987. Mi disse: “Se non le va bene come conduco il programma, allora lo conduca lei”. Ma niente di più. Gli piacevano i miei scatti, le mie intemperanze, il fatto che non recitassi una parte in commedia. Mi ha dato un palco, come a un cantante. Il Maurizio Costanzo Show era la Scala della tv».

 Gli voleva bene, vero?

«Sì, certo che gliene volevo. E anche lui mi ha amato nella vita personale, non solo quella professionale. Ci sentivamo una volta al mese, ma con Maurizio non esistevano pranzi o cene o cocktail o vacanze. Bruno Vespa vado a trovarlo nella masseria in Puglia, Maurizio non è mai andato in masseria o in villeggiatura. Perché la sua vita vera era quella in tv, non l’altra. I primi tempi eravamo soltanto io e Maria De Filippi. Finita la puntata me ne andavo a casa, lei invece restava lì, questa era l’unica differenza».

Ha già sentito Maria?

«Non ancora, sono sempre al telefono, anzi se mi lascia andare forse ci riesco».

Il giornalista che inventò il salotto tv. Maurizio Costanzo, gli ultimi giorni prima della morte in clinica: “Si era ripreso, non c’era alcun sentore che potesse finire così”. Redazione su Il riformista il 25 Febbraio 2023

Non c’era alcun sentore che potesse finire così”. È il racconto di Giorgio Assumma, 88 anni, storico legale e confidente di moltissime star dello spettacolo italiano, ma soprattutto amico di una vita di Maurizio Costanzo.

Il giornalista, conduttore, autore (e tanto altro) è morto venerdì mattina dopo un ricovero tenuto segreto presso la clinica Paideia di Roma. Tra i pochissimi ammessi nella sua stanza, oltre allo stesso Assumma, la moglie Maria De Filippi e i figli Saverio, Camilla e Gabriele.

Un ricovero, come detto, tenuto nascosto: l’edizione romana del Corriere della Sera racconta come nemmeno il personale della clinica Paideia, celebre ospedale privato di Roma Nord, era al corrente dell’ospite ‘vip’.

Nella clinica Costanzo, scomparso all’età di 84 anni dopo una carriera incredibile tra giornali e televisione, era ricoverato da una decina di giorni. Assumma, colui che fece scattare la scintilla tra lo stesso Costanzo e Maria De Filippi, racconta che “per 50 anni ci siamo sentiti ogni giorno, anche giovedì mattina, dalla clinica Paideia”. “Si era ripreso dopo l’intervento, stava molto meglio, in gran forma, era lo stesso Costanzo di sempre, lucido, con la mente perfettamente a posto, ironico, pieno di idee, non c’era alcun sentore che potesse finire così”, spiega oggi il legale.

Assumma racconta che anche venerdì mattina, giorno del decesso, doveva andare a trovarlo nella clinica privata di Roma Nord: “Poi mi hanno avvisato che si era aggravato all’improvviso. E quando sono arrivato era già morto”.

Chi è vicino invece a Maria De Filippi, l’ultima moglie che come raccontò Costanzo “rappresenta la donna più importante che io abbia incontrato, la donna nella cui mano vorrei morire”, racconta ai giornali che il celebre volto di Mediaset sia molto provata, sconvolta dalla morte del marito Maurizio.

In questi giorni di ricovero alla Paideia Maria lo andava a trovare mattina e sera, poi si recava negli studi Mediaset come sempre per registrare i suoi programmi, da ‘Amici’ a ‘C’è posta per te’ fino a ‘Uomini e donne’.

L’Attentato di Mafia.

Estratto dell’articolo di Francesco Persili per Dagospia pubblicato il 29 settembre 2019

Mi occupai molto di mafia in quel periodo”. Poi un giorno Totò Riina disse “questo Costanzo mi ha rotto i co****ni”. A 'Domenica In' Maurizio Costanzo ricorda l’attentato di via Fauro. La maratona tv con Santoro, le interviste al giudice Falcone, la maglietta con la scritta “Mafia made in Italy” bruciata in diretta tv e quella sera del 14 maggio 1993. “L’autobomba venne fatta esplodere fuori dal teatro Parioli con qualche secondo di ritardo. Era venuto un altro autista, avevo cambiato la macchina… Ci fu un’esitazione nello schiacciare il pulsante del telecomando. Il botto fu pazzesco, ci siamo salvati tutti, io, Maria, l’autista e il cane, nessuno è morto. Un miracolo. Io quelli che stavano lì fuori li ho poi visti dietro le sbarre: io ero vivo, loro stavano dietro le sbarre”. Rifarei tutto quello che ho fatto? Se mi garantissero che finisce così, sì”, chiosa Costanzo.

 “Dopo l’attentato ho promesso a Maria che mi sarei occupato meno di mafia“. La De Filippi, per una promessa fatta al padre, da quella sera non è più voluta salire in macchina con Costanzo. “Per fortuna ce ne possiamo permettere due altrimenti uno andava con il tram…”. I due l’anno prossimo festeggeranno i 25 anni di matrimonio. "Mi sono sposato quattro volte e l’unico matrimonio che ha retto è quello con la De Filippi, mi sento in debito con lei e sì, sarà la donna che mi terrà la mano quando morirò. Maria è l’amore della mia vita. Dormiamo in stanze separate perché io russo. L’intimità non è dormire insieme. Pure in treno se dorme con sei sconosciuti. .. ”.

Malcom Pagani per "Il Fatto Quotidiano" pubblicato da Dagospia il 14 maggio 2013

Sono nato una seconda volta fuori dal teatro Parioli, tra via Fauro e via Boccioni, il 14 maggio 1993. Prima il rumore. I vetri rotti. Il botto. Un botto pazzesco. Io che chiedo ‘state bene?', esco dalla macchina e zoppico con i vetri nelle scarpe. Poi la luce. Una lingua di fuoco. De Palo, l'autista, era una maschera di sangue. Ancora lavora con me. Sono passati vent'anni".

 Maurizio Costanzo, che ad agosto ne compirà 75, è in piedi e nella stessa posizione rimarrà senza cedimenti per più di quaranta minuti: "Continuo a lavorare tutti i giorni, a casa mi annoio".

 Una bottiglia di acqua minerale con una cannuccia in tinta. Libri di Flaiano sulla scrivania e fotografie alle pareti. In alto, in un bianco e nero d'epoca che contrasta con il colore dei ricordi, un'istantanea sbiadita. Una puntata congiunta di Samarcanda e del suo show. Fine settembre '91.

Una staffetta Rai-Mediaset pensata con Michele Santoro in cui Cuffaro urla in diretta contro Falcone, un Costanzo poco più che 50enne brucia una maglietta "Mafia made in Italy" e Toto Riina guardandolo, dice soltanto: "Questo ha rotto i coglioni". Ricordando l'attentato del 1993, l'ouverture di un'estate stragista, misteriosa ed eversiva: "Il passaggio strategico e non certo casuale di Cosa Nostra dall'Isola al Continente" Costanzo gioca di sottrazione.

Sbaglia per difetto il numero dei chili di tritolo: "Cento? Mi sembrava fossero 70". Confonde il modello della macchina utilizzata per la detonazione: "Quindi era la uno Bianca, proprio come quella Uno bianca e non una seicento, davvero?".

Traduce in un'immagine cruda il naturale sollievo dello scampato: "Dieci giorni dopo la bomba andammo dalle parti di Nettuno, in una scuola di Polizia per la simulazione di via Fauro. I manichini vennero decapitati dall'esplosione. La fine che avremmo dovuto fare noi. Ci salvammo per tre secondi". Sul televisore scorrono le lamiere dell'autobomba di Bengasi, Costanzo osserva: "Come quella volta".

 Via Fauro anticipò l'incrudirsi della strategia della tensione. Tredici giorni dopo, a Firenze, in via dei Georgofili, le vittime dell'assalto allo Stato saranno cinque.

Di tutto questo all'epoca non sapevo nulla. Avevo ricevuto qualche minaccia e per pura routine l'avevo passata alla Digos. Lettere anonime. Disegni di piatti fumanti con la mia testa. Cose così.

In via Fauro all'inizio pensai allo scoppio di una tubatura del gas. Io e Maria facemmo l'autostop. Ci diedero un passaggio, a bordo salì anche il nostro cane. Tornammo a casa scossi, ma ignari. Tutto sommato tranquilli. Dopo mezz'ora arrivò il cinema.

Il cinema?

Le sirene. La polizia. I carabinieri. L'inferno di cristallo. Ci volle tempo per rendermi conto di cosa era successo e forza d'animo per ascoltare da magistrati straordinari come Saviotti, Vigna e Chelazzi, la ricostruzione di quella vicenda, i racconti sui brindisi alla mia morte tra mafiosi in carcere. Siamo vivi per miracolo. Per un errore. Per una casualità.

Pochissimi secondi di ritardo nel premere il bottone.

L'autista mi chiese di essere liberato per la serata e così feci chiamare una seconda macchina. Gli attentatori sbagliarono bersaglio e i tre secondi di ritardo dell'attentatore nel premere il bottone ci salvarono la vita. Poco tempo dopo andai a Firenze e per la prima e ultima volta vidi in faccia i Graviano e tutti quelli che me volevano ammazzà. Fu dura. Questa storia mi ha insegnato molte cose. Alcune sul valore degli uomini di scorta e dei magistrati. Altre meno belle.

La paura?

Non tanto per me che pure, nell'imminenza dell'attentato avevo pensato: "Se c'è anche un solo morto io smetto di fare ‘sto mestiere", quanto per Maria. Lei, per dire, soffrì moltissimo. Ebbi persino paura non si riprendesse. Vivemmo la cosa in modo diverso, comunque. Io mi considerai molto fortunato. Ripensavo alla dinamica, ai chili di tritolo usati in via Fauro e mi ripetevo: "Ammazza che culo". Lei era turbatissima. Mi dispiaceva di averle provocato una violenta ansia. Così le promisi che sarei stato più attento.

Lo fu?

Non molto. Andai al Politeama con la vedova Borsellino, in Sicilia a deporre senza reticenze in un processo di mafia e non smisi di occuparmi della questione. Quando vedevo le misure di sicurezza e i ponti bonificati non stavo bene. Ma a un ladro devi dire ladro. A un mafioso, mafioso.

Ha mai sentito parlare di una lettera contenente minacce a varie autorità scritta da alcuni sedicenti detenuti al 41-bis nel gennaio 1993. Oltre all'indirizzo del Vaticano e a quello del presidente della Repubblica, tra i molti, c'era anche il suo.

Come no, certo che ne ho sentito parlare. Sono stati colpiti tutti i destinatari, personalmente, o attraverso l'istituzione come nel caso delle Chiese.

 Di lei si sarebbero dovuti occupare i Corleonesi.

All'inizio. Poi subentrarono i catanesi e nella discussione: "Lo faccio io, no lo fai te" si perse molto tempo. Mi dissero, ma non trovai conferma, che Matteo Messina Denaro si fosse spinto personalmente a controllare i miei spostamenti dalle parti del Parioli. Chissà, se fossero saliti a Roma Santapaola e i suoi, come mi dissero i magistrati, per eliminarmi sarebbe bastata una sventagliata di mitra.

In via Fauro abitava anche Lorenzo Narracci, ex vice di Bruno Contrada al Sisde. Mai pensato che la bomba fosse per lui?

Mai. Mi parve inverosimile.

Che impressione le ha fatto vedere lo Stato coinvolto in una possibile trattativa con la mafia?

Un'impressione terribile. Ho letto molto, non abbastanza. Mi auguro sempre che non sia vero. Ci spero il giusto, ma continuo a sperare. Sinceramente. Anche se è astratta-mente possibile che si sia verificata, esprimere una verità storica è molto complicato. Proprio il giorno in cui è morto Andreotti mi è capitato di riflettere su quanti ragionamenti il senatore abbia portato con sé.

Nel 2009 lei dichiarò che D'Alema e Violante le dissero che dietro a via Fauro c'era l'ombra di Berlusconi. Lei era stato tra i più accaniti dissuasori degli ultras che volevano far nascere Forza Italia.

Verissimo. Mi opposi con durezza, meno vero, anzi falso, è che il nome di Berlusconi mi fosse stato fatto da D'Alema e Violante. Lo scrisse il Riformista. Inviai una rettifica.

 Però glielo dissero.

Eccome. Non me lo sono inventato. Nel camerino del teatro Parioli, mi pare. La voce diceva che la soffiata venisse da un pentito. Non ci ho mai creduto. Mai. Era un po' troppo. Anni dopo, quando era già presidente del Consiglio, Berlusconi venne in trasmissione. Uscì per caso il discorso e lui ci scherzò: "Già dicono che io ti ho messo la bomba in via Fauro, adesso diranno che ti ho levato la scorta". Andò tutto in onda.

Estratto dell'articolo di Giovanni Bianconi per il "Corriere della Sera" il 25 febbraio 2023.

La bomba che scoppiò alle 21.25 di quasi trent’anni fa, il 14 maggio 1993, segnò l’inizio dell’assalto mafioso al continente. Per la prima volta Cosa nostra — che un anno prima aveva fatto saltare in aria Giovanni Falcone, sua moglie Francesca, Paolo Borsellino e otto agenti di scorta — organizzò un attentato fuori dalla Sicilia. E l’obiettivo doveva essere lui, Maurizio Costanzo, il giornalista dello Show televisivo che attaccava gli «uomini d’onore», arrivando a invitare le loro donne a lasciarli.

Un attentato senza vittime, ma il messaggio fu subito chiaro: Cosa nostra aveva deciso di allargare il suo raggio d’azione. Non più solo magistrati, investigatori o politici che si mettevano di traverso; adesso toccava anche gli uomini di spettacolo che facevano informazione accusando la mafia davanti a milioni di italiani. Bersagli scelti con cura, ovunque nel Paese.

 «La causa scatenante»

«Si parlò di una trasmissione che fece Costanzo dove si parlava dei ricoveri facili all’ospedale, e che lui in quella trasmissione disse che dovevano effettivamente avere tutti tumori, o dovevano morire tutti di cancro gli uomini d’onore. Questo fu una causa scatenante», rivelò il pentito Vincenzo Sinacori, uno che fece parte del commando spedito a Roma da Totò Riina in persona, a febbraio del 1992, per trovare il modo di uccidere Falcone o l’allora ministro della Giustizia Claudio Martelli; e poi, appunto, Maurizio Costanzo.

[…]

a gennaio ‘93 Riina fu arrestato, e suo cognato Leoluca Bagarella continuò sulla strada delle bombe, scegliendo di piazzarle anche lungo la penisola. E la prima fu per Costanzo: quasi 100 chili di tritolo e nitroglicerina sistemati nel bagagliaio di una Fiat Uno rubata la sera dell’11 maggio ‘93. E parcheggiata in via Ruggero Fauro — la strada dei Parioli che abitualmente il giornalista percorreva all’uscita dello spettacolo per tornare a casa — già il 13 maggio.

Ma quella sera il telecomando non fece esplodere l’ordigno. L’indomani i mafiosi (tutti della cosca di Brancaccio, quella dei Graviano, con Salvatore Benigno nel ruolo di esecutore materiale) andarono a riparare il guasto e la sera del 14 la bomba scoppiò. Ma Costanzo si salvò perché aveva cambiato macchina; non la solita Alfa 164 attesa dal commando, ma una Mercedes.

 « Benigno ha perso un po’ di tempo nel senso di: “è lui? Non è lui?”... Allora, ha schiacciato il bottone diciamo con qualche secondo diciamo, o millesimo di secondo, in ritardo. Perché si aspettava una 164», racconterà un altro pentito.

l momento dell’esplosione le macchine di Costanzo e della scorta erano appena passate, ma furono ugualmente coinvolte dall’onda d’urto, e danneggiate: Costanzo e Maria De Filippi che era con lui rimasero illesi, l’autista della Mercedes riportò qualche lieve ferita e anche le guardie del corpo a bordo della seconda auto se la cavarono con poco.

Estratto dell’articolo di Elena Del Mastro per ilriformista.it il 25 febbraio 2023.

Il curriculum criminale di Matteo Messina Denaro è molto lungo: stragi, omicidi, rapimenti, estorsioni e anche attentati. Crimini che attraversano oltre 40 anni di storia d’Italia, dalla strage di Capaci a via d’Amelio, fino al rapimento e omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio di Santino, collaboratore di giustizia ed ex mafioso. La strategia della mafia degli anni 80 e 90 era quella di eliminare fisicamente chiunque risultasse scomodo per qualche motivo. E tra questi c’era anche Maurizio Costanzo, il conduttore televisivo che spesso in quegli anni dal suo Show si schierò apertamente contro la mafia. E per questo per Messina Denaro e i suoi andava eliminato.

 A raccontare questo episodio è stato lo stesso Maurizio Costanzo anni dopo. “Mi risulta dai magistrati di Firenze che Matteo Messina Denaro sia venuto al Teatro Parioli durante il ‘Maurizio Costanzo Show’ per vedere se si poteva fare lì l’attentato, sarebbe stata una strage. Hanno deciso di farlo quando uscivo dal teatro”, ha raccontato Costanzo a “Un giorno da pecora”. Era il 1992 quando Messina Denaro fece parte di un gruppo di fuoco inviato a Roma da Riina per pedinare e uccidere Costanzo, Giovanni Falcone e il Ministro Claudio Martelli. L’attentato a Costanzo si sarebbe dovuto svolgere fuori al teatro Parioli a Roma, dopo che il conduttore televisivo aveva registrato una puntata del suo programma.

 Costanzo insieme a Michele Santoro in quegli anni si esponeva spesso contro la mafia. […] Costanzo non teneva nascosta nemmeno la sua amicizia con il giudice Falcone e così la mafia lo prese di mira. Così un gruppo di fuoco composto da mafiosi di Brancaccio e della provincia di Trapani tra cui Giuseppe Graviano, Matteo Messina Denaro, Vincenzo Sinacori, Lorenzo Tinnirello, Cristofaro Cannella e Francesco Geraci si spostò su Roma per mettere in pratica gli ordini.

Il gruppo per più giorni pedinò Costanzo. Poi quando tutto era pronto il gruppo fu richiamato da Riina in Sicilia e saltò. Ma fu solo rimandato. Nel maggio 1993 un altro gruppo di fuoco composto da mafiosi di Brancaccio e Corso dei Mille in cui però non c’era più Messina Denaro arrivò a Roma per mettere in pratica il piano. […] Venne rubata una Fiat Punto che fu riempita di tritolo e parcheggiata in via Fauro. Secondo quanto ricostruito successivamente dai magistrati, il primo giorno l’attentato fallì perché il congegno non esplose per un difetto. Il secondo giorno invece la bomba esplose ma Salvatore Benigno schiacciò il pulsante in ritardo perché con fuse l’auto su cui avrebbe viaggiato Costanzo. Così il presentatore e la moglie Maria de Filippi rimasero illesi, furono ferite invece due guardie del corpo. La paura fu tanta: nell’esplosione crollò il muro di una scuola, sei auto furono distrutte e sessanta danneggiate.

Nel 2018, Maria De Filippi raccontò, in un’intervista da Fabio Fazio: “Ho avuto paura per almeno due anni. Ero convinta di aver visto la persona che ha azionato la bomba. Vedo questo ragazzo che mi fissa fuori dai Parioli e io fisso lui, magari era un ragazzo qualsiasi”. […]

 Messina Denaro, non sarebbe risultato tra i presenti quel giorno ma fu considerato comunque tra i mandanti di quell’attentato. “Una gran bella notizia che si aspettava da 30 anni, alla fine della vita i peccati si pagano. Un evviva ai carabinieri del Ros, una bella soddisfazione”, ha detto Maurizio Costanzo, intervistato da LaPresse nel commentare l’arresto del superlatitante Matteo Messina Denaro dopo 30 anni di ricerche.

Estratto da www.repubblica.it – articolo del 27 aprile 2022

[…] Michele Santoro […] ha ripercorso quella giornata. "Sono arrivato a casa sua in una scena di guerra - ha detto - Ho visto Maurizio ancora frastornato, Maria (De Filippi, ndr) sul letto che non riusciva a proferire parola. Quello era un avvertimento alla tv: state esagerando, tornate a fare la televisione". 

Da it.wikipedia.org

 Nel febbraio 1992 un gruppo di fuoco composto da mafiosi di Brancaccio e della provincia di Trapani (Giuseppe Graviano, Matteo Messina Denaro, Vincenzo Sinacori, Lorenzo Tinnirello, Cristofaro Cannella, Francesco Geraci) si spostò a Roma per uccidere Maurizio Costanzo; le armi e l'esplosivo necessarie per questi attentati vennero nascoste in un'intercapedine ricavata nel camion di Giovanbattista Coniglio (mafioso di Mazara del Vallo) per essere trasportate a Roma, dove vennero scaricate e occultate nello scantinato dell'abitazione di Antonio Scarano (spacciatore di origini calabresi residente a Roma legato a Messina Denaro).

Dopo alcuni appostamenti nel centro di Roma, il gruppo di fuoco non rintracciò il giudice Falcone e il ministro Martelli, decidendo quindi di ripiegare su Costanzo, che riuscirono a seguire per alcune sere dopo le registrazioni della trasmissione "Maurizio Costanzo Show". Tuttavia il boss Salvatore Riina ordinò a Sinacori di sospendere tutto e tornare in Sicilia perché “avevano trovato cose più importanti giù”.

 Nel maggio 1993 un altro gruppo di fuoco composto da mafiosi di Brancaccio e Corso dei Mille (Cristofaro Cannella, Cosimo Lo Nigro, Salvatore Benigno, Giuseppe Barranca, Francesco Giuliano) si portò nuovamente a Roma per compiere l'attentato a Costanzo e venne ospitato di nuovo da Scarano nell'appartamento di suo figlio.

Il gruppo, accompagnato da Scarano con la sua auto, effettuò vari sopralluoghi nella zona dei Parioli per individuare Costanzo e infine rubò una Fiat Uno; Scarano procurò anche un garage presso il centro commerciale "Le Torri" a Tor Bella Monaca, dove Lo Nigro e Benigno portarono l'auto rubata e provvidero a sistemarvi all'interno l'esplosivo, dopo averlo prelevato dallo scantinato di Scarano stesso. Nella stessa sera l'autobomba venne parcheggiata in via Fauro ma non esplose per un difetto del congegno, che venne riparato il giorno successivo sempre da Lo Nigro e Benigno.

 Quella sera, l'autobomba venne fatta esplodere ma Benigno schiacciò il pulsante del telecomando con qualche istante di ritardo perché aspettava Costanzo su un'Alfa Romeo 164, mentre comparve una Mercedes blu, non blindata, alla cui guida era l'autista Stefano Degni e al cui interno sedevano il presentatore e la sua compagna Maria De Filippi (che rimasero illesi), seguita da una Lancia Thema con a bordo le due guardie del corpo Fabio De Palo (rimasto ferito) e Aldo Re (che subì lesioni legate allo shock). Nell'esplosione subirono gravi danni i palazzi di via Fauro, della vicina via Boccioni e inoltre crollò il muro di una scuola che si trovava quasi di fronte al luogo della deflagrazione; circa sessanta auto parcheggiate nelle vicinanze rimasero danneggiate e altre sei finirono distrutte nell'esplosione

Le indagini ricostruirono l'esecuzione dell'attentato in base alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Vincenzo Sinacori, Francesco Geraci, Salvatore Grigoli, Pietro Romeo e, in particolare, quelle di Antonio Scarano (che aveva partecipato in prima persona all'attentato): nel 1998 Cristofaro Cannella, Salvatore Benigno, Cosimo Lo Nigro, Giuseppe Barranca, Gaspare Spatuzza, Francesco Giuliano e Antonio Scarano furono riconosciuti come esecutori materiali dell'attentato di via Fauro nella sentenza per le stragi del 1993.

Nel 2008 Spatuzza iniziò a collaborare con la giustizia e negò la sua partecipazione all'attentato di via Fauro, dichiarando che Cosimo Lo Nigro si limitò ad avvertirlo a cose fatte. Nel 2011 nelle motivazioni della sentenza che condannava il boss Francesco Tagliavia per le stragi del 1993 in seguito alle accuse di Spatuzza, si leggeva: «La verità è che Spatuzza in via Fauro e dintorni non c'era [...] perché non gli era stato ordinato di esserci. [...] Della presenza di Spatuzza a Roma per l'attentato a Costanzo parla solo lo Scarano che fu il ricostruttore esclusivo di quella vicenda [...] Grande confusionario Scarano, attendibile nella sostanza e nelle linee generali della vicenda stragista, ma labile di memoria riguardo alle persone, alle date, ai dettagli e alle collocazioni temporali degli avvenimenti».

L’esplosione fuori al Teatro Parioli. Quando Maurizio Costanzo scampò all’attentato di Messina Denaro, la promessa di Maria De Filippi: “Mai più in auto”. Elena Del Mastro su Il riformista il 24 Febbraio 2023

Maurizio Costanzo nella sua lunghissima carriera non ha mai mancato di schierarsi pubblicamente e con forza contro la criminalità organizzata. Anche quando tra gli anni 80 e 90 quando la mafia mise in atto una vera e propria strategia, quella di eliminare fisicamente chiunque risultasse scomodo per qualche motivo. E tra questi c’era anche Maurizio Costanzo. E quindi la mafia provò a uccidere anche lui, per fortuna senza riuscirsi. “Riina disse: ‘Questo Costanzo mi ha rotto’. Cominciarono a pedinarmi, a spedirmi lettere anonime, ma non ci feci caso. Seppi poi che Messina Denaro era venuto nel pubblico dello Show, per vedere il teatro”. Una questione di attimi, quella della sera del 14 maggio 1993: “Fu un miracolo. Il mio autista mi aveva chiesto un giorno libero, e l’avevo sostituito con un altro, che conosceva meno bene la strada. Esitò al momento di girare in via Fauro, e questo confuse il killer che doveva azionare il detonatore. Sentimmo un botto pazzesco. Tra me e Maria passò un infisso”.

Era il 1992 quando Messina Denaro fece parte di un gruppo di fuoco inviato a Roma da Riina per pedinare e uccidere Costanzo, Giovanni Falcone e il Ministro Claudio Martelli. L’attentato a Costanzo si sarebbe dovuto svolgere fuori al teatro Parioli a Roma, dopo che il conduttore televisivo aveva registrato una puntata del suo programma. A raccontare questo episodio è stato lo stesso Maurizio Costanzo anni dopo. “Mi risulta dai magistrati di Firenze che Matteo Messina Denaro sia venuto al Teatro Parioli durante il ‘Maurizio Costanzo Show’ per vedere se si poteva fare lì l’attentato, sarebbe stata una strage. Hanno deciso di farlo quando uscivo dal teatro”, ha raccontato Costanzo a “Un giorno da pecora”.

Secondo quanto ricostruito dal Messaggero, Costanzo in quegli anni si esponeva spesso contro la mafia, realizzò anche una maratona televisiva a reti unificate Rai-Fininvest dedicata alla lotta alle mafie. Durante la trasmissione fu anche bruciata in diretta una maglietta con su scritto “Mafia made in Italy”. Costanzo non teneva nascosta nemmeno la sua amicizia con il giudice Falcone e così la mafia lo prese di mira. Così un gruppo di fuoco composto da mafiosi di Brancaccio e della provincia di Trapani tra cui Giuseppe Graviano, Matteo Messina Denaro, Vincenzo Sinacori, Lorenzo Tinnirello, Cristofaro Cannella e Francesco Geraci si spostò su Roma per mettere in pratica gli ordini.

Il gruppo per più giorni pedinò Costanzo. Poi quando tutto era pronto il gruppo fu richiamato da Riina in Sicilia e saltò. Ma fu solo rimandato. Nel maggio 1993 un altro gruppo di fuoco composto da mafiosi di Brancaccio e Corso dei Mille in cui però non c’era più Messina Denaro arrivò a Roma per mettere in pratica il piano. Secondo quanto ricostruito da Il Messaggero, del gruppo facevano parte Cristofaro Cannella, Cosimo Lo Nigro, Salvatore Benigno, Giuseppe Barranca e Francesco Giuliano. Venne rubata una Fiat Punto che fu riempita di tritolo e parcheggiata in via Fauro. Secondo quanto ricostruito successivamente dai magistrati, iIl primo giorno l’attentato fallì perché il congengo non esplose per un difetto. Il secondo giorno invece la bomba esplose ma Salvatore Benigno schiacciò il pulsante in ritardo perché con fuse l’auto su cui avrebbe viaggiato Costanzo. Così il presentatore e la moglie Maria de Filippi rimasero illesi, furono ferite invece due guardie del corpo. La paura fu tanta: nell’esplosione crollò il muro di una scuola, sei auto furono distrutte e sessanta danneggiate.

Nel 2018, Maria De Filippi raccontò, in un’intervista da Fabio Fazio: “Ho avuto paura per almeno due anni. Ero convinta di aver visto la persona che ha azionato la bomba. Vedo questo ragazzo che mi fissa fuori dai Parioli e io fisso lui, magari era un ragazzo qualsiasi”. De Filippi ha aggiunto “Ho promesso a mio padre che non sarei più salita in macchina con Maurizio e così ho fatto. Non lo faccio. Non posso tradire una promessa fatta a mio padre”. A sua volta la conduttrice si fece promettere da Costanzo che non avrebbe più parlato di mafia, invano. “Ho chiesto a Maurizio di smettere di occuparsi di mafia e così ha fatto, per un po’ di tempo non l’ha fatto. Poi se ne è occupato ancora. Fossi stato in lui, avrei smesso, non so come abbia potuto riparlare di mafia ancora”.

Messina Denaro, non sarebbe risultato tra i presenti quel giorno ma fu considerato comunque tra i mandanti di quell’attentato. “Una gran bella notizia che si aspettava da 30 anni, alla fine della vita i peccati si pagano. Un evviva ai carabinieri del Ros, una bella soddisfazione”, ha detto Maurizio Costanzo, intervistato da LaPresse nel commentare l’arresto del superlatitante Matteo Messina Denaro dopo 30 anni di ricerche.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

La Massoneria.

Dagospia il 26 febbraio 2023. “COSTANZO HA CREATO DEI MOSTRI” – ALDO GRASSO NON SMETTE DI SVELENARE SUL GIORNALISTA CHE, NEL GIORNO DEL SUO 80ESIMO COMPLEANNO, A DAGOSPIA CONFESSÒ: “VORREI CHE GRASSO POSSA COMPRENDERE CHE NEL MIO LAVORO HO FATTO QUALCOSA DI BUONO”. HA CAMBIATO IDEA? ASSOLUTAMENTE NO. “IL PERSONAGGIO MI PIACEVA, NON MI PIACEVA LA PERSONA, UNO ISCRITTO ALLA P2. LO ABBIAMO RIMOSSO? LA SUA ERA UNA TV DI POTERE. ERA AMICO DELLA SINISTRA E DI BERLUSCONI, AVEVA IL PIEDE IN PIÙ SCARPE. MARIA DE FILIPPI? LA SUA PIÙ GRANDE INVENZIONE. O VICEVERSA?” QUANDO COSTANZO CONFESSÒ A GIAMPAOLO PANSA DI ESSERE STATO ISCRITTO ALLA LOGGIA: “LORO FARABUTTI, IO CRETINO…”

Estratto dell’articolo da “la Repubblica” il 26 febbraio 2023.

L’aveva definito “un grosso errore”, aggiungendo che gli errori fanno bene e fanno crescere. «Non credo a chi dice di non averne mai fatti, che fesseria… Però c’è anche chi, di grossi errori, ne fa due o tre. Io uno: e lo ammetto». La scoperta che Maurizio Costanzo facesse parte della P2, tessera numero 1819 (tre numeri dopo Berlusconi, 1816) fu un colpo durissimo per la sua immagine. […]

 In principio smentì. Raccontò di essere stato iscritto “a sua insaputa”. Poi decise di confessare e lo fece con una intervista a Giampaolo Pansa su Repubblica del 5 giugno 1981. «Finora ho negato perché avevo paura di quanto si legge sui giornali», disse. Aggiungendo. «Sono entrato per ingenuità e per ambizione in un gruppo di farabutti.

Vorrei chiudere gli occhi e tornare al periodo che precedette il mio incontro con Gelli». Poi l’ammissione, relativa a una sua intervista a Gelli: «Sì, la feci perché qualcuno me lo chiese. Nei corridoi di via Solferino mi dicevano che avevo intervistato uno dei padroni del Corriere. Io non lo pensavo, ancora adesso non ci credo ».

 Nel dialogo con Pansa, Costanzo ammise più volte il suo rammarico per la scelta di iscriversi alla Loggia. «Era un gruppo di farabutti, di inconsapevoli e di cretini. Sì, cretini come me. Ho fatto uno sbaglio davvero cretino». […]

Estratto dell’articolo di Maria Francesca Troisi per mowmag.com il 26 febbraio 2023.

Maurizio Costanzo ha creato dei mostri”. Dice proprio così Aldo Grasso, critico del Corriere della Sera, che nella carrellata di reazioni zuccherose postume diviene una delle poche voci fuori dal coro. […]

In un'intervista per i suoi 80 anni (concessa a Dagospia) Costanzo diceva: “Vorrei che Aldo Grasso possa un giorno comprendere che nel mio lavoro ho fatto qualcosa di buono”. A posteriori, ha cambiato idea?

«Dei morti bisogna sempre parlare bene, è la prima regola. Sicuramente ha portato in Italia un genere nuovo, ma non sono mai stato entusiasta della sua televisione. Certo, era un grandissimo professionista, ma...»

 Ma?

La sua era una Tv da uomo di potere. Amico della sinistra e amico di Silvio Berlusconi, consulente di tutti gli uomini politici e anche delle principali imprese italiane, insomma aveva la capacità di tenere sempre il piede in più scarpe.

E ha creato dei personaggi sopravvissuti a più di una stagione. Esempio Sgarbi, che individua anche degli eredi, Giletti, Porro, che pensa di questa lettura?

«[…] ha creato dei personaggi che sono sopravvissuti, ma ha creato anche dei mostri, nel senso di persone esaltate, fuori di testa, e proprio a causa delle apparizioni al Costanzo Show».

 La sua principale invenzione rimane sempre la moglie, Maria De Filippi? Forse la donna più potente d'Italia.

O forse il contrario? Anche questo è un caso strano. Costanzo aveva troppo di tutto, i programmi Tv, le collaborazioni giornalistiche, quattro mogli...

Filippo Facci sostiene: “È stato un giornalista utile sino alla fine degli anni '80... Il resto fu intrattenimento e divenne un banalizzatore”. Sposa questo pensiero?

Sì, direi che Facci è della mia stessa idea. Mi vanto di essere stato invitato tante volte al Maurizio Costanzo Show e di non esserci mai andato.

 Per una mancata stima, suppongo.

La verità? Il personaggio mi piaceva moltissimo, ma non mi piaceva la persona. Uno iscritto alla P2, uno che ha intervistato Licio Gelli, l'abbiamo rimosso?

Estratto dell'articolo di Massimo Gramellini per il "Corriere della Sera" il 25 febbraio 2023.

Muore Costanzo e sui social si parla della sua iscrizione alla P2. Peggio, ci si indigna perché nei ritratti e nelle testimonianze dei colleghi si parla troppo poco della sua iscrizione alla P2 (di cui peraltro si era ampiamente scusato). Vorrei attirare la vostra attenzione sul meccanismo psicologico che guida questo flusso di lapidatori.

Se n’è andato un signore che ha accompagnato la vita quotidiana di tre generazioni di italiani [...] Che esistenze integerrime, le loro. Evidentemente non hanno mai sbagliato un colpo, un gesto, un’amicizia.

Un tempo la morte era il colpo di gong che interrompeva le ostilità per dare il modo di rendere omaggio anche al peggiore dei nemici. Nell’era dei social si sta invece trasformando in una ghiotta occasione per scoperchiare vecchie pentole arrugginite e regolare conti lasciati in sospeso da decenni. Dai coccodrilli siamo passati agli avvoltoi, ma non mi sembra che si voli più alto.

Maurizio Costanzo per il “Corriere della Sera”, domenica 5 ottobre 1980

Nella galleria dei personaggi inavvicinabili è tra i più inavvicinabili: si chiama Licio Gelli, ha sessant’anni, è di Arezzo e non so cosa abbia scritto sulla carta d’identità alla voce professione: industriale? Diplomatico? Politico? In realtà il suo nome compare spesso come il capo indiscusso di una segreta e potente loggia massonica, la «P2», e rimbalza di continuo in questioni di non facile identificazione. Nel corso di questa intervista ha espresso, credo per la prima volta, opinioni, pareri, raccontato episodi. Ma non mi illudo: è solo una delle sue facce, le altre sono celate in qualche parte del mondo.

 Quattro anni fa io l’avevo invitata a una puntata di «Bontà loro». Declinò l’invito. Per timidezza? Per mantenere mistero intorno alla sua persona?

Perché non ravvedevo nella mia persona requisiti tali per essere intervistato alla tv.

 Come mai adesso ha accettato questo colloquio?

Per premiarla della costanza che ha avuto nell’inseguirmi per quattro anni. Così, dopo questa intervista, spero per altri quattro anni di stare tranquillo.

 Cosa c’è di vero in tutto quello che si è detto e si dice su di lei e sul conto della sua Istituzione, cioè la massoneria?

Le dirò che sotto un certo aspetto la cosa è umoristica, perché solo grazie a questo tipo di stampa scandalistica ho potuto conoscere fatti ed episodi della mia vita che ignoravo completamente. D’altra parte, mi pare che in questo paese, attualmente, è consentito a chiunque di dire quello che pensa, anche se quello che dice è frutto di pura e accesa fantasia.

Ancora di recente alcuni giornali hanno parlato di questa loggia segretissima della massoneria, la «P2». Lei ne sarebbe il capo incontrastato. Cos’è la «P2»?

Siamo veramente stanchi di dover ripetere all’infinito che cosa è questo e cosa è quello. Venga una sera a farci visita e vedrà che quando uscirà si sentirà in spirito massone anche lei. Comunque confermo, per l’ennesima volta, si tratta di un Centro che accoglie e riunisce solo elementi dotati di intelligenza, di alto livello di cultura, di saggezza e soprattutto, di generosità, che hanno un indirizzo mentale e morale che li spinge ad operare unicamente per il bene dell’umanità con lo scopo, che può sembrare utopistico, di migliorarla.

Ma oggi, con tutto quello che si dice e si scrive della «P2», c’è ancora chi vuole entrarci?

Mai come oggi abbiamo ricevuto domande di adesione e sono sempre in aumento. Molte di queste adesioni le dobbiamo proprio alla propaganda indiretta e gratuita di certi giornali che con le loro fantasmagoriche rivelazioni ci hanno attirato stima, rispetto e simpatia.

 Quanti sono attualmente gli iscritti alla «P2»?

Le rispondo che sono molti, ma non vedo la ragione per cui dovrei darle un numero definito. Vede, quando si ha a che fare con una bella donna, non mi sembra di buon gusto chiederle, per pura curiosità, quanti anni ha.

 Dato il numero che, a quanto capisco, deve essere elevato, come fa a controllare e ad incontrare gli aderenti?

Un amante di classe non rivela mai i suoi metodi per incontrarsi con una donna, così come un generale non svela mai i piani di difesa. Quando abbiamo bisogno di vedere qualcuno o per uno scambio di idee oppure soltanto per prendere il caffè insieme, abbiamo i nostri sistemi per incontrarlo e le assicuro che è un sistema che non hai fallito.

 Ho letto su un settimanale che lei sarebbe attualmente in cattivi rapporti con il Gran Maestro Battelli e in alleanza con Salvini e Gamberini. E qual è la sua vera posizione nella massoneria di palazzo Giustiniani?

La mia posizione è regolarissima e legittima sotto ogni riguardo. Ne chieda conferma al Gran Maestro. I miei rapporti con lui sono ottimi sotto ogni aspetto, come solo possono esistere tra due persone che si stimano reciprocamente. A proposito dell’alleanza con Salvini e Gamberini, mi rendo conto che lei non conosce affatto la nostra filosofia, altrimenti saprebbe che tra noi, una volta instaurati, è difficilissimo che i rapporti vengano interrotti, dato che la nostra Istituzione bandisce tutti quei termini che vengono anche troppo spesso usati da certi rotocalchi.

Perché, allora, su alcuni giornali un certo ingegner Siniscalchi ha avuto e continua ad avere nei suoi confronti un così palese risentimento?

Io non conosco e non tengo a conoscere l’ingegner Siniscalchi e sia ben chiaro, quindi, che quello che ha affermato e continua ad affermare non mi tocca nel modo più assoluto. So che una volta era massone e non so se tuttora lo sia. Io, al contrario, non nutro nessuna avversione per lui, anzi, quella sera che si esibì in tv dando fantasiose, deliranti ed assurde risposte, tutta la mia reazione si ridusse ad una sola frase che rivolsi a un amico: “Vedi, quella è una persona a cui credo si dovrebbe stare più vicini perché probabilmente non sta molto bene e soffre di solitudine”. In quel caso avrei dovuto esprimermi acerbamente, ma nel vedere quella figura così patetica rimasi sopraffatto da un sentimento di tenerezza e di profonda commiserazione.

Sto conducendo una serie di colloqui con i rappresentanti del potere occulto in Italia. Lei ne è a pieno diritto un esponente. È d’accordo?

A dire la verità, mi sorprende di essere in questa serie di interviste, ma il piacere di conoscerla è il motivo che mi ha fatto accettare. Io non mai ritenuto di avere un potere occulto come mi viene attribuito. D’altra parte non posso impedire che gli altri lo suppongano.

 Mi sembra per altro singolare che ogni qualvolta in Italia capita qualcosa di inconsueto, si faccia subito il suo nome e quello della sua loggia.

Sapesse quante volte mi sono posto la domanda, chiedendomi quale partito, organizzazione o personaggio avrebbe potuto trarre vantaggio dall’attribuirmi o attribuirci certi avvenimenti! Sorgono una infinità di interrogativi: non sappiamo se si tratta di strategie intese a depistare qualche inchiesta, oppure di tentativi di screditarci agli occhi dell’opinione pubblica, o di voce messe in circolazione, per puro risentimento, da qualche grosso personaggio respinto dalla nostra Istituzione, oppure, in ultima ipotesi, se la gente crede che davvero siamo dotati di potere soprannaturali. Il che, in fondo in fondo, potrebbe anche essere o, per lo meno, potrebbe stato vero in altri tempi: basti ricordare che abbiamo avuto con noi un “mago” come Giuseppe Balsamo, conte di Cagliostro, ed un trascinatore d’uomini della portata di Giuseppe Garibaldi, l’eroe dei Due Mondi.

È a conoscenza di un rapporto inoltrato da Emilio Santillo al Ministro degli Interni? Secondo questo rapporto lei sarebbe al vertice del potere più grosso della Repubblica.

È difficile rispondere a questa domanda, ammesso che siano vere le affermazioni pubblicate dai giornali. Io annovero moltissimi amici sia in Italia che all’estero. Ma tra l’avere amici e avere potere, ci corre e molto. Pur tuttavia c’è un fondo di vero in queste affermazioni: avendo sempre agito nell’osservanza di certi principi etici di base, sono riuscito ad accattivarmi la stima e la simpatia di molti, anche se, contemporaneamente e inevitabilmente, ho suscitato antipatie.

 Come mai l’Espresso e Panorama sono così accaniti contro di lei?

Perché probabilmente hanno saputo che, un giorno ad un amico che sostava nella saletta di attesa, passai, tanto per distrarlo, una copia dell’Espresso e di Panorama ed anche un elenco telefonico, dicendogli che solo in quest’ultimo avrebbe potuto trovare qualche verità. Anzi, se lei conosce i direttori di Panorama e dell’Espresso, mi usi una cortesia: da due mesi ho un nipote che si chiama Licio. Licio Gelli, come me. Quindi il materiale per poter scrivere non mancherà.

Si dice che lei sia stato repubblichino, golpista, che però in seguito non abbia disdegnato frequentazioni di opposta tendenza. Insomma, mistero nel mistero, qual è il suo orientamento politico?

Mi è capitato spesso di non ricordarmi nemmeno il mio nome: non pretenda, perciò, che mi ricordi il mio orientamento politico. Me lo chieda un’altra volta. Forse allora potrò darle una risposta meno vaga e per quanto riguarda gli incontri che io non disdegnerei, le dico che io mi incontro con qualsiasi persona senza domandare che tessera ha in tasca.

 Sbaglio o in più occasioni lei si è espresso a favore di una repubblica presidenziale?

Sì, anche in una relazione che inviai al presidente Leone. La relazione terminava portando ad esempio de Gaulle.

 Facciamo un po’ di fantapolitica, se lei fosse nominato presidente della Repubblica, manterrebbe la Costituzione?

Ogni uomo deve conoscere i suoi limiti, non mi sento perciò di possedere i requisiti per fare il presidente della Repubblica. Ma quando fossi eletto, il mio primo atto sarebbe una completa revisione della Costituzione. Era un abito perfetto quando fu indossato per la prima volta dalla nuova Repubblica, ma oggi è un abito liso e sfibrato e la Repubblica deve stare molto attenta nei suoi movimenti per non rischiare di romperlo definitivamente. È il parto dell’Assemblea Costituente avvenuto in un momento del tutto particolare nella vita della nostra nazione, ma che oggi, a cose assestate, risulta inefficiente e inadeguato. E, oltre tutto, non è più coerente con lo spirito che l’ha emanata, perché porta tuttora articoli di carattere transitorio.

Ma cos’è per lei la democrazia?

Le racconterò di un incontro che ebbi con Moro quando era Ministro degli Esteri. Mi disse: “Lei non deve affrettare i tempi, la democrazia è come una pentola di fagioli: perché siano buoni, devono cuocere piano piano piano”. Lo interruppi dicendo: “Stia attento, signor ministro, che i fagioli non restino senza acqua, perché correrebbe il rischio di bruciarli”.

 Siamo di nuovo alla crisi di Governo. Lei darebbe la presidenza ai socialisti?

Certamente, ma con la presidenza della Repubblica ad un democristiano e le aggiungo anche che questo, secondo me, dovrebbe avvenire al più presto se vogliamo evitare la caduta del paese nel baratro.

Tra le tante cose che si dicono di lei si sussurra anche sia in grado di di condizionare molti autorevoli banchieri. Ammesso che sia vero questo condizionamento, è in favore di un miglioramento della situazione economica italiana o piuttosto di un tornaconto personale o dei suoi amici?

Noi non abbiamo mai condizionato nessuno sia perché non possediamo strumenti di condizionamento sia perché non abbiamo nessun interesse né personale né per conto di nostri amici. Posso dirle che quando ci viene richiesto, e se è possibile, cerchiamo di facilitare l’aiuto richiesto.

Legano il suo nome a quello di Michele Sindona. È un pettegolezzo?

No, non è pettegolezzo. Ed io sono andato a fare la nota deposizione negli Stati Uniti a suo favore. Perché quando un amico è in disgrazia per infami reati, dobbiamo essergli più vicini di quando si trova in auge. Comunque il mio nome è legato non solo a quello di Sindona, ma a tanti altri personaggi. Anche a quello del presidente della Liberia, Tobler, che iniziai alla massoneria nel palazzo presidenziale di Monrovia, e che venne ucciso recentemente in un golpe. Grazie a Dio per questo golpe non ci hanno coinvolto.

Se Andreotti e Fanfani le chiedono un favore, a chi lo fa più volentieri o a chi non lo fa per nulla?

Purtroppo non le posso rispondere perché fino ad oggi nessuno dei due mi ha mai chiesto un favore.

 Voterebbe per Carter o per Reagan?

Per Reagan. Secondo certe previsioni credo che sarà lui il presidente degli Stati Uniti.

Mi risulta che lei fu invitato all’insediamento alla Casa Bianca del presidente Carter. Perché?

Forse per simpatia.

 A proposito di previsioni mi hanno riferito che lei, giorni orsono, aveva pronosticato la caduta del governo Cossiga entro settembre. È anche veggente?

È vero che ho fatto questa previsione, mi pare l’8 settembre. Ma non perché sono un veggente, solo perché vivo secondo una certa logica. D’altra parte, sapevo benissimo che, ormai, il Governo Cossiga era clinicamente morto anche se una certa cerchia di politici aveva interesse a tenerlo in vita apparente, almeno fino a tutto dicembre. È chiaro che si tratta di una pia illusione perché, se uno avesse analizzato i contrasti che giornalmente avvenivano tra i componenti della compagine governativa, sarebbe giunto facilmente alle mie conclusioni.

E a questo punto, secondo il mio giudizio, si dovrebbe muovere un serio appunto a questi politici i quali, per mire partitiche, non si sono minimamente preoccupati degli interessi del paese, protesi unicamente a ricercare formule di sopravvivenza di un organismo moribondo. Distraendo, così, gran parte delle loro energie alla ricerca di soluzioni valide per i gravi problemi della nazione ai quali avrebbero dovuto dedicarsi completamente. Questo è il nostro dramma: e fino a quando non lo avremo risolto, il paese non potrà mai beneficiare di un benessere veramente solido e non evanescente come quello attuale.

 Mi lasci indovinare, da quel che sta via via rispondendo, non credo ami molto il sindacato, vero?

La normativa e l’applicazione del cosiddetto Statuto dei Lavoratori non ha bisogno di commenti. Mi sembra che l’Italia sia l’unica nazione in tutto il mondo ad avere una legge di questo tipo, ma i risultati dal 1970 ad oggi sono, purtroppo, più che evidenti. Certe conquiste ci ricordano che anche Pirro vantò la sua vittoria.

 Cosa pensa dell’attuale Sommo Pontefice? Lei e la sua Organizzazione avete rapporti anche con lui?

Il Sommo Pontefice è sempre il capo della Cristianità ed io, e parlo per me e non per altri, ho sempre avuto per lui il rispetto che gli è dovuto. La mia Organizzazione ha rapporti con tutti. Le posso assicurare che la nostra è l’unica Associazione che ammette soltanto i credenti.

Dimenticavo. sembra che della «P2» facciano parte alti esponenti dei servizi segreti. Lei adesso lo negherà, ma non lo sembra che in Italia i servizi segreti abbiano spesso sofferto di deviazioni ed omissioni?

A prescindere dal fatto che non ricordo chi fa parte dell’Istituzione, per quanto riguarda l’efficienza dei servizi segreti non sta a me giudicarla. Posso solo dirle che ogni paese ne ha un paio e noi ne abbiamo otto e nonostante il gran numero, i risultati sono evidenti.

Suppongo che lei non abbia in alta considerazione i nostri politici. Proviamo a elencare i loro difetti?

Cosa devo dirle? Credo che i partiti scelgano i migliori elementi che hanno a disposizione per destinarli ai posti guida, ma come avrà notato, nonostante l’alternarsi di questi “geni”, le cose vanno di male in peggio. Ci sorge quindi spontanea la domanda: questi “geni” lavorano esclusivamente nell’interesse del paese oppure solo nell’interesse del loro partito?

Penso che in questa ultima ipotesi non riusciranno mai, nonostante la loro bravura, a riunire in un unico crogiuolo i vari componenti necessari per fondere una lega che dovrebbe proteggere gli interessi del popolo. L’unica alternativa a questo concetto è che poi non sono così bravi come si vorrebbe far credere e quindi nella loro meschina mediocrità non riescono a comprendere le esigenze del popolo o non riescono a sentire le loro responsabilità. In casi come questi, è più che accettabile l’affermazione del ministro Giannini: “Se fossi stato giovane, me ne sarei andato dall’Italia”.

 La caduta del Governo Cossiga ha procurato immediati nuovi problemi all’economia italiana. Dato che lei, con grande distacco e con apparente modestia, sembra fornire indicazioni su ogni problema, cosa pensa, appunto, dell’economia italiana?

Lo stato della medesima è disastroso, tuttavia potrebbe risolversi, ma solo a patto che qualcuno avesse il coraggio di far presente, in modo esplicito, in quale stato versa la nostra economia e in quali condizioni si verrà a trovare nel prossimo futuro se non si prenderanno energici provvedimenti.

È chiaro però che nessun uomo politico avrà la forza morale di prendere provvedimenti del genere che, almeno inizialmente, sarebbero impopolari e gli allontanerebbero, di conseguenza, molti suffragi elettorali. Perciò preferisce fare quello che fa: lo struzzo quando ha paura. Quello che ci dispiace è che questa mancanza di decisione e di controllo si ripercuota su di noi.

 Mi spiego meglio: se il Ministero dell’Industria e del Commercio, che concede ad occhi chiusi la possibilità di importare forti contingenti di prodotti tipicamente italiani, la cui introduzione sul mercato interno provoca automaticamente disagi economici e stasi o riduzione occupazionale per molte nostre aziende, si rendesse pienamente conto delle deleterie conseguenze delle sue concessioni, dovrebbe indubbiamente prendere provvedimenti adeguati per ovviare a questo stato di cose.

Se l’organo preposto stabilisse una statistica dei prodotti finiti che importiamo e li traducesse in tempi lavorativi tenendo conto di quanti lavoratori di ogni specifico settore sono a regime di cassa integrazione o, peggio, disoccupati per mancanza di lavoro, potrebbe fare in modo di ridurre il plafond delle importazioni fino a raggiungere il completo riassorbimento di questo personale inutilizzato.

 Mi scusi, non è possibile che tutto vada male e così male. Ad esempio, non potrà negare gli ormai indiscutibili vantaggi dati dall’appartenenza dell’Italia alla Comunità Economica Europea.

Allora, la prego di scusarmi lei: ma ho l’impressione che di economia non sia molto aggiornato. Provi a chiederlo a sua moglie. Adenauer, lei lo saprà, gestiva la politica facendosi informare dalla moglie sull’andamento del mercato. Vede, i vantaggi per l’Italia sono quelli di pagare molto di più i prodotti di largo consumo. Perché, se non fossimo legati alla CEE o se la Costituzione dell’Europa Unita fosse meno sfacciatamente favorevole ai paesi più ricchi di prodotti di base, il popolo italiano si troverebbe assai meglio. Così come stanno le cose, i vantaggi della Comunità vanno a senso unico e questo senso non è certo a favore dell’Italia.

Si spieghi meglio, dato che io, come quasi tutti gli italiani non so niente o poco di economia.

Bene, mi spiego con un esempio: in Italia la carne costa mediamente tredici dollari al chilo, estrogeni compresi; se invece che dai paesi esportatori della Comunità ci fosse consentito di approvvigionarci dai paesi dell’America Centro-Meridionale avremmo della carne, priva di estrogeni purtroppo, ad un prezzo di circa cinque dollari al chilo. Va da sé che, in questo caso, la nostra popolazione avrebbe ottima carne ad un costo notevolmente inferiore.

Ancora una domanda sull’economia. Qual è la sua opinione sui grandi operatori economici italiani e sulla Confindustria?

 A proposito degli operatori economici pochi di essi si salvano: la maggior parte non è un granché. Molto probabilmente difettano di idee, di iniziative, di decisioni e non sanno difendere il sistema industriale. Oppure, più semplicemente, non sono stati all’altezza di seguire l’evoluzione dei tempi. Mentre la Confindustria penso che abbia solo un ruolo puramente rappresentativo. Potrebbe far meglio se riuscisse a sganciarsi dai carri politici.

Mi lasci indovinare: è a favore della pena di morte?

Se lei facesse un sondaggio nei paesi in cui vige ancora la pena capitale, vedrebbe che non vi accade quello che sta succedendo nei paesi che l’hanno abolita. Non più tardi dello scorso anno un giornale ha pubblicato che nell’Unione Sovietica una persona è stata condannata a morte e giustiziata per aver ferito, ripeto ferito, un agente di polizia. Mi risulta che in quello stato siano rarissimi i furti, le rapine a mano armata, lo spaccio di stupefacenti e che siano del tutto inesistenti i sequestri di persona e gli atti di terrorismo. E dirò di più, nella democraticissima Francia è ancora in vigore la pena di morte.

 In questo piano di evidente moralizzazione che lei propone, sarebbe favorevole, invece, alla liberalizzazione delle droghe leggere?

Mi meraviglio che mi rivolga questa domanda, perché penso che anche lei abbia dei figli e quindi sa o dovrebbe sapere, che le disgrazie di una nazione e delle famiglie che la costituiscono sono dovute principalmente, anzi esclusivamente alla droga, i cui effetti non si esauriscono nell’individuo, ma riaffiorano anche nelle generazioni future. L’argomento mi disgusta: parliamo d’altro, se ancora mi deve chiedere qualcosa.

Quale consiglio darebbe al prossimo Primo Ministro?

Di fare meno programmi e più fatti. O meglio, i programmi enunciati non dovrebbero restare allo stadio di programmi, come è avvenuto fino ad oggi. Perché promettere e non mantenere è la cosa che più infastidisce la popolazione.

 Alla domanda: cosa vuoi fare da grande? cosa rispondeva?

 Il burattinaio.

Il Ricordo di…

Pupo.

Aldo Cazzullo per il "Corriere della Sera".

Antonello de Gennaro su Il Corriere del Giorno.

Gian Paolo Caprettini su L'Indipendente.

Guia Soncini su L’Inchiesta.

Vittorio Sgarbi su Il Giornale.

Giuseppe Trapani su Il riformista.

Paolo Guzzanti su Il riformista.

Pupo.

Pupo per Dagospia il 25 febbraio 2023.

Nel 1989, Maurizio Costanzo mi invitò per la prima volta al Teatro Parioli. Prima di andare in scena mi ricevette nel suo camerino (mi dedicò giusto un paio di minuti), e mi disse di avermi invitato perché gli stavo simpatico e perché un po' gli facevo pena. Era uno dei momenti più bui della mia carriera e mi stavo giocando gli ultimi spiccioli rimasti al Casinò. Durante la puntata poi, non ricordo bene perché, mi fece parlare moltissimo.

Era "affascinato" dalla storia di questo ragazzo che si stava autodistruggendo con il gioco d'azzardo. Quella sera vennero fuori anche delle storie che coinvolgevano il mio babbo Fiorello e Maurizio, che aveva il fiuto di un cane da tartufi, intuì subito che il mio babbo era un personaggio particolare e così cominciò ad invitare anche lui. Per due o tre anni, io ed il mio genitore, fummo spesso ospiti nel suo Show. Fu lì che mi vide Gianni Boncompagni e decise di farmi condurre, insieme ad Edvige Fenech, Domenica In. E così, la mia vita cambiò.

Fu al Maurizio Costanzo show che vennero fuori le migliori battute del mio babbo Fiorello. Ad un giornalista che gli chiese cosa pensava dell'AIDS, lui rispose: "Sono contrario". 

 Ad un altro che gli domandò se fosse contento che Gianni Boncompagni aveva detto che Pupo, suo figlio, era la risposta italiana a Sting, lui rispose: "l'importante è che questa Sting sia una cosa buona". Ed infine, quando gli chiesero, in un contesto di ricerca del significato delle parole se sapeva cosa volesse dire "ignifugo" lui, dopo averci pensato un attimo, disse: "io faccio i cazzi miei e non rompo i coglioni a nessuno". Adesso avrete capito perché Maurizio Costanzo lo aveva preso così tanto in simpatia.

Aldo Cazzullo per il "Corriere della Sera".

Estratto dell’articolo di Aldo Cazzullo per il "Corriere della Sera" il 25 febbraio 2023.

Come Molière, Maurizio Costanzo è morto in scena. O, se si preferisce un’espressione di Renzo Piano, è morto nel cantiere. Senza mai smettere di lavorare; che per lui significava vivere.

Ha fatto un sacco di cose, quasi tutte (anche se non tutte) molto bene. Fu il primo a invitare in televisione i capi del partito comunista. A Bontà loro chiedeva a ogni ospite: «Cosa c’è dietro l’angolo?». Giancarlo Pajetta rispose: «Un altro angolo». Il suo grande rivale Giorgio Amendola, ingelosito, volle essere intervistato pure lui.

 Scrisse Una giornata particolare per Scola e Se telefonando per Mina. Lavorò a Paese Sera con Mughini e Dario Argento, firmando Maurice Costance per far credere di essere francese. Inventò un genere, la tv popolare, parlando pochissimo: bastava una sua battuta in un romanesco sminuzzato per far aprire una persona e un mondo. Si iscrisse alla P2, diresse un giornale della Rizzoli piduista, ma a differenza di altri ammise di aver sbagliato. Inventò Vittorio Sgarbi e Maria De Filippi, forse l’uomo e la donna più conosciuti d’Italia. Distrusse Pippo Baudo divenuto improvvidamente direttore di Canale 5; il vero capo di Canale 5 era lui; i rapporti di forza furono presto ristabiliti. Introdusse Giovanni Falcone al grande pubblico. La mafia tentò di ammazzarlo.

Di oltre mezzo secolo di carriera, quello fu il momento più tragico e nello stesso tempo epico.

 Lui era convinto di essere stato salvato da suo padre, anzi da «papà mio», come diceva in romanesco. […]

Il padre morì che Maurizio aveva ventidue anni. Il suo grande rimpianto era che non avesse potuto vedere quello che aveva fatto. «Ogni mattina al risveglio penso a papà mio. È come un angelo protettore. Spero tanto di rivedere lui e la mamma». Quindi crede nell’Aldilà? «Ci spero. Credo un po’ anche alla reincarnazione: da secoli siamo sempre gli stessi. Io ad esempio penso di essere stato un monsignore. Ma mi sarebbe piaciuto vivere a Betlemme, e veder arrivare i Re Magi».

Il Costanzo Show all’inizio era settimanale, su Rete 4. Berlusconi comprò tutto con lui dentro. Lo chiamò a Portofino, c’era pure Freccero, e disse: d’ora in poi lo facciamo tutti i giorni […]

Al Costanzo Show cominciarono gli Uno contro tutti. Per Bossi scoppiò una rissa: «Si menarono proprio, leghisti contro gli altri, sotto gli occhi dell’Umberto. Carmelo Bene invece litigò con il pubblico, e si prese gli insulti e gli sputi della prima fila». Alda Merini venne a raccontare gli elettrochoc che aveva subito, disse che l’avevano sfrattata, Costanzo lanciò una sottoscrizione in diretta e le salvò la casa. Una sera Platinette si tolse la parrucca, e rivelò di essere Mauro Coruzzi. Arrivò un ragazzo di Correggio con la chitarra, il pubblico non apprezzò le canzoni, Costanzo disse: questo ha un grande avvenire. Era Ligabue. […]

Da cronista intervistò Pier Paolo Pasolini e Curzio Malaparte, che viveva in albergo, circondato dai suoi bassotti, tra cui uno chiamato Curtino. Da allora pure lui ha sempre avuto bassotti.

Pochi mesi dopo la bomba ci fu la discesa in campo di Berlusconi. «Ci chiamò tutti ad Arcore, c’erano anche Mentana e Giuliano Ferrara.

Alla fine lo presi da parte e gli dissi: io non ti voterò mai, ma non dirò mai una parola contro di te».

A un certo punto Costanzo consigliava contemporaneamente Berlusconi e Rutelli, che erano entrambi candidati a Palazzo Chigi, e conduceva una trasmissione su Mediaset e una sulla Rai, che in teoria erano concorrenti.

Come tutti sanno non era bello, di persona il suo aspetto per dirla tutta era particolarmente sgraziato — la testa enorme quasi senza collo —, eppure era come i cavalli di razza, che brutti non sono mai. Non a caso ha avuto una vita sentimentale da divo di Hollywood, sempre accanto a donne bellissime, e con fidanzate insospettabili dietro le quinte. Il matrimonio giusto fu il quarto. Incontrò Maria De Filippi a Venezia, in un convegno. […]

Andare ospite di Costanzo era un rito. Ti portavano in uno sgabuzzino a bagno d’ombra, dove lui ti riceveva in modo sbrigativo eppure accurato, consegnandoti una tartarughina portafortuna in ceramica — animale totemico, cui in effetti somigliava — e dicendo poche parole il cui senso era: ti ringrazio per essere venuto, ma dovresti essere tu a ringraziare me. Era uomo di straordinaria rapidità mentale. A lungo ha avuto molto potere, anche se come ogni vero potente negava di esserlo: «Mica sono Andreotti. Io al massimo posso lanciare un cantante».

Sapeva individuare il talento al volo e non sbagliava quasi mai. Non parlava male quasi mai di nessuno, ma poteva essere feroce. Ognuno di noi gli deve qualcosa; anche solo una serata di svago, o una certa idea del nostro Paese. […]

Antonello de Gennaro su Il Corriere del Giorno.

E’ morto Maurizio Costanzo. Si spegne un uomo libero, un grande giornalista. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 24 Febbraio 2023

Ha portato tanta allegria e leggerezza nelle case degli italiani ma anche tanto impegno sociale , come le campagne contro la mafia affiancando il suo amico Giovanni Falcone, spesso ospite nei suoi programmi , subendo il 14 maggio 1993 un attentato mafioso (fallito), quando un’auto imbottita con 90 chili di tritolo esplose mentre passava a bordo dell’auto blindata che lo conduceva in teatro, assieme a sua moglie.

di Antonello de Gennaro

La notizia è appena stata battuta dalle agenzie, e non avrei mai voluto darla, ma purtroppo si è spento oggi Maurizio Costanzo, aveva 84 anni, giornalista, conduttore tv, autore, sceneggiatore, per il quale ho avuto l’onore e la fortuna di lavorare a “Buona Domenica” su Canale5, ed a cui devo molti insegnamenti di giornalismo, etica e professionalità. La triste notizia è stata data dal suo ufficio stampa.

Nato a Roma il 28 agosto 1938, figlio di un impiegato al ministero dei Trasporti e di una casalinga, nato il 28 agosto 1938 a Roma, a 18 anni diventa cronista nel quotidiano romano Paese Sera per poi assumere l’incarico, a soli 22 anni, di caporedattore della redazione romana del settimanale Grazia. Pochi anni più tardi esordisce come autore radiofonico e nel 1966 è coautore del testo della canzone ‘Se telefonando’, scritto insieme con Ghigo De Chiara, con musica di Ennio Morricone e portata al successo da Mina. 

Maurizio Costanzo è anche co-ideatore del personaggio di Fracchia, creato e portato al successo da Paolo Villaggio, attore da lui scoperto nel 1967 in un cabaret di Roma. A partire dalla metà degli anni Settanta è ideatore di numerosi spettacoli televisivi. Il grande successo arriva nel 1976 con il talk-show “Bonta’ loro”. Seguiranno “Acquario“, “Grand’Italia“, “Fascination“. Nel 1982 realizza il suo spettacolo televisivo più famoso, celebrato e longevo, il “Maurizio Costanzo Show” (40 anni di puntate e quasi 55.000 ospiti intervistati),

Costanzo è stato un gigante della televisione. Per diversi anni è stato l’autore e conduttore più importante della televisione italiana. ha firmato decine di programmi radiofonici e televisivi e di commedie teatrali (“Il marito adottivo”, “Vuoti a rendere” ecc.). Ha raggiunto la grande popolarità nel 1976, conducendo in Rai il talk-show “Bontà loro”. Ma il suo nome è legato sopratutto al “Maurizio Costanzo show,“ in onda dal 1982 su Mediaset. Tra i suoi programmi più noti, anche “Buona domenica“. Ha scritto numerosi libri, tra i quali Chi mi credo di essere (2004, in collab. con G. Dotto), E che sarà mai? (2006), La strategia della tartaruga (2009), Sipario! 50 anni di teatro. Storia e testi (2015), Vi racconto l’Isis (2016) e Smemorabilia. Catalogo sentimentale degli oggetti perduti (2022). Dal 1995 era sposato con Maria De Filippi.

È suo il primo talk show della tv italiana, un genere che diventerà poi tanto imprescindibile quanto inflazionato: Bontà loro (Rai1, 1976 – 1978) è il primo di una serie di programmi che avranno la loro fioritura finale nel 1982 con il Maurizio Costanzo Show, in scena dal Teatro Parioli di Roma.

E’ stato un vero talent scout dello spettacolo, offrendo la possibilità di farsi conoscere ed apprezzare Enrico Brignano, Gioele Dix, Giobbe Covatta, Enzo Iacchetti, Dario Vergassola, David Riondino, Daniele Luttazzi, Alessandro Bergonzoni, Valerio Mastandrea, Ricky Memphis, Platinette, Giampiero Mughini, Vittorio Sgarbi, Fiorello… portando tanta allegria e leggerezza nelle case degli italiani ma anche tanto impegno sociale , come le campagne contro la mafia affiancando il suo amico Giovanni Falcone, spesso ospite nei suoi programmi , subendo il 14 maggio 1993 un attentato mafioso (fallito), quando un’auto imbottita con 90 chili di tritolo esplose in via Fauro (vicino al Teatro Parioli) mentre passava a bordo dell’auto blindata che lo conduceva in teatro, assieme a sua moglie. Un attentato che Costanzo riteneva come una “medaglia” al suo impegno antimafia di cui era fiero. In seguito all’omicidio di Libero Grassi, appena un mese dopo, realizzò con Michele Santoro una maratona Rai-Fininvest contro la mafia. Memorabile la scena in cui Costanzo bruciava in diretta una maglietta con scritto “Mafia made in Italy“.

In un’intervista Maurizio Costanzo ha voluto rievocare due momenti di quella lunghissima esperienza: “Il bello è la sensazione che provi quando fai una cosa concreta: come quando gli spettatori nel 1994 hanno raccolto i soldi per ricostruire un ponte distrutto nell’alluvione del Piemonte o quando hanno contribuito a mettere in piedi ospedali per Emergency o a finanziare progetti per neutralizzare le mine antiuomo“.

Non smetterò mai di ringraziarlo per i suoi consigli, il suo aiuto, i suoi insegnamenti. Ciao caro Direttore ti ho voluto bene e sarai sempre nel mio cuore.

La Direzione, redazione e tutti i collaboratori del nostro giornale si associano al lutto dei figli di Maurizio Costanza ed abbracciano con il cuore Maria De Filippi.

Il cordoglio per la scomparsa di Costanzo

La scomparsa di Maurizio Costanzo ha commosso il mondo dello spettacolo, della politica e della cultura. Tra i primi personaggi noti a rivolgere un saluto al giornalista scomparso, Emma Marrone (che scrive “Ciao Mauri” con un cuore spezzato), Antonella Clerici (“Ciao Maurizio”). “Un dolore immenso non so come farò senza di lui” ha commentato Pierluigi Diaco, conduttore e fedele collaboratore di Costanzo.

Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in una dichiarazione ha espresso il suo cordoglio per la scomparsa di Maurizio Costanzo, “giornalista, autore e sceneggiatore, che ha contribuito grandemente al rinnovamento dei generi televisivi, ideando nuovi format e nuovi linguaggi. Volto noto e familiare del piccolo schermo non esitò a schierarsi con coraggio contro la criminalità mafiosa, che reagì rabbiosamente organizzando un attentato contro di lui”.

Se ne va un maestro, un giornalista capace di creare uno stile unico,di indicare una meta e accompagnarci lungo la strada per raggiungerla. Di lui mi restano tanti ricordi e una grande lezione:non prendersi mai sul serio, ma fare sempre le cose sul serio. Ciao Maurizio. #Costanzo pic.twitter.com/9SrKoWLgnQ

Ho sempre pensato che questo giorno non sarebbe arrivato mai. Per la persona che sei,la cultura che hai sempre elargito e la tua sagace ironia,questo paese perde TANTISSIMO. Abbraccio infinitamente Maria, Gabriele, Camilla e Saverio. Eri Vita buon viaggio #MaurizioCostanzo pic.twitter.com/CN6RU1OcTz

Il ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, “nel ribadire il cordoglio per la scomparsa di Maurizio Costanzo, grande giornalista che, con acume, garbo e professionalità ha attraversato decenni di cultura italiana, ha disposto le esequie solenni, che avranno luogo lunedì 27 febbraio, alle 15, a Roma, nella Chiesa degli Artisti in Piazza del Popolo“.

Grande innovatore. Ha rinnovato la radio con `Chiamate Roma 3131´, ha portato in Italia il talk show, è riuscito a fare una commissione di persone che non avrebbero mai accettato di incontrarsi. È stato un nostro `padre´ per tutti noi. Uomo completo, ha scritto canzoni, ha diretto giornali, è stato efficiente fino alla fine”. Così Bruno Vespa a LaPresse ricorda Maurizio Costanzo scomparso oggi a 84 anni. “Ci siamo scambiati cortesie andando entrambi come ospiti alle nostre trasmissioni celebrative – ha aggiunto Vespa – Siamo andati in onda a reti unificate durante la guerra del Kosovo. Un grande giornalista e un grande conoscitore degli italiani”. Redazione CdG 1947

Gian Paolo Caprettini su L'Indipendente.

Maurizio Costanzo, una questione di stile. Gian Paolo Caprettini su L'Indipendente il 25 febbraio 2023.

Eravamo nell’autunno del 1992. Mi trovavo ospite al Maurizio Costanzo Show perché avevo scritto un libro su di lui: dico ‘lui’ sia riferendomi al giornalista, sia allo spettacolo da lui ideato e condotto con cui tutti lo identificavamo.

Maurizio Costanzo era dotato di una speciale onestà intellettuale, quindi quella sera non avremmo parlato del mio libro che lo riguardava e che un po’, anche con ammirata ironia, lo celebrava (Del Maurizio Costanzo Show e della religione rumorosa, Aleph, poi Vallecchi). In quell’anno avevo pubblicato quattro libri e Costanzo mi avrebbe interpellato sul mio Semiologia del racconto (Laterza), mettendomi duramente alla prova nel far digerire la scienza dei segni al grande pubblico.

Perché Maurizio Costanzo era un giornalista speciale? Perché faceva l’esame ai suoi ospiti simulando di farli sentire a loro agio. Poteva fingere perfino di adularli per svelare tratti della loro personalità, per testare il loro grado di affidabilità. Nel contempo faceva trasparire la sua antipatia, la sua simpatia o la sua indifferenza verso di loro.

Illuminava la scena con la sua postura arcuata, a tratti incuriosito o provocatore, tra il confessionale e l’interrogatorio, un po’ sfottente e un po’ confidenziale. Tranne nei casi in cui indubitabilmente parteggiava per la sua o il suo ospite.

Amava stuzzicare e anche insinuare, pungolare. Gli piaceva assecondare lo stile pacato ma se la rideva con la violenza verbale di Vittorio Sgarbi o con le allucinazioni da teatro d’avanguardia di Carmelo Bene.

Innumerevoli i suoi convitati, sia celebri o sulla strada di esserlo, oppure anonimi ma significativi. Costanzo aveva la vocazione del casting in pubblico, era geniale nell’amare lo svelamento, quella dote che il grande William Carlos Williams diceva essere il compito del vero artista.

Regista della parola, dello spettacolo verbale in cui consisteva la vera televisione, sfruttava il geniale mix di Teatro Parioli e piccolo schermo, di pubblico a casa e pubblico in sala, mostrando una maestria invidiabile, molto personale e quindi ineguagliabile.

Scrivevo allora di ‘esoterismo di massa‘ a proposito del suo spettacolo, ammiravo soprattutto la sua tenuta discorsiva, la sua regia delle parole, capace cioè di gestire gli interventi dei vari ospiti come frasi di un unico testo, come episodi di un solo racconto. 

Costanzo era anche un capocomico perché l’ultima (anzi la penultima, perché ora ci sono i social) incarnazione della nostra italica commedia dell’arte era appunto la tivù. Proprio totem e tivù, per usare una mia formula di quegli anni. Totem e tivù: Maurizio Costanzo psicanalista di massa, terapeuta degli sgangherati, dei mediocri oppure eleganti, oppure impresentabili personaggi, provvisori o habitués, del suo show. Eroi per un giorno e poi spesso dimenticati. Maurizio Costanzo, invece, proprio non credo che entrerà nell’oblio mediatico, lui che è stato un artefice, un interprete e un testimone della conversazione televisiva: orizzonte oggi improponibile ma sicuramente augurabile, quando sarà finita la stagione ignorante degli insulti e avremo voglia di ricominciare a ragionare. [di Gian Paolo Caprettini – semiologo, critico televisivo, accademico]

Guia Soncini su L’Inchiesta.

L’impensabilità di essere Maurizio. Costanzo era uno di quelli che potevano cambiarti la vita (non come le star di oggi). Guia Soncini su L’Inchiesta il 25 febbraio 2023.

Non ho foto da pubblicare con il defunto, ma so che era uno che inventava personaggi, professioni, pubblici e una volta una sua citazione ha consentito a uno sconosciuto l’accesso alle mie mutande

Tra le moltissime cose che ha inventato Costanzo, c’è anche la frase cui pensare per desistere dalla tentazione di raccontare le cortesie e l’audaci imprese e mai i lati oscuri di qualcuno appena morto, o di qualcuno ancora vivo. Quando in un suo programma si parlava troppo bene di qualcuno, Costanzo sornioneggiava: «Stàmo a fa’ ‘r santino».

È difficile spiegare cosa fosse il Maurizio Costanzo Show a chi non lo sappia già; a chi non abbia vissuto quegli anni in cui alla televisione italiana c’era un solo talk-show: una cosa che, oggi che la tv a costo zero ha invaso i palinsesti e ognuno ha diritto al suo quarto d’ora da ospite, appare fantascientifica.

Così come non esiste più il giornale, o l’articolista, la cui recensione possa cambiare i destini della tua carriera, allo stesso modo non esiste più il programma essere invitato nel quale possa cambiarti la vita. Sì, Chiara Ferragni ha ventinove milioni di follower; ma, vi diranno coloro cui è capitato d’essere condivisi sulla sua pagina, non converte, che è il termine tecnico per dire che coloro che cuoricinano il tuo passaggio da quella vetrina non si comprano poi il tuo prosciutto.

Costanzo convertiva, in anni in cui ancora era un termine religioso, le tue potenzialità in atto; inventava personaggi, carriere, pubblici. Paolo Villaggio o Valerio Mastandrea, ma pure miracoli ancora più impensabili: fare di Carmelo Bene un personaggio di cui le mie prozie mai state a teatro in vita loro conoscessero l’esistenza, fare di «parli con Heidegger e vada a fare in culo» una frase familiare per mio cugino, il quale pensava Heidegger fosse la riserva di Beckenbauer.

Non poteva essere altrimenti: «Parli con Heidegger» è la gif perfetta. Il genio, diceva quel film che abbiamo visto proprio tutti, è intuizione e velocità di esecuzione, e Costanzo intuì le gif prima che avessimo non dico le gif sul telefono ma anche solo un computer in casa.

La morte di Costanzo, dopo mesi in cui si dà così per imminente quella di Pippo Baudo che Baudo ha dovuto rilasciare un’intervista marktwainiana per dire che non è affatto in punto di morte, dimezza i rabdomanti del Novecento. A prendere sconosciuti e fare di quegli sconosciuti lo star system del secolo successivo sono stati in quattro. Costanzo e Gianni Boncompagni sono morti, restano Baudo e Antonio Ricci.

Mi aspetto, nel fine settimana che commenterà la morte di Costanzo, molte prevedibilità. Eh ma non avete detto della P2. Eh ma non avete raccontato quanto gli piacessero le femmine. Eh ma eh ma eh ma. Da una parte gli schienadrittisti che a cadavere caldo dicono quel che mai avrebbero detto quando Costanzo poteva fornir loro una carriera; dall’altra gli «è morto, mi stimava molto». Ne ho già visti di notevolissimi, e ormai vale la pena morire solo per l’intrattenimento che forniranno i sopravvissuti mitomani raccontando quanto li stimassimo.

Quando ieri è morto, Costanzo era già da una ventina d’anni il marito di Maria De Filippi – intendo: il suo ruolo sociale era ormai precipuamente quello, e mi piace pensare che ne fosse soddisfatto quanto lo era degli altri suoi risultati professionali. Intuire il talento di una tizia che non ha mai fatto un minuto di televisione, e darle la possibilità di esprimerlo, e guardarla diventare Maria De Filippi: dev’essere stata una soddisfazione non da poco.

Maria De Filippi sarebbe diventata comunque Maria De Filippi – se c’è una cosa che emerge dal podcast sulla vita di J.K. Rowling è che non esistono geni incompresi, che il talento se c’è emerge, anche se nessuno crede in te, anche se tutte le circostanze sono avverse, anche se è impossibile crederci – ma ad aver intuito per primo cosa potesse diventare è stato Maurizio Costanzo, uno che diceva che una volta i commendatori all’amante compravano una boutique, e invece a fine Novecento le procuravano un programmino televisivo. Ci sono le mancate direttrici di boutique, e poi c’è Maria De Filippi: se sei intelligente non le confondi.

Non ho una foto con Costanzo, non ho neppure un aneddoto su quanto mi stimasse. Ci ho parlato poche volte, ricordo la prima. Era una ventina d’anni fa – era già innanzitutto il marito della De Filippi, la quale era già il genio che s’era inventato i tronisti. Scrivevo una rubrica di costume estiva su un quotidiano, e un giorno avevo scritto di alcune sue foto uscite su Chi. Aveva degli zoccoli del dottor Scholl’s, quanto di meno presentabile esteticamente. Avevo scritto qualcosa come: Costanzo non ha bisogno neanche di mettere delle vere scarpe per essere uno degli uomini più potenti del paese. (Direi che avevo scritto che andava a comandare in ciabatte, ma non vorrei sembrare una mitomane che sostiene d’aver dettato la linea a Rovazzi con dieci anni d’anticipo).

Squillò il telefono, era un numero che non conoscevo. Era Costanzo che voleva sapere se lo prendevo per il culo, che detta così sembra una telefonata intimidatoria e invece era quell’aggettivo che incarnava alla perfezione il modo in cui si poneva in pubblico: sorniona.

Altri diranno di luci e ombre e vite e carriere come non ne esistono più: Costanzo e la mafia, Costanzo e la cura Di Bella, Costanzo e le signorine bellocce e ambiziose di cui pullula Roma che negli anni Ottanta dicevano «Mi voleva Fellini» e nei Novanta «Sono tanto grata al dottor Costanzo». Io vorrei, tanto per cambiare, parlare di me.

Della me trentenne che era sufficientemente scema da pensare di dover disprezzare Costanzo, e una sera disse a un signore che lavorava con lui qualcosa come: non capisco come tu possa, che orrore, che personaggio squallido. Quel signore senza particolari qualità che mi avessero fin lì sedotta disse una sola frase, e a volte basta una frase per farti strada nelle mutande d’una bisbetica.

Il tizio mi guardò come gli adulti guardano le trentenni stolide e perentorie e disse solo: «Costanzo ha scritto “Lo stupore della notte spalancata sul mar ci sorprese che eravamo sconosciuti”». A tutt’oggi, ritengo che quella citazione sia la ragione più sensata per cui io abbia mai consentito a chicchessia l’accesso alle mie mutande.

Gli americani, per dire che una cosa è imprescindibile, dicono «sarà la prima riga del tuo coccodrillo». Pensa aver avuto una vita così piena di cose che hai scritto «Lo stupore della notte spalancata sul mar ci sorprese che eravamo sconosciuti» e quel verso lì non è tra le prime dieci cose che i coccodrilli citeranno di te. Pensa che impensabilità, essere stato Maurizio Costanzo.

Vittorio Sgarbi su Il Giornale.

Quando sfidò gli intellettuali e scoppiò il finimondo. Negli anni Ottanta, la cultura sembrava abitare su un altro pianeta. Poi Costanzo invitò Sgarbi...Vittorio Sgarbi su Il Giornale il 26 Febbraio 2023

A partire dalla metà degli anni Ottanta, con il Maurizio Costanzo Show, nasce la piazza per il dibattito pubblico, il luogo dell'incontro e dello scontro pubblico. I personaggi televisivi prima di Costanzo propongono una televisione di intrattenimento, e la televisione è generalmente disertata dal mondo intellettuale e anche dal mondo politico che si muove negli spazi recintati della televisione di Stato, prevalentemente nelle tribune politiche. Esse sono luoghi altri, protetti, rispetto alla televisione generalista. Ma quegli spazi sono troppo piccoli per interessare a Costanzo. E certo non sono né nazionali né popolari. Anzi nazionalpopolare vuole dire facile.

Costanzo inventa una televisione completamente nuova, aperta all'informazione e alle idee, in uno spazio teatrale identificato, anche fisicamente, nel teatro Parioli. Invita personaggi e persone note, attori, cantanti anche esordienti, ma nessun intellettuale è disponibile a partecipare al suo spettacolo e forse nessuno interessa a Costanzo perché è percepito come distante dal popolo, anche se di sinistra. Anzi. I primi a resistere a eventuali lusinghe sono proprio loro. Io credo di essere stato il primo che inconsciamente ha accettato la sfida. Vengo invitato una prima volta nel 1987. Mi sono già mostrato disponibile, ma non sono il solo, alla collaborazione con giornali soprattutto per le rubriche d'arte. Scrivo su vari giornali e ho il mio spazio settimanale sull'Europeo di Lamberto Sechi, su chiamata di Pasquale Chessa, fin dal 1978. Al tempo quella rubrica è già espressione di potere e ha più visibilità e più importanza di una cattedra universitaria. A fianco dei quotidiani, con i loro critici (Givanni Testori sul Corriere e Giuliano Briganti su La Repubblica), i settimanali principali hanno i loro critici: a L'Espresso Maurizio Calvesi e Germano Celant, a Panorama Arturo Carlo Quintavalle, all'Europeo Antonello Trombadori, Federico Zeri e io. Tolto Zeri, non ne vedrete nessuno in televisione. La visibilità nell'ambito di giornali che hanno tirature alte è notevole ma resta settoriale. Nel 1982 nasce FMR, la rivista d'arte più bella del mondo e io ho un peso nella sua linea editoriale e sono molto attivo. Prendo prestigio anche dalla presenza di Umberto Eco, Borges, Italo Calvino, Giorgio Manganelli, Giovanni Mariotti, che attribuiscono alla critica d'arte una consapevole dignità letteraria.

Nel 1985 raccolgo i miei saggi nel libro Il sogno della pittura e vinco il premio Estense, il più prestigioso per la saggistica, ed esco quindi dallo spazio della critica d'arte per entrare in un campo più ampio. Credo che da lì e dalla lettura dell'Europeo alla occhiuta redazione e allo stesso Maurizio Costanzo venga la curiosità di convocarmi, tentando terreni ignoti nel mondo intellettuale, naturalmente lontano dal popolo e ancora più nel settore dell'arte, pressoché sconosciuto ed elitario. Si può considerare l'impegno di uno scrittore soprattutto dopo i modelli di giornalismo e di politica culturale di Pier Paolo Pasolini e Alberto Moravia.

Ma cos'è un critico d'arte e cosa fa? È un lavoro, una professione, o, semplicemente, l'attività di servizio per i pittori che soprattutto a Roma hanno una qualche popolarità, e si sono fatti riconoscere per le provocazioni dell'avanguardia o per la libertà di costumi, come Franco Angeli e Mario Schifano. Il critico d'arte è uno sconosciuto, che fa un mestiere misterioso; e l'unica figura che, nelle contaminazioni di musica, cinema, letteratura, e teatro dà ruolo e immagine alla funzione critica (non dico fino al punto di essere popolare) è Alberto Arbasino.

Lui, come Pasolini e Moravia, si concede alla televisione come l'Indifferente di Watteau, tra mondanità e vanità, ma senza convinzione. Al richiamo di Costanzo è pronto a cedere (perché è un cedimento) solo qualche giornalista (ma non Umberto Eco); ed ecco allora pronti a occupare alcuni spazi televisivi in modo pionieristico: Enzo Biagi, Giorgio Bocca e Andrea Barbato. Montanelli resta fuori, accettando però un ruolo ventriloquo con Alain Elkann per Tele Montecarlo che poi diventerà La 7. Ai margini del campo si allena con una formula nuova Giuliano Ferrara, politico e giornalista che legittima sul piano intellettuale, più di ogni altro, la televisione di Berlusconi provenendo tra l'altro dal Partito Comunista. Inizia così alla Fininvest Radio Londra. Siamo nel 1989. Due anni prima, nel 1987 io vengo invitato come critico d'arte, per la prima volta, al Maurizio Costanzo Show. Berlusconi occupa lo spazio dell'intrattenimento con Mike Bongiorno, della televisione nazionalpopolare con Maurizio Costanzo, della politica con Giuliano Ferrara. È con questi strumenti non premeditati che inizia la sua attività politica che si legittima e si impone attraverso la televisione, strumento per ottenere consenso. Ma la credibilità e la legittimità gli viene da Maurizio Costanzo. Io, del mondo intellettuale, sono il primo ad accettare la sfida e a raccogliere la provocazione. E, a partire dal 1989, in circa due mesi, raggiungo una popolarità inimmaginabile con un procedimento efficace ma non calcolato: quello di far saltare il banco. Se nel 1987 attacco, sul piano dialettico, la calcolata demagogia di Costanzo entrando in un conflitto non utile a lui e a me, nel 1989 infilo come un torero un filotto di interventi sorprendenti, provocatori e spettacolari, che danno ragione della natura della televisione: l'imprevisto, l'incidente. Una prima volta con una preside, poetessa, in un crescendo di asino e stronza, di involontaria comicità e sicura sorpresa. Il riscontro è straordinario. Costanzo capisce il potenziale esplosivo della mia presenza, ben al di là del ruolo originario di critico d'arte. E così, una seconda volta, abbatto l'assessore alla vivibilità di Palermo (città invivibile) per i sedili di Ettore Sottsass in una piazza storica (e degradata) di Palermo.

L'assessore è la celebre fotografa Letizia Battaglia, che non manca di piangere, sopraffatta dal mio impeto. La terza volta manifesto la mia contrapposizione con Federico Zeri, dichiarando: «lo voglio vedere morto», maledizione mai prima pronunciata in televisione. Costanzo sorride sotto i baffi e sa che ha trovato un campione per il suo circo, che non è però il luogo soltanto per sfuriate, ma anche lo spazio coltivato per lezioni d'arte mai prima proposte in televisione. Intanto il mio nome si amplifica e, nell'arco di pochi anni, gli intellettuali fanno a gara per apparire in televisione: da Umberto Galimberti a Massimo Cacciari, a Paolo Crepet, a Stefano Zecchi, a Giampiero Mughini. Si è abbattuto il muro che separava i due mondi, e nessuno, anche per gli effetti di promozione dei libri, o per semplice vanità, rifiuta l'invito. E se resiste è perché non è invitato. Nell'arco di dieci anni l'influenza politica e culturale di Costanzo si consolida, e appare anche più credibile dopo l'affermazione politica di Berlusconi, che non coinvolge Costanzo il cui giornalismo mai tradito consiste nello stare sulla notizia è si è consolidato con la credibilità di ospiti, nel momento in cui l'operazione giudiziaria si fa protagonista, a partire dal 1992, con Falcone e Borsellino in Sicilia contro la mafia che risponde con inaudita violenza, e con Tangentopoli a Milano. Costanzo sta dalla parte giusta. Il suo giornalismo è impegnato, ed è contro il potere con cui pure aveva avuto in passato commercio e intrinsichezza. È un momento d'oro, e Costanzo assume il ruolo di titolare di una informazione credibile e attiva, mettendo insieme i fatti e le opinioni, in un teatro in cui si racconta la storia contemporanea, e che rende teatrali e personaggi i protagonisti dell'azione politica e giudiziaria. Io ho accettato la sfida, e ci sono e ci sarò anche per elezioni politiche del 1992: il prototipo del politico nuovo di cui si conosce l'immagine e che raccoglie non voti di appartenenza e di squadra, ma voti di opinione. Così divento deputato e sindaco di San Severino Marche. In ogni altro settore l'intuizione di Costanzo si manifesta in modo analogo: non di creare personaggi ma di riconoscerli, di offrire al talento un palcoscenico che, pur essendo un vero e proprio teatro, si amplifica attraverso la televisione. Così politica, letteratura, teatro, cinema e arte possono diventare finalmente popolari. L'esperimento è riuscito per l'intuizione di Costanzo e per la mia temerarietà; ed è un precedente per chi nel mondo intellettuale, pensava di non lasciarsi tentare, coltivando una aristocratica distanza. Io sono il primo che si è sporcato le mani. La televisione di Costanzo è ecumenica, si apre come il colonnato di San Pietro per accogliere i fedeli. E prima c'è il potere della chiesa; poi c'è il potere dei palazzi; e poi il potere dell'informazione che è la televisione, lo spettacolo del mondo, il racconto della vita. I fatti e le opinioni che convivono sono il suo teatro. Per più di 10 anni gli italiani hanno guardato Costanzo come il centro del potere, con il suo show dove tutto accadeva e dove tutto si vedeva. Con questa forza Maurizio Costanzo non è morto. Non può morire. È dentro di noi.

Giuseppe Trapani su Il riformista.

Maurizio Costanzo, geniale nonostante tutto. Giuseppe Trapani, Giornalista, su Il riformista il 24 Febbraio 2023

Parole, parole e poco più. Se ci pensiamo questa  è la televisione che ha inventato Maurizio Costanzo, fatta di un divano o di qualche poltrona (per alcuni non sempre comoda). Una tv, quella di Costanzo, che lo annovera tra i suoi “grammatici”, dove le parole (spesso vere e proprie alluvioni) sono centrali, il testo decisamente più importanti del contesto o meglio: la sua era una liturgia televisiva minimal (acquario, un orologio a cucù, sedute come fosse un raduno per comunità terapeutica, la passerella introitale con il pianista Bracardi e quella finale con gli ospiti) ), un’officiatura  all’interno della quale milioni di italiani s’incollavano alla tv cercando le parole di quel politico, la provocazione di uno Sgarbi, una parabola-parodia di Giobbe Covatta.

Ci lascia un grande del piccolo schermo e già sono cambiati i palinsesti di tutti i canali pubblici che commerciali e sui social è tutto un ricordo affettuoso: in fondo mezzo attuale “cast” dei personaggi che ad oggi vediamo in piccole e grandi performances sono passati dal Teatro Parioli, una sorta di sancta-sanctorum della televisione, la mecca per fare o un salto di qualità ed esprimere un carisma oppure una parentesi del proprio microcosmo trash.

A fare da demiurgo, messo di spalle come officiante grillo parlante, lui Costanzo che provoca un uno-contro-tutti, una battuta fulminante dettando tempi e spazi, applausi e fischi.

Maurizio Costanzo porta in Italia il talk all’americana e dopo di lui tanti piccoli ( mediocri) cloni che hanno peggiorato un genere che invece, con lui, aveva una sua cifra estetica e tratti di innovazione linguistica e politica. Non a caso guardando oggi un talk  o si rimane per tifare la propria parte  oppure si cambia canale ma non c’è più nulla del costanzismo come lo abbiamo vissuto noi.

Per noi, boomer, il suo show su Canale 5 è stato il primo programma di vera seconda serata dopo anni di buonanotte forzata per svegliarsi al mattino e andare a scuola magari liberi di fumare indisturbati la sigaretta rubata dal pacchetto dei genitori. La sua “Buona Domenica” è stata la rinascita di un Fiorello dopo le discese post karaoke e l’ombra dell’oblio. La sua Maria De Filippi, quarto definitivo e riuscito matrimonio,  è stata teneramente e tenacemente guidata al mestiere televisivo così che ha potuto fare  Maria De Filippi con tutto il suo codice espressivo attuale. E sul legame con la moglie autrice e conduttrice che ultimamente Costanzo ha dichiarato teneramente: “Le confesso che non so se ne sarò capace, se avrò la forza e il coraggio di tendergli la mia mano quel giorno lì. Troppo dolore. Non voglio che mi resti come ultimo ricordo l’intreccio di quelle dita”.

Tornando alla tv, al centro ci sono sempre state le parole e la loro forza dirompente:  l’anatema contro la mafia (che gli è costato un attentato spaventoso fortunatamente sventato senza esiti tragici) i cross-cast conla Rai 3 di Michele Santoro, le interviste che portavano al basso l’alta politica (memorabile quella fatta al potente Andreotti)  così come, sempre nello stesso palco, le storie della piccola provincia italiana. Un linguaggio, quello di Costanzo, che metteva al centro umori e sentimenti intercettando l’andamento pop del pubblico stordito dal passaggio violento tra una Rai iper-pedagogica, bacchettona e l’edonismo dei canali berlusconiani. Ecco, Costanzo è riuscito a strizzare l’occhio a tutti, rischiando lo strabismo ma – alla fine –  è riuscito con lucidità, maestria ed eleganza a raccontarci il paese.  Ci mancherà Maurizio Costanzo, un conduttore con i baffi.

Paolo Guzzanti su Il riformista.

L'addio al conduttore e giornalista. Chi era Maurizio Costanzo, un ficcanaso discreto mangiafuoco della TV. Paolo Guzzanti su Il riformista il 25 Febbraio 2023

Non c’è niente di peggio che cominciare un necrologio dicendo “lo conoscevo bene”. Eppure, è così per me e per tanti: Maurizio Costanzo lo conoscevo da tempi ormai lontani ma non irrecuperabili. Il suo merito unico che non ha uguali, saper costringere gli altri a raccontare sé stessi. La sua forma grafica, per così dire, era un logos vivente. Basso, grasso, testa e faccia tonda e dunque un marchio riconoscibile in maniera netta.

Un genio: si fa presto a dire che chiunque sia morto fosse un genio, ma Maurizio lo era perché era alimentato da una forma quasi patologica di ciò che rende grandi i veri grandi giornalisti: era curioso, impiccione, indiscreto e pettegolo ma sapendo amministrare queste sue caratteristiche con una intelligenza e una cultura che appartiene a un passato che oggi non esiste più. Chi l’ha conosciuta, quella cultura degli anni Settanta, l’ha conosciuta ma oggi è irrecuperabile: era quella di un mondo ormai spento sul quale allora brillavano gli astri di Mario Pannunzio del Mondo e di Ennio Flaiano, o del primo Fellini giornalista, poi le donne famose in vena di confidenze pruriginose. Ma un occhio sempre attentissimo alla politica. Esisteva un canale televisivo che si chiamava “Uomo tv”.

Costanzo ne era lo showman e intervistava personaggi di livello crescente. Intervistò un ancora rampantissimo e aggressivo Giulio Andreotti, il cui soprannome, non a caso era “Divo Giulio”. Non sapevi mai bene chi dei due fra intervistatore e intervistato, fosse di più in grado di ingannare l’altro. E in questo consisteva lo spettacolo e il piacere dello spettatore che era lusingato dall’assistere a un incontro segreto fra due che sapevano la verità, ma non te la volevano dire. L’ultima domanda di chiusura di quel primo Maurizio ai suoi ospiti era sempre la stessa: che cosa c’è dietro l’angolo? Non era domanda banale, nei secondi anni Settanta e poi negli Ottanta. Il sapore ormai perduto della guerra fredda anche nelle sue manifestazioni retoriche e antropologiche governava l’Italia e gli italiani.

Gli italiani sapevano che non avrebbero mai saputo la verità. C’erano state le stragi e altre ne sarebbero venute, c’erano scandali soffiati ed altri gonfiati, c’erano amori proibiti ed altri sfrontati, c’era la sensazione che qualcosa stesse per arrivarci tra capo e collo ma nessuno voleva dire esattamente che cosa pur sapendolo. Dietro l’angolo forse c’era quel futuro che poi abbiamo visto di sfuggita: la falsa fine della guerra fredda il vero al ritorno di una guerra calda. Ma questo apparterrebbe al passato. Quando fu scoperto che Costanzo era un bersaglio di Cosa Nostra, durante l’incredibile campagna terroristica sul continente, quando scoppiarono bombe a Roma e in altre città e si seppe che erano stati preparati attentati per uccidere Maurizio Costanzo e Claudio Martelli, ministro della Giustizia, tutti ci chiedemmo che senso poteva avere attentare alla vita di questo grande conduttore di talk show.

Scrissi sulla Stampa che un attentato contro Costanzo costituiva davvero una svolta epocale nella comunicazione mafiosa, qualcosa di incomprensibile e di incerta origine. Maurizio mi invitò al suo spettacolo e credo che quella sia stata l’ultima volta che ci siamo visti. Mi sembro più lusingato che preoccupato. Quando scoppiò lo scandalo per la loggia massonica P2 di Licio Gelli mi chiese di vederci a via Veneto per confidarmi qualcosa e ricordo che passeggiammo su e giù ma senza arrivare al punto. Mi chiese di vederci il giorno successivo ma fui spedito per un servizio ad Atene dove lessi la sua confessione: «Sono stato un cretino ma anch’io ero nella loggia massonica di Licio Gelli».

Aveva il potere inverso a quello dei grandi affabulatori: sapeva come far affabulare gli altri su sé stessi, perché tutti gli raccontavano tutto. E aveva quindi un potere corale e spettacolare, ma anche politico, unico perché era al corrente di tutto: dei partiti, dell’arte, del mondo dello spettacolo. La sua arte consisteva nel sapersi destreggiare fra gli intrighi altrui e tra i talenti, con la sua capacità di estrarre il meglio e il peggio degli ospiti, ma sempre l’inaspettato. Mise al mondo pubblico personalità che non erano alla ribalta. Personalmente, ricordo con il giorno in cui invitò al suo show me e mia figlia Sabina appena diplomata all’Accademia d’arte drammatica.

Maurizio incardinò su di noi una commedia sulle beffe ai politici di allora, ma più che altro il modo affettuoso con cui presentò al suo pubblico Sabina e me come inedita coppia di padre e figlia: venne fuori uno spettacolo che mi procurò fra l’altro il piacere di una straordinaria lettera di Pupi Avati. Costanzo era ed è rimasto fino all’ultimo un modernissimo Mangiafuoco che sapeva trasformare in spettacolo eventi ed esseri umani. Ma al tempo stesso era genialmente esperto dei giochi politici, sapeva navigare in un mare di squali senza farsi mai azzannare e quando Berlusconi acquisto la rete che lo conteneva lui si lasciò acquistare ma non esattamente comperare e in questo furono entrambi geniali, sia lui che Berlusconi perché riuscirono a sommare due diversi successi senza perdite ma anzi con grande vantaggio.

In genere Costanzo viene lodato moltissimo per il suo impegno antimafia che era certamente autentico. Dubito che la mafia soffrisse realmente del suo impegno civile. Quando fu indicato come obiettivo di un attentato con auto imbottita di tritolo davanti al Teatro Parioli, la teoria della guerra dichiarata allo Stato da Cosa Nostra fu fortemente promossa, per poi promuovere la successiva teoria della trattativa fra Stato e mafia, che ebbe probabilmente il potere di dirottare per anni l’attenzione da altri scenari di connubi mafiosi e politici. Era certamente un giornalista coraggioso e ieri anche Silvio Berlusconi, suo editore, gli ha dedicato un’epigrafe con queste parole. Vittorio Sgarbi ha detto che “è morto nostro padre”.

Ma benché fosse coraggioso e a tratti anche spavaldo nello sfidare forze occulte, la vera qualità che ha fatto di lui uno storyteller è che sapeva spingere i suoi ospiti a essere storyteller di sé stessi. Di conseguenza tutto il suo show è stato sempre vincente perché partendo dalla radio, il suo primo e forse più energico strumento di comunicazione, Costanzo ha sempre parlato tutte le lingue altrui facendo del suo teatro qualcosa di simile a quel che faceva Ennio Flaiano, di cui pure fu grande amico. E poi ha saputo parlare di amore e di sesso con grazia sfrontata e licenza di non conformismo.

La sua diffusione di un messaggio di non differenza negli atteggiamenti sessuali precede la banalità che oggi prevale nella materia fluid gender: in tempi non sospetti ebbe il coraggio di dire che se avesse avuto pulsioni sessuali verso un uomo non avrebbe esitato a seguirle. Muore con Maurizio Costanzo una figura che non ha mai avuto uguali in Italia; un maestro di comunicazione ma dotato dell’arte di comprendere e rispettare persino i pregiudizi altrui. Non era un educatore ma sapeva sia stare nel mainstream che uscirne fra gli applausi per poi rientrare.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Marco Giusti per Dagospia il 21 febbraio 2023.

Grazia, eleganza. Pur difficile da definire o etichettare, gli oltre trenta film diretti da Michel Deville, scomparso a 91 anni, interpretati dalle più belle donne del cinema francese, Brigitte Bardot, Catherine Deneuve, Anna Karina, Myléne Demongeot, Françoise Fabian, Isabelle Huppert, Emmanuelle Béart, Emmanuelle Seigneur, hanno in comune una grazia e una eleganza difficilmente dimenticabili. “Il montone infuriato”, “La lettrice”, “La femme en bleu”, “L’orso e la bambola”, “Benjamin o le disavventure di un adolescente” sono tutti film toccati da una grazia particolare.

 Deville, grande regista di attrici, forse il più grande che si sia visto in Francia, trovò nella sceneggiatrice Nina Companez, che gli scrisse 12 film meravigliosi uno dopo l’altro, dal 1961 di “Ce soir ou jamais” al 1971 di “Raphael ou le debauche”, tutti al femminile, la compagna di viaggio ideale. Ma questi film non avrebbero avuto lo stesso impatto senza quel tipo di regia leggerissima, brillante, che realmente faceva la differenza.

Ricordo che da ragazzetto impazzii per due suoi film degli anni ’60, neanche considerati il suo top, “Il diavolo sotto le vesti” con Jacques Charrier, Mylène Demongeot, Marie Laforet, e “Il ladro della Gioconda” con George Chakiris, Marina Vlady e Margaret Lee, proprio per come riusciva a muovere le attrici, a farle recitare, a farci innamorare da subito di tutte. Nessun regista italiano o inglese, per quanto superiore, possedeva quel tocco. E non si poteva neanche dire che Deville fosse legato alla Nouvelle Vague o al cinema di papà, benché i suoi film fossero in grande parte ritenuti commerciali.

Anche quando perderà la preziosa collaborazione di Nina Companez all’inizio degli anni ’70, pur mettendo in piedi film più seriosi, polizieschi o sentimentali che fossero, penso a “La femme en bleu” con Lea Massari e Michel Piccoli a “Il montone infuriato” con Jean-Louis Trintignant, Jean-Pierre Cassel, Romy Schneider, non perderà mai quel magico tocco di regia che lo aveva messo così in luce negli anni ’60 quando tutto il mondo impazziva per Godard, Truffaut, Chabrol. Non era un regista così profondo e autorevole come i grandi nomi della Nouvelle Vague, ma ha lasciati ottimi film che andrebbero rivisti e ha lavorato davvero sui suoi attori.

"Un regista è un manipolatore”, dirà. “Scelgo i miei attori con un amore sconfinato”. Nato nel 1931 a Boulogne -Billancourt, dal 1951 al 1958 diventa assistente di Henri Decoin per ben 12 film, da “Gli amanti di Toledo” con Alida Valli a “La gatta” con Françoise Arnoul, da “Les intregoutes” con Jeanne Moreau a “Lulù tra gli uomini” con Zizi Jeanmaire. Sui set dei film di Decoin, che non era un maestro di cinema, apprende la capacità di trattare con le attrici.

Nel 1958 è regista della seconda unità, e forse qualcosa di più, della versione cinematografica de “Le bourgeois gentilhomme” di e con Jean Meyer, e contemporaneamente firma con Charles Gerard la regia del polar “La venere della gang” con Pierre Vaneck e Mijanou Bardot, la sorellina di Brigitte. Ma si mette davvero in luce solo due anni dopo con “Ce soir ou jamais” cin Anna Karina e Claude Rich, che apre la galleria dei film scritti assieme a Nina Companez, anche lei nata a Boulogne-Billancourt, che fa il suo esordio con lui nel cinema.

I loro film sono grandi commedie sentimentali, a volte originali, a volte tratte da romanzi, a volte in costume a volte no, che lasceranno il segno e lanceranno fior di attrici. Ricordiamo “Le bugie nel mio letto” (“Adorable menteuse"), con Marina Vlady e Macha Meril, “L’appartamento delle ragazze” con Mylène Demongeot e Sylva Koscina, “Les petits demoiselles” con Françoise Dorléac, sorella di Catherine Deneuve, e Macha Meril. La Companez scrive pure il curioso “Joe Mitra” (“Lucky Joe”) con Eddie Constantine, “Martin Soldat”, che in Italia diventa “Le armi segrete del generale Fiascone”, con Robert Hirsch, Veronique Vendell, Marlene Jobert, Katia Christine, ancora nel pieno del cinema di coproduzione europea.

 La vera svolta nel cinema Deville-Companez arriva col successo di pubblico e di critica di “Benjamin o le avventure di un adolescente”, con Pierre Clementi, Catherine Deneuve, che ottiene il Premio Louis Delluc. Sarà un successo anche la commedia “L’orso e la bambola”, dove si incontrano una Brigitte Bardot in versione parigina snob, ricca e capricciosa, e un Jean-Pierre Cassel violoncellista chiuso e timido. Brigitte Bardot dirà che sarà Deville a ricrearle una nuova vita.

L’ultimo film che Nina Companez scrive per Deville è “Raphael ou le debauche”, che da noi diventa un terribile “Le notti boccaccesche di un libertino e di una candida prostituta”, con Maurice Ronet, Françoise Fabian, Anne Wiazemsky, Brigitte Fossey. Dal 1973 la Companez proseguirà da regista la via della commedia sentimentale più o meno d’epoca con una ventina di titoli, mentre Deville prenderà una nuova strada, meno leggera, con altri sceneggiatori, che porterà a film come “La femme en bleu” con Lea Massari e Michel Piccoli, “Il montone infuriato”, con Jean-Louis Trintignant, Jean-Pierre Cassel, Romy Schneider, che lo segnaleranno come un vero e proprio autore nel cinema francese del tempo.

 Avremo ancora titoli come lo spionistico “Dossier 51” con François Marthouret, “Un dolce viaggio” con Dominique Sanda e Geraldine Chaplin allora trentenni, “Acque profonde” con Jean-Louis Trintignant e Isabelle Huppert o il bellissimo giallo erotico “Pericolo nella dimora” con Richard Bohringer e Anémone, del quale dirà "Volevo fare un film sull'erotismo, l'erotismo quotidiano, naturale, non perverso".

Troverà nella moglie Rosalinde una nuova collaboratrice alle sceneggiatura con la quale scriverà i suoi ultimi film, “La divine poursuite” con Emmanuel Seigneur, Elodie Bouchez, fino all’ultimo film, del 2005, “Un fil à la patte” con Emmanuelle Béart e Charles Berling.

Estratto da tgcom24.mediaset.it il 20 febbraio 2023.

L'attore americano Richard Belzer è morto a 78 anni. È stato uno dei volti più noti della serie tv "Law & Order", e in particolare dello spin off "Unità vittime speciali", interpretando il detective John Munch per oltre ventitrè anni con l'ironia che lo aveva fatto diventare anche un famoso stand-up comedian nei teatri newyorkesi. Belzer, che viveva in Francia, aveva "molti problemi di salute" secondo quanto ha dichiarato all'Hollywood Reporter lo scrittore Bill Scheft, suo grande amico.

 Il detective Munch Nato come attore comico, Richard Belzer diede il suo volto magro e scavato e il suo graffiante senso dell'umorismo al detective Munch, che comparve per la prima volta nella serie "Homicide: Life on the Street" dal 1993 al 1999 sulla Nbc. Ma il personaggio divenne un'icona della tv con "Special Victims Unit", dove Belzer recitò per ben 326 episodi dal 1999 al 2016 (anche se il suo personaggio era andato in pensione nel 2013).

"Il detective John Munch interpretato da Richard Belzer, è un personaggio iconico della televisione" ha commentato a Variety Dick Wolf produttore della serie tv "Law & Order". "Lo conobbi durante il crossover tra Homicide e Law & Order nel 1997. Ho amato da subito il personaggio e immediatamente dissi a Tom Fontana (creatore di Homicide, ndr) che lo volevo come personaggio in SVU. E così è stato. Richard ha portato il suo umorismo, la sua simpatia nelle nostre vite"

 Altri ruoli Tra gli altri ruoli che Belzer ha interpretato lungo la sua carriera, è stato il cugino di Fonzie (Henry Winkler) in "Happy Days", ed è apparso in altre serie televisive come "Sesame Street", "Miami Vice", "30 Rock" e "The Wire" e, tra gli altri, aveva partecipato al film "Scarface" di Brian De Palma.

È morto Leiji Matsumoto, l’autore di Capitan Harlock. Redazione Online su il Corriere della Sera il 20 febbraio 2023.

Il disegnatore è morto a 85 anni. Il ricordo della figlia: «Mio padre ha intrapreso un viaggio verso il mare delle stelle»

Il fumettista giapponese di manga (mangaka) Leiji Matsumoto, autore di opere come «Capitan Harlock», «Galaxy express 999» e «Space Battleship Yamato», è morto all’età di 85 anni. Matsumoto è deceduto il 13 febbraio in un ospedale di Tokyo, ma è stato comunicato solo oggi in un comunicato pubblicato sui social del suo sito ufficiale, Leijisha, gestito dalla figlia, Makiko Matsumoto.

«Il “mangaka” Leiji Matsumoto ha intrapreso un viaggio verso il mare delle stelle il 13 febbraio 2023. (...) Diceva sempre: “Ci rivedremo in quel luogo dove le ruote del tempo si incrociano”. Noi crediamo in quelle parole e attendiamo con ansia quel giorno», ha scritto Makiko nell’annuncio della morte. Matsumoto «ha avuto una vita felice perché è stato in grado di continuare a disegnare storie come “mangaka”», ha aggiunto il suo agente. I funerali di famiglia si sono già svolti, ma è prevista l’organizzazione di un evento di commiato in data ancora da definire. Il «mangaka», il cui nome di nascita è Akira Matsumoto, era nato il 25 gennaio 1938 nella città di Kurume, nella prefettura di Fukuoka, nel sud-ovest dell’arcipelago giapponese.

La profezia di Matsumoto e il suo Capitan Harlock (che anticipò il presente). Il mondo del pirata dello spazio è globalizzato, senza ideali e nelle mani di potenti miopi. Vittorio Macioce il 21 Febbraio 2023 su Il Giornale.

Tanti e tanti anni fa, in un futuro remoto, che negli archivi dell'umanità è segnato come 1977, Akira «Leiji» Matsumoto immaginò il tempo verso cui ci stiamo inoltrando. Non era un sogno, ma una disgraziata distopia. La speranza era un capitano con una bandiera nera e un'astronave battezzata Arcadia.

Non ci sono più confini e neppure ricordi, ogni luogo si ripete senza alcuna differenza, prototipo dopo prototipo, e intorno è deserto. Quella che chiamano globalizzazione è arrivata al suo limite estremo e le risorse, dopo decenni di sfruttamento, sono ormai esaurite. Per sopravvivere si va a colonizzare altri pianeti, da depredare, scarnificare. È lì che vanno inviati tutti quelli che si muovono in direzione ostinata e contraria. La Terra è sotto il controllo di un governo centralizzato, dove i «migliori» non sono affatto illuminati. È una oligarchia miope e meschina, che giustifica il suo potere riproducendo norme su norme che puntano a regolamentare ogni aspetto della vita quotidiana. Non credono a nulla se non all'ossessione del potere per il potere, sostenuto dalla ricerca di un consenso ridanciano, così perbenista da risultare volgare. A votare va solo chi ha qualcosa da guadagnarci, una minoranza di clientes che tiene in piedi una democrazia vuota. Il lavoro non è più una preoccupazione. Lo fanno le macchine e buona parte della popolazione sopravvive grazie a un reddito universale, distribuito da una burocrazia grassa e capricciosa. Non ci sono più sogni, ideali, scopi da raggiungere. È una esistenza svogliata e pigra, dal divano alla mensa. L'importante è fare finta di essere sani, mostrando una illogica allegria. Se qualcuno prova dispetto o fastidio viene sedato da onde ipnotiche, simili a quelle che David Foster Wallace racconterà in Infinite Jest, diffuse da un carnevale di brevi video che si ripetono senza sosta. Chi si ribella al pensiero certificato viene considerato pazzo o fuorilegge. Tra questi c'è Capitan Harlock, anarchico, con una vocazione alla solitudine, che mette insieme una ciurma di cani sciolti. Sull'Arcadia salgono gli ultimi eroi del disincanto, gente che si ostina a salvare un mondo che non lo merita. Lo fanno per i morti, per quelli che non ci sono più, per un romanticismo da cappa e spada, perché nonostante tutto inseguono un ideale, per testardaggine o vendetta, per non lasciargliela vinta. Fino alla morte, come ricorda quel teschio sulla bandiera nera. Quando sulla Terra arriva un meteorite che nasconde l'invasione di una colonia di amazzoni, che ti dissolvono lo spirito, comincia l'avventura.

È una storia che entra nella testa di un ragazzino di undici anni e lo segna come un imprinting. È il 1979. La Rai ne acquista i diritti e lo manda in onda per meno di un anno. Qualcuno poi si accorge che è quasi sovversivo e lo oscura per «evidenti ragioni politiche». Resta quella sigla da canticchiare invecchiando: il suo teschio è una bandiera che vuol dire libertà. È la difesa di un mondo e di un tempo che non c'è più, dove buongiorno vuol dire veramente buongiorno. È la disperata ricerca di un futuro profondo, così profondo da non rinnegare se stessi. È l'universo di «Leiji» Matsumoto, un conservatore che sogna il futuro e che nelle sue opere, da Galaxy Express 999 a La corazzata Yamato, racconta la resistenza degli individui contro le masse.

Matsumoto se ne è andato, di nascosto, a 85 anni, il 13 febbraio 2023, al confine della sua profezia, guardandola negli occhi. Buon viaggio.

Morto Maurizio Scaparro, grande regista teatrale, dalla Biennale di Venezia al «Pulcinella» con Massimo Ranieri. Maurizio Porro su Il Corriere della Sera il 17 Febbraio 2023.

Aveva 90 anni, gli esordi come critico all'Avanti e la regia di opere liriche. Fu anche direttore del Teatro di Roma e dell'Eliseo

E' morto a Roma  a 90 anni Maurizio Scaparro, nato il 2 settembre del ’32, regista di teatro innamorato ogni sera del palcoscenico, docente, scrittore e direttore della Biennale di Venezia dal ’79 all’83, dove s’inventò il «Carnevale» (1980-1982) come ideale commistione di festa, spettacolo, teatro ed improvvisazione, geniale innovazione invano copiata in seguito. Fu uno di quei registi che rinnovarono il teatro dopo la guerra, interessato a creare nuovo pubblico con spettacoli d’arte per tutti, secondo l’insegnamento dell’amico Strehler. 

Operatore teatrale noto anche all’estero, Scaparro era da tempo assente dalle scene: aveva iniziato come critico, scrivendo ventenne sull’«Avanti!» e poi sulle riviste di settore «Maschere» e «Teatro Nuovo», ma già nel ’63 è chiamato a dirigere lo Stabile di Bologna, dove nel ’64 debutta regista in «Festa grande di Aprile». Il suo è un teatro che usa tutti i mezzi possibili per arrivare a quella famosa «illusion comique» che è il principio di appartenenza alla vasta platea di spettatori che credono nella specifica utopia del teatro e alle sue meraviglie. Ed è con un famoso e scandaloso titolo del Rinascimento, «La Venexiana», cavallo di battaglia di molte prime donne dalla Adani alla Moriconi, che si presenta il 26 giugno 1965 al Festival di Spoleto. Nella sua attività di regista, molto legato alla politica dei teatri stabili, amico di Paolo Grassi e del Piccolo, Scaparro firma più di 60 spettacoli di successo come l’intramontabile capolavoro «Memorie di Adriano» della Yourcenar con Giorgio Albertazzi, legandosi soprattutto a un bravo giovane attore, Pino Micol che con lui ha dipanato la sua carriera con titoli prodigiosi, dal «Cyrano» con Evelina Nazzari (figlia di Amedeo, poi sua moglie) all’«Amleto», alla «Lunga notte di Medea» con Irene Papas, e poi ancora, quando Scaparro divenne direttore del Teatro di Roma, «Il fu Mattia Pascal», «Vita di Galileo», «Il teatro comico» goldoniano con la Moriconi. 

Scaparro ha lavorato a lungo anche con Peppe Barra, con Mario Scaccia per “Chiccignola” su Petrolini, con Massimo Ranieri per «Pulcinella” (da un soggetto di Rossellini) valorizzando molti talenti della scena: con Ranieri allestì anche uno spettacolo fastoso dal titolo “Excelsior”. Un esperimento riuscito e multimediale (tra i primi) fu nel 1992 il “Don Chisciotte”, riduzione di Azcona e Kezich, con Micol, poi ridotto in film al cinema anche per la tv. E ancora l’amato e malinconico Goldoni di “Una delle ultime sere di Carnevale” (su questo autore e le sue Memorie ha scritto un libro) e il classico di Miller sull’America infelice della “Morte di un commesso viaggiatore”. 

Ma Scaparro fu, parallelamente al lavoro di regista, un abile organizzatore teatrale (Teatro Indipendente, Teatro popolare di Roma e gli Stabili di Bolzano e poi ancora della apitale, dal 1983 al 1990), quasi una doppia personalità ma con un unico scopo, andando anche all’estero (il settore spettacolo dell’Expo di Siviglia nel 92), mentre in Italia dirige l’ETI che controlla un circuito di sale, poi l’Olimpico di Vicenza e a Roma il famoso Eliseo, la storica sala di Visconti, dal 1997 al 2001. Di dichiarata simpatia socialista, fu inserito da Craxi fra i membri dell’Assemblea nazionale del PSI nel 1987. Lavorò molto anche per la tv allestendo testi di Wesker, Odets, Shaw, Flaubert e Pirandello e tra gli ultimi lavori in teatro “La coscienza di Zeno” di Svevo con Pambieri e “La pianista perfetta” di Manfridi.

Aveva 90 anni. È Maurizio Scaparro: addio al critico, regista e direttore artistico gigante del teatro. Antonio Lamorte su Il Riformista il 17 Febbraio 2023

Maurizio Scaparro era l’ultimo grande esponente del gruppo, di cui fu capostipite Giorgio Strehler col Piccolo di Milano, che nel dopoguerra fece nascere il teatro pubblico e la moderna regia in Italia come ricostruisce l’Ansa. È morto, a 90 anni, nella sua casa romana. Critico, regista, direttore artistico: un gigante del teatro.

Aveva cominciato come critico teatrale per giornali come L’Avanti. Aveva continuato con la fondazione, nel 1961, della rivista Teatro Nuovo. Divenne in seguito direttore artistico di diverse realtà teatrali, tra cui il Teatro Stabile di Bologna, il Teatro Stabile di Bolzano, il Teatro di Roma ed il Teatro Eliseo.

Continuava intanto la sua attività da regista, debuttando al Festival dei Due Mondi di Spoleto nel 1965 con La Venexiana, commedia di un anonimo del 500. È stato direttore, tra gli altri incarichi, nel periodo 1979-1983, del Festival Internazionale di Teatro all’interno della Biennale di Venezia.

Da regista aveva esordito nel 1983 con il Don Chisciotte tratto dall’omonimo romanzo di Cervantes, un adattamento a film per la tv, con Pino Micol nei panni del protagonista, affiancato tra gli altri da Peppe Barra e Evelina Nazzari.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

È morto Alberto Radius: grande chitarrista con i Formula 3 e grande amico di Battisti, aveva 80 anni. Matteo Cruccu su Il Corriere della Sera il 16 Febbraio 2023.

Si è spento a Roma il musicista che aveva segnato un’epoca con i Formula 3

Fu grande amico di Battisti, ma soprattutto virtuoso della chitarra, coi Formula 3, da solo, per altri: si è spento a 80 anni nella sua Roma, Alberto Radius come ha comunicato la famiglia. Altri come i Coma— Cose per dire, la nuova coppia glamour, del pop italiano, che aveva accompagnato nel 2021 a Sanremo.

Da open.online il 16 febbraio 2023.

Alberto Radius, storico chitarrista rock italiano, è morto oggi all’età di 80 anni. Portano la sua firma alcuni dei brani più celebri di Lucio Battisti, con cui ha condiviso un percorso musicale fin dagli anni Cinquanta. «È con profondo dolore e tristezza che la famiglia del maestro Alberto Radius condivide la notizia della sua scomparsa. Dopo una lunga malattia, si è spento serenamente, accanto ai suoi affetti più cari», ha comunicato oggi la famiglia del chitarrista con una nota.

 L’ultima apparizione pubblica di Radius è a Sanremo nel 2021 a fianco dei Coma_Cose. Storica anche la sua amicizia con Gianluca Grignani, che oggi ha descritto Radius come «il mio mentore, il mio amico, la mia fonte di ispirazione». «I ricordi riaffiorano nella mente – ha aggiunto l’artista -, momenti di vita e di musica vissuti insieme. Solo qualche mese fa eri qui in studio a stringermi durante l’ascolto di Quando ti manca il fiato… ed ora è proprio uno di quei momenti in cui il fiato manca davvero».

La carriera di Alberto Radius, nato a Roma nel 1942, inizia verso la fine degli anni Cinquanta nelle sale da ballo romane insieme alla sua band, i White Booster. Dopo una breve pausa per la leva militare, il chitarrista inizia ad affiancare i fratelli Gigi e Franco Campanino nel loro tour in giro per l’Italia. Dopo quell’esperienza, Radius decide di trasferirsi a Milano e inizia a suonare con i futuri membri della Premiata Forneria Marconi. Con il rientro del primo chitarrista, Franco Mussida, Radius abbandona la band. Ed è in quel periodo che conosce Lucio Battisti, che affiancherà per quasi tutta la sua carriera. Da lì, il percorso musicale di Radius è ormai avviato e lo porterà a collaborare con artisti del calibro di Cristiano Malgioglio, Milva, Franco Battiato e Gianluca Grignani.

Estratto dell'articolo di Marinella Venegoni per “La Stampa” il 17 febbraio 2023.

Quella schitarrata con la quale apriva Eppur mi son scordato di te e faceva salire la pressione anche agli anemici è ancora oggi, 52 anni dopo, la più iconica nella piccola storia del rock italiano. L'ispiratore era naturalmente Jimi Hendrix, ma nel suo arco geografico a coltivare con sapienza quella musica del cuore di anni ruggenti è stato a lungo Alberto Radius, che ci ha lasciati ieri a 80 anni ancora da compiere nella sua casa di San Colombano al Lambro, al termine di un lungo percorso doloroso come ha annunciato la famiglia.

Radius era davvero un maestro del genere, la chitarra senza frontiere: il suo stile è rimasto un marchio di fabbrica, immediatamente riconoscibile nel lungo tempo della sua storia, che affonda in momenti leggendari firmati Lucio Battisti e in un momento topico come l'esplosione del progressive, del quale il divino Lucio finì per invaghirsi all'epoca.

Con Tony Cicco e Gabriele Lorenzi, Radius aveva fondato nel 1969 la Formula 3, un trio scintillante di invenzioni, che inevitabilmente era caduto alla fondazione nel cerchio dell'etichetta più cool del momento, la Numero Uno di Giulio Rapetti Mogol e Lucio Battisti. Fu amore a prima vista, con l'atterraggio di Lucio come compositore in tali territori sonori, e naturalmente i testi di Mogol.

 Tra l'altro, un incredibile momento creativo della coppia, che dal giro del decennio aveva attinto nuove ispirazioni, e con la nuova etichetta dopo l'abbandono della Ricordi trovò un'energia che riempì di successi il canzoniere italiano.

È loro Eppur mi son scordato di te, e sempre da loro sono firmati altri successi del Trio come Questo folle sentimento o Io ritorno solo, La folle corsa o Nessuno nessuno che durava 11 minuti e persino l'oscura Mi chiamo Antonio Tal dei Tali e lavoro ai mercati generali (anche la musica, al tempo, si occupava ancora del popolo): pezzi visionari che ne fecero in breve tempo i beniamini nei jukebox dell'epoca, grazie alla qualità e all'intensità dei suoni che attingeva l'ispirazione nel filone progressive, ma con un deciso marchio di originalità di spessore internazionale che era dovuto proprio alle intuizioni di Radius e al suono deciso e virtuoso della sua chitarra. Fu nel 1970 che la Formula 3 diventò il primo e unico gruppo con il quale Battisti suonò in tour: successe dopo il famoso viaggio a cavallo di Mogol e Battisti, alla fine dell'estate, con date a Rimini, a Marina di Pietrasanta e nel locale di Gino Paoli a Sestri Levante. In pratica, risulta esser stato quello l'ultimo tour di Battisti.

(...) Nel 1973 però l'avventura della Formula 3 finisce, la Numero 1 con Mogol in testa, vuol dar vita con Lavezzi e Radius al gruppo Il Volo, e 4 anni dopo, alla chiusura dell'esperienza, incide due Lp personali di rilievo, Che cosa sei e Carta straccia; eccolo poi turnista di lusso accanto a Battisti, Battiato e personaggi a lui vicini come Giuni Russo, Milva e Giusto Pio.

 Collaborerà perfino con Marcella Bella e Cristiano Malgioglio. Con la sua abituale passione ed energia, aprirà a fine ‘70 uno studio di registrazione, scriverà successi per vari artisti e farà ospitate tv, l'ultima delle quali sarà nella serata dei duetti accanto ai Coma_Cose, nel 2021 con Il mio canto libero.

Il gioco è fatto, il brano diventa un classico, ma un classico insolito, con guizzi che non appartengono alla canzone italiana. Ha un sapore internazionale, accoglie i suggerimenti della musica che sta cambiando, è l'aria di Woodstock, con quella chitarra che ha ascoltato Jimi Hendrix.

 Marco Molendini per Dagospia il 18 febbraio 2023.

«Mi ritorni in mente/ bella come sei/forse ancor di più...»: L'inizio è melodico, struttura tradizionale poi, all'improvviso, il salto. «Ma c'è qualcosa che non scordo/ c'è qualcosa che non scordo...» e il brano cambia, diventa rock, irrompono dei fiati che ricordano frasi alla Detroit sound.

 Più avanti arriva il verso: "Quella sera ballavi insieme a me e ti stringevi a me" e si sente una chitarra che geme, emette suoni distorti, psichedelici. Senza l'amicizia, la collaborazione profonda con Alberto Radius, Mi ritorni in mente, uno dei manifesti di Lucio Battisti, non sarebbe stata la stessa cosa.

Quei fiati sono una sua idea, nata dopo aver ascoltato in un locale milanese la band beat italo-canadese Chriss and the Stroke (presenti anche in Acqua azzurra, acqua chiara). E, quei gemiti della chitarra, sono frutto di un improvviso lampo del chitarrista: mentre Lucio canta, Alberto afferra un bicchiere e lo fa scorrere sulle corde emettendo quei suoni acidi.

 Il gioco è fatto, il brano diventa un classico, ma un classico insolito, con guizzi che non appartengono alla canzone italiana. Ha un sapore internazionale, accoglie i suggerimenti della musica che sta cambiando, è l'aria di Woodstock, con quella chitarra che ha ascoltato Jimi Hendrix.

 E, quelle distorsioni, si ascoltano anche in Il tempo di morire, quando a metà pezzo l'estro inatteso di Radius comincia a tormentare il suo strumento emettendo gemiti. Ma tutto il brano è un duetto, voce e chitarra, una chitarra che fa da tappeto ritmico allo scandire delle parole fin dall'inizio. «Motocicletta, dieci hp...» è la perfetta coniugazione dello stile battistianmogoliano che si sublima nella frase ripetuta, tutta sincope: «Non dire no, non dire no, non dire no». Suoni acidi, non rari, che si fanno sentire spesso, come nel controcanto stridente di Acqua azzurra acqua chiara.

Dura tre anni la collaborazione di Battisti e Radius, tre anni tumultuosi, che segnano l'affermazione assoluta di Battisti. Anni vissuti in gran parte in studio, a lambiccarsi con l'amico, inventare, sperimentare, trovare soluzioni inedite, ispirarsi. Lucio, che suona la chitarra da amatore, fa sentire le sue idee dando piena libertà di realizzazione: «Io penso alla musica, tu pensa ai suoni» suggeriva. E i suoni per Lucio erano tutto, il segreto della sua musica. Spesso il segreto di tutta la musica migliore.

E Radius pensava ai suoni, facendo appello alla perizia tecnica, inserendo intuizioni frutto dei suoi ascolti dei prodigi delle sei corde. Si trovano e sono simili, per certi versi.

 Entrambi adorano la clausura dello studio e entrambi hanno un carattere schivo. Con Battisti, quel carattere, è diventato un mistero che si è prolungato oltre la vita (a casa sua, custoditi gelosamente dalla moglie ci sarebbero, si dice, migliaia di provini ultimati), con Radius la riservatezza si è trasformata in una caratteristica di vita, talento spontaneo e silenzioso che vuole suonare, non apparire, magari stare un passo indietro come è capitato con Battisti e come è capitato con Franco Battiato.

Si erano conosciuti da ragazzini a Roma. Lucio già scribacchiava canzoni, Alberto era un allievo di Enrico Ciacci, il fratello chitarrista di Little Tony. Si trovavano la domenica pomeriggio vicino a piazza Cavour dove c'era il Bar dei professionisti, luogo di incontro di studenti e boy band che scimmiottavano il rock and roll d'importazione. Si sono rivisti una quindicina d'anni dopo a Milano, già avviati alla professione. Battisti stava aprendo la Numero Uno con Mogol, Radius già un buon chitarrista di studio (fra le altre cose aveva registrato l'intro di Nel sole di Al Bano mille miglia lontano da lui).

 L'incontro è di quelli fatali. Radius e la Formula tre diventano il primo gruppo a incidere per l'etichetta di Battisti e Mogol (con Questo folle sentimento). E la Formula 3 è il gruppo che accompagna Lucio nel suo primo e unico tour, una ventina di date.

Battisti capisce che Radius è il colpo di cui aveva bisogno per mettere definitivamente a punto la sua ricetta musicale, il musicista che arriva dove lui non può arrivare per motivi tecnici. Così la fabbrica prende ritmo, sforna pezzi su pezzi. E sono innumerevoli quelli dove Radius è presente, anche anche quando non suona: Lucio lo vuole sempre vicino per qualche consiglio. Ed è Battisti a fargli registrare il primo album solista, Radius (1972) raduno della front line del nuovo rock italiano con Demetrio Stratos, Giulio Capiozzo e Patrick Djivas, da cui sorge l'idea di fondare gli Area.

È morto Alberto Radius, grande chitarrista e leader dei Formula 3. A cura della redazione Spettacoli su La Repubblica il 16 Febbraio 2023.

È morto Alberto Radius, aveva 80 anni. Radius era uno dei più grandi chitarristi italiani del rock progressivo. Celebre il suo rapporto con Lucio Battisti, una lunga carriera musicale iniziata negli anni 50. Ultima apparizione pubblica a Sanremo nel 2021 a fianco dei Coma_Cose.

"È con profondo dolore e tristezza che la famiglia del maestro Alberto Radius condivide la notizia della sua scomparsa. Dopo una lunga malattia, si è spento serenamente, accanto ai suoi affetti più cari. La famiglia del maestro Radius chiede, in questo difficile momento, che sia rispettata la privacy che lo ha sempre contraddistinto", è quanto comunica la famiglia.

Gli inizi

Alberto Radius era nato a Roma il primo giugno del 1942. La sua carrierà iniziò verso la fine degli anni cinquanta con i White Booster, una band con cui si esibiva nelle sale da ballo. In seguito fece parte per due anni dell'orchestra di Mario Perrone.

Dopo una pausa per il servizio militare iniziò a esibirsi nei club di varie città italiane insieme ai due fratelli Gigi e Franco Campanino, con i Campanino, complesso (come si diceva all'epoca) che apre nel 1965 alcune serate dell'Equipe 84.

Con la Pfm

Si trasferì quindi a Milano, dove suonò con gli inglesi Simon & Pennies per passare poco dopo con i Quelli (la band che successivamente diverrà la Pfm Premiata Forneria Marconi), dove venne chiamato per sostituire Franco Mussida impegnato a svolgere il servizio di leva. Con questo gruppo Radius incise le prime canzoni e sviluppò un suo personale modo di suonare la chitarra.

L'incontro con Battisti

Con il rientro di Mussida, lasciò la formazione e, insieme con Tony Cicco e Gabriele Lorenzi fondò la Formula 3. Dopo l'incontro con Lucio Battisti, la band debuttò con l'etichetta appena fondata dal cantautore, la Numero Uno, incidendo un brano dello stesso Battisti, Questo folle sentimento, che si piazzò al quinto posto della classifica dei dischi singoli più venduti in Italia.

Il primo album Dies irae è del 1970 ed è proprio il suono della chitarra di Radius a costituire la trama dell'album. Il chitarrista, pur continuando la sua attività con la band, due anni dopo incise il primo album da solista, Radius. Alla realizzazione del progetto contribuirono alcuni celebri strumentisti del rock italiano degli anni settanta tra cui Demetrio Stratos, Giulio Capiozzo, Patrick Djivas (che poco dopo daranno vita agli Area), Franz Di Cioccio e Giorgio Piazza della Premiata Forneria Marconi, Gianni Dall'Aglio e Vince Tempera.

Nel 1974, dopo lo scioglimento dei Formula 3, Radius - insieme a Mario Lavezzi (ex Camaleonti e Flora Fauna & Cemento), Vince Tempera, Gianni Dall'Aglio (ex Ribelli), Bob Callero e all'altro ex Formula 3 Gabriele Lorenzi - fonda una nuova band, Il Volo, che incide due album e che si caratterizza per le sonorità mediterranee.

Dopo lo scioglimento de Il Volo, nel 1976, Radius incide il suo secondo album solista, Che cosa sei, che segna una svolta musicale nella sua carriera.

L'anno successivo esce il suo album di maggior successo, Carta straccia, grazie soprattutto a Nel ghetto. In contemporanea comincia un'intensa carriera di session man che lo vede al fianco dei maggiori cantanti italiani, tra cui Lucio Battisti, Mino Di Martino, Marcella Bella, Goran Kuzminac, Pierangelo Bertoli, Cristiano Malgioglio, Franco Battiato e dei vari artisti con cui ha lavorato il cantautore siciliano in quel periodo: Alice, Milva, Sibilla, Giusto Pio e Giuni Russo, di cui a volte è stato anche produttore. Nel 1978 aprì lo Studio Radius, in cui inciderà i suoi album successivi.

Le reazioni

"Addio Amico mio...mi mancherai ...fai Buon Viaggio", scrive su Facebook Ricky Portera, chitarrista e fondatore con Gaetano Curreri degli Stadio.

Raquel Welch, morta l'attrice e sex symbol americana: aveva 82 anni. Il Tempo il 15 febbraio 2023

È morta all'età di 82 anni Raquel Welch, attrice icona e sex symbol internazionale. Ad annunciarlo il sito statunitense Tmz secondo quanto riferito dai familiari. L'attrice, che ha fatto sognare intere generazioni di appassionati di cinema, era considerata tra le più grandi sex symbol del cinema hollywoodiano tra gli anni Sessanta e Settanta. Due nomination ai Golden Globe e la vittoria nel 1975 come migliore attrice in un film commedia o musicale per il ruolo di Costanza Bonacieux ne “I tre moschettieri”. Welch è morta dopo una breve malattia. 

Marco Giusti per Dagospia il 16 febbraio 2023.

Magari non era una grande attrice. Ma dalla seconda metà degli anni ’60 fino ai primi anni ’70, cioè da “Un milione di anni fa” di Don Chaffey, il film che la lanciò in tutto il mondo, a “Il caso Myra Breckinridge” di Michael Sarne, il film che la distrusse, Raquel Welch, per noi ragazzi cresciuti col cinema classico di Hollywood e ormai pronti a lasciar tutto per la New Hollywood e il cinema europeo, fu l’ultima grande star.

 Glielo disse anche il suo secondo marito e agente, Pat Curtis, la prima volta che la vide. “Wow! Tu sei una movie star”, non un’attrice. E fu lui a farne una icona incredibile del tempo ancor prima che la si vedesse in qualche film.

Poco più che ventenne, con un fisico che ancora tutti ricordiamo (i du’ chiodi di Manuel Fantoni…), i giornali riportano i numeri del suo corpo, 37-22-35, Raquel Tejada di La Jolla, California, con padre boliviano e madre irlandese, è chiamata in Inghilterra a sostituire Ursula Andress sul set di “Un milione di anni fa” di Seth Holt, cavernicolo della Hammer Film con i dinosauri che si muovono a passo uno ideati da Ray Harryhausen.

 Fu la stessa Ursula, stanca di ruoli assurdi e troppo legata. Belmondo, a indicare lei come sua sostituta. Il più bel corpo di Hollywood. Dopo Ursula, certo. Quel che deve fare non è altro che mostrarsi vestita da cavernicola in bikini di pelle di non so cosa con due scarponi di pelliccia ai piedi. Bastano un paio di foto per eccitare tutto il mondo maschile più o meno etero.

 E’ probabilmente Pat Curtis a metterla vestita così in croce in una foto ritenuta blasfema e a farne, ancor prima che il film esca la star più invitata e fotografata d’Inghilterra. Al punto che si vede solo lei sui giornali alla prima inglese di “Il volo della Fenice” di Robert Aldrich con James Stewart e all’evento voluto dalla Regina, il Royal Film Performance, che raduna star del calibro di Rex Harrison, Peter O’Toole, Omar Sharif, Julie Christie, Ursula Andress. Sugli otto giornali inglese lei riceve otto foto da prima pagina.

 “E’ cominciato tutto quando sono venuta in Inghilterra per Un milione di anni fa”, dirà poco dopo, “sembrava che non si potesse lanciare un evento senza chiamarmi”. Eppure nessuno l’ha ancora vista recitare. Ha però un contratto con la Fox, che l’ha voluta protagonista con Stephen Boyd dello stravagante “Viaggio allucinante” di Richard Fleischer, dove fa parte dei medici rimpiccioliti che navigano dentro il corpo di un uomo e indossa una tutina che lascia vedere molto, e che produce “Un milione di anni fa”, film che vedemmo uno dopo l’altro.

E intanto arriva in Italia per girare un film con Marcello Mastroianni, l’attore più cool del momento, “Spara forte, più forte… non capisco”, diretto da Eduardo De Filippo, che fu un disastro mai visto, stroncato dai critici americani, un episodio di “Le fate” diretto da Mauro Bolognini con Jean Sorel. Ma gira anche un film di grandi colpi da noi, “Colpo grosso alla napoletana” di Ken Annakin con Robert Wagner, che prese il posto di Warren Beatty, Vittorio De Sica, Edward G. Robinson, che vedemmo due anni dopo la lavorazione.

In Italia, Dino De Laurentiis le ha offerto nel 1966 il ruolo di Giuseppina in "Waterloo" a fianco di Richard Burton e Peter O'Toole come Napoleone e Nelson. Ma non se ne farà nulla. Eravamo troppo piccoli, invece, per vederla nelle scarse vesti della diavolessa che turba Dudley Moore in “Il mio amico il diavolo” di Stanley Donen, o come prostituta della Belle Epoque nel suo episodio di “L’amore attraverso i secoli" diretta da Michael Pfleghar.

 Al di là della riuscita dei film, il suo culto nasce e si sviluppa interamente in Europa. “Non sono io espatriata”, dice nelle interviste, “è il cinema americano che espatria”. I suoi film americani, girati chissà quando, sono parecchio deludenti, come “Fathom, bella, intrepida e spia” di Leslie Martinson con Tony Franciosa, o il polveroso western “Bandolero” di Andrew McLaglen con James Stewart e Dean Martin, o il giallo “La signora nel cemento” di Gordon Douglas con Frank Sinatra, dove non la smette mai di entrare e uscire dalle piscine in bikini.

Funziona meglio in Europa, dove si fa davvero il cinema. E qui funziona non come attrice, ma come Raquel Welch che fa Raquel Welch. Lo sapevamo tutti, del resto. Fa faville nel western girato in Almeria “El verdugo” o “100 Rifles” di Tom Gries, grazie a due scene chiave. Quando si fa la doccia vestita di una sola camicia per eccitare gli uomini della ferrovia. E quando si scopa Jim Brown, in una delle prime scene di sesso tra un nero e una bianca che sia mai stata girata dagli americani.

 Lo stesso Jim Brown racconterà con molti particolari la scena di sesso con Raquel. Nel tentativo di muoversi verso una direzione diversa rispetto al cinema classico, accetta il ruolo della protagonista, già uomo, nel disastroso, ma innovativo “Myra Breckinridge”, un progetto dei due giovani produttori della Fox, Richard Zanuck, figlio del potente Darryl, e David Brown tratto dal romanzo di Gore Vidal. Affidato alla regia prima di Bud Yorkin, che avrebbe voluto usare il copione dello stesso Vidal, poi del giovane inglese Michael Sarne, che per la Fox aveva girato il curioso “Joanna”, e usa il copione di David Giler, si rivela un flop sotto ogni livello, anche se recupera accanto a Raquel Welch sia John Huston che la divina Mae West nel suo ritorno ala cinema dopo anni di assenza.

Sarne, malgrado i tanti disastri nati sul set, non poteva essere contestato a causa del contratto che ne prevedeva la rimozione solo a riprese ultimate, e era sostenuto da Zanuck jr nella sua personale lotta contro il potente padre Darryl. Il film verrà massacrato non solo da tutti i critici americani, ma anche da Gore Vidal e impedirà a Raquel Welch quella svolta moderna verso la New Hollywood che lei si aspettava.

 A parte qualche caso particolare nei primi anni ’70, penso a “La texana e i quattro fratelli Penitenza” di Burt Kennedy dove fece scalpore il suo look di pistolera nuda che sotto il poncho indossava solo il cinturone con la pistola, la sua Milady del suo dittico “I tre moschettieri” e “Milady” con la regia di Richard Lester, o “Party selvaggio” di James Ivory, non riuscirà di fatto a uscire dal suo personaggio di star, di Raquel Welch che interpreta Raquel Welch.

Morta Raquel Welch, l’icona che stregò il mondo con un bikini di pelle. Alberto Crespi su La Repubblica il 16 Febbraio 2023.

L'attrice aveva 82 anni

Si chiamava Jo Raquel Tejada. Era nata a Chicago nel 1940, da un padre boliviano che aveva un nome degno dell’anagrafe di Totò (Armando Carlos Tejada Urquizo) e faceva l’ingegnere aeronautico; e da una madre, Josephine Sarah Hall, di origine inglese, discendente di un passeggero del Mayflower. Forse per questo era così bella. Il meticciato, si sa, è vincente.

Estratto da repubblica.it il 15 febbraio 2023.

Jo Raquel Tejada, questo il vero nome dell'attrice è diventata famosa per i suoi ruoli in Viaggio allucinante e Un milione di anni fa, entrambi del 1966. Nel secondo film, in particolare, Welch aveva solo una manciata di battute, ma fu il suo look - un bikini semplice e succinto in pelle di daino - che la fece diventare un sex symbol.

 Da lì l'attrice esplose facendola diventare una delle star femminili più ambite negli anni 60 e 70 portandola ad ottenere un Golden Globe come migliore attrice per il ruolo di Costanza Bonacieux in I tre moschettieri, del 1974.

 La rivista Empire nel 1995, la definì come una delle "100 star più sexy nella storia del cinema". Playboy la mise al terzo posto delle "100 star più sexy del 20esimo secolo". Nel 1975 è apparsa in The Cher show e ha interpretato il brano I'm a woman con Cher.

 Gli inizi

Nata a Chicago, nell'Illinois, da padre boliviano, si trasferì con la famiglia all'età di due anni in un sobborgo di San Diego, in California. Studiò danza e iniziò a partecipare a numerosi concorsi di bellezza.

Welch esordì come attrice a 24 anni, in piccole parti, nel 1964 nei film Madame P... e le sue ragazze di Russell Rouse, con protagonisti Shelley Winters e Robert Taylor, e al fianco di Elvis Presley in Il cantante del luna park di John Rich, ma dopo alcune esperienze televisive, come Il virginiano e Vita da strega, sempre del 1964, entrò nell'immaginario delle generazioni degli anni sessanta per il ruolo della prosperosa Loana in Un milione di anni fa di Don Chaffey.

 La carriera

L'attrice è riuscita a farsi apprezzare anche come interprete in ruoli intensi o drammatici, ottenendo due nomination ai Golden Globe e vincendolo come migliore attrice nel già citato I tre moschettieri diretto da Richard Lester, con un cast stellare che comprendeva Richard Chamberlain, Oliver Reed, Charlton Heston, Christopher Lee e Faye Dunaway.

Visto il successo della pellicola, nel 1974 Welch interpretò ancora la parte nel sequel Milady, diretto nuovamente da Lester. Negli anni successivi l'attrice ha recitato in Party selvaggio (1975) di James Ivory, Il principe e il povero (1977) di Richard Fleischer e L'animale (1977) di Claude Zidi, al fianco di Jean-Paul Belmondo.

 Nel 1987 ottenne la seconda nomination al Golden Globe come miglior attrice in una mini-serie o film per la televisione con Quando morire di Paul Wendkos, questa volta senza vincere il premio.

 La vita privata

Raquel Welch ha avuto quattro mariti: James Welch (dal '59 al '64), dal quale divorziò dopo avere avuto due figli, una dei quali è l'attrice Tahnee Welch, nata nel 1961 e Damon Welch. Il secondo marito fu Patrick Curtis (dal '67 al '72), Andre Weinfeld (dal 1980 al 1990) e Richard Palmer (dal 1999 al 2004).

Aveva 82 anni. È morta Raquel Welch: addio all’attrice americana, icona e sex symbol di Hollywood. Antonio Lamorte su Il Riformista il 16 Febbraio 2023

Raquel Welch divenne una “sex symbol” grazie al ruolo di una donna preistorica. Era il 1964 quando uscì Un milione di anni fa di Don Chaffey e la vita  dell’attrice sarebbe cambiata per sempre: sarebbe da quel momento entrata nell’immaginario collettivo come un’icona, sex symbol di Hollywood. È morta, l’attrice statunitense, a 82 anni, a Los Angeles, dopo una breve malattia. A dare la notizia il sito di gossip Tmz, che ha appreso la notizia dalla famiglia.

Era nata a Chicago il 5 settembre 1940, all’anagrafe Jo Raquel Tejada. Aveva esordito nel 1964, a 24 anni, in Madame P … e le sue ragazze di Russel Rouse con Shelley Winters e Robert Taylor e con Elvis Presley in Il cantante del luna park di John Rich. Lo stesso anno la svolta di Un milione di anni fa e alcune comparsate televisive. Proprio la sua fisicità, la sua prorompente bellezza, divenne una sorta di limite alla sua carriera per qualche tempo.

Welch era diventata una sex symbol, ruolo confermato ed esaltato ulteriormente con le performance in Fathom: bella, intrepida e spia di Leslie H. Martison, e in Il mio amico il diavolo di Stanley Donen. Riuscì comunque a confrontarsi con diversi generi, come la fantascienza in Viaggio alluccinante, e la commedia come Spara più forte … non capisco! di Eduardo De Filippo, Le fate di Mauro Bolognini e Colpo grosso alla napoletana di Ken Annakin.

E poi ancora il poliziesco de La signora nel cemento di Gordon Douglas e L’implacabile omicida di James Neilson, e il western di Bandolero! di Andrew V. McLaglen e La texana e i fratelli Penitenza di Burt Kennedy. L’icona degli anni Sessanta e Settanta riuscì a farsi apprezzare anche come interprete in ruoli intensi o drammatici, ottenendo due nomination ai Golden Globe e vincendolo come migliore attrice in un film commedia per il ruolo di Costanza Bonacieux nella pellicola I tre moschettieri (1973) diretto da Richard Lester, con un cast stellare che comprendeva Richard Chamberlain, Oliver Reed, Charlton Heston, Christopher Lee e Faye Dunaway.

Dopo il successo di quel film, Welch interpretò nel 1974 il sequel Milady. La seconda nomination al Golden Globe arrivò nel 1987, come miglior attrice in una mini-serie o film per la televisione con Quando morire di Paul Wendkos. Welch recitò anche nel grottesco … e tutto in biglietti di piccolo taglio di Richard A. Colla, in coppia con Burt Reynolds, e in Barbablù di Edward Dmytryk, con protagonista Richard Burton. In Il caso Myra Breckinridge ha interpretato una donna trans.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

(ANSA il 13 febbraio 2023) - David Jolicoeur, membro del trio hip hop De La Soul, noto anche con il suo nome d'arte 'Trugoy the Dove', è morto all'età di 54 anni. Lo riferiscono i media americani. La rivista specializzata AllHipHop è stata la prima a pubblicare la notizia, successivamente confermata da Rolling Stone e Pitchfork.

 Le cause della morte di Jolicoeur rimangono sconosciute al momento. Negli ultimi anni Trugoy aveva parlato pubblicamente dei suoi problemi di insufficienza cardiaca e aveva detto che questi gli avevano impedito di andare in tour con gli altri membri del trio, Posdnuos e Maseo.

Il gruppo hip hop, precursore nel suo genere, si è formato nel 1988 ad Amityville, Long Island. Sono noti per le loro campionature eclettiche, il loro uso di giochi di parole e soprattutto per la loro influenza all'interno della scena hip hop alternativa, in particolare sull'ascesa del jazz rap.

È morto David Jolicoeur, con il nome d’arte Trugoy the Dove fondò il trio hip hop De La Soul. Storia di Paolo Foschi su Il Corriere della Sera il 13 febbraio 2023.

David Jolicoeur, del trio hip hop De La Soul, noto anche con il nome d’arte «Trugoy the Dove», è morto all’età di 54 anni. Lo rendono noto i media statunitensi. A dare per prima la notizia è stata la rivista specializzata All HipHop, poi confermata da Rolling Stone e Pitchfork.

Non si conoscono le cause della morte. Negli ultimi anni, Trugoy aveva raccontato di avere problemi di cuore che gli avevano impedito di andare in tournée con gli altri membri del trio Posdnuos e Maseo. Il gruppo hip hop pionieristico si è formato nel 1988 ad Amityville, a Long Island. Il trio è noto per le sperimentazioni e i giochi di parole, caratteristiche che hanno influenzato la scena hip hop alternativa degli ultimi anni e il jazz rap. Il trio faceva parte della scena rap della East Coast degli Stati Uniti, e la sua immagine era quella di un gruppo positivo e scanzonato, in contrasto con lo stile gangstar rap della West Coast.

La musica dei De La Soul nel 2020 era stata portata a Roma, al Coropuna, nell’ambito della rassegna Hip Hop in the Jungle, dal dj Maseo, uno dei tre componenti della band, come raccontato da Maria Egizia Fiaschetti sul Corriere della Sera.

Usa, trovato morto l'attore Cody Longo. Aveva 34 anni, circostanze del decesso da chiarire. Popolare anche in Italia per la serie 'Hollywood Heights - Vita da popstar' trasmessa da Mtv. Era in Texas e la moglie non riusciva a contattarlo. La polizia lo ha trovato senza vita. Combatteva da anni contro droga e alcol. La Repubblica l’11 Febbraio 2023.

E' morto Cody Longo, attore protagonista della serie tv 'Hollywood Heights - Vita da popstar', trasmessa in Italia da Mtv. Longo aveva 34 anni. La notizia è stata confermata al 'New York Post' dalla moglie. Longo interpretava il ruolo della rock star Eddie Duran, che finiva per innamorarsi di una ragazza, Loren Tate, l'attrice Brittany Underwood. "Cody - ha commentato la moglie, Stephanie - era tutto il nostro mondo. I bambini e io siamo a pezzi e oltre l'essere devastati. E' stato il padre migliore. Ci mancherà per sempre".

Longo lascia una bambina di 7 anni, un figlio di cinque e il terzo di appena un anno. Non è ancora chiaro come l'attore sia morto. La moglie, che non era riuscita a contattarlo, aveva allertato la polizia, perché verificasse che Cody, che si trovava a Austin, in Texas, stesse bene. Quando gli agenti hanno bussato alla porta, non hanno avuto risposta, allora hanno deciso di forzare l'ingresso e lo hanno trovato morto, nel letto.    

Secondo membri della famiglia, l'attore combatteva da anni problemi legati all'alcol e alla droga. In estate era andato in un centro per disintossicarsi. Nel novembre del 2020 Longo era stato arrestato per violenze domestiche, dopo una lite con la moglie. Quello era stato l'anno in cui aveva finito di essere chiamato a recitare. Fino ad allora aveva contato su parecchie partecipazioni a serie tv, da 'Csi' a 'Nashville'.

È morto Hugh Hudson, il regista di Momenti di gloria aveva 86 anni. Redazione Online su Il Corriere della Sera il 10 Febbraio 2023.

Hudson è morto all’ospedale di Charing Cross il 10 febbraio dopo una breve malattia

Il regista Hugh Hudson, che ha diretto il film premio Oscar Momenti di gloria (Chariots of Fire), è morto a Londra, all’età di 86 anni a seguito di una breve malattia. Una dichiarazione rilasciata a nome della sua famiglia afferma: «Hugh Hudson, 86 anni, amato marito e padre, è morto all’ospedale di Charing Cross il 10 febbraio dopo una breve malattia. Gli sopravvivono sua moglie, Maryam, suo figlio, Thomas, e la sua prima moglie, Sue». Lo riporta il britannico Guardian.

Nigel Havers, che ha recitato nel celebre film del 1981, ha dichiarato: «Sono oltremodo devastato dalla morte del mio grande amico Hugh Hudson, che conosco da più di 45 anni. Chariots of Fire è stata una delle più grandi esperienze della mia vita professionale e, come tanti altri, devo molto di ciò che è seguito a lui. Mi mancherà molto».

Addio a Hugh Hudson, il regista di "Momenti di gloria". Il regista, vincitore di 4 premi Oscar, è morto all’età di 86 anni. All’inizio della sua carriera si era dedicato alla realizzazione di alcuni documentari. Valentina Dardari l’11 Febbraio 2023 su Il Giornale.

Lutto nel mondo del cinema per la morte del regista britannico Hugh Hudson che nel 1981 aveva diretto il suo primo film di grande successo "Chariots of fire”, "Momenti di gloria”. Il regista, vincitore di quattro Premi Oscar, è morto ieri al Charing Cross Hospital di Londra all'età di 86 anni dopo una breve malattia. L'annuncio della sua scomparsa è stato dato dalla sua famiglia attraverso un comunicato dove viene ricordato "l'amato marito e padre". Hudson lascia la moglie, l'attrice Maryam d'Abo, il figlio Thomas e la prima moglie, la pittrice Susan Michie.

Il suo maggior successo

La pellicola del 1981, che è considerata il maggior successo del regista grazie alla riuscita commistione di storia, sport e introspezione, ha vinto 4 Premi Oscar alla 54esima edizione degli Academy Awards nel 1982 per il miglior film, per la colonna sonora originale (composta da Vangelis), per la migliore sceneggiatura (di Colin Welland) e per i costumi (Milena Canonero). Il film, tramite dei flashback, racconta la storia romanzata di Eric Liddell (Ian Charleson) e Harold Abrahams (Ben Cross), due velocisti britannici, uno scozzese e l'altro inglese, che presero parte alle Olimpiadi di Parigi del 1924.

Hudson, nato a Londra il 25 agosto 1936, aveva inizialmente lavorato alla realizzazione di alcuni documentari, tra i quali "Fangio - Una vita a 300 all'ora" del 1980, e di apprezzati spot pubblicitari. La svolta nella sua carriera è arrivata poi nel 1981 quando ha diretto la sua prima pellicola. Grazie al successo di "Momenti di gloria", Hudson è tornato alla regia con "Greystoke - La leggenda di Tarzan, il signore delle scimmie" del 1984, tratto dal romanzo "Tarzan delle Scimmie di Edgar Rice Burroughs" e interpretato da Christopher Lambert nei panni di Tarzan/John Clayton III e da Andie MacDowell (Jane), e "Revolution" del 1985, ambientato nel 1776 a New York quando viene abbattuta la statua di Giorgio III d'Inghilterra. Hudson ha diretto anche due film presentati al Festival di Cannes: "Lost Angels" nel 1989 e "Sognando l'Africa" nel 2000 con Kim Basinger, la storia autobiografica della scrittrice Kuki Gallmann, nata Maria Boccazzi.

Il ritorno ai documentari

Nel 2011 era quindi tornato ai documentari con "Rupture - A matter of life or death". L'ultimo documentario è "Altamira" del 2016, dedicato alla scoperta della Grotta di Altamira in Spagna nel 1879. L'attore Nigel Havers, che ha recitato nel film "Momenti di gloria", ha annunciato di essere "oltremodo devastato" dalla morte del regista. Come riportato dalla Bbc, Havers ha aggiunto che "Momenti di gloria" è stato "una delle più grandi esperienze della mia vita professionale e, come molti altri, devo a Hudson molto di ciò che è seguito. Mi mancherà moltissimo".

Marco Giusti per Dagospia il 10 febbraio 2023

Il cinema spagnolo perde il suo cineasta forse più rappresentativo dell’era a cavallo tra la fine del franchismo e il dopo-Franco, del momento cioè della ricostruzione culturale di un paese negli anni ’60 e ’70, Carlos Saura, 91 anni, adorato da personalità come Luis Bunuel e Stanley Kubrick.

 Autore di film come “La caza”, miglior regia a Berlino nel 1966, “Peppermint Frappé”, “Cria cuervos”, con la sua compagna storica, Geraldine Chaplin e Ana Torrent, Grand Prix a Cannes nel 1975, “La prima Angelica”, Grand Prix a Cannes nel 1974, “El jardin de las delicias”, Deprisa, deprisa”, che vinse l’Orso d’or a Berlino. Ma anche della celebre “Carmen” del 1983 con Laura del Sol e Cristina Hoyos, che vince due premi a Cannes per i contributi artistici.

Autore di circa cinquanta film, amico di Luis Bunuel, Saura trasformò il suo cinema dopo la morte di Franco in qualcosa di meno cupo e più musicale, fra tango e fado, perdendo la sua prima carica corrosiva e diventando una sorta di ambasciatore della cultura spagnola mentre Pedro Almodovar diventava il regista più amato e innovativa del paese.

Nato a Huesca nel 1932, abbandona gli stnudi ingegneria industriale per dedicarsi professionalmente alla fotografia. Nel 1950 iniziò un documentario su Goya in 16 mm che non finirà mai. Spinto dal fratello, il pittore Antonio Saura, si iscrive e si laurea in regia nella I.I.E.C (Instituto de Investigaciones y Estudios Cinematográficos) nel 1957.

 Gira nel 1959 “Los golfos”, prodotto da Pere Portabella, cosceneggiato da Mario Camus, che verrà proiettato a Cannes nel 1960. Lì conoscerà per la prima volta Luis Bunuel. Scrive dei copioni che hanno problemi con la censura, come “El regreso”, o che non verranno girati. Nel 1963 gira “I cavalieri della vendetta” (“Llanto por un bandido”).

Ottiene però grandi risultati coi suoi primi film impegnati, a partire da “La caza” nel 1965 e “Peppermint Frappé” nel 1967, cosceneggiato da Rafael Azcona, lo sceneggiatore di Marco Ferreri , seguiti da “Stress es tres, tres”, “La madriguera”, “El jardin de las delicias”, “Ana y los lobos”, che circolarono anche in Italia.

 Siamo già negli anni ’70 con “La prima Angelica” e “Cria cuervos”, 1975, “Elisa vida mia”, 1977. “Mamma compie cento anni”, 1979, e il più tardo “Carmen”, 1983, verranno nominati agli Oscar come migliori film stranieri. Tratta Lorca in “Bodas de sangre”, 1981, mentre passa al film musicale con “Carmen” e “El amor brujo”.

Ay, Carmela!” viene premiato col Goya come miglior film spagnolo nel 1991. Diresse anche “Marathon”, film ufficiale dei giochi olimpici di Barcellona nel 1992. In “Dispara” (“Spara che ti passa”), coproduzione italo-spagnola, sceglie Francesca Neri come protagonista in coppia con Antonio Banderas.

 Ha lavorato fino all’ultimo, in film o corti di vario tipo, pensiamo solo a “Io, Don Giovanni”, girato in Italia nel 2009, dimostrando di aver perso molta della forza che aveva avuto negli anni’60. Nella sua lunga vita ebbe tre mogli e ben sette figli, uno anche dalla sua compagna più famosa, ma mai sposata, Geraldine Chaplin.

Addio a Carlos Saura, il più grande regista spagnolo che "lottò" contro Franco. Morto a 91 anni Carlos Saura, uno dei più grandi registi della storia del cinema spagnolo e mondiale. Tre volte candidato all'Oscar, lottò contro la censura di Franco. Roberta Damiata il 10 Febbraio 2023 su Il Giornale.

Avrebbe dovuto ritirare domani, 11 febbraio, il premio Goya d'Onore 2023 alla cerimonia dei Goya Awards che si terrà a Siviglia. Invece non ce l'ha fatta il grande regista Carlos Saura, che è morto per un'insufficienza respiratoria a Madrid all'età di 91 anni. A dare il triste annuncio la stampa spagnola, ricordando sia il suo percorso artistico, che la lotta contro la censura imposta dal regime di Franco. "Sono stato fortunato nella vita facendo ciò che mi attraeva di più: ho diretto cinema, teatro, opera e ho disegnato e dipinto per tutta la vita" aveva detto esprimendo la sua felicità nell'aver ottenuto il prestigioso premio.

Saura era nato nel 1932 a Huesca nella comunità autonoma dell'Aragona nel nord-est della Spagna. Figlio maggiore di quattro fratelli, il più giovane dei quali il pittore Antonio Saura, era figlio di un avvocato e di una pianista. Insieme alla famiglia si era poi trasferito a Madrid durante la guerra civile per finire gli studi, ma fu l'amore per la fotografia che lo indirizzò verso altri lidi, tanto che a soli 18 anni, aveva già partecipato a una collettiva ed era entrato nel mondo dell'avanguardia insieme al fratello Antonio.

Il passo verso il mondo del cinema per lui fu breve. Negli anni '50 si iscrisse all'Istituto di Ricerche ed Esperienze Cinematografiche di Madrid, una scuola sperimentale di cinematografia, che frequentò per quattro anni, diplomandosi con un documentario dal titolo Il pomeriggio della domenica. In quell'stituto, rimase anche come insegnante dal 1967 fino alla metà degli anni '60, e proprio lì realizzò anche alcuni cortometraggi dedicati al fratello pittore.

Nel '59 vide la luce il suo primo lungometraggio, I monelli, girato solo con una camera a mano, che si ispirava al neorealismo italiano e al cinéma vérité francese. Raccontava la storia di un gruppo di adolescenti della periferia di Madrid, tra cui uno con il grande sogno di diventare torero. Il film partecipò al Festival di Cannes nel 1960, dove ottenne un grande successo, cosa che non accadde invece in Spagna, dove uscì solo nel '62 dopo aver subito pesanti tagli da parte della censura. Nel '63 uscì il suo film in costume ambientato nell'800: I cavalieri della vendetta, e inizia la sua "lotta" adoperandosi insieme ad altri autori del "nuevo cine" spagnolo, per il rientro in patria del regista Luis Buñuel.

Uno degli incontri più importanti nella sua vita, fu quello con l'amico e produttore Elias Querejeta, un sodalizio che darà poi vita a quasi tutti i successivi film del regista, garantendogli anche la totale libertà d'espressione nei suoi lavori cinematografici. Nella sua vità arrivò poi Geraldine Chaplin, che non soltanto divenne la proagonista di molti dei suoi film, ma anche sua musa ispiratrice. Ad iniziare da Frappé alla menta del 1967, vincitore dell'Orso d'argento al Festival di Berlino, Lo stress è tre, tre del 1968, La tana del 1969 e Anna e i lupi del 1973.

Con la Chaplin iniziò anche un rapporto sentimentale, e nel 1974 diede alla luce uno dei sette figli del regista. Tra gli altri suoi film vanno ricordati: Cría cuervos, vincitore del premio speciale della giuria a Cannes 1976; Elisa, vita mia del 1977, Gli occhi bendati del 1978 e Mamà compie 100 anni del 1979. Nel 1981 vince l'Orso d'oro a Berlino, per il contestato film In fretta in fretta. Il suo lavoro è stato apprezzato da intere generazioni anche oltreconfine. Fu citato da Martin Scorsese, Woody Allen e Steven Spielberg, ma anche da registi spagnoli contemporanei come Paco Plaza, Raúl Arévalo e Carlos Vermut.

Il suo talento è e sarà sempre parte del patrimonio culturale della nostra storia grazie a film indimenticabili come Ay, Carmela e La prima Angélica” ha scritto su Twitter il premier spagnolo Pedro Sanchez. Fu candidato tre volte all'Oscar come "miglior film straniero" per le pellicole Mamà compie 100 anni nel 1980, Carmen Story nel 1984, Tango nel 1999.

(LaPresse/Ap il 9 febbraio 2023) – Mondo della musica in lutto per la morta a 94 anni del leggendario compositore americano Burt Bacharach. Lavorando con il paroliere Hal David, Bacharach ha scritto una lunga serie di canzoni di successo, molte delle quali per Dionne Warwick. Tra i suoi grandi successi si ricordano ‘Walk On By’ e ‘Do You Know the Way to San Jose’.

Bacharach, vincitore di Grammy, Oscar e Tony, ha anche contribuito a scrivere le colonne sonore di di film come ‘Arturo’ e ‘Ciao Pussycat’. Bacharach è morto mercoledì nella sua casa di Los Angeles per cause naturali, ha detto giovedì la pubblicista Tina Brausam. Negli ultimi 70 anni, solo Lennon-McCartney, Carole King e una manciata di altri hanno rivaleggiato con il suo genio per canzoni immediatamente orecchiabili che sono rimaste eseguite, suonate e canticchiate ancora molto tempo dopo essere state scritte.

Burt Bacharach, morto il leggendario compositore del pop gentile. Laura Zangarini su Il Corriere della Sera il 9 Febbraio 2023.

Musicista e cantante, è scomparso nella sua casa di Los Angeles mercoledì. Lascia canzoni indimenticabili come «Walk On By», «Raindrops Keep Falling On My Head» e centinaia di altri successi

Si è spenta una delle stelle più luminose della musica della seconda metà del XX secolo. Burt Bacharach, pianista, cantante e compositore, impareggiabile produttore di successi pop per 30 anni, dalla fine degli anni ’50 a quella degli’80, è morto ieri per cause naturali nella sua casa di Los Angeles, California. «What the World Needs Now», «The Look of Love», «Walk On By», «Don’t Go Breaking My Heart», «A House Is Not a Home»: al confine tra jazz e pop, le sue ballate romantiche e malinconiche hanno scalato la vetta delle classifiche su entrambe le sponde dell’Atlantico.

L’elenco dei suoi interpreti, più di mille, è impressionante, e include Tom Jones, Elvis Costello, i Beatles, Ashanti, Cindy Lauper, White Stripes e molti altri. Solo in apparenza semplici («Ho un’unica regola: cercare di non rendere le cose complicate all’ascoltatore»), le composizioni di Bacharach sono piene di misure asimmetriche e complesse progressioni di accordi. «Una definizione sintetica di Burt Bacharach ha a che fare col “facile ascolto” — osservò nel 2018 Elvis Costello, un Grammy condiviso col compositore nel 1998 (per «I Still Have That Other Girl» contenuta nell’album «Painted from Memory») —. Ascoltare le sue canzoni può essere piacevole, ma non hanno niente di facile. Provate a suonarle, provate a cantarle».

Nato nel 1928 a Kansas City, Missouri, Bacharach prende lezioni di piano dalla madre ma è il jazz a intrigarlo più della classica. Nei nightclub della sua città ascolta il bebop di Dizzy Gillespie e Count Basie, il cui stile influenzerà il suo modo di scrivere canzoni. Studia musica in diverse università americane. Uno dei suoi professori, il francese Darius Milhaud, traccia con un consiglio la rotta che il compositore seguirà per tutta la vita: «Non vergognarti mai di scrivere canzoni che la gente fischietterà». Concluso il servizio militare, nel 1956 il compositore Peter Matz lo raccomanda a Marlene Dietrich. La diva del cinema degli anni Trenta lo recluta come arrangiatore e direttore musicale dei suoi tour.

Dieci anni dopo, a New York, l’incontro con il paroliere Hal David (morto nel 2012), con cui formerà uno dei duo di maggior successo dell’industria musicale, complice la scoperta, durante una sessione di registrazione, di una giovane e talentuosa cantante che diventerà la loro musa: Dionne Warwick. Tra il 1962 e il 1968, Bacharach e David piazzano insieme 15 titoli nella Top 40 americana, tra cui «Don’t Make Me Over», «Anyone Who Had A Heart», «I’ll Never Fall in Love Again» e «Do You know The Way to San José?».

Il sodalizio si spezzerà nel 1973 per questioni di soldi — per dieci anni si parleranno solo tramite gli avvocati, non lavoreranno mai più insieme —, allontanando Bacharach dal successo fino agli anni Ottanta, nonostante due Oscar vinti, Migliore colonna sonora e Miglior canzone («Raindrops Keep Fallin’ on My Head») per «Butch Cassidy» (1969). L’incontro con la paroliera Carole Bayer Sager, che nel 1982 diventerà la terza delle quattro mogli della sua vita (Paula Stewart, 1953–1958; Angie Dickinson, 1965–1980; Jane Hansen, 1993) porterà a Bacharach il terzo Oscar per «Best That You Can Do», tema dal film Arturo (1981), ma anche una critica feroce: «La routine della sua vita — racconterà, divenuta ex, Bayer Sager — rimaneva essenzialmente la stessa. Cambiavano solo le mogli».

Il repertorio di Bacharach — 48 hit da Top 10, nove numeri 1 e oltre 500 composizioni — ha abbracciato il pubblico di diverse generazioni, rendendolo uno dei più grandi compositori pop di sempre. Nel 2012 ha ricevuto il Premio Gershwin dall’allora presidente Barack Obama, che durante un’apparizione in campagna elettorale aveva cantato alcuni secondi di «Walk On By». Sui social, tra i molti, l’omaggio dell’ex star degli Oasis, Noel Gallagher: «Rip Maestro Burt Bacharach. È stato un piacere averti conosciuto». Tra i dolori del compositore scomparso, il più grande la morte della figlia avuta dalla Dickinson, Nikki, suicida nel 2007 a 40 anni.

Marinella Venegoni per “La Stampa” il 10 febbraio 2023

Burt Bacharach era rimasto l'unico dei grandi compositori melodici yankee viventi. […] Un gigante, che ha riempito per almeno sei decenni il songbook del continente americano, dilagando poi nel mondo intero per l'irresistibile eleganza delle composizioni […]

Fra le sue prime composizioni, arrivò nei ‘50 da noi Magic Moments, suadentissima con la voce del crooner Perry Como inondò i primi jukebox, ed è davvero come un prologo da riascoltare prima di immergersi per anche lunghe ore (volendo) nel repertorio di cui fu protagonista vocale Dionne Warwick, sua musa ufficiale assai a lungo, malgrado liti e iati, e unica sua interprete accreditata a furor di popolo, che con la sua voce di velluto seppe dare vita a canzoni magnifiche nella loro lievità. […]

Simona Siri per “La Stampa” il 10 febbraio 2023

Un musicista da Oscar. Burt Bacharach è morto ieri a 94 anni nella sua casa di Los Angeles per cause naturali dopo una vita dedicata alla musica. Si lascia dietro un'eredità artistica impareggiabile: 73 singoli nella Top 40 negli Stati Uniti e 52 nel Regno Unito; un centinaio di artisti che hanno interpretato la sua musica; collaborazioni con Dionne Warwick, Frank Sinatra, The Beatles, Barbara Streisand, Tom Jones, Aretha Franklin e Elvis Costello; capolavori intramontabili come I Say A Little Prayer, Walk On By, What The World Needs Now Is Love, Magic Moment, The Look Of Love.

E, appunto, tre Oscar, i primi due nel 1969, per la colonna sonora di Butch Cassidy di George Roy Hill con Paul Newman e Robert Redford e per la canzone Raindrops Keep Falling on My Head cantata da B. J. Thomas e l'altro nel 1981 per Arthur's Theme cantata da Christopher Cross, colonna sonora del film Arthur con Dudley Moore e Liza Minnelli.

[…]  Alcuni titoli: Say a Little Prayer, originariamente cantata da Aretha Franklin; What's New Pussycat? con la voce di Tom Jones; The Look of Love cantata da Dusty Springfield e Make It Easy on Yourself dei Walker Brothers.

 La sua collaborazione più famosa e più fruttuosa rimane quella con Dionne Warwick. I loro successi insieme includono Walk on By, Do You Know the Way to San Jose?, Anyone Who Had a Heart, A House is Not a Home e la versione originale di I Say a Little Prayer. Warwick a un certo punto fa causa con successo a Bacharach dopo che lui e David avevano smesso di lavorare insieme, lasciandola senza materiale. Fu una disputa «molto costosa e sfortunata», secondo le parole stesse di Bacharach che tempo dopo ammise di aver gestito male tutta la situazione.

Lui e Warwick si riconciliano però nel 1985 per il singolo di beneficenza contro l'Aids That's What Friends Are For. […]

 Il suo stile musicale così riconoscibile, con quel mix tra alto e basso, ha prodotto canzoni senza tempo e che, secondo la definizione di Bacharach stesso, erano accessibili perché «sofisticate abbastanza da sfidare il tempo, ma non troppo sofisticate da impedire di essere ascoltate suonate da un pianista in un bar». Il merito, secondo lui, andava a uno dei suoi maestri, il compositore Dario Milhaud, da cui aveva imparato la lezione più importante: «Non vergognarsi mai di qualcosa che è melodico, di qualcosa che si riesce a fischiettare».

E ora una "piccola preghiera" per il pianista da hit parade. Storia di Antonio Lodetti su Il Giornale il 10 febbraio 2023.

Persino i White Stripes e gli scatenati Stranglers hanno eseguito cover dei suoi brani. È questa la prova dell'universalità e dell'unicità delle canzoni «gentili» di Burt Bacharach, maestro di musica e di vita scomparso a 94 anni a Los Angeles. Pianista-compositore e persino produttore, con Hal David ha formato una coppia di autori tra i più importanti (insieme a Holland-Dozier-Holland e Lennon-McCartney) nella storia della musica popolare di grande qualità. Le sue canzoni, come la strepitosa Raindrops Keep Fallin' On My Head, sono state un punto di riferimento per il pubblico, per la critica e per gli addetti ai lavori, imitate e ascoltate centinaia di volte. Superstar internazionale, era un re negli Stati Uniti ma anche in Gran Bretagna. Bacharach vanta una serie di record difficili da battere. Delle 70 canzoni che ha scritto, tutte sono entrate ai primi posti delle classifiche americane, mentre 52 sono diventate hit nel Regno Unito, dove è il diciottesimo compositore di maggior successo per vendite di dischi.

La sua avventurosa strada inizia nei primi anni '50, da ragazzo di talento, soprattutto pianista e direttore di orchestrine, tra cui quella che accompagnava in tournée la divina Marlene Dietrich. Nel '58 piazza la sua prima zampata affidando a Perry Como l'elegante Magic Moments. Un successo inaudito. Magic Moments conquistò il primo disco d'oro della storia creato proprio in quell'anno per la certificazione delle canzoni pop. «Non ci credevo - ci raccontò lui una volta - ero ancora in fase evolutiva ma mi sembrava giusto seguire una strada precisa: ovvero le canzoni devono essere semplici, orecchiabili e arrivare al cuore».

Con questo progetto in testa e con i testi immaginifici del fido David, Bacharach inizia a confezionare una grande canzone dopo l'altra. Non c'è genere, non c'è stile per definirle, sono le canzoni di Burt Bacharach, come Walk On By, The Look of Love (ripresa da Diana Krall con grande successo), la bizzarra Do You Know the Way to San Josè, l'accorata I Say a Little Prayer, dalle sfumature gospel, le cui note sono risuonate anche ieri sera al festival di Sanremo, dove è stato ricordato da Amadeus. Tutti si sono abbeverati al suo repertorio: dalla regina del soul Aretha Franklin al tonante Tom Jones e persino i grandi del jazz lo hanno spesso omaggiato, come Stan Getz (che riprese Raindrops Keep Falling On My Head) o Wes Montgomery, con la sua magica chitarra. Perché le melodie di Bacharach erano uniche, pulite, sofisticate ma al tempo stesso semplici e immediatamente riconoscibili. Il rock guardava a Bacharach con rispetto e devozione in una strana corrispondenza di amorosi sensi. Negli anni '60 si avvicinò a gruppi come Manfred Mann e Love che (entrambi) incisero My Little Red Book, scritta per il film Ciao Pussycat. Entusiasmante sarà - anni dopo - la sua collaborazione con un altro genio versatile e difficile da catalogare come Elvis Costello che produsse grandi canzoni e appassionati concerti in duo.

La sua musa era Dionne Warwick, la cantante raffinata la cui voce si sposava a meraviglia con le musiche di Burt, per la quale scrisse anche canzoni per colonne sonore di film, anche se la sua canzone da film più celebre resta The Look of Love, scritta per Casino Royale della serie 007 e cantata da Dusty Springfield, allora giovane star. Di altrettanti onori godette la citata Raindrops Keep Falling On My Head, che nel 1969 fece da colonna sonora al film Butch Cassidy. Bacharach spopolò anche a Broadway con opere come Promises Promises (l'omonimo brano divenne una hit da classifica).

In questa lunga carriera lastricata d'oro non può mancare uno scivolone. La musica del film Orizzonte perduto (rifacimento di una pellicola degli anni Trenta), nel 1973 fu un flop senza precedenti e minò anche la collaborazione con Hal David portando alla separazione.

Gli anni '70 non sono anni belli, per Burt, allontanatosi anche dalla Warwick e autore di dischi poco convinti e poco convincenti, come Futures. Ma il musicista che è in lui risorge nel suo splendore negli anni '80, soprattutto dopo il matrimonio con Angie Dickinson e la nuova collaborazione lavorativa con i testi di Carole Bayer Sager. «Sono tornato alla vita - disse dopo il matrimonio - e ora voglio tornare alla musica». Scrisse quindi per artisti come Christopher Cross (Arthurs Theme), il cantautore Neil Diamond (Heartlight) la soulwoman Roberta Flack e ritornò a sorpresa e in modo strepitoso com'era nel suo stile al fianco di Dionne Warwick con una splendida That's What Friends Are For. «Sento che gli anni '80 rispecchiano al meglio la mia musica e la mia maturità», disse Bacharach parlando anche delle sue canzoni ora un po' più pop e ritmate.

Negli anni Novanta è poco attivo, ma è spesso in televisione con degli special a lui dedicati o in qualche cameo cinematografico, come i parodistici film di Austin Powers, le cui colonne sonore sono un tributo alla sua opera. Ormai anziano e appagato ma dotato di una salute di ferro, Bacharach cavalca gli anni Duemila con vivacità e classe, esegue spettacoli faraonici per la Bbc o per istituzioni come la Walt Disney e nel 2008 conquista il Grammy alla carriera. Il maestro è sempre stato molto vicino anche alla musica italiana di qualità. Al di là della collaborazione con Ornella Vanoni in concerto, ha scritto il brano Trouble per Chiara Civello. Senza farsi frenare da barriere di generi e stili (ha anche prodotto In ogni ora della nostra Karima, quando era tra le nuove proposte di Sanremo) e si è buttato persino sul soul scrivendo la pregnante ballad Something That Was Beautiful per il vocione di Mario Biondi.

Addio a Burt Bacharach, il raffinato poeta delle emozioni. Gabriele Antonucci su Panorama il 10 Febbraio 2023.

Il grande compositore americano è morto a 94 anni nella sua casa di Los Angeles. Insieme al paroliere Hal David ha scritto alcune delle canzoni pop più belle di sempre, vincendo 3 Premi Oscar

Il mondo della musica piange la scomparsa di Burt Bacharach, morto mercoledì a 94 anni nella sua casa di Los Angeles per cause naturali, come riferito oggi da Tina Brausam, la sua legale. Il geniale pianista e compositore americano ha accompagnato, con le sue emozionanti melodie orchestrali, almeno tre generazioni di ascoltatori, nobilitando il pop e regalandogli una veste sonora e una raffinatezza che non aveva mai avuto prima, lasciando all’inseparabile Hal David il compito di tradurre in parole le sue intuizioni melodiche e armoniche. Nell’epoca dello streaming e della musica liquida, troppo spesso le canzoni durano il tempo di una stagione, per essere poi rimpiazzate dagli altri brani del momento. Esistono invece classici che non vengono minimamente intaccati dal trascorrere degli anni, tanto da essere riproposti ciclicamente dai cantanti più giovani e apprezzati così anche delle nuove generazioni. Chi non conosce brani immortali come Raindrops keep falling on my head, Walk on by, I say a little prayer,What the world needs now e Magic moments, solo per citarne alcuni? Burt Bacharach ha saputo spaziare, in 70 anni di carriera, dal jazz al soul, dalla bossanova al pop “classico” e ha saputo fonderli in uno stile sofisticato e inconfondibile. Sono decine gli epigoni che hanno cercato di riproporre la sua formula easy listening, ma nessuno è riuscito ad eguagliare il calore e al tempo stesso l’eleganza dei suoi brani. In passato è stata data una lettura troppo semplicistica delle composizioni di Bacharach, considerate da alcuni critici poco avveduti come musica da cocktail, perfetto sottofondo quando si sorseggia un Martini in un locale alla moda. Giudizi superficiali, alimentati anche dalle presunte capacità afrodisiache di alcune delle sue canzoni più romantiche. Perfino Noel Gallagher, artista notoriamente poco accomodante e spesso incline a giudizi tranchant sui suoi colleghi, ha dichiarato: «Se non convinci una donna a venire a letto con te dopo aver ascoltato un pezzo di Bacharach, vuol dire che non ne valeva la pena». Per capire l’impatto delle sue canzoni nella cultura popolare è sufficiente guardare la scena de Il matrimonio del mio migliore amico, pellicola tutt’altro che memorabile, nella quale Rupert Everett accenna a tavola le prime parole di I say a little prayer. A uno ad uno tutti i commensali ne interpretano a modo loro un piccolo brano, fino a che tutto il ristorante si ritrova a cantare il ritornello e a battere le mani in un crescendo emozionante. Come non associare, poi, le gocce di pioggia a una canzone memorabile come Raindrops keep falling on my head, tema principale del film Butch Cassidy, per il quale Bacharach ha vinto un meritato Premio Oscar come migliore colonna sonora originale? Come dimenticare il connubio artistico di Bacharach con Dionne Warwick, la cantante che meglio di tutte ha interpretato il suo stile raffinato e le sue canzoni più amate? Un rapporto che andò in crisi alla fine degli anni Settanta a causa di alcune scelte artistiche non condivise, ma che si è nuovamente rinsaldato nel 1985, dando vita alla straordinaria That’s the friend are for, cantata in compagnia di Stevie Wonder, Elton John e Gladys Knight. Impossibile citare qui tutti gli artisti che hanno interpretato le sue canzoni: ci limitiamo ai Beatles in Baby, it’s you, Aretha Franklin in Walk on by, Tom Jones in What’s new, pussycat? e Dusty Springfield in The look of love. Indimenticabili anche le sue colonne sonore, premiate con tre Oscar, due come Miglior Canzone per Raindrops keep falling of my head e Arthur’s theme (Best that you can do) e uno per la colonna sonora di Butch Cassidy. Bacharach non è certo artista che ha vissuto di ricordi, come ha dimostrato la freschezza dell'album At this time del 2005, in cui il vecchio leone del pop confidenziale si confrontava con il rapper Dr.Dre e con il vocalist soul Rufus Wainwright, dimostrando di avere ancora numerose frecce al suo arco. Dietro alla patina apparentemente allegra delle sue composizioni si intravede l’umanità di una persona che il successo non ha dispensato dalla sofferenza , con tre matrimoni falliti alle spalle, l’enorme dolore per l’amata figlia Nikki morta suicida a quarant’anni, il periodo di oblio dal quale è risorto come l’araba fenice. Tutti aspetti poco noti della sua vita, raccontati a cuore aperto nella biografia Anyone Who Had A Heart. My Life and Music scritta a quattro mani con Robert Greenfield. Più recente, ma non meno fruttuoso, il sodalizio con Elvis Costello, coautore insieme Bacharach dello splendido Painted from memory, album giustamente premiato con un Grammy Award nel 1998. «Quando il pezzo decolla -ha sottolineato Costello- Burt ingrana una marcia in più. Il risultato è quel senso di "dubbio" , anche nelle sue canzoni più solari, che rende la sua musica senza tempo».

Burt Bacharach, quelle notti magiche col maestro, da Bari a Matera. Epico concerto nel 1995 al Teatroteam con il musicista americano accompagnato dalla voce di Dionne Warwick e dall'Orchestra Filarmonica del Teatro Petruzzelli. Nel 2009 esibizione alla Cava del Sole col canto di Karima. Gloria Indennitate su La Gazzetta del Mezzogiorno il 09 Febbraio 2023

Burt Bacharach dalla Puglia alla Basilicata in due concerti rimasti negli annali. Il primo a Bari, nel 1995, il secondo a Matera, nel 2009. Sublime compositore e pianista, scomparso oggi a 94 anni, il maestro americano si esibì al Teatroteam il 30 marzo del 1995 in coppia - per quel tour mondiale - con Dionne Warwick, voce che da sola valeva un'orchestra. In pratica, sullo stesso palco due divinità dell'Olimpo della musica internazionale di tutti i tempi.

Sino a quel 1995, Bacharach si era esibito soltanto una volta in Italia, nel 1960 a Taormina, come pianista accompagnatore nella tournee di Marlene Dietrich.

Nota pugliese non da poco: in tutti i recital del tour Bacharach dirigeva l'Orchestra Filarmonica del Teatro Petruzzelli di Bari, composta da 23 elementi e affiancata da sette elementi della sezione ritmica americana.

Ma di che stiamo parlando, verrebbe da dire...

Immenso, già definito «la quinta B» (dopo Bach, Beethoven, Brahams e Berlin), sei Grammy come compositore, arrangiatore e interprete dal 1967 al 2005 e tre Oscar, Bacharach eseguì memorabili brani portati al successo da stelle della musica, a cominciare da Perry Como che cantò Magic Moments' a Gene Pitney voce di Only love can break your heart. Ma ricordiamo anche che Bacharach ha composto canzoni per i Beatles, Tom Jones, Aretha Franklin, Barbra Streisand, Patti LaBelle, Natalie Cole, Roberta Flack, Chaka Khan. In quest'antologia di star, ovviamente, non poteva mancare Dionne Warwick, un sodalizio musicale che li unì sentimentalmente anche nella vita, iniziato nei primi anni Sessanta con Don't make me over e proseguito con altri celeberrimi brani come Promises, promises e That's what friends are for.

In Italia a cantare Bacharach sono stati Patty Pravo (Gocce di pioggia su di me, cover di Raindrops keep falling on my head), Catherine Spaak e Johnny Dorelli, Ornella Vanoni (Non m'innamoro più, cover di I'll never fall in love again).

Spuntano curiosità mai sepolte dalla polvere del tempo: prima che cominciasse il concerto al Teatroteam di Bari, Bacharach e Dionne Warwick offrirono pasticcini e champagne a chi era presente, Era una giornata di pioggia e vento forte e il maestro tossiva spesso durante l'esibizione.

Fu la voce della livornese Karima, invece, ad accompagnare il maestro americano nel concerto alla Cava del Sole di Matera celebrato la sera del 20 luglio 2009, per il Festival Duni. Nella scaletta, oltre ad alcuni dei suoi più importanti successi, fra gli altri Close to you, Bacharach propose l'album At this time, per certi versi rivoluzionario in quanto segnava il nuovo impegno politico del musicista.

Sul palco, assieme al maestro e al suo magico tocco al pianoforte, c’erano David Coy al basso elettrico, David Crigger alla batteria e percussioni, Tom Ehlen ai fiati, David Joyce e Rob Shrock alle tastiere, Dennis Wilson ai woodwinds, Josie James, John Pagano e Donna Taylor ai cori. C'è chi ricorda i tre brani cantati da Bacharach con voce tremante: fu uno degli ennesimi magic moments donati da una «B» di cui, ahimé, non si intravedono eredi.

Una finestra sull’Etna. In ricordo di Nicolò Mineo, fine critico letterario e accademico dai modi gentili. Francesco Lepore su L’Inkiesta l’8 Febbraio 2023.

È morto ieri a Giarre uno dei massimi studiosi italiani di Dante e Giovanni Verga. Era un uomo di un garbo d’altri tempi, che colpiva per la nitidezza di pensiero e la costante curiosità

Amico de Linkiesta. Si definì così una volta Nicolò Mineo, morto ieri a Giarre (provincia di Catania) all’età di 91 anni. Con lui se ne va non solo il fine critico letterario, il rigoroso filologo, l’accademico dai modi gentili ma anche uno dei massimi studiosi italiani di Dante e Giovanni Verga. Sull’uno e sull’altro tenne anche corsi specialistici all’Università di Tours e alla Sorbona, dedicando al profeta del Verismo contributi scientifici difficilmente eguagliabili e, più in generale, un impegno a tutto tondo concretatosi nelle cariche di presidente della Fondazione Verga, di direttore responsabile degli Annali della Fondazione Verga, di direttore del Centro di studi verghiani di Vizzini.

Ma il suo primo involontario amore era stato Carducci, cui dedicò la tesi di laurea in Lettere classiche, assegnatagli da un nome dal calibro di Carlo Grabher e discussa nel marzo del 1956 all’Università di Catania. Fu l’illustre commentatore della Divina Commedia a conquistare interamente il talentuoso discepolo d’origini alcamesi – nel popoloso comune in provincia di Trapani era infatti nato il 2 gennaio 1934, per poi trasferirsi già nell’infanzia a Giarre – agli studi danteschi non senza averlo subito preavvertito: «Ricordi che Dante si comincia a capire a quarant’anni».

Quegli studi Mineo non li avrebbe più abbandonati sino alla morte. Innumerevoli i saggi al riguardo fino al volume Profetismo e Apocalittica in Dante, dalla Vita Nuova alla Divina Commedia e soprattutto, per importanza e numero di edizioni, la monografia Dante comparsa la prima volta per i tipi Laterza nel 1970. Senza parlare poi del suo ruolo di socio fondatore della Société dantesque de France, d’iniziatore della Lectura Dantis siciliana nella città etnea, di presidente del Comitato scientifico del Seminario dantesco, istituito presso l’ateneo catanese, e dell’affascinante lettura d’un canto della Commedia, che dal febbraio 2019 pubblicava ogni venerdì sul quotidiano La Sicilia.

Sullo scudiero dei classici Mineo sarebbe comunque tornato in seguito con alcuni saggi, laddove nel triennio di perfezionamento in Filologia moderna presso la Normale di Pisa (1956-1959) si era invece avvicinato con pari passione e lucidità di pensiero alla figura e all’opera di Giuseppe Giusti.

Fu nella prestigiosa scuola superiore universitaria che avvenne l’incontro con Luigi Russo, da lui poi sempre riguardato come il maestro per antonomasia. Dell’insigne critico letterario, autore d’una mai troppo celebrata monografia su Verga, avrebbe scritto più volte soprattutto in occasione del convegno nazionale, tenutosi a Caltanissetta e a Delia dal 15 al 18 ottobre 1992 in occasione del centenario della nascita, curandone anche i relativi atti.

Con accenti di grata riconoscenza avrebbe spiegato in una mail, indirizzata al sottoscritto l’11 febbraio dello scorso anno: «Penso che il suo Giovanni Verga sia a fondamento della nostra lettura. Le letture successive, di grande levatura non poche, sono uno sviluppo e un approfondimento di quanto Russo aveva definito. Io lo ebbi maestro a Pisa nei tardi anni Cinquanta e discussi con lui di Verga in occasione di un seminario. Ma non amava che si riproponesse il problema. Raccomandava però che non se ne parlasse in termini populistici o proletari».

Se tutta la sua carriera d’insegnante d’italiano e latino nei Licei classici prima (1958-1969), di docente universitario di Letteratura italiana poi – iniziata nel ’58 come assistente volontario, quindi proseguita fino all’ordinariato (1980-2008), alla direzione del Dipartimento di Filologia moderna (1982-1985) e alla presidenza della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’ateneo catanese – si svolse nell’area etnea, compresa l’esperienza di consigliere comunale tra le fila dello Psiup negli anni ’70 e di assessore alla Cultura e Istruzione nella sua Giarre (1998-2004), lo dovette proprio al suo venerato maestro.

In un’intervista rilasciata cinque anni fa, aveva ricordato non senza emozione come Luigi Russo («lui nel dissenso, non persuadeva, ma quasi bastonava») gli avesse urlato «che ormai i siciliani dovevamo operare in Sicilia, per la Sicilia, perché ormai c’erano le condizioni. Non me ne sono mai pentito, ma è vero che da qui tutto è più difficile».

Non basterebbe una pubblicazione se si volessero indicare tutti gli scritti e i titoli, i premi, gli incarichi accademici e culturali, conseguiti negli anni dal professore Nicolò Mineo. Lascia però in chi l’ha conosciuto il ricordo di «un uomo di un garbo d’altri tempi: un uomo semplice che colpiva per una sorta di candore, la nitidezza di pensiero, la costante curiosità». A parlare così è Paolo Patanè, coordinatore dei Comuni Unesco della Sicilia, che spiega a Linkiesta: «Abitavamo vicini, a poche decine di metri, e mi ero abituato a vederlo, sin da piccolissimo, nei piccoli gesti della vita quotidiana. Ricordo quando, da ragazzo, entrai per la prima volta nella sua famosa e gigantesca biblioteca: ne rimasi davvero impressionato. Era il suo vascello, lo spazio quasi metafisico in cui aveva accumulato le mappe del suo viaggio nel mondo e nel tempo. La grande finestra sull’Etna possedeva suggestione e poesia ma tutto l’insieme diceva tanto di lui e del suo appassionato indagare nel sapere. Quella grande stanza in qualche modo era lui. Sono state frequenti le circostanze della vita che mi hanno dato modo di incrociarlo: i dialoghi sui diritti civili e sulla dignità delle persone ma anche le iniziative di conoscenza ed esplorazione del territorio ionico etneo, in cui il suo ruolo è stato gigantesco nel ricomporre memorie e identità. Siamo stati insieme nel Comitato d’onore per i duecento anni di Giarre, in un gruppo che vedeva, tra gli altri, anche giganti come Franco Battiato e Giuseppe Giarrizzo».

Il fine intellettuale giarrese, che è stato in passato anche presidente d’Arcigay nazionale, ci tiene a sottolineare quanto di Mineo amasse soprattutto «la capacità di provare stupore e di mostrarlo, sia pure con l’incanto della sua riservatezza. Era l’ultimo di una grande scuola e il primo di una schiera di donne e uomini di valore che hanno saputo cimentarsi per il bene comune. Passerà molto tempo ed avremo ancora tanto da scoprire di Nicolò Mineo».

(ANSA il 7 febbraio 2023) - E' morto a 68 anni il giornalista Pio D'Emilia. Lo annuncia Sky TG24 la testata per la quale il corrispondente lavorava. Corrispondente dall'Asia per quasi 20 anni, ma anche grande inviato e cronista, curioso e coraggioso, "ogni volta che c'era una crisi internazionale, una area instabile, una protesta di piazza, un terremoto, un'altra catastrofe naturale, anche molto distante da Tokyo, arrivava la telefonata: 'Se volete io ci sono, pronto a partire' " ricordano i suoi colleghi del Tg.

Pio D'Emilia, ricordano ancora i giornalisti della testata Sky, è morto in uno dei posti che amava di più: a Tokyo, quella che considerava casa sua, quella che aveva scelto un po' per fiuto giornalistico e un po' per provocazione culturale anni fa, quando l'estremo Oriente era una area poco battuta dalla stampa europea, figurarsi da quella italiana.

 "La sua perdita - aggiungono - ci lascia senza parole, con una tristezza profonda, con il magone di non aver potuto dirgli per l'ultima volta una qualsiasi cosa, di non avergli lasciato l'ultima parola di una conversazione, come accadeva sempre. Ci mancherà, ci manca già".

Morto Pio D’Emilia, per vent’anni inviato in Asia per Sky. Storia di Redazione Spettacoli su Il Corriere della Sera il 7 febbraio 2023.

È morto il giornalista Pio D’Emilia. Aveva 68 anni. A dare l’annuncio Sky TG24, la testata per la quale D’Emilio lavorava. Corrispondente dall’Asia per quasi 20 anni, ma anche grande inviato e cronista, curioso e coraggioso, «ogni volta che c’era una crisi internazionale, una area instabile, una protesta di piazza, un terremoto, un’altra catastrofe naturale, anche molto distante da Tokyo, arrivava la telefonata: “Se volete io ci sono, pronto a partire”» ricordano i suoi colleghi del Tg.

Gli appassionati del Paese del Sol Levante se lo ricorderanno per la sua partecipazione, in veste di «accompagnatore», alla trasmissione «Turisti per caso». Ma soprattutto per avere seguito la terribile vicenda dell’incidente nucleare del marzo 2011 in Giappone, sulla quale aveva realizzato . Più di recente aveva allargato i suoi interessi in Cina, dove l’anno scorso aveva realizzato per Sky Atlantic un documentario dal titolo: «Yi Dai Yi Lu La ferrovia della seta».

Pio D’Emilia, ricordano i giornalisti della testata Sky, è morto in uno dei posti che amava di più: a Tokyo, quella che considerava casa sua, quella che aveva scelto un po’ per fiuto giornalistico e un po’ per provocazione culturale anni fa, quando l’estremo Oriente era una area poco battuta dalla stampa europea, figurarsi da quella italiana. «La sua perdita — aggiungono — ci lascia senza parole, con una tristezza profonda, con il magone di non aver potuto dirgli per l’ultima volta una qualsiasi cosa, di non avergli lasciato l’ultima parola di una conversazione, come accadeva sempre. Ci mancherà, ci manca già». «Ci ha lasciati — si legge ancora — in un modo che non gli era usuale, in silenzio, lui che amava le parole e che le parole usava per vivere con la stessa intensità con cui raccontava le sue storie».

Aveva 68 anni, è scomparso nella 'sua' Tokyo. È morto Pio D’Emilia, giornalista e inviato storico di Sky dal Giappone: raccontò la tragedia nucleare di Fukushima. Carmine Di Niro su Il Riformista il 7 Febbraio 2023

Sul suo profilo Twitter, aggiornato fino a poche ore fa, si definiva “giornalista, yamatologo e antifascista (sì, ancora oggi vale la pena segnalarlo)”. È morto a 68 anni il giornalista e storico volto di Sky Pio D’Emilia, da 20 anni inviato dall’emittente satellitare in Giappone.

D’Emilia è scomparso proprio nella “sua” Tokyo, città e capitale di un Paese a cui il giornalista aveva dedicato reportage e libri. Impossibile dimenticare “Fukushima, a nuclear story”, il suo viaggio attraverso il Giappone colpito dal terremoto, dallo tsunami e dalla catastrofe nucleare del reattore di Fukushima. D’Emilia fu il primo inviato straniero a essere entrato nella “zona proibita” e a raggiungere la centrale dopo l’incidente.

A ricordarlo oggi con un annuncio addolorato è il direttore di Sky Tg24, Giuseppe De Bellis, sottolineando come Pio “è morto in uno dei due posti che amava di più: a Tokyo, quella che considerava casa sua, quella che aveva scelto un po’ per fiuto giornalistico e un po’ per provocazione culturale anni fa, quando l’estremo Oriente era una area poco battuta dalla stampa europea, figurarsi da quella italiana”.

In Giappone D’Emilia, nato il 18 luglio del 1954, era arrivato giovanissimo, dopo aver vinto una  di studio come procuratore legale. Da ragazzo infatti sognava una carriera come avvocato penalista, poi l’amore per il giornalismo. Da Tokyo e dal Paese del Sol Levante aveva poi raccontato ai telespettatori di Sky lo tsunami del 2008, il tifone Hayan nelle Filippine, la crisi nucleare in Corea del Nord, gli scontri in Birmania e in Tibet e l’incidente nucleare di Fukushima nel 2011.

L’ultimo lavoro, poche settimane fa, era stato “Giappone lost in transition”, dove raccontava le difficoltà della transizione energetica del Paese.

Nel suo appassionato ricordo, De Bellis scrive di D’Emilia che “ogni volta che c’era una crisi internazionale, una area instabile, una protesta di piazza, un terremoto, un’altra catastrofe naturale, anche molto distante da Tokyo, arrivava la telefonata: “Se volete io ci sono, pronto a partire”. Quel grado di sana incoscienza che è anima di un certo modo di fare giornalismo era il tratto più visibile di Pio: non era soltanto professione, era un modo di stare al mondo, coinvolto e coinvolgente, appassionato, totalizzante“.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Estratto da artribune.com il 5 febbraio 2023.

È morto a 84 anni Massimo Piersanti, fotografo tra i più attivi e impegnati nella scena culturale italiana dagli anni Settanta in poi, soprattutto a Roma. Piersanti è stato infatti tra i protagonisti degli Incontri Internazionali d’Arte, associazione culturale fondata a Roma da Graziella Leonardi Buontempo che promuoveva, nella sede di Palazzo Taverna, mostre, incontri e dibattiti con i più principali esponenti della cultura di quegli anni, con la guida del critico Achille Bonito Oliva. Piersanti fu il fotografo ufficiale degli Incontri, una lunga stagione di fermento sociale e politico di cui rimane una accurata documentazione proprio grazie ai sui scatti.

 “È uno dei fotografi tra gli ultimi rimasti della sua generazione che hanno documentato tutte le ricerche artistiche in Italia e anche all’estero dagli anni Settanta a oggi”, presenta così Alberto Dambruoso la pratica di Piersanti durante l’appuntamento a lui dedicato de I Martedì Critici, tenutosi nel gennaio 2020.

Estratto dell'articolo di Stefano Ciavatta per esquire.com il 5 febbraio 2023.

Nel freddo gennaio del 1974 la coppia di artisti Christo e Jeanne-Claude impacchettarono di nylon bianco con delle grosse corde arancioni i quattro archi di Porta Pinciana alla fine di Via Veneto e davanti a Villa Borghese. Siamo lungo il tracciato delle bimillenarie Mura aureliane, il monumento più grande di Roma, il sogno più ambito, il segno più duraturo della città. Nata senza fastosità, per gli storici Porta Pinciana funzionò agli inizi come porta di servizio per le ville retrostanti, senza far capo a una strada principale. Il collegamento remoto con via Salaria vecchia lo scoprirà il fondatore dell’archeologia cristiana, Antonio Bosio, ma nel XVII secolo. Quando divenne monumentale nelle dimensioni non bastarono comunque a reggere l’urto del sacco di Alarico.

 (…) Alla luce del sole arrivano invece Christo e Jeanne-Claude pronti per l’exploit, e trova il giovane Massimo Piersanti, fotografo ufficiale di Contemporanea, che racconta a Esquire quei giorni mitici.

"Christo aveva presentato un provino anche per Ponte Sant’Angelo ma poi Contemporanea scelse le Mura. Già prima di Natale mandai allo studio di New York delle polaroid scattate a Porta Pinciana, che poi Christo riutilizzò cucendole sopra una tela. Dell’allestimento se ne occupò lo studio specializzato di Maurizio Puolo. Christo arrivò col suo gallerista Guido Le Noci e montò il lavoro. Via via arrivarono altri fotografi, compreso Harry Shunk, il fotografo personale di Christo, a cui l’artista pagava la vita. Mica solo l’affitto, persino il dentista! C’era anche Vittorio Biffani che documentò dal 26 al 29 gennaio i quattro giorni di realizzazione. Tutti scattavano dalla strada e da in fondo a via Veneto. Ma così l’impacchettamento risultava un enorme muro di ghiaccio. Invece volevo che si vedesse che si trattava di Roma e delle Mura aureliane: e così salii sulle terrazze del Grand Hotel Flora e poi del Jolly che oggi è l’NH, perché almeno c’erano i pini sullo sfondo. Il lavoro fu premiato e Christo scelse le mie foto per le tirature ufficiali".

Labili le tracce di polemiche politiche contro il permesso dato ai due artisti dal Comune di Roma. Il dc Nistri presentò in consiglio regionale un'interrogazione nella quale criticava "la stravagante iniziativa" e "lo scempio di buon senso" nell’imballare le Mura. Sempre Piersanti racconta: "Ci fu qualcosa, ma insignificante come protesta, si spense subito". L’opera non venne bocciata dai romani, pur diffidenti all’insegna del "tanto dura poco". A volte Roma è preparata, a volte no, ma respinge senza vere motivazioni. Continua Piersanti: "Le reazioni dal basso furono invece immediate, c’era anche gente che passava e gridava ma che state a fa? che è ‘sta buffonata? Anche gli operai erano scettici all’inizio, poi però divennero i primi difensori dell’impacchettamento. Ci furono battibecchi storici tra gli operai in piedi sulle Mura e gli avventori di Doney e Harry’s Bar che venivano sotto a criticare".

Pakistan, morto a Dubai l’ex presidente Musharraf. Redazione Esteri su Il Corriere della Sera il 5 Febbraio 2023.

L’ex generale era in cura per una lunga malattia. Il colpo di Stato nel 1999 e la destituzione nel 2008

È morto questa notte a Dubai l’ex presidente del Pakistan Pervez Musharraf . Aveva 79 anni. Si trovava nella città degli Emirati da tempo per sottoporsi alle cure di una lunga malattia, dopo anni di esilio volontario dal proprio Paese seguiti alla destituzione del 2008.

L’annuncio è stato dato dalle forze armate del Pakistan e dalla delegazione diplomatica di Islamabad negli Emirati Arabi Uniti. Nel 1999 Musharraf, allora generale dell’esercito, aveva condotto un golpe senza spargimenti di sangue ed era rimasto al potere come presidente per un decennio.

Addio a Pervez Musharraf l'ex presidente pakistano. Salì al potere con un colpo di Stato, poi l'esilio. Redazione il 6 Febbraio 2023 su Il Giornale.

È morto in un ospedale di Dubai, dove era ricoverato dopo una lunga malattia, l'ex presidente del Pakistan Pervez Musharraf. Aveva 79 anni. Fu presidente dal 2001 al 2008 e autore del colpo di stato del 1999.

Musharraf era salito al potere con un colpo di stato che rovesciò il governo di Nawaz Sharif nel 1999. Nel 2008 si dimise per evitare l'impeachment, la messa in stato di accusa del presidente. Da allora ha trascorso la maggior parte del suo tempo in esilio autoimposto nel Regno Unito e in Medio Oriente.

Musharraf fu alleato chiave degli Stati Uniti all'indomani degli attacchi dell'11 settembre, il suo periodo al potere divenne noto per l'oppressione e le dilaganti violazioni dei diritti umani, specialmente negli ultimi anni. Nel 2007 sospese la Costituzione, impose la legge marziale, destituì il giudice capo della corte suprema e arrestò attivisti e avvocati, provocando proteste di massa. Dopo le dimissioni nel 2008, Musharraf è tornato dall'esilio autoimposto nel marzo 2013 nel disastroso tentativo di contestare un seggio alle elezioni generali di quell'anno. I procedimenti legali per alto tradimento contro di lui sono iniziati nel 2014, ma nel 2016 Musharraf è stato autorizzato a lasciare il paese per motivi medici.

Il 17 dicembre 2019, un tribunale speciale lo ha dichiarato traditore e lo ha condannato a morte in contumacia per aver abrogato e sospeso la costituzione nel novembre 2007. Il gruppo di tre membri del tribunale speciale che ha emesso l'ordine è stato guidato dal Presidente della Corte Suprema dell'Alta Corte di Peshawar, Waqar Ahmed Seth. Fu il primo generale dell'esercito pakistano ad essere condannato a morte. Gli analisti non si aspettavano che Musharraf affrontasse la condanna data la sua malattia e il fatto che Dubai non ha un trattato di estradizione con il Pakistan.

Musharraf ha impugnato il verdetto, e il 13 gennaio 2020 l'Alta Corte di Lahore ha annullato la condanna a morte contro di lui, dichiarando incostituzionale il tribunale speciale che ha tenuto il processo. Il verdetto unanime è stato emesso da un collegio di tre membri dell'Alta corte di Lahore . La corte ha stabilito che l'accusa di Musharraf era politicamente motivata e che i crimini di alto tradimento e sovversione della Costituzione erano «un reato comune» che «non può essere commesso da una sola persona».

Fabio Giovoni per l’ANSA il 6 febbraio 2023.

Pragmatico fino all'estremo, contraddittorio, ambiguo, l'ex generale golpista divenuto presidente del Pakistan per quasi un decennio Pervez Musharraf, morto a 79 anni a Dubai per una malattia che combatteva da tempo, è una delle figure più controverse della storia pachistana e forse della storia recente.

 Nato a Delhi nel 1943 prima dell'indipendenza dell'India da Londra e della contestuale separazione dal Pakistan, Pervez Musharraf si trasferì con la famiglia a Karachi da bambino e lì intraprese la carriera militare. Legittimato sulla scena internazionale dalla decisione di allearsi con l'America di George W. Bush e l'Occidente e di prendere parte nella Guerra al terrorismo dopo gli attacchi dell'11 settembre 2001, il generale Musharraf aveva così cercato di consolidare il suo potere e di far dimenticare che solo due anni aveva preso il potere con un colpo di stato militare, non sanguinoso, estromettendo il democraticamente eletto Nawaz Sharif. E di essersi autoproclamato presidente circa un anno dopo.

Più odiato che amato in patria, nel periodo a capo del suo Paese, dal 1999 al 2008, Musharraf ha dato impulso con politiche di tipo liberista all'economia del suo Paese, che tuttavia resta fra i più poveri dell'Asia.

Sopravvissuto a tre tentativi di assassinarlo da parte dei talebani, ha compresso le libertà e i diritti civili negli anni della Guerra al terrore, caratterizzati da violente campagne militari nelle aree tribali a maggioranza Pashtun al confine con l'Afghanistan, terreno di coltura dei Talebani tanto pachistani quanto afghani.

E anche da frequenti sparizioni di oppositori politici e di presunti estremisti politici (questi ultimi per lo più consegnati agli americani come "estraordinary rendition" finiti a Guantanamo).

 Ma alcuni esperti ritengono che sotto di lui le libertà democratiche siano cresciute come mai prima, compresa una proliferazione di media indipendenti prima sconosciuti. Ha collaborato da stretto alleato dell'Occidente contro l'estremismo islamico, favorendo i movimenti delle forze Nato attraverso il confine e autorizzando basi aeree americane. Ma gli esperti osservarono che la politica di Islamabad nei confronti dell'Afghanistan conservò tutta l'ambiguità di un tempo: Musharraf è accusato di tacita acquiescenza con i Talebani afghani, in funzione anti-indiana.

Secondo i critici, ha due volti anche la politica di Musharraf nei confronti dell'arcinemica India, con la quale ha avviato un periodo di distensione, durante il quale però il terrorismo islamico e irredentista del Kashmir conteso in terra indiana ha raggiunto picchi assoluti. Ma è in particolare la sospensione di molte libertà costituzionali e soprattutto la guerra interna all'estremismo islamico gli alienò le simpatie di grandi fasce della popolazione.

 La morte della rivale ed ex premier Benazir Bhutto nel 2007 - la prima e ultima donna al potere in Pakistan - durante un comizio elettorale, uccisa dal corpetto esplosivo di un talebano kamikaze, gli valse l'accusa di non aver fatto nulla per prevenirla, se non di averla favorita. La successiva proclamazione dello stato d'emergenza, poi revocato, favorì solo lo scivolo di Musharraf verso la sconfitta nelle elezioni del febbraio 2008, vinte da Ali Zardari, vedovo di Benazir Bhutto, sotto al quale fu avviata una procedura d'impeachment nei confronti del 'dittatore' Musharraf per aver violato la costituzione e per corruzione.

Dopo un fallimentare ritorno nel 2013 per competere nelle elezioni di quell'anno e dopo essere stato autorizzato a recarsi a Dubai per curare la sua malattia, nel 2019 fu condannato a morte in contumacia per 'alto tradimento' da un tribunale speciale per aver sovvertito e poi sospeso la costituzione nel 2007, quando fece arrestare il ministro della giustizia e licenziando 15 giudici costituzionali e altri 65 giudici provinciali durante lo stato d'emergenza. La sentenza fu annullata nel 2020, ma lui restò in esilio a Dubai, dove oggi si è arreso all'amiloidosi, una malattia degenerativa degli organi. Solo ora potrà tornare nel suo Pakistan per riposare.

Estratto da ilmessaggero.it il 3 Febbraio 2023.

Sergio Solli, attore napoletano di 75 anni, è morto. Ad annunciare la scomparsa Bruno Garofalo, scenografo di Eduardo De Filippo: «Notizia triste per me e per chi lo conosceva. Se n'è andato un altro pezzo di storia napoletana, un amico delle origini. Non mi viene voglio di dire altro», ha scritto sui social. Simbolo dell'epoca d'oro della commedia e della drammaturgia napoletana, è stato scoperto da Eduardo e con lui ha lavorato nell'ultima parte di carriera.

 La carriera

Prima di iniziare la carriera nel teatro, Sergio Solli era un parrucchiere. Presto però si appassiona al mondo della recitazione e l'hobby iniziale si trasforma in lavoro: comincia in una compagnia teatrale ma riesce a farsi provinare da Eduardo De Filippo e con lui lavora in "De Pretore Vincenzo" (1976), "Gli esami non finiscono mai" (1976), "Natale in casa Cupiello", (1977), "Le voci di dentro" (1978), "Quei figuri di tanti anni fa" (1978). Lavora anche nei tre film di Luciano De Crescenzo: "Così parlò Bellavista" (1984), "Il mistero di Bellavista" (1985), "32 dicembre" (1988).

(...)

Chieti, le viene la febbre alta e muore: addio all'attrice Monica Carmen Comegna. Storia di Redazione Tgcom24 su Il Corriere della Sera il 3 Febbraio 2023.

È morta a Lanciano (Chieti) a 43 anni l'attrice Monica Carmen Comegna. L'interprete, originaria di Casoli, era stata ricoverata giorni fa all’'ospedale Renzetti con la febbre molto alta. Poi il repentino peggioramento e la morte. Lascia una figlia piccola, Nina, e il compagno Enrico. I funerali sono venerdì pomeriggio nella chiesa di Santa Reparata a Casoli.

Secondo quanto riporta il quotidiano  Il Centro, l'attrice ha iniziato a star male dopo un viaggio in treno. Sulla tratta Roma-Pescara per il rientro a casa, il convoglio è stato costretto a fermarsi a causa di uno smottamento del terreno. Sembra che l’attrice abbia preso freddo, si sia bagnata a causa della pioggia e così abbia preso la febbre.

Successivamente, il ricovero all'ospedale di Lanciano. Le sue condizioni si sono aggravate rapidamente e, nonostante le cure, per lei non c’è stato nulla da fare.  

La carriera - L'attrice ha iniziato la sua carriera con il film "Terrarossa", di Giorgio Molteni. Nel 2001 è stata protagonista di "South Kensington" di Carlo Vanzina e nel 2002 ha recitato in "L'altra donna". Nel 2003 è nel cast di "Una famiglia per caso". L'attrice aveva partecipato anche ad alcune serie, come "Don Matteo".

Addio Paco Rabanne. Estratto dell'articolo di Annachiaro Gaggino per mffashion.com il 3 Febbraio 2023.

Addio a Paco Rabanne. Lo stilista basco, fondatore dell’omonima casa di moda, si è spento oggi all’età di 88 anni. Sinonimo di un’estetica space age, nel corso della sua carriera lavorò anche nel mondo del cinema, vestendo Audrey Hepburn nel 1967 per il film Due per la strada di Stanely Donen, dove l’attrice indossò un celebre abito di maxi paillettes che diede al brand enorme visibilità, e Jane Fonda nel 1968 per Barbarella di Roger Vadim.

Rabanne, salito alla ribalta internazionale negli anni Sessanta, si è ritirato dalla moda nel 1999 e da allora si è fatto vedere raramente in pubblico. Il gruppo Puig, con sede a Barcellona, ha rilanciato il brand nel 2011, prima con lo stilista indiano Manish Arora, sostituito nel 2013 dal francese Julien Dossena, tuttora alla direzione creativa.

[...] (..)

Mariella Baroli su Panorama il 3 Febbraio 2023

È scomparso all’età di 88 anni, lo stilista Paco Rabanne. Il creativo spagnolo è stato l’enfant terrible della moda francese durante gli anni Sessanta. Definito da Coco Chanel «il metallurgo della moda» per la sua capacità di usare il metallo per le sue creazioni. A dare la notizia è stato il gruppo Puig, che da anni controlla il marchio e le sue fragranze (tra cui l’iconica Calandre). José Manuel Albesa, presidente della divisione moda e bellezza dell’azienda ha dichiarato: «Paco Rabanne ha reso la trasgressione magnetica. Chi altro poteva spingere le donne parigine alla moda a chiedere a gran voce abiti di plastica e metallo?» Toccante il tributo condiviso sul Instagram: «Tra le figure più fondamentali della moda del XX secolo, la sua eredità rimarrà una costante fonte di ispirazione. Siamo grati a Monsieur Rabanne per aver stabilito il nostro patrimonio d'avanguardia e definito un futuro di possibilità illimitate». Guidato dal suo stile non convenzionale - fu il primo a usare la musica per accompagnare le sue sfilate - Paco Rabanne è stato protagonista anche nel cinema, per cui ha disegnato alcuni abiti iconici come il costume verde indossato da Jane Fonda in Barbarella (1968) e il maxi abiti di paillettes di Audrey Hepburn in Due per la strada.

Lutto nel mondo della moda. È morto Paco Rabanne, addio allo stilista spagnolo che “ha reso magnetica la trasgressione”. Redazione su Il Riformista il 3 Febbraio 2023

Paco Rabanne: sinonimo di estetica Space Age e di profumi best seller, di designer e stilista rivoluzionario e provocatore. È morto lo stilista e designer spagnolo nato Francisco Rabaneda Cuervo, nei Paesi Baschi. Aveva 88 anni, si trovava in Francia, a Portsall. A dare la notizia il gruppo spagnolo Puig, proprietario del marchio, sul suo sito. Al momento non sono state rese note le cause del decesso.

La sua grande personalità ha trasmesso, attraverso un’estetica unica, la sua visione audace, rivoluzionaria e provocatoria del mondo della moda. Continuerà ad essere un’importante fonte di ispirazione per i team di moda e fragranze Puig, che lavorano insieme per esprimere i codici radicalmente moderni di Paco Rabanne. Le mie sincere condoglianze alla sua famiglia e a chi lo ha conosciuto”, ha dichiarato Marc Puig, il presidente esecutivo del gruppo.

Rabanne era nato il 18 febbraio del 1934 a Pasaia, nei Paesi Baschi, figlio di un generale andaluso, Francisco Rabaneda Postigo, fucilato a Santoña, in Cantabria, nel 1937. Era fedele alla Repubblica. La madre era basca, militante e membro della direzione del Partito Comunista Spagnolo (PCE) che aveva lavorato nel taller di Balenciaga a San Sebastian. Quando Paco aveva cinque anni, la famiglia si trasferì in Francia, e lui studiò a Parigi architettura alla Scuola Nazionale Superiore di Belle Arti. E subito entro nel mondo della moda.

Prima disegnò accessori per Givenchy, Balenciaga e Dior. La sua prima collezione la presentò nel 1966: abiti in cui mischiò materiali come plastica, carta, alluminio. Aprì la sua maison nel 1966. Il suo nome e il suo marchio sono diventati noti a livello internazionale. Un impero. Dal 1986 il marchio divenne di proprietà del gruppo spagnolo Puig, col quale già aveva collaborato per i profumi Paco Rabanne pour Homme e 1 Million.

L’addio all’alta moda nel 1999, quando passò a occuparsi della supervisione di collezioni prêt à porter e delle serie di profumi. Divenne noto anche per le sue attività artistiche e per la sua verve filosofica: in particolare si dedicò a interpretare le profezie di Nostradamus. È stato premiato con il Premio Nazionale di Disegno di Moda nell’anno 2010 per la sua “innovazione e il suo contributo a tutti gli ambiti della cultura del XX secolo”. Ormai appariva poco in pubblico.

Paco Rabanne ha reso magnetica la trasgressione. Chi altro poteva indurre le eleganti donne parigine a reclamare abiti di plastica e metallo? Chi se non Paco Rabanne poteva immaginare una fragranza chiamata Calandre (che significa ‘portabagagli’) e farne un’icona della femminilità moderna? Quello spirito radicale e ribelle lo contraddistingue: c’è un solo Rabanne. Con la sua scomparsa ricordiamo ancora una volta la sua enorme influenza sulla moda contemporanea, spirito che rivive nella Maison che porta il suo nome”, ha dichiarato Jose Manuel Albesa, presidente della divisione di bellezza e moda di Puig.

Paco Rabanne, l'architetto della moda. Valeria Braghieri il 4 Febbraio 2023 su Il Giornale. Lo stilista fu il primo a usare metalli e plastica. E a portare la musica sulle passerelle

Chi precorre i tempi è costretto ad attenderli in posti piuttosto scomodi. Lui ne è stato raggiunto in fretta, la storia gli ha dato ragione quasi subito. Non era difficile, d'altronde, l'atto di fede nei confronti di un genio d'avanguardia. Di uno stilista versato nel futuro che il futuro lo ha allargato, spinto avanti, riempito di possibilità illimitate. Ha vestito Audrey Hepburn di plastica e Jane Fonda di metallo, per primo ha fatto camminare le modelle in compagnia della musica: in occasione dell'esordio della sua linea di moda, nel 1966, all'hotel George V di Parigi. Prima di allora, Paco Rabanne, nato Francisco Rabaneda Cuervo il 19 febbraio 1934 a Pasaia nei Paesi Baschi in Spagna, e morto ieri all'età di 88 anni in Francia, aveva studiato architettura. Dopo l'Ecole Nationale des Beaux-Arts di Parigi lavorò per Givenchy, Pierre Cardin, Dior, Balenciaga, Courrèges, Yves Saint Laurent per i quali, tra le altre cose, creò accessori, gioielli, cravatte e bottoni.

Per se stesso, modellò armature, cotte medievali, tute da astronauta, bustini aderentissimi, tutine metalliche, corpetti in plexiglas, giubbini argentati, lamè, piume, cristalli. Ha rivoluzionato la moda toccandola, plasmandola, facendosela girare tra le mani come argilla, scolpendola. Usava pinze, tenaglie e martelli quando gli altri sfioravano i tessuti con esili aghi. Il suo assemblare era arte pura e glielo riconobbe persino Salvador Dalì. Tattile, sanguigno, elegantissimo: nel gusto e nell'essere. Per questo riusciva a frequentare i materiali più insoliti, come quando vestì la Fonda in Barbarella di Roger Vadim nel 1968 (e Coco Chanel prese a chiamarlo «il metallurgico della moda»), o Françoise Hardy di lamine dorate nel 1967 e Audrey Hepburn di grandi pailettes iridescenti in Due per la strada, o Brigitte Bardot, o Lady Gaga, nel 2011. Haute couture ma anche prêt-à-porter: la maison incarnata in uomo. E poi i profumi, come quel primo «Pour Homme» creato nel 1973, che fu solo l'inizio, o quell'ironico e femminilissimo «Calandre» (che significa poi «griglia dell'automobile»). Colto, riservato, austero e accoglientissimo. Un futurista nostalgico. Tanto da voler concludere la sua vita dove l'aveva iniziata. Ricordi metallici eppure dolcissimi.

Quando si ritirò dalle scene nel 1999, e Julien Dossena portò avanti il marchio, si trasferì infatti a Portsall, un villaggio costiero affacciato sull'Oceano Atlantico, estrema punta della Bretagna, dove la sua famiglia si era rifugiata a causa della guerra civile spagnola e dove lui crebbe. Suo padre, il generale Rabaneda Postigo, che comandava la guarnigione di Guernica, fu fucilato dai soldati di Franco nel 1936. Sua madre era una militante e membro della direzione del partito comunista spagnolo basco.

Appassionato di esoterismo, estremamente credente, tanto da guadagnarsi il soprannome di «monaco della moda», nel 2010 Paco era stato proclamato Ufficiale della Legione d'Onore dal Ministero della Cultura francese.

Ieri è stato il gruppo spagnolo Puig, proprietario del marchio che porta il suo nome dal 1986, a dare notizia della morte di Rabanne «una grande personalità della moda, la sua visione era audace, rivoluzionaria e provocatoria, trasmessa da un'estetica unica» ha detto di lui l'ad Marc Puig. Un uomo spiritualmente affamato, trafitto da un'estetica densa, unica e personalissima. Che ha saputo stare al centro quanto allontanarsene.

Morta Josè Rinaldi Pellegrini, la mamma italiana dei Puffi. Floriana Rullo su Il Corriere della Sera il 3 Febbraio 2023.

Inventò il nuovo nome degli ometti blu di Peyo utilizzando il dialetto piemontese

Addio a Josè Rinaldi Pellegrini. Nata a Chivasso nel 1931, negli anni in cui fu direttrice del Corriere dei Piccoli, la rivista settimanale di fumetti italiana, pubblicata dal 1908 al 1996 che ha introdotto in Italia i fumetti statunitensi, oltre a pubblicare autori italiani. Per tutti era la mamma dei Puffi. «Urgeva trovare un nome per loro e adattare al nome il linguaggio e che provassi a trovare e l’uno e l’altro», scriveva la stessa Josè Rinaldi in una raccolta delle sue memorie della vita di redazione. Era il 1964, il Corriere dei Piccoli fu il primo a importare dagli Usa il fumetto ideato da un autore belga. 

È americano il personaggio che appare in prima pagina del numero 1, anno 1908, oltre un secolo fa. Si chiamavano «Strumpf». All’allora direttore del Corriere dei Piccoli, Carlo Triberti, gli omini blu piacquero molto. Ma il nome non tanto. Ed è così che consegnò a Josè Rinaldi le loro storie da tradurre e «italianizzare»: i testi nelle nuvolette erano in francese, i verbi e sostantivi nella lingua strumpf. Qui l'idea nel 1965 di Josè Rinaldi di chiamarli Puffi, dal dialetto piemontese. Dai nomi originali salvò solo Gargamel, italianizzato in Gargamella. E da allora in Italia anche su volere di Peyo, soprannome dell'autore e disegnatore belga Pierre Cuillard, è rimasto, per sempre, il nome Puffi. 

Nata da Silvia Galla, chivassese, con famiglia originaria di Casale Monferrato, e Carlo Nardo Rinaldi, originario della Val Brembana, maresciallo maggiore al comando della stazione di Chivasso, ha trascorso l’infanzia seguendo il padre nelle varie missioni. Nel 1944 il padre venne assassinato sul lavoro e nel 1956 Josè Rinaldi si unì in matrimonio con Giuliano Pellegrini, originario della provincia di Modena. Negli anni successivi, rispondendo a un annuncio sul Corriere in cui si cercavano «giovani laureate per redazione testi scolastici», Josè Rinaldi si candidò e, pur non passando il test, suscitò l'attenzione di Giovanni Fabbri, l'editore e ne scaturì una lunga carriera. I funerali si sono svolti a Chivasso.

Pionieri. È scomparso Giuseppe Benanti, l’imprenditore farmaceutico che inventò il vino dell’Etna. Vittorino Ferla su L’Inkiesta il 4 Febbraio 2023

È stato il primo a comprendere le potenzialità del territorio etneo in ambito vitivinicolo e la sua lungimiranza è stata fondamentale per lo sviluppo della produzione enologica siciliana, oggi apprezzata in tutto il mondo

Foto di Francesco Chittari

Con la scomparsa nei giorni scorsi di Giuseppe Benanti, classe 1945, già a capo della Sifi, l’industria farmaceutica con sede sulle pendici del vulcano, l’Etna perde una figura cruciale per lo sviluppo della viticoltura della zona e per l’affermazione internazionale dei suoi vini. Basti pensare che, prima di Giuseppe Benanti, l’Etna era un territorio vitivinicolo antico ma del tutto ignorato a livello globale. Se i vini dell’Etna, negli ultimi anni, si sono affermati tra gli specialisti internazionali del settore è certamente grazie al terroir unico del vulcano, una combinazione di elementi che hanno esaltato la forte vocazione enologica di quest’area della Sicilia. Ma, tra questi elementi, l’iniziativa di imprenditori visionari come Benanti è stata assolutamente indispensabile.

In primo luogo, l’Etna gode di un microclima unico. La latitudine è africana: Catania è alla stessa latitudine della punta settentrionale della Tunisia. Ma l’altitudine è alpina: la vite sull’Etna, che con i suoi 3.340 metri slm è il vulcano attivo più alto d’Europa, viene coltivata fino a 1.100 metri sopra il livello del mare. In un’area geografica limitata, coesistono così climi mediterranei e montani con escursioni termiche. E se in inverno, specie sul versante nord, le temperature possono scendere anche sotto lo zero, in estate possono superare i 40°C, con un’escursione giorno-notte che raggiunge i 30°C.

Poi c’è il suolo. Nel corso dei millenni, i fianchi dell’Etna sono stati plasmati da crateri, grotte e fenditure, strati di ceneri e lapilli, lunghe colate laviche che hanno arricchito questo suolo di abbondanti quantità di sali minerali, potassio, fosforo e magnesio. Se oggi si ragiona sempre più in termini di contrade e parcelle è perché, anche a pochi metri di distanza, le accentuate differenze di umidità, temperatura, esposizione e suolo, determinano vini altrettanto diversi per carattere e qualità organolettiche. Giuseppe Benanti è stato probabilmente il primo imprenditore a cogliere la rilevanza delle diverse contrade del vulcano.

Allo stesso modo, fin dall’inizio, ha scelto di puntare – quasi esclusivamente – sui vitigni autoctoni, altro elemento di unicità di questo “territorio”. Il Nerello Mascalese, un rosso ricco di tannini che, proprio come Nebbiolo e Sangiovese, si esprime al meglio dopo un lungo affinamento. Il Nerello Cappuccio, uva che aggiunge colore, frutta e morbidezza al Mascalese. Il Carricante, un bianco che, per alcune caratteristiche, alcuni paragonano ai Riesling alsaziani. A dire il vero, negli anni ’90 Giuseppe Benanti, spinto dall’euforia tipica dei pionieri, fu anche protagonista di una sperimentazione di Pinot Nero sull’Etna, in collaborazione con Giacomo Tachis, il celeberrimo enologo piemontese, per più di trent’anni consulente di Antinori.

«La nostra è una storia originale: l’attività di mio padre era soprattutto in campo farmaceutico». Così esordì Antonio Benanti, figlio di Giuseppe, quando andai a trovarlo nella sede della cantina a Viagrande, nel luglio del 2016. «Alla fine dell’Ottocento, il bisnonno Giuseppe possedeva dei vigneti a Viagrande: un classico esempio di piccolo proprietario terriero della zona, come ce ne sono migliaia. Mio nonno è il primo che si laurea in famiglia: trascura la campagna, ma non la vende. Studia oculistica e oftalmologia. Diventa farmacista, uno dei primi a Catania, infatti la sua farmacia aveva matricola 11! È un fenomeno generale: la generazione di mio nonno trascura l’attività di campagna almeno fino agli anni ’70. Prevale l’impegno per l’azienda farmaceutica oftalmica. Mio padre Giuseppe si laurea in farmacia. Da bambino, però, faceva la vendemmia e trascorreva il tempo con il nonno. La fiammella della viticultura era rimasta accesa, sebbene l’attività principale fosse quella farmaceutica, prima in Italia, poi anche all’estero».

La svolta avviene nel 1988. Antonio – che è stato presidente del Consorzio dell’Etna dal 2018 al 2022 – la racconta così: «Mio padre si trovava al Circolo del golf di Castiglione, Il Picciolo, a pranzo con Francesco Micale, un amico medico. Chiedono del vino. Ma il vino dell’Etna non è nella carta. “Possibile che non si possa fare nulla di meglio? Con la storia che abbiamo?”, si chiese mio padre che, nel corso della sua attività lavorativa, aveva viaggiato tanto e bevuto bene. “Se io conoscessi un buon enologo – disse – proverei a fare del vino!” Aveva raggiunto dei successi, aveva disponibilità economiche e voglia di novità. L’amico medico gli rispose: “conosco un enologo catanese che lavora per altri in Sicilia”. Si può dire che l’azienda vitivinicola Benanti nasca lì».

L’enologo catanese citato è Salvo Foti, un personaggio destinato a diventare, a partire da quegli anni, un punto di riferimento per tutto il movimento del vino dell’Etna, nonché custode di una cultura contadina secolare: un vero e proprio guru della viticoltura etnea, soprattutto quella tradizionale ad alberello. Raggiunto da Benanti, Foti risponde così: «Non so esattamente come si fa, ma il potenziale è enorme».

«Il vino l’avevamo fatto sempre nel Palmento – spiega Antonio – seguendo le tecniche tradizionali. Nessuno aveva fatto eccellenza sull’Etna. Salvo Foti faceva consulenze con ben altre cantine e qui trova un signore con disponibilità, carattere, energia e voglia di cominciare. Un signore che non si accontentava: “Non può essere questo l’Etna”. Appunto».

E così, Giuseppe Benanti chiama un gruppo di consulenti: Rocco di Stefano dell’Istituto di Enologia di Asti, Jean Siegrist, professore di Enologia all’Università di Beaune in Borgogna, gli esperti piemontesi Monchiero e Negro direttamente dalle Langhe. In pratica, «Riunisce sull’Etna le eccellenze del vino» racconta Antonio. «Aveva entusiasmo, esperienza, radici. Ma non poteva fare riferimento a nessuno a livello locale: nessuno allora ci puntava. Il gruppo di lavoro fa una selezione di territori sull’Etna. All’epoca sull’Etna si trovavano sia varietà autoctone (Nerello Mascalese, Nerello Cappuccio e Carricante) che alloctone: l’obiettivo di mio padre era quello di scoprire e svelare il potenziale delle varietà autoctone e delle diverse zone vocate. Realizza diverse prove di microvinificazione per cogliere il potenziale di queste uve. Si fanno confronti. Per esempio, il Carricante cresce bene sul versante Est del vulcano fino a Sud Ovest. È una varietà più fragile, ha bisogno di buona illuminazione. Si capisce che bisogna puntare a Nord – Castiglione – per i rossi. E a Milo per i bianchi. I terreni di Viagrande si aggiungono nel 1998. La tenuta di Monte Serra apparteneva a dei parenti di mia madre. Papà si innamorò di questo posto e nel tempo è riuscito a riunire i diversi proprietari e ad acquistarlo». Monte Serra rappresenta uno dei poli dell’azienda. Il polo più antico è a Castiglione: infatti, il nome originario dell’azienda, almeno fino al 1994, è Tenuta di Castiglione. L’altro polo è a Milo, versante Est del vulcano. L’ultimo polo si trova a Contrada Cavaliere, a Santa Maria di Licodia, nella zona sudovest dell’Etna.

Racconta Antonio Benanti: «Il primo imbottigliamento risale al ’90: è l’annata spartiacque. Da quel momento si cerca di lavorare su un prodotto di eccellenza, ma i vini non si commercializzano subito. L’esordio sul palcoscenico del Vinitaly è del ’93: a Verona si presentano il Rovittello, rosso, e il Pietra Marina, bianco». Quest’ultimo diventerà un vino “icona”, esaltato dalla critica enologica americana e internazionale e ambito dai cultori del vino di tutto il mondo. Pietra Marina, così, non è soltanto il biglietto da visita della vitivinicola Benanti, ma di tutta la viticoltura dell’Etna. Alla fine di questo lavoro, Giuseppe Benanti ha in mano un ampio materiale conoscitivo dal quale derivano prodotti di altissima qualità. Una qualità omogenea dei vini conquistata dopo un lavoro di avanguardia. Che dimostra l’importanza del contributo dell’uomo nello sviluppo di un territorio vitivinicolo.

Il terroir infatti è anche – e soprattutto – cultura. Per il caso dell’Etna, dunque, non solo la cultura atavica delle coltivazioni ad alberello, dei muretti a secco realizzati con le pietre di lava, delle terrazze realizzate per favorire l’attività agricola, delle centinaia di palmenti dove un tempo si svolgeva la spremitura delle uve e la fermentazione dei mosti. Ma anche la cultura d’impresa più recente, ispirata da personalità visionarie come quella di Benanti. I suoi anni ’90 sono davvero pionieristici. L’attenzione di oggi per le contrade dell’Etna non esisteva nemmeno lontanamente. Non c’era ancora internet: per dieci anni l’azienda si fa conoscere grazie al passaparola e alle recensioni. Per Benanti, uomo impaziente, amabile, attraente e visionario, il mondo della farmaceutica era noioso. Viceversa, in quello del vino, avrebbe trovato lo spazio più giusto per esprimere il suo magnetismo, manifestazione potente di una personalità brillante e istrionica. Non si trattava di sola forma esteriore. Benanti ha espresso la sostanza umana, culturale e imprenditoriale tipica dei grandi precursori: grazie a questo può essere considerato oggi, da un lato, il padre della viticoltura etnea, dall’altro, il primo imprenditore capace di raccontare l’Etna a livello internazionale. Nel 2007, la cantina Benanti è nominata “Cantina dell’anno” dal Gambero rosso, quando il responsabile era Daniele Cernilli. Oggi l’azienda, guidata dai fratelli Antonio e Salvino, produce 170 mila bottiglie e continua ad essere un brand riconosciuto in tutto il mondo. Possiamo dire certamente che altri imprenditori lungimiranti come Marc De Grazia, Andrea Franchetti e Frank Cornelissen, dopo Giuseppe Benanti, hanno “scoperto” l’Etna, offrendo il loro originale contributo e trasformandola in una star del vino a livello globale. Ma Giuseppe Benanti resterà per sempre colui che l’ha “inventata”.

Marco Giusti per Dagospia il 31 gennaio 2023.

Se ne va uno dei volti più sorridenti del cinema e dello spettacolo americano degli anni ’70 e ’80, Cindy Williams, 75 anni, la Shirley Feeney della serie "Laverne & Shirley", 158 episodi dal 1975 al 1982, in coppia con la sua amica del cuore Penny Marshall come Laverne DeFazio. Ma anche attrice per il cinema, nel folle fantascientifico giovanile  “Gas-s-s-s-” di Roger Corman, in “American Graffiti”, dove era fidanzata con Ron Howard, in “Yellow 33”, diretta da Jack Nicholson, in “La conversazione” di Francis Coppola, “In viaggio con la zia” di George Cukor.

Ron Howard, che divise per bei sei volte le scene con lei, scrive oggi “La sua intelligenza senza pretese, il talento, l’arguzia e l’umanità hanno avuto un impatto su ogni personaggio che ha creato e su ogni persona con cui ha lavorato”. La regista Nancy Meyers ricorda che fu una sua idea fare il remake della serie “Il padre della sposa”. E non è neanche citata.

 Nata a Van Nuys, California, nel 1947, figlia di un’italiana, Francesca Bellini, e di un elettricista, Beachart Williams, crebbe in grande povertà. Col sogno di diventare come il suo idolo, Debbie Reynolds, finisce a far la cameriere in The House of Pancakes a Los Angeles, ma inizia a recitare. Prima per la pubblicità, poi nelle serie tv, poi al cinema.

 La nota nel 1970 Roger Corman per il suo "Gas-s-s-s-s" con Bud Cort e Talia Shire, la sorella di Coppola, sorta di favola apocalittica dove tutti quelli che hanno superato i 25 anni vengono eliminati col gas. L’anno dopo la troviamo nell’opera prima, piuttosto scombinata, di Jack Nicholson, “Yellow 33” con William Tepper, Karen Black e Bruce Dern, poi nel delirante sequel di “The Blob”, cioè “Beware! The Blob” diretto da Larry Hagman, il futuro J.R.. George Cukor la preferisce a Cybill Shepherd e a Joy Bang nel delizioso “In viaggio con la zia” con Maggie Smith.

 Nel 1973 la troviamo nel thriller ultracinefilo “The Killing Kind” di Curtis Harrington con Ann Sothern e Ruth Roman. Ma il vero grande successo arriva con “American Graffiti” di George Lucas e nel suo sequel, “American Graffiti 2” di Bill Norton nel ruolo della ragazza di Ron Howard. E’ favolosa, sveglissima, piccola, moretta, con gli occhioni blue. Tutti i ragazzini se ne innamorano subito anche se non è una bellona.

Fra i due film gira un capolavoro come “La conversazione” di Francis Coppola, dove è la ragazza che Gene Hackman spia. La troviamo anche in “The First Nudie Musical” di Bruce Kimmel. Lucas le fa un provino per il ruolo della Principessa Leia, ma viene battuta da Carrie Fisher, la figlia del suo idolo Debbie Reynolds. Peccato.

 Si consola cucendosi addosso, assieme alla sua amica del cuore, Penny Marshall, i ruoli di Laverne e Shirley che troviamo prima, nel 1975, in cinque puntate di “Happy Days” ideato e creato da Garry Marshall, il fratello di Penny, che molto deve al successo di “American Graffiti”, e poi esplodendo nella serie tutta loro “Laverne&Shirley”, che andrà avanti dal 1975 al 1982, dove sono due ragazzi che vivono da sole negli anni ’50 e ’60.

Negli anni ’80 si sposa con l’attore Bill Hudson, ha due figli, Emily e Zachary. Seguiterà a fare tanta tv, serie di ogni tipo, guest star. E poco cinema. Ma ha lavorato fino a poco tempo.

Morta a 75 anni l’attrice americana Cindy Williams, protagonista della sitcom «Laverne & Shirley». Il Corriere della Sera il 31 gennaio 2023.

 Cindy Williams, che interpretava Shirley al fianco di Laverne di Penny Marshall nella popolare sitcom negli Usa, «Laverne & Shirley», è morta all’età di 75 anni. Lo ha fatto sapere la sua famiglia. Williams è deceduta a Los Angeles mercoledì scorso dopo una breve malattia, hanno detto i suoi figli, Zak ed Emily Hudson, in una dichiarazione rilasciata attraverso la portavoce della famiglia Liza Cranis. «La scomparsa della nostra gentile ed esilarante madre, Cindy Williams, ci ha portato una tristezza insormontabile che non potrebbe mai essere veramente espressa», si legge nella nota. «Conoscerla e amarla è stata la nostra gioia e il nostro privilegio. Era unica nel suo genere, bella, generosa e possedeva un brillante senso dell’umorismo e uno spirito brillante che tutti amavano». Williams ha anche recitato nel film «American Graffiti» del regista George Lucas del 1973 e in «The Conversation» diretto da Francis Ford Coppola dell’anno successivo. Ma era di gran lunga conosciuta per «Laverne & Shirley», lo spin-off di «Happy Days» che andò in onda su ABC dal 1976 al 1983 e che nel suo apice fu tra gli spettacoli più popolari della tv a stelle e strisce.

Estratto dell'articolo di Mario Manca per vanityfair.it il 30 gennaio 2023.

Mentre la nuova serie dedicata a Mercoledì Addams spopola in tutto il mondo tra i balletti su TikTok e il rinnovo di una seconda stagione su Netflix, Lisa Loring, ossia colei che interpretava Mercoledì nella serie originale de La famiglia Addams, ci lascia nel silenzio generale. L'attrice, infatti, si spegne ad appena 64 anni a causa di un ictus, come rivela Deadline. Ad annunciare la morte è la sua amica Laure Jacobson[…] "quattro giorni fa ha subito un grave ictus causato dal fumo e dall'ipertensione», scrive su Facebook.

 «Aveva il supporto vitale da 3 giorni. Ieri la sua famiglia ha preso la difficile decisione di rimuoverlo e lei è deceduta ieri notte». […] quello di Loring era il primissimo adattamento live-action dei cartoni animati del New Yorker di Charles Addams. Quando ha abbracciato il personaggio Lisa aveva solo 6 anni, e lo ha ricoperto per due stagioni - dal 1964 al 1966 - per un totale di 64 episodi.

 […] Con la sua morte, John Astin, volto di Gomez, è ora l'ultimo membro in vita del cast originale della sit-com.

È morta l’attrice Lisa Loring, la prima Mercoledì Addams: aveva 64 anni. Redazione Spettacoli su Il Corriere della Sera il 30 Gennaio 2023.

L’attrice è stata colpita da un grave ictus. Era tornata in auge di recente con il balletto di Jenna Ortega nella serie Netflix

Lisa Loring, prima attrice a interpretare Mercoledì Addams nella serie «La famiglia Addams» andata in onda negli Stati Uniti fra il 1964 e il 1966 è morta a causa di un ictus all’età di 64 anni. La notizia è stata confermata da una delle sue figlie, Vanessa Foumberg, secondo cui Loring «se n’è andata serenamente con entrambe le sue figlie che le tenevano la mano».

Un’amica dell’attrice, Laurie Jacobson, ha dato ulteriori dettagli in un post su Facebook: «È con grande tristezza che comunico la morte della nostra amica Lisa Loring. Quattro giorni fa aveva avuto un grave ictus, provocato dal fumo e dalla pressione alta. Era tenuta in vita dai macchinari da tre giorni. Ieri, la sua famiglia ha preso la difficile decisione di spegnerli e lei se n’è andata la scorsa notte. Nella cultura pop e nei nostri cuori sarà per sempre Mercoledì Addams», ha scritto la donna.

Il nome di Lisa Loring era tornato in auge di recente grazie alla serie tv Netflix «Mercoledì» firmata da Tim Burton e al ballo, diventato virale, interpretato da Jenna Ortega: la sua coreografia è infatti ispirata alla sitcom originale, cioè proprio ai passi della piccola Mercoledì degli anni 60.

Loring era nata nelle isole Marshall nel 1958da genitori che lavoravano nella marina americana. Aveva vissuto alle Hawaii prima di trasferirsi a Los Angeles con la madre e di iniziare una precoce carriera di baby modella e attrice. Dopo la grande notorietà arrivata con «La famiglia Addams» a metà degli anni 60, aveva recitato in un episodio della sitcom «The Pruitts of Southampton» e, già adolescente, era tornata nei panni di Mercoledì nel film tv «Halloween con la famiglia Addams» del 1977. Negli anni 80 aveva fatto parte del cast della soap «As the world turns», ma aveva poi in seguito abbandonato la recitazione, trovando lavoro come responsabile delle pubbliche redazioni in una catena di hotel.

Morto Roberto Perrone, giornalista: aveva 65 anni. Paolo Tomaselli su Il Corriere della Sera il 29 Gennaio 2023.

Scomparso a 65 anni: è stato giornalista del Corriere della Sera, si è occupato di calcio, tennis, nuoto e cucina. Ha scritto molti libri di successo, da Zamora al Commissario Toscano

Roberto Perrone, giornalista e scrittore, è scomparso oggi a Milano a 65 anni. Ha lavorato dal 1989 al 2015 al Corriere della Sera, occupandosi di calcio, tennis, nuoto e cucina

Scrivere come si vive, vivere come si scrive: con curiosità, passione, ironia, quel disincanto che può sembrare cinismo di un finto burbero, ma in fondo è una forma di protezione dagli urti della vita. Adesso che Roberto Perrone, il nostro Perri, se n’è andato a sessantacinque ann i dopo una malattia breve e fulminante, non c’è nulla che ci protegga da questa botta. Nulla. Ma c’è una lezione — trasmessa senza volerlo, perché Perri in cattedra non ci stava mai — che non dimentichiamo: il giornalismo non è solo un mestiere ma è un modo di vivere. Conta quello che sai, le notizie che hai, certo. Ma conta anche quello che trasmetti, la fame che hai. La vita che ci metti, senza risparmiarti.

E con chi gli stava dietro, anche a tavola certo, Perri era capace di una generosità e di un affetto che ci ha comunicato fino alle ultime settimane, quando il timore di avere qualcosa di molto grave non gli ha tolto lo spirito dei giorni migliori. Il Corriere della Sera è stata la sua seconda famiglia dal 1989 al 2015, quando andò in prepensionamento dopo la finale della Juventus a Berlino. L’ultimo suo pezzo è stato in ricordo di Luca Vialli ed è uscito sulCorriere dello Sport , una delle case che lo avevano accolto negli ultimi anni con calore e con rispetto, anche se lui, che aveva iniziato al Giornale, non si atteggiava mai a vecchia gloria: scriveva di tutto, scriveva ogni volta che poteva, passando dal calcio alla cucina, dai romanzi al nuoto, dal tennis alla adorata waterpolo. Da Buffon a Federica Pellegrini, gli atleti che ha amato di più (di Gigi ha scritto anche la biografia), da Federer allo chef Paul Bocuse di Lione, senza mai dimenticare la sua Liguria, l’amore per Genova e il Genoa, il buen retiro della sua Recco.

Il gusto del racconto, dei personaggi e delle persone a cui dare una dimensione, dei dettagli da ricordare, era così grande in Roberto che era tracimata da tanti anni nei suoi libri, il vero scrigno delle sue tante passioni, racchiuse dalla scrittura. Tutto iniziò da «Zamora», che ora finalmente dovrebbe diventare un film tv, per arrivare al commissario Toscano, la sua ultima creatura letteraria. Le sue idee sgorgavano in qualsiasi momento, ma era nei viaggi in macchina verso Torino o altre mille trasferte che la sua immaginazione andava ancora più veloce e facevi fatica a stargli dietro. Era quello l’unico momento in cui non poteva scrivere e allora produceva nella mente, poi appena poteva iniziava a battere sui tasti e si fermava al fischio di inizio di una partita, occupandosi finalmente anche di quella. E ribaltando poi il pezzo al 90’, se qualche sciagurato segnava un gol decisivo, alla velocità della luce, senza che il lettore, anche il più esperto, rilevasse una traccia di fatica nella sua prosa, che era felicissima, sempre. E se pensiamo a Perri, anche in questo momento di dolore profondo nel quale la famiglia del Corriere e della sua redazione sportiva abbraccia forte la moglie Emanuela, i figli Cecilia, Rachele e Giovanni, ci viene anche un po’ da sorridere, per la fortuna di averlo incontrato, per le volte che faceva finta di arrabbiarsi e per tutte quelle in cui ha capito che gli volevamo bene.

Roberto Perrone, il giornalista che sapeva coniugare cucina, sport, amore e cronaca nera. BENEDETTA MORO su Il Corriere della Sera il 30 Gennaio 2023.

Scrittore e giornalista sportivo per diverse testate nazionali, tra cui il Corriere, Roberto Perrone è scomparso a 65 anni. Nella sua vita aveva dedicato molto del suo tempo anche alla cucina e alla buona tavola con articoli e romanzi

La cucina e il cibo facevano parte della sua quotidianità. Erano stati al centro anche di uno dei tanti libri attraverso cui amava dare lustro a storie di vita vissuta e alla scrittura tout court. Dopo lo sport — la madre di tutte le passioni che lo aveva motivato per gran parte della sua carriera al Corriere, dopo aver lavorato ad Avvenire e Il Giornale — Roberto Perrone, scomparso prematuramente a 65 anni a causa di una breve e fulminante malattia, s’è dedicato a lungo alla buona tavola. Noi di Cook lo sappiamo bene. Per la redazione Roberto era un grande amico. Ha cominciato a dispensare il suo sapere in materia quando in realtà il nostro magazine era solo un’idea.

Al Corriere, dove aveva prestato servizio dal 1985 al 2015 prima di lasciare per la pensione, tra i giornalisti c’era un piccolo gruppo di appassionati del buon cibo. In testa Angela Frenda, futura direttrice editoriale dell’inserto, che già allora lavorava alacremente al tema food in tutte le sue declinazioni. A Natale del 2015 Perrone fu invitato a raccontare una sua ricetta.

«Non posso dimenticare i calamari con la polenta, li aveva preparati in un video spassoso per CorriereTv. Lo girammo con Angela Frenda prima che nascesse Cook», ha scritto Elvira Serra, collega del Corsera, in un post su Instagram. Ma quella con Cook è stata una storia d’effetto dato e ricambiato. Perrone nel 2020 aveva presentato «Il nuovo Sud», un master show all’interno di Cibo a Regola d’Arte, il food festival del quotidiano. Protagonista insieme a lui anche Niko Romito, chef tre stelle Michelin al «Ristorante Reale», Castel di Sangro in provincia di Perugia.

Il romanzo tra amori e cucina

Roberto Perrone era un fuoriclasse. A lui passare dallo sport — scrivendo di calcio, tennis e nuoto — ai romanzi, anche a tema poliziesco, veniva naturale. Si faceva un assist e andava in rete, da solo. D’altra parte la scrittura era il suo faro, il resto arrivava grazie a impeto e curiosità, all’ispirazione per l’amata Liguria che gli aveva dato i natali. E dove aveva ambientato La cucina degli amori impossibili. Un romanzo, quest’ultimo, in cui vivono tutti gli ingredienti cari a Perrone, Perri per amici e colleghi. E cioè cibo, cronaca, cultura sopraffina e un briciolo di mistero amalgamati da uno stile sapido e penetrante. Sapeva ben giocare con le parole, lui!

Quella de La cucina degli amori impossibili è la storia di due chef stellati — nemici per la pelle — che vivono in un borgo sulla riviera ligure. La svolta arriva quando uno dei due muore e l’altro può finalmente surclassare i rivali. Ma è solo l’inizio. Il racconto culmina con un amore di shakespeariana memoria intriso di gusto e cucina. Ve ne abbiamo dato un minuscolo assaggio perché il libro val bene una lettura. Omaggio a un grande professionista e amico leale che avremo sempre nel cuore.

Marco Zonetti per vigilanzatv.it il 29 gennaio 2023.

Lutto in Rai. Il direttore generale di San Marino Rtv Ludovico Di Meo (63 anni), già vicedirettore di Rai1 e direttore di Rai2, è scomparso questa mattina, domenica 29 gennaio 2023.

 Reduce da un recente intervento alle coronarie, il dirigente Rai di lungo corso era stato dimesso dall'ospedale ed era tornato a casa, ma stamani - forse a causa degli strascichi dell'intervento - ha accusato un malore che si è rivelato purtroppo fatale.

"Increduli i vertici della Tv di Stato" leggiamo da una nota ufficiale di San Marino Rtv, "insieme a tutto il personale: il Presidente del Cda San Marino Rtv, Pietro Giacomini lo ricorda 'per la disponibilità e competenza', 'sempre pronto a collaborare per il bene dell'emittente'. 'Un grande dispiacere. Ci univa un rapporto di stima ed amicizia reciproca'".

Nato a Roma il 26 agosto del 1959, Di Meo lascia la moglie Paola e due figlie, Federica e Flaminia.

 Giornalista, autore, dirigente d'azienda. Addio all'ex direttore di Rai2 Ludovico Di Meo. E' scomparso stamani a Roma a soli 63 anni. Aveva di recente subito un intervento chirurgico alle coronarie. Federico Garau il 29 Gennaio 2023 su Il Giornale.

A causa di un malore è venuto a mancare, domenica 29 gennaio, l'ex vicedirettore di Rai 1 e direttore di Rai 2 Ludovico Di Meo. Il giornalista, che attualmente ricopriva l'incarico di direttore generale di San Marino Rtv, si è spento a Roma all'età di 63 anni.

Reduce da un recente intervento chirurgico alle coronarie, era stato dimesso dall'ospedale e aveva fatto ritorno a casa. Proprio qui, tuttavia, ha accusato in mattinata il malore che gli è risultato fatale, presumibilmente a causa degli strascichi dell'operazione subita. Di Meo lascia la moglie Paola e le due figlie Federica e Flaminia.

Incredulità per il lutto è stata espressa da tutto il personale di San Marino Rtv. Il presidente del Consiglio di amministrazione della Radiotelevisione della Repubblica di San Marino ha voluto ricordarlo "per la disponibilità e competenza" e per il fatto che si sia "sempre dimostrato pronto a collaborare per il bene dell'emittente". "Un grande dispiacere. Ci univa un rapporto di stima ed amicizia reciproca", ha dichiarato infine Pietro Giacomini. Cordoglio è stato espresso anche dagli ex membri del Cda Giancarlo Mazzuca e Maurizio Cenni, "vicini al dolore dell'Rtv".

La carriera

Nato nella Capitale il 26 agosto del 1959, Ludovico Di Meo divenne giornalista professionista nel 1988, ma iniziò a collaborare con la Rai fin dal 1985 come redattore del programma "Italia Sera". L'anno successivo, invece, entrò a far parte del gruppo di lavoro che si occupò di realizzare "Unomattina", per poi entrare nella redazione del Tg1 mattina. A seguito di una parentesi a Telemontecarlo, fece ritorno al Tg1 nel 1995, assumento l'incarico di curatore, responsabile e conduttore del telegiornale. Dopo aver contribuito alla creazione del programma, nel 1997 divenne anche autore e conduttore di "Unomattina". Fu lui che si occupò, nel 2001, di diffondere la notizia degli attentati alle Twin Towers di New york, curandone anche un'edizione straordinaria.

Nel 2002 sbarcò al Tg2, e l'anno successivo ricoprì l'incarico di caporedattore centrale. Qualche anno più tardi, nel 2008, assunse il ruolo di vicedirettore. Il ritorno a Rai1 avvenne nel 2009: per dieci anni (fino, cioè, al 2019), curò la produzione e la messa in onda del Festival di Sanremo (edizioni 2010, 2011 e 2012), de “L’Arena”, di “Porta a Porta”, di “Telethon”, e di “Overland”.

Nel gennaio del 2020 venne nominato direttore di Rai2 ad interim e assunse anche l'incarico di dirigere la Direzione Cinema e Serie TV. Nel settembre del 2021 fu incaricato dal Cda della Rai di ricoprire il ruolo di Direttore Generale di San Marino Rtv (consociata Rai), entrando in carica il 1° dicembre 2021.

La scomparsa improvvisa. Lutto a Dazn, morto a 24 anni il telecronista Christian Scherpe: “Siamo scioccati”. Vito Califano su Il Riformista il 28 Gennaio 2023

Christian Scherpe era anche calciatore, a livello dilettantistico, oltre che telecronista per la piattaforma di streaming sportivo Dazn. È morto all’improvviso, e per motivi non resi noti, all’età di soli 24 anni. “Un dolore immenso, per una perdita improvvisa che colpisce la famiglia di DAZN. Christian Scherpe, giovane telecronista tedesco, è scomparso all’improvviso: aveva appena 24 anni. Era una delle voci di DAZN Germania, da fine dicembre aveva raccontato la Liga spagnola”, si legge nella nota di cordoglio di Dazn.

Scherpe giocava con l’FC Adler Meindorf. Da poco tempo aveva coronato il sogno di raccontare lo sport che amava. A fine dicembre aveva raccontato nella sua prima telecronaca la partita della Liga spagnola tra Betis Siviglia e Athletic Bilbao. “Con grande sgomento e senza parole abbiamo appreso della morte del nostro giocatore, Christian Scherpe, all’età di soli 24 anni”, si legge nel comunicato della società tedesca su Instagram.

Christian è entrato a far parte dell’FC Adler all’età di quattro anni, ha fatto progressi in tutte le squadre giovanili ed è stato un membro importante delle nostre squadre senior negli ultimi anni. Christian, onoreremo sempre la tua memoria. I nostri pensieri in questo momento difficile sono con la famiglia e gli amici, ai quali estendiamo la nostra più profonda solidarietà. Riposa in pace”.

Come ottenere il rimborso Dazn per i problemi durante Inter Napoli: l’incontro con il ministro e la procedura

Parole drammatiche anche da parte di Dazn. “Siamo scioccati e profondamente rattristati dalla morte del nostro meraviglioso collega e commentatore Christian Scherpe, i nostri pensieri sono con i suoi parenti. Riposa in pace, caro Christian”. 

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Estratto dell'articolo da lastampa.it il 29 gennaio 2023.

È morto a 73 anni il chitarrista Tom Verlaine, famoso negli anni '70 sulla scena punk di New York come frontman della rock band Television. Il gruppo ebbe più successo nel Regno Unito che nei nativi Stati Uniti e si sciolse nel 1978 dopo due album.

 Verlaine - nome d'arte di Thomas Miller, scelto in omaggio al poeta simbolista francese - continuò la carriera da solista, prima che nel 1992 il gruppo si riunisse.

[…] La chitarra di Tom ha reso l'album Marquee Moon un punto di riferimento del punk, e l'omonimo singolo un capolavoro.

Sebbene Television non abbia mai avuto molto successo commerciale, il modo frastagliato e inventivo di Verlaine come parte dell'assalto a due chitarre della band ha influenzato molti musicisti. Television ha pubblicato il suo rivoluzionario album di debutto "Marquee Moon" nel 1977, includendo la title track di quasi 11 minuti e "Elevation", e il secondo lavoro "Adventure" un anno dopo. La crescente tensione tra Verlaine e il collega chitarrista Richard Lloyd portò i Television a sciogliersi dopo il loro secondo album "Adventure".

[…]

È morto Tom Verlaine, chitarrista di culto con i Television. Storia di Matteo Cruccu su Il Corriere della Sera il 29 Gennaio 2023.

Tempi amari per il rock’n’roll: dopo Jeff Beck e Crosby, se ne va un altro chitarrista fondamentale per il genere, anche se del tutto diverso dagli altri due. Ci ha lasciato infatti a 74 anni, Tom Verlaine, motore primo dei Television, band che con due soli album, Marquee Moon e Venus, rivoluzionò la scena punk americana degli anni’70 traghettandola verso la new wave. Verlaine se ne è andato dopo una breve malattia, come ha annunciato Jesse Paris Smith, figlia di Patti. Non a caso, perché la grande cantautrice ebbe una breve relazione con lui in gioventù e con lui e i Television e i Talking Heads, ma anche Blondie e i Ramones egemonizzo la scena newyorchese dell’epoca, intorno al Cbgb, locale culto, davvero seminale, al Village.

Chitarra lancinante («come fossero mille uccelli» avrebbe detto Patti Smith), voce altrettanto aspra, immaginari tortuosi, metaforici, simbolisti insomma (Verlaine è un omaggio al sommo poeta francese Paul), con i Television Tom porto dunque il testimone sonoro dai Velvet Underground alla new wave appunto anni’ 80. In transito infatti: perché, come spesso all’epoca, la band fu una fiammata lunga solo due album (il terzo sarebbe stata una coda successiva, nel 1993) perché poi il chitarrista, dal carattere non proprio facilissimo, dal 1979 sarebbe andato da solo, con ben dieci album, sempre ricercati ma forse non cosi miliari. La fiammata però, quella, non se la sarebbe dimenticata nessuno, assurgendo i Television a band assolutamente di riferimento per il rock dei decenni a venire.

Marco Giusti per Dagospia il 28 gennaio 2023.

Il cinema inglese perde una delle sue attrici più amate e longeve, Sylvia Syms, 89 anni, londinese, attiva dagli anni ’50 a oggi senza mai perdere la sua eleganza e la sua forte presenza sulla scena. Anche se ormai i ruoli che aveva potevano essere quelli di Regina Madre in “The Queen” di Stephen Frears, o di vecchia signora paralitica in “Together” di Paul Duddridge in compagnia di Peter Bowles.

Sono inorridita quando mi guardo nei film ora e vedo una vecchia signora grassa con una faccia spigolosa. Allora ero straordinariamente bella ma non sapevo di esserlo”. Non conturbante come una Diana Dors o una Brigitte Bardot, Sylvia Syms, nata a Londra nel 1934, laureata alla Royal Art of Dramatic Arts, dopo aver debuttato a teatro nel 1954 e essere stata scoperta al cinema dal regista Herbert Wilcox e da sua moglie, l’attrice Anna Neagle con “The Teenage Daughter” nel 1956, diventa presto una delle giovani attrici emergenti inglesi pronta per qualsiasi ruoli.

Anche se la sua freschezza, la sua eleganza, la sua duttilità ne fanno qualcosa di più di più di una bionda popolare in mezzo a cast di soli maschi. Recita con tutti i grandi attori inglesi del momento, da Dirk Bogarde a Laurence Harvey, da Anthony Quayle a John Mills, in una serie di film di grande successo in un momento d’oro del cinema inglese.

 La troviamo in “L’adultera”(“No Time for Tears”, 1957) di Cyril Frankel dove è la giovane amante dell’uomo sposata Anthony Quayle, nel celebre film di guerra “Birra ghiacciata a Alexandria” di J. Lee Thompson, uno dei suoi registi di fiduciam con John Mills e Quayle, il cappa e spada “La spada di D'Artagnan"di David McDonald, la commedia “Uno straniero a Cambridge” di Wolf Rilla con Hardy Kruger, il mystery “No Trees in the Street” di J. Lee Thompson con Herbert Lom.

La troviamo nel più importante “Passaggio a Hong Kong” di Lewis Gilbert con Curd Jurgens e Orson Welles,1959, il primo film della Rank in cinemascope, dove Welles litigò talmente tanto con il suo coprotagonista, che da drammatico fece diventare il film una commedia, rendendo il film un totale flop. Mettiamoci anche il buffo musicarello rock’n’roll “Espresso Bongo” di Val Guest con Laurence Harvey e Cliff Richard. Hollywood cercò di lanciarla, pur se in un ruolo da non protagonista, in “Il mondo di Suzie Wong” di Richard Quine con William Holden e Nancy Kwan, girato a Hong Kong.

Ugualmente importante fu per lei il ruolo di moglie di un avvocato inglese accusato di omosessualità in “Victim” di Basil Dearden con Dick Bogarde. Un film che apriva ufficialmente il problema dell’omosessualità in un paese che la cataloga fra i crimini. Altro film politicamente importante fu “Flame in the Streets” di Roy Ward Baker con John Mills sulle rivolte razziali delle minoranze giamaicane in Inghilterra.

Nello stesso anno arriva in Italia come protagonista, nel ruolo di Clelia, del peplum “Le vergini di Roma” iniziato da Vittorio Cottafavi e finito da Carlo Ludovico Bragaglia con Louis Jordan, Ettore Manni e Michel Piccoli, che si ritrova nel film solo perché seguiva una sua misteriosa amante del tempo. Malgrado avesse girato solo questo film in italia, Sylvia Syms venne molto seguita dalle cronache del tempo, dove, prima di lei, aveva così brillato la più esuberante Belinda Lee.

Di fatto, la prestigiosa carriera iniziale della Syms non deve nulla al celebre divano del produttore né si trovò in situazione scabrose con questo e qull’attore. “A me non è successo”, dirà anni dopo, “in parte perché molti degli uomini con cui ho lavorato avevano percorsi diversi. Non puoi immaginare Anthony Quayle, eroe di guerra, che ci prova. O John Mills che recitava fin da quando era ragazzo. Orson Welles non si sarebbe mai permesso di fare cose del genere. Ero molto ingenua al tempo, ma ero anche una rispettabile donna sposata”.

Si permette, come quasi tutti gli attori inglesi, di alternare al cinema, oltre che tanta tv, anche tanto teatro. Nel 1964 è celebre un suo “Peter Pan”, dove interpreta appunto Peter Pan. Se in tv fa ogni genere di serie, più io meno celebre, al cinema va avanti con avventurosi, come “La rivolta del Sudan" di Nathan Juran con Anthony Quayle e una giovanissima Jenny Agutter, spionistici come “Operazione Crossbow” di Michael Anderson con George Peppard, Tom Courtenay e Sophia Loren, film da anni invedibile, al sotto-007 molto amato da Tarantino “La mano che uccide” di Seth Holt con Richard Johnson, Carol Lynley e Barbara Bouchet.

Tra la fine degli anni ’60 e ’70 perde il suo aspetto di ragazza, ma non le mancano i ruoli. La troviamo assieme al figlio, Benjamin Edney, nel curioso violento western americano girato in Spagna “Non uccidevano mai la domenica” di Henry Levin con Vince Edwards, Jack Palance e George Maharis, che prese il posto di Jeffrey Hunter, morto improvvisamente. E’ decisamente più a suo agio nell’horror a episodi “La morte dietro il cancello” di Roy Ward Baker, 1972, o in “Il seme del tamarindo” di Blake Edwards con Julie Andrews e Omar Sharif.

La riporterà al cinema, strappandola a teatro e tv, Julian Temple per il divertente “Absolute Beginners” con David Bowie, dove rivive gli anni della prima Londra sbarazzina. Popolare fu anche la sua versione di Margaret Thatcher nel televisivo “Thatcher: The Final Days” nel 1991. Anche se da anziana signora sarà più visibile in tv che al cinema, non si lascerà mai andare né oserà smettere di lavorare (“Non ho guadagnato abbastanza per farlo”), così la troveremo nel 2006 in “The Queen”, nel 2008 in “Is Anybody There?” con Michael Caine.

 Invecchiata, è vero, ma sempre perfetta, sempre sorridente. Si preoccupava solo che la Regina non l'avesse riconosciuta, scambiandola con la moglie di Richard Attenborough, Sheila Sim. “Fu super gentile con me, come se mi conoscesse già, cosa che non era avvenuta, a parte avermi vista come attrice”.

Marco Giusti per Dagospia il 25 Gennaio 2023.

Il cinema di genere internazionale perde anche Eugenio Martín, 97 anni, autore di strepitosi horror di coproduzione, come “Ipnosi” con Jean Sorel, Eleonora Rossi Drago, Massimo Serato, “Horror Express” noto anche come “Panico en la Transiberiana” con Christopher Lee, Peter Cushing, “Una candela per il diavolo” con Judy Geeson e Aurora Batista.

Ma anche di spaghetti western innovativi come “The Bounty Killer”, che offrì il primo ruolo da protagonista nel genere a Tomas Milian e rimane come uno dei lavori fotografici più forti di Enzo Barboni, “Requiem per un gringo” con Lang Jeffries, Femi Benussi e Fernando Sancho, “… e continuavano a fregarsi il milione di dollari” con Lee Van Cleef, James Mason, Gianni Garko e Gina Lollobrigida, “I tre del mazzo selvaggio” con Telly Savalas come Pancho Villa, Clint Walker, Chuck Connors e Anne Francis.

 Ma diresse anche avventurosi come “Il conquistatore di Maracaibo” con Hans von Borsody, Luisella Boni, Helga Liné, “Per un pugno di diamanti” con Pierre Brice, Gillian Hills, Emma Penella, “L’uomo di Toledo” con Stephen Forsyth, Ann Smyrner, Carl Mohner. Thriller come “In fondo alla piscina” con Carroll Baker, Michael Craig, Marina Malfatti e addirittura un musicarello con Julio Iglesias, “La vida sigue igual”.

Fu un maestro della coproduzione, italo-spagnola, soprattutto, ma anche italo-ispano-tedesca o francese. Adattandosi a tutti, avendo fatto una grande scuola da assistente e sviluppando una sua propria personalità che anche i produttori italiani riconoscevano.

Eugenio Martín Marquez, questo il nome completo, era nato a Ceuta il 15 maggio del 1925, e presto si spostò a Granada, dove iniziò a studiare legge all’università. Ma visto che vedeva Granada come una prigione, andò a studiare a Madrid, dove si laureò alla Facoltà di lettere e Filosofia e studiò alla scuola di giornalismo della capitale. Molto attivo nel cinema, fondò un cineclub e diresse i suoi primi cortometraggi già a metà degli anni ’50, “Viaje romantico a Granada”, premiato al Festival di San Sebastian, “Detras de la muralla”, “Romance de una batalla”, ai quali ne seguiranno altri.

Dopo essersi fatto esperienza come aiuto di Terence Young (“Zarak” con Anita Ekberg), Nicholas Ray (“Il Re dei Re”) , Guy Hamilton, Michael Anderson, Roy Ward Baker (“The Singer not the Song”) in Almeria, per le produzioni di avventurosi di Charles Schneer con i favolosi effetti speciali di Ray Harryhausen, come “Il 7° viaggio di Simbad” di Nathan Juran e “I tre viaggi di Gulliver” di Jack Sher, diresse nel 1957 il suo primo film, la commedia “Despedida de soltero” con German Cobos e Silvia Solar, seguito nel 1961 dall’avventuroso “Los corsarios del Caribe”/“Il conquistatore di Maracaibo”, firmato Jean Martin, sceneggiato da Gianfranco Parolini, con Hans von Borsody e Luisella Boni.

Arriva al mystery-horror nel 1962 con “Hipnosis”/”Ipnosi” con Jean Sorel, Massimo Serato, Eleonora Rossi Drago, Gotz George, molto apprezzato dalla critica spagnola. Si dimostra abile a passare da un genere all’altro. Dirige così nel 1964 “Duelo en el Amazonas”, da noi ribattezzato “Per un pugno di diamanti”, il curioso “La muerte se llama Myriam”/“L’uomo di Toledo” con Stephen Forsyth che è una sorta di mischione di cappa e spada e 007. Essendosi fatto una fama come buon regista riesce così a girare il più maturo “El precio de un hombre” o “The Bounty Killer”, come uscì in Italia, che non è solo il suo primo western, ma il primo western con sovvenzionamento statale di “interesse artistico”.

Il film deve anche molto al produttore-sceneggiatore José Gutiérrez Maesso, uno dei padri storici dello spaghetti, e al grande Enzo Barboni, qui direttore della fotografia che riesce a muovere la macchina con dolly meravigliosi in un villaggio western costruito per l’occasione in Almeria, al poblado di Los Solaninos. La storia è molto classica, e infatti viene da un testo celebre di Marvin H. Albert già portato al cinema a Hollywood, che Maesso aveva in un primo tempo offerto a Sergio Leone, prima che facesse “Per un pugno di dollari”.

Sembra che Leone avesse scritto un copione per il film che Maesso rifiutò, come rifiutò di entrare da coproduttore nel suo primo western. Ma Maesso chiese un copione anche a Duccio Tessari, che stava lavorando appunto con Leone. Progetta un altro western che non girerà, “Mudarra”. Tra gli anni ’60 e ’70 gira di tutto, “Una senora estuèpenda” con Lola Flores, “La vida sigue igual” con Julio Iglesias, “Las leandras” con Rocio Durcal, il thriller italo-spagnolo “In fondo alla piscina”.

 Più ricco e interessante, anche se non proprio riuscito, “El hombre de Rio Malo”/“…e continuavano a fregarsi il milione di dollari”, che firma come Gene Martin, prodotto da due nomi celebri di Hollywood come Irving Lerner e Bernard Gordon, scritto da Philip Yordan con una Gina Lollobrigida non più giovanissima (“madurita pero muy seductora”, scrive il critico Anselmo Nunez Marques) che fa l’avventuriera in un Messico da rivoluzione in mezzo a un cast di star maschili  che va da Lee Van Cleef a James Mason da Gianni Garko a Sergio Fantoni.

Nel 1972 esce il suo capolavoro horror, “Panico en el Transiberiano”/”Horror Express” con due star del calibro di Christopher Lee e Peter Cushing. Anche l’anno seguente alterna un western prodotto da Philip Yordan e Bernard Gordon, “El desafio de Pancho Villa”/”I tre del mazzo selvaggio” con Telly Savalas come Pancho Villa, a un horror, “Una vela para el diablo”/”Una candela per il diavolo” con Judy Geeson, seguito dall’erotico “La chica del Molino Rojo” /”Una partita a tre” con Marisol, Mel Ferrer e Renaud Verley.

 Molto attivo anche negli anni successivi, scrive per il produttore José Maesso regista “El clan de los immorales”/”La testa del serpente” con Helmut Berger, dirige in proprio “Call Girl(Vida privada de una senorita bien)” con Teresa Rabal, “Tengamos la guerra en paz” con Francisco Cecilio e Veronica Miriel, dimostrando che è uno dei rari registi spagnoli che riesce a mantenere un suo status di autore anche nel cinema di genere senza scadere mai nella qualità dei film che gira.

 Con la fine delle coproduzioni e dei metodi non proprio limpidi con i quali i produttori italiani e spagnoli approfittavano delle regole nazionali, torna a un cinema più piccoli, ma più libero. Tra i suoi ultimi film troviamo anche “Aquella casa en las afueras”, La capilla ardiente”, “Sobrenatural” con Cristina Galdo, Maximo Valverde, del 1981, “La sal de la vida”, addirittura del 1995.

È morto Pino Roveredo, scrittore degli ultimi e degli emarginati. CRISTINA TAGLIETTI su Il Corriere della Sera il 21 Gennaio 2023.

Autore triestino di narrativa e di teatro, nel romanzo d’esordio «Capriole in salita» raccontò la sua vita tra alcol, carcere e manicomio. Con i racconti di «Mandami a dire» vinse il premio Campiello nel 2005, a pari merito con Antonio Scurati

Pino Roveredo era nato a Trieste nel 1954

L’emarginazione, la malattia mentale, l’alcolismo, l’esistenza reclusa o randagia di personaggi ai confini della società e della vita stessa. Pino Roveredo (qui sotto, foto di Luigi Costantini/Ap), scrittore triestino morto ieri a 69 anni dopo una lunga malattia, ha raccontato con l’autenticità data dall’esperienza vissuta i territori di chi, «cullandosi sopra l’altalena del tempo, fatica il giorno per guadagnarsi la notte». Nato da genitori sordomuti e poverissimi nella Trieste del secondo dopoguerra, 1954, Roveredo aveva passato gli anni dell’infanzia in collegio, in un regime di soprusi e maltrattamenti, a cui, dopo la fuga, erano seguiti l’alcolismo, la prigione e poi il manicomio. In quell’esperienza aveva messo radici il primo doloroso romanzo uscito nel 1996 da Lindt poi pubblicato dalla Bompiani di Elisabetta Sgarbi, Capriole in salita, che gli diede una certa notorietà e la possibilità di una seconda stagione di vita, dominata dalla scrittura.

A quell’esordio (anche se, scrisse Claudio Magris, «più che esordire Roveredo è entrato di forza nella letteratura»), erano seguiti Ballando con Cecilia, un viaggio nell’ombra di una novantenne che ha trascorso 60 anni in un ospedale psichiatrico dove è rimasta anche quando, con la riforma Basaglia, quel suo universo chiuso si è aperto, e «Mandami a dire» con cui, nel 2005, vincerà , a pari merito con Antonio Scurati su un podio tutto Bompiani, il Premio Campiello che ieri lo ha ricordato oltre che «per la sua penna ispirata, per la caratura morale».

Era lo stesso Roveredo a spiegare il senso di un percorso scandito da un diverso rapporto con il dolore: prima la sofferenza come ragione per continuare sulla strada dell’autodistruzione, poi ragione di vita. Dopo Mandami a dire che raccoglie quattordici storie, alcune fulminee, di sofferenza e speranza, in cui l’equilibrio dello stile evita ogni eccesso patetico, Roveredo ha scritto molto — racconti, romanzi e testi teatrali — non sempre con la stessa asciutta ispirazione degli esordi, ma creandosi un suo spazio nel mondo letterario, facendo sentire, e ascoltare, la sua voce anche nelle dinamiche della società (era volontario, operatore di strada, educatore e, dal 2014 al 2018, garante per i diritti dei detenuti del Friuli Venezia Giulia) e della politica (nel 2021 si era candidato a consigliere comunale a Trieste, con una lista civica).

Nei libri seguiti a Mandami a dire, tutti pubblicati da Bompiani, Roveredo ha continuato a frequentare, con registri diversi, i territori dell’autobiografia, i temi dell’emarginazione e del male di vivere. Come in Caracreatura, dove una madre che si è lasciata alle spalle un passato difficile, si trova di fronte alla tossicodipendenza del figlio, o come in M io padre votava Berlinguer , una sorta di lettera al genitore operaio-calzolaio, scomparso nel 1981, compreso, anche nelle sue debolezze, dopo la morte. O ancora come nei racconti di Mastica e sputa, titolo preso a prestito da una canzone di un’altra grande voce degli esclusi, Fabrizio De Andrè. L’ultimo romanzo,I ragazzi della via Pascoli , è dedicato ai lettori più giovani e reinventa la storia di Pino, pescato in un sacco dal padrone dell’Universo e spedito con il gemello Rino a Trieste, nella «galleria del silenzio», in una casa umile dove ci si arrangia con pane, patate e fantasia, e dove, insieme all’affetto, regna il linguaggio dei segni, mentre fuori imperversa il rumore.

Morta l'imprenditrice Daniela Gavio, erede dell'impero autostradale.  Floriana Rullo su Il Corriere della Sera il 20 Gennaio 2023.

Aveva 64 anni. Era vice presidente dell'Autostrada dei Fiori

Il mondo dell'imprenditoria è in lutto per la morte di Daniela Gavio, 64 anni, vice presidente dell’Autostrada dei Fiori e soprattutto erede con il fratello Beniamino e i cugini Marcello e Raffaella, dell’impero autostradale, delle costruzioni, dell’energia, dei servizi e dell’economia del mare fondato dal papà, Marcellino Gavio, scomparso nel 2009 all’età di 77 anni. 

Daniela era nata ad Alessandria, il 16 febbraio 1958, ma le radici sono sempre state a Tortona, dove hanno sede praticamente tutte le aziende del gruppo Gavio. Laureata in medicina, specializzazione in Chirurgia presso l’Università degli Studi di Genova, nel corso degli anni era entrata in gran parte delle società controllate dalla famiglia ricoprendo numerosi incarichi. 

Dal 2020 faceva parte dell’assemblea del Comitato Tortona per l’Ospedale, costituito durante la pandemia Covid per raccogliere fondi e finanziare l’attività del presidio anche dopo l’emergenza pandemica. Un incarico che aveva portato avanti insieme con il fratello Mino trasformando il “Santi Antonio e Margherita” è stato tra i primi Covid Hospital in Piemonte nel marzo 2020. 

«Apparteneva a una famiglia che ha saputo, negli anni, creare opportunità di lavoro e ottenere risultati imprenditoriali straordinari, restando sempre legata al territorio e dimostrandosi presente, in particolare nei momenti di difficoltà, attraverso le tante generose donazioni - ha detto il sindaco Federico Chiodi -. Personalmente ho collaborato con lei durante la fase più drammatica della pandemia Covid quando, grazie alla sua preparazione medica, ha aiutato a spendere saggiamente le ingenti somme raccolte a favore di medici, infermieri, pazienti». Dal primo cittadino le condoglianze alla famiglia cui si stringe in questo doloroso momento di lutto, esprimendo la vicinanza di tutta l’amministrazione comunale e di tutta Tortona. 

Il funerale verrà celebrato domani, alle ore 15, nell’Insigne Collegiata Santi Pietro e Paolo di Castelnuovo Scrivia. Questa mattina tutti gli uffici delle aziende di famiglia resteranno chiusi per lutto.

Il rosario verrà fatto in firma privata. Questa mattina tutti gli uffici delle aziende di famiglia resteranno chiusi per lutto.

(ANSA il 19 gennaio 2023) - Il veterano del rock statunitense David Crosby è morto all'età di 81 anni. Lo riporta la Bbc. Il cantautore è stato fondatore di due delle più grandi band degli anni Sessanta: The Byrds e Crosby, Stills and Nash.

 La sua carriera lo ha visto raggiungere la rara impresa di essere inserito per due volte nella venerata Rock and Roll Hall of Fame. Sua moglie ha dichiarato al sito di spettacolo Variety che è morto mentre era circondato dalla famiglia. "La sua eredità continuerà a vivere attraverso la sua musica leggendaria", ha aggiunto

Da “Anteprima. La spremuta di giornali di Giorgio Dell’Arti”

 David Crosby (1941-2023). Chitarrista e cantautore californiano. Detto «il baffone del rock». «Era l'inizio del 1964 quando David Van Cortlandt Crosby, figlio di un direttore della fotografia di Hollywood e attore drammatico mancato, si era esibito nei club con il nome di The Jet Set, poi diventati The Byrds, con Roger McGuinn e Gene Clark nella formazione iniziale.

 Il primo vero successo era arrivato con una versione rivista di Mr. Tambourine Man di Bob Dylan. Nel giro di qualche anno emerse la vena da compositore di Crosby, che lasciò la band per unirsi a Stephen Stills, altro musicista rimasto senza gruppo. I due cominciarono una collaborazione che avrebbe fatto la storia della musica, insieme a Graham Nash e poi con Neil Young.

Vennero gli anni di brani come Déjà vu, il disco dal vivo 4 Way Street, la reunion nel '73, la compilation So Far e poi Wind on the Water, il duo irripetibile con Nash e la carriera da solista che gli diede una nuova consacrazione» [Rep]. Aveva 81 anni. Era malato da tempo.

(ANSA il 10 aprile 2023) - David Crosby, il leggendario musicista rock americano scomparso a 81 anni lo scorso 19 gennaio, è morto dopo aver contratto il Covid.

 Lo ha rivelato l'amico e collega Graham Nash, in un'intervista per il podcast 'Kyle Meredith With…'. Nash ha raccontato che il suo ex compagno nello storico gruppo Crosby, Stills, Nash & Young stava provando un suo spettacolo a Los Angeles quando è risultato positivo al virus per la seconda volta. "Dopo tre giorni di prove si sentiva male. Aveva già avuto il Covid e lo aveva contratto di nuovo. E così è andato a casa dicendo che avrebbe fatto un pisolino, e non si è più svegliato. Ma è morto nel suo letto, ed è fantastico", ha spiegato Nash.

Al momento della scomparsa la moglie aveva dichiarato che Crosby era morto dopo "una lunga malattia". Il musicista aveva affrontato molteplici, gravi problemi di salute nel corso degli anni, tra i quali diabete, problemi cardiaci e diversi trapianti di fegato. "In verità ci saremmo aspettati che David morisse vent'anni fa", ha spiegato Nash nel podcast. "Il fatto che sia arrivato a 81 anni è stato sorprendente... Ma è stato uno shock, una specie di terremoto".

Addio a David Crosby: dieci canzoni indimenticabili Ansa. Gianni Poglio su Panorama il 20 Gennaio 2023.

Aveva 81 anni ed è stato uno degli artisti più influenti ed ispirati della sua generazione

Uno spirito gentile, un artista di grandissimo talento che verrà ricordato per essere stato uno dei fondatori dei leggendari Byrds e per i dischi ed i tour con il quartetto formato da lui, Stephen Stills, Graham Nash & Neil Young. David Crosby aveva 81 anni ed era nato a Los Angeles il 14 agosto del 1941. L'incontro con Stills e Nash avvenne nel 1967. Due anni più tardi al terzetto si unì Neil Young: il primo risultato della collaborazione a quattro fu un album storico, Déja Vu che conquistò i primi posti delle classifiche mondiali. A seguire uno dei dischi live più importanti di sempre: 4 Way Street. Nel 1969 la fidanzata di Crosby, Christine Hinton, morì in un incidente d'auto. L'impatto della tragedia fu devastante per il musicista e diede inizio ad un periodo molto difficile tra droghe ed alcol. Nel 1971 David Crosby pubblicò il suo primo album solista, If I could only remember my name con la partecipazione di Graham Nash, Neil Young, Joni Mitchell, Jefferson Airplane, Grateful Dead e Santana. Un disco considerato a pieno titolo un capolavoro deldel rock californiano e dello spirito di quegli anni. Nel 1989 David Crosby ritornò a incidere un album solista, Oh Yes I Can, in risposta al titolo del suo disco del 1971. Vogliamo ricordarlo con dieci canzoni indimenticabili che sono storia della musica contemporanea:

1) All I really want to do - The Byrds

2) Turn! Turn! Turn! - The Byrds

3) Marrakesh Express - Crosby Stills & Nash

4) Suite: Judy Blue Eyes - Crosby Stills & Nash

5) Déjà vu - Crosby Stills, Nash & Young

6) Almost cut my hair - Crosby Stills, Nash & Young

7) Teach your children (live da 4 way street) - Crosby Stills, Nash & Young

8) The Lee Shore (live da 4 way street) - Crosby Stills, Nash & Young

9) Music is love - David Crosby

David Crosby, morto a 81 anni il grande chitarrista: l’annuncio della moglie. Redazione Spettacoli su Il Corriere della Sera il 19 Gennaio 2023.

La moglie dell’artista: «È con grande tristezza che annuncio la scomparsa del nostro amato David dopo una lunga malattia. Anche se non è più qui con noi, la sua umanità e il suo spirito gentile continueranno a guidarci e ispirarci»

Ha disegnato un’epoca d’oro del rock. David Crosby è morto all’età di 81 anni. Il cantautore americano è stato fondatore di due delle più grandi band degli anni Sessanta: The Byrds e Crosby, Stills and Nash. La sua carriera lo ha visto raggiungere la rara impresa di essere inserito per due volte nella venerata Rock and Roll Hall of Fame. Sua moglie Jan Dance ha rivelato alla rivista Variety che David è morto mentre era circondato dalla famiglia e dopo aver sofferto per una lunga malattia. «La sua eredità continuerà a vivere attraverso la sua musica leggendaria», ha aggiunto. David Crosby era nato a Los Angeles il 4 agosto del 1941.

Nell’arco della sua straordinaria carriera ha creato canzoni che sono vere pietre miliari per più di tre generazioni. E’ stato un pioniere del folk-rock, non solo con la sua musica impegnata ma anche devolvendo i proventi dei suoi concerti a molte cause sociali. Incarnò in pieno lo stile di vita degli anni Sessanta, Nonostante fosse ancora attivo sui social, aveva rinunciato al progetto di tornare ad esibirsi dal vivo.

La sua carriera lo ha visto raggiungere la rara impresa di essere inserito per due volte nella venerata Rock and Roll Hall of Fame .

Marco Giusti per Dagospia il 18 gennaio 2023.

Il cinema di genere italiano perde anche Giorgio Mariuzzo, 83 anni, regista di una serie di film bizzarri negli anni ’70 come il musicarello “Quelli belli siamo noi” con Maurizio Arcieri, Orchidea De Santis, Loredana Berté, Ric e Gian, il comicarolo “Orazie  Curiazi 3 – 2” con Gianni Agus, Lino Banfi, Gloria Guida, Ines Pellegrini, Elio Pandolfi, il truculento tardo western erotico “Una donna chiamata Apache”, che firma George McRoots con Al Cliver alias Pier Luigi Conti e la finta indiana Yara Kewa alias Clara Hopf, girato a Viareggio nei Tirreni a Studios, “Mondo porno oggi” e il più recente ma non meno scombinato “Andy si nasce”.

Mariuzzo fu anche prolifico sceneggiatore per ogni tipo di film, dagli horror infernali di Lucio Fulci, “E tu vivrai nel terrore. L’aldilà”, “Quella villa accanto al cimitero”, ai Pierini più o meno apocrifi, “Pierino medico della Saub” e “Pierini la peste alla riscossa” di Umberto Lenzi, alle serie tv di Giorgio Capitani, suo maestro di cinema, come “Il restauratore” con Lando Buzzanca girata nel 2012.

 Aveva iniziato a scrivere per il cinema negli anni ’60 con una serie di film erotici diretti da Giuliano Biagetti, “Interrabang” con Haydée Politoff, Corrado Pani, Beba Loncar e “La svergognata” con Philippe Leroy e Leonora Fani, “La novizia”, per poi seguitare con la commedia sexy, “La dottoressa sotto il lenzuolo”, “Tre sotto il divano”, “L’insegnante al mare con tutta la classe”.

Fondamentale fu l’incontro con Lucio Fulci, per il quale scrisse anche la serie tv dedicata a Franco Franchi “Un uomo da ridere”.  Fu molto attivo anche nel seriale della Rai, da “Linda e il brigadiere” a “Il mastino”, da “un cane sciolto” a “Commesse”, lavorando con tutti i registi del tempo, da Sergio Martino, Gianluigi Calderone, Luigi Perelli e Giorgio Capitani, coi quali riuscì a esprimere un sano artigianato che lo rese assolutamente indispensabile.

Marco Giusti per Dagospia il 18 gennaio 2023.

Se ne va il regista di “Femmes Femmes”, “Corpo a cuore” “Una donna per tutti” e “Once More – Ancora”, forse il primo film sull’Aids visto da un regista dichiaratamente omosessuale, adorato dalla critica europea, Paul Vecchiali, 93 anni, attivo dagli anni ’60 a oggi, fra cinema e tv, anche se la sua maggior fortuna critica nel nostro paese si fermò circa una ventina d’anni fa.

 Corso, nato a Ajaccio nel 1930, passò l’infanzia a Tolone. Iniziò a girare i suoi primi film a trent’anni, dopo una serie di piccoli film sperimentali, “Les primes drames”, 1961, con Michel Piccoli, Nicole Courcel, Jean Pommeir, il corto “Les roses de la vie” con Jean Eustache, Les ruses du diable (Neuf portraits d'une jeune fille), 1966, “L’etrangleur”, 1970, con Jacques Perrin e Julien Guiomar. Ma sarà “Femmes femmes”, 1974, piccolo film in 16 mm girato con due protagoniste strepitose, Hélène Surgère e Sonia Saviange, che dividono la stessa abitazioni, attrici, che recitano improvvisando parecchio, a lanciarlo davvero al Festival di Venezia.

Pasolini lo adorò e riprese le due attrici per il suo “Salò”. Nel successivo “Change pas des main”, con Myriam Mézières e le stesse Hélène Surgère e Sonia Saviange, una politica si ritrova il problema che il figlio ha girato un porno e si teme un. Ricatto. Vecchiali sceglie temi difficili e non è particolarmente adatto al cinema più facile del tempo. In “La machine”, un trentenne è condannato a morte per aver ucciso un bambino di otto anni.

Nel celebre corto “Maladie”, lo stesso regista legge il diario della malattia del padre morto di cancro. La malattia torna pure nel successivo e fortunato “Corpo a cuore” con Nicolas Silberg e Beatrice Bruno, dove scatta l’amore tra un meccanico e una donna più grande che ha ancora poco da vivere.

 Romantico, eccessivo, Vecchiali torna al successo con lo strepitoso “Una donna per tutti” o “Rose la Rose, femme publique”, dove la protagonista, Marianne Basler, è una prostituta di Les Halles a Parigi, legata a un pappone, Jean Sorel, che si innamora di un bel ragazzo, Pierre Cosso. Nel 1988 fa grande colpo il suo film sull’Aids, “Once More – Ancora” dove un uomo lascia la famiglia per vivere finalmente la sua vita con un altro uomo.

Negli anni successivi, Vecchiali si muove tra serie tv, corti e qualche raro film, senza perdere mai di vista il suo tipo di cinema, di grande forza sentimentale e sociale, e i suoi attori più amati, da Marianne Basler a Edith Scob. In “Le cancre”, 2016, lui stesso si mette in scena alla ricerca del primo amore della sua vita, Catherine Deneuve. Il suo ultimo film, addirittura del 2022, “Pas… de quartier”, è un dramma musicale ambientato in un cabaret di travestiti.

Da  repubblica.it il 17 gennaio 2022.

È morto il coreografo e regista televisivo e teatrale Gino Landi. Aveva 89 anni. Il decesso è avvenuto stamattina nella sua casa a Roma. La sua collaboratrice Cristina Arrò ha spiegato che Landi da tempo aveva problemi di salute. 

Gino Landi, al secolo Luigi Gregori, è nato a Milano il 2 agosto del 1933. Fu avviato allo studio della danza dai suoi genitori, entrambi artisti di varietà. Iniziò come ballerino, passando poi alla coreografia. Fu scoperto da Erminio Macario mentre metteva in scena Bulli e pupe con l'attore e comico Fanfulla.

 Ha poi lavorato al cinema, in teatro e in tv divenendo uno dei più affermati registi televisivi e teatrali del panorama nazionale e internazionale, collaborando con Nino Rota, Ennio Flaiano, Federico Fellini e tanti altri.

A lui si devono le regie televisive di alcune edizioni del Festival di Sanremo, del Festivalbar e di numerosi spettacoli teatrali in collaborazione con il duo Garinei e Giovannini, come Rugantino o Vacanze romane.

Ha curato la regia e la coreografia di molte operette al Festival dell'Operetta che organizzava il Teatro Verdi di Trieste, ma anche di opere liriche come Les contes d'Hoffmann di Offenbach, La Rondine di Puccini e Il mondo della Luna di Paisiello.

Un uomo "geniale", un "ballerino e coreografo veramente eccezionale". Pippo Baudo ha ricordato così, colto da grande commozione, Gino Landi. "Ho lavorato tantissimo con lui - ha detto il presentatore che con Landi ha collaborato anche al Festival di Sanremo - abbiamo fatto teatro e tanta televisione. Tutti i miei Fantastico erano con la regia e la coreografia di Gino Landi".

 "Era un uomo geniale, aveva lavorato con gli americani - ha continuato Baudo - Era un ex ballerino e coreografo eccezionale, veramente straordinario. La sua preparazione artistica era notevolissima. Gli spettacoli più grossi che ho fatto hanno goduto della regia di Gino Landi. È una notizia molto triste", ha concluso con la voce rotta dall'emozione.

Commosso anche l'addio via sociale di Gianluca Guidi: "Ti ho conosciuto quando ero bambino. Poi ho avuto la fortuna di lavorare con te.. e tanto ho imparato! Eri il più bravo di tutti! Ciao Gino!".

 BIOGRAFIA DI GINO LANDI

Da cinquantamila.it – la storia raccontata da Giorgio Dell'Arti

Gino Landi (Luigi Gregori), nato a Milano 2 agosto 1933. Coreografo. Regista. «La coreografia per me è la vita! Io sono un figlio d’arte, sono nato in palcoscenico, ero destinato a questo lavoro. Ho iniziato a 15 anni coreografando piccoli spettacoli, mi pagavano con i gelati!».

Nato sul palcoscenico del Teatro Dal Verme di Milano (dove si esibivano i genitori), lavorò nella rivista con Macario e nei musical di Garinei e Giovannini (Alleluja brava gente, 1970; Aggiungi un posto a tavola, 1974 ecc.). In tv: coreografo di Mazzabubù (1975), Bambole, non c’è una lira (1977), regista di vari programmi fino al Festival di Sanremo 2002. Nel 2011 ha curato la regia e la coreografia del musical Secrets of the Sea per le musiche di Renato Serio e la sceneggiatura di Luca Gregori. «Quando si fanno le coreografie, bisogna montare, tenendo conto delle inquadrature. A volte la mia fatica era vanificata dalle riprese sbagliate. Così ho deciso di fare pure il regista».

È morto Gino Landi, maestro del varietà del sabato sera. Storia di Maurizio Porro su Il Corriere della Sera il 17 Gennaio 2023.

È morto a Roma all’età di 89 anni Gino Landi (all’anagrafe Luigi Gregori) che fu il più celebre coreografo e regista del mondo dello spettacolo leggero. I suoi genitori erano artisti di varietà e Gino nacque nel ’33 sul palcoscenico del teatro Dal Verme di Milano. All’inizio voleva fare il ballerino ma poi vira verso la coreografia, suo terreno ideale di ispirazione anche per l’ampia visione dello spazio del palcoscenico. Iniziò con le ultime riviste di Macario (il debutto nel 59 con «Non sparate alla cicogna» con la Mondaini, «Febbre azzurra 65»), dirigendo poi moltissime operette famose (un occhio particolare per Johann Strauss), al festival di Trieste e nei più importanti teatri italiani. È stato il maestro del varietà del sabato sera con Raffaella Carrà, Mina e Lorella Cuccarini.

Ebbe grandi interpreti (la Mazzuccato, Massimini, Pandolfi), collaborando con maestri come Molinari e lo scenografo e costumista Coltellacci, affrontando la regìa di opere come «I racconti di Hoffmann» diretta da Oren (oltre a un «Barbiere di Siviglia» nell’89) per poi allietare, lavorando in Rai, gli strepitosi sabati sera televisivi. I titoli dei suoi varietà sono mitici: «Scala reale», «Giardino d’inverno», «Partitissima» e «Canzonissima» tra i ’60 e i ’70, fino al successo di quel gioiello di «Bambole non c’è una lira», rievocazione dell’avanspettacolo; e poi i balletti di «Fatti e fattacci» con Proietti e Ornella Vanoni, il «GBShow» con Bramieri, «Ma che sera» con la Carrà e Noschese, arrivando nel 2002 a dirigere il Festival di Sanremo condotto da Baudo. E Fellini lo volle per curare le coreografie della famosa, geniale sfilata di moda ecclesiastica in «Roma» del ’71 e alcune scene di «Casanova» con la bambola meccanica, mentre fu al fianco di Sergio Leone in «C’era una volta in America» e dei Taviani, Moretti, Petri, Zampa. In teatro, dopo il lungo tirocinio con Macario («Non sparate al reverendo») e con Dapporto («L’onorevole») inizia dal 69 per 40 anni una collaborazione no stop con Garinei e Giovannini delle cui produzioni diventa una delle colonne portanti in decine di musical famosi, da «Angeli in bandiera» a «Un paio d’ali», da «Alleluja brava gente» ad «Accendiamo la lampada», dal «Rugantino» con le sue molte edizioni ad «Aggiungi un posto a tavola» con le sue migliaia di repliche dal 1974 ad oggi. E «Felicibumta» con Bramieri e «Bravo!» con Montesano, fino all’edizione tv della «Granduchessa e i camerieri» con Valentina Cortese al posto della Wandissima, fino all’ultimo «Vacanze romane» con la Autieri e Ghini.

Nel 1998 dirige «Can Can» musiche al top di Cole Porter, nel 2004 cura la regìa di «Paganini» di Lèhar, nel 2011 le coreografie del musical «Secret of sea» di Renato Serio. Titoli di spettacoli e di trasmissioni popolari e amatissime, legate spesso a volti di comici e di soubrettes (Rascel, Proietti, Ferilli, Noschese, Valori, Panelli) ed anche a famose canzoni di Trovajoli, che scrisse motivi indimenticabili. In «Rugantino» («Roma nun fa la stupida stasera» che alla fine del primo tempo Landi «distribuisce» a tutta la compagnia divisa per coppie) e il best seller «Aggiungi un posto a tavola», con i celebri song del pretino di campagna Dorelli che ci salva dal secondo diluvio universale. Landi opera una perfetta mescolanza tra musica e danza, privilegiandone l’aspetto collettivo e quindi diventando così compartecipe dei due grandi autori nel loro pacifismo da musical per cui la vittoria dell’uomo è essere, cantare e ballare tutti insieme, allacciando il pubblico in un’atmosfera di festa in cui Landi conosce tutti i movimenti per diventare amici, prediligendo i momenti collettivi all’esibizione dei singoli, perché la fortuna di un ensemble è proprio muoversi e ballare come se fosse un unico soggetto e in questo miracolo di gente che si poneva sorridendo all’applauso della platea Landi era insuperabile.

Marco Giusti per Dagospia il 18 gennaio 2023.

Grande regista di una stagione televisiva irripetibile, quella dei grandi show del sabato sera di “Fantastico”, del “G.B.Show”, di “Premiatissima”, di “Ma che sera”, e grande coreografo e spesso regista degli show del Sistina firmati Garinei&Giovannini, Gino Landi, scomparso a Roma a 89 anni, è stato un professionista e un innovatore di grande talento in anni ancora non toccati dalla grande serialità, dai contest e da tutto quel che venne dopo la Golden Age di Pippo Baudo e Raffaella Carrà, d Macario e di Gino Bramieri.

Ma anche autore di coreografie bizzarre, da “Ursus” di Carlo Campogalliani a “Casanova” di Fellini, da “Remo e Romolo” di Ninni Pingitore ai balletti del pasticcere trotzkista per il musical sognato da Nanni Moretti in “Aprile”. Per non parlare del suo unico film da regista, il rarissimo “Barbara” girato in Argentina con Raffaella Carrà protagonista nel 1980.

 Nato a Milano nel 1933 come Luigi Gregori addirittura tra le quinte del Teatro Dal Verme,i n quanto vero e proprio figlio di artisti del varietà, si forma presto come ballerino con Oreste Faraboni, e passa dall’avanspettacolo al circo sognando da subito di fare il coreografo. Lo troviamo addirittura in un filmetto del tempo come “Ho amato una diva” di Luigi Latini De Marchi con Eloisa Cianni nel 1957. Viene scoperto da Erminio Macario alla fine degli anni ’50 per la rivista “Non sparate alla cicogna” e fa il suo esordio come coreografo in Rai con “Buone vacanze” nel 1959. Negli anni ’60, passa dalle coreografie della tv, “Napoli contro tutti”, “Johnny 7”, “La prova del nove””, “Partitissima”, “Canzonissima” a quelle del cinema del tempo.

Un po’ di tutto, da “Ursus” di Carlo Campagalliani, dove i balletti servono per allungare il metraggio del film, troppo corto, a una serie di film di Osvaldo Civirani, “Sexy proibito”, Ercole contro i figli del sole”, ma anche “La decima vittima” di Elio Petri, “2 mafiosi contro Al Capone”, “Le dolci signore” di Luigi Zampa, fino a kolossal come “Waterloo” diretto da Sergej Bondarchuck e prodotto da Carlo Ponti. Nei primi anni ’70 cura le coreografie di molte operette, come ”Al cavallino bianco”, “La vedova allegra”, “La principessa della Czarda”, tutte con Sandro Massimini o Daniela Mazzucato. Una collaborazione che lo troverà impegnato fino agli anni ’80.

 Alternandosi sempre tra tv, teatro e cinema, lo troviamo in mondo del tutto diversi, coreografo in “Ninì Tirabusciò”, “Roma” di Fellini, “Joe Valachi” di Terence Young, “Ci risiamo, vero Provvidenza”, di Alberto De Martino, “Remo e Romolo” di Ninni Pingitore, per il quale ha realizzato le coreografie anche degli spettacoli televisivi “Fatti e fattacci” e “Mazzabubù”, e poi regista in Rai di programmi importanti come “Bambole non c’è una lira” nel 1977, dove lancia Christian De Sica, Loredana Berté, Mastelloni o “La Granduchessa e i camerieri” con Valentina Cortese e Franchi e Ingrassia.

Dedicandosi sempre più alla regia televisiva, il suo ruolo di coreografo per il cinema si limiterò a qualche uscita mirata, spaziando tra il “Casanova” di Fellini a “Good Morning, Babilonia" dei fratelli Taviani al “Pinocchio” di Roberto Benigni. Nel 1988 in Spagna è coreografo di una curiosa serie con la star Norma Duval, moglie del produttore José Frade, “Contigo”. E nel 1980 fa il suo esordio da regista cinematografico col rarissimo “Barbara”, sceneggiato da Massimo Franciosa che vede protagonista Raffaella Carrà.

 Tutti i suoi maggiori lavori da regista arrivano tra la fine degli anni ’70 e il 2000, diventando il regista di riferimento per Baudo e per i grandi show del Sistina ripresentati in tv, come l’edizione del 1995 di “Alleluja brava gente”, quella del 1978 di “Rugantino” e anche quella del 2001 con Valerio Mastandrea, Sabrina Ferilli, Maurizio Mattioli. Se ne va, insomma, una grande memoria dello spettacolo italiano che molto ha insegnato a tutti. Perfino a Fellini e Nanni Moretti.

"La monotonia non fa per me": le mille e una vita di Gina Lollobrigida. Laura Lipari il 31 Maggio 2023 su Il Giornale.

Carisma, fascino, bravura e caparbietà, tutti gli elementi che hanno permesso Gina Lollobrigida di farsi conoscere a livello mondiale come la grande “Lollo”

Tabella dei contenuti

 La bella Gina

 Oltre la cinepresa

 Gli anni duemila

Di una cosa era certa Gina Lollobrigida: che la sua fortunata carriera fosse un regalo del destino. “Ai miei tempi andare al cinema era una cosa molto scandalosa; perciò i miei genitori mi proibivano di andarci. Poi, però, mi sono vendicata e ho fatto io il cinema”. All’anagrafe Luigia Lollobrigida, nasce il 4 luglio del 1927 a Subiaco, un comune della provincia di Roma. La sua vita comincia in una grande casa costruita grazie ai profitti dalla fruttuosa fabbrica di mobili del padre Giovanni e della madre Giuseppina Mercuri. L’infanzia di Luigia e dei suoi cinque fratelli trascorre nell’agio di una famiglia facoltosa fino a quando un bombardamento angloamericano distrugge la proprietà.

Nel 1944, tra gli strascichi di una guerra che sparge ancora vittime e un Paese "diviso", l’intera unità familiare si trasferisce a Roma dove Gina può studiare iscrivendosi all’Accademia delle Belle Arti. Per compensare alla grossa perdita, tutti i membri cercano di dare una mano per sopperire alla situazione economica e lei inizia a racimolare qualcosa, prima vendendo alcuni schizzi realizzati a carboncino e poi posando lei stessa per i primi fotoromanzi. Sono i tempi in cui è conosciuta con lo pseudonimo di Diana Loris, la maschera che utilizza soprattutto in ambito lavorativo.

La bella Gina

Nel 1947 la giovane inizia ad avere consapevolezza del suo fascino e, un po’ per gioco, un po’ per curiosità, decide di partecipare al concorso di Miss Roma al quale si classifica seconda. Questa opportunità le consente di partecipare a Miss Italia dove arriva terza dopo Lucia Bosè e Gianna Maria Canale coloro che, successivamente, diventeranno sue colleghe nel mondo del cinema. 

Mentre iniziano i primi veri ingaggi lavorativi conosce il medico sloveno Milko Škofič, che si trova in Italia per prestare servizio fra i profughi temporaneamente alloggiati a Cinecittà. I due si sposano nel gennaio 1949 e nel luglio 1957 nasce il loro unico figlio, Andrea Milko Škofič.

Notata dal regista Eduardo Scarpetta, Gina comincia la sua carriera da attrice prima come comparsa e controfigura e poi, man mano, con ruoli di contorno sempre più importanti fino a diventare lei stessa la protagonista. “Io volevo continuare con le belle arti ma il destino ha deciso diversamente, nonostante avessi una volontà di ferro, ci sono delle decisioni che il destino prende malgrado noi stessi”, dichiarerà anni dopo durante un’intervista. Nel 1950 infatti vola per la prima volta a Hollywood, accettando un contratto dal miliardario Howard Hughes, ma il periodo luccicante si trasforma presto in una gabbia dalla quale la giovane scappa via ritornando a Roma.

Dopo Campane a martello, Achtung! Banditi!, Passaporto per l'oriente e soprattutto Fanfan la Tulipe, l’attrice conquista una vasta popolarità nel suo Paese con Altri tempi di Alessandro Blasetti. Nel 1953, al fianco di Vittorio De Sica, interpretando il personaggio della Bersagliera in Pane, amore e fantasia di Luigi Comencini, viene premiata con il Nastro d’argento e raggiunge la vetta della notorietà. “Il destino in questo caso aveva un nome e un cognome: Vittorio De Sica, colui che mi ha convinto a fare cinema”. L’anno successivo partecipa al sequel, Pane amore e gelosia, ma nel 1955 si rifiuta di partecipare al terzo film Pane amore e…, così il regista la sostituisce con Sophia Loren. Questo cambio offrirà lo spunto ai giornali di gossip che a lungo parleranno di un’ipotetica rivalità e gelosia tra le due star.

Tra gli anni ’50 e gli anni ’60 “Lollo” interpreta ruoli diversi tra loro che la fanno apparire un’artista completa, da La provinciale a La romana, da Mare matto a Un bellissimo novembre e da qui inizia anche la vera carriera internazionale con le parti nei film come Il tesoro dell'Africa, Il maestro di Don Giovanni, La donna più bella del mondo. Con la vincita del David di Donatello come migliore attrice protagonista, e un Golden Globe come miglior attrice del mondo, Gina Lollobrigida diventa uno dei volti più conosciuti a livello mondiale.

“Io credo che l’uomo voglia ancora interessarsi alla storia del protagonista o della protagonista”, rivelerà durante un’intervista fatta anni dopo. In quelle parole rivendicherà il cinema vero e reale degli anni in bianco e nero, che raccontava vicende alle quali lo spettatore poteva immedesimarsi.

Nel 1961, indossando un elegante abito fiorato, presenzia la cerimonia degli Oscar assieme a Bob Hope e consegna l’ambito premio come miglior regista a Billy Wilder per il film L’appartamento. Qualche tempo dopo vince il secondo David di Donatello per il ruolo di Paolina Bonaparte nel film Venere imperiale e il terzo nel’68 con Buonasera, signora Campbell. Riceve anche una candidatura al Golden Globe e un Nastro d’argento come migliore attrice protagonista.

Il suo volto non appare solo sul grande schermo. Gina Lollobrigida infatti è una delle ospiti più ambite nei programmi televisivi. Durante un’intervista rivelerà di aver ricevuto un’offerta per recitare in La dolce vita di Fellini, ma di non aver ottenuto il ruolo a causa del marito che ai tempi le nascondeva il copione, parte poi assegnata a Yvonne Furneaux.

Nel 1972 interpreta per il piccolo schermo la Fata Turchina in Le avventure di Pinocchio di Luigi Comencini che avrà tanto successo da essere mandato in onda anche negli anni successivi. Dopo varie brillanti interpretazioni fa la sua ultima apparizione recitando per Peccato mortale di Beleta. “Il cinema stava cambiando e non mi dava più soddisfazioni”. Riapparirà solo nel 1995 con il film Cento e una notte di Agnès Varda.

Il teatro invece rimane il suo unico rimpianto. Un’occasione le arriva con La rosa tatuata di Tennessee Williams spopolando a Broadway. “Per quell’occasione mi ero preparata due anni, due anni di prove, di preparazione artistica. Avevo persino i costumi pronti, poi la morte improvvisa del produttore ha fatto saltare tutto. Anche questa volta il destino non ha voluto che continuassi”.

Oltre la cinepresa

Nel periodo di “fuga” da copioni, interviste, flash e autografi, la Lollo sperimenta e riprende in mano tutto quel tempo che il lavoro le aveva tolto negli anni precedenti. Dall’altra parte della macchina fotografica adesso vuole starci lei e inizia così il suo periodo da fotoreporter. La sua bravura e le sue conoscenze la portano a scattare i ritratti delle personalità più celebri del momento come Paul Newman, Salvador Dalí, Henry Kissinger, David Cassidy, Audrey Hepburn, Ella Fitzgerald. “All’inizio c’era molto scetticismo – affermerà anni dopo – però poi ho ricevuto diversi riconoscimenti anche per i miei scatti fotografici”.

Nel 1973 intervista Fidel Castro e l’anno successivo abbandona la macchina fotografica per dedicarsi alla scultura. Anche in questo caso la sua fama la precede e le sue opere vengono esposte in Cina, Francia, Spagna, Russia, Stati Uniti, Qatar. “Inizialmente non volevo fare l’attrice, non sapevo neanche cosa fosse il cinema, volevo diventare un’artista, non tanto nella pittura ma nella scultura”, dirà durante un’intervista rivendicando le sue doti,“il mio primo disegno è stato pubblicato sul giornalino Topolino, avevo solo otto anni”.

"Osservare e condividere". La regista che ha rotto le convenzioni

Gli anni duemila

Nell’ottobre 2010 Gina si racconta a tuttotondo a Pippo Baudo nella trasmissione televisiva Novecento. L’anno successivo, lei e Sophia Loren sono le protagoniste del documentario Schuberth - L'atelier della dolce vita di Antonello Sarno. Durante la cerimonia del David di Donatello del 2012 racconta con emozione la sua lunga carriera d’attrice e gli aneddoti con piccoli e grandi personaggi dell’epoca. Nel 2018 diventa la quattordicesima personalità italiana ad avere una stella sulla celebre Hollywood Walk of Frame. 

A chi le chiede perché non si sia risposata dopo la morte del suo unico marito risponde con assoluta lucidità:“Per fortuna mi sono salvata, stavo per risposarmi due o tre volte ma poi sono riuscita a scappare dal pericolo perché erano uomini sbagliati. Io ho bisogno di solitudine”. Nel 2022, a causa di una brutta caduta che le causa la rottura del femore, Gina viene ricoverata in una clinica privata a Roma, ma nonostante gli esiti positivi dell’operazione, l’attrice è costretta a un ulteriore ricovero per un peggioramento repentino di salute. Muore il 16 gennaio 2023 all’età di 95 anni. Il funerale, celebrato presso la basilica di Santa Maria in Montesano, viene ripreso in diretta.

Le mille vite di Gina Lollobrigida hanno racchiuso il suo fascino, la sua caparbietà e il suo carisma che l’hanno resa unica nel suo genere: “A me piace la vita, mi è sempre piaciuta anche nelle difficoltà. La monotonia non fa per me, mi piacciono le esperienze forti, non ho mai indietreggiato, ho avuto sempre coraggio e cerco sempre emozioni nuove”.

BIOGRAFIA DI GINA LOLLOBRIGIDA

Da cinquantamila.it – la storia raccontata da Giorgio Dell'Arti

Gina Lollobrigida (Luigia L.), nata a Subiaco (Roma) il 4 luglio 1927 (91 anni). Attrice. Scultrice. Fotografa. «Voglio essere ricordata soprattutto come artista. Poi fotografa, scultrice, disegnatrice. E anche attrice, perché no?» • «Nella mia famiglia, o pazzi o artisti. Una mia zia è morta in manicomio, ma un prozio dipingeva a San Pietro, e un altro, amico di Trilussa, ha riscritto la Divina Commedia in chiave comica»

 • «Dopo un’infanzia agiata, durante la guerra si ritrova povera quando il padre, facoltoso produttore di mobili di Subiaco, […] perde tutto sotto i bombardamenti» (Massimiliano Jattoni Dall’Asén). «Fu il caos. E, dopo il caos, la fuga. Dodici giorni per arrivare a Firenze con lo spettro della morte sempre vicino, eppoi là quasi la fame e, dopo, il ritorno, e il dover ricominciare da zero, il non aver più nulla, il vivere in sei in una stanza, l’alzarsi all’alba per andare a scuola cambiando il tram in continuazione, attraverso una città devastata, martoriata, sgomenta. Insomma, il primo choc, il primo passo verso la saggezza».

Le prime passioni furono le arti figurative e il canto. «A 8 anni ho mandato un mio disegno al giornale Topolino, ed è stato pubblicato». «A Roma, […] appena arrivata, mi sono iscritta all’Accademia di belle arti a via Ripetta. […] Adoravo la scultura e avevo una bella voce. Per esercitarmi con i vocalizzi non lo potevo fare nella stanza dove vivevamo, perché sentivano tutti nel palazzo e mi prendevano in giro. Così trovai un posto dove fare i miei gorgheggi in libertà e senza essere disturbata: nel centralissimo traforo che unisce via Nazionale a via del Tritone. […] Andavo avanti e indietro sul marciapiede. Cantavo, e nessuno riusciva a capire da dove provenisse il canto. Ero soprano, una voce possente, che mi è servita in seguito» (a Emilia Costantini).

 «Si mantiene all’Istituto di belle arti facendo caricature col carboncino e posando per i primi fotoromanzi con lo pseudonimo di Diana Loris. Nel 1945, poi, la sua prima esperienza a teatro, ma è il 1947 a cambiarle la vita, quando un amico la convince a partecipare al concorso di Miss Roma: Luigina, senza un abito adatto per sfilare, arriva seconda, posizione che la porta dritta alla finale di Miss Italia, quando sale sul podio con Lucia Bosè e Gianna Maria Canale, future stelle del cinema come lei. […]

Il 1949 è l’anno dei primi successi (Campane a martello di Luigi Zampa e La sposa non può attendere di Gianni Franciolini). L’anno seguente è diretta nuovamente da Zampa, poi da Duilio Coletti, Giorgio Pàstina e Mario Monicelli, Steno. Ed è già tempo di Hollywood: con all’attivo oltre una dozzina di film, Gina sbarca oltreoceano su invito del miliardario Howard Hughes, produttore e scopritore di dive. La bella italiana firma un contratto in esclusiva, ma la mecca del cinema è una prigione dorata e la nostalgia dell’Italia diventa insopportabile (l’anno precedente ha sposato sul Monte Terminillo il medico sloveno Milko Skofic, dal quale divorzierà nel 1971).

 Gina torna a casa e rinuncia a girare film su suolo americano per tutto il restante decennio. Poco male: nel 1952 è la protagonista di Fanfan la Tulipe, di Christian-Jaque, che è Orso d’argento al Festival di Berlino e la consacra star in Francia. Da noi, la vera popolarità gliela regala Altri tempi, di Alessandro Blasetti, nell’episodio Il processo di Frine, dove Vittorio De Sica, nella celebre scena dell’arringa in tribunale, guardando l’attrice che indossa un abito assurdo, con il seno che sporge esagerato, grida alla giuria “Se assolviamo i minorati psichici, perché non assolvere una maggiorata fisica?”, coniando per lei un neologismo che entra nella storia. Finalmente, nel 1953, Gina è la Bersagliera, ancora una volta al fianco di Vittorio De Sica: Pane, amore e fantasia di Luigi Comencini è Orso d’argento al Festival di Berlino, Nastro d’argento e candidato al Bafta.

La ragazza di Subiaco è entrata nel mito: da quel momento il suo nome sarà per sempre associato alla bella e povera popolana dal cuore d’oro. Ci sarà un seguito, ma alla terza pellicola Gina dirà di no. Al suo posto Sophia Loren, sua storica “rivale”. Il contratto firmato a Hollywood le impedisce di recitare in Usa, ma non nelle produzioni internazionali girate in Europa: dalla seconda metà degli anni Cinquanta la Lollo – questo il nome che ormai le ha dato la stampa – è protagonista incontrastata.

 L’elenco è infinito: Il tesoro dell’Africa di John Huston, con Humphrey Bogart e Jennifer Jones; Il maestro di Don Giovanni, con Errol Flynn; La donna più bella del mondo, con Vittorio Gassman, dove la Lollo dimostra di avere doti di cantante lirica e vince il David di Donatello come migliore attrice protagonista. Siamo nel 1956, e l’Accademia del cinema italiano ha istituito il premio proprio in quell’occasione. Gli anni corrono veloci, come le pellicole in cui è protagonista nelle sale cinematografiche di tutto il mondo: Sacro e profano di John Sturges, Salomone e la regina di Saba di King Vidor, Torna a settembre, in cui è protagonista assieme a Rock Hudson e Sandra Dee.

Nel 1961 Gina Lollobrigida vince un Golden Globe come miglior attrice, mentre l’anno seguente è Paolina Bonaparte nella Venere imperiale di Jean Delannoy: la sua interpretazione le porta un David di Donatello e un Nastro d’argento. Seguono altre candidature ai Golden Globe e altri David. […] Con gli anni Settanta, Gina dirada le apparizioni per dedicarsi a un’altra passione: la fotografia. Ci regala però la sua Fata Turchina ne Le avventure di Pinocchio, di Luigi Comencini (1972).

 Nel 1975, quattro anni dopo il divorzio dal marito, la Lollo dice addio anche al mondo dello spettacolo. Per ripensarci però nove anni più tardi, quando, a 60 anni, appare nel serial Falcon Crest. Inguainata di rosso mentre balla la tarantella, l’attrice si aggiudica la sua ultima nomination al Golden Globe. Intanto, è diventata un’apprezzata scultrice, pittrice e fotografa. Nel 1992 il presidente francese Mitterrand le consegna la Légion d’honneur. Il suo fascino risplende immutato. Quel fascino che per decenni le ha fatto cadere ai piedi decine di uomini. Il più famoso, forse, Fidel Castro. Anche se la Lollo ha sempre negato che tra lei e il líder máximo cubano ci sia stata una relazione. […]

Nell’ottobre 2006, a 79 anni, Gina rivela di avere una relazione segreta che dura da due decenni con un uomo di quasi 35 anni più giovane. Si tratta dell’imprenditore catalano Javier Rigau. Ma qualcosa non va per il verso giusto: l’uomo cerca di sposarla per procura, lei parla di “truffa in piena regola”. Seguono comunicati stampa, recriminazioni in tv e la richiesta della Procura di Roma di una condanna a 8 mesi di reclusione per il catalano. Piano piano anche i rapporti tra la Lollo e i famigliari si fanno tesi.

 Finché Gina allontana tutti: il figlio, l’ex nuora e il nipote Dimitri. Gina si chiude nella grande villa sull’Appia Antica. Sola. Se si eccettua la presenza di Andrea Piazzolla, ragazzo romano senza passato che conquista però la fiducia dell’attrice, che gli affida le chiavi del suo patrimonio. Lui è l’ultimo, secondo i detrattori, di una lunga serie di approfittatori e mitomani che negli anni hanno ruotato attorno alla diva, il cui nome è di per sé un brand internazionale. Ma Gina lo difende. […]

Intanto, i riflettori improvvisamente riaccesi rinvigoriscono la Bersagliera. Gina si esalta, torna giovane: “Mi sento come se avessi 30 anni”, continua a ripetere ai giornalisti. A 90 anni è convinta di poter “voltare pagina”. Vuole scrivere quattro libri: “due autobiografie, un libro sui grandi personaggi che ho incontrato e uno con tutte le mie copertine”. […] Il nipote che aveva tanto amato è stato fatto sloggiare dalla dépendance dove viveva. Il figlio ormai è un nemico. Meglio non fare bilanci. “Voglio guardare al futuro”, insiste Gina da Subiaco» (Jattoni Dall’Asén)

 • Il 1° febbraio 2018 è stata finalmente omaggiata di una stella sulla Hollywood Walk of Fame di Los Angeles, in quanto giudicata «una delle più iconiche attrici del mondo»

 • Nel novembre 2017 ha dichiarato di essere stata stuprata due volte: la prima a 19 anni, quando era ancora vergine, da un «famoso calciatore della Lazio», di cui non ha però fatto il nome («Mi sentivo distrutta e mi sposai in fretta con quello che fu mio marito per superare il trauma, non per amore»); «della seconda è meglio non parlare. […] Ero già sposata, cominciavo a fare il cinema»

«Ottima ritrattista, ha fotografato, tra i tanti, Paul Newman, Salvador Dalí, Henry Kissinger, David Cassidy, Audrey Hepburn ed Ella Fitzgerald, pubblicando alcuni libri di reportage e scoop giornalistici corredati da foto come la famosa intervista esclusiva a Fidel Castro del 1973, venduta a mezzo mondo. Come le sue sculture, che sono state esposte in Russia, Cina, Stati Uniti, e in molti Paesi del Sud America» (Francesco Troncarelli). «Cinema, fotografia e scultura sono simili, perché sono tutte arti visive, e in quanto tali comunicano dei sentimenti. […] È per questo che non faccio differenza e le amo tutte quante»

«A metà strada tra la bellezza aggressiva e quasi soprannaturale della Mangano […] e quella che venne dopo, della Loren, esagerata nelle dimensioni e allegra fino quasi a essere comica, la Lollobrigida offrì un modello voluttuoso ma in qualche modo raggiungibile: la classica, quieta avvenenza della donna mediterranea presente in tanta nostra pittura, una madre-sorella casta ma, come fidanzatina, anche ricca di tesori in gran parte non troppo esibiti. […] Con donne come quella Mangano e come la Loren si sogna la folle avventura, ma maggiorate domestiche tipo Lollo promettono una intera esistenza di erotismo ben calibrato» (Masolino D’Amico). «I giovani facevano su di me pensieri terribili. Incontro molte persone che mi fermano per strada e me lo dicono. Una volta una persona mi ha fermata, dicendomi: “’A Lollo, non sai che peccati che m’hai fatto fare!”»

Un solo marito riconosciuto – Milko Škofic, da cui ebbe l’unico figlio Andrea Milko –, molti corteggiatori dichiarati: tra gli altri, lo scultore Giacomo Manzù («Si era preso una cotta»), il regista Orson Welles («Era vulcanico»), il generale siriano Mustafa Tlass («Era un bell’uomo, colto»), il chirurgo Christiaan Barnard («Non era un gentleman») e persino l’attore Rock Hudson («Sono sicura che abbia cambiato orientamento dopo»)

 • «I primi anni non volevo saperne, di diventare attrice. Poi feci Pane, amore e fantasia con Vittorio De Sica, e scoprii quanto era bello il cinema. Vittorio mi chiedeva di camminare su un filo e lo facevo, di piangere con un fischio e lo facevo» (a Candida Morvillo). «La rivalità con la Loren? L’ha creata quella che è arrivata dopo, è chiaro». «A me non serviva la rivalità con nessuno: ero io la numero uno. E sono andata avanti con le mie forze, non avevo un produttore che mi proteggeva. Ho fatto tutto da sola».

Cinema in lutto: a 95 anni è morta Gina Lollobrigida. L'attrice era nata a Subiaco il 4 luglio del 1927. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 16 Gennaio 2023

È morta Gina Lollobrigida. Grande protagonista del cinema italiano, era nata a Subiaco il 4 luglio del 1927, aveva quindi 95 anni compiuti. Lo scorso settembre l’attrice, che una generazione ha conosciuto come la Bersagliera, era stata dimessa dalla clinica, dopo una caduta in casa che le aveva causato una frattura del femore per cui era stata operata. Già quattro anni fa la Lollo era finita in ospedale proprio per un incidente domestico. In quell'occasione l’attrice fu presa in cura dai sanitari del Sant'Eugenio, ospedale a poca distanza dalla sua villa sull'Appia Antica, e dimessa un paio di giorni dopo.

L’incidente al femore è avvenuto a due settimane della tornata elettorale del 25 settembre in cui la Lollobrigida era candidata a Latina al collegio uninominale del Senato, e in altre circoscrizioni nel plurinominale proporzionale, per la lista 'Italia sovrana e popolare', che riunisce Partito comunista, Patria socialista, Azione civile, Ancora Italia e Riconquistare l’Italia.

In carriera si è aggiudicata, tra gli altri, sette David di Donatello: la sua fama è legata al nuovo cinema italiano del neorealismo: lavora con Pietro Germi ("La città si difende") e con Carlo Lizzani ("Achtung banditi") alla metà esatta del secolo scorso ritagliandosi ruoli di vigorosa passionalità popolana in cui affina una recitazione da autodidatta imprimendole la sua personalità.

Il primo successo personale è però fuori dai confini: il francese «Fanfan la Tulipe» con Gerard Philipe nel 1952. Recita per Rene Clair, Alessandro Blasetti, Mario Monicelli e Steno, Mario Soldati e finalmente diventa diva in patria con il trionfale «Pane amore e fantasia» di Luigi Comencini (1953) compreso un fortunato seguito sempre in coppia con Vittorio De Sica. Negli ultimi anni si era dedicata soprattutto all’arte e alla fotografia, con molte mostre, non smetteva di fare progetti, l’ultimo un libro di disegni.

I suoi ultimi anni sono stati contrassegnati anche da vicende giudiziarie. Dal 2021 la diva aveva un amministratore di sostegno nominato dal Tribunale per tutelare il suo patrimonio, così come richiesto nell’azione legale dal figlio Andrea Milko Skofic. Al centro dell’attività di indagine dei pm di piazzale Clodio è l’ex manager dell’attrice, Andrea Piazzolla, rinviato a giudizio con l’accusa di circonvenzione di incapace. Con lui è finito a processo anche Antonio Salvi, l’uomo che avrebbe fatto da intermediario con una casa d’aste per la vendita di circa 350 beni di proprietà della Lollobrigida.

Lollo per tutti e di nessuno. È stata la cosa più bella che il dopoguerra ha regalato all'Italia. Esprimeva coraggio e voglia di rinascita rubando la scena ai divi hollywoodiani. Da "La romana" a "Un bellissimo novembre": tante donne restando se stessa. Stenio Solinas il 17 Gennaio 2023 su Il Giornale.

La Bersagliera, La Donna più bella del mondo, La Zingara, La Venere imperiale, La Romana, La Maggiorata, La Lollo, semplicemente... Poche attrici come Gina Lollobrigida hanno saputo incarnare sé stesse con un nome, un soprannome, un'immagine e un'interpretazione. Per molti versi, quello che è stato il tramonto di un'esistenza tanto lunga quanto prestigiosa, è iscritto in un'alba che fu insieme nazionale e popolare: alle ultime elezioni politiche si era infatti candidata per una lista, Italia sovrana e popolare, che riuniva in sé sigle eterogenee come Partito comunista, Patria socialista, Azione civile, Ancora Italia, Riconquistare l'Italia...

Gina Lollobrigida, morta ieri a 95 anni, non era solo bellissima, e il fatto che, ventenne, arrivasse terza al concorso di Missa Italia, dopo Lucia Bosè e Grazia Maria Canale, aiuta a spiegare che cosa fosse l'Italia della ricostruzione post bellica, povera, ma bella, vogliosa di ricominciare, fiera di sé stessa e proiettata verso il futuro, provinciale e insieme internazionale, come è proprio di chi non ha paura di niente e di nessuno. Era anche brava, la Lollo, sapeva recitare, non aveva timore della concorrenza, tanto meno di quella maschile. In Fanfan la Tulipe rubava la scena a Gérard Philipe, in Le bambole a Jean Sorel; i divi hollywoodiani, si chiamassero Rock Hudson o Burt Lancaster, non la impressionarono mai; era a suo agio con Vittorio De Sica e un po' tutta l'aristocrazia del cinema d'arte e popolare degli anni Cinquanta e Sessanta, da Andrea Checchi a Gabriele Ferzetti, sul versante attoriale, da Comencini a Blasetti, a Monicelli, a Steno e Soldati per restare in quello registico.

Quando a metà degli anni Settanta decise di dire no al cinema, proseguì una carriera di fotografa e di scultrice che ebbe una sua dignità e che si accompagnava a una personalità esuberante, ma mai fuori le righe, consapevole di sé stessa senza però metterla giù troppo dura. I suoi ultimi anni sono stati purtroppo oggetto di battaglie economico-legali, che da un lato ne appannavano l'immagine, dall'altro però ne rivelavano il carattere indomito, mai portato a compromessi, sempre pronto a infiammarsi, ad ammettere gli errori, a ripartire.

Attrice portata più alla commedia che alla tragedia, la Lollobrigida non ha però mai sfigurato quando è stata chiamata a interpretare ruoli drammatici. Era una finta popolana, nata in una famiglia borghese, studi liceali alle spalle, e questo le ha permesso di essere credibile in quei ruoli, tratti dai romanzi di Alberto Moravia, La romana, La provinciale, o di Ercole Patti, Un bellissimo novembre, dove veniva raccontato il cammino femminile piccolo o medio borghese che conduce dalle pene d'amore al tradimento o alla prostituzione, secondo un cliché tanto romanzesco quanto cinematografico dove la bellezza era una colpa più che una risorsa e la risciacquatura freudiana dei conflitti etico-sessuali un modo come un altro per non interrogarsi sui mutamenti reali del Paese.

È probabile che a un ragazzo d'oggi, il suo nome dica poco o niente, e del resto l'Italia è una nazione che ha scarsa memoria di sé. Ma per tutti gli anni Cinquanta, che poi sono gli anni che coincidono con la sua giovinezza e il suo successo internazionale, Gina Lollobrigida fu un po' la nostra ambasciatrice nel mondo, seducente e allegra, ribelle e coscienziosa, diva, ma senza troppi birignao. Era spiritosa, sapeva ridere e far ridere. I giornali costruirono intorno a lei e a Sophia Loren, che aveva un pugno d'anni di meno, sette per l'esattezza, una rivalità che aveva un suo fondamento, belle e brave entrambe, nonché tipicamente italiane, ma che per il resto era frutto dei magheggi degli uffici di produzione e di una stampa in cerca di effetti e di sensazioni.

L'interpretazione della Fata Turchina nel Pinocchio televisivo di Luigi Comencini, nel 1975, segnò in fondo il suo addio alle scene, a sé stessa, a una certa idea dell'Italia. Apparteneva a un'epoca che la contestazione sociale e dei costumi e l'incanaglirsi della lotta politica, gli «anni di piombo», relegavano di colpo nelle buone cose di pessimo gusto e la favola nazionale incarnata nel burattino di legno di Collodi era sì opera di alto artigianato, ma si rilevava reliquia di un Paese scomparso e che non sarebbe più tornato. I figli si ribellavano ai padri, i padri non sapevano più insegnare ai figli, per le donne, fossero mogli, madri o sorelle, c'era la pillola, c'era l'aborto, c'era il divorzio... Arrivavano le fate ignoranti e con loro la confusione dei sessi e dei codici valoriali. La Lollo ignorante non era mai stata e sui sessi aveva sempre avuto le idee chiare. Saggiamente si tirò da parte e fece altro. Senza rimpianti, senza rimorsi.

È morta Gina Lollobrigida: i cinque film da vedere per ricordare l'attrice. Un’icona di bellezza e versatilità, tanto da riscuotere un enorme successo anche negli Stati Uniti: addio alla “Lollo”, attrice indimenticabile. Massimo Balsamo il 16 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Da studentessa di Belle Arti di Subiaco a star mondiale: ne ha fatta parecchia di strada Gina Lollobrigida, morta quest’oggi all’età di 95 anni. La “Lollo” è stata protagonista di oltre mezzo secolo di storia del cinema italiano, simbolo di un’Italia ferita dalla guerra, ma con uno sguardo fiducioso verso il futuro. Lei e Sophia Loren sono state senza ombra di dubbio le stelle più luminose del movimento nostrano, icone di bellezza, bravura e versatilità. Un’artista a tutto tondo, attiva anche come fotoreporter, basti pensare ai documentari dedicati a Fidel Castro, a Indira Ghandi e alle Filippine.

Nel corso di quasi ottant’anni, Gina Lollobrigida ha avuto l’opportunità di collaborare con alcuni dei più grandi registi della storia italiana: da Alberto Lattuada a Mario Monicelli, passando per Vittorio De Sica, Pietro Germi e Mario Soldati. Ma non solo. L’affascinante attrice laziale ha riscosso enorme successo anche a Hollywood, affiancando stelle del calibro di Rock Hudson, Tony Curtis, Burt Lancaster e Humphrey Bogart. Altra conferma del suo raggelante talento, il palmares: sette David di Donatello, due Nastri d’argento e l’ambitissima stella sulla Hollywood Walk of Fame. Andiamo adesso a scoprire i cinque film con la “Lollo” protagonista da vedere almeno una volta nella vita.

Pane, amore e fantasia

Primo episodio della tetralogia “Pane amore e…”, “Pane, amore e fantasia” è il film della consacrazione per Gina Lollobrigida, protagonista insieme a Vittorio De Sica. La nascita di una stella, o meglio della “Bersagliera” del cinema italiano, destinata a brillare per decenni. Un successo clamoroso – oltre un miliardo e mezzo di lire – per uno dei simboli della commedia all’italiana.

La romana

Tratto dall’omonimo romanzo di Alberto Moravia, “La romana” contiene una delle migliori interpretazioni drammatiche di Gina Lollobrigida (premiata anche con la Grolla d’oro a Saint Vincent). Il film non è tra i più belli della filmografia di Luigi Zampa, ma verrà ricordato proprio per la performance della “Lollo”, qui affiancata da Daniel Gelin, Franco Fabrizi e Raymond Pellegrin.

La donna più bella del mondo

Versione romanzata della storia di Lina Cavalieri, “La donna più bella del mondo” di Robert Z. Leonard rientra nell’elenco delle grandissime interpretazioni di Gina Lollobrigida. Qui l’attrice laziale veste i panni della celebre vedette e poi cantante lirica vissuta tra l’Ottocento e il Novecento, una prova intensa e ricca di sfumature. Indimenticabile.

Torna a settembre

Rock Hudson e Gina Lollobrigida insieme sul grande schermo per "Torna a settembre", commedia romantica non indimenticabile, se non per le prove dei due protagonisti, premiati con l’ambitissimo Henrietta Award come migliori attori nel mondo. Impossibile non menzionare la sequenza del ballo, ricordata come una delle più belle di sempre.

Falcon Crest

Tanto cinema, ma anche molto piccolo schermo per Gina Lollobrigida. Tra i lavori più significativi, il serial “Falcon Crest”: un’esperienza breve ma intensa, tanto da guadagnarsi la candidatura al Golden Globe per la miglior attrice non protagonista in una serie. Affascinante e seducente, verrà ricordata per la sequenza in cui balla la tarantella.

"Ho il diritto di morire in pace". Le vicende giudiziarie e i tormenti di Gina. Da diversi anni la diva del cinema era in lotta con il figlio Milko Skofic, che aveva accusato il suo factotum Andrea Piazzolla di averle sottratto beni dal valore totale di almeno 300mila euro. Michela Morsa il 16 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Negli ultimi anni la serenità di Gina Lollobrigida, scomparsa oggi 16 gennaio all'età di 95 anni, era stata compromessa da una lunga vicenda giudiziaria, tanto da spingerla a dire di avere più preoccupazioni che momenti di gioia. Una lotta che la toccava da vicino e che l'ha costretta a scontrarsi con la sua stessa famiglia, soprattutto con il figlio Milko Skofic. L'uomo, infatti, tempo fa aveva denunciato Andrea Piazzolla, il "factotum" 34enne che amministrava i beni della diva e che viveva con la compagna e la figlia nella sua casa sull'Appia Antica, accusandolo di aver lentamente spoliato il patrimonio della madre. Un'accusa che non è passata inosservata e che ha portato all'apertura di un'inchiesta e all'imputazione di Piazzolla, tutt'ora a processo per circonvenzione d'incapace.

Secondo la Procura, tra il 2013 e il 2018, l'uomo avrebbe sottratto all'attrice oltre 3 milioni di euro in contanti e una lunga serie di beni tra quadri, cimeli e immobili, per un valore totale di circa 300mila euro. Avrebbe poi cercato di vendere all'asta almeno 350 di questi beni con l'aiuto del complice e ristoratore Antonio Salvi, che avrebbe fatto da intermediario con una casa d'aste. E la Lollo, secondo l'accusa, sarebbe stata indotta a "credere che la traslazione dei beni in posto diverso dalla abitazione fosse solo finalizzata al deposito temporaneo degli stessi e a preservarli da eventuali aggressioni da parte dell’autorità giudiziaria". Un'altra inchiesta, più recente, accusa Piazzolla di averle sottratto persino la sua amata Jaguar. Per questo, dal gennaio 2019 il Tribunale di Roma aveva assegnato alla diva un giudice tutelare che gestiva le sue finanze, decisione che Lollobrigida non ha mai mandato giù.

L'attrice, infatti, ha sempre difeso il 34enne dalle accuse del figlio che, testimoniando nel processo, aveva sostenuto di aver visto "un forte cambiamento nel comportamento" della madre, perché "una persona si è approfittata della sua debolezza". "Ho deciso di denunciare perché mia madre, dopo la conoscenza di Piazzolla, è cambiata, è diventata fuori controllo. Mia madre era molto attenta a come spendeva i soldi, una persona semplice, non faceva feste”, aveva detto al giudice.

Tutt'altra la versione di Lollobrigida che, ospite nel novembre del 2021 di Domenica In, aveva confidato a Mara Venier di sentirsi umiliata da tutta la vicenda. "Per me (Andrea, ndr) è come un figlio, mi ha aiutato ad andare avanti. Sua figlia Gina si chiama come me, è una tigre", aveva detto. "Non ha mai sbagliato. È una persona brava e sta avendo dei guai terribili. La vita è mia e io decido cosa farne. Fare dei regali ad Andrea e la sua famiglia è una cosa che riguarda me, e nessun altro", aveva aggiunto l'attrice, ribadendo quanto aveva già detto in tribunale. Poi era scoppiata a piangere in diretta: "Alla mia età dovrei avere un po’ di pace, ma non ce l’ho ancora” aveva detto la Lollo, sorretta dalla conduttrice. "Dovrebbero lasciarmi morire in pace. Non ho fatto niente di male, capito?“.

"Sono sempre la stessa. Sogno una vita anonima senza gossip e nemici". Così parlava del suo ex: "Un uomo malato di pubblicità, non l'ho mai sposato". Sonia Bedeschi il 17 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Sorridente, avvolta in un elegante vestito rosso, perfetta nel trucco fatto con le sue mani. Gina Lollobrigida ci ha aperto le porte di casa per raccontarsi in una lunga e accorata intervista, sperando che le sue parole un giorno vengano ascoltate.

Come ha conosciuto il suo presunto marito Javier Rigau, con cui si sarebbe sposata a sua insaputa?

«Quando ho conosciuto Javier Rigau vivevo a Montecarlo e lui veniva alle feste importanti, dopo parecchio tempo me lo hanno presentato, ero sola, e nel 2005 mi ha accompagnato lui. Non avevo notizie sul suo conto. È un uomo malato di pubblicità. Sappiamo che la televisione italiana vive di pubblicità e con me naturalmente era felice perché il personaggio gli piaceva. È un uomo che sul mio conto ha detto solo bugie, anche quando sogna dice bugie».

Bugie che lei avrebbe scoperto dopo alcune ricerche in Spagna, dove lo scorso anno è stato pubblicato il libro-bomba Jaque a un estafador scritto da Cesc Santandreu, che racconta le truffe messe a segno da Rigau ai danni di facoltose signore spagnole. Un uomo quindi che nasconde un passato da truffatore e che ha infangato il suo nome?

«È un uomo che ha fatto male a tante persone, lui non mi ha mai sfiorato con un dito, non sono mai rimasta incinta e non ho mai voluto sposarlo e, confermo, non sono sposata con lui. Spero che questo libro uscito in Spagna possa essere letto anche da qualche giudice in Italia».

Parliamo del suo difficile rapporto con suo figlio Milko.

«Ho fatto di tutto per evitarlo, ma non ci stava più con la testa, era difficile parlare con lui, perché lui ha testimoniato contro di me ed è finito nella parrocchia di Rigau, il mio peggior nemico. Io ho cercato di educarlo al meglio ma invece di lavorare ha preferito giocare a tennis, in fondo non è riuscito a fare un lavoro serio. Litigava spesso con la moglie, Fantasia, quando abitavano proprio nella dependance accanto, si sentivano le urla fino a qui. Le ho comprato casa alla Camilluccia, ma dopo un po' di tempo se la sono venduta, cosa voleva un'altra casa?! Non è stato fortunato ad avere una persona irresponsabile vicino. Io l'ho educato con tutto l'amore che potevo ma non è servito».

Cosa si augura per il futuro?

«Mi auguro che tutta questa pubblicità negativa che fanno i miei nemici finisca, vorrei vivere tranquilla in santa pace, lo sogno da tempo! Non è facile, soprattutto quando si è sotto i riflettori. Ogni giorno inventano qualcosa (ride)... Sono fortunate le persone che non sono sui giornali, in televisione, anonime, sogno questo purtroppo (ride)».

Cosa vorrebbe dire al suo pubblico?

«Vi abbraccio tutti con affetto, mi avete dato la vostra simpatia, la vostra amicizia che mi ha commosso ed è durata tanto. Io avrei pensato che oggi andando così avanti avrei perduto amici, invece siete sempre qui, affettuosi verso di me, certo ho anche molti nemici ma per fortuna voi mi conoscete, e sapete che molte storie non sono vere perché io sono sempre quella di una volta con gli stessi desideri, buoni e non cattivi. Comunque vi auguro una felice vita, senza i pettegolezzi che mi perseguitano, e un caloroso abbraccio per la vostra fedeltà e amicizia che mi avete dimostrato, tanti auguri a tutti voi».

Scultura, pittura e fotografia: le altre arti di Gina che non fu soltanto un'icona. Già a Miss Italia nel '47 aveva le idee chiare: "Studio da soprano e dipingo a olio". Pedro Armocida il 17 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Domanda: «Ha aspirazioni di vario genere?». Risposta: «Fare qualcosa di serio con le mie capacità». Così scriveva di suo pugno Gina Lollobrigida sulla scheda per l'iscrizione a Miss Italia alla vigilia di Ferragosto del 1947. Aveva 20 anni e alla fine della competizione si classificava al terzo posto in un'edizione piena di nomi fortunati, con Lucia Bosè e Gianna Maria Canale (ma quell'anno c'erano anche Silvana Mangano e Eleonora Rossi Drago che fu squalificata perché sposata con prole, ma questa è un'altra storia). Non immaginava certo che nel giro di pochi anni, appena cinque, sarebbe diventata la bersagliera di Pane, amore e fantasia, una delle attrici più amate nel nostro Paese e nel mondo. È un'altra Italia, quella che ci racconta quella scheda, diversa, non tanto per il modo con cui Gina Lollobrigida, di lì a poco per tutti «la Lollo», si fa notare, ossia un concorso di bellezza di cui oggi si sono perse le tracce se non in streaming, su Youtube, dove proprio pochi giorni fa s'è svolta l'ultima edizione, quanto per la rapidità con cui è diventata una celebrità mondiale incarnando nell'immaginario collettivo l'ideale femminile mediterraneo, sensuale e pieno di istinto. Il cinema italiano l'ha subito ingabbiata in quello stesso personaggio. Motivo per cui, negli anni della maturità, non ha potuto costruire ruoli alla sua altezza.

Ma Gina Lollobrigida, in silenzio e senza lamentarsi, da vera diva quale era, iniziò a diradare le sue presenze già negli anni '70 per dedicarsi all'arte, una passione che aveva coltivato fin dagli studi di pittura all'Accademia di Belle Arti di Roma. Prima però si occupò di fotografia. Durante molti viaggi ha mostrato il suo talento nel rappresentare luoghi, vicende umane, contesti culturali e antropologici diversi, passando dal Sud del mondo all'Occidente ricco e progredito. Un lavoro che le ha dato modo di pubblicare otto volumi di fotografie e di dirigere tre documentari, uno su Fidel Castro, uno su Indira Gandhi e uno sulle Filippine. Nel 1980 le sue foto furono esposte al Museo Carnevalet di Parigi, in quell'occasione il quotidiano Le Monde scrisse delle sue opere fotografiche: «Ha l'occhio di un Cartier-Bresson, ha talento, è piena di energia e le sue foto hanno una forza sconvolgente. È veramente una grande artista». Poi è stata la volta della scultura, ha posato come modella per artisti importanti come Giacomo Manzù: «È lui che mi ha comunicato l'umiltà e la passione indispensabili per scolpire», raccontò l'attrice. Dal 1990 aveva ripreso in pieno la sua attività di scultrice modellando, nell'atelier di Pietrasanta, in Versilia, più di sessanta sculture, di cui alcune in marmo, finendo per rappresentare l'Italia all'Expo di Siviglia con la scultura Vivere insieme, una grande aquila cavalcata da un bambino. Nel 1996 è diventata Accademica Onoraria dell'antica Accademia delle Arti del Disegno di Firenze, mentre nel 2003 ha tenuto la prima grande esposizione delle sue opere al Museo Pukin di Mosca, conclusasi con l'incontro con Vladimir Putin. Nel 2008 la pubblicazione del volume Vissi d'arte (Federico Motta Editore, con presentazione di Philippe Daverio), a chiudere la parabola di una vita speciale. Quella di una grande attrice ma anche artista che, sempre nel questionario di Miss Italia, a 20 anni, alla domanda «occupazione attuale», rispondeva: «Studio da soprano e dipingo a olio».

L'attrice icona aveva 95 anni. È morta Gina Lollobrigida: addio alla “Lollo”, protagonista del cinema italiano e star internazionale. Redazione su Il Riformista il 16 Gennaio 2023

Per tutti era la “Lollo”. È morta a 95 anni Gina Lollobrigida, attrice protagonista del cinema italiano, diva da esportazione in tutto il mondo, interprete di ruoli di successo e star internazionale. A dare la notizia l’agenzia Ansa. Da tempo era ricoverata in una clinica a Roma. Lo scorso settembre era stata ricoverata in una casa di cura a causa della frattura scomposta del femore destro, era stata dimessa dopo alcuni giorni. La sua ultima sfida era stata politica: si era candidata alle elezioni di settembre.

Era nata a Subiaco il 4 luglio 1927. La famiglia produceva mobili, una ricchezza perduta interamente con la guerra. Si era trasferita a Roma nel 1944 e aveva studiato all’Istituto di Belle Arti. Aveva cominciato con i fotoromanzi, appena adolescente, con lo pseudonimo di Diana Loris. E aveva continuato con Miss Italia: terza nel 1947. “Far qualcosa di serio con le mie capacità”, aveva scritto sotto la casella delle “aspirazioni” nella sua scheda di iscrizione.

Al cinema ci arrivò da comparsa e controfigura, via via ruoli piccoli fino a parti di contorno in film operistici. La sua aspirazione oltre il cinema era la lirica, aveva studiato da soprano. Da sola volò a Hollywood nel 1950 accettando l’invito del miliardario e produttore Howard Hughes. I primi successi arrivarono però con Achtung, Banditi! e Fanfan la Tulipe tra Italia e Francia. Per lei Vittorio De Sica coniò il termine “maggiorata fisica”. Proprio a fianco dell’attore e regista ebbe il suo ruolo più celebre in Pane, amore e fantasia di Luigi Comencini. Ruolo premiato, quello della “Bersagliera” dal Nastro d’Argento seguito da un sequel e da un terzo episodio però rifiutato e interpretato dalla storica rivale Sophia Loren.

Recitò per Mario Soldati, Luigi Zampa, Renato Castellani, Mario Monicelli, Pietro Germi. Le sue interpretazioni migliori furono per La provinciale, La Romana e Mare Matto. Recitò al fianco di Humphrey Bogart, Vittorio Gassman, Tony Curtis, Anthony Quinn. Bogart disse che al suo confronto Marilyn Monroe sembrava Shirley Temple. Si aggiudicò un Golden Globe per Torna a settembre, David di Donatello e Nastro d’Argento per Venere Imperiale, un altro David per La donna più bella del mondo. Impresso nella memoria di tanti la sua Fata Turchina nel Pinocchio televisivo di Comencini. È stata nominata Cavaliere della Repubblica e Accademica onoraria dell’antica Accademia delle Arti del Disegno di Firenze, Ambasciatrice di buona volontà dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura e David speciale alla carriera. Dalla metà degli anni Settanta aveva però cominciato a dedicarsi maggiormente a fotografia e scultura. E con successo.

Aveva sposato nel 1949 il medico sloveno Milko Skofic, nel 1957 il primo figlio Andrea Milko Jr. Dopo cinque anni separati la coppia divorziò nel 1971. Alla rivista spagnola Hola dichiarò nell’ottobre del 2006 l’intenzione di sposare l’imprenditore spagnolo Javier Rigau, di 34 anni più giovane e dopo una relazione nascosta per oltre vent’anni. L’uomo ruppe il fidanzamento tramite un comunicato, la vicenda arrivò in tribunale per via di un presunto matrimonio segretamente celebrato nel 2010, annullato in seguito dalla Sacra Rota. Ancora, anni dopo, il processo contro il factotum Andrea Piazzolla, le liti in famiglia con nuora e nipote che volevano farla interdire.

Alle elezioni politiche si era candidata come capolista al collegio uninominale del Senato a Latina, per Italia sovrana e popolare, la lista promossa da Partito comunista, Patria socialista, Azione civile, Ancora Italia e Riconquistare l’Italia. Non era stata eletta. Si era già candidata alle europee del 1999 con I Democratici, centrosinistra, e anche in quel caso senza essere eletta.

L’ultimo inchino di Gina Lollobrigida, diva della porta accanto. L’attrice se ne va a 95 anni: è stata l’icona dell’Italia del boom, lavorò con i mostri di Hollywood senza montarsi la testa e al momento giusto si è fatta da parte. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 16 gennaio 2023

Era la più pop tra le grandi stelle del nostro cinema, a cominciare da quel soprannome allitterato che diventò uno slogan nazionale: “la Lollo”, come una diva della porta accanto, una che non se l’è tirata mai un giorno nella vita, persino quando era di casa con i mostri sacri di Hollywood, Humphrey Bogart, Sean Connery, Rock Hudson, Burt Lancaster, Anthony Quinn, Frank Sinatra.

E anche quando camminava per Sunset boulevard Gina Lollobrigida è sempre rimasta la ragazza di Subiaco, la “ciociarella” come diceva con malcelata cattiveria Silvana Pampanini con cui ebbe una rivalità e un’inimicizia feroci, ma perla Lollo, lontana da qualsiasi snobbismo, quel tratto popolano e quasi “rurale” era una caratteristica preziosa, quasi un vanto.

Lei che era figlia di un piccolo rivenditore di mobili caduto in disgrazia per un bombardamento anglo-americano che nel 1943 distrusse completamente il suo magazzino e che da bambina ha conosciuto la povertà vera. E dalla quale era uscita con il sorriso, da donna del popolo in senso lato, non come la Magnani che del popolo era invece un’icona “politica”con quel grumo di gravità teatrale che ne fece la diva più amata dagli intellettuali.

E poi il corpo, simbolo dell’Italia del boom economico e dell’imminente rivoluzione dei costumi: è per lei che Vittorio de Sica, dopo aver recitato al suo fianco nel Processo di Frine di Alessandro Blasetti, inventò il termine «maggiorata», l’attrice tutta forme e curve, “ad alto voltaggio” che in negli anni del dopoguerra ribalta completamente i canoni di bellezza femminile. Maggiorate erano anche Sophia Loren e Silvana Mangano con cui ha condiviso l’age d’or del successo, rimanendo però sempre se stessa, priva dell’eleganza borbonica della Loren e dell’intensità della Mangano, legata a una semplicità naturalistica che le veniva dal carattere, aperto e socievole e che ne faceva l’interprete perfetta per le commedie nazional-popolari, senza velleità autoriali o sofisticati trasformismi.

La sua bersagliera in Pane amore e Fantasia (1953) di Luigi Comencini è uno dei personaggi più amati di sempre del nostro cinema e anche una delle vette più alte della sua fortuna artistica con il Nastro d’argento per la migliore interpretazione femminile, la conquista dell’Orso al festival di Berlino e la nomination all’Oscar per migliore pellicola straniera.

Successo di pubblico enorme, che replica due anni dopo con il sequel Pane, amore e gelosia.

Nel frattempo è diventata una star internazionale e vola al di là dell’oceano dove lavora con attori e registi importanti come King Vidor, John Houston, Robert Siodmark. Non saranno mai dei ruoli memorabili, perché la Lollo è un’attrice brillante, poco abituata a prendersi sul serio e per nulla incuriosita dalle trasfigurazioni drammatiche.

Negli Usa stringe una bella amicizia con Marylin Monroe: «L'ho conosciuta appena approdata a New York nel '50. Bella, discreta ma sola. Le ho voluto subito bene. L'ho frequentata a Los Angeles e siamo diventate amiche. Era una ragazza fragile aveva bisogno di protezione e si fidava troppo degli altri, purtroppo non aveva la mia forza di carattere».

Già, la forza d’animo della “Lollo” mai manipolabile, mai succube degli uomini (a parte la truffa che ha subito ultranovantenne, negli ultimi anni della sua vita), lei che a 18 anni, studentessa al primo anno di Belle arti a Roma subì una violenza sessuale da parte di un «noto calciatore della Lazio», come ha raccontato molti anni dopo, spiegando di essersi voluta sposare giovanissima con Milko Škofic per superare quel trauma: «Di sicuro non lo feci per amore».

Negli anni 70 continua a lavorare nel cinema ma in modo sempre più sporadico, e si dedica a nuove passioni, come la fotografia, la pittura, la scultura (ha esposto le sue opere in mezzo mondo), conoscendo artisti come Salvador Dalì. Ella Fritzgerald, David Cassidy, o personalità politiche come Herry Kissinger, il Richelieu del presidente Nixon.

Ma anche con sortite nel giornalismo con una celebre intervista a Fidel Castro ch,e quando venne in visita Italia, chiese di incontrare solo due persone: il Papa e... la Lollobrigida. Pare che il lider maximo ne fosse perdutamente innamorato e comunque è cosa nota che tra i due fosse nata una breve e intensa love story.

In quel decennio tutti la ricorderanno per il ruolo della Fata turchina nel Pinocchio televisivo di Comencini, primo grande sceneggiato entrato a far parte dell’immaginario collettivo. Gli anni ottanta segnano l’abbandono quasi totale della settima arte che omaggerà fino all’ultimo con alcuni cameo, m anche con fugaci apparizioni in serie tv americane diventate di culto anche in Italia come Falcon Crest e Love Boat. Nel 1988 accetta di interpretare il ruolo della madre della protagonista in La Romana di Giuseppe Patroni Griffi, remake dell’omonimo film da lei interpretato nel 1954. Gli ultimi anni della sua vita sono dedicati alla vita privata, niente più cinema, niente più fiction, ma diverse partecipazioni in televisione, richiestaissima per la miniera di aneddoti e perché memoria vivente del nostro cinema nell’epoca del suo maggior splendore.

Il 2 febbraio del 2018 le viene dedicata una stella sulla celebre Hollywood Walk of Fame di Los Angeles.

Marco Giusti per Dagospia il 16 gennaio 2023.

Magari ora che Gina, la Lollo, se ne è andata, non avremo più problemi a vedere il film che le dedicò Orson Welles nel 1958, “Portrait of Gina”, una sorta di pilot di 26’ per una serie di ritratti per la ABC, non piaciuto all’emittente e mai distribuito, finito in una stanza d’albergo a Parigi e recuperato da un cameriere, che cercò di venderlo mostrandolo nel 1986 a Venezia. Gina stessa lo vide solo allora, lo detestò e ne bloccò la distribuzione mettendo in mezzo gli avvocati. Vai a sapere veramente perché.

Eppure Gina, nel corso della sua carriera, esplosiva all’inizio, al punto che in cinque anni si ritrovò catapultata a Hollywood tra le braccia di Burt Lancaster, Yul Brynner, Tony Curtis e Rock Hudson, non così fortunato come si poteva prevedere, visto che a metà degli anni ’60 è una star un po’ decaduta, pronta a passare dalla Fata Turchina al Pinocchio televisivo di Luigi Comencini a un ruolo da zia pre-Malizia nuda sotto la doccia in “Un bellissimo novembre” di Mauro Bolognini, fece anche scelte bizzarre e coraggiose che la allontanano dall’icona hollywoodiana che in parte le era stato costruito. Penso a film davvero pop come “La morte ha fatto l’uovo” di Giulio Questi con Jean-Louis Trintignant o a “Queen, King, Knave” di Jerzy Skolimowski, tratto da Vladimir Nabokov, con David Niven e John Moulder Brown. Segno che non era stata una star viziata o aggressiva, e aveva seguito con una certa intelligenza tutte le fasi del suo percorso.

Nel 1954 Boswley Crowthers, critico del “New York Times”, recensendo “Beat the Devil”/”Il tesoro d’Africa” diretto da John Huston in Italia con Humphrey Bogart, scrive che “Gina è da sola l’attrazione del film”. E i critici erano impazziti a Venezia vedendola in “Le belle di notte” di René Clair dove è il sogno proibito di Gerard Philippe. A quel punto, dopo una serie di piccoli ruoli nel cinema del dopoguerra, “Aquila nera”, Il delitto di Giovanni Episcopo”, “Follie per l’opera”, si è già fatta notare come Nedda, la moglie infedele di Canio ne “I pagliacci”, in “Vita da cani” di Steno con Aldo Fabrizi, in “Alina” di Giorgio Pastina con Amedeo Nazzari, ne “la legge” di Jules Dassin, ma soprattutto è diventata la prima star italiana come la Bersagliera di “Pane, amore e fantasia” e “Pane, amore e gelosia” di Luigi Comencini, i due primi film della serie, interpretata e supervisionata da Vittorio De Sica e ha dimostrato di poter funzionare in ruoli drammatici come dimostra “La romana”, sempre del 1954.

 Senza scordare i bellissimi film che gira negli anni ’50, L’episodio “Il processo di Frine” in “Altri tempi” di Alessandro Blasetti, “La città si difende” di Pietro Germi, “”Cuori senza frontiere” di Luigi Zampa. Gli italiani sono giustamente impazziti per Gina, ma non solo loro. Con Gerard Philippe ha girato due bellissimi film, “Fanfan la Tulipe” di Christian Jacque e “Le belle della notte” di Clair. E Hollywood la vuole. Lei sbarca assieme a una sua amica per la prima volta nel 1954 a New York.  Un inviato americano, Joe Hyams, le dedica una serie di articoli sui giornali americani, una Lollo Story a puntate. Non la trova però così bella dal vivo. “Troppo piccola, il naso troppo grande, la figura troppo ordinaria, gambe pesanti, solo gli occhi belli. Ma metti tutte queste imperfezioni assieme e nasce il mistero di fotogenia che è Gina Lollobrigida”.

Nelle interviste si schermisce giura di essere una ragazza di campagna, popolare, alla buona, anche se già vanta 80 paia di scarpe e 300 vestiti. E le hanno appena proposto il ruolo da protagonista, la sciantosa Lina Cavalieri in “La donna più bella del mondo” diretto da Robert Z. Leonard a fianco di un Vittorio Gassman ancora da esportazione, e, a seguire, “Trapezio” di Carol Reed, il primo film che uscirà in Supertechnirama 70mm, con Burt Lancaster e Tony Curtis, i maggiori divi di Hollywood, che se la contenderanno, in una rilettura etero di un testo fortemente gay. A questo punto Gina, col mondo ai suoi piedi, ha due problemi. La carriera americana, particolarmente allettante, e, soprattutto, il problema Loren. Sono i giornali americani a farlo diventare davvero un caso. Si leggono titoli del tipo “It’s War Between La Lollo and La Loren”, dove si capisce che la Loren l’ha davvero puntata.

E’ una copiona”, spiega ai giornalisti americani, “una copycat.” E la Loren: “Non sono io che copio, abbiamo lo stesso pubblico”. Ma sostiene che le copia anche i vestiti, e se la ritrova nei posti dove va lei. Intanto, visto che la Lollo ha rifiutato l’offerta di fare un terzo titolo della serie “Pane, amore…” con Vittorio De Sica, “Ho detto alla Titanus che non avrei mai fatto un terzo film, anche se mi avessero pagato in dobloni d’oro”, Goffredo Lombardo, patron della Titanus ha offerto la parte a Sophia. E lei ha subito accettato. E’ quello che le ci voleva per lanciarsi. “Ma non c’è guerra tra Miss Lollo e me”, dice Sophia alla stampa americana, “Non voglio certo prendere un ruolo pensato per lei. Sarà scritto un nuovo copione adattato alla mia personalità”. IN fondo, dichiara lo stesso Lobardo, che ha prodotto tutta la serie di film “In Italia si girano 150 film all’anno. C’è abbastanza spazio per più di una sola star. E ritengo che la Lollo abbia una serie antagonista, la Loren”.

Gina ha rifiutato, sembra, 290 mila dollari, una cifra enorme, ma pensa a Hollywood, anche se negli anni si pentirà amaramente di aver lasciato la porta aperta alla rivale. E’ stato il suo più grande errore. E la Loren ne ha approfittato. “Pane, amore e…” diretto da Dino Risi a colori sarà un grande successo. Mentre la Lollo pensa a Hollywood con “La donna più bella del mondo”, che dovrebbe far tacere i fan della rivale già dal titolo, e al successivo “Trapezio”, che non sarà però il capolavoro sperato.

 Anche se io, da bambino, lo adoravo. Come adoravo il quasi imbarazzante “Salomone e la Regina di Saba” di King Vidor, dove è la conturbante Sheba, mentre Salomone, interpretato inizialmente da Tyrone Power verrà sostituto a metà da riprese da Yul Brynner, perché si è accasciato durante il duello con George Sanders e è tragicamente morto. Anche sul set di “Trapezio” muore un’attrice, proprio la stunt di Gina. E’ un film difficile da fare. La carriera americana di Gina non è così ricca come si poteva pensare. Non riesce a muoversi bene come si era mossa in Italia a Hollywood. Ha problemi con George Cukor sul set di “Lady L” e il film si farà, ahimé, con Peter Ustinov regista e La Loren al posto della Lollo. Perbacco.

Se Sophia gira “Madame Sans Gene”, Gina gira “Venere imperiale” di Jean Delannoy con Stephen Boyd e Raymond Pellegrin. Non funziona più così bene sul mercato internazionale. La Loren ha macinato ruoli, premi. E se, forse, neanche lei, alla fine è riuscita davvero a superare da star gli anni ’70, ha comunque una filmografia più forte negli anni ’60 e in America.

 Le cose migliori Gina le gira in Italia nella seconda metà degli anni ’60, “Mare matto” di Renato Castellani con Jean-Paul Belmondo e Tomas Milian, “Le bambole”, dove darà scandalo, nel suo episodio, diretto da Mauro Bolognini, il fatto che conquisti il bel pretino Jean Sorel. Devo dire che lì è favolosa. L’ultimo film dove è ancora La Lollo è forse “Le piacevoli notti” con Vittorio Gassman e Ugo Tognazzi. Dopo le rimarranno ruoli in film anche curiosi come “La morte ha fatto l’uovo” di Questi o “Queen, King, Knave” di Skolimowski tratto da Nabokov, che sarà un flop, e qualche ospitata in tv in qua e là.

Al punto che è quasi un evento rivederla come attrice, nel ruolo della madre di Francesca Dellera nella edizione televisiva di “La Romana” diretta da Mauro Bolognini, prodotta da Ciro Ippolito per Mediaset. Ma il giorno dell’anteprima a Roma stupisce tutti i presenti quando dal palco, dove siede assieme a regista, produttore, a Alberto Moravia e alla protagonista Francesca Dellera, demolisce la protagonista dicendo che non sa recitare e che è stata doppiata. Credo che il suo ultimo film sia lo scombinato “Box Office 3D” di Ezio Greggio.  

Estratto dell'articolo di Mario Fabbroni per leggo.it il 16 gennaio 2023.

«Non se n’è andata soltanto una diva del cinema ma una vera star planetaria. Gina Lollobrigida è stata qualcosa che non si può descrivere, per lei hanno perso la testa tutti. Dannatamente bella e con una femminilità che ha fatto la storia. Altro che queste presunte starlette di oggi, come Ilary Blasi, Chiara Ferragni e Belen, di cui nessuno sa niente davvero… non hanno la storia». Rino Barillari, il re dei paparazzi della Dolce Vita, piange come se avesse perso una persona cara, di famiglia.

(...)

 Una star senza eguali: «Come lei solo Sofia Loren o Virna Lisi. Il suo palcoscenico preferito era via Condotti a Roma: indossava pellicce fantastiche, la scia del suo profumo inebriava, si fermava il traffico perché allora in via Condotti passavano le auto». La gente attendeva ore per sapere cosa avesse acquistato la Lollobrigida in un negozio. «Lei era la moda, non ha mai imitato nessuno - ricorda ancora Rino Barillari -. Invece tutti la imitavano. Una donna brava anche a fare le fotografie, tanto che le ho insegnato qualcosa e ne sono onorato. Venne alla mia mostra da Bulgari, ovviamente in tanti miei scatti c’era lei …».

Barillari li ha fotografati tutti, gli uomini della Lollo: da Milko Skofic al cardiochirurgo Christian Barnard, da Kirk Douglas a Nureyev. «Le piaceva il Jackie O come locale per le sue serate. Era un sogno, troppi ricordi ma anche parolacce, saluti e baci lanciati con le mani. Certo che si arrabbiava quando mi vedeva fare il paparazzo. Ma sapeva anche che quella era la foto che faceva notizia è stava al gioco. Una come la Lollobrigida non nasce più».

Federica Bandirali per corriere.it il 4 luglio 2022.

Icona di bellezza ma anche grande attrice italiana: Gina Lollobrigida compie il 4 luglio 95 anni. Soprannominata “la Lollo”, è stata una delle più importanti presenze cinematografiche europee ma anche sex symbol negli anni 1950 e 1960 a livello internazionale. Nella sua agenda non è fissato al momento di festa vero e proprio ma c’è un appuntamento speciale: è pronta infatti a tornare a Subiaco, sua città natale, per ricevere un premio cinematografico speciale.

 La questione patrimonio

L’attrice è stata ritenuta non in grado di amministrare il suo patrimonio. Di lei si occupa un amministratore di sostegno, lo stesso che ha allertato la Procura quando Andrea Piazzolla (il factotum della star,) e un complice, secondo gli inquirenti, avrebbero cercato di vendere tramite una casa d’asta 350 beni della Lollobrigida. Piazzolla è a processo con l’accusa di circonvenzione d’incapace.

 La testimonianza figlio Milko Skofic

Il figlio della Lollo Andrea Milko Skofic ha testimoniato proprio nel processo a carico del 35enne Andrea Piazzolla. «Ho visto un forte cambiamento nel comportamento di mia madre, una persona si è approfittata della sua debolezza — ha detto Skofic al giudice— Ho deciso di denunciare perché mia madre, dopo la conoscenza di Piazzolla, è cambiata, è diventata fuori controllo. Mia madre era molto attenta a come spendeva i soldi, una persona semplice, non faceva feste”.

 La Lollo in difesa di Piazzolla

«Per me è come un figlio, mi sta accanto come un figlio, mi ha aiutato ad andare avanti. La sua figlia Gina si chiama come me, è una tigre», ha detto affettuosa Gina Lollobrigida a “Domenica In” riferendosi a Piazzolla «Andrea non ha mai sbagliato. È una persona brava ed il fatto che mi ha aiutato, sta avendo dei guai terribili. La vita è mia ed io decido cosa farne. Fare dei regali ad Andrea e la sua famiglia è una cosa che riguarda me, nessun'altro.», ha aggiunto. Per poi scoppiare a piangere in diretta.

Morire in pace”

Alla mia età dovrei avere un po’ di pace, ma non ce l’ho ancora” ha detto la Lollo a Venier “Più che stanca, mi sento umiliata. Dovrebbero lasciarmi morire in pace. Non ho fatto niente di male, capito?“.

Andrea Piazzolla, il factotum di Gina Lollobrigida: «Il nostro un rapporto simbiotico. Ora sento la sua voce». Storia di Elvira Serra su Il Corriere della Sera il 16 gennaio 2023.

Oggi ha 35 anni, gli ultimi dodici li ha trascorsi accanto alla Bersagliera. Ha vissuto con lei nella villa dell’attrice sull’Appia Antica dandosi come imperativo quello di rendere felice ogni suo giorno. Ha fatto nevicare per lei in giardino il giorno di Natale ( qui il video), le ha regalato uova di Pasqua gigantesche, ha organizzato feste di compleanno a casa o al ristorante, l’ha portata a correre coi Go-Kart e a fare le vacanze al mare. Le ha dato le medicine all’orario giusto, ha chiamato il medico ogni volta che c’era un’emergenza o un sintomo fuori controllo. Per Andrea è stata più di una mamma, e lei per Gina più di un figlio. Con questo spirito, in lacrime, risponde al telefono.

Andrea, come ha saputo della morte di Gina? «Nel modo peggiore possibile. Stamattina avevo chiamato un medico a Pisa al quale avevo scritto proponendogli di donare il mio rene per Gina, se fosse stato possibile aiutarla con un trapianto. Ancora non mi rassegnavo al fatto che se ne stesse andando. Così, dopo averci parlato, ho subito telefonato al professore che la stava seguendo nella Casa di Cura Pio XI. E lui mi ha freddato: “Andrea non lo sai? Gina è mancata da poco”. Mi è crollato il mondo addosso».

Quando era stata ricoverata? «Giovedì scorso. Mercoledì ero dovuto andare a Milano in giornata. Allora l’avevo affidata agli infermieri, ma in casa erano venuti a trovarla anche i suoi amici, Alessandro Lo Cascio e Graziella Maretti. Quando sono rientrata mi hanno riferito che era stata serena. Allora le ho detto: “Gina amore mio, sono tornato!”. Lei ha aperto gli occhi e ha risposto: “Che bella sorpresa”. Poi li ha richiusi, e non li ha più riaperti...».

Quando ha chiamato il medico? «Il giorno dopo, quando ho visto che non si svegliava più, ho fatto subito venire il suo medico con il cardiologo. E insieme abbiamo deciso di ricoverarla subito nella Casa di Cura Pio XI».

Ha avvisato lei il figlio Milko Skofic e il nipote Dimitri? «Sì, certo. Appena siamo arrivati all’ospedale li ho chiamati»

E in questi giorni vi siete visti? «Ci siamo incrociati. Io sono sempre stato accanto a Gina, dormivo lì in clinica. Tre giorni fa Milko mi ha detto che avrebbe voluto fare lui la notte e io gli ho risposto che ero felice, che sua madre sarebbe stata contenta. Poi mi ha mandato un messaggio per dirmi che non poteva più farla e che l’avrebbe fatta il giorno dopo. Ma non è venuto nemmeno la notte successiva».

Come mai stamattina lei non era in clinica? «Sono andato via ieri, perché ho capito che Gina non avrebbe più aperto gli occhi e non aveva più senso per me stare lì. Ma non riuscivo ad accettarlo. E infatti fino a stamattina cercavo di parlare con altri medici. Però la cosa che più mi ha fatto male è stata sapere che stamattina era già lì “lo spagnolo”: addirittura ha cacciato un caro amico di Gina millantando di essere il marito!».

Il certificato di battesimo che dimostra come il matrimonio sia stato sciolto il 19 gennaio 2019

Javier Rigau? Cosa ci faceva lì? «Bisognerebbe chiederlo al figlio e al nipote di Gina. Stamattina Rigau ha cacciato Adriano Aragozzini. Si spaccia per il marito di Gina, quando quel matrimonio è stato annullato dalla Sacra Rota e lui lo sa bene. Trovo vergognoso che Milko e Dimitri lo abbiano fatto andare lì. Eppure li avevo supplicati di chiederle scusa alla madre per tutto il male che le avevano fatto. Bel modo di onorarne la memoria. Comunque non si sono smentiti: erano sempre gli ultimi ad arrivare e i primi ad andarsene».

Le viene in mente un ricordo suo e di Gina, adesso, su tutti? «Me ne vengono in mente mille. La nostra quotidianità, quando andavo a svegliarla o l’aiutavo a scendere le scale per venire al piano terra, oppure quando le chiedevo cosa desiderava per pranzo o cosa volesse fare, quando eravamo in pigiama o quando andavamo vestiti eleganti a una cena importante. L’ho portata al Go-Kart, siamo andati al mare, abbiamo viaggiato. Aveva un’inesauribile voglia di vita. Con me forse si è permessa di vivere quell’infanzia che non aveva potuto da piccola, a causa della guerra».

Adesso è ancora a casa di Gina? «No, ho portato via le mie cose ieri. Quando sono rientrato ho sentito la voce di Gina dentro casa che mi chiamava. Io non posso stare lì senza di lei e sentire che mi chiama... Io stavo lì perché c’era lei».

Un’immagine di Andrea Piazzolla e Gina Lollobrigida

Si rimprovera qualcosa? «No. Qualsiasi cosa possa aver fatto per Gina, l’ho fatta sempre con piacere, con onore, con rispetto. Il nostro era un legame simbiotico. Sono felice di averla coccolata, riempita di baci e di abbracci e di averle ripetuto quanto le volevo bene e quanto le fossi grato per tutto quello che mi ha insegnato, per aver scelto di volermi bene».

Tra poco si aprirà la grande questione del testamento... «Io lo dico da subito, non voglio che ci siano equivoci. Non so quale sia stata la volontà di Gina, ma se ci sarà qualcosa per me sarà solo per completare i suoi desideri che non è riuscita a fare nella vita. Io non voglio niente, tutto ha perso valore adesso. Senza Gina, il resto non ha più importanza. Che si risparmiassero stupide battaglie, per me sarà solo completare la sua volontà».

Lei sa quali erano i desideri di Gina? «Sì. Anzitutto che venga riunita la famiglia nel cimitero. So dove sono i suoi genitori e le sue sorelle. Poi che le sue sculture e i disegni vengano gestiti da una persona che ha designato lei anni fa e che non sono io. Il terzo desiderio è dare tutto in beneficenza ai bambini africani. Questo è quello che devo compiere per lei».

Gina Lollobrigida, 4 luglio 1927 – 16 gennaio 2023

ELVIRA SERRA per corriere.it il 15 agosto 2022.

La Bersagliera non smette di combattere. Nemmeno a 95 anni. La prossima sfida è quella elettorale: sarà capolista al collegio uninominale del Senato a Latina, per Italia sovrana e popolare, la lista promossa da Partito comunista, Patria socialista, Azione civile, Ancora Italia e Riconquistare l’Italia. 

Gina Lollobrigida, ma è matta?

Ride. «Ma no. Ero solo stufa di sentire i politici litigare tra loro senza mai arrivare al dunque».

E se sarà eletta, per cosa farà la prima battaglia?

«Mi batterò perché sia il popolo a decidere, dalla sanità alla giustizia. L’Italia sta messa male, voglio fare qualcosa di buono e positivo».

 Draghi, come premier, le è piaciuto?

«Mah, mi piaceva, però... Rispetto il suo lavoro, ma non lo condivido».

E cosa pensa dei suoi colleghi di partito? Chi le piace?

«A me piaceva Gandhi per il suo modo di fare, per la non violenza. Ed ero molto amica di Indira, la vedevo ogni volta che veniva a Roma. Era una donna straordinaria».

 Guardi che la politica è un gran lavoro di tessitura. Non ci sono dei politici con i quali vorrebbe collaborare?

«Io collaboro con tutti. Basta che sia per il bene dell’Italia».

Ma dove trova le forze?

«Finché c’è l’energia, la uso per cose importanti, soprattutto per il mio Paese».

Quando ha deciso di candidarsi?

«Ne ho parlato con il mio avvocato, Antonio Ingroia, e ho preso questa decisione».

 Se dovesse vincere, Andrea Piazzolla, il suo figlioccio, le farà da portaborse?

«No. Farò questa esperienza senza di lui».

Nel ‘99, quando si candidò al Parlamento europeo con i democratici di Romano Prodi, pur ottenendo diecimila preferenze non fu eletta.

«È stata una esperienza, nella vita si può perdere e si può vincere».

 Farà la campagna elettorale?

«Non ci siamo ancora organizzati, ma se serve la farò».

Ma Francesco Lollobrigida, Fratelli d’Italia, è un parente?

«Credo di sì. In questi giorni di Lollobrigida ne ho trovati tanti».

Candida Morvillo per il Corriere della Sera il 20 maggio 2016.

Tante sculture che ho esposto al Pushkin di Mosca o al Marmottan Monet di Parigi sono nate a Pietrasanta. Ho lì uno studio, ci passo mesi, conosco tutti, ci lavorano artisti come Fernando Botero, Giuliano Vangi, Park Eun-Sun, Kan Yasuda... Non ci sono paparazzi, posso uscire in grembiule da lavoro».

 Gina Lollobrigida, 90 anni compiuti il 4 luglio, è madrina di Pietrasanta Città italiana della cultura 2020. Lei stessa monumento nazionale, è il vessillo della partita che la cittadina toscana si gioca con altre 45 località. Voce squillante, memoria formidabile, la «bersagliera» regge due ore al telefono e non ha un cedimento neanche quando parla delle perizie psichiatriche chieste dal figlio per interdirla o dello spagnolo più giovane di 34 anni sposato a sua insaputa, per procura.

Scolpisce anche ora, a 90 anni?

«È un mestiere che puoi fare finché il cervello funziona. Sto finendo una regina di Saba a grandezza naturale. Nel lavoro pesante, mi aiutano i bravi artigiani del laboratorio Cervietti. A Pietrasanta, ho trovato il mio habitat perfetto».

Enzo Bettiza si ricordava di lei nel dopoguerra, all' Accademia di Belle Arti di Roma, «procace con un codazzo di giovani appresso».

«Amavo studiare lì. Ma c' era la fame, vivevo in una stanza in sei, i produttori mi fermavano per strada e finii a fare l' attrice».

 Come è tornata la voglia di scolpire?

«Posai per un busto di Giacomo Manzù e vederlo all' opera m' incantò. Era il '58, scolpii la testa di mio figlio Milko jr, gli piacque e non smisi più».

Dov' è il busto di Manzù?

«Lo distrusse per dispetto, prima di finirlo. Non avevo tempo per posare, mancavano le mani e non volle copiarle dalla foto: si era preso una cotta».

 Un peccato.

«Anni dopo, mi fece una statua, che ho in giardino. La finì, si sedette a guardarla e poi non mi riconobbe più. La sua mente iniziò a svanire quel giorno».

 Fidel Castro, a Roma, disse: «Sono venuto per vedere il Papa e la Lollo». Anche lui s' era preso una cotta?

«Lo dirò nella mia autobiografia. Sono stata anche fotoreporter e andai a Cuba per intervistarlo. Mi trattò da regina, mi fece da guida. Ho un documentario girato su di lui, mai uscito».

 Orson Welles, invece, ne girò uno su di lei che fu rubato. Anche lui la corteggiava?

«Eh sì! Ed era vulcanico...».

 E il generale siriano Mustafa Tlass, che confessò d' aver vietato attacchi al contingente italiano in Libano nell' 83, per evitarle un dispiacere?

«Era un bell' uomo, colto. Al telefono, mi recitava poesie scritte per me. Mi riempì di regali, ma aveva moglie. Di quel suo ordine, seppi dai giornali».

 Il chirurgo Christiaan Barnard si fece scappare di una vostra liaison.

«Non era un gentleman».

E Rock Hudson, pre coming out?

«Sul set di Torna a settembre , avevo simpatia per lui. Sono sicura che abbia cambiato orientamento dopo».

Perché spesso scolpisce personaggi dei suoi film?

«È un altro modo d' interpretarli. Ho fatto un' Esmeralda alta sei metri che balla con le caprette e una Paolina tinta di verde e oro, splendida. Ma non lavoro quanto vorrei: sono ancora molto richiesta come diva. Chi l' avrebbe detto, a 40 anni dal mio addio alle scene?».

 Lei come se lo spiega?

«Quel cinema italiano era il primo al mondo. Quando arrivai a Hollywood, dovettero chiudere l' aeroporto per via della folla di fan. Marilyn Monroe mi disse: "Mi chiamano la Lollo americana". Diventammo amiche. L' ho vista piangere».

 Piangere?

«A un party, arrivò con cavaliere Yves Montand, un suo flirt, ma sposato. Lui però la ignorò, lei andò via sola. Era insicura, incosciente del suo sex appeal...».

 Lei era cosciente del suo sex appeal?

«Solo invecchiando mi sono detta "non ero male"».

Le manca la bellezza della gioventù?

«Ogni giorno va vissuto per quello che la vita ci dà».

 Perché nel '50 scappò da Hollywood?

«M' invitò il produttore Howard Hughes. Vado, ma ero ingenua. Firmo il contratto, ma Hughes mi tiene in un hotel sorvegliata da un segretario. Voleva che lo sposassi, ma per me, appena sposata in un' Italia senza divorzio, era inconcepibile».

 Se n' è pentita?

«Ero sottomessa alle regole, avevo sposato Milko Skofic nel '49, era medico dei profughi, io giravo i primi film. Oggi, sarebbe stata un' altra storia».

 Divorziò nel '71. Oggi è sposata o no con lo spagnolo Javier Rigau?

«Certo che no. Purtroppo, mi ha sposata per procura in Spagna e devo vincere il processo lì».

 Però nel 2006 lei aveva fissato le nozze a Roma.

«Fu un momento di debolezza. Ci ripensai in tempo».

 In tribunale, ha detto che non avete fatto sesso.

«Non eravamo fidanzati in quel senso».

E in tribunale deve tornare perché per suo figlio è circuita dal suo manager trentenne Andrea Piazzolla, a cui ha delegato la gestione dei beni.

«Ne ho fatte mille di perizie psichiatriche e tutte dicono che la mia testa funziona. Il problema è che in Italia le leggi sull' eredità andrebbero cambiate».

 Non le piace che gli eredi naturali siano i figli?

«In altri Paesi civili funziona diversamente».

Da ragazzo, suo figlio si lamentò di avere una madre diva, inseguita dai fotografi.

«Non lo sopportava. Io ho cercato di aiutarlo... Pensare che i primi anni non volevo saperne di diventare attrice...».

 Ma poi le è piaciuto recitare?

«Poi feci Pane Amore e Fantasia con Vittorio De Sica e scoprii quanto era bello il cinema. Vittorio mi chiedeva di camminare su un filo e lo facevo, di piangere con un fischio e lo facevo».

 Di cosa va più fiera?

«Degli anni da fotoreporter. Ho viaggiato da sola in 24 Paesi intervistando e fotografando grandi come Indira Gandhi, Madre Teresa. Non sono viziata... Se superi la guerra, dopo, superi tutto».

Federica Bandirali per corriere.it pubblicata da Dagospia il 04-07-2022

Icona di bellezza ma anche grande attrice italiana: Gina Lollobrigida compie il 4 luglio 95 anni. Soprannominata “la Lollo”, è stata una delle più importanti presenze cinematografiche europee ma anche sex symbol negli anni 1950 e 1960 a livello internazionale. Nella sua agenda non è fissato al momento di festa vero e proprio ma c’è un appuntamento speciale: è pronta infatti a tornare a Subiaco, sua città natale, per ricevere un premio cinematografico speciale.

 La questione patrimonio

L’attrice è stata ritenuta non in grado di amministrare il suo patrimonio. Di lei si occupa un amministratore di sostegno, lo stesso che ha allertato la Procura quando Andrea Piazzolla (il factotum della star,) e un complice, secondo gli inquirenti, avrebbero cercato di vendere tramite una casa d’asta 350 beni della Lollobrigida. Piazzolla è a processo con l’accusa di circonvenzione d’incapace.

La testimonianza figlio Milko Skofic

Il figlio della Lollo Andrea Milko Skofic ha testimoniato proprio nel processo a carico del 35enne Andrea Piazzolla. «Ho visto un forte cambiamento nel comportamento di mia madre, una persona si è approfittata della sua debolezza — ha detto Skofic al giudice— Ho deciso di denunciare perché mia madre, dopo la conoscenza di Piazzolla, è cambiata, è diventata fuori controllo. Mia madre era molto attenta a come spendeva i soldi, una persona semplice, non faceva feste”.

La Lollo in difesa di Piazzolla

«Per me è come un figlio, mi sta accanto come un figlio, mi ha aiutato ad andare avanti. La sua figlia Gina si chiama come me, è una tigre», ha detto affettuosa Gina Lollobrigida a “Domenica In” riferendosi a Piazzolla «Andrea non ha mai sbagliato. È una persona brava ed il fatto che mi ha aiutato, sta avendo dei guai terribili. La vita è mia ed io decido cosa farne. Fare dei regali ad Andrea e la sua famiglia è una cosa che riguarda me, nessun'altro.», ha aggiunto. Per poi scoppiare a piangere in diretta.

 “Morire in pace”

Alla mia età dovrei avere un po’ di pace, ma non ce l’ho ancora” ha detto la Lollo a Venier “Più che stanca, mi sento umiliata. Dovrebbero lasciarmi morire in pace. Non ho fatto niente di male, capito?“.

Elvira Serra per il Corriere della Sera pubblicato da Dagospia il 16 settembre 2018

Quale domanda non vuole più sentirsi fare?

«Forse la rivalità con la Loren. Basta...».

 Chi le era più simpatica tra la Loren e la Bosè?

«Ah, Lucia Bosè di sicuro. L’ho conosciuta bene. Non si sapeva pettinare ai concorsi, era molto sprovveduta. Io e un’altra amica delle Belle arti l’abbiamo aiutata. A noi non ci fregava niente dei concorsi, io avevo già intrapreso la strada dell’arte».

Vuole essere ricordata come attrice, come scultrice o come fotografa?

«Purtroppo mi conoscono soltanto come attrice, che è una parte di me. Ma per via di gelosie feroci non sono riuscita a espletare altre arti che sono per me altrettanto importanti».

Pentita di aver fatto l’attrice?

«No, perché ho capito che il cinema è un’arte immediata: fai un film e il giorno dopo ti conoscono in tutto il mondo. Nella scultura e pittura uno è conosciuto dopo 300 anni!».

Gina Lollobrigida accoglie l’ospite sulla soglia della sua villa nell’Appia Antica sbocconcellando un gelato, che durerà per un bel po’ di domande. Indossa un lussureggiante tailleur nero che ha disegnato e cucito da sola, con piccoli cuori dorati lungo tutto il bordo.

 «Avrei potuto fare la stilista», dirà con deliziosa immodestia. La stessa con cui, mentre mostra i suoi ritratti a sanguigna di Nureyev, Giovanni Paolo II e Castro, chiosa: «Nel disegno non mi batte nessuno». E, accarezzando le sue sculture: «Gli esperti vanno con il compasso, io con gli occhi. Per la somiglianza, o hai talento o non ce l’hai». E il talento lei ce l’ha: basta guardare questa Regina di Saba con la testa reclinata all’indietro con abbandono e grazia.

Quando scriverà un’autobiografia?

«Ne sto preparando due: una fotografica e una scritta. Un imbecille ne ha pubblicata una non autorizzata, non le dico il titolo per non fargli pubblicità: ha copiato degli articoli e ha fatto un minestrone, sta guadagnando alle mie spalle con grandi idiozie».

 Ha già un editore?

«No. Ma non si può pubblicare in tutto il mondo contemporaneamente. Lo farò prima in America e in Russia, alla fine in Italia».

È appena rientrata dalle vacanze, giusto?

«Ero a Porto Rotondo. Pensavo che la Sardegna fosse un’isoletta e invece è grande, varia, si mangia benissimo».

Ma avevo letto che non prende mai il sole.

«Purtroppo ho una pelle molto delicata. Quando stavo girando Come September con Rock Hudson mi arrivò un pacco con un apparecchio che aveva le lampade per abbronzarsi. Lo usavo la sera per pochi minuti, la sarta e la parrucchiera controllavano il tempo. Ma una notte mi addormentai e mi svegliai il mattino dopo tutta rossa. Sul set il medico mi rispedì a casa per tre settimane. Mi trattavano come una star, in modo molto diverso dall’Italia...».

In America la viziavano?

«Al cento per cento. I produttori mi facevano sempre un regalo alla fine delle riprese. Mi dicevano: vai da Bulgari e prendi quello che vuoi. In genere brillanti e turchesi, orecchini e spilla. Una volta chiesi una Rolls-Royce come quella della Regina Elisabetta e la ottenni!».

La stessa dell’incidente con Zeffirelli?

«Allora, andò così: lui mi aveva chiesto se volevo andare a Firenze per vedere la Fiorentina che giocava contro il Cagliari. Disse che sarebbe venuto anche Gian Luigi Rondi. A lui aveva detto la stessa cosa per me. Solo dopo ha ammesso che voleva vedere Gigi Riva: se me l’avesse detto non mi sarei mai messa in viaggio, che me ne fregava a me di Riva!».

 Perché prendeste la Rolls?

«Zeffirelli si era presentato con una Ford aperta, a febbraio non era adatta. Presi la mia auto, ma dal mattino avevo un brutto presentimento. Per tre volte Franco mi spinse ad accelerare, pioveva, poi ha grandinato, e a un certo punto ho perso il controllo. Niente partita».

A Mosca si ritrovò a un party con Liz Taylor che indossava il suo stesso abito.

«Era di Christian Dior. Se succede una cosa così c’è poco da ridere. Ma noi ci siamo abbracciate e abbiamo riso di gusto».

Riguarda i suoi film?

«Mi fa piacere rivederli, sembrano più belli oggi. Veda Notre-Dame, un capolavoro. Sono sempre stata severa, volevo solo ruoli eccezionali. Io non recitavo un ruolo, io lo vivevo».

Il suo film più bello?

«Forse Venere imperiale».

 Quello per cui intentò una causa a Rizzoli.

«Voleva farlo con meno soldi. Io non ho ceduto. Siamo andati avanti per cinque anni, finché lui è venuto qua, si è messo in ginocchio e ha detto: “Gina, lo sai che non è colpa mia”».

 Chi è l’attore più bello con cui ha lavorato?

«Sean Connery non era affatto male. Bravo e corretto».

Chi è stato scorretto?

«Che ci provava di brutto? Yul Brynner».

Racconti.

 «Tyrone Power stava nella mia roulotte e io ero nervosa per alcune battute. Lui mi tranquillizzò: “Life goes on anyway”, la vita va avanti comunque. Poi disse che non riusciva a respirare, aveva ancora la corazza di Re Salomone. Uscì fuori, si girò e sorrise, per tranquillizzarmi. E invece non riuscì a raggiungere la sua roulotte. Dopo che è morto, il truccatore lo ha ritoccato: non era più Salomone, ma Tyrone Power ed era più giovane. Eravamo tutti choccati. Ci hanno tenuti per un mese a Madrid e infine è venuto Yul Brynner al suo posto. Mi stette sulle scatole dalla prima scena. Però quando ci baciavamo perdevo la testa, il regista diceva stop e noi continuavamo. Non so se è perché avevo visto la morte così da vicino...».

Cosa mi dice di Humphrey Bogart?

«Eccezionale, già dalla mattina era embriaco e cantava. Quel film è stato un divertimento! La sera litigava con Truman Capote, Piero Piccioni, Robert Capa. Capa faceva scherzi terribili. Capote era il più piccolo, ma era il più forte e vinceva sempre lui. Era innamorato di me, in senso buono eh... Aumentava le mie battute».

E di quando incontrò la Regina Elisabetta?

«Fu una serata formidabile, all’ambasciata italiana a Londra. Lei era seduta al tavolo con mio marito e il principe Filippo era seduto al mio. Quando vidi che lei stava mangiando il pollo con le mani lo feci pure io».

 Con suo marito non è mai stata felice. Perché lo aveva sposato?

«Eh, c’è stata una ragione... Ho avuto una disavventura, come tante donne. C’è stato un disgraziato che si è approfittato di me, un calciatore della Lazio. Mi ha drogata, ero vergine...».

Perché non lo ha denunciato?

«E che lo denunciavo a fare? A quei tempi... Ora è morto. Ho cercato di convincermi che non fosse successo niente, ma una cosa così non la dimentichi. Dopo mi sono accompagnata con Milko (Skofic, ndr). Non è che volesse sposarmi, lo volevo io, per avere una vita normale, mi sentivo rovinata...».

 Pensa che l’abbia sposata per interesse?

«È stato certamente un matrimonio di interesse da parte sua. Lui giocava a tennis e contava i soldi, non faceva altro. Quando è diventato legale farlo, ho divorziato».

Giacché parliamo di matrimoni... È ancora sposata con Javier Rigau?

«Quella è stata tutta una truffa!». E mentre la Lollo si scalda, il suo assistente Andrea Piazzolla la raggiunge e interviene per la prima volta: «Rigau è riuscito a far riconoscere il matrimonio canonico per procura. A breve la Sacra Rota si pronuncerà sull’annullamento».

Signora Lollobrigida, pensa mai alla morte?

«Vorrei che arrivasse il più tardi possibile, perché c’hoancora tante cose da fare. E voglio finire una scultura bellissima, ma non dovrà scrivere com’è fatta sennò mi rubano l’idea».

Promesso. Mi dice quando si è emozionata di più nella sua fantastica vita?

«Uno dei momenti è stato l’incontro con Eisenhower alla Casa Bianca: è stato il mio “primo” presidente. Siamo entrati lì come se fosse una casa qualunque, a Washington era appena passato un uragano. Quando mi invitò Reagan ci facemmo un sacco di risate: ci conoscevamo dai tempi in cui faceva l’attore a Los Angeles e andavamo a cena con John Wayne».

A quale riconoscimento tiene di più?

«Ai quattro francobolli che San Marino ha fatto stampare con la mia faccia. È un privilegio destinato ai re e alle regine».

Le dispiace non essere in armonia con suo figlio Milko?

«Certamente, perché sono stata generosa con lui. C’è una cosa che succede a molti attori: i figli non riescono a sostenere la popolarità dei genitori. Io ho sempre avuto un carattere molto forte e lui molto debole. Si è circondato di persone sbagliate. Non ragiona più».

 Cosa è per lei Andrea Piazzolla, indagato per circonvenzione d’incapace dopo la denuncia di Milko?

«Andrea è la persona cui sono più legata. È un ragazzo intelligente che non ha bisogno dei miei soldi perché ha i suoi progetti di lavoro e non le sto a dire quali. Mi ha salvato più di una volta e io ringrazio il cielo di avermi dato una persona che mi vuole bene nel vero senso della parola, e questo bene è contraccambiato».

 Ultima curiosità, sulla Fata Turchina. È vero che il piccolo Pinocchio la detestava così tanto che un giorno le lanciò un sasso?

«La storia è un’altra! Quel bambino era stato abituato molto male dal padre: voleva 10 lire dopo ogni scena. A film finito, andammo a Cinecittà per fare delle foto, c’era anche Manfredi. E a quel bambino, che voleva le 10 lire anche per la foto, dissi: e damme ‘sta mano. Lui per tutta risposta mi tirò un calcio sugli stinchi, allora lo rincorsi e suo padre mi tirò la pietra che per poco non mi ferì alla tempia. Da quel giorno io a Comencini ho messo una croce sopra».

È morta Gina Lollobrigida, la diva che sapeva recitare. Fabio Ferzetti su L’Espresso il 16 Gennaio 2023.

Grande protagonista del cinema italiano, era nata a Subiaco il 4 luglio del 1927. È stata una bravissima attrice ma soprattutto non rinunciò mai alla propria personalità

Aveva cominciato con i fotoromanzi, anzi con uno dei primissimi fotoromanzi mai pubblicati in Italia, perché le cose ha sempre voluto farle bene. Ma ancora prima, studentessa di Belle Arti, disegnava e vendeva caricature al carboncino, proprio come in quegli anni faceva un certo Fellini, molto prima di scoprirsi regista.

È stata una delle attrici più famose e ammirate del mondo, molto più della Loren, che sulla distanza sembra batterla ma non ispirò mai il delirio internazionale della Lollo (celebre la battuta che le rivolse Marilyn Monroe vedendola a Hollywood: «Lo sai che mi chiamano la Lollobrigida d’America?»; mentre in Francia le tette delle signore più appetite ancor oggi sono dette affettuosamente “lolos”, da Lollo).

Quando non era ancora una diva disse no a Antonioni (per La signora senza camelie, che poi avrebbe fatto Lucia Bosè, sua ex-rivale come Miss Italia).

Anni dopo smarrì per colpa del marito una proposta di Fellini (doveva fare la fidanzata di Mastroianni nella Dolce vita, un piccolo ruolo, e chissà se avrebbe davvero detto di sì), ma nel frattempo aveva sbattuto la porta in faccia a Howard Hughes, il produttore, regista e multimiliardario (vedi The Aviator) che dopo il décolleté di Jane Russell (detta appunto “il seno”), voleva assicurarsi in esclusiva quello della Lollo, almeno sullo schermo. Cosa che fece infuriare l’attrice italiana, non ancora passata alla storia come la Bersagliera di Pane, amore e fantasia, spingendola a un precipitoso dietrofront verso l’Italia, anche se il contratto firmato le avrebbe impedito di girare film negli Usa fino al 1959 (nel frattempo era esplosa la Hollywood sul Tevere, e di film americani girati in Italia o in Europa ne avrebbe fatti anche troppi).

STRAVAGANZE

Basterebbero i primati e le stravaganze di Luigia Lollobrigida, in arte Gina, a dire la grandezza di una diva che fu anche una bravissima attrice - le due cose non sempre andavano di pari passo - ma soprattutto non rinunciò mai alla propria personalità e non perse occasione di dimostrarlo. Anche sbagliando, che importa, perché è questa la libertà, e in un cinema di dive sposate ai loro produttori e qualche volta ai loro registi, lei fece sempre le sue scelte in autonomia.

Dando il meglio probabilmente nei primi anni, in film come Vita da cani e poi Le infedeli, entrambi di Monicelli e Steno, o nel magnifico La provinciale di Mario Soldati, da Moravia, uno dei suoi migliori ruoli drammatici in assoluto. Senza dimenticare Fanfan la Tulipe di Christian-Jaque, trascinante film d’avventure con l’allora arcistar Gérard Philipe; e naturalmente Il processo di Frine, l’episodio di Altri tempi diretto da Alessandro Blasetti, che grazie alla bellezza di Gina e all’istrionismo di Vittorio De Sica avrebbe lanciato definitivamente le sue forme perfette e all’espressione “maggiorata fisica”, una di quelle formule destinate a ispirare più che a catturare un’epoca.

MALIZIA

Il resto, dopo l’apogeo del proverbiale Pane, amore e fantasia di Comencini, uno dei più colossali successi di pubblico (e dei più clamorosi abbagli critici) degli anni 50, seguito da altri tre episodi, anche se la Lollo già al terzo passò il testimone alla futura rivale Sofia Loren, non sempre fu alla stessa altezza. Assurta ormai allo status di diva internazionale, forte di una bellezza classica e insieme maliziosa che non aveva frontiere, Gina cominciò a scegliere i contratti più che i copioni, i partner più che i personaggi, e si imbarcò in filmoni oggi un po’ dimenticati o relegati nelle antologie del kitsch.

Con exploit isolati come La romana (ancora da Moravia) di Luigi Zampa, che tanto aveva fatto per lei fin dai tempi di Campane e martello e Cuori senza frontiere, o il più tardo La morte ha fatto l’uovo, 1968 uno dei cult diretti dal geniale Giulio Questi, che però non bastò a rilanciarla. Per chiudere in bellezza come Fata turchina nel bellissimo Pinocchio tv di Comencini, una fata decisamente edipica (gli anni ormai erano 45), prima delle spiritose e un po’ malinconiche serie tv anni 80 come Falcon Crest e Love Boat. E chissà che ora non riappaia finalmente il rarissimo e irriverente special tv che le dedicò Orson Welles, nientemeno, a fine anni 50, perduto, ritrovato, proiettato alla Mostra di Venezia nel 1986, infine bandito per volere della stessa Gina. Che aveva personalità da vendere, ma non sempre le azzeccava.

Addio a Gina Lollobrigida, la bersagliera del cinema rimasta diva fino alla fine. GIULIA MERLO su Il Domani il 16 gennaio 2023

Attrice di fama mondiale, arrivò fino a Hollywood ma fu resa indimenticabile da Comencini in Pane amore e fantasia. Negli ultimi anni è rimasta al centro delle cronache per i casi giudiziari di dissidi familiari con il figlio, finiti in una puntata di Un giorno in pretura

A 95 anni se ne va Gina Lollobrigida e con lei una delle ultime dive del cinema italiano del dopoguerra.

Carattere indomabile e verve polemica fino all’ultimo giorno, per tutti era la “bersagliera”. Il soprannome le è rimasto tutta la vita dal suo ruolo più famoso, quello della ragazza più bella del paese detta “Pizzicarella la Bersagliera”, di cui si innamorava un maresciallo donnaiolo, interpretato da Vittorio De Sica nel film Pane amore e fantasia di Luigi Comencini, del 1953.

Proprio questo film, il primo di una trilogia, consacrò la sua storica rivalità con Sophia Loren: la Lollo accettò di reinterpretare la bersagliera anche nel sequel, ma rifiutò di tornare nel terzo capitolo della serie e venne rimpiazzata proprio da Loren.

LA CARRIERA

La sua lunga carriera cinematografica, iniziata da giovanissima subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, è cominciata nel 1947 prima con i fotoromanzi e nello stesso anno con Miss Italia, dove si classificò terza dopo Lucia Bosè e Gianna Maria Canale, anche loro future star del cinema di quegli anni.

Dopo i primi successi in Italia con film come Achtung! Banditi! di Carlo Lizzani, il successo arrivò anche in Francia con Fanfan la Tulipe che vinse l’Orso d'argento al Festival di Berlino. Poi, con appunto Pane amore e fantasia, che vince il Nastro d'argento e venne candidato al BAFTA, la Lollo entrò anche nell’immaginario collettivo. Il suo archetipo diventò quello della bella ma povera, buona ma determinata a trovare la felicità.

Negli anni successivi ottenne anche il successo internazionale, diventando protagonista di pellicole hollywoodiana con gli attori più famosi dell’epoca, da Humphrey Bogard in Il tesoro dell’Africa di John Huston a Burt Lancaster, con Trapezio di Carol Reed. 

Gli anni Cinquanta e Sessanta furono i più scintillanti della sua carriera e forse l’altro ruolo a cui la sua immagine è più legata è quello della sensuale zingara Esmeralda, ne Il gobbo di Notre Dame, accanto a Anthony Qyinn nel ruolo di Quasimodo. 

In Italia, negli anni Settanta, migliaia di bambini la conobbero come la fata Turchina nello sceneggiato televisivo di Luigi Comencini, Le avventure di Pinocchio. 

Parallelamente alla carriera di attrice, portò avanti anche quella meno nota di fotografa delle star: nel suo catalogo figurano i ritratti di Paul Newman, Salvador Dalí, Henry Kissinger, David Cassidy, Audrey Hepburn ed Ella Fitzgerald, e pubblicò anche un’intervista fotografica a Fidel Castro, nel 1973.

Nel 2018, ha ottenuto la sua stella sulla Hollywood Walk of Fame, diventando la quattordicesima personalità italiana a ricevere il riconoscimento. Nella sua lunga carriera, dopo l’addio alle scene negli anni Novanta, è stata premiata anche con un Golden Globe per il film Torna a settembre con Rock Hudson, sette David di Donatello e due Nastri d'argento.

I GUAI FAMILIARI

Indipendente per indole, Lollobrigida ebbe molti amori e flirt attribuiti dalla stampa. Tuttavia, come molte attrici dell’epoca, iniziò la sua carriera già sposata: nel 1949, infatti si unì al medico sloveno Milko Škofič, con cui ebbe il suo primo e unico figlio, Andrea Milko, nato nel 1957. I due divorziarono nel 1971 e lei non si risposò ufficialmente mai più.

Negli anni scorsi, tuttavia, la bersagliera è stata al centro di uno strano caso di presunto matrimonio per procura poi annullato dalla Sacra rota con l'imprenditore spagnolo Javier Rigau, con cui ha avuto una relazione per vent’anni nonostante la differenza d’età di 35 anni.

Secondo le rivelazioni di un quotidiano spagnolo, infatti, nel 2010 i due si sarebbero sposati in segreto a Barcellona ma poi il matrimonio sarebbe stato annullato. Solo tempo dopo l’attrice ha raccontato che lui l’aveva sposata con l’inganno, facendole firmare una procura matrimoniale a sua insaputa. La vicenda è anche arrivata a processo, ma Rigau è stato assolto da ogni accusa.

Anche altri dissidi familiari hanno riportato la Lollo, ormai novantenne, al centro delle cronache giudiziarie. La diva ha vissuto tutta la vita in una grande villa sull’Appia antica, a Roma, e in una depandance abitavano il figlio Milko e anche il nipote Dimitri, nato nel 1994.

Proprio il rapporto turbolento con il figlio e il nipote ha portato ad un caso giudiziario recente che l’ha riguardata, le cui udienze sono state riprese e trasmesse nella trasmissione Un giorno in pretura.

I due parenti, infatti, hanno chiesto al tribunale di intervenire per interdire l’attrice, che negli ultimi anni ha scelto come amministratore dei suoi beni il giovane Andrea Piazzolla, oggi trentacinquenne.

Il figlio Mirko ha denunciato Piazzolla per una presunta dilapidazione del patrimonio della diva e si è svolto un processo non ancora concluso per circonvenzione d’incapace. Secondo le accuse, dal 2013 al 2018 Piazzolla avrebbe speso circa 3 milioni di euro e sottratto beni, quadri e cimeli. 

Dal 2019, Lollobrigida era seguita da un giudice tutelare per la gestione dei suoi beni e lei ha sempre maltollerato questa ingerenza, perchè si riteneva lucida e in grado di spendere come riteneva il suo patrimonio.

LA POLITICA

Se il cognome la collocherebbe a destra – il ministro di Fratelli d’Italia, Francesco Lollobrigida è un suo lontano parente – la diva è stata attiva in politica con il centrosinistra.

Lollobrigida si candidò alle elezioni europee del 1999 con una lista di centrosinistra ma non venne eletta. In settembre 2022, invece, ha fatto scalpore la sua candidatura al collegio uninominale del Senato e in altre circoscrizioni proporzionali con la lista Italia Sovrana e Popolare, una sigla politica che non ha superato la soglia di sbarramento ma che conteneva anche il movimento "Azione Civile" di Antonio Ingroia, che è stato l’avvocato della diva nell’ultima fase della sua vita.

GIULIA MERLO. Mi occupo di giustizia e di politica. Vengo dal quotidiano il Dubbio, ho lavorato alla Stampa.it e al Fatto Quotidiano. Prima ho fatto l’avvocato.

Giancarlo Giannini: «Gina Lollobrigida era sempre lucida, sinceramente angosciata per la lite col figlio». Valerio Cappelli su Il Corriere della Sera il 17 Gennaio 2023.

Il grande attore racconta il suo rapporto con la Bersagliera: Mi propose di andare a Broadway solo dieci anni fa»

«Mi aveva proposto di lavorare con lei a Broadway — racconta Giancarlo Giannini a proposito della scomparsa di Gina Lollobrigida —, mica tanto tempo fa, parliamo di una decina d’anni. Mi parlò di una commedia musicale, non mi disse altro. Io risposi, pensiamoci, perché no?».

Avete mai lavorato insieme?

«No, ma a Hollywood saremo legati dalla stella nella Walk of Fame che mi daranno accanto alla sua a fine febbraio. Però abbiamo avuto una serata in cui eravamo gli ospiti d’onore».

In quale occasione?

«A Matera, per la fine delle riprese del film di 007 con Daniel Craig, invitarono gli attori italiani che negli anni hanno partecipato alla saga. Gina fu molto divertente, ironica. Era di una semplicità estrema, non si prendeva sul serio, sembrava capitata lì per caso. La sommersero di domande sui suoi amori americani, presunti o reali, da Cary Grant in giù. Era bravissima a eludere le domande, a dire e non dire, glissava con un sorriso malizioso, non dava risposte precise. A microfoni spenti mi confidò che le fanno sempre le stesse domande e si divertiva a rispondere la prima cosa che le passava per la testa».

Era lucida, al contrario di quanto sostengono i suoi nemici?

«Aveva solo problemi di mobilità. Non riusciva a camminare bene. Quando la cerimonia finì, mi sorprese».

Perché?

«Perché di sua spontanea volontà cominciò a parlarmi della contesa vicenda ereditaria col figlio, la storia del suo assistente che l’angosciava. Ma, ripeto, era molto lucida».

Quando divenne anziana, la «leggenda» della Lollo la si dava per scontata, non era più lassù sul piedistallo, come Sophia Loren.

«E’ vero, ma lei era anche una donna riservata, non si faceva tanta pubblicità, andava in tv nel salotto di Mara Venier e poco altro. E in passato aveva trascorso tanti anni in America per film magari non indimenticabili ma accanto a grandi divi, insomma per lungo tempo era mancata dall’Italia».

Si conciava con i capelli cotonati…

«Era il suo stile, un po’ barocco, adorava le paillettes, i grandi orecchini. Ma ho una foto in soggiorno di noi due insieme dove porta un abito azzurro molto elegante».

In quali altre occasioni vi siete visti?

«A casa di Zeffirelli sia sull’Appia antica (erano vicini di casa), che nella villa di Franco a Positano. Passavamo ore sulla terrazza affacciata sul golfo. Con Zeffirelli avevo fatto da giovane Romeo e Giulietta, era il periodo in cui stava lavorando a I Medici, progetto che non andò in porto. A Gina piaceva molto mangiare, si mescolava agli altri ospiti, c’erano sempre le gemelle Kessler, squadre di sceneggiatori americani, c’era un via vai spettacolare».

Ricorda un suo film?

«Certamente Pane amore e fantasia, la Bersagliera che faceva girare la testa a tutti. Era una bellezza mediterranea con un viso angelico. Ho lavorato praticamente con tutte le grandi attrici, nell’ambiente mi dicevano stai attento, sono capricciose, terribili, ti faranno diventare matto. Io mi sono sempre trovato bene con tutte, anche con Monica Vitti. Con la Lollo avevo una cosa in comune».

Cosa?

«La passione per la fotografia. Mi diceva, ho fotografato tutti, manchi solo tu. Quello scattò non me lo fece mai. Gina e Sophia Loren sono le leonesse del cinema italiano. Se c’è una cosa che ricorderò di lei è la sua risata contagiosa».

Gina Lollobrigida, la lettera e il mistero in ospedale: cosa sta succedendo. Francesco Fredella su Libero Quotidiano il 13 settembre 2022

C'è un retroscena raccapricciante sul ricovero di Gina Lollobrigida, che è stata operata ieri dopo un incidente domestico che le ha provocato la rottura del femore. Il retroscena che siamo in grado di raccontarvi riguarda una lettera inviata dall'avvocato di Milko Skofic (figlio della Lollo) al legale di Andrea Piazzolla, il factotum di Gina, accusato in tribunale di aver sperperato il denaro dell'attrice.

La notizia buona è che Gina Lollobrigida sta bene e che tra pochi giorni sarà dimessa dalla clinica romana dov'è ancora operata. Secondo indiscrezioni, però, Skofic avrebbe incaricato il suo legale di inviare una lettera all'avvocato di Piazzolla per chiedere dove si trovi Gina, chi l'ha operata e l'orario delle visite previsto dalla clinica. Si tratta di un'indiscrezione che giunge alle nostre orecchie subito dopo l'intervento a cui si è sottoposta l'attrice. Intanto, Piazzolla - denunciato proprio da Mirko Skofic, che lo accusa di aver dilapidato il patrimonio di Gina - avrebbe inviato un messaggio a Dimitri per informarlo sulle condizioni di sua nonna. Ma non ci sarebbero state risposte fino ad ora. Come mai? Messaggio letto e non visualizzato? Potrebbe trattarsi, però di una casualità.

In ogni caso sembra essere di fronte all'ennesimo scontro in famiglia che stavolta si non si consuma in tribunale, ma attraverso le Pec degli avvocati. Da una parte ci sono Gina e Andrea Piazzolla - ci dicono che non l'abbia mollata un attimo dopo l'incidente domestico - dall'altra Mirko e Dimitri Skofic. Padre e figlio preferirebbero, a quanto pare, percorrere la strada della formalità senza rivolgere parola a Piazzolla, che in tribunale dovrà rispondere delle accuse a suo carico nel corso del processo che si sta svolgendo nella Capitale.

Francesco Merlo per “la Repubblica” il 29 agosto 2022.

C'era già prefigurato, nella parola "maggiorata", l'eccesso della candidatura a Latina (e a Catania e in Veneto) della Bersagliera che, a 95 anni, da sola maggiora la lista di Antonio Ingroia, il suo avvocato, e la falce e martello di Marco Rizzo: «Avanti Lollo, alla riscossa, bandiera rossa». 

E, a riprova che il soprannome "maggiorata" non solo ha imprigionato il suo corpo nelle famose forme prosperose, ma le ha pure imposto il destino di una vita spericolata (altro che Steve McQueen), c'è pure la battaglia di Gina Lollobrigida e del suo tuttofare innamorato Andrea Piazzolla contro la Cassazione: «Ci arrendiamo solo se ci ammazzano». 

Esagerati? I giudici hanno nominato un tutore per aiutare il figlio Mirko a "proteggere" i soldi della mamma che, sempre più maggiorandosi con enormi parrucche e smodati gioielli, è spesso superospite in tv ma solo nell'ora del pensiero meridiano, quello maggiorato dal patetico.

La parola "maggiorata" fu inventata dallo sceneggiatore Continenza, un nome che esaltava o meglio maggiorava il bel gioco dei contrari. Vittorio De Sica interpretava, come oggi Ingroia, l'avvocato trombone dell'adultera Gina che aveva avvelenato la suocera: «Signor giudice, se la legge ritiene innocenti i minorati psichici, perché non si dovrebbe fare altrettanto con una maggiorata fisica»?. 

Fu assolta grazie all'opulenza delle forme che elevò l'adulterio da reato penale e peccato mortale a necessità naturale giustificando, con la geometrica potenza di tette, fianchi e sedere, anche il crimine: omicidio sì, ma solo della suocera. Vale oggi più di allora quell'arringa di De Sica perché la vecchia Lollobrigida è molto maggiorata: per età, per la roba, per Rizzo e Ingroia che sembrano Franco e Ciccio nel film "I due comunisti-sovranistinovax- noeuro-noNato".

Ed è maggiorata per il figlio e l'amante che se la contendono e per le opache perizie sulla sua lucidità. Nel 1982, all'Avana, intervistai Fidel Castro e gli chiesi se fosse vero che l'aumentada, l'incrementada, lo avesse conquistato sfrecciando in topless sul motoscafo. Eugenio Scalfari raccontò ( Grand Hotel Scalfari, Marsilio): «Non l'avevo mai incontrata. Perciò, vedendola, le ho detto: 'Mi dispiace non averla conosciuta quarant' anni fa, perché lei, signora Lollobrigida, era splendida'. Dandomi una lezione, mi rispose: 'Lei, Scalfari, è ancora splendido'». 

Eppure, Orio Vergani ( Diario - Baldini & Castoldi), facendo parte della giuria di Miss Italia nel 1947, la bocciò: «Non era una statua ma una statuina». Le fece pure un esame di cultura: «Mi disse che studiava pittura ma non aveva mai sentito nominare Amerigo Bartoli. Volevo troppo bene al vecchio Amerigo e non le diedi la spintarella che le avrebbe evitato il terzo posto". Direbbe, 75 anni dopo, don Abbondio: "Amerigo Bartoli, chi era costui?". 

Erika Chilelli per “il Messaggero” il 14 luglio 2022.

«Quando Gina Lollobrigida è stata ricoverata io non ho impedito al figlio Mirko Skofic di vederla, lei non li voleva vedere». Sono le parole che Andrea Piazzolla ha riferito ieri al giudice, durante l'udienza del processo che lo vede accusato di circonvenzione di incapace per aver sottratto beni per milioni di euro dal patrimonio dell'attrice 95enne tra il 2013 e il 2018. 

«Le dicevo che doveva vedere il figlio e lei non voleva - ha spiegato Piazzolla - mi rispondeva: se mi vuoi far sentire male continua a parlare». Sul rapporto della diva con il nipote, Dimitri, ha aggiunto: «Si sono allontanati per via di alcune foto che Dimitri aveva sui social. Lo ritraevano mentre aveva rapporti sessuali con delle ragazze». 

Di questa circostanza sarebbe stato proprio Piazzolla ad avvertire la Lollo: «Non volevo che si rovinasse la sua reputazione». A presentare querela contro il tuttofare 34enne della diva è stato proprio il figlio Mirko, difeso dagli avvocati Michele e Alessandro Gentiloni Silveri. In una deposizione resa a marzo, ha riferito di aver notato un cambiamento nella madre quando nella sua vita è entrato Andrea: «È una persona che si è approfittata delle sue debolezze, prima di incontrarlo aveva una personalità forte». 

I SEI MILIONI SPARITI Da tuttofare con delega alla tintoria, Piazzolla era diventato amministratore della Vissi d'Arte, la società che gestiva il patrimonio milionario dell'attrice. Ma alla domanda sul valore di tale patrimonio, l'uomo ha detto di non averne contezza. 

Fatto sta che alcuni quadri della diva stavano per essere messi all'asta, le sue auto di lusso (ultima una Jaguar da 130mila euro) sono state vendute e i conti correnti svuotati. Secondo l'accusa - sostenuta dal pm Eleonora Fini - è stato l'uomo, definito dalla Lollo il suo angelo custode, l'artefice di queste operazioni. 

Eppure, nel momento in cui il giudice tutelare ha deciso di nominare un amministratore di sostegno per la 95enne - decisione che Piazzolla ritiene ingiusta - nei conti della Lollobrigida c'erano solamente 117 euro; nonostante la vendita di gioielli della diva per 3,8 milioni di euro e tre appartamenti in via San Sebastianello, vicino a piazza di Spagna, per 2 milioni e 100mila euro.

Sulla misteriosa sparizione del denaro, l'imputato giura di non sapere nulla: «Non avevo accesso ai conti di Montecarlo e quando parlava con i banchieri non ero presente - ha riferito in aula - Mi ha fatto dei bonifici, ma non so quantificarne il valore. Non so cosa ne ha fatto Gina dei soldi, probabilmente sono serviti per la gestione della villa e per il suo tenore di vita». 

La villa, a cui si riferisce è l'abitazione dell'attrice sull'Appia Antica: «Il valore commerciale si aggira intorno ai 7 milioni, ma essendo la villa di Gina Lollobrigida c'è chi ha offerto fino a 20 milioni». Tentativi di vendita che Piazzolla ha ricondotto al desiderio della Bersagliera di ricongiungersi alla famiglia: «Mirko doveva pagare 18mila euro al mese l'ex moglie e Gina lo voleva aiutare. 

Le macchine - una Ferrari venduta nel 2014 e una Porche nel 2015 - mi ha chiesto di venderle per non inasprire i rapporti con lui». Solo la Porche ha fruttato 90mila euro; mentre i soldi della Ferrari sono stati versati sul conto dei genitori dell'imputato.

Un tesoretto, quello guadagnato dalla conoscenza con la Lollobrigida, che Piazzolla non riconduce a un'attività lavorativa. «Non ho mai percepito uno stipendio», ha precisato al giudice. Però risultano numerosi bonifici effettuati dai conti dell'attrice in suo favore. Per non parlare dei 117mila euro confluiti nella Prosound srl, società aperta dal 34enne. Ma lui si è difeso così: «Era una donazione».

Federica Bandirali per corriere.it il 4 luglio 2022.  

Icona di bellezza ma anche grande attrice italiana: Gina Lollobrigida compie il 4 luglio 95 anni. Soprannominata “la Lollo”, è stata una delle più importanti presenze cinematografiche europee ma anche sex symbol negli anni 1950 e 1960 a livello internazionale. Nella sua agenda non è fissato al momento di festa vero e proprio ma c’è un appuntamento speciale: è pronta infatti a tornare a Subiaco, sua città natale, per ricevere un premio cinematografico speciale. 

La questione patrimonio

L’attrice è stata ritenuta non in grado di amministrare il suo patrimonio. Di lei si occupa un amministratore di sostegno, lo stesso che ha allertato la Procura quando Andrea Piazzolla (il factotum della star,) e un complice, secondo gli inquirenti, avrebbero cercato di vendere tramite una casa d’asta 350 beni della Lollobrigida. Piazzolla è a processo con l’accusa di circonvenzione d’incapace. 

La testimonianza figlio Milko Skofic

Il figlio della Lollo Andrea Milko Skofic ha testimoniato proprio nel processo a carico del 35enne Andrea Piazzolla. «Ho visto un forte cambiamento nel comportamento di mia madre, una persona si è approfittata della sua debolezza — ha detto Skofic al giudice— Ho deciso di denunciare perché mia madre, dopo la conoscenza di Piazzolla, è cambiata, è diventata fuori controllo. Mia madre era molto attenta a come spendeva i soldi, una persona semplice, non faceva feste”. 

La Lollo in difesa di Piazzolla

«Per me è come un figlio, mi sta accanto come un figlio, mi ha aiutato ad andare avanti. La sua figlia Gina si chiama come me, è una tigre», ha detto affettuosa Gina Lollobrigida a “Domenica In” riferendosi a Piazzolla «Andrea non ha mai sbagliato. È una persona brava ed il fatto che mi ha aiutato, sta avendo dei guai terribili. La vita è mia ed io decido cosa farne. Fare dei regali ad Andrea e la sua famiglia è una cosa che riguarda me, nessun'altro.», ha aggiunto. Per poi scoppiare a piangere in diretta.

“Morire in pace”

“Alla mia età dovrei avere un po’ di pace, ma non ce l’ho ancora” ha detto la Lollo a Venier “Più che stanca, mi sento umiliata. Dovrebbero lasciarmi morire in pace. Non ho fatto niente di male, capito?“.

Val.Err. per il Messaggero il 2 marzo 2022.

«Non riuscivo a parlare più con mia mamma, lei prendeva tempo, parlava sottovoce come se non volesse farsi sentire da qualcuno. Il cancelletto che dalla dependance, dove vivevo con la mia ex moglie e mio figlio, portava alla sua villa era chiuso e, quando chiesi spiegazioni al giardiniere, mi disse che Piazzolla aveva disposto che fosse saldata la serratura». 

Ha parlato a lungo ieri in aula Milko Skovic, figlio di Gina Lollobrigida e parte civile nel processo a carico dell'ex factotum dell'attrice, Andrea Piazzolla, accusato di avere approfittato della debolezza dell'anziana donna, oggi novantaquattrenne, e tentato, tra il 2013 e il 2018, di sottrarle i beni, vendendone 350 all'asta. Risponde di circonvenzione di incapace. 

LA TESTIMONIANZA Skovic, rappresentato dagli avvocati Michele e Alessandro Gentilo Silveri, ha ricostruito le dolorose fasi che lo hanno portato in Tribunale: «Ho visto un forte cambiamento nel comportamento di mia madre e ho deciso di chiedere un tutore perché, dopo la conoscenza di Piazzolla, era cambiata, era fuori controllo. Quando me ne sono reso conto - continua - ho iniziato la procedura. Volevo che ci fosse una persona super partes a controllare la gestione dei suoi soldi. Lei si arrabbiò e mi disse che Piazzolla era un santo, che era intelligentissimo. I rapporti si sono interrotti, io ero diventato un suo nemico perché volevo rovinarla».

Fino al 2009, invece, tra la Lollobrigida e Skovic non c'erano attriti: «Lei era felice di stare con mio figlio. Tutto è cambiato quando è arrivato Piazzolla, intorno al 2009». Nel corso della lunga testimonianza, l'uomo ha precisato che inizialmente l'imputato svolgeva mansioni di tuttofare e che si era reso conto del cambiamento della madre nel 2011, dopo un viaggio negli Usa.

«A un certo punto mi arrivò una fattura ,per l'acquisto di un'auto da 120 mila euro, intestata a una società di mia madre di cui Piazzolla era diventato amministratore. «Le ho detto: Ma che fai? - ha ricordato l'uomo - lei rispose che Andrea l'avrebbe rivenduta. Capii che era fuori controllo,. A quel punto ho deciso di avviare la pratica al Tribunale civile per tutelarla» 

LE BUGIE L'uomo davanti al giudice ha chiarito di avere chiesto all'attrice perché i suoi rapporti con il nipote, che aveva sempre amato, fossero cambiati: Mi disse che Piazzolla le aveva riferito che mio figlio faceva filmati e foto porno. Tempo dopo, grazie a un parente, ho preso visione delle foto: erano immagini normali di mio figlio vestito che fumava».

Da Ansa il 21 novembre 2021. "Ho diritto di vivere ma anche di morire in pace" così Gina Lollobrigida, commossa, affranta, in lacrime a Domenica in su Rai1 intervistata da Mara Venier. "Forza, sei una bersagliera amore" l'ha spronata Venier. L'attrice, 94 anni, è da anni in lotta con la famiglia da quando nella sua vita è entrato Andrea Piazzolla. In collegamento anche il nuovo legale della Lollobrigida, Antonio Ingroia. Ieri i legali di Milco e Dimitri Skofic, erano intervenuti a Italia Sì su Rai1 per spiegare le loro ragioni, mosse "da immutato affetto e viva preoccupazione per il vergognoso annichilimento del suo patrimonio a beneficio del sig. Piazzolla". "Per me è come un figlio, mi sta accanto come un figlio, mi ha aiutato ad andare avanti. La sua figlia Gina si chiama come me, è una tigre", ha detto affettuosa. "Andrea non ha mai sbagliato. È una persona brava ed il fatto che mi ha aiutato, sta avendo dei guai terribili. La vita è mia ed io decido cosa farne. Fare dei regali ad Andrea e la sua famiglia è una cosa che riguarda me, nessun'altro.", ha aggiunto. L'avvocato Ingroia ha spiegato in tv il caso che si trascina da tempo per commentare poi "da bersagliera in questi anni è stata bersagliata". Piazzolla, che gestiva i beni della Lollobrigida, è a processo per circonvenzione di incapace, mentre ad ottobre la Cassazione ha convalidato il decreto di apertura dell'amministrazione di sostegno per l'attrice, su azione legale promossa dal figlio Milco. E' lui che ha chiesto all'autorità giudiziaria di Roma di mettere i beni di sua madre in mani sicure. Anzi Skofic aveva chiesto la 'tutela' anche per la gestione ordinaria della vita di sua madre. Ma i giudici hanno ritenuto che 'Lollo' è in grado di prendere da sola le sue decisioni per la vita quotidiana, ma non quelle che riguardano la gestione di soldi, società , immobili.

"L''incontro che mi ha cambiato la vita e quello che chiedo oggi allo Stato". Edoardo Sirignano il 28 Novembre 2021 su Il Giornale. A 94 anni, compiuti a luglio, in questa intervista a ilGIornale.it Gina Lollobrigida parla delle sue passioni, dei suoi ricordi, dei vaccini e del giudizio sul governo Draghi. Sulla sua triste vicenda personale (la battaglia legale con il figlio) chiede solo di essere lasciata vivere e morire in pace. Gina Lollobrigida, star internazionale del cinema, pur avendo superato la soglia dei 90 anni conferma un'incondizionata passione per la lettura, gli animali e l'arte, il suo più grande amore. In questa conversazione con ilGiornale.it parla del regista con cui ha instaurato l’amicizia più profonda, della sua collega preferita, delle proprie abitudini e confessa come l’incontro più significativo che abbia mai fatto sia stato quello con Madre Teresa, con cui era solita confrontarsi ogni anno. Si sofferma poi sull'attualità, dai vaccini al giudizio sul capo del governo.

Quale la giornata tipo di una grande star a 94 anni?

"La mia giornata solitamente inizia con una bella e abbondante colazione, controllo la posta e dopo mi metto a lavorare oppure mi guardo un documentario sugli animali. Sono stata sempre interessata a conoscere il mondo e le sue creature. Dopo il pranzo se ho degli impegni esco altrimenti trovo sempre qualcosa da fare tra il lavoro e la lettura, che resta una delle mie più grandi passioni. Non so mai stare senza far nulla".

Ha scelto il suo avvocato dopo aver visto Netflix. Cosa ne pensa delle serie attuali e quale la sua preferita?

"Ho voluto conoscere il dottor Ingroia dopo averlo visto nella serie Netflix “Vendetta”. Più esattamente mi ha colpito il momento in cui dice di aver smesso di fare il magistrato per dedicarsi alla difesa di persone che hanno subito un’ingiustizia. Lì ho capito che poteva essere quello giusto e che avrebbe potuto fare al mio caso. Al momento non ho una serie tv preferita, cerco semplicemente di informarmi su quello che accade nel mondo".

Preferisce vedere le serie in tv o sul tablet?

"Decisamente preferisco guardare la televisione in poltrona o sul divano. È tutta un’altra cosa, le assicuro".

Alla sua età molti hanno paura del Coronavirus. Lei come ha affrontato la pandemia?

"Con grande dispiacere per chi purtroppo ne è stato colpito in modo diretto. Per tale ragione ho deciso di dare un piccolo contributo alla campagna di sensibilizzazione sui vaccini con alcuni video e partecipando ad alcuni programmi televisivi come Domenica In. Sono vaccinata e sono stata felice di farlo quando è stato il mio turno. Un dovere civico a cui nessuno ritengo possa sottrarsi".

Cosa ne pensa del governo Draghi? Il capo del Governo le ricorda qualcuno del passato?

"Pur non essendo interessata alla politica lo ritengo un uomo di spessore di cui l’Italia aveva bisogno in questo particolare momento".

Tra gli attori e soprattutto le attrici italiane c’è qualcuno che ammira in particolare e perché?

"Sicuramente Claudia Cardinale e sono rimasta molto male perché non riesco più ad avere sue notizie da tempo".

Qual è il momento della sua carriera che non dimentica e che le piacerebbe si ripetesse tutti i giorni?

"Quando ho avuto la fortuna di conoscere e seguire Madre Teresa, che avevo modo di vedere ogni anno. È un'esperienza che non uscirà mai dalla mia vita e dalla mia testa. Stiamo parlando di sensazioni ed emozioni indescrivibili. Qualcosa del genere ritengo che difficilmente si possa ripetere".

Con quale regista, tra i vari De Sica, Luttuada, Monicelli e Soldati, si è instaurato quel rapporto che potrebbe essere definito speciale?

"L’amicizia con Vittorio De Sica è stata meravigliosa. Pur avendo incontrato tantissime persone, posso dire che quella è stata una delle più vere, una di quelle amicizie che si possono considerare molto rare".

Verso la fine della sua carriera si è dedicata anche alla carriera da fotoreporter, intervistando Fidel Castro. Cosa l’ha colpita di più durante quell’intervista?

"Il modo in cui si difendeva. Il suo carattere nel farlo e la sua determinazione nel portare avanti la propria linea".

Nella vita di ogni persona c’è un amore. Qual è stato il suo più grande?

"Senza ombra di dubbio l’arte. Lo è sempre stato e lo sarà per sempre. Tutto quello che è arte mi affascina".

Quale la parte, invece, più difficile e travagliata della sua esistenza?

"La lotta che sto facendo negli ultimi anni con la giustizia italiana (dovuti al dissidio con il figlio da quando nella sua vita è entrato Andrea Piazzolla, assistente e tuttofare, che lei considera come un figlio, ndr). È qualcosa che non auguro a nessuno. Ho diritto, come ho più volte detto, a vivere e morire in pace. Non ho fatto davvero nulla di sbagliato per meritarmi tutto ciò".

Quanto pensa sia importante, oggi, una riforma della giustizia?

"Se l’Italia vuole progredire, essere al passo con i tempi, è indispensabile una riforma della giustizia, di quelle vere e che può portare un cambiamento reale di cui si avverte il bisogno. Sotto alcuni aspetti, come in questo caso, restiamo purtroppo uno dei Paesi più arretrati, mentre il mondo va a velocità doppia". Edoardo Sirignano

Francesca De Martino per "Il Messaggero" il 15 dicembre 2021. La sua villa sull'Appia antica era stata spogliata di opere d'arte, cimeli e arredi dall'ex manager e factotum di Gina Lollobrigida, Andrea Piazzolla che, con la complicità di un ristoratore romano, Antonio Salvi, aveva messo all'asta quei beni tentando di accaparrarsi un bottino da centinaia di migliaia di euro. È l'accusa che ha portato i due a processo, nel maggio 2020, con l'accusa di circonvenzione d'incapace aggravata. Il nuovo legale della diva, l'avvocato ed ex magistrato Antonio Ingroia, aveva anticipato in vari salotti televisivi la decisione di chiedere al Tribunale una seconda costituzione di parte civile nel processo, ma il giudice ieri l'ha respinta. La Lollo è già costituita nel procedimento con un legale nominato dall'amministratore di sostegno che le è stato assegnato in quanto «particolarmente vulnerabile e suggestionabile» - si legge nel capo di imputazione - e non in grado di amministrare autonomamente i suoi averi. Una decisione che la donna aveva cercato di impugnare in Cassazione e che la Suprema Corte aveva rigettato confermando la scelta della Corte di Appello di Roma, che ha ritenuto l'attrice «bisognosa di assistenza nel compimento degli atti di straordinaria amministrazione inerenti la gestione del suo patrimonio e di società». Piazzolla è sotto processo - si tratta di un fascicolo parallelo - sempre per circonvenzione d'incapace anche per aver sottratto altri beni all'attrice 94enne tra il 2013 e il 2018. Le inchieste sono partite dalle denunce dei familiari dell'artista, assistiti dall'avvocato Alessandro Gentiloni Silveri.

L'ACCUSA Nel procedimento di ieri, i fatti contestati ai due imputati risalgono a maggio 2020. Secondo la Procura, Piazzolla avrebbe portato via dalla casa della Lollobrigida vari dipinti prestigiosi di proprietà dell'artista, come «Venere e Amore» - un dipinto di scuola francese della fine del Settecento - per un valore totale di 300mila euro, mettendoli all'asta. Si sarebbe fatto aiutare da Salvi, un ristoratore romano avrebbe fatto da intermediario con la casa d'aste. Per giustificare il movimento di quadri e arredi, Piazzolla avrebbe detto alla Bersagliera che i beni sarebbero solo stati spostati in un'altra abitazione in vista di lavori di ristrutturazione della villa e, soprattutto, per evitare che venissero presi di mira «dall'autorità giudiziaria», si legge nel capo di imputazione. L'affare, però, poi non era andato a buon fine grazie all'intervento della Guardia di Finanza, che da tempo seguiva i movimenti di Piazzolla e aveva intercettato le sue mosse. Secondo quanto scrivevano gli investigatori negli atti Piazzolla, in qualità di «consulente, convivente e uomo di fiducia» della diva, «unico punto di riferimento con il mondo esterno», avrebbe agito con «abilità e pervicacia fuori dal comune». Per la pm Laura Condemi, i due imputati avrebbero approfittato della «vulnerabilità» dell'attrice, che guadagna, tra pensione e diritti d'autore, oltre 100mila euro l'anno.

LA PERIZIA La donna è affetta da uno stato psichico che la rende suggestionabile, come stabilito nell'estate 2017 da una perizia eseguita da uno psichiatra forense, che ha stabilito che la Lollobrigida è raggirabile: «Pur senza sconfinare in una condizione di infermità mentale, presenta una personalità con caratteristiche disarmoniche in cui sono emersi tratti di tipo narcisistico, ossessivo, compulsivo, istrionico e paranoideo». Caratteristiche che avrebbero determinato «un indebolimento della corretta percezione della realtà e della capacità di rapportarsi a essa, tale da configurare una condizione di deficienza psichica». Condizione di cui Piazzolla avrebbe approfittato. 

Da "Oggi" l'1 dicembre 2021. «Difendo Gina Lollobrigida perché è un simbolo. La sua lotta affinché non le venga tolta la dignità è importante anche per le persone che non possono difendersi… Mi sono anche lasciato guidare dal cuore. Mia madre ha più o meno la stessa età e da ragazza pare che le assomigliasse molto. Mi ricorda mia madre, forse per questo sento un forte senso di protezione». Così l’avvocato Antonio Ingroia in un’intervista a OGGI, in edicola da domani. Che sulle perizie mediche e le accuse di circonvenzione d’incapace a carico del factotum della Lollo, Andrea Piazzolla, dice: «Le perizie sulla signora non hanno avuto un esito univoco: alcune parlano di vulnerabilità, altre no, ma nessuna ha rilevato un’incapacità di intendere e di volere. E poi c’è una stranezza: è stato riconosciuto che la signora è lucida e consapevole in generale, non lo è più solo se si tratta di amministrare il suo patrimonio. Strano, no? Per quanto riguarda i processi a carico di Piazzolla vedremo a che conclusioni si arriva perché il punto è sempre lo stesso: la signora ha fatto delle scelte o è stata circuita?».

Pane, amore e stato di polizia. Ingroia in difesa della Lollo e altre fantastiche perversioni del circo cinematografico-giudiziario. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 15 Novembre 2021. All’eterna docufiction politico-manettara in cui siamo costantemente immersi da quasi trent’anni si aggiunge ora un fantastico spin-off: l’ex magistrato antimafia divenuto avvocato, scoperto (e assunto) dalla Bersagliera grazie a Netflix. In questi giorni, sull’onda dell’inchiesta sulla fondazione Open, e della consueta congerie di intercettazioni, e-mail, sms e whatsapp quasi sempre penalmente irrilevanti di cui puntualmente si riempiono giornali e televisioni, si torna a parlare molto di politica e giustizia. Se ne torna a parlare in questi giorni, come ogni giorno da circa ventotto anni, a dire il vero, perlomeno quando non si parla di legge elettorale o di riforme istituzionali. In pratica, siamo costantemente immersi in una sorta di perenne 1993 – da un’idea di Marco Travaglio – dal quale sembra proprio che non riusciamo a uscire, prigionieri di un’interminabile docufiction politico-giudiziaria in trentamila puntate, tutte uguali. Mi perdonerete quindi se stavolta proprio non mi va di tornare sulla questione, per spiegare ancora una volta, oggi a proposito di Matteo Renzi e del caso Open come ieri a proposito di Massimo D’Alema, Piero Fassino e del caso Unipol (ma ogni lettore aggiunga pure i suoi esempi preferiti), che in Italia da troppi anni la lotta per il potere ha assunto la forma della caccia alla volpe: uno sport che si gioca solo in cento contro uno, sui giornali e in tv, senza nemmeno quel minimo di regole che persino la caccia alla volpe prevede (tanto meno da quando a giornali e tv si sono aggiunti anche i social network). Stanco come sono di ascoltare e di ripetere io per primo sempre le stesse cose, oggi vorrei dunque occuparmi di cinema. Perché, con mia grande sorpresa, molte delle cose che penso a proposito della docufiction di cui sopra le ha dette, certo senza rendersene conto (cioè senza rendersi conto del profondo significato che le sue parole assumevano, al di là della notizia di cronaca che ne costituiva lo spunto), pensate un po’, Antonio Ingroia. Per la precisione: Antonio Ingroia, intervistato ieri dal Corriere della Sera nelle inedite vesti di avvocato di Gina Lollobrigida. Proprio lui. Il già celebre pubblico ministero impegnato tra l’altro nel processo sulla cosiddetta Trattativa Stato-Mafia (a proposito di docufiction), processo da lui lasciato nel 2012 per guidare la lotta al narcotraffico in Guatemala per conto dell’Onu (a proposito di fiction), salvo lasciare anche quell’incarico appena due mesi dopo, per candidarsi alle elezioni con un partito nuovo di zecca, fondato per l’occasione: Rivoluzione civile. Come ricorderete, è finita anche peggio del processo Trattativa: 2,25 per cento. Ma lui, non lasciandosi abbattere dal magro risultato della formazione con cui si era di fatto candidato a presidente del Consiglio, ci riprova alle politiche del 2018 con la Lista del Popolo, totalizzando uno squillante 0,02 per cento (nessun refuso: zero virgola zero due), e due anni dopo, abbassando leggermente il tiro, con la candidatura a sindaco di Campobello di Mazara, ovviamente senza essere eletto neanche lì. A dire la verità, la storia della sua controversa uscita dalla magistratura e delle sue successive occupazioni, a cominciare dagli incarichi assai ben remunerati ottenuti dalla Regione Sicilia (e relative vicende giudiziarie), sarebbe molto più lunga, ma credo di aver rinfrescato la memoria del lettore con i dati essenziali della sua biografia. Del resto, stiamo parlando di una delle figure più note e più intervistate dalla stampa e dalla televisione italiana, che in questi anni non ha fatto mancare il suo autorevole parere su tutte le più delicate, controverse e scottanti questioni politiche e giudiziarie: persino negli scarsi due mesi di lavoro per la Comisión Internacional contra la Impunidad riuscì a ottenere una surreale rubrica sul Fatto quotidiano dal titolo «Diario dal Guatemala». Ebbene, come mai «la regina del cinema italiano», domanda il giornalista del Corriere della Sera che lo intervista, Felice Cavallaro, ha scelto proprio lui, Ingroia, come avvocato? «Nasce tutto da Netflix», risponde l’ex magistrato, riferendosi alla docufiction sul caso di Pino Maniaci in cui Ingroia ha effettivamente recitato nel ruolo di se stesso (piccola avvertenza per il lettore distratto: qui il termine “docufiction”, come il fatto che Ingroia recitasse nel ruolo di se stesso, e come tutto il resto, non sono metafore, immagini, allegorie di un bel niente, ma puri dati di fatto, da intendersi in senso letterale). Gina Lollobrigida si sente vittima di un’ingiustizia e accusa il figlio – da ultimo anche in un video in cui si rivolge agli italiani guardando direttamente in camera, seduta accanto al suo nuovo avvocato – di volerle togliere la sua libertà e anche i suoi soldi. Sta di fatto che finora i giudici hanno dato ragione al figlio. E così l’attrice, che ha apprezzato la serie tv e soprattutto, dice Ingroia, la sua grinta («Gli avvocati hanno bisogno di mostrare pure un necessario aspetto scenico, dall’eloquio alla presenza»), si è rivolta all’ex pm, nonché collega attore, per passare al contrattacco. Con una scelta che forse non depone a favore della sua lucidità. «Cinema o giustizia?», domanda a questo punto l’intervistatore. «L’uno e l’altro. Si integrano le mie passioni di sempre», risponde Ingroia. E se non vi sembra una confessione questa, davvero non saprei cosa aggiungere.

Filippo Ceccarelli per “la Repubblica” il 14 novembre 2021. «Mi chiamo Gina Lollobrigida e sono una donna che ha rappresentato l'Italia nel mondo. Oggi, a più di 90 anni, sono piena di energie e di voglia di fare ancora. Purtroppo sono anni di grande amarezza perché subisco attacchi alla mia libertà e al mio patrimonio...». Alt, d'accordo, la storia è intricata, per quanto abbastanza nota: ruota sull'età dell'attrice e soprattutto su un bel mucchio di soldi e diversi soggetti che ci girano attorno generando una malsana, ma irresistibile curiosità. Però chi è quel signore soddisfatto seduto sulla poltrona al suo fianco? Sorpresa delle sorprese: sì, è proprio Antonio Ingroia, già campione fra i paladini dell'antimafia e dopo mille avventure candidato alla presidenza del Consiglio quale fondatore e leader del partito arancione "Rivoluzione civile". L'attrice vegliarda l'ha scelto come avvocato "guerriero" nelle sue peripezie famigliari e giudiziarie. Lui l'ascolta guardando in camera, annuisce, sorride, quando lei affronta la questione del figlio, «sangue del mio sangue», Ingroia si gratta la pancia e alla fine protettivo le prende le mani. Quindi mette in scena la sua vibrante concione nella quale, invocate giustizia verità, libertà, si designa «avvocato d'attacco» e come tale s' impegnerà a restituire Lollobrigida «all'arte», eccetera. Il video dura sei minuti, a loro modo formidabili. Lo si guarda come un documento che esalta le meraviglie del possibile, ma anche con un certo senso di colpa perché, pur affrontando vicende abbastanza tristi, come succede in Italia fa anche un po' ridere. C'è un attimo in cui Ingroia sembra guardare nel vuoto; forse si è solo distratto, o forse sta pensando anche lui all'imprevedibilità del destino, dalle aule popolate dai più sanguinari mafiosi e dalla Costituzione minacciata dal più torbido e complice berlusconismo, a una prossima, magari, incantevole puntata di "Un giorno in Pretura" a base di cospicue eredità e pseudo truffe sentimentali. Per cui, dopo aver impiegato un'oretta a ricostruire una biografia densa di accuse e applausi, quindi di arrivismo, aggiustamenti e ghirigori, alla fine ci si sorprende a chiedersi quale modello letterario incarni Ingroia: Bel Amì o Don Chisciotte? Ma non funziona così, essendo la vita più ricca dei libri, mentre l'umile cronaca certamente aiuta a inquadrare il personaggio nella sua originaria passione, ma pure nelle sue debolezze. E va bene: chi non ne ha? Ma Ingroia ha sempre puntato sul macroscopico, parente stretto dell'eccesso, dal Guatemala alla Val d'Aosta, dai trionfi come pm ai ruzzoloni come imputato. Sempre troppo eroe, troppo narciso, troppo litigioso, troppi talk-show, troppa fiducia in se stesso, nella sua intelligenza e nella sua astuzia, che invece si ribaltano nell'ingenuità con una punta di grottesco. Una concezione del suo essere magistrato troppo elastica, a dir poco. Troppi politici bazzicati, Di Pietro, Fini, Grillo, i rifondaroli, i comunisti italiani, alla fine cattolici tradizionalisti, generali e filorussi: per un esito troppo povero. Un soggettone, in definitiva, tre quattro esistenze compresse e un po' a vuoto, "Azione civica", "La mossa del cavallo", la confessione radiofonica, la partita del cuore, il red carpet a Venezia, la serie Netflix (sul caso Maniaci: bravissimo), penultima tappa la 'ndrangheta dietro il Covid. Adesso Gina Lollobrigida che l'ha scelto. Capacità d'intendere e di volare (oh-oh).

Paolo Lorenzi per il “Corriere della Sera” il 12 novembre 2021. Più delle vittorie alla fine ha contato l'affetto del pubblico. Nella conferenza stampa speciale a lui riservata a Valencia, per l'ultima gara della stagione e della sua carriera, Valentino Rossi si è definito un'icona. Per aver portato anche la gente comune, davanti alla tv, a seguire le sue imprese. «La cosa migliore della mia lunga carriera è avere appassionato tutti, i bambini come le nonne di 80 anni. Sono diventato una specie di icona, contribuendo ad accrescere la popolarità del motociclismo in tutto il mondo. E questo va persino oltre i risultati». Valentino fa i conti di una vita passata in moto. Con un filo di tristezza, ma senza rimpianti. A parte quel decimo titolo, sfumato nel 2015. L'ultima occasione. «Ho combattuto molto per vincerlo, sarebbe stata la chiusura del cerchio, ma non posso lamentarmi. Nove titoli sono un gran bel numero. L'ultimo nel 2009, una vita fa. Ho vinto 89 gare in MotoGp e collezionato 199 podi, certo arrivare a 200... Il nove sembra un po' una maledizione. Ma va bene così, quando puoi lottare per la vittoria è sempre un gran piacere». Tranquillo e sorridente, davanti ai fotografi, Rossi abbraccia fisicamente le moto con cui ha vinto nella MotoGp. Gliele hanno portate per fargli una sorpresa. Una parata di stelle che rappresenta la parte più consistente dei suoi 26 anni di gare. «La Yamaha del 2004 (con cui ha vinto il primo titolo targato Iwata, ndr) l'ho messa in camera da letto. La guardo ogni mattina». Dopo quest' ultima gara, forse con uno sguardo più malinconico. «Non so quali emozioni proverò domenica sera. Lunedì mattina comincerà un'altra vita. Ma non voglio pensarci. Voglio godermi questo momento, tutto cambierà, diventerò padre, correrò con le auto, ma non sarò più un pilota di moto». Il momento peggiore? «Quando ho deciso di smettere. Accettare la realtà, la scorsa estate, è stata dura. Avrei continuato solo se fossi stato ancora competitivo». Altre volte gli hanno consigliato di smettere, ma guardandosi indietro non cambierebbe nulla. «Dopo il 2012 (alla fine del biennio Ducati, ndr ) ci avevo anche pensato, non mi sentivo più veloce come prima, ma sono andato avanti altri dieci anni». Il segreto? «Un fisico in ordine e il piacere di guidare. L'ho scoperto quando ero bambino e ho amato molto gareggiare, preparare la moto. Per poi raccogliere i frutti la domenica. Altre cose della vita non ti danno altrettanto piacere». Lo hanno abbracciato tutti i piloti. I rivali storici gli hanno scritto. «Sono stati importanti per farmi dare il massimo e capire i miei limiti. Ne ho avuti di grandi come Biaggi, Stoner, Lorenzo, Marquez e mi sono divertito molto. È qualcosa che si ricorda fino alla fine». Domenica cade il 14/11/21. Sommando si ottiene il 46, il suo numero fortunato. Un segno del destino? «Fate voi, nella mia carriera i numeri hanno avuto un certo ruolo, positivo». 

 Da tgcom24.mediaset.it l'1 ottobre 2021. La Cassazione ha confermato il decreto di apertura dell'amministrazione di sostegno per Gina Lollobrigida, l'attrice 94enne nei confronti della quale il figlio Andrea Milko Skofic, con il quale i rapporti sono sempre stati difficili, aveva chiesto all'autorità giudiziaria di Roma di nominare un "tutore per proteggere il patrimonio" dell'attrice. I periti medici hanno evidenziato "un indebolimento della corretta percezione della realtà". Pur escludendo una situazione di "infermità mentale derivante da patologie psichiatriche", i periti hanno anche riscontrato nella "Bersagliera" uno stato di "vulnerabilità che rende possibile l'altrui opera di suggestione". Dalla sua villa romana sull'Appia Antica, l'attrice si dice "amareggiata ma non rassegnata" commentando la decisione della Cassazione di confermarle l'amministratore di sostegno per la gestione dei suoi beni e delle sue questioni patrimoniali. Lo comunica l'avvocato Filippo Maria Meschini, suo legale di fiducia. Per l'attrice, che è stata anche recentemente testimonial per il vaccino contro il Covid e che iniziò la sua carriera nel 1947  divenendo poi una diva conosciuta in tutto il mondo, il verdetto "è lesivo della sua dignità". 

Da Oggi il 25 settembre 2021. «Andrea è una persona che adoro. È intelligente, è la persona che mi sta più vicino, andiamo d’accordo che è una meraviglia. E se a qualcuno questo dà fastidio, me ne infischio». Gina Lollobrigida, 94 anni, liquida così su OGGI , in edicola da domani, il nuovo rinvio a giudizio del suo factotum per circonvenzione di incapace. «Queste accuse sono ridicole. Spero solo che mi lascino vivere in pace le ultime giornate che il Padreterno vorrà regalarmi». I processi a carico dell’assistente della diva sono due. Nel primo è stato rinviato a giudizio per circonvenzione di incapace: avrebbe depredato l’attrice approfittando della sua fiducia. A intentargli causa sono stati il figlio di Gina, Milko Skofic, e il nipote Dimitri assieme all’imprenditore spagnolo Javier Rigau il cui matrimonio per procura con l’attrice del 2010 è stato dichiarato nullo. Nel secondo processo invece Piazzolla è accusato di aver tentato di vendere all’asta opere d’arte, cimeli e arredi dell’attrice per un valore di circa 300 mila euro. «Gina per me è tutto, è la mia priorità, una missione di vita. Ogni cosa che Gina decide di fare viene strumentalizzata contro di lei e contro di me», si difende Piazzolla. «Secondo l’avvocato Michele Gentiloni Silveri, che rappresenta il figlio, il nipote e il marito mancato dell’attrice, invece: «Piazzolla ha carpito il consenso di Gina, dicendole che le opere sarebbero state sequestrate dall’autorità giudiziaria. Inoltre, la signora Lollobrigida non può disporre dei suoi beni perché è rappresentata da un’amministrazione di sostegno, nominata dal Tribunale». E questo nonostante la Lollobrigida abbia sostenuto anche con OGGI: «Con Andrea sono d’accordo su tutto». «È lucida in alcuni settori dell’esistenza, quelli legati al lavoro, alle relazioni sociali e alla memoria storica», sostiene l’avvocato dei familiari, «mentre nei rapporti con i familiari e nei settori patrimoniali, secondo i periti, è come una bambina di 5 anni».

Gina Lollobrigida compie 94 anni. In un video, i momenti più belli della sua vita da star. La Repubblica il 4 Luglio 2021. Celebriamo i suoi 94 anni (li compie il 4 luglio) attraverso questo video che ripercorre i suoi look più famosi. Indimenticabili, proprio come lei. Dici Lollo e immediatamente pensi ad abiti sontuosi, gioielli unici, vite strizzate e tacchi a spillo, pellicce maculate e cappellini, guanti lunghi fino al gomito e scollature totali. Poche dive hanno incarnato la femminilità a livello mondiale come ha saputo fare Gina Lollobrigida aiutata in questo dai grandi sarti italiani Emilio Federico Schuberth, Sorelle Fontana, Capucci, Sergio Soldano, che vestivano le dive italiane ma anche americane e le principesse come Soraya. Icona di fascino tutto italiano, Lollo è stata corteggiatissima dai registi di Hollywood e Cinecittà che sapevano come quella femminilità unica piacesse al pubblico. Negli anni 20-40 Hollywood aveva promosso una bellezza sofisticata come quella di Marlene Dietrich o Greta Garbo. Nel dopoguerra, invece, grazie al neorealismo si impone la donna latina con vita strettissima e forme generose, come quelle proposte dal concorso Miss Italia che infatti sforna molte dive nostrane da Silvana Mangano e Sophia Loren a Gina Lollobrigida. La Lollo si impone subito per il talento ma soprattutto per il corpo unico (per lei nel film "Altri tempi" di Alessandro Blasetti, Vittorio De Sica, conia il neologismo 'maggiorata fisica'). Ma si fa notare anche per lo stile nel vestire, forte anche dei suoi studi artistici. Per questo rimane conquistata dagli abiti di Schubert, il sarto delle dive, che dopo aver lavorato come apprendista presso la sartoria Montorsi apre il suo atelier e ispirandosi al New Look parigino lanciato da Dior crea abiti che esaltano il corpo femminile. Superbe creazioni, vere opere d’arte con corpetti aderentissimi che sostengono il seno, vitini da vespa, gonne ampissime e poi broccati, ruches, voile, paillettes a rendere il tutto ancora più opulento. Uno stile carico che sembra creato apposta per la Lollobrigida, condito con gioielli unici realizzati per lei da Bulgari e scarpe create da Alberto Dal Co’, che nel suo laboratorio romano sforna décolletées per Soraya, Gina e le più grandi star. Nella vita di tutti i giorni eccola con abitini e tailleur che comunque sottolineano la vita (uno dei suoi punti forti), cappellini, foulard... insomma il classico look da lady anni 50. 

Ilaria Sacchettoni per il "Corriere della Sera" il 18 maggio 2021. «Venere e Amore», un dipinto di scuola francese della fine del Settecento, graziosamente alloggiato su una delle pareti di casa Lollobrigida, aveva già preso il largo alla volta di Rue du Faubourg sant' Honoré, acquistato da un collezionista parigino per 14 mila 800 euro circa. Mentre la Bersagliera, 93 anni, si sforza di «rimanere protagonista delle decisioni riguardanti la sorte del proprio patrimonio» i suoi beni, dispersi in rivoli, arricchiscono il catalogo della casa d' aste Colasanti a sua insaputa. È l'ultimo capitolo di quella che i magistrati della Procura romana definiscono «azione predatoria» del suo assistente Andrea Piazzolla, già a processo per circonvenzione di incapace e ora indagato per averla convinta a firmare tre mandati a vendere «cimeli, oggetti d' arte, antichità, preziosi, mobili d' arredo, opere d' arte del valore minimo stimato 300 mila euro». Secondo gli esperti del Nucleo di Polizia economico finanziaria, coordinati dalla pm Laura Condemi, si sarebbe trattato di una spoliazione orchestrata, un gioco di sponda fra Piazzolla, la titolare della galleria in questione, Raffaella Colasanti (poi destinata all' archiviazione) e un ristoratore amico di Piazzolla, Antonio Salvi nel ruolo di intermediario. Unendo le loro energie i tre avrebbero «abusato delle condizioni di vulnerabilità» della diva per appropriarsi dei suoi beni in concomitanza con i lavori di ristrutturazione della sua residenza sull' Appia antica. Tutto parte dalla denuncia dell' amministratore di sostegno nominato dal Tribunale, Stefano Agamennone: imbattutosi in un sito che annuncia la vendita all' asta di proprietà della Lollo, l' amministratore si precipita a informare l' autorità giudiziaria sottolineando come molte delle opere in via di cessione, siano state riconosciute dal figlio di Lollobrigida, Andrea Milko Skofic. A prima vista tutto parrebbe regolare. La casa d' aste Colasanti può esibire un mandato a vendere per conto dell' anziana attrice di Rita Lizzi. Di chi si tratta? Rita Lizzi è un' ex cameriera del ristorante di Salvi, oggi residente nel North Carolina (Usa), la quale disconosce immediatamente, attraverso la sua avvocatessa (Emilia Cibelli), il mandato a vendere le proprietà. La donna, in effetti, ha conosciuto in un' occasione la Lollo - nel locale di Salvi - ma nulla sa di mobili, quadri e ninnoli di sua proprietà e lo fa mettere a verbale. Per chiarire definitivamente l' accaduto i finanzieri ascoltano anche la diva. Davvero vuol separarsi dai suoi ricordi le chiedono mostrandole l' elenco? Neanche per sogno, risponde lei difendendo uno ad uno i suoi oggetti fra cui «molte icone sacre... mai me ne sarei disfatta perché ritengo mi proteggano». Non solo il sacro, ma anche il profano, viene difeso dalla diva: «Era mia intenzione rientrare in possesso dei beni dopo l' esecuzione dei lavori» spiega. L' episodio finisce per convincere il magistrato che sia necessario chiedere i domiciliari per Piazzolla e l' obbligo di firma per Salvi e Colasanti. Ma il gip respingerà la richiesta motivando che, fra le altre cose, Piazzolla è già a giudizio per circonvenzione d' incapace. Restano le accuse. «Da ultimo - scrive il pm - si rappresenta la particolare abilità del Piazzolla non solo nel carpire l' assoluta fiducia della vittima ma anche nel coordinare la trama illecita trasformando sé stesso nell' unico punto di riferimento della Lollobrigida con il mondo esterno». Michele Gentiloni Silveri l' avvocato dei familiari della Lollo commenta: «Stupefatto dal perdurare delle condotte di Piazzolla».

Estratto dell’articolo di Natalia Aspesi per “la Repubblica” il 17 gennaio 2022.

Eravamo tutte brutte per la fame e malvestite per la guerra, ma Miss Italia scoprì che esistevano ragazze bellissime come forse non ce ne sarebbero state più. E nel 1947, seconda edizione, le concorrenti mal truccate, in brutti costumini spiegazzati, di bellezza ce ne era così tanta che non si sapeva chi premiare: si optò per la semplicità di Lucia Bosè, seguita dalla classe di Gianna Maria Canale, anche se la più italianamente bella era Gina Lollobrigida, arrivata terza: ma a far decidere la giuria, maschi seri con i baffi, di non incoronare lei Miss fu, dico io, quel seno candido e rigoglioso, per niente democristiano e neppure comunista, quando si era tutti moralisti e guai a pensare alle brutte cose.

Chiedo scusa se della diva italiana, che con Sophia Loren divide la massima celebrità nel mondo, ricordo quell'inizio oscuro e folgorante ma per noi bruttine d'epoca fu un necessario, vitale avvertimento: non credere alla mamma che ti dice ti vorranno tutti perché hai studiato dalle suore, al confessore che ti rassicura, l'importante è che resti pura, perché se non ti dai da fare con queste rivali in giro, avrai una vita grigia. Erano decenni primitivi, ancora fascisti nel giudizio sulle donne: o eri bella e scema o eri intelligente e brutta, la Lollo da un parte e la Pica dall'altra.

E se eri bella e nei film si voleva il lieto fine, non dovevi darla, aspettare col seno in vista il marito timido e un po' pirla. Era un cinema in bianco e nero, per bene, che sapeva raccontare la nostra vita; oggi se si potesse rivedere sarebbe meraviglioso e la bellissima signorina Lollobrigida, grandi occhi neri, sorriso esplosivo, carnagione di perla, corpo a clessidra come era indispensabile allora, si rivelò pure intelligente e brava. Il che però non andava rilevato perché le donne erano o questo o quello; ma intanto la volevano i nostri registi più geniali in film che hanno fatto la storia del cinema.

Per me sono indimenticabili Pane amore e fantasia e Pane amore e gelosia di Comencini, La provinciale di Soldati, La romana di Zampa e, rivisto ieri sul benemerito TikTok, Il processo di Frine , uno degli episodi di Altri tempi , con il furibondo avvocato De Sica che come prova a discolpa dell'imputata porta la sua strepitosa bellezza, quel visino innocente e quel corpo di massimo peccato. La Lollobrigida percorre gli anni 50, quando anche Hollywood la scopre, l'affida a registi come Huston, Siodmak, Vidor, Dassin che le fanno fare film irrilevanti.

Estratto dell'articolo di Maurizio Porro per il “Corriere della Sera” il 17 gennaio 2022.

Inimitabile, Luigina Lollobrigida, detta Gina, è stata l'unica fra le nostre dive a non avere un marito produttore in casa, solo un medico, Milko Skofic, con cui si fidanza a vent' anni nel 1947 e sposa il 14 gennaio 1949 al Terminillo: separazione nel 1971.

 Non fu matrimonio d'amore, confessò, ma una riparazione alla vergogna provata per lo stupro avvenuto, vergine 18enne, da parte di un suo ex, calciatore della Lazio: una vicenda segreta confessata solo dopo anni. La sua carriera coincide con un'Italia che muta a vista nel miracolo economico, si passa dai fotoromanzi ai tascabili, il Paese esporta le maggiorate.

Con la Pampanini, la Lollo è una delle donne più desiderate del dopoguerra, simbolo di una bellezza nature e anche manager della propria vita.

 (...)

Terzo tempo: si diradano le occasioni, il telefono quasi muto nel fortino sulla via Appia, l'inesorabile declino coi gossip (il mistero del fidanzato spagnolo con cui annuncia le nozze) e le liti con nuora e nipote che, cacciati di casa, la vogliono interdire. Gina s' inventerà altri mestieri: la fotografia, poi la scultura, dove fa sempre da modella, diva nella golden era del giro petto, regina di Saba o Venere imperiale; realizza documentari a Cuba, nelle Filippine.

Fu self-made a 360 gradi e minacciò di far crollare il comunismo facendo innamorare Fidel Castro. 

 (...)

 Estratto dell'articolo di Ilaria Sacchettoni per il “Corriere della Sera” il 17 gennaio 2022.

 Nel marzo 2017 Gina Lollobrigida ha novant' anni. Alle spalle ha il processo (fortemente mediatico, come tutto ciò che la riguarda) nei confronti di Javier Rigau, il catalano di mezza età e impeccabili smoking sposato nel 2006 e subito accusato di averla truffata per accaparrarsi il suo patrimonio ma che invece se la caverà con una brillante assoluzione. Tuttavia all'orizzonte si profila una querelle giudiziaria assai più dolorosa con l'unico figlio, Andrea Milko Skofic.

Il patrimonio della Lollo, dagli immobili ai risparmi per finire ai suoi amati cimeli tutti accompagnati da adeguato expertise , hanno già preso il volo verso altre destinazioni secondo l'unica regia, si legge nella denuncia di Skofic assistito dallo studio Gentiloni Silveri, di Andrea Piazzolla che da ex addetto allo scarico merci di una casa automobilistica è divenuto suo onnipresente factotum.

 Il giovane finisce a processo per circonvenzione d'incapace. Secondo l'accusa avrebbe sottratto dal patrimonio dell'attrice 3 milioni di euro in beni e contanti tra il 2013 e il 2018. Solo nel luglio del 2015 avrebbe venduto tre appartamenti in via San Sebastianello, stradina di commovente bellezza dietro piazza di Spagna, per la cifra complessiva di 2 milioni 100 mila euro. Il passepartout ? La società «Vissi d'arte» creata dalla diva e poi amministrata da Piazzolla.

 Basta questo per capire di cosa stiamo parlando. In cosa consiste, a questo punto, l'eredità della Lollo? E, più importante, a chi andranno i suoi beni fra i quali l'amatissima villa sull'Appia fra dimore di costruttori e residenze famose? Il mistero si scioglierà ora con l'apertura del suo testamento.

Estratto dell'articolo di Alberto Mattioli per “il Foglio” il 17 gennaio 2022.

Certo, la Lollo veniva da un’Italia che usciva stremata e affamata dalla guerra e sognava l’abbondanza, proprio quella fisica, carnale, ghiandolare.

 Così, passata ’a nuttata, già alla famosa Miss Italia del 1947 fu un trionfo di signorine grandi forme: in un colpo solo, Lucia Bosè, Gianna Maria Canale, Eleonora Rossi Drago, Silvana Mangano e, appunto, Gina Lollobrigida, così diverse dalle bellezze nervose e sportive del fascio.

 Non erano ancora tempi di scomuniche politicamente corrette né di accuse di sessismo: alle miss si chiedevano le misure, non cosa pensassero della condizione della donna; il sogno, confessatissimo, era quello del cinema, o almeno dei fotoromanzi, non di fare il magistrato (fateci caso: tutte le miss attuali vogliono diventare giudice) o di impegnarsi per qualche causa ambientalista. 

 (...)

Anche prodotto da esportazione, però, come già la pizza e la mafia e presto i vestiti e i mobili, sicché Gina spopolò a intermittenza pure a Hollywood: “il petto atlantico”, la chiamava il sublime Marcello Marchesi.

 Curioso, però. Quell’Italia torpidamente democristiana, proporzionale, consociativa, inclusiva, di larghe intese e convergenze parallele, nell’entertainment viveva invece di contrapposizioni nette, manichee, tutto un derby senza appello, secondo la vecchia buona tradizione di guelfi e ghibellini, e senza ministri della cultura a sproloquiare di

Dunque, Callas-Tebaldi, Coppi-Bartali, Mike-Pippo, melodici-urlatori, Di Stefano-Del Monaco (sì, la lirica era ancora nazionalpopolare, Gramsci docet). E, appunto, Lollo-Loren, il maggioritario delle maggiorate... (...) E qui, con il senno (o il seno?) di poi, si può dire che alla fine fu Sophia a vincere, più sofisticata, più internazionale, francamente più brava come attrice, anche perché poi a un certo punto Gina mollò la presa, riciclandosi come fotografa, scultrice, intervistatrice di Fidel, candidata alla elezioni, vittima di toyboy, ma sempre Lollo in saecula saeculorum, certe cofane, certi abiti sberluccicanti, certi brillocchi, certa sfrontatezza già bersaglieresca che faceva tanto diva naturale contro lo chic dell’Altra. Non poteva non risultare simpatica, la Lollo: anche soltanto perché la sua Italia era molto più simpatica della nostra.

Madre Teresa, Fidel Castro e Il maestro De Sica l’ultima uscita pubblica della “LOLLO”. Edoardo Sirignano su L'Identità il 17 Gennaio 2023

Voglio solo vivere e morire in pace”. Così si chiude l’ultimo colloquio tra il sottoscritto e Gina Lollobrigida, star incondizionata del cinema italiano, scomparsa all’età di 95 anni. L’attrice, in quella che probabilmente è stata l’ultima intervista rilasciata a un giornalista, racconta la sua quotidianità negli ultimi anni, che non era certamente quella di un’aziana rimbambita, come qualcuno vuol far passare. “La lotta con la giustizia – rivelava – è stata l’unica pagina buia della mia vita. Il resto è solo tanta serenità”. Il riferimento era alla battaglia legale con il figlio, iniziata nel momento in cui nella sua esistenza era entrato Andrea Piazzolla, assistente e tuttofare che la diva considerava come uno di famiglia. Detto ciò, la giornata per la 95enne era tutt’altro che passiva: “Mi sveglio molto presto con una bella e abbondante colazione – raccontava. Dopo leggo la posta elettronica e mi metto a lavorare per ore al pc. L’ unico momento di relax è a metà mettinata, quando una mezz’oretta mi dedico a guardare un documentario sugli animali. Sono stata sempre molto interessata ai viaggi, a conoscere il mondo e le sue creature. Quando ho finito di pranzare, che di solito è molto light, perché non ho mai smesso di tenermi in forma, mi dedico ai vari impegni e soprattutto alla lettura. Diciamo, non so stare senza far nulla. L’unico momento quando mi rilasso è a tarda sera in cui mi dedico a qualche serie su Netflix”. Nel colloquio, però, la parte più interessante è quando parlava di quegli incontri che l’avevano segnata. Il primo era certamente con Madre Teresa di Calcutta. “La vedevo ogni anno . Quando l’ho incontrata per la prima volta, è stata un’esperienza unica. Ho provato emozioni e sensazioni indescrivibili, che non credo possano ripetersi”. Altro momento cruciale di una carriera, che non era solo grande schermo, poi, la lunga intervista con Fidel Castro: “Mi ha colpito il modo in cui si difendeva, il suo carattere e la determinazione nel portare avanti le sue battaglie”. Tra i vari registi e star con cui ha collaborato, infine, Vittorio De Sica era l’uomo, che a suo parere, ha cambiato la sua carriera: “La nostra era un’amicizia vera”.

ADDIO BERSAGLIERA. Nicola Santini su Redazione L'Identità il 17 Gennaio 2023

Bersagliera fino alla fine. Si è spenta a 95 anni La Gina, come amava farsi chiamare dagli amici. E come amava chiamare se stessa quando parlava di sé in terza persona senza mai lasciare troppo da parte La Lollo, che l’ha accompagnata tra lustrini, parrucche e una voglia di conoscere il mondo e tutto ciò che ha da offrire, dal primo all’ultimo giorno.

Disse che al cinema sarebbe tornata ma solo se chiamata da Steven Spielberg: “Ho capito che il mio cervello funziona meglio di prima, chi non fa niente invecchia prima”. All’epoca aveva “solo” 80 anni. E amava scolpire, scrivere andare in giro. Adorava il fast food così come le tavole più ricche e fastose. Raccontava di Fidel Castro e si entusiasmava dei nuovi talenti del cinema e della tv verso i quali non ha mai avuto inutili snobismi. Si sentiva a cavallo della vita, perché non faceva l’artista, era un’artista. Protagonista del grande cinema italiano, era nata a Subiaco il 4 luglio del 1927. Comencini ne fece la Bersagliera seducente e la Fata turchina dolcissima e materna. Il pubblico la ricorda per aver dato il volto alle storie di tante ragazze del suo tempo (dalla romana di Zampa, alla provinciale di Soldati), tante seduttrici (l’Esmeralda del Gobbo Anthony Quinn, la regina di Saba accanto a Yul Brynner).

Nell’Italia dei due poli, che vuole e chiede rivali e antagonisti in tutti i campi, insieme alla “rivale” Sophia Loren ha esportato nel mondo l’immagine della diva italiana.

Profondamente addolorati ne danno il triste annuncio il figlio Milko e suo nipote Dimitri. La famiglia chiede, in questo momento di grande dolore, da parte dei media il massimo rispetto”, fanno sapere.

La “rivale”, commenta la notizia così “Sono profondamente scossa e addolorata” ha detto Sophia Loren.

Con Gina se ne va un pezzo di Dolce Vita.

Una carriera iniziata poco più che adolescente nei fotoromanzi, rapidamente giunta al cinema fino ai film televisivi negli anni Ottanta e Novanta tra cui la ripresa de La romana di Alberto Moravia in una miniserie di Patroni Griffi.

Numerosi i riconoscimenti, tra cui un Golden Globe per il film Torna a settembre con Rock Hudson, sette David di Donatello e due Nastri d’argento. È stata nominata Cavaliere della Repubblica e nell’ottobre 1996 Accademica onoraria dell’antica Accademia delle Arti del Disegno di Firenze. Nel ’99 è stata nominata Ambasciatrice di buona volontà dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura. Nel 2016 un David speciale alla carriera le è stato consegnato dal presidente Mattarella. Nel 2018 la stella sulla Walk of Fame di Los Angeles.

Partecipò a Miss Italia classificandosi terza dopo Lucia Bosè e Gianna Maria Canale, quando aveva appena vent’anni e quello fu il primo di un numero inimmaginabile di red carpet. Da allora ha presenziato alle prime dei suoi film, in Italia e all’estero, ai festival, ai premi.

Iniziata la carriera cinematografica, come comparsa e controfigura, e successivamente in piccoli ruoli di contorno nei popolari film operistici dell’immediato dopoguerra, la sua aspirazione oltre al cinema era la lirica che frequenta con i suoi studi da soprano, con la bella voce che dimostrerà di avere ne La donna più bella del mondo (1955), con Vittorio Gassman.

Nel gennaio 1949 sposò il medico sloveno Milko Skofic, che prestava servizio fra i profughi temporaneamente alloggiati a Cinecittà. Nell’agosto 1957 nasce il primo figlio Milko jr. Nel 1950 vola sola verso Hollywood accettando un invito del miliardario Howard Hughes, a tempo perso produttore e scopritore di dive come Jane Russell. Ma col sentore che stava per essere chiusa in una gabbia dorata, torna a Roma.

Negli anni 50, Campane a martello di Luigi Zampa 1949, Achtung, Banditi! (1951) di Carlo Lizzani e soprattutto Fanfan la Tulipe di Christian-Jaque del 1952, che la consacra star in Francia, mentre in Italia, nello stesso anno, conquista una vasta popolarità con Altri tempi di Alessandro Blasetti, nell’episodio Il processo di Frine con Vittorio De Sica, che conierà per lei il neologismo “maggiorata fisica”. E fu accanto a De Sica che arrivò il ruolo più popolare: è del 1953 il ruolo della Bersagliera, premiato con il Nastro d’Argento, in Pane, amore e fantasia .

L’ultimo inchino di Gina Lollobrigida, diva della porta accanto. L’attrice se ne va a 95 anni: è stata l’icona dell’Italia del boom, lavorò con i mostri di Hollywood senza montarsi la testa e al momento giusto si è fatta da parte. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 16 gennaio 2023

Era la più pop tra le grandi stelle del nostro cinema, a cominciare da quel soprannome allitterato che diventò uno slogan nazionale: “la Lollo”, come una diva della porta accanto, una che non se l’è tirata mai un giorno nella vita, persino quando era di casa con i mostri sacri di Hollywood, Humphrey Bogart, Sean Connery, Rock Hudson, Burt Lancaster, Anthony Quinn, Frank Sinatra.

E anche quando camminava per Sunset boulevard Gina Lollobrigida è sempre rimasta la ragazza di Subiaco, la “ciociarella” come diceva con malcelata cattiveria Silvana Pampanini con cui ebbe una rivalità e un’inimicizia feroci, ma perla Lollo, lontana da qualsiasi snobbismo, quel tratto popolano e quasi “rurale” era una caratteristica preziosa, quasi un vanto.

Lei che era figlia di un piccolo rivenditore di mobili caduto in disgrazia per un bombardamento anglo-americano che nel 1943 distrusse completamente il suo magazzino e che da bambina ha conosciuto la povertà vera. E dalla quale era uscita con il sorriso, da donna del popolo in senso lato, non come la Magnani che del popolo era invece un’icona “politica”con quel grumo di gravità teatrale che ne fece la diva più amata dagli intellettuali.

E poi il corpo, simbolo dell’Italia del boom economico e dell’imminente rivoluzione dei costumi: è per lei che Vittorio de Sica, dopo aver recitato al suo fianco nel Processo di Frine di Alessandro Blasetti, inventò il termine «maggiorata», l’attrice tutta forme e curve, “ad alto voltaggio” che in negli anni del dopoguerra ribalta completamente i canoni di bellezza femminile. Maggiorate erano anche Sophia Loren e Silvana Mangano con cui ha condiviso l’age d’or del successo, rimanendo però sempre se stessa, priva dell’eleganza borbonica della Loren e dell’intensità della Mangano, legata a una semplicità naturalistica che le veniva dal carattere, aperto e socievole e che ne faceva l’interprete perfetta per le commedie nazional-popolari, senza velleità autoriali o sofisticati trasformismi.

La sua bersagliera in Pane amore e Fantasia (1953) di Luigi Comencini è uno dei personaggi più amati di sempre del nostro cinema e anche una delle vette più alte della sua fortuna artistica con il Nastro d’argento per la migliore interpretazione femminile, la conquista dell’Orso al festival di Berlino e la nomination all’Oscar per migliore pellicola straniera.

Successo di pubblico enorme, che replica due anni dopo con il sequel Pane, amore e gelosia.

Nel frattempo è diventata una star internazionale e vola al di là dell’oceano dove lavora con attori e registi importanti come King Vidor, John Houston, Robert Siodmark. Non saranno mai dei ruoli memorabili, perché la Lollo è un’attrice brillante, poco abituata a prendersi sul serio e per nulla incuriosita dalle trasfigurazioni drammatiche.

Negli Usa stringe una bella amicizia con Marylin Monroe: «L'ho conosciuta appena approdata a New York nel '50. Bella, discreta ma sola. Le ho voluto subito bene. L'ho frequentata a Los Angeles e siamo diventate amiche. Era una ragazza fragile aveva bisogno di protezione e si fidava troppo degli altri, purtroppo non aveva la mia forza di carattere».

Già, la forza d’animo della “Lollo” mai manipolabile, mai succube degli uomini (a parte la truffa che ha subito ultranovantenne, negli ultimi anni della sua vita), lei che a 18 anni, studentessa al primo anno di Belle arti a Roma subì una violenza sessuale da parte di un «noto calciatore della Lazio», come ha raccontato molti anni dopo, spiegando di essersi voluta sposare giovanissima con Milko Škofic per superare quel trauma: «Di sicuro non lo feci per amore».

Negli anni 70 continua a lavorare nel cinema ma in modo sempre più sporadico, e si dedica a nuove passioni, come la fotografia, la pittura, la scultura (ha esposto le sue opere in mezzo mondo), conoscendo artisti come Salvador Dalì. Ella Fritzgerald, David Cassidy, o personalità politiche come Herry Kissinger, il Richelieu del presidente Nixon.

Ma anche con sortite nel giornalismo con una celebre intervista a Fidel Castro ch,e quando venne in visita Italia, chiese di incontrare solo due persone: il Papa e... la Lollobrigida. Pare che il lider maximo ne fosse perdutamente innamorato e comunque è cosa nota che tra i due fosse nata una breve e intensa love story.

In quel decennio tutti la ricorderanno per il ruolo della Fata turchina nel Pinocchio televisivo di Comencini, primo grande sceneggiato entrato a far parte dell’immaginario collettivo. Gli anni ottanta segnano l’abbandono quasi totale della settima arte che omaggerà fino all’ultimo con alcuni cameo, m anche con fugaci apparizioni in serie tv americane diventate di culto anche in Italia come Falcon Crest e Love Boat. Nel 1988 accetta di interpretare il ruolo della madre della protagonista in La Romana di Giuseppe Patroni Griffi, remake dell’omonimo film da lei interpretato nel 1954. Gli ultimi anni della sua vita sono dedicati alla vita privata, niente più cinema, niente più fiction, ma diverse partecipazioni in televisione, richiestaissima per la miniera di aneddoti e perché memoria vivente del nostro cinema nell’epoca del suo maggior splendore.

Il 2 febbraio del 2018 le viene dedicata una stella sulla celebre Hollywood Walk of Fame di Los Angeles.

Gina Lollobrigida? "Come è morta": indiscrezione dalla Daniele. Libero Quotidiano il 18 gennaio 2023

Eleonora Daniele, nella puntata di oggi 17 gennaio di Storie Italiane, ha dedicato un grande spazio a Gina Lollobrigida, morta ieri a 95 anni. Proprio sulle cause del suo decesso, uno degli inviati della trasmissione, che era in collegamento dalla clinica nella quale l’attrice era ricoverata l'attrice, ha rivelato che si parla di blocchi renali e polmonari. "Aveva avuto diversi altri problemi, comunque, ultimamente, come la rottura del femore", ha spiegato il giornalista che ha precisato però che l'incidente domestico era avvenuto tempo fa e che l'attrice si era ripresa dalla frattura del femore.

È stato inoltre confermato che domani verrà allestita la camera ardente al Campidoglio", ha detto l'inviato di Storie Italiane. Chi lo vorrà, dunque, potrà dare l’ultimo saluto a Gina Lollobrigida, i cui funerali si celebreranno invece il 19 gennaio alla chiesa degli artisti di Roma. La conduttrice è quindi intervenuta e ha definito la grande attrice e diva, "una donna di grande cuore, sempre molto generosa, una persona davvero buona". 

Sandra Milo, ospite in studio, ha invece confessato: "Non conoscevo molto, a livello personale, Gina, ma posso dire che era un’artista a tutto tondo". "Posso dire che era così perché io invece la conoscevo bene", ha concluso Eleonora Daniele.

Lollobrigida, il racconto doloroso di Romina Carrisi: "Come ha visto morire mio nonno". Libero Quotidiano il 17 gennaio 2023

Il ricordo di Gina Lollobrigida, scomparsa lunedì 16 gennaio, riempie le cronache televisive. Si parla della sua morte anche da Serena Bortone, su Rai 1, a Oggi è un altro giorno, la puntata è quella di martedì 17 gennaio. Il cordoglio per l'addio alla grande attrice è unanime e palpabile. In molti vogliono offrire il loro personale ricordo.

E tra questi ricordi, ecco quello di Romina Carrisi, figlia di Al Bano Carrisi e Romina Power, ormai ospite fissa della Bortone, che ha svelato un aneddoto molto triste che le aveva raccontato proprio mamma, un aneddoto che riguarda ovviamente la Lollo suo nonno, Tyrone Power.

"Nel ’58 iniziarono le riprese di Salomone e la regina di Saba - ricorda Romina Carrisi -, soltanto che purtroppo il 10 novembre mio nonno ebbe un infarto e non c’era un medico sul set e Gina gli portò uno scialle per tenerlo caldo. Erano in Spagna vicino Madrid e faceva freddo poi lo portarono in ospedale, ma purtroppo morì nel tragitto". Un altro lutto, un episodio doloroso in cui Gina Lollobrigida aveva provato ad aiutare, a fare quel che poteva.

La Lollo fu scelta per Salomone e la regina di Saba nel 1958. Il volto maschile del film avrebbe dovuto essere proprio Tyrone, padre di Romina Power, ma a impedirgli il ruolo fu proprio la morte, che lo colse a soli 44 anni. Fu poi sostituito da Yul Brynner.

E ancora, sull'episodio Romina Carrisi aggiunge: "Morì con il suo scialle addosso. È un ricordo un po’ macabro ma io ci vedo anche un po' di romanticismo. Me lo ha raccontato mia mamma. Gli ha dato qualcosa di suo in un momento di fragilità", ha concluso Romina.

Estratto dell’intervista rilasciata da Gina Lollobrigida a Sonia Bedeschi (giornalista Mediaset) nel luglio 2022, pubblicato da “il Giornale” 

Sorridente, avvolta in un elegante vestito rosso, perfetta nel trucco fatto con le sue mani. Gina Lollobrigida ci ha aperto le porte di casa per raccontarsi in una lunga e accorata intervista, sperando che le sue parole un giorno vengano ascoltate.

 Come ha conosciuto il suo presunto marito Javier Rigau, con cui si sarebbe sposata a sua insaputa?

«Quando ho conosciuto Javier Rigau vivevo a Montecarlo e lui veniva alle feste importanti, dopo parecchio tempo me lo hanno presentato, ero sola, e nel 2005 mi ha accompagnato lui.

 Non avevo notizie sul suo conto. È un uomo malato di pubblicità. Sappiamo che la televisione italiana vive di pubblicità e con me naturalmente era felice perché il personaggio gli piaceva. È un uomo che sul mio conto ha detto solo bugie, anche quando sogna dice bugie».

Bugie che lei avrebbe scoperto dopo alcune ricerche in Spagna, dove lo scorso anno è stato pubblicato il libro-bomba Jaque a un estafador scritto da Cesc Santandreu, che racconta le truffe messe a segno da Rigau ai danni di facoltose signore spagnole. Un uomo quindi che nasconde un passato da truffatore e che ha infangato il suo nome?

«È un uomo che ha fatto male a tante persone, lui non mi ha mai sfiorato con un dito, non sono mai rimasta incinta e non ho mai voluto sposarlo e, confermo, non sono sposata con lui. Spero che questo libro uscito in Spagna possa essere letto anche da qualche giudice in Italia».

Parliamo del suo difficile rapporto con suo figlio Milko.

«Ho fatto di tutto per evitarlo, ma non ci stava più con la testa, era difficile parlare con lui, perché lui ha testimoniato contro di me ed è finito nella parrocchia di Rigau, il mio peggior nemico. Io ho cercato di educarlo al meglio ma invece di lavorare ha preferito giocare a tennis, in fondo non è riuscito a fare un lavoro serio.

 Litigava spesso con la moglie, Fantasia, quando abitavano proprio nella dependance accanto, si sentivano le urla fino a qui. Le ho comprato casa alla Camilluccia, ma dopo un po' di tempo se la sono venduta, cosa voleva un'altra casa?! Non è stato fortunato ad avere una persona irresponsabile vicino. Io l'ho educato con tutto l'amore che potevo ma non è servito».

Estratto da liberoquotidiano.it il 17 gennaio 2022.

Ci sarebbe stata una vera e propria rissa fuori dalla stanza della clinica dove Gina Lollobrigida è morta lunedì all'età di 95 anni. A riferirlo l'inviato di Storie italiane, il talk del mattino condotto da Eleonora Daniele su Rai 1, collegato proprio dalla struttura sanitaria.

 Protagonista, in negativo, l'ex marito della diva del cinema italiano, lo spagnolo Francisco Javier Rigau, che avrebbe aggredito un carissimo amico della Lollo, lo storico produttore e direttore artistico Adriano Aragozzini. […]

Tecnicamente, ha ricordato l'inviato, Rigau non sarebbe l'ex marito: la Sacra Rota infatti ha annullato il matrimonio con la Lollobrigida […]

 Aragozzini aveva chiesto di poter vedere l'amica Gina, ricevendo però il rifiuto di Rigau sebbene quest'ultimo, presente alla clinica già dalla mattinata, non fosse stato chiamato dall'attrice. Secondo Ingroia, Rigau sarebbe ancora oggi molto vicino al figlio e al nipote della Bersagliera, interprete di classici del cinema come Achtung! Banditi!, Pane amore e fantasia e Venere imperiale.

Lollobrigida, l’ex marito Rigau: «Il suo patrimonio è sparito». E si lancia in una rissa davanti alla camera della defunta. Storia di Flavia Fiorentino su Il Corriere della Sera il 17 Gennaio 2023.

«Ma come si permette? Cosa è venuto a fare? Quando sono arrivato in clinica a dare l’ultimo saluto a Gina, l’ex marito Francisco Javier Rigau era già lì, nella sua camera. Inspiegabile, incredibile».

Adriano Aragozzini, storico amico della diva, morta lunedì a Roma a 95 anni (mercoledì sarà allestita la camera ardente in Campidoglio) è tra i primi a recarsi nella casa di cura dove la «bersagliera» era ricoverata da giovedì scorso. «Abbiamo litigato subito, in un momento che sarebbe dovuto essere di rispetto e silenzio — racconta l’ex patron di Sanremo — perché lui, con una certa aggressività mi ha detto: “Voi dovete stare a distanza da questa donna perché l’hanno derubata”».

La questione delle nozze tra l’imprenditore spagnolo e una delle attrici italiane più famose al mondo, è stata al centro di una complessa vicenda giudiziaria in cui il presunto marito era accusato di aver truffato la Lollobrigida come lei stessa aveva dichiarato: «Sposandomi forse per procura a Barcellona a mia insaputa per ereditare tutti i miei beni» Rigau nel 2017 viene però assolto «perché il fatto non sussiste» e, in ogni caso, il matrimonio viene annullato dalla Sacra Rota nel 2019.

Due giorni fa il clamoroso ritorno sulla scena, in cui l’uomo d’affari catalano si definisce ancora «marito» della diva. «Io non erediterò nulla — ha dichiarato Rigau a “La vita in diretta” su Rai1 — ma bisognerebbe fare un’indagine sulle proprietà di Gina perché tutto il suo patrimonio è sparito. Per quanto riguarda me, le indagini sono già state fatte in modo approfondito». L’ex marito ha anche annunciato di voler partecipare giovedì ai funerali dell’attrice presso la Chiesa degli artisti in piazza del Popolo «Deciderà il figlio — precisa —ma io sono il vedovo. Sarò in prima fila» aggiungendo nuovi particolari agli ultimi giorni di vita della Lollobrigida: «È morta tranquilla avendo accanto il figlio, il nipote e me. Ma era irriconoscibile. Quando si è rotta il femore ( nel settembre scorso ndr) io ho fatto l’impossibile per aiutarla con delle badanti, pagando io: ma è stato impossibile».

L’attacco contro Aragozzini in clinica, però era stato violento: «Si è calmato soltanto quando ha capito che ero al capezzale di Gina non per lavoro ma come amico di una vita — sottolinea il giornalista e discografico che l’ha accompagnata in centinaia di tournée in tutto il mondo — poi è arrivato anche il figlio Milko che mi ha pregato di fare un elogio funebre della madre durante la cerimonia».

Francisco Javier Rigau, attualmente in buoni rapporti con il figlio e il nipote dell’attrice, Milko e Dimitri Skofic, nonostante lei avesse troncato ogni rapporto, aveva conosciuto Gina Lollobrigida a Montecarlo nel 2004. Nonostante tra i due ci siano 34 anni di differenza, l’imprenditore sembra affascinato da quella star leggendaria e l’attrice, almeno all’inizio, si dimostra felice di quella relazione che però, in breve tempo, si trasforma in qualcos’ altro, fino all’arrivo al suo fianco del factotum-figlioccio Andrea Piazzolla e la denuncia per truffa contro Rigau nel 2013.

Estratto dell'articolo da leggo.it il 18 gennaio 2023.

Il patrimonio di Gina Lollobrigida è «sparito». Lo dice Francisco Javier Rigau, ex marito della diva, ai microfoni de "La vita in diretta" su Rai1: «Io non erediterò nulla, questa è una cosa già fatta e vi prego di fare un'indagine sul mio patrimonio e su quello che avevo prima». [...]

 Rigau ha annunciato anche l'intenzione di essere al funerale dell'attrice. «Deciderà il figlio, ma io sono il marito. Sarò in prima fila». Poi sulla malattia dell'attrice aggiunge: [...] «era irriconoscibile. Quando si è rotta il femore io ho fatto l'impossibile per metterle accanto delle badanti, pagando io: ma è stato impossibile».

Poco dopo il decesso della Lollo, Francesco Javier Rigau avrebbe litigato e aggredito un amico della donna all'esterno della clinica. Lo ha rivelato "Storie Italiane". Tecnicamente il catalano non sarebbe l'ex marito dell'attrice visto che la Sacra Rota ha annullato il matrimonio. Il legale, Ingroia, spiega però che nel registro civile spagnolo di fatto quel matrimonio è ancora valido e il rischio è che lui possa far valere quel registro a livello europeo [...].

Ad essere stato aggredito fuori dalla clinica sarebbe stato Adriano Aragozzini, caro amico dell'attrice. Lui avrebbe chiesto di veder l'attrice ma gli sarebbe stato negato il permesso da Rigau. Pare che lo spagnolo fosse fuori dalla clinica già dalla mattina, così dopo la lite è stato chiesto chi avesse chiamato un uomo che di fatto non era considerato familiare, né stimato da Gina ed è stato risposto: «Chiedete al figlio e al nipote».

 Il figlio e il nipote di Gina Lollobrigida, con cui sarebbero in corso dei procedimenti legali, pare che siano molto vicini a Rigau, nonostante l'attrice non volesse saperne più nulla di lui e lo considerasse un truffatore. [...]

Gina Lollobrigida, il cardiologo smentisce l’ex marito Rigau. Maria Volpe su Il Corriere della Sera il 18 Gennaio 2023.

Il medico dice che al momento del decesso c’era solo un’amica stretta, Rigau è arrivato un’ora e mezza dopo.

Casomai ce ne fosse bisogno arriva un’altra voce molto accreditata che dimostra come il signor Francisco Javier Rigau, ex marito di Gina Lollobrigida, non sia esattamente un uomo sincero. Il signor Rigau ha sostenuto di essere accorso al capezzale, dalla Spagna, e di aver visto Gina ancora viva e di essere felice per essere arrivato in tempo a salutare la sua ex moglie.

Si apprende invece che «Il signor Rigau è arrivato circa un’ora e mezza dopo il decesso. Difficilmente posso immaginare che abbia avuto una discussione con Gina a quel punto». E a dirlo non è uno qualunque o il suo «segretario» Andrea Pezzolla che come noto detesta Rigau, ma è il prof. Francesco Ruggiero, medico curante, cardiologo e amico di Gina Lollobrigida. Lo ha rivelato mercoledì pomeriggio ai microfoni de «La Vita in Diretta», il programma condotto da Alberto Matano su Rai1 .

Ha continuato il cardiologo: «Sul fatto che si sia spenta serenamente questo lo voglio dire, effettivamente era già incosciente da almeno un paio di giorni, quindi non si è accorta fortunatamente del trapasso finale. Io mi sono dovuto trattenere per una serie di incombenze sanitarie e amministrative che mi spettavano come curante e cardiologo. Il signor Rigau è arrivato circa un’ora e mezza dopo il decesso. Difficilmente posso immaginare che abbia avuto una discussione con Gina a quel punto. Nel momento preciso (del decesso, ndr) c’era solo un’amica stretta. Poi è sopraggiunto il figlio e poi io, dopo un quarto d’ora circa».

Rigau, che in questi giorni si fa vedere ovunque con l’aria del vedovo inconsolabile, tutta la giornata di mercoledì si è fatto vedere alla camera ardente in Campidoglio. Proprio lì aveva affermato: «Sono arrivato in tempo per salutare Gina viva. Sono contento, anche lei. Lei era cosciente. Lo stesso è successo con il figlio e il nipote. Sono in pace, è partita tranquilla, con il figlio, con il nipote e con me».

Elvira Serra per corriere.it il 18 gennaio 2023.

Gina Lollobrigida e Javier Rigau avevano annunciato di sposarsi a New York alla fine di novembre del 2006. Per la cerimonia erano stati invitati anche Mara Venier e Silvio Berlusconi. Quel matrimonio non si celebrò più, troppo forte la pressione mediatica e anche le voci di persone vicine alla Bersagliera che la invitavano a ripensarci. Lei non nascose mai la sua amicizia con l’imprenditore catalano. E proprio al Corriere della Sera nel 2018 aveva raccontato: «Io avevo bisogno di qualcuno che mi facesse da cavaliere in alcune circostanze e lui all’inizio era una persona molto piacevole e premurosa».

 L’accordo firmato nel 2006

Prima di quelle nozze che non si celebrarono mai , il 13 novembre del 2006, Rigau e Lollobrigida firmarono comunque una scrittura privata a Roma davanti ai testimoni Cristina Garaffa e avvocati Giulia Citani e Alessio Colagreco, nella quale, in caso di nozze, sottoscrivevano una serie di impegni. Anzitutto a celebrare il matrimonio «esclusivamente in forma religiosa, non volendo categoricamente ed inequivocabilmente che dallo stesso conseguano effetti civili».

 Per questo si impegnavano a «non richiedere, né unitamente né disgiuntamente, la trascrizione del matrimonio in sede civile, in qualsiasi Paese o nazione del mondo». Si impegnavano anche a «mantenere distinti e separati anche in futuro i loro rispettivi patrimoni».

 Rigau aveva anche manifestato, «liberamente e spontaneamente», la «volontà di mantenere segreta la loro vita privata, sia precedente che futura, anche in ipotesi di separazione o annullamento del matrimonio». In particolare, si legge nel documento: «Il signor Xavier Rigau si impegna e si obbliga a non usufruire né sfruttare l’immagine e la persona della signora Lollobrigida per finalità economiche e comunque non autorizzate preventivamente per scritto dalla stessa signora Lollobrigida».

Gli impegni di Rigau

Rigau, quel giorno di novembre del 2006, si impegnò «anche per l’avvenire», «anche in caso di premorienza della Signora Lollobrigida», come «anche dopo un eventuale giudizio di separazione, divorzio e/o annullamento, a non rendere noto, divulgare alcunché di quanto avvenuto a seguito del matrimonio religioso e a non pubblicare articoli, libri, o utilizzare ogni altro mezzo di comunicazione e divulgazione».

 Rigau, stando a quanto sottoscritto nella scrittura privata, accettava il fatto di non poter «prendere contatti con la stampa, con i media: non potrà pubblicare notizie, libri, testi, biografie o quant’altro violi la privacy del coniuge, che renda noto a terzi informazioni, momenti di vita vissuta e quant’altro».

 A garanzia degli impegni presi, in caso di violazione entrambi (pure Gina non avrebbe potuto pubblicare momenti privati o «notizie negative riservate» sul conto di Rigau) erano obbligati a rifondere immediatamente il partner una penale di due milioni di euro. Ma, soprattutto al punto 9 della scrittura privata, si precisa che in caso di morte della signora Lollobrigida, tutti gli impegni sottoscritti sarebbero rimasti «validi ed efficaci».

 (...)

 L’accordo sempre valido

Se però un matrimonio poi c’è stato, considerato che è stato annullato, resterebbero validi gli impegni presi nella scrittura firmata quel novembre del 2006 davanti a tre testimoni, che lo stesso Javier Rigau dovrebbe ricordare bene, visto che sul suo sito Internet, dove ora pubblica copia del certificato di matrimonio registrato nei registri civili spagnoli, aveva condiviso anche la scrittura privata in cui si impegnava a «non richiedere, né unitamente, né disgiuntamente la trascrizione del matrimonio religioso in sede civile».

 Con queste premesse, non si capisce a quale titolo lo spagnolo sia stato chiamato a Roma per la morte dell’attrice. E perché in camera ardente in Campidoglio sia accanto al figlio Milko Skofic e al nipote Dimitri come uno di famiglia, visto che non fa parte della vita della madre da sedici anni.

Estratto dell’articolo di Elvira Serra per il “Corriere della Sera” il 19 gennaio 2023.

[...] Alla camera ardente di Gina Lollobrigida (aperta anche oggi fino alle 11.30, prima dei funerali che si svolveranno a mezzogiorno e mezzo nella Chiesa degli Artisti in piazza del Popolo) è stato un via vai di fan, compresi i bersaglieri, che hanno voluto renderle omaggio. In prima fila, nell'area dedicata alla famiglia, c'erano il figlio Milko Skofic, il nipote Dimitri e, curiosamente, Javier Rigau, ormai noto alle cronache rosa come l'«ex marito» della Lollo.

 Un matrimonio officiato per procura il 29 novembre del 2011 (l'attrice aveva sempre parlato di «truffa») e che era stato «sciolto dalla Sacra Rota il 19 gennaio 2019 per concessione della grazia pontificia di Papa Francesco su richiesta del Tribunale della Rota Romana» (così recita il certificato di battesimo della Bersagliera).

[...]

Prima di quelle nozze che non si celebrarono mai, il 13 novembre del 2006 Rigau e Lollobrigida firmarono comunque una scrittura privata a Roma davanti ai testimoni Cristina Garaffa e agli avvocati Giulia Citani e Alessio Colagreco, nella quale, in caso di nozze, sottoscrivevano una serie di impegni. Anzitutto quello a celebrare il matrimonio «esclusivamente in forma religiosa, non volendo categoricamente ed inequivocabilmente che dallo stesso conseguano effetti civili». Per questo si impegnavano a «non richiedere, né unitamente né disgiuntamente, la trascrizione del matrimonio in sede civile, in qualsiasi Paese o nazione del mondo». Si impegnavano anche a «mantenere distinti e separati anche in futuro i loro rispettivi patrimoni».

[...]

Nel 2009 nella vita di Gina Lollobrigida entrò Andrea Piazzolla, dapprima come assistente, poi presenza costante fino a diventarne il «figlioccio». Fu lui a scoprire che Rigau aveva sposato per procura l'attrice. Il resto è cronaca. Gina Lollobrigida è morta il 16 gennaio. Rigau ha comunque fatto iscrivere il matrimonio nei registri civili spagnoli, nonostante l'impegno scritto a non farlo. Oggi la piange come un vedovo.

Gina Lollobrigida, il medico, il figlio e il tuttofare: le figure della sua vicenda. Federica Bandirali su Il Corriere della Sera il 20 Gennaio 2023.

Grande folla a Roma per l’addio alla diva italiana. Presenti anche molte delle persone a lei vicine negli ultimi anni e coinvolti in scandali e processi

Andrea Milko Skofic, il figlio

Tantissime le persone che giovedì pomeriggio si sono recate in piazza del Popolo davanti alla chiesa degli Artisti per l’ultimo saluto a Gina Lollobrigida. Una grande artista che negli ultimi anni è stata protagonista di vicende mediatiche che vedono cinque figure girare attorno alla sua figura. Uno su tutti è Andrea Milko Skofic, l'unico figlio di Gina Lollobrigida e del suo primo marito Milko Skofic. Ha 65 anni, lavora nel mondo dello starsystem e ha anche un figlio, Dimitri, nipote della diva. È diventato estremamente popolare per la lite che ha portato Andrea Piazzolla, factotum della attrice defunta, in tribunale in un duro scontro per il patrimonio della madre.

Javier Rigau, l’ex marito spagnolo

Javier Rigau è un imprenditore spagnolo, ex marito della Lollo: pare che i due si frequentassero dal 1976, quando Rigau aveva solo quindici anni, contro i 49 dell’attrice. Una relazione tenuta segreta per 20 anni fino al 2006 quando l’attrice sorprese tutti annunciando la sua intenzione di sposare l’imprenditore in un’intervista alla rivista spagnola “Hola”. Rigau avrebbe rotto il fidanzamento poco prima delle nozze pur dichiarando che “la amerà e la rispetterà sempre”. Di opinione opposta Gina Lollobrigida, che lo accusa di essere un truffatore. Intervistata nel 2019, l’attrice ha spiegato che sarebbero stati alcuni suoi amici a farla rinsavire: “Sentendo gli amici che mi mettevano in guardia, mi sono detta: ma cosa sto facendo? E ho annullato tutto”. La situazione diventò ancor più complessa nel 2011, quando il quotidiano spagnolo El Mundo rivelò che la diva e Rigau si erano sposati segretamente a Barcellona nel novembre del 2010. In chiesa era presente solo l’imprenditore catalano. Ha dichiarato di aver visto la diva mentre era in clinica.

Adriano Aragozzini, l’amico

L'amico Adriano Aragozzini è stato tra gli ultimi a uscire dalla camera ardente in Campidoglio in memoria di Gina Lollobrigida, morta il 16 gennaio. Aragozzini avrebbe chiesto di vedere l'attrice in clinica ma gli sarebbe stato negato il permesso dall’ex marito.

Andrea Piazzolla, tuttofare

Andrea Piazzolla era il tuttofare e amministratore delegato della società” Vissi d’arte” di Gina Lollobrigida. È diventato famoso per il processo nel quale risulta imputato per circonvenzione d’incapace con l’accusa di aver venduto molti beni dell’attrice, che però ha sempre difeso l’operato del suo assistente.

Francesco Ruggiero, medico

Il cardiologo di Gina Lollobrigida, il dottor Francesco Ruggiero, ha smentito quanto raccontato dall’ex marito della diva, Francisco Javier Rigau, che aveva dichiarato di essere riuscito ad incontrarla prima che lei spirasse e fosse riuscito a salutarla. “Sul fatto che si sia spenta serenamente questo lo voglio dire, effettivamente era già incosciente da almeno un paio di giorni, quindi non si è accorta fortunatamente del trapasso finale. Io mi sono dovuto trattenere per una serie di incombenze sanitarie e amministrative che mi spettavano come curante e cardiologo. Il signor Rigau è arrivato circa un’ora e mezza dopo il decesso” ha detto a La Vita in Diretta

Il cardiologo di Gina Lollobrigida: «Mi disse "mio figlio non deve avere nulla. Vendo tutto"». Maria Rosa Pavia su Il Corriere della Sera il 20 Gennaio 2023.

Al processo che vede imputato il factotum Piazzolla, il medico Francesco Ruggiero ricorda le confidenze della diva: «Non nutriva stima per figlio e nipote». La madre dell'ex assistente: «Bonifico da 271mila euro? Un regalo»

Una Gina Lollobrigida madre ferita e vendicativa. Questo il ritratto della diva, morta il 16 gennaio a 95 anni, che emerge dalle dichiarazioni del suo cardiologo. Il medico Francesco Ruggiero - nelle testimonianze rese in aula a Roma nel processo che vede imputato per circonvenzione di incapace l'ex factotum, Andrea Piazzolla - ha, infatti, affermato: «Al termine delle visite, in più di un'occasione, Gina Lollobrigida mi disse "mi voglio vendere tutto, mio figlio non deve avere nulla"». 

Nel processo in cui Piazzolla è accusato di aver sottratto beni dal patrimonio dell'attrice tra il 2013 e il 2018, il cardiologo ha aggiunto: «Erano confidenze che mi faceva quando terminavo le visite e varie volte faceva riferimento al fatto che il figlio Andrea Milko Skofic (parte civile nel processo) fosse lontano e non lì ad accudirla. 

La conoscenza tra lo specialista Ruggiero e la Lollobrigida risale a una decina d'anni fa quando Piazzolla la condusse nel suo studio per una visita dopo un malore. Il rapporto medico-paziente è durato nel tempo: «Da allora ho continuato ad assisterla, una volta ogni 15 giorni, ed ero informato quotidianamente sul suo stato di salute. In seguito ebbe un paio di scompensi cardiaci e nel 2017 fu ricoverata».

E riguardo al rapporto tra la Lollo e l'imputato, il medico ha affermato: «Era sempre Piazzolla ad accompagnarla, il figlio e il nipote venivano in seguito a trovarla ma lei non voleva far sapere le sue condizioni di salute e spesso dovevo mediare io con loro». Il cardiologo, nel corso degli anni, era diventato un amico per l'artista, tanto da diventare un ospite fisso alle feste di compleanno e ai veglioni di San Silvestro tenuti nella villa sull'Appia Antica della Lollobrigida. 

Il camice bianco affonda il coltello ricordando i dissidi familiari della compianta attrice: «Ricordo che lei non nutriva stima nei confronti del figlio e del nipote e me lo ha esternato varie volte, anche in maniera colorita. Con Piazzolla aveva un rapporto di collaborazione, anche affettivo, per lei era come un nipote acquisito». E riguardo alle facoltà mentali dell'artista ha osservato: «La "bersagliera" era caparbia, ma era totalmente in grado di intendere e di volere»

Anche Concetta Cinque, madre dell'imputato Andrea Piazzolla e testimone assistito perché indagata per riciclaggio in un procedimento connesso, ha parlato al processo del rapporto che legava il figlio alla diva internazionale: «Andrea si affezionò alla signora Lollobrigida. In questi anni non è mai andato in vacanza, stava sempre con lei, anche a Natale e Pasqua perché ci diceva che era sola». La donna, in aula, ripercorre le fasi della frequentazione tra i due: «Si conobbero intorno al 2011, Andrea sostituì la figura della nonna che aveva perso da poco con la signora Lollobrigida. Lei era estasiata dalla sua compostezza ed educazione e lo prese in simpatia». 

Concetta Cinque ha confermato di avere ricevuto dalla Lollobrigida un bonifico di 271mila euro sul conto cointestato con il marito. Un dono, dice: «Volle fare un regalo ad Andrea che non aveva conto corrente e quindi lui ci chiese se poteva accreditare quella somma sul nostro conto. Mio figlio mi disse che la signora gli diede quei soldi per permetterci di estinguere il mutuo e fare studiare il fratello Luca. La chiamai per ringraziarla e lei mi disse: sono io a ringraziare Andrea per l'amore e l'affetto che mi dà».

Estratto dell'articolo di Matteo Fantozzi per screenworld.it il 18 gennaio 2023.

Anna Marchesini ha imitato Gina Lollobrigida tantissime volte lungo la sua carriera, tra gli episodi da ricordare c’è sicuramente il loro epico incontro a teatro. Nel 1989 la prima recitava nello spettacolo Allacciare le cinture di sicurezza, e tra i suoi personaggi interpretava anche la Lollo, mentre la seconda era in platea, con altri spettatori.

 La Lollobrigida è stato un vero e proprio cavallo di battaglia per la Marchesini, che molto spesso ha ripetuto l’imitazione della star. Nel 1989 […] durante la sua interpretazione la comica si è resa conto della presenza in sala come spettatrice dell’attrice e così ha deciso di lasciare l’interpretazione per correre a salutarla. Le due si sono abbracciate e baciate con affetto e Anna ha esclamato una frase destinata a entrare nella storia: “Siamo sorelle di latte!”.

Anna Marchesini interpretava lo spettacolo Allacciare le cinture di sicurezza insieme a Tullio Solenghi e Massimo Lopez con i quali formava Il Trio un gruppo comico in grado di trovare straordinari consensi tra pubblico e critica.

 Gina Lollobrigida si è dimostrata sempre molto divertita per le imitazioni di Anna, in grado di lasciare il segno nella televisione e nello spettacolo più in generale. […]

Estratto dell'articolo di Flavia Fiorentino per roma.corriere.it il 19 gennaio 2023.

Tantissimi fan in piazza del Popolo davanti alla chiesa degli Artisti per l’ultimo saluto a Gina Lollobrigida. L’entrata presidiata dai carabinieri impedisce a cittadini e ammiratori di entrare in chiesa […]

 In prima fila, come era accaduto ieri per la camera ardente in Campidoglio, il figlio Milko Skofic e il nipote Dimitri accanto all’ex marito catalano Francisco Javier Rigau. In seconda fila, inaspettatamente, c'è Andrea Piazzolla, il suo factotum a processo per il reato di circonvenzione di incapace della «bersagliera» […].

 Al termine della funzione, Piazzolla, è stato fatto uscire da un ingresso secondario della chiesa. La messa è officiata da don Walter che ha ricordato la vita della grande attrice […]

A rendere omaggio a Gina Lollobrigida anche Mara Venier, Barbara Bouchet, Rossella Brescia e l'attore di Beautiful, Daniel McVicar. Anche oggi, come nella camera ardente in Campidoglio, a renderle l'ultimo saluto c'è una rappresentanza dei bersaglieri. […]

 Infine il commosso  ricordo di Adriano Aragozzini, amico dell’attrice ed ex patron di Sanremo: «Ho girato tutto il mondo con Gina: Australia, Giappone Spagna, a NY andammo allo show di Dean Martin, poi Messico, Argentina e Perù dove, per caso, nel nostro hotel, lei incontrò i primi tre astronauti che andarono sulla luna e tra loro nacque un’amicizia».

Poi prosegue: «L’ho vista sofferente nell’ultimo periodo della sua vita, pochi giorni prima di morire mi ha detto: "Perché da chi mi aspettavo amore mi hanno fatto tanto male?"». Poi Aragozzini ha voluto concludere  con una frase piuttosto allusiva «Oggi dunque o io mi sento di ringraziare chi le è stato vicino per renderle la vita più bella».

(ANSA il 22 gennaio 2023) - Gli ultimi anni di Gina Lollobrigida "sono stati un incubo, un inferno". Andrea Piazzolla, ex assistente e factotum di Gina Lollobrigida, morta nei giorni scorsi, al centro delle polemiche con la famiglia dell'attrice e sotto processo a Roma con l'accusa di circonvenzione di incapace, è stato protagonista di una lunga intervista a Domenica in.

 Nel salotto di Mara Venier - che ha ospitato anche Giovanna Ralli, Adriano Aragozzini, l'avvocato Antonio Ingroia e il cardiologo che ha curato la 'Lollo' negli ultimi anni, Francesco Ruggiero - Piazzolla ha parlato del suo rapporto con l'attrice, della difficile relazione di Gina Lollobrigida con il figlio, Andrea Milko Skofic, e della controversa vicenda del matrimonio con lo spagnolo Francisco Javier Rigau.

Con il figlio, ha spiegato Piazzolla, "il rapporto non è mai stato molto facile. Milko aveva questa mamma molto famosa, non la aveva tutta per lui, e questo ha causato qualche problema. D'altra parte Gina era una donna dal carattere molto, molto forte, non è mai scesa a compromessi, dava il massimo, voleva il massimo. Non sono riusciti mai a prendersi".

Il primo incontro con l'attrice nel 2009, dal 2012 la frequentazione sempre più intensa, dal 2013 "è iniziato l'incubo, quando abbiamo scoperto il matrimonio per procura dello spagnolo". Milko "non ha mai accettato di chiarirsi con la madre e si è schierato completamente con Rigau", da lì "è iniziata una assurda serie di cause".

 "La cosa più grave - ha detto Piazzolla - e mi assumo la responsabilità di quello che dico, è che c'è una parte di giustizia per bene, un'altra parte che fa acqua da tutte le parti. Ho rispetto per la giustizia, ma credo che sia mancato il rispetto per Gina. Se una persona sta benissimo, come le si può togliere un avvocato? E imporle come avvocato il compagno dell'associata dello studio che difendeva Milko, il figlio Dimitri e Rigau che a sua volta nomina come consulente lo stesso consulente di Rigau?

Gina con tutte le forze ha provato a fare ricorsi, ma era una sorta di lotta contro i mulini a vento. Chiese di cambiare l'amministratore di sostegno, ma il giudice ha messo una persona tra Gina e l'amministratore di sostegno. Come mai quando le persone hanno realmente bisogno, i tempi della giustizia richiedono sei mesi, un anno... E invece, quando lui chiedeva una cosa, il giorno dopo arrivava il decreto".

Piazzolla ha anche rievocato, commuovendosi, le ultime settimane di vita dell'attrice, la caduta, l'operazione al femore, i problemi di cuore, il ricovero. Ingroia, che ha ribadito a più riprese come Gina Lollobrigida non fosse affatto "manipolabile", ha mostrato il documento della scrittura privata siglata nel 2006 tra l'attrice e Rigau in base alla quale il matrimonio tra i due "doveva essere solo canonico, senza effetti civili né patrimoniali, in totale separazione dei beni. Entrambi si impegnavano e non trascrivere mai l'unione per gli effetti civili. In caso di violazione della clausola è prevista, per gli eredi, la possibilità di impugnarla e di chiedere danni per 2 milioni".

Sul web, intanto, è polemica. C'è chi parla di scelta "inqualificabile", di intervista "senza contraddittorio" di "narrazione patetica". E chi sottolinea che la Lollo "poteva essere ricordata per la sua grande carriera più che per la vita privata dell'ultimo periodo che appunto doveva rimanere tale, cioè privata".

 Nella lunga intervista, Piazzolla ha ricostruito gli ultimi giorni di Gina Lollobrigida: "Credo fosse martedì scorso, anche se posso confondere i giorni. E' andata a fare una tac in ospedale, l'ho accompagnata io, e l'avevo chiesta senza mezzo di contrasto. Ma in ospedale il medico ha detto 'va fatta per forza con il contrasto'.

Il mio rimpianto è di non essermi imposto in qualche modo... da quello che si è capito, il contrasto le ha bloccato i reni. La sera siamo tornati a casa e non urinava, sono andato in allarme ed ho chiamato subito tutti quelli che potevo chiamare, ma mi hanno detto che non c'era più nulla da fare. Non lo accettavo, quindi d'accordo col professore l'abbiamo subito ricoverata. Se ero pronto a donarle un rene? Le avrei dato i miei anni, le avrei dato tutto, non solo un rene, pur di vederla".

Domenica In, bomba-Ingroia sulla Lollobrigida: "Rispose male al giudice. E..." Libero Quotidiano il 22 gennaio 2023

Si è parlato tanto di Gina Lollobrigida a Domenica In, su Rai1. Nel salotto di Mara Venier è intervenuto anche Antonio Ingroia, che era il difensore dell’attrice. “Solo chi non l’ha conosciuta può sostenere che fosse manipolabile - ha esordito - uno dei motivi per cui il giudice tutelare ha applicato l’amministratore di sostegno a Gina è un atto di ribellione da parte sua al giudice”. 

Ingroia ha spiegato cos’è accaduto in quella circostanza: “Tutto nacque quando lui la interrogò e le chiese a quanto ammontasse il suo patrimonio e dove fossero i suoi beni. Gina Lollobrigida gli disse ‘basta, non rispondo a queste domande’. Quel giudice ha fondato su questo rifiuto la convinzione del fatto che lei non fosse consapevole del suo patrimonio e questo ha causato l’applicazione dell’amministratore di sostegno”. Quindi Ingroia ha dichiarato che, nel caso della Lollobrigida, la giustizia “si è rivelata un muro di gomma”. 

Io come suo avvocato - ha aggiunto - ho cercato anche di partecipare attivamente al processo in cui Andrea Piazzolla è imputato per circonvenzione d’incapace, essendo legale scelto da Gina Lollobrigida, ma l’avvocato c’era già ed era stato scelto dall’amministrazione di sostegno”. Infine Ingroia ha sottolineato che “abbiamo fatto ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo contro l’amministratore di sostegno, ma la risposta pervenutaci diceva che la Corte Europea non poteva intervenire su una questione sulla quale aveva assunto una decisione la magistratura italiana”.

Testo di Masolino D'amico, tratto da “Claudia Cardinale. L’indomabile” (ed. Cinecittà Electa) e pubblicato da “La Stampa” il 23 gennaio 2023.

 Io l'ho vista per primo. O quasi. Fu sulla spiaggia del Lido di Venezia, una fine mattinata del settembre 1957.

 La Mostra del Cinema era in pieno svolgimento. Ci ero venuto (avevo poco meno di diciott'anni) con mia madre Suso Cecchi d'Amico.

 Lei era coinvolta non solo nella sceneggiatura ma anche nella produzione di un film in concorso. con tre amici ciascuno più motivato di lei: Luchino Visconti, che a corto di offerte dopo il fastoso ma finanziariamente rovinoso Senso voleva dimostrare di poter dirigere anche un piccolo film a basso costo; Marcello Mastroianni, che voleva dimostrare di essere all'altezza di interpretare un personaggio «serio»; e Franco Cristaldi, giovane e intraprendente produttore, che voleva fare il salto di categoria e affermarsi nel cinema di qualità. Il film si chiamava Le notti bianche, e benché poi non facesse grandi incassi al botteghino, raggiunse gli scopi che i coproduttori si erano prefissi.

 Comunque quella mattina sulla spiaggia eravamo seduti in tre a guardarci intorno, in attesa della proiezione decisiva in programma per la sera.

 Uno ero io; uno era Cristaldi; e il terzo era Pietro Notarianni, direttore di produzione e soprattutto mentore nonché eminenza grigia di Cristaldi… uno di noi, forse proprio io, notò che a qualche distanza, sulla battigia – noi eravamo indietro, sui lettini delle cabine – che un piccolo gruppo di fotografi attorniava una ragazza. Carina? Vagamente incuriositi, ci avvicinammo per guardare meglio, ma tenendoci in disparte.

 Io lei me la ricordo benissimo. Altro che carina. Era splendida, anche di giovinezza. Bruna, sorridente, allegra.

Indossava un due pezzi verde smeraldo, e sembrava prendere quel piccolo mitragliamento di clic come un gioco. Rideva e assumeva volentieri le pose richieste.

 Non cercava affatto – adesso me ne rendo conto con chiarezza – di essere sexy, forse nemmeno attraente.

 Era contenta di trovarsi lì, tra persone ben disposte, in riva al mare, sotto un bel sole. Una futura star? Non lo avrei previsto, e, ripensandoci, forse posso spiegarmi perché.

 Sempre a quella età mi capitò talvolta di incrociare qualcuna delle dive più seducenti di allora – Simone Signoret, Jeanne Moreau, Ava Gardner, Brigitte Bardot – e mi ricordo lo sguardo di quelle dame. Quello sguardo ti metteva a disagio.

 Era come un avvertimento. Ti trovavi davanti a una belva capace di tramortirti, se ne avesse avuto voglia, con una zampata. Insomma, erano femmine con cui non si scherzava.

Claudia si proponeva in un modo completamente diverso. E sotto questo aspetto, ecco dove voglio arrivare, non sarebbe cambiata mai più.

 Certo sapeva di essere bella, ma sembrava non dar peso alla cosa – non pensava minimamente ad approfittarsene. Si trovava bene nella sua pelle e per gli altri nutriva una indifferenza piena di buonumore.

 Lei non guardava te, eri tu che guardavi lei. E lei era, beninteso, una gioia per gli occhi. Comunicava ottimismo.

 Niente di torbido! Come una giornata radiosa. Come un tuffo nell'acqua fresca. Naturalmente allora nessuno di noi tre passanti captò tutto questo. E nessuno di noi, io certo meno di tutti, poteva immaginarsi quanto quella creatura fosse nata per lo schermo. Tuttavia Cristaldi si ricordò di dover recitare la parte del produttore, e mentre ci allontanavamo disse a Notarianni: «Quella ragazza sembra interessante, si informi, magari si faccia dare un recapito».

Caso Lollobrigida, il romanzo popolare costruito da Mara Venier. Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 23 Gennaio 2023.

Nel suo salotto di Rai1, la conduttrice ha ripercorso gli ultimi anni di vita dell’attrice secondo la logica degli sceneggiati tv

Se Stefano Colletta mettesse assieme tutte le puntate che Mara Venier ha dedicato a Gina Lollobrigida riuscirebbe finalmente a realizzare quel grande romanzo popolare che sognava Angelo Guglielmi: la tv che riscrive il feuilleton attingendo dalla realtà non con la mediazione astratta delle parole ma con le immagini. Domenica è stato un trionfo: ricordi, indignazioni, lacrime, di tutto un po’. Nel suo salotto di Rai1, Mara Venier ospitava Giovanna Ralli, Antonino Ingroia (l’ex pm del processo trattativa Stato-Mafia e poi avvocato della Lollo), il prof. Francesco Ruggiero, cardiologo della «Bersagliera», Adriano Aragozzini e Andrea Piazzolla, il giovane che ha amministrato la società della Lollo «Vissi D’Arte». Altri interpreti non presenti ma evocati: il figlio Milko Skofic, i cui i rapporti con la madre si sono guastati, il nipote Dimitri , il catalano Francisco Rigau, accusato di aver sposato la Lollo con l’inganno ma presente ai funerali.

Come le grandi dive, Gina ha trasformato gli ultimi anni della sua vita, il suo «Sunset Boulevard», in una grande film che l’amica Mara si è incaricata di mandare in onda a puntat e, secondo la logica degli «sceneggiati» tv. C’è un matrimonio per procura poi disconosciuto, c’è la lite con il figlio, c’è il figlio che accusa Piazzolla di aver stipulato contratti di acquisto di auto e moto di lusso, tra cui Ferrari, Mercedes e Ducati, c’è la Cassazione che ha sancito un amministratore di sostegno , contro la volontà dell’attrice. E c’è molto altro ancora, tra cui un testamento. Mara interpreta un duplice ruolo, quello della narratrice e quello della giustiziera per costruire una narrazione avvincente e canonica, alimentando le fantasticherie del «lettore del popolo», «inteso come colui che, affetto da complesso di inferiorità sociale, si culla in fantasie su concetti di vendetta e punizione dei colpevoli di mali sopportati» (Gramsci).

Estratto dell’articolo di Francesca D'Angelo per “la Stampa” il 26 gennaio 2023. 

(...) 

Tra i suoi successi, possiamo includere la puntata dedicata alla Lollo lodata dai critici tv?

«Non mi pare vero: ci ho impiegato 40 anni, ma ce l'ho fatta! Comunque, quella puntata, la dovevo alla Lollo. Volendo molto bene a Gina e conoscendo parecchie cose di lei, più di tanti che parlano a vanvera, ho raccontato chi era attraverso le immagini: lì Gina era testimone di se stessa. Il testamento che ha lasciato a Domenica In racconta i fatti. Punto».

 L'ultimo desiderio della Lollo era di morire in pace. Il circolo mediatico le concederà questo lusso?

«Me lo auguro. Io quello che dovevo dire l'ho detto: ora basta. Non ci tornerò più su perché, da qui in poi, tutto rischia di diventare gossip. Gina ha il diritto al silenzio e al rispetto».

È vero che si è beccata una denuncia?

«Sì, dal Signore Spagnolo, come lo chiamo io: ha denunciato tutti, per via dell'intervista rilasciata a Domenica In da Gina. Come vede, però, non me so' spaventata tanto! (ride)».

 Anche lei ha un passato d'attrice: mai tentata di tornare sul set?

«Per carità! Ferzan Ozpetek - regista che amo alla follia! - mi corteggia da ben due anni per avermi in un suo film. Tuttavia, conducendo Domenica In, non avrei il tempo materiale per dedicarmi al cinema e, forse, non sarei nemmeno più all'altezza».

 Molte attrici hanno denunciato di essere state vittime di molestie : a lei è successo?

«Be', ero bella e giovane: qualcuno ci ha provato ma me la sono sempre cavata da sola. Ho puntualmente reagito, anche in maniera molto forte! Alle ragazze di oggi dico: un conto il corteggiamento o l'avance invadente, ma quando si parla di violenze e abusi bisogna immediatamente denunciare. Seduta stante».

Estratto dell’articolo di Elvira Serra per corriere.it il 24 gennaio 2023.

È stato reso noto questa mattina alle ore 13 il testamento di Gina Lollobrigida. Il notaio Barbara Franceschini ha comunicato agli eredi e ai legatari le volontà dell’attrice scomparsa il 16 gennaio scorso all’età di 95 anni.

 La Bersagliera, nel rispetto della legge, ha lasciato metà del patrimonio al figlio Andrea Milko Skofic e l’altra metà all’assistente Andrea Piazzolla, diventato per lei negli anni una sorta di «figlioccio»: vivevano insieme dal 2015 e pur non essendo un parente lui accudiva la diva nella quotidianità e l’accompagnava agli eventi mondani, nelle uscite pubbliche e durante le cene o i pranzi con la cerchia di amici dell’attrice.

[…]  Il testamento è stato redatto il 5 gennaio 2017, alla presenza di due testimoni: esecutore testamentario è l’avvocato monegasco Bernard Bensa. L’attrice, oltre al patrimonio da dividere in due parti uguali tra il figlio e Piazzolla, lascia anche un trust con le sue opere d’arte sempre ad Andrea Piazzolla e all’imprenditore Horacio Pagani, con l’onere però «di far conoscere e valorizzare» la sua «attività artistica» attraverso «la promozione e l’organizzazione» di mostre delle sue opere nel mondo. L’attrice protagonista di film celebri come «Pane, amore e fantasia», infine, lascia anche allo Stato italiano la sua collezione di vasi etruschi (circa un centinaio).

Si chiude così (per adesso) il toto-testamento, che aveva visto balenare il nome dell’imprenditore catalano Javier Rigau […], presente ai funerali della Bersagliera in prima fila, accanto al figlio e al nipote. Rigau e Lollobrigida, peraltro, avevano firmato una scrittura privata nel 2006 […] nella quale si impegnavano tra le altre cose a mantenere distinti i propri patrimoni e a non rivendicare alcunché in caso di separazione. Rigau dichiara di aver registrato quel matrimonio, contravvenendo agli impegni presi per iscritto nell’accordo del 2006: ai Tribunali il compito di verificarne l’autenticità.

Andrea Piazzolla, l’assistente della Lollobrigida: «Il testamento? Non terrò nulla per me. Oggi c’è l’udienza del processo: sono sereno». Elvira Serra su Il Corriere della Sera il 25 gennaio 2023.

Il braccio destro Andrea Piazzolla: ciò che mi ha lasciato lo conferirò al Trust delle sue opere da lei voluto. Voglio realizzare i suoi desideri, mi manca tanto. È stato un onore esserle vicino

Andrea Piazzolla, si aspettava di essere citato nel testamento di Gina Lollobrigida?

«No, è un argomento al quale non ho mai voluto partecipare. Soprattutto non ho mai creduto che potesse accadere che Gina se ne andasse. Anche adesso non l’ho realizzato, spero ancora di ritrovarmela da qualche parte».

È andato al suo funerale.

«Sì, lo so. Ma il fatto di non aver voluto assistere alla sua fine in clinica per me è stata un’autodifesa. Mi manca tanto, spero che qualcosa di magico possa accadere».

Avrà la possibilità di fare qualcosa per lei, attraverso il Trust delle sue opere.

«Beh, Horatio Pagani viene prima di me: è un uomo di grande esperienza e io posso solo imparare con lui».

Lo conosce?

«Certo che lo conosco e confermo che vuole molto bene a Gina. Glielo ha manifestato in forme concrete, anche di recente».

Lollobrigida le ha lasciato la metà del suo patrimonio. Cosa intende farne?

«L’unica cosa giusta: la parte patrimoniale deve essere messa a disposizione del Trust, l’ho sempre detto dopo la sua scomparsa: se mai mi avesse lasciato qualcosa, l’avrei utilizzato per realizzare i suoi desideri. Ho avuto il piacere di starle vicino in questi ultimi dodici anni. Anzi: lei mi ha onorato di starle vicino. Ha pensato di fare un regalo a me e io voglio rifarlo a lei: senza di lei non ha più senso niente, ma desidero vedere realizzati i suoi desideri. Lo stesso chiedo al figlio».

Che cosa?

«Di rispettare la volontà della mamma, che lui conosce, e di mettere anche la sua metà di patrimonio per il lavoro della madre».

Beh, questo Gina Lollobrigida non lo ha chiesto. E comunque non è da escludere che Milko Skofic decida di impugnare il testamento.

«Se lo facesse sarebbe l’ennesima prova che non ha rispetto verso la madre».

Vuole ricordarci quando vi siete conosciuti?

«Nel 2009 al Cnel, ci presentò il suo ex avvocato».

Oggi è prevista una nuova udienza in Tribunale nel processo che la vede imputato per circonvenzione di incapace. È preoccupato?

«No, il mio stato d’animo è sereno. Io non ho mai preso nulla a sua insaputa dalla sua casa o dal suo patrimonio».

Ha chiamato sua figlia Gina.

«Gina piccola ogni mattina e ogni sera andava a salutare la zia Gina. È una delle poche cose che mi sta dando forza».

Gerardo Grana per larazon.es del 2 febbraio 2019

L'uomo d'affari ha annullato il suo terzo tentativo di sposare Lollobrigida perché i media ne hanno parlato e l'hanno definita una ninfomane e una "panterona". L'ultimo film interpretato da Luigina Lollobrigida, 92 anni, e Javier Rigau, che compie 58 anni questo mese, è stato realizzato per 43 anni. La loro relazione è stata circondata da passione, amore, matrimoni e cause legali in parti uguali e non è ancora finita.

 Una settimana fa è stato detto che Papa Francesco aveva accettato di concedere loro l'annullamento del matrimonio dopo 8 anni e due mesi di matrimonio con la Chiesa (29 novembre 2010), ma nemmeno su questo punto le parti hanno raggiunto un accordo. Da un lato, "la donna più bella del mondo" ha dichiarato venerdì scorso al quotidiano "Corriere della Sera" di essere felice perché "finalmente! La verità doveva venire a galla. E poi, il fatto che sia stato proprio il Pontefice a firmare la sentenza di annullamento mi riempie ancora di più di gioia.

Quell'individuo - riferendosi all'ormai ex marito - non potrà fare pubblicità a mio nome, ma soprattutto perché ha messo in dubbio la mia credibilità e i diritti avanzati che non ha sulla mia eredità". Come LA RAZÓN ha appreso da un avvocato italiano, è impreciso parlare di annullamento del matrimonio "per inesistenza", come sostiene l'attrice, ed è possibile parlare di annullamento in caso di dispensa papale da parte del Tribunale della Rota Romana.

Questo è quanto ci ha detto al telefono l'imprenditore, che insiste sul fatto che "il Papa ha ritenuto opportuno prendere una decisione salomonica". Sentendo una sola delle parti e in considerazione della sua età avanzata, gli ha concesso una dispensa per annullare il matrimonio, riconoscendone però la piena validità fin dall'inizio". A parte il fatto che nei due processi a cui Rigau è stato sottoposto, uno in Spagna e l'altro in Italia, hanno archiviato le cause contro di lui convalidando il matrimonio, in uno dei quali hanno dichiarato la sua innocenza "con formula piena".

Sesso e poi amore

Dopo tante vicissitudini, e grazie ai documenti a cui questo giornale ha avuto accesso, una storia iniziata nel 1976, quando Rigau aveva 15 anni, minorenne, e l'attrice veterana 49, è almeno in parte conclusa. La persona che dal 1958 si occupava della casa dei coniugi Rigau, e che nel corso degli anni è diventata la tata dei bambini e una seconda madre, ha dichiarato davanti a un notaio che a metà degli anni '70 "la Lollo" faceva continui viaggi a Barcellona perché si era infatuata di Javier, che aveva solo 15 anni.

Così, si recavano spesso nella casa di famiglia "Gelida", in montagna, a 30 chilometri dalla città. Il tata e i due servi erano "consapevoli della vera natura della loro relazione", nonostante i 34 anni di età che li separavano. "Si trattava di rapporti sessuali completi e questo è stato confermato quando la camera da letto e il bagno utilizzati da entrambi dovevano essere sistemati dal servizio", continua la dichiarazione di questa donna, che a 95 anni ha voluto mettere per iscritto questa rivelazione.

Lo stesso Javier Rigau ha confermato questa relazione: "È una cosa che sapevano in molti in Spagna e in mezza Roma. L'ho sempre tenuto segreto. Quando ho annullato unilateralmente il matrimonio, organizzato a Roma nel 2007, l'ho fatto perché sia in Italia che in Spagna i media hanno iniziato a dire che avevamo iniziato a dormire insieme quando ero minorenne. L'hanno chiamata "panterona", ninfomane, spudorata e ogni sorta di cose. Sì, era noto, e lo confermo: sì, abbiamo dormito insieme dall'età di 15 anni, lei veniva a trovarmi.

Non spiego questo problema per vittimizzarmi, perché mi sono divertita moltissimo e ho avuto il mio consenso". E a parte il fatto che il rapporto è stato sciolto, l'imprenditore chiarisce che "nei contratti di matrimonio è specificato che non devo dirlo se non per giusta causa; quando sono stato denunciato penalmente per essermi sposato senza saperlo, c'è una giusta causa. Questa signora è stata presente per il 75% della mia vita. Non posso mai dire nulla di male su di lei".

Ora c'è l'ultima mezz'ora di questo film, in cui Rigau, il figlio dell'attrice, Milko, e il nipote Dimitri hanno intentato una causa congiunta contro Andrea Piazzolla per "Circonvenzione di incapace", che significa "che alcune persone hanno usato una tecnica di persuasione della mente che l'ha lasciata come un cucciolo". Non vogliono che il piccolo patrimonio di Gina venga sprecato. Entro l'estate, tutti gli attori di questo dramma dovranno incontrarsi nuovamente per risolvere la questione finanziaria.

Javier Rigau festeggia la decisione della Sacra Rota e le sentenze dei processi e ora forma una famiglia insieme alla sua, ma dall'altra parte di una causa, e, nonostante ciò, assicura che "ricorderò Gina con molto affetto e amore". Le ho sempre detto che mi amava più di quanto io amassi lei. Una donna della sua natura elementare, se ha detto di essere innamorata di me e ha organizzato un matrimonio e un altro e un altro ancora, riflette i suoi sentimenti".

Michele Ardengo per ilgiornale.it – 6 febbraio 2016

"Ero in un momento brutto della mia vita, avevo dei problemi, volevo cambiare pagina. Poi capii che stavo sbagliando, ci ripensai, chiamai Rigau al telefono e gli dissi che non intendevo più fare nulla". Così Gina Lollobrigida, 88 anni, stella del cinema anni '50, ha raccontato in tribunale a Roma perché pensò di sposare Francisco Javier Rigau, spagnolo di 42 anni più giovane.

 L'uomo è accusato di truffa perché secondo l'accusa le nozze del 2012 sarebbero state false e Rigau avrebbe fatto firmare all'attrice una finta procura per sposarsi in Spagna. Da questo documento avrebbe conseguito un ingiusto profitto con l'acquisizione dello status di coniuge e dei diritti relativi, sostiene il pm.

 Il Daily Mail, senza citare alcuna fonte, ha rivelato che Rigau avrebbe dichiarato che le prime parole italiane che la Lollobrigida gli ha insegnato sono state: "Stiamo assieme e scopiamo".

"Io e Rigau eravamo due estranei, non c'era alcuna intimità - ha dichiarato la diva in aula - lui era pure sin troppo discreto, ci vedevamo solo in occasioni pubbliche. Ma io lavoravo a Roma, e lui stava a Barcellona. Quando gli dissi al telefono che non se ne faceva niente, la mattina dopo un'agenzia di stampa spagnola mi chiamò per commentare la notizia della rottura delle nozze, dicendo che era stato lui a chiudere".

 "Per parecchio tempo Rigau - ha aggiunto l'attrice -ha cercato di convincermi a cambiare idea. Continuava a dire che era ricco, che aveva questo e quest'altro. Nel 2010 mi fece vedere persino un testamento in cui diceva che, essendo sofferente di cuore, voleva lasciare tutto a me e niente alla sua famiglia".

Sonia Bedeschi per ilgiornale.it – 17 gennaio 2023

Sorridente, avvolta in un elegante vestito rosso, perfetta nel trucco fatto con le sue mani. Gina Lollobrigida ci ha aperto le porte di casa per raccontarsi in una lunga e accorata intervista, sperando che le sue parole un giorno vengano ascoltate.

 Come ha conosciuto il suo presunto marito Javier Rigau, con cui si sarebbe sposata a sua insaputa?

«Quando ho conosciuto Javier Rigau vivevo a Montecarlo e lui veniva alle feste importanti, dopo parecchio tempo me lo hanno presentato, ero sola, e nel 2005 mi ha accompagnato lui. Non avevo notizie sul suo conto. È un uomo malato di pubblicità. Sappiamo che la televisione italiana vive di pubblicità e con me naturalmente era felice perché il personaggio gli piaceva. È un uomo che sul mio conto ha detto solo bugie, anche quando sogna dice bugie».

Bugie che lei avrebbe scoperto dopo alcune ricerche in Spagna, dove lo scorso anno è stato pubblicato il libro-bomba Jaque a un estafador scritto da Cesc Santandreu, che racconta le truffe messe a segno da Rigau ai danni di facoltose signore spagnole. Un uomo quindi che nasconde un passato da truffatore e che ha infangato il suo nome?

«È un uomo che ha fatto male a tante persone, lui non mi ha mai sfiorato con un dito, non sono mai rimasta incinta e non ho mai voluto sposarlo e, confermo, non sono sposata con lui. Spero che questo libro uscito in Spagna possa essere letto anche da qualche giudice in Italia».

Parliamo del suo difficile rapporto con suo figlio Milko.

«Ho fatto di tutto per evitarlo, ma non ci stava più con la testa, era difficile parlare con lui, perché lui ha testimoniato contro di me ed è finito nella parrocchia di Rigau, il mio peggior nemico. Io ho cercato di educarlo al meglio ma invece di lavorare ha preferito giocare a tennis, in fondo non è riuscito a fare un lavoro serio.

 Litigava spesso con la moglie, Fantasia, quando abitavano proprio nella dependance accanto, si sentivano le urla fino a qui. Le ho comprato casa alla Camilluccia, ma dopo un po' di tempo se la sono venduta, cosa voleva un'altra casa?! Non è stato fortunato ad avere una persona irresponsabile vicino. Io l'ho educato con tutto l'amore che potevo ma non è servito».

 Cosa si augura per il futuro?

«Mi auguro che tutta questa pubblicità negativa che fanno i miei nemici finisca, vorrei vivere tranquilla in santa pace, lo sogno da tempo! Non è facile, soprattutto quando si è sotto i riflettori. Ogni giorno inventano qualcosa (ride)... Sono fortunate le persone che non sono sui giornali, in televisione, anonime, sogno questo purtroppo (ride)».

 Cosa vorrebbe dire al suo pubblico?

«Vi abbraccio tutti con affetto, mi avete dato la vostra simpatia, la vostra amicizia che mi ha commosso ed è durata tanto. Io avrei pensato che oggi andando così avanti avrei perduto amici, invece siete sempre qui, affettuosi verso di me, certo ho anche molti nemici ma per fortuna voi mi conoscete, e sapete che molte storie non sono vere perché io sono sempre quella di una volta con gli stessi desideri, buoni e non cattivi. Comunque vi auguro una felice vita, senza i pettegolezzi che mi perseguitano, e un caloroso abbraccio per la vostra fedeltà e amicizia che mi avete dimostrato, tanti auguri a tutti voi».

Gina Lollobrigida, spunta la carta privata: "Scritta in ospedale". Bomba su Rai 1. Francesco Fredella su Il Tempo il 24 gennaio 2023

Adesso si parla dell'eredità di Gina Lollobrigida, morta a 95 anni dopo una complicazione renale. La diva, al centro di una faccenda molto complicata che vede Piazzolla (suo factotum) contro il figlio, ha fatto testamento. La notizia arriva nel corso di "Storie italiane" su Rai1: una vera bomba di Eleonora Daniele. Che, in studio, invita Paola Comin (nota press agent di artisti del calibro di Alberto Sordi).

Lei racconta: "Gina mi chiamò, era in ospedale a causa - al Campus Biomedico di Roma - di una forte polmonite. Mi disse: forse non ce la faccio. Invece, per fortuna, superò quel momento drammatico. Il giorno dopo (rimasi la notte con lei mentre Piazzolla era andato a prendere nella villa gli effetti di Gina, mi chiese di restare perché sarebbe arrivato il notaio. Ha detto le sue volontà al notaio, ho firmato come testimone (c'era anche un'altra persona)", racconta la Comin. "Era il mese di gennaio".

La Comin non svela, ovviamente, il contenuto del testamento (che sicuramente non conosce). Ma la sua testimonianza è molto importante: una scrittura, redatta davanti ad un notaio romano in ospedale, esiste. Non si sa quando sarà aperto il testamento. L'avvocato Gentiloni Silveri, che difende Milko Skofic e Rigau, sempre in diretta annuncia, a proposito dell'eventuale impugnazione, dice: "Prima leggiamo quello che c'è scritto nel testamento. Se non sappiamo il contenuto..."

Estratto dell’articolo di Francesco Fredella per liberoquotidiano.it il 24 gennaio 2023.

Adesso parla Cesc Santandreu. E Rigau, l’uomo spagnolo che ritiene di aver sposato la Lollobrigida per procura, potrebbe tremare. Cesc vuota il sacco per la prima volta, concedendoci un’intervista esclusiva. Grazie a lui Gina Lollobrigida ha scoperto che era sposata con Javier Rigau a sua insaputa. Quindi Cesc Santandreu - che ha creato anni fa un sito web intitolato www.memoriasrigau.com” - potrebbe diventare un testimone chiave in tutta la complicata vicenda.

Infatti, Santandreu - imprenditore di professione - ha messo tutto nero su bianco in libro intitolato “Jaque a un estafador. La “vita scandalosa” di Francisco Javier Rigau Ràfols”: un volume di 460 pagine in cui racconta senza freni e senza filtri, con sentenze alla mano e documenti choc, la vita di Rigau.

 Sarebbero 76 le denunce collezionate nel tempo da Rigau, secondo Santandreu. Materiale scottante che potrebbe alzare un vero polverone, visto che Santandreu è stato legato da un’amicizia profonda con Rigau duranta ben 17 anni. Le sue dichiarazioni […] potrebbero dare una svolta a tutta la faccenda, alla vigila del processo contro Andrea Piazzolla (il factotum di casa Lollobrigida - accusato dal figlio della diva e da Rigau, estromesso dal processo, di aver circuito l’attrice 93 enne e di aver sperperato il suo denaro).

Cesc, il titolo del tuo libro è molto potente, giusto?

La definizione accademica del termine truffatore in Spagna è: "ottenere ricchezza attraverso una trappola o uno stratagemma, commettere un crimine attraverso l'abuso di fiducia o bugie". Attribuisco questa qualifica a Rigau come conseguenza degli eventi che quest'uomo ha realizzato durante la sua vita, i cui dettagli sono riportati nelle pagine del libro.

 Perché hai deciso di scrivere una pagina web su Rigau e poi questo libro, documentando in profondità truffe che Rigau avrebbe commesso […]?

[…] la maggior parte delle famiglie truffate da Rigau mi implorava di non fermarmi finché non avesse dimostrato la verità su ciò che era accaduto […] Sebbene la giustizia spagnola sia quasi sempre d'accordo con Rigau, la verità è che queste persone hanno subito truffe che, all'epoca, non erano documentate dalle vittime. Alcuni documenti importanti riprodotti nel libro non sono apparsi in questi tribunali e molte false testimonianze fornite da Rigau non potevano essere smascherate, cosa che sto facendo ora.

 Cesc, quando hai conosciuto Javier Rigau? Che tipo di relazione c’era tra voi?

La nostra relazione è stata professionale per 17 anni, dal 1994 al 2010. […] si sono verificati alcuni eventi che mi hanno portato a partecipare a una questione illegale a favore di Rigau, arrivando a un certo tipo di amicizia che, tra un costruttore e il suo cliente, potrebbe essere considerata insolita.

 Che tipo di partecipazione illegale intendi?

[…] in due diverse occasioni ho agito come falso testimone per favorire gli interessi illeciti di Rigau, sebbene nei tribunali in cui ho mentito in entrambe le occasioni abbiano finito per concordare con Rigau, sebbene in entrambi i processi avrebbe dovuto essere condannato per frode, per aver fornito documenti falsi e per aver utilizzato le mie false testimonianze in questi procedimenti.

 Una volta terminato il rapporto con Rigau e dopo che il sito web è apparso su Internet, come ha reagito?

Beh, chiedendo misure precauzionali in tribunale per rimuovere il sito Web della rete, che alla fine ha ottenuto. Nella successiva denuncia relativa al sito Web, sono stato assolto con giudizio in prima istanza per tutto il contenuto indicato, che in sostanza coincide con il libro. Per inciso, Rigau ha anche richiesto il sequestro precauzionale del libro, ma la sua richiesta è stata respinta. Entrambe le decisioni del tribunale ora mi permettono di parlare liberamente del libro.

 Rigau ti ha mai parlato di Gina Lollobrigida? Quando?

In 17 anni in cui sono stato vicino a Rigau, non ha menzionato Gina neppure una volta, tranne quando l'esclusiva è apparsa sulla rivista Hola alla fine del 2006 e quando mi ha informato che avrebbe sposato Gina il 29 novembre 2010 nella parrocchia di Barcellona di Sant Vicens de Sarrià. Mi ha fatto credere che fosse un matrimonio in segreto, ma con l'approvazione di Gina.

 E hai creduto a quello che ti ha detto?

[…] perché non avrei dovuto? Anche se l'ho trovato un po 'strano, visto che  Rigau non mi aveva più parlato di Gina negli ultimi quattro anni, dopo la cancellazione delle nozze nel 2006.

Quali altre confidenze ti ha fatto Rigau su Gina e che intenzioni aveva con lei?

Insisto sul fatto che, a parte le conversazioni che abbiamo avuto entrambi alla fine del 2006 e tra settembre e ottobre 2010, non mi ha mai più parlato di Gina. Inoltre non ho mai visto lui parlare al telefono con Gina […]

 Quali obiettivi specifici aveva Rigau riguardo a Gina?

L'obiettivo principale di Rigau nella sua vita è stato diventare il legittimo vedovo di Gina e che questa condizione gli ha permesso di essere conosciuto dai media di tutto il mondo, specialmente a livello di Hollywood. A qualunque prezzo e facendo tutto il necessario per raggiungerlo.

Per questo motivo, dopo aver confermato che Rigau aveva contratto un matrimonio ecclesiastico con Gina il 29 novembre 2010 a Sant Vicens de Sarrià e dopo aver scoperto che Gina Lollobrigida non aveva partecipato alla cerimonia, ho immediatamente dedotto che Rigau avesse perpetrato una nuova truffa nel suo curriculum criminale peculiare.

 Così a novembre 2011 ho presentato un reclamo in un tribunale di Barcellona per gli stessi eventi e ho fornito gli stessi dati che Gina ha denunciato in Italia nel 2013. A proposito, la mia denuncia a Barcellona ha finito per essere archiviata senza che nessuno della corte mi contattasse e dopo il tempestivo contributo di Rigau alla nuova falsa documentazione supportata da un ex avvocato di Gina. Sostegno trascendentale in modo che Rigau potesse salvare quella battuta d'arresto.

In Italia si è sempre pensato che Rigau fosse interessato all'eredità di Gina, è così o no?

[…] la questione di una possibile eredità era sempre qualcosa di secondario per lui. Aveva persino pianificato che se qualcosa fosse andato storto, o qualcosa fosse andato storto davanti al pubblico in tutto ciò che riguardava Gina, avrebbe dovuto avere i documenti necessari che provassero la separazione della proprietà tra loro e le proprie dimissioni da un'ipotetica eredità futura. No, tutt'altro. Il motivo della truffa di Gina era solo che desiderava […] essere il suo vedovo, e di essere riconosciuto in tutto il mondo per questo motivo. Per partecipare poi a programmi televisivi, concedere interviste amichevoli su riviste, essere riconosciuto in contesti distinti, ecc.

Tu lo conosci bene, qual è il suo modus operandi? Chi sono le sue vittime?

Le sue vittime sono sempre state persone anziane che abitualmente vivono da sole, che in molti casi non hanno discendenti. Anziani, tuttavia, con beni succulenti che a volte sono passati nelle sue mani dopo aver commesso truffe alle spalle delle persone colpite. […]

 È un uomo che ha un debole per le donne anziane? In 17 anni di vicinanza a lui, l'hai mai visto accompagnato da donne della stessa età?

La stessa età, mai. Delle donne anziane, sì. Ma non perchè fosse attratto da donne anziane. Era con loro per indicibili interessi materiali che potevano portare a successive truffe. Se Rigau ha qualche tipo di debolezza per le altre persone, non si manifesta precisamente rispetto al sesso femminile. 

Stai insinuando che la sua debolezza potrebbero essere  gli uomini?

Non lo insinuo, lo affermo. In particolare, uomini di nazionalità marocchina più giovani di lui. Anche se […] mi occupo molto poco delle sue inclinazioni sessuali. Per quanto abbia tentato pubblicamente di farci credere attraverso i media spagnoli e italiani, ha interferito così tante volte nella sessualità di persone anonime, con l'unico scopo di offenderle. […] Chi, nella sua mente può credere che Gina sia volata da Roma a Barcellona per andare a letto in segreto con lui?

 Andrea ti ha contattato?

La verità è che il contatto è avvenuto nel 2013 e da allora entrambi abbiamo collaborato affinché la verità su tutto ciò che riguarda Rigau esca fuori.

 Nel libro menzioni anche María Pilar Guimerá Gabilondo, la donna che ha sposato Rigau a Barcellona in assenza di Gina, che ha affermato di conoscere Gina da 30 anni. Chi è questa donna?

Nella mia denuncia a Barcellona per il matrimonio fraudolento ho già fornito le informazioni che la signora Guimerá aveva impersonato illegalmente Gina, un anno e mezzo prima che Andrea scoprisse il mio sito Web su Internet. È una donna che dipende economicamente da Rigau e che prova un'eccessiva gratitudine per il suo benefattore. In passato ha già fatto altre 2 false testimonianze per conto di Rigau in tribunale. […] non esiste altro supporto che ci mostri una presunta amicizia tra lei e Gina […]

Hai mai incontrato Milko, il figlio di Gina?

[…] per quanto riguarda la figura di Milko, voglio essere molto chiaro in ciò che penso […] Al processo al tribunale di Roma quest'uomo ha testimoniato di essere a conoscenza del rapporto di sua madre con Rigau per diversi decenni, di aver anche assistito per anni al modo in cui Rigau ha trascorso le stagioni a casa di Gina in Via Appia Antica, che sapeva che avevano entrambi pianificato di sposarsi prima del 2006.

Quando la verità è che Rigau non ha mai dormito nella casa di Gina e che entrambi hanno iniziato la loro amicizia nel 2004. Al contrario, ciò che la coscienza malconcia di Milko sa è che ha appreso dell'esistenza di Rigau solo dall'annuncio del matrimonio nel 2006, mai prima d'ora. È logico supporre che questo nuovo arrivato nella vita di sua madre non avrebbe potuto amarlo molto, in considerazione delle notizie sorprendenti che gli hanno dato.

Come consolazione devo dire a Milko, che Rigau ha fatto esattamente la stessa cosa con lui: a quel tempo lo disprezzava davanti al popolo di Barcellona che ascoltava le sue favole. Se Milko e Rigau si erano disprezzati a vicenda quattordici anni fa, perché si sono riuniti oggi per andare contro Andrea Piazzolla e la stessa Gina? Perché l'avvocato utilizzato per questo scopo è lo stesso che ha già difeso Rigau presso il Tribunale di Roma? Chi paga attualmente le sue parcelle? Mi chiedo chi è la mano che muove i fili e chi si lascia trascinare dalle circostanze che sono state generate.

[…] vale la pena chiarire che il figlio di Gina, in parte, si comporta come fa perché fin dall'inizio ha creduto alla versione plausibile di Rigau in tutto ciò che riguarda il legame ecclesiastico del 2010. Se sua madre si fosse davvero sposata segretamente in questo modo, alle sue spalle, senza dirgli nulla, come si può credere da ora in poi che la versione di Rigau sembra più supportata di quella di Gina e i documenti analizzati dalla giustizia sono stati usati d'accordo con Rigau? Documenti che sono serviti a convincere Milko che sua madre lo ha tradito.

D'ora in poi mi chiedo: se Milko alla fine scopre la verità attraverso il mio libro, se si rende conto che Rigau è un imbroglione e che sua madre ha sempre detto la verità continuerà la sua attuale crociata contro Andrea Piazzolla e sua madre? […]

Lollobrigida, il legale del figlio: «Andrea Piazzolla è ancora accusato di circonvenzione di incapace». Ilaria Sacchettoni su Il Corriere della Sera il 25 Gennaio 2023.

I legali di Andrea Milko Sofic, figlio della Bersagliera che presento diverse denunce: «Se fosse condannato Piazzolla dovrebbe risarcire somme importanti»

Mercoledì 25 gennaio: la data era evidenziata nell’agenda di Gina Lollobrigida che avrebbe dovuto testimoniare al processo nei confronti del suo trentaseienne factotum, Andrea Piazzolla. Quest’ultimo è a processo per circonvenzione di incapace. Avrebbe isolato l’attrice dai suoi affetti per impadronirsi del suo patrimonio, secondo i magistrati. Il giudice ha dovuto fare a meno della ricostruzione della Lollo, deceduta il 16 gennaio scorso. La Bersagliera, nelle intenzioni, avrebbe dovuto confermare ciò che disse davanti alla pm Laura Condemi. Spiegare cioè il motivo per il quale alcuni suoi beni erano stati improvvisamente rintracciati nel catalogo di una casa d’asta (l’accusa ritiene che fosse avvenuto a causa di Piazzolla ovviamente).

I beni all’asta

Alla domanda su come spiegasse tutto questo e se veicolare beni alla casa d’aste fosse stata una sua iniziativa l’ultima diva italiana aveva risposto così: «Ma per carità, io non volevo dare niente alla casa d’aste mi era stato detto che questi beni erano stati messi in un magazzino per fare dei lavori e che sarebbero tornati». L’episodio ben spiega il paradosso patrimoniale dell’attrice che, assieme al figlio, ha nominato erede per il restante 50% dei suoi beni il factotum, lo stesso uomo accusato di averla raggirata. L’inchiesta era partita da una serie di denunce del figlio Andrea Milko Skofic, assistito dallo Studio Gentiloni e parte civile al processo: «Se fosse condannato Piazzolla dovrebbe risarcire somme importanti» precisano gli avvocati di Skofic. Piazzolla avrebbe approfittato in molti casi della «vulnerabilità, suggestionabilità e conseguente “indebolimento della corretta percezione della realtà” della vittima» secondo la perizia depositata in Procura. Perfino un’auto della Lollobrigida, una magnifica Jaguar modello F-Type Project 7 aveva preso il volo, venduta alla cifra di 130mila euro.

Estratto dell’articolo di Elvira Serra per il “Corriere della Sera” il 25 Gennaio 2023.

Metà del patrimonio al figlio e metà al «figlioccio», l’assistente-factotum che negli ultimi dodici anni l’ha supportata come un membro della famiglia, che da otto viveva in casa con lei nella villa sull’Appia Antica a Roma, che l’accompagnava agli appuntamenti, che le organizzava le feste di compleanno, le vacanze, le uscite con gli amici, la stessa persona che oggi è sotto processo per circonvenzione di incapace.

Milko Skofic e Andrea Piazzolla sono gli unici eredi, in parti uguali, del patrimonio di Gina Lollobrigida, la diva scomparsa il 16 gennaio scorso all’età di 95 anni. Il testamento è stato aperto lunedì sera e il contenuto è stato reso noto ieri alle 13 dalla notaia Barbara Franceschini, che ha comunicato agli eredi e ai «legatari» le volontà dell’attrice.

 Le disposizioni

«Il testamento è stato redatto il 5 gennaio del 2017 a Roma, alla presenza di due testimoni. Esecutore testamentario è l’avvocato monegasco Bernard Bensa, al quale viene dato l’incarico di liquidare il suo patrimonio e di dividere il ricavato tra i suoi eredi, secondo le quote stabilite», spiega Francesca Romana Lupoi, la consulente legale con la quale la Bersagliera nel 2018 aveva istituito il Trust Gina Lollobrigida oggetto della seconda volontà espressa nel testamento relativa alle opere d’arte: disegni, fotografie e sculture realizzate dall’attrice nel corso della sua lunga vita.

Questi beni, che non potranno essere venduti, vengono lasciati a Piazzolla e all’imprenditore Horatio Pagani, amico stretto della protagonista di Pane, amore e fantasia , con il vincolo di valorizzarli nel mondo, attraverso l’organizzazione di mostre nei principali musei.  […] Mentre «lega» allo Stato italiano la collezione di vasi etruschi che le aveva regalato il Principe Massimo: un centinaio in tutto.

 Inutile chiedere un commento sul contenuto del testamento al figlio Milko Skofic o al suo avvocato, Michele Gentiloni Silveri, che si rende disponibile eventualmente a parlare solo dei processi che vedono Piazzolla imputato per circonvenzione di incapace: per l’accusa Piazzolla avrebbe lentamente derubato la Bersagliera di beni, immobili e denaro.

Oggi a Roma è prevista un’udienza dove sarebbe dovuta essere ascoltata Gina Lollobrigida.

 Tuttavia il legale del «factotum», Filippo Morlacchini, non si mostra pessimista: «Il processo è in corso e la cosa fondamentale è aver ristabilito la verità all’ultima udienza, quando Andrea Piazzolla ha chiamato come testimoni il cardiologo di Gina e il suo avvocato: entrambi l’hanno descritta come una persona lucida e irremovibile».

 Francesca Romana Lupoi, comunque, osserva che qualunque sarà l’esito del processo, «Piazzolla non potrà perdere la capacità di essere erede».  […]

Estratto dell’articolo di Giuseppe Scarpa per “la Repubblica” il 27 Gennaio 2023.

"Le ha fatto il lavaggio del cervello". Andrea Piazzolla si è preso cura di Gina Lollobrigida perché aveva in testa un unico obiettivo: "I soldi".

 A parlare è Milko Skofic, l'unico figlio della grande attrice, che punta il dito sull'assistente della madre a processo, a Roma, per circonvenzione d'incapace. […]

 Per Skofic, Piazzolla, ha fatto leva sulla debolezza della madre. "Le diceva sempre di sì, salvo poi farle tagliare i rapporti con tutte le amicizie storiche, quando era ormai anziana e vulnerabile, con il fine di dilapidarle il patrimonio".

 Un obiettivo che ha in parte raggiunto perché, nel testamento, è stato inserito anche il factotum. "Ma già prima aveva messo le mani sui conti correnti e le proprietà di mia madre".

Com'è entrato Piazzolla nella vita di Gina Lollobrigida?

"In veste di aiutante […]. Non aveva alcuna capacità tale da coprire ruoli nella gestione della vita professionale di mia madre. Si intrometteva in troppe cose. Ci fu un periodo nel quale lo aveva allontanato. Ma poi è riuscito di nuovo a insinuarsi. Le offrì, gratuitamente, un aiuto in una causa a New York dove aveva un parente avvocato. Ma io le dicevo: 'Guarda che nessuno fa niente gratis'. Infatti poi il conto è stato presentato negli anni successivi: le ha portato via tutto".

Quando ha capito che era riuscito ad avere la sua totale fiducia?

"Una decina di anni fa, mi ricordo che eravamo in cucina, mia madre era ai fornelli: Piazzolla è entrato trionfante declamando che era riuscito a farci fare pace. Io l'ho guardato stralunato, non avevo litigato con lei. Questa è la prima cosa di cui mi pento oggi: mi aveva allarmato, ho sentito puzza di bruciato, ma confidavo nella furbizia ciociara di mia madre".

 […] Quali sarebbero stati gli "sprechi" di Piazzolla?

"Un esempio? Lei mi diceva che Piazzolla acquistava delle supercar per rivenderle. Le ho spiegato che era una truffa. I soldi andavano a finire nel conto dei suoi genitori. Perciò mi sono reso conto che era rimasta solo la via legale". […] "Io sono diventato il diavolo. Non riuscivo più a vedere mia madre". […] "Per tre anni non sono riuscito ad entrare a casa sua. […]".

[…] C'è qualche cosa che avrebbe voluto dire a sua madre?

"Dopo l'operazione al femore, a settembre, sono andato a trovarla. Lei scuoteva la testa, ma non riusciva parlare. Alla fine è riuscita a dire solo: 'Ho sbagliato tutto'". […] "Penso che si fosse pentita di aver allontanato, negli ultimi anni della sua vita, le persone che l'hanno sempre amata".

 Secondo lei Piazzolla le ha mai voluto bene?

"Ha perso il senso della realtà e della decenza. Un paio di anni fa era andato in televisione a dire che voleva impiccarsi perché si sentiva perseguitato da noi parenti. Poi, pochi giorni fa, ha detto che era andato a parlare con un primario per donarle il suo rene. Nessun chirurgo avrebbe mai acconsentito, lui lo sapeva bene. Infine, sui giornali, dopo che è morta, la prima cosa a cui ha pensato è stato il testamento". […]

Gina Lollobrigida, l'ira del medico: "Ci saranno conseguenze..." Libero Quotidiano il 27 gennaio 2023

Francesco Ruggiero, il cardiologo di Gina Lollobrigida in collegamento a "Pomeriggio Cinque" risponde per le rime alle accuse lanciate da Francisco Javer Rigau. L'ex marito della Lollobrigida ha di fatto attaccato il medico accusandolo di non aver curato in modo adeguato l'attrice. La risposta è di quelle che lasciano il segno: "Rigau è un personaggio da operetta molto interessante. Quanto ha detto avrà delle conseguenze, ho già dato mandato al mio legale per intraprendere le azioni legali del caso. Una querela per diffamazione partirà a breve". Poi il medico ha voluto ribadire la sua opinione sullo stato di salute della Lollobrigida: "Stiamo parlando di una paziente di 95 anni. È ovvio che a quell'età per quanto fosse ben tenuta - afferma Ruggiero - non ci si arriva senza nessuna malattia".

E ancora: "Non c'è stato nessun ritardo nel ricovero, quando si è visto che le condizioni peggioravano si è deciso di ospedalizzarla. Da lì sono venute fuori tutta una serie di patologie giustificate a 95 anni".

Insomma il medico rispedisce al mittente ogni tipo di accusa sottolineando di aver curato in modo adeguato e professionale l'attrice prima della sua morte. Ma le polemiche attorno alla scomparsa di Gina Lollobrigida non si placano. Il testamento continua a far discutere e accende le voci su retroscena e sospetti sull'eredità dell'attrice che, va detto, dopo la morte, non riesce a trovare quella pace che meriterebbe. 

Gina Lollobrigida, "la più tirchia di tutte": l'accusa dopo la morte. Libero Quotidiano il 27 gennaio 2023

Continua a tenere banco il caso dell’eredità di Gina Lollobrigida. A Mattino Cinque ci si è interrogati su un possibile ricorso del figlio Milko e soprattutto di Javier Rigau, che è stato estromesso dal testamento dell’attrice. Lo spagnolo ha più volte dichiarato di non essere interessato alla questione, però non si esclude che possa impugnare il testamento per chiedere chiarimenti soprattutto riguardo al 50% dei beni che spetterebbero al factotum Piazzolla. 

 Intervistato da Federica Panicucci, Rigau ha parlato del tenore di vita dell’attrice: “Non ho mai conosciuto una donna più tirchia di Gina Lollobrigida, lo dico con amore, lo ha detto anche il figlio. Lei era la prima a dirlo di essere tirchia”. Lo spagnolo ha poi rivolto accuse pesanti al medico di fiducia della diva scomparsa, ovvero il cardiologo Francesco Ruggiero che si prendeva cura di lei da anni insieme a Piazzolla: “Quando Gina è stata ricoverata era in condizioni pessime: era denutrita, disidratata, con un rene che non funzionava più e con lo stomaco pieno di sangue”. 

Il dottore Ruggiero - ha aggiunto Rigau - dice che la guardava a casa ma quando è stata ricoverata stava malissimo. Doveva essere ricoverata prima. Una donna di 95 anni può precipitare in fretta nelle sue condizioni di salute. Noi l’abbiamo ricoverata, in altre circostanze l’avremmo fatta morire serenamente a casa, ma - ha chiosato - abbiamo provato il tutto per tutto”. 

Gina Lollobrigida, il factotum Piazzolla a giudizio: «Non ha mai pagato gli alimenti al figlio». Giulio De Santis su Il Corriere della Sera il 30 Gennaio 2023.

L'assistente della diva scomparsa ebbe il ragazzo nel 2009, ma lo riconobbe solo dopo una lunga causa giudiziaria

Il lontano passato di Andrea Piazzolla, precedente all’epoca in cui è diventato il tuttofare di Gina Lollobrigida, entra in un’aula di giustizia. Il factotum dell’attrice scomparsa è stato citato a giudizio dalla procura perché non avrebbe versato l’assegno di mantenimento a favore del figlio nato nel 2009 da una relazione con Sara Urriera, 38 anni, riconosciuto soltanto nel 2021 al termine di un intricato percorso giudiziario. 

La somma che avrebbe dovuto versare Piazzolla, 35 anni: 300 euro al mese a cui aggiungere il cinquanta per cento delle spese straordinarie. A stabilirlo il 27 maggio del 2021 è stato il giudice civile. Da allora, tuttavia, il manager della Lollo non avrebbe adempiuto alle disposizioni della sentenza. Il reato contestato a Piazzolla: violazione degli obblighi di assistenza familiare. Prima udienza: 29 marzo 2023.

Il processo è l’ultimo capitolo di una controversa storia d’amore iniziata nel 2008. Bisogna tornare indietro nel tempo, a quindici anni fa, allorché un giovanissimo Piazzolla, all’epoca ventenne, entra con il papà Girolamo e la mamma Concetta nella «Gelateria Sara», in via Federico Alessandri, zona Trigoria. Dietro il bancone c’è Sara. I due ragazzi si innamorano subito. La loro relazione scorre serena nei primi mesi. 

A gennaio del 2009 Sara rimane incinta. Piazzolla accoglie la novità con entusiasmo, almeno così ricorda la Urriera. La coppia progetta anche di sposarsi. È a marzo di quell’anno che Piazzolla conosce Gina Lollobrigida. Sara incontra la «Lollo». A fargliela conoscere è il fidanzato. Ma è proprio in quelle settimane che Piazzolla cambia idea: il figlio non lo vuole, chiede alla Urriera di abortire. Sara, però, si rifiuta. 

I due a quel punto smettono di vedersi. Il bimbo nasce il 5 settembre del 2009, quando già Andrea e Sara hanno preso strade diverse. Piazzolla diventa il braccio destro della «Bersagliera» e nel 2015 si trasferisce a casa di lei. Poi — qualche anno fa — intreccia una relazione con Adriana, la quale si trasferisce a vivere a casa dell’attrice, prima della nascita, nel 2020, della loro figlia.

Nel 2016 Urriera, che nel frattempo ha spostato la sua gelateria in un’altra zona della Capitale, chiede a Piazzolla di assumersi le responsabilità di padre. Lui, però, nega di essere il papà del ragazzo. Questo è il momento in cui nasce un braccio di ferro. La vicenda diventa materia di un processo civile. Terminato nel 2021 con il riconoscimento della paternità di Piazzolla. 

Da due anni il ragazzo infatti, porta anche il cognome del padre.

 Il giudice poi stabilisce anche quanto debba versare Piazzolla: 300 euro al mese. Sentenza impugnata in sede civile dalla Urriera, attraverso gli avvocati Annafranca Coppola e Alessandra Spina. «Piazzolla si dichiara indigente» osserva l’avvocato Spina, che si occupa anche del processo penale. Pochi giorni fa è stato aperto il testamento di Lollobrigida. L’attrice ha lasciato metà del patrimonio, che sarebbe milionario, a Piazzolla, difeso dall’avvocato Filippo Morlacchini.

Stefania Longo per ultimenotizieflash.com il 30 gennaio 2023.

La vita in diretta è arrivata fino a Barcellona per un’intervista a Rigau e dallo studio Alberto Matano chiede subito: “Perché è tornato dopo 12 anni in Italia nel momento del funerale di Gina Lollobrigida? Perché tornare nel momento del dolore e dell’addio a una persona che l’aveva portata in tribunale?”. E’ la domanda che tutti avremmo voluto fare a Rigau per difendere la memoria di Gina Lollobrigida, perché tutti abbiamo ascoltato in passato le sue interviste contro lo spagnolo e visto le sue lacrime.

 “Gina mi ha denunciato per il matrimonio a sua insaputa ma la giustizia italiana mi ha assolto con formula piena. Gina in questi anni è stata sotto il controllo psichico…” ribatte sempre su questo Rigau, aggiunge sempre che è colpa di Andrea Piazzolla, che la colpa dello sfratto del nipote di Gina dalla villa romana della Lollobrigida è sua, che l’attrice era incapace di agire in modo libero. “Come mai lei riappare adesso e porta avanti che è il marito di Gina ma dice che non vuole nulla dell’eredità?” continua Alberto Matano a La vita in diretta spiegando che Rigau ha un punto di vista del tutto personale che però non corrisponde alla realtà.

Tutti gli amici che hanno partecipato alla vita di Gina Lollobrigida dicono che non voleva vedere Rigau, Matano lo ricorda allo spagnolo ma lui dice che quella è la “corte del Piazzolla”. “Si deve ricordare Gina quando era Gina, prima del 2010, prima di Andrea Piazzolla”.

 “E’ stato un matrimonio d’amore?” la domanda di Matano. “Sempre con amore, come ci si può sposare senza amore” la risposta è che continua a dire che l’attrice era plagiata. Lo spagnolo è convinto che per legge la Lollobrigida fosse incapace ma non esiste nessuna sentenza, sono processi ancora in corso.

Andrea Piazzolla sembra seguire un copione in cui dice sempre le stesse cose, comprende e parla bene l’italiano anche se potrebbe apparire che non è così ma sembra non comprendere la realtà. Gli amici di Gina sono tutti contro Rigau, tutti lo smentiscono, lui smentisce Piazzolla dicendo che ha la fedina penale pulita, che non è un truffatore.

L’amico veramente amico di Gina è con la famiglia ed è gente che non gli piace andare in tv. Gli altri si vergogneranno di tutto quello che hanno fatto. Uno quando inizia un rapporto con una persona e io ero giovane l’interesse economico non c’era. Poi dopo il mio patrimonio inizia a diventare più importante di quello di Gina”. Ma ancora una volta Javier Rigau non risponde fino in fondo alla domanda perché è tornato. Solo per Piazzolla?

Estratto dell’articolo di Elvira Serra per “Sette - Corriere della Sera” il 13 febbraio 2023.

[…] Gina Lollobrigida voleva essere ricordata come artista. Scultrice, fotografa, perfino cantante, perché ne La donna più bella del mondo, dove aveva impersonato Lina Cavalieri, era stata lei a intonare le arie della Tosca, con buona pace del New York Times che dopo averla sentita aveva osservato: «Gina canta con una voce meravigliosa, peccato non sia sua».

 […] Il giorno che è morta, il 16 gennaio scorso, un altro evento aveva monopolizzato le agenzie di stampa: l’arresto del boss siciliano Matteo Messina Denaro. E se un filo invisibile collega i due eventi, lo dobbiamo riavvolgere indietro di 52 anni, quando Gina, reporter in incognito, ritrasse il boss palermitano Angelo La Barbera nel suo esilio di Linosa mentre accendeva una sigaretta ad un carabiniere davanti a un muretto a secco.

«Sono arrivata una mattina, intirizzita dal freddo», aveva raccontato. E dei mafiosi, che stavano scontando lì la loro pena: «Sono stati tutti gentilissimi con me, dei veri signori». Quella di Linosa era una tappa del reportage durato due anni, cui erano seguiti dieci mesi di postproduzione, durante i quali l’attrice, seguendo l’incoraggiamento della rivista americana Life, aveva perlustrato la Penisola in lungo e in largo, percorso trentamila chilometri, fuso una Fiat 124, perso cinque chili e scattato più di ventimila foto.

 Al suo fianco, l’amico fotografo Roberto Biciocchi, che più di una volta l’aveva ritratta sui set. Nel bagagliaio gli attrezzi del mestiere: Nikon, Leika, Linhof, Hasselblad. E una valigia con i travestimenti: noccioli di prugna da mettere tra i denti e la mascella per cambiare i lineamenti, occhialoni con lenti spesse da miope, parrucche vaporose, jeans sdruciti e gonnellone, tutto il necessario per farla passare per una fricchettona hippy, e far dimenticare la diva abituata a chiudere i set americani con una visita da Bulgari […]

Il libro uscì alla fine del 1972, si chiamava Italia mia, in meno di un’ora una libreria di Genova ne vendette cento copie. La prefazione l’aveva firmata Alberto Moravia, che le scrisse: «Sei riuscita a esprimere con esattezza fotografica la fedeltà degli italiani alla loro immagine originaria».

 E non sappiamo se fosse proprio un complimento fino in fondo o un commento per luoghi comuni, ma certifica sicuramente l’impegno e lo sguardo della professionista, distaccata e abile sia che ritraesse dall’alto il suo paese d’origine, Subiaco, con la popolazione riunita nel campo sportivo, o Marisa Solinas nuda su una finestra di Venezia, il regista Federico Fellini sul set di Roma o «il sarto» Valentino sotto una tenda come un re tra le cortigiane, Audrey Hepburn sull’Isola Tiberina assieme al marito Andrea Dotti e gli operai della Fiat negli stabilimenti di Torino […].

 Pure il governatore della Banca d’Italia Guido Carli si fermò davanti al suo obiettivo: lei lo ritrasse accanto a una cassaforte vuota del Cinquecento, per uno scatto originale.

[…] Italia mia vinse il Premio Nadar e Gina Lollobrigida continuò a scattare foto. Girò 24 Paesi per i suoi reportage. Nel 1983 aveva addirittura aperto uno studio fotografico a Roma, annunciando la sua nuova attività imprenditoriale. Ritrasse Paul Newman in una pozza di ghiaccio, Indira Gandhi nel giardino della sua casa mentre giocava con i nipoti. Nel suo portfolio c’erano Jurij Gagarin, Fidel Castro (che la ospitò per 12 giorni a Cuba) ed Eugeni Eytushenko.

 Lo storico dell’arte Philippe Daverio, che ne curò una mostra al Palazzo delle Esposizioni di Roma, elogiò la sua «genialità nel fare tante cose benissimo e con naturalezza». Del resto, se anche il Carnavalet di Parigi aveva voluto ospitare le sue foto nel 1983, questo provava il fatto che i suoi scatti non erano un capriccio da diva. Il capo della Dolby, pochi anni fa a Los Angeles, le riconobbe il merito di essere stata antesignana del Photoshop: da un falegname ingegnoso si era fatta fare un macchinario per correggere le foto, sovrapponendole 7-8 volte. Lei gongolò. […]

La Bersagliera non desiderava che si disperdesse il suo patrimonio artistico. Per questo, nel 2018, aveva istituito con la legale Francesca Romana Lupoi il Trust Gina Lollobrigida, anche per dare seguito alle sue volontà testamentarie messe per iscritto il 5 gennaio 2017. «Lego a Horatio Pagani e Andrea Piazzolla le opere d’arte da me realizzate con l’onere di far conoscere e valorizzare la mia attività artistica attraverso la promozione e organizzazione di mostre nelle quali tali opere dovranno essere esposte nei più prestigiosi musei del mondo.

 Desidero che tali opere non siano vendute, ma autorizzo espressamente i legatari a riprodurre le opere stesse mediante la realizzazione di copie temporanee o durevoli, su supporti materiali o digitali».

Lupoi ha inventariato tutti i pezzi: 54 sculture, 24 ritratti e 282 fotografie. Spiega: «Ci teneva che il gestore del Trust, il Trustee, dovesse organizzare scambi culturali con i maggiori musei del mondo, dal Louvre al Metropolitan, perché il suo timore era che un giorno potesse essere ricordata tanto come diva, ma poco come artista. Purtroppo, nel Fondo in trust siamo riuscite a mettere soltanto due sculture, una scultura di bronzo sulla base di marmo denominata Artemis, e mezzo busto in marmo bianco di Esmeralda con una capretta vicino. Le vicende giudiziarie l’hanno distratta». […]

Anticipazione da “Gente” il 23 marzo 2023.

«Gina ha voluto farmi dei regali e li ha fatti, è vero. Parliamo di una Ferrari, una moto Ducati e una Ford». Andrea Piazzolla, l’uomo che per oltre 10 anni è stato accanto a Gina Lollobrigida, suo assistente e oggi erede, si racconta a Gente, in edicola da venerdì 24 marzo, come mai ha fatto prima.

 «La Ferrari e la Ford le ho rivendute, rispettivamente, vado a memoria, per 225 mila e 90 mila euro. In più c’è stato un bonifico dal conto di Gina a favore dei miei genitori, di 271 mila euro, per estinguere il mutuo della casa». «In totale parliamo di circa seicentomila euro».

 «Come definirei Milko Skofic, il figlio di Gina Lollobrigida? In due parole: sangue freddo. Non ho mai visto da parte sua una manifestazione di amore e dolcezza nei confronti della sua mamma».

 Andrea Piazzolla, parla con Gente. E sul figlio della divina, comparsa il 16 gennaio a 95 anni aggiunge: «Quando io mi sono affacciato alla vita di Gina, nel 2009, lei viveva con Alma, la sua tata, che oggi vive negli Stati Uniti. Milk o non si vedeva mai».

«Sono fatti successi nella primavera 2017. Il primo accadde una sera, verso le 9: ero appena tornato a casa, alla villa, ero al telefono e subito mi accorsi che uno dei cancelli non era chiuso come lo avevo lasciato. Sono sceso dalla macchina che era ancora accesa. Ho visto una persona a una quarantina di metri, una fiammata, e sentito tre colpi. Erano a salve, perché la macchina era intonsa e nemmeno io sono stato colpito: l’ho capito così».

E sulle intimidazioni ricevute, prosegue: «Il giorno dopo mio padre ha ricevuto una telefonata anonima di minacce rivolte a me. E ha denunciato. Sono anche risaliti all’autore delle telefonate, un algerino che vive a Napoli. Ma nessuno gli hai mai chiesto chi gli avesse detto di fare quelle telefonate. Sono anche capitati altri fatti sinistri: alcuni luoghi che frequentavo, come un autolavaggio, erano tappezzati di mie foto. E anche strani piccoli tagli alle gomme dell’auto, scoperti durante una revisione. Poi, a un certo punto, dopo la denuncia è finito tutto».

Andrea Piazzolla, lo sfogo dell'ex: "Ha l'eredità di Gina Lollobrigida ma non paga gli alimenti a suo figlio". L'ex assistente di Gina Lollobrigida è finito di nuovo nell'occhio del ciclone a causa delle gravi accuse a lui rivolte dalla sua ex. Alice Coppa su Notizie.it Pubblicato il 30 Marzo 2023

 Andrea Piazzolla, ex assistente di Gina Lollobrigida da lei considerato quasi come un figlio, è stato accusato dalla sua ex di non pagare gli alimenti al suo primo figlio.

Andrea Piazzolla: le accuse dell’ex

Andrea Piazzolla è stato nominato da Gina Lollobrigida suo erede insieme al figlio, Milko Skofic, e nei giorni scorsi lui stesso ha ammesso di aver ricevuto regali dalla diva per una cifra pari a circa 600mila euro. In queste ore l’ex assistente è finito di nuovo nell’occhio del ciclone a causa delle accuse a lui rivolte dalla sua ex, madre del suo primo figlio, che ha affermato che lui non avrebbe mai pagato gli alimenti dovuti al bambino. Sulla vicenda si sarebbe espresso il tribunale dei minori e la donna ha anche fatto sapere che Piazzolla avrebbe richiesto il test del DNA.

Il giudice gli ha imposto di fare il test del dna, siamo andati all’ospedale San Camillo, dove diceva Andrea (Piazzolla ndr), in un laboratorio dove hanno prelevato un campione di saliva e lo hanno comparato. Per un ragazzino non è bello. Il test del dna ha un significato particolare e sapere che suo padre non si fida del fatto che il ragazzo sia suo figlio è una barzelletta che non fa ridere”, ha dichiarato l’ex compagna dell’uomo, che avrebbe vinto la causa contro il suo ex.

I guai legali, i regali di lusso, la vita con la Lollobrigida: chi è Andrea Piazzolla. Classe 1987, Andrea Piazzolla è stato il factotum e il segretario particolare di Gina Lollobrigida. Negli ultimi tredici anni l'uomo è rimasto al fianco della diva nel lavoro e nella vita private. Novella Toloni il 10 Aprile 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 L'incontro nel 2009

 Il falso matrimonio con Rigau

 Il trasferimento nella villa della Lollobrigida

 L'incontro con Adriana e la vita alla villa

 Il testamento di Gina Lollobrigida

Un rapporto simbiotico. Così Andrea Piazzolla, 35 anni, factotum di Gina Lollobrigida ha spiegato di recente il suo rapporto con la diva, scomparsa lo scorso 16 gennaio. Della sua vita prima di diventare l'uomo, che per tredici anni è rimasto accanto all'attrice professionalmente e privatamente, non si conosce quasi niente ma l'attenzione mediatica su Piazzolla è sempre stata alta. L'ambiguità del rapporto che lo legava alla Lollobridiga, infatti, ha sempre destato curiosità alimentando gossip e pettegolezzi. Per i familiari stretti Andrea Piazzolla ha circuito la diva, per altri ha saputo comprenderla come un figlio e rimanerle accanto come un compagno. Ma una definizione precisa, il 35enne non l'ha mai fornita.

"Io sono stato definito in tutti i modi. Il rapporto tra me e la signora Lollobrigida è difficile da spiegare e da comprendere. Era un rapporto naturale ed è difficile da comprendere perché vedono una diva e dall'altra parte un giovane ragazzo. Gina era la mia vita, veniva prima di tutto e tutti, anche dei miei genitori", ha raccontato poco mesi fa Andrea Piazzolla a Verissimo nella prima intervista rilasciata dopo la morte della Lollobrigida. E così è stato negli ultimi tredici anni, nei quali l'uomo è rimasto al fianco della diva sia nel lavoro - come segretario particolare e amministratore delegato della società Vissi d'arte della Lollobrigida - sia nella vita privata, vivendo nella villa dell'attrice insieme alla compagna Adriana e la figlia Gina.

"Attrice per caso": Gina Lollobrigida e il vero amore per pittura e scultura

L'incontro nel 2009

Andrea Piazzolla e Gina Lollobrigida si incontrano nel 2009 in occasione di un impegno pubblico della diva al Consiglio Nazionale dell'Economia e del Lavoro. Piazzolla ha 21 anni ma si mette in mostra grazie alla passione per l'arte, che lo accomuna alla Lollobrigida. Andrea ha contatti importanti in Arabia, dove l'attrice vuole realizzare una mostra e questo li fa entrare in contatto. "Io ero stato a Dubai a 18 anni, conobbi e incontrai varie persone, finché una persona non mi disse che c’era una attrice internazionale e scultrice che voleva fare una mostra negli Emirati Arabi", ha raccontato sempre a Verissimo Piazzolla. Così inizia una collaborazione che ben presto si trasforma in sodalizio. Nel 2011 il ragazzo vola a New York con la diva e quel viaggio rappresenta un punto di svolta nel loro rapporto.

Il falso matrimonio con Rigau

Di ritorno dagli States Andrea Piazzolla diventa uno di famiglia per Gina Lollobrigida tanto da nominarlo amministratore delegato della società Vissi d'arte, che gestisce il patrimonio della diva. L'uomo trascorre le giornate alla villa e segue la Lollo in tutti i suoi impegni pubblici e privati. Per molti è il factotum, per l'attrice una persona di fiducia al quale affidarsi totalmente. Nel 2013 Gina denuncia Javier Rigau per truffa. Secondo l'accusa dell'attrice, l'uomo l'avrebbe sposata per procura a Barcellona senza il suo consenso. A scoprire il raggiro sono l'agente della diva e Piazzolla, che anche in questo frangente sostiene la Lollobrigida rimanendole accanto.

Sorprese e diatribe giudiziarie: il giallo sull'eredità della Lollo

Il trasferimento nella villa della Lollobrigida

Negli anni Andrea Piazzolla riceve molti regali dalla Lollobrigida. Il suo affetto per lui si manifesta con la stima e regali di lusso come Ferrari, moto sportive e addirittura un bonifico di quasi duecentomila euro in favore dei genitori di Piazzolla, serviti a estinguere un mutuo. Molti di quei preziosi doni verranno poi rivenduti dal factotum della diva, come lui stesso ha confessato pochi giorni fa in una delle ultime interviste. Nel 2015 Gina gli propone di andare ad abitare nella villa sull'Appia Antica: "Mi disse c'è una stanza qui, puoi restare quando vuoi". E da quel momento la sua vita cambia. Il figlio della Lollo, Milko Skofic - che da quando Gina si separò dal marito si è trasferito in America rimanendo lontano dalla madre - denuncia Piazzolla per circonvenzione d’incapace. Per l'americano il factotum avrebbe depredato il patrimonio di famiglia e avrebbe isolato l'attrice dagli affetti per circuirla a proprio favore e il processo è tutt'ora in corso.

L'incontro con Adriana e la vita alla villa

Nonostante i guai legali e i presunti atti intimidatori subiti - rivelati di recente - Andrea Piazzolla continua a rimanere al fianco di Gina Lollobrigida. Va con lei in televisione a rilasciare interviste e si mostra sempre al suo fianco negli appuntamenti pubblici. Nel 2019, però, conosce Adriana - un'anestesista di origini siciliane che lavora a Roma - durante una cena tra amici a casa dell'attrice e tra i due scocca la scintilla. "Quando abbiamo iniziato a frequentarci io le ho detto che avevo un compito e le dissi: 'Non faremo mai nulla se lei non sarà con noi'". Ma Gina benedice la relazione, accoglie in casa anche Adriana e si sente come una nonna, quando nasce la piccola Gina Jr, la figlia di Piazzolla venuta alla luce nel 2020. Insieme i quattro vivono come una famiglia tra accuse, richieste di essere lasciata in pace da parte della Lollo e processi che vedono protagonista Piazzolla, che tenta addirittura il suicidio. Fino al 16 gennaio scorso, quando la Lollobrigida è venuta a mancare.

Il testamento di Gina Lollobrigida

L'ultimo atto di devozione per il suo assistente arriva con il lascito testamentario. Con l'apertura del testamento della diva, si scopre che l'attrice ha lasciato metà del suo patrimonio al figlio Milko e l'altra metà a Piazzolla. A quest'ultimo (insieme all'imprenditore Horacio Pagani) Gina lascia anche un trust con le sue opere d'arte con l'onere di "far conoscere e valorizzare la sua attività artistica nel mondo". Ma in ballo per Piazzolla c'è ancora l'esito del processo per circonvenzione di incapace e un altro procedimento penale - intentato dall'ex moglie di Piazzolla dalla quale l'uomo ha avuto un figlio - che gli chiede gli alimenti mai pagati.

Gina Lollobrigida e il patrimonio segreto a Panama: 3,9 milioni di euro nel paradiso fiscal. Storia di Redazione Spettacoli su Il Corriere della Sera il 10 aprile 2023.

Ci sarebbero milioni di euro nascosti in un paradiso fiscale offshore nell’eredità di Gina Lollobrigida, scomparsa a gennaio all’età di 95 anni. A rivelarlo è un’inchiesta dell’Espresso che si basa sui «Panama Papers» diffusi dal Consorzio internazionale dei giornalisti investigativi.

Stando a quanto emerso, ci sarebbe di mezzo la società Bewick International Inc, aperta a Panama nel 2014, poco prima della di 3,9 milioni di euro dalla banca del Principato di Monaco in cui l’attrice teneva il ricavato di una vendita di gioielli. Tale somma potrebbe quindi essere stata trasferita nel paradiso fiscale di Panama, come già aveva sostenuto in passato l’avvocato del figlio di Lollobrigida, coinvolto in una battaglia per l’eredità.

La Bersagliera ha infatti lasciato al figlio Andrea Milko Skofic e l’altra metà all’assistente Andrea Piazzolla, diventato per lei negli anni una sorta di «figlioccio»: vivevano insieme dal 2015 e pur non essendo un parente lui accudiva la diva nella quotidianità e l’accompagnava agli eventi mondani, nelle uscite pubbliche e durante le cene o i pranzi con la cerchia di amici dell’attrice.

Estratto da repubblica.it il 10 aprile 2023.

Il tesoro di Gina Lollobrigida in una società offshore a Panama. Ma chi è oggi il reale intestatario di questa società? Una domanda per adesso senza risposta. Il patrimonio della defunta star è oggetto di una battaglia tra il figlio Andrea Milko Skofic e l'assistente Andrea Piazzolla, imputato in due processi per circonvenzione d'incapace in cui è vittima Lollobrigida. Del tesoro detenuto in un paradiso fiscale sino ad oggi non si sapeva nulla.

 La società, come ha scoperto l'Espresso, si chiama Bewick International Inc, ed è stata creata il 6 marzo 2014 e risulta attiva. Gli azionisti sono misteriosi. [...] L'avvocato Michele Gentiloni Silveri, che assiste il figlio dell'attrice, ha spiegato che "dai nostri atti emerge l'esistenza di almeno una società in un paradiso offshore, ma neppure i giudici italiani ne conoscono il nome".

La traccia parte dalla villa di Roma, intestata a un'immobiliare italiana, 'Vissi d'arte srl', che fa capo a una holding del Principato di Monaco, Dousoline. Anche questa società monegasca era anonima, ma nel 2018 ha aperto un conto bancario indicando come beneficiaria Gina Lollobrigida.

 Gentiloni precisa che "il suo capitale è rappresentato da 200 azioni che a tutt'oggi non sono nell'inventario dell'eredità: da anni si ignora chi le detenga". Ma non è tutto perché dal Principato di Monaco risultano spariti quasi 4 milioni di euro. Sono i ricavi della vendita dei gioielli della Lollobrigida.

[...] Molto probabilmente la società sui cui sono stati trasferiti i soldi è la panamense Bewick. Un tesoro di diversi milioni di euro. Resta, per adesso, il nome della persona che ha ricevuto la procura dopo la morte della star lo scorso gennaio.

Panama, amore e fantasia: tra le offshore dei vip spunta il tesoro estero di Gina Lollobrigida. Tra l’America centrale e Montecarlo una società anonima con fondi e conti bancari riservati della star. Un patrimonio che da mesi è al centro di cause e denunce tra gli eredi: il figlio contro il factotum. Paolo Biondani su L’Espresso il 10 aprile 2023.

Panama, amore e fantasia. Una società anonima con sede nel paradiso fiscale centroamericano permette di alzare il sipario sulle tesorerie estere che custodiscono gran parte del patrimonio di Gina Lollobrigida.

L'attrice italiana di fama mondiale si è spenta a Roma il 16 gennaio scorso, a 95 anni, lasciando un'eredità controversa. Nel testamento, redatto nel 2017, ha attribuito al figlio, Andrea Milko Skofic, metà del suo patrimonio, che corrisponde alla legittima, la quota che gli spetta per legge. L'altra metà l'ha assegnata al suo manager e factotum, Andrea Piazzolla, 35 anni, che l'ha assistita nell'ultimo decennio e dal 2015 viveva con lei nella villa sull'Appia antica. Il factotum è stato però denunciato dal figlio e dall'ex marito della Lollobrigida, per circonvenzione d'incapace, ed è imputato in tre diversi procedimenti a Roma, dove respinge ogni accusa. Finora le indagini hanno potuto identificare solo una parte del patrimonio estero dell'attrice.

Ora L'Espresso ha scoperto una tesoreria offshore a Panama, finora sconosciuta. Si chiama Bewick International Inc, è stata creata il 6 marzo 2014 e risulta tuttora attiva («vigente»). Gli azionisti sono misteriosi: a Panama è possibile aprire società totalmente anonime, intestate a fiduciari, che si possono finanziare, svuotare o trasferire ad altri (con tutti i beni) senza lasciare tracce. Per identificarne il reale beneficiario, l'atto decisivo è la cosiddetta procura: il mandato a gestire i soldi della società. Nel caso della Bewick è proprio «Luigia Gina Lollobrigida», il nome anagrafico della star, la prima persona ad essere autorizzata, già il 20 marzo 2014, ad «aprire un conto alla banca Safra nel Principato di Monaco», con «pieni poteri di gestire tutti i fondi ». La delibera è firmata da tre fiduciari dello studio Alcogal di Panama City, tuttora registrato come gestore di quella tesoreria estera.

L'avvocato Michele Gentiloni Silveri, che assiste il figlio dell'attrice, dichiara a L'Espresso che «dai nostri atti emerge l'esistenza di almeno una società in un paradiso offshore, ma neppure i giudici italiani ne conoscono il nome». La traccia parte dalla villa di Roma, intestata a un'immobiliare italiana, Vissi d'arte srl, che fa capo a una holding del Principato di Monaco, Dousoline. Anche questa società monegasca era anonima, ma nel 2018 ha aperto un conto bancario, guarda caso alla Safra di Montecarlo, indicando come beneficiaria Gina Lollobrigida. L'avvocato precisa che «il suo capitale è rappresentato da 200 azioni che a tutt'oggi non sono nell'inventario dell'eredità: da anni si ignora chi le detenga».

Dallo stesso Principato di Monaco, soprattutto, risultano spariti almeno 3,9 milioni di euro. Sono i ricavi della vendita dei gioielli della Lollobrigida in una famosa asta a Londra. «Depositati in banca a Montecarlo, furono trasferiti il 28 luglio 2013 in un paradiso fiscale», spiega Gentiloni, «ma le autorità monegasche, nelle risposte alle rogatorie inviate dai giudici italiani, non hanno comunicato il nome della società beneficiaria».

Ora, dalle carte riservate delle offshore rivelate dal consorzio Icij (di cui fa parte L’Espresso in esclusiva per l’Italia), spunta la società anonima Bewick International Inc, aperta a Panama pochi mesi dopo, quando i soldi dei gioielli erano ormai spariti da Montecarlo.

Andrea Piazzolla, in un’intervista a Gente, ha riconosciuto che «Gina ha voluto farmi dei regali in Italia, per un totale di circa 600 mila euro», ma ha sempre negato di averla plagiata o di aver prelevato fondi o altri beni contro la sua volontà. Il suo avvocato, l'ex pm Antonio Ingroia, ha anticipato a Fanpage la linea di difesa: «Nessuna perizia ha mai dichiarato la Lollobrigida incapace d'intendere. Andrea è l’unico che le è stato accanto negli ultimi anni, le aveva anche salvato la vita, e lei ha deliberatamente deciso di essere generosa e riconoscente con lui. Era per lei il figlio che avrebbe voluto».

(ANSA il 19 aprile 2023) (di Marco Maffettone) - Colpo di scena nel processo in cui è indagato l'ex segretario e factotum di Gina Lollobrigida, Andrea Piazzolla. Il giudice del tribunale monocratico di Roma ha, infatti, acquisito agli atti del procedimento i due testamenti olografi della grande attrice morta il 16 gennaio scorso a 95 anni. 

Una decisione arrivata su richiesta dei difensori dell'imputato a cui, però, si è associata anche la parte civile. Obiettivo del tribunale è, sostanzialmente, potere contare anche sugli atti in cui si è "formata la volontà" della Lollobrigida in merito alle disposizioni legate al vasto patrimonio. Si tratta dei documenti scritti di proprio pugno dalla Lollo nel 2013 e nel gennaio del 2017, quest'ultimo redatto mentre si trovava ricoverata in una clinica.

Il contenuto di questo ultimo testamento è emerso pochi giorni dopo il decesso: l'artista ha disposto metà del patrimonio in favore del figlio Andrea Milko Skofic e l'altra metà allo stesso Piazzolla. L'ex segretario, dopo che erano state rese pubbliche le volontà della Bersagliera, aveva annunciato la sua volontà di "non prendere neanche un centesimo" sostenendo che la sua parte di patrimonio sarebbe stata "messa a disposizione per quelli che sono i desideri" della Lollobrogida. 

"Quindi anche questa mia parte - aggiunse - sarà messa all'interno del trust" che ha voluto per promuovere le sua attività. Il processo che lo vede imputato, partito da un esposto del figlio dell'attrice, è giunto alle fasi conclusive: la sentenza è attesa per il prossimo 7 giugno. Nei suoi confronti i pm di piazzale Clodio gli contestano una sistematica spoliazione dei beni dell'attrice avvenuta tra il 2013 e il 2018.

Dal 2021 la diva aveva un amministratore di sostegno nominato dal Tribunale per tutelare il suo patrimonio. Con Piazzolla a processo c'è anche Antonio Salvi, l'uomo che avrebbe fatto da intermediario con una casa d'aste per la vendita di circa 350 beni di proprietà della Lollo. Dal canto suo l'attrice ha sempre difeso il suo segretario. 

Il nome di Piazzolla compare anche in un altro procedimento che lo vede accusato di avere sottratto alla donna una auto di lusso e in un terzo processo legato alla vendita di opere d'arte presenti all'interno della villa sulla Appia dell'attrice. Secondo le accuse della Procura, il collaboratore personale dell'artista avrebbe sottratto complessivamente diversi milioni di euro e beni, tra cui quadri e cimeli.

Estratto dell’articolo di Valentina Errante per “Il Messaggero” l'1 maggio 2023.

Per Andrea Milko Skofic, 65 anni, figlio di Gina Lollobrigida e del marito Milko Skofic, il drammatico epilogo dei suoi rapporti con la madre non è soltanto una questione patrimoniale. 

Ci sono anche le parole non dette e i rapporti incrinati negli ultimi anni […] Skofic, parte civile nei processi che vedono imputato il "tuttofare" dell'attrice, Andrea Piazzolla, per circonvenzione di incapace e riciclaggio, con 9 milioni di beni spariti, si ritrova adesso a condividere con l'uomo che ha vissuto negli ultimi anni di vita dell'attrice vicino a lei, anche l'eredità. Dal canto suo, Piazzolla, ha sempre sostenuto di avere agito nell'interesse della Lollobrigida e di averne sempre rispettato la volontà.

Del patrimonio di sua madre è rimasto ben poco. Lei è parte civile nei processi, nati da una sua denuncia. Quando ha avuto il sospetto che qualcosa stesse cambiando e che quest'uomo esercitasse un'influenza su sua madre?

«La prima amministrazione di sostegno è stata chiesta nel 2013. Mi sono accorto che di punto in bianco c'erano spese che lei non aveva mai fatto prima. I suoi amici mi hanno avvertito che lei non era più se stessa, che aveva comportamenti strani, a loro sembrava che qualcuno la stesse controllando, che non poteva dire quello che pensava. Poi è stato negato a me e a mio figlio l'accesso a casa di mia madre. Sono stato obbligato da questi fatti a cercare di tutelarla legalmente».

[…]

Che rapporto aveva con Piazzolla prima che iniziasse a sospettare che stesse cercando di condizionarla e impadronirsi del cospicuo patrimonio di sua madre?

«Non aveva nessuna qualifica professionale, era un aiutante. Le dava una mano soprattutto nella logistica delle mostre fotografiche. L'ho accompagnato un paio di volte a casa. Poi ha iniziato a fingersi amico di mio figlio, lo tempestava di domande, su di me, su sua madre. In quel momento ho iniziato a sospettare che avesse cattive intenzioni».

C'è qualche oggetto di sua madre che, oltre al valore economico, abbia un valore affettivo e che vorrebbe avere con sé

«Le sue vecchie macchine fotografiche, non le ho trovate l'ultima volta che sono andato a casa per l'inventario. Mia madre mi ha trasmesso la passione per la fotografia». 

[…]

Cosa significa, e cosa comporta, essere il figlio di una grande diva?

«Sei sempre sotto ai riflettori, ti riconoscono per strada, i paparazzi ti stanno dietro. Se fai la carriera dello spettacolo, può essere anche un vantaggio. Ma se fai una vita normale, ti capita anche di sentirti dire ad un colloquio di lavoro: "perché sei venuto qui? Mica hai bisogno di lavorare."»

Milko Skofic, il figlio di Gina Lollobrigida: «Non aveva più di che pagarsi le cure: mia madre depredata per anni». Ilaria Sacchettoni su Il Corriere della Sera l'1 Maggio 2023 

Parla Milko Skofic, figlio di Gina Lollobrigida: «L'amministratore di sostegno ha dovuto liquidare poche migliaia di euro per i medici. Avrei dovuto capire cosa stava accadendo dopo un viaggio a New York» 

Il patrimonio residuo di casa Lollo è stato censito. Dieci visite di circa tre ore ciascuna, a partire dalla metà di febbraio scorso, hanno fotografato e ricostruito quel che resta della vita di una star. Notaio, avvocati, esperti hanno, da poco, avviato i beni della Bersagliera, del valore di circa 600mila euro, alla procedura concorsuale di liquidazione che precede il pagamento dei creditori. I beni di Gina Lollobrigida, la Maria di «Pane, amore e fantasia», morta il 15 gennaio scorso, appaiono modesti a eccezione di un pugno di oggetti.

Andrea Milko Skofic, l’inventario dei beni di sua madre è completo. Tra custodie di preziosi vuote, copie abborracciate e oggetti senza valore, si arriva a poco più di 600mila euro. Davvero è questo il patrimonio di una vita di successi? 

«Il vero patrimonio che ha lasciato mia madre è il ricordo di una donna che ha fatto una strepitosa carriera solo con le sue forze. Sono tuttavia sbalordito che, al termine di una lunga e proficua vita artistica in cui aveva accumulato un ingente patrimonio, sia venuta a mancare da proprietaria di così poco. Basti pensare che sui conti correnti non c’era quasi nulla, al punto che all’amministratore di sostegno venne chiesto di saldare i conti delle cure dentali, per poche migliaia di euro»

 Le inchieste della magistratura hanno ricostruito una lenta spoliazione di denaro, beni e oggetti di Gina Lollobrigida da parte del suo factotum Andrea Piazzolla. E’ in grado di fare una stima di quanto è andato perduto complessivamente? 

«Quando è arrivato Piazzolla il patrimonio di mia madre era più che buono, c’era abbastanza per fare una lunga vita decente, ricca, ma non esagerata. Ora non è rimasto quasi nulla. Non so dire la quantità esatta di quanto è stato bruciato, ma i conti correnti sono pressoché vuoti, gli appartamenti di Piazza di Spagna sono stati venduti e il ricavato è sparito, e lo stesso è accaduto per la casa di Montecarlo. Nessuna traccia nemmeno degli oltre tre milioni di euro della collezione di gioielli venduta da Sotheby’s nel 2013. Nel frattempo, i familiari di Piazzolla hanno ricevuto centinaia di migliaia di euro, lui stesso ha prelevato decine di migliaia di euro in contanti e tramite carte di credito, ha viaggiato in elicottero, ha acquistato continuamente Ferrari, Jaguar, Mercedes. Non c’è da meravigliarsi che non sia rimasto più nulla»

  C’erano anche alcuni oggetti di pregio ai quali lei era personalmente legato e che ricorda?

 «Ci sono alcuni oggetti che mi ricordano la mia infanzia, nulla di materialmente prezioso, ma cose che mi ricordano lei e quando ero piccolo. Spero di ritrovarli in qualche modo» 

Negli ultimi anni gli esperti l’hanno descritta come una donna vulnerabile e fragile a dispetto di un carattere indomito. Lei, assistito dal suo avvocato Alessandro Gentiloni Silveri, ha seguito le inchieste. Cosa è accaduto, a suo giudizio, in questi dieci anni? 

«Prima mia madre si accorgeva abbastanza velocemente se qualcuno voleva ingannarla, ma spesso non si accorgeva di aspetti evidenti. Negli ultimi anni le hanno fatto credere che noi familiari eravamo contro di lei, le hanno raccontato bugie, distorto la realtà, uno dopo l’altro sono stati allontanati anche gli amici storici che potevano aprirle gli occhi, fino a che è rimasta isolata, con un singolo interlocutore»

 Infine il tempo ha logorato anche quella che lei ha definito “furbizia ciociara” di sua madre. C’è qualcosa che si rimprovera? 

«Ricordo quando sono andato a trovare mia madre, che era appena tornata da un lungo viaggio a New York dove l’aveva accompagnata Piazzolla. Stavamo in cucina quando entra trionfante Piazzolla che dichiara in modo pomposo che è riuscito finalmente a farci fare pace, io e mia madre. L’ho guardato un po’ stralunato: ma che stava dicendo? Non avevamo litigato, eravamo in buonissimi rapporti, stavamo sempre in contatto. Non ho dato importanza a questo strano episodio, ma invece avrei dovuto subito capire le intenzioni di Piazzolla. Mia madre ormai era diventata più fragile di prima, per cui molto influenzabile e facile vittima». 

Estratto del libro “L’insostenibile pesantezza del sublime – Esempi di stupidità contemporanea” di Roberto D’Agostino - 1989 

Il caso “La Romana”: Gina Lollobrigida contro Francesca Dellera

Gina Lollobrigida: “Ai miei tempi era tutto diverso. La rivalità io l’avevo con Sophia Loren, non con una principiante. Non si può usare una professionista come me e mandarla allo sbaraglio perché sia rimorchio di una debuttante qualsiasi!” 

Francesca Dellera: “Non l’ho proprio capita la Lollobrigida. E pensare che io l’ho sempre ammirata e rispettata. Forse ha un problema d’invidia che le viene dall’età. Non è colpa mia se io ho ventidue anni e lei sessantadue”. 

Patroni Griffi, regista de “La Romana”: “Chi ha visto nell’atteggiamento della Lollobrigida una scena madre tipo ‘Eva contro Eva’ ha sbagliato: direi piuttosto che siamo in un ‘Nonna contro nipote’. Che tristezza!”

Enrico Lucherini, press agent di Francesca Dellera: “Io, nel mio lavoro, mi diverto spesso a stuzzicare l’invidia degli altri. Ultimamente, per punire l’invidia della Lollobrigida per la Dellera, ho fatto in modo che alla serata di gala per ‘La Romana’ la Dellera sedesse vicino a Moravia. E la Lollo, sa dove l’ho messa? Vicino alla costumista: a crepar d’invidia, per l’appunto”.  

Ilaria Sacchettoni per roma.corriere.it il 19 Settembre 2023

È una guerra felpata di sguardi e spallucce quella tra Andrea Piazzolla, per sempre factotum di Gina Lollobrigida, e Andrea Skofic figlio della Bersagliera, l’uno e l’altro nell’aula del tribunale dove si decide se gli ultimi anni della diva siano stati un inno alla vita oppure una monumentale spoliazione. Nel giorno dedicato alla discussione affiora la novità: nulla è rimasto del patrimonio ma entrate e uscite si pareggiano a somma zero. 

Piazzolla siede all’apparenza tranquillo anche quando la pm Eleonora Fini formalizza la sua richiesta di condanna a sette anni e sei mesi, il massimo previsto dal codice penale per il reato di circonvenzione di incapace di cui è accusato: «Il rapporto fra vittima e imputato era squilibrato — dice la pm— C’è la manipolazione e ci sono una serie di atti contrari al proprio interesse da parte di Gina Lollobrigida». Una perizia nella quale si attesta che la «Lollo» era «raggirabile» per via di una certa vulnerabilità subentrata con gli anni è agli atti del dibattimento eppure anch’essa è in ballo per la difesa, rappresentata dall’avvocato Filippo Morlacchini.

Negli anni, fra il 2013 e il 2018, il factotum della diva si sarebbe appropriato di case, gioielli, contanti e vetture della «Lollo» trasformando la quotidianità dell’attrice, secondo i punti di vista, in «viaggio esistenziale» o in un isolamento finalizzato al controllo dei beni.  

(...) 

Nulla è rimasto di soldi, case, gioielli, oggetti della donna divenuta un simbolo dell’Italia nel mondo secondo le parti civili, Skofic e figlio ma anche da Javier Rigau l’ex marito della Bersagliera, rispettivamente assistiti dagli avvocati Michele e Alessandro Gentiloni Silverj. Sono proprio questi ultimi a pesare la presunta spoliazione, quantificando in oltre «dieci milioni di euro il patrimonio di Gina Lollobrigida al momento in cui conobbe Piazzolla (era il 2009,ndr)».

Il presente è malinconico: anche i circa tremila euro necessari per una cura odontoiatrica sono stati un problema con cui il curatore dell’eredità ha dovuto misurarsi dicono le parti civili. 

Piazzolla entra nella vita della Bersagliera a 21 anni «come fattorino della lavanderia secondo l’architetto Giorgio Bonini (amico dell’attrice in seguito allontanato, ndr)» procede Gentiloni Silverj, lascia gli studi e d’accordo con la sua famiglia inizia a occuparsi dell’attrice all’epoca ottantenne. Si trasferisce nella sua villa sull’Appia antica e non la lascia. 

Il resto — lo sfratto del nipote Dimitri dalla sua depandance, la sua esclusione dall’amministrazione della società «Vissi d’Arte» — appare, per gli avvocati di parte civile la naturale conseguenza di una strategia volta a «demolire la torre nella quale viveva Gina Lollobrigida». 

La difesa ribatte su tutto perizia inclusa: «Si è trattato di un parere influenzato dai media che prima ancora della presentazione della querela già avevano ribattezzato Piazzolla colpevole. Questo è un processo triste nel quale si cerca di far prevalere un atteggiamento moralistico e censorio verso una grande anziana che si è goduta i suoi ultimi giorni grazie alle cure affettuose di un giovane. Piazzolla le ha salvato la vita più volte e non solo in senso lato»

Ilaria Sacchettoni per il “Corriere della Sera” - Estratti mercoledì 20 settembre 2023.

Dopo la richiesta di condanna da parte dei magistrati a sette anni e mezzo per circonvenzione di incapace (il 5 ottobre è prevista la sentenza) Andrea Piazzolla, il trentacinquenne factotum dell’attrice Gina Lollobrigida morta lo scorso gennaio, parla dello scivoloso tema di un rapporto sbilanciato per età, status, esperienze. 

Gina Lollobrigida era una donna di oltre 80 anni quando lei, ventunenne, iniziò a frequentarla. Non ritiene fosse facile manipolarla?

«Non ho mai pensato neanche lontanamente di manipolarla ma anche se avessi voluto sarebbe stato impossibile: era la persona più autonoma e indipendente che io abbia mai conosciuto in ogni aspetto della sua vita». 

Il suo difensore Filippo Morlacchini, durante la discussione, ha parlato di «moralismo censorio» dell’accusa. La Lollo ha detto di essersi goduta gli ultimi anni grazie a lei. Non crede però che i circa dieci milioni di euro del suo patrimonio, andati in fumo, siano troppi?

«Gina aveva detto di non voler lasciare nulla al figlio dopo che lui l’aveva sottoposta a quella che lei riteneva una umiliante gogna mediatica. I soldi sono stati spesi per lei e per mantenere il regime di vita che lei ha voluto fare. Un milione di euro è stato pignorato dal suo ex avvocato per onorari che Gina era certa di aver pagato». 

Si vuol sapere se lei fosse motivato da affetto o da avidità. Quale dei due?

«Credo che la mia vita sia la miglior risposta a questa domanda e il processo lo ha dimostrato, per 12 anni l’ho anteposta a tutto». 

(...)

Ancora la parte civile ha descritto «l’incastro perfetto» tra la suggestionabilità di Gina Lollobrigida e le paure che lei, giorno dopo giorno, le avrebbe instillato. Come risponde?

«Trovo questa accusa infamante e la respingo con forza. Ho fatto l’opposto cercando sempre la sua felicità. Nel corso del mio rapporto con Gina ho ricevuto minacce, telefonate e lettere anonime e Gina lo sapeva, così come sapeva che per quei fatti era stata presentata una denuncia.

Ho trovato ingiusto che nel processo sia stato enfatizzato che Gina, in un momento di grave difficoltà per lei nel corso della perizia come anche il consulente della parte civile ha detto, si sia confusa circa una rapina avvenuta negli anni Sessanta (un fatto remoto sul quale la diva si sarebbe contraddetta durante l’incidente probatorio ndr )». 

Se davvero lei era disinteressato non avrebbe potuto rinunciare ai suoi regali?

«Gina ha voluto farmi dei regali, perché mai avrei dovuto rifiutare? L’avrei offesa». 

La Lollo, novantenne, in sella a una magnifica Ferrari che partecipa a una serata al Brancaccio. Questa immagine funziona più di molte strategie difensive. Personalmente la inorgoglisce?

«Non è una strategia difensiva è la verità: Gina era molto triste quando l’ho conosciuta, mi inorgoglisce il fatto che lei stessa abbia detto a tutti come grazie a me avesse ritrovato la gioia di vivere».

Articolo di Malcom Pagani per Il Fatto quotidiano  - 15 novembre 2016 

Dopo la governante, l’avvocato, l’amministratore, il giardiniere e il figlio, questa mattina, 15 novembre 2016, toccherà al nipote. Lasciati al loro destino, esiliati ed eliminati dall’orizzonte della grandevilla sull’Appia Antica, i primi. 

Plasticamente sfrattato con l’ausilio della forza pubblica quello che chiude la fila. Il parente che occupava la dependance. Gina Lollobrigida è rimasta sola. Con le memorie di ieri a ballare sui novant’anni e la camera con vista sul suo nuovo presente: Andrea Piazzolla, un ragazzo romano senza passato con il cognome da tanguero che per alcuni è il solerte factotum di una leggenda e per altri solo un tanghero, un approfittatore, un Bel Ami che da Tor de’ Cenci – periferia Sud della Capitale – al capitale di un’icona dello spettacolo ha puntato per trovare il proprio palcoscenico.

Da alcuni anni –se si esclude qualche periodica comparsata televisiva o l’esclusiva del compleanno venduta a caro prezzo al settimanale di turno con spettacoli circensi, giochi acrobatici e fuochi d’artificio per la delizia degli invitati – Gina Lollobrigida da Subiaco vive separata dal resto del mondo. Distante dagli amori, dagli affetti e dalla sua unica famiglia e circondata dal solo Piazzolla. L’unico che a suo dire sembra averla capita. L’uomo a cui ha affidato le chiavi del suo patrimonio. A casa Lollobrigida, come amico del figlio di una professionista deputata alla correzione e al ritocco delle immagini fotografiche utilizzate per i cataloghi delle opere dell’attrice, Piazzolla arriva quasi per caso a metà del 2009. 

Senza alcuna esperienza in campo artistico, il ragazzo, poco più che ventenne, sventola altri talenti. Dispone di una parlantina rapida e nonostante la giovane età, vanta improbabili addentellati con non meglio precisati imprenditori americani e arabi. Intorno a una diva da qualche tempo lontana dalle scene, ma famosa in tutto il mondo, si muove una corte dei miracoli da sempre. Agenti pubblicitari di dubbia moralità, approfittatori, mitomani. Gina ha gli occhi aperti, ma a volte gli occhi non bastano. 

Gina è un nome eterno. Gina crea scompiglio, attenzione, turbini di memoria, indotto, nostalgia. Malinconia da Sunset Boulevard, a volte. E però. E però. Sempre in piedi. Sempre all’erta. Sempre Gina. Si è allontanata salvo rare riapparizioni dallo schermo all’inizio degli Anni 70 e si è reinventata. Apprezzata scultrice, pittrice e fotografa, collezionando premi e riconoscimenti per le sue molteplici doti artistiche.

Piazzolla non sa nulla. Ma ha fiuto, annusa l’occasione e comincia a farsi spazio. Si trova vis-à-vis con la celebre “Fata Turchina” i m m a g i n ata da Comencini per il suo P inocchio televisivo e fa di tutto per entrare nel cerchio magico. Una volta al suo interno, si distingue per un affannoso dinamismo che lascia sul terreno gambe corte e nasi molto lunghi. Piazzolla si muove, sgomita, si fa notare, si agita, inizia a chiedere piccoli favori, alza la posta. Promette di organizzare una mostra negli Emirati Arabi che garantirà favolosi emolumenti per la sua nuova datrice di lavoro e cene con le massime autorità siriane. Fa balenare ricchi scenari e paesi dei balocchi.

Quando il tempo passa invano, nessun progetto si concretizza e le promesse iniziano a sembrare favole fantasiose, Andrea abilmente indietreggia. Di fronte allo scetticismo dei parenti e della stessa Lollobrigida, Piazzolla scarta di lato e inizia a lavorare sull’adolescenza di Dimitri. 

Il nipote di Gina Lollobrigida, il figlio di Milko Skofic – frutto del matrimonio di Gina, nel 1947, con l’omonimo medico sloveno Milko –e della giornalista Maria Grazia Fantasia. Allora Dimitri ha solo 15 anni e ancora non immagina che quel ragazzo dai modi gentili un po’ più grande di lui con cui si confida ricevendo in cambio fiumi di parole sul metodo Pnl (programmazione neuro linguistica) di cui la madre di Piazzolla è addirittura coach, si trasformerà nella stessa persona che contribuirà ad allontanarlo per sempre da sua nonna. Prima di distanziarli e mettere un muro tra sé e il proprio passato, Gina Lollobrigida accoglieva figlio e nipote come parenti. Oggi con Dimitri e con tutti gli altri membri della famiglia Skofic, Gina è in guerra. Li considera serpenti. Sibilanti soldati di una continua battaglia a intensità variabile e senza esclusione di colpi che ha portato Lollobrigida in trincea a combattere contro se stessa e contro i suoi cari. Lei e Piazzolla da un lato dellabarricata, tutti gli altri dalla parte opposta.

Di Piazzolla, Gina si fida. E il ragazzo conquista lo spazio utile per esautorare chi della Lollo per decenni, era stato parente e consolazione. Milko, il figlio, che con sua madre dopo un’aspra battaglia legale non parla da quattro anni e “l’adorato” nipote adolescente di ieri con l’ambizione artistica di proseguire sul sentiero di una nonna che gli dedicava libri e attenzioni. Ora Dimitri è indesiderato ospite. Ha aspettato fino all ’ultimo istante utile, il 15 novembre. Sfratto esecutivo. Ieri rimandato. Oggi reale. Con le valigie fuori dall’uscio e i vigili urbani a presidiare le operazioni, Dimitri Skofic non ha più un tetto.

Trattato alla stregua di un usurpatore di una piccola e malmessa dependance a fianco della grande villa padronale, stamattina osserverà scivolare i detriti di una disfida legale in corso da tempo e ora giunta al passo conclusivo. 

La recisione dell’ultimo legale formale tra Gina e la sua famiglia. I giorni felici con i suoi bambini Si apre una porta. Esce una suora. Depone dei fiori accanto ad altri fiori. Potrebbe sembrare un funerale e invece è un’epifania. Agosto 1957. Nelle immagini d’epoca tutto sembra lieto e perfetto. Gli armadi sono puliti e dai cassetti, portati da infermiere che li sollevano come reliquie, escono bianchi vestitini per il nascituro. Milko Skofic jr. Esultano i reporter spagnoli. 

Il tono è squillante, solenne: “Roma, Italia, en el Hospital Salvador Mundi, sobre la colina Janiculo (sic), se ha producido el esperado acontecimiento… Gina Lollobrigida, la inolvidable bersaliera, es madre de un robusto varòn”. Il maschietto si chiama come il padre, Milko, impegnato in camicia a maniche corte a rispondere alle telefonate di congratulazioni e a porgere telegrammi all’amata vestita di bianco, mentre l’heredero, Milko Skofic segundo, viene portato delicatamente da un’infermiera per le foto di rito. Gina è bellissima. Milko ha occhi chiari che superano le angustie del bianco e nero. I due si guardano. Milko segundo nasce sotto i riflettori.

In dissolvenza continua dai cinegiornali alle copertine. In un servizio di Oggi, la Lollo sorride sollevando un lettino bianco. “Per il primogenito, Gina ha preparato una culla da sogno”. Dopo molti litigi, tante incomprensioni e un’infinità di progressivi allontanamenti, la storia tra Milko sr. e la ragazza che nella scheda di presentazione della sua prima Miss Italia sosteneva di voler “fare qualcosa con le sue capacità”, finisce. Con il divorzio, all’inizio degli Anni 70, inizia una nuova vita anche per il figlio di Gina. Quello con cui nelle foto d’a r c h ivio dell’Istituto Luce – tra le piante – Gina si faceva fotografare e riprendere. Lo stesso che oggi, come tutto il resto della storia, sembra una pagina bruciata. Sulla copertina di Gente, nel 1994, Gina è con il figlio di Milko, suo nipote Dimitri. Il bambino, appena nato, è appoggiato sul suo ventre. Gina – raggiante

–promette di volere costruire per lui un futuro migliore: “Adesso sono proprio felice, essere nonna è una sensazione meravigliosa. È bellissimo osservare la vita attraverso gli occhi di un bambino perché riscopri tante sensazioni che avevi dimenticato”.

Memorie nuovamente sepolte da uno strappo sentimentale, da qualcosa che spiegare o razionalizzare appare complicato. Per chi osserva da fuori, capire è impossibile. Dimitri non incontra sua nonna dal Natale del 2011. Da allora gli è impossibile parlarle, comunicare, persino frequentare lo stesso spazio in cui era cresciuto. Giocava a calcio nell’adiacente campo da tennis a lungo abbandonato, Dimitri Skofic. Dalle parti di Gina il gioco si è fatto duro. In via Pomponio Attico 7/B, sul retro della villa di sua proprietà sita in via Appia, dall’aprile 2012, mani ignote hanno saldato la serratura del cancello che garantiva il passaggio tra una proprietà e l’altra e messo robusti lucchetti a chiudere tutti gli altri accessi. 

D’altra parte in quella villa, dal 2012, succedono strane cose. Furti, boati, bolidi e moto di grossa cilindrata che entrano ed escono rombando nella piccola stradina privata. I vicini, sgomenti lamentano ormai da tempo continui frastuoni. Temono che i petardi da stadio che da casa Lollobrigida vengono esplosi con regolare cadenza facendo tremare i vetri, ricadano nei pressi dell’alloro divisorio dando luogo – come è accaduto – a più di qualche principio d’incendio. Telefonano ai Vigili del Fuoco. Protestano. Dall’altra parte del parco si minimizza. 

In un’atmosfera in bilico tra i romanzi Harmony, i dedali senza via di uscita di Simenon e le autorimesse dei film di Tomas Milian (In via Pomponio Attico 7/B da qualche tempo c’è anche la sede della società di pezzi di ricambio di macchine di lusso il cui amministratore, guarda caso, è Andrea Piazzolla) il clima è sinistro.

 C’è più giallo che rosa. Più mistero che lietezza. Più cappa che brezza libera. Superato il cancello della villa di Gina Lollobrigida, più in là delle siepi, oltre il giardino, si estende il regno del signor Piazzolla. I postini lo sanno e a volte suonano anche due volte. La prima, per errore, al campanello della dependance. La seconda all ’ingresso principale. Sul patio, negli ultimi anni, si sono viste molte macchine di pregio. Lamborghini, Jaguar, Range Rover e Ferrari. Una delle grandi passioni di Piazzolla che scala velocemente le marce del proprio progetto, abbandona i jeans, la controllata umiltà e le tute indossate agli inizi per sfoggiare abiti sempre più costosi. 

“È il nipote della Lollo”, sussurrano in giro. Lui non nega e sul sito ufficiale della grande diva iniziano a comparire istantanee che ritraggono il ragazzo accanto alla Lollobrigida. Con l’attrice alla guida della rossa di Maranello, arriva alla prima di Mamma mia, al Teatro Brancaccio, nell’ottobre 2011. Da mesi ormai i due si sono avvicinati fino a diventare indivisibili. La scintilla scatta durante u n  v i a g g i o americano nell’ottobre del 2010. La bersagliera deve seguire la sua causa contro la casa Swarovski e Piazzolla ha garantito aiuti legali –gratuiti –da parte del marito della cugina di sua madre persuadendo l’a vvocato Giulia Citani –che segue Gina Lollobrigida dal 2004 – a rimanere a Roma per potersi meglio coordinare. È la prima volta che Piazzolla e l’attrice trascorrono un periodo insieme.

L’avvocato Michael Mazzariello – ha giurato Piazzolla per convincere la Lollo – è un nome noto. Si dà il caso che il legale statunitense sia il marito della cugina della madre di Piazzolla, all’anagrafe Elisabetta e che il ragazzo si impegni a spiegare a Gina che Mazzariello è amico di quelli che contano, assiduo frequentatore dei salotti televisivi e così onorato di poter prestare il proprio aiuto a una stella del cinema che collaborerà con lei senza avere a pretendere un solo dollaro. Durante la trasferta, Piazzolla dorme da Mazzariello e Gina da un’amica, ma l’a ttrice si ammala, è costretta a rimanere a letto e l’incontro tra lei e l’avvocato slitta di un paio di settimane. Piazzolla intanto non ha perso tempo.

Spendendo il nome di Gina e la fortunata vicinanza con l’attrice, ha organizzato con l’aiuto di Mazzariello una mostra a New York. Lo ha fatto all’i n s a p uta di Gina, ma lei che ha sempre brillato per oculatezza, intuisce lo scavalcamento al primo approccio, si irrigidisce e poi si infuria quando scopre che Mazzariello non

solo non lavorerà gratuitamente, ma anzi pretenderà congrui compensi per prestare opera legale contro Swarovski. A quel punto, con situazionismo pari all’incoscienza, Piazzolla tenta il tutto per tutto. Si inventa un inesistente ricatto di Mazzariello, inquieta una preoccupatissima Lollo e poi si traveste da giustiziere della notte. 

Quando fa buio, proprio come farebbe il James Bond di cui Piazzolla è fan, il ragazzo si impossessa delle chiavi dell’ufficio di Mazzariello. Poi si introduce nello studio legale, recupera i documenti e si presenta trionfante ai piedi di Gina. Uno 007 di retroguardia che spesso sul suo profilo Facebook, alterando le locandine cinematografiche di un tempo, si raffigura come Bond con la diva sullo sfondo. Vederlo in azione e in quei panni a New York cambia tutto.

È la vera svolta di Piazzolla. Il riflesso psicologico che altera il quadro. Il momento in cui ogni cosa cambia e agli occhi di Gina Lollobrigida, l’ex aiutante diventa davvero il personaggio di un film d’azione. Ha rischiato l’arresto, le ha detto di aver violato la legge per lei, è tornato vincitore. Al ritorno in Italia, consapevole del credito guadagnato, Andrea dimostrerà una certa fretta di passare all’incasso.

Estratto dell’articolo di Edoardo Izzo per lastampa.it lunedì 13 novembre 2023. 

Gina Lollobrigida è stata raggirato dal suo ex assistente Andrea Piazzolla che le ha sottratto i beni. A metterlo nero su bianco il tribunale Monocratico di Roma che ha condannato l’ex factotum della Lollobrigida a 3 anni di reclusione con l'accusa di circonvenzione di incapace per aver sottratto beni dal patrimonio dell'attrice tra il 2013 e il 2018.

La procura, lo scorso 18 settembre, aveva sollecitato una condanna a 7 anni e mezzo per l’ex factotum della Lollobrigida. La pm Eleonora Fini aveva evidenziato lo 'stato di fragilità' in cui si trovava Lollobrigida, con periti e consulenti che nel corso del dibattimento hanno concordato su un «indebolimento della capacità di intendere e autodeterminarsi e di decidere autonomamente con una parziale deficienza psichica». Lollobrigida era quindi «suggestionabile, tenuta in isolamento, in uno stato di vulnerabilità» aveva concluso la pm.

I procedimenti avviati dai magistrati di piazzale Clodio erano partiti dopo le denunce presentate dai familiari dell’artista contro Piazzolla. Secondo l'accusa, l’uomo avrebbe depauperato il patrimonio dell'attrice abusando del suo stato di debolezza psichica, inducendola a isolarsi dagli affetti familiari e facendole compiere una serie di atti giuridici che le hanno causato un danno patrimoniale milionario. Inoltre sarebbe riuscito a indurre Lollobrigida a nominarlo amministratore di diverse sue società e a vendere alcuni appartamenti.

Parla Andrea Piazzolla: «Io, Gina Lollobrigida e gli altri. Il nostro? Un rapporto unico. Al figlio non importava nulla della madre. Ora lavorerò». Ilaria Sacchettoni su Il Corriere della Sera martedì 14 novembre 2023.

Il factotum della Bersagliera non si pente. Il rapporto con Lollobrigida, dice, è stato irripetibile. Preferisce non dire dove abita ma non è la villa sull’Appia, vuota e ancora per poco sotto sequestro

L’eterno ragazzo ha oggi 36 anni, ne aveva 26 quando suonò al campanello della villa sull’Appia antica, dove Gina Lollobrigida, tra lampadari monumentali e ninnoli aggraziati, conduceva la sua vita di sempre. Da ieri Andrea Piazzolla, faccia pulita e modi educati, pende una condanna a tre anni di carcere per circonvenzione di incapace. Quel giovane, pensano i giudici, raggirò la diva per impadronirsi del suo patrimonio. Lui, però, non si pente. Il rapporto con Gina, dice, è stato irripetibile. Preferisce non dire dove abita ma non è la villa sull’Appia, vuota e ancora per poco sotto sequestro.

Andrea Piazzolla il giudice Marco Marocchi ha creduto alla impostazione della Procura che aveva parlato di squilibrio tra vittima e imputato. Lei agiva da una posizione privilegiata. Come fa a dire che fosse un rapporto paritario quello tra lei e l’allora ottantenne Gina Lollobrigida?

«Non era e non è stato mai un rapporto paritario, perché Gina decideva tutto in piena autonomia anche quello che riguardava la mia persona. Ha sempre agito seguendo la sua linea di pensiero che nessuno poteva modificare. Che si trattasse di lavoro o rapporti personali, è sempre stata una donna molto libera e non influenzabile da nessuno. Ho imparato da Gina il significato della parola libertà, perché non ha mai fatto qualcosa in cui non credesse. Ho vissuto accanto a Gina per soddisfare ogni sua esigenza, da quelle materiali, mediche e sociali. L’ho accompagnata, se ero gradito, in tutti i suoi impegni. Ero a sua totale disposizione. Ho anteposto lei a tutto e tutti. Il mio rapporto con Gina era e resterà unico»

La perizia psichiatrica nei confronti della Bersagliera è stato il cuore del processo. Lei ha sempre detto che la diva era autonoma. Non è vero piuttosto che negli ultimi anni dipendeva da lei per ogni cosa?

«Gina, come tutte le persone molto anziane, aveva delle necessità che ero felice di soddisfare. Ma non ha mai avuto la necessità di avermi accanto. È sempre stata circondata da amici e persone che le vogliono bene, che nel processo hanno chiaramente parlato del loro rapporto con la Lollo e di quello che ho fatto per lei. Per le sue necessità pratiche Gina sapeva benissimo di poter in qualunque momento ricorrere a personale di servizio che in taluni casi ha assunto»

Condannato a tre anni di carcere (ma saranno trasformati in altro). Chiederà di assistere persone fragili?

«Devo dire che io non ho chiesto neppure alla Lollo di assisterla. Quando la conobbi fui chiamato a collaborare ad una sua iniziativa e poi il nostro rapporto si è intensificato. La mia vita lavorativa prenderà altre strade, nonostante le enormi difficoltà derivanti dalla vicenda giudiziaria che mi vede coinvolto»

Lei e il suo avvocato, il penalista Filippo Morlacchini, avete giocato molto sulla vita apparentemente ancora esuberante della diva che lei le avrebbe garantito. Non crede sia un fatto difficile da dimostrare?

«Assolutamente no, è stato dimostrato attraverso testimonianze, fotografie e documenti. Gina ha goduto di buona salute quindi era perfettamente in grado di partecipare a eventi, in Italia e all’estero, così come di salire su un elicottero per andare a pranzo a mare»

Lei ha accusato figlio e nipote di Gina di indifferenza nei confronti della loro madre e nonna. Le sue parole ieri mattina in aula sono state severe. Non pensa di aver interferito con il rapporto madre-figlio?

«Io rivendico le mie parole perché corrispondono alla verità. E sfido chiunque a dimostrare il contrario. Il rapporto tra Gina e Milko è sempre stato molto teso. Gina non è andata neppure al matrimonio del figlio non condividendo la sua scelta. Io non ho interferito, ho fatto al contrario di tutto perché le frequentazioni riprendessero, salvo constatare in tanti anni il costante disinteresse del figlio che ha spesso disdetto all’ultimo minuto appuntamenti ai quali la madre teneva molto. I primi anni della mia frequentazione con Gina, abbiamo invitato Milko alle feste di compleanno della Lollo. Non si è mai presentato né ha fatto una telefonata di auguri, salvo oggi affermare che è rammaricato di non aver avuto un rapporto con lei»

Ha ricevuto attestati di solidarietà per la sentenza?

«Si, molte persone mi hanno scritto e chiamato per dirmi come loro conoscono bene l’amore che mi legava a Gina e quello che ha rappresentato per noi il nostro rapporto»

Marco Giusti per Dagospia il 15 Gennaio 2023.

L’ultima volta che l’ho visto quest’estate mi ha raccontato con dovizia di particolari le nozze di Edda Mussolini e il conte Galeazzo Ciano a Livorno il 12 aprile del 1930, con lui bambino, doveva avere sei anni, che assieme a altri bambini sbirciava il Duce e gli altri invitati importanti. Cercava proprio di ricomporre quella giornata che per lui doveva essere stata di grande importanza. Difficile non perdersi nelle storie che raccontava l'ormai quasi centenario Gianfranco Barucchello, artista, regista, pittore, scrittore che ha illuminato la scena culturale non solo italiana dal dopoguerra a oggi, e che se ne è andato per sempre a 98 anni. 

 Come tutti i centenari che riescono a mantenere anche un po’ di controllo dei loro ricordi e a seguire un filo anche sottilissimo, Barucchello andava molto indietro, poteva spaziare dalla sua infanzia a Livorno, dove era nato nel 1924, con un padre importante, direttore dell'Unione industriali italiani, agli anni della guerra e del primissimo dopoguerra che lo vide lavorare a Colleferro alla Bomprino Parodi Delfino, industria chimica, nota come BPD, che faceva di tutto dalla polvere da sparo al DDT al sapone Lauril. 

Fino a raccontare, certo, gli anni della sua formazione artistica, l'incontro con Marcel Duchamp, il rapporto con Alberto Grifi, che dette vita a un capolavoro che cambiò negli anni '60 il nostro modo di vedere un film, di ragionare sul montaggio, di strutturare una storia spezzando le trame già scritte, "Verifica incerta", una sorta di superblob dove si incrociano e dialogano fra di loro scene all'apparenza casuali di ben 47 film. Per Umberto Eco “un curioso collage cinematografico […], una storia fatta con spezzoni di storie, anzi di situazioni standard, di topoi, del cinema commerciale”. 

Un montaggio che dava vita per la prima volta a un'opera che dalla costruzione teorica e dal solo avvicinarsi di un'immagine all'altra costruiva la propria forza di racconto unico, di film. O controfilm. Mentre Michael Snow toglieva all’uomo dietro la macchina da presa la scelta di cosa riprendere della vita sulla terra, Baruchello e Grifi, decomponendo il già girato lo ricostruivano come nuovo racconto inventando le mille trame, volute o casuali della scrittura alla moviola. Un collage di pellicole a 35 mm che diventava un solo film in 16 mm contro ogni logica del film d’autore e ogni ragionamento di sfruttamento commerciale. Una rivoluzione, al tempo. 

Alla faccia dei diritti di ognuno di quelle 47 pellicole che renderebbero oggi impossibile perfino ideare un simile lavoro. Nel suo studio, un po' fuori Roma, ogni tanto, tra un ricordo di Grifi e uno dei tempi di guerra, spuntava una pizza con tagli, rimasugli della Verifica incerta, grande titolo duchampiano, che anticipava e storicizzava con una nobiltà antica il figlioccio più cialtrone e meno artistico Blob, che arriverà 25 anni dopo nella pur sofisticata rete di Guglielmi. 

E non a caso proprio a Guglielmi, a Umberto Eco e agli altri intellettuali del Gruppo 63, leggo, il film era stato mostrato per la prima volta a Palermo nel 1965 (sarà vero? O alla Cinémathèque français presentato da Duchamp, sempre nel 1965). Avevo già visto la Verifica incerta prima di arrivare a Blob? Sicuramente. Come avevo visto i film di Michael Snow. Ma, a differenza di Ghezzi, che teorizzava la cosa, forse per dargli una dignità di cinema (almeno) sperimentale, non ho mai visto Blob come figlio o figliastro del lavoro di Baruchello e Grifi. Se lo era stato, almeno per me, lo era stato inconsciamente. 

Negli anni ’80, anzi alla fine degli anni ’80, tutto quel tipo di cinema era già stato mangiato e digerito (bones and all) dalla mia generazione critica. Logico che sputassimo in tv quello che avevamo visto e amato in quegli anni. Lo stesso uso del trailer (tagliato) di “Blob” il film era un uso alla Baruchello-Grifi. Ma non ne parlammo mai quando costruimmo il programma, anche se Enrico voleva recuperare il titolo “la verifica incerta” per fare dei bla-bla-bla sui film del Festival di Venezia, idea che mi sembrava terribile, già il primo anno di Blob, certo il titolo era allettante, e più di una persona mi fece notare che blob era un po’ un furto del lavoro di Baruchello e Grifi. 

Ma con Baruchello non ne abbiamo mai parlato. Il momento storico e il momento culturale erano così diversi che per forza ogni collegamento era una forzatura. Per non parlare del fatto che uno era un film, in 16 mm, e uno era un programma televisivo. Ma credo che a Baruchello, così preoccupato di seguire i suoi fili di storie, di racconti visivi, l’esperienza di “Verifica incerta” interessasse soprattutto come gesto duchampiano, narrativo/anti/narrativo. 

Ma non aver buttato via dalla sua villa-studio le pizze delle pellicole che ogni tanto spuntavano qua e là dopo sessant’anni, e magari c’è qualcosa di raro e di interessante pensavo, dava al tutto una luce davvero bizzarra, quasi da finale di Apocalypse Now. La mia missione però, perché una missione c’era, era quella di capire come poter recuperare una serie di nastri girati da Baruchello con grandi filosofi e pensatori che si erano “attaccati”. Gli portai l’uomo giusto per ricostruire qualsiasi nastro attaccato, Luca Rea, che ridette vita a ore e ore di interviste strepitose che Baruch aveva fatto. 

Io mi persi nella sua biblioteca, che conteneva anche quella del padre e, credo, quella del nonno. Mi persi nelle trame dei suoi disegni infiniti e nei suoi ricordi di guerra. Fantastici. Che avrei voluto riprendere. Alla fine mi stupiva l’idea che un uomo, un artista che riuscisse a ricostruire così bene, anche da vecchio e vecchissimo, le trame delle sue tante storie e tante vite, fosse lo stesso che avesse tagliato per sempre la narrativa classica del cinema. Per rendere le immagini e i suoni liberi di ricomporsi in mille modi diversi.

Tiktoker muore a 33 anni, mangiava cibo spazzatura e scaduto. Luisa Mosello su La Repubblica il 14 Gennaio 2023.

Taylor LeJeune, noto con il nickname Waffler69, è deceduto per arresto cardiaco, le cause sono ancora da chiarire: faceva impazzire i quasi due milioni di follower con filmati in cui ingeriva di tutto

Non condividerà più i suoi video in cui mangiava ogni sorta di cibo spazzatura, dai colori più improbabili o scaduto da anni: Taylor LeJeune, famoso tiktoker americano con 2 milioni di follower, noto con il nome di Waffler69, è morto all'età di 33 anni per un "presunto attacco cardiaco".

 Lo ha comunicato il fratello Clayton: "Mio fratello Taylor... è morto intorno alle 22:00 dell'11 gennaio 2023, a causa di un presunto attacco di cuore (le cui cause sono ancora da chiarire, ndr). È stato portato d'urgenza in ospedale e un'ora e mezza dopo è morto. Non ho ancora realizzato ciò che è successo. Il futuro è un'incognita... ma ho pensato che avrei dovuto annunciare la sua morte su TikTok per farlo sapere a tutti". 

Tanti i commenti sui social in cui come causa del decesso si fa riferimento all'alimentazione non proprio ortodossa dell'uomo. Una morte che fa riflettere e discutere, soprattutto perché sono in molti a pensare che il decesso di Taylor LeJeune possa essere legato alle sue abitudini alimentari così sregolate, come emerge dai video che il tiktoker postava tutti i giorni.

C'è chi sostiene che "Waffler ha mangiato tonnellate di fastfood, carne selvatica e altre cose e sia suo padre che suo nonno sono morti per problemi cardiaci genetici, quindi è più che probabile che questi fattori abbiano causato la sua morte" . E chi ne è quasi certo: "Per essere onesti, penso che siano stati i cibi malsani che ha mangiato a causare il suo infarto" 

Non mancano i no vax che tira il ballo il vaccino contro il Covid ma vengono smentiti: "Se qualcuno si prende un colpo dopo aver passato 20 anni a mangiare burro e formaggio secco e vecchi hamburger, non puoi semplicemente incolpare un vaccino". 

"Ma non i grassi saturi? Mi piaceva guardarlo, ma era sempre sudato con il respiro pesante e le mani tremanti. Probabilmente aveva ipertensione, iperlipidemia e diabete - quindi siamo reali qui - il cibo probabilmente ha fatto questo. Che tu ci creda o no, le ciambelle sono più pericolose dei vaccini.

Impressionanti, e raccapriccianti, i video in cui per esempio mangia cibo e bevande del secolo scorso, come il prosciutto, la carne di manzo o la frutta sciroppata del 1960. Si vedono poltiglie e pezzetti di alimenti oramai calcificati che vengono "gustati" da Taylor che offre una sorta di telecronaca dei suoi pranzi al limite, anzi oltre. 

È vero che a volte si possono consumare alcuni alimenti oltre alla data di scadenza, ma non oltre mezzo secolo. Quando per esempio il TMC (Termine Minimo di Conservazione) è indicato sulle confezioni con la dicitura “da consumarsi preferibilmente entro il" seguito dall'indicazione di giorno, mese ed anno significa che prodotto può essere consumato senza alcun rischio fino a tre mesi dopo. Fra gli ingredienti che non hanno scadenza ci sono invece il sale e lo zucchero.

Tiktoker si ammazza di cibo: altra vittima della follia social. Morto a 33 anni Taylor LeJeune, famoso per abbuffarsi in diretta. Il precedente italiano di "YouTubo Anche Io". Daniela Uva il 15 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Era diventato famoso in tutto il mondo divorando junk food. Snack, patatine, bibite, salse, piatti da fast food, conserve di qualunque tipo molto spesso anche scadute erano diventate la sua dieta quotidiana, «pubblicizzata» attraverso la pagina tiktok «Waffle69». Alla fine il fisico del 33enne americano Taylor Lejeune non ce l'ha fatta: l'uomo è morto per un presunto arresto cardiaco. Taylor aveva raggiunto 1,8 milioni di follower sul social cinese di mini video. E lo aveva fatto a suon di scorpacciate di alimenti lontani anni luce dall'idea di una dieta sana e bilanciata. La sua sfida era mangiare e recensire il cosiddetto cibo spazzatura, senza neanche preoccuparsi della data di scadenza. Una «moda», come del resto altre sfide social improbabili, che continua a mietere vittime. Risale infatti a circa un anno e mezzo fa il decesso di un altra star della Rete. Nome in codice «Youtubo anche io», l'italiano Omar Palermo ha perso la vita a 42 anni per un infarto. Anche lui, come il 33enne americano, era diventato famoso grazie alle sue maratone gastronomiche a base di enormi quantità di cibo. Alle quali aveva dato anche un'impronta personale: nei suoi video si cimentava sempre con l'italiano aulico e non mancava di aggiungere episodi di vita reale. Il suo canale su Youtube ha così collezionato oltre 500mila iscritti, mentre i suoi video sono stati guardati oltre 66 milioni di volte. Thomas Hungry ha invece ottenuto 300mila visualizzazioni mentre, in diretta video, in 48 ore ha assunto 50mila calorie ingrassando 11 chili. Sfidarsi a suon di clip sui social, mettendo a volte in pericolo la propria vita, è un fenomeno sempre più allarmante. Il primo è stato Adam Richman che sul fenomeno aveva costruito addirittura un programma tv dal titolo «Man vs Food». Ora la faccenda coinvolge anche le multinazionali. Basti pensare che una recente ricerca condotta dalla Deakin university di Canberra, in Australia, ha esaminato la presenza su TikTok di 16 marchi alimentari e i risultati hanno suggerito che queste puntano sui giovanissimi, usando tattiche pubblicitarie definite «insidiose». Attraverso l'analisi di oltre 500 video, i ricercatori si sono resi conto che le grandi aziende cercano di influenzare gli utenti, spesso anche attraverso «sfide» sui social, naturalmente con l'obiettivo di pubblicizzare i propri prodotti. Ma con il risultato di alimentare comportamenti sbagliati e in qualche caso anche pericolosi. Come nel caso delle star del junk food. «Mangiare cibo spazzatura è estremamente rischioso conferma la dietologa Paola Parancola -. Ci sono patologie delle quali non si è a conoscenza, che possono essere attivate da processi infiammatori generati dall'abuso di alimenti poco sani». Un pericolo che riguarda anche i giovani. «Esagerare con questi cibi può accendere una sorta di interruttore già scritto nel Dna. Senza considerare i danni epatici che possono scatenare processi infiammatori gravi e portare alla morte».

Muore a 33 anni il tiktoker famoso per mangiare dai cibi scaduti a quelli ipercalorici. Redazione su Il Corriere della Sera il 14 Gennaio 2023.

wafffler69 era il nome d'arte dell'americano Taylor LeJeune, deceduto l'11 gennaio per attacco cardiaco poco dopo aver postato il suo ultimo video

L’ultimo video pubblicato su TikTok risale a tre giorni fa, l'11 gennaio, proprio la data della sua morte. Ai suoi quasi 1,8 milioni di follower, wafffler69 si mostrava divorando una ciambella gigante alla frutta, inzuppata nel latte. Poi è arrivato l’annuncio del fratello che in un messaggio a Nbc News ha confermato la morte a soli 33 anni di suo fratello, il cui vero nome era Taylor LeJeune.

Abuso di cibo spazzatura

Il tiktoker americano, viveva in Louisiana, era un critico gastronomico decisamente particolare perché nei suoi video si mostrava mangiando abbondanti dosi di cibi molto grassi, particolari (addirittura le cavallette fritte) e in certi casi addirittura scaduti. Facile immaginare che la morte improvvisa di wafffler69 (a seconda delle piattaforme usava due o tre “f” per il suo nickname) fosse causata dall’abuso di cibo spazzatura. Ma è sempre il fratello Claydorm a sottolineare come l’attacco di cuore che ha costretto la mamma a portarlo di corsa in ospedale non fosse una rarità nella sua famiglia, dato che sia il padre che il nonno erano deceduti per problemi di cuore prima dei 50 anni. Il decesso di LeJeune, che aveva anche una sua linea di merchandising, ha destato grande commozione tra i suoi ammiratori, che stanno commentando numerosi sui social.

Da ansa.it il 12 gennaio 2023.

Lisa Marie Presley, la figlia di Elvis Presley, è morta in seguito a un attacco cardiaco. Aveva appena 54 anni. A darne l'annuncio la madre Priscilla: "È con il cuore pesante che devo condividere la devastante notizia che la mia bellissima figlia Lisa Marie ci ha lasciato. Era la donna più appassionata, forte e amorevole che abbia mai conosciuto".

 L'annuncio della morte è arrivato poche ore dopo il ricovero d'urgenza in ospedale. Fonti informate avevano riferito al sito Tmz che la donna era stata ricoverata in terapia intensiva in condizioni critiche e che le era stato applicato un pacemaker provvisorio dopo che aveva subito un arresto cardiaco.

 Era stata la domestica a trovarla priva di sensi nel suo letto e poi l'ex marito, Danny Keough che vive con lei. Era rientrato dopo aver accompagnato i loro figli a scuola e aveva chiamato l'ambulanza.

Martedì sera la figlia di Elvis aveva partecipato ai Golden Globes e aveva celebrato il premio come miglior attore ad Austin Butler che aveva interpretato suo padre nel film "Elvis" di Baz Luhrmann. Pochi giorni prima, l'8 gennaio, aveva celebrato a Graceland, la villa di Elvis a Memphis, in Tennessee, l'anniversario della nascita di suo padre.

Estratto dell’articolo di Andrea Silenzi per “la Repubblica” il 14 gennaio 2023.

In quelle foto da piccola con papà Elvis, Lisa Marie Presley sembrava una bambina qualsiasi […] Una vita complicata, iniziata nella leggendaria Graceland nel 1968, che l'ha vista attraversare la morte di suo padre, la cacciata dalle scuole, la cocaina, quattro matrimoni […] Un frullatore che si è fermato poche sere a fa alla cerimonia dei Golden Globe, dove insieme alla madre Priscilla era presente alla premiazione di Austin Butler, l'attore che ha interpretato suo padre nel film Elvis, ennesimo cortocircuito temporale di un'esistenza vissuta a tavoletta con la sua luna maledetta sempre dietro le spalle.

Un fantasma nascosto in un cognome, forse, o magari un vantaggio trasformato in handicap come in tante storie da stardust memories. I "figli di" travolti dalla loro stessa vita sono ormai un numero impressionante. E vai a capire se la maledizione era dentro di loro o se la vita con genitori assenti, viziosi, ingombranti sia diventata all'improvviso insopportabile. […]

 La fatalità, certo, colpisce senza guardare: lutti come quello attraversato da John Travolta, che ha perduto il figlio sedicenne a causa di un attacco epilettico, o quello che ha colpito Sylvester Stallone, che ha perso suo figlio Sage Moonblood, 16 anni, per arresto cardiaco, o la polmonite che ha stroncato Guillaume Depardieu, figlio di Gérard, a 37 anni, sono maledizioni, sì, ma del destino. 

[…]Ma in molti casi gli spettri che giravano in casa hanno travolto tutto e tutti: le storie di morte da overdose, da Scott Newman, figlio di Paul, alla figlia di Bob Geldof, Peaches, hanno riempito le pagine più tristi e nere della cronaca. Così come i tanti suicidi che hanno devastato i boulevard di Hollywood e le stanze segrete delle rockstar. 

Chad Mc-Queen accusò suo padre Steve di abusi. Ma il finale triste, per fortuna, non è obbligatorio nei copioni delle star: in tanti hanno trovato la loro strada, e alcuni anche in modo molto luminoso […]però, non a tutti è andata bene. In una intervista rilasciata qualche anno fa a Repubblica fu chiesto a Julian Lennon cosa direbbe a suo padre se potesse incontrarlo. «Soltanto una cosa: perché mi hai ignorato così tanto?».

Estratto dell’articolo di Maria Volpe per corriere.it il 14 gennaio 2023.

 […] Addio all’unica figlia del re del rock. Lisa Marie Presley era nata a Memphis, il primo febbraio del 1968, figlia del celebre Elvis Presley e dell’attrice Priscilla Ann Wagner. Famosa per essere l’unica figlia di Elvis, Lisa Marie - che ha perso il padre a soli 9 anni - ha frequentato una lunga serie di scuole, principalmente collegi, […]spesso espulsa per possesso illegale di droga, in particolare cocaina, la cui dipendenza è stata a lungo un problema nella sua vita. Una ragazza e una donna irrequieta. Per breve tempo è stata anche seguace del movimento religioso di Scientology a Los Angeles.

Alla Scientology School incontrò il primo marito Danny Keough. […] Ebbero 2 figli: Danielle Riley (29 maggio 1989) oggi un’affermata modella e attrice , e Benjamin Storm (21 ottobre 1992 - 12 luglio 2020), morto suicida. […]

Poco dopo, Il 26 maggio 1994 sposò Michael Jackson. […] I due rimasero molto legati fino alla fine della vita di Michael Jackson. Entrambi avevano condiviso un passato turbolento, trovando pace e affetto l’uno nell’altra. […]

 Nel 1998, la Presley comincia a frequentare il musicista rock John Oszajca, ma la loro unione durò poco più di un anno. Il 31 luglio 2002 conobbe ad una festa l’attore Nicolas Cage; i due si sposarono il 10 agosto 2002 e divorziarono il 26 maggio 2004. Dal 2006 è stata sposata con il chitarrista della sua band Michael Lockwood, da cui ha avuto due gemelle […]. Nel 2016 i due hanno divorziato.

[…] Nel 2003 cominciò la sua carriera da cantante solista […]  Il suo album d’esordio, «To Whom It May Concern», ebbe un discreto successo e arrivò al quinto posto tra i dischi più venduti negli Stati Uniti. […]

 […] Dal 1993 Lisa Marie Presley è proprietaria esclusiva della tenuta di Graceland, comprensiva di tutti i cimeli, gli arredi, le vetture e i beni della casa Un patrimonio inestimabile. L’organizzazione turistica di Graceland, nonché le attività commerciali sorte al di fuori della proprietà sono in parte gestite dalla Elvis Presley Enterprises di cui Lisa Marie Presley è fondatrice, detenendo il 15% delle azioni, e dalla Authentic Brands Group, con sede a New York, che gestisce tutti i diritti d’autore e d’immagine di Elvis Presley, oltreché di svariate altre star americane.

DAGONEWS il 17 gennaio 2022.

 Prima di morire, Lisa Marie Presley spendeva più di 92.000 dollari al mese e, secondo quanto riferito, doveva al fisco un milione di dollari dopo aver sperperato la fortuna di 100 milioni di dollari del padre.

 La Presley, morta giovedì a 54 anni per arresto cardiaco, guadagnava più di 100.000 dollari al mese dal patrimonio e dalle attività del padre. Dalla tenuta di Graceland ricavava circa 4.400 dollari al mese e dalla Elvis Presley Enterprise 104.000 dollari al mese.

 Secondo i documenti legali, ottenuti da The Blast a novembre, la figlia di Elvis spendeva più di 92.000 dollari.

 Tra le sue spese mensili, ci sono 23.500 dollari di affitto e 1078 dollari per una Maserati.

Il documento afferma inoltre che Presley ha 95.266 dollari in contanti, 714.775 dollari in azioni e obbligazioni e che deve un milione di dollari al fisco. Il suo valore totale, al netto dei debiti, è stato stimato in 4 milioni di dollari.

L'informazione è stata rivelata durante il procedimento di divorzio tra lei e l'ex marito Michael Lockwood.  

 Lockwood, padre delle sue due figlie gemelle Harper Vivienne e Finley, chiedeva 40.000 dollari al mese per il mantenimento.

La Presley, ha dichiarato di essersi trovata a un certo punto con 16 milioni di dollari di debiti, a seguito dei disastrosi affari conclusi dal suo manager Barry Siegel.

 Nel 2018 lo ha citato in giudizio, accusandolo di aver gestito male la sua eredità.

Siegel e la sua società, la Providence Financial Management, hanno fatto causa, sostenendo che le "spese fuori controllo" della Presley hanno portato alla sua situazione finanziaria.

Secondo i documenti, all'epoca Presley doveva più di 10 milioni di dollari di tasse dal 2012 al 2017 ed era inadempiente sul debito di oltre 6 milioni di dollari contratto con la sua casa nel Regno Unito.

Doveva inoltre 263.050 dollari di onorari professionali, 47.844 dollari di debiti con carte di credito e una stima di 250.000 dollari di fatture varie non pagate.

 La Presley ha rivelato le sue difficoltà finanziarie in risposta alla richiesta di Lockwood di aiutarla a pagare parte dei suoi 450.000 dollari di spese legali.

Lisa Marie Presley è morta: era l’unica figlia di Elvis. Aveva 54 anni. Redazione Online su Il Corriere della Sera il 12 Gennaio 2023.

Lisa Marie, unica figlia di Elvis Presley, era stata trasportata d'urgenza in ospedale per un sospetto arresto cardiaco. Martedì sera era presente alla cerimonia dei Golden Globes a Beverly Hills

Lisa Marie Presley , cantautrice e unica figlia di Elvis Presley, è morta in un ospedale di Los Angeles. «È con grande dolore che devo condividere la devastante notizia che la mia cara figlia Lisa Marie è morta», ha confermato la madre Priscilla Presley in una dichiarazione al sito web People, «Era la donna più appassionata, forte e amorevole che abbia mai conosciuto».

Ieri mattina la cantante, figlia della leggenda del rock’n’roll Elvis Presley, era stata ricoverata d'urgenza a causa di un arresto cardiaco dopo il malore l'ha colpita la mattina di giovedì nella sua abitazione di Calabasas. Il polso della figlia di Elvis avrebbe ripreso a battere e la donna si sarebbe ripresa grazie alla pronta rianimazione degli operatori sanitari, poi sottoposta al coma farmacologico, ma non c’è stato nulla da fare.

Pochi giorni fa Presley aveva partecipato alla cerimonia dei Golden Globes con sua madre Priscilla. E l’8 gennaio aveva celebrato a Graceland, la villa di Elvis a Memphis, in Tennessee (di cui era proprietaria), l’anniversario della nascita di suo padre.

A ricordarla, appena si è diffusa la notizia della morte, star di Hollywood come Tom Hanks - co-protagonista di Austin Butler nel film Elvis - Rita Wilson e John Travolta, così come la stilista Donatella Versace. «I nostri cuori sono spezzati per la scomparsa improvvisa e scioccante di Lisa Marie Presley. Tom e io avevamo trascorso un po’ di tempo con la famiglia durante il tour promozionale del film di Elvis. Lisa Marie era così onesta e diretta, vulnerabile», ha detto Rita Wilson, attrice e moglie di Hanks, in un post su Instagram. «Lisa piccola, mi dispiace tanto. Mi mancherai ma so che mi mancherai ci vediamo. Il mio amore e il mio cuore vanno a Riley, Priscilla, Harper e Finley», ha scritto l’attore Travolta su Instagram, riferendosi alle figlie e alla madre di Lisa Marie Presley. «Non dimenticherò mai i momenti che abbiamo passato insieme», ha scritto su Instagram Donatella Versace. «La tua bellezza e la tua gentilezza brillavano così forte. Riposa in pace Lisa Marie. Non ti dimenticheremo mai».

Presley, cantante e cantautrice, era madre di tre figli, le gemelle Harper e Finley, oltre all'attrice e modella Riley Keough, che ha attirato l'attenzione per le sue capacità di recitazione nella serie «The Girlfriend Experience» del 2016. Il quarto, Benjamin, è morto suicida nel luglio 2020 a 27 anni.

Proprio ai Globes insieme alla madre aveva assistito alla vittoria di Austin Butler per la sua interpretazione del Re nell’omonimo biopic. Durante il discorso di accettazione del premio, l’attore ha reso omaggio sia a Priscilla, 77 anni, sia a Lisa Marie. «Alla famiglia Presley voglio dire grazie, per avermi aperto i vostri cuori, i vostri ricordi, la vostra casa», ha detto l’attore. «Lisa Marie e Priscilla, vi amerò per sempre».

Lisa Marie ha posseduto e gestito la Elvis Presley Enterprises fino al 2005, quando ha ceduto l'attività, restando proprietaria di Graceland.

Da giovane ha frequentato diverse scuole, principalmente collegi, dai quali venne anche espulsa per problemi legati alla droga.Fu anche una seguace del movimento religioso di Scientology a Los Angeles: proprio alla Scientology School incontrò il primo marito Danny Keough, da cui ebbe i due figli Danielle Riley e Benjamin Storm. Si sposarono il 3 ottobre 1988 e divorziarono il 6 maggio 1994. Poche settimane dopo, alla fine di maggio 1994, la figlia di Elvis sposò Michael Jackson, cui rimase sposata per circa due anni (ma i due continuarono a frequentarsi fino al 1998). Fu sposata anche con l’attore Nicolas Cage e il chitarrista della sua band Michael Lockwood, da cui ha avuto due gemelle: Harper Vivienne Ann e Finley Aaron Love.

La sua carriera da solista iniziò nel 2003, su consiglio del produttore David Foster, marito della ex fidanzata del padre (di cui rimase amica) Linda Thompson. Esordì con l’album To Whom It May Concern, che riscosse negli Usa un discreto successo e arrivò al quinto posto tra i dischi più venduti. Poi vennero gli altri due album, l’ultimo dei quali pubblicato nel 2012.

Chi era Lisa Marie Presley: 4 matrimoni (uno con Michel Jackson) e 4 figli. Maria Volpe su Il Corriere della Sera il 13 Gennaio 2023.

La cantante statunitense ha perso il padre a 9 anni. Fin da ragazza ha avuto problemi di droga. Una vita sentimentale irrequieta e qualche piccolo successo come cantante

Addio all’unica figlia del re del rock. Lisa Marie Presley era nata a Memphis, il primo febbraio del 1968, figlia del celebre Elvis Presley e dell’attrice Priscilla Ann Wagner. Famosa per essere l’unica figlia di Elvis, Lisa Marie - che ha perso il padre a soli 9 anni - ha frequentato una lunga serie di scuole, principalmente collegi, soprattutto in California, a Los Angeles, Ojai e Ventura County. Un’adolescenza complicata: è stata spesso espulsa per possesso illegale di droga, in particolare cocaina, la cui dipendenza è stata a lungo un problema nella sua vita. Una ragazza e una donna irrequieta. Per breve tempo è stata anche seguace del movimento religioso di Scientology a Los Angeles.

Alla Scientology School incontrò il primo marito Danny Keough. Si sposarono il 3 ottobre 1988, ed ebbero 2 figli: Danielle Riley (29 maggio 1989) oggi un’affermata modella e attrice , e Benjamin Storm (21 ottobre 1992 - 12 luglio 2020), morto suicida. Ben, a soli 27 anni, dopo aver assunto alcool e cocaina da cui era dipendente da anni , si sparò un colpo di arma da fuoco durante la festa di compleanno della sua ragazza. Un evento tragico che segnò la vita di Lisa Marie. Ora è sepolto accanto al famoso nonno. Poi la figlia di Elvis divorziò da Danny il 6 maggio 1994.

Poco dopo, Il 26 maggio 1994 sposò Michael Jackson. Nel 1995, Lisa Marie Presley partecipa al video di Michael Jackson You are not alone, suscitando enorme clamore per le scene di nudo. I due rimasero molto legati fino alla fine della vita di Michael Jackson. Entrambi avevano condiviso un passato turbolento, trovando pace e affetto l’uno nell’altra. Dopo la sua morte, lei commentò i giorni difficili delle accuse di pedofilia: «Credevo che non avesse fatto niente di male, e che fosse stato accusato ingiustamente e, sì, ho iniziato a innamorarmi di lui. Volevo salvarlo. Sentivo di poterlo fare».

Nel 1998, la Presley comincia a frequentare il musicista rock John Oszajca, ma la loro unione durò poco più di un anno. Il 31 luglio 2002 conobbe ad una festa l’attore Nicolas Cage; i due si sposarono il 10 agosto 2002 e divorziarono il 26 maggio 2004. Dal 2006 è stata sposata con il chitarrista della sua band Michael Lockwood, da cui ha avuto due gemelle: Harper Vivienne Ann e Finley Aaron Love, nate il 7 ottobre 2008.. Nel 2016 i due hanno divorziato.

Luisa Marie era molto amica dell’ex fidanzata del padre, Linda Thompson, e nel 2003 cominciò la sua carriera da cantante solista su consiglio del produttore David Foster, marito appunto della Thompson. Il suo album d’esordio, «To Whom It May Concern», ebbe un discreto successo e arrivò al quinto posto tra i dischi più venduti negli Stati Uniti. Nel 2005 ha pubblicato il suo secondo CD, «Now What», che è stato il nono più venduto dell’anno in America, nonostante alcune censure subite. Nell’ottobre del 2009 ha duettato a Londra insieme al cantante Richard Hawley nella canzone Weary e Hawley allora disse di voler aiutare Lisa a rilanciarsi nel mercato musicale, ma non seguì nulla.

Fino a oggi, all’improvviso attacco cardiaco di giovedì 12 gennaio e alla morte precoce a Calabasas. La madre, Priscilla Presley, ha rilasciato un comunicato stampa: «E’ con il cuore pesante che condivido con voi una devastante notizia: la mia bellissima figlia Lisa Marie ci ha lasciati. Era la più appassionata, forte, amorevole donna che abbia mai conosciuto».

Dal 1993 Lisa Marie Presley è proprietaria esclusiva della tenuta di Graceland, comprensiva di tutti i cimeli, gli arredi, le vetture e i beni della casa Un patrimonio inestimabile. L’organizzazione turistica di Graceland, nonché le attività commerciali sorte al di fuori della proprietà sono in parte gestite dalla Elvis Presley Enterprises di cui Lisa Marie Presley è fondatrice, detenendo il 15% delle azioni, e dalla Authentic Brands Group, con sede a New York, che gestisce tutti i diritti d’autore e d’immagine di Elvis Presley, oltreché di svariate altre star americane.

Lisa Marie Presley, morta l'ex moglie di Michael Jackson e figlia di Elvis. Di redazione Spettacoli su La Repubblica il 13 Gennaio 2023.

Aveva 54 anni. Colpita da un infarto, insieme alla mamma Priscilla ha voluto il biopic sul padre. La perdita del padre bambina, quattro matrimoni, il suicidio del figlio: una vita tormentata. La madre: "Era la donna più appassionata che io abbia mai conosciuto"

Il cancello della grande villa di Graceland, la tenuta dove il padre è sepolto diventato monumento storico nazionale e meta di pellegrinaggio, è chiuso ma i fan hanno già cominciato a portare fiori e candele per rendere omaggio a Lisa Marie Presley, la figlia del grande Elvis ed ex moglie di Michael Jackson, musicista a sua volta, morta ieri a 54 anni per un attacco cardiaco.

Soltanto due sere fa aveva accompagnato il cast del biopic sul padre a Los Angeles alla premiazione dei Golden Globe dove Austin Butler ha vinto come migliore attore per l'interpretazione del giovane Elvis nel film di Baz Luhrmann. Dal palco l'attore che ha prestato volto, corpo e voce al re del rock and roll, aveva ringraziato Lisa Marie e la madre Priscilla per il ruolo avuto nel sostenere il film, al Beverly Hills hotel c'era anche la figlia di Lisa Marie, Riley Keough.

Moltissime le reazioni nel mondo dello spettacolo: Octavia Spencer, Billy Idol, la produttrice Rita Wilson (moglie di Tom Hanks), l'ex marito Nicolas Cage che la ricorda così: "Lisa Marie aveva la migliore risata che avessi mai sentito, con la sua presenza illuminava ogni stanza. Ho il cuore spezzato, la mia unica consolazione è pensare che si è riunita a suo figlio Benjamin".

La citazione: "Ho visto così tante cose nella mia vita"

"Ho attraversato così tanto nella mia vita. Ho visto così tante cose. So quanto velocemente le cose possono cambiare. So che qualcuno può essere qui un minuto e sparire quello dopo" questa frase di Lisa Marie Presley è la citazione che molti sui social stanno utilizzando per ricordarla.

L'infanzia a Graceland e la carriera musicale

Nata a Memphis, nella villa di Graceland il 1º febbraio 1968, esattamente nove mesi dopo il matrimonio del padre con la mamma Priscilla, Lisa Marie aveva solo nove anni quando Elvis morì nel 1977. Una giovinezza tormentata, ha cambiato tantissime scuole (da alcune è stata cacciata) e lottato a lungo con la dipendenza dalla cocaina. La sua carriera musicale è iniziata con un album di debutto del 2003 To WhomIt May Concern, su consiglio dell'ex fidanzata del padre Linda Thompson, di cui era molto amica e che aveva sposato un produttore musicale, con quel primo album si è fatta notare arrivando al quinto posto della classifica americana, due anni dopo è arrivato Now What, seguito poi da un terzo album, Storm and Grace, pubblicato nel 2012. Era apparsa anche in un video di Michael Jackson per You Are Not Alone nel 1995.

I quattro matrimoni falliti, i quattro figli

È stata sposata quattro volte. Con la pop star Michael Jackson, nel 1994, appena 20 giorni dopo il divorzio dal suo primo marito, il musicista Danny Keough con il quale però ha mantenuto un buon rapporto tanto che è stato lui a soccorrerla dopo l'infarto. Con Michael Jackson ha divorziato nel 1996 mentre la popstar stava combattendo le accuse di molestie su minori. Presley ha poi sposato l'attore Nicolas Cage, un grande fan di suo padre, nel 2002, ma l'attore ha chiesto il divorzio quattro mesi dopo. Il suo quarto matrimonio, il più longevo, è stato con il suo chitarrista e produttore musicale Michael Lockwood, sposato nel 2006 e da cui ha divorziato nel 2021. Ha avuto quattro figli: Benjamin Keough è morto suicida nel 2020 all'età di 27 anni; la figlia Riley Keough, 33 anni, è un'attrice (Mad Max: Fury Road, American Honey) e ha accompagnato la mamma e la nonna la scorsa sera ai Golden Globe, le sue altre due figlie sono le gemelle Harper e Finley Lockwood di 14 anni.

Il patrimonio e Graceland

Dal 1993 Lisa Marie Presley era proprietaria esclusiva della famosa tenuta di Graceland, appartenuta al padre (la cui tomba è all'interno della tenuta), con tutti i cimeli, gli arredi, le vetture, i famosi televisori che il padre guardava in contemporanea alla fine della sua vita quando non usciva più di casa. Nel 1991, Graceland è stata inserita nel National register of historic places e dichiarata un monumento storico nazionale nel 2006, è la seconda residenza più famosa e visitata degli Stati Uniti dopo la Casa Bianca, meta di pellegrinaggio nel giorno dell'anniversario della morte di Elvis da migliaia di fan. Lisa Marie aveva ereditato bambina l'intero patrimonio del padre, insieme a suo nonno e bisnonna, che ammontava all'epoca all'incirca a  82 milioni di euro, e di cui poi a 25 anni è diventata proprietaria esclusiva. Più di quarant'anni dopo però, tutti quei soldi erano spariti, la cantante aveva accusato di mal gestione la società a cui era stata affidata l'amministrazione dei suoi beni.

Il biopic di Sofia Coppola su Priscilla in arrivo

Dopo il film sul padre arrivato quest'anno con grande successo nei cinema, presentato in anteprima al festival di Cannes e che vanta un brano cover dei Maneskin è in arrivo un altro biopic questa volta dedicato alla madre Priscilla dove Lisa Marie Presley sarà interpretata dalla giovane Emily Mitchell. Lo firma Sofia Coppola che ha tratto la sceneggiatura di Priscilla sul libro di memorie di sua madre Elvis and Me. La trama: Nel 1959 Elvis Presley è in tour in Germania, a Wiesbaden, dove incontra la quattordicenne Priscilla, figlia adottiva di un ufficiale dell'aereonautica statunitense. Il re del rock and roll si innamora a prima vista e chiede in sposa la ragazzina, i due poi divorzieranno nel 1973, quattro anni prima della morte di Elvis.

Lisa Marie Presley morta a 54 anni, l'unica figlia di Elvis. Fatale un attacco di cuore che l'aveva colpita giovedì mattina. Una vita passata tra il ricordo del padre famoso e svariati matrimoni. Usa in lutto. Roberta Damiata il 13 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Non ce l'ha fatta Lisa Marie Presley, l'attacco di cuore che l'aveva colpita giovedì mattina, e per cui era stata ricoverata d'urgenza in ospedale, le è stato fatale a soli 54 anni. La conferma è arrivata dalla madre Priscilla che ha rilasciato una dichiarazione al sito web People: "È con il cuore pesante che devo condividere la devastante notizia che la mia bellissima figlia Lisa Marie ci ha lasciato. Era la donna più appassionata, forte e amorevole che abbia mai conosciuto. Chiediamo privacy mentre cerchiamo di affrontare questa profonda perdita. Grazie per l'amore e le preghiere. Al momento non ci saranno ulteriori commenti".

L'unica figlia del re del rock Elvis, era stata ricoverata in terapia intensiva dopo un malore. A trovarla nel letto della sua casa di Calabasas è stata la cameriera, che ha immediatamente chiamato i soccorsi. I paramedici hanno cercato di rianimarla con un massaggio cardiopolmonare e la donna è stata ricoverata d'urgenza in un ospedale di Los Angeles in terapia intensiva, dove le è stato applicato un peacemaker.

Lisa Marie, cantante e madre di tre figli, era nata a Memphis, Tennessee il 1° febbraio 1968, esattamente nove mesi dopo il matrimonio di Elvis e Priscilla. Solo all'età di 4 anni si era poi trasferita a Los Angeles dopo il divorzio dei genitori nel 1973. Suo padre morì quando lei aveva solo 9 anni facendola diventare l'unica erede di un immenso patrimonio. Turbolenta la sua vita sentimentale: si era sposata per la prima volta nel 1988 con Danny Keough, un musicista di Chicago, da cui aveva avuto due figli, Riley nel 1989 e Benjamin nel 1992. Dopo cinque anni e mezzo di matrimonio, la coppia aveva divorziato nel maggio 1994.

Meno di un mese dopo, con grande clamore si era sposata con il cantante Michael jackson che aveva incontrato per la prima volta Las Vegas quando aveva 7 anni e il Re del Pop era ancora un membro dei Jackson Five. "Sono molto innamorata di Michael, dedico la mia vita ad essere sua moglie. Lo capisco e lo sostengo", aveva detto all'epoca "Entrambi non vediamo l'ora di crescere una famiglia". I due si erano poi separati solo dopo due anni.

Nel 2000 Lisa Marie si è fidanzata con il musicista di origine hawaiana John Oszajca, anche se la relazione è finita quando ha incontrato l'attore Nicolas Cage a una festa di compleanno per Johnny Ramone nel 2000, quando si era separato da Patricia Arquette . Due anni dopo, Lisa Marie e Cage si erano sposati durante una cerimonia segreta alle Hawaii, nel 25° anniversario della morte di Elvis. Tuttavia meno di quattro mesi dopo il loro matrimonio, la coppia aveva annunciato che si stava separando.

Lisa Marie si era poi nuovamente sposata nel 2006 con Michael Lockwood, dal quale aveva avuto le gemelle Harper e Finley due anni dopo, divorziando nel 2016. Nel 2020 un gravissimo lutto, era morto suicida il figlio Benjamin.

Cantante e autrice, la figlia di Elvis aveva pubblicato tre album ottenendo un discreto successo. Molto attiva nella beneficenza, si era a lungo impegnata per i senzatetto e i bambini guidando la Elvis Presley Charitable Foundation. Appena tre giorni fa, insieme alla madre Priscilla, aveva presenziato alla cerimonia dei Golden Globe e alla premiazione dell'attore Austin Butler per l'interpretazione di suo padre Elvis nell'omonimo film.

Pochi giorni fa l'ultima apparizione ai Golden Globe. Addio a Lisa Marie Presley, la figlia di Elvis stroncata da un infarto: i matrimoni con Nicolas Cage e Michael Jackson e la tragedia del figlio. Redazione su Il Riformista il 13 Gennaio 2023

Addio a Lisa Marie, l’unica figlia di Elvis Presley, morta a 54 anni in seguito a un arresto cardiaco dopo il ricovero in un ospedale della California. Ad annunciarlo è la madre, Priscilla. Una scomparsa che arriva 48 ore dopo l’ultima apparizione pubblica della figlia del re del rock. “Priscilla Presley e la famiglia Presley sono scioccate e devastate dalla tragica morte della loro amata Lisa Marie – si legge in una dichiarazione, fornita alla CNN da un rappresentante della famiglia -. Sono profondamente grati per il sostegno, l’amore e le preghiere di tutti e chiedono privacy in questo momento molto difficile”.

Per favore, ricordate lei e la nostra famiglia nelle vostre preghiere – prosegue la dichiarazione -. Ringraziamo per le preghiere da tutto il mondo e chiediamo privacy in questo periodo”. Martedì scorso l’ultima sua apparizione alla cerimonia per l’80esima edizione dei Golden Globe, dove è stato premiato l’attore Austin Butler per il film di Baz Luhrmann “Elvis”.

La figlia del re del rock è stata sposata oltre che con Danny Keough, da cui ha divorziato nel 1994, anche con Nicolas Cage, Michael Jackson e l’attore-cantautore Michael Lockwood. Nel 2020, suo figlio Benjamin, avuto con il primo marito si è suicidato all’età di 27 anni.

La cantante era stata ricoverata in condizioni critiche e le era stato indotto il coma. Come riportato TMZ, la donna è stata soccorsa e assistita dai paramedici nella sua casa di Calabasas, in California, ieri mattina, dopo aver avuto un attacco cardiaco.

Lisa Marie era madre di quattro figli, tra cui l’attrice e regista americana Riley Keough. La Presley ha seguito le orme del padre e nel 2003 ha pubblicato il suo primo album, “To Whom it May Concern”, a cui sono seguite altre due produzioni, ma non ha più pubblicato un nuovo album dal 2012. Fino al 2005 controllava la Elvis Presley Enterprises, poi ha venduto la maggior parte delle sue azioni a una società di private equity. Ha mantenuto però il controllo di Graceland, la proprietà di Memphis, Tennessee, dove il padre è stato trovato privo di sensi nell’agosto del 1977, prima di essere portato in ospedale dove è morto, come si legge nel certificato del medico legale, per un attacco di cuore.

DAGONEWS il 13 Gennaio 2023.

 Lisa Marie Presley, pochi giorni prima di morire a 54 anni per arresto cardiaco, è apparsa non lucida mentre veniva intervistata sul tappeto rosso dei Golden Globes 2023, dove ha partecipato per sostenere il film Elvis.

 Nella clip, Lisa Marie - morta nella sua casa di Calabasas, in California - si è rivolta all'amico Jerry Schilling, 80 anni, dicendogli "Ti afferro il braccio" mentre le venivano poste delle domande prima dell'evento dal conduttore di "Extra", Billy Bush.

La donna parlava lentamente e biascicava mentre rispondeva alle domande sulla star del film, Austin Butler, e sulle inondazioni nel sud della California.

 Bush le ha chiesto se avesse conosciuto Butler, e a quel punto lei ha detto a Schilling "Ti afferro il braccio". Ha poi detto di adorare Butler e di essere rimasta "sbalordita" dopo aver visto l'interpretazione nel film (che gli è valso il premio come miglior attore di film drammatici).

Lisa Marie ha raccontato di aver avuto bisogno di cinque giorni per "elaborare l'interpretazione di Butler perché era così perfetta e autentica".

Nella chiacchierata, Lisa Marie ha anche aggiunto che secondo lei Butler ha azzeccato le caratteristiche e la parlata di Elvis senza farne una caricatura.

Bush ha poi chiesto a Lisa Marie se avesse vissuto nella zona di Montecito-Santa Barbara, colpita all'inizio della settimana da tempeste e inondazioni, e lei ha risposto di averlo fatto, sottolineando come i risultati della tempesta siano stati devastanti.

 L'intervista si è conclusa con Lisa Marie che ha detto a Bush che Butler si stava dirigendo verso l'ingresso.

 Lisa è stata trasportata d'urgenza in un ospedale della zona di Los Angeles dopo aver avuto un arresto cardiaco giovedì. Fonti della polizia hanno riferito a Deadline che gli agenti dello sceriffo della contea di Los Angeles e i medici dei vigili del fuoco sono stati inviati a casa sua dopo aver ricevuto una chiamata che segnalava l'emergenza.

La madre Priscilla Presley aveva scritto su Twitter per chiedere ai fan di pregare durante l'emergenza medica.

 «La mia amata figlia Lisa Marie è stata portata d'urgenza in ospedale - ha dichiarato Priscilla in un tweet giovedì pomeriggio - Sta ricevendo le migliori cure. Vi prego di tenere lei e la nostra famiglia nelle vostre preghiere. Sentiamo le preghiere di tutto il mondo e chiediamo privacy in questo momento».

 Priscilla ha dichiarato a People giovedì sera: «È con il cuore colmo di tristezza che devo condividere la devastante notizia che la mia bellissima figlia Lisa Marie ci ha lasciato. Era la donna più appassionata, forte e amorevole che abbia mai conosciuto.

Chiediamo privacy mentre cerchiamo di affrontare questa profonda perdita. Grazie per l'amore e le preghiere. In questo momento non ci saranno ulteriori commenti».

I tormenti di Lisa Marie Presley Mariti, lutti e l'ombra del padre. Storia di Antonio Lodetti Robecco su Il Giornale il 14 Gennaio 2023.

L'8 gennaio scorso aveva partecipato, nella fastosa villa di Graceland, alle celebrazioni per la nascita di Elvis... Martedì scorso era stata ai Golden Globe incontrando Austin Butler, protagonista del premiato film Elvis sulla storia del re del rock'n'roll.

Nulla lasciava presagire che Lisa Marie, la figlia di Presley, sarebbe morta di infarto a 54 anni in un ospedale di Los Angeles. Non c'è stato nulla da fare nonostante i soccorsi dell'ex marito (che viveva con lei) Danny Keough nella loro villa di Calabasas. Le sopravvive la madre Priscilla, di 77 anni, rimasta sotto choc per l'evento.

Lisa Marie ha avuto una vita turbolenta e tormentata, e si è creata una nicchia nel mondo dello star system sia come cantante e autrice che come amministratrice della Elvis Presley Enterprise, la macchina da dollari che gestiva gli affari di Elvis che lei curò fino al 2005. Anche la sua vita sentimentale è stata piuttosto tormentata, soprattutto il matrimonio con Michael Jackson (per cui lasciò Keough) che durò fra alti e bassi dal 1994 al '96 e quello (poco pubblicizzato) con l'attore Nicolas Cage. Dopo la morte di Vernon (padre di Elvis) era rimasta l'unica erede del patrimonio del padre e soprattutto della maestosa villa di Graceland, la cui proiezione moderna, non a caso era la tenuta di Neverland di Michael Jackson.

Lisa Marie ha affrontato le tragedie della vita con coraggio e dignità. Ha lottato tutta la vita contro la dipendenza dalla cocaina da cui è uscita con l'aiuto di Scientology e due anni ha lottato contro la depressione per il suicidio di uno dei suoi quattro figli di soli 27 anni.

Nel mondo del rock viene ricordata soprattutto per la sua attività di cantante e autrice, anche se ha inciso soltanto tre dischi. Il suo primo album, To Whom It May Concern, è del 2003, quando Lisa aveva già 34 anni. È un disco di ballate i cui testi sono stati scritti dalla stessa Lisa, che riscosse un notevole successo presso la stampa americana e il pubblico, che lo fece approdare al quinto posto delle classifiche e che conquistò un disco d'oro per le vendite. Soprattutto il singolo Lights Out (con sul lato b del singolo il pezzo Savior scritto con Billy Corgan) fece il giro del mondo ed entrò in tutte le classifiche.

Ci vollero due anni per partorire un nuovo disco, Now What, sempre scritto da lei e con accenti più rock, (una cover di Don Henley degli Eagles, una dei Ramones e una dei Blue Oyster Cult) che arrivò al nono posto delle classifiche di Billboard. Il disco contiene Idiot, una invettiva contro alcuni degli uomini della sua vita. Nel primo decennio del Duemila fu molto attiva dal vivo e in progetti benefici; ad esempio cantò con Pat Benatar e raccolse fondi per la ricerca sul cancro con numerosi concerti, e partecipò con tante altre star al film-concerto Too Tough to Die in onore e ricordo di Johnny Ramone.

Nell'estate 2007, quando si parlava poco di lei, Lisa Marie si ricordò di essere la figlia di Elvis e incise il singolo (con annesso video) di In the Ghetto, un classico del padre del 1969 che la portò alla velocità del suono in testa alla classifica di Billboard. A suo dire lo fece per celebrare l'anniversario della morte del padre, ma la suggestione commerciale di rivedere e risentire Elvis accanto a lei è piuttosto palese.

Il suo ultimo lavoro, Storm & Grace, è del 2012, torna alle radici della musica americana ma non ha riscuote particolare successo anche se prodotto da un mito come T Bone Burnett che disse di lei: «Più ascolto le sue canzoni più mi colpisce nel profondo. Lisa Marie Presley è una cantante folk americana del sud di grande valore».

Elvis Presley, inizia la saga dell’eredità: Priscilla vuole impugnare il testamento della figlia. Matteo Persivale su Il Corriere della Sera l’31 Gennaio 2023.

Secondo la vedova di Elvis le ultime volontà sono state falsificate. Alla morte Lisa Marie aveva debiti per 16 milioni ma la sua eredità sarebbe in realtà ricchissima

Lo showbusiness è un circo e lo scopo è sfilare i portafogli dei buzzurri seduti sotto il tendone, amava ripetere il colonnello Parker, onnipotente manager che sfilò a Elvis Presley buona parte della sua fortuna. E adesso che Priscilla Presley, la vedova del «re», impugna il testamento della figlia Lisa Marie che secondo lei sarebbe stato falsificato, è difficile non pensare a quella frase del colonnello che incombe come una maledizione su Graceland e sui suoi discendenti. Lisa Marie Presley, figlia di Elvis e Priscilla, al momento della morte il 12 gennaio a soli 54 anni, non era milionaria. O meglio, lo era in senso negativo: aveva debiti per almeno 16 milioni di dollari, l’ultimo capitolo di una serie incredibile di sprechi, cattivi investimenti, amministrazione come minimo incompetente se non criminale da parte di varie generazioni di manager e amministratori (suo nonno Elvis sulla carta avrebbe dovuto essere l’artista più ricco della storia ma al momento della morte nel 1977 aveva un patrimonio di soli 5 milioni di dollari, 24 milioni di oggi calcolando l’inflazione).

Eppure l’eredità di Lisa Marie è potenzialmente ricchissima — anche senza considerare il catalogo musicale del padre, ci sono i diritti d’autore dei 24 film di Elvis, c’è Graceland che è un kitschissimo e assai redditizio museo aperto al pubblico, e tanto altro — viene stimata intorno al mezzo miliardo di dollari. Al netto dei debiti di Lisa Marie.

Così a aggiungere tristezza a una vicenda già orribile ora c’è anche l’eredità contesa. A appena sette giorni di distanza dal funerale, Priscilla ha appena intentato una causa legale contro la validità del testamento della figlia. Contesta un emendamento del 2016 al testamento di Lisa Marie che l’ha estromessa come amministratrice. Elementi alla base della causa: il documento del 2016 conterrebbe uno strano errore nello spelling del nome di sua madre e la firma di Lisa Marie avrebbe un aspetto insolito.

In una dichiarazione alla Corte Superiore di Los Angeles, gli avvocati della 77enne vedova di Elvis hanno affermato di essere venuti a conoscenza del «presunto emendamento del 2016» solo dopo la morte di Lisa Marie. L’emendamento rimuove (per ora?) Priscilla e il suo consulente Barry Siegel come co-fiduciari e li sostituisce con due dei suoi figli: la modella e attrice Riley Kough, 33 anni, e Benjamin Keough (che però nel frattempo è morto suicida, nel 2020 a soli 27 anni). Gli avvocati di Lisa Marie contestano anche la mancata notifica dell’emendamento del 2016 quando Lisa Marie era ancora in vita, e sostengono che l’emendamento non è stato autenticato da testimoni. Perciò, «sulla base di quanto precede, il presunto emendamento del 2016 dovrebbe essere considerato non valido e il trust, come modificato e completamente riformulato nel 2010, dovrebbe al contrario rimanere valido come documento autorevole», hanno scritto i legali di Priscilla.

I guai nella successione di Elvis cominciarono il giorno della sua morte, 16 agosto 1977. Il testamento nominava suo padre, Vernon, come esecutore testamentario. I beneficiari erano lo stesso Vernon, la nonna di Elvis, Minnie Mae Presley, e la sua unica figlia, Lisa Marie. Il testamento prevedeva poi, con una clausola opaca, che Vernon Presley potesse, a sua discrezione, elargire denaro a altri membri della famiglia «secondo necessità». Vernon Presley morì nel 1979, Minnie Mae Presley morì nel 1980, e così Lisa Marie ancora bambina risultò unica erede di tutto (Priscilla aveva divorziato da Elvis nel 1973). La volontà di Elvis era che la parte d’eredità di Lisa Marie sarebbe stata custodita per lei fino al suo venticinquesimo compleanno, il 1 febbraio 1993.

Peccato però che prima di quel giorno parte del catalogo musicale fosse ormai stato svenduto per sanare vecchi debiti. Al netto delle spese esorbitanti di Lisa Marie, però, Barry Siegel, amministratore del trust, gestì talmente male gli affari da lasciare, al momento del suo licenziamento nel 2015, un attivo di soli 15mila dollari.

Estratto dell’articolo di Serena Tibaldi per “la Repubblica” il 12 gennaio 2023.

Una delle top model originali. È così che i media di tutto il mondo hanno definito Tatjana Patitz nel dare notizia della sua scomparsa nel tardo pomeriggio di ieri. Le sopravvive suo figlio Jonah Johnson, 18 anni, nato dall'unione con Jason Johnson, terminata nel 2009. Ancora non si sanno le cause della morte della 56enne tedesca, ma una cosa è certa: tra gli anni Ottanta e i Novanta, Tatjana è stata una delle poche, vere supermodelle. Di momenti memorabili la sua carriera è piena: per esempio il video Tell me del 1988 di Nick Kamen, in cui la modella in versione gigantessa trattava il cantante - all'epoca suo fidanzato - come fosse un giocattolo.

O lo shooting sempre nello stesso anno di Peter Lindbergh, con lei e le sue colleghe (tra cui Linda Evangelista e Christy Turlington) in spiaggia senza make- up e spettinate, che divenne il simbolo di una bellezza più naturale. O ancora, la copertina del Vogue inglese del gennaio 1990 con lei, Naomi Campbell, Cindy Crawford e di nuovo Linda e Christy incoronate nuove "regine" della moda. Le cinque sono assieme anche per il video più emblematico degli anni Novanta, Freedom!90 di George Michael, in cui cantano in playback il brano.

 Nel 1993 si dà anche alla recitazione, prima nel film Sol Levante con Sean Connery, e poi con un cameo in Prêt-à-Porter di Robert Altman, in cui interpreta se stessa. Per non parlare delle centinaia di cover, sfilate e campagne pubblicitarie, da Versace ad Armani, che l'hanno vista protagonista. Di recente era anche tornata a calcare le passerelle (…)

Roma, morto il penalista Roberto Ruggiero. Storia di Redazione Tgcom24 l’11 gennaio 2023.

È morto l'avvocato Roberto Ruggiero, colto da un malore mercoledì pomeriggio all'uscita di un ristorante nel quartiere Prati in Roma. Ruggiero, tra i penalisti più noti della Capitale, è stato avvocato difensore di molti personaggi televisivi e dello spettacolo, da Califano a Maurizio Costanzo.

La carriera - Nella sua vita professionale ha difeso il leader del Psi, Bettino Craxi, ed era avvocato della Fondazione Craxi. Durante la stagione di "Mani pulite" è stato il legale di Mach di Palmstein, sempre assolto durante i processi che lo hanno riguardato. Ruggiero era stato insignito della targa onorifica consegnatagli dal Consiglio forense.

Morto nel Cosentino il noto criminologo Bruno. Il Quotidiano del Sud l’11 Gennaio 2023.

CELICO (COSENZA) – “Questa mattina Celico piange uno dei suoi più illustri concittadini, il professor Francesco Bruno, medico e criminologo di fama internazionale”.

A darne notizia, in un post su Facebook, è Matteo Francesco Lettieri, sindaco di Celico (Cosenza).

Bruno era un luminare impegnato nella risoluzione dei più efferati delitti italiani. Grazie ai suoi studi era riuscito a ricollegare gli omicidi del Mostro di Firenze all’esoterismo – conclude – a nome di tutta la nostra comunità formulo le più sentite condoglianze alla sua famiglia”.

Bruno aveva 74 anni. E’ stato protagonista di diverse stagioni di “Porta a porta” come esperto di celebri fatti di cronaca nera.

Morto il criminologo Francesco Bruno, del Mostro di Firenze sosteneva: «È ancora vivo». Simone Innocenti su Il Corriere della Sera l’11 Gennaio 2023.

«È probabile che il Mostro da bambino abbia subito un trauma - raccontava -, forse alla madre sono stati asportati utero e seno a causa di un tumore»

Il suo nome è legato al Mostro di Firenze. Il criminologo Francesco Bruno, morto a Roma all’età di 74 anni, ex consulente del Sisde raccontò nel 1985 di magia nera e riti esoterici dietro i delitti del serial killer. Informazione, questa, contenuta in uno studio sul caso commissionato dal Sisde (attuale Aisi, ndr). Fu lui stesso a raccontarlo negli uffici della Questura che, all’epoca, aveva cominciato a battere la pista esoterica, poi tralasciata nelle ultime indagini del Ros dei carabinieri che hanno puntato tutto su un ex legionario. 

In quegli anni l’ombra dei servizi si era allungata su questa storia, tanto che il criminologo Aurelio Mattei, collega di studio di Bruno e autore del giallo "Coniglio il martedì" – un Mondadori pressoché introvabile – fu perquisito: in quel libro si parlava della pista esoterica e di presunti mandanti. In quegli anni Bruno era entrato nel pool che difendeva Pietro Pacciani, il contadino di Mercatale considerato il Mostro di Firenze. Anche lui fu perquisito e subito dopo fu sentito per nove ore di fila. Lo scorso anno, in un’intervista rilasciata a La Verità, sostenne che il serial killer poteva essere ancora vivo: «Secondo me è una persona che potrebbe avere la mia età, 75 anni. Credo che non ci siano motivi per essere sicuri che sia morto». E aveva ipotizzato che le famose escissioni operate dal Mostro di Firenze fossero state causate da un trauma infantile. «Probabile, secondo me, che quando aveva 7-8 anni, la madre fosse stata operata di tumore al seno. Fu privata sia del seno sia dell’utero, pensando, come all’epoca si faceva, che il tumore si sarebbe potuto replicare nell’utero. Lui dev’essere rimasto scosso da questo fatto infantile», aveva ancora dichiarato. 

La prima parte dell’intervista di Bruno sembrava correggere il tiro rispetto allo studio che, 40 anni prima, era stato commissionato dal Sisde nel quale si analizzavano gli aspetti rituali dei quattro delitti su otto, ipotizzava una pulsione feticistico-religiosa del serial killer e si arrivava ad ipotizzare che il mostro facesse riferimento ad una strana villa in località Poggio dei Grilli, una casa di riposo dove forse si svolgevano riti satanici. La storia di Bruno si è intrecciata con quella di Pacciani che fu condannato in primo grado all’ergastolo per i duplici delitti registrati dal 1974 al 1985. Ma fu assolto in secondo grado e morì nel 1998 prima di essere sottoposto al processo di appello bis disposto dalla Cassazione con l’annullamento della sentenza di assoluzione ordinato nel 1996. 

Bruno parlò di aver ricevuto una segnalazione da una persona, sia con una lettera, che con una telefonata, che indicava il possibile autore che possedeva un’auto sportiva rossa con la quale correva nel circuito del Mugello fino al 1985. Ma di questo particolare non si fa menzione nei verbali di sequestro che furono allegati alla sua perquisizione. Anche se – proprio in questo senso – il tipo di macchina era stato utilizzato – proprio in quegli anni – a Giampiero Vigilanti, ex legionario di Prato, trovato nel novembre 1994 con 176 proiettili Winchester serie H (gli stessi usati negli omicidi), ultimo dei nomi a finire sotto inchiesta.

Da ansa.it il 12 Gennaio 2023.

Il leggendario chitarrista rock Jeff Beck, che di recente aveva inciso un album con Johnny Depp, è morto a 78 anni per una forma letale di meningite batterica. "Per conto della famiglia è con grande dolore che annunciamo la scomparsa di Jeff", ha annunciato la pagina Twitter del musicista britannico diventato famoso con gli Yardbirds (dove aveva rimpiazzato Eric Clapton) e poi nel gruppo che porta il suo nome con Rod Stewart.

 Col suo tono, presenza fisica e volume, Beck aveva ridefinito la musica per chitarra negli anni Sessanta e influenzato movimenti come l'heavy metal, il jazz rock e il punk. Vincitore di sei Grammy per la migliore performance strumentale rock e un altro per la migliore performance strumentale pop, Beck è morto in un ospedale vicino alla sua casa nel Surrey.

 Nel 1965, quando era entrato negli Yardbirds per rimpiazzare Clapton, un altro 'guitar hero', il gruppo era già al centro del crescente movimento del blues elettrico in Gran Bretagna. Tre anni dopo aveva formato la sua band con Stewart, all'epoca poco noto, e l'altrettanto oscuro Ron Wood poi diventato una colonna dei Rolling Stones. Il gruppo aveva debuttato nel 1968 con 'Truth' che fece da traccia a un altro collega degli Yardbirds, Jimmy Page, quando parecchi mesi più tardi formò i Led Zeppelin.

Nel 1974 Jef intraprese una carriera solista: con l'album 'Blow by Blow' aveva spostato l'equilibrio delle sue influenze dal jazz al rock e al funk. 'Blow by Blow' divenne un Billboard 5 e un successo al platino.

 A giugno Beck aveva cominciato a collaborare con Depp che lo considerava il suo mentore: dopo aver calcato un paio di palcoscenici in Gran Bretagna una volta conclusa la battaglia legale con la ex moglie Amber Heard, i due avevano inciso un album, '18', a cui l'attore aveva contribuito con due brani originali.

Johnny e Jeff si erano conosciuti nel 2016 e ben presto avevano capito di essere anime gemelle. Beck aveva reso omaggio all'amico: "Da anni non ho avuto un altro partner artistico come lui. Depp è stata una forza creativa per questo disco e spero che la gente lo prenda sul serio come musicista".

Jeff Beck morto: il leggendario chitarrista rock aveva 78 anni. Matteo Cruccu su Il Corriere della Sera l’11 Gennaio 2023.

Il decesso per un forma letale di meningite. Era diventato famoso con gli Yardbirds. Beck aveva ridefinito la musica per chitarra negli anni Sessanta

Quella scena madre in cui spacca la chitarra e la lancia in mezzo al pubblico adorante che alla fine non sa che farsene è una delle istantanee simbolo dei tumultuosi anni Sessanta. Già, il Jeff Beck di «Blow Up», il capolavoro del nostro Michelangelo Antonioni che fissa per sempre su tela cinematografica l’esplosione della Swinging London è il santino che ci portiamo via oggi che il nostro ci lascia, a 78 anni, per una meningite batterica, come hanno annunciato dolorosamente i familiari.

Già, siamo nel 1966, Beck ha appena sostituito sua maestà Eric Clapton negli Yardbirds, raccomandato nientemeno che da Jimmy Page. Che lo affiancherà brevemente nella rockband andando poi a fondare altri giganti, i Led Zeppelin. In quei venti mesi, Beck e Page faranno faville , in una sorta di continua gara virtuosistica, come ben si vede proprio in Blow Up. Troppo grandi gli ego dei due dunque per resistere insieme. E a soddisfare questa sua fame personalistica, Jeff fonderà il Jeff Beck Group. Innovativissimo, con largo uso di distorsioni e feedback, ad anticipare le tendenze dell’hard e perfino dell’heavy metal, e lanciando alla voce un certo Rod Stewart. Che, però, si troverà presto in contrasto con il sempre volitivo Jeff, andandosene anche lui nel 1969.

Pronti via, Beck ripartirà con una nuova incarnazione della band, abbandonando però i lidi delle sonorità più dure per approdare piuttosto nelle lande della fusion, tra jazz, rock e rhytm’n’ blues. Con quella tendenza al vortice che caratterizzerà un po’ tutta la sua carriera, a un certo punto Beck smette di costruire gruppi che poi si disfano in fretta, per andare da solo. Con una produzione spesso discontinua e linee sonore altrettanto ondivaghe. E le leggendarie mani, assicurate per sette milioni di sterline. Ma se la sua carriera discografica aveva già dato il meglio nei due decenni precedenti, dagli anni’ 80 in poi ascende a guru rispettato da tutti e da molti coinvolto nei propri progetti, da Bon Jovi a Roger Waters, da Roger Taylor fino all’ultimo compagno di strada, un altro eccentrico, il Johnny Depp che vuole rifugiarsi nel rocknroll dopo l’estenuante battaglia legale con Amber Heard. Li si vide quest’estate anche al nostro Umbria Jazz: niente chitarre spaccate, ma quanta storia, in quelle mani, Jeff...

Morto Jeff Beck. Il pioniere della chitarra rock aveva 78 anni. A cura della redazione Spettacoli su La Repubblica l’11 Gennaio 2023.

Il musicista è scomparso martedì dopo aver contratto una meningite batterica. Esploratore del rock-blues, celebre il suo gran rifiuto ai Rolling Stones: "Dissi di no: sarei diventato ricco ma non felice"

Addio a uno dei pionieri della chitarra rock. Jeff Beck è scomparso all'età di 78 anni. Il musicista è morto martedì dopo "aver contratto improvvisamente la meningite batterica", la conferma del suo entourage. "La sua famiglia chiede privacy mentre elaborano questa tremenda perdita".

Descritto come uno dei più grandi chitarristi di tutti i tempi, Jeff Beck - le cui dita erano assicurate per 7 milioni di sterline - era stato uno dei grandi innovatori dello strumento principe del rock. Ha aperto la strada al jazz-rock, ha sperimentato effetti fuzz e distorsori, ha aperto la strada a sottogeneri più "pesanti" come lo psych rock e l'heavy metal. Nel corso della sua carriera ha vinto otto Grammy, ha ricevuto l'Ivor Novello per l'eccezionale contributo alla musica britannica ed è stato inserito nella Rock and Roll Hall of Fame sia come artista solista che come membro degli Yardbirds.

Gli esordi e gli anni 70

Beck era nato nel 1944, a Wallington, sud di Londra. Da bambino il coro di una chiesa, poi d'adolescente l'incontro con la chitarra. Dopo aver frequentato la scuola d'arte a Londra, iniziò a suonare con gli Screaming Lord Sutch fino a quando, dopo che Eric Clapton lasciò gli Yardbirds, Jimmy Page lo raccomandò come sostituto. La permanenza nella band dura solo venti mesi ma segna la storia del rock inglese. Nel 1968 la pubblicazione di Truth, il suo primo album solista, un intreccio di blues, folk e psichedelia: semplicemente una pietra miliare.

Gli anni settanta - che per ,lui iniziano con un terribile incidente d'auto in cui si frattura il cranio - sono quelli della sperimentazione, dell'incontro con il jazz. Grande influenza sulla sua successiva carriera l'incontro con John McLaughlin. Celebre, nel 1975, il suo gran rifiuto ai Rolling Stones: disse no quando la band di Jagger e Richards cercava un sostituto per Mick Taylor: "Sarei diventato ricco, ma non felice".

Ambasciatore del rock

Negli anni '80 la sua produzione rallenta drasticamente a causa della sua sofferenza da acufene. I suoi progetti durante il decennio sono stati sporadici ma sempre segnati dall'investigazioni delle radici del blues-rock: nel 1981, si esibisce con Clapton, Sting e Phil Collins ai concerti di beneficenza di Amnesty International's Secret Policeman's Other Ball, e torna con il suo primo album da solista in cinque anni, Flash, nel 1985. Prodotto da Nile Rodgers degli Chic, il disco rappresenta un altro cambiamento epocale per Jeff Beck in quanto presentava principalmente brani pop guidati dalla voce, una svolta rispetto alla sua produzione in gran parte strumentale degli anni '70. People Get Ready, in collaborazione con Rod Stewart, diventa uno dei rari singoli di successo di Jeff Beck con il suo nome, entrando in classifica negli Stati Uniti, in Nuova Zelanda, Svezia, Belgio e Svizzera.

Negli anni 2000 e 2010, Jeff Beck ha pubblicato solo una manciata di album, ma ha iniziato ad ambientarsi nel suo ruolo di "cardinale del rock" esibendosi con artisti come Kelly Clarkson e Joss Stone.

L'ultimo progetto di Jeff Beck è 18 dell'anno scorso, un album in collaborazione con Johnny Depp che conteneva brani originali scritti da Depp e cover di Marvin Gaye, Velvet Underground e altri classici.

Da ansa.it il 12 gennaio 2023.

Il leggendario chitarrista rock Jeff Beck, che di recente aveva inciso un album con Johnny Depp, è morto a 78 anni per una forma letale di meningite batterica. "Per conto della famiglia è con grande dolore che annunciamo la scomparsa di Jeff", ha annunciato la pagina Twitter del musicista britannico diventato famoso con gli Yardbirds (dove aveva rimpiazzato Eric Clapton) e poi nel gruppo che porta il suo nome con Rod Stewart.

Col suo tono, presenza fisica e volume, Beck aveva ridefinito la musica per chitarra negli anni Sessanta e influenzato movimenti come l'heavy metal, il jazz rock e il punk. Vincitore di sei Grammy per la migliore performance strumentale rock e un altro per la migliore performance strumentale pop, Beck è morto in un ospedale vicino alla sua casa nel Surrey.

 Nel 1965, quando era entrato negli Yardbirds per rimpiazzare Clapton, un altro 'guitar hero', il gruppo era già al centro del crescente movimento del blues elettrico in Gran Bretagna. Tre anni dopo aveva formato la sua band con Stewart, all'epoca poco noto, e l'altrettanto oscuro Ron Wood poi diventato una colonna dei Rolling Stones. Il gruppo aveva debuttato nel 1968 con 'Truth' che fece da traccia a un altro collega degli Yardbirds, Jimmy Page, quando parecchi mesi più tardi formò i Led Zeppelin.

Nel 1974 Jef intraprese una carriera solista: con l'album 'Blow by Blow' aveva spostato l'equilibrio delle sue influenze dal jazz al rock e al funk. 'Blow by Blow' divenne un Billboard 5 e un successo al platino.

 A giugno Beck aveva cominciato a collaborare con Depp che lo considerava il suo mentore: dopo aver calcato un paio di palcoscenici in Gran Bretagna una volta conclusa la battaglia legale con la ex moglie Amber Heard, i due avevano inciso un album, '18', a cui l'attore aveva contribuito con due brani originali.

Johnny e Jeff si erano conosciuti nel 2016 e ben presto avevano capito di essere anime gemelle. Beck aveva reso omaggio all'amico: "Da anni non ho avuto un altro partner artistico come lui. Depp è stata una forza creativa per questo disco e spero che la gente lo prenda sul serio come musicista".

DAGONEWS il 12 gennaio 2023.

Johnny Depp era al capezzale del leggendario chitarrista britannico Jeff Beck poco prima che venisse a mancare e, a quanto si apprende, è rimasto "totalmente devastato" dalla sua morte.

 La rockstar, che solo poche settimane fa aveva terminato il tour con l'attore, è morta "serenamente" martedì all'età di 78 anni dopo aver contratto una meningite batterica.

 La famiglia ha condiviso la notizia straziante sulla sua pagina Twitter insieme a una foto della star sul palco, con i suoi occhiali da sole e la sua chitarra.

 L'ex star degli Yardbirds aveva appena concluso un tour transatlantico con Depp per promuovere il loro album di debutto "18", candidato a tre Brit Awards.

Beck e Depp avevano un'amicizia molto stretta: i due si sono esibiti insieme in Europa e negli Stati Uniti e insieme hanno pubblicato quello che ora è l'ultimo album pubblicato da Beck, "18", contenente un singolo intitolato "This Is a Song for Miss Hedy Lamarr".

 L'anno scorso Beck e Depp sono stati visti a Newcastle a bere insieme al collega musicista Sam Fender.

Anche rocker britannici come Rod Stewart, Ronnie Wood e Mick Jagger erano molto legati alla star e gli hanno reso omaggio nella notte.

 Jagger ha twittato: «Con la morte di Jeff Beck abbiamo perso un uomo meraviglioso e uno dei più grandi chitarristi del mondo. Mancherà molto a tutti noi».

 Il compagno di band dei Rolling Stones, Ronnie Wood, ha aggiunto: «Ora che Jeff se n'è andato, mi sento come se uno dei miei fratelli avesse lasciato questo mondo, e mi mancherà moltissimo. Mando le mie più sentite condoglianze a Sandra, alla sua famiglia e a tutti coloro che lo hanno amato».

 Rod Stewart, invece, ha twittato: «Jeff Beck era su un altro pianeta. Alla fine degli anni '60 portò me e Ronnie Wood negli Stati Uniti con la sua band, il Jeff Beck Group, e da allora non ci siamo più guardati indietro. Era uno dei pochi chitarristi che quando suonava dal vivo mi ascoltava cantare e rispondeva. Jeff, sei stato il più grande, amico mio. Grazie di tutto. RIP».

Beck e Depp si sono incontrati per la prima volta nel 2016 e hanno legato grazie al loro amore per le chitarre. Alla fine hanno deciso di lavorare a un album insieme nel 2019. 

Così Beck portò la chitarra oltre ogni limite acustico. Morto Jeff Beck, aveva 78 anni. Il musicista inglese era considerato uno dei migliori interpreti dello strumento in tutta la storia del rock. Andrea Dusio il 13 Gennaio 2023 su Il Giornale.

«Jeff Beck era su un altro pianeta. Alla fine degli anni '60 portò me e Ronnie Wood negli Stati Uniti con la sua band, il Jeff Beck Group. E da allora non ci siamo più guardati indietro. Era uno dei pochi chitarristi che, quando suonavamo dal vivo, mi ascoltava cantare e rispondeva». Sono le parole espresse a caldo da Rod Stewart, a poche ore dalla notizia della scomparsa del grande musicista britannico, che ha rivoluzionato l'utilizzo della chitarra nel rock.

Beck è infatti scomparso l'altra notte, dopo aver contratto una meningite batterica. Aveva 78 anni, ed era tuttora in attività. L'anno scorso aveva inciso con Ozzy Osbourne il brano Patient Number 9, e si era esibito dal vivo con Johnny Depp, assieme al quale aveva registrato l'album 18.

Jeff Beck faceva parte di quella generazione di ragazzi inglesi che, innamorati del rhythm & blues e del rock'n'roll, cominciarono a scimmiottare i maestri americani. Dopo aver ascoltato alla radio gli effetti della chitarra elettrica di Les Pauls, agli inizi degli Anni Cinquanta, aveva tentato di costruirsi un proprio strumento di fortuna, assemblando scatole di sigari e un palo sottratto a una recinzione, su cui aveva disegnato i tasti. Dopo essersi procurato una vera chitarra in prestito, si era dedicato allo studio dello strumento,abbandonando la scuola e impegnandosi in lavoretti saltuari. Intanto si faceva le ossa nei club di Oxford Street, prima con i Nightshift, poi con i Rumbles, che suonano il repertorio di Gene Vincent e Buddy Holly, e infine con Tridents, ispirati da Jimmy Reed. «Era solo blues a dodici battute, ma mi eccitava. Noi lo abbiamo sovralimentato e reso molto rock», raccontava.

All'epoca gli Stones erano ormai delle star internazionali, e gli Yardbirds li avevano rimpiazzati come band leader della scena londinese. Quando Eric Clapton abbandonò la band per entrare nei Bluesbreakers di John Mayall, Jimmy Page, individuato per sostituirlo, era bloccato dagli impegni già presi come musicista di accompagnamento. Era il marzo del 1965, e si stava consumando una spaccatura tra l'ala più conservatrice, che voleva rimanere fedele alla purezza del blues, e chi invece cercava di innovare e potenziare il suono, utilizzando nuovi accorgimenti ed effetti di chitarra. Page fece il nome di Jeff, che fece così degli Yardbirds straordinaria palestra di ardimenti, introducendo nella grammatica del rock la distorsione elettrica, caricando i pezzi di una nuova energia, senza perdere l'immediatezza della parte melodica, che aveva contribuito ad allontanare chi come Clapton temeva di scadere nel blues. Gli Yardbirds pubblicarono con Beck un solo album, Roger the engineer, nel 1966, dove Page, che sarebbe diventato il chitarrista dei Led Zeppelin, fu per brevissimo tempo la seconda chitarra solista, in una sperimentazione allora inedita.

Nel 1967 nacque il Jeff Beck Group. Il chitarrista voleva sviluppare un progetto focalizzato sull'idea di una musica amplificata, che saturasse lo spazio sonoro. Truth, uscito il 29 giugno del 1968, bruciò sul tempo gli stessi Zeppelin, il cui primo lavoro vide la luce il 12 gennaio 1969, e inventò di fatto l'hard rock, pur se ancora venato delle suggestioni per la moda della musica indiana e per la psichedelia che attraversava in quel momento tutta la musica pop britannica. La band era già rodata da un tour americano, con quattro date al Fillmore East, dove suonarono come secondi in cartellone dopo i Grateful Dead. La critica americana scrisse che avevano surclassato il gruppo di Jerry Garcia. «Quando sono arrivati all'ultimo pezzo, tra i fans si era scatenato il pandemonio, come non si vedeva dai tempi dei Beatles». Il suono dal vivo era già oltre il blues, e di lì a breve, nel 1969, con Beck-Ola, venne formalizzata la nascita dell'hard rock. Questa pietra miliare, oggi caduta nel dimenticatoio, costituisce il modello su cui si formò una generazione di chitarristi, interessati a esplorare tutte le possibilità dello strumento, oltre la sua stessa musicalità, a partire da Eddie Van Halen. Beck però non era ancora soddisfatto del proprio suono. «Tutti pensano agli anni '60 come a qualcosa che in realtà non erano. È stato il periodo di frustrazione della mia vita. L'attrezzatura elettronica non era all'altezza dei suoni che avevo in testa», disse in seguito. E se nel 1967 venne fatto il suo nome per rimpiazzare Syd Barrett nei Pink Floyd, due anni dopo venne contattato, dopo la morte di Brian Jones, per entrare nei Rolling Stones, convinti che Mick Taylor non fosse all'altezza. Beck preferì però accasarsi con la sezione ritmica dei Vanilla Fudge, composta da Carmine Appice e Tim Bogert. Sulla suggestione di Jimi Hendrix, si era convinto che il trio si prestasse di più alla centralità del suono della sua chitarra. Un grave incidente stradale, in cui si fratturò il cranio, lo costrinse però all'inattività per oltre due anni. Quando tornò in pista, il mondo era cambiato velocemente.

Iniziò allora a misurarsi con un genere che mescolava rock, jazz e talvolta elettronica, perdendo fatalmente il contatto con le folle oceaniche delle arene rock. I dischi di questo periodo, come Blow by Blow (1975) e Wired, si pongono al di fuori di qualsiasi moda. Ancorché ridondanti di virtuosismo, nascondono gemme come la malinconia urbana di Cause We've ended with lovers, diventato uno standard per chitarra, e Goodbye Pork Pie Hat, straordinaria rilettura di una celebre pagina del sestetto di Charlie Mingus.

Paolo Zaccagnini per paolozaccablog.blogspot.com il 13 Gennaio 2023.

Jeff Beck. Geoffrey Arnold Beck, nato il 24 giugno del 1944 a Willigton, un quartiere assai periferico di Londra, non c'è più. Finito il tour con Johnny Depp un batterio polmonare se lo è portato via in pochi giorni. Pacificamente. Come è vissuto. Non si è mai dato arie ma adesso la gente lo ricorda come "coatto" - in scena si vestiva comodo e senza gusto ma nella vita era un gentiluomo inglese di campagna, dove abitava con la sconosciuta moglie e a fianco, in un'tra magione che aveva acquistato, la sorella - e, ultimamente, come compagno di Depp, impossibile, improbabile cantante. Errore.

 Beck è stato il rock, il blues, il funky, il soul. Mai chitarrista è stato più variegato nei generi che ha suonato, mai chitarrista è stato più bravo, più preparato, più scrupoloso. Dico. come al solito, bugie, "e solite cazzate de Zaccagnini". Giudicate voi.

 All'inizio degli anni '80 Saint Tropez cerca di lanciare il festival del videoclip, lancio fallito, e per farlo organizza un grande concerto che per la prima volta vede riuniti i tre chitarristi che hanno suonato negli Yardbirds, cioè Eric Clapton, Jimmy Page e lui, Beck. Bene, Clapton e Page fanno i loro numeri funambolici e poi, inchinando la testa e facendosi da parte, annunciano "the master/il maestro" e appare, vestito in modo trasandato, Jeff Beck. Signori, il Rock'nd'Roll.

 Mise a fuoco il teatro con Clapton e Page che, come il pubblico presente, si stropicciavano gli occhi per cercare di capire cosa esattamente stavano sentendo e vedendo. Amava raccontare che, con Clapton e Page, avevano accettato l'invito di Chas Chandler, già bassista degli Animals e novello promoter, per sentire un chitarrista nero statunitense nonchè ex marine, Jimi Hendrix.

Folgorati/fologorato. "Vidi Hendrix e capii che dovevo cambiare. Totalmente". E quello fece. Impressionato dall'aver sentito alla radio, a 6 anni, il chitarrista Les Paul, influenzato da Clive Gallup dei Gene Vincent & The Blue Caps, da allora iniziò a suonare con chiunque. Impreziosendo tutti. Era un tipo difficile? No, era una persona tremendamente seria. E spiritosa. E scorbutica quando le cose non andavano bene. Avete presente Blow up di Michelangelo Antonioni? In una scena suonavano gli Yardbyrds, dove suonava anche Jimmy Page, e lui, che litigava sempre con il regista ferrarese, visto che il suo amplificatore non funzionava come voleva lui, fece a pezzi la chitarra lanciando il manico al fortunato pubblico. Come Hendrix. Appassionato, ossessivamente, di falegnameria e macchine, vecchie macchine che amava riportare in vita, nella metà degli anni '80 vide la sua mano destra schiacciata dal motore di una macchina. Carriera finita? Niente paura. 

Innumerevoli operazioni, riabilitazione maniacale ed ecco a voi Jeff Beck di nuovo. Ho perso il conto del numero di album e cd che ha inciso in gruppo e da solista ma so che, escluso l'ultimo cd con Depp e il penultimo inciso con un trio femminile, inimmaginabile ed inascoltabile, ha solo sfornato capolavori. Senza parlarne mai.

 Tre ricordi. Lucca, 12 anni fa mi dice il prezioso amico umbro Andrea. Suona lui e poi suonano gli ZZ Top. Colpaccio della D'Alessandro&Galli. Nel bis gli ZZ Top lo invitano a raggiungerli e lui esce dal vecchio, sontuoso albergo davanti sul palco e, vestito impeccabilmente di bianco e col giubbotto, li raggiunge e...si scatena l'inferno.

Roma. Dopo uno strepitoso concerto al defunto Tendastrisce sulla Cristoforo Colombo si va a mangiare a un'allora famosissimo ristorante all'inizio della Flaminia. C'è anche mio cugino, il dentista Davide. Il locale è una vecchia panetteria e ha una parete di scaffali di legno e vetro. Beck ne è affascinato. Mio cugino, terrorizzato, mi indica un grosso topo sotto il tavolino al che, pronti, portiamo l'entusiasta Beck a parlare con i proprietari circa la parete che tanto lo affascina. Scampato pericolo. Inutile dire che le tante domande che Davide, anche provetto batterista e cantante, e il sottoscritto volevano fargli passano completamente inevase.

New York, inizio anni '70. Tour col vecchio amico e sodale, nel Jeff Beck Group, Rod Stewart. Tour mondiale ma prima data a New York. Grande successo, superbo concerto, biglietti introvabili per tutti i concerti statunitensi. il giorno dopo, per caso, Stewart è nella lobby dell'albergo e vede Beck con la valigia. Lo ferma preoccupato, gli chiede cosa fa e lui, tranquillo, gli risponde "torno a casa. Ieri sera al Madison Square Garden - immenso - c'era troppo rumore, non sentivo niente" E torna davvero a Londra.

 Potenza di un genio. Inarrivabile. La scintilla che, ragazzo, me lo fece amare da subito? Sanremo, anni '60, Yardbirds in coppia con Lucio Dalla. Paff-bum un colpo dentro al cuore. Di episodi ne avrei a migliaia, signor Beck, ma taccio. So che non le piacciono le lodi ma la fatica della sei corde. E religiosamente la ascolto. Magari The Jeff Beck Group, Blow by blow, Truth, Guitar shop. No, no, il suo manifesto, Beck's bolero. Rispettosamente, umilmente grazie. Sarà una risata che li seppellirà.

Morto il poeta Charles Simic, raffinato cantore della semplicità. Storia di ROBERTO GALAVERNI su Il Corriere della Sera il 10 gennaio 2023.

Non c’è dubbio che di poeti e di poesie ce ne siano per tutti i gusti. La poesia, infatti, è varia in pratica quanto la vita, a cui si sforza di tenere dietro e che talvolta, invece, sembra quasi anticipare. Così ci si può chiedere a quale lettore siano andati incontro, facendosi spesso e volentieri amare, i versi di Charles Simic, il poeta statunitense di origine serba che è mancato il 9 gennaio all’età di ottantaquattro anni (era nato infatti a Belgrado nel 1938, ed era espatriato con la propria famiglia negli Stati Uniti nel 1954).

Va detto, allora, che è stato apprezzato anzitutto da chi non pensa che sia la poesia a dover salvare il mondo trasformandolo seduta stante; o che sia privilegio esclusivo della parola poetica quello di esprimere verità altrimenti inattingibili. Detto in altro modo, Simic non è stato uno scrittore che ha chiesto alla poesia quello che la poesia stessa non poteva mantenere. Piuttosto, i suoi versi sembrano scritti semplicemente per accompagnare le nostre esistenze, per altro così simili, in quello che davvero conta, alla vita dell’uomo che li ha scritti. Più di tutto Simic è un poeta esatto, puntuale, chirurgico. Parla con chiarezza e intelligenza, e dunque con intuito e capacità di penetrazione, ora di questo e ora di quello, senza la pretesa di esaurire attraverso il singolo componimento poetico tutto quanto l’universo mondo. Ciò che davvero gli preme è mettere a fuoco di volta in volta una singola immagine — una ragazza che cammina in un parco, un ragazzo che legge in una biblioteca, un albero, un ricordo d’infanzia, un passaggio di un libro — nel convincimento che la poesia debba anzitutto esprimere la percezione di ciò che è particolare e irripetibile.

Chiarezza, semplicità, intelligenza, precisione espressiva: si capirà quanto sia difficile scrivere in questo modo. In fondo il rischio è che questi fotogrammi risultino fini a sé stessi, come se non avessero anima. Si può dire allora che la prima qualità di Simic, diciamo pure il punto su cui ha giocato il suo onore di poeta, sia stato quello di fissare l’esistenza cosiddetta comune o ordinaria (quella di tutti, insomma, e dunque anche la nostra) in modo non banale o prevedibile. Da questo punto di vista ogni sua poesia porta con sé almeno una piccola sorpresa: una dislocazione dello sguardo, un cortocircuito concettuale, un aggiramento delle proprie premesse conoscitive, un’inversione del senso consueto. La sua maestria, di conseguenza, è quella del fare e ottenere il molto col poco, vale a dire attraverso un impiego piuttosto parco dei mezzi espressivi. Tra le sue armi più efficaci si troveranno allora l’ironia, la presenza di spirito, il sense of humour, che poi nei suoi versi coincide con quel concretissimo senso dei fatti che soltanto un’indefessa osservazione della vita può avergli consentito.

Non è un caso, allora, che Simic sia stato anche un eccellente scrittore di saggi, riflessioni in prosa, soprattutto aforismi. Anzi, tante volte tra l’icasticità quasi da epigramma del suo discorso poetico in versi e l’aforisma in prosa sembra esserci pochissima differenza. Il primo tende alla constatazione sentenziosa, il secondo alla musica verbale, al punto che le due diverse possibilità espressive sembrano venirsi reciprocamente incontro. Il lettore italiano, tra l’altro, ha a disposizione parecchi suoi libri sia di poesia sia di prosa, ad opera di traduttori diversi (Damiano Abeni, Andrea Gardini, Andrea Molesini) per editori anch’essi diversi (Adelphi, Donzelli, elliot, Tlon).

«Esistono due tipi di poeti: quelli che invitano il lettore a sguazzare con loro nell’autocommiserazione e quelli che si limitano a rammentargli la comune condizione umana», ha scritto in un’occasione, e non c’è dubbio che il suo nome vada ascritto al gruppo dei secondi. È un motivo in più per rendergli merito. La sua visione di uomini e donne e della loro vita, infatti, è tutt’altro che lieta o facilmente positiva. Al contrario, Simic conosce bene — e nella sua opera ce ne parla molto spesso — la violenza della storia, la fragilità dell’identità personale, il sentimento, sempre latente, dell’insensatezza del tutto. È un poeta lunatico, non per nulla, che mette a fuoco le cose nella distanza, nel silenzio, nell’oscurità della veglia notturna (una sua raccolta di versi, edita da Adelphi, s’intitola appunto Hotel Insonnia). Eppure c’è in lui, inossidabile, una specie di continuo credito antropologico, come una prima e ultima benevolenza. È riuscito a essere un poeta della società, o meglio della dimensione comunitaria, della vita condivisa, proprio perché, paradossalmente, ha speso tutto in difesa delle prerogative individuali, e così della libertà e della dignità, e della sacrosanta unicità anche, della persona umana. Proprio così, come tra uno e tutti. Sentiamolo ancora dunque: «A me i sistemi non sono mai stati congeniali. La mia estetica afferma che il poeta è tale perché non può essere etichettato. È l’irriducibile unicità di ciascuna esistenza che merita di essere onorata e difesa».

Marco Giusti per Dagospia l’8 gennaio 2023.

Ecco, perdiamo anche Owen Roizman, 86 anni, uno dei più importanti direttori della fotografia degli anni ’70, l’uomo che seppe riprendere meglio di chiunque altro gli inseguimenti di macchine e la metropolitana di New York nello strepitoso “The French Connection”/”Il braccio violento della legge” di William Friedkin, le atmosfere gotiche e fumose della presenza del maligno in “L’esorcista”, sempre di Friedkin, con gli interni raffreddati a temperature glaciali ogni mattina per avere l’effetto del respiro visibile, il freddo mondo delle spie in “I tre giorni del Condor” di Sydney Pollack, ma seppe anche illuminare le grandi commedie del tempo, “provaci ancora, Sam” di Howard Ross con Woody Allen, “Tootsie” con Dustin Hoffman, “Il rompicuori” di Elaine May. Amico e principale collaboratore di regista come Sydney Pollack, Lawrence Kasdan, William Friedkin, venne candidato all’Oscar ben cinque volte, la prima volta, con “The French Connection” era addirittura il suo secondo film, dopo cinque anni di pubblicità, e ne vinse uno alla carriera quando era da tempo passato il suo momento magico.

Nato a Brooklyn nel 1923, figlio di un cameraman professionista, si laurea in matematica e fisica al Gettysburg College, e aiuta il padre nel suo lavoro. Dopo anni di pubblicità, girerà più di 1000 spot mettendosi in proprio produttivamente, fa il suo esordio nel cinema con il regista di culto afro-americano Bill Gunn nel 1970, in “Stop”, film di minima distribuzione della Warner, per poi incontrare Friedkin per “The French Connection” nel 1971. Friedkin lo scoprì proprio vedendo “Stop” e ne rimase impressionato. “The French Connection” è il film che oltra alla nomination (venne battuta da “Il violinista sul tetto”), gli aprirà le porte delle più grandi produzioni americane del tempo, non solo per i thriller newyorkesi. Per la scena dell’inseguimento, racconta in un’intervista del tempo, che gli erano servite due settimane di lavoro, cinque camere sincronizzate, due dozzine di auto, una dozzina di stuntman. L’effetto sullo schermo fu clamoroso. Fu la nascita del poliziesco moderno.

 Girerà poi la commedia di gangster italo-americani “La gang che non sapeva sparare” di James Goldstone con Jerry Orbach, Lionel Stander e un giovane Robert De Niro, per poi girare con Howard Ross “Provaci ancora, Sam”, con Bob Fosse lo special tv “Liza with a Z”, per il quale verrà nominato agli Emmy. Il nuovo trionfo gli arriverà grazie alla New York magica e piena di ombre e nebbie di “L’esorcista” di Friedkin, presto seguito dal film girato tutto nella metropolitana di New York “Il colpo della metropolitana” di Joseph Sargent con Walter Matthau e Robert Shaw, che diventerà un thriller di culto. Come lo sarà del resto “I tre giorni del condor”, il primo film che girerà, sempre a New York, con Sydney Pollack. Lo troviamo anche in produzione diverse, come il fantascientifico “La fabbrica delle mogli” e il western “Il ritorno dell’uomo chiamato cavallo” di Irvin Kershner con Richard Harris.

Un nuovo vero successo gli arriva con “Network”/“Quinto potere” di Sidney Lumet, a metà degli anni ’70, mentre incontra Ulu Grosbard col quale girerà due film importanti, “Vigilato speciale” con Dustin Hoffman e “L’assoluzione” con Robert Duvall e Robert De Niro, presentato a Venezia. Con Sydney Pollack gira l’oggi un po’ scordato, ma allora grande film civile “Diritto di cronaca” con Paul Newman e Sally Field, “Il cavaliere elettrico”, “Tootsie”, “Havana” con Robert Redford, mentre incontra Lawrence Kasdan negli anni ’90, “Ti amerò fino ad ammazzarti”, “Grand Canyon”, “Wyatt Earp”, “French Kiss”. Praticamente con lui finirà la sua lunga e fortunata carriera. Non tantissimi titoli, ma tutti ottimi titoli.

Adam Rich, è morto l’attore che interpretava il bambino de «La famiglia Bradford»: aveva 54 anni. Storia di Redazione Spettacoli su Il Corriere della Sera l’8 gennaio 2023.

L’ex baby star aveva esordito nel 1977. Negli anni 90 aveva abbandonato le scene per un lungo periodo, dopo problemi di dipendenze

Adam Rich, attore che aveva avuto successo da bambino interpretando il figlio più piccolo de «La famiglia Bradford», è morto nella sua casa di Los Angeles all’età di 54 anni. Il portale americano Tmz, nel dare la notizia, ha scritto che il decesso è avvenuto sabato, citando come fonte la famiglia, ma non ha fornito dettagli sulle cause della morte.

Rich aveva fatto il suo esordio nel 1977 proprio con «La famiglia Bradford» interpretando il figlio più piccolo, Nicholas, fino al 1981. Aveva poi provato a portare avanti la carriera di attore in altre serie televisive - come «Love Boat», «CHiPs», «Fantasilandia», «L’uomo da sei milioni di dollari» - ma gli ingaggi con il passare del tempo erano calati. Così nel 1993, dopo aver recitato in un episodio di «Baywatch», aveva abbandonato le scene per un lungo periodo, dopo essere finito nel tunnel dell’alcolismo e delle droghe (nel 1989 aveva rischiato di morire per overdose da Valium). Era stato anche arrestato per un tentativo di furto nel 1991, quando aveva cercato di irrompere in una farmacia per procurarsi delle sostanze. A pagare la cauzione, in quell’occasione, era stato Dick Van Patten, attore che interpretava suo padre ne «La famiglia Bradford»

Nel 2003 Rich ha poi interpretato se stesso nella commedia di David Spade «Dickie Robers: Former child star». Nel 2021 la Cnn ha parlato di lui nella serie «La storia della sitcom» e lui stesso, al tempo, ha riflettuto sui suoi esordi in un post di Instagram: «Sono grato della gioia che ho provato quando recitavo ne “La famiglia Bradford”... Spero di aver magari portato della gioia anche a voi».

E' morto Adam Rich: era il piccolo della 'Famiglia Bradford'. Aveva 54 anni. A cura della redazione Spettacoli su La Repubblica l’8 gennaio 2023.

L'attore aveva interpretato il ruolo di Nicolas nel telefilm americano. E non è l'unico protagonista del telefilm ad aver avuto una vita sfortunata

E' morto a 54 anni l'attore americano Adam Rich, diventato famoso per aver interpretato il personaggio di Nicolas, il figlio più piccolo della serie televisiva La famiglia Bradford, titolo originale  Eight Is Enough. Lo riporta la Cnn. Rich è morto sabato nella sua casa di Los Angeles, secondo il sito Tmz che cita la sua famiglia senza precisare la causa del decesso. Dopo il successo della Famiglia Bradford, Rich era comparso in diverse serie e film degli anni 70  e 80 tra cui Fantasy Island, CHiPs, Small Wonder. L'ultima sua interpretazione, prima di sparire dagli schermi per dieci anni, risale al 1993, in un episodio di Baywatch. Ha poi recitato in qualche altre produzione agli inizi del 2000.

Nel 1991 fu arrestato con l'accusa di furto con scasso e fu l'attore che interpretava suo padre in Eight is enough, Dick Van Patten, a pagargli la cauzione. Nel 1996 aveva partecipato ad uno scherzo di una trasmissione che aveva la notizia falsa della sua morte.

La "sfortuna" della serie

Diana Hyland, che interpretava la madre, Joan Bradford, morì di tumore 12 giorni dopo la messa in onda del primo episodio. Nella serie Tom Bradford rimane vedovo e la storia riparte da quel punto nella seconda stagione. E quando la serie fu cancellata cominciarono i guai per i protagonisti: Susan Richardson, omonima nella serie, ha avuto una vita difficile. Rimane incinta nel 1977 e per poter entrare nella parte della bella Susan Bradford si sottopone a un duro regime alimentare che la porta ad avere disturbi dell’alimentazione e dipendenza dalla cocaina. Dopo la fine della serie deve affrontare il sequestro di sua figlia in Corea, cosa che la porterà a soffrire di una grave depressione.

L’interprete di Tommy Bradford, Willy Aames, sperperò i proventi del suo successo in droga e alcol. Infine, Lany O’ Grady, Mary Bradford, morì per un’overdose di farmaci nel settembre del 2001.

Matteo Legnani per “Libero quotidiano” il 10 gennaio 2023. 

Fama, un mucchio di soldi e un'età troppo precoce per gestire le due cose in modo adeguato. L'elenco di baby-star hollywoodiane finite in disgrazia e precocemente scomparse è lunghissimo. Domenica sera, i media americani hanno dato la notizia della morte di Adam Rich. «Di chi?» si chiederanno in molti.

 Adam Rich, tra il 1977 e il 1981 e per un totale di 112 episodi tv, era stato Nicholas, il più piccolo degli otto fratelli de La famiglia Bradford, la serie cult andata in onda per cinque stagioni sul canale Abc: caschetto biondo, paffutello, lentiggini, nasino all'insù, era lo stereotipo del ragazzino americano, bello e in salute.

Il "fratellino d'America", come veniva soprannominato, era irriconoscibile nelle foto apparse a corredo della notizia della sua scomparsa, quelle di un 54enne dal volto tirato e magro, i capelli grigi, lo sguardo stanco. Le cause del decesso, avvenuto nella sua casa di Los Angeles, non sono state rese note dall'ufficio del coroner della contea. Rich non aveva né moglie né figli e a comunicare la notizia ai media è stato il suo agente, Danny Deraney. Dopo lo stop della serie nel 1981, Rich era apparso come guest star in alcuni episodi di altri celebri telefilm di quegli anni, tra cui Love Boat, Chips, L'uomo da 6 milioni di dollari, Baywatch.

Poi lo show business lo dimenticò e iniziarono i problemi: a 17 anni, nel 1986, lasciò la scuola superiore. Tre anni più tardi andò vicino alla morte inseguito a una overdose di valium. Un rapporto, quello con le droghe, che lo avrebbe portato per tre volte in riabilitazione nel corso degli anni successivi. Nel 1990, sorpreso a guidare in stato di ubriachezza dopo CH aver quasi investito alcuni pedoni, finì in libertà vigilata per cinque mesi, al termine dei quali venne arrestato in seguito alla tentata rapina in una farmacia a West Hollywood.

 Il suo 'papà' ne La Famiglia Bradford, l'attore Dick Van Patten, lo fece uscire pagandogli la cauzione. Ma Rich, in galera, ci tornò ancora una volta nel 2002, questa volta per guida sotto l'effetto di sostanze stupefacenti. Quello di Adam Rich è solo l'ultimo nome in una lunga lista di giovanissime celebrità del cinema e della tv americane cadute vittima di alcol e droghe.

Il caso più celebre resta quello di Macaulay Culkin, il ragazzino protagonista nel 1990 di Mamma ho perso l'aereo. Oltre al sequel del '93, negli anni successivi Culkin interpretò un'altra mezza dozzina di film e a 14 anni il suo patrimonio personale venne calcolato in quasi 25 milioni di dollari. Il 1994 fu l'anno del suo precoce declino: film di scarso successo, la scoperta che il padre aveva sperperato gran parte del suo patrimonio, la lite tra i genitori per il suo affidamento lo spinsero ad allontanarsi dalle scene per quasi 10 anni.

Quando vi tornò nel 2003, venne arrestato per possesso di droga, reato che lo portò nuovamente dietro le sbarre l'anno successivo. River Phoenix aveva alle spalle anni di droghe e alcol quando morì di overdose sul marciapiede di un locale di Los Angeles a 24 anni nel 1994. La sua fama esplose nel 1986 con Stand By Me, pellicola nella quale aveva recitato con il 15enne Corey Feldman. Famosissimo dall'anno precedente come protagonista de I Goonies, Feldman di fatto sparì dalle scene dopo quei due film in seguito alla dipendenza dagli stupefacenti.

Una vera ecatombe è stata quella che ha riguardato i protagonisti del primo telefilm per ragazzi apparso sulla tv italiana, "Il mio amico Arnold". Il protagonista Gary Coleman partecipò solamente a qualche episodio di altre serie tv dopo la chiusura del suo show nel 1986. Nella vita fece la guardia privata e fu arrestato due volte: nel 2008 per aver investito una persona in un parcheggio e nel 2009 per presunte violenze domestiche.

L'anno successivo, durante uno show televisivo volto a riabilitarlo di fronte al pubblico, diede in escandescenze nei confronti di conduttori e giornalisti e abbandonò la scena tra la costernazione generale. Morì pochi mesi dopo, all'età di soli 42 anni, a seguito di una caduta in casa. Suo fratello Willis in "Arnold", l'attore Todd Bridges, ha rischiato di morire per overdose di crack ed è finito più volte in carcere per possesso di droga e anche per tentato omicidio.

 Alla "sorella" Kimberly è andata anche peggio: dopo Arnold posò nuda su Playboy e altre riviste, recitò in pellicole softcore, fu arrestata per rapina a mano armata e nel 1999 fu trovata morta dentro una roulotte per una overdose di tranquillanti. «L'unica star che sia stata capace di gestire fin da giovanissima una vita di celluloide è Elizabeth Taylor. Perché quella che noi tanto invidiamo, è una esistenza tremenda, fatta di uno stress insopportabile che necessita di compensazioni, di uno "sballo" che sia l'alcol, la droga, il sesso» spiega lo psicologo Paolo Crepet.

  «Laddove invece la "fiera delle vanità" viene meno, c'è una umanissima e comprensibile difficoltà di "processare", ossia di accettare una vita più normale, senza la "droga" dell'adrenalina. Che porta a sua volta alla ricerca di compensazioni o a comportamenti socialmente perturbanti o distruttivi».

È morto Roberto Gentile, speaker di Radio Subasio. Aveva 55 anni. Storia di Redazione Spettacoli su Il Corriere della Sera l’8 gennaio 2023.

Lo speaker di Radio Subasio, Roberto Gentile, 55 ani, è morto nella notte. È la stessa emittente, attraverso i propri canali social, a dare notizia della sua prematura scomparsa. «Roberto Gentile, non è più tra noi. Mancherà tanto agli ascoltatori e a tutti noi di Radio Subasio perché come diceva sempre `noi siamo una famiglia´» si legge nel messaggio diffuso dall’emittente radiofonica con sede ad Assisi. «Ed è proprio vero. Anche lassù, farà risuonare il suo motto `andiamo a vincere´ che è anche il nostro, per non dimenticarci mai di lui» si legge ancora. Gentile era nato a Roma ma cresciuto ad Assisi dove poi era tornato ad abitare e lavorare dopo l’università a Pisa e l’esperienza a Radio Rai. Da qualche tempo non era più in onda nella consueta fascia mattutina per motivi di salute, ma pochi giorni fa Gentile aveva voluto mandare un saluto al suo pubblico ringraziandolo per l’affetto che aveva dimostrato nei suoi confronti nelle ultime settimane in cui era stato sostituito da Vera Torrisi e Stefano Pozzovivo.

Marco Giusti per Dagospia il 6 gennaio 2023.

Se ne va, quasi centenario, il leggendario artista, pittore, scultore e film-maker canadese Michael Snow, un nome mitico fra chi ha seguito le avanguardie artistiche del secolo scorso e, soprattutto, fra chi vide, allora, film come "Wavelength", 1967, o “La région central”, 1971.

 Il primo era un film sperimentale di 45’ dove si assiste a un’unica ripresa, uno zoom che si avvicina lentissimo alla parete di un loft dove alla fine si fermerà per inquadrare l’onda del mare in una fotografia.

 Il secondo, lungo tre ore, ma doveva esserci anche una visione molto più lunga, è costruito su quel che riprende una cinepresa a 16 mm, adagiata su un tripode nella landa desolata del Québec, mossa roboticamente a 360° con angolazioni e velocità diverse.

 L’idea di Snow era quella di ricostruire una soggettiva non umana, se vogliamo aliena, e al tempo stesso spezzare la costruzione narrativa tradizionale del cinema e della ripresa. Dirà in un’intervista di solo un anno fa a “Il Manifesto”: “La Région Centrale è la culminazione di una serie di lavori che trattano il movimento di macchina, la prima delle quali fu Wavelength, seguita da Back and Forth e Standard Time.

Tutti questi film mostrano, in modo deliberato, interni: stanze. Così ho voluto realizzare qualcosa sul movimento ma in uno spazio completamente aperto, e questa è diventata l’ambizione di fare un «film paesaggio».Quando il mio amico Graeme Ferguson ha visto La Région Centrale, mi ha immediatamente suggerito di fare una versione IMAX – sistema che ha co-inventato – ma a quel tempo non ero interessato”.

 Lo vedemmo, io, Ghezzi e Freccero in quel di Savona con una copia in 16 mm che portò lo stesso Freccero. Non ricordo dove stavamo ma passammo quasi tutta la notte a vedere quello che, ancora oggi, è forse uno dei film che più hanno segnato una intera generazione. Mi dice Carlo che poi portò il film a Milano e lo fece vedere anche lì. E che il luogo dove era stata posata la telecamera era vicino alla casa di McLuhan. Possibile? Io ricordo poro che un giovane Alejandro Jodorowski era visibile all’interno di “Wavelenght”, ma forse sono leggende metropolitane.

Michael Snow, che ha lavorato moltissimo tutta la vita sugli stessi temi, era nato a Toronto nel 1923, aveva studiato disegno all’Ontario College of Art e aveva sviluppato un talento da jazzista e da pittore. Nel 1956 aveva girato il suo primo cortometraggio, un cartone animato sperimentale, “From A to Z”, ma nel 1963 parte per New York dove conosce Jonas Mekas e inizia a costruire i film sperimentali che verranno celebrati in tutto il mondo, "Wavelength" è appunto girato a New York nel 1967, e prendono parte alla lavorazione altri artisti del tempo, come Hollis Frampton, nonché la prima moglie di Snow, Joyce Wieland (1956-90).

Nello stesso anno gira “Standard Time”, costruito su una ripresa a 360°, due anni gira “Back and Forth”. Inutile dire che i primi film di Snow dettero ispirazione a una serie incredibile di altri film e di altre opere. Jazzista, fu uno dei quattro esecutori, assieme a Richard Serra, James Tenney, Bruce Nauman al Whitney Museum nel 1969 dell’opera di Steve Reich “Pendulum Music”.

 Il complesso “Rameau’s Nephew by Diderot (Thanks to Dennis Young) by Wilma Schoen”, che vede nel cast Jonas Mekas e Jessica Harper, è invece costruito tra il 1970 e il 1974, un’opera di 4 ore e mezzo. “Dopo aver realizzato diversi film che esploravano la natura del movimento della macchina da presa, Mr. Snow - musicista, oltre che pittore, scultore, fotografo e regista - ha rivolto la sua attenzione al rapporto tra suono e immagine, con risultati che non sono mai meno che provocatori e spesso estremamente buffi”, scrive “The New York Times” .Nel corso della sua lunga carriera viene celebrato al Pompidou a Parigi nel 2000 e al Moma nel 2005. Dopo tanti anni, confesso che ho ben presente i colori e i movimenti di macchina di “La région central”. Su MubI trovate molte delle sue opere.

Morta Fay Weldon, romanziera dallo sguardo ironico sulle donne. Redazione Cultura su Il Corriere della Sera il 5 Gennaio 2023.

Autrice di romanzi tra cui «Vita e amori di una diavolessa», da cui il film «She Devil – Lei, il diavolo» con Meryl Streep, ha scritto più di 30 libri e fiction televisive

La scrittrice britannica Fay Weldon, autrice che sfidò l’ortodossia femminista con la satira dark per esplorare le divisioni tra uomini e donne, è morta mercoledì 4 gennaio all’età di 91 anni. L’annuncio della scomparsa è stato dato dalla famiglia tramite il suo agente letterario. Romanziera, saggista e drammaturga, era nota soprattutto per il romanzo di grande successo «Vita e amori di una diavolessa» del 1983 (Feltrinelli, 1984), da cui è stato tratto il film «She Devil – Lei, il diavolo» (1989), diretto da Susan Seidelman e interpretato da Meryl Streep.

L’autrice ha pubblicato più di 30 romanzi nel corso della sua carriera — dove spesso con grande ironia traccia le dinamiche di coppia — oltre a raccolte di racconti, film per la televisione e articoli di giornalismo, collaborando occasionalmente con diverse riviste, oltre a essere stata una delle voci più apprezzate della Bbc. Nata ad Alvechurch, nel Worcester, il 22 settembre 1931, Fay Weldon, il cui vero nome era Franklin Birkinshaw Weldon, a cinque anni si trasferisce con la madre e la nonna in Nuova Zelanda a seguito del divorzio dei genitori. Tornata in patria si laurea in psicologia ed economia all’Università St. Andrews in Scozia. Esordisce nella narrativa nel 1967 con «Fat Woman Joke», preceduto da diversi lavori svolti come autrice di spettacoli televisivi e radiofonici, tra cui l’importante adattamento per la tv del capolavoro di Jane Austen «Orgoglio e Pregiudizio», trasmesso dalla Bbc.

I suoi romanzi hanno spesso come protagoniste donne che cercano di uscire dal ruolo imposto loro dalla società e per questo sono stati spesso definiti femministi, anche se per certi aspetti irregolari. Fay Weldon ha proposto i suoi sarcastici espedienti narrativi sulla subalternità delle donne e sulle angherie di una società maschilista, mettendo a nudo le debolezze dell’uno e dell’altro sesso alle prese con il grigiore dell’esistenza borghese. Le donne di Weldon sono spesso figure opache, pronte a farsi ingannare, la cui cecità, le cui debolezze interiori fanno parte della rappresentazione di un’esistenza impastata di stereotipi e di ipocrisie.

Numerosi i libri della scrittrice tradotti in italiano, tra cui: «Giù tra le donne» (La tartaruga, 1993), «Le amiche del cuore» (La tartaruga, 1994), «La trappola» (La tartaruga, 2009), «Il cuore e la vita degli uomini» (Mondadori, 1989), «Le altre vite di Joanna May» (Mondadori, 1990), «La forza vitale» (Feltrinelli, 1993), «Le peggiori paure» (Fazi, 2002), «I diari della matrigna» (La tartaruga, 2010), «Dopo il crash» (E/O, 2010). Fay Weldon è autrice anche di saggi e biografie come quella di Rebecca West.

Nella sua autobiografia «Auto da Fay» (2002) — il titolo richiamava con un gioco di parole «autodafé», termine derivato dal portoghese «atto di fede» usato durante l’Inquisizione spagnola — Weldon racconta la vicenda familiare che ha segnato la sua vita di bambina: suo padre era un dottore e sua madre una scrittrice di fiction commerciale sotto lo pseudonimo di «Pearl Bellairs». I suoi genitori divorziano quando lei ha cinque anni e si trasferisce in Nuova Zelanda con la nonna, la madre e la sorella. Il risultato di questa educazione tutta al femminile è il convincimento che «il mondo è stato popolato grazie alle donne».

Dopo il ritorno in Inghilterra e gli studi universitari in Scozia, quando ha vent’anni sposa un quarantenne, dal quale avrà il suo primogenito. Il matrimonio dura poco: nel 1962 si risposa in seconde nozze con Roy Weldon, un’unione coronata da altri tre figli. Entra in una crisi di mezza età: «Ero triste, inadeguata, depressa e ignorante, e lo sapevo». Con la psicoanalisi riguadagna la stima in sé e trova il coraggio per iniziare a scrivere, con l’esordio nel 1967.

Weldon ha lavorato per la televisione e, prima di affermarsi come romanziera, per la pubblicità. Il suo punto di partenza è stata la critica di un linguaggio edulcorato e fraudolento, di cui le donne sono vittime (ma anche attive promotrici), e che si diffonde nelle soap opera televisive, nelle collane «rosa», nei tabloid della stampa popolare, dove si possono conciliare un femminismo di pura facciata e il porno soft delle fanciulle nude in terza pagina. La strada della consapevolezza e dunque della vendetta, non è mai preclusa alle sue eroine.

Da open.online il 3 Gennaio 2023.

È morto a 74 anni il disegnatore giapponese Gosaku Ota, celebre autore dei disegni di Mazinga Z, Goldrake e Jeeg robot d’acciaio, creati dallo scrittore e fumettista Go Nagai di cui era uno stretto collaboratore. Il disegnatore è morto dopo alcuni giorni di ricovero per una polmonite e le complicazioni del Covid. La sua scomparsa sarebbe avvenuta lo scorso 12 dicembre, ma per volontà della famiglia la notizia è stata rivelata in Giappone solo ieri 2 gennaio.

La sua carriera era partita come assistente di Shotaro Ishinomori, autore di Cyborg 009, Kamen Rider, Hokusai, Miyamoto Musashi. Dagli inizi degli anni ’70 è poi diventato uno dei principali collaboratori di Go Nagai, con cui realizzò i primi manga su carta delle saghe di Nagai come Mazinga Z, Il Grande Mazinga e Goldrake che hanno raccolto un grandissimo successo. Era stata la casa editrice Fabbri a pubblicare i manga negli anni Ottanta, poi rilanciati da Granata Press negli anni Novanta.

Un successo ripetuto e ampliato dalle versioni animate dei manga, mandate in onda in Giappone quasi cinquant’anni fa, con i primi episodi di Goldrake apparsi dal 5 ottobre 1975 e arrivati poi in Italia circa tre anni dopo su Rai2. Nel 1980 la Rai mandò in onda la serie di Mazinga Z, con 92 episodi poi sbarcati anche sulla tv commerciale fino agli anni ’90.

Gosaku Ota, morto il disegnatore di Mazinga Z e Goldrake. Morto a 74 anni per una polmonite dovuta al covid, Gosaku Ota, il celebre disegnatore di molti manga, tra cui Mazinga Z e Goldrake. Roberta Damiata il 3 Gennaio 2023 su Il Giornale.

È scomparso il 12 dicembre all'età di 74 anni, ma soltanto oggi la famiglia, dopo i funerali privati e tramite il tweet del co-fondatore di Studio Nue, Haruka Takachiho, ha diffuso la notizia della morte di Gosaku Ota, celebre disegnatore di Mazinga Z e Goldrake, creati da Go Nagai. Notizia che ha creato un grande cordoglio tra gli amanti degli anime. Per lui sono state fatali le conseguenze di una polmonite contratta in seguito al covid, per cui era ricoverato in un ospedale della prefettura di Gunma già dal mese di novembre.

Nato nel 1948, Ota intraprese la carriera di fumettista lavorando come assistente di Shotaro Ishinomori, il fumettista che è stato una delle figure più influenti nel campo dei manga, passando poi a realizzare gli Shojo manga, una particolare categoria di anime indirizzati principalmente a un pubblico femminile, a partire dall'età scolare fino alla maggiore età. Dagli inizi degli anni '70 diventò uno dei più stretti collaboratori di Go Nagai, considerato uno dei più importanti mangaka (una persona che idea la storia e realizza i disegni di un'opera a fumetti, ndr) di sempre, autore di opere che hanno segnato la storia moderna del fumetto, portando importanti innovazioni nei manga e negli anime giapponesi.

Da quella esperienza così prestigiosa, Ota riuscì, da suo assistente, a disegnare molti importanti personaggi: da Mazinga Z (1972-73), Grande Mazinga (1974-75), Goldrake (1975-77), Getter Robot (1974-75) e Jeeg robot d'acciaio (1975-78). Ha poi disegnato la seconda metà del manga Machine Saurer sempre creato da Go Nagai, e il manga sulla pesca Tsuri Baka Taishō, lanciato nel 1981 e pubblicato in 10 volumi. La sua matita era potente e donava ai personaggi un'anima che veniva subito riconosciuta dagli amanti dei Manga. Gosaku Ota è noto anche per aver disegnato una versione manga dell’eroe di seconda fascia di Marvel Comics Moon Knight, pubblicata in Giappone nel 1979.

Spazio, morto Walter Cunningham: l'ultimo astronauta dell'Apollo 7. Redazione Tgcom24 il 4 Gennaio 2023.

È morto Walter Cunningham, l'ultimo astronauta sopravvissuto della prima missione spaziale di successo con equipaggio nel programma Apollo della Nasa. Aveva 90 anni. A confermare la notizia è l'Agenzia spaziale Usa. La sua famiglia ha riferito attraverso un portavoce, Jeff Carr, che Cunningham "è deceduto in ospedale a Houston per cause naturali". Cunningham era uno dei tre astronauti a bordo della missione Apollo 7 del 1968, volo spaziale di 11 giorni durante il quale sono state realizzate trasmissioni televisive mentre orbitava attorno alla Terra, aprendo la strada all'atterraggio sulla luna meno di un anno dopo.

(ANSA il 2 gennaio 2023) Fred White, il batterista degli Earth, Wind & Fire è morto all'età di 67 anni. Lo annuncia il fratello Verdine White con un post su Instagram. "Il nostro amato Frederick Eugene 'Freddie' White" è morto, si legge nel post. Ricorda il batterista anche la sua band, postando un video della sua performance durante un concerto in Germania nel 1979.

Nato nel 1955 a Chicago (Illinois), White aveva iniziato giovanissimo a suonare la batteria. Durante la sua carriera, ha vinto sei Grammy Awards con la leggendaria band funk formata nel 1969 da suo fratello Maurice White, scomparso nel 2016. Earth, Wind & Fire sono diventati rapidamente famosi negli anni '70, tra i primi a infrangere i tabù razziali nel pop, e hanno avuto enorme successo sia nella comunità bianca che in quella afroamericana.

Nel 1979, la band è stata la prima band afroamericana ad esibirsi davanti a un pubblico tutto esaurito al prestigioso Madison Square Garden di New York. White, come membro della band Earth, Wind & Fire, è stato inserito nella Rock & Roll Hall of Fame nel 2000, il pantheon americano del rock e della musica pop.

 Il gruppo si è distinto per le sue canzoni ma anche per i suoi spettacoli pieni di energia, scanditi da una forte presenza di ottoni e di una kalimba, uno strumento a percussione africano fatto di lamelle di metallo. Senza mai essere usciti del tutto dalle scene, il gruppo ha vissuto una rinascita di notorietà dopo l'elezione del presidente Barack Obama, che li ha invitati tra i primi artisti ad esibirsi dopo essere entrato alla Casa Bianca nel 2009.

Ken Block è morto, incidente in motoslitta per il pilota da rally. Daniele Sparisci su Il Corriere della Sera il 3 Gennaio 2023

Incidente in motoslitta nello Utah, aveva 55 anni. Con le sue «Gymkhana» era diventato famosissimo, aveva anche fondato il marchio di scarpe Dc Shoes

Addio Ken Block, il pilota di rally diventato leggenda grazie ai suoi video su Youtube, il re degli stuntman. È morto questa notte in un incidente in motoslitta nello Utah, nella contea di Wasatch, aveva 55 anni, lascia tre figli e la moglie Lucy. Secondo la ricostruzione della polizia locale stava guidando su un pendio molto ripido quando il mezzo si è ribaltato finendogli addosso. Troppo gravi le ferite riportate nell’impatto, in passato aveva già avuto brutti incidenti ma se l’era sempre cavata. Proprie nelle sue ultime storie su Instagram aveva pubblicato immagini di questi primi giorni del 2023 fra le nevi, vissuti con alta adrenalina, come sempre. «Go fast and risk every Thang» era il suo motto.

Con le sue acrobazie era diventato una leggenda: corse mozzafiato, salti altissimi, e serpentine, traversate nel fuoco. Nell’era pre-social i suoi video erano materiale di culto per tutti gli appassionati di motori. Ma non solo. Avevano ispirato videogiochi e film. Dalla prima «Gymkhana», datata 2008, Block era diventato una celebrità, aveva creato una nuova dimensione "hollywoodiana" di fare lo stuntman. Ha inventato un genere.

Il video d'esordio raccoglie milioni di visualizzazioni subito, Ken al volante di una Impreza evita ostacoli sgommando, esibendosi nel "drifting" con le gomme perennemente in fumo all'interno di un piccolo aeroporto abbandonato vicino a San Francisco. A guardarlo oggi, nell'epoca del 4K, sembra che quella clip provenga da un altro secolo e invece ha cambiato a modo suo un'epoca della comunicazione sfruttando l'immensa potenza di Youtube, allora gli arbori, delle GoPro. Episodio dopo episodio la produzione diventa più raffinata, cambiano i luoghi, le macchine, gli sponsor, e i «trick» diventano sempre più spettacolari e rischiosi. Dalla «Gymkhana» si passa alla «Climbkhana», alla «Electrikhana», cambiano gli ingredienti ma non il marchio di fabbrica.

Block diventa protagonista di show, di serie tv, veniva conteso dalle Case automobilistiche a suon di milioni per girare clip, per presenziare a motoroshow ed eventi, ospite fisso di «Top Gear», aveva partecipato anche al memorial Bettega a Bologna,e recentemente stava pianificando una nuova impresa al volante di una Delta Integrale. Lancia prodotti di ogni tipo, persino un gin.

Nato a Long Beach, in California, Block unisce la passione per le automobili a quelle per lo showbusiness e per gli sport estremi. Ha quasi 40 anni quando inizia la sua seconda vita da pilota di rally negli Usa su una Subaru Impreza, sceglie questa strada per imitare l'amico Travis Pastrana. È competitivo e vince il premio di matricola dell’anno nel 2005. La Casa giapponese lo promuove nel team ufficiale dove ottiene un secondo posto nelle competizioni nazionali e un bronzo agli X Games. Ha soldi e può spenderli nelle corse, ma ha anche una qualità che tutti gli riconoscono: un controllo assoluto del mezzo, una sensibilità straordinaria.

Ma i suoi interessi vanno ben oltre i traversi e gli sterrati, Block- che amava anche andare in skateboard e in snowboard ed era bravo anche lì-, ha un fiuto infallibile per gli affari e per le nuove tendenze. Già nel 1994, insieme a Damon Way, aveva creato il marchio d’abbigliamento DC Shoes , poi acquistato da Quicksilver per 87 milioni di dollari. Un brand in voga prima fra gli skaters e poi fra gli snowboarders. Rotelle, tavole e ruote, la contaminazione avviene perfettamente in un uno di quei mix che soltanto negli Usa, e dalle parti di Los Angeles, possono riuscire. Per i puristi è un fenomeno da baraccone, per tutti gli altri un genio. «Mio padre aveva un azienda di elettronica -raccontava in un'intervista- io sono cresciuto a Long Beach: andavo a vedere le partite dei Dodgers, giravo in Bmx, ho provato un sacco di sport fino a capire che preferivo quelli individuali. Prima ho iniziato con lo skateboard, poi ho fatto motocross e infine snowboard. Ascoltavamo il punk e adoravamo la street art, lì ho capito che avrei voluto fare un mestiere creativo».

E le auto? «Negli anni ottanta leggevo riviste di macchine, ero appassionato di design industriale e così da quelle letture scoprii il rally. La grande sfida al Pike's Peak (la cronoscalata più famosa in America e negli Usa ndr), anche i costruttori europei ci provavano. E siccome già facevo motocross e mi piaceva quel tipo di guida aggressiva, il rally è stato lo sbocco naturale, amavo far derapare la macchina. Ma al tempo stesso mi dicevo: "È una roba da europei, non sarò mai capace di competere con loro, non credo che esistano gare qui da noi". E invece Travis mi ha aperto un mondo, pensavo potesse diventare soltanto un hobby e invece...».

Block lascia un vuoto fra i fan, lo ricordano tutti, tanti: « Ken era un visionario, un pioniere e un'icona. E, cosa più importante, un padre e un marito. Ci mancherà incredibilmente. Per favore, rispettate la privacy della famiglia in questo momento mentre sono in lutto». È il messaggio pubblicato dalla Hoonigan Industries, un'altra delle aziende fondate da Block.