Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

ANNO 2023

LA SOCIETA’

SECONDA PARTE


DI ANTONIO GIANGRANDE

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO


 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2023, consequenziale a quello del 2022. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.


 

IL GOVERNO


 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.


 

L’AMMINISTRAZIONE


 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.


 

L’ACCOGLIENZA


 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.


 

GLI STATISTI


 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.


 

I PARTITI


 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.


 

LA GIUSTIZIA


 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.


 

LA MAFIOSITA’


 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.


 

LA CULTURA ED I MEDIA


 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.


 

LO SPETTACOLO E LO SPORT


 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.


 

LA SOCIETA’


 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?


 

L’AMBIENTE


 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.


 

IL TERRITORIO


 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.


 

LE RELIGIONI


 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.


 

FEMMINE E LGBTI


 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

LA SOCIETA’

INDICE PRIMA PARTE


 

AUSPICI, RICORDI E GLI ANNIVERSARI.

Controllare il tempo: Il Calendario.

La Fine del Mondo.

Le profezie per il 2023.

I festeggiamenti di capodanno.

Halloween.

I Mostri.

La Superstizione.

Il Carnevale.

Pesce d’Aprile.

Le Ricorrenze.

71 anni dalla morte di Eva (Evita) Peron.

63 anni dalla morte di Ferdinando Buscaglione, detto Fred.

60 anni dalla morte di Édith Piaf.

56 anni dalla morte di Otis Redding. 

53 anni dalla morte di Janis Joplin.

52 anni dalla morte di Jim Morrison.

50 anni dalla morte di Bruce Lee.

50 anni dalla morte di Anna Magnani.

48 anni dalla morte di Joséphine Baker.

46 anni dalla morte di Elvis Presley.

46 anni dalla morte di Maria Callas.

33 anni dalla morte di Greta Garbo.

33 anni dalla morte di Ugo Tognazzi.

32 anni dalla morte di Walter Chiari.

30 anni dalla morte di Federico Fellini.

30 anni dalla morte di Frank Zappa.

30 anni dalla morte di River Phoenix.

30 anni dalla morte di Sora Lella Elena Fabrizi. 

30 anni dalla morte di Audrey Hepburn.

30 anni dalla morte di Rudolf Nureyev.

29 anni dalla morte di Gustavo Adolfo Rol.

29 anni dalla morte di Mario Brega.

29 anni dalla morte di Gian Maria Volonté.

29 anni dalla morte di Massimo Troisi.

29 anni dalla morte di Moana Pozzi.

29 anni dalla morte di Domenico Modugno.

28 anni dalla morte di Ginger Rogers.

27 anni dalla morte di Tupac Shakur.

27 anni dalla morte di Mia Martini.

26 anni dalla morte di Giorgio Strehler.

25 anni dalla morte di Lucio Battisti.

24 anni dalla morte di Fabrizio De Andrè.

23 anni dalla morte di Vittorio Gassman.

22 anni dalla morte di Maurizio Arena.

22 anni dalla morte di Anthony Quinn.

21 anni dalla morte di Alex Baroni.

21 anni dalla morte di Carmelo Bene.

20 anni dalla morte di Charles Bronson.

20 anni dalla morte di Johnny Cash.

20 anni dalla morte di Leopoldo Trieste.

20 anni dalla morte di Giorgio Gaber.

20 anni dalla morte di Alberto Sordi.

20 anni dalla morte di Sandro Ciotti.

19 anni dalla morte di Nino Manfredi.

17 anni dalla morte Mario Merola.

16 anni dalla morte Anna Nicole Smith.

15 anni dalla morte di Gianfranco Funari.

14 anni dalla morte di Michael Jackson.

14 anni dalla morte di Dino Risi.

14 anni dalla morte di Mike Bongiorno.

14 anni dalla morte di Farrah Fawcett.

13 anni dalla morte di Mario Monicelli.

13 anni dalla morte di Lelio Luttazzi.

12 anni dalla morte di Amy Winehouse.

12 anni dalla morte di Elizabeth Taylor.

11 anni dalla morte di Lucio Dalla.

11 anni dalla morte di Whitney Houston.

10 anni dalla morte di Lou Reed.

10 anni dalla morte di Mariangela Melato.

10 anni dalla morte di Enzo Jannacci.

10 anni dalla morte di Franco Califano.

7 anni dalla morte di Marta Marzotto.

7 anni dalla morte di George Michael.

7 anni dalla morte di David Bowie.

7 anni dalla morte di Giorgio Albertazzi.

7 anni dalla morte di Paolo Poli.

6 anni dalla morte di Gianni Boncompagni.

6 anni dalla morte di Paolo Villaggio.

5 anni dalla morte di Sergio Marchionne.

5 anni dalla morte di Irina Sanpiter.

5 anni dalla morte di Fabrizio Frizzi.

4 anni dalla morte di Jeffrey Epstein.

4 anni dalla morte di Franzo Zeffirelli.

3 anni dalla morte di Little Richard.

3 anni dalla morte di Diego Armando Maradona.

3 anni dalla morte di Kobe Bryant.

3 anni dalla morte di Franca Valeri.

3 anni dalla morte di Ennio Morricone.

3 anni dalla morte di Ezio Bosso.

2 anni dalla morte di Carla Fracci.

2 anni dalla morte di Franco Battiato.

2 anni dalla morte di Raffaella Carrà.

2 anni dalla morte di Milva.

1 anno dalla morte di Mino Raiola.

1 anno dalla morte di Letizia Battaglia.

1 anno dalla morte di Eugenio Scalfari.

1 anno dalla morte di Pelè.

1 anno dalla morte di Barbara Walters.

I Queen.

I Lynyrd Skynyrd.

I Led Zeppelin.

I Kiss.

I Beatles.

I Lunapop.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI? (Ho scritto un saggio dedicato)



 

INDICE SECONDA PARTE


 

I MORTI FAMOSI.

Il Lutto.

Vivi per sempre.

Morti del cazzo.

Diritto di Morire.

Addio al fotografo Ivo Saglietti.

È morta l’attrice Itziar Castro.

Morto l’attore Ryan O’Neal.

Morto il principe Costantino del Liechtenstein.

E’ morto l’attore Benjamin Zephaniah.

E’ morto l’attore Norman Lear,

E’ morto il chitarrista Marco “Jimmy” Villotti.

E’ morto l’agente di cambio Attilio Ventura.

Morto il pittore Carlo Guarienti.

E' morto il cantautore Shane MacGowan.

Addio al maestro della fotografia Elliott Erwitt.

Morto il regista Aldo Lado.

Morta l'attrice Anna Kanakis.

Se ne va uno l’attore Joss Ackland.

Morto il Senatore Nino Strano.

Morto l’astronauta Frank Borman.

E’ morto l’attore Evan Ellingson.

E’ morta l'attrice Sibilla Barbieri.

E’ morta l’attrice Micaela Cendali Pignatelli.

È morto l’attore Andrea Iovino.

E’ morta l’attrice Marina Cicogna.

E’ morto l’astronauta Thomas Kenneth Mattingly II.

È morto il giornalista Lanfranco Pace.

Morto lo sceneggiatore Peter Steven Fischer.

Morto l’ex Ministro Luigi Berlinguer.

Addio all’editore Ernesto Ferrero.

È morto l’attore Matthew Perry.

Se ne è andato l’attore Richard Roundtree.

Se ne va l’attore Jesús Guzmán.

Addio al vignettista Sergio Staino.

Addio all’attrice Marzia Ubaldi.

Addio all’attore Burt Young.

Morta la musicista Carla Bley.

È morta l’attrice Suzanne Somers.

È morto il giornalista Cesare Rimini.

Se ne va l’attrice Piper Laurie.

Morta la poetessa Louise Glück.

Addio a Charles Feeney, l'uomo più generoso d'America.

È morto il giornalista Ettore Mo.

È morto il giornalista Eugenio Palmieri.

È morto il banchiere Pierfrancesco Pacini Battaglia.

E’ morto il giornalista il Luca Goldoni.

Addio all’attore Keith Jefferson.

Morto l’attore-regista Franco Brocani.

È morto l’attore Tommasino Accardo.

È morta l’attrice Ketty Roselli.

Morto l’attore Michael Gambon.

Morto il giornalista Armando Sommajuolo.

Morto l’attore David McCallum.

Morto il giornalista Francesco Cevasco.

E’ morto il Presidente Giorgio Napolitano.

E’ morto l’autore Franco Migliacci.

È morto l’artista Fernando Botero.

Morto il sociologo Domenico De Masi.

Morto l’imprenditore Flavio Repetto.

È morto il regista Giuliano Montaldo.

Addio al cantante Steve Harwell.

È morto il chitarrista Jack Sonni.

E’ morto il cantautore Jimmy Buffett.

Addio all’imprenditore Mohamed al Fayed.

Addio all’imprenditore web Alessandro Vento.

È morta l’attrice Hersha Parady.

E' morto lo sceneggiatore e produttore David Jacobs.

E’ morto il cantante Salvatore Toto Cutugno.

Addio all’inventore John Warnock.

Addio all’attore Ron Cephas Jones.

Addio al manager Roberto Colaninno.

È morta il soprano Renata Scotto.

Morto il sociologo Francesco Alberoni.

Addio al Professore Marcello Gallo.

È morta l'attrice Antonella Lualdi.

E’ morto l’artista Jamie Reid.

Si è spento il cantante Peppino Gagliardi.

Addio al cantante Sixto Sugar Man Rodriguez.

Addio al cantante Robbie Roberston.

E’ morto il regista William Friedkin.

È morto il politico e filosofo Mario Tronti.

Addio all’industriale Lorenzo Ercole.

È morto il giornalista Idris Sanneh.

Morto l’attore Angus Cloud.

E’ morto l’attore Paul Reubens.

Morta la giornalista Daniela Mazzacane.

Morto lo scrittore Luca Di Meo.

Morto il cantante Randy Meisner.

Morta la cantante Sinead O'Connor.

E’ morto l’antropologo e filosofo Marc Augé.

E’ morto il pittore Emilio Leofreddi.

E’ morta l’attrice Josephine Chaplin.

E’ morto il cantante Tony Bennett.

E’ morto il giornalista Andrea Purgatori.

Muore l’attrice-cantante Jane Birkin.

E’ morto lo scrittore filosofo Milan Kundera.


 

INDICE TERZA PARTE


 

I MORTI FAMOSI.

E’ morto il giornalista Fabrizio Zampa.

E’ morto l’attore Alan Arkin.

E’ morto l’attore Julian Sands.

E’ morto il velocista olimpico e stuntman Dean Smith.

E’ morto l’attore Frederic Forrest.

E’ morto il fumettista Graziano Origa.

E’ morto il musicologo Adriano Mazzoletti.

E’ morta l’attrice Glenda Jackson.

Morto il biologo Roger Payne

È morto il manager e discografico Matteo Romagnoli.

E’ morto il fotografo Paolo Di Paolo.

Morto l’attore Treat Williams. 

È morto lo scrittore Cormac McCarthy.

E’ morto Francesco Nuti.

Addio all’attore Paul Geoffrey.

Morto il sociologo francese Alain Touraine. 

Morto lo storico Nuccio Ordine.

E’ morta la pittrice Françoise Gilot.

E’ morto il wrestler Hossein Khosrow Ali Vaziri, alias The Iron Sheik.

Addio al giornalista Pasolini Zanelli.

Morto l’attore Barry Newman.

Addio a Astrud Gilberto.

E’ morto l’imprenditore Emilio Rigamonti.

E’ morto l’Architetto Paolo Portoghesi.

Morta l’attrice Isa Barzizza.

E’ morta la fotografa Daniela Zedda.

E’ morto il chitarrista Sheldon Reynolds.

E’ morta la cantante Tina Turner.

È morta la giornalista Maria Giovanna Maglie.

E’ morto l’attore Ray Stevenson.

E’ morto lo scrittore Martin Amis.

E’ morto il bassista Andy Rourke.

E’ morto il regista e direttore artistico Giorgio Ferrara. 

E’ morto l’attore Helmut Berger.

È morta la ballerina Maria Miceli.

E’ morto il giornalista Carlo Nicotera.

E' morto l'imprenditore Giordano Riello.

E’ morto lo storico Gioacchino Lanza Tomasi.

È morto lo sceneggiatore e regista Enrico Oldoini.

Morto il vignettista Massimo Cavezzali.

Morta l’attrice Jacklyn Zeman.

Morto l’imprenditore Enzo Bonafè.

E’ morto lo scrittore Philippe Sollers (pseudonimo di Philippe Joyaux).

Morto il generale che catturò Che Guevara Gary Prado Salmón.

È morta ex concorrente del Grande Fratello Monica Sirianni.

Morto l’ex campione mondiale e allenatore di pattinaggio Michele Sica.

Addio al regista Alessandro D'Alatri.

È morto il conduttore Jerry Springer.

Si è spento l’ex magistrato Nicola Magrone.

E’ morto il Senatore Andrea Augello.

E’ morto il regista Angeles Mohamed Farouk Agrama detto Frank Agrama 

E’ morto l’attore Giovanni Lombardo Radice.

E’ morto il cantante Harry Belafonte.

E’ morto il giornalista Corrado Ruggeri.

E’ morto il cantautore e cabarettista Federico Salvatore.

Morto l’inventore-industriale Renato Caimi.

E’ morta Anna Marcacci Brosio.

E’ morto il pianista jazz Ahmad Jamal.

È morto il chitarrista Mark Sheehan.

Morto lo scrittore Meir Shalev.

E’ morto il chitarrista Lasse Wellander.

E’ morto il talent scout Seymour Stein.

E’ morto il regista Nico Cirasola.

E’ morto il musicista Ryuichi Sakamoto.

Morta la scrittrice Ada d’Adamo.

E’ morto il batterista Alfio Cantarella.

È morto il re dei viaggi organizzati Franco Rosso.

E’ morto il giornalista Gianni Minà.

È morto l’attore Ivano Marescotti.

Morto il batterista Luca Bergia.

E’ morto l'attore Paul Grant.

E’ morto il regista Francesco “Citto” Maselli.

E’ morto il giornalista Pier Attilio Trivulzio.

E’ morto l'attore Lance Reddick.

E' morta l’attrice Bice Biagi.

Morto il disegnatore Luigi Piccatto.

E’ morto l’autore televisivo Marco Zavattini.

E’ morta la speaker Clelia Bendandi.

È morto lo scrittore Kenzaburo Oe.

Muore il manager musicale Vincenzo Spera.

E’ morto il regista Bert I. Gordon, detto Mr B.I.G.

E’ morto l’attore Robert Blake.

E’ morto l’attore Ed Fury.

E’ morto il Giornalista Rino Icardi.

E’ morto il chitarrista Gary Rossington.

È morto l'attore Tom Sizemore.

È morto il musicista Steve Mackey.

È morto il musicista Wayne Shorter.

E’ morto il giornalista Curzio Maltese.

E’ morto il giornalista Maurizio Costanzo.

E’ morto il regista Michel Deville.

E’ morto l’attore Richard Belzer.

È morto il fumettista Leiji Matsumoto.

Morto il regista Maurizio Scaparro.

È morto il chitarrista Alberto Radius.

E’ morta l'attrice Raquel Welch.

È morto il cantante David Jolicoeur.

E’ morto l'attore Cody Longo.

È morto il regista Hugh Hudson.

E’ morto il regista Carlos Saura.

E’ morto il musicista compositore Burt Bacharach.

E' morto il critico letterario Nicolò Mineo.

E' morto il giornalista Pio D'Emilia.

È morto il fotografo Massimo Piersanti.

E’ morto l’ex presidente Pakistan Musharraf. 

E’ morto l’attore Sergio Solli.

Morta l’attrice Monica Carmen Comegna.

Addio allo stilista Paco Rabanne.

Morta la redattrice Josè Rinaldi Pellegrini.

È scomparso l’imprenditore Giuseppe Benanti.

Morta l’attrice Cindy Williams.

È morta l’attrice Lisa Loring.

E’ morto il giornalista Roberto Perrone.  

E’ morto il giornalista Ludovico Di Meo.  

Morto il telecronista Christian Scherpe.

È morto il chitarrista Tom Verlaine.

E’ morta l’attrice Sylvia Syms.

E’ morto il regista Eugenio Martín.

È morto lo scrittore Pino Roveredo.

Morta l'imprenditrice Daniela Gavio.

E’ morto il rocker David Crosby.

E’ morto il regista Giorgio Mariuzzo.

E’ morto il regista Paul Vecchiali.

È morto il coreografo e regista televisivo e teatrale Gino Landi.

E’ morta l’attrice Gina Lollobrigida.

E’ morto l’artista Gianfranco Barucchello.

E’ morto il Tiktoker Taylor LeJeune, noto con il nickname Waffler69.

E’ morta Lisa Marie Presley.

E’ morta Tatjana Patitz.

Morto l’avvocato Roberto Ruggiero.

Morto il criminologo Francesco Bruno.

Morto il chitarrista Jeff Beck.

Morto il poeta Charles Simic.

E’ morto il direttore di fotografia Owen Roizman.

E’ morto l’attore Adam Rich.

È morto lo speaker Roberto Gentile.

E’ morto Michael Snow.

Morta la scrittrice Fay Weldon.

È morto il disegnatore Gosaku Ota.

E’ morto l’astronauta Walter Cunningham.

E’ morto il batterista Fred White.

E’ morto il pilota Ken Block.


 

INDICE QUARTA PARTE


 

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Scandali Reali.

Gli scandali dei Windsor.

Elisabetta.

Carlo.

Diana.

Camilla.

Anna.

Andrea.

Sarah Ferguson.

Edoardo.

William e Kate.

Harry e Meghan.


 

LA SOCIETA’

SECONDA PARTE


 

I MORTI FAMOSI.

Quali sono le fasi del lutto?

Le fasi del lutto, o più in generale per ogni perdita che ci troviamo a vivere, richiedono del tempo per poter essere elaborati. Le domande più frequenti che ci poniamo quando viviamo il dolore legato ad una perdita importante sono: “Quando tornerò a stare bene?” “Perché passo dalla tristezza alla rabbia, e viceversa, così velocemente?”. Questo evento può causare un disturbo post traumatico da stress, e provocare diverse sintomatologie.

Psicologa e Psicoterapeuta Ribaldone Alice il 02 Marzo 2021 su studio-psyche.it

Quali sono le principali fasi del dolore ed elaborazione della perdita?

Nel 1969, la psichiatra svizzera Elizabeth Kübler Ross ha formulato una teoria sulle fasi di elaborazione del lutto, attualmente seguite dalla psicologia.

Ci sono poi numerose varianti della psicologia più moderna che cambiano il nome delle diverse fasi ma, in sostanza, le cinque fasi del lutto rappresentano un cammino ben preciso che ogni persona si trova ad affrontare dopo la perdita. Gli stadi del lutto, le modalità, le reazioni e i tempi di elaborazione possono ovviamente essere diverse da caso in caso. Non è definibile a priori la durata dell’intero processo perché dipende molto dalla capacità, volontà e resilienza di ogni persona. Inoltre, le fasi di elaborazione di un grande dolore non sono sempre così lineari e correlate.

Le 5 fasi del lutto:

Ma quali sono le cinque fasi del lutto, e gli stadi che una persona si trova ad affrontare dopo la perdita di una persona cara, analizziamole nel dettaglio:

Rappresentazione delle 5 fasi del lutto: Negazione, Rabbia, Patteggiamento, Depressione e Accettazione 

Fase del Rifiuto e Negazione

Quando affrontiamo una perdita che ci causa molto dolore il nostro organismo cerca di difenderci da una simile sofferenza, negandola. Neghiamo quindi l’accaduto a causa dello stato di shock dovuto alla perdita. Emotivamente si osserva un’assenza di reazione: la persona è consapevole di ciò che è successo ma non vuole, e non può, accettarlo.

Fase della Rabbia

Quando cominciamo a renderci conto di ciò che è accaduto, iniziamo a provare rabbia, a chiederci cosa abbiamo fatto per meritarci questa sofferenza, a sentirci arrabbiati con chi ci ha ferito e con la vita stessa. Tendiamo a dare la colpa a qualcuno perché pensiamo che la situazione sia ingiusta. Può capitare di sentirci responsabili in qualche modo perché non siamo riusciti a evitare la perdita. La fase della rabbia può essere considerata positiva perché se qualcuno scatena in noi questo sentimento, finiamo con il volerlo evitare e cercare di farlo uscire dalla nostra vita. Dobbiamo però stare attenti a non rimanere bloccati nella rabbia perché finirebbe per ritorcersi contro di noi!

Stadio Patteggiamento o contrattazione

La nostra mente per tornare a sopravvivere, in questo momento di grande dolore, inizia a patteggiare. È il momento in cui cerchiamo di capire cosa siamo in grado di fare e in quali situazioni possiamo di nuovo di investire emotivamente. Cerchiamo di riprendere il controllo della nostra vita buttandoci su altro, su nuovi progetti e nuove amicizie. La perdita tuttavia non è ancora stata elaborata e il dolore può ritornare da un momento all’altro: è il periodo degli “alti e bassi”!

Fase della Depressione

L’alternarsi di momenti di dolore e tentativi di reagire ci porta a cadere in un continuo stato di tristezza. In questa fase iniziamo a prendere atto di ciò che abbiamo perso. Il dolore fa ancora tanto male, è vivo, forte e presente. Le conseguenze sono anche a livello fisico: è possibile che compaiano mal di testa, aumento o perdita del peso corporeo, irritabilità, insonnia o sonnolenza.

Fase dell’accettazione

Il tempo cambia le cose ci permette di completare il processo di elaborazione. L’ultima fase consiste nell’accettare la perdita: è l’unico modo per reagire e sentirci pronti a riprendere in mano la nostra vita. Ritorna l’interesse per le persone e i progetti e soprattutto smettiamo di colpevolizzarci! A questo punto siamo riusciti a comprendere la perdita, a voltare pagina. Ciò non significa dimenticare la persona cara o non provare più dolore; vuol dire andare avanti nonostante la sofferenza, dando un senso a quella perdita, continuando ad alternare momenti di felicità o momenti di tristezza, ma in modo sempre più tenue ogni giorno che passa.

Che cos’è l’elaborazione del lutto?

L’elaborazione del lutto è il processo di rielaborazione legato alla perdita di una persona cara. Può essere molto doloroso ed è solitamente caratterizzato da sentimenti come tristezza, rabbia, colpa o senso di vuoto. Elaborare la perdita è fondamentale per poter riprendere a vivere nuovamente con serenità e per evitare che questa situazione possa cristallizzarsi e creare un trauma che può ripresentarsi nel futuro, sfociando in sintomi e disturbi.

L’elaborazione del lutto non è mai facile! Ma se conosciamo le sue diverse fasi, possiamo prendere coscienza di tutte le ripercussioni che la perdita di una persona cara può creare dentro di noi.

La presa di coscienza è fondamentale per poter superare al meglio una fase dopo l’altra.

Cos’è il lutto in psicologia?

In psicologia, il termine “lutto” indica lo stato d’animo che si vive in seguito alla perdita di una persona cara. Questo doloroso processo psicologico può innescarsi anche nel caso di una separazione, di un abbandono o alla fine di una relazione importante, il lutto non sempre è legato alla morte vera e propria di una persona: si parla di lutto anche in conseguenza di una separazione o di un abbandono.

La fine di una relazione causa la perdita di una persona cara, anche se viva, e può influire in modo rilevante sulla nostra vita mettendo in crisi la sfera privata e professionale.

Come superare un lutto

L’unico modo per uscire da una situazione di perdita è accettarla e reagire. La cosa fondamentale di cui abbiamo bisogno è il tempo. Deve passare il tempo: il dolore non scomparirà ma si addolcirà e la vita, in un modo che oggi sembra impossibile, andrà avanti. In questo processo di elaborazione, potrebbe essere utile rivolgersi a uno psicologo: la terapia può accompagnarci nella razionalizzazione e nell’elaborazione delle nostre emozioni e del dolore.

L’obiettivo è accettare la perdita e trovare le forze per andare avanti!

Elaborazione del lutto. Da guidapsicologi.it. Non riesci a superare la morte di un tuo caro? Se provi una grande sofferenza e un'assoluta mancanza in seguito alla perdita di una persona a te vicina dalla quale non riesci a uscire, dovresti prendere in considerazione la possibilità di rivolgerti a un professionista. Il dolore è un processo indispensabile di liberazione ed è necessario attraversare diverse fasi per rialzarti e riprendere in mano la tua vita.

Cos'è? Psicologi Domande Articoli

Tutto ciò che hai bisogno di sapere su Elaborazione del lutto

Cos'è il lutto in psicologia?

Con il termine "lutto", in psicologia, s'indica lo stato d'animo che si vive in seguito alla perdita di una persona cara. Questo processo psicologico doloroso può mettersi in moto non solo dopo la morte ma anche nel caso di una separazione, di altri avvenimenti legati all'abbandono o alla fine di una relazione importante. Elaborare il lutto è fondamentale per poter riprendere a vivere nuovamente con serenità.

Il 96% degli utenti che hanno affrontato un percorso per elaborare il proprio lutto si dichiara soddisfatto.

Cos'è l'elaborazione del lutto?

Con elaborazione del lutto s'intende tutto il processo di rielaborazione legato alla perdita di una persona cara. Questa fase può essere molto dolorosa ed è solitamente caratterizzata da sentimenti quali tristezza, rabbia, colpa o senso di vuoto. Si tratta comunque di un processo fondamentale per evitare che questa situazione possa trasformarsi in lutto patologico e creare un trauma che si ripresenterà nel futuro, causando la comparsa di diversi disturbi.

Quali sono le principali tappe del lutto?

Le principali tappe del lutto sono state descritte da Elizabeth Kübler Ross, una psichiatra svizzera. L'elaborazione si sviluppa in cinque fasi:

negazione: si nega l'accaduto a causa dello stato di shock dovuto alla perdita;

rabbia: in questa fase si tende a dare la colpa a qualcuno, ad esempio agli altri familiari, perché si tende a pensare che la situazione sia ingiusta;

contrattazione: la fase di contrattazione definisce quel momento nella vita della persona che ha subito un lutto durante la quale essa cerca di capire cosa è in grado di fare, o meglio, in quali situazioni è in grado di nuovo di investire emotivamente. Una fase di vero e proprio "negoziato" intrapreso con diversi soggetti che possono cambiare in base ai valori della persona (le altre persone care, figure religiose etc). Un esempio sono frasi del tipo: " se seguo la terapia potrò..", "se prego ogni giorno...". È una fase in cui la persona cerca di riprendere il controllo della propria vita facendo leva su un possibile "patteggiamento";

depressione: fase in cui la persona inizia a prendere atto di ciò che ha perso (o sta perdendo). Possiamo dividere questa fase in due tipologie di depressione: una reattiva, nella quale la persona inizia a prendere atto delle parti di sé che con il lutto ha perso (legami affettivi/emotivi, aspetti della vita quotidiana, etc.) ed una preparatoria, nella quale la persona inizia a prendere coscienza che ribellarsi al lutto non è possibile;

accettazione: l'ultima fase dell'elaborazione del lutto consiste nell'accettare la perdita e si è pronti a riprendere in mano la propria vita.

Quali sono i vari tipi di lutto?

Ovviamente non tutte le persone vivono il lutto nello stesso modo. Possiamo distinguere diversi tipi di lutto, fra cui:

lutto anticipato: le fasi del lutto iniziano a manifestarsi prima della perdita in sé, in quanto ci si aspetta già la separazione, ad esempio in caso di malattia o di divorzio;

lutto ritardato: in questo caso, l'elaborazione del lutto arriva più tardi perché la persona che lo soffre cerca di ignorare la situazione;

lutto inibito: la difficoltà di esprimere le proprie emozioni, e quindi di elaborare correttamente il lutto, porta all'evitamento della situazione, ad esempio attraverso il consumo di droghe;

lutto cronico: non si riesce ad elaborare il lutto e il ricordo della persona continua ad essere doloroso anche dopo diversi anni dall'accaduto.

Quali sono le manifestazioni esterne del lutto?

Quando si vive un lutto, durante le fasi di elaborazione, si vivono una serie di sintomi e conseguenze sia a livello psicologico che a livello fisico. Le principali manifestazioni del lutto sono:

pianto;

disturbi del sonno;

mal di testa;

stanchezza;

disturbi del comportamento alimentare;

dolori muscolari;

tristezza;

perdita o aumento di peso;

apatia;

rabbia;

nervosismo;

pensieri ricorrenti;

attacchi di panico;

isolamento;

senso di colpa;

angoscia.

Come aiutare una persona che ha avuto un lutto?

Se ci troviamo vicino a una persona che ha subito un lutto, possiamo aiutarla con semplici e piccoli accorgimenti. Innanzitutto, è necessario ascoltare tutto ciò che ha da dire, senza giudicare i suoi sentimenti. Non è necessario dare consigli o dire qualcosa in particolare, l'importante è permettere all'altra persona di esprimere ciò che sente. Rispetta i tempi del lutto e cerca di essere sempre a disposizione della persona che sta elaborando il lutto.

Chi ti può aiutare?

In alcuni casi, il lutto può trasformarsi in una condizione patologica se la sua elaborazione non avviene in maniera corretta. Per questo, può essere estremamente utile richiedere l'aiuto di uno psicologo o di uno psicoterapeuta. Il compito del terapeuta è quello di aiutare il paziente a sopportare la sofferenza causata dal lutto, per permettere di elaborarlo, senza che si presentino strategie di evitamento. L'obiettivo finale, dunque, è quello di accettare il lutto e di riuscire a trovare le forze per andare avanti.

Contenuto rivisto e corretto dal Dott. Fabio Glielmi

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Scritto da GuidaPsicologi.it

Elaborare il lutto, istruzioni per l’uso: un master per imparare a dirgli addio. Redazione su L'Identità il 30 Aprile 2023 

di IRENE GIUROVICH

Il dolore è lo stesso che si prova per la perdita di un familiare o la persona amata a cui si è legati profondamente. La perdita del proprio pet comporta le stesse fasi di elaborazione del lutto che contraddistinguono il processo che coinvolge gli esseri umani: rifiuto, rabbia, contrattazione, depressione, accettazione. A confermarlo è la psicologa clinica Ines Testoni, una vera autorità nel campo della morte, fra le cento scienziate più importanti in Italia, Direttrice del primo e unico master universitario in Death Studies&The end of Life (studi sulla morte e fine vita) all’Università di Padova, dove insegna. Per prendere coscienza del dolore correlato all’accompagnamento terminale e all’addio, sia che si tratti di esseri umani sia di animali, il master, avviato nel 2008, si propone di sviluppare la capacità di affrontare i temi relativi alla morte in tutti i suoi aspetti.

Autrice di numerosi testi e articoli scientifici, la psicologa Testoni, allieva di Emanuele Severino, evidenzia come il pet grief (il dolore per la morte dell’animale) sia un lutto delegittimato: “Nella nostra cultura manca il riconoscimento dei legami di attaccamento con i nostri animali da compagnia, e questo determina la difficoltà maggiore a gestire la sofferenza: spesso non sappiamo quanto li amiamo, non ne siamo consapevoli e purtroppo la società crede, banalmente, che l’animale sia solo materia vivente”. E invece è molto più di materia: è dotato, spiega la dottoressa, di “sentimenti, mente, capacità di elaborare le informazioni e impostare una relazione di reciprocità con i proprietari”. Gli animali non sono macchine biologiche, come erroneamente si crede, ma esseri senzienti dotati di dimensione affettiva.

Come capita nel mondo umano, anche in quello animale, circa la metà delle perdite non viene avvertita come dolorosa, e questo avviene perché non tutti “sviluppano legami significativi con le persone come pure con i propri animali”. Ma quando il legame è radicato, allora l’addio al pet diventa motivo di dolore come la perdita di un familiare, della persona amata o di un amico con cui avevamo sviluppato sentimenti di attaccamento.

Lo psicologo specializzato in pet grief aiuta a risolvere tutti i sospesi rispetto alla relazione con l’animale. “Si devono chiudere i sospesi per poter interiorizzare la figura del pet nel proprio cuore e nella propria mente e fare in modo che si possa nutrire un dialogo interiore con questa figura. L’animale rimarrà come presenza spirituale in grado di compensare l’assenza fisica”.

Nella società e cultura contemporanea in Italia “mancano i servizi di supporto e di aiuto: per fortuna l’istanza all’aiuto si sta facendo strada nel nostro paese grazie al master; gli psicologi formati con me sono preparati anche per questo tipo di attività”, dichiara la Testoni che, per prima al mondo, ha validato delle scale per la misurazione dei livelli di sofferenza dei proprietari pubblicate su riviste ad alto impatto scientifico come “Animals” e “Anthrozoös”.

“Sembra paradossale: nonostante la chiesa cattolica eserciti un ruolo di primo piano sulle persone e sulla politica, in Italia è ancora assente una cultura di supporto, a differenza di quanto avviene da moltissimi anni negli Usa e nei paesi anglofoni dove è forte la sensibilità al pet grief, con tanto di aiuti riconosciuti e ritualità condivise”, sottolinea la ricercatrice. I primi studi sul dolore per i lutti delegittimati (fra cui il lutto per la mancanze del pet) risalgono non a caso ad uno psicologo americano con cui la Testoni collabora: Kenneth Doka.

La morte non può diventare l’indifferente, ciò di cui si può non parlare, com’è considerata oggi. “Lavoriamo sul lutto delle persone e degli animali, sulle cure palliative, la fase complessa dell’accompagnamento, sulla rappresentazione della morte. Vogliamo permettere a tutti coloro che hanno a che fare con gli esseri umani, per motivi di cura (area sanitaria e non solo), formazione, educazione, assistenza e servizi di sapere che nel loro lavoro avranno a che fare con persone che dovranno fronteggiare la morte, sia dell’essere umano sia dell’animale. Non viene minimamente preso in considerazione il fatto che possa morire, ad esempio, il pet di un bambino. A scuola gli insegnanti dovrebbero essere preparati anche a questo”, ammonisce la psicologa. E invece si fa calare il silenzio o si fa finta di nulla.

Gestire il lutto di un animale a cui si era uniti profondamente – evidenzia la dottoressa – espone ad un rischio ulteriore proprio per la la delegittimazione sociale che domina: ecco perché è più pericoloso del lutto umano. “Ci sono dei lutti – spiega – che possono diventare lutti prolungati e quindi non si risolvono in un anno (questo il tempo medio, di solito il tempo va dai 6 ai 18 mesi come per i lutti umani), perché non c’è il supporto sociale. Ricordiamoci che il lutto si risolve solo con il supporto sociale. Il cordoglio è quel dolore lancinante che può durare un tempo indefinito se non si trasferisce in lutto, ovvero la trasformazione del cordoglio grazie alla compensazione della mancanza attraverso il rapporto con gli altri”. Il lutto per l’animale a cui si era legati può essere più difficile da chiudere, per questo la ricercatrice propone anche alle associazioni che si occupano di animali di partecipare al percorso e creare dei servizi a supporto del lutto.

“Mi sono attivata con la Socrem di Torino che ad Alessandria ha realizzato un crematorio dei pet: si è creata una ritualità nelle sale per garantire un vero e proprio rito. La cultura funebre, fondamentale per creare la legittimazione sociale, implica una riflessione metafisica rispetto al senso dell’animale che ancora non abbiamo svolto”. In Italia i pochi cimiteri sono affidati alla gestione privata, questo influisce sull’elaborazione. In America e in UK invece queste pratiche sono già realtà: cimiteri municipali, sale del commiato con un celebrante, inceneritori per chi vuole la cremazione e poi decide dove tenere le ceneri (loculo, casa), inumazioni… Servirebbe altresì che i movimenti chiedessero un riconoscimento giuridico: permessi per poter curare il proprio pet, permessi per assisterlo, per il lutto.

Intanto, però, come deve gestire il dolore chi è nella sofferenza? “Il primo consiglio che do a tutte le persone in lutto – suggerisce la Testoni che utilizza soprattutto la tecnica dello psicodramma del medico-filosofo Jacob Levi Moreno – è di stare nel dolore, non cercare di sfuggirgli o negarlo, va espresso; bisogna lamentarsi perché si sta male, piangere, urlare anche chiudersi in sé. Se non si fa questa operazione non si sente il bisogno di riaprirsi. A tutti i dolenti dico: il fondo c’è. Bisogna arrivarci, perché serve la spinta per tornare su e la spinta arriva quando si accetta il dolore vissuto”.

DAGONEWS sabato 9 dicembre 2023.

Gli ingredienti chiave dell'attaccamento umano sono il vivere l'altra persona come una fonte affidabile di conforto, il cercarla in caso di angoscia, il provare piacere in sua presenza e il sentirne la mancanza quando si allontana. I ricercatori hanno identificato queste caratteristiche anche nelle relazioni con gli animali domestici. 

Ma ci sono delle complessità. Alcuni gruppi di persone hanno maggiori probabilità di sviluppare legami intimi con i loro animali domestici. Tra questi vi sono gli anziani soli, le persone che hanno perso fiducia negli esseri umani e quelle che si affidano agli animali per ricevere assistenza.

I ricercatori hanno anche scoperto che il legame con i nostri amici ha un prezzo: il lutto per la perdita dei nostri animali domestici.

EUTANASIA

Il senso di colpa o il dubbio sulla decisione di praticare l'eutanasia a un animale possono complicare il lutto. Per esempio, la ricerca ha rilevato che i disaccordi all'interno delle famiglie sul fatto che sia giusto sopprimere un animale domestico possono essere particolarmente impegnativi. 

Ma l'eutanasia dà anche la possibilità di prepararsi alla morte dell'amato animale. C'è la possibilità di dire addio e di pianificare gli ultimi momenti per esprimere amore e rispetto, come un pasto preferito, una notte insieme o un ultimo saluto. 

Esistono forti differenze nelle reazioni delle persone all'eutanasia degli animali domestici. Una ricerca israeliana ha rilevato che, all'indomani della morte di un animale domestico, l'83% delle persone si sente sicuro di aver preso la decisione giusta.

Ritengono di aver concesso al loro compagno animale una morte più onorevole che riduce al minimo le sofferenze.

Tuttavia, uno studio canadese ha rilevato che il 16% dei partecipanti al loro studio, i cui animali sono stati sottoposti a eutanasia, si sono sentiti “assassini". 

LUTTO "INACCETTABILE"

Le persone possono ritenere che il lutto per un animale domestico sia inaccettabile. 

Inoltre, a livello più ampio, può esserci una discrepanza tra la profondità del dolore per l'animale domestico e le aspettative sociali sulla morte degli animali. Per esempio, alcune persone possono reagire con disprezzo se qualcuno salta il lavoro o si prende delle ferie per piangere un animale domestico.

Le ricerche suggeriscono che quando le persone sono angosciate per la perdita di un animale domestico, il lutto non riconosciuto dagli altri rende più difficile trovare conforto. Il lutto sembra limitare l'espressione emotiva in modo da renderla più difficile da elaborare. 

Le relazioni con i nostri animali domestici possono essere significative quanto quelle che condividiamo con gli umani. La perdita dei nostri animali domestici non è meno dolorosa e il nostro dolore lo dimostra. Dopotutto, siamo solo esseri umani.

I personaggi tv.

I Centenari.

L’Estumulazione.

La Mummificazione.

La Profanazione.

La Cremazione.

Il Compostaggio.

L’eterna giovinezza.

La Crioconservazione.

I personaggi tv.

Estratto dell’articolo di Marcello Veneziani per “La Verità” il 3 marzo 2023.

Ogni volta che muore un Vip osannato dal mainstream, sembra che sia morto il più grande uomo di tutti i tempi. […] Così sta succedendo a Maurizio Costanzo […] Il salotto di Costanzo nacque quando la tv non era a colori, quando c’erano ancora l’Urss, la Dc e il Pci e non c’era ancora il telefonino. Sopravvisse a quelle mutazioni, e si protrasse per alcuni decenni, con uno strascico fin quasi ai nostri giorni ma diventò la testimonianza di un mondo trascorso.

[…] Un salotto affacciato su una platea di guardoni. Finiva l’era furente del «tutto è politica» e si scopriva il privato, gli individui, i gusti e i disgusti. Il Maurizio Costanzo Show traghettò dal pubblico al privato, anzi rese pubblico il privato. Promosse il soggettivismo di massa. Era un salotto, un circolo, un caffè ma usava il modello cattolico della confessione. Quando Costanzo si spostava col suo trespolo e parlava a turno coi suoi ospiti, usando un tono confidenziale, per carpire confessioni e segreti, praticava in senso laico e «libertino» la confessione (e un po’ la seduta psicanalitica).

Con la variante che lasciava spazio per qualche intromissione degli altri ospiti, a volte pilotati e fomentati da lui, in modo da intrecciare il pubblico col privato, l’intimo col conviviale e vivacizzare con le rivalità il coming out. Furono prove tecniche di narcisismo interattivo. Così nacque il talk show in tv. Oggi se dici talk show pensi a programmi con una caratterizzazione prevalentemente politica. Al tempo, invece, uscivamo dall’era ideologica e panpolitica degli anni Settanta; nel salotto di Costanzo anche il politico veniva risucchiato dal lato umano, a volte intimo e perfino giocoso.

[…] Il talk show come lo costruì Costanzo […] rispondeva a un preciso stadio della società, dopo il Sessantotto, prima dei social. In quel tempo si chiamava riflusso, riscoperta del privato, teneva a battesimo il nascente egocentrismo di massa, l’interazione tra Vip e gente comune, il contrasto tra modelli di vita «emancipati» e altri ritenuti «coatti», «antiquati». Era la fiera degli stravaganti, di chi dava spettacolo di sé o accettava il ruolo di galletto nella sfida in video allestita da Costanzo, che si fingeva paciere ma era il sobillatore. Era, però, ancora il tempo della conversazione. Ora c’è, al più, esibizione del privato, denudamento dell’io e del tu, fiera dei sentimenti e dei risentimenti; ma non c’è più civiltà della conversazione […]

[…] Per […] quasi un trentennio, Maurizio Costanzo è stato il principale influencer dei costumi della nostra società. […] La piazza d’Italia si era trasferita nel video salotto; il messaggio prevalente che lui veicolava ogni sera era di tipo radicale, permissivo e vagamente progressista a uso domestico e ludico; a volte con qualche tratto umanitario.

 Il suo show modificava in pubblico la vita privata degli italiani, conformandola ai nuovi canoni e luoghi comuni di una società scristianizzata, più global, più edonista; in versione pop, romanesca e neoborghese […]Le prime prove tecniche di omotransgender passarono in video dal suo salotto. Costanzo fu un ibrido tra Pannella e sora Lella, la sorella di Aldo Fabrizi. Detestavo in modo particolare una sua massima che ripeteva spesso: la coerenza (o la fedeltà) è la virtù degli imbecilli. Così allevò generazioni di imbecilli incoerenti, fluidi e infedeli.

Certo, fu un grande impresario di tv, un potente […] un intervistatore brillante, scopritore di talenti, squinzie e stravaganti, autore prolifico, grande animatore radiofonico. […] Invecchiò precocemente, fu lungo il suo declino, fisico e lessicale. Fu il baffo più vistoso della tv e il collo più nascosto del video. Il suo salotto finì quando la conversazione si trasferì nel display di un telefonino o di un pc. Se telefonando segnò il suo inizio, il telefonino segnò la sua fine.

Costanzo, quando i funerali dei personaggi tv diventano una liturgia mediale. Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 27 Febbraio 2023

Non succede in altri Paesi dove la solennità è riservata a reali, a governanti, a figure eminenti

Canale 5, con la conduzione di Silvia Toffanin e Rai1, con Serena Bortone (e con Francesco Rutelli) hanno trasmesso in diretta i funerali solenni di Maurizio Costanzo «alla presenza di molti vip e della gente comune». Da un po’ di anni, le esequie dei personaggi televisivi più noti stanno diventando una sorta di funerali di Stato. Non succede in altri Paesi dove la solennità è riservata a reali, a governanti, a figure eminenti. Da noi, spesso il funerale diventa una liturgia mediale, la continuazione di un programma, come se la tv fosse l’unica istituzione che ci richiama ancora al rito, al simbolo, alla cerimonia. La tv è soprattutto consuetudine, essa stessa è una presenza quotidiana, più che una «finestra sul mondo» un ospite fisso che racconta quel che succede nel mondo.

Ci sono poi programmi, come i talk show, che sembrano fatti apposta per accentuare questo carattere confidenziale. Si reggono infatti su tre pilastri: la «prossimità», attraverso cui la complessità del quotidiano trova attraverso la parola una dimensione quotidiana, quasi famigliare; la «convivialità», cioè l’insistenza retorica sul valore dello stare insieme, del partecipare; la «ripetizione», la più sobria e pacata legge della comunicazione. Nulla, infatti, rende più felice lo spettatore dell’«ancora una volta». Non dobbiamo stupirci se un programma incontra il favore del pubblico all’ennesima replica. Ogni esperienza televisiva desidera insaziabilmente la ripetizione e il ritorno, il ripristino di una situazione originaria da cui ha preso le mosse. Per questo i conduttori diventano figure di riferimento, «padri della patria», confidenti, membri della famiglia. Le persone che inopportunamente sono andate a chiedere un selfie a Maria De Filippi hanno chiesto un favore a un’amica, a una persona considerata tale. Ecco cosa c’era dietro l’angolo.

Estratto dell’articolo di Assia Neumann Dayan per “La Stampa” l’1 marzo 2023.

[…]  Saremo sempre e per sempre grati a Maurizio Costanzo, anche e soprattutto per quelle due ore di messa in scena di un «Quinto Potere» più che credibile. I funerali di Maurizio Costanzo, andati in onda il 27 febbraio sia su Rai1 che su Canale 5, sono stati seguiti da circa 4,3 milioni di spettatori su Canale 5 e da 2,3 milioni su Rai1: parliamo di circa il 50% di share se consideriamo entrambe le reti (19,71% su Rai1 e 35,49% su Canale 5).

 Le curve di Rai1 e Canale 5 assomigliano a quelle che vengono chiamate in gergo «curve a panettone», sogno di tutti quelli che grazie alla tv pagano mutuo, bollette e tasse, gente che di solito la tv in casa non ce l'ha nemmeno: curve che partono, crescono, si stabilizzano e scendono a fine programma.

[…] il funerale è un genere televisivo a sé, e pure di successo. Il funerale di Fabrizio Frizzi venne seguito da 5 milioni e 174mila telespettatori, mentre quello di Raffaella Carrà, trasmesso al mattino da Rai1 e Rete4, viene visto da circa 3,5 milioni di spettatori con il 32,4%: 3 milioni con il 28,3% di share per lo speciale del Tg1, mentre lo speciale del Tg4 fece il 4,1% di share con 423mila spettatori. 4,5 miliardi di persone in tutto il mondo hanno seguito i funerali della Regina Elisabetta, mentre il funerale di Lady D venne visto da 10 milioni di telespettatori che piangevano: quello fu uno shock generazionale, un trauma collettivo che in numeri corrisponde al 75,9% di share, la percentuale più alta di tutto il 1997.

Controprogrammare un funerale è impossibile, ma la buona notizia è che la televisione non è morta: Internet e i social non hanno celebrato l'estrema unzione della generalista, e noi siamo ancora qui che comunque non riusciamo a cambiare canale. La cattiva notizia è che i grandi sono quasi tutti morti, il palinsesto dei funerali si sta di anno in anno assottigliando, e ci rimangono ben pochi grandi maestri da rimpiangere.

Nel 2023 il funerale è un evento replicabile: ci vengono riproposte le immagini per i giorni a seguire su tutte le testate giornalistiche e non, online e negli archivi possiamo ritrovare i filmati, possiamo rivivere all'infinito un dolore che in fondo non è nemmeno nostro. Guardiamo i funerali anche per allontanare da noi il concetto della morte, è lo stesso sistema per cui ci piace tanto la cronaca nera e teniamo la foto di Franca Leosini nel portafogli insieme a quella dei figli.

Davanti ad eventi luttuosi, sciagure, morti, noi ci fermiamo a guardare come se tutto fosse un incidente stradale: mettere una distanza tra noi e la morte grazie ad uno schermo aiuta a pensare che a noi non accadrà, o perlomeno, non adesso.

[…] Chi di noi non ha sfogliato almeno una volta una gallery con gli outfit dei partecipanti ad un funerale reale? Fa parte della natura umana un certo voyeurismo, non siamo dei mostri per questo. La chiesa, che sia per un matrimonio o per un'orazione funebre, è dove si incrociano tutte le vite, le morti e gli scandali.

[…]

Non possiamo stupirci di chi ha chiesto a Maria De Filippo di fare insieme un selfie nella camera ardente, perché non possiamo non ricordarci di quelli che si facevano le foto a Cogne, o ad Avetrana, o ad Auschwitz, tutti guardando in camera con un certo sorriso. Con l'avvento di internet, purtroppo, questi reperti non rimangono più solo fotografie brutte appese in camera, ma siamo costretti a subirli un po' tutti.

I social, d'altra parte, hanno semplicemente replicato un certo sistema televisivo: si parla di una storia tragica, arriva il pianto, andiamo in pubblicità. È per questo che non dobbiamo stupirci nemmeno di quelli che fanno le sponsorizzazioni tra il racconto di una malattia e l'altra, ed è per questo che per dichiarare l'ora del decesso della televisione dovremo aspettare ancora un po'.

 I funerali generano quella volontà del sentirsi parte di un qualcosa, che è spesso la narrazione di un momento storico, o di un Paese […]

Il lutto pubblico di Maurizio&Maria. Storia di Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 28 febbraio 2023.

Caro Aldo, sono colpito dalla mobilitazione nazionale per l’ultimo saluto a Costanzo, l’uomo che ha cambiato la tv. Che ne pensa? Bruno Nunziati Tanta gente al funerale di Costanzo, come se fosse morto un parente. Marco Rizzi I selfie estorti a Maria accanto alla bara di Maurizio sono un rito crudele che non si ferma nemmeno di fronte alla morte. Delio Lomaglio

Cari lettori, I personaggi tv sono per gli italiani persone di famiglia. L’italiano medio si riconosce in loro. Ricordo l’ondata di commozione che percorse il Paese per la scomparsa di Fabrizio Frizzi, un conduttore che i vertici Rai del tempo non avevano mai considerato «di punta», tanto che non gli avevano mai affidato il festival di Sanremo, ma che gli spettatori consideravano il vicino di casa ideale, l’amico affidabile che sa starti vicino e lontano, che non ti fa ombra ma quando ti serve c’è. Maurizio Costanzo era un’altra cosa. Era un grande giornalista. Ed era anche un uomo di potere. Eppure è riuscito pure a diventare popolare, a essere vissuto come amico, nonché come marito della donna — insieme con Mara Venier — più amata della tv, Maria De Filippi; e se è ovviamente fuori luogo chiedere un selfie in camera ardente, lei comunque non se l’è sentita di deludere il proprio pubblico, che la considera appunto un’amica; chiedere era sbagliato, ma non sottrarsi è stato un gesto di cortesia, che Maria ha compiuto nella certezza che Maurizio avrebbe approvato. Aldo Grasso ha scritto giustamente che il funerale a reti unificate diventa un prolungamento della trasmissione tv. Poi c’è il ruolo di don Walter, il prete-filosofo cui è affidata la chiesa degli artisti in piazza del Popolo (dove oggi diremo addio a Curzio Maltese), sacerdote di vasta cultura che ad esempio affidò un ciclo di conferenze di altissimo livello a Franco Battiato. Beppe Severgnini ha visto dietro la commozione popolare per la morte di Costanzo — ma anche di Vialli, di Mihajlovic, e altri lutti recenti — una certa ansia per il futuro. L’allungamento della vita, interrotto dal Covid, ci aveva illusi che la morte non ci riguardasse, che venisse sempre dopo, che appartenesse all’altrove. Invece confina con la vita, ne rappresenta il compimento, talora la completa. Esistono lutti privati che inevitabilmente diventano pubblici. Maurizio Costanzo e Maria De Filippi l’hanno capito.

Costanzo, boom di ascolti in tv per i funerali del giornalista. Storia di Ma. Vo. su Il Corriere della Sera il 28 febbraio 2023.

Probabilmente Maurizio Costanzo sarebbe il primo a sorriderne in maniera sorniona. Lui, maestro di comunicazione, sapeva bene che anche un funerale può essere un grande evento mediatico. Specie se il funerale è quello dell’inventore del talk show. Dunque lunedì pomeriggio la cerimonia funebre, trasmessa in diretta da Canale 5, è stata seguita da oltre 4.3 milioni di telespettatori. Così suddivisi: «Verissimo Presenta Ciao Maurizio», alle 14, in collaborazione tra la rete e il Tg5, e condotto da Silvia Toffanin (in studio con lei anche Cesara Bonamici e Katia Ricciarelli) alle 14, è stato seguito da 3.933.000 spettatori con il 32.3% di share. Poi dalle 14.41 alle 16.01, i funerali di Maurizio Costanzo hanno tenuto incollati, davanti al piccolo schermo, 4.318.000 spettatori pari al 35.5%. A questi dati vanno aggiunti gli ascolti della finestra di Rai1, sui funerali, che ha registrato una media di 2.395.000 e 19,71% di share. Complessivamente stiamo parlando di oltre 6,7 milioni di telespettatori che hann voluto dare l’ultimo saluto a Costanzo, anche da casa.

«Bisogna ragionare sulle circostanze uniche del personaggio Costanzo. I media che erano stati un po’ polemici con il suo livello popolare, finalmente gli hanno riconosciuto la statura», commenta Mario Morcellini, sociologo, professore di Scienze della Comunicazione alla Sapienza di Roma. «Gli aspetti irripetibili sono quelli di un divismo duraturo nel tempo, non capita a molti, ci sono stati personaggi come Mike Bongiorno, Pippo Baudo a suo tempo, ma non c’è confronto con il fatto che lui lavorava a un modello di televisione che non è solo talk show. Era una specie di conversazione pubblica in cui la gente si riconosceva molto più delle grida e dell’intrattenimento del talk show. Lui ha avuto delle doti di sintonia con il popolo che il pubblico ha saputo gratificare», ha aggiunto.

Video correlato: L'intervista per gli 80 anni di Maurizio Costanzo (Mediaset)

Il sociologo Alberto Abruzzese specifica: «Costanzo ha una caratteristica fondamentale. I giudizi che la gente comune ha dato su di lui versavano sul fatto che era tanto buono. E viene fuori questo giudizio perché lui ha seguito nella sua messinscena televisiva una legge, che è quella “il tuo successo è la mia fortuna”. E ha funzionato perfettamente».

I Centenari.

Estratto dell'articolo di Filippo Femia per “la Stampa” su Il Corriere della Sera il 31 gennaio 2023.

[…] Nell'Italia che attraversa l'inverno demografico i centenari non sono mai stati così numerosi: quasi 20 mila, 19.714 per la precisione, di cui 16.427 donne (83%) e 3.287 uomini. È il dato più alto di sempre, […] E la crescita, secondo gli esperti, dovrebbe continuare anche nel futuro prossimo.

«Da qui al 2032 ci aspettiamo un raddoppio dei centenari – è il commento di Niccolò Marchionni, ordinario di Medicina interna all'Università di Firenze e presidente della Società italiana di cardiologia geriatrica – […]». Tanto da giustificare l'utilizzo di una categoria relativamente nuova: la Quinta Età.

 […] Se si domanda agli interessati, l'elisir di lunga vita ha gli ingredienti più disparati: si nasconde tra le abitudini a tavola […], dipende dai sonnellini pomeridiani o dalla devozione alla messa domenicale.

Gli scienziati che hanno fatto ricerche nelle "Blue Zones" […], dove l'aspettativa di vita è sensibilmente maggiore rispetto al resto del Paese, studiano il corredo genetico. «[…]spiega Niccolò Marchionni […] Tra le condizioni che accomunano i centenari c'è un'intensa rete di relazioni che evita l'isolamento, una vita non sedentaria e un'alimentazione con poche calorie».

 In Italia la regione con il rapporto più alto tra popolazione di centenari e il totale dei residenti è il Molise, seguito da Valle d'Aosta, Friuli-Venezia Giulia, Liguria e Abruzzo. Nemmeno la pandemia ha scalfito la vita dei super anziani italiani.

Secondo i dati dell'Istat, durante i mesi neri del Covid, quella dei centenari è stata una delle poche fasce d'età in cui non si è registrata una crescita dei decessi. Le differenze con il resto della popolazione sono probabilmente legate al fatto che chi ha cento anni e più è "geneticamente selezionato", più resistente. Inoltre i centenari erano in "isolamento domiciliare" già prima del Covid: quasi nove su 10 sono "protetti" in famiglia, solo il 12% vive in una residenza per anziani. […]

L’Estumulazione.

Estumulazioni non autorizzate. Reggio Calabria, distruggevano le salme dei defunti per fare posto a nuove sepolture: 16 arresti (anche il custode del cimitero). Redazione su Il Riformista il 15 Settembre 2023.

Avrebbero proceduto per anni a estumulazioni non autorizzate nel cimitero di Cittanova, distruggendo o spostando in altri loculi le salme dei defunti per far posto a nuove sepolture. Con questa accusa i Carabinieri hanno arrestato 16 persone nelle province di Reggio, Milano e Vicenza in esecuzione di un’ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip su richiesta del procuratore di Palmi Emanuele Crescenti. Tra gli arrestati l’ex custode del cimitero, oggi in pensione, e tre imprenditori locali amministratori di due imprese di onoranze funebri. Complessivamente sono 70 gli indagati. Sequestrata un’area del cimitero.

I 16 arrestati sono ritenuti, a vario titolo, coinvolti in operazioni illecite celate dietro la regolare gestione del cimitero comunale dove avevano creato, secondo gli inquirenti, una “gestione parallela” del cimitero rispetto a quella del Comune. L’ex custode e i tre imprenditori locali, sottoposti alla custodia cautelare in carcere, sono ritenuti dagli inquirenti al vertice di un’associazione a delinquere.

La Mummificazione.

Scoperta in Egitto la mummia più vecchia di sempre: risale a 4.300 anni fa. Storia di Paolo Virtuani su Il Corriere della Sera il 26 gennaio 2023.

Nuova grande scoperta archeologica effettuata dalla squadra di Zahi Hawass, ex ministro delle Antichità dell’Egitto e attuale segretario generale del Consiglio supremo delle antichità egizie. In uno scavo profondo 15 metri è stato portato alla luce un sarcofago di calcare sigillato con la malta dentro il quale è stata rinvenuta quella che potrebbe essere considerata la mummia più vecchia e più completa, ricoperta con una foglia d’oro. La decifrazione del nome porta ad attribuirla a un uomo chiamato Hekashepes e risale a 4.300 anni fa.

L’eccezionale ritrovamento è avvenuto in un gruppo di tombe della V e della VI dinastia nei pressi della piramide a gradoni di Djoser a Saqqara, situata a circa 30 chilometri a Sud del Cairo.

Tra le varie tombe rinvenute, una era quella di Khnumdjedef, appartenente alla casta sacerdotale, ispettore degli ufficiali e supervisori di nobili durante il regno di Unas, ultimo faraone della V dinastia, decorata con scene di vita quotidiana. Un’altra era la sepoltura di Meri, la cui iscrizione lo dichiara «custode dei segreti e assistente del grande conduttore del Palazzo». Tra le tombe sono state portate alla luce nove statue, tra le quali una di un uomo con sua moglie, altre di personale della servitù.

La Profanazione.

Profanata la tomba della rom. Nella bara aveva 5 chili di gioielli. Con ogni probabilità i ladri che hanno profanato la tomba sapevano che è usanza delle famiglie rom tumulare i defunti con oggetti di valore e pietre preziose. Valentina Dardari l’8 Gennaio 2023 su Il Giornale

Una tomba è stata profanata al cimitero di Prima Porta e, una volta aperta, sono stati rubati ben cinque chili di oro in gioielli di famiglia. Con ogni probabilità il ladro sapeva esattamente cosa avrebbe trovato all'interno della tomba. A indagare sono i carabinieri del gruppo Cassia che hanno ampliato le indagini anche nel Nord Italia, dove risiede un parente della defunta. Al momento, come riportato da il Messaggero, gli investigatori non escludono nessuna pista per cercare di trovare il colpevole. Dietro al furto ci potrebbe però essere una faida tra famiglie.

Cosa è successo

Secondo quanto ricostruito finora, chi ha profanato la tomba dell'anziana rom di origini bosniache, morta nel 2020, ha aperto la cassa su un lato e ha trafugato i gioielli e i monili d'oro che i familiari dell'anziana avevano riposto all'interno della bara insieme al cadavere. Sono stati i vigilanti del cimitero di Prima Porta che si sono accorti di quanto era avvenuto e hanno allertato sia la famiglia della donna che i carabinieri. Non si tratta della prima volta che avviene un furto del genere: già negli anni passati si erano verificate sottrazioni simili. Da quanto reso noto il fatto sarebbe successo lo scorso 4 gennaio. Sono stati i conoscenti e i parenti della morta a raccontare che all'interno della cassa erano stati messi oggetti preziosi, anche d'oro, per un peso totale di cinque chili.

L'usanza rom

Sembra infatti che sia una usanza delle comunità rom quella di seppellire il defunto insieme a oggetti preziosi, un po' come avveniva nell'antico Egitto. Probabilmente i ladri, che erano a conoscenza di questa usanza, sono andati a colpo sicuro, certi di trovare un bel bottino. Come ricostruito dagli investigatori, durante quella fatidica notte i rapinatori hanno tolto la bara dal loculo, aperto la cassa zincata su un lato, e sottratto i monili d'oro dal varco che avevano creato poco prima. I familiari della defunta hanno presentato denuncia ai militari, affermando che sono stati trafugati dalla tomba circa cinque chili di oro, tra oggetti, gioielli e pietre preziose. I carabinieri stanno effettuando accertamenti anche sulla refurtiva che i parenti stanno elencando su una lista da consegnare agli investigatori. Il sospetto è che i ladri siano conoscenti, o comunque persone vicine alla famiglia derubata, i cui componenti risiedono sia nella periferia est di Roma che in alcune città del Nord Italia.

I precedenti

In passato, tra il 2018 e il 2019, gli investigatori erano riusciti a identificare un gruppo di ladri che aveva come specialità proprio i furti all'interno di campisanti, in particolare nel cimitero Flaminio. Le forze dell'ordine avevano infatti già ricevuto denunce di furti in varie tombe ma non erano state installate telecamere di sorveglianza per controllare la situazione. In ogni caso i ladri, dopo aver aperto le tombe e rubato il contenuto prezioso, le sigillano così da non insospettire i guardiani e i parenti. Solitamente questi furti vengono messi in atto nel pomeriggio inoltrato, quando chiude il cimitero. Difficile anche riuscire a rilevare le impronte digitali sulle tombe, a causa delle micropolveri che fuoriescono.

La Cremazione.

La sepoltura costa troppo: la scelta degli italiani, a cosa siamo costretti. Melania Rizzoli su Libero Quotidiano il 24 gennaio 2023

Chiedere di essere cremato dopo la morte è una scelta estremamente personale, dettata da molte e differenti ragioni, che vanno dal rifiuto dei riti e obblighi funerario cimiteriali, oggi molto costosi, all’ideale ritorno nel ciclo della natura, evitando il processo biologico della decomposizione. In Italia nel 2020 è stato cremato un defunto su tre su 746.146 decessi, per un totale di 277.106 cremazioni, con un aumento considerevole in un solo anno, soprattutto al Nord. Nel nostro Paese esistono ancora molti pregiudizi nei confronti di questa pratica, dovuti soprattutto al popolare “culto dei defunti”, per le attenzioni che i vivi hanno tuttora verso i loro cari scomparsi, nella speranza di mantenere ancora un legame di fronte al loculo di sepoltura con la fotografia del congiunto, e anche perché il fuoco è ancora considerato una presunta violenza all’idea che avvolga il corpo del proprio caro bruciandolo e riducendolo in polvere.

Ma come funziona in pratica il processo crematorio? I primi forni venivano alimentati a carbone, mentre oggi vengono utilizzate resistenze elettriche, bruciatori a gas e fiamme dirette per scaldare le pareti della camera di combustione. Ma prima di tutto è la salma che deve essere preparata, liberata da eventuali protesi esterne, impianti o dispositivi come il pace-maker che con le elevate temperature potrebbero esplodere e danneggiare il forno. Inoltre il cadavere deve essere deposto in una bara fatta di un materiale facilmente infiammabile, di legno leggero, morbido ed economico come il balsa o il bambù, costruita con un design più semplice e soprattutto che non contenga la protezione interna di zinco, sempre presente invece nelle bare da sepoltura.

RESTI RICONOSCIBILI

Prima di tale procedura inoltre, il defunto deve essere identificato da un familiare e gli viene apposto un segno distintivo in metallo, legato al corpo, che permette, alla fine, di riconoscere i resti ridotti in cenere ed evitare che questi possano essere confusi o mischiati con quelli di un’altra persona. Quando il feretro viene introdotto all’interno della macchina crematoria, adagiato su un rullo automatico che lo trasporta, sempre controllato a distanza dai monitor e dall’occhio umano, affinché non sopraggiungano complicazioni, viene pian piano esposto al calore di temperature che raggiungono i 900/1000*C, e per prima cosa si brucia la bara di legno, dopo di che inizia l’incenerimento della salma, dai capelli, ai vestiti, alla pelle, muscoli e parti molli, compresi i liquidi che colano ed evaporano, e per ultimo si bruciano le ossa di tutto lo scheletro, cranio compreso, e tutto l’intero processo di incenerimento può durare fino a 3 ore, poiché molto dipende dalla grandezza e dal peso del corpo del defunto, oltre che dalla temperatura del forno.

Gli operatori delle agenzie funebri che gestiscono il processo, raramente danno il permesso a parenti o amici di assistervi, sia per l’alta emotività del momento, sia perché durante la combustione il corpo del caro estinto spesso è soggetto a vari movimenti, soprattutto degli arti, anche ampi e bruschi, dovuti alla contrazione dei muscoli e tendini che perdono liquidi con la combustione e si rattrappiscono, e durante i primi 10/20 minuti possono intervenire anche evaporazioni robuste con spruzzi di gas ed effluvi corporei, aspirati e immagazzinati attraverso dispositivi tecnologici che assorbono anche l’odore carne bruciata, mantenendo pulito l’ambiente della camera crematoria, finché non si raggiunge lo stadio finale di incenerimento.

Al termine del procedimento, quando il forno si è raffreddato, se non tutte le parti del fisico umano risultano cremate completamente, gli operatori, dopo aver rimosso con un magnete gli oggetti metallici che non risultano bruciati (protesi dentali, cardiache o femorali, viti chirurgiche o quelle della bara), procedono alla raccolta delle ceneri e alla frantumazione a mano dei residui, per trasferirli poi su un vassoio in un macchinario, il Cremulator, che ha il compito di polverizzare il tutto, fino a ottenere una polvere della consistenza della sabbia, di colore bianco/grigio, la quale, una volta raffreddata, viene inserita in un’urna cineraria, scelta in precedenza dalla famiglia del defunto, e consegnata sigillata, con una targhetta che riporta il nome del defunto, agli eredi, affinché possano conservarla, tumularla o inumarla, oppure ospitarla, previo permesso del Comune di residenza, in casa, per risparmiare sui costi del cimitero o più frequentemente per continuare a sentire l’anima del caro estinto sempre vicina e presente, magari attraverso la preghiera.

A Bergamo, la provincia lombarda con il maggior numero di contagi da Coronavirus in tutta Italia, la sera del 18 marzo 2020 sono arrivati i mezzi dell’esercito per trasportare le bare di decine di vittime dell’epidemia ai forni crematori di altre città, poiché non si riusciva più a gestire, per l’elevato numero di decessi, la situazione stressante di attesa per le cremazioni nell’unica struttura presente, nonostante questa lavorasse a pieno regime, 24 ore al giorno. Nel nostro Paese gli impianti crematori sono 87, più numerosi al Nord piuttosto che al Centro e al Sud, ma la pandemia ha reso sempre più evidente che ogni città dovrebbe avere non meno di due linee crematorie, così che se uno degli impianti dovesse fermarsi per qualunque motivo, l’altro ne garantirebbe l’operatività senza interruzione del servizio.

Durante l’epidemia Covid, inoltre, era obbligatorio la disinfezione delle bare, sia all’interno, imbibendo lenzuola con disinfettanti, che all’esterno, per contenere possibili contagi agli operatori, ma tale procedura ha creato non pochi problemi agli impianti, con scoppi e danneggiamenti dovuti ai liquidi infiammabili delle sostanze farmacologiche aggiunte, oltre che problemi di tenuta e in materia ambientale per le emissioni dei gasi nell’atmosfera. Da qualche anno in Italia è possibile spargere le ceneri del defunto in aree dedicate dei cimiteri, o in aree naturali lontane dai centri abitati, in mare ad oltre mezzo miglio dalla costa, o nei laghi ad oltre 100 metri dalla riva. Alcune persone inoltre usano chiedere una tecnica post crematoria molto costosa e curiosa, la “diamantificazione delle ceneri”, le quali vengono trattate in impianti specifici con agenti chimici che ne estraggono il carbonio, il quale, dopo ulteriori processi viene trasformato in grafite e tramutato in un diamante grezzo, che viene tagliato, a seconda della richiesta, e forgiato per un anello o un ciondolo, da indossare e portare addosso, per avere sempre con sè il caro estinto.

 DIVERSE RELIGIONI

L’Islam e la Chiesa Cristiana Ortodossa vietano la cremazione, ammessa invece dai Valdesi, dalle Chiese Cristiane Riformate, dai Testimoni di Geova e dal 1963 dalla Chiesa Cattolica, con un editto di papa Paolo VI. Molti sono i personaggi illustri che hanno scelto la cremazione del loro corpo dopo la morte, da Sigmund Freud a Gandhi , Maria Callas e Robin Williams, mentre in Italia, tra i tanti, sono stati cremati Luigi Pirandello, Antonio Gramsci, Dino Buzzati, Luchino Visconti, Elsa Morante, Lucio Battisti, Claudio Villa, Walter Chiari, Silvana Mangano, Pino Daniele, Lina Volonghi, Giorgio Strehler, Mia Martini, Fabrizio De Andrè , Moana Pozzi, Helenio Herrera, Gianni Versace, Rita Levi Montalcini, Enzo Tortora. A livello mondiale il Paese con le più alte richieste di cremazione è il Giappone (95%), dove quasi tutte le cerimonie funebri la prevedono, e gli Stati dove è diventata la forma di sepoltura prevalente sono la Svizzera (87,45%), la Danimarca (80,90%), la Svezia (80,11%), la Gran Bretagna (78,4%), la Slovenia (74,93%), la Germania (72%), il Portogallo (61%). 

Il Compostaggio.

"Non sono rifiuti domestici". A New York è bufera per "la sepoltura green". Storia di Federico Garau su Il Giornale il 3 Gennaio 2023.

Negli Stati Uniti si torna a parlare di un argomento piuttosto controverso, vale a dire quello del compostaggio umano dopo la morte, considerato alla stregua di un metodo di sepoltura green. In molti inorridiscono a sentir anche solo avanzare una simile idea, ma negli Usa si tratta ormai della realtà.

Addio a sepoltura e cremazione

Il dibattito si è fatto sempre più acceso dallo scorso settembre, quando il governatore democratico della California Gavin Newsom approvò una legge che autorizzava il processo di riduzione organica naturale dei corpi. In parole povere, compostaggio.

Con questo metodo, i cadaveri vengono decomposti insieme ad altro materiale organico e sono resi concime per giardini e terreni. Il costo si aggira intorno ai 7mila dollari. Un procedimento che entusiasma i fanatici del green, che vedono nella più classica tumulazione e nella cremazione un rischio ambientale. E le spoglie umane? Diventano compostaggio.

Il primo ad approvare questa procedura? Lo stato di Washington, nel 2019. Poi è toccato al Colorado e all'Oregon, nel 2021. Nel 2022 si è aggiunto il Vermont, seguito dalla California. Adesso tocca allo stato di New York.

I democratici promuovono questo genere di trattamento per i cadaveri, parlando di benefici ambientali. Una grossa fetta di cittadini, però, è scandalizzata dall'approvazione di un simile metodo. I corpi dei defunti, gridano a gran voce i contrari, non possono essere trattati come merce usa e getta. Trasformare i cadaveri in concime è irrispettoso.

Come si ottiene il compostaggio umano

Per ottenere il cosiddetto compostaggio umano, le salme vengono sistemate in recipienti d’acciaio e poi coperte con materiali organici (legno, erbe, paglia). A quel punto si attende la normale decomposizione.

Nei recipienti viene regolarmente immessa aria che mantiene il tutto a bassa temperatura: i batteri degradano così il corpo, ma non proliferano i patogeni. Ci sono poi dei biofiltri che impediscono la fuoriuscita degli odori della decomposizione.

Solo in un secondo momento, gli addetti al processo provvedono a rimuovere oggetti estranei al corpo, come le protesi dentarie. Poi, trascorso il tempo necessario, ciò che rimane, come le ossa, viene macinato. Tutto il sistema impiega dalle sei alle otto settimane, dopodiché si ottiene il concime, che viene consegnato ai familiari del defunto. Saranno loro a decidere come disporne.

La protesta dei vescovi cattolici

A sollevarsi contro questo nuovo metodo di trattamento dei corpi anche i vescovi cattolici, che si sono detti assolutamente contrari. I defunti, spiegano i religiosi, non possono essere trattati come "rifiuti domestici". Kathy Hochul, governatrice democratica di New York, ha però dato il via libera. E, probabilmente, non sarà l'ultima.

L’eterna giovinezza.

(ANSA mercoledì 2 agosto 2023) - La famiglia di Henrietta Lacks patteggia con Thermo Fisher Scientific. L'accordo, di cui non sono stati resi noti i dettagli, arriva dopo una battaglia legale durate anni sulle cellule 'rubate' dalla 31enne afroamericana morta di cancro nel 1951 e alla quale furono prelevate, senza il suo consenso, tessuti dall'utero. Le sue cellule "immortali" - per la capacità che hanno di produrre una nuova generazione ogni 24 ore a causa di una mutazione provocata dal tumore stesso - sono state riprodotte in migliaia di miliardi di copie, e 'vivono' nei laboratori di tutto il mondo. 

Gli eredi di Henrietta Lacks hanno fatto causa a Big Pharma per essersi arricchita sulla cellule della loro antenata, guadagnando miliardi grazie alla sua eredità genetica. E hanno scelto Ben Crump, il legale attivista dei diritti civili che ha guidato il team di avvocati della famiglia di George Floyd, per portare avanti la loro causa. Le cellule 'HeLa', così come sono state chiamate, sono state raccolte dal medico della Johns Hopkins University George Gey in un'ala segregata dell'ospedale dove Henrietta era in fin di vita per cancro.

A metà degli anni '40 Henrietta Lacks si reco' proprio al John Hopkins Hospital per ricevere cure mediche per il tumore alla cervice. Le furono prelevate delle cellule e inviate in un vicino laboratorio per l'autopsia: le analisi mostrarono come le cellule, invece di morire, raddoppiavano "ogni 20 o 24 ore". Si trattò di un'incredibile scoperta grazie alla quale furono compiuti passi in avanti importantissimi nella ricerca, con le cellule che vennero commercializzate col nome di HeLa.

DAGONEWS il 18 febbraio 2023.

Gli studi sul ringiovanimento del sangue si sono concentrati a lungo sulle trasfusioni dai giovani agli anziani. Se queste trasfusioni promettevano di far tornare indietro nel tempo, un nuovo studio rileva che gli scienziati potrebbero essere in grado di farlo senza usare il sangue di qualcun altro.

 I ricercatori della Columbia University di New York affermano che un farmaco antinfiammatorio può ringiovanire il sistema sanguigno, garantendo un allungamento della durata della vita.

«Un sistema sanguigno che invecchia, poiché è un vettore per molte proteine, citochine e cellule, ha molte conseguenze negative per l'organismo - afferma Emmanuelle Passegué, PhD, direttrice della Columbia Stem Cell Initiative - Un settantenne con un sistema sanguigno di un 40enne potrebbe poter contare su una salute migliore e su una vita più lunga».

In che modo il farmaco ringiovanisce il sangue?

Il team di ricercatori ha scoperto che il farmaco antinfiammatorio anakinra, approvato per l’artrite reumatoide, inverte alcuni degli effetti dell'invecchiamento sul sistema emopoietico. Il farmaco è disponibile con il marchio Kineret.

 I precedenti tentativi di ringiovanire il sistema sanguigno - attraverso l'esercizio, la dieta e persino le trasfusioni di sangue giovane - sono tutti falliti negli esperimenti con i topi.

È stato allora che la squadra di Passegué ha iniziato a esaminare il midollo osseo.

«Le cellule staminali del sangue vivono in una nicchia; abbiamo pensato che ciò che accade in questo ambiente specializzato potesse essere una parte importante del problema» spiega il medico.

I risultati mostrano che la nicchia midollare danneggiata, IL-1B, svolge un ruolo chiave nel processo di invecchiamento. Tuttavia, l’anakinra è in grado di bloccarlo. La somministrazione del farmaco ha riportato il sangue invecchiato a uno stato più giovane e più sano. Questo potrebbe aiutare a sviluppare un trattamento antietà per le persone sopra i 50 anni.

Estratto dell'articolo di Massimo Sideri per il “Corriere della Sera” il 31 gennaio 2023.

[…] L’inseguimento dell’eterna giovinezza non è certo una novità. […] Fatto sta che, in questo caso, il metodo applicato dall’imprenditore dello Utah Bryan Johnson, diventato milionario nel 2013 per aver venduto la sua società a 800 milioni di dollari al sito di aste eBay, è almeno originale[…] servono due milioni di dollari l’anno tra diete, medici e staff personalizzato che vi segua dalle 5 del mattino al tramonto.

 Johnson, 45 anni, dopo due anni di impegno costante con 1.977 calorie vegane al giorno (né una di meno, né una di più, pare), una serie di allenamenti e analisi del sangue quasi fossero il caffè del mattino, ha annunciato di avere il cuore di un 37enne, la pelle di un 28enne e la capacità polmonare di un 18enne.

In sostanza sarebbe ringiovanito di «5 anni biologici». Anzi: 5,1 (i numeri con la virgola sembrano dare una sostanza scientifica all’annuncio). Il sarebbe è d’obbligo: […] è vero che evitare cibi infiammatori e alcol, seguire una corretta dieta con molti vegetali e fare esercizio fisico ha un impatto sulle probabilità di allungare la vita. Ma «ringiovanire» le cellule è un’altra cosa […].

Il legittimo sospetto è che sia, guarda caso, una pubblicità mondiale in stile reality per le sue società. Un allievo di Elon Musk insomma. Johnson non è il primo super ricco a credere a «Il curioso caso di Benjamin Button[…] Il fondatore di Amazon, Jeff Bezos, ha deliziato i tabloid americani quando a cinquant’anni ha scoperto il body building. Mark Zuckerberg, fondatore di Facebook, ha […] deciso qualche anno fa di uccidere personalmente gli animali che sarebbero finiti nei suoi pasti[…].

[…] Dal punto di vista scientifico esistono degli studi sulla possibilità di bloccare il meccanismo di invecchiamento delle cellule degli organi: Guido Kremer ha identificato un fattore chiave per la longevità in salute nella restrizione calorica (il salto dei pasti) in grado di indurre l’autofagia delle cellule. Ma solo nei topi, per adesso. […]

Un nuovo studio ha individuato 6 modi per rallentare il declino cognitivo. Gloria Ferrari su L'Indipendente il 31 gennaio 2023.

Sebbene sia un elemento chiave nella vita di tutti i giorni, la memoria tende a diminuire con una certa costanza man mano che le persone invecchiano. E se potessimo rallentare il processo o addirittura invertirlo? Secondo un nuovo studio, condotto su più di 29.000 over 60 cinesi, per riuscirci bisogna modificare sei abitudini quotidiane – che vanno dal cibo alla lettura – che se fatte in un certo modo riducono il rischio di demenza e ritardano il declino della memoria.

Nello specifico la ricerca, durata circa dieci anni (2009-2019) e pubblicata lo scorso 25 gennaio sul British Medical Journal, ha dimostrato che gli anziani che hanno rispettato una dieta equilibrata, hanno allenato regolarmente mente e il corpo, hanno coltivato rapporti sociali, e non hanno né fumato né bevuto, hanno ottenuto risultati cognitivi migliori rispetto agli altri coetanei. La conclusione a cui sono giunti gli esperti aggiunge delle prove concrete a ciò che fondamentalmente sapevamo – o sospettavamo già: uno stile di vita sano può aiutare il cervello a invecchiare meglio. Certo, la memoria, con il tempo, naturalmente diminuisce in ogni caso, ma la scoperta più importante è che alcune persone anziane “soggette a un deterioramento della funzione cognitiva che va oltre i normali effetti dell’invecchiamento” o che ad esempio potrebbero sviluppare l’Alzheimer”, seguendo certi accorgimenti “possono invertire o stabilizzare la propria condizione, impedendole di progredire e diventare patologica”.

I ricercatori si sono mossi in questo modo: hanno per prima cosa effettuato alcuni test (di memoria e per il gene APOE, che aumenta il rischio di Alzheimer) sulle 29mila persone coinvolte. Successivamente hanno monitorato i loro progressi o il declino nel tempo, arrivando a definire un ideale di “vita sana” sulla base di sei fattori:

Esercizio fisico: fare almeno 150 minuti di attività moderata o 75 minuti di attività intensa a settimana

Dieta: mangiare quantità giornaliere adeguate di almeno 7 di questi 12 alimenti (frutta, verdura, pesce, carne, latticini, sale, olio, uova, cereali, legumi, noci e tè)

Alcol: mai bevuto o bevuto occasionalmente

Fumo: non aver mai fumato o essere un ex fumatore

Attività cognitiva: esercitare la mente almeno due volte a settimana (leggendo, per esempio)

Contatto sociale: prendere impegni con altre persone almeno due volte a settimana (visitando amici o parenti, per esempio)

Le persone che hanno rispettato dai quattro ai sei fattori sani sopra elencati “avevano un tasso di declino della memoria più lento nel tempo rispetto alle persone con stili di vita sfavorevoli e meno probabilità di progredire verso la demenza”. Un buon risultato è stato ottenuto anche da chi ha seguito dai due ai tre punti. Ovviamente, più fattori positivi si combinano, maggiori sono le possibilità di preservare la memoria ed evitare la demenza.

«Questi risultati forniscono una prospettiva ottimistica, poiché suggeriscono che sebbene il rischio genetico non sia modificabile, una combinazione di fattori di stile di vita più sani è associata a un tasso più lento di declino della memoria. Indipendentemente quindi dal rischio genetico», hanno commentato gli autori dello studio. [di Gloria Ferrari]

Il progetto di Bryan Johnson: ritornare giovani, al costo di 2 milioni di dollari all’anno. Paolo Virtuani su Il Corriere della Sera il 30 Gennaio 2023.

Dopo 2 anni di intensi trattamenti medici e atletici, una squadra di 30 persone e una dieta vegana di 1.977 calorie al giorno, la sua età è «diminuita» di 5 anni

Dorian Gray in salsa hi-tech. Cioè restare giovani per sempre senza vendere l’anima al diavolo, far invecchiare il proprio ritratto o immergersi nelle medievali fontane dell’eterna giovinezza, utilizzando le più recenti scoperte della medicina e le più avanzate tecniche. Non guasta avere a disposizione 2 milioni di dollari all’anno per permettersi una squadra di 30 persone tra medici, nutrizionisti e preparatori atletici. È quanto sta cercando di ottenere Bryan Johnson, miliardario 45enne, con il suo Blueprint Project. Johnson ha creato la sua fortuna con la società Braintree Payment Solutions, venduta nel settembre 2013 a eBay per 800 milioni di dollari.

Johnson dichiara che dopo due anni di intensi trattamenti ha ridotto la sua età epigenetica di 5,1 anni (record del mondo, proclama), ha abbassato del 24% il suo tasso di invecchiamento, ha un perfetto rapporto tra muscoli e grasso, la sua temperature corporea è diminuita di 3 gradi Fahrenheit (è di circa 34,8 °C al posto dei normali 36,5 °C), ha il cuore di un 38enne, la pelle di un 27enne e, soprattutto, i test fisici sono quelli di un 18enne. In pratica, scrive sul suo sito, mentre noi mortali invecchiamo di un anno ogni 365 giorni, a lui ne servono 453.

La giornata

Il capo del suo staff è il 29enne Oliver Zolman, esperto di medicina rigenerativa, che tiene sotto stretto controllo giornaliero una settantina di parametri vitali e fisici del suo paziente. Johnson si alza ogni giorno alle 5, assume una ventina tra medicinali e integratori: tra questi licopene per le arterie e il benessere della pelle, metformina (un antidiabetico) per prevenire i polipi nell’intestino, pillole di curcuma, pepe nero e zenzero per gli enzimi del fegato e per ridurre l’infiammazione, zinco per integrare la dieta vegana, microdosi di litio per la salute del cervello. Poi un’ora di palestra con 25 esercizi specifici studiati per lui, durante la settimana sono previste sessioni più intense. Infine inizia tutta la lunga serie di analisi mediche, compreso un passaggio in uno scanner a risonanza magnetica che ha fatto installare nella sua villa a Venice, in California. Ovviamente curatissima l’alimantazione: solo cibi sani, genuini, vegani per un totale di 1.977 calorie, rigorosamente calcolate. Infine va a dormire alla stessa ora ogni notte dopo aver passato un paio d’ore indossando particolari occhiali che bloccano le lunghezze d’onda della luce di colore blu.

I miliardari e gli investimenti in giovinezza

Ma Johnson non è l’unico tra i miliardari hi-tech con il pallino della giovinezza eterna. Peter Thiel, co-fondatore di PayPal, ha investito milioni di dollari nella fondazione Sens, il cui obiettivo è realizzare un futuro senza malattie legate all’età. Jeff Bezos e Yuri Milner sono alcuni degli investitori che hanno messo 3 miliardi di dollari l’anno scorso in Altos Labs, una società per il ringiovanimento delle cellule. Larry Page e Sergey Brin, i creatori di Google, investono in Calico Labs, centro di ricerca per comprendere come i nostri sistemi biologici controllano l’invecchiamento e la durata della vita. Solo oculati investimenti in un settore dalle buone prospettive economiche?

Gli esempi

Tutte le fatiche di Bryan Johnson su di lui sembrano dare ottimi risultati, anche se a costi (non solo finanziari) molto alti. Ce n’è bisogno? Dieci giorni fa a 42 anni il francese Johan Claray è arrivato secondo nella discesa libera di Coppa del mondo sulla mitica Streif di Kitzbuhel, la pista più difficile del mondo; Novak Djokovic, 36 anni a maggio, ha appena vinto il suo 22mo torneo Slam, LeBron James a 38 sta per battere il record di punti realizzati nella Nba di basket. Forse è solo questione di geni (e di impegno e talento).

La Crioconservazione.

Dagotraduzione da Dnyuz il 26 dicembre 2022.

Mentre la pandemia era al suo culmine e tutti i protocolli medici venivano stravolti, un uomo californiano di 87 anni veniva portato in una sala operatoria appena fuori Phoenix. Un caso come il suo avrebbe richiesto normalmente 14 o più sacche di liquidi, ma in quel momento quella quantità era un problema. 

Se fosse stato infetto, avrebbe potuto diffondere il Covid attraverso fuoruscite di minuscole goccioline di aerosol, quindi il team aveva ideato nuove procedure per utilizzare meno liquidi, anche se il trattamento avrebbe perso efficacia.

Si trattava di una soluzione elaborata, soprattutto considerando che il paziente era stato dichiarato legalmente morto più di un giorno prima. Alla sala operatoria della Alcor Life Extension Foundation era arrivato imballato in ghiaccio secco, pronto per essere «crioconservato» a temperature glaciali, nella speranza che un giorno, forse fra decenni o secoli, la scienza trovi un modo per riportarlo in vita. 

La pandemia, che ha colpito miliardi di vite in tutto il mondo, ha avuto un forte impatto anche sui morti. Da Mosca a Phoenix, dalla Cina all’Australia rurale, le principali società di conservazione dei corpi a temperature molto basse dicono che la pandemia ha portato nuovo stress a un’industria che ha già dovuto affrontare scetticismo e ostilità dalle istituzioni mediche e legali.

 In alcuni casi, le norme contro il Covid hanno impedito ai medici di iniettare le sostanze chimiche protettive dentro alcune parti del corpo per arginare i danni del congelamento. Alcor, in attività dal 1972, ha imposto per esempio di proteggere solo il cervello. L’uomo californiano non ha ricevuto alcuna protezione per via delle tempistiche di arrivo del corpo. 

Una volta sigillato nel sacco a pelo e messo a riposare in una grande vasca di alluminio simile a un thermos riempita con azoto liquido a -196°C, l’uomo californiano dovrà affidarsi ai progressi della scienza non solo per tornare in vita, ma anche per riparare i danni del congelamento: i cristalli di ghiaccio che si formano tra le cellule danneggiano tutte le membrane.

L’ex presidente di Alcor, Max Moore, non si spiega perché le persone «vogliano portare con sé il loro vecchio corpo scomposto. In futuro sarà probabilmente più facile ricominciare da zero e rigenerare tutto». Tutto ciò che va congelato si trova «nel cervello. È lì che vive la mia personalità, i miei ricordi. Tutto il resto è sostituibile».   

Durante la pandemia, l’interesse per le procedure di crioconservazione, una procedura che può arrivare a costare 200.000 dollari, è aumentato. «Forse il coronavirus ha fatto capire loro che la vita è la cosa più importante che abbiamo. Forse hanno desiderato investire nel proprio futuro», dice Valeriya Udalova, 61 anni, amministratore delegato di KrioRus, che opera a Mosca dal 2006. Sia KrioRus e che Alcor hanno dichiarato di aver ricevuto un numero record di richieste negli ultimi mesi.

 A più di 50 anni dalle prime crioconservazioni, oggi al mondo sono state congelate circa 500 persone, e la maggior parte si trova negli Stati Uniti. Il Cryonics Institute ospita 206 corpi, Alcor 182 corpi o cervelli di persone di età compresa tra 2 e 101 anni. KrioRus ne conserva altri 80, una manciata di altre persone riposano in piccole società. 

I cinesi hanno eseguito la loro prima crioconservazione nel 2017 e le vasche di stoccaggio di Yinfeng contengono per adesso una dozzina di clienti. Ma Aaron Drake, il direttore clinico dell'azienda, che si è trasferito in Cina dopo sette anni come capo del team di risposta medica di Alcor, ha sottolineato che Alcor ha impiegato più del triplo del tempo per raggiungere quel numero di corpi conservati.

Drake ritiene che i cinesi credano di «essere in grado di superare le compagnie americane e hanno costruito un programma in grado di farlo». La ragione più forte per credere che la Cina arriverà a dominare il campo non è solo la sua popolazione di 1,4 miliardi di persone, ma il suo atteggiamento interno verso la crioconservazione. Lungi dall'essere confinato alla frangia scientifica, Yinfeng è l'unico gruppo di crionica supportato dal governo e abbracciato dai ricercatori tradizionali. 

«La nostra piccola unità aziendale è di proprietà di un'azienda biotecnologica privata che ha circa 8.000 dipendenti e collabora con il governo su molti progetti», ha affermato Drake. Ha aggiunto che è «ben integrato nei sistemi ospedalieri e collabora con istituti di ricerca e università».

(ANSA il 28 novembre 2023. ) - Esce duramente criticata l'azienda ospedaliera britannica di Maidstone e Tunbridge Wells nel Kent (Inghilterra del sud) dall'inchiesta pubblica sul caso di David Fuller, il 69enne killer necrofilo condannato all'ergastolo per l'omicidio di due giovani donne nel 1987 e per aver abusato sessualmente fra il 2008 e il 2020 di almeno 100 cadaveri di donne (anche minori) mentre lavorava come tecnico elettricista all'interno della struttura sanitaria. 

Sono infatti emersi errori, gravi negligenze e controlli inesistenti che hanno permesso a Fuller di operare indisturbato negli obitori del trust ospedaliero. Il presidente dell'inchiesta, sir Jonathan Michael, ha affermato che "ci sono state opportunità mancate per mettere in discussione le pratiche di lavoro di Fuller", ricordando come gli abusi commessi abbiamo "provocato shock e orrore in tutto il Paese e oltre".

Dall'inchiesta è emerso che il killer in un solo anno ha avuto accesso alle camere mortuarie ben 444 volte senza che nessuno gli chiedesse mai conto di quegli ingressi. Il caso rappresenta l'ennesimo scandalo nella sanità britannica segnata da gravi problemi strutturali, carenza di personale e un'organizzazione interna molto spesso finita sotto accusa.

David Fuller, il serial killer necrofilo che ha sconvolto la Gran Bretagna. David Fuller è stato condannato all'ergastolo per l'omicidio di due giovani donne nel 1987 e per aver abusato sessualmente fra il 2008 e il 2020 di almeno 100 cadaveri. Massimo Balsamo il 2 Dicembre 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 Una vita tra luci e ombre

 Gli omicidi

 La riapertura dei casi

 La scoperta agghiacciante

 La bufera sull'azienda ospedaliera

Per oltre trent’anni è riuscito a farla franca. Mai un sospetto, mai un’accusa. Poi i progressi della tecnologia lo hanno incastrato e hanno acceso i riflettori su uno dei casi di necrofilia più spaventosi di sempre. Parliamo di David Fuller - conosciuto anche come il "mostro dell'obitorio" - il killer britannico condannato all'ergastolo per l'omicidio di due giovani donne nel 1987 e per aver abusato sessualmente fra il 2008 e il 2020 di almeno 100 cadaveri di donne mentre lavorava come tecnico elettricista all'interno della struttura sanitaria.

Una vita tra luci e ombre

David Fuller nasce il 4 settembre del 1954. Di infanzia e adolescenza si sa poco, pochissimo, se non qualche episodio già preoccupante come l’abitudine di dare fuoco a qualsiasi tipo di oggetto, quasi una costante nelle biografie dei serial killer. La vita sentimentale è stata particolarmente vivace sin dalla tenera età – in totale tre moglie e tre figli – così come i problemi con la giustizia. Nel 1973, poco meno che ventenne, viene arrestato per una serie di furti con scasso. Stesso discorso quattro anni più tardi, nel 1977. Ma Fuller è fortunato: riesce a evitare il carcere in entrambe le occasioni e non gli vengono prese le impronte. Dettaglio che gli consentirà di farla franca per oltre tre decenni.

Dopo un primo matrimonio terminato dopo poco tempo, David Fuller conosce Sally e decide di convolare nuovamente a nozze. Fa diversi lavora, sbarca il lunario in ogni modo possibile. Tra i tanti impieghi, quello di fotografo per la rock band londinese Cutting Crew, seguita nella lunga tournèe del 1985 proprio insieme alla moglie. I suoi hobby preferiti sono il birdwatching, il ciclismo e la fotografia. Ma c’è un lato oscuro di Fuller che nessuno conosce e che esploderà poco tempo dopo, per la precisione nel 1987.

Gli omicidi

In quell’anno, nel giro di cinque mesi, David Fuller firma un duplice omicidio che sconvolge il regno unito. La prima vittima è Wendy Knell, direttrice di un negozio SupaSnaps a Turnbridge Wells, nel Kent. Il futuro “mostro dell’obitorio” è un grande frequentatore dell’esercizio perché è lì che porta a sviluppare le sue fotografie. E sviluppa un’ossessione malata nei confronti della sua titolare. In un giorno di giugno Fuller entra in azione e la aggredisce nel suo monolocale in Guildford Road: prima la strangola e poi abusa del suo corpo senza vita. A ritrovare il suo corpo sarà il suo fidanzato il 23 giugno: nudo nel letto tra enormi chiazze di sangue.

Cinque mesi dopo, per l’esattezza il 24 novembre, David Fuller si ripete. Dopo averla incrociata in più di un’occasione al ristorante Buster Brown dove lavorava come cameriera, l’uomo aggredisce la ventenne Caroline Pierce fuori dalla sua abitazione a Grosvenor Park. Stesso modus operandi del primo omicidio: prima lo strangolamento, poi il sesso con il cadavere. A differenza del caso Knell, Fuller decide di disfarsi del corpo esamine della vittima gettandolo in un fosso di una strada di campagna a Romney, zona che conosce bene grazie ai lunghi percorsi fatti in bicicletta. La polizia collega i due casi, diventati famosi come i “bedsit murders”. Ma nonostante le indagini e le ingenti risorse messe a disposizione, le autorità non riescono a trovare indizi significativi.

La riapertura dei casi

David Fuller riesce dunque a farla franca e decide di dedicarsi alla sua famiglia. Va a vivere con la famiglia a Hethfield, nell’East Sussex, e si contraddistingue come un grande lavoratore. Dopo la rottura con Sally – complice qualche relazione extraconiugale, compresa quella con un’infermiera durata due anni – l’uomo sposa la terza moglie, Mala, alle Barbados nel 1999. Dopo aver fatto diversi lavori, trova stabilità come elettricista negli ospedali al servizio dei residenti del Kent e del Sussex. Ma a trent’anni dai fatti a stravolgere l’esistenza di Fuller ci pensa miglioramento della tecnologia e delle tecniche di analisi forensi.

David Fuller viene infatti collegato agli omicidi Knell e Pierce grazie all’esame del DNA. Nel 2020 le autorità riprendono in mano alcuni casi datati e provano a capire se le nuove tecnologie possono fare la differenza. Quando si imbattono nel duplice omicidio, gli agenti esaminano i campioni disponibili e ricavano il DNA. Nessun riscontro nei database della polizia, ma gli investigatori non mollano e sottopongono a un test decine di residenti di Turnbridge Wells. Tra i tanti test, spunta un’affinità con il DNA del killer: si tratta proprio del fratello di David Fuller. E collegarlo ai delitti non è così difficile, anzi.

La scoperta agghiacciante

La polizia trova delle prove sui casi Knell-Pierce all’interno della sua abitazione – dal materiale di SupaSnaps a un diario che dimostra le visite al ristorante Buster Brown – e David Fuller viene arrestato. Ma non solo. Gli agenti infatti scoprono migliaia di immagini e video legati a crimini sessuali. E solo in questa fase emergono le azioni necrofile di Fuller: sì, perché tra i filmati sequestrati spuntano le sequenze di sesso con i cadaveri all’interno degli obitori degli ospedali in cui aveva lavorato.

L’attenzione della polizia si è dunque rivolta al Kent and Sussex Hospital, dove David Fuller aveva prestato servizio dal 1989 al 2010, e al Turnbridge Wells Hospital, dove aveva lavorato fino al giorno dell’arresto. La scoperta degli investigatori è agghiacciante: Fuller aveva libero accesso agli obitori grazie a una tessera magnetica utilizzata per lavorare in qualità di elettricista. Conosceva perfettamente quali erano le zone coperte dalle telecamere a circuito chiuso e quali no, ma ad incastrarlo in maniera plastica è la sua collezione privata, con registrazioni dettagliate di nomi ed età. Un lavoro certosino che permetterà alle autorità di identificare almeno 101 cadaveri (di età compresa tra i 9 e i 100 anni) violati.

Dopo aver negato ogni addebito sui due omicidi e sugli episodi di necrofilia, David Fuller si dichiara colpevole dei casi Knell-Pierce e di aver violato 44 cadaveri tra il 2008 e il novembre del 2020. Nel dicembre del 2021 viene condannato all’ergastolo. Successivamente, nel dicembre del 2022, viene nuovamente condannato per l’abuso di altri 23 cadaveri.

La bufera sull'azienda ospedaliera

Nel novembre del 2023 è scoppiata una vera e propria bufera riguardante l'azienda ospedaliera britannica di Maidstone e Tunbridge Wells. L'inchiesta ha infatti acceso i riflettori su errori, negligenze e controlli inesistenti che hanno consentito a David Fuller di operare indisturbato negli obitori del trust ospedaliero. "Ci sono state opportunità mancate per mettere in discussione le pratiche di lavoro di Fuller", le parole del presidente, sir Jonathan Michael. Ma non solo. Dall'indagine è emerso che il killer in un solo anno ha avuto accesso alle camere mortuarie ben 444 volte senza che nessuno gli chiedesse mai conto di quegli ingressi. Un caso che rimpolpa il lungo elenco di scandali nella sanità britannica UK.

Traduzione dell’articolo di David Propper per nypost.com l'1 dicembre 2023. 

Un uomo che lavora come guardia giurata, ora licenziato, è stato arrestato martedì per aver fatto sesso con il cadavere di una donna di 79 anni all'interno dell'obitorio di un ospedale dell'Arizona, dopo essere stato colto in flagrante dai colleghi. 

Randall Bird, questo il nome dell’uomo, è stato accusato dopo un’indagine della polizia,  avviata alla fine del mese scorso su quanto avvenuto all'interno dell'obitorio del Banner University Medical Center di Phoenix. 

Sebbene il lavoro del 46enne sia solo quello di portare i cadaveri all'obitorio e di infilarli nel “congelatore”, Bird è stato sorpreso il 22 ottobre con la cintura slacciata, la cerniera abbassata e l'uniforme "in disordine", secondo i documenti del tribunale ottenuti da alcune testate giornalistiche.

Gli altri lavoratori hanno visto Bird "sudare abbondantemente" e "comportarsi in modo molto nervoso", ha riferito la CBS 5, citando i documenti. 

Anche la sacca per il corpo dell'anziana donna era stata aperta e lei era a faccia in giù con la cintura di Bird sopra la barella dove si trovava il corpo, secondo i documenti. Quando il personale di sicurezza è entrato, Bird ha cercato subito di coprire il corpo della donna prima di affermare di aver avuto un malore, che lo ha portato ad afferrare il corpo della vittima mentre sveniva e cadeva a terra, secondo i documenti.

L'uomo ha insistito sul fatto che la sacca per il corpo si è strappata e la cerniera si è rotta, ma gli operatori non hanno creduto e lo hanno denunciato ai loro supervisori.  

Bird è stato interrogato dalla polizia qualche giorno dopo, sostenendo ancora una volta di aver avuto un episodio di salute e di non ricordare l'accaduto. Ma gli investigatori hanno stabilito che aveva lasciato DNA sulla scena del crimine e che sul corpo della donna erano state trovate delle ferite, secondo i documenti riportati anche dalla ABC 15. La donna sarebbe morta per cause naturali. 

"Siamo rattristati e sconvolti dalle presunte azioni di un individuo del Banner-University Medical Center di Phoenix che hanno portato al suo arresto il 28 novembre 2023", hanno dichiarato i funzionari dell'ospedale in un comunicato, "La Banner Health è e rimane impegnata a rispettare standard elevati che richiedono a ciascuno dei membri del nostro team di trattare tutti, in ogni fase della vita, con compassione, dignità e rispetto". Bird è stato licenziato e deve rispondere di cinque capi d'accusa.   

Estratto dell’articolo di Massimo Gramellini per il "Corriere della Sera" sabato 11 novembre 2023.

C’è un cadavere coperto da un telo in via della Scrofa, nel cuore di Roma. Appartiene a monsignor Bacqué, nunzio apostolico che un infarto ha stroncato mentre usciva dal barbiere. Si trova lì da tre ore e ha fatto in tempo a diventare una discreta attrattiva. 

La prima ad accorrere è stata l’ambulanza del 118, dando prova di efficienza persino commovente. Poi è stata la volta dei poliziotti e del medico legale per il riscontro delle cause naturali del decesso. [...]

Da quel momento ci si è rassegnati ad aspettare l’arrivo dei Servizi Mortuari, entità ineffabile intorno alla quale circolano leggende spaventose. Si narra che al cimitero di Prima Porta ci sarebbero duemilacinquecento bare in lista d’attesa: più che per una Tac.

Intanto davanti al corpo del monsignore sfilava distrattamente l’umanità: politici indaffarati (le sedi del Senato e di Fratelli d’Italia sono lì accanto) e passanti ingolositi dalla possibilità di certificare presso i contemporanei la loro fondamentale presenza scattandosi un selfie col morto. Un gruppo di turisti è quasi venuto alle mani per disputarsi il diritto di precedenza. C’era anche qualche suorina in preghiera, ma è passata praticamente inosservata. 

Alla terza ora si è verificato il miracolo: è giunto il camion del Comune.

Estratto dell’articolo di Riccardo Palmi per "Il Messaggero" sabato 11 novembre 2023.

Stroncato da un infarto a pochi metri dal Senato. Monsignor François Bacqué, 87 anni, è morto così, mentre tornava a piedi verso la residenza ecclesiastica dove viveva, in via della Scrofa a Roma. 

«Mi aveva detto che era stanco, sentiva che il suo cuore non andava e così l'avevo accompagnato a casa. A metà strada però si è seduto a terra per poi accasciarsi», racconta Zafer Afisa, barbiere di origine siriana che ha il suo negozio nella vicina via della Pallacorda. Bacqué era un cliente assiduo e anche quella mattina era appena stato da lui. Inutile l'intervento di alcuni passanti e poi quello, descritto come rapido, dell'ambulanza.

[...] 

Quando Bacqué si è accasciato erano circa le 11 del mattino. Poi, coperto da un telo, è rimasto sull'asfalto quasi tre ore, prima di essere portato via (alle 14.04) dal camion dei servizi mortuari del Comune. 

A quell'ora, la centralissima via della Scrofa transennata in due punti, per permettere solo il passaggio dei pedoni era come sempre molto trafficata. E così intanto transitavano politici (oltre a Palazzo Madama, a pochi metri c'è anche la sede di Fratelli d'Italia), persone comuni, un paio di scolaresche, turisti.

[...]

Bacqué era nato a Bordeaux nel 1936 ed era diventato sacerdote a 30 anni. Entrato nel Servizio diplomatico della Santa Sede nel 1966, aveva poi servito in tutto il mondo: Cina, Olanda e Cile e poi presso le nunziature apostoliche in Portogallo e in Danimarca e Sri-Lanka. Dal 1988 era diventato arcivescovo di Gradisca (in Friuli-Venezia Giulia), prima di ricevere altri incarichi in Repubblica Dominicana e Paesi Bassi. Con la pensione si era poi stabilito a Roma.

Estratto dell’articolo di Lucia Esposito per “Libero Quotidiano” venerdì 25 agosto 2023.  

 Si può morire per un cane? Ora che i corpi di Rosa e Veronica sono stati ritrovati a poca distanza l’uno dall’altro, ora che la speranza ha lasciato spazio al dolore, resta questa domanda che riecheggia nella testa di quanti - tanti hanno la fortuna di dividere la propria vita con un cane. Che cosa avrei fatto io? La storia inizia a Lecco, in una caldissima mattina di mezza estate. […] 

[…] Rosa Corallo e Veronica Malini arrivano fin su a 2500 metri, in alta Val Manenco. Con loro, come sempre, la cagnolina nera e bianca di Veronica, la loro ombra scodinzolante. […] A un tratto Brunilde si avvicina al torrente per bere, ma non riesce più a recuperare la riva. L’acqua impetuosa la travolge. 

Veronica non ci pensa, non fa calcoli, non ha il tempo di pesare i costi e i benefici: vede la sua cucciola portata via dalla corrente e si tuffa, spinta da quella forza misteriosa, istintiva, viscerale e imprevedibile che chiamiamo amore che ha il pregio e il difetto di far superare le paure e annullare tutti i ragionamenti. Rosa è lì sulla riva, a un passo da lei. Vede la sua migliore amica in difficoltà e si lancia. 

[…]  La vita di queste due amiche coraggiose è finita così. A pochi metri l’una dall’altra. E torniamo alla domanda: si può morire per un cane? La risposta è scontata per chi non ha mai ceduto al richiamo di Fido, per chi non ha condiviso un solo giorno con un quadrupede che dà tutto senza chiedere nulla

[…] Basta leggere sui social i commenti di quelli che deridono Rosa e Veronica perché hanno sacrificato la loro vita per Brunilde. Quelli che non hanno pietà umana e pensano che Veronica e Rosa la morte se la sono cercata perché era evidente che tuffandosi in quel torrente sarebbe finita così. Certo, per loro non si può morire per un cane. È perfino stupido. Ci sono tanti cani che aspettano un padrone. Morto uno, se ne prende un altro. Come quando si rompe un vaso e si rimpiazza con uno nuovo anche più bello. E poco importa che Brunilde per Veronica non fosse un cane come gli altri, che poi è la storia della rosa de Il piccolo principe che esce dalle pagine e diventa realtà...

La mia risposta, invece, è sì. Si può morire per un cane. Lo avrei fatto? Razionalmente - mentre sono seduta alla mia tastiera e so che Bruno se ne sta al sicuro nella sua cuccia e quando tornerò a casa lo vedrò corrermi incontro saltellando con gli occhi verdi che elemosinano carezze - dico che mai mi sarei lanciata in quel torrente. Che avrei aspettato l’arrivo dei soccorsi, che avrei pensato ai miei figli e tutte le cose buone e giuste, eccetera eccetera. Ma che cosa avrei fatto se fossi stata lì, su quella riva? La risposta più onesta è che non lo so. L’amore non si controlla. Spesso, dico che il mio cane è il figlio che non parla, l’unico che non rompe, che rispetta le regole e che senza di lui la casa è vuota.

Chiunque, davanti a un figlio in pericolo, si lancerebbe nell’acqua e pure nel fuoco. È esagerato farlo per un cane? Forse, ma allora non dovremmo dire che li amiamo come figli... Capisco profondamente Veronica e difendo il suo gesto che per alcuni è scriteriato, sproporzionato, folle e che invece è potentemente eroico. E poi c’è Rosa. Brunilde non era il suo cane. Forse- giustamente- non si sarebbe immolata per l’animale. Lei ha dato la vita per la sua migliore amica. E questo le rende doppiamente onore. Non so quanti morirebbero per un cane. So per certo che ogni cane morirebbe per il suo padrone.

Da corriere.it sabato 19 agosto 2023.

A Militello in Sicilia un uomo è morto e la moglie è rimasta ferita durante i festeggiamenti del Santissimo Salvatore, Patrono della cittadina in Val di Catania. La coppia è stata colpita da un tubo “spara coriandoli” che era stato piazzato sul campanile della chiesa al centro del paese. Il cannone da festa è esploso e precipitando ha ferito mortalmente alla testa l’uomo. La donna è stata soccorsa in ospedale. I festeggiamenti sono stati sospesi.

Estratto da rainews.it sabato 19 agosto 2023. 

Omicidio colposo. E' l'ipotesi di reato con cui la Procura di Tivoli ha aperto un fascicolo dopo la morte del bimbo di 8 anni annegato in una vasca del centro termale Cretone a Palombara Sabina, in provincia di Roma, dopo essere stato risucchiato nel condotto per lo svuotamento della piscina. […]

Estratto da leggo.it sabato 19 agosto 2023.

[…] Il papà del bambino morto alle terme di Cretone, inghiottito dallo scarico di una piscina, racconta quegli istanti di orrore che hanno strappato alla vita suo figlio Stephan, di 8 anni. «L’acqua era torbida, non vedevo nulla, lo tiravo per le braccia ma non riuscivo a strapparlo a quel vortice», ha detto Anton al Corriere della Sera. 

Il papà […], russo di origine ma residente in Italia […], si è tuffato per primo, appena si è accorto di quello che stava accadendo. «Mio cognato e sua moglie erano sul bordo della piscina. Poi, la figlia più piccola, che era in acqua con il fratellino, è uscita e ha detto: “Papà, Stephan è andato via". Lo hanno cercato in ogni angolo, poi mio cognato, nell’acqua salmastra, lo ha visto e ha provato a tirato fuori. Ma non ce l’ha fatta», ha raccontato lo zio a Il Messaggero.

Le indagini dovranno chiarire le colpe di questo dramma assurdo. Obiettivo degli inquirenti è accertare la dinamica di quanto avvenuto poco dopo le 18.30 del 17 agosto. L'indagine punta a fare chiarezza in primo luogo su eventuali mancanze nell'attuazione delle norme di sicurezza all'interno della struttura […] a circa 30 km da Roma. 

[…] Al momento non è chiaro se il ragazzino, che viveva con la famiglia a Monterotondo, si trovasse nella vasca quando è iniziata l'attività di svuotamento o sia inavvertitamente caduto nella piscina. Con lui […] era presente anche la sorellina che non si sarebbe accorta di quanto avvenuto.

La turbina lo ha trascinato sott'acqua: il bimbo sarebbe stato portato giù dal violento vortice del bocchettone per lo svuotamento. Stephan, in pochi secondi, è stato risucchiato nei condotti dello scarico morendo annegato. 

A nulla sono valsi i tentativi dei presenti di salvargli la vita. Sotto la lente degli inquirenti i sistemi di sicurezza: la piscina […] sarebbe stata infatti sprovvista della grata di sicurezza che blocca l'accesso allo scarico. Un elemento che potrebbe risultare determinante nell'accertamento delle responsabilità. […]

Estratto dell’articolo di Marco Carta per repubblica.it martedì 22 agosto 2023.

«Ci dicevano di sbrigarci perché non volevano pagare gli straordinari. La piscina doveva essere vuota entro le otto. Per questo non c’era la grata. Così finivamo prima». Una tragedia figlia della mancanza di sicurezza e dell’avidità. È questo lo scenario scioccante che emerge dalla testimonianza di uno dei bagnini. 

Dietro la morte del piccolo Stephan, il bambino russo di otto anni che lo scorso giovedì è rimasto incastrato all’interno della conduttura di scarico di una delle piscine delle Terme di Cretone, ci sarebbe soprattutto una questione di costi da tenere sotto controllo. La procura di Tivoli ha aperto un procedimento per omicidio colposo. Quattro al momento sono gli indagati, i due amministratori e due giovanissimi bagnini che quel giorno erano in servizio. […]

quello che sarebbe emerso è un vero e proprio modus operandi per ottimizzare le spese, mettendo in pericolo la sicurezza dei bagnanti. «Io quella grata non l’ho mai vista», ha esordito il bagnino neo 18enne. 

Un ragazzo diligente e un gran lavoratore, che avrebbe approfittato dell’estate per mettere qualche soldo da parte. «Sono sicuro che in acqua non c’era più nessuno quel pomeriggio. Erano tutti dietro la corda con cui veniva isolata l’area delle piscine per la fase dello svuotamento. Molta gente era già nell’area del bar che rimane aperta. Poi sono stato chiamato ad attivare il sistema di svuotamento e non ho visto che è successo». Sta di fatto che il bambino era in acqua ed è rimasto incastrato nella conduttura di scarico.

[…] «Ogni giorno ci veniva detto di sbrigarci, perché se avessimo finito dopo le otto avrebbero dovuto pagarci gli straordinari».

L’assenza della grata, quindi, serviva a velocizzare le procedure di svuotamento e la pulizia delle vasche. Il racconto del 18enne è stato confermato anche da altri lavoratori della struttura che non sono sotto indagine.

[…] 

Estratto dell’articolo di Gianfranco Coppola per l’ AGI giovedì 17 agosto 2023.

La procura di Udine ha aperto una inchiesta sulla morte di Giulio Alberto Pacchione e Lorenzo Paroni, i due finanzieri in servizio a Tarvisio precipitati ieri mentre salivano in cordata una via importante nel cuore delle Alpi Giulie Occidentali, sul Monte Mangart, al confine tra Italia e Slovenia. 

Le dinamiche dell'incidente […] sono al vaglio degli inquirenti, ma a una prima valutazione si sarebbe trattato di una tragica fatalità, scatenata da cause oggettive e ambientali, con un probabile crollo o distacco dall'alto che ha trascinato giù i due finanzieri.

I due finanzieri facevano parte anche della stazione di Cave del Predil del Corpo Nazionale Soccorso Alpino e Speleologico: Lorenzo era a tutti gli effetti già un Tecnico del Soccorso Alpino, mentre Giulio era un aspirante soccorritore e avrebbe dovuto a breve sostenere l'esame di ingresso per entrare nel Corpo. 

Impossibile al momento valutare l'ora dell'incidente e a che punto della parete sia avvenuto. I due non risultavano raggiungibili né tramite dispositivi telefonici né attraverso dispositivi radio che avevano al seguito. I colleghi in caserma hanno iniziato a preoccuparsi e intorno a mezzanotte si sono portati a Fusine Laghi e poi nei pressi del Rifugio Zacchi, dove era stato parcheggiato il loro mezzo.

Una volta giunti a piedi alla base della parete c'è stata la triste scoperta, che lascia presupporre una caduta di diverse decine di metri. Il recupero dei corpi dei due giovani, ancora legati in cordata, è avvenuto questa mattina intorno alle 8:30, con l'elicottero della Protezione Civile e le salme si trovano all'obitorio di Tarvisio presso il Cimitero Plezzut, dove sono attesi i parenti. 

La preparazione di entrambi gli alpinisti era di altissimo livello: entrambi conoscevano le pareti rocciose del Mangart, dove avevano tra l'altro entrambi già salito il temibile e famoso Diedro Cozzolino, una delle vie più difficili delle Alpi. Giulio era anche maestro di sci a Tarvisio, a Lorenzo mancava solamente un esame per diventare Guida Alpina. […]

Due finanzieri morti in addestramento: aperta un’inchiesta. Angelo Vitolo su L'Identità il 17 Agosto 2023 

Due finanzieri sono morti durante un addestramento e la procura di Udine ha aperto una inchiesta. Si tratta dei finanzieri Giulio Alberto Pacchione (nato a Reggio Emilia il 4 luglio 1995 e originario della provincia di Teramo) e Lorenzo Paroni (nato a Pordenone il 6 gennaio 1993 e originario di Montereale Valcellina), morti mentre risalivano in cordata la via Piussi, di sesto grado, che percorre il verticale Pilastro nord del Monte Mangart. Numerosi i messaggi di cordoglio per la tragedia dei due finanzieri morti, pervenuti da rappresentanti del governo e della maggioranza di centrodestra, ma anche da Azione-Italia Viva.

I due finanzieri morti sarebbero stati in attività ufficiale di addestramento ed erano attesi in caserma ieri sera. Si tratta, dunque, a tutti gli effetti di incidente in servizio e in quanto tale è al vaglio della Procura di Udine, che ha aperto un’inchiesta. Entrambi facevano parte anche della stazione di Cave del Predil del Corpo nazionale Soccorso alpino e speleologico. Il recupero dei corpi dei due giovani, ancora legati in cordata, è avvenuto questa mattina intorno alle 8:30, con l’elicottero della Protezione Civile e le salme dei due finanzieri morti si trovano all’obitorio di Tarvisio presso il Cimitero Plezzut.

“La preparazione di entrambi gli alpinisti era di altissimo livello – fanno sapere dal Soccorso alpino Cnsas – entrambi conoscevano le pareti rocciose del Mangart, dove avevano tra l’altro entrambi già salito il temibile e famoso Diedro Cozzolino, una delle vie più difficili delle Alpi. Giulio era anche maestro di sci a Tarvisio, a Lorenzo mancava solamente un esame per diventare Guida Alpina”.

“Erano due bravissimi alpinisti. Tutto ciò che si può dire di buono su di loro anche come persone va detto. Aggiungo che per me erano come due figli”, ha detto Luca Onofrio, capostazione della stazione di Cave del Predil del Soccorso Alpino.

È morto Remi Lucidi, l’acrobata francese dei grattacieli: è precipitato dal 68esimo piano ad Hong Kong. Lo spericolato influencer è stato visto dall'addetta alle pulizie mentre batteva le mani sui vetri. Redazione Web su L'Unità il 31 Luglio 2023

Il francese Remi Lucidi, noto per le sue spericolate acrobazie sui grattacieli di mezzo mondo, è morto oggi dopo essere precipitato dal 68° piano di un edificio in una zona residenziale di Hong Kong. Lo si scrivono media locali, ripresi dall’Independent. Lucidi, 30 anni, si trovava nel complesso della Tregunter Tower a Hong Kong ed è caduto nel vuoto dopo essere rimasto intrappolato fuori da un attico. Secondo gli inquirenti, era arrivato nel palazzo in serata dicendo alla guardia giurata che era in visita da un amico al 40esimo piano. L’ultimo a vederlo vivo è stata un’addetta alle pulizie: l’acrobata bussava freneticamente sul vetro.

È morto l’acrobata Remi Lucidi

La donna, a quel punto, aveva chiamato la polizia. L’ipotesi investigativa è che Remi Lucidi sia rimasto intrappolato sull’edificio dal quale intendeva scattare alcune dei suoi abituali selfie ai limiti, ma dove si era introdotto in maniera clandestina. Noto come “Remi Enigma” sui social media, la struttura dove si era introdotto fa parte di un blocco residenziale nell’esclusiva area di Mid-Levels. Secondo quanto informa il South China Morning Post, i fatti risalgono a sabato 29 luglio, intorno alle 18:00. Quando Remi si è recato alla torre, un agente della sicurezza ha voluto verificare la sua storia e il presunto amico – al quale lo spericolato influencer avrebbe dovuto fare visita (era la scusa di Enigma per accedere alla struttura) – avrebbe negato di conoscerlo.

La dinamica

Lucidi è riuscito a prendere lo stesso un ascensore per accedere ai alti piani del palazzo. L’ultima volta che è stato visto ancora in vita è stato alle 19.38 di sabato, secondo le autorità locali. È stato in quel momento che l’addetta alle pulizie si è resa conto che Remi stava dando bussando alle finestre dell’attico, per cui spaventata ha chiamato le forze dell’ordine. In realtà si ritiene che il trentenne stesse chiedendo aiuto, forse impossibilitato a tornare in un punto dove non rischiava di cadere. Quando gli agenti hanno potuto avere accesso all’area dell’incidente, hanno ritrovato solo la macchina fotografica con la quale Remi Lucidi immortalava le sue avventurose gesta.

Estratto dell’articolo di Michela Allegri per “il Messaggero” giovedì 17 agosto 2023.

[…] Ogni anno nel nostro Paese sono circa 400 i decessi in acqua: i numeri arrivano dalla Società Italia di Medicina Ambientale (Sima). Nel mondo, i morti per annegamento ammontano addirittura a 2,5 milioni nell'ultimo decennio. A spiegarlo è il presidente Sima, Alessandro Miani: «Negli anni 60 si stimavano in Italia circa 1.400 decessi per annegamento ogni anno, cifra che è andata progressivamente a diminuire fino a stabilizzarsi dagli anni 90 in poi, con un trend oramai costante pari a circa 400 incidenti fatali l'anno». A livello mondiale la cifra sale a 236mila.

La maggior parte degli incidenti avviene in mare aperto e nei fiumi, ma si contano casi di decesso anche in piscine alte pochi centimetri, proprio come è successo al piccolo morto pochi giorni fa in provincia di Catania. Ed era successo anche a metà luglio, in provincia di Lecce: a Taurisano un bimbo di due anni, che era in compagnia del fratellino, è annegato nella piscina di casa. 

Le vittime più frequenti degli incidenti, secondo l'Organizzazione mondiale della sanità, sono infatti i bambini che hanno tra 1 e 4 anni, seguiti da quelli di età compresa tra 5 e 9 anni. Il 50,3% dei casi si verifica in mare, mentre il 41,3% dei decessi avviene nelle acque interne e l'8,3% in piscina. Si stima che il 28% degli incidenti dipenda da malori improvvisi, il 15% da distrazione, il 14% da cadute accidentali in acqua. […]

Una delle cause principali di annegamento in laghi e fiumi è anche la bassa temperatura dell'acqua, sottolinea inoltre Fulvio Ferrara, esperto dell'Osservatorio nazionale annegamenti, istituito dal ministero della Salute nel 2017 per capire le dinamiche degli incidenti. 

«Nel 10% dei circa 400 annegamenti che si verificano ogni anno in Italia, la causa principale è la bassa temperatura dell'acqua: fino a 10 gradi centigradi in meno rispetto a quella del mare». Il problema è lo sbalzo termico: «In molti - continua Ferrara - dopo una lunga esposizione al sole con una temperatura esterna che spesso tocca o supera i 33 gradi, si tuffano improvvisamente in acque dove la temperatura è di 12 gradi, talvolta anche 6. Un errore che in tanti pagano caro». […]

 Ogni anno vengono eseguiti 70mila interventi di salvataggio all'anno ed è fondamentale puntare sulla prevenzione, promuovendo corsi di nuoto a partire dai 5-6 anni di età e l'educazione all'acquaticità sin dai primissimi anni di vita. 

Ogni anno in Italia 400 annegamenti sulle spiagge. Angelo Vitolo su L'Identità il 25 Luglio 2023 

In Italia ogni anno – a fronte di circa 400 annegamenti (fatali) e di 800 ospedalizzazioni per annegamento – si contano circa 60mila salvataggi (solo sulle spiagge), e più di 600mila interventi di prevenzione da parte dei bagnini. La cifra è contenuta nel primo Rapporto dell’Osservatorio per lo sviluppo di una strategia nazionale di prevenzione degli annegamenti ed incidenti in acque di balneazione, istituito nel 2019 dal ministero della Salute, a cura di Fulvio Ferrara, Enzo Funari e Dario Giorgio Pezzini, di prossima pubblicazione e di cui l’Istituto superiore di sanità anticipa alcuni contenuti in occasione della Giornata mondiale per la prevenzione dell’annegamento.

Il Rapporto – informa l’Iss – è incentrato sugli annegamenti lungo i litorali marittimi, ma riporta anche una prima analisi di questi incidenti nelle acque interne, esamina il ruolo del servizio di sorveglianza e salvataggio nelle spiagge italiane, e descrive la fisiopatologia dell’annegamento. Per “acque interne” si intende una grande varietà di corpi idrici: non solo fiumi e laghi, ma anche torrenti, canali, bacini artificiali, rogge, cave e stagni. Fra il 2016 e il 2021, in questi luoghi si sono registrati in media 78 decessi all’anno, un numero particolarmente alto, se si considera che vengono frequentati da un numero limitato di persone.

In Italia, nei primi anni ’70, gli annegamenti erano quasi 1.400 all’anno, per andarsi poi a ridurre fino al valore di circa 400/anno alla fine degli anni ’90. Tra le cause che hanno prodotto questa riduzione degli annegamenti in Italia va annoverato senza dubbio l’apprendimento del nuoto, in genere nelle piscine, l’educazione alla sicurezza in acqua della popolazione, e, certamente, la crescente presenza dei bagnini e la loro maggiore professionalità.

Nel periodo considerato (2016 – 2021), ogni anno si sono registrati in media 26 annegamenti di persone che non sanno nuotare, con il 62% dei casi che ha interessato immigrati, e altrettanti per le correnti di ritorno; gli annegamenti improvvisi, ossia a causa di un malore, sono in media 58 per stagione balneare, circa 5 per attività sportive e poco meno per caduta in acqua.

“I dati disponibili sugli annegamenti indicano la necessità di predisporre un Piano Nazionale per la Sicurezza delle Spiagge – spiegano gli autori -, come d’altra parte raccomandato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Il Piano dovrebbe contenere, da un lato indicazioni per elaborare una regolamentazione normativa uniforme, specificando tra i vari aspetti gli ambiti di competenza istituzionale a livello nazionale e territoriale, e dall’altro delle misure di prevenzione di immediato approntamento come standard minimo necessario per le aree di balneazione su tutto il territorio nazionale”.

Alla stesura del Rapporto hanno partecipato: Ministero della Salute, Istituto Superiore di Sanità, ISPRA, Corpo delle Capitanerie di Porto, Gruppo Nazionale per la Ricerca sull’Ambiente Costiero (GNRAC), Anci, Società Nazionale di Salvamento, Ospedale del Bambin Gesù. 

Ogni anno incidenti e morti sui binari, il piano Fs per eliminare in 10 anni i passaggi a livello. Angelo Vitolo su L'Identità il 24 Luglio 2023

Ogni anno, secondo i dati resi noti da Rfi nello scorso mese di aprile in occasione della Giornata mondiale per la Sensibilizzazione sui Passaggi a Livello, sono circa 250 gli incidenti che si verificano ai passaggi a livello, con conseguenze gravi o mortali nel 10% dei casi.

Estratto dell'articolo di Pierluigi Melillo per napoli.repubblica.it il 4 maggio 2023.

"Sei volata in cielo amore mio, sei andata via urlando il mio nome durante una videochiamata", racconta in un video ricordo su Tik Tok l'amica del cuore di Maria Antonietta Cutillo, la 16enne di Montefalcione in Irpinia, morta folgorata dal telefonino caduto nella vasca da bagno. Una morte in diretta video. 

"Quella scena non la dimenticherò mai e poi mai - scrive la ragazza, compagna di banco della vittima - l'ultima chiamata, l'ultima risata insieme, l'ultima scemenza insieme. Ho la tua voce che mi rimbomba in testa mentre urlavi il mio nome, ho i tuoi occhioni verdi davanti, ho la tua risata in mente". E' stata proprio l'amica a lanciare l'allarme e a chiedere aiuto ma non c'è stato nulla da fare. 

[…]

A 24 ore dalla tragedia il piccolo paese di Montefalcione, nell'Avellinese, è ancora sotto choc. Ma sono sconvolti anche i compagni di scuola di Maria Antonietta, che frequentava la seconda F dell'Istituto Alberghiero "Manlio Rossi Doria" di Avellino. Sul suo banco c'è un fascio di fiori bianchi. 

In un messaggio la scuola si rivolge alla giovane vittima: "A te, dolce angelo, va il nostro pensiero e il nostro affetto, un bene tanto naturale da provare per una ragazza seria, solare e benvoluta da tutti, come te".

[…] La Procura della Repubblica di Avellino ha aperto un'inchiesta, nel fascicolo del pm Vincenzo Toscano per ora si ipotizza il reato di omicidio colposo. L'autopsia potrebbe fare luce sulla tragedia di Maria Antonietta.

L'amica la vede morire in videochiamata: "Urlavi il mio nome, ho la tua voce in testa". Maria Antonietta è stata folgorata in vasca da bagno mentre era al cellulare. Il racconto choc dell'amica Fabi che l'ha vista morire in videochiamata. Federico Garau il 4 Maggio 2023 su Il Giornale.

La prematura scomparsa della giovanissima Maria Antonietta Cutillo, morta folgorata nel suo bagno, ha lasciato sotto choc la comunità di Montefalcione, paese in provincia di Avellino. La ragazza, di appena 16 anni, è morta folgorata nella vasca da bagno mentre stava tenendo in mano il cellulare. Una fine drammatica, alla quale ha assistito Fabi, una delle amiche di Antonietta. Fabi era infatti al telefono con lei quando è avvenuta la tragedia.

Il cellulare cade nella vasca, l'amica chiede aiuto: 16enne muore folgorata

Il racconto straziante

È stata proprio Fabi a sentire le grida di Antonietta, e poi a dare l'allarme, avendo compreso che qualcosa di terribile era appena accaduto. In un videoricordo pubblicato su TikTok la giovane rievoca quei momenti atroci, parlando direttamente all'amica che ormai non c'è più.

"Sei volata in cielo amore mio, sei andata via urlando il mio nome durante una videochiamata. Quella scena non la dimenticherò mai e poi mai. L'ultima chiamata, l'ultima risata insieme, l'ultima scemenza insieme è stata oggi piccola mia e mentre parlavi con me è successo ciò. Ho la tua voce che mi rimbomba in testa mentre urlavi il mio nome, ho la scena davanti agli occhi, ho i tuoi occhioni verdi davanti, ho la tua risata in mente", racconta la ragazza nel video. "Era un'amica spettacolare, ora il banco accanto a me sarà vuoto e chiunque si metterà non sarà mai e poi mai te. Mi manchi cuore mio, ti ho davanti ai miei occhi fissa", conclude.

Fabi e Antonietta si trovavano al telefono, in videochiamata, quando qualcosa di irreparabile è accaduto. La giovane è comprensibilmente sotto choc.

Cosa è accaduto

Spetta ora agli inquirenti risalire alle esatte dinamiche che hanno portato alla morte di Antonietta. La ragazzina, come abbiamo detto, stava parlando al telefono con l'amica Fabi mentre si trovava in vasca da bagno.

La tragedia è avvenuta intorno alle 19:30 di ieri, mercoledì 3 maggio. Secondo gli inquirenti, il cellulare era in mano ad Antonietta e collegato al contempo alla presa elettrica tramite il cavo caricabatteria. Può darsi che il dispositivo sia accidentalmente caduto in acqua, scatenando il cortocircuito che ha ucciso la minorenne. Oppure che la giovane abbia toccato la presa elettrica. Tutto è ancora da chiarire. Fra le ipotesi, c'è anche quella che la 16enne stesse cercando di asciugare il telefono con il phon.

Una cosa, purtroppo, è certa. Antonietta è morta folgorata, e la mano che reggeva il cellulare è stata trovata completamente carbonizzata. Il grido di dolore e di aiuto che la ragazzina avrebbe lanciato prima di soccombere è stato raccolto dall'amica, che ha allertato i soccorsi, i quali non hanno però potuto fare nulla.

Le indagini

Ad occuparsi dell'inchiesta sono i carabinieri della Compagnia di Mirabella Eclano, coordinati dal pm Vincenzo Toscano della procura della Repubblica di Avellino. Il corpo di Antonietta è stato trasferito all'ospedale Moscati, dove sarà eseguita l'autopsia.

Oltre alla sofferenza di Fabi, sconvolta per aver visto e sentito l'amica morire dall'altro capo del telefono, c'è anche il dolore della comunità e della scuola. Sul banco di Antonietta, che frequentava l'Istituto alberghiero Manlio Rossi Doria di Avellino è stato lasciato un mazzo di fiori composto da orchidee e gigli.

Studenti e insegnanti si sono poi radunati davanti alla scuola per osservare alcuni momenti di silenzio.

Il drammatico incidente stradale poche ore dopo lo scambio degli anelli. Samantha muore nel giorno del suo matrimonio, travolta da una donna ubriaca: “Ha perso l’amore della sua vita”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 2 Maggio 2023

Il giorno più bello della sua vita è stato anche l’ultimo. Samantha Miller, 34 anni, è morta drammaticamente nel giorno del suo matrimonio. Poche ore prima aveva detto si al suo amato Aric Hutchinson, 36 anni, la festa era appena finita e stavano salendo sulla golf car diretti all’albergo per la loro prima notte di nozze quando un’auto che sfrecciava a grande velocità li ha travolti. Per la sposa non c’è stato nulla da fare: è morta con ancora addosso il suo abito bianco. Il marito è invece finito in ospedale in gravi condizioni. Una tragedia avvenuta nella Carolina del Sud.

Sam aveva atteso per anni quel giorno. Il Mattino ha ricostruito la drammatica vicenda. Quando è arrivato non stava più nella pelle. Lei e il suo Aric si erano scambiati le promesse di amore e terno e poi gli anelli in una commovente cerimonia a Folley Beach. La festa era appena finita e i due stavano per salire su una golf car addobbata con tanto di lattine e cartello “Just married” quando all’improvviso sulla strada è arrivata un’auto a tutta velocità che li ha travolti. Per l’impatto il mezzo è stato distrutto. Samantha è stata colta in pieno. I soccorritori hanno provato invano a rianimarla ma dopo poco non hanno potuto far altro che costatarne la morte. Sam è morta in pochi minuti dopo l’impatto.

Gravemente ferito anche il neosposo e altri due che erano con la coppia. Aric ha riportato diverse fratture ossee e una lesione cerebrale. È stata la mamma dello sposo a raccontare la drammatica storia. “Mi è stato consegnato l’anello nuziale di Aric in un sacchetto di plastica in ospedale, cinque ore dopo che Sam glielo aveva messo al dito e si erano letti a vicenda i loro voti”, ha scritto sua madre. “Aric ha perso l’amore della sua vita”. La sospettata, Jamie Lee Komoroski, 25 anni, è stata fermata dalla polizia ed è accusata di omicidio stradale e altri tre capi d’accusa. La sua macchina viaggiata a velocità alta più del doppio, rispetto al limite consentito. Il sospetto è che la donna si fosse messa al volante ubriaca.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

L’autotrasportatore morto dopo il sì della fidanzata. Va in crociera con la compagna per chiederle di sposarlo: il dramma di Silvio morto per un malore. Redazione su Il Riformista il 2 Maggio 2023 

Era in crociera con la compagna, poche ore prima le aveva chiesto di sposarla e coronare così il sogno di una vita da trascorrere insieme, poi il malore e la morte. È la tragedia che ha visto ‘protagonista’ Silvio Maisti, giovane autotrasportatore 35enne residente a Valmontone, e la sua compagna Valentina, madre di suo figlio di poco più di un anno.

I due, approfittando delle festività di fine aprile, erano partiti per una breve crociera sul Mediterraneo: giorni da trascorrere assieme all’insegna del relax, ma nei piani di Silvio c’era anche quello di “chiedere la mano” della sua compagna.

Un sogno concretizzatosi sabato sera, quando Silvio davanti ai passeggeri della nave e con la complicità dello staff della crociera, ha preso il microfono e ha chiesto a Valentina di sposarlo, consegnandole l’anello tra gli applausi dei presenti.

Poche ore dopo l’euforia e la gioia sono diventate ben altro tipo di sentimenti: durante la notte Silvio, originario di Palestrina ma residente a Valmontone, in provincia di Roma, ha un malore e a nulla sono serviti i tentativi di rianimarlo da parte del medico di bordo. A stroncarlo un arresto cardiocircolatorio. La nave da crociere è rientrata lunedì primo maggio nel porto di Civitavecchia: la salma di Silvio ha potuto così fare ritorno a casa, nella sua Valmonte.

Nella città alle porte di Roma la notizia ha sconvolto la comunità. Tanti i messaggi di cordoglio, in particolare sui social network, dove Silvio era particolarmente attivo postando le foto assieme alla compagna e al figlio avuto lo scorso anno.

“Ti ho sempre considerato come un fratello, mi sembra impossibile credere che il destino ha spezzato la tua giovane vita. Veglia sulla tua famiglia e soprattutto sul tuo principino. Hai lasciato un dolore immenso”, scriva una amica, mentre c’è chi lo ricorda come “un ragazzo dal cuore immenso”.

I parenti di Maisti ora accusano i soccorsi: “Sono stati chiamati subito – ha raccontato al sito Lanuovatribuna.org il suocero di Silvio Maisti, Carlo Triolo, – ma sono arrivati con forte ritardo, quando ormai non c’era più niente da fare“.

Da agenzianova.it il 26 aprile 2023.

Un pensionato indiano di 82 anni, Shivdayal Sharma, è caduto vittima di un singolare incidente ad Alwar, nello Stato settentrionale del Rajasthan. Mentre urinava sui binari della ferrovia che attraversa la città, l’uomo è stato centrato in pieno da una mucca che atterrava dopo un volo di 30 metri causato dall’impatto con un treno espresso della linea Vande Bharat.

L’episodio, avvenuto lo scorso 18 aprile, è stato raccontato dal quotidiano “India Today”, che ha raccolto la testimonianza di un secondo uomo scampato per poco alla medesima morte. 

Ex elettricista della società ferroviaria nazionale, Shivdayal è morto sul posto. In realtà le collisioni tra treni e capi di bestiame in India non sono una rarità: secondo i dati del governo, nel 2022 ne sono avvenute 13 mila, il 24 per cento in più rispetto al 2019. Migliaia infatti sono i pastori che portano il loro bestiame a pascolare pericolosamente nei pressi di linee ferroviarie. 

Questo ha indotto il ministro delle Ferrovie, Aswini Vaishnaw, ad annunciare nel novembre del 2021 la realizzazione di reti di protezione lungo i binari nelle zone in cui simili incidenti sono più frequenti.

Estratto dell'articolo di Pietro Tosca per corriere.it il 28 aprile 2023.  

Per ricordare la mamma, la figlia ha fatto dipingere sulla lastra del loculo un paesaggio con in primo piano un mazzo di fiori che piacevano tanto alla defunta. Succede al cimitero di Calvenzano dove però il Comune, ritenendo la decorazione poco consona, ne ha intimato l’immediata rimozione. Ne è nato un braccio di ferro finito al Tar di Brescia, che alla fine ha dato ragione all’amministrazione comunale.

La vicenda prende avvio a fine maggio del 2021 quando viene a mancare Pierina Pavesi, 89 anni, da sempre residente in paese. […] Per ricordare l’anziana, la figlia decide di rendere particolare la lastra che chiude il sepolcro facendovi incidere e dipingere un paesaggio, uno di quelli tipici della Bassa: un campo verde con il frumento ancora acerbo spazzato dal vento e sopra un cielo azzurro. A ingentilire il tutto in primo piano un mazzo di fiori: calle bianche e girasoli gialli. Un paesaggio per cui la congiunta però non ha chiesto nessuna autorizzazione e l’amministrazione comunale ritiene violi l’armonia del cimitero.

Così il municipio il 6 dicembre emette un’ordinanza in cui dà il termine perentorio di 60 giorni per «rimuovere l’immagine illegittimamente posta sulla lastra e sostituirla, previa richiesta ed ottenimento della dovuta autorizzazione, con altra idonea ed adeguata al contesto». Passano sei mesi e non ricevendo risposta il Comune annuncia agli eredi della defunta un’ordinanza di rimozione facendosi forza dell’articolo 43 del regolamento di polizia mortuaria e cimiteriale comunale che prevede che «le lampade votive, le decorazioni, gli abbellimenti e le iscrizioni da porre sulle lapidi non possono essere eseguite e poste in opera se non dopo aver chiesto ed ottenuto il permesso».

A questo punto la figlia della defunta ricorre al Tribunale amministrativo regionale, il Tar, e chiede l’annullamento dell’atto per eccesso di potere. Il suo legale invoca anche il diritto costituzionale alla libertà di culto sostenendo inoltre che per prassi a Calvenzano l’autorizzazione comunale dell’articolo 43 è sempre stata richiesta solo per le tombe monumentali. La lapide contestata poi non è la sola presente nel camposanto. La figlia della defunta rintraccia altri quattro casi di decorazioni diverse da quelle standard dei colombari.

Tutti argomenti che, però, il collegio giudicante non ritiene dirimenti rispetto al diritto che il Comune si è riservato. Nel regolamento di polizia mortuaria e cimiteriale, è previsto l’articolo 8 che consente all’ente locale di «far rimuovere le ornamentazioni anche provvisorie e temporanee in generale, ogni qualvolta le giudichi indecorose ed in contrasto con l’austerità del luogo», si legge. Da qui la decisione a favore dell’amministrazione.

[…]

A 5 anni uccide anziana. Ma il fato non è reato. Se proviamo a immaginare la scena al rallentatore, scomponendo i "frame", riusciamo a osservare la tempesta perfetta mentre si compone all'orizzonte. Valeria Braghieri il 15 aprile 2023 su Il Giornale.

Se proviamo a immaginare la scena al rallentatore, scomponendo i «frame», riusciamo a osservare la tempesta perfetta mentre si compone all'orizzonte. Il bimbetto di cinque anni a cavallo della sua bici per la prima volta senza rotelle, il papà che letteralmente lo spinge all'indipendenza, lo battezza all'autonomia con quell'ampio gesto delle braccia che sta nella memoria di qualsiasi genitore. Nello stesso viale alberato del parco, ma in direzione opposta, la passeggiata di due anziane amiche. Si sorreggono, chiacchierano, vanno lente prendendo fiato. Il bimbo sulla sua bicicletta conquista il ghiaietto all'ombra delle foglie: dondola, si inclina, appoggia i piedi a terra ma riprende fiducia e prosegue la sua stentata corsa nella direzione delle due signore. Ed è proprio lì vicino a loro che perde il controllo, sbanda, non tiene la direzione. Ed è proprio lì che vorremmo fermare la scena o correggere la traiettoria di quel minuscolo mezzo, basterebbero pochi centimetri per cambiare tutto: «Sliding Doors». Invece il bambino urta una delle due donne (di 87 anni) che cade a terra. Lì per lì non sembra nulla di grave ma in ospedale muore. Il primo frame è quello di una favola, l'ultimo è quello di un film dell'orrore. In mezzo ci sta l'imponderabile, l'incontrollabile e anche, concediamocelo, la Malasorte. Ma il Codice penale non ammette lacune. Quindi perfino un caso come questo è normato e adesso il papà del bimbo è accusato di omicidio colposo e rischia di dover pagare un risarcimento di 200mila euro. La giustizia per forza. Anche quando non c'è nulla che dirimere possa sistemare o ripagare davvero. C'è un atroce danno senza una reale colpa. Le prove di «volo» di un bimbo, la traiettoria casuale, il momento sbagliato, la Malasorte che ha messo tutto inconcepibilmente assieme.

Estratto dell’articolo di Leonardo Iannacci per “Libero quotidiano” il 26 gennaio 2023.

Anche lo sport può uccidere? Sì, la risposta è agghiacciante ma vera. […] Il panorama delle discipline racconta storie di decessi improvvisi durante l’attività sportiva.[…]

 Nel motorsport, i cimiteri di tutto il mondo sono pieni di lapidi che vanno dalla A di Ascari sino alla S di Ayrton Senna e Simoncelli, fino alla V di Villeneuve. Ma qui un decesso è nell’alea di rischio che un pilota, di auto o di moto, assume quando inizia. Stesso discorso per la motonautica, disciplina dove trovò la morte Didier Pironi, ex pilota della Ferrari in F.1, scomparso in un incidente durante una gara in mare.

Letali per l’incolumità degli atleti sono discipline come il football americano, la boxe e tutti gli sport di contatto. Ma anche il ciclismo, il basket e l’atletica, da quando abbonda il doping. Improvvisa e sospetta fu la morte nel sonno, a soli 38 anni, di Florence Griffith-Joyner, velocista statunitense dai muscoli misteriosamente gonfiati e dalle unghie simili a coltelli. Questa culturista venduta all’atletica vinse l'oro alle Olimpiadi di Seul 1988, poi volò in cielo.

Dossier ciclismo: pochi giorni fa il 40enne Lieuwe Westra, gregario di Nibali durante il trionfale Tour de France 2014, è stato trovato morto in circostanze misteriose. Ultimamente aveva ammesso di essere schiavo del doping che l’aveva portato a disturbi mentali e a forti depressioni. […] Tacendo su Marco Pantani, del quale sappiamo tutto e niente riguardo alla scomparsa, è lunga la lista dei ciclisti morti in gara ma per incidenti fatali: ricordiamo l’italiano Fabio Casartelli che, dopo l’oro vinto alle Olimpiadi di Barcellona 1992, perse la vita lungo la discesa del Colle di Porte d’Aspet affrontata a velocità folle durante il Tour de France 1995.

Fausto Coppi e Gino Bartali, pochi lo sanno, furono accomunati da un tragico destino: Giulio Bartali e Serse Coppi, i loro fratelli anch’essi ciclisti, perirono in seguito a due incidenti simili in gara. Serse, che aveva vinto da poco una Roubaix, si fracassò la testa durante una caduta in una Milano-Torino Atleti controllati da èquipe di medici di livello ma esposti alla falce del destino sono periti su un campo da calcio. Una delle esperienze più tragiche resta quella di Renato Curi mentre si giocava Perugia-Juventus, il 30 ottobre 1977. Il centrocampista della squadra umbra morì mentre inseguiva un pallone, stroncato da un arresto cardiaco.

Aveva 24 anni. Piermario Morosini morì durante un Pescara-Livorno: una malattia ereditaria, la cardiomiopatia aritmogena lo fulminò sul prato verde. Venne aperta un’inchiesta per il mancato uso del defibrillatore in campo. Prima di un Udinese-Fiorentina la stessa patologia ha portato via, ma in una camera d’albergo, Davide Astori.

 […] Lo sport di squadra che negli ultimi tempi ha registrato più vittime è stato il football americano: una disciplina dura, cruenta nella quale i contatti sono violenti e a poco servono le protezioni e i caschi indossati dagli atleti. […]

Ne aveva 27 Korey Stringer, campione dei Minnesota Vikings, quando spirò durante un drammatico training-camp con il sole a picco: gli scoppiò il cervello. Mike Webster, asso dei Pittsburgh Steelers alla cui guida vinse 4 Superbowl, morì per un’encefalopatia traumatica cronica dovuta ai ripetuti colpi alla testa, malattia poi denominata CTE, caratteristica anche di sport quali il pugilato.

 […] Il grande Muhammed Alì, come dimenticarlo, visse gli ultimi 30 anni della sua vita in preda al Morbo di Parkinson causato dalle tremende botte alla testa. […]

Fulvio Oscar Fuso, chi è l'uomo 'morto' al Fatebenefratelli: "Scusate, è vivo". Giuli Bonezzi e Marianna Vazzana su Il Giorno il 12 Gennaio 2023.

Il 64enne di Sannicola (Lecce) è all'ospedale di Milano per delle cure. Perde il cellulare e interrompe i contatti. I parenti vengono avvisati della presunta scomparsa con una mail, poi il chiarimento e le scuse

Milano, 12 gennaio 2023 - Dato per morto il 5 gennaio, è "risorto" il 9. In mezzo, quattro giorni di lutto con preparativi per il viaggio dei parenti dal Salento a Milano "per riconoscere la salma" e la telefonata all’impresa di pompe funebri per i funerali. Poi il sollievo una volta chiarito l’equivoco: Fulvio Oscar Fuso, 64enne di Sannicola, della provincia di Lecce, è vivo. Ma anche la rabbia per aver ricevuto ufficialmente una "notizia terribile", non vera. La storia del morto-non morto è un fatto di cronaca che genera dibattito. "Neanche Kafka" sottinteso, è arrivato a tanto nei suoi racconti paradossali, è uno dei tanti commenti apparsi sui social. Un parente scrive che "non è bello ricevere le condoglianze e chiedere perché".

Il viaggio e il messaggio

Ma com’è potuto succedere? Rita, amica dell’uomo suo malgrado protagonista, parte dal principio. La premessa è che il 64enne soffre di una grave malattia "e dopo essere stato visitato in due ospedali pugliesi aveva intenzione di chiedere una diagnosi a Milano. Città in cui ha vissuto per tanti anni". Single, ha lavorato una vita come rappresentante di commercio abitando in diverse città e anche all’estero, per poi tornare nella terra natìa una volta in pensione. "Il 19 dicembre lo abbiamo accompagnato a Lecce, a prendere il pullman verso Milano". Tutto bene fino al giorno successivo, "quando mi ha scritto un messaggio: tutto a posto, sto andando a dormire".

Il ricovero e la Pec

Poi, il nulla. Parenti e amici non potevano sapere che l’uomo aveva smarrito il telefono e che di conseguenza non poteva più contattarli. Il 22 dicembre, stando a quanto risulta al Giorno , si è presentato al pronto soccorso dell’ospedale Fatebenefratelli dove è poi stato ricoverato. Una persona sola, non accompagnata da nessuno, e senza cellulare: per prassi, fanno sapere dall’ospedale, in questi casi si compila il "modulo di ricerca parenti" da inoltrare alla Questura. E così è stato fatto. Poi, l’errore umano: nella pec inviata al Comune di Sannicola dal commissariato Garibaldi-Venezia è stato scritto "Decesso di Fulvio Oscar Fuso" chiedendo di verificare se nel territorio vi fossero "parenti del defunto" che potessero riconoscere la salma. Comunicazione che i parenti hanno ricevuto il 5 gennaio, giorno prefestivo.

Pompe funebri e chiarimento

"Nessuno poteva pensare fosse vivo. Il fratello ha contattato le pompe funebri e si stava preparando a partire con altri parenti", continua Rita. Il chiarimento è arrivato dopo il ponte dell’Epifania, lunedì 9. La Questura di Milano si è quindi scusata e si è messa a disposizione della famiglia, "ha rintracciato il fratello del signor Fuso e ha chiesto scusa per l’equivoco – conclude l’amica –. L’abbiamo pianto per morto e invece il morto era vivo". Il 64enne è ancora ricoverato al Fatebenefratelli. Vivo.

Da lastampa.it l’11 gennaio 2023.

Avevano già avviato i preparativi per la cremazione della salma, l'allestimento della camera ardente e il funerale, ma Fulvio – 64enne di Sannicola, nel Salento – era vivo, ricoverato all'ospedale Fatebenefratelli di Milano, contrariamente a quanto comunicato dalla questura del capoluogo lombardo al municipio del paese di residenza dell'uomo tramite una Pec. 

 L’uomo era giunto a Milano per curare una malattia di cui soffre da tempo, ma da alcuni giorni non rispondeva più al cellulare, gettando nell’ansia i parenti, che hanno tentato di rintracciarlo in ogni modo, fino ad arrivare a chiamare la questura di Milano. E quest’ultima ha, per errore, comunicato ai parenti la morte del loro caro. 

In realtà Fulvio era vivo, ricoverato nell’ospedale milanese, e non rispondeva più al telefono perché lo aveva smarrito. I famigliari, secondo quanto raccontato dal sindaco di Sannicola, avrebbero ricevuto solo il 9 gennaio la notizia che l'uomo era vivo e che il contenuto della Pec, inviata il 4 gennaio al Comune di Sannicola, era da considerarsi errato.

Sempre secondo il sindaco, Cosimo Piccione, l’errore sarebbe derivato da un rimbalzo di responsabilità tra polizia e ospedale. «Una storia grottesca che non doveva accadere – conclude il sindaco – perché qui si parla della vita di un uomo e delle conseguenze di una notizia così drammatica, ma non vera, che ha scosso una intera famiglia».

«È morto», i parenti lo piangono ma poi scoprono che è vivo: l'assurda storia di un salentino a Milano. L'uomo, 64 anni, non è riuscito ad avvertire nessuno del suo ricovero in ospedale, per curare una patologia pregressa, perché in viaggio ha perso il cellulare. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 10 Gennaio 2023.

Morto, per giorni. Ma in realtà è vivo, ricoverato in ospedale a Milano, al Fatebenefratelli, per problemi di salute già esistenti, ma vivo e vegeto. È la storia assurda di un 64enne salentino, di Sannicola, che era partito a metà dicembre al Nord per curare una patologia da cui è affetto da tempo. Solo che, dopo qualche giorno e qualche messaggio agli amici, il suo telefono ha improvvisamente smesso di funzionare. Muto, irraggiungibile. E dalla Questura di Milano arriva la notizia del suo decesso, in una pec in cui si chiedeva al comune di Sannicola di verificare se nel territorio di competenza risiedessero parenti del deceduto al fine di consentire l’effettuazione del riconoscimento della salma. Tanto dolore per i familiari dell'uomo, che si è trasformato poi in grande gioia quando hanno scoperto che c'era stato un errore, una leggerezza da parte di chi aveva inviato quella pec. L'uomo è vivo, ancora in ospedale per curarsi, e non aveva fatto in tempo ad avvisare parenti e amici al telefono semplicemente perché l'aveva perso. Tutto è bene quel che finisce bene.

L’Accanimento Terapeutico e l’Ipocrisia.

Il Suicidio.

Le Imprese funebri.

La Sedazione.

Suicidio assistito.

L’Accanimento Terapeutico e l’Ipocrisia.

Il Bestiario, il Giudicigno. Il Giudicigno è un animale leggendario che in nome della legge ordina le peggiori ingiustizie. Giovanni Zola il 16 Novembre 2023 su Il Giornale.

Il Giudicigno è un essere mitologico, un semi dio anglosassone, con il potere di concedere la vita o sopprimere chi non ritiene degno di esistere tramite una formula della neo lingua che recita “per il miglior interesse” della persona, perché “al fine di cagionare la morte di un uomo” suonava brutto. Per quanto il Giudicigno decida all’interno delle norme di legge, le sue sentenze apportano, in alcuni casi, dolore indicibile ai parenti più stretti contrari a tali pratiche e intenzionati ad accompagnare i figli con amore e compassione nelle loro gravi difficoltà e alla fine naturale dell’esistenza terrena che neanche il semi dio Giudicigno può prevedere.

Ecco la dichiarazione del padre dell’ultimo caso conosciuto a tutti dopo la privazione di cure della figlia Indi di otto mesi affetta da una grave malattia: “Io e mia moglie Claire siamo arrabbiati, affranti e pieni di vergogna. Il servizio sanitario nazionale e i tribunali non solo le hanno tolto la possibilità di vivere, ma le hanno tolto anche la dignità di morire nella sua casa. Sono riusciti a prendere il corpo e la dignità di Indi, ma non potranno mai prendere la sua anima”. Così è terminata la breve storia terrena della piccola Indi che ha commosso gli esseri ancora umani e ha lasciato indifferente il Giudicigno.

Alcuni ricercatori hanno provato a comprendere da dove provenga tale mentalità mortifera e impietosa con risultati sbalorditivi. La pratica della soppressione delle persone il cui sostentamento dipende dalla tecnologia proviene, partendo da lontano ma non troppo, dall’”igiene ecologista”. Tutto ciò che consuma inquina. Le macchine utilizzate per mantenere in vita una persona “inutile” non sono sostenibili. Già siamo a conoscenza della volontà di azzerare la mobilità privata, spendere decine di migliaia di euro per rendere ecologiche le case di proprietà, pena il deprezzamento, parola chiave per i grandi fondi immobiliari pronti ad acquistare a prezzi irrisori. Cancellare la proprietà privata per eliminare l’unica risorsa di ricchezza dei risparmiatori. Il potere è controllo. Così non stupisce che il Giudicigno arrivi ad espropriare persino la famiglia del suo bene supremo quando è considerato un rifiuto inquinante. In definitiva l’eliminazione di persone non autosufficienti è originata dal cambiamento climatico di cui l’uomo è artefice. La patria potestà di proteggere, educare, istruire e curare i figli è stata confiscata imponendo il potere assoluto dello Stato non solo nella sfera economica, ma anche in quella più profondamente affettiva. In questo senso gli stessi ricercatori propongono di riformulare la definizione della democrazia attuale.

Il Giudicigno sembrerebbe aver vinto su tutti i fronti tanto da rispondere alla richiesta del console italiano che aveva chiesto la cessione della giurisdizione di Indi per proseguire le cure: “Visto che ormai è deceduta penso che non voglia più procedere...", ma non è così. Ancora una volta ci vengono in aiuto le parole del padre di Indi, Dean Gregory, in una intervista rilasciata a La Nuova Bussola Quotidiana: “Non sono religioso e non sono battezzato. Ma quando ero in tribunale mi sembrava di essere stato trascinato all'inferno. Ho pensato che se l'inferno esiste, allora deve esistere anche il paradiso. Era come se il diavolo fosse lì. Ho pensato che se esiste il diavolo allora deve esistere Dio. Una volontaria cristiana visitava ogni giorno il reparto di terapia intensiva e mi ha detto che il battesimo ti protegge e ti apre la porta del paradiso. (…) Ho visto com'è l'inferno e voglio che Indi vada in paradiso. Anzi, ho deciso che anche io e mia figlia dovremmo battezzarci. Vogliamo essere protetti in questa vita e andare in paradiso”.

La vicenda del neonato morto dopo un mese di vita. Il piccolo Ettore lasciato morire dallo Stato: colpito da Sma, tradito dalle terapie non effettuate. Il neonato aveva l’atrofia muscolare spinale, ma non ha avuto accesso alle cure Lo Stato non gli ha assicurato ciò che è nel potere della scienza per curarlo. Lisa Noja su Il Riformista il 12 Novembre 2023

Ettore è nato il 3 ottobre. La vita è stata crudele con lui, fin dall’inizio. Perché Ettore aveva l’atrofia muscolare spinale (SMA), la malattia genetica rara da cui sono affetta anche io. La SMA compromette le funzionalità motorie e, nella sua forma più grave, quella che ha colpito Ettore, già nelle primissime settimane di vita provoca gravi e progressivi segni di insufficienza respiratoria che possono portare alla morte. Grazie alla ricerca scientifica, però, se la malattia di Ettore fosse stata diagnosticata nei primi giorni di vita, forse lui sarebbe ancora qui con noi. E, invece, è mancato il 6 novembre. Perché non solo la vita è stata crudele con Ettore. Lo sono state anche le istituzioni del nostro Paese che da anni non fanno ciò che è loro dovere fare, ossia garantire a tutti i neonati con la SMA di poter ricevere tempestivamente le cure migliori di cui oggi disponiamo.

La scienza ci ha donato il miracolo di terapie (come quella genica) che salvano la vita dei bambini affetti dalle forme più gravi di SMA e che modificano il corso clinico della patologia con risultati straordinari. Bambini che, fino a pochi anni fa, sarebbero stati condannati a muoversi su una sedia a rotelle e a convivere con una disabilità grave, come è accaduto a me, grazie a quelle cure camminano e corrono come tutti gli altri bimbi. Ettore non ha avuto accesso a quelle opportunità, perché è nato in una Regione – il Veneto – che, a differenza di altre, non ha ancora incluso la SMA tra le malattie ricercate con lo Screening Neonatale Esteso (SNE), ossia il set di esami effettuati su tutti i nuovi nati entro poche ore dalla nascita. Un piccolo prelievo di sangue che consente in poco più di 48 ore di sapere se quel neonato è positivo alle malattie ricercate e quindi di procedere immediatamente con i test di conferma diagnostica e di avviare tempestivamente tutte le cure necessarie. Nessuno può dire con assoluta certezza se Ettore si sarebbe salvato, qualora fosse stato sottoposto allo screening per la SMA.

Possiamo, però, affermare con sicurezza che è stato privato di una diagnosi precoce e che, quando, dopo un mese di agonia, finalmente è stato preso in carico da un centro specializzato per la SMA, ormai era troppo tardi: il bimbo era stremato e non era più possibile somministrargli le terapie che oggi esistono. La verità è, quindi, che lo Stato non ha assicurato ad Ettore ciò che è attualmente nel potere della scienza per curarlo e questa è una colpa umana senza possibilità di assoluzione. Sono cinque anni che, insieme a Famiglie SMA e a tante altre associazioni di malati rare, chiediamo di includere la SMA nello SNE nazionale, per garantire a tutti i bambini che nascono nel nostro Paese di essere curati in tempo. Anni in cui il Parlamento ha approvato miei emendamenti che hanno chiarito il quadro normativo e stanziato i fondi necessari. Anni in cui io e altri parlamentari abbiamo presentato continue interrogazioni per chiedere di fare presto. Anni in cui in ogni convegno, evento, intervista ho chiesto, supplicato il Ministero della Salute dei vari esecutivi succedutisi nel tempo di adottare quel decreto già pronto, raccomandato dalla comunità scientifica, invocato da tutte le associazioni di malati rari, necessario per avere lo screening neonatale per la SMA in tutte le Regioni italiane. Anni in cui ho sempre ripetuto che stavamo rischiando di perdere vite umane salvabili.

Il 6 novembre abbiamo perso Ettore e ci siamo resi colpevoli di un delitto imperdonabile. Uso il noi perché chiunque sia nelle istituzioni deve sentirsi responsabile di questa vergogna indelebile verso quel bimbo e la sua famiglia. Penso che avrei dovuto urlare di più, arrabbiarmi di più e provo un dolore straziante perché la vita può essere crudele, persino con un piccolino di poco più di un mese. Uno Stato degno di questo nome no. E non può esserci impedimento giuridico o tecnico-amministrativo che giustifichi una tale crudeltà, che è ancora più grave, perché frutto di una sciatteria ritardataria senza ragione alcuna. Quasi due mesi fa, alla Festa nazionale di Italia Viva, col cuore in mano, chiesi al Ministro Schillaci di adottare finalmente il decreto sullo screening nazionale per la SMA. Si prese un impegno. Se fosse stato onorato in tempo, forse il papà e la mamma di Ettore oggi non piangerebbero il loro piccolo. In questo momento, in Italia, ci sono tanti papà e tante mamme che stanno aspettando la nascita dei loro bambini. Devono sapere che, a seconda della Regione in cui nascerà loro figlio, rischiano di essere privati delle stesse possibilità di diagnosi e cura negata a Ettore. Ciò non può accadere. Per questo, con il cuore pieno di dolore e di rabbia, chiedo al Ministro della Salute e al Governo Meloni di agire oggi, subito. Abbiamo tradito Ettore, la sua mamma e il suo papà. Cerchiamo almeno di restituire un minimo di senso alla politica. Non c’è più tempo, non c’è più spazio per le parole, per le scuse, per le attese. C’è solo il dovere di fare ora ciò che andava fatto per Ettore e che va fatto immediatamente per tutti i neonati del nostro Paese. Lisa Noja 

"Giochi di potere e veti incrociati ledono il diritto alla salute". Terapie Sma negate, la denuncia di Anita Pallara: “Ettore poteva salvarsi, ma è nato nella regione sbagliata d’Italia”. Annarita Digiorgio su Il Riformista il 12 Novembre 2023

Anita Pallara è presidente di FamiglieSMA, associazione di genitori e persone affette da SMA che da oltre 10 anni è in prima linea per migliorare la qualità della vita e garantire le migliori cure possibili a tutte le persone con questa patologia.

Che è successo al piccolo Ettore?

«Io ho appena parlato con il papà, che era distrutto. E non poteva credere al fatto che suo figlio dopo 35 giorni di vita non ci fosse più solo perché ha avuto la sfortuna di nascere nella parte sbagliata del mondo, anzi, nella regione sbagliata d’Italia. In Veneto, dove la Regione non prevede lo screening neonatale che gli avrebbe salvato la vita. Ettore è morto perché aveva la Sma, ma se fosse nato in una delle regioni che fanno lo screening, oggi sarebbe ancora vivo. E questo non è giusto. Il bambino è venuto a mancare perché la diagnosi è arrivata a un mese dalla nascita, e per lui era troppo tardi».

Quindi si poteva salvare?

«Quello che ci fa arrabbiare tantissimo è che ad oggi abbiamo la possibilità di avere tre terapie e la prova scientifica che se somministrate nei primi giorni di vita cambiano radicalmente gli effetti della patologia. Per questo notizie come questa ci lasciano rammaricati. Mancando l’obbligatorietà a livello statale e il decreto attuativo dell’aggiornamento dei Lea che estende gli screening per la Sma, alcune regioni si sono mosse singolarmente come la Lombardia, altre no».

Perché lo screening è cosi fondamentale?

«Bambini a cui è stata somministrata la terapia nei primi giorni di vita, ora dopo un anno muovono i primi passi. A parità di patologia, individuarla e curarla nei primi giorni fa la differenza sostanziale».

Da quando è possibile fare gli screening?

«Dal 2019. E individuata la malattia abbiamo tre terapie, una genica e due farmacologiche, che hanno dimostrato la loro efficacia e sicurezza. Abbiamo superato tutte le fasi, manca da oltre due anni solo la firma del ministero. Ma né Speranza né Schillaci vogliono firmare».

Per ragioni burocratiche?

«No. La motivazione è totalmente politica. Anzi, è mancanza di volontà politica. Trasversale. Abbiamo attraversato tre governi e nessuno si è preso la briga di firmare un decreto che cambierebbe radicalmente la vita delle persone e in alcuni casi ne impedirebbe la morte».

Secondo te perché non firmano?

«Per veti incrociati in Conferenza Stato-Regioni. E perché una parte di genetisti e malati rari preferisce che la Sma non entri negli screening per aspettare di allargare il panel ad altre patologie. Ma questi sono giochi di potere che ledono un diritto costituzionale alla salute. È ampiamente dimostrato che lo screening consente la possibilità di vivere, non farlo è un’azione criminale.

È un test invasivo?

«Assolutamente no, è lo stesso test che viene effettuato alla nascita di ogni bambino. Un prelievo di sangue e dalla stessa goccia permette di ricevere anche lo screening per la Sma. Un test semplicissimo che non ha un costo aggiuntivo ma che consente al bambino di essere curato senza sviluppare la patologia grave, quindi anche brutalmente, un costo in meno per il servizio sanitario». Annarita Digiorgio

La morte di Indi, perché si è negato il diritto alla “seconda opinione”? Storia di Assuntina Morresi su Avvenire lunedì 13 novembre 2023.

Si sarebbe potuto evitare un epilogo tanto doloroso e lacerante, se valutando la condizione della piccola Indi Gregory si fossero adottati criteri bioeticamente consolidati, come ad esempio quelli indicati dal Comitato nazionale per la bioetica (Cnb) in una mozione approvata il 30 gennaio 2020: «Accanimento clinico o ostinazione irragionevole dei trattamenti sui bambini piccoli con limitate aspettative di vita». Nel testo si sottolinea la necessità di astenersi da trattamenti inutili e sproporzionati e si delinea una sorta di “road map” metodologica per affrontare queste situazioni, che vanno necessariamente affrontate caso per caso. Fra le indicazioni condivise dal Comitato spicca quella sulla seconda opinione, dove il Cnb raccomanda di «consentire una eventuale seconda opinione, rispetto a quella dell’équipe che per prima ha preso in carico il bambino, se richiesta dai genitori o dall’équipe curante, garantendo, in condizione di autorevolezza scientifica, la libertà di scelta dei genitori, tenuto conto del primario interesse del figlio. L’auspicio del Cnb è che «le due opinioni possano dare maggiore certezza della identificazione dell’accanimento clinico e una maggiore condivisione nell’iniziare o continuare o sospendere i trattamenti in corso».

Si tratta di una articolazione del concetto di libertà di cura: ogni paziente, purché informato, ha diritto di scegliere i trattamenti medici a cui sottoporsi. Se il paziente non può esprimere il proprio consenso lo farà chi ne esercita la responsabilità legale. Soprattutto in questo caso devono essere garantiti trattamenti sanitari appropriati e riconosciuti dalla comunità scientifica: nessuno, specie chi non può dare liberamente il proprio consenso, deve essere privato delle terapie più adeguate, magari per ricorrere a oscure alternative nell’illusione di guarigioni impossibili. Per i minori sono previste particolari tutele, che possono arrivare alla decisione di un giudice in contrasto con la volontà dei genitori: è quel che può accadere anche nel nostro Paese, nel caso ad esempio dei figli dei testimoni di Geova, quando si pone la necessità di trasfusioni di sangue in situazioni di pericolo di vita.

Il problema, quindi, non è “chi” decide, se giudici o genitori, ma “cosa” si decide riguardo a questi piccoli pazienti senza prospettive di guarigione. La questione della seconda opinione si inserisce prima del ricorso al tribunale proprio per evitare il contenzioso giudiziario, che deve restare l’extrema ratio: i genitori di un bambino devono poter chiedere un ulteriore parere rispetto a quello dei medici curanti, ed eventualmente poter cambiare l’équipe medica di riferimento per le cure del proprio figlio, purché a parità di autorevolezza scientifica. E la situazione di Indi Gregory era proprio questa, descritta dal Cnb: i genitori avrebbero voluto trasferirla in uno dei migliori ospedali pediatrici del mondo, il Bambino Gesù a Roma, perché ritenevano che il percorso proposto dai clinici italiani fosse più adeguato per la loro figlia. Non è stata messa in dubbio la diagnosi dei medici inglesi e nessuno ha parlato di terapie salvavita: era stato prospettato un modo diverso di assistere la bambina in quel che restava della sua breve vita.

Si tratta di un’opzione che non dovrebbe essere oggetto di decisione di un tribunale: per quale motivo deve essere lo Stato a scegliere dove curare i malati, specie quando non possono esprimere il proprio consenso, se le alternative sono equivalenti dal punto di vista delle competenze professionali dei medici interpellati? Dal punto di vista bioetico è stato quindi francamente inspiegabile il divieto di trasferimento della piccola in Italia. Un orientamento ancora più incomprensibile nel nostro tempo, quando l’autodeterminazione viene indicata come criterio principale per ogni decisione individuale: proprio recenti campagne per l’eutanasia adottano come slogan “Liberi fino alla fine”. Forse non vale sempre? O forse si ritiene che nel caso di malattie inguaribili a prognosi infausta, come quella della piccola Indi, anziché considerare appropriatezza e proporzionalità dei trattamenti, anche salvavita, e discutere di libertà di scelta, siano in gioco altri, differenti criteri di valutazione? Per esempio se vale veramente la pena prendersi cura di questi malati, e fino a che punto, considerando magari il lato economico?

La piccola Indi Gregory è morta. Il padre: "Siamo arrabbiati, affranti e pieni di vergogna". Lorenzo Morelli il 13 Novembre 2023 su Il Giornale.

Indi Gregory è morta. A comunicarlo è stato Dean Gregory, papà della bambina di 8 mesi affetta da una grave patologia mitocondriale, a cui il 6 novembre il governo Meloni ha concesso la cittadinanza per consentirle di essere trasferita al Bambin Gesù di Roma. A nulla è servita la lunga battaglia legale intrapresa dai genitori. La piccola ha lottato dopo l’estubazione fino a stanotte poi la dichiarazione ufficiale: "Mia figlia è morta, la mia vita è finita all’1.45", ha detto Dean. "Io e mia moglie Claire siamo arrabbiati, affranti e pieni di vergogna. Il servizio sanitario e i tribunali non solo le hanno tolto la possibilità di vivere, ma anche la dignità di morire nella sua casa. Sono riusciti a prendere il corpo e la dignità di Indi, ma non potranno mai prendere la sua anima".

Venerdì 10 novembre le corti del Regno Unito avevano disposto lo stop ai trattamenti vitali e il trasferimento in un hospice. Dopo l’estubazione e il trasferimento in un hospice su ordine del giudice dell’Akta Corte inglese la piccola Aveva smesso di respirare. "Poi la piccola guerriera si è ripresa e stava lottando, assistita con amore e coraggio da mamma e papà. Durante la notte ha avuto stress e affaticamento", ha raccontato su X Simone Pillon, il legale che ha seguito in Italia la famiglia della piccola Indi. "Sapevo che era speciale dal giorno in cui è nata, hanno cercato di sbarazzarsi di lei senza che nessuno lo sapesse, ma io e Claire ci siamo assicurati che sarebbe stata ricordata per sempre", ha aggiunto l'uomo in una dichiarazione all'agenzia LaPresse.

Indi Gregory: appello rifiutato. Lunedì stop ai macchinari che la tengono in vita. Eleonora Ciaffoloni su L'Identità il 10 Novembre 2023

Non è bastato il ricorso presentato dai legali e dai genitori: l’appello per tenere in vita Indi Gregory è stato rifiutato. I giudici dell’Alta Corte inglese hanno respinto la richiesta dei genitori sia per quanto riguarda il trasferimento dal Queen’s Medical Center di Nottingham, sia per trasferirla nel nostro Paese e hanno confermato la decisione, rimandandola a lunedì, di far fermare le macchine che la tengono in vita.

La notizia arriva da Jacopo Coghe, portavoce di Pro Vita & Famiglia onlus, e dall’avvocato Simone Pillon, che stanno seguendo gli sviluppi del lato italiano della vicenda in contatto con i legali inglesi e la famiglia della piccola.

Nella giornata di oggi si è discusso in udienza anche un altro aspetto che poteva cambiare la sorte della piccola e cioè la possibilità di trasferire la giurisdizione del caso della piccola dal giudice britannico che ha in mano il fascicolo, alla giurisdizione italiana che avrebbe più facilmente permesso il trasferimento a Roma.

L’ospedale Bambino Gesù di Roma, infatti, si era offerto di accogliere la bambina di 8 mesi, malata terminale, affetta da una grave malattia mitocondriale definita incurabile dai medici, per poterla mantenere in vita seguendo la volontà dei genitori. I medici che curano Indi al Queen’s Medical Center di Nottingham avevano ribadito di non poter fare altro per lei. I genitori avevano chiesto che potesse tornare nella loro casa a Ilkeston, nel Derbyshire. Un’opzione che non è stata ritenuta praticabile.

Per poterla trasferire in Italia, per le cure, lunedì il Cdm convocato d’urgenza aveva concesso la cittadinanza italiana a Indi Gregory. Provvedimento che, tuttavia, non è servito a far cambiare idea ai giudici britannici, che sono rimasti fermi su quanto già deciso.

Il destino di Indi appeso a un rinvio: oggi la decisione della Corte Inglese. Eleonora Ciaffoloni su L'Identità il 10 Novembre 2023

Il destino di Indi Gregory è appeso al filo di un rinvio. Si saprà oggi alle 17.30, al termine dell’udienza, quale sarà la sorte della piccola. La decisione della Corte inglese verterà sulla possibilità di trasferire la giurisdizione del caso della piccola al giudice italiano.

La bambina inglese di appena otto mesi affetta da una grave malattia mitocondriale – definita dai medici incurabile – è diventata suo malgrado, la protagonista di un caso legale fra Italia e Regno Unito. Lunedì la piccola aveva ricevuto la cittadinanza italiana con un provvedimento “umanitario” di urgenza del governo Meloni, dopo che l’ospedale Bambino Gesù di Roma si era offerto di continuare ad assisterla nelle cure. O meglio, assisterla in quelli che potrebbero essere gli ultimi giorni insieme alla sua famiglia. La piccola è in una fase terminale della malattia e, proprio per questo motivo, l’Alta Corte britannica ha deciso – per lei e per i genitori – di interrompere le cure e quindi staccare le macchine che la tengono in vita, dando anche un limite temporale che era stato fissato alle ore 14 (le 15 italiane) di ieri.

La decisione è stata adottata dal giudice Robert Peel, dell’Alta Corte di Londra, magistrato a cui il caso è stato affidato nelle ultime settimane, nel Regno Unito. Da parte dei giudici, era stata esclusa per l’infante la possibilità di continuare a essere accolta e curata nel nostro Paese – il provvedimento di concessione della cittadinanza non ha prodotto per il momento effetti sulla procedura giudiziaria britannica – nonostante la presa di posizione del console italiano a Manchester, che si era dichiarato lo scorso 7 novembre giudice tutelare della bimba. Non solo era stato negato il trasferimento all’esto, ma era stata anche negata ai genitori la possibilità di portare la figlia a casa. Come anticipato, il magistrato Peel ha stabilito come non sia “nel miglior interesse” di Indi un trasferimento in casa, soluzione che i genitori avrebbero preferito anche come alternativa al trasferimento al Bambino Gesù di Roma, precedentemente bloccato. Il giudice aveva invitato la famiglia a lasciare Indi nel Queen’s Medical Centre di Nottingham, dov’è attualmente ricoverata. Una decisione non condivisa dai genitori di Indi che, immediatamente, hanno presentato il ricorso nella mattinata di ieri alle ore 11. I cosiddetti tempi tecnici, sia per la presentazione del ricorso sia per la discussione, hanno fatto slittare la cessazione delle macchine salvavita a due ore dopo l’orario concordato e quindi alle ore 17 italiane.

Nulla di fatto, tuttavia, nemmeno due ore dopo: Indi Gregory è ancora viva. Per lei è arrivato, dopo la proroga, il rinvio a 24 ore. Sembra doversi decidere, difatti, proprio in queste ore il destino della piccola e della sua famiglia. I legali dei genitori di Indi Gregory hanno annunciato che alle 13 di oggi sarà discusso l’appello sulla possibilità di trasferire la giurisdizione del caso della piccola al giudice italiano, garantendo in questo lasso di tempo l’attività delle macchine per le cure vitali, almeno fino alla fine dell’udienza.

A confermarlo sono stati Jacopo Coghe, portavoce di Pro Vita & Famiglia onlus e l’avvocato Simone Pillon. “Pensiamo che sia nel miglior interesse di Indi venire in Italia per ricevere le cure che potrebbero aiutarla a respirare, aprendo una valvola attraverso l’impianto di uno stent, per poi poterci concentrare sulla sua malattia mitocondriale che può essere trattata con queste terapie” avevano dichiarato i genitori, pur consapevoli di essere di fronte a una malattia fatale.

La forza di un padre e quella di una bambina, però, sono tutti qui, nell’ultima speranza di un genitore: “Sappiamo che Indi è una combattente, lei vuole vivere, e non merita di morire” aveva affermato ieri il padre, Dean Gregory. “Io e Claire siamo devastati e affranti dalla decisione presa dal giudice” ha raccontato, “Il National Health system sta cercando di impedirci di andare in Italia, e ci ha anche impedito di portare Indi a casa per le cure palliative di fine vita. Siamo molto preoccupati per la vita di Indi”. Il lavoro dei genitori e degli avvocati è continuo e lo dimostra la richiesta urgente di ricorrere in appello, che ha portato ancora oggi a una ulteriore speranza. Una speranza che per i due genitori si lega indissolubilmente al nostro Paese, a cui rivolgono la massima riconoscenza: “Voglio ringraziare il consolato italiano a Manchester per l’aiuto e voglio ringraziare il governo, il Presidente e il popolo italiano, l’Italia è stata incredibile, come un angelo custode per Indi, siamo davvero fortunati ad avere la vostra passione e il vostro coraggio dalla nostra parte nel tentativo di salvare la vita di Indi”.

La piccola Indi Gregory non va dimenticata. Davide Vecchi su Il Tempo l'11 novembre 2023

C’è qualcosa di profondamente fastidioso nella reiterata decisione della Corte inglese di bloccare il trasferimento in Italia della piccola Indi Gregory. Ieri per la terza volta ne è stato decretata la morte e per la terza volta fissato il giorno dell’esecuzione: lunedì. Non è finora servito il riconoscerle la cittadinanza italiana, come fatto d’urgenza dal Consiglio dei ministri, così come inutile si è rivelato l’appello del console. Ieri il capo del Governo, Giorgia Meloni, ha inviato una lettera al Lord Cancelliere del Regno Unito «al fine di sensibilizzare le autorità giudiziarie» inglesi appellandosi alla convenzione dell’Aja affinché Indi possa essere trasferita all’ospedale Bambino Gesù di Roma.

La fermezza della Corte appare totalmente ingiustificata e alimenta il dubbio che sia frutto della volontà di mostrarsi autonomi e superiori a un altro Stato, quello italiano. Una presa di posizione deleteria per l’immagine stessa dell’Inghilterra, spietata e cinica. Cosa ne è del Paese che con Re Giovanni nel 1215 firmò la Magna Carta, la base dei diritti umani? E si può consumare un braccio di ferro sulla vita di una neonata? L’esecuzione è fissata per lunedì. Fino all’ultimo istante mi auguro che l’Italia faccia sentire la propria voce. Perché noi siamo umani e rispettiamo la vita.

«INDI DEVE MORIRE». Giudici e medici inglesi irremovibili sul destino della piccola affetta da una gravissima malattia rara. Negato il permesso di tornare a casa o di essere portata all'ospedale italiano Bambino Gesù, nonostante le sia stata conferita la cittadinanza italiana proprio per evitare divieti giuridici. Silvia Guzzetti su Avvenire 08/11/2023 

Continua il duro braccio di ferro tra la sanità e la giustizia britannica e la famiglia di Indi Gregory, la piccola di otto mesi affetta da una rarissima malattia mitochondriale, alla quale, da mesi, I medici del “Queen’s Medical Hospital” di Nottingham, dove si trova ricoverata, vogliono staccare i supporti vitali.

Con un’ennesima sentenza il giudice dell’Alta Corte britannica Robert Peel, che già, più volte, si è pronunciato sul destino della bambina, ha deciso che non potrà morire a casa, come hanno chiesto I genitori, Dean Gregory, 37 anni, e Claire Staniforth, 35 anni, ma in un’ “hospice” o in ospedale.

Non è la prima volta che I giudici del Regno Unito si dimostrano irremovibili e negano alla famiglia anche l’ultima consolazione di un addio intimo, nel cuore di un ambiente domestico, anzichè in un asettico reparto ospedaliero. Anche nel caso di Charlie Gard, anche lui colpito da una rarissima malattia genetica e scomparso nel 2017, quando aveva meno di un anno, ai genitori Connie Yates e Chris Gard venne negata la possibilità di portarlo a casa.

Nella sentenza di oggi il giudice Peel conferma anche che la ventilazione artificiale, che mantiene in vita la bambina, andrà interrotta a partire dalle 15 ora italiana di domani, anche se I genitori di Indi hanno già fatto sapere che ricorreranno, ancora una volta, in appello.

Insomma sembrano davvero inutili I ripetuti tentativi dell’Italia, che ha concesso a Indi la cittadinanza e aperto le porte dell’ospedale “Bambino Gesù” di Roma, di salvare la bambina. Sempre oggi il console Italiano di Manchester, dottor Matteo Corradini, nel suo ruolo di “giudice custode” della piccola, italiana soltanto da lunedi, ha emesso una misura di emergenza che riconosce l’autorità dei tribunali italiani in questo caso e autorizza l’immediato trasferimento di Indi all’ospedale “Bambino Gesù”. Tuttavia il nuovo provvedimento è stata ignorato sia dall’ospedale di Nottingham che dalle autorità britanniche. Da giorni l’ambulanza aerea attende, fuori dal “Queen’s Medical”, pronta a trasportare Indi, ma I medici che l’hanno in cura non hanno alcuna intenzione di lasciarla andare.

Secondo la charity britannica del movimento per la vita “Christian Concern”, che assiste legalmente la famiglia Gregory, già questa settimana I dottori volevano interrompere I supporti vitali, benchè la loro intenzione contraddica il piano di fine vita preparato dall’ospedale di Nottingham, secondo il quale la decisione su dove morirà la piccola tocca ai genitori.

Si legge, infatti, nel “Compassionate Care Plan”, (Piano di fine vita compassionevole), preparato dall’autorità sanitaria che controlla l’ospedale, il Nottingham University Hospitals NHS Trust, «i genitori devono essere aiutati a decidere dove la bambina può morire nel modo più umano possibile, se in un hospice, in ospedale o a casa».

A Indi, sembra certo, rimangono, ormai, soltanto poche ore di vita perchè la Corte di appello ha già, nelle scorse settimane, più volte, dato ragione ai medici che pensano che la piccola debba morire ed è anche probabile che alla famiglia venga negata la possibilità di ricorrere, per l’ennesima volta, contro una sentenza dell’Alta Corte.

Rimane irrisolto il dramma di queste famiglie, costrette a mesi di estenuanti battaglie legali, senza che il loro desiderio di prolungare la vita della figlia – come ogni genitore che possa dirsi tale vorrebbe fare -venga ascoltato dai medici o dai giudici.

Quando la triste vicenda di Charlie Gard, Alfie Evans, Archie Battersbee e Isaiah Haarstrup, tutti piccoli, gravemente ammalati, ai quali I medici, sostenuti dai giudici, decisero di staccare la spina, l’opinione pubblica condivise il dolore dei genitori e sentì l’ingiustizia che subivano famiglie alle quali veniva impedito di poter curare I figli.

Una nuova legislazione, la “Charlie Gard law”, curata proprio dai genitori di Charlie, punta a rafforzare I diritti di mamma e papa, nei casi nei quali questi ultimi si oppongano ai medici che vogliono togliere ai loro figli i supporti vitali. Se la nuova normativa dovesse essere approvata, papà e mamma avranno il diritto di ricorrere alla mediazione e a comitati etici e indipendenti e potranno avere accesso a tutte le informazioni mediche sui figli e ottenere un secondo parere medico. Possibilità, quest’ultima, che è stata negata ai genitori della piccola Indi.

Insomma la famiglia recuperebbe un ruolo più importante, con la possibilità di influenzare quel concetto di “migliore interesse del minore”, al quale I giudici si appellano quando decidono che questi piccoli devono morire. Tuttavia la strada è ancora lunga, prima che la nuova legge possa essere approvata, e, quando il rapporto tra medici e genitori si deteriora e I dottori ricorrono ai giudici, come sta capitando con la piccola Indi, tocca alla legge decidere che cosa è nel migliore interesse del minore. Senza che la famiglia venga ascoltata.

Contro un'Europa infanticida che passa dal diritto al dovere di morire. GIULIO MEOTTI il 27 giugno 2017 su Il Foglio

La folle decisione della corte Ue condanna il piccolo Charlie contro il volere del padre e della madre

Le 10 ragioni per cui la legge stravolge la professione medica

Igiudici inglesi, aiutati da quelli dell’Unione europea, hanno stabilito il passaggio dal “diritto di morire”, in cui i genitori dispongono della vita di un bimbo malato, all’antico “dovere di morire”. E’ il triste destino di Charlie Gard, neonato condannato a morire dai soloni della Corte europea dei diritti dell’uomo contro il volere del padre e della madre, che lo volevano portare negli Stati Uniti per tentare di curarlo.   

Giudici e medici che si arrogano del diritto alla vita dei bambini malati. Dopo il Belgio, che nel settembre del 2016 mise a morte legalmente il primo bimbo, adesso tocca all’Inghilterra. Ma il mainstream britannico aveva da tempo sdoganato l’infanticidio. Lo hanno fatto gli accademici, come il professore del King’s College Jonathan Glover, che ha giustificato l’infanticidio sulla base del fatto che “va considerata l’autonomia della persona la cui vita è in gioco, se valga la pena di essere vissuta”. Lo hanno fatto le università mediche reali, come il Royal College of Obstetricians and Gynaecologists, che ha sdoganato l’eutanasia di neonati malati e disabili.

In occidente dipingiamo giustamente la Corea del nord come un incubo a cielo aperto. Ma qualcosa unisce il regno dell’anacoreta comunista di Pyongyang alla democrazia di Strasburgo: in entrambe le città ci sono burocrati che stabiliscono quando un bimbo malato debba morire. L’infanticidio fu praticato a lungo, da Tahiti alla Groenlandia fino agli spartani, che gettavano i loro bambini dalla cima di una collina, e fu teorizzato da Platone e Aristotele, che raccomandavano che lo stato disponesse l’uccisione di bambini disabili. Poi, per duemila anni, è diventato tabù. Perché si è affermata la civiltà occidentale. Adesso sembra che l’infanticidio sia tornato mainstream.

Ne sanno qualcosa i bimbi di Manchester come Saffie, le cui vite sono state spezzate dal terrorista suicida Salman al Abedi. Ma ne saprà presto qualcosa anche un altro bimbo inglese oggetto di un suicidio coatto, Charlie Gard. I kamikaze che fanno visite nelle città dell’Europa occidentale ci ripetono: “Noi amiamo la morte come voi amate la vita”. Si sbagliano.

Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.

"Mia figlia Indi non merita di morire". Rinviato a domani il distacco dai macchinari. Storia di Francesca Galici su Il Giornale  il 10 novembre 2023 

C'è ancora speranza per la piccola Indi Gregory. Il distacco dei macchinari era previsto per le 15 italiane, poi spostato alle 17, ma alla fine c'è stato un ulteriore slittamento. L'appello sulla possibilità di trasferire la giurisdizione del caso al giudice italiano verrà discusso domani a partire dalle ore 12 ora inglese, le 13 in Italia, e di conseguenza il termine per il distacco dei supporti vitali è prorogato fino all'esito di tale udienza. A darne notizia sono stati i legali della famiglia, che ancora sperano di poter portare la bambina in Italia per poter provare una cura diversa al Bambin Gesù di Roma.

"Indi è una combattente: lei vuole vivere, e non merita di morire", ha detto il padre della bambina un in video condiviso sui canali social di Pro Vita & Famiglia. "Io e Claire siamo devastati e affranti dalla decisione presa dal giudice oggi. L'NHS (il sistema sanitario pubblico inglese, ndr) sta cercando di impedirci di andare in Italia, e ci ha anche impedito di portare Indi a casa per le cure palliative di fine vita", ha detto ancora Dean Gregory, che non si rassegna alla decisione dei giudici di staccare la bambina dai macchinari. Lui e la moglie vogliono tentare il tutto per tutto portando la bambina in Italia e per questa ragione il nostro Paese ha concesso a Indi la cittadinanza italiana con procedura d'emergenza.

Ma anche questo non è servito a convincere il giudice. "Siamo molto agitati per l'estubazione, e molto preoccupati per la vita di Indi", ha proseguito l'uomo. Comprensibile la voglia dei genitori di non rassegnarsi al destino della bambina: "Abbiamo presentato una richiesta urgente, i nostri avvocati stanno lavorando duramente, e hanno presentato una richiesta urgente alla Corte, perchè faremo ricorso in appello. Voglio ringraziare il consolato italiano a Manchester per l'aiuto, il governo, il presidente e il popolo italiano".

Il legale della famiglia ha spiegato che è stata attivata la procedura dell'articolo 9, che prevede che il giudice competente italiano si è messo in contatto con il giudice competente inglese e gli atti sono stati trasmessi alla Corte d'Appello. Inoltre, sono stati avviati anche i contatti tra Roma e Londra: la Presidenza del Consiglio dei Ministri dell'Italia ha scritto al Ministero della Giustizia britannico come previsto dall'art 32 della Convenzione dell'Aia del 1996.

IL DIBATTITO.

Indi Gregory deve morire? Tre motivi per cui Nicola Porro sbaglia. La bambina è affetta da una grave malattia. Per i giudici la ventilazione va sospesa oggi alle 15 italiane. È giusto? Paolo Becchi, su Nicolaporro.it il 9 novembre 2023

Il caso della piccola Indi Gregory affetta da una grave malformazione non si è ancora chiuso come era prevedibile con l’interruzione della ventilazione assistita perché c’è stato un intervento del governo italiano che ha concesso alla piccola la cittadinanza italiana e perché un ospedale italiano si è dimostrato disponibile a curare la piccola.

Nicola Porro vede nell’operato del governo della pura retorica e considera alla stregua di accanimento terapeutico quello che sta succedendo alla piccola. La soluzione migliore sembrerebbe quella decisa dai giudici: si stacchi la spina e punto. Non sono d’accordo. Mi soffermo solo sulle questioni etiche, sebbene ora il caso sia anche giuridico. Al riguardo solo una rapida considerazione in fondo.

Continuare a farla vivere significa accanirsi sulla piccola.

Se fosse accanimento terapeutico mi chiedo come sia possibile che un ospedale italiano si sia dichiarato disponile ad accogliere la bambina. Per costringerla a vivere a tutti i costi? Per accanirsi sulla piccola? Non credo che Il Bambin Gesù di Roma voglia una cosa del genere. Si fa presto a parlare di accanimento… Al Gaslini di Genova qualche tempo fa si presentò un caso certo diverso ma che sembrava altrettanto disperato. Ora però la bambina sta meglio.

I genitori sono degli egoisti.

Quella bambina è stata messa al mondo dai suoi genitori. Sono loro che si devono anzitutto prendere cura della loro figlia. E non vogliono che muoia. Dicono sia egoismo, ma non potrebbe essere amore per quel piccolo essere, desiderio di proteggerlo? E non conta nulla quello che sentono i suoi genitori? Non conta nulla la loro sofferenza? Non conta nulla veder morire la loro piccola bambina sofferente soffocata?

Il ruolo del medico.

Stacca solo la spina? Ma in questo caso procurerebbe enorme sofferenza alla piccola paziente che morirà per soffocamento. Questo sarebbe del tutto contrario alla sua etica professionale. Ma allora la dovrà sedare profondamente prima e quindi, in pratica, pur senza dirlo, la uccide prima ancora di staccare la spina…

Come si vede il caso è più complesso di quanto si possa pensare a prima vista. Non basta staccare l’interruttore. Io qualche dubbio ce l’avrei a staccare quel respiratore. E in dubio pro vita.

Infine, c’è anche modo e modo per accompagnare alla morte. Esiste la medicina palliativa. In Gran Bretagna conoscono solo

staccare la spina? Da noi per fortuna sinora ci sono altre leggi e ha fatto bene il governo ad agire come ha agito, venendo incontro alle richieste dei genitori. Paolo Becchi, 9 novembre 2023

Non riavrà il “diritto alla vita”: cosa ne penso del caso Indi Gregory. Quanta retorica sulla bambina inglese malata terminale a cui il governo ha concesso la cittadinanza. Nicola Porro il 7 Novembre 2023

Sul caso Indi Gregory, la neonata inglese malata a cui il governo ha concesso la cittadinanza per permetterle di essere curata in Italia, nessuno di voi sarà d’accordo con me. Leggere i giornali di oggi mi ha dato ai nervi perché ho visto tutta la destra italiana, inclusi i giornali liberali e conservatori, godere del fatto che ieri il Consiglio dei ministri si è riunito e ha deciso di far diventare italiana una neonata malata terminale inglese affinché possa essere curata al Bambin Gesù di Roma.

Poi però se uno va un po’ a leggere meglio cosa è realmente successo scopre che, in realtà, gli inglesi non sono degli assassini macellai. Questa bambina ha infatti una malattia degenerativa incurabile che le ha causato dei danni mostruosi e, per quanto molti considerino questo un dettaglio ininfluente, dà il senso di quanto la malattia sia andata avanti. Questa ragazza è, ahimè, destinata a morire e dovrà essere assistita dalle macchine per tutta la vita.

Il punto fondamentale è che non è stato un direttore di un ospedale ad aver deciso di togliere le macchine che mantengono in vita la neonata, ma è stata l’Alta Corte di giustizia inglese a dire che, purtroppo, le sue cure non sono altro che un accanimento terapeutico. La giustizia inglese si è messa nei panni della bambina e non nei panni dei genitori. Anche la corte di Strasburgo, a cui i genitori avevano fatto ricorso, ha confermato quanto detto dall’Alta Corte di giustizia.

Il punto fondamentale è che, prendendo in cura questa bambina, stiamo illudendo i suoi genitori facendo credere loro che il Bambin Gesù possa salvarla. Nonostante sia un ospedale straordinario, non fa miracoli.

Contrariamente a quanto molti oggi dicono, l’Italia non ha restituito nessun diritto alla vita a questa bimba. Non ci prendiamo in giro: come si fa a dire che l’Italia ha restituito il diritto alla vita ad una bambina come se gli inglesi lo avessero negato? Nessuno ha negato il diritto alla vita a questa bambina, se non una tremenda malattia che la sta uccidendo e che ha ucciso tanti bambini di cui purtroppo ci siamo occupati. Nicola Porro, dalla Zuppa di Porro del 7 novembre 2023

Caso Indi Gregory, parla il medico che staccò la spina a Piergiorgio Welby: «L’Italia è il Paese delle vane speranze». Redazione su open.online il 9 novembre 2023

Mentre le cronache di questi giorni hanno visto tornare alla ribalta il tema del suicidio assistito (dopo che Sibilla Barbieri ha scelto di morire in Svizzera) e si sono concentrate sul caso dello stop alle cure vitali per la piccola Indi Gregory, la neonata inglese gravemente malata per una patologia mitocondriale, nel dibattito è intervenuto anche Mario Riccio, Consigliere generale dell’Associazione Luca Coscioni, ex Responsabile di Anestesia e Rianimazione dell’Ospedale di Casalmaggiore. Nonché colui che staccò la spina a Piergiorgio Welby, e che ha seguito il primo suicidio assistito in Italia. Riccio rivendica, in una nota, non solo il diritto di scelta, ma anche la necessità di risposte concrete da parte del Governo.

«L’Italia è il Paese delle vane speranze, noto al mondo per le vicende pseudo sanitarie. Di Bella, Vannoni, Stamina, potevano evitare una nuova ribalta in materia di vane speranze di cura. Per Indi non potrebbe servire neanche l’immediata disponibilità offerta dall’ospedale pediatrico della Capitale dopo che alla piccola è stata riconosciuta la cittadinanza italiana», scrive. E poi, la provocazione: «Ma la vita è comunque un bene? Se sì, Sibilla Barbieri è stata costretta ad andare in Svizzera per trovare la morte che desiderava e che sarebbe stato suo diritto trovare in Italia ma ha incontrato un’insensata resistenza della sanità regionale laziale, nella sua richiesta di suicidio assistito, nonostante abbia dimostrato, forse meglio di tante perizie e controperizie, la sua penosa condizione». «Ma oltre il singolo caso – conclude -, dobbiamo purtroppo ancora una volta sottolineare il silenzio del Governo e l’inerzia del legislatore, già richiamata dalla Consulta in occasione della sentenza dj Fabo-Cappato».

Il Suicidio.

(ANSA mercoledì 13 settembre 2023) - Quasi 700.000 persone muoiono ogni anno per suicidio, un decesso su 100 in tutto il mondo è dovuto a suicidio, Secondo l'Oms, i cui dati rilevano che per ogni suicidio in media ci sono 20 tentativi di suicidio, questa rimane una delle principali cause di morte specie tra i giovani tra i 15 e i 29 anni. Particolarmente a rischio, secondo l'Organizzazione mondiale della sanità, sono le popolazioni indigene, i membri delle comunità LGBTQI+, le persone in prigione, i rifugiati e i migranti. Una strage, sottolinea l'Oms, che si può prevenire con interventi appropriati.

Primo fra tutti non trattare il suicidio o i tentativi di suicidio come un crimine. Sono infatti ancora almeno 23 paesi nel mondo dove queste azioni sono considerate illegali ai sensi del diritto civile e penale e punibili. Trattare il suicidio come un crimine fa sentire colpevoli le persone che tentano il suicidio e scoraggia i familiari dal cercare aiuto per paura di ripercussioni legali e stigma. Basandosi sull'esperienza di paesi che hanno recentemente depenalizzato il suicidio e il tentato suicidio, tra cui Guyana e Pakistan nel 2022 e Singapore nel 2019, l'Oms formula raccomandazioni per i responsabili politici e i legislatori a considerare di riformare la legislazione nazionale in questo senso. 

Inoltre l'Oms ricorda come la copertura mediatica di questo evento e in particolare dei suicidi di celebrità, possono portare a ulteriori suicidi e tentativi di suicidio. Il rischio di imitazione è alto, sostiene l'Oms, specialmente se i toni usati dai media sono sensazionalistici, estesi, descrivono il metodo del suicidio o perpetuano miti diffusi sul suicidio. Per questo la stampa deve garantire su questi fatti notizie appropriate ed empatiche. Secondo l'Oms, infine, vi è una crescente evidenza che la segnalazione della sopravvivenza e della resilienza può portare a imitazioni positive e comportamenti protettivi, compresa la ricerca di aiuto.

Estratto dell’articolo di Fabrizio Caccia per il “Corriere della Sera” il 4 maggio 2023.

«Dopo 20 lunghi anni di dolore cronico, per insonnia, estrema solitudine, intolleranza ai rumori, mi sono procurata le cose necessarie online, ordinandole all’estero, più di un anno fa...». 

La lettera d’addio era sul tavolo, non era indirizzata a un destinatario preciso: «Per chi mi trova», c’era scritto in testa. I carabinieri della stazione di Borgo Valsugana (Trento) l’hanno scoperta il 4 aprile scorso entrando in casa sua. Lei era già morta, distesa sul letto.

Un foglio A4 riempito di suo pugno, un racconto lucido, straziante, quello della professoressa in pensione Antonella D. L. 63 anni da compiere a giugno: «Molti anni fa ho cominciato a fare ricerche su internet per una morte pacifica — scrive —. La vita a volte è ingiusta, così ora penso di aver diritto alla liberazione e alla pace. Spero quando leggerete questa lettera di aver avuto successo...».

Sulla morte della donna indaga ora la Procura di Trento, ipotizzando il reato di istigazione al suicidio. Il fascicolo al momento è a carico di ignoti, ma il nome della professoressa era nella lista clienti di un uomo dell’Ontario di nome Kenneth Law, sedicente ex ingegnere aeronautico e poi chef a Toronto, che negli ultimi due anni ha gestito alcuni siti web (ora chiusi dagli inquirenti) vendendo all’estero kit per aspiranti suicidi: mascherine facciali, nitrito di sodio, ma anche bombole di azoto, manometri, tubicini, sacchetti di plastica.

Kenneth Law proprio ieri è stato arrestato dalla polizia canadese, dopo una lunga indagine del’Interpol in seguito alla morte di almeno 4 persone nel Regno Unito, dove l’uomo si vantava di aver distribuito i suoi prodotti a «centinaia» di cittadini: è accusato di consulenza e aiuto al suicidio. 

Ma l’attenzione è viva anche in Italia perché nella sua lista clienti sono stati trovati nove acquirenti nostri connazionali, tra cui la professoressa Antonella, originaria dell’Aquila ma da anni residente a Ronchi Valsugana, paesino di 400 anime in provincia di Trento.

Una casa isolata tra i boschi, una vita da eremita. 

Una sola volta lei aveva telefonato al sindaco di Ronchi, Federico Ganarin: «Mi scusi se la disturbo, signor sindaco, può mettermi un lampione davanti casa mia? Sa, io esco solo di notte, sono molto malata, ho la sindrome di Lyme». […]

Estratto dell’articolo di Fabrizio Caccia per “il Corriere della Sera” il 3 maggio 2023.

È una storia che fa paura, una storia nata due anni fa in Canada, dilagata nel Regno Unito e ora è arrivata in Italia. L’Interpol si è già fatta consegnare le foto scattate dai carabinieri di Borgo Valsugana (Trento) in casa di A.D.L. insegnante di 63 anni originaria dell’Aquila. L’hanno trovata il 4 aprile scorso nel suo appartamento di Ronchi distesa sul letto. 

Accanto, aveva un biglietto per i familiari: «Mi dispiace. Sono troppo malata, troppo dolore, non avevo altra scelta, addio». E poi una lettera con la spiegazione di come aveva fatto a togliersi la vita. Così, la Direzione centrale della polizia criminale, approfondendo le indagini, ha scoperto che il nome della donna era nella lista clienti di un uomo dell’Ontario di nome Kenneth Law, ex ingegnere aerospaziale e poi chef a Toronto, che per due anni ha gestito alcuni siti web (ora chiusi) vendendo «veleno» per aspiranti suicidi: mascherine facciali e nitrito di sodio.

In Italia i suoi kit risultano già acquistati da nove cittadini (l’insegnante morta ad aprile era tra questi), così ora è in corso una gara contro il tempo, affidata alle questure e alle compagnie dell’Arma di tutta Italia, per rintracciare gli altri otto nomi presenti sulla lista prima che sia troppo tardi. Un prodotto apparentemente innocuo, il nitrito di sodio, utilizzato nell’industria alimentare come colorante. 

Tuttavia alcuni grammi, diluiti nell’acqua, insapore e incolore, sono letali. Un prodotto anche facile da acquistare, economico, senza nessun tipo di vincolo, che in pochi giorni ti arriva a casa. […] 

La storia esplose due anni fa. C’era infatti il nome di uno dei siti di Law sul pacchetto di nitrito di sodio rinvenuto vicino al corpo di Tom Parfett, 22 anni, studente di filosofia trovato morto nell’ottobre 2021 in un hotel della zona di Londra. […]

Le Imprese funebri.

Estratto dell’articolo di Gianluca Amadori per ilgazzettino.it il 17 aprile 2023.

È accusato di stalking e illecita concorrenza con minaccia o violenza. Il titolare di un’impresa di pompe funebri di Cavarzere, Antonio Nicodemo, 53 anni, è stato rinviato a giudizio ieri, a conclusione dell’udienza preliminare celebrata alla Cittadella della giustizia di Venezia, di fronte al Gup Benedetta Vitolo: il processo a suo carico si aprirà il prossimo 29 giugno. 

Gli episodi finiti sotto accusa sono stati denunciati dai titolari di un’impresa concorrente, la Mb srl, i quali hanno lamentato una serie di «illecite interferenze e condizionamenti» volti ad ostacolare la loro attività. […]

Nel capo d’imputazione formulato dal pm Christian Del Turco, a Nicodemo viene contestato di aver cercato di ostacolare il lavoro della impresa rivale fin da quando iniziò l’attività, nel 2017, recandosi al Duomo di Cavarzere mentre erano in corso i funerali gestiti dalla Mb srl, aggirandosi per il piazzale e seguendo il corteo funebre; simulando tentativi di collisione del proprio veicolo con quello condotto da Braga e Ferrari e così minacciandoli; incaricando un proprio dipendente di presentarsi a casa della signora Ferrari accusandola di aver strappato le epigrafi delle Onoranze funebri Nicodemo.

E ancora: di essersi recato al cimitero minacciando Braga, nel 2018 («Vieni fuori che ti ammazzo, te la faccio pagare»); di aver colpito alle spalle il rivale, nell’agosto del 2020, mentre stava affiggendo alcuni necrologi, facendolo cadere a terra; e di aver cercato di investirlo con il suo furgone per due volte, nell’ottobre del 2021. […]

Estratto dell’articolo di Emilio Gioventù italiaoggi.it il 30 marzo 2023.

C'è modo e modo per abbandonarsi al sonno eterno. Magari accompagnati da auto funebri sempre più lussuose e appariscenti, avvolti in bare di legni sempre più pregiati, adagiati in tombe circondate da sculture sempre più raffinate oppure in urne artistiche come la tela di un quadro.

 Si è appena conclusa l'Expo Funeraria di Alberobello, unica fiera del settore del Sud Italia, e ha detto una cosa, forse scontata, ma non in maniera così evidente: l'eterno riposo è un business per i viventi con punte, negli anni pre-Covid, di oltre 1,7 miliardi di euro per la filiera produttiva.

L'industria funeraria italiana dà lavoro a 25mila occupati diretti e ad altrettanti indiretti: oltre 4.500 imprese attive in Italia nel settore delle pompe funebri e delle attività connesse, alle quali si aggiungono più di 1.400 imprese attive nel commercio di articoli funerari e cimiteriali e quasi 20mila fioristi tra ambulanti e fissi.

Soltanto in Puglia, dove si registrano circa 34mila decessi l'anno, si contano circa 600 imprese di onoranze funebri. L'appuntamento fieristico di Alberobello è stato una sorta di showroom con l'esposizione delle ultime novità nel campo funerario e cimiteriale. Le maggiori aziende nazionali – molte quelle pugliesi - hanno fatto a gara per presentare le ultime novità.. […]

La Sedazione.

Estratto da lastampa.it il 4 febbraio 2023.

Vincenzo Campanile, il medico monfalconese, ex anestesista del 118 di Trieste a processo con l’accusa di nove omicidi volontari è stato condannato a 15 anni e 7 mesi per i 9 omicidi degli anziani uccisi con iniezioni di potenti sedativi, tra cui il Propofol, durante interventi di soccorso domiciliare. E’ stato riconosciuto colpevole di tutti gli omicidi: concesse tutte le attenuanti generiche. La sentenza è arrivata oggi pomeriggio, 3 febbraio, della Corte d’Assise di Trieste presieduta da Giorgio Nicoli (a latere Francesco Antoni).

Le vittime

Gli anziani avevano tra i 75 e i 90 anni, tutti con patologie (quattro erano pazienti oncologici) e colti da improvviso peggioramento prima di richiedere l’intervento del 118. I decessi risalgono al periodo tra il novembre 2014 e il gennaio 2018. L’indagine era partita in seguito alla morte dell’81enne Mirella Michelazzi, soccorsa il 3 gennaio 2018 alla casa di cura “Mademar”. Campanile le aveva somministrato il Propofol. I colleghi del medico avevano segnalato il caso all’Azienda sanitaria, che aveva fatto aprire l’inchiesta. Gli inquirenti erano risaliti ad altri otto casi sospetti ed erano state riesumate cinque salme.

 La richiesta

Il pm Cristina Bacer (al fascicolo ha lavorato anche Chiara De Grassi) aveva chiesto 25 anni e 6 mesi di reclusione. Nella requisitoria, a proposito del primo caso, Bacer ha sostenuto che la somministrazione del Propofol a Michelazzi è stata ammessa dallo stesso Campanile, alludendo a una telefonata intercettata, nella quale affermava che la dose data può avere effetti letali se non si interviene. Il movente? Per Bacer la condotta sarebbe stata «espressione di una scelta ideologica».

 I risarcimenti

Supera i due milioni il totale dei risarcimenti chiesti dalle parti civili. 

 (..)

 La difesa

(...) Il Propofol dato a un morente accelera la fine? Secondo quanto ribadito dalla difesa «la scienza dice di no». Contento ha fatto notare come Campanile «si fosse informato delle condizioni dei pazienti e avesse messo in atto interventi come l’aspirazione aerea, la rianimazione e solo rendendosi conto che non c’era più nulla da fare praticava la sedazione».

La condanna dell’anestesista. «Non chiamatela sedazione». Storia di Francesco Dal Mas su Avvenire

il 4 febbraio 2023.

Accusato della morte di 9 anziani, tra il 2014 e 2018, con iniezioni di Propofol, un forte sedativo. E condannato in Corte d’assise a 15 anni e 7 mesi (il pm ne aveva chiesti 25), oltre che interdetto dallo svolgimento della professione medica per appena cinque anni, dato che la Corte ha riconosciuto, sì, l’omicidio volontario, ma anche l’attenuante di «aver agito per motivi di particolare valore morale o sociale». È una sentenza destinata a far discutere quella del Tribunale di Trieste per il medico anestesista Vincenzo Campanile.

L’indagine a suo carico si è aperta con la morte, nel 2018, della signora Mirella Michelazzi, 81enne ricoverata in una casa di cura di Trieste, cui Campanile aveva iniettato il farmaco. Da lì è partita la segnalazione dei colleghi e l’Azienda sanitaria ha avviato le ricerche. Andando a ritroso, sono così emersi altri otto casi di pazienti che erano stati trattati da Campanile e che presentavano situazioni simili. La somministrazione del Propofol in un caso, l’ultimo, era stata ammessa dallo stesso medico in una telefonata intercettata. Il movente? «L’espressione di una scelta ideologica». Ovvero, lenire le (presunte) sofferenze dei pazienti. Che la Corte alla fine ha riconosciuto: secondo i giudici, l’ex anestesista si proponeva di accelerare il decesso dei pazienti che soccorreva. «La sentenza è frutto di ponderazione – è stato il primo commento del procuratore Antonio De Nicolo –. La Procura è comunque rimasta sorpresa per il riconoscimento di quella particolare attenuante, meditiamo se proporre impugnazione». La vicenda, dunque, finirà quasi certamente in appello. «È stato un processo molto difficile, complicato - ha osservato l’avvocato di parte civile Antonio Santoro, che rappresenta le famiglie di quattro vittime – in queste aule sono passati molti testimoni, tanti medici. La Corte di Assise si è vista dover fare valutazioni anche a carattere scientifico. Sicuramente la difesa presenterà appello e poi i parenti delle vittime, se la sentenza verrà mantenuta, potranno rivolgersi al giudice civile per vedersi risarcire il danno».

Critico il medico, bioeticista e presidente del Movimento Scienza e Vita Trieste, Paolo Pesce: «Negli anni il collega diceva di aver attuato la sedazione palliativa, creando confusione nelle persone – spiega –. Ma la sedazione palliativa è una cosa lecita, è una scelta concordata tra il medico ed il paziente negli ultimi giorni della sua vita quando le situazioni di sofferenza ormai non sono più sostenibili». A parere di Pesce questa tragica vicenda dimostra che «si rischia di tornare al paternalismo medico, per cui il medico decide della vita e della morte del paziente. Il fine della vita per gli anziani è certamente complesso e difficile, ma la soluzione non è mai uccidere le persone, ma alleviare i sintomi che possono avere. Accompagnare alla buona morte i pazienti non vuol dire accelerare la morte, assolutamente, significa aiutarli a morire serenamente, alleviando i sintomi, non abbandonando mai nessuno».

Medico uccise 9 anziani con iniezioni letali. I giudici: "Agì per scopi morali". Sentenza della Corte di Assise di Trieste: 15 anni e 7 mesi per le iniezioni letali che il dottor Vincenzo Campanile. La procura aveva chiesto una condanna a 25 anni e mezzo di carcere. Lorenzo Grossi il 4 Febbraio 2023 su Il Giornale.

Ha ucciso nove anziani malati, con altrettante iniezioni letali. Un gesto - secondo i giudici - che è stato motivato dall'intenzione di alleviare le sofferenze dei pazienti accompagnandoli alla morte e per questo connotato da "valore morale e sociale". Arriva da Trieste l'ultima, in ordine cronologico, delle storie destinate a fare discutere per le loro implicazioni etiche sul tema del fine vita. Riguarda Vincenzo Campanile, ex anestesista del 118 triestino, che si è visto infliggere dalla Corte d'Assise 15 anni e 7 mesi di carcere per omicidio plurimo. Una condanna di circa 10 anni inferiore alle richieste dell'accusa, con il pm Cristina Bacer che aveva proposto alla corte, composta sia da giudici togati che popolari, una condanna a 25 anni e mezzo di carcere.

Le accuse al medico

I fatti risalgono al periodo tra il novembre 2014 e il gennaio 2018. L'inchiesta era partita dopo la morte di un'ottantunenne – una delle nove morti sospette – soccorsa il 3 gennaio di cinque anni fa in una casa di riposo del centro cittadino. Campanile, medico monfalconese ed ex anestesista del 118 di Trieste, le aveva somministrato il Propofol, come testimoniato dal personale sanitario presente in quel momento e come riscontrato in autopsia. I colleghi dell'anestesista, poi, avevano segnalato il caso all'Azienda sanitaria. Ed è così che è scattata l'indagine della Procura.

I magistrati erano risaliti ad altri otto casi ed erano poi state riesumate cinque salme, rintracciando in tutte tracce di Propofol. Nella sua requisitoria, la pm Bacer ha ritenuto che il medico fosse stato spinto da "una scelta ideologica", chiedendo una pena di 25 anni e 6 mesi di reclusione. Ma, di certo, la Procura non si aspettava una sentenza così lieve e non con quell'attenuante. "I giudici hanno lavorato davvero molto e con grande scrupolo a questo processo, dedicando numerose udienze", ha osservato il procuratore capo di Trieste Antonio De Nicolo. "Sicuramente la sentenza è frutto di ponderazione. La Procura – aggiunge – è comunque rimasta sorpresa dal riconoscimento di quella particolare attenuante, meditiamo se proporre impugnazione".

I motivi della sentenza

Tuttavia la Corte di Assise di Trieste, presieduta dal giudice Giorgio Nicoli, ha riconosciuto al medico del 118 non solamente le attenuanti generiche, bensì anche quelle previste dall’articolo 62 comma 1 del Codice penale: ovvero "l'aver agito per motivi di particolare valore morale o sociale".

Suicidio Assistito.

Estratto da corriere.it il 25 luglio 2023.

Prima di morire ha voluto lasciare un messaggio, il suo testamento spirituale: «La vita è bella, ma solo se siamo liberi. E io lo sono stato fino alla fine. Grazie». È conosciuta come Gloria, ma il nome è di fantasia. 

Trevigiana, aveva 78 anni. Il suo è il secondo caso di suicidio assistito in Italia, dopo quello di Federico Carboni dello scorso anno, ma è la prima ad aver ottenuto dall'Asl il farmaco e tutto quanto necessario per porre fine alla sua esistenza. 

Gloria, malata di cancro, voleva all'inizio andare in Svizzera. Per questo aveva contattato l'Associazione Luca Coscioni, ma il tesoriere Marco Cappato le ha spiegato che poteva fare richiesta anche in Italia. Nel nostro Paese non c'è ancora una legge, ma ci sono i paletti fissati dalla Corte Costituzionale con la sentenza 242/2019 quando venne chiamata a decidere sul caso Cappato-Dj Fabo. 

(...) In assenza di medici dell'Asl, è stato Riccio a preparare il farmaco, che poi Gloria si è autosomministrato. Cappato osserva che «la sanità del Veneto ha evitato a Gloria una morte tra sofferenze che non avrebbe mai voluto. Il fatto che l'aiuto sia arrivato nella Regione presieduta da Luca Zaia della Lega dimostra che su questo tema non valgono i recinti dei partiti e delle colazioni, ma conta la sensibilità nei confronti delle persone che soffrono e delle loro libere scelte».

Aveva 78 anni. È morta Gloria, secondo caso di suicidio assistito in Italia: “Vita è bella, ma solo se siamo liberi”. Redazione su L'Unità il 24 Luglio 2023

Ha scelto di porre fine alle sue sofferenze sofferenze tramite l’aiuto alla morte volontaria, reso legale a determinate condizioni dalla sentenza della Corte costituzionale 242/2019 sul caso Cappato-Antoniani. Così la signora Gloria, nome di fantasia, paziente oncologica veneta di 78 anni, è morta domenica 23 luglio, seconda persona in Italia ad usufruire del “suicidio assistito”.

La notizia è stata diffusa dall’Associazione Luca Coscioni, che sottolinea come Gloria sia anche la prima persona nel nostro Paese ad aver ottenuto la consegna del farmaco e di quanto necessario da parte dell’azienda sanitaria.

La 78enne Gloria è morta nella sua abitazione dopo essersi autosomministrata il farmaco letale attraverso la strumentazione fornita dall’azienda sanitaria locale: una procedura ‘guidata’ avvenuta sotto il controllo medico del dottor Mario Riccio, consigliere Generale dell’Associazione Luca Coscioni, che nel 2006 aveva assistito Piergiorgio Welby ed era stato il medico di fiducia di Federico Carboni, il primo italiano un anno fa ad aver chiesto e ottenuto nelle Marche il 16 giugno 2022 l’accesso alla tecnica.

“La vita è bella, ma solo se siamo liberi. E io lo sono stata fino alla fine. Grazie“, è stato l’ultimo messaggio lasciato all’Associazione Luca Coscioni da Gloria.

“In questo momento – scrivono in una nota congiunta Filomena Gallo e Marco Cappato, segretaria nazionale e tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni – il nostro pensiero va alla famiglia di Gloria, al marito, vicino a lei fino all’ultimo istante. Anche se Gloria ha dovuto attendere alcuni mesi, ha scelto di procedere in Italia per avere accanto la sua amata famiglia e sentirsi libera nel suo Paese“. Per l’associazione, “le è stata risparmiata una fine che non avrebbe voluto, grazie alle regole stabilite dalla Consulta e grazie alla correttezza e all’umanità del sistema sanitario veneto e delle istituzioni regionali presiedute da Luca Zaia“.

Gli altri casi in Italia e all’estero

Gloria è la seconda cittadina residente in Veneto, dopo Stefano Gheller, affetto da distrofia muscolare, ad aver ottenuto la verifica delle condizioni per poter accedere al suicidio assistito e il relativo parere favorevole da parte dell’azienda sanitaria e del comitato etico.

In Italia, per quanto risulta, è la quarta volta che accade. Gheller, Federico Carboni e “Antonio” avevano già ottenuto il via libera dal Comitato Etico della regione di appartenenza, ultimo step prima di scegliere il momento più opportuno per confermare le proprie volontà o, diversamente, fare passo indietro.

Ben più numerosi invece i casi di connazionali costretti a emigrare in Svizzera. Tra quelli assistiti da Marco Cappato e i “disobbedienti civili” iscritti a Soccorso Civile – sottolinea l’Associazione Luca Coscioni – figurano le storie degli italiani che non erano dipendenti da trattamenti classici intesi di sostegno vitali riconducibili ad una interpretazione restrittiva della sentenza della Consulta (come Elena, Romano, Massimiliano e Paola).

Redazione - 24 Luglio 2023

A un anno dal primo suicidio assistito legale in Italia, tutto resta ancora immobile. Simone Alliva su L'Espresso il 16 giugno 2023.  

Federico Carboni, primo suicidio medicalmente assistito Italia 

Federico Carboni moriva il 16 giugno del 2022 fa dopo una lungaggine burocratica che ancora oggi costringe numerosi italiani a migrazioni e sofferenze. Marco Cappato e Filomena Gallo (Ass.Luca Coscioni): “Aperto un varco, nonostante l’ostilità del Governo e di molte Regioni”

È passato un anno da quel 16 giugno 2022 dalla morte del primo italiano che, avendolo scelto, è stato in grado di porre fine alla propria esistenza senza che questo venisse considerato un reato. 

Federico Carboni, un uomo di 44 anni, tetraplegico da 12 anni dopo un incidente stradale, un anno fa moriva nella sua casa di Senigallia, dopo essersi auto somministrato il farmaco letale attraverso un macchinario apposito.

Era stato “Mario”, per la cronaca, per un breve periodo, poi la decisione di rivelare il suo nome e dare un volto a una battaglia che a partire dalle vicende di Eluana Englaro e dj Fabo racconta da tempo le difficoltà di avviare il diritto di andarsene nel nostro paese. 

Federico è stato il primo italiano ad aver chiesto e ottenuto l’accesso al suicidio medicalmente assistito, reso legale dalla sentenza della Corte costituzionale 242/2019 sul caso Cappato-Antoniani.

Il via libero definitivo per l’accesso al suicidio assistito era arrivato il 9 febbraio 2022, con il parere sul farmaco e sulle modalità “di esecuzione”, dopo quasi due anni dalla prima richiesta alla ASUR e dopo una lunga battaglia legale, in cui è stato assistito dall’Associazione Luca Coscioni. Federico, infatti, aveva inizialmente chiesto aiuto a Marco Cappato per poter ricorrere al suicidio medicalmente assistito in Svizzera. Una volta saputo che avrebbe potuto procedere in Italia, grazie alla sentenza della Corte, aveva deciso di presentare richiesta nel suo Paese, per poter rimanere fino alla fine vicino ai suoi cari, nella sua casa.

Ci sono voluti due anni per poter vedere riconosciuto questo suo diritto, 24 mesi che hanno costretto Federico a governare la propria sofferenza fisica e psichica, prima che lo Stato dicesse: sì, può andare. 

«La determinazione di Federico, anche grazie al coraggio del medico Mario Riccio, ha aperto un varco nel muro di gomma alzato dal Sistema sanitario per boicottare la sentenza “Cappato” della Corte costituzionale. Nonostante l’ostilità del Governo e di molte Regioni, la lotta di Federico continua grazie alla sete di libertà di altre persone malate, che non abbandoneremo», hanno dichiarato Marco Cappato e Filomena Gallo, rispettivamente tesoriere e segretaria nazionale dell’Associazione Luca Coscioni.

A commentare questo anniversario anche Mario Riccio, il medico che ha controllato la procedura: «Ha voluto- nel solco tracciato da Piergiorgio Welby- rendere pubblico il suo difficile percorso di autodeterminazione della sua vita. È stato per me ancora una volta un onore ed un privilegio conoscere ed aiutare una persona come lui. Un percorso complesso e faticoso giuridicamente e tecnicamente ma che lascia una grande eredità umana a tutti coloro che gli sono stati vicino». 

Le tappe di un diritto ancora negato in Italia

Nel nostro Paese proprio grazie alla disobbedienza civile di Cappato per l’aiuto fornito a Fabiano Antoniani, e quindi grazie alla sentenza 242/19 della Corte costituzionale, l’“aiuto al suicidio” è possibile legalmente quando la persona malata che ne fa richiesta è affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli ed è tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale. Tali condizioni e le modalità devono essere state verificate dal SSN con parere del comitato etico, come accaduto nel caso di Federico Carboni, il quale ha potuto accedere al “suicidio assistito” senza che l’aiuto fornito configurasse reato.

Nonostante la sentenza della Corte abbia valore di legge, però, il Servizio Sanitario regionale non garantisce tempi certi per effettuare le verifiche e rispondere alle persone malate che chiedono di porre fine alla propria vita. Così rimangono in attesa di ASL e Comitati Etici territoriali che, per svolgere le loro funzioni di verifica delle condizioni, possono impiegare mesi. Un tempo che molte persone che non hanno e per questo sono costrette ad avviare azioni legali. A testimoniarlo storie come quella di Laura Santi, 48 anni, affetta da una forma progressiva di sclerosi multipla, in attesa di una risposta da oltre 400 giorni. 

L’Associazione Luca Coscioni ha avviato la campagna “Liberi Subito” per presentare proposte di legge regionali che garantiscano il percorso di richiesta di “suicidio” medicalmente assistito e i controlli necessari in tempi certi, adeguati e definiti. Le firme necessarie per portare la proposta in Consiglio regionale sono state raggiunte in Veneto, Emilia Romagna, Abruzzo e Piemonte. La raccolta è ancora in corso in Friuli Venezia Giulia. Analoga proposta verrà depositata in Basilicata e Lazio attraverso l’iniziativa dei Comuni ed è già stata depositata da consiglieri regionali in Sardegna, Puglia e Marche.

Un tempo sospeso tra migrazioni e sofferenze

Federico Carboni al momento, secondo i dati in possesso in possesso dell’associazione Luca Coscioni, è l’unica persona in Italia ad aver fatto ricorso alla morte volontaria assistita, dopo un calvario giudiziario di oltre due anni tra denunce e processi a carico dell’azienda sanitaria locale, che secondo la sentenza della Corte Costituzionale “Cappato/Antoniani”, con valore di legge, avrebbe dovuto garantirgli l’iter per l’accesso alla tecnica.

Anche altri tre italiani, Stefano Gheller, Antonio e Gloria hanno ottenuto il via libera dal Comitato Etico della regione di appartenenza (ultimo step prima del “semaforo verde”) e sono dunque ora liberi di scegliere il momento più opportuno per confermare le proprie volontà o eventualmente modificare le proprie intenzioni iniziali.

Ma sono numerosi gli italiani costretti a emigrare in Svizzera. Tra quelli assistiti da Marco Cappato e i “disobbedienti civili” iscritti a Soccorso Civile. Altri, come Federico Carboni, son finiti intrappolati nelle sabbie mobili delle lungaggini burocratiche e vittime di quelli che l’Associazione Coscioni definisce “reato di tortura” da parte dello Stato e costretti a un interminabile percorso nei tribunali contemporaneo e direttamente proporzionale a un peggioramento delle condizioni di salute.

Infine vi sono casi come Fabio Ridolfi e Giampaolo costretti a rinunciare al lungo e faticoso percorso scegliendo loro malgrado il ricorso alla sospensione delle terapie e una lenta morte sotto sedazione profonda con distacco dell’alimentazione e dell’idratazione, un epilogo che non avrebbero desiderato.

La scia di cadaveri del "Dottor Morte": una vendetta mascherata da eutanasia. Secondo una stima, Harold Shipman mietè almeno 250 vittime nell’arco di 23 anni. Ma il bilancio potrebbe essere addirittura superiore: una storia da brivido. Massimo Balsamo il 18 Maggio 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 L'infanzia e il lutto segnante

 L'amore per la medicina

 La nascita del Dottor Morte

 Un serial killer spietato

 L'inizio della fine per Harold Shipman

 L'arresto, la condanna e l'estremo gesto

171 donne e 44 uomini, principalmente in età avanzata. Questo il bilancio – non ufficiale – delle vittime di Harold Shipman, ribattezzato dalla stampa Uk il Dottor Morte. Ma la realtà sarebbe un’altra: secondo alcuni analisti, il conteggio potrebbe raggiungere quota 350 morti. Ciò che è certo è che lo stimato medico inglese – amatissimo dai suoi pazienti – fa parte dell’elenco dei serial killer più prolifici della storia del Regno Unito, diventando un punto di riferimento a livello mondiale circa l’enorme pericolo rappresentato dagli angeli della morte.

L'infanzia e il lutto segnante

Harold Frederick “Fred” Shipman nasce il 14 gennaio nel Nottinghamshire da Vera e Harold Shipman, di professione camionista. Il legame con la madre è unico sin dall’infanzia: lei gli dedica tante attenzioni, è molto affettuosa ed è pronta a tutto per vedere Harold e i suoi due fratelli – Pauline e Clive – realizzati. Iscritto alla migliore scuola privata di Nottingham, "Fred" ha un andamento scolastico nella media. Non ha molti amici e risulta spesso goffo nell’approcciarsi alle ragazze, ma può vantare un ottimo curriculum sportivo, che lo porta a diventare vicecapitano della squadra di rugby del liceo.

La sua adolescenza però viene interrotta dalla malattia della madre, colpita da un tumore ai polmoni. "Fred", all'epoca diciassettenne, si prende cura di lei con amore e devozione, ma la vede morire lentamente, tra dolore e agonia. L'unica parentesi di sollievo è data dalla morfina, iniettata da un dottore che fa tappa quotidianamente a casa loro. La tragedia si consuma il 21 giugno del 1963 e qualcosa si spezza in lui. Un duro colpo che lo tramortisce per diversi mesi, fino a quando decide di provare a dare una svolta alla sua vita: si pone l'obiettivo di diventare medico.

L'amore per la medicina

Terminato il liceo, Harold Shipman prova a entrare alla facoltà di Medicina dell'Università di Leeds ma non passa il test di ingresso. Sorte diversa un anno più tardi, nel 1965. Il dolore sembra ormai alle spalle per il giovane, che trova anche l'amore della sua vita: la diciassettenne Primrose Oxtoby, ragazza schiva e introversa proprio come lui. Un vero e proprio colpo di fulmine che li spinge a convolare a nozze un anno più tardi, nel novembre del 1966. Primrose inoltre dà alla luce un bambino, il primo di quattro figli.

Dopo cinque anni tra studio e pratica, Harold Shipman si laurea in Medicina e svolge un anno di tirocinio. Nel 1971 arriva l'abilitazione professionale, seguita dalla specializzazione in pediatria, ostetricia e ginecologia. Nel 1974 si associa ad altri colleghi di Todmorden, contea del West Yorkshire, e inizia a esercitare. Un lavoro affrontato con grande passione, come dimostrato dalla crescita esponenziale del numero di pazienti gestiti, tutti colpiti dalla sua disponibilità e dalla sua educazione. Di tutt'altro avviso i colleghi, infastiditi dalla sua scontrosità e dal suo sgarbo.

La nascita del Dottor Morte

Harold Shipman conduce una vita apparentemente normale: fa un lavoro che ama, è un buon padre di famiglia ed è inserito nella vita della comunità. È alla mano e ben disposto, sempre in prima fila per dare un aiuto all'altro. Ma c'è un altro lato che nessuno conosce, nemmeno i suoi familiari: il Dottor Morte. Nel 1975 la prima vittima, Ava Lyons, ricoverata allo studio medico Abraham Ormerod Medical Center di Todmorden: ospedalizzata per le condizioni critiche, la settantunenne viene uccisa con un’iniezione letale a base di diamorfina diluita, un composto più potente della morfina semplice.

Nel 1976 però Harold Shipman deve fare i conti con le sue dipendenze. Lo stimato medico inglese accusa una serie di perdite di conoscenza, che lo portano a urla disumane di dolore. I colleghi pensano all'epilessia e gli prescrivono un lungo riposo, ma le analisi di laboratorio conducono a un'altra verità: l'uomo fa regolare uso di dosi massicce di petidina, un farmaco analgesico oppioide sintetico appartenente alla classe delle fenilpiperidine. Shipman si inietta il narcotico con dosi superiori ai 700 mg quotidiani, molto di più rispetto ai 100 mg prescritti ai pazienti malati.

Messo alle strette sulla sua dipendenza dalla droga, Harold Shipman è costretto a vuotare il sacco, rivelando di aver comprato la petidina mediante contraffazione, utilizzando il nome di un paziente morente. Il Concilio Medico Generale britannico lo obbliga a disintossicarsi presso un centro riconosciuto, ma gli risparmia azioni legali. E il Dottor Morte riesce a salvare anche la licenza medica: nessuna revoca, solo una sospensione per due anni. Il trentenne riceve cure psichiatriche e farmacologiche a York, stupendo tutti per la sua riabilitazione. Ma la verità - di nuovo - è un'altra.

Un serial killer spietato

Terminata la fase di purgatorio, Harold Shipman torna ad esercitare a Hyde - contea della Greater Manchester - per sostituire un medico in pensione. Superato il colloquio di assunzione, conferma il suo potere attrattivo nei confronti di pazienti, trattati con amore e benevolenza. Un medico stimato per la sua incredibile disponibilità, che lo porta a passare anche ore con le persone visitate. Discorso diverso nel rapporto con gli altri medici e con gli infermieri, di totale freddezza e spesso caratterizzato da scontrosaggine.

"Drogato dal lavoro", secondo i colleghi, Harold Shipman a partire dal 1980 si rende disponibile per un programma di rinnovamento del servizio ambulanze, ma iniziano i primi segnali che destano preoccupazione. Sempre più pazienti anziani muoiono all'improvviso nonostante il discreto stato di salute. Nessuno sospetta nulla, ma il Dottor Morte è sempre più affamato di vittime: il modus operandi è sempre lo stesso, un'iniezione di diamorfina diluita. Complice il grande riscontro, Harold Shipman nel 1993 decide di aprire un ambulatorio tutto suo e i numeri parlano da soli: 3 mila pazienti registrati. Ma negli stessi mesi qualcosa cambia, sorgono i primi sospetti sul conto del medico, già finito nel mirino della comunità per la morte sospetta di un uomo nel 1985.

L'inizio della fine per Harold Shipman 

Nel 1997 l'impresario di pompe funebri Frank Massey fa ciò che nessuno aveva fatto prima: si pone delle domande. L'uomo infatti nota che molti dei cadaveri che gli arrivano sono pazienti del dottore Harold Shipman. Un unico dettaglio a tenere insieme il tutto: la morte in circostanze poco chiare. Massey inoltre si accorge che la stragrande maggioranza delle vittime è di sesso femminile, tutte trovate da sole a casa, sedute su una poltrona e con una manica rimboccata sul braccio. Ma non è tutto: nelle loro abitazioni spesso viene riscontrata l'assenza di oggetti comuni, dalle confezioni di medicinali ai cerotti.

I numeri sono sconvolgenti: Harold Shipman nel 1997 firma 47 certificati di morte, numero sei volte superiore alla media nazionale dei medici britannici. Sempre più persone iniziano a porsi delle domande e le segnalazioni si moltiplicano sia tra i medici che tra i comuni cittadini. La svolta arriva nel caso di Kathleen Grundy, morta nel dicembre del 1997. Secondo i suoi parenti, la donna non è morta per cause naturali ma per mano di Harold Shipman. In un diario segreto infatti la vittima aveva segnalato lo strano interesse del dottore per la sua eredità. A testimonianza di ciò, nel testamento viene segnalato che la donna aveva lasciato tutti i suoi averi a Shipman. Ripensamento in punto di morte? No, una semplice falsificazione: un esperto esamina il testo delle ultime volontà della donna e conferma che non era stato scritto di suo pugno.

L'arresto, la condanna e l'estremo gesto

Come ogni serial killer ossessionato, Harold Shipman continua a soddisfare le sue esigenze fino a perdere il controllo. Il dottore arriva a uccidere tre o quattro pazienti al mese, fino al boom di febbraio 1998, con sette persone morte in circostanze misteriose. La polizia perquisisce l'abitazione di Harold Shipman e trova diversi esemplari di bigiotteria appartenenti ad alcune vittime, senza però procedere all'arresto. Nel frattempo il medico continua a esercitare, contando sulla fiducia incondizionata di molti pazienti. Riesumato il corpo di Kathleen Grundy, arriva la tragica conferma: l'anziana era stata uccisa tramite iniezione letale. Spinte dalla volontà di fare chiarezza, le autorità ordinano la riesumazione di altre sette pazienti non ancora cremate: trovate tracce della stessa sostanza che aveva ucciso la Grundy.

Lyle e Erik Menendez, storia di due fratelli di sangue

La mattina del 7 settembre 1998 Harold Shipman viene arrestato con l’accusa di omicidio, un mese più tardi viene formalmente accusato di tre omicidi. Presuntuoso e arrogante con gli agenti, il dottore si adatta facilmente alla vita carceraria. Il 5 ottobre del 1999 si apre il processo a suo carico, il numero di omicidi contestati sale a quindici: in tutti i cadaveri era stato trovato un quantitativo di diamorfina. Il 31 gennaio 2000 viene giudicato colpevole all'unanimità e condannato a quindici ergastoli consecutivi.

Ma il timore è che il numero di vittime sia ben più alto, considerando i trent'anni di attività di Shipman: molti pazienti deceduti sono stati cremati. Uno studio statistico non lascia spazio a dubbi: le sue vittime sarebbero almeno 223, considerando il rapporto tra il numero di decessi tra i pazienti del Dottor Morte e il numero di decessi tra i pazienti degli altri medici della zona. Secondo altre indagini, partendo dal praticantato, il numero salirebbe a 345.

Bocca cucita per Harold Shipman, che decide di portare i suoi segreti nella tomba: il medico si suicida il 13 gennaio del 2004 nella prigione di Wakefield. Secondo la Bbc, avrebbe detto al suo agente di sorveglianza di contemplare da diverso tempo l’estremo gesto per fare avere del denaro alla moglie. Vendetta per la morte della madre, un modo per alleggerire gli oneri sul sistema sanitario britannico, eutanasia illegale: nessuno è riuscito a chiarire il perché di questa furia omicida, così come il bilancio di persone uccise.

Olanda: ok all’eutanasia per i bambini incurabili e che soffrono in modo “insopportabile”. Gloria Ferrari su L'Indipendente il 25 aprile 2023

Il Governo dei Paesi Bassi, guidato dal Primo Ministro Mark Rutte, ha annunciato che d’ora in poi potrà avere accesso all’eutanasia chiunque abbia compiuto almeno un anno di vita e sia affetto da malattie incurabili e che «soffrono senza speranza e in modo insopportabile». Le modalità d’accesso alla pratica saranno piuttosto complicate, vista la delicatezza della questione: esistono regole e condizioni ben precise, che passano dalla discussione con la famiglia del minore, al consenso, fino alla certificazione medica dell’insostenibilità della sofferenza fisica del paziente. Un terzo professionista, inoltre, non coinvolto nella storia clinica del bambino, prima di concedere l’autorizzazione finale dovrà valutare se sono stati rispettati tutti i requisiti richiesti dalla legge.

In realtà nel Paese tale procedura medica era già legale dal 2002, ma solo per persone dai dodici anni in su – per i minori con un’età compresa tra i 12 ei 16 anni è richiesto il consenso del genitore, non vincolante invece per quelli tra i 16 e 18 anni. In altre parole, la decisione del Governo amplia una normativa già esistente, «sanando così un vuoto di legge e facendo giustizia». Colmando, di fatto, uno spazio che creava, a detta di Rutte, disparità.

All’eutanasia, secondo Kuipers, Ministro della Salute, accedono circa 5-10 bambini all’anno, «un piccolo gruppo di persone con malattie terminali – o anomalie del cervello o del cuore – che soffrono senza speranza e in modo insopportabile, le cui opzioni di cure palliative non sono sufficienti per alleviare le loro sofferenze e che dovrebbero morire nel prossimo futuro. Per loro l’interruzione della vita è l’unica alternativa ragionevole».

«Si tratta di un tema particolarmente complesso che affronta situazioni molto strazianti. Situazioni che non augureresti a nessuno. Sono lieto che, dopo un’intensa consultazione con tutte le parti coinvolte, siamo giunti a una soluzione che ci consente di aiutare questi bambini malati terminali, i loro genitori e anche i loro medici», ha aggiunto Kuipers.

I Paesi Bassi sono stati il primo Paese al mondo ad aver legalizzato l’eutanasia, ma è stato il Belgio, nel 2014, ad averla estesa per primo ai minori di tutte le età. [di Gloria Ferrari]

Suicidio assistito, chi deve autorizzarlo? Il parere dei bioetici. Margherita De Bac su Il Corriere della Sera il 26 Gennaio 2023.

Oggi nella sua prima riunione il Comitato nazionale di bioetica comincia a parlare di fine vita. Un vuoto da colmare, non solo dal punto di vista legislativo

È il fine vita il primo impegno del Comitato nazionale per la bioetica (CNB) nominato un mese fa dal governo Meloni. Tema «sensibile», il più sensibile che c’è. Gli esperti in scienza e morale coordinati dal presidente, il biologo molecolare Angelo Vescovi, si riuniscono oggi per la prima volta con un unico punto all’ordine del giorno.

Negli ospedali

All’organismo di consulenza di Palazzo Chigi il ministero della Salute richiede un parere per «l’individuazione di comitati etici competenti in materia di suicidio assistito». In pratica si vuole sapere quali comitati etici debbano esprimersi su questa materia e in particolare se possano essere considerati competenti quelli che oggi, negli ospedali, si occupano di trial clinici, col compito di esaminare e autorizzare i protocolli sugli studi di nuovi farmaci o dispositivi medici.

Etica clinica

In alternativa, potrebbero essere coinvolti i comitati per l’etica nella clinica, con funzioni di consulenza sui casi bioetici che si presentano negli ospedali, oppure altri comitati unicamente dedicati allo scopo (leggi qui alcune posizioni sui comitati). Sembra una questione puramente tecnica. Invece è il primo passo lungo una strada che dovrebbe portare alla tutela di ogni individuo desideroso di metter fine alla propria vita. Essere tutelati significa che ogni caso venga esaminato da figure capaci in questo specifico campo.

La richiesta delle Regioni

Le Regioni, che hanno competenza sul sistema sanitario, chiedono che non siano i comitati etici per la sperimentazione clinica, 40 in tutta Italia, a trattare il tema del fine vita tanto lontano concettualmente e operativamente dalla sperimentazione. O che almeno lo facciano in via straordinaria “laddove queste funzioni non siano già attribuite ai Comitati per l’etica nella Clinica” censiti nelle regioni e comunicati al ministero della Salute. Il quesito sul suicidio assistito è uno snodo bioetico fondamentale.

Il caso Cappato

Nella sentenza del 2018 sul caso Cappato, la Corte Costituzionale aveva dichiarato non punibile chi agevola «l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli». La Corte nella pronuncia aggiunge che però «tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente».

La Consulta

La richiesta di parere al CNB è il primo passo per colmare un vuoto. Il Parlamento potrà tenerne conto quando affronterà il cimento di una legge. Il comitato di bioetici è stato istituito il 6 dicembre dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano, su delega del presidente del Consiglio. Una rosa eticamente plurale ma dove le voci cattolico conservatrici hanno uno spazio assai più esteso rispetto alla precedente compagine presieduta da Lorenzo D’Avack, giurista. Trentatrè membri, 8 più dell’ultimo mandato, 13 donne, in numero percentualmente equivalente al passato mandato e considerevole nella storia del CNB.

I nuovi saggi

I vice di Vescovi sono Maria Luisa Di Pietro, medico legale, il rabbino capo Riccardo Di Segni e il penalista Mauro Ronco. In passato il CNB ha pubblicato molti documenti sui comitati etici e sulle loro funzioni, influenzando la loro evoluzione in Italia, da ultimo con un parere proprio sui comitati per l’etica nella clinica, nel 2017, a firma di Salvatore Amato, Cinzia Caporale e Carlo Petrini. È quindi un organismo assai qualificato per fornire una base conoscitiva per le scelte di governo.

«Il Veneto leghista potrebbe essere la prima regione con una legge per l’eutanasia. E non ci fermeremo». «L’eutanasia non è un tema divisivo: è favorevole anche la maggior parte degli elettori di destra. Siamo partiti con le raccolte firme anche in Friuli Venezia Giulia, Piemonte, Emilia-Romagna e Abruzzo, ma presto arriveremo in altre regioni». Marco Cappato a L’Espresso racconta come intende far applicare la sentenza della Corte Costituzionale su dj Fabo. Simone Alliva su L'Espresso il 10 Maggio 2023.

I Pro-Vita annunciano battaglia, Paola Binetti si dice stupita, ma il Veneto potrebbe essere la prima regione italiana a dotarsi di una legge sul fine vita. Non ancora, però siamo a un passo. Lo racconta a L’Espresso Marco Cappato, radicale non (più) per tessera, cinque arresti o fermi per disobbedienza civile, un processo che ha rivoluzionato la disciplina sul suicidio assistito. Insieme a Filomena Gallo e all’Associazione Luca Coscioni (tesoriere lui, segretaria lei) hanno deciso di ripartire dalla regioni con la raccolta di firme per la presentazione di leggi regionali basate sulla sentenza della Consulta ("Liberi Subito"). Non solo in Veneto ma anche Abruzzo, Piemonte, Emilia Romagna e Friuli Venezia Giulia per regolamentare l’aiuto medico alla morte volontaria. Tutto è fermo a Roma, ma sull’introduzione dell’eutanasia legale in Italia si può andare avanti, nonostante il governo Meloni faccia finta di nulla (“Un sabotaggio silenzioso”) ci sono cittadini e governatori di regione che sordi agli ordini di partito abitano la vita vera. 

Marco Cappato, cosa sta succedendo nelle regioni sul tema del fine vita? 

«Per spiegarlo mi permetta una promessa; sul mio processo la Corte costituzionale ha determinato le condizioni in cui è legale ottenere l’aiuto alla morte volontaria. Solo che la persona deve essere lucida e consapevole, affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche reputate intollerabili e che sia tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale. A queste condizioni già oggi un malato può ottenere il suicidio assistito. Nella pratica, non succede mai. È successo una sola volta in 4 anni ed è successo a Federico Carboni dopo due anni di attesa e processi con l’assistenza di Filomena Gallo, l’associazione Luca Coscioni e con l’aiuto di Mario Ricci. Questo significa che la disobbedienza civile ha cambiato la legge ma questa non viene rispettata da nessuna parte nei sistemi sanitari regionali».

Come si spiega questa riluttanza?

«Semplice: in assenza di regole e di misure vincolanti e certe, le volontà del malato non ottengono risposta. Noi come associazione Luca Coscioni abbiamo preparato una legge regionale che ovviamente non cambia ciò che potrebbe essere legale o no, essendo appunto regionale, ma chiede che entro 20 giorni tutti facciano le verifiche a cui sono chiamati: che l’ASL verifichi le condizioni delle persone, che il comitato etico locale si esprima e, se il paziente conferma la sua scelta, che possa ottenere l’aiuto medico alla morte volontaria. Questa legge la stiamo proponendo attraverso le iniziative popolari regionali. Ogni regione, in uno statuto, prevede che un tot di cittadini di quella regione possano chiedere al Consiglio Regionale di prendere in esame un testo. La raccolta firma attualmente è attiva in Veneto, Friuli Venezia Giulia, Piemonte, Emilia-Romagna e Abruzzo e sarà presto attivata in altre regioni italiane».

Proprio il Veneto, come abbiamo raccontato su L’Espresso, è a un passo grazie alla vostra mobilitazione

«Il Veneto è l’unica regione che ha già raggiunto il numero delle firme. Il pronunciamento della giunta regionale a favore è già un fatto molto positivo perché stiamo parlando di una regione che sulla carta potrebbe essere considerata di una maggioranza politica avversa alla proposta. E qui l’aspetto politico importante considerando la posizione che ha assunto la Lega nella regione: soprattutto del presidente Zaia che sul caso di Stefano Gheller (il cinquant’enne di Cassola affetto da una rara forma di distrofia muscolare n.d.r) si è espresso positivamente sulla possibilità di rispettare le richieste dei malati e Gheller stesso è stato giudicato in tempi giusti e ha ottenuto tutte le verifiche della sua condizione da parte del servizio solitario veneto. Nelle prossime settimane, raccoglieremo altre firme di margine, entro il prossimo mese consegneremo molte più delle firme minime necessarie previste e a quel punto il Consiglio Regionale dovrà discutere non più una mozione (che non ha un effetto vincolante sui diritti) ma una vera e propria legge regionale che se fosse approvata sarebbe la prima regione ad essersi dotata di regole e procedure certe per ottenere l’aiuto medico alla morte volontaria previste e stabilite dalla sentenza della corte costituzionale».

Una sorpresa per il Veneto che ha suscitato l’ira degli ultracattolici da Binetti ai gruppi Pro-Vita, che ne pensa?

«Sorprende solo chi si limita a leggere la politica sotto la lente degli schieramenti dei capi partito nazionale. Ma se si va a vedere nel merito delle questioni la gente è oltre. Le faccio un esempio: il Gazzettino del Nord Est pubblica ogni anno un sondaggio proprio sull’eutanasia, dal quale emerge che siamo arrivati a una percentuale di favorevoli del 82%. Gli elettori di Fratelli d’Italia sono all’81% , quelli della Lega favorevoli per il 78. Quello che a Roma i capi partito definiscono temi divisivi nella società sono temi che uniscono le persone che hanno vissuto sulla propria pelle quello di cui stanno parlando. Questa favoletta di temi di estrema sinistra, scontro laici-cattolici è raccontata ad uso e consumo di capi partito che vogliono fare finta di avere truppe dietro le loro parole d’ordine ma sotto queste parole non c’è nella società nulla. Non hanno alcun radicamento sociale».

Chi abita il territorio anche se di destra conosce elettori ed esigenze, diciamo così?

«Io penso che Zaia sia semplicemente una persona che avendo una lunga esperienza di governo locale per esercizio quotidiano si sia abituato a confrontarsi quello che davvero pensano le persone».

Invece a Roma nulla si muove da questo punto di vista.

«Non avevo aspettative. Già non si era fatto nulla con la scorsa legislatura. Il tentativo del Governo Meloni è quello di un sabotaggio silenzioso. La legge sul testamento biologico c’è da ormai sei anni e sia nei Governi precedenti, meno che mai in questo, stanno rispettando questa legge che prevede ad esempio campagne di informazione. Basterebbe un’ora su Zoom per formare la classe medica in Italia su cosa siano le disposizioni anticipate di trattamento e invece non si muove nulla».

Il silenzio è una strategia politica

«Con la sentenza della Corte Costituzionale sul mio processo hanno subito una sconfitta di principio e quindi la strategia è che quella apertura della Corte rimanga solo sulla carta. Basta che la gente non ne sappia nulla, così come i medici, e che i sistemi sanitari non facciano nulla. Il problema così dal loro punto di vista è risolto. Ma noi andremo avanti con le disobbedienze civili, con le leggi di iniziativa popolare anche a livello regionale cercheremo di aprire gli spazi che nella società le contraddizioni questi partiti aprono. Li percorreremo fino alla fine perché sappiamo che le persone sono attente e pronte su questo tema».

Sei anni fa moriva Dj Fabo, ma la politica continua a ignorare il Fine vita. In Italia sono raddoppiate le richieste di aiuto per una morte dignitosa. Ma sulla possibilità di una legge il Parlamento continua a non fare nulla. Simone Alliva su L’Espresso il 27 Febbraio 2023

Sono passati 6 anni dalla morte di Fabiano Antoniani, meglio noto come Dj Fabo, aiutato da Marco Cappato a raggiungere la Svizzera per ricorrere all’aiuto medico alla morte volontaria (il cosiddetto “aiuto al suicidio”). Sei anni di discussioni, proposte di legge, raccolte firme. Sei anni di fallimenti.

«Prova a legarti mani e piedi e a chiudere gli occhi e capisci come vivo» raccontava Antoniani all’Italia implorando un aiuto. Reso paraplegico e cieco da un incidente d'auto, alla politica chiese di poter «uscire da quella notte senza fine». Fu costretto a farlo in una cameretta della clinica Dignitas in Svizzera il 27 febbraio del 2017 dopo aver morso un pulsante per attivare l'immissione di un farmaco letale.

Inascoltato. Forzato alla fuga da un paese che non ti aiuta neanche a morire. Per oltrepassare il confine italiano, dove è necessario un ruolo attivo del paziente nella somministrazione del farmaco, il 40enne chiese aiuto a Marco Cappato, tesoriere dell'Associazione Luca Coscioni. Tornato in Italia, Cappato si autodenunciò e fu iscritto nel registro degli indagati per il reato di aiuto al suicidio, venendo assolto nel 2019 "perché il fatto non sussiste". Con la sentenza 242 del 2019, conosciuta come sentenza dj Fabo/Cappato, la Corte Costituzionale ha sancito in parte l'illegittimità costituzionale dell'articolo 580 del codice penale così da escludere la punibilità per chi agevoli il proposito di suicidio autonomamente.

Nell’assenza di una legge, ancora oggi per andarsene con dignità gli italiani sono costretti farlo oltre i confini della patria. Negli ultimi 12 mesi sono aumentate del 111 per cento le persone alle quali l’Associazione Luca Coscioni ha fornito informazioni e aiuto pratico sul fine vita. Un milione e 200mila cittadini hanno sottoscritto la raccolta firma per il referendum sull’eutanasia legale, poi bocciato dalla Corte costituzionale. Numeri che sono il metro esatto della distanza che separa l'esperienza personale dei cittadini dall’azione politica del Parlamento.

La proposta di far approvare una legge (contestata e sofferta, come raccontato da L’Espresso) è naufragata lo scorso anno con la fine anticipata della legislatura. Non è bastato il richiamo della Corte Costituzionale nel 2018 che dava un anno di tempo al Parlamento per legiferare. Non è servito che la stessa dichiarasse illegittima la norma che punisce l’aiuto al suicidio nella parte in cui non consente che vi si ricorra per le persone libere e consapevoli tenute in vita con “sostegni vitali”, affette da malattie irreversibili e da sofferenze insopportabili.

La nuova legislatura conta sei proposte depositate tra Camera e Senato, già assegnate alla commissione competente. Arrivano tutte dalle opposizioni, le firmano: Riccardo Magi (+Europa), Enrico Costa (IV), Elisa Pirro (M5S), Gilda Sportiello (M5S), Alfredo Bazoli (PD), Dario Parrini (PD). Al Parlamento giace inoltre dal 2013 una proposta di legge di iniziativa popolare sul suicidio assistito, dimenticata. Il tema non sembra interessare la maggioranza di governo, la presidente Giorgia Meloni definì «sacrosanta la decisione della Corte costituzionale di dichiarare inammissibile il referendum proposto dai radicali sull’omicidio del consenziente, anche se sano». Per la leader di Fratelli d’Italia il diritto a una morte dignitosa «avrebbe scardinato il nostro ordinamento giuridico, da sempre orientato alla difesa della vita umana e alla tutela dei più fragili e deboli».

Intanto, di fronte ai casi di cronaca che raccontano un’altra Italia pronta alla fuga per cercare una morte dignitosa, a fine gennaio il ministro della Salute Orazio Schillaci ha chiesto al Comitato di bioetica di fornire un parere sul suicidio assistito. Un comitato che può vantare membri come Giuseppe Casale, il medico che si rifiutò di staccare la spina dei macchinari che tennero in vita Piergiorgio Welby, co-presidente dell'associazione Coscioni affetto da distrofia muscolare che lottò per vedersi riconoscere il diritto all'eutanasia e Marcello Ricciuti convinto che «l’esistenza di un’opzione legale per una via rapida che porti alla morte implica una scarsa considerazione del valore della persona che sta morendo e del viaggio che sta conducendo». Il 24 febbraio il Comitato ha identificato nei recentemente istituiti Comitati etici territoriali gli organismi ''competenti a rendere il parere in materia di suicidio assistito'' , insomma ha optato per un rimbalzo di responsabilità.

Lontano dai palazzi, nel mondo reale, i cittadini fanno da soli e aumentano sempre di più i pazienti che hanno chiesto aiuto a Marco Cappato per raggiungere la Svizzera attraverso Soccorso Civile, l'associazione da lui fondata nel 2015 insieme a Mina Welby e Gustavo Fraticelli per affermare i diritti delle persone attraverso azioni di disobbedienza civile. Gli effetti di una politica sorda davanti al dolore.

«Dobbiamo dirvi grazie Fabo, Englaro e Welby. Perché il fine vita oggi è una battaglia di tutti». Loro e tanti altri hanno rivendicato il diritto di decidere del proprio destino. Spingendo il Paese a cambiare leggi o a farne di nuove. Ma la lotta non è ancora finita. Chiara Lalli su L’Espresso il 27 Febbraio 2023

18 gennaio 1992: Eluana Englaro ha un incidente mentre sta tornando a casa. Ha ventuno anni e non si sveglierà più: è in stato vegetativo persistente. Alcuni anni più tardi il padre Beppino chiede di poter interrompere la nutrizione e l’idratazione, perché Eluana non avrebbe voluto essere tenuta in vita in quelle condizioni, perché non c’è alcuna possibilità di miglioramento, perché i danni sono irreversibili e gravissimi. Ci vorranno dieci anni e un lungo elenco di orrori, forse inarrivabili i riferimenti al «bell’aspetto» e alle mestruazioni. La difficoltà, in casi simili a quello di Englaro, sta nel ricostruire le volontà della persona prima che quelle volontà non possano essere più espresse.

21 settembre 2006: Piergiorgio Welby scrive al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Ha la distrofia muscolare e non ce la fa più, vuole morire. «Fino a due mesi e mezzo fa la mia vita era sì segnata da difficoltà non indifferenti, ma almeno per qualche ora del giorno potevo, con l’ausilio del mio computer, scrivere, leggere, fare delle ricerche, incontrare gli amici su Internet. Ora sono come sprofondato in un baratro da dove non trovo uscita», scrive. Napolitano gli risponde tre giorni dopo. «Raccolgo il suo messaggio di tragica sofferenza con sincera comprensione e solidarietà. Esso può rappresentare un’occasione di non frettolosa riflessione su situazioni e temi, di particolare complessità sul piano etico, che richiedono un confronto sensibile e approfondito, qualunque possa essere in definitiva la conclusione approvata dai più. Mi auguro che un tale confronto ci sia, nelle sedi più idonee, perché il solo atteggiamento ingiustificabile sarebbe il silenzio, la sospensione o l’elusione di ogni responsabile chiarimento».

Il confronto non ci sarà, se intendiamo quello politico. Perché la migliore risposta è fare finta di niente. Ci vorranno 88 giorni per esaudire la richiesta legittima di Piergiorgio Welby: staccare il respiratore, cioè interrompere un trattamento.

27 febbraio 2017: Fabiano Antoniani muore in Svizzera. Ha 40 anni, è cieco, tetraplegico, ha dolori intollerabili e spasmi muscolari. Lo ha accompagnato Marco Cappato che poi si denuncerà. Grazie ad Antoniani e a Cappato si arriva alla sentenza della Corte costituzionale del settembre 2019 (di cui si scrive sotto).

22 dicembre 2017: viene approvata la legge 219, Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento. È una legge che ci permette di decidere per quando non potremo più farlo e ribadisce princìpi già esistenti e costituzionali: in una parola, la nostra autodeterminazione. Una delle parti più importanti è il comma 5 dell’articolo 1: «Ogni persona capace di agire ha il diritto di rifiutare, in tutto o in parte […] qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario indicato dal medico per la sua patologia o singoli atti del trattamento stesso. Ha, inoltre, il diritto di revocare in qualsiasi momento […] il consenso prestato, anche quando la revoca comporti l’interruzione del trattamento. Ai fini della presente legge, sono considerati trattamenti sanitari la nutrizione artificiale e l’idratazione artificiale, in quanto somministrazione, su prescrizione medica, di nutrienti mediante dispositivi medici».

25 settembre 2019: la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 580 del codice penale (istigazione o aiuto al suicidio) in riferimento al caso di Antoniani. Si esclude l’istigazione perché lui ha deciso liberamente e si dichiara incostituzionale il resto «nella parte in cui non esclude la punibilità di chi […] agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente».

Bene, ma il requisito del sostegno vitale è ingiusto e insensato perché distingue tra malattie e quindi discrimina le persone.

Tra il 2019 e oggi, altri decidono di trasformare la loro scelta personale in una decisione pubblica e politica. Perché non è che non si muoia se non lo sappiamo, che non si stacchino macchinari o che non si decida di farsi sedare fino alla eliminazione della coscienza, fino alla morte. La differenza sta tra il farlo e il rivendicarlo, tra la pratica e il diritto.

Federico Carboni (il 16 giugno 2022, dopo due anni di denunce e di mancate risposte, riesce a morire a casa sua) e Fabio Ridolfi (il 13 giugno 2022 decide di farsi sedare perché non ne può più di aspettare, dopo più di 18 anni d’immobilità totale). Elena Altamira (2 agosto 2022), Romano (25 novembre 2022), Massimiliano (8 dicembre 2022) e Paola (8 febbraio 2023): tutti vanno in Svizzera perché non rientrano in senso stretto in quel requisito che la Corte ha stabilito come necessario per far sì che aiutare qualcuno a morire non si configuri come un reato.

Accompagnare Elena, Romano, Massimiliano e Paola è disobbedienza civile e la denuncia ha l’intento di sottolineare l’ingiustizia del requisito del sostengo vitale, meccanico, cioè come un macchinario e non anche un trattamento farmacologico o sanitario o un altro tipo di assistenza manuale ma necessaria. Nel frattempo, il Parlamento rimanda e s’incarta.

Chiara Lalli è autrice di “Sei stato felice? Mina e Piero Welby, una lunga storia d’amore”, disponibile su Spotify e su tutte le piattaforme, prodotto da Miyagi Entertainment in collaborazione con l’Associazione Luca Coscioni. 

Ange Fey, professione accompagnatore alla morte: «Il mio mestiere è “essere lì”». Stefano Lorenzetto su Il Corriere della Sera il 26 Gennaio 2023.

L’hanno definito «esserelista». «Come Caronte, traghetto le persone verso l’aldilà. Cappato? Non lo conosco»

Si chiama Ange Fey, è nato nel 1962 a Parigi, e nel nome, Angelo in francese, c’era già il suo destino, però al contrario. Lui non è l’angelo della morte degli ebrei e dei musulmani, anche se svolge una professione senza eguali in Italia: accompagnatore alla morte. Se gli chiedi a quanti agonizzanti è stato vicino, un lampo di smarrimento gli attraversa gli occhi azzurri: «Non lo so, non lo so». Nel 2022 sono stati uno al mese, meno del solito, e il 2023 è già fitto di conferenze che lo impegneranno parecchio (Savona, L’Aquila, Alessandria, Cesena, Treviso, Sperlonga), tutte sul tema «Comprendere la morte, accompagnare la vita». Ma c’erano anni in cui ne assisteva il doppio, per cui si suppone che dal 1987 abbia raccolto l’ultimo respiro di almeno mezzo migliaio di persone. Fey abita ad Andrate (Torino). Nel 1997 ha fondato ad Aosta una onlus, Il bruco e la farfalla, per stare accanto alle persone in fin di vita. «Preparo medici, psicologi, ostetriche, infermieri, ma anche la signora Maria». Quando vigeva l’obbligo d’indicare la professione sulla carta d’identità, era in imbarazzo: «Accompagnatore ricordava una escort. Ho preferito formatore. Uno psichiatra argentino mi ha definito carontologo. Come il mitologico Caronte, traghetto all’altra riva».

Perché scelse questo mestiere?

«Il primo libro che lessi per intero, a 17 anni, era Mourir n’est pas mourir di Isola Pisani. Avrei dovuto capire allora che c’era una qualche malattia dentro di me. Sentivo parlare del bruco sgraziato che si trasforma in farfalla meravigliosa, ma nessuno mi spiegava come finisce la farfalla. È meno romantico, no? Così cominciai a studiare le capacità di cambiamento dell’essere umano, la psicologia applicata, le tecniche alfageniche di rilassamento, la sofrologia».

Come divenne accompagnatore?

«Mi chiamavano in ospedale per i parenti in fin di vita. Un infermiere di malattie infettive mi disse: “Un ragazzo sta morendo. È solo. Ha chiesto di avere accanto qualcuno. Te la senti? Ha 28 anni”. Io ne avevo 25, ero sconvolto. Allora non si parlava di Aids. Mi trovai in mezzo a un’ecatombe. Una paziente che avrà avuto l’età di Asterix mi guardò sorridendo: “Ho un morbo che non va di moda”. Per gli oncologici c’erano varie associazioni, per lei nessuna. Come mai ci si prende cura di chi nasce ma non di chi muore? Eppure la morte non è una malattia».

In pratica che cosa fa?

«Non c’è tecnica. Porto me stesso. Mi hanno definito “esserelista”, perché il mio lavoro è “essere lì”. Gli infermieri in ospedale corrono, corrono. Al mattino mi chiedono: “Ma lei che fa?”. La sera mi dicono: “Ah, lei dà la mano”. È come mettere l’indice sulla culla di un neonato: lo afferra subito. Una persona in coma ti prende la mano e la tiene stretta».

Chi la chiama al capezzale?

«Le famiglie. Spesso gli stessi malati terminali. Vado più nelle case, che negli ospedali. Non so mai che cosa succederà. Il primo incontro dura tre ore: devo capire se servo. In media rimango 15 giorni. Ma a una donna affetta da mieloma, alla quale avevano dato sei mesi di vita, sono stato accanto per quasi 7 anni».

Applica un protocollo?

«Non c’è regola. Me ne occupo e basta, non so come. Arrivo in una casa e ignoro se potrò essere utile. Non sono un infermiere, non sono un medico. Semplicemente sono “pronto a”. Riattivo le risorse intorno alle persone agonizzanti. I parenti non sanno neppure che esiste la legge sulle Dat, dichiarazioni anticipate di trattamento. Chiedo: se sopraggiunge una crisi respiratoria, che facciamo? Rianimiamo o no? Alimentiamo o no? Immagini sua madre che sta morendo. Non parla e non ha lasciato nulla di scritto. Lei vuole nutrirla, i suoi fratelli no. A quel punto si sfalda la famiglia».

Come fa ad avere risposte per tutto?

«Non le ho. Le cerco. Alle elementari ero sempre soprappensiero. La maestra mi diceva: “Ange, se vuoi viaggiare nel tempo, devi viaggiare nello spazio”. È ciò che ho fatto, andando a vedere negli altri Paesi com’è il testamento biologico, che non va confuso con le Dat. Esempio: se hai una polizza sulla vita, l’assicurazione paga in caso di rifiuto delle cure?».

È stipendiato per il suo lavoro?

«I corsi sono a pagamento. Ai privati applico la tariffa delle ostetriche. Faccio il loro stesso lavoro, però alla rovescia. Solo che il mio non so quando finirà».

Non teme che qualcuno la scambi per un accaparratore di eredità?

«Ci sto molto attento. Ho un pessimo rapporto con il denaro. Non sono mai stato nominato in un testamento. Quando a un funerale hanno voluto organizzare una raccolta di fondi per la onlus, ho devoluto il ricavato ai monaci tibetani».

Che cosa cercano i volontari per i quali tiene corsi formativi?

«L’Italia è fondata sul pezzo di carta. Troppi cercavano solo un titolo. Per questo ho rinunciato alla convenzione con l’ospedale di Aosta e a portarli con me. Accompagnare la vita fino alla morte è un modo di essere. Serve un talento. Morire non è una sfortuna, altrimenti, per evitarla, basterebbe che smettessimo di fare figli. Perché funzioni così, non lo so, non ne ho la minima idea. Credevo di averla a 20 anni. Oggi non ce l’ho più».

Non è nemmeno una fortuna.

«Della morte tutti pensano: il più tardi possibile. Sbagliato. Il più in salute possibile. Quando entro nelle residenze per anziani, mi sento male. Il fatto che tutto finisca mi spinge a chiedermi: come impiego il mio tempo? Sovente il moribondo sospira: “Se avessi saputo...”. Allora mi dico: Ange, tu adesso lo sai».

C’è differenza fra lei e Marco Cappato?

«Non lo conosco».

Porta in Svizzera coloro che ricorrono al suicidio assistito, vietato in Italia.

«Non è quello che faccio. Credo che si debba legiferare su eutanasia e suicidio assistito. Ma è meglio promuovere la cultura del Maalox o quella della buona alimentazione? Non si parla mai di accanimento terapeutico. Mi diagnosticano la Sla, so che non potrò uscirne vivo. Ha senso che assuma gli anticoagulanti?».

Sta molte ore con i malati terminali?

«Dipende. Se occorre, anche dieci ore al giorno. Mi confidano ciò che non hanno mai detto a nessuno. Devo anticipare il lutto, dichiarare la terminalità. I parenti ne hanno paura. Io sono lo Svitol: sciolgo. Il mio lavoro è cambiare l’aria».

Si spieghi meglio.

«Una signora di Milano mi convocò in ospedale a Bologna. Voleva morire nella sua casa di Saint-Vincent. Chiesi: ha qualcuno? “Solo mio fratello, ma non ci parliamo da anni”. Posso telefonargli io? “Provi”. Accorse subito. Era preoccupato: “Ma chi farà da mangiare?”. Poi si recò in Valle d’Aosta a preparare l’alloggio. Le chiavi le aveva una vicina, che si offrì di cucinarci i pasti sino alla fine».

Le hanno mai impedito di stare accanto a un paziente?

«No. Sono invitato. Ho la scritta “morte” sulla fronte, non so se la vede».

Di che parla con gli agonizzanti?

«Sono presente in silenzio. Ho soltanto molto chiaro che nulla dura, nulla! E che tutti, loro, io, lei, moriremo. Serve preparazione. Ho pure studiato tanatoprassi con il grande Jean Monceau all’Instituto español funerario di Barcellona».

Perché? Prepara anche le salme?

«No, è che dovevo capire. Si spegne il papà. I figli non hanno l’obbligo di lasciarlo nelle mani dei necrofori. Lavarlo e vestirlo sono atti importanti. Abbiamo smarrito ciò che c’è prima, durante e dopo la morte, l’abbiamo disumanizzata. Siamo immersi in una cultura per cui a chi sta male diamo un calcio e non ce ne occupiamo più. Accade persino con il gatto: una puntura dal veterinario e via. Ma è davvero necessaria? Oppure gliela pratichiamo perché fa comodo a noi?».

Qualche volta va a trovare in cimitero i defunti che ha accompagnato?

«Oh sì, certo. Spesso. Mi serve».

Che cosa ha imparato da loro?

«Che si muore. Che non è uno scherzo. Che non è angoscioso. Che l’ansia del distacco si supera in 15 minuti. Che ci è stato dato un tempo, di cui non vogliamo mai considerare la fine. L’ho imparato da una signora di 90 anni. “La vita è breve, la vita è breve”, continuava a ripetermi. Era una lettrice di Famiglia Cristiana. L’ho resa felice imitando l’accento tedesco nel leggergli un’intervista con l’allora cardinale Joseph Ratzinger».

Chi sta per morire è rassegnato?

«I processi sono cinque: ignoro, mi arrabbio, patteggio, mi deprimo, accetto. È che oggi ci fanno morire drogati, imbottiti di psicofarmaci».

Qual è la richiesta più frequente?

«“Non lasciarmi solo”».

«Aiutami a morire» no?

«Sì, ma attenzione: non significa “fammi fuori”. Mi terrorizza chi ti fa firmare il testamento biologico sulle bancarelle per strada. Ma siamo diventati matti?».

Lei è credente?

«Sono battezzato. Ho una vita spirituale, ma riguarda solo me. Non ne parlo mai. Imito don Sergio Messina, che era cappellano all’ospedale Amedeo di Savoia a Torino. Entrando a un incontro in curia vescovile, disse: “Il vostro Dio l’ho lasciato fuori dalla porta”. Molti malati si scusavano: “Padre, sono credente ma poco praticante”. Lui rispondeva: “Non preoccuparti. Ho tanti confratelli che sono molto praticanti e poco credenti”».

Il suo è un mestiere che consuma.

«Non sono obbligato a farlo».

In che modo riesce a ricaricarsi?

«Suonavo la batteria in un complesso jazz. Ora studio l’organetto diatonico e mi dedico al volo libero in parapendio».

Come immagina la sua fine?

«Spero di avere accanto qualcuno che rispetti i miei desideri e che non si accanisca con terapie superflue».

Ma lei ha capito il senso della vita?

«Sì. Ha dato un senso a me».

Lutto nel mondo della fotografia, addio a Ivo Saglietti. Scomparso il grande fotografo e fotoreporter Ivo Saglietti, vincitore di importanti premi tra cui (per tre volte) il World Press Photo. Aveva collaborato anche per IlGiornale.it. Roberta Damiata il 2 Dicembre 2023 su Il Giornale.

Si è spento in mattinata dopo una lunga malattia all'Hospice Gigi Ghirotti di Genova, circondato dall'affetto della famiglia, il fotoreporter Ivo Saglietti (75 anni). Una scomparsa che lascia un profondo vuoto nel mondo della fotografia, visto il grande valore del suo lavoro a cui partecipava in maniera quasi empatica raccontando la realtà in maniera vivida e stabilendo con le persone ritratte un rapporto umano e quasi amicale. Aveva collaborato anche con la nostra testata, ilGiornale.it, con la grande passione che lo ha sempre contradistinto. "Ciò che gli premeva raccontare era l'uomo e il suo destino", raccontano i familiari. I funerali, in forma laica, si terranno lunedì 4 dicembre alle ore 12 presso la cappella laica del cimitero di Staglieno (Genova).

Gli inizi come cineoperatore

Nato a Toulon, Francia, inizia l'attività lavorativa a Torino come cineoperatore, producendo alcuni reportage di tipo politico e sociale. Nel 1975 si avvicina alla fotografia, lavorando nelle strade e nelle piazze della contestazione. Nel 1977 si trasferisce a Parigi e da lì inizia il suo lungo viaggio come fotoreporter, dapprima con agenzie francesi, in seguito per alcune americane e prestigiosi magazine internazionali (Newsweek, Der Siegel, Time) oltre che per il New York Times, per i quali documenta situazioni di crisi e di conflitto in America Latina, Africa, Balcani e Medio Oriente.

Nel 1992 conquista il premio World Press Photo (nella categoria Daily Life, stories) con un servizio su un'epidemia di colera in Perù e nel 1999 la menzione d'onore allo stesso concorso per un reportage sul Kosovo. Contemporaneamente inizia a lavorare su progetti a lungo termine: Il Rumore delle Sciabole (1986-1988), documentando la società cilena durante gli ultimi due anni della dittatura militare del generale Augusto Pinochet.

I grandi reportage

Con gli anni Saglietti si dedica sempre più spesso a progetti personali di documentazione, che gli permettono di affrontare una storia in modo più articolato e meno condizionato dalle esigenze stringenti dei settimanali, come nel reportage che ripercorre la via della tratta degli schiavi dal Benin, alle piantagioni di canna da zucchero della Repubblica Dominicana e di Haiti, o come in quello sulle tre malattie che devastano i paesi del Terzo mondo - aids, malaria e tubercolosi - realizzati negli anni Novanta e Duemila.

Dal 2000 diventa membro associato dell'agenzia foto giornalistica tedesca Zeitenspiegen Reportagen, per la quale lavora ad un progetto sulle frontiere nel Mediterraneo e Medio Oriente.

I grandi riconoscimenti

Saglietti per tre volte vince il World Press Photo, prestigioso riconoscimento per i fotogiornalisti, ma tanti altri sono stati i premi ricevuti nella sua vita: da Fotografi al Servizio della Libertà del 1996, al M.I.L.K. Moments of Intimacy del 2000. E poi ancora il premio Enzo Baldoni per il giornalismo nel 2006, Fotografo dell'anno sempre nel 2006 e il premio Bruce Chatwin, Occhio Assoluto del 2010.

Il nostro ricordo

Il grande maestro aveva tenuto per ilGiornale.it alcuni workshop di fotografia, mettendo a disposizione il suo grande talento a tutti gli appassionati. Lo ricordiamo per la sua grande sensibilità per l'umanità e il valore che sapeva dare alla riflessione e al tempo."Credo che la responsabilità di tutto ciò sia la velocità con cui viviamo, e io sono un profeta della lentezza", aveva raccontato nel nostro incontro. E poi ancora "Ciò che mi interessava della fotografia era soprattutto cercare di documentare e di capire il destino dell’uomo. Oggi mi rendo conto che era un po’ presuntuosa come idea, ma per me la fotografia è sempre stata legata all’uomo, alle sue vicende, ai suoi drammi, ma anche alle sue gioie".

È morta l’attrice spagnola Itziar Castro, star di «Pieles» e «Vis a vis»: aveva solo 46 anni. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera venerdì 8 dicembre 2023.

Le cause della morte non sono ancora accertate, ma sembra aver avuto un malore durante le prove per un gala di beneficenza

È morta a soli 46 anni l’attrice spagnola Itziar Castro, nominata ai premi Goya come miglior esordiente per il film «Pieles», nel 2017, e conosciuta a livello internazionale per il ruolo nella serie Netflix «Vis a vis».

Castro, stando alle prime informazioni riportate dai media spagnoli, sarebbe morta con ogni probabilità per arresto cardiaco giovedì sera, dopo essersi sentita male durante le prove per un gala di beneficenza di nuoto sincronizzato.

Nata a Barcellona nel 1977, Castro aveva raccontato che sognava di fare l’attrice già da bambina. Col tempo vi era riuscita, uscendo anche dai ruoli stereotipati di donna grassa: «Castro può vantarsi di aver cambiato gli schemi, di averci costretto a guardare diversamente, in modo migliore», ha scritto El Mundo.

Estratto dell’articolo di ansa.it venerdì 8 dicembre 2023.

L'attore e rubacuori Ryan O'Neal, la star dalla vita tempestosa candidata all'Oscar per film come "Love Story" e "Barry Lyndon" di Stanley Kubrick, si è spento all'età di 82 anni a Los Angeles. 

[…] O'Neal, il cui aspetto focoso e la mascella perfetta lo rendevano il protagonista ideale, era noto anche per la sua tumultuosa relazione decennale con l'attrice Farrah Fawcett. Nato nella città degli angeli, figlio d'arte (papà scrittore e sceneggiatore americano di origini irlandesi e madre attrice statunitense di origini per metà irlandesi e per metà ebraiche ashkenazite), O'Neal si fece conoscere al grande pubblico recitando nella soap opera Peyton Place (dal 1964 al 1969) nella parte di Rodney Harrington, accanto a Mia Farrow.

Ma ottenne la fama mondiale grazie all'interpretazione di Oliver Barrett IV nello struggente film Love Story (1970), che interpretò con Ali MacGraw e che gli valse la candidatura all'Oscar come miglior attore nel 1971 e il David di Donatello come miglior attore straniero l'anno successivo, oltre alla candidatura al Golden Globe. La pellicola ottenne un grande successo e quello di Oliver Barrett fu uno dei ruoli più memorabili di O'Neal. 

L'attore fu sposato dal 1963 al 1967 con l'attrice Joanna Moore, dalla quale ebbe due figli, gli attori Griffin e Tatum O'Neal. Dopo il divorzio, contrasse un nuovo matrimonio con Leigh Taylor-Young, da cui ebbe il terzogenito Patrick, divenuto cronista sportivo. Nel 1972 dopo fece coppia con Barbra Streisand per la commedia demenziale "What's Up, Doc?". 

L'anno successivo interpretò un altro grande film di successo, 'Paper Moon' - Luna di carta - con la sua primogenita Tatum, la quale grazie a questa parte ottenne l'Oscar ancora giovanissima. Nel 1975 fu scelto da Kubrick come protagonista del memorabile 'Barry Lyndon'. 

Fu anche preso in considerazione per le parti di Rocky Balboa in 'Rocky' (1976) e di Michael Corleone nel 'Padrino' (1972). Sul finire degli anni Settanta conobbe Farrah Fawcett, star della serie di telefilm Charlie's Angels, che diventò la compagna della sua vita fino alla morte di lei, nel 2009.

Insieme recitarono in diversi film tra cui 'Sacrificio d'amore' (1989) e la serie Tv 'Good Sports' (1991), ed ebbero un figlio, Redmond, nato nel 1985. Nel 2008 O'Neal fu arrestato, insieme al figlio, nella sua abitazione di Malibù, in California, per possesso di stupefacenti. 

Nonostante la turbolenta vita privata, ha continuato l'attività di attore sino ad una dozzina di anni fa: nel 2006 entrò a far parte del cast della serie televisiva statunitense 'Bones', nel ruolo del padre della protagonista Temperance Brennan. Ha inoltre preso parte ad alcuni episodi del telefilm 90210 (2010).

Morto l’attore Ryan O’Neal, commosse il mondo con «Love Story». Storia di Maurizio Porro su Il Corriere della Sera venerdì 8 dicembre 2023.

A 82 anni è morto ieri a Los Angeles, dov’era nato nel 41, Patrick Ryan O’Neal, famoso in tutto il mondo per il melodramma “Love story” e il grande affresco storico di “Barry Lyndon”: l’ha reso noto il figlio su Instagram.

Fu all’inizio il tipico rappresentate dell’american way of life, aitante e sportivo, muscoloso, ipervitaminizzato, tanto da essere lo stunt di divi famosi prima di diventarlo a sua volta, raggiungendo il primo successo nella scabrosa serie di “I peccatori di Peyton” (1964-68). Ma è la riduzione del best seller di Erich Segal “Love story” di Arthur Hiller che, facendo versare milioni di lacrime in tutto il mondo, gli dà la popolarità nel ruolo del ricco studente che ama e soffre per Ali McGraw, che invece è povera e muore di leucemia, cui seguirà poi a furor di box office un esangue bis, “Oliver’s story”.

O’Neal dimostra talento in queste storie patetiche, usando il suo lato di bravo ragazzo, ma ancor di più quando viene usato nel registro brillante come il tontolone di turno ed è irresistibile in “Ma papà ti manda sola?” di Bogdanovich con la Streisand, e subito dopo con lo stesso regista è un venditore vintage di Bibbie in “Paper moon” in cui la sua partner è la figlia bambina Tatum, che gli “ruba” il film e vincerà l’Oscar come non protagonista, e con cui poi rifarà coppia filiale in “Vecchia America”.

Nel 75 è la sua grande occasione, viene scelto da Stanley Kubrick per “Barry Lyndon” nel ruolo di un soldato arrampicatore nell’Irlanda del XVIII secolo, dal romanzo di Thackeray. Un sublime film di regìa, di luci, di tempi in cui la storia diventa un soffio di eternità e Ryan sta al gioco molto bene proletario tra i nobili. Tutta un’altra storia quella del rapinatore braccato di “Driver” nel 78, mentre la sua carriera comincia a declinare. La forma fisica acquista molte taglie in più, con la moglie famosa Farah Fawcett Majors fa una coppia litigarella in modo pesante e intanto gira “Uno strano caso” e con la nostra Mariangela Melato “Jeans dagli occhi rosa” di un Bergman che non è Ingmar ma Andrew.

Nella carriera ha toccato molti generi, anche un bellissimo western crepuscolare di Blake Edwards con William Holden, “Uomini selvaggi”, ma gli anni 90 sono già la crisi. Sicuramente la gente lo ricorderà per l’amore infelice di “Love story”, i cinefili per il capolavoro a lume di candela di Kubrick che ricrea un mondo e un secolo, mentre un vasto pubblico lo amerà per le commedie sofisticate con la Streisand di un cultore del vecchio cinema Usa come Bogdanovich.

 Morto Ryan O'Neal: addio all'attore di Love Story. Candidato all'Oscar come miglior attore protagonista, l'attore statunitense si è spento all'età di 82 anni. Massimo Balsamo l'8 Dicembre 2023 su Il Giornale.

Un'altra grande perdita per il cinema americano: addio a Ryan O'Neal. Il celebre volto del film romantico "Love Story" del 1970 è morto venerdì all'età di 82 anni. La notizia è stata confermata dal figlio Patrick, giornalista sportivo della Bally Sports West di Los Angeles: "Questa è la cosa più difficile che abbia mai avuto da dire, ma eccoci qui. Mio padre è morto in pace oggi, con la sua amorevole squadra al suo fianco che lo sostiene e lo ama come lui farebbe con noi", le sue parole nel post pubblicato su Instagram.

Nel 2001 a Ryan O'Neil era stata diagnosticata la leucemia cronica e nel 2012 il cancro alla prostata. "Era la persona più divertente. E il più bello ovviamente, ma anche il più affascinante. Combo letale. Amava far ridere la gente. È stato il suo obiettivo. Non gli interessava la situazione, se c'era uno scherzo da poter fare, lo faceva. Voleva davvero che ridessimo. E abbiamo riso tutti. Ogni volta. Ci siamo divertiti", ha aggiunto il figlio Patrick, nato dall'amore con Leigh Taylor-Young. L'attore aveva altri due figli, Griffin e Tatum, frutto del rapporto con la collega Joanna Moore.

Figlio d'arte - il padre era scrittore e sceneggiatore, la madre attrice - Ryan O'Neal fece il suo esordio negli anni Sessanta tra cinema e piccolo schermo, ottenendo grande popolarità grazie alla soap opera "Peyton Place". La fama mondiale nel 1970, con il già citato "Love Story", in cui interpreta Oliver Barrett IV e recita al fianco di Ali MacGraw. La performance gli valse la candidatura all'Oscar al miglior attore nel 1971 e il David di Donatello come miglior attore straniero, oltre alla candidatura al Golden Globe. Un enorme successo anche al botteghino, con oltre 106 milioni di dollari incassati in tutto il mondo. Nel 1978 venne realizzato anche un sequel, "Oliver's Story", sempre interpretato da Ryan O'Neal.

Ma non solo. Ryan O'Neil ha recitato con Barbra Streisand in "What's Up, Doc?" nel 1972 e in "The Main Event" nel 1979, collaborando anche con la figlia Tatum - all'epoca 9 anni - nel meraviglioso "Paper Moon - Luna di carta" di Peter Bogdanovich. Tra le tante collaborazioni di spicco, quella con Stanley Kubrick in "Barry Lyndon", in cui interpreta un ladro irlandese nell'Inghilterra del XVIII secolo. Molto chiacchierata la sua vita sentimentale: dopo i matrimoni e i relativi divorzi con le già citate Joanna Moore e Leigh Taylor-Young, iniziò una tumultuosa relazione decennale con Farrah Fawcett (star della serie di telefilm Charlie's Angels) che lo rese invidiato da milioni di persone. Massimo Balsamo

Marco Giusti per Dagospia sabato 9 dicembre 2023.

Se ne va Ryan O’Neal, 82 anni, indimenticabile star degli anni ’70 e ’80, fu l’Oliver Barrett IV di “Love Story”, fu il Barry Lyndon del capolavoro di Stanley Kubrick, fu protagonista, assieme alla figlia Tatum, di “Paper Moon” di Peter Bogdanovich e il Rodney Harlington di ben 500 episodi della serie televisiva “Peyton Place”. 

Recitò con Barbra Streisand in “What’s Up, Doc?” di Bogdanovich, in “The Main Event” di Howard Zieff, con Jacqueline Bisset in “Il ladro che venne a pranzo” di Bud Yorkin, con Isabelle Adjani nel fenomenale “The Driver” di Walter Hill, con Mariangela Melato nel trashissimo “Jeans dagli occhi rosa” di Andrew Bergman. 

Non riuscì a esprimersi come altri attori della New Hollywood, Jack Nicholson, Al Pacino, Robert De Niro, decisamente più strutturati, e la sua fragile bellezza se ne andò presto. Ebbe però mogli e fidanzate celebri, come Farrah Fawcett, Leigh Taylor Young, Ursula Andress, Melanie Griffith, Anouk Aimée, Jacqueline Bisset, Julie Christie, Britt Ekland, Anjelica Huston, Lauren Hutton, Bianca Jagger. E, soprattutto, un rapporto estremamente complicato con la figlia Tatum, forse perché aveva vinto lei l’Oscar e non lui per “Paper Moon”.

Non si sono parlati per anni e solo recentemente, dopo il risveglio dal coma di Tatum, dovuto a un infarto per abuso di droghe, e un lento recupero, si erano rivisti e fatto finalmente pace. Ma lui stesso era stato spesso al centro della cronaca nera di Hollywood, con risse di Capodanno, arresto per abuso di droghe, lunghi periodi di riabilitazioni. 

Figlio di Patricia e Cahrles O’Neal, madre attrice e padre sceneggiatore che ebbe non pochi problemi con Hollywood in quanto comunista, Patrick “Ryan” O’Neal nasce a Los Angeles nel 1941, fa il militare in Germania, studia da boxeur professionista e appena ventenne, biondo, bello, simpatico, lo troviamo fra i tanti giovani in cerca di successo nelle serie televisive del tempo. “The Many Loves of Dobbie Gills”, “Gli intoccabili”, “Bachelor Father”, “Empire”. 

Ma solo con “Peyton Place”, nel ruolo di Rodney Harlington che lo vedrà partner di una giovanissima Mia Farrow, tra il 1964 e il 1969, si metterà davvero in luce. E’ allora che Hollywood lo chiamerà. A quel punto Ryan O’Neal ha già avuto due figli, Tatum e Griffin, da Joanne Moore, anche lei attrice televisiva, di qualche anno più grande di lui, che ha incontrato nel 1962, sposato nel 1964 e dalla quale ha divorziato nel 1967. Non solo.

Andata via con i due figli, la moglie, dipendente dalle anfetamine, non è in grado di crescerli. Così, nel pieno del successo di “Peyton Place”, Ryan O’Neal se li riprende e li cresce lui. Al cinema gira due film, il thriller “Io sono perversa” diretto da Alex March con la sua seconda moglie, Leigh Taylor Young, che sposerà nel 1967, avrà un figlio, e dalla quale divorzierà nel 1974, e Lee Grant, attrice blacklisted che proprio “Peyton Place” ha sdoganato, e “I formidabili” dell’inglese Michael Winner con Michael Crawford e Charles Aznavour. 

Il successo, davvero planetario, arriva con il film più romantico e strappalacrime che potesse produrre Hollywood a quei tempi, “Love Story”, scritto da Erich Segal per il cinema (il romanzo lo scriverà dopo la sceneggiatura) e diretto da Arthur Hiller, che narra la triste storia di due ragazzi, lui, Oliver Barrett IV, ricco e sano, Ryan O’Neal, lei, Jenny Cavilleri, povera e malata, Ali McGraw. Tutto il mondo impara ben presto la frase “Amare significa non dire mai mi dispiace” e la musica romantica.

A questo punto la carriera di Ryan O’Neal si impenna. Può davvero girare cosa vuole. Lo troviamo in un bel western scritto e diretto da Blake Edwards con William Holden, “Uomini selvaggi”, che non ho più rivisto dal 1971, in un thriller molto sofisticato, “Il ladro che venne a pranzo” diretto da Bud Yorkin, scritto da Walter Hill con Jacqueline Bisset e Warren Oates, ma soprattutto lo vuole Peter Bogdanovich per la sua screwball comedy “What’s Up, Doc?”, scritta da Buck Henry da girare con Barbra Streisand. Ma anche con caratteristi del calibro di Madeline Kahn e Austin Pendleton. 

Un successo e sarà un successo ancora maggiore il dolcissimo “Paper Moon”, sempre diretto da Bogdanovich, dove Ryan O’Neal reciterà con sua figlia Tatum. Un viaggio in auto tra il Kansas e il Missouri nella Grande Depressione che farà vincere a Tatum l’Oscar da non protagonista a dieci anni nel 1974 e che la segnerà per tutta la vita. Perché crescere con un padre star di Hollywood non sarà il massimo per una ragazzina di dieci anni, che si ritroverà a dormire, come racconta Tatum nella sua autobiografia, con le tante amanti e compagne del padre, tra eccessi e abusi di ogni tipo. 

Anche se non ha vinto l’Oscar Ryan O’Neal si può consolare con “Barry Lyndon”, il capolavoro di Stanley Kubrick, che è la punta più alta della sua carriera. Ursula Andress si ricordava di averlo accompagnato, come sua fidanzata, sia sul set di “Paper Moon” che di “Barry Lyndon”.

Negli anni ’70 Ryan O’Neal è popolarissimo, anche se non funzionano come previsto film come “Vecchia America”/”Nickelodeon” di Bogdanovich con Burt Reynolds e Tatum O’Neal, o il sequel di “Love Story”, cioè “Oliver’s Story” di John Korty con Candice Bergen, o un secondo film con Barbra Streisand, “Ma che sei tutta matta?”(“The Main Event” di Howard Zieff. Non avrà quasi distribuzione “Quei 2” diretto da Jules Dassin con Richard Burton nel ruolo di un vecchio pittore che ha una storia con la ormai non così giovane Tatum. 

A un certo punto Ryan O’Neal sbaglia una serie di film, “Ghiaccio verde” di Ernest Day con Anne Archer, la folle commedia con Mariangela Melato “Jeans dagli occhi rosa” di Andrew Bergman, dove si inventa i jeans coi buchi sulle chiappe, la commedia coi poliziotti gay “Lui è mio” di James Burrows con John Hurt, il tardo film di Richard Brooks con Giancarlo Giannini “La febbre del gioco” e perfino “I duri non sbagliano” scritto e diretto da Norman Mailer con Isabella Rossellini.

Ryan O’Neal non riuscirà più a tornare al successo che aveva nei primi anni ’70, perde un bel po’ di quell’aspetto da giovane ragazzo ingenuo americano, come se “Paper Moon” e “Barry Lyndon” gli avessero mangiato l’anima. 

Ha avuto molti problemi con i figli, dovuti agli eccessi di droghe di tutta la famiglia. Suo figlio Griffin viene ritenuto responsabile dell’incidente che portò alla morte del figlio ventitreenne di Francis Coppola, Gian Carlo nel 1986. Lui stesso venne arrestato assieme al figlio Redmond, dopo un incidente nella sua villa di Malibu.

E sua figlia Tatum, che ha sposato il tennista John McEnroe, dal quale avrà ben tre figli, inizia un calvario di droghe, di crisi, di tentativi di suicidio che la faranno scontrare presto col padre. Non si parleranno per anni. Dal 2001 si ammala di leucemia e si limita a poche apparizioni in tv. Il suo declino fisico e artistico è quasi da manuale.  

Liechtenstein, il principe Costantino morto "improvvisamente": è giallo. Libero Quotidiano l'08 dicembre 2023

Un vero e proprio mistero la scomparsa del principe Costantino del Liechtenstein. L'uomo, di 51 anni, è morto martedì. A darne la notizia la casa reale. Padre di tre figli, settimo in linea di successione al trono, Costantino era il terzo figlio del principe regnante Hans-Adam II. Stando a quanto riportato dai media locali, il suo decesso è stato "inaspettato e improvviso". È ancora sconosciuta la causa.

"La Casa Principesca si rammarica di annunciare che il principe Constantin von und zu Liechtenstein è deceduto inaspettatamente il 5 dicembre 2023", si legge nel comunicato. E ancora: "Il principe Constantin era presidente del consiglio di sorveglianza della Liechtenstein Group AG e membro del consiglio di amministrazione della Liechtenstein Group Holding AG". Il reale aveva sposato la principessa Marie del Liechtenstein nel 1999 e ha avuto tre figli, il principe Moritz, 20 anni, la principessa Georgina, 18, e il principe Benedikt, 15.

Prima di diventare direttore generale e presidente del consiglio di amministrazione della Fondazione Principe del Liechtenstein, ruolo che ha ricoperto per oltre 11 anni, il principe ha studiato legge. Mercoledì, in suo onore, il parlamento regionale ha tenuto un minuto di silenzio. "È con grande tristezza - ha detto l'amministratore apostolico Benno Elbs, che ho appreso oggi della morte del principe Costantino del Liechtenstein. A nome dell'arcidiocesi di Vaduz, vorrei esprimere le mie più sentite condoglianze al principe Hans-Adam II, alla moglie del defunto, la principessa Marie, e ai loro figli, il principe Moritz, la principessa Georgina e il principe Benedikt".

Marco Giusti per Dagospia giovedì 7 dicembre 2023.

Con la scomparsa di Norman Lear, 101 anni, decano della tv e della sit-com, il mondo dello spettacolo americano non perde solo uno dei suoi grandi vecchi, che assieme a Carl Reiner, a Mel Brooks, a Neil Simon hanno mantenuto alto il livello della commedia al cinema e in tv, con show come “All in the Family”, “The Jeffersons”, “One Day at the Time”, “Sanford and Son”, tutti ideati, scritti e prodotti da lui, in un arco di anni che va dagli anni ’50 a oggi.

Come ben spiega su “Vulture” un dotto articolo di Kathryn Van Arendonk, Norman Lear si inventa la sit-com americana come “trama nazionale condivisa: non solo la finzione della famiglia televisiva americana bianca e felice per impostazione predefinita, ma una televisione che ha reso gli spettatori consapevoli che stavano guardando se stessi, guardando un'idea complicata e capiente di ciò che era questo paese. e avrebbe potuto essere. Quella comprensione della televisione, il nostro concetto moderno di TV come specchio ma anche come forza culturale nella vita americana, è stata creata da Norman Lear”.

Negli anni ’70 Lear rivoluzione la sit-com inserendo i grandi temi che stavano lacerando il paese, conflitti generazionali, conflitti di razza, patriarcato, in un continuo scontro, che non diventa mai né violenza né pessimismo. “Nella concezione di cultura e democrazia di Lear, la lotta era la cosa che condividevamo. La sua visione, tradotta nella precisione cristallina di una commedia serrata di 25 minuti e poi vista da ben 60 milioni di persone, presentava l'esperienza americana universale come una disputa. Persone che vivono insieme, combattono e continuano a uscire dall'altra parte come famiglia”. Più vicino, per questo ai ragazzini di “South Park”, al quale collaborò, che alla vecchia tv degli anni ’50. Non a caso i Jeffersons, la famiglia nera della tv americana, nasce dalla sit-com bianca “All in the Family”.

Ma toccò ogni genere di problema. “Good Times” si occupò di povertà e discriminazione, “Maude” di femminismo, anche se il suo capolavoro fu il eprsonaggio di Archie Bunker in “All in the Family”, bigotto insopportabile che se la prende costantemente con le minoranze e con la sua stessa famiglia, ma in grado di dialogare con tutti. 

Nato nel 1922 a New Haven, Connecticut, da famiglia ebrea, con un padre impossibile, iniziò. Studiare all’Emerson College a Boston, ma lo lasciò per fare il militare. Lo troviamo in guerra radio-operatore e tiratore scelto sui B-17 in ben 52 missioni aeree sulla Germania. Quando torna si sposta presto a Los Angeles, incontra un giovane aspirante autore di commedia, Ed Simmons, e formano una coppia di scrittori per la tv. Scrivono sketch per Rowan e Martin, per Jerry Lewis e Dean Martin in “The Colgate Hour” e gag per uno dei suoi primi film, “Morti di paura”.

Ma scrive anche per una serie incredibile di programma della prima tv americana, “Four Star revue”, “The Martha Raye Show”, “The Deputy”, 76 episodi con Henry Fonda protagonista e Allen Case. Nei primi anni ’60 scrive e produce una serie di film più o meno riusciti diretti dal suo amico e socio Bud Yorkin, “Alle donne ci penso io”, scritto assieme a Neil Simon, con Frank Sinatra, Lee J. Cobb, “Divorzio all’americana”, che gli frutta una nomination agli Oscar, diretto da Yorkin, con Dick Van Dyke, Debbie Reynolds, Jean Simmons, Van Johnson, ma anche i più “moderni” “Fate la rivoluzione senza di me” diretto da Yorkin con Gene Wilder e Donald Sutherland e “Quella notte inventarono lo spogliarello” diretto da William Friedkin con Jason Robards e Britt Ekland.

Fu un esperimento più personale “Cold Turkey”, diretto da Yorkin con Dick Van Dyke e Pippa Scott, mai arrivato in Italia. Ma i veri successi di Norman Lear sono in tv. Nelle sitcom. “Sanford and Son” nel 1968, 135 puntate, “Mary Hartman, Mary Hartman” con Louise Lasser, “Maude” con Bea Arthur. Fino a “All in the Family”, il suo capolavoro, che in Italia si chiamerà “Arcibaldo” con Carroll O’Connor, Jean Stapleton, storia di una famiglia operaia dei Queens, dalla quale nasceranno “I Jeffersons”, 253 puntate, dal 1975 al 1985.

E’ lì che Norman Lear darà vita alla sit-com come conflitto perenne tra personaggi che non la pensano allo stesso modo, ma che possono coesistere sotto lo stesso tetto. Come produttore continua a toccare il cinema, “Pomodori verdi fritti alla fermata del treno”, diretto da Jon Avnet nel 1991, “La storia fantastica”, c’è addirittura un film in lavorazione quest’anno, “I Got a Monster”, su una squadraccia di poliziotti violenti a Baltimore. Per Netflix, pochi anni fa, ideò una nuova serie che avrebbe dovuto essere il suo grande ritorno, “Giorno per giorno” (“One Day at the Time”), 46 episodi tra il 2017 e il 2019. 

Estratto dell'articolo di Tiziana Panettieri per ilmessaggero.it giovedì 7 dicembre 2023.

I fan della serie tv inglese “Peaky Blinders” piangono Benjamin Zephaniah, interprete di Jeremiah Jesus, morto a 65 anni otto settimane dopo la diagnosi di tumore al cervello. È stata la famiglia dell’attore, anche poeta molto stimato, a comunicare la notizia tramite l’account ufficiale Instagram. Nel post si legge: “È con grande tristezza e rammarico che annunciamo la morte del nostro amato marito, figlio e fratello, nelle prime ore di questa mattina. A Benjamin è stato diagnosticato un tumore al cervello otto settimane fa. Sappiamo che molti saranno scioccati e rattristati da questa notizia. Benjamin era un vero pioniere e innovatore. Ha dato tanto al mondo”. 

[…]

Benjamin Zephaniah nasce come poeta, coltivando la passione per la scrittura sin da piccolo. La sua poesia è stata fortemente influenzata dalla musica e dalla cultura giamaicana. Nel corso degli anni ha pubblicato molte raccolte, oltre che cinque romanzi e sette opere teatrali. Il suo primo libro di poesie intitolato “Pen Rhythm” fu pubblicato nel 1980. Seguono, tra le altre, “The Dread Affair: Collected Poems” e “Rasta Time in Palestine”. Nel 2008 il Times lo inserisce tra i 50 scrittori più influenti del dopoguerra. Parallelamente intraprende anche il percorso da musicista, pubblicando nel 1982 l’album “Rasta”, che conteneva la prima registrazione del gruppo raggae Wailers dopo la morte di Bob Marley.

Estratto dell'articolo di Luca Bortolotti per repubblica.it mercoledì 6 dicembre 2023.

La Bologna della musica e dell'arte piange la scomparsa di uno dei suoi simboli. È morto nella notte a casa dopo malattia Marco Villotti, da tutti conosciuto col nome Jimmy, chitarrista jazz nato dal rock, pilastro della Bologna della notte, delle osterie e degli artisti, che ha lavorato nel corso di oltre mezzo secolo con Francesco Guccini, Lucio Dalla, Gianni Morandi, Luca Carboni, ma anche Ornella Vanoni e Paolo Conte che gli ha disegnato la copertina dell’ultimo libro, dopo avergli dedicato il brano “Jimmy, ballando”.

Il 7 dicembre Villotti avrebbe compiuto 79 anni, appena un mese fa ad applaudire lui e la sua chitarra era stato il Duse, voluto da Vinicio Capossela sul suo palco per la tappa bolognese del tour.Nel 2023 invece sono stati i suoi 60 anni di carriera da professionista, iniziata diciannovenne dal rock’n’roll con la prima band Meteors per poi suonare con tutti i più grandi della scena, prima di percorrere da solista la strada dell’amato jazz. [...] 

Qui se la prende coi coniugi Ferragni come con mostri sacri della letteratura come Dostoieskij a Borges; ma già in precedenza era diventato famoso il siparietto quando invitato da Red Ronnie a provare la chitarra usata da Hendrix a Woodstock disse che quella era la peggiore Stratocaster che avesse mai tenuto in mano. 

“Apriti cielo, era una cosa lapalissiana ma mi presi tutti i nomi del mondo, ma ho imparato che tanto vale dire sempre quel che pensi, ti criticheranno comunque”. “Onyricana” è anche una buona sintesi dei legami più forti stretti da Vilotti. C’è una prefazione scritta da Guccini, che di lui con ironia disse: “Lo definisco un genio, credo sia l’unica persona al mondo che riesce ad accavallare le gambe mettendo giù tutti e due i piedi”. [...]

Il ricordo di Paolo Conte legatissimo all’artista: “E’ per me un grande dolore la scomparsa di Jimmy, amico fedele ed eccellente artista. Se ne va con lui un uomo corretto di grande simpatia ed empatia umana. Tutto il mondo che l’ha conosciuto lo rimpiangerà e non lo dimenticherà mai. […]

"Addio a Ventura, ultimo principe delle "grida"". Marcello Zacché il 6 Dicembre 2023 su Il Giornale. 

Attilio Ventura ci ha lasciati ieri, 5 dicembre, proprio quando l’indice della sua Piazza Affari superava quota 30mila punti per la prima volta da 15 anni a questa parte. Lui, Attilio, di anni ne aveva 87, uno di più dell’amico e compagno fraterno di Borsa e di alta montagna Ettore Fumagalli, scomparso solo tre mesi fa. Ai suoi funerali, nella basilica milanese del Corpus Domini, Ventura aveva preso la parola per ricordare storie e aneddoti dell’epoca d’oro degli agenti di cambio, di cui era ormai il decano. Lo sapeva e, alla fine delle esequie, seduto sul muretto del sagrato, circondato dagli amici, con tutta l’ironia di cui era capace e l’inconfondibile cadenza milanese lo aveva detto: «Il prossimo sono io». In realtà Attilio non si è più ripreso dalla morte di Ettore. L’aveva presa proprio male e dopo meno di due settimane un problema cerebrale lo ha costretto a un ricovero da cui non è più riuscito a recuperare.

Presidente del Comitato direttivo degli Agenti di cambio dal 1988 al 1992 e poi, fino al 1997, presidente del Consiglio di Borsa, futuro cda dell’attuale Borsa spa: con lui scompare l’ultimo pezzo di una Piazza Affari che non c’è più, quella delle grida nel salone di Palazzo Mezzanotte che proprio Ventura, con Fumagalli e qualche altro mostro sacro del listino, ha contribuito a trasformare in un mercato telematico e immateriale, scrivendo le leggi che hanno introdotto le «Sim» e decretandone così la fine a cavallo tra gli anni Ottanta e i Novanta del secolo scorso. Per quel mercato azionario un po’ selvaggio, poco vigilato e quasi off limits per il risparmio di massa (che preferiva i Bot), Ventura è stato a lungo un protagonista delle operazioni più delicate di quegli anni. E pure misteriose: insieme con altri 5 o 6 agenti del suo calibro faceva parte dell’“angolo dei cervelli”: «Poco prima delle 13 - raccontava lui stesso divertito - ci mettevamo in circolo a parlare, in mezzo alle grida. E tutti ci guardavano per cercare di capire cosa sarebbe successo sul mercato». Infatti, se un procuratore di Ventura si metteva a comprare o vendere un certo titolo, tanti facevano poi lo stesso. Anche se, in verità, non sapevano il perché.

Morto a cent’anni Carlo Guarienti, l’ultimo dei pittori metafisici. Storia di CARLO VULPIO su Il Corriere della Sera martedì 5 dicembre 2023.

L’ultima volta che abbiamo incontrato Carlo Guarienti è stato poco più di un anno fa, in occasione della sua mostra personale e antologica nel Castello Estense di Ferrara. Una mostra sontuosa, 111 opere esposte in 14 sale, in cui c’era tutto Guarienti: dal giovane artista, che, ancora studente di Medicina, viene chiamato alle armi e trascorre gli ultimi due anni della Seconda guerra mondiale all’Accademia di Belle arti di Firenze come «preparatore di anatomia artistica» — una esperienza traumatica, fatta sui cadaveri dei soldati caduti al fronte, e tuttavia artisticamente rivelatasi essenziale per la sua formazione — fino al pittore adulto, maturo, che si emancipa dalla imbragatura del Manifesto dei pittori moderni della realtà, al quale pure aveva aderito, e guarda a Giorgio de Chirico, per non abbandonarlo più.

Da quel momento, siamo nel 1950, quando partecipa all’Antibiennale di Venezia organizzata dal Pictor Optimus in polemica con i pittori moderni, Carlo Guarienti comincia il suo inseguimento alla immaterialità, cerca la visione, al punto da far prevalere lo spazio e le linee geometriche facendo scomparire l’uomo.

L’ultima mostra di Guarienti, a Ferrara, ideata da Vittorio Sgarbi e curata da Pietro Di Natale, Vasilij Gusella e Stefano Sbarbaro, era intitolata La realtà del sogno e venne inaugurata il 28 ottobre, proprio il giorno in cui Carlo Guarienti compiva 99 anni.

Da questa felice circostanza il trevigiano Guarienti, lucidissimo e ironico anche se costretto sulla sedia a rotelle, partì per fare una scommessa (lui che non ha mai scommesso su niente) e per dare una spiegazione (lui che ha sempre sostenuto che un’opera d’arte non si debba spiegare, «ma va osservata, ammirata, vissuta»).

La scommessa era se lui e Henry Kissinger, entrambi nati nel 1923, avrebbero festeggiato i 100 anni. «Ci arriveremo tutti e due — rispose Guarienti sorridendo —. Ma la vera scommessa è su dove andremo. Credo che uno dei due lo aspettino all’Inferno».

La spiegazione invece riguardava la scelta di quel titolo per la sua mostra, La realtà del sogno, concordato con Sgarbi quasi senza nemmeno parlare, con un battito di ciglia, perché entrambi sapevano che l’altro stava pensando la stessa cosa: la realtà come la intende William Shakespeare, e cioè quella realtà «della cui sostanza sono fatti i sogni».

Carlo Guarienti, «San Gerolamo», 1946, Fondazione Cavallini SgarbiE infatti, dalla sua prima grande opera, un San Gerolamo così tanto reale da essere estremamente surreale — e per Sgarbi «degno di un artista rinascimentale» — a quelle della maturità, per Guarienti è stata tutta un’unica lunga marcia verso l’astrazione, la metafisica, l’essenza della forma. Ma sempre con l’àncora ben agganciata alla lezione dei grandi maestri del Quattrocento italiano, affinché risultasse chiaro che il fine dell’arte non dev’essere quello di dare l’illusione della realtà, ma quello di comprendere che la realtà è una illusione.

Per questa ragione Sgarbi ha sostenuto con entusiasmo Guarienti fino all’ultimo suo giorno e lo considera un grande artista. «Nelle sue opere — dice il critico d’arte — troviamo quello che la pittura metafisica aveva voluto rappresentare, fin dai propri inizi, con la ricerca di de Chirico: una dimensione essenziale, totalmente purificata, di puro pensiero, che viene a distillare e quindi a distanziare l’emotività. Pittura puramente mentale». Ecco quindi «spiegato» Guarienti. Un’arte, una pittura, che sia rappresentazione della realtà fine a sé stessa non porta da nessuna parte, non significa nulla. Al contrario, è soltanto «la realtà del sogno» ciò che conta. Per la semplice ragione che tutto finisce, tutto svanisce, compresi l’uomo e le sue gesta, ma l’arte no, l’arte resta. E dalla transeunte, illusoria realtà ci trasporta nella concretezza eterna del sogno.

Era l'ultimo dei pittori metafisici. Morto il grande artista che seguì la lezione dell'amico Giorgio De Chirico. E non solo. Vittorio Sgarbi il 6 Dicembre 2023 su Il Giornale.

Non so con quale emozione l'avrebbe vista, la mostra che io volevo per lui, a Roma, per il compimento del suo centesimo anno. Lui ci è arrivato, a 100 anni, il 28 ottobre scorso. Noi siamo in ritardo. Lo ricorderemo alla Galleria d'arte moderna di Roma il prossimo anno, il primo della sua nuova vita in quell'aldilà che ha immaginato in ogni suo dipinto.

Carlo Guarienti è stato l'ultimo pittore metafisico, così lontano e discreto che nessuno dei suoi familiari, vivi nel suo mondo, ha dato la notizia della sua partenza. Così come ha vissuto, è tutto nelle sue opere. È il pittore con cui ho avuto più stretti rapporti, per più di quarant'anni.

Credo che tutto sia iniziato al tempo della mia monografica su Domenico Gnoli, il più giovane e il più fortunato degli artisti che si erano mossi nello stesso spazio, senza accomodarsi a mode e tendenze, in territori impercorsi, rari e visionari: Gustavo Foppiani, Gaetano Pompa, Enrico d'Assia, Stanislao Lepri e, prima di loro, Balthus, Leonor Fini e Fabrizio Clerici. Contigui, in un altro spazio, stavano Gianfranco Ferroni e Piero Guccione. Di ognuno di loro ho scritto come di solitari in una notte buia e terribile, popolata di fantasmi. A parlarmi di Guarienti erano stati Giorgio Soavi e Ezio Gribaudo. Tutto era partito con la mostra di Balthus alla Biennale di Venezia, fortemente voluta da Luigi Carluccio contro tutti, davanti a una critica asservita e incapace di capire.

Fu più facile di lì arrivare a Gnoli e a Guarienti cui dedicai la mia seconda e la sua prima monografia nella collana dei grandi pittori moderni dei Fratelli Fabbri, diretta da Gribaudo. Si apriva una nuova strada, e Carlo sapeva ben riconoscere la grandezza di Balthus, con il quale condivideva la ammirazione per la grande pittura italiana da Piero della Francesca a de Chirico.

Nel 1981 avrei presentato a palazzo Grassi un giovane sconosciuto e visionario, a lui affine: Luigi Serafini con il suo Codex. Un altro segnale c'era stato nel 1982 con la mostra di Clerici a Ferrara, curata da Federico Zeri, a Palazzo dei Diamanti. Anche per Clerici era stato necessario un papa straniero: Leonardo Sciascia. Del 1983 è il mio libro su Gnoli. Del 1985 la riscoperta del grande ferrarese Antonio da Crevalcore e, parallelamente, il libro su Carlo Guarienti.

Intorno a questi principi sono nati pensieri, incontri e una lunga amicizia; e non potrò dimenticare, insieme alle passioni e alle insofferenze, i momenti di riflessione sull'arte e sulla vita. La proiezione internazionale della sua opera attraverso un mercante esigente e difficile, attento all'arte antica, come Jan Krugier, lo rendeva distante e imperturbabile, raccontasse dei restauri di Ilaria del Carretto di Jacopo della Quercia, o della cappella Sistina, degli affreschi di Schifanoia o delle sue partite di tennis ad Ansedonia con Gaetano Pompa, troppo presto perduto, o del dimenticato Franco Gentilini, o di Gnoli, morto a soli 37 anni e tenuto vivo dalla madre disperatamente innamorata, Annie de Garrou, moglie del grande storico dell'arte Umberto Gnoli. E i pensieri su Savinio, su de Chirico, maestri di sogni. E la Domus aurea e lo studiolo di Augusto, e la mirabile invenzione del Triangolo Barberini a Palestrina.

Carlo era curioso di tutto, ed era serio e felice nel chiamarmi per un articolo, rigorosamente del Corriere della Sera, sulla questione palestinese, o su un restauro sbagliato, o su uno scrittore amato. Poteva essere Montaigne o Pascal, Cesare Garboli o Pietro Citati. Di lui avevano scritto Giuseppe Ungaretti, Raffaele Carrieri, Giorgio Soavi, André Paul Édouard Pieyre de Mandiargues, Alain Tapié .

Pochissimi artisti sono stati capaci di inventare mondi nuovi, partendo da una realtà ritrovata, attraverso il sogno, la morte, l'assenza. In alcune sue vedute si avverte, come dietro un vetro, l'intuizione di un altro mondo, di memorie e di fantasmi. Nulla lasciato al caso. Oggi che non c'è più, se non dentro di noi, oggi che non potrò più ascoltare le sue parole ferme e ansiose nelle telefonate, o andarlo a trovare costretto in poltrona, ma mobile negli occhi e nella testa, mi viene di ricordarlo accostandolo a Chopin nella interpretazione poetica di Gottfried Benn, che avrebbe certamente amato e sentito consono a sé e al suo pensiero, alla sua idea dell'arte.

«Conversatore avaro, le opinioni non erano il suo forte, le opinioni non vanno mai al sodo, s'agitava quando Delacroix illustrava teorie, quanto a lui non avrebbe saputo spiegare i suoi Notturni. Debole amante; un'ombra a Nohant dove i figli di George Sand rifiutavano i suoi consigli pedagogici. Tisico in quella forma, con emottisi e cicatrizzazioni, che tira in lungo; morte tranquilla a differenza d'una con spasmi e parossismio per salva di colpi: spinsero il piano (Erard) vicino alla porta e Delphine Potocka gli cantò nell'ora estrema il Lied di una violetta. Andò in Inghilterra con tre pianoforti: Pleyel, Erard, Broadwood, la sera suonò per 20 ghinee, un quarto d'ora, da Rothschild, dai Wellington, a Strafford House e davanti a innumerevoli Ordini della Giarrettiera; incupito di stanchezza e di morte ritornò a casa in Square d'Orléans. Poi brucia i suoi schizzi, i suoi manoscritti, che non ci fossero resti, frammenti, annotazioni, questi indizi rivelatori - alla fine disse: Le mie opere sono complete nella misura di ciò che mi era dato di raggiungere. Ogni dito doveva suonare secondo la sua conformazione, il più debole è il quarto (solo un fratello siamese del medio). Quando attaccava, posavano sul mi, fa diesis, sol diesis, si, do. Chi di lui mai sentì certi preludi, sia in ville che in alte valli sui monti oppure da porte spalancate su terrazze per esempio in un sanatorio, difficilmente potrà dimenticarlo. Mai composto un'opera, mai sinfonia, solo queste tragiche progressioni per convinzione d'artista virtuoso e con una piccola mano».

Estratto da ondarock.it giovedì 30 novembre 2023.

E' morto il cantautore irlandese Shane MacGowan, già leader dei Pogues, all’età di 65 anni. A stroncarlo è stata una rara encefalite cerebrale, malattia che comporta il rigonfiamento del cervello e difficoltà di parola o perdita di movimento. 

“Soffro di encefalite", aveva spiegato agli spettatori di un suo concerto, mentre indossava un paio di occhiali da sole. A causa della malattia, infatti, la visione della luce gli provocava intensi dolori che, tuttavia, MacGowan ha “sempre provato a superare […]” […]. 

Amico e collaboratore di Kirsty MacColl, Joe Strummer, Steve Earle, Johnny Depp, Sinéad O’Connor e Nick Cave (che recentemente lo aveva ricordato con affetto in un suo post), l'istrionico musicista e cantante era nato il 25 dicembre 1957. La sua storia, fatta di successi, ma anche di eccessi e autodistruzione, è stata raccontata nel documentario del 2020 "Crock of Gold – A Few Rounds with Shane MacGowan", prodotto da Johnny Depp e diretto dal regista Julien Temple […].

I Pogues sono nati all'inizio degli anni 80 (come Pogue Ma Hone che in lingua gaelica suona più o meno come "baciami il culo" e che sarà accorciato quando i nostri firmeranno con la Stiff) proprio su iniziativa di MacGowan, personaggio scorbutico, ribelle, che dopo diverse esperienze in band punk, aveva deciso di mettere su un gruppo in grado di suonare quantomeno nei pub, di fronte a un tipo di pubblico sempre poco attento alla forma quanto alla sostanza […] 

Dopo un periodo di rodaggio nei pub di Londra e in veste di busker per le strade del Regno Unito tutto […],  i Pogues […], confortati dalla risposta del pubblico alla propria ricetta che mostra country, rockabilly, ska e reggae filtrati nell'ottica della ripresa folk, hanno deciso di ritentare la strada del professionismo musicale, reclutando all'uopo la bassista Cait O' Riordan.

"Rum, Sodomy And The Lash", il loro secondo disco, è quello della maturità artistica. Dopo aver dimostrato con il primo "Red Roses For Me" (1984) di essere in grado di manipolare la materia folk ben al di là della rivitalizzazione dei classici infondendogli con l'attitudine punk che li guida nuova linfa vitale, […] i Pogues trovano con il proprio suono, abile mix di strumentazione acustica e ritmi forsennati e alcolici (pilotato da un Elvis Costello in stato di grazia in cabina di produzione e grazie anche all'inserimento nella line up del veterano Philip Chevron), e con la penna di MacGowan la ricetta per la definitiva consacrazione tra i grandi della folk music (sfido chiunque a saper distinguere tra "The Sick Bed Of Cuchulainn" e "I'm A Man You Don't Meet Everyday" quale sia il traditional e quale sia stata scritta per l'occasione), dando voce a quella massa di "beautiful losers" che prima di lui solo il Tom Waits che cercava il cuore del sabato notte e lo Springsteen che si agitava nell'oscurità ai margini della città erano riusciti a rendere protagonisti in un ambito più propriamente pop-rock.

Addio a Elliott Erwitt, il maestro della fotografia è morto nella sua casa di Manhattan. Storia di Federico Garau su Il Giornale giovedì 30 novembre 2023.

È scomparso all'età di 95 anni il grande maestro della fotografia Elliott Erwitt. Conosciuto in tutto il mondo, l'artista è deceduto mercoledì 29 novembre all'interno della propria abitazione di di Manhattan (New York).

La vita

Nato a Parigi il 26 luglio 1928 da genitori ebrei di origine russa, Elio Romano Erwitz visse per diverso tempo anche in Italia, per la precisione fino al 1938, quando emigrò con la famiglia negli Stati Uniti per sfuggire alle leggi razziali fasciste.

In America si appassionò sempre di più alla fotografia, studiando la disciplina al Los Angeles City College dal 1942 al 1944. Successivamente studiò anche cinema alla New School for Social Research dal 1948 al 1950. La fotografia documentaristica, in bianco e nero, spesso incentrata su soggetti stravaganti e ironici, resterà sempre la sua più grande passione, e il suo simbolo riconoscitivo. Erwitt prese come spunto il maestro degli "attimi decisivi" Henri Cartier-Bresson.

Dal 1953 divenne un membro effettivo della Magnum Photos. Famosi i ritratti da lui realizzati che vedono come protagonisti personaggi iconici come Marylin Monroe, Che Guevara e Richard Nixon. Fu assistente di Roy Stryker prima di lavorare come fotografo indipendente per le riviste Collier's, Look, Life e Holiday. Fu grazie alla collaborazione con Magnum Photos, tuttavia, che ottenne maggiore visibilità. Erwitz cercava momenti di vita normale, reinterpretati attraverso il suo occhio di fotografo.

Un maestro della fotografia

Elliott Erwitt è noto in tutto il mondo, tanto che molte delle sue opere vengono conservate in musei come l'Art Institute of Chicago, l'Nga a Washington Dc e il Cleveland Museum of Art. Celebri anche i suoi libri-reportage, come Photographs and anti-photographs, pubblicato nel 1972, Son of a Bitch (1974), Personal exposures (1988), To the dogs (1992) e Between the sexes (1994), e tanti altri.

"Puoi scattare una foto della situazione più meravigliosa ed è senza vita, non emerge nulla", affermava, parlando di fotografia. "Poi puoi scattare una foto del nulla, di qualcuno che si gratta il naso, e risulta essere una foto fantastica".

La morte

La notizia della scomparsa del celebre fotografo è stata riportata dal New York Times. Secondo quanto riferito dal quotidiano statunitense, l'autore è morto nel sonno all'interno della sua abitazione di Manhattan.

"I fotografi con una visione comica della vita raramente ottengono il plauso concesso agli esaltatori della natura o ai cronisti della guerra e dello squallore. Elliott Erwitt è stato un'eccezione", scrive ol Nyt. "Il suo occhio acuto per le congiunzioni sciocche, a volte eloquenti - un cane sdraiato sulla schiena in un cimitero, un distributore di Coca-Cola incandescente in Alabama durante una parata di missili, una pianta in vaso rognosa in una pacchiana sala da ballo di Miami Beach - gli ha fatto guadagnare incarichi costanti e l'affetto di un pubblico che condivideva il suo dolce, chapliniano senso dell'assurdo".

Marco Belpoliti per doppiozero.com domenica 3 dicembre 2023. 

“Se fossi un cane, mi piacerebbe essere fotografato da Elliott Erwitt”. Così ha scritto Simon Garfield in un suo libro "Il miglior amico del cane" (Ponte alle Grazie). Ha perfettamente ragione. Da quando è nata la fotografia, nessuno ha mai scattato foto più belle e sorprendenti a questo animale, così prossimo a noi umani, come il fotografo russo-americano. 

Nato in Francia nel 1928, e scomparso l’altro giorno, Erwitt è figlio di una coppia di ebrei russi aspiranti artisti che nei primi decenni del Novecento hanno girovagato per il sud dell’Europa vivendo anche in Italia. 

Il nome del grande fotografo è infatti Elio, poi trasformato, una volta raggiunta l’America per sfuggire ai nazisti, in Elliott, e una leggenda narra che i genitori volessero evitare il gioco di parole: “Hello Elio”. Che Erwitt sia stato un fotografo unico lo certifica anche lo scrittore umoristico P. G. Wodehouse, che nel 1974 ha pubblicato con lui un libro intitolato Figlio di cagna dove scrive: “Nella sua galleria non c’è un modello che non tocchi il cuore”. Intendeva ovviamente i cani. Ma perché Elliott si è dedicato così tanto a questo soggetto? Garfield glielo ha chiesto e la risposta è stata: “Perché così tanti umani?”.

Poi gli ha spiegato che i musi dei cani non invecchiano alla maniera dei volti umani, non si riempiono di rughe, non sembrano troppo derelitti e non hanno la tentazione della chirurgia plastica, al massimo si ingrigiscono intorno alle mascelle. Garfield spiega che la propensione per il miglior amico dell’uomo è nata in Elliott durante l’adolescenza negli anni Quaranta del secolo scorso, quando adottò un cane ammalato di cimurro che col trascorrere del tempo divenne sempre più arruffato e insieme sempre più intelligente e sensibile, qualcosa che probabilmente negli esseri umani non avviene in modo simile. Invecchiando spesso noi perdiamo lucidità e forse anche sensibilità.

Insomma i cani sono per Erwitt il soggetto migliore che ci sia, cui riserva un’attenzione particolare e loro sembrano ricambiarlo con le loro pose e posture, tanto da apparire molto umani, per quanto ci sia in ogni sua foto con questo soggetto (soggetto e non oggetto) sempre qualcosa d’ironico, qualcosa che rivela aspetti di noi umani passando per il mondo canino. 

Insomma, il suo è uno sguardo rovesciato, a volte persino due volte rovesciato. Si osservi questa splendida foto con questo formidabile taglio: inquadra due paia di gambe e un piccolo cane. Le gambe sono alte ed eleganti: l’eleganza delle zampe dell’alano (credo sia un alano) è paragonata a quella degli stivali della sua proprietaria: una naturale e l’altra artificiale.

Loro due sono alti e possenti: è la razza padrona. Il piccolo cane guarda invece verso l’obiettivo: inquadrato interamente indossa un cappello; s’intravede anche la mantellina che lo ricopre. Lui è probabilmente – se così si può dire – il più umano dei tre, ammesso e non concesso che la sua umanità emerga da questa sua condizione d’inferiorità fisica rispetto ai due padroni. 

Quel cappellino come la mantellina indicano non tanto una cura, piuttosto l’umanizzazione del cane, che appare più umano non in virtù del travestimento, ma per via del confronto con i suoi due padroni. Insomma una serie di significati e rinvii che emergono da questo “semplice” scatto: dicono tanto con poco. Quel poco poi è il grande talento di Elliott Erwitt.

Possiede quello che si chiama il “colpo d’occhio”, cioè la velocità di cogliere l’immagine quando essa appare: appare e poi scompare. Erwitt ha intitolato uno dei suoi libri (molti dei quali bellissimi pubblicati in Italia da Contrasto) Snap. Si tratta di una parola che in inglese significa colpo secco, morso, rottura improvvisa, e anche scatto fotografico. 

Elliott non è solo però il fotografo della velocità, dell’immagine colta al volo, ma anche della vivacità, dell’energia e soprattutto dell’allegria. E se vogliamo è anche il fotografo della “bazzecola”, parola che usiamo nella nostra lingua per indicare una cosa di poco conto, un’inezia, una minuzia, un nonnulla. La qualità principale della fotografia di Erwitt è quella di cogliere proprio le cose di poco conto e dare loro un significato specifico, quasi sempre legato a qualcosa di umoristico.

Ci fa sorridere, e a volte persino ridere, che è il solo modo per farci pensare in modo leggero alle cose pesanti. Sono istantanee e somigliano a quelle immagini che i nostri occhi vedono ogni giorno per caso e che non riusciamo mai a fissare in qualcosa di durevole, e tuttavia ci colgono di sorpresa e ci colpiscono. Oggi con gli smartphone noi tutti siamo diventati più rapidi nell’afferrare al volo le minuzie, per quanto mai veloci come lui.

Elliott Erwitt ha una prerogativa che ne fa un grande fotografo rispetto ai milioni di dilettanti cui capita di scattare almeno un paio di foto splendide nel corso della vita: sembra possedere il potere sciamanico di capire che sta per succedere qualcosa di significativo, qualcosa giusto da fotografare. Guardando le sue foto sembra che lui stesso abbia preparato lo scatto ricorrendo a qualche piccolo accorgimento, minimo eppure decisivo, tanto da non essere colto di sorpresa quando “qualcosa” accade. Non c’è niente di meccanico in questo. Si tratta solo di una magia, quella che lo ha reso un grande fotografo.

Accade così perché non è mai distratto? Probabile. Ma c’è anche un’altra cosa decisiva, che ha detto lui stesso in un’intervista: “io sono passivo nella mia attività”. Passivo? Sì, sa accogliere quello che accade. Viene il sospetto che in questo aspetto, come nel suo umorismo, ci sia qualcosa del Witz ebraico, parola che in yiddish indica la barzelletta, che per funzionare deve essere veloce come un lampo e durevole come un pensiero, un pensiero che non si finisce di pensare anche dopo che è stata raccontata. 

Infine c’è un ultimo aspetto, anche questo probabilmente russo ed ebraico: Elliott Erwitt è un narratore, narratore di storie brevi, di novelle, che poi sono le cose nuove che il suo occhio coglie e ci comunica in modo veloce e aereo.  

Marco Giusti per Dagospia il 27 Novembre 2023 

Se ne va anche Aldo Lado, 89 anni, celebrato regista di thriller e gialli all’italiana, come “La corte notte delle bambole di vetro”, “Chi l’ha vista morire?”, ma anche di commedie erotiche post-Malizia, come “La cugina” con Dayle Haddon, Massimo Ranieri, Stefania Casini e Christian De Sica, dello stravagante “Sepolta viva” o dell’efferato e violentissimo “L’ultimo treno della notte” o “Night Train Murders” con Flavio Bucci, Macha Meril, Enrico Maria Salerno, Gianfranco De Grassi, Irene Miracle, che è forse il suo titolo più noto all’estero, dove una coppia di teppisti e una ragazza svitata seminano il panico su un treno dalla Germania per l’Italia.

Ma Lado ha legato il suo nome anche al buffo fantascientifico “L’umanoide”, firmato “George B. Lewis” con Richard Kiel, il gigante coi dentoni da squalo di 007, Corinne Clery, Barbara Bach, Arthur Kennedy. Seppe risolvere qualsiasi film di qualsiasi genere con una sorta di eleganza cinematografica grazie all’attenzione per le immagini e al bel rapporto che aveva con direttori della fotografia del calibro di Gabor Pogany o Franco De Giacomo. Venendo dalla sceneggiatura, ha anche sempre controllato i suoi film fin dall’inizio.

Nato nel 1934 a Fiume, quando era italiana, ora è croata, cresce a Venezia e inizia a occuparsi di cinema nella seconda metà degli anni ’60. Fa un po’ di tutto. Nella seconda metà degli anni ’60 inizia a muovertsi nel cinema. Scrive lo strano western di Alfonso Brescia “Carogne si nasce” con Gordon Mitchell. E’ aiuto regista dell’attivissimo Maurizio Lucidi, un ex-montatore, per una serie di spaghetti western come “Pecos è qui, prega o muori”, “La più grande rapina del west”, i war movies “Probabilità zero” e “La battaglia del Sinai”, ma soprattutto per il sofisticato thriller veneziano “La vittima designata”, dove il suo apporto deve essere stato particolarmente importante, visto che è anche cosceneggiatore assieme a Augusto Caminito.

E’ assistente su molti altri film, “Una colt in pugno al diavolo” di Bergonzelli, ma il regista con cui stabilisce davvero un bel rapporto è Bernardo Bertolucci, che incontra come assistente su “Il conformista”, prodotto da Giovanni Bertolucci, cugino di Bernardo. Diventa amico anche di Salvatore Samperi e scrive per lui due film molto originali, delle commedie venete, come “Un’anguilla da 300 milioni” con Lino Toffolo e Senta Berger e “Beati i ricchi” con Lino Toffolo e Paolo Villaggio. Contemporaneamente, siamo nel 1971, fa il suo esordio da regista con “La corte notte delle bambole di vetro” con Jean Sorel, Barbara Bach, Ingrid Thulin, Mario Adorf, che lo pone tra i nomi interessanti tra i nuovi registi di thriller all’italiana.

“Nel 1968 ero stato a Praga come aiuto per i sopralluoghi di un film tedesco”, raccontava Lado, “ed ero rimasto colpito dagli avvenimenti politici del momento. Il film è la metafora di una società messa in catalessi e in cui il potere (come d’altronde in tutte le società capitalistiche) si mantiene con il sangue dei giovani al ritmo di slogan del tipo “Niente deve cambiare”, “Noi siamo la forza del passato”. Il film l’ho pensato e scritto in un periodo pre-argentiano e non credo abbia niente a che vedere con i thriller di Argento, in cui c’era una ricerca del puro effetto. In sé il film era fuori mercato”. La statuina del demone della farfalla è opera di Sebastian Matta, amico del regista.

In un primo tempo il film avrebbe dovuto chiamarsi Malastrana, che è il nome di uno dei quartieri più antichi e misteriosi di Praga. Il film è presto seguito da “Chi l’ha vista morire?” con George Lazenby, lo 007 che non funzionò, Anita Strindberg, Adolfo Celi, scritto assieme a Francesco Barilli, altro giovane autore cresciuto assieme a Bertolucci. E’ qualcosa di diverso “La cosa buffa”, dal romanzo di Giuseppe Berto, scritto assieme a Alessandro Parenzo, giovane veneziano che si legherà a Samperi, prodotto da Giovanni Bertolucci, un film giovanil sentimentale con Gianni Morandi e Ottavia Piccolo, abbastanza audace per il tempo.

Segue “Sepolta viva” con Agostina Belli, Fred Robsham, Maurizio Bonuglia, tratto da un romanzo d’appendice di Marie Eugéne Saffray, prodotto da Marina Cicogna, dove avrebbe dovuto esordire Marina Lante della Rovere, e invece il suo posto venne preso da Dominique Darel. Mi sembrò più riuscito il successivo “La cugina”, tratto da un romanzo di Ercole Patti, molto vicino agli umori di Malizia e al mondo doi Samperi con Dayle Haddon, Massimo Ranieri, Christian De Sica, Stefania Casini e Laura Betti. Aldo Lado ricordava che Papi e Colombo, i produttori, non volevano Dayle Haddon.

“Avrebbero voluto un’altra attrice, una che aveva fatto un film con Mastroianni.  Allora le feci un provino e li costrinsi a prenderla. Era perfetta. Invece Christian me lo presentò il padre, Vittorio De Sica, che avevo conosciuto a Parigi, mentre girava Un mondo nuovo. Allora aveva i capelli lunghi, glieli feci tagliare e gli feci la riga da una parte, che poi portò per molti anni. Con Massimo Ranieri abbiamo lavorato molto assieme. La sceneggiatura di Franciosa e Montagnana non funzionava, anche perché riprendeva troppo da vicino il romanzo di Ercole Patti. La riscrissi in gran parte e spostai la scopata finale tra i cugini alla fine. Ma non tolsi i nomi dei due sceneggiatori. Franciosa era un nome importante.” 

Fece molto colpo, ma non alla sua uscita, che in Italia fu piuttosto lacunosa, “L’ultimo treno della notte”, che è ritento il suo capolavoro. “L’ultima volta” con Massimo Ranieri e Joe Dallesandro, Eleonora Giorgi, Marisa Mell, è un poliziesco giovanile, tratto da un soggetto di Stefano Calanchi e Luigi Collo, con Ranieri travolto nel crimine dall’amico Dallesandro. Nelle interviste dell’epoca, Lado spera, dopo questo film di girare qualcosa di più profondo, come “L’obelisco nero”, tratto dal romanzo di Erich Maria Remarque, del quale ha appena comprato i diritti. Alla fin degli anni ’70 è molto attivo in tv , “Il prigioniero”, ma soprattutto la miniserie “Delitto in via Teulada”, che fece scalpore perché girata tutta negli studi della Rai.

Ebbe invece una lavorazione sofferta “L’umanoide” con Richard Kiel, Corinne Clery, Barbara Bach, dove divise la regia con i più esperti Antonio Margheriti e Enzo G. Castellari. Negli anni ’80 scrive per Enzo G. Castellari “Il giorno del cobra” e dirige l’erotico letterario “La disubbidienza”, tratto da Moravia, sceneggiato da Barbara Alberti e Amedeo Pagani, prodotto da Valerio De Paolis, con Stefania Sandrelli, Teresa Ann Savoy, Jacques Perrin, Marc Porel. Ricordo piuttosto riuscito l’erotico-esotico “Scirocco” con la bellissima Fiona Gelin e Enzo De Caro. 

Troviamo anche una versione della celebre storia cannibale del giapponese Yuro Kara, “Rito d’amore” con Beatrice Ring e Larry Huckman, girata nel 1989. E’ attivo anche in tv, ricordiamo la serie “Le stelle nel parco” con Stefania Sandrelli e Ray Lovelock, Francesca Neri, Kim Rossi Stuart, ma la sua passione sono i thriller, “Alibi perfetto” con Michael Woods, Kay Rush, Annie Girardot, “Venerdì nero” con Silvia Cohen. Non ha mai smesso davvero col cinema, come non ha mai smesso di scrivere. Si era ritirato da anni sul Lago di Como, a Angera.

Morta Anna Kanakis, l’ex Miss Italia aveva 61 anni. Candida Morvillo su Il Corriere della Sera martedì 21 novembre 2023.

L’attrice è morta ieri a Roma dopo una malattia durata 7 mesi, a darne conferma è stato il marito. Eletta Miss nel 1977, aveva iniziato la sua esperienza al cinema negli anni 80, esordendo alla scrittura nel 2010

Anna Kanakis è mancata domenica sera a soli 61 anni, cogliendo alla sprovvista il mondo del cinema, dove aveva mosso i primi passi da ragazza, il mondo dei libri, dove aveva esordito più di recente pubblicando poi tre romanzi di successo, il mondo della politica, dove era stata responsabile Cultura e Spettacolo dell’Udr di Francesco Cossiga, e il mondo della tv, dove era stata incoronata Miss Italia a 15 anni.

Da sette mesi, lottava con una malattia che non aveva voluto rendere pubblica. È morta all’Umberto I di Roma, fra le braccia di Marco Merati Foscarini, il marito amatissimo col quale fra pochi mesi avrebbe festeggiato vent’anni di matrimonio.

L’intervista di Candida Morvillo ad Anna Kanakis: «Mio padre un estraneo. Alberto Sordi fu memorabile, ci davano per fidanzati»

Era stato un giovane Giuseppe Tornatore, siciliano come lei, a trascinarla al suo primo provino, cercando di convincerla che aveva «le pagliuzze negli occhi, quei guizzi che deve avere l’attore per manifestare emozioni». Il provino era per ’O re di Luigi Magni, che in quegli occhi trovò la brigantessa di quel film che vinse un Nastro d’Argento e due David di Donatello.

Ai libri era arrivata leggendo una biografia di George Sand e appassionandosi alla figura di Alexandre Manceau, il suo ultimo amante. Sei così mia quando dormi - L’ultimo scandaloso amore di George Sand venne pubblicato nel 2010 da Cesare De Michelis per Marsilio. Mentre l’ultimo, Non giudicarmi, è uscito per Baldini + Castoldi nel 2022 e narrava l’ultimo giorno di vita del barone Jacques d’Adelswärd-Fersen e la fatica esistenziale di un omosessuale negli anni ’20. Da quella storia, era nato l’impegno contro l’omofobia portato avanti da Anna fino alla fine.

Raccontava, però, che l’addio alla recitazione l’aveva liberata dalla schiavitù dell’apparire, che amava svegliarsi la mattina presto e mettersi subito alla scrivania, in vestaglia, fino alle quattro del pomeriggio, quando il marito la convinceva a pranzare. Marco Merati Foscarini, banchiere, discendente di un doge di Venezia, era il primo a leggere ogni suo capitolo. Si erano conosciuti e sposati in quattro mesi, restando sempre legatissimi.

«Mi ha fatto riacquistare la stima nel genere maschile», raccontava lei, «mi ha avvicinata parlando non di quello che possedeva, ma di quello che sentiva». Nel dirlo, il pensiero correva al papà greco, visto forse cinque volte. Anna era cresciuta a Messina con la mamma e la nonna. A Miss Italia («roba vecchia come le guerre puniche» la definiva) era arrivata per caso, selezionata mentre era in vacanza a Vulcano. Si era ritrovata all’improvviso, ricordava, con la fascia e il pregiudizio «che non puoi essere brava e devi dimostrare più delle altre, come se la bellezza si possa coniugare solo con la stupidità».

Per dimostrare di non essere solo bella, ce l’ha messa tutta, ma non le veniva difficile. I suoi commenti, anche nei talk di attualità, il suo occhio sul mondo erano affilati e acuti. I funerali saranno giovedì a Roma, alle 15, nella chiesa di San Salvatore in Lauro. Con lei se ne va una donna che non ha mai smesso di superare se stessa. Nell’ultima intervista su questo giornale, le era stato chiesto se aveva ancora sogni. E lei: «Sì, ma non per me. Vorrei una società più luminosa».

Morte Anna Kanakis, una leucemia fulminante: l'addio in sette mesi. Libero Quotidiano il 23 novembre 2023

È stata una leucemia fulminate a uccidere Anna Kanakis. All'attrice, scomparsa domenica sera all'età di 61 anni, era stato diagnosticato un tumore del sangue sette mesi fa. Si stava curando all'ospedale Umberto I di Roma, dove era ricoverata da tempo, ma non sono state sufficienti le cure per salvarle la vita. Il tumore non le ha neppure dato il tempo di combattere la sua battaglia per la vita talmente è stato rapida e aggressiva: ad ucciderla è stata una forma acuta della leucemia mieloide, malattia del sangue causata da una mutazione genetica. 

La conferma arriva dal necrologio pubblicato dal marito Marco Merati Foscarini e dalla madre dell'attrice, Cettina, nel quale oltre a ricordare l'amata scomparsa hanno voluto ringraziare profondamente il professor Maurizio Martelli e il professor Claudio Cartoni, due rinomati ematologi romani, per le cure e le premure riservate all'attrice negli ultimi mesi. "L'hanno assistita con tanto amore e grande umanità", hanno scritto, ringraziando anche "le infermiere Vasilica, Irina e Luciana che l'hanno amata e protetta in questo periodo. Dallo scorso marzo l'attrice aveva smesso di condividere la sua vita sui social network e oggi quell'assenza assordante sembra trovare una triste spiegazione.

Anna Kanakis, addio all'attrice ed ex Miss Italia: aveva 61 anni. Il Tempo il 21 novembre 2023

È morta ieri a Roma l’attrice e scrittrice Anna Kanakis. A confermarlo all’Adnkronos, il marito Marco Merati Foscarini. L’attrice aveva 61 anni. I funerali si terranno a Roma il 23 novembre alle 15 nella chiesa di San Salvatore in Lauro. Era stata Miss Italia 1977, poi modella, quindi attrice in quasi trenta tra film e fiction, quindi politica e infine scrittrice. Al cinema era stata richiestissima nelle commedie anni ’80, diretta più volte da Castellano e Pipolo e da Sergio Martino in film come ’Attila flagello di Diò (1982), ’Occhio, malocchio, prezzemolo e finocchio' (1983), ’Acapulco, prima spiaggia... a sinistra' (1983). Poi anche la tv l’aveva voluta spesso con ruoli da coprotagonista come in ’Vento di ponente' (2002) e in ’La Terza Verità’ (2007). Ma negli ultimi anni, la sua occupazione principale era diventata la scrittura.

Figlia di padre greco, nativo di Creta, ingegnere, e di madre originaria di Tortorici (nella parte messinese dei Nebrodi) avvocato, a soli 15 anni nel settembre 1977 fu eletta Miss Italia a Sant’Eufemia d’Aspromonte: fu la prima Miss Italia così giovane a essere eletta, dopo una modifica del regolamento. Nel 1981 partecipò a Miss Universo. Debuttò nel cinema, con piccoli ruoli nella commedia brillante. Poi, con Luigi Magni, ebbe il primo piccolo ruolo drammatico nei panni di una brigantessa. Seguiranno oltre 30 tra film e fiction per la tv, in Italia e all’estero. Anna Kanakis ebbe anche una breve carriera politica: diventò responsabile nazionale Cultura e Spettacolo dell’Unione Democratica per la Repubblica (UDR), il partito fondato da Francesco Cossiga. 

Nel 2010, con il romanzo ’Sei così mia quando dormi. L’ultimo scandaloso amore di George Sand’ (Marsilio Editori), fece il suo esordio come scrittrice. Nel 2011 pubblicò il secondo romanzo ’L’amante di Goebbels’ (Marsilio Editori), dove narrava la storia vera di Lída Baarová, attrice cecoslovacca che fu amante di Joseph Goebbels nel 1938. Infine, nel 2022, aveva pubblicato con Baldini&Castoldi ’Non giudicarmi', romanzo storico in cui il protagonista, il barone Jacques d’Adelsward Fersen, personaggio realmente esistito, che lotta contro i suoi demoni: la mancanza di talento per diventare lo scrittore che avrebbe voluto essere e l’omosessualità, che gli ha provocato un isolamento dalla famiglia, il carcere e una profonda malinconia. Anna Kanakis ha avuto due matrimoni. Nel 1981 sposò il musicista Claudio Simonetti, da cui divorziò pochi anni dopo. Nel 2004 sposò il veneziano Marco Merati Foscarini, discendente di Marco Foscarini, uno degli ultimi dogi di Venezia.

Si è spenta l’attrice e scrittrice Anna Kanakis ex Miss Italia. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 21 Novembre 2023

La triste notizia è stata confermata dal marito Marco Merati Foscarini all’Adnkronos . I funerali si terranno a Roma il 23 novembre alle 15 nella chiesa di San Salvatore in Lauro.

Anna Kanakis è morta ieri a Roma dopo una incurabile malattia durata 7 mesi. Aveva 61 anni. Una donna bella quanto di carattere, era stata Miss Italia 1977, poi modella, quindi attrice in quasi trenta tra film e fiction, quindi politica e infine scrittrice. La triste notizia è stata confermata dal marito Marco Merati Foscarini all’Adnkronos . I funerali si terranno a Roma il 23 novembre alle 15 nella chiesa di San Salvatore in Lauro.

Figlia di padre greco, ingegnere nativo di Creta, e della madre avvocato originaria di Tortorici (nella parte messinese dei Nebrodi), eletta Miss Italia nel settembre 1977 a Sant’Eufemia d’Aspromonte a soli 15 anni, fu la prima vincitrice del concorso ad essere eletta così giovane, dopo una necessaria modifica del regolamento.

La Kanakis debuttò nel cinema, con piccoli ruoli nella commedia brillante. Poi, con Luigi Magni, ebbe il primo piccolo ruolo drammatico nei panni di una brigantessa nella pellicola “o Re”, con Giancarlo Giannini e Ornella Muti. A cui fecero seguito oltre 30 interpretazioni importanti tra film e fiction per la tv, in Italia e all’estero. Al cinema era stata richiestissima nelle commedie anni ’80, venendo diretta più volte da registi come Castellano e Pipolo e da Sergio Martino in film come “Attila flagello di Dio” (1982), “Occhio, malocchio, prezzemolo e finocchio” (1983), “Acapulco, prima spiaggia… a sinistra” (1983). Poi anche la tv l’aveva voluta spesso con ruoli da coprotagonista come in “Vento di ponente” (2002) e in “La Terza Verità” (2007). Ma negli ultimi anni, la sua occupazione e passione principale era diventata la scrittura.

Anna Kanakis ha issuto anche una breve carriera politica: diventò responsabile nazionale Cultura e Spettacolo dell’ UDR-Unione Democratica per la Repubblica, il partito fondato da Francesco Cossiga. Nel 2010, fece il suo esordio come scrittrice con il romanzo “Sei così mia quando dormi. L’ultimo scandaloso amore di George Sand” (Marsilio Editori) . L’ anno successivo, nel 2011, pubblicò il suo secondo romanzo “L’amante di Goebbels” (Marsilio Editori), dove narrava la storia vera di Lída Baarová, attrice cecoslovacca che fu amante di Joseph Goebbels nel 1938. Nel 2022 infine aveva pubblicato con Baldini&Castoldi “Non giudicarmi“, romanzo storico in cui il protagonista, il barone Jacques d’Adelsward Fersen, personaggio realmente esistito, che lotta contro i suoi demoni: la mancanza di talento per diventare lo scrittore che avrebbe voluto essere e l’omosessualità, che gli ha provocato un isolamento dalla famiglia, il carcere e una profonda malinconia. Anna Kanakis ha avuto due matrimoni. Nel 1981 sposò il musicista Claudio Simonetti, dal quale divorziò dopo pochi anni. Nel 2004 sposò il veneziano Marco Merati Foscarini, banchiere e discendente di Marco Foscarini, uno degli ultimi dogi di Venezia.

Il ricordo del nostro Direttore

Ho conosciuto e frequentato Anna Kanakis, nel periodo in cui vivevo e lavoravo a Milano, prima che incontrasse il suo secondo ed ultimo marito. Mi era stata presentata da un importante uomo della finanza e della politica con cui si era lasciata. Abbiamo vissuto un amicizia vera e tenuto gelosamente lontano dai riflettori, dai paparazzi, dalle cronache rosa. Anna è stata per me una donna speciale, indimenticabile, a cui ho voluto sempre bene e che porterò sempre nei più bei ricordi del mio cuore. Ciao Anna fai buon viaggio. Un giorno ci rivedremo lassù. Redazione CdG 1947

Morta l’attrice ed ex modella Anna Kanakis. Aveva 61 anni. A cura della redazione Spettacoli su La Repubblica il 21 Novembre 2023

Eletta Miss Italia nel 1977, intraprese la carriera al cinema e in tv. Per un breve periodo, ebbe anche un ruolo nella nostra politica

È morta ieri Anna Kanakis. L'attrice ed ex modella aveva 61 anni. Nel 1977, giovanissima, venne eletta Miss Italia. Poi, la carriera da attrice, impegnata in quasi trenta tra film e fiction, quindi l’impegno politico e, infine, la scrittura. L’annuncio della sua scomparsa è stato diffuso dal marito Marco Merati Foscarini. I funerali si terranno a Roma il 23 novembre alle 15 nella chiesa di San Salvatore in Lauro.

Figlia di padre greco, nativo di Creta, ingegnere, e di madre originaria di Tortorici (nella parte messinese dei Nebrodi) avvocato, a soli 15 anni nel settembre 1977 fu eletta Miss Italia a Sant'Eufemia d'Aspromonte: fu la prima ragazza così giovane a essere eletta, dopo una modifica del regolamento. Nel 1981 partecipò a Miss Universo e, in seguito, divenne modella.

Debuttò nel cinema, con piccoli ruoli nella commedia brillante. Poi, con Luigi Magni, ebbe il primo piccolo ruolo drammatico nei panni di una brigantessa nella pellicola "o Rè, con Giancarlo Giannini e Ornella Muti. Seguiranno oltre 30 tra film e fiction per la tv, in Italia e all'estero.

Al cinema era stata richiestissima nelle commedie anni Ottanta, diretta più volte da Castellano e Pipolo e da Sergio Martino in film come Attila flagello di Dio (1982), Occhio, malocchio, prezzemolo e finocchio (1983), Acapulco, prima spiaggia... a sinistra (1983).

Poi anche la tv l'aveva voluta spesso con ruoli da coprotagonista come in Vento di ponente (2002) e in La terza verità (2007) ma negli ultimi anni, la sua occupazione principale era diventata la scrittura.

Anna Kanakis ebbe anche una breve carriera politica: diventò responsabile nazionale Cultura e Spettacolo dell'Unione Democratica per la Repubblica (UDR), il partito fondato da Francesco Cossiga.

Nel 2010, con il romanzo Sei così mia quando dormi. L'ultimo scandaloso amore di George Sand (Marsilio Editori), fece il suo esordio come scrittrice. Nel 2011 pubblicò il secondo romanzo L'amante di Goebbels (Marsilio Editori), dove narrava la storia vera di Lída Baarová, attrice cecoslovacca che fu amante di Joseph Goebbels nel 1938. Infine, nel 2022, aveva pubblicato con Baldini & Castoldi Non giudicarmi, romanzo storico in cui il protagonista, il barone Jacques d'Adelsward Fersen, personaggio realmente esistito, che lotta contro i suoi demoni: la mancanza di talento per diventare lo scrittore che avrebbe voluto essere e l'omosessualità, che gli ha provocato un isolamento dalla famiglia, il carcere e una profonda malinconia.

Kanakis ha avuto due matrimoni. Nel 1981 sposò il musicista Claudio Simonetti, da cui divorziò pochi anni dopo. Nel 2004 sposò il veneziano Marco Merati Foscarini, discendente di Marco Foscarini, uno degli ultimi dogi di Venezia.

Morta l'attrice Anna Kanakis: l'ex Miss Italia aveva 61 anni. Roberta Damiata il 21 Novembre 2023 su Il Giornale.

Se n'è andata all'età di 61 anni Anna Kanakis, l'ex Miss Italia esempio di classe ed eleganza

È una scomparsa che lascia sgomenti quella di Anna Kanakis, Miss Italia 1977, poi modella, attrice con quasi trenta tra film e fiction all'attivo, politica e infine scrittrice, che nell'immaginario collettivo ha rappresentato la classe e l'eleganza di una donna a cui il tempo non aveva intaccato la bellezza. Se n'è andata ieri, ma se n'è avuta notizia solo ora grazie ad un comunicato dell'Adnkronos affidato dal marito Marco Merati Foscarini. L'attrice aveva 61 anni. Non è stato divulgato il motivo del decesso.

La sua vita

Era figlia di un ingegnere greco, nativo di Creta, mentre la madre era un avvocato originario di Tortici (nella zona siciliana dei Nebrodi). La sua bellezza dovuta anche alle due diverse etnie dei genitori, la fece arrivare a soli 15 anni a vincere Miss Italia. Fu la prima ad essere incoronata così giovane e per lei venne addirittura modificato il regolamento. Nell'81 partecipò anche al concorso di Miss Universo classificandosi tra le prime posizioni.

Fu però il cinema a "rapirla", in un periodo in cui le commedie brillanti tenevano banco al botteghino. Solo con Luigi Magni, arrivò il primo ruolo drammatico, nei panni di una brigantessa nella pellicola o Re, con Giancarlo Giannini e Ornella Muti. Da lì in poi furono oltre 30 le pellicole e le fiction tv che la videro protagonista sia in Itala che all'estero.

Sposata due volte, nell'81 si unì in matrimonio con il musicista Claudio Simonetti, da cui divorziò pochi anni dopo. Nel 2004 sposò il veneziano Marco Merati Foscarini, discendente di Marco Foscarini, uno degli ultimi dogi di Venezia.

La carriera cinematografica

Venne diretta più volte da Castellano e Pipolo e da Sergio Martino in film come Attila flagello di Dio (1982), Occhio, malocchio, prezzemolo e finocchio (1983), Acapulco, prima spiaggia... a sinistra (1983). Poi anche la tv l'aveva voluta spesso con ruoli da coprotagonista come in Vento di ponente (2002) e in La Terza Verità (2007). Ma negli ultimi anni, la sua occupazione principale era diventata la scrittura.

Il percorso politico

Tra le tante esperienze che fece nel corso della vita anche quella di una breve carriera politica. diventando responsabile nazionale Cultura e Spettacolo dell'Unione Democratica per la Repubblica (UDR), il partito fondato da Francesco Cossiga. Preferì poi dedicarsi alla sua grande passione per la scrittura e nel 2010 esordì con il romanzo Sei così mia quando dormi. L'ultimo scandaloso amore di George Sand (Marsilio Editori).

L'anno successivo nel 2011 ne uscì un secondo, L'amante di Goebbels (Marsilio Editori), dove narrava la storia vera di Lída Baarová, attrice cecoslovacca che fu amante di Joseph Goebbels nel 1938. Infine, nel 2022, aveva pubblicato con Baldini&Castoldi Non giudicarmi, romanzo storico in cui il protagonista, il barone Jacques d’Adelsward Fersen, personaggio realmente esistito, lotta contro i suoi demoni: la mancanza di talento per diventare lo scrittore che avrebbe voluto essere e l'omosessualità, che gli ha provocato un isolamento dalla famiglia, il carcere e una profonda malinconia.

Le esequie

La famiglia ha comunicato la data del funerale, per tutti coloro che vorranno dare l'ultimo saluto all'amata attrice. Le esequie si terranno a Roma il 23 novembre alle 15 nella chiesa di San Salvatore in Lauro.

Morta Anna Kanakis, attrice e Miss Italia a 15 anni: "Ho dentro un casino", quell'intervista nel 2022. Libero Quotidiano il 21 novembre 2023

Addio ad Anna Kanakis. L'attrice e scrittrice è morta a Roma all'età di 61 anni dopo una malattia di circa sette mesi. La notizia della scomparsa è stata confermata dal marito Marco Merati Foscarini, con cui è stata legata 19 anni. I funerali si terranno giovedì 23 novembre, alle ore 15, nella chiesa di San Salvatore in Lauro a Roma. 

Anna Kanakis era stata Miss Italia 1977 a soli 15 anni, la più giovane nella storia della kermesse. Poi modella, quindi attrice in quasi trenta tra film e fiction, poi ancora impegnata in politica e infine scrittrice. Al cinema Kanakis era stata richiestissima nelle commedie anni '80, diretta più volte da Castellano e Pipolo e da Sergio Martino in film come 'Attila flagello di Dio' (1982), 'Occhio, malocchio, prezzemolo e finocchio' (1983), 'Acapulco, prima spiaggia... a sinistra' (1983). Poi anche la tv l'aveva voluta spesso con ruoli da coprotagonista come in 'Vento di ponente' (2002) e in 'La Terza Verità' (2007). 

Ma negli ultimi anni, la sua occupazione principale era diventata la scrittura. Figlia di padre greco, nativo di Creta, ingegnere, e di madre originaria di Tortorici (nella parte messinese dei Nebrodi) avvocato, a soli 15 anni nel settembre 1977 Anna Maria Kanakis, come detto, fu eletta Miss Italia a Sant'Eufemia d'Aspromonte. Fu la prima Miss Italia così giovane ad essere eletta, dopo una modifica del regolamento. 

Nel 1981 partecipò a Miss Universo. Debuttò nel cinema, con piccoli ruoli nella commedia brillante. Poi, con il regista Luigi Magni, ebbe il primo piccolo ruolo drammatico nei panni di una brigantessa nella pellicola ''o Re', con Giancarlo Giannini e Ornella Muti. Seguiranno oltre 30 tra film e fiction per la tv, in Italia e all'estero. Anna Kanakis ebbe anche una breve carriera politica: diventò responsabile nazionale Cultura e Spettacolo dell'Unione Democratica per la Repubblica (Udr), il partito fondato da Francesco Cossiga. 

Nel 2010, con il romanzo 'Sei così mia quando dormi. L'ultimo scandaloso amore di George Sand' (Marsilio Editori), fece il suo esordio come scrittrice. Nel 2011 pubblicò il secondo romanzo 'L'amante di Goebbels' (Marsilio Editori), dove narrava la storia vera di Lída Baarová, attrice cecoslovacca che fu amante di Joseph Goebbels nel 1938. Infine, nel 2022, aveva pubblicato con Baldini&Castoldi 'Non giudicarmi', romanzo storico in cui il protagonista, il barone Jacques d'Adelsward Fersen, personaggio realmente esistito, che lotta contro i suoi demoni: la mancanza di talento per diventare lo scrittore che avrebbe voluto essere e l'omosessualità, che gli ha provocato un isolamento dalla famiglia, il carcere e una profonda malinconia. 

Anna Kanakis ha avuto due matrimoni. Nel 1981 sposò il musicista Claudio Simonetti, da cui divorziò pochi anni dopo. Nel 2004 sposò il veneziano Marco Merati Foscarini, discendente di Marco Foscarini, uno degli ultimi dogi di Venezia.

Personaggio profondo ed eclettico, nel settembre del 2022 rilasciò una delle sue ultime interviste a Candida Morvillo per il Corriere della Sera. Quando le chiedevano se nella vita la fantasia è malata o sana, rispondeva: "Ho dentro un casino greco-siculo, romantico e sentimentale, che cerco di dominare con la razionalità. Prima ero più concentrata su me stessa, ora guardo più alle vite degli altri, ne immagino le sofferenze, mi adopero per aiutare". Una frase che dice molto su Anna Kanakis, un'icona che ci lascia troppo presto.

Anna Kanakis: «Mio padre un estraneo. Alberto Sordi fu memorabile, ci davano per fidanzati». Candida Morvillo su Il Corriere della Sera il 21 novembre 2023

L’intervista del 20 settembre 2022 all’attrice e scrittrice. «Mi manca la compagnia di Cossiga. Il mio primo matrimonio a 19 anni. Sono andata in metro con la pistola»

L’intervista ad Anna Kanakis del 20 settembre 2022 per la serie “Italiani”. L’attrice, nata a Messina, è scomparsa a 61 anni dopo una breve malattia.

«Tutto è iniziato il giorno in cui, dopo aver letto il mio primo manoscritto, il compianto Cesare De Michelis mi disse: tu hai una fantasia malata, ti pubblico». Accadeva più di dieci anni fa, Anna Kanakis era celebre per essere stata Miss Italia, per essere protagonista di fiction di successo come Vento di Ponente e per essere stata responsabile del settore Cultura e Spettacolo dell’Udr di Francesco Cossiga. Ora, ricorda: «Un giorno, leggendo una biografia di George Sand, mi appassiono alla figura di Alexandre Manceau, il suo ultimo amante. Prendo foglio e penna, inizio a scrivere: era lui che raccontava la sua storia. I fogli si ammonticchiano, li trascrivo al computer, li mando agli amici Isabella Bossi Fedrigotti e Massimo Gramellini. Entrambi mi chiamano dicendo: “Anna, questo è un romanzo, devi proporlo a una casa editrice”». Oggi, è al suo terzo libro: Non Giudicarmi esce per Baldini+Castoldi venerdì 23 settembre.

Che cosa intendeva l’editore di Marsilio con «fantasia malata»?

«Che volo tanto con la testa. Ho scritto sempre romanzi storici, su persone realmente esistite, che riesco a riempire di emozioni. Ora ho raccontato l’ultimo giorno di vita del barone Jacques d’Adelswärd-Fersen, che ho fatto semplicemente sbarcare a Capri e arrivare a casa: lui prese la funicolare, io l’ho fatto salire a piedi. Lui ci mise dieci minuti, io ho scritto 112 pagine in cui scorre una vita intera, con paure, ossessioni, sensi di colpa, perversioni, amici, nemici: questa è la mia “parte malata”, il volo con la fantasia, che pure rimane fedele alla storia. Volevo raccontare la fatica esistenziale e sentimentale di un omosessuale negli anni ’20, perché il passato aiuta a capire il presente e sul tema diritti e omofobia, oggi, ce n’è particolarmente bisogno».

Nella vita, la fantasia è malata o sana?

«Ho dentro un casino greco-siculo, romantico e sentimentale, che cerco di dominare con la razionalità. Prima ero più concentrata su me stessa, ora guardo più alle vite degli altri, ne immagino le sofferenze, mi adopero per aiutare».

E si sente più attrice o scrittrice?

«Quando arrivò il primo scatolone coi miei libri, chiamai l’avvocato Giorgio Assumma che mi seguiva come attrice e gli dissi: temo che non ci vedremo più per le fiction, perché mi sono innamorata della scrittura. In fondo, scrivere si avvicina alla recitazione: se interpreti qualcuno, fai una ricerca, cerchi di capirne le emozioni. Infatti, già da attrice, sulla ricerca ero maniacale».

La cosa più maniacale che ha fatto?

«Assistetti a un’autopsia con Nicola Calipari».

Con l’agente del Sismi ucciso in Iraq?

«Allora era nella Criminalpol. Fu lui a spiegarmi cosa si fa appena si arriva sulla scena del crimine. Era il 1999, dovevo girare una fiction: Fine Secolo, sei puntate per Raidue. Facevo una superpoliziotta arrivata dall’America per indagare sulla morte di una ragazza. Dovevo sparare come un tiratore scelto, buttare a terra un delinquente, fare testacoda pazzeschi, assistere a un’autopsia. L’ispirazione era Nikita. Cossiga chiamò il capo della Polizia, disse: c’è un’attrice che lavora per me, un tipo molto esigente che vuole imparare a fare tutto».

Mima bene la voce del fu presidente emerito.

«Mi manca quel signore col quale parlavo di cinema, letteratura, tutto. Aveva la freschezza di un bambino. Era bimbo dentro e abile politico fuori. Quando mi chiamò per arruolarmi nel partito, mi fece ridere dicendo: stia tranquilla, se non la fanno lavorare perché è con me, vado sotto al cavallo della Rai e faccio un gran casino».

Che altro imparò per quel set?

«Il capo dei Nocs mi affidò a un campione di pistola che m’insegnò a sparare al poligono della Polizia e che mi insegnò ad atterrare i criminali con una mossa di aikido».

La mossa di aikido se la ricorda ancora?

«Certo. E, dopo, ho preso il porto d’armi».

Che ci fa con un’arma?

«Tiro al piattello in Toscana o tiro dinamico al poligono. Ho un’ottima mira».

Il «tiro dinamico» che sarebbe?

«Un tiro velocissimo con un bersaglio mobile, come nei film di Clint Eastwood, quando si vede che spuntano un prete e un delinquente e lui deve scansare il primo e accoppare il secondo. Si fa con le sagome. Modestamente, mi riesce bene. Ho voluto la pistola perché vivevo da sola in un attico di Roma in via Del Corso: se sai sparare e ti entrano in casa, azzoppi un piede; se non sai sparare, ammazzi qualcuno».

È mai uscita con la pistola nella borsetta?

«Le prime volte, se andavo in metro da sola».

Non ha avuto ripensamenti sull’addio ai set?

«Mai. Anzi, mi sono sentita liberata dalla schiavitù di apparire. Padrona del mio lavoro: non dipendevo più da un regista o da un produttore, ma ero libera di gestire il mio tempo e produrre una forma d’arte diversa. Ho lasciato senza rimpianti e ai massimi, mentre andava in onda La terza verità, che faceva quasi 8 milioni di ascolti. Dopo, quando dicevo no a dei copioni, non ho provato emozioni. Invece la prima recensione mi aveva asciugato la bocca, ero impazzita di gioia. Ne ho poi collezionate 19: su un romanzo storico, scritto da un’attrice, ex miss...».

Facciamo un passo indietro a quel 1977 in cui a 15 anni diventava la più bella d’Italia.

«Ancora? È roba vecchia come le guerre puniche. L’ho raccontato mille volte di come fu per caso, di come mi selezionarono in vacanza a Vulcano... Da lì, se fai l’attrice, allora sei miss e non puoi essere brava e devi dimostrare più delle altre, come se la bellezza si potesse coniugare solo con la stupidità».

Mettiamola così: chi era la giovane Anna?

«Una ragazzina che studiava al liceo Cutelli di Catania, fortemente politicizzato a sinistra: un giorno sì e uno no, si facevano assemblee. Leggevo tantissimo, studiavo tantissimo ed ero cresciuta con una madre in gamba, capo dell’ispettorato del lavoro di Catania».

Il papà greco quanto c’era?

«Mamma era tornata in Sicilia con me e mia sorella e fu tra le prime a usufruire della legge sul divorzio. Nei miei primi 25 anni, lui l’avrò visto cinque volte, poi è morto. È stato un estraneo, il quale pensava che aver generato due figlie non significasse occuparsene».

Quanto le è mancata la figura paterna?

«Sono stata in parte cresciuta da nonna, perché mamma si era laureata e dava concorsi in tutta Italia. Ero viziata, ma dentro, a volte, sentivo solitudine. Crescendo mi sono accorta che guardavo non i coetanei, ma gli uomini più grandi e che dipendeva dall’assenza del padre. Al che ho letto un tomo sul complesso di Elettra e ogni volta che incontravo un signore che mi pareva affascinante mi dicevo: Anna, fermati, rifletti. Così, l’età dei fidanzati successivi è scesa».

Il primo matrimonio — lei 19 anni, lui dieci in più — durò niente.

«Cercavamo le stesse cose: io un padre, lui una mamma. Lì iniziò la mia vita romana da sola. Facevo la mannequin, il cinema me l’avevano proposto in tutte le salse, ma andavano Edwige Fenech e le scene sotto la doccia: la mamma ispettrice del lavoro e la figlia che leggeva romanzi non intendevano fare quel genere di film. Poi, un giorno, Giuseppe Tornatore, un giovane amico che iniziava nel cinema, mi parlò delle mie pagliuzze negli occhi».

Che cosa sono queste pagliuzze?

«Guizzi che deve avere l’attore per manifestare emozioni. Mi lasciai trascinare a un provino con Luigi Magni, per ’O re, che mi prese. Dopo, ho interpretato il soprano Maria Maligran nella Famiglia Ricordi di Mauro Bolognini, suore, una tossicomane in Riflessi in un cielo scuro di Salvatore Maira... Ho cercato ruoli che non fossero la bellona di turno».

Come eravamo messi col MeToo?

«Arrivavo da una sana educazione del Sud: ero poco disposta e poco disponibile. Qualche volta, qualcuno mi ha detto “se sarai carina con me, sarò carino con te” e non mi ha più vista». Com’è la storia del rubino che uno sceicco arabo le fece trovare in un melograno? «Lucherinate: invenzioni da ufficio stampa».

Un incontro memorabile della sua carriera?

«Con Alberto Sordi: la stampa rosa ci aveva anche fidanzati. Giravamo L’Avaro con Tonino Cervi, un giorno, davanti al camino, in abiti di scena, mi raccontò che non volevano produrgli Un borghese piccolo piccolo, il suo film più bello: I produttori gli dicevano “Albe’, ma qua non fai ride’...”. Capisce la cecità?».

Un momento di down in cui si è detta «basta questo mestiere non fa per me»?

«Mai. Sono un panzer. E avevo scelto un mestiere in cui, anche se ti chiami Gassman, finisci un lavoro e sei disoccupato. Infatti, ero concentratissima sul lavoro. Dopo il divorzio sono rimasta di fatto single fino a 42 anni».

Single, ma corteggiatissima?

«Un pochino». Sospiro. «Vabbé... Tanto. La mamma mi vedeva tagliare le teste e mi diceva: ma perché quello non ti piace? E quell’altro?».

A che punto della conoscenza tagliava teste?

«Quando dicevano: ho la barca, ho questo, quell’altro. Detesto la mancanza di profondità».

Suo marito Marco Merati Foscarini è banchiere e discendente di un doge di Venezia, com’è che lui l’ha sposato in soli quattro mesi?

«Mi ha fatto riacquistare la stima nel genere maschile. Mi ha avvicinata a una cena parlando non di quello che possedeva, ma di quello che sentiva dentro di sé. Siamo sposati da 18 anni. È il primo che legge ogni mio capitolo».

Scrive ancora a penna?

«Sì e poi copio al pc. Scrivere richiede ritualità e disciplina. Io mi chiudo nel mio studio in vestaglia, salto il pranzo, scrivo fino alle 16.30, poi Marco mi porta da mangiare e stramazzo».

Compiere 60 anni, a febbraio, che effetto le ha fatto?

«Nessuno. Ho un rapporto sereno con l’età».

Ha ancora un sogno?

«Sì: vorrei una società più luminosa».

Marco Giusti per Dagospia lunedì 20 novembre 2023

Se ne va uno degli attori inglesi più amati del secolo scorso, Joss Ackland, 95 anni, nato a North Kensington, cresciuto a Hampstead, lo stesso quartiere di Jean Simmons e di Elizabeth Taylor, ma attivissimo anche a Hollywood e in Italia. Grosso, massiccio, preparato per qualsiasi ruolo, da Goering a Churchill, da Tolstoj a Mastro Ciliegia, da D'Artagnan in gioventù al padre di D'Artagnan, da Matisse a Juan peron a teatro in una celebre “Evita”, senza pensare a vescovi, poliziotti, giudici, cattivi di ogni tipo, con una grande e profonda voce teatrale che avrebbe dato spessore a qualsiasi personaggio, ha girato qualcosa come 200 titoli tra film, film per la tv, serie.

Lo troviamo ovunque, soprattutto tra gli anni ’70 e gli anni ’80, da “Lo zoo di venere” di Peter Greenaway a “Il caso Drabble” di Don Siegel, da “Misfatto bianco” di Michael Radford con Sarah Miles, a “Caccia a Ottobre rosso” di John McTiernan con Sean Connery a “Il siciliano” di Michael Cimino, dove è il capomafia, Don Masino, da “Arma letale 2” di Richard Donner a "Surviving Picasso” di James Ivory con Anthony Hopkins-Picasso dove interpreta Henri Matisse.

Del resto poteva tenere testa a qualsiasi star del teatro e del cinema inglese, da Alec Guinness, che incontra in tv ne “La talpa” da John Le Carré e in “Gli ultimi dieci giorni di Hitler” di Ennio De Concini, a Richard Burton e Ian McShane ne “Il mascalzone” di Michael Tuchner, da Peter Finch, che incontra in “Operazione su vasta scala” di Peter Duffell, il film che lo lancia, a Michael Caine, in “Taglio di diamanti” di Don Siegel e nel “Jekyll & Hyde” televisivo degli anni ’80. Senza pensare a Denholm Elliott, suo grande amico, al quale darà il primo bacio gay che si sia mai visto sulle scene teatrali londinesi in “Bermonsdey” di John Mortimer nel 1971, o a John Hurt, che incontrerà in “Mr Forbush amd the Penguins" di Roy Boulting. Ma è attivissimo anche in Italia.

Lo ricordiamo assieme a Gian Maria Volonté-Scalfari come Gaetano Leporino in “Tre colonne in cronaca” dei Vanzina alla fine degli anni ’80, in “Dimenticare Palermo” di Francesco Rosi con Jim Belushi, nella serie “Il figlio di Sandokan” di Stefano Sollima con Kabir Bedi e perfino in “Occhiopinocchio” di e con Francesco Rosi, dove ancora una volta è un grande cattivo. Nato nel 1928, ventenne è già attivo a teatro e al cinema. Lo vediamo in piccoli ruoli in “Landfall” di Ken Annakin e “Minaccia atomica” dei fratelli Boulting. Negli anni ’60 lo troviamo in “I figli del Capitano Grant” di Ken Annakin per la Disney con Hayley Mills e Maurice Chevalier e nel “Rasputin” di Don Sharp con Christopher Lee.

Attivissimo in tv diventa Mr Peggotty nel “David Copperfield" seriale e poi D'Artagnan  in “The Further Adventures of the Three Musketeer”. Sarà il regista di serie tv Peter Duffell, al suo esordio nel cinema, a volerlo protagonista di un episodio dell’horror innovativo “La casa che grondava sangue” e poi in “Operazione su vasta scala” con Peter Finch da Graham Greene. Per Joss Ackland sarà il vero lancio nel mondo del cinema, al punto che lo troviamo ovunque, perfino in film più internazionali come “SPYS” di Irvin Kershner con Donald Sutherland e Elliott Gould o “Il piccolo principe” di Stanley Donen dove è il Re.

O in “Royal Flash” di Richard Lester, che lo vorrà anche come padre di D'Artagnan nella nuova versione de “I tre moschettieri”. Fa film di grande popolarità, come “Il magnate greco” di J. Lee Thompson con Anthony Quinn o “Saint Jack” di Peter Bogdanovich con ben Gazzara o “Arma letale 2” con Mel Gibson e Danny Glover, che è forse il suo film più noto. Assolutamente workaholic, non ha mai smesso di girare film. Anche cose terribili. 

 Del resto aveva una grande famiglia, cinque figli femmine e due maschi. Uno dei suoi ultimi titoli è un film per la tv, “Katherine of Alexandria”, dove divide la scena con Peter O’Toole. Ma è stato anche una grande voce per il cinema di animazione, è il Black Rabbit di “La collina dei conigli”, e doppia il nostro Paolo Bonacelli in inglese nel “Caligola” di Tinto Brass.

(ANSA sabato 11 novembre 2023) - E' morto stamattina a Catania l'ex deputato e senatore Nino Strano. Aveva 73 anni e da tempo era malato. La sua 'carriera' politica era iniziata nel consiglio Comunale di Catania dove venne eletto nel Msi nel 1976, restando in Aula fino al 1993. In quell'anno si candida alla presidenza della provincia di Catania alle prime elezioni dirette e, senza il sostegno di alcuna lista, ottiene il 13 per cento dei voti. 

Dal 1994 è deputato e assessore alla Regione Siciliana e viene riconfermato fino al 2001 con Alleanza nazionale. In quell'anno è eletto alla Camera nelle liste di An, mentre nel 2006 conquista un seggio al Senato. Il 24 gennaio 2008, in occasione della caduta del secondo governo Prodi, durante il dibattito a Palazzo Madama all'annuncio dell'avvenuta sfiducia da parte del presidente Marini, celebrò platealmente la caduta dell'esecutivo di centrosinistra insieme al collega Domenico Gramazio, stappando una bottiglia di spumante e facendo mostra di mangiare mortadella, scusandosi poi dell'accaduto.

 Il 26 giugno 2009 viene nominato assessore Regionale al Turismo, Comunicazioni e Trasporti della Regione Siciliana, rimanendo in carica fino al 28 settembre 2010. Il 2 novembre 2011 torna al Senato subentrando a Raffaele Stancanelli, che ha optato per il mantenimento dell'incarico di sindaco di Catania. Il 20 dicembre 2012, però, presenta le sue dimissioni irrevocabili, accolte dal Senato.

Fin da giovane Nino Strano all'attività politica ha affiancato la regia, sia di opere teatrali che cinematografiche. È stato aiuto regista di Mauro Bolognini per i film Metello e Un bellissimo novembre, quest'ultimo tratto dall'omonimo romanzo di Ercole Patti. Fu poi aiuto regista in una Bohème messa in scena al Teatro Massimo di Palermo, nel Pipistrello di Strauss e in Norma di Vincenzo Bellini, al Teatro Massimo Bellini di Catania. Per la realizzazione di una Zaira di Bellini fu aiuto regista di Attilio Colonnello. 

Fu infine aiuto regista di Franco Zeffirelli per il film Storia di una capinera. Nel febbraio 2011 è nominato vice presidente di Cinesicilia e resta in carica fino al 30 settembre 2011. Nel 2017 ha pubblicato il libro 'Je ne regrette rien - La libertà è un hula hoop'. Dal 2018 è stato direttore artistico del Mythos Opera Festival.

Morto Nino Strano, l’ex senatore che mangiò mortadella in Aula per festeggiare la caduta di Prodi. Redazione politica su Il Corriere della Sera sabato 11 novembre 2023.

Si è spento a Catania Nino Strano, ex parlamentare di Alleanza nazionale autore nel 2008 di un gesto di esultanza che fece scalpore

Accolse la caduta del governo Prodi nel 2008 mangiando platealmente nell’Aula del Senato una fetta di mortadella. Un’immagine che ha fatto storia. L’autore di quel gesto clamoroso, l’ex deputato e senatore Nino Strano, è morto stamattina a Catania. Aveva 73 anni e da tempo era malato. La sua `carriera´ politica era iniziata nel consiglio Comunale di Catania dove venne eletto nel Msi nel 1976, restando in Aula fino al 1993. In quell’anno si candida alla presidenza della provincia di Catania alle prime elezioni dirette e, senza il sostegno di alcuna lista, ottiene il 13 per cento dei voti. Dal 1994 è deputato e assessore alla Regione Siciliana e viene riconfermato fino al 2001 con Alleanza nazionale. In quell’anno è eletto alla Camera nelle liste di An, mentre nel 2006 conquista un seggio al Senato.

Il 24 gennaio 2008, in occasione della caduta del secondo governo Prodi, durante il dibattito a Palazzo Madama all’annuncio dell’avvenuta sfiducia da parte del presidente Marini, celebrò platealmente la caduta dell’esecutivo di centrosinistra insieme al collega Domenico Gramazio, stappando una bottiglia di spumante e facendo mostra di mangiare mortadella, scusandosi poi dell’accaduto. Il 26 giugno 2009 viene nominato assessore Regionale al Turismo, Comunicazioni e Trasporti della Regione Siciliana, rimanendo in carica fino al 28 settembre 2010. Il 2 novembre 2011 torna al Senato subentrando a Raffaele Stancanelli, che ha optato per il mantenimento dell’incarico di sindaco di Catania. Il 20 dicembre 2012, però, presenta le sue dimissioni irrevocabili, accolte dal Senato.

Fin da giovane Nino Strano all’attività politica ha affiancato la regia, sia di opere teatrali che cinematografiche. E’ stato aiuto regista di Mauro Bolognini per i film Metello e Un bellissimo novembre, quest’ultimo tratto dall’omonimo romanzo di Ercole Patti. Fu poi aiuto regista in una Bohème messa in scena al Teatro Massimo di Palermo, nel Pipistrello di Strauss e in Norma di Vincenzo Bellini, al Teatro Massimo Bellini di Catania. Per la realizzazione di una Zaira di Bellini fu aiuto regista di Attilio Colonnello. Fu infine aiuto regista di Franco Zeffirelli per il film Storia di una capinera. Nel febbraio 2011 è nominato vice presidente di Cinesicilia e resta in carica fino al 30 settembre 2011. Nel 2017 ha pubblicato il libro `Je ne regrette rien - La libertà è un hula hoop´. Dal 2018 è stato direttore artistico del Mythos Opera Festival.

Addio a Nino Strano, dalla Sicilia alla mortadella per festeggiare la caduta di Prodi. Cristiana Flaminio su L'Identità l'11 Novembre 2023

Addio a Nino Strano. La destra, e più in generale la politica, siciliana e nazionale, perdono un protagonista. Aveva 73 anni. Strano, malato da tempo, è spirato nella sua Catania. La sua immagine “iconica” è legata a uno dei tanti momenti di forte contrasto tra i poli ai tempi della Seconda Repubblica. È lui che il 24 gennaio 2008, dagli scranni di Palazzo Madama, addentò una fetta di mortadella per “salutare” la sfiducia che pose fine all’esperienza dell’ultimo governo guidato da Romano Prodi. Ma Nino Strano è stato più di una fotografia che ha fatto il giro del mondo, ha armato l’ennesimo fronte di conflitto tra centrodestra e centrosinistra, ha sollevato polemiche furibonde da un lato e sorrisi goliardici dall’altro. Era stato uno degli storici militanti della destra siciliana, in particolare di quella catanese. Segue il percorso politico del Msi e con Alleanza Nazionale, Nino Strano diventa assessore regionale in Sicilia dopo una “vita” passata al consiglio comunale di Catania dove, eletto per la prima volta nel ’76, rimane fino al 1993.  Nel 1994 divenne deputato all’Assemblea regionale siciliana, subentrando a Benito Paolone, e rientrando nel Msi, diviene componente della 3ª Commissione legislativa permanente, Attività produttive ed Agricoltura. Nel 1996 viene rieletto nel collegio di Catania per Alleanza Nazionale. Viene nominato assessore regionale al Turismo, comunicazioni e trasporti nei governi di centro destra (1996-1998). Nel 2001 viene eletto alla Camera dei deputati nella lista di An.

La scomparsa di Nino Strano è stata salutata da molti messaggi d’addio. Su tutti, quello del presidente del Senato Ignazio La Russa: “Ho appreso con profondo dolore della morte dell’amico Nino Strano. Con la sua scomparsa non sono solo la politica e la comunità della Destra ad essere in lutto ma anche il mondo del teatro e del cinema, le sue vere passioni sin da giovanissimo. Tanti i ricordi che mi legheranno a lui per sempre, a cominciare da quelli vissuti assieme nella nostra comune terra di origine. La sua verve, la sua ironia, la sua gioia di vivere erano contagiose. Indimenticabile è e sarà quel suo sorriso che non è mai venuto meno, anche nei momenti più brutti della malattia. Ai suoi familiari e ai suoi cari le più sentite condoglianze mie personali e quelle del Senato della Repubblica”.

Un saluto a Nino Strano è arrivato anche dal governatore della Regione Siciliana, Renato Schifani: “Un pensiero di affettuosa memoria a un esponente politico che amava fortemente la sua terra, grati anche per il contributo alla vita culturale e alle politiche del turismo della Sicilia”. Un tributo alla memoria di Strano è arrivato anche dal ministro alle Imprese e al Made in Italy Adolfo Urso: “Con Nino Strano ci lascia una delle intelligenze più vivaci e creative della destra siciliana, molto apprezzato negli ambienti dello spettacolo e della cultura, per la sua carica umana, profondamente legato alla sua terra e straordinariamente innovativo. Ciao Nino, brilla anche nel cielo”.

Morto Frank Borman, il primo uomo ad orbitare intorno alla Luna. Storia di Carlo Baroni su Il Corriere della Sera giovedì 9 novembre 2023.

Lui la Luna l’aveva solo accarezzata. Erano i giorni di Natale. In quel Sessantotto che avrebbe cambiato la Terra. Frank Borman navigava nello spazio, il primo a orbitare intorno al nostro satellite. Un nome che rimase scolpito per la generazione dei boomer. Frank Borman ci ha lasciato. Aveva 95 anni. Un lungo viaggio sul nostro pianeta che lui aveva attraversato con i passi leggeri di un astronauta nello spazio. Il primo a farci capire che l’impossibile non esisteva. Frank Borman aveva la faccia di un’America buona. I capelli cortissimi e biondo di un ragazzo dell’Indiana dove era nato. Così diverso dai colleghi algidi descritti da Oriana Fallaci. Borman aveva una spiritualità profonda che si intensificò quando si trovò in quello spazio infinito dove nessun essere umano era già stato. A suo modo, e forse suo malgrado, divenne anche un personaggio pop. E finì sulla copertina di un Lp dei Led Zeppelin.

Prima c’era stata la carriera militare, diplomato nella mitica West Point e poi pilota dei caccia. L’arrivo a Houston per partecipare al progetto spaziale della Nasa. Il primo viaggio tra le stelle con la missione Gemini e poi l’Apollo 8 in equipaggio con James Lovell e William Anders. Divenne la più iconica delle imprese spaziali. Con la storica copertina di Life con la Terra che sorge dalla Luna. Durante la notte della vigilia di Natale Frank Borman in orbita attorno alla Luna rivolse un messaggio a coloro che erano sulla Terra: lessero i primi passi della Genesi (il libro comune alle tre principali religioni monoteiste) e augurò un Buon Natale a tutti i terrestri.

Lasciata la Nasa divenne presidente di una compagnia aerea, la Eastern Airlines, risanando i bilanci e spalmando gli stipendi su tutti i dipendenti.

Frank Borman. È morto il primo astronauta che orbitò attorno alla Luna. Linkiesta il 10 Novembre 2023

A 95 anni si è spento il capo della missione Nasa Apollo 8, la prima a raggiungere il satellite della Terra nel 1968

A novantacinque anni è morto Frank Borman, il primo astronauta ad aver orbitato intorno alla Luna. Fu il comandante della storica missione Apollo 8, partita il 21 dicembre 1968 da Cape Canaveral, la prima a raggiungere la Luna dopo un viaggio di tre giorni in cui com trecentottantamila chilometri nello spazio: un trionfo della tecnologia e dell’ingegneria spaziale. Durante il viaggio, l’equipaggio formato da Borman, William Anders e James Lovell ha fornito al mondo una delle immagini più iconiche dell’era spaziale: l’Earthrise, immortalata mentre l’equipaggio orbitava sopra il lato nascosto della Luna. 

La missione Apollo 8 non solo ha dimostrato la capacità umana di viaggiare nello spazio profondo, ma ha anche gettato le basi per le future esplorazioni lunari. Borman, con il suo coraggio e la sua leadership, ha aperto la strada per i successi futuri della NASA, inclusa la celebre missione Apollo 11, che ha portato l’uomo sulla Luna il 20 luglio 1969. «Frank conosceva il potere dell’esplorazione che unisce l’umanità quando disse: “L’esplorazione è davvero l’essenza dello spirito umano”, Il suo amore per l’aviazione e l’esplorazione è stato superato solo dal suo amore per sua moglie Susan», si legge nel necrologio pubblicato nel sito della Nasa.

Nato il 14 marzo 1928, Borman diventò astronauta nel secondo gruppo della NASA nel 1962. «Frank ha iniziato la sua carriera come ufficiale dell’aeronautica americana. Il suo amore per il volo si è rivelato essenziale attraverso le sue posizioni come pilota di caccia, pilota operativo, pilota collaudatore e assistente professore. La sua eccezionale esperienza e competenza lo hanno portato a essere scelto dalla NASA per unirsi al secondo gruppo di astronauti. Oltre al suo ruolo fondamentale di comandante della missione Apollo 8, è un veterano di Gemini 7, trascorrendo quattordici giorni in orbita terrestre bassa e conducendo il primo rendez-vous nello spazio, arrivando a pochi metri dalla navicella spaziale Gemini 6»

Estratto da repubblica.it martedì 7 novembre 2023.

Evan Ellingson, ex enfant prodige diventato celebre per i ruoli nel film La custode di mia sorella e la serie CSI: Miami, è morto all'età di 35 anni. È stato trovato morto nella sua casa a Fontana, in California, non sono state comunicate le cause della morte. In passato aveva avuto problemi di droga. […]

Estratto dell'articolo di repubblica.it lunedì 6 novembre 2023.

La regista e attrice romana Sibilla Barbieri, malata oncologica terminale, è morta in Svizzera dove era arrivata per potersi sottoporre al suicidio assistito.

[…] La donna, che era anche consigliera dell'associazione, aveva deciso di intraprendere il viaggio all'estero in seguito al diniego della Asl romana […] 

A metà settembre, ricorda l'associazione Coscioni, la struttura sanitaria aveva comunicato la propria decisione, spiegando che la donna non possedeva i quattro requisiti previsti dalla sentenza Cappato\Dj Fabo della Corte costituzionale per poter accedere legalmente alla morte volontaria assistita.

In particolare la commissione medica ha ritenuto che alla donna mancasse il requisito della dipendenza da trattamento di sostegno vitale. 

"Questa è una discriminazione gravissima tra i malati oncologici […] possiedo i 10mila euro necessari e posso ancora andarci fisicamente. Ma tutte le altre persone condannate a morire da una malattia che non possono perché non hanno i mezzi, perché sono sole o non hanno le informazioni, come fanno? Questa è un'altra grave discriminazione a cui lo Stato deve porre rimedio".

Sibilla Barbieri è stata accompagnata in Svizzera dal figlio e dall'ex senatore radicale Marco Perduca. Entrambi si autodenunceranno domani mattina presso la stazione dei carabinieri Roma Vittorio Veneto e rischiano fino a 12 anni di carcere.

Anche Marco Cappato si autodenuncerà in quanto legale rappresentante dell'Associazione Soccorso Civile che ha organizzato e sostenuto il viaggio di Sibilla Barbieri. Ad accompagnarli Filomena Gallo, legale difensore e segretario nazionale dell'associazione.

Suicidio assistito, l'attrice Sibilla Barbieri è morta in Svizzera. La Asl di Roma glielo aveva negato. Erica Dellapasqua su Il Corriere della Sera lunedì 6 novembre 2023.

Sibilla Barbieri, 58 anni, malata oncologica terminale, è morta in Svizzera dove era arrivata per sottoporsi al suicidio assistito. Accompagnata dal figlio e dall'ex senatore radicale Marco Perduca

Fino all'ultimo, ha vissuto la sua scelta come un atto di protesta e denuncia civile. Sui social aveva postato le sue foto durante la malattia. In un video aveva chiarito il suo intento: «Io posso perché ho i mezzi finanziari, ma gli altri?» Una battaglia combattuta fino all'ultimo respiro, a fianco ai suo compagni. La regista e attrice romana Sibilla Barbieri, malata oncologica terminale, è morta a 58 anni in una clinica privata in Svizzera dove era arrivata per potersi sottoporre al suicidio assistito. A renderlo noto è stata l'associazione Coscioni. La donna, che era anche consigliera dell'associazione, aveva deciso di intraprendere il viaggio all'estero in seguito al diniego della Asl romana cui apparteneva di usufruire dell'aiuto medico alla morte volontaria. Tra le ultime battaglie di Barbieri, del resto, c'era proprio quella sull'eutanasia: «Questa estate mi impegnerò raccogliendo le firme per la convocazione del referendum sull’eutanasia legale: abbiamo come obiettivo il raggiungimento di 10.000 volontari entro fine giugno, attivarsi per ottenere il diritto ad essere liberi fino alla fine», scriveva su Facebook ormai due anni.

A metà settembre, ricorda l'associazione Coscioni, la struttura sanitaria aveva comunicato la propria decisione, spiegando che la donna non possedeva i quattro requisiti previsti dalla sentenza Cappato\Dj Fabo della Corte costituzionale per poter accedere legalmente alla morte volontaria assistita. In particolare la commissione medica ha ritenuto che alla donna mancasse il requisito della dipendenza da trattamento di sostegno vitale. «Questa è una discriminazione gravissima tra i malati oncologici e chi si trova anche in altre condizioni non terminali - ha detto la regista nell'ultimo video pubblicato online prima del viaggio -. Per questo ho deciso liberamente di ottenere aiuto andando in Svizzera perché possiedo i 10mila euro necessari e posso ancora andarci fisicamente. Ma tutte le altre persone condannate a morire da una malattia che non possono perché non hanno i mezzi, perché sono sole o non hanno le informazioni, come fanno? Questa è un'altra grave discriminazione a cui lo Stato deve porre rimedio».

Sibilla Barbieri è stata accompagnata in Svizzera dal figlio e dall'ex senatore radicale Marco Perduca. Entrambi si autodenunceranno domani mattina presso la stazione dei carabinieri Roma Vittorio Veneto e rischiano fino a 12 anni di carcere. Anche Marco Cappato si autodenuncerà in quanto legale rappresentante dell'associazione "Soccorso civile" che ha organizzato e sostenuto il viaggio di Sibilla Barbieri. Ad accompagnarli Filomena Gallo, legale difensore e segretario nazionale dell'associazione.

Le reazioni

«La sua scelta - spiega l'Associazione Luca Coscioni, di cui Barbieri era consigliera generale - è stata a seguito della sentenza numero 242/19 della Corte costituzionale che stabilisce i criteri per accedere legalmente alla morte volontaria assistita. Sibilla Barbieri soddisfaceva tutti i requisiti, ma le è stato negato questo diritto in Italia a causa di un'interpretazione restrittiva dei requisiti da parte dell'azienda sanitaria. Il diniego, motivato dal mancato requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale, ha obbligato Sibilla a cercare il sollievo alle sue sofferenze altrove. In mancanza di un dibattito istituzionale, continuerà a mancare la tutela per le persone che vorrebbero, ma non possono o che non incontrano chi è disponibile ad aiutarle. È tempo di un cambiamento e di una riflessione più ampia su questo tema così rilevante per molti individui e famiglie in Italia».

+Europa: «Urgente la discussione in Parlamento»

«L'Asl laziale con una discutibile interpretazione della sentenza Dj Fabo ha impedito a Sibilla Barbieri di poter morire nel suo Paese tra i suoi affetti. In altre 5 occasioni nel recente passato c'è invece stato il via libera alla morte volontaria assistita da parte di altre Asl - afferma Valerio Federico della Direzione di +Europa -. La libera scelta negata oggi a persone sofferenti e inguaribili, ci dice una volta di più quanto sia urgente che il Parlamento legiferi in merito per allargare le scelte personali sul fine vita».

Suicidio assistito: è morta in Svizzera Sibilla Barbieri dopo il no dell’Asl. Eleonora Ciaffoloni su L'Identità il 6 Novembre 2023

Sibilla Barbieri ha scelto di porre fine al dolore e alla malattia – da anni lottava contro il cancro – con il suicidio assistito ed è morta lo scorso 31 ottobre, in Svizzera. Attrice, regista e sceneggiatrice, Sibilla Barbieri ha scelto di autosomministrarsi il farmaco letale in una clinica svizzera dopo il rifiuto da parte della sua Asl di riferimento al poter usufruire dell’aiuto medico alla morte volontaria.

Il no della Asl era arrivato con la motivazione che la donna non possedeva tutti e quattro i requisiti previsti dalla sentenza Cappato\Dj Fabo della Corte Costituzionale per poter accedere legalmente alla morte volontaria assistita.

La sentenza è la n. 242/19 e prevede che il suicidio assistito possa avvenire se la persona sia capace di autodeterminarsi, sia affetta da patologia irreversibile, che tale malattia sia fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che la persona reputi intollerabili e, infine, che sia dipendente da trattamenti di sostegno vitale. Secondo la commissione medica, a mancare era stato l’ultimo requisito della dipendenza da trattamento di sostegno vitale.  

“I dirigenti dell’azienda sanitaria – dichiara l’avvocata Filomena Gallo – hanno predisposto le verifiche e inviato un diniego di accesso all’aiuto alla morte volontaria perché, secondo una Commissione Aziendale istituita ad hoc, la persona malata non dipendeva da trattamenti di sostegno vitale”. Eppure, “Al diniego non era allegata la relazione medica e neppure il parere del Comitato etico competente, documenti che avevamo richiesto. Dopo avere verificato con il dottor Mario Riccio la documentazione medica che Sibilla Barbieri aveva prodotto, è emerso che invece Barbieri era sottoposta a plurime forme di sostegno vitale. Motivo per cui abbiamo presentato opposizione al diniego, informando i dirigenti dell’azienda sanitaria che la nostra assistita aveva intrapreso anche la procedura per andare in Svizzera, ma che avrebbe voluto concludere i suoi pochi giorni con i suoi cari in Italia. Non vi è stata nessuna risposta da parte dei dirigenti Asl”.

E solo il 3 novembre, quando Barbieri era già morta, è arrivato il parere del Comitato Etico che conferma la sussistenza per Sibilla Barbieri dei requisiti indicati dalla Corte costituzionale.

A raccontarle la sua storia e anche il viaggio è stata la stessa attrice, in un video postato postumo sui social: “Questa è una discriminazione gravissima tra i malati oncologici e chi si trova anche in altre condizioni non terminali. Per questo ho deciso liberamente di ottenere aiuto andando in Svizzera perché possiedo i 10mila euro necessari e posso ancora andarci fisicamente”.

“Ma tutte le altre persone condannate a morire da una malattia che non possono perché non hanno i mezzi, perché sono sole o non hanno le informazioni, come fanno? Questa è un’altra grave discriminazione a cui lo Stato deve porre rimedio” ha continuato Barbieri.

SUICIDIO ASSISTITO. Sibilla Barbieri è morta in Svizzera perché l’Italia glielo ha impedito. Per l’Asl non aveva i requisiti previsti: la regista romana di 58 anni si è autosomministrata il farmaco letale all’estero. L’ultimo video-messaggio: “Contro noi malati oncologici discriminazione gravissima”. Domani a Roma l’autodenuncia del figlio Vittorio, con Perduca e Cappato. Chiara Lalli su Il Dubbio il 6 novembre 2023

Sibilla Barbieri è morta martedì scorso in Svizzera. Avrebbe voluto morire a casa sua. Anzi, avrebbe voluto guarire (ogni volta ripenso alla lettera di Piergiorgio Welby, quando scriveva che i malati vogliono guarire, mica morire; ma se non possono guarire potrebbero almeno avere la possibilità di scegliere delle loro vite?).

Barbieri aveva un cancro da dieci anni, si era curata, aveva provato tutto. E a un certo punto tutto aveva smesso di funzionare. Nell’ultimo video ha l’ossigeno e fatica un po’ a parlare – pur essendo lucidissima. In poco più di due minuti e mezzo dice quello che c’è da dire: che non ha più tempo; che ha provato a chiedere l’accesso al suicidio assistito qui in Italia perché è un suo diritto o almeno dovrebbe esserlo; che la ASL aveva mandato una commissione ma poi aveva detto che no, non rientrava nei requisiti stabiliti dalla Corte costituzionale nel 2019 perché non aveva un sostegno vitale – forse inteso come un macchinario (Barbieri aveva un tubicino che l’aiutava a respirare e prendeva dei farmaci per il dolore; cioè aveva bisogno dell’ossigeno e di medicine per lenire i sintomi) – e nemmeno forse troppa sofferenza (questo l’ho aggiungo io dopo aver letto il verbale della commissione); che pochi malati di cancro hanno un sostegno vitale inteso in senso restrittivo («le cose cambiano», dice Barbieri indicando il tubicino, e non c’è bisogno che aggiunga che accade molto velocemente e sempre in peggio in situazioni del genere; che piangere); che è una discriminazione gravissima permettere di scegliere solo a chi ha un certo tipo di trattamento o di tecnologia per sopravvivere (sarebbe come permettere a chi ha gli occhiali o le lenti a contatto di leggere qualunque cosa mentre si fa una lista dei buoni libri a chi non ne ha ancora bisogno; ma è per il nostro bene, naturalmente); che ha deciso liberamente di andare in Svizzera, lei che può; e «posso ancora andarci fisicamente, anche se sono al limite».

Barbieri poi ci domanda: tutte quelle persone che non hanno mezzi materiali e informazioni come fanno? Già. Barbieri aveva tutti i requisiti previsti dalla sentenza della Corte costituzionale che permette anche in Italia di accedere al suicidio assistito: era in grado di intendere e di volere, aveva un patologia incurabile che le provocava sofferenza fisica o psicologica (la disgiuntiva è importante) e aveva dei trattamenti di sostegno vitale. Ma secondo la commissione aziendale della ASL Roma 1 non aveva sostegni vitali e nemmeno sofferenze intollerabili – pur avendo bisogno di quella bombola di ossigeno e di farmaci per contenere il dolore. Lo scrivono nel verbale (che leggo dopo la morte di Barbieri), discostandosi dal parere del comitato etico, e rispondendo a una richiesta di agosto e a una diffida. Quanti giorni sono? Quanti giorni sono per una malata terminale?

Non solo. Barbieri il 3 agosto aveva scritto alla ASL: «Resto in attesa di vostro immediato riscontro poiché le mie condizioni di salute stanno peggiorando e non voglio essere sottoposta a ulteriori sofferenze per me intollerabili». Non solo. Come giustamente ricorda più volte il comitato etico, la sofferenza non è il dolore, ed è difficile misurare qualcosa di così soggettivo. Nonostante questo, il comitato non si nasconde e non rimanda la propria responsabilità: «Data la storia clinica, considerato il vissuto che trapela e l’oggettivo, ineluttabile prognostico, si può forse dubitare di un vissuto di sofferenza ritenuto intollerabile? Crediamo che questo criterio valutativo sia ampiamente documentato e oggettivato». La commissione invece decide che non ci sono tutti i requisiti della 242. Nessuno vuole prendersi questa responsabilità, no?

Barbieri era consigliera dell’Associazione Luca Coscioni e a guardare quel video è più difficile del solito non piangere. È andata in Svizzera, accompagnata dal figlio Vittorio e da Marco Perduca. Si autodenunciano a Roma  – insieme a Marco Cappato come rappresentante dell’Associazione Soccorso Civile – accompagnati da Filomena Gallo, avvocata, segretaria dell’Associazione Luca Coscioni e coordinatrice del collegio legale di difesa dei disobbedienti. (Anche io sono iscritta a Soccorso Civile e lo scorso dicembre ho accompagnato Massimiliano in Svizzera; Massimiliano non aveva un sostegno vitale in senso stretto ma non poteva quasi più muoversi e non voleva più vivere in quel modo; che ingiustizia).

Vi pare moralmente accettabile che una persona sia costretta a viaggiare per poter scegliere (riuscite a immaginare la fatica e la fretta e l’ansia di non farcela)? Che non possa morire a casa sua? Vi pare giusto che un figlio debba accollarsi questo peso? Ripeto che nel caso di Barbieri questo esilio imposto è ancora più grave. Perché aveva tutti i requisiti eppure nessuno le ha garantito davvero la possibilità di scegliere. Barbieri, sempre in quel video, ringrazia chi l’ha aiutata e chi l’ha ascoltata al posto dello Stato. È forse la parte più infuriante e straziante. Perché la malattia è inevitabile. L’ignavia e l’indifferenza no.

Marco Giusti per Dagospia lunedì 6 novembre 2023.

Bella, altera, spregiudicata, divisa tra il cinema di genere più folle negli anni ’60, il cinema d’autore negli anni ’70, il teatro impegnato, la tv, ma anche ogni possibile stravaganza, se ne va la principessa Micaela Cendali Pignatelli, 78 anni, attrice e doppiatrice, attiva fino a pochi anni fa, nonché moglie, anzi ex moglie di Flavio Bucci, col quale ha diviso film e spettacoli teatrali, e ha avuto due figli. 

Con un nome altisonante, nata a Napoli nel 1945, figlia del Principe Pignatelli-Cerchiara, un medico, entrò nel cinema nei primi anni ’60 assieme a altri nobili signorine, da Ira von Furstenberg a Soraya a Esmeralda Ruspoli, accettando proprio di tutto, da “La tigre profumata alla dinamite” di Claude Chabrol, il suo primo film, a “Dio, come ti amo”, musicarello diretto da Manuel Iglesias con Gigliola Cinquetti e Mark Damon, da “Lo scandalo” di Anna Gobbi a due follie come “Flashman” di Mino Loy con Paolo Gozlino e “Goldface, il fantastico superman” di Bitto Albertini con Espartaco Santoni.

La si notò poco nello spaghetti western, girò solo il modesto “Piluk il timido” di Guido Celano con Edmund Purdom, ma fece la sua figura accanto alla statuaria Kitty Swan nell’erotico tarzanoide “Gungala, la vergine della giungla” di Ruggero Deodato, dove era la bella esploratrice. Devo dire che fu grazie a Gungala che molti giovani spettatori si accorsero di lei, una bellezza molto moderna e particolare, un po’ alla Jane Birkin. La ritroviamo nel poliziesco “La legge dei gangster” di Siro Marcellini accanto a Klaus Kinski e Franco Citti, come la donna di Max Delys e poi nell’erotico/politico “Amarsi male” di Fernando Di Leo con Franco Citti e Nieves Navarro, che non ebbe il successo previsto.

Uno dei suoi ruoli maggiori lo ebbe nel più scatenato, almeno nel ricordo, “Alba pagana – Delitto a Oxford” di Ugo Liberatore, girato a Londra col titolo di lavorazione “May Morning”, assieme a Jane Birkin, Alessio Orano e John Steiner. La troviamo subito dopo nel bellico “Ordine dalle SS: eliminate Borman!” dello spagnolo Juan Antonio Bardem, nel poco visto e poco noto “Scacco alla mafia” di Warren Kiefer con Victor Spinetti e Luciano Pigozzi. Nei primi anni ’70 la troviamo in film ancora più audaci come il lesbo-movie “La ragazza dalle mani di corallo” di Luigi Petrini con Susanna Levi o “La notte dei fiori” di Gian Vittorio Baldi con Macha Meril, Hiram Keller e Dominique Sanda, sorta di ricostruzione italiana della notte dell’omicidio di Sharon Tate da parte della banda Manson.

Negli anni ’70 gira veramente di tutto, un poliziottesco di Massimo Dallamano, “La polizia chiede aiuto” con Claudio Cassinelli e Mario Adorf, “Farfallon” di Riccardo Pazzaglia con Franco e Ciccio, ma anche film sperimentali senza una lira come “La vita nova” di e con Edoardo Torricella, “I giorni della chimera” di Franco Corona con Renato Scarpa e Flavio Bucci, suo marito e spesso partner anche a teatro. Negli anni ’70, in realtà, è più attiva a teatro e in tv che al cinema. La troviamo ne “I masnadieri” di Schiller diretta da Giancarlo Nanni, a Spoleto nella versione diretta da Vittorio Caprioli di “La conversazione continuamente interrotta” con Cochi e Renato e Paolo Bonacelli. E’ celebre un suo “Otello” dove recita nuda alla Biennale di Venezia diretta da Gianni Serra. Assieme a Flavio Bucci la troviamo sia a teatro, “Il re è nudo” di Ionesco, che al cinema con il primo film di Marco Tullio Giordana, “Maledetti vi amerò”, un film generazionale ma fortemente autocritico sulla crisi post-77 dei giovani del movimento. Ma subito dopo la troviamo con James Franciscus ne “L’ultimo squalo” di Enzo G. Castellari e in tv nel famoso “Storia di Anna” con Laura Lattuada e Flavio Bucci.

Negli anni ’80 fa tanta tv, anche buona, come “Delitto di stato”, “La sconosciuta”, “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana” diretto da Piero Schivazappa con Bucci, un episodio di “Turno di notte” di Lamberto Bava e Luigi Cozzi, ma anche qualche buon film, come la commedia di Francesco Massaro “Ti presento un’amica” con Giuliana De Sio, Michele Placido e Kate Capeshaw, “La chiesa” di Michele Soavi e “Il cartaio” di Dario Argento. Lavorerà sempre, doppierà perfino Jamie Lee Curtis in “Halloween”, Ornella Muti ne “L’ultima donna”. La troviamo in produzioni televisive diverse, “Rita da Cascia” di Giorgio Capitani, “Provaci ancora prof” nel 2008. 

È morto a 38 anni Andrea Iovino, fu protagonista del Pinocchio di Garrone e di Made in Sud. Piero Rossano su Il Corriere della Sera domenica 5 novembre 2023.

Lutto nel mondo dello spettacolo napoletano per la scomparsa improvvisa dell'artista che aveva cominciato la carriera al fianco di Sal Da Vinci. I funerali lunedì pomeriggio nella sua Nola

Una morte improvvisa e per questo, forse, ancora più dolorosa. Andrea Iovino se n'è andato senza alcun preavviso a soli 38 anni, lasciando sgomenti i familiari ed increduli fans ed amici. Non è dato sapere le cause della sua prematura scomparsa, i familiari si sono chiusi in uno stretto riserbo. Volto noto del grande schermo così come della televesione, Iovino aveva avuto un ruolo da protagonista nel Pinocchio di Matteo Garrone. Di lui si ricordano anche partecipazioni mai banali anche in fortunate trasmissioni quali "Made in Sud" e "Tu sì que vales", in cui vestiva i panni del "disturbatore" di Sabrina Ferilli. La notizia della scomparsa di Iovino si è diffusa nella tarda mattinata di domenica attraverso i social, suscitando enorme commozione anche a causa della sua giovane età. 

La carriera e il ricordo dei colleghi

Vissuto a Nola in località Cappella degli Spiriti, Andrea Iovino ha frequentato il liceo Carducci della cittadina di Giordano Bruno. Ha iniziato formandosi nel 2005 nella compagnia nolana del regista e autore Salvatore Esposito Pipariello. «Mio padre comprese subito la sua bravura che andava al di là della sua fisicità. Era molto portato per i ruoli comici», ricorda Antonio Esposito, regista e figlio del fondatore della compagnia. «Siamo tutti senza parole. Era una gran bella persona, molto disponibile e legato alla sua città».

Andrea Iovino aveva anche calcato le scene con Sal Da Vinci in alcuni suoi recital. Il cantante neomelodico lo ha salutato oggi sui suoi social con poche commosse parole: «Grazie Andrea, rip». Anche il fratello di Andrea, Giovanni, è un attore e i due hanno anche lavorato assieme in più occasioni, finendo entrambi nel cast del film di Garrone in cui l'artista scomparso ha anche impersonificato Pinocchio. Salvatore Notaro, cugino e consigliere comunale a Nola, sottolinea che «era un ragazzo semplice, si è fatto da solo, sempre molto attivo anche nel sociale con sani principi molto lagato alla famiglia». Commosso anche Gianni Sallustro, attore e direttore del Teatro Instabile di Napoli: «La sua dipartita, lascia un grande vuoto, bravo nella recitazione ma soprattutto è stato un ottimo caratterista. Ricordo l’entusiasmo con cui in un nostro incontro mi parlò della sua bellissima esperienza fatta nel Pinocchio di Garrone. Era un attore che curava in maniera attenta tutte le sfaccettature dei suoi personaggi». 

La famiglia: lascia quattro figli

Le affermazioni nella carriera artistica erano arrivate inframezzate dai momenti che era riuscito a ritagliarsi a livello personale e familiare. Sposato con Ornella, Andrea Iovino era il papà di tre bambine, Clarissa, Clohe e Maddalena, e di un maschietto, che portava il suo stesso nome di battesimo. Iovino aveva eletto Nola, la città d'origine, come feudo preferendo viaggiare quando si è trattato di lavorare anche fuori regione piuttosto che andare via per sempre. Con la famiglia viveva in via Rione Olivieri. I funerali dell'attore si tengono lunedì 6 novembre nella sua Nola, la cerimonia con rito evangelico è fissata per le 14.30 nel cimitero della sua città.  (ha collaborato Rosa Carillo Ambrosio)

Morto l'attore di Made in Sud Andrea Iovino, la sorella: «Ci ha dato coraggio fino alla fine. Siani e Da Vinci vicini a noi». Rosa Carillo Ambrosio su Il Corriere della Sera lunedì 6 novembre 2023.

 I quattro figli, la malattia, la comunità evangelica, le telefonate di Siani e Sal Da Vinci, parla Antonietta: «Ha scoperto il tumore a pochi giorni dalla nascita della sua ultima bambina»

È tutto in via vai, a casa di Andrea Iovino, morto a 38 anni. C’è dolore e sgomento. La comunità tutta di Nola si è stretta intorno alla famiglia che risiede nel quartiere Cappella degli Spiriti. I suoi concittadini rimpiangono soprattutto l’uomo, il padre affettuoso di quattro bambini, il ragazzo generoso e per bene che ha frequentato le aule del liceo Carducci, il figlio premuroso e il fratello che con Giovannino (il disturbatore di Tu sì que vales) e Antonietta ha condiviso la passione per il teatro. Amava visceralmente la sua famiglia e proprio in essa aveva trovato la strada del suo impegno artistico. 

«Lui era il primogenito, ma fui io a trascinarlo in questo mondo coinvolgendo anche Giovanni. Anche io amo il teatro e iniziai da giovane a frequentare la compagnia nolana Pipariello. I miei fratelli mi seguirono. In seguito io lasciai e loro con successo hanno proseguito», afferma Antonietta Iovino che nel dolore con grande dignità ci tiene a sottolineare il percorso di Andrea. «Si è fatto da solo, per anni ha lavorato in una compagnia di animazione, la Hollywood animation, con loro portava allegria nei villaggi e tanti turisti ritornavano perché c’era lui. Poi fece i primi provini che andarono bene. Conquistava tutti con la sua bravura». Come spesso accade, dai villaggi è arrivato alla televisione e poi addirittura al cinema d'autore: prima Made in Sud e poi Pinocchio di Matteo Garrone. Una vera gavetta che lo ha portato al successo.  

Le telefonate di Siani e Sal Da Vinci

Alessandro Siani che lo volle come folletto nel film Chi ha incastrato Babbo Natale ha chiamato personalmente i familiari così  il cast di Sal Da Vinci ha fatto recandosi di persona. Andrea scoprì di essere malato nell’ottobre dello scorso anno: «Lo scoprì proprio qualche giorno prima della nascita della sua ultima bambina. In questi mesi lui ha dato coraggio a noi e nonostante non stesse bene ha voluto partecipare allo spettacolo Masaniello Revolution con Sal Da Vinci. Le tavole delle scene insieme alla sua famiglia erano la sua vita», sottolinea commuovendosi più volte la sorella. Antonietta termina: «L’ultimo gesto che ha fatto è stato quello di alzare il pollice, ci ha salutato così. Inneggiando alla forza. Questo era Andrea un grande attore ma soprattutto un grande uomo». 

La comunità evangelica

Andrea Iovino frequentava la comunità evangelica di Napoli: Sabaot. Oggi questa comunità insieme ai familiari e a tanti colleghi e rappresentanti delle istituzioni l'hanno salutato oggi nel cimitero nolano.  Con loro il primo cittadino Carlo Buonauro: «Il paese è completamente scosso. Era un volto bello della nostra comunità. La sua allegria non è mai stata  vuota o volgare ma profonda e riflessiva. Inoltre, rappresentava il simbolo di chi riesce a realizzare i propri sogni, di chi supera le  difficoltà in un mondo apparentemente lontano. Ci stringiamo intorno alla famiglia e sicuramente ci impegneremo a ricordarlo perché con il suo impegno nel cinema e teatro ha saputo esprimere con delicatezza e tatto i valori profondi della nostra terra».

Estratto dell'articolo di Sara D'Ascenzo per corrieredelveneto.corriere.it sabato 4 novembre 2023.

Ha vissuto come voleva ed è morta come aveva deciso, nel letto di legno che era di sua madre Annamaria, con le zampe di leone intagliate, spedito dalla casa di Venezia a quella di via di Porta Pinciana 34 a Roma. A vegliare su un sonno che nelle ultime settimane si era fatto tormentato e senza pace, un quadro intarsiato con otto scene della tradizione buddista: «Quello sì, molto importante», amava dire. 

Ma soprattutto è morta con accanto la compagna di una vita, Benedetta, che l’ha vegliata costantemente sostenendo il suo ultimo respiro. Marina Cicogna Mozzoni, 89 anni e una vita da sogno raccontata nel film “Marina Cicogna. La vita e tutto il resto” di Andrea Bettinetti nel 2021 e nel libro “Ancora spero” (Marsilio, 2023), è morta il 4 novembre 2023 nella sua casa vicino a via Veneto, svoltato l’angolo di Largo Federico Fellini, nella toponomastica della fine il riassunto della sua esistenza votata alla Dolce Vita e al cinema.

La carriera

Nata il 29 maggio 1934 dal conte Cesare Cicogna Mozzoni e dalla contessa Annamaria Volpi di Misurata, nipote del conte Giuseppe Volpi di Misurata, veneziano, che nel ’32 inventò la Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, la contessa Marina Cicogna ha respirato cinema fin da ragazzina, quando al Lido si infilava in una delle sale della Mostra per vedere quanti più film possibile. Amica di un bel mondo che con lei scompare definitivamente, da Luchino Visconti a Gianni Agnelli, da Maria Callas ad Aristotele Onassis, Cicogna ha amato uomini e donne, ha avuto un flirt con Alain Delon e una lunga storia con l’attrice brasiliana Florinda Bolkan, che conobbe poco più che ragazzina a una festa in casa di Elsa Martinelli e lanciò nel cinema, dove lei – era la fine degli anni ’60 – aveva cominciato a muovere i suoi passi, prima donna in Europa e forse nel mondo, come produttrice. 

Sua la firma su film importanti del cinema italiano come “Teorema” di Pier Paolo Pasolini, “Metti, una sera a cena” di Giuseppe Patroni Griffi e “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto”, che nel ’71 le valse un Oscar che non andò a ritirare a Los Angeles per un’insuperabile paura dell’aereo. Fiera oppositrice delle convenzioni ma anche dei movimenti, ha vissuto la sua sessualità senza mai voler essere incasellata.

Le etichette 

«Spesso le persone mi hanno messo delle etichette – aveva raccontato nella sua autobiografia -. Ma la mia vita e le mie scelte parlano per me. Ho vissuto per vent’anni con Florinda, da quasi quaranta vivo con Benedetta. Eppure non ho mai amato le manifestazioni eclatanti della propria sessualità.

Addio alla "contessa" del cinema Marina Cicogna: aveva 89 anni. L’attrice e sceneggiatrice si è spenta il 4 novembre nella sua casa di Roma. Era da tempo malata di cancro. Nella sua autobiografia disse: "La mia vita e le mie scelte parlano per me". Cristina Balbo il 4 Novembre 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 La vita e la carriera di Marina Cicogna

Si è spenta all’età di 89 anni Marina Cicogna, la stella del cinema italiano. L’attrice, ma anche sceneggiatrice e prima produttrice cinematografica italiana, è morta a Roma, nella sua casa vicino a Via Veneto, che per una strada coincidenza nei mitici anni ’60 venne ribattezzata come la via del cinema e, non a caso, sorge proprio a pochi metri di distanza da Largo Federico Fellini. Accanto a lei, la sua compagna da oltre trent’anni, Benedetta Gardona, che le ha tenuto la mano fino alla fine nella sua lotta contro un cancro.

La vita e la carriera di Marina Cicogna

Classe 1934, Marina Cicogna nasce dal legame tra il conte Cesare Cicogna Mozzoni e la contessa Annamaria Volpi di Misurata, nonché nipote del conte Giuseppe Volpi di Misurata, colui che nel 1932 inventò la Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia. È forse proprio per questo che Marina Cicogna ha avuto una vita segnata dall’amore per il cinema. Amica dei più grandi di sempre, Luchino Visconti, Gianni Agnelli, Maria Callas ad Aristotele Onassis; un mondo che con la sua scomparsa è destinato a tramontare definitivamente. Indimenticabile la sua lunga storia d’amore con l’attrice brasiliana Florinda Bolkan e il flirt con Alain Delon.

Prima donna in assoluto in Europa, Marina Cicogna negli anni ’60 ha iniziato a lavorare come produttrice, firmando capolavori del cinema italiano: da Teorema di Pier Paolo Pasolini, a Metti, una sera a cena di Giuseppe Patroni Griffi, sino ad Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Elio Petri, che le valse anche un Oscar nel 1971 per il miglior film straniero; un premio, tuttavia, che Marina Cicogna decise di non andare mai a ritirare a Los Angeles per paura di affrontare l’aereo. È del 2021 il film documentario Marina Cicogna. La vita e tutto il resto di Andrea Bettinetti che racconta la sua straordinaria carriera. Meravigliose esperienze che vengono anche approfondite nella sua autobiografia, Ancora spero, uscita quest'anno per Marsilio in cui si legge una profonda rivelazione: “Spesso le persone mi hanno messo delle etichette. Ma la mia vita e le mie scelte parlano per me. Ho vissuto per vent’anni con Florinda, da quasi quaranta vivo con Benedetta. Eppure non ho mai amato le manifestazioni eclatanti della propria sessualità. Considero le parate, e in generale l’ostentazione dei propri orientamenti, come qualcosa di ridondante”.

Nella vita contessa, nel cinema regina. Fu attrice e prima donna produttrice in Europa. Il nonno fondò la Mostra di Venezia. Pedro Armocida il 5 Novembre 2023 su Il Giornale.

«Personalmente non ho mai prodotto un film per ragioni anche vagamente politiche, né mi interessava se il regista e i protagonisti fossero di sinistra o di destra, anche se è capitato più spesso che fossero di sinistra, cosa di cui Franco Zeffirelli non perdeva occasione di rimproverarmi».

È morta ieri a 89 anni, dopo una lunga malattia, Marina Cicogna - produttrice cinematografica, fotografa, sceneggiatrice e attrice - «la contessa del cinema italiano» come era stata soprannominata nell'ambiente, non solo perché il cognome continuava con Mozzoni Volpi di Misurata: il padre era l'aristocratico milanese Cesare Cicogna e il nonno materno, per intenderci, era il Conte Giuseppe Volpi che ha creato la Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia nel 1932 (lei nacque il 29 maggio di due anni dopo).

Una vita per il cinema, anche nella morte che l'ha colta tranquilla e decisa, com'era lei, sicuramente pure un po' incazzata per il tumore («Una cosa violenta, inattesa, improbabile» aveva detto al Corriere della sera proprio due giorni fa), nella sua casa di Porta Pinciana a Roma, appena svoltato l'angolo di Largo Federico Fellini, a un passo da Via Veneto. E la Dolce Vita lei l'ha fatta veramente, frequentando tutto il bel mondo dell'epoca, come ha ricordato recentemente nell'interessante libro di memorie scritto con Sara D'Ascenzo Ancora spero. Una storia di vita e di cinema (Marsilio), da Luchino Visconti a Gianni Agnelli, da Maria Callas a Onassis oltre ad aver avuto un flirt sia con Warren Beatty e Alain Delon sia con Florinda Bolkan, l'attrice brasiliana che volle fortemente come protagonista accanto a Gian Maria Volontè in Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Elio Petri (appunto uno dei registi più a sinistra del nostro cinema, «quello con cui ho lavorato meglio e perderlo così presto è stato davvero un peccato») con cui, nel 1971, vinse nientepopodimeno che il premio Oscar come migliore film straniero.

Ma, come amava ricordare lei, «al cinema ci andavo già da piccola, a dieci anni avevo già visto I ponti di Waterloo e, soprattutto, poco dopo Duello al sole, poi quando studiavo al Liceo Parini di Milano appena potevo scappavo a chiudermi in una sala cinematografica». D'altro canto nel documentario di Andrea Bettinetti di due anni fa, Marina Cicogna - La vita e tutto il resto, la vediamo quattordicenne, in una foto, quasi abbracciata a David O. Selznick, il produttore di Via col vento, che, ricorda lei, «mi voleva adottare, lui è veramente il padre che io avrei voluto avere».

Il cosmopolitismo come normalità di vita, dopo il Parini, l'università a New York, le puntate a Los Angeles in casa di Barbara Warner che le diceva: «Stasera vuoi cenare con Marlon Brando o con Montgomery Clift?» e infine Roma, la città del cinema dove la madre aveva investito in una società di distribuzione, Euro International Pictures, «un puro caso perché avrebbe potuto farlo nello yogurt...», e dove Marina Cicogna, insieme al fratello Bino morto suicida nel 1971 dopo essere scappato a Rio de Janeiro per uno scandalo finanziario, inizia a distribuire capolavori come Bella di giorno di Luis Buñuel e a produrre, prima donna in Europa, i film di Pasolini (Medea), Rosi (Uomini contro), Patroni Griffi (Metti una sera a cena) fino appunto a Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto. Ma fu una stagione breve, una manciata di anni tra il '68 e il '74, perché, pur lavorando nell'azienda di famiglia, «ero a stipendio e i dirigenti spesso mi osteggiavano, non vollero produrre Il conformista e Ultimo Tango a Parigi».

Un altro capitolo sono le sue relazioni di coppia, la storia famosa con Florinda Bolkan «che era androgina e di una bellezza assoluta» (e a sua volta ieri Florinda l'ha ricordata commossa: «Abbiamo fatto una lunga strada insieme, culturalmente importante. Le sarò sempre grata») e quella con Benedetta lunga quasi 40 anni che le è stata accanto anche in queste ore così dolorose e che porta il suo cognome perché lei, contraria al matrimonio tra persone dello stesso sesso, l'aveva adottata: «A me non è mai venuto neanche in mente di dire io vivo con Florinda, io sono omosessuale. Quando chiudo la porta, sono cazzi miei, faccio quello che voglio. Non ho mai nascosto né esibito tutto questo».

Marina Cicogna era anche questo, una donna forte e libera come poche altre nel mondo del cinema dove è stata la più rispettata forse anche perché era la più temuta. Proprio come la ricorda Lucia Borgonzoni, Sottosegretario alla Cultura: «Donna anticonvenzionale, indipendente e geniale, vera e propria icona di stile, ha vissuto la sua vita professionale, e non solo, all'insegna del coraggio, dell'intraprendenza, della libertà».

Nel maggio scorso l'Accademia del Cinema Italiano, presieduta da Piera Detassis, le aveva conferito il Premio David di Donatelo alla Carriera che lei ha ritirato, nella sua ultima uscita pubblica, con un bellissimo augurio: «Spero che il nostro cinema continui a essere uno dei migliori del mondo».

Addio a Marina Cicogna, la contessa del cinema italiano. Quelle parole di Gianni Agnelli. Libero Quotidiano il 04 novembre 2023

Ha vissuto come ha voluto ed è pure morta come aveva stabilito lei. Marina Cicogna, la contessa del cinema italiano, si è spenta all'età di 89 anni nel letto di legno che era di sua madre Annamaria, con le zampe di leone intagliate, spedito dalla casa di Venezia a quella di via di Porta Pinciana 34 a Roma. Accanto a lei la compagna di una vita, Benedetta Gardona, che l'ha vegliata costantemente sostenendo il suo ultimo respiro. Nata il 29 maggio 1934 dal conte Cesare Cicogna Mozzoni e dalla contessa Annamaria Volpi di Misurata, era nipote del conte Giuseppe Volpi di Misurata, veneziano, che nel '32 inventò la Mostra d'Arte Cinematografica di Venezia.  

Storica produttrice cinematografica, Marina Cicogna è stata la prima donna ad affermarsi in un ambiente prevalentemente maschile producendo alcuni fra i più importanti film italiani tra i quali Metti, una sera a cena di Giuseppe Patroni Griffi e Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, di Elio Petri, Oscar 1971 per il miglior film straniero (non lo ritirò perché aveva paura di volare in aereo). Ma oltre ai primati da produttrice Marina Cicogna ha anche quello di essere stata la prima donna in Italia ad amare pubblicamente un'altra donna: visse per vent'anni con l'attrice Florinda Bolkan, adottando poi come figlia la sua attuale compagna, Benedetta Gardona, con cui è stata legata per oltre trent'anni.

Se "la storia più importante fu una lunga amicizia amorosa con Franco Rossellini", per lei dichiaratamente bisessuale, i legami più duraturi sono stati con due donne: la brasiliana Bolkan, che lei stessa scoprì e lanciò come attrice, e Benedetta di circa vent'anni più giovane). La contessa scelse Florinda Bolkan, al massimo splendore, come protagonista di "Metti una sera a cena" (1969), che di lì a poco diventerà la sua compagna di vita per vent'anni. Fu sempre lei a proporre per "Anonimo veneziano" (1970) diretto da Enrico Maria Salerno la Bolkan affiancata da Tony Musante. Marina Cicogna non ha mai cercato di nascondersi né di esibirsi: "Non avevo convinzioni precise sulle scelte sessuali, ho sempre creduto nell'incontro tra le persone". "Ho vissuto semplicemente come volevo vivere. Ma a casa mia", ha detto in un'intervista, "ho rispetto per gli altri. Non si dovrebbe spiare cosa succede in camera da letto. Non mi piacciono le ghettizzazioni, ma neanche gli esibizionismi. Allo stesso modo non bisogna avere paure. E forse io e Florinda siamo state tra le prime a non avere paura. Eravamo due persone note, con una vita pubblica che suscitava interesse".

Tra set turbolenti e dimore paradisiache, Marina Cicogna ha avuto anche amicizie indissolubili - da Valentino a Jeanne Moreau, da Franco Zeffirelli a Ljuba Rizzoli, da Pierre Cardin a Henry Fonda - sodalizi professionali che hanno lasciato il segno - da Giuseppe Patroni Griffi a Gian Maria Volonté, da Ennio Morricone a Elio Petri - e flirt leggendari - da Farley Granger ad Alain Delon, da Lex Barker a Warren Beatty, a Rock Hudson. Come nobildonna, ha conosciuto e frequentato, tra gli altri, re Idris di Libia, Lady D, Hilary Swank, Margaret d'Inghilterra e il marito Lord Snowden. E anche un re senza corona come Gianni Agnelli, che di lei disse una volta: "È l'unico uomo al mondo che mi faccia paura".

Marina Cicogna: ''Non mi definirei omosessuale perché odio definirmi''. Da ilfattoquotidiano.it sabato 4 novembre 2023.

È morta a 89 anni Marina Cicogna. Nell’aprile 2018 Francesca Fagnani la intervistò a Belve. Ecco uno stralcio della conversazione: “Non si definirebbe omosessuale, o sì?”, domanda la giornalista Francesca Fagnani a Marina Cicogna, la prima grande produttrice cinematografica in Europa (...) “Non lo so, non riesco ad adattarmi ad una definizione che mi inserisca in una casella, non mi sembra indispensabile classificarsi”, risponde Cicogna.

Visse una storia con Alain Delon, poi con Florinda Bolkan per vent’anni. “Lei è stata tra le prime a vivere liberamente la sua sessualità senza mai voler diventare la madrina o il simbolo di lotte omosessuali”, commenta la giornalista. “Non le ho mai fatte – ammette – non per mancanza di coraggio. Un po’ per l’educazione dell’aristocrazia, penso – continua – che dietro una porta ognuno di noi possa fare quello che gli pare e non lo deve dichiarare. Quello che succede oggi è oggi, domani puoi fare anche un’altra roba”.

“Oggi vive con la sua compagna Benedetta. Perché ha deciso di adottarla invece di sposarla?”, chiede la conduttrice. “Io non mi sposerei mai, a me un uomo che dice ‘mio marito’ … no no … per me il matrimonio comunque è un problema, già tra eterosessuali. Il matrimonio forse – aggiunge la produttrice – va bene per crescere i bambini, anche se in futuro non sarà indispensabile nemmeno per quello. Lo troverei assolutamente ridicolo, non mi piace l’idea del matrimonio tra omosessuali”.Marina Cicogna: ''Non mi definirei omosessuale perché odio definirmi''.

Da ilfattoquotidiano.it sabato 4 novembre 2023.

È morta a 89 anni Marina Cicogna. Nell’aprile 2018 Francesca Fagnani la intervistò a Belve. Ecco uno stralcio della conversazione: “Non si definirebbe omosessuale, o sì?”, domanda la giornalista Francesca Fagnani a Marina Cicogna, la prima grande produttrice cinematografica in Europa (...) “Non lo so, non riesco ad adattarmi ad una definizione che mi inserisca in una casella, non mi sembra indispensabile classificarsi”, risponde Cicogna.

Visse una storia con Alain Delon, poi con Florinda Bolkan per vent’anni. “Lei è stata tra le prime a vivere liberamente la sua sessualità senza mai voler diventare la madrina o il simbolo di lotte omosessuali”, commenta la giornalista. “Non le ho mai fatte – ammette – non per mancanza di coraggio. Un po’ per l’educazione dell’aristocrazia, penso – continua – che dietro una porta ognuno di noi possa fare quello che gli pare e non lo deve dichiarare. Quello che succede oggi è oggi, domani puoi fare anche un’altra roba”.

“Oggi vive con la sua compagna Benedetta. Perché ha deciso di adottarla invece di sposarla?”, chiede la conduttrice. “Io non mi sposerei mai, a me un uomo che dice ‘mio marito’ … no no … per me il matrimonio comunque è un problema, già tra eterosessuali. Il matrimonio forse – aggiunge la produttrice – va bene per crescere i bambini, anche se in futuro non sarà indispensabile nemmeno per quello. Lo troverei assolutamente ridicolo, non mi piace l’idea del matrimonio tra omosessuali”.

Benedetta, la compagna di Marina Cicogna: «Straordinaria e difficile, l'ho amata. Voleva morire già da un po'». Sara D'Ascenzo su Il Corriere della Sera domenica 5 novembre 2023.

Un legame nato 40 anni fa: «Leggeva molto, parlava poco. Il suo rapporto con Venezia, un po’ d’odio e un po’ d’amore». L'ultimo desiderio: le ceneri a Venezia

In vita come in morte. Libera e fiera. Marina Cicogna Mozzoni, la contessa del cinema italiano, la donna che ha attraversato per quasi novant’anni un mondo che con lei scompare per sempre, ieri alle 12 ha chiuso gli occhi sofferenti tra le braccia di Benedetta, la compagna che scelse quarant’anni fa lasciando Florinda Bolkan e che ha adottato «per darle un futuro migliore». Figlia del conte Cesare Cicogna Mozzoni e della contessa Annamaria Volpi di Misurata, Marina Cicogna era nata a Roma il 29 maggio 1934 a Palazzo Volpi, a pochi passi dal Quirinale. Un’infanzia in collegio in Svizzera, una giovinezza dorata nella Roma della Dolce Vita, intervallata dall’anno della Maturità Classica a Venezia, dove la madre, che si separò presto dal padre, l’aveva richiamata perché nella Capitale invece di studiare trascorreva il suo tempo a Cinecittà. «Il cinema è stato il vero colpo di fulmine della mia vita. Ce l’ho nel Dna da sempre», aveva scritto nella sua autobiografia Ancora spero uscita con Marsilio il 2 maggio. Due anni prima che nascesse, il nonno aveva inventato la Mostra del Cinema per rivitalizzare gli alberghi del Lido, «un po’ strachi». E lei l’anno scorso proprio dalla Biennale di Roberto Cicutto, suo grande amico, era stata chiamata per celebrare i 90 anni di un Festival che amava molto e al quale quest’anno aveva dovuto rinunciare per la malattia che ormai la teneva stretta, inchiodata al letto di legno con le zampe di leone che era stato della mamma Annamaria e che da Venezia era arrivato a Roma, nella casa di via di Porta Pinciana che divideva con Benedetta e gli amati cani, Minnie e Gipsy. Per sua stessa volontà non ci saranno funerali, ma sarà cremata, col desiderio che le sue ceneri arrivino in quella Venezia che a lei ricordava tanto l’amata mamma.

Benedetta, si ricorda la prima volta che vi siete incontrate?

«Sì ci siamo conosciute al Teatro di viale Giulio Cesare a Roma. Io ero andata per vedere Florinda che recitava in Zio Vanja. Marina mi ha subito colpito. Era una persona molto affascinante, dura, ma allo stesso tempo irresistibile. Ci siamo scambiate uno sguardo che mi è rimasto impresso. Sono io che l’ho corteggiata, mi affascinava e la volevo».

All’inizio però la vostra storia è rimasta segreta.

«Sì, segreta e molto difficile. Io avevo un compagno, ma ho capito che era lei che mi interessava».

Com’era Marina nella vita?

«Una persona molto difficile, molto chiusa. In casa parlavamo poco: lei leggeva molto e parlava poco, ma avevamo molte cose che ci accomunavano, come il cinema, ci piaceva vedere i film insieme a letto; amava tantissimo gli animali, faceva molta beneficenza per loro, ma era una persona molto dura e difficile. Ha affrontato la malattia con un gran coraggio, non si è mai lamentata. Ecco: era una persona molto asciutta, priva di fronzoli».

È morta come voleva?

«Voleva morire da un po’, ma non si poteva. Gli ultimi due mesi sono stati i più difficili. Cominciava a star male e voleva farla finita, perché era diventata molto dura: il suo desiderio era morire nel suo letto a casa con i cani ed è riuscita a farlo grazie ai medici che ci hanno seguito, che sono stati fantastici. È morta serenamente e spontaneamente».

È sempre stata una donna libera. Anche nelle amicizie.

«Lei aveva questa libertà, di avere amici in tutti i campi. Non era minimamente interessata alla politica, guardava la persona non al gruppo politico. Che è una cosa rara in Italia dove tutti ti guardano storto se frequenti qualcuno fuori dalla cerchia. Lei era amica di Matteo Salvini e di Matteo Garrone e per quello al suo compleanno li aveva voluti tutti e due, i due Matteo. E questa cosa l’aveva divertita».

Avete fatto una vita di viaggi e mondanità. Come l’ha vissuta?

«I viaggi mi sono sempre piaciuti. La mondanità per me era una tragedia! Lei invece era molto curiosa, attratta dalle persone famose. Insieme abbiamo fatto viaggi stupendi. Il più bello forse la prima volta che siamo stati in Birmania, un Paese allora senza turismo e poi in India. Con tutte le conoscenze che aveva, mi ha dato la possibilità di fare viaggi non da turista».

Il suo rapporto con Venezia?

«Un po’ d’odio, un po’ d’amore. Per la madre che adorava, ma che per tutto quello che era successo con la morte del fratello, era difficile per lei viverla. Abbiamo avuto delle case lì, a lei piaceva tanto, ma allo stesso tempo non voleva viverci, preferiva Roma, anche se adorava Venezia. C’era qualcosa, una specie di tristezza, che la bloccava».

Aveva il rimpianto di non aver diretto la Mostra?

«Assolutamente no. Ci teneva moltissimo e forse avrebbe voluto partecipare di più, aiutare. Sicuramente c’è rimasta male perché non hanno presentato il suo documentario a Venezia. E anche io: penso fosse perfetto per il Festival. Molto probabilmente non lo hanno fatto perché c’era tutta la parte di suo nonno, che è ancora una questione aperta a Venezia».

Quali sono state le sue ultime parole?

«Le ho chiesto: mi vuoi ancora bene? Io ti amo tanto».

E lei?

«Mi ha risposto di sì».

Marina Cicogna e Florinda Bolkan vent’anni insieme. «Lei fuggiva e io l’inseguivo, poi mi stufai». Giovanna Maria Fagnani su Il Corriere della Sera sabato 4 novembre 2023.

Marina Cicogna e Florinda Bolkan, star di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto e di Metti una sera a cena, si conobbero a una festa a Parigi. Un anno dopo nacque la storia d’amore, poi la rottura e poche parole l’una sull’altra negli anni successivi

Una lunga storia d’amore, in un’epoca in cui il conformismo non vedeva di buon occhio le relazioni omosessuali. Un legame intenso e fatto di fughe e ritorni. Mai nascosto, ma, per scelta, nemmeno esibito. Per vent’anni Marina Cicogna, scomparsa oggi a 89 anni, e Florinda Bolkan, star di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto e di Metti una sera a cena, fecero coppia fissa. Poi la rottura e, negli anni a venire, poche parole l’una sull’altra. Anche se l’attrice ha voluto salutare l’ex compagna con una nota: «Siamo state amiche. Abbiamo fatto una lunga strada insieme, culturalmente importante. Le sarò sempre grata». Del resto, la produttrice spiegò, in seguito, nella sua autobiografia: «Spesso le persone mi hanno messo delle etichette, ma la mia vita e le mie scelte parlano per me. Ho vissuto per vent’anni con Florinda, da quasi quaranta vivo con Benedetta. Eppure non ho mai amato le manifestazioni eclatanti della propria sessualità. Considero le parate, e in generale l’ostentazione dei propri orientamenti, come qualcosa di ridondante».

Come si conobbero

Florinda Bolkan, origini brasiliane e Marina Cicogna si conobbero a una festa a Parigi, a casa dell’attrice Elsa Martinelli e del fotografo Willy Rizzo. «Eravamo giovani e coetanee: ci sono stati alti e bassi terribili.. Era con un gruppo di brasiliani che erano appena stati dai Kennedy, a Palm Beach. Viveva con un ragazzo, il padrone dell’editoriale Hachette. Da subito la trovai una ragazza molto bella, eclatante, simpatica ma nulla più» ricordava Cicogna in una intervista a Io Donna. Non fu un colpo di fulmine «I quel momento ero piuttosto ballerina con le mie storie. Un anno dopo, la invitai a casa mia a Cortina, poi a Saint Tropez e lì cominciai a conoscerla meglio. E quando mi disse che tornava in Brasile dalla sua famiglia, risposi: vieni a Tripoli con me, a te ci penso io… Organizzammo un provino, Visconti che se ne incapricciò per Lo straniero con Marcello Mastroianni, ma poi niente: bellezza pazzesca ma troppo esotica. E lo stesso successe con Il portiere di notte. La cosa sfumò quando si seppe che il protagonista era Dirk Bogarde: Florinda se lo mangiava in insalata, aveva una fisicità forte».

«Andava e veniva»

Sul set l’amicizia si tramuta in un sentimento più forte e le due cominciano a frequentarsi, poi a vivere insieme. Ma l’indole di Florinda è inquieta. «Era abituata a fuggire ciclicamente e io ero abituata a inseguirla, e a un certo punto la cosa mi venne a noia». Florinda ha scappatelle, ma non tollera quelle di Marina che, nel frattempo, aveva conosciuto Benedetta, sua attuale compagna e figlia adottiva «Questa bellissima ragazza mora, dai lunghi capelli mossi, che capii poteva rappresentare il mio futuro». L’amore con Benedetta è molto diverso da quello con Florinda, di cui Marina ricordava: «Florinda è molto brasiliana, libera, volatile. Con una bellezza indissolubilmente legata alla giovinezza. Efebica, sensuale, non somigliava a nessun’altra: per lei era quasi impossibile invecchiare bene. Verso i 50 anni ha cominciato a sbandare. Andava, veniva e poi ancora e ancora. Un giorno non è più tornata». Di lei Bolkan non ha quasi mai parlato. Solo al Corriere, in un’intervista, disse: «Quella con Marina è stata una storia importante, ma non è la sola, ne ho avute altre. Quando una relazione finisce, finisce, non ci sto a ricamare sopra».

Maria Corbi per La Stampa- Estratti martedì 5 dicembre 2023.

Gli anni hanno addolcito il suo sorriso, senza scalfire la sua bellezza, portata con orgoglio, senza ritocchi, senza maschere. Florinda Bolkan a febbraio compirà gli anni, su Wikipedia dicono che la data di nascita è il 1941, ma sulla carta di identità c’è il 1937. Quel che è certo è che è nata a Uruburetama, cittadina al nord est del Brasile, un posto che «è ancora nella mia anima anche se manco da tanto tempo», dice. 

Ride Florinda Bolkan, muovendo le mani con grazia, con il fisico asciutto e gli zigomi scolpiti, simbolo della sua bellezza androgina, seduta accanto alla sua socia e amica Anna Chigi, principessa «rock», nobile stirpe romana, che negli anni ’80 cantava Mucho Corazon.  

(...) «La Voltarina è la mia vita», dice Florinda arrotondando le vocali come fanno i brasiliani, rendendo le parole musica. Lo fa per ripristinare «la verità» visto che quando si parla di lei si cita sempre Marina Cicogna, scomparsa poco tempo fa. «E mi sono un po’ annoiata di questo».

Ma non è possibile togliere la Cicogna dalla biografia della Bolkan. Una coppia che per anni ha diviso cuore, casa, lavoro e jet set. La produttrice e la star, insieme fino alla rottura alla fine degli anni ’90 («non mi chieda le date che non me le ricordo...»). 

E da allora tra loro un muro di silenzio. «Non vorrei parlarne», dice Florinda. «Le sono grata per il percorso che abbiamo condiviso e il lavoro importante fatto per il Cinema». Indagine di un cittadino al di sopra di ogni sospetto; Metti, una sera a cena… Anonimo Veneziano. Un velo le appanna gli occhi ancora bellissimi, di un nero che sembra portarti negli abissi. 

Una carriera nel cinema quasi per caso. «Arrivai a Roma dopo essere stata hostess della Varig, l’ex compagnia di bandiera brasiliana. Ero una delle dodici ragazze dette executive hostess, senza divisa, dovevamo assistere i passeggeri di prima classe. Erano tutti pazzi di me. L’ho fatto per almeno cinque anni. Ci scelse l’amante del presidente della Varig».

Nel 1968 debutta in Candy e il suo pazzo mondo di Christian Marquand nei panni della sorella del Beatles Ringo Starr. «Fu un fiasco», ricorda. Poco dopo l’incontro fatale con Luchino Visconti che, dopo tre provini nella sua villa a Ischia, la scrittura in una piccola parte: l’attricetta mantenuta da Helmut Berger nel film La caduta degli dei (1969). «Lo adoravo, vedevo in lui mio padre che avevo perso troppo presto. Andavo a casa sua a via Salaria solo per guardarlo, respirare la sua energia, osservare la sua intelligenza. E a lui piaceva avermi intorno». 

E in quell’anno conosce Marina Cicogna, a Parigi, a casa di Elsa Martinelli e Willy Rizzo. Lei era appena tornata da una vacanza a casa Kennedy, anche lui vittima (pare) del fascino androgino e un po’ infantile della Bolkan. «Chissà...», ride lei lasciando l’argomento sul vago. Mentre con Ryan O’Neil ammette il flirt. «Stavo per lasciare Marina per lui». Una vita piena di amore e passioni. Per ben tre volte l’attrice stava per cedere al «Sì». La prima volta con un principe polacco, poi con il proprietario dell’editoriale Hachette, e con il re del caffè brasiliano».

«Amor che ti fa a pezzi e ti divora», sospira Florinda che declama la poesia scritta da suo padre, Pedro Soares Bulcão che fu un politico, ma anche un poeta. 

Il cinema, i red carpet, sono solo un ricordo ormai, ma anche un dispiacere. «Quando si è lasciata con Marina le è stata fatta terra bruciata intorno», dice una cara amica che è a pranzo qui, alla Voltarina dove si praticano prezzi pop anche per i matrimoni. «Vogliamo che tutti godano di questa bellezza», dice Florinda che riesce a essere una star anche in jeans e sneakers. 

Dicevamo: Marina Cicogna. «Basta parlare di lei, era autoritaria e sono scappata». Solo un ricordo come d’altronde lo sono i set, ormai, l’ultimo quello del film di Ginevra Elkann. Ma c’è ancora un sogno, che le diano un premio alla carriera. «Me lo sono meritato giusto?». Magari a Venezia, il luogo di tanti successi e progetti.

Attorno a lei, le signore che curano l’agriturismo e tante amiche «normali», lontane dal mondo patinato del Cinema e della mondanità. «Non mi sono mai piaciuti i salotti, io in fondo sono una donna semplice, soddisfatta della sua vita e che ha sempre fatto quello che desiderava, o almeno quasi sempre. Mi sono pagata a carissimo prezzo la libertà». 

Il prezzo è stato quello di essere esclusa dai set, dai festival, dai premi, dai red carpet. «Il mio red carpet è la natura»

(…)

Gloria Satta per “il Messaggero” il 15 ottobre 2021. La vita da jet set con Onassis, Jake Kennedy e i Rolling Stones, l'Oscar vinto per il film Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, gli amori con Florinda Bolkan e l'attuale compagna-figlia adottiva Benedetta, l'amicizia con Gianni Agnelli, la famiglia aristocratica, i ricordi, il presente. E una rivelazione: «Da un anno e mezzo ho un tumore». Alla Festa di Roma, oggi Marina Cicogna si metterà a nudo nel documentario Marina Cicogna - La vita e tutto il resto diretto da Andrea Bettinetti. A 87 anni (insospettabili), la prima produttrice italiana, icona di stile, donna libera e anticonformista, ripercorre la sua storia tra agi e dolori (la rovina finanziaria della madre, il suicidio del fratello Bino) attraverso foto, filmati, testimonianze. Un'autobiografia ma anche una cavalcata nell'Italia del bel mondo e del grande cinema che non c'è più. Ma Marina guarda avanti. Senza pentimenti, giura.

Nemmeno un rimpianto?

«Mi dispiace soltanto di aver mollato il cinema troppo presto, quando gli americani rifiutarono di fare film come Il Conformista, Ultimo tango a Parigi, Portiere di notte. Preferivano le commedie di Alberto Sordi e Nino Manfredi. Ma io non avrei dovuto scoraggiarmi». 

A che punto è la sua malattia?

«La tengo sotto controllo con una chemio leggera che mi ha reso un po' più debole e bisognosa di sonno. Il tumore mi ha cambiato la vita, insegnandomi il distacco dai riti sociali. Oggi sto più in casa, leggo tanto».

Come definirebbe la sua vita?

«La testimonianza di un'epoca ormai finita. Ho avuto la fortuna di vivere un periodo di grande creatività nel cinema, nell'arte, nella letteratura. Poi il mondo è peggiorato. E quello attuale non mi piace». 

L'incontro più importante?

«Con il produttore David O. Selznick che accese in me, ancora giovanissima, la voglia di fare cinema. E ho fatto un cinema straordinario con tutti i grandi». 

Tra gli altri con Elio Petri, Pier Paolo Pasolini, Liliana Cavani, Gian Maria Volonté, Marcello Mastroianni: ha mai litigato con qualcuno?

«Con Giuseppe Patroni Griffi: durante le riprese di Metti una sera a cena si svegliava alle 14». 

 Chi era per lei Gianni Agnelli?

 «Un amico vero che oggi mi manca. Aveva un grande umorismo e in due parole ti spiegava la realtà. Ad accomunarci era l'impazienza». 

Fu trasgressiva la sua scelta di vivere con Florinda Bolkan alla luce del sole 40 anni fa, in un'epoca in cui l'omosessualità non era accettata?

«Nessuna trasgressione, fu una scelta naturale. Non ho mai sentito il bisogno di sbandierare o nascondere il mio orientamento sessuale». 

Oggi si ostenta troppo?

«Fare coming out può essere utile a qualche gay per superare i sensi di colpa e la vergogna. E pensare che nel secolo scorso l'omosessualità era vissuta apertamente. Poi, nel dopoguerra, gli americani hanno esportato il puritanesimo da cui tra l'altro è nato il #MeToo». 

Disapprova la deriva giustizialista del movimento?

«Sì, se penso che ha fatto a pezzi grandi registi come Woody Allen e Roman Polanski... Ma prendersela con Harvey Weinstein era doveroso, è sempre stato un prepotente». 

Il cinema italiano di oggi le piace?

 «Mi sembra autoreferenziale e incapace di vendersi. E i registi vogliono fare di testa propria senza ascoltare i produttori. Amo solo Paolo Sorrentino e Matteo Garrone». 

Cosa la lega a Benedetta, al suo fianco da 32 anni?

«È una donna con i piedi per terra, molto gradevole e sempre pronta a sostenermi anche se litighiamo molto. La adottai 20 anni fa quando i miei nipoti si fecero avanti pretendendo i miei soldi. Lascerò tutto a lei».

Oggi che esistono le unioni civili l'avrebbe sposata?

«Nemmeno per sogno, l'avrei adottata comunque. Detesto il matrimonio».

Moda, film, amori: "La vita e tutto il resto". Chi è Martina Cicogna, la chic ribelle. Pedro Armocida il 16 Ottobre 2021 su Il Giornale. Nel documentario di Andrea Bettinetti il ritratto di una donna anticonformista. C'è tutto il più grande cinema italiano, ma c'è anche tutta la personalità di una delle donne più forti e libere del nostro Novecento. Marina Cicogna, nata a Roma nel maggio del 1934 nel palazzo che porta il nome di Volpi, sua madre era figlia di Giuseppe Volpi di Misurata, tra l'altro creatore della Mostra del cinema di Venezia, mentre suo padre, Cesare Cicogna, era un aristocratico milanese. Nel documentario di Andrea Bettinetti, scritto da Alejandro de la Fuente e Elena Stancanelli, Marina Cicogna - La vita e tutto il resto, presentato alla Festa del cinema di Roma e in uscita il 5 novembre, si ripercorre con lei, austera 87enne, un pezzo di grande storia del cinema, non solo italiano, dal momento che, in una delle decine di foto, frutto di un grande e preciso lavoro di documentazione, la vediamo quattordicenne quasi abbracciata a David O. Selznick, il produttore di Via col vento che, ricorda lei, «mi voleva adottare, lui è veramente il padre che io avrei voluto avere». Il film è un intimo ritratto delle famiglie di Marina Cicogna, del suo amore per la fotografia, dei suoi grandi amici come Valentino e Alessandro Michele di Gucci, delle sue città. Un cosmopolitismo innato frutto del suo essere intimamente «chic, ma ribelle». Ecco gli studi al Parini di Milano, l'università a New York e le puntate a Los Angeles in casa di Barbara Warner «che mi diceva: stasera vuoi cenare con Marlon Brando o con Montgomery Clift?». E poi St. Moritz con gli Agnelli a insegnare a sciare a Ginevra Elkann, oggi regista, Tripoli, l'unico posto in cui la madre «era veramente felice», la villa Barbaro a Maser comprata dal nonno dove passavano i capodanni tra Palladio e Veronese, e infine Roma. La città del cinema dove la madre aveva investito in una società di distribuzione, Euro International Pictures, «un puro caso perché avrebbe potuto farlo nello yogurt», e dove Marina Cicogna inizia a distribuire capolavori come Bella di giorno di Buñuel e a produrre i film di Pasolini (Medea), Rosi (Uomini contro), Patroni Griffi (Metti una sera a cena) ma soprattutto Elio Petri con l'Oscar per Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto. Ma fu una stagione breve, una manciata di anni tra il '68 e il '74, perché, pur lavorando nell'azienda di famiglia, «ero a stipendio e i dirigenti spesso mi osteggiavano, non vollero produrre Il conformista e Ultimo tango a Parigi». In mezzo anche il suicidio nel 1971 del fratello Bino, scappato a Rio de Janeiro per uno scandalo finanziario. Infine le relazioni di coppia, la storia famosa con Florinda Bolkan «che era androgina e di una bellezza assoluta» e quella attuale con Benedetta che porta il suo cognome perché lei, contraria al matrimonio tra persone dello stesso sesso, l'ha adottata: «A me non è mai venuto neanche in mente di dire io vivo con Florinda, io sono omosessuale. Ma chi me lo chiede, chi lo vuole sapere? Quando chiudo la porta, sono cazzi miei, faccio quello che voglio. Non ho mai nascosto né esibito tutto questo». Pedro Armocida

Marina Cicogna: «Flirtavo con l’attore di Tarzan e Agnelli mi disse: sì, non è male. L’amore con Florinda Bolkan? Mi tradiva ma ci passavo sopra». Valerio Cappelli su Il Corriere della Sera il 2 novembre 2023.

La Signora del cinema italiano tra amicizie e la malattia: «A 89 anni mi sento più bella che da giovane». «Alain Delon? Ero in stanza con Ljuba Rizzoli, spuntò un invito sotto la porta. Lo presi io e mi precipitai». «Il cancro? Una cosa violenta, inattesa, improbabile»

Da ragazza non era bella. Guardiamo le foto della sua vita con lei, Marina Cicogna , la Signora del cinema italiano che ha rotto tabù ed è stata un simbolo. È diventata avvenente verso i quarant’anni, sotto la dolce ala della maturità.

È d’accordo?

«Direi di sì. E però è uno dei grandi mestieri che non sono mai riuscita a mettere a fuoco. Io mi trovo con tanta gente che mi dice che sono più bella oggi, a 89 anni, di trent’anni fa, avendo una malattia grave. Anch’io quando mi guardo allo specchio mi dico è vero, ed è una cosa bizzarra. È miracoloso tutto questo. La vita è fatta anche di miracoli».

Lei parla liberamente della malattia, lo ha fatto anche in tv quando le hanno dato il David di Donatello alla carriera.

«Ma sai, quando ti dicono signora lei ha un cancro cosa fai, lo metti da parte? È una cosa violenta, inattesa, improbabile. Un medico in Svizzera mi ha dato la notizia e la mia vita è diventata un’altra».

Questa serie si intitola Le Capitane. Lei si è sentita capitana quando, prima donna al mondo, nel 1971 vinse l’Oscar come produttrice?

«Direi di no. L’Oscar per Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Elio Petri non andai nemmeno a prenderlo a Los Angeles. Semmai mi sentivo una cretina, perché non ero andata. Sentirsi capitani è quando affronti una cosa ed è un tuo successo, che appartiene a te e non è stato attribuito o voluto da altri. Stamattina magari lo sei, capitana, e stasera non lo sei più. Ho lavorato nel decennio dei ’70, poi tornai dagli Usa e in Italia andavano solo filmetti comici. Avrei potuto fare di più».

Lei è stata amica di Gianni Agnelli, Jackie Kennedy, Gregory Peck, Mick Jagger, Luchino Visconti. Suo nonno creò dal niente il Festival di Venezia tirando su una tenda all’Hotel Excelsior per proiettare i film. Una vita di privilegi. Ma una volta ci disse che per arrivare in cima è stata molto dura.

«Se parliamo di sforzi, cosa si può considerare uno sforzo? Certamente per una donna, una delle pochissime nel cinema, il non essere stata presa all’inizio sul serio dagli uomini è stata dura, benché tutto sommato una presenza femminile non fosse così avversata. Ma io avevo una certa maniera di andare avanti, se credevo in qualcosa sapevo come ottenerlo. Certi film in cui credevo, come Metti, una sera a cena di Patroni Griffi, non li volevano nemmeno all’Euro, la casa di produzione e distribuzione familiare, e quando Gian Maria Volonté si ritirò dal progetto fecero salti di gioia».

«Io capitano» di Matteo Garrone è un bellissimo film, ed è candidato per l’Italia agli Oscar. Ma al botteghino non ha il successo sperato. Perché?

«Ho parlato molte volte con Matteo, siamo amici, lui è sempre rimasto dispiaciuto di non arrivare a un vero pubblico popolare. Perché succede non lo so. Ma penso che per l’Oscar qualche chance l’abbia».

Della polemica di Favino sull’invadenza di attori americani su icone italiane cosa pensa?

«È un bravo attore, queste cose nazionaliste mi stupiscono sempre un po’».

È la prima volta che non è andata al Festival di Venezia.

«No, è successo anche tre anni fa. Ma sai, non mi posso muovere. Ci sarei andata volentieri. Vuoi sapere cosa mi manca? La vita».

Al Lido Woody Allen è stato contestato da quindici femministe a seno nudo, per le presunte molestie alla figlia della ex compagna Mia Farrow, ma osannato dalla folla.

«Certe proteste fanno male alle donne, gli estremismi ci riportano indietro. Ho amato le femministe ma non fanno parte del mio carattere e della mia educazione. E il Me Too non mi piace dall’inizio, non mi convince che sia la strada giusta per certe battaglie. Ho sempre creduto che dovessimo aiutarci a vicenda» .

Lei ha avuto una relazione leggendaria per vent’anni con Florinda Bolkan e un flirt con Alain Delon. La donna e l’uomo che ha amato di più?

«È complicato rispondere, finisci sempre con offendere un’altra persona. Con Alain fu buffo. Ero a Megève, dove condividevo una stanza d’hotel con Ljuba Rizzoli, che era bellissima. Lui lasciò un biglietto sotto la porta: ti aspetto nella camera 104. Mancava il destinatario. Strappai il biglietto dalle mani di Ljuba e mi precipitai io. Ero la ragazzina invaghita di un mito, galleggiai sospesa in un’altra dimensione per qualche settimana. Florinda la conobbi a Parigi, lei era tornata da una vacanza a casa Kennedy. La trovavo speciale, solare, libera, disinibita, fisico asciutto, sorriso infantile, aspetto androgino. Alle sue scappatelle davo poco peso ma si rifiutava di accettare la mia con Benedetta, che dovette nascondersi in un armadio, tra i miei vestiti. Ci vivo da 40 anni».

Nel libro « Ancora spero» racconta di una esilarante incursione notturna di Agnelli…

«Ebbi un flirt con Lex Barker, il Tarzan del cinema. Gianni entrò in stanza con una torcia per vedere se era così bello. Alzò il lenzuolo e disse: mi fate vedere questo Tarzan? In effetti non è male».

Una donna libera come lei, come ha vissuto un mondo conformista e fintamente inclusivo come il cinema?

«Fa parte del provincialismo italiano. Dipende dal fatto che in un ambiente pieno di qualità si infilino persone che di qualità ne hanno poca, dominate dall’invidia, non solo dal conformismo».

Lei è una donna che può intimidire. C’è un abbraccio che non è riuscita a dare?

«Ci sono persone che non hanno granché in comune con te, e conoscendole le trovi simpatiche e piacevoli. Il primo nome che mi viene in mente è Giorgio Napolitano. Lo incontrai, mi disse, lei ha fatto tanto per il cinema italiano. Di lì a poco dal Quirinale mi avvisarono della nomina a Grand’Ufficiale».

La politica le interessa? Al suo ultimo compleanno tra tanti amici invitò Salvini.

«Sono curiosa di persone per motivi non ovvii. Ho conosciuto la sua fidanzata, Francesca Verdini, l’ho trovata carina. Poi è venuto lui, che nel privato è diverso da come appare come politico. Ha una sua naturalezza, una piacevole spontaneità. E li ho invitati. Sono curiosa. E impaziente».

Alla morte ci pensa?

«È un argomento che quando lo vivi addosso devi inquadrarlo. Ci pensi tutto il tempo,e ti chiedi come affrontarlo. Non ho una risposta».

 Estratto dell’articolo di Maurizio Caverzan per “la Verità” il 7 maggio 2023.

S’intitola Ancora spero l’autobiografia che Marina Cicogna ha appena pubblicato da Marsilio. È il racconto della vita, che sembra romanzesca, della contessa del cinema italiano, figlia di Cesare Cicogna Mozzoni (dinastia lombarda dal quattordicesimo secolo) e di Annamaria Volpi di Misurata (altro casato nobile) e nipote di Giuseppe Volpi, ministro del governo Mussolini, padrone della Compagnia italiana grandi alberghi (Ciga) e fondatore della Mostra del cinema di Venezia a cui sono tuttora intitolati i premi agli attori.  

È un’autobiografia di case, dimore, vacanze, piscine, ricevimenti, party senza partiti, sciate al mattino presto, trasvolate oceaniche e trasgressioni senza pose, amori omosessuali. Di grandi armatori come Aristotele Onassis, di importanti produttori come David O. Selznick (Via col vento, di film di Alfred Hitchcock), di imprenditori visionari come Gianni Agnelli.

Marina Cicogna è una donna da primato, la prima a vincere l’Oscar per il miglior film straniero e la prima ad amare pubblicamente un’altra donna?

«Per quanto riguarda l’Oscar, sì. Il secondo primato non è mio, molte altre donne pubbliche mi hanno preceduto in questo tipo di relazione, soprattutto fuori dall’Italia». 

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Come si sta preparando a ricevere il David di Donatello alla carriera?

«Non faccio molti preparativi, cercherò dei vestiti che mi possano stare bene. Indosserò un abito di Valentino, come faccio nelle occasioni pubbliche. Per la sera è lo stilista più […] 

l’Oscar nel 1971 con Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto. Perché era convinta di non vincerlo tanto che nessuno del cast presenziò alla cerimonia?

«Al Festival di Cannes avevamo preso solo il Gran premio speciale della giuria. Elio Petri e Gian Maria Volontè erano stati iscritti al Pci e non potevano ottenere il visto per l’America, Florinda Bolkan era sul set di qualche film e io avevo grossi dubbi che gli americani apprezzassero quel film con problematiche distanti dalla loro sensibilità. Fu un errore non incaricare qualcuno di ritirare la statuetta just in case. Infatti, non l’ho mai vista». 

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Scrive che durante la guerra i suoi genitori «non erano gli unici aristocratici a opporsi al fascismo» eppure suo nonno fu ministro nel governo Mussolini… 

«Prima, con Giovanni Giolitti era stato governatore della Libia. Poi fu ministro delle Finanze, ma nutriva una certa antipatia per Mussolini. Mi raccontarono che una volta scomparve a Roma per 48 ore e dissero che era stato preso dai fascisti, che lo restituirono dopo averlo drogato. Mio nonno non fu certo antifascista, mentre lo furono in modo deciso i miei genitori». 

Conferma che Gianni Agnelli è stato l’uomo più affascinante che ha conosciuto?

«Confermo. Gli telefonavo spesso al mattino presto per consultarlo su quello che succedeva e lui aveva sempre un’idea precisa e mai banale».

Però una volta, più del suo fascino valse la lealtà verso l’amica Marella, sua moglie… Oppure l’attrazione per gli uomini era già scemata?

«Ci sono uomini che mi hanno sempre interessato molto. Se non fosse stato sposato, un passaggio con lui ci sarebbe stato di sicuro. In quel momento mi era parso inopportuno». 

Con Alain Delon invece non si ritrasse e anticipò l’amica Ljuba Rosa Rizzoli che condivideva con lei la stanza in hotel, dove spuntò un bigliettino nel quale Delon invitava nella sua camera, ma senza specificare il destinatario.

«Infatti Ljuba ha sempre detto che l’invito era per lei, più affascinante e sexy di me.

Ma io allora avevo una passione particolare per Delon. Quando lo vedo ancora oggi penso che all’epoca non ci fosse uomo altrettanto seducente». 

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Sebbene scriva di non aver mai prodotto film «per ragioni vagamente politiche» perché Franco Zeffirelli le rimproverava di fare solo film di sinistra?

«Si riferiva a Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, uscito due mesi dopo la strage di Piazza Fontana, e a La classe operaia va in Paradiso che vinse a Cannes nel 1972. Zeffirelli era l’unico regista di destra del cinema italiano ed era convinto che chi aveva una certa formazione doveva pensarla come lui». 

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Quanto il suicidio di suo fratello in Brasile l’ha cambiata?

«È stata una ferita non rimarginabile, che mi ha cambiato in profondità. Anche la scoperta della malattia mi ha cambiato, perché implica davvero un’altra vita. Fino al giorno prima andavo a sciare, oggi il mio maestro di sci mi ha mandato una foto di qualche anno fa. Con la malattia le giornate sono totalmente diverse». 

Se Gianni Agnelli era il più affascinante, come definirebbe Vittorio De Sica?

«Anche De Sica lo era, da napoletano. Gianni era figlio di militari torinesi, Vittorio di una famiglia di attori del Sud. Per lui ogni situazione era motivo di divertimento, di commedia». 

Cosa la colpiva di Pier Paolo Pasolini?

«M’intimidiva, unico fra i tanti grandi registi con cui ho lavorato. Era un uomo che non si capiva bene a cosa pensasse. Aveva un fascino silenzioso». 

E di Andy Warhol?

«È stato alcune volte mio ospite, ma non mi sono mai fatta ritrarre da lui. Era educato e di ottime maniere, molto diverso dall’immagine dell’artista ribelle che se ne aveva».

Chi è il più grande attore con cui ha lavorato?

«Direi Gian Maria Volontè, mentre con Marcello Mastroianni non ho mai lavorato. Erano di due scuole opposte: Marcello era credibile in qualsiasi ruolo, Gian Maria aveva bisogno di un personaggio in cui affondare i denti». 

[…]

Il suo con Florinda Bolkan è stato uno dei primi amori omosessuali senza finzioni: come guarda alle rivendicazioni della comunità arcobaleno?

«Mi sembra che facciano parte di un mondo molto convenzionale nel quale c’è bisogno di definire le situazioni per farle accettare. Non sono a favore di queste posizioni, credo che sia inutile cercare di spiegarsi, di spiegare ogni comportamento. Ognuno di noi vive attrazioni e abitudini diverse. Forse per i trans è più difficile, ma penso che ognuno dovrebbe seguire la propria natura».

Perché anche nella vita privata ha sempre tenuto lontane l’ideologia e la politica?

«Perché non c’entrano. Ognuno può essere libero con sé stesso e vivere in modo spontaneo, senza costruzioni». 

Non la pensano così i militanti del Metoo.

«Da sempre i produttori importanti a Hollywood hanno avuto rapporti bizzarri con attrici e attori. Non è un comportamento inventato da Harvey Weinstein, che pure aveva il dono di essere uno tra gli uomini più antipatici del mondo».

[…]

L’autobiografia s’intitola Ancora spero: in che cosa, signora? 

«Non so… Spero che la vita rimanente sia abbastanza accettabile. Che il morire sia dolce e non comporti troppa sofferenza. Spero anche tante cose belle per gli altri. Ho scelto queste parole per il titolo perché sono nel motto di famiglia: mi sembra dicano che uno vuole vivere di speranza più che di certezza».

Marina Cicogna: «Alain Delon mi lasciò un biglietto in albergo. Mi precipitai nella sua camera. Volonté divenne mio amico». Valerio Cappelli su Il Corriere della Sera il 20 Aprile 2023

La produttrice riceverà il David di Donatello alla carriera. È stata la prima al mondo a vincere l’Oscar. «I miei amici? Gianni Agnelli, Jeanne Moreau, Gregory Peck». Per vent’anni con Florinda Bolkan 

Nella vita è una contessa, al cinema è una regina. Marina Cicogna è l’aristocratica ribelle chic contro la morale diffusa. I suoi amici? Gianni Agnelli, Jeanne Moreau, Gregory Peck, Jackie Kennedy, Mick Jagger... Come insegnante ha avuto Marguerite Yourcenar. Marina ha 88 anni, e non ha mai cercato di nascondersi o di esibire. «Non avevo convinzioni precise sulle scelte sessuali, ho sempre creduto nell’incontro tra le persone».

Suo nonno ha fondato il Festival di Venezia, lei lo racconta così: «Nel 1932 questo signore, vede che gli attori americani vanno in vacanza a Venezia e per aiutare i suoi alberghi tira su un lenzuolo per proiettare film». Lei è stata la prima produttrice al mondo a vincere l’Oscar con Indagine di un cittadino al di sopra di ogni sospetto. Il 10 maggio riceverà il David di Donatello alla carriera. Ha una malattia, «quella» malattia di cui parla nella autobiografia (scritta con Sara D’Ascenzo del Corriere del Veneto) in uscita per Marsilio, intitolata Ancora spero.

Perché questo titolo?

«Era il motto di casa Cicogna dal ’400, è sempre complicato sceglierne uno, e questo non è pomposo. Il libro è una storia tagliata in due. Fino a 84 anni avevo una vita regolare, sciavo ancora abbastanza bene, da un giorno all’altro quasi non mi potevo più muovere. La malattia è noiosa, agisce sulla psiche e cambia i valori dele cose, di quello che avevi voglia di fare non ti frega più niente».

Cosa rappresenta il David?

«Mi fa molto piacere. È successa una cosa inattesa e bizzarra, da qualche anno si ricordano di me. Incontrai Giorgio Napolitano quando era Presidente e mi disse, lei ha fatto tanto per il cinema. Sì ma non ho mai avuto nessun riconoscimento, risposi. Tre giorni dopo mi chiamò il Quirinale, lei ha avuto un Cavalierato al merito. Poi mi richiamarono, ci siamo sbagliati, è Grand’ufficiale della Repubblica».

Che cinema ha sostenuto?

«Mai quello molto popolare, e nemmeno i grandi registi. Fellini e Visconti, con cui ero imparentata alla lontana, mettevano in ginocchio i produttori. I miei erano film di artisti che erano anche scrittori, come Patroni Griffi. In buona parte rispecchiavano la mia libertà. In Helga per la prima volta si vedeva un parto. Avrei potuto fare di più, ho lavorato nel decennio dei 70, poi tornai dagli Usa e in Italia andavano solo filmetti comici. Ci fu la tragedia del suicidio di mio fratello Bino, e per i debiti lasciati mia madre dovette vendere tutto. Il mondo del cinema c’è stato contro».

Era dura per una donna?

«Sì, ti facevano le scarpe lisciandoti il pelo. C’ero solo io e dopo, come distributrice, Vania Traxler. L’ambiente era maschilista. Non riuscii a produrre Il conformista neanche spaccandomi la testa, e lo stesso per Il portiere di notte di Liliana Cavani, che è molto riservata , non così popolare, al direttore artistico della Mostra di Venezia Alberto Barbera ho detto che non ha avuto quello che merita e sono contenta che le daranno il Leone alla carriera. Il suo film su Galileo è un capolavoro. Liliana aveva esigenze intellettuali che non erano previste, in passato, per una donna».

Capitolo Oscar.

«Mio padre, che era un ingegnere estraneo al cinema, prese l’Oscar per aver prodotto Ladri di biciclette e io per Indagine diretto da Elio Petri, con Volonté che divenne stranamente mio amico. Un commissario omicida. L’anno prima c’era stata la strage di piazza Fontana. Avrai tutti addosso, mi dissero. Zeffirelli mi accusò di aver prodotto un film comunista. A Cannes mi diedero il premio alla giuria, non la Palma d’oro. Così non andai agli Oscar, convinta che non l’avrei preso. Invece…».

Com’erano i grandi che ha conosciuto?

«Marilyn Monroe era attratta da qualunque cosa fosse italiana, di lì a poco sposò Joe Di Maggio, comunicava insicurezza per la ricerca del suo personaggio, sul set faceva impazzire i registi, dove devo mettere il dito, e la gamba? Marlon Brando se ne stava in disparte, silenzioso, misterioso. Greta Garbo, con cui sono stata in crociera in Costa Azzurra con Onassis, era simpatica, divertente, tutto l’opposto della serietà di cui si diceva. Accanto a una spiaggia di nudisti mi disse: quel signore mi sembra nudo, ma è tanti anni che non vedo un uomo nudo, forse mi sbaglio. Ma non faremo l’elenco, vero?».

Ma non possiamo evitare di parlare della sua amica Jackie Kennedy.

«Era fisicamente possente, per niente delicata, aveva una figura quasi maschile. La ricordo determinata, di ingenuo non aveva nulla, sapeva quello che voleva, anche quando andò controcorrente e lo mostrò sposando in seconde nozze Onassis tra lo scandalo generale. A lui non interessava la cultura ma parlava otto lingue. Il contrario di Jackie che era affascinata dall’Europa».

Ha avuto un flirt con Alain Delon ed è stata per 20 anni con Florinda Bolkan.

«Alain a Megève lasciò sotto la porta di una stanza d’hotel che condividevo con Ljuba Rizzoli, bellissima, un biglietto: ti aspetto nella camera 104. Mancava il destinatario. Strappai il biglietto dalle mani di Ljuba e mi precipitai io. Ero la ragazzina invaghita di un mito, galleggiai sospesa in un’altra dimensione per qualche settimana. Florinda, la conobbi a Parigi a casa di Elsa Martinelli e Willy Rizzo. Lei era appena tornata da una vacanza a casa Kennedy. La trovavo molto speciale, solare, libera, disinibita, fisico asciutto, sorriso infantile, aspetto un po’ androgino. Era stata executive hostess della compagnia aerea Varig, accompagnava i passeggeri più famosi. Ci siamo conosciute poco a poco. Alle sue scappatelle davo poco peso, ma si rifiutava di accettare la mia con Benedetta, che dovette nascondersi in un armadio, tra i miei vestiti. Ci vivo da quasi 40 anni».

A Gianni Agnelli piaceva il cinema o solo Anita Ekberg?

«A casa sua proiettava ogni sera un film, ma è raro che lo vedesse fino alla fine. Si annoiava facilmente. Ebbi un flirt con Lex Barker, il Tarzan del cinema; Gianni entrò in camera con una torcia per vedere se era così bello: mi fate vedere questo Tarzan? In effetti non è così male, disse. Con Anita ebbe una relazione, direi relativamente importante».

Si avvicina Cannes.

«È un Festival che detesto per la sua ridicola pomposità. Non riesci nemmeno ad attraversare la strada. La prima volta ci andai per Metti, una sera a cena. Negli ultimi anni per due volte non mi volevano fare entrare perché secondo loro non ero vestita come si dovrebbe: non portavo i tacchi e avevo una camicia di seta giudicata non elegante da una maschera. Mi aiutò Thierry Frémaux, il direttore artistico, lui è sempre molto carino con me. Mi piace il clima familiare della Berlinale e di Venezia, che per me è comunque un fatto di famiglia, anche se il passato esiste ma lo devi superare. Al Lido per Bella di giorno organizzai tre aerei, su uno Burton e Liz Taylor, poi Vadim e Fonda e sul terzo tutto il cinema italiano, Cardinale, Lollo, Mastroianni...».

La sua vita è il copione di un film.

«Il produttore di Via col vento, David O. Selznick, chiese a mia madre di potermi adottare. La mia gioventù è stata un periodo irripetibile».

Marina Cicogna per Vanity Fair articolo del 24 agosto 2011 

Non conosco il contenuto dell'intervista rilasciata anni fa da Jackie Kennedy all'amico Arthur Schlesinger, dove sembra lei racconti di una sua relazione con Gianni Agnelli, che comunque, e di questo sono sicura, non fu una «storia d'amore». Negli anni '50 la famiglia Kennedy affittava d'estate una casa in Costa Azzurra vicino a Villa Leopolda di Gianni e Marella Agnelli sulle alture di Beaulieu.

I Kennedy erano sportivi, allegri e giocherelloni. In casa Agnelli la vita era più sofisticata e regolata, anche se a Gianni piacevano le fughe, soprattutto serali, verso i casinò di Beaulieu o Montecarlo e raggiungere amici a Cap Ferrat o Saint-Tropez.

Con Marella iniziò a frequentare il clan Kennedy, diventando amici. 

Quando John fu eletto presidente, Jackie sempre più glamour iniziò a venire in Europa da sola, per passare alcune vacanze sul Mediterraneo. Gianni a volte la raggiungeva mettendo a disposizione sua e della sorella Lee, sposata al principe Radziwill, le sue barche e le sue amicizie.

Se in quei viaggi vi fu qualche momento di attrazione tra lui e Jackie (o lui e Lee?) è più che possibile, se poi questi momenti diventassero più fisici che romantici è anche possibile. 

E negli Stati Uniti, vi fu certamente uno scambio di «attenzioni» tra Marella Agnelli e il presidente Kennedy. Credo che questa storia, visto che lei era molto meno «disponibile», abbia avuto per un momento un risvolto un po' più serio, con messaggi, telefonate e incontri segreti. Anche questa però è un'ipotesi e solo donna Marella, l'unica viva dei quattro, conosce la verità. 

In ogni caso, la curiosità reciproca tra le due coppie fu per molto tempo un sentimento reale, dettato anche dalla voglia di sapere come si vestivano le due signore, quali amici frequentavano, come arredavano le loro case, addirittura cosa mangiavano

Questo sentimento, misto di ammirazione e attenzione tra le quattro persone più affascinanti dell'epoca, non si trasformò mai tra i due uomini in amichevole intimità, né diventò una grande amicizia tra le due donne, i cui interessi, in verità, non erano poi così discordi, visto che entrambe amavano dedicarsi a un mondo meno politico e meno frivolo dei rispettivi straordinari, pericolosi e affettuosi mariti.

CON L'AVVOCATO ERA FELICE - di Ljuba Rizzoli per Vanity Fair 

Ho conosciuto Jackie in due tornate, come Madame Kennedy e come Madame Onassis. La prima volta è stata a New York, per il vernissage della libreria Rizzoli sulla Quinta strada. La donna più importante del mondo era fedele al suo stile, in Chanel rosa pastello. 

Moglie del presidente americano, Jackie scambiava parole con Biancarosa, la moglie di Amintore Fanfani. E mi guardava di sguincio: non so se per il mio vestito Valentino a cubi bianchi e neri o perché veniva informata dello scandalo, visto che non ero ancora la moglie di Andrea Rizzoli.

Qualche mese dopo la rivedo in mise da cocktail bianca al bar dell'Hotel de Paris, a Montecarlo. Su di lei si posava con charme il mio amico Gianni Agnelli. Lui era da impazzire: erre strascicata, camicia azzurra, la fissava negli occhi che, così distanti, mi hanno sempre stupita. 

Jackie, mondanissima, parlava con Gianni e scambiava brindisi con la sorella Lee Radziwill e l'editore Dino Fabbri. Erano impegnati in un pre cocktail in vista di un gala. Prima di scivolare via, lei e Gianni mi hanno salutata con un sorriso più che euforico.

Anni dopo ci siamo incrociate di nuovo: eravamo con Onassis e sua figlia Christina allo stesso tavolo della Salle Empire, sempre nel Principato. Ma lei era in collera. «Hai sempre gli occhiali neri da Al Capone», criticava l'armatore. E Onassis: «Tu devi essere bella, tacere e spendere». 

Da lui ho saputo di quando Madame Onassis si era impuntata per cambiare il look «bassa lega» delle hostess della compagnia aerea greca Olympic. Jackie le voleva in Pierre Cardin senza maniche, ma le donne greche non si depilavano le ascelle e Cardin rifiutò di disegnare la divisa.

Ari la lasciava fare. Come con i 30 uccellini in gabbia che Onassis teneva nella cucina a Parigi: «Non li voglio, portano malattie». E lui li aveva rispediti dal suo uccellaio. 

Alla fine, la sola volta che non l'ho vista tramare o imporsi è stata con Gianni. Forse era felice.

Addio a Mattingly, l'astronauta eroe. Grazie alla rosolia poté salvare l'Apollo 13. Storia di Andrea Cuomo su Il Giornale il 5 novembre 2023.

Benedetta fu la rosolia. Quella che impedì a Thomas Kenneth Mattingly II, morto qualche giorno fa a Cincinnati all'età di 87 anni, di salire a bordo dell'Apollo 13 l'11 aprile 1970. Una circostanza che probabilmente finì per salvare la vita ai tre occupanti del modulo, il comandante James A. Lovell Jr, il pilota del LM Fred W. Haise Jr. e colui che era stato chiamato a sostituirlo, John L. Swigert.

Ken Mattingly, così era noto tra i suoi colleghi, allora aveva 34 anni. Aveva frequentato la Miami Edison High School a Miami, in Florida, e poi aveva studiato tecnica aerea e spaziale presso l'Università di Auburn in Alabama. Dopo gli studi si era arruolato nella Marina militare, e aveva prestato servizio sulla Saratoga e sulla Franklin D. Roosevelt. Poi dal mare aveva deciso di guardare al cielo, e si era diplomato alla Air Force Aerospace Research Pilot School, facendo poi domanda alla Nasa. Erano gli anni ruggenti della conquista dello spazio e Mattingly aveva lavorato allo sviluppo della tuta spaziale per le missioni sulla Luna. Nella storica missione Apollo 11, quella che il 21 luglio 1969 portò Neil Armstrong a compiere il primo passo sulla Luna, ebbe il compito di radiofonista di contatto con l'equipaggio (Capcom) all'interno della cosiddetta «support crew».

Ma fu il suo ruolo nella missione Apollo 13 a farlo passare alla storia. In realtà «Ken», allora trentaquattrenne, essendo uno dei più esperti nella conoscenza del grande programma spaziale, era stato nominato pilota del modulo di comando della missione ed era la prima volta che un tale incarico veniva assegnato a un astronauta che non aveva mai fatto parte di un equipaggio di riserva. Ma il destino ci mise lo zampino. Il 6 aprile 1970, cinque giorni prima del lancio, venne fuori che il pilota di riserva del modulo lunare, Charles Duke, era affetto da rosolia. Mattingly era l'unico dell'equipaggio a non aver fatto quella malattia e il timore che potesse ammalarsi nello spazio convinse la Nasa a sostituirlo con la «riserva» Swigert. E così quando qualche giorno dopo il lancio la navicella spaziale fu paralizzata da un incidente, Mattingly, che nel frattempo la rosolia non l'aveva presa, accorse al centro di controllo e sviluppo delle procedure di risparmio energetico che permisero alla navicella di rientrare nell'atmosfera e poi di ammarare nel Pacifico, nel corso di un'operazione di salvataggio talmente avvincente da essere raccontata venticinque anni dopo nel film Apollo 13, diretto da Ron Howard (il Richie Cunningham di Happy Days) e nel quale a dare corpo e volto a Mattingly fu Gary Sinise.

È morto Lanfranco Pace, giornalista ed ex leader di Potere Operaio. Storia di Redazione Online su Il Corriere della Sera sabato 4 novembre 2023.

È morto oggi a 76 anni il giornalista Lanfranco Pace, protagonista dei movimenti della sinistra extraparlamentare del post-68, ex leader di Potere Operaio. L'annuncio della sua scomparsa è stato dato dal quotidiano «Il Foglio», di cui è stato a lungo collaboratore. A lungo aveva anche lavorato per La7: nel 2008 era subentrato, per un periodo, a Giuliano Ferrara alla conduzione del programma televisivo «Otto e mezzo», con Ritanna Armeni; per la stessa trasmissione ha curato, per anni, il servizio d'apertura, chiamato «Il Punto». Nato a Fagnano Alto (L'Aquila) il 1 gennaio 1947, Pace è stato sposato due volte: prima con Stefania Rossini, giornalista de «L'Espresso»; poi con Giovanna Botteri, giornalista della Rai, da cui poi si è separato. Lascia due figlie: la primogenita Sara e Giulia. Pace aveva fatto parte del comitato studentesco alla Sapienza di Roma, nel 1968, entrando in contatto con Oreste Scalzone e Franco Piperno, i due fondatori di Potere Operaio. Pace fu in seguito uno dei dirigenti del movimento extraparlamentare e nella sua evoluzione successiva Autonomia operaia. Pace e Piperno - nella primavera del 1978, all'epoca del sequestro Moro - provarono a prendere contatti con i brigatisti rossi Valerio Morucci e Adriana Faranda, che tenevano prigioniero lo statista democristiano, nella speranza di salvare la vita del presidente della Democrazia Cristiana. Nel giugno 1979 Pace con Piperno, Paolo Virno e Lucio Castellano fondarono «Metropoli», rivista in dialogo critico con l'area dell'Autonomia operaia. Sul periodico apparve anche un fumetto sul rapimento Moro e sulle trattative avvenute per salvarlo, motivo per cui il giornale venne sequestrato. Nell'ambito del «Processo 7 aprile» (1979), nato dall'inchiesta del pubblico ministero della Procura di Padova Pietro Calogero tra i militanti e i simpatizzanti dell'Autonomia operaia imputati come presunti complici dei terroristi rossi, Calogero ordinò l'arresto, tra gli altri, di Toni Negri, Emilio Vesce, Oreste Scalzone e Pace, quest'ultimo accusato a causa dei contatti tenuti con Morucci e Faranda durante le trattative sul caso Moro e dopo la loro fuoriuscita dalle Br, di essere un fiancheggiatore del «partito armato». Da latitante si rifugiò in Francia, dove rimase per 25 anni, assieme all'altro leader di Potere Operaio Oreste Scalzone, grazie all'omonima dottrina del presidente François Mitterrand sui reati di natura politica, lavorando per il giornale «Libération». Nel 1990, seppur smentite le ipotesi del cosiddetto «teorema Calogero» e le imputazioni più gravi a suo carico, Pace venne condannato in via definitiva a 4 anni per associazione sovversiva (pena prescritta). Nel 1997 tornò in Italia e in seguito venne chiamato dall'allora direttore Giuliano Ferrara a scrivere su «Il Foglio».

È morto il giornalista Lanfranco Pace, condusse in tv "Otto e Mezzo". In passato vicino ai gruppi della sinistra extraparlamentare, il giornalista ex Potere Operaio ha poi collaborato per tanti anni con Il Foglio parlando di politica e di sport: si sposò con Giovanna Botteri. Lorenzo Grossi il 4 Novembre 2023 su Il Giornale.

Il mondo del giornalismo dà l'addio a Lanfranco Pace, scomparso oggi all'età di 76 anni a Messina. A dare la notizia della sua morte è stato il quotidiano Il Foglio con cui ha lavorato tanti anni come editorialista, parlando soprattutto di di politica, di attualità, di sport (era tifosissimo del Milan): "Lanfranco Pace è stato parte della storia di questo giornale - scrive il quotidiano diretto da Claudio Cerasa -. Per oltre un anno ci ha intrattenuto con il suo pagellone politico, l'appuntamento domenicale nel quale riassumeva i fatti della settimana. Lo vogliamo ricordare con le sue parole, con una piccola selezione dei suoi articoli. Nei prossimi giorni cercheremo le nostre".

I guai con la sinistra extraparlamentare

Inglese naturalizzato italiano, Lanfranco Edward Pace nasce a Fagnano Alto, in provincia dell'Aquila, il 1º gennaio 1947. Dopo il diploma, si iscrive all'Università La Sapienza di Roma dove si laurea in Ingegneria. Nel 1969 entra in Potere Operaio e rapidamente ne diviene uno dei massimi dirigenti subito dopo il Sessantotto. Nel 1979 fonda con Franco Piperno, Paolo Virno e Lucio Castellano una rivista in dialogo critico con l'area dell'Autonomia intitolata Metropoli. Il primo numero del periodico esce nel giugno del 1979, trattando temi come il riflusso del movimento e la situazione polacca.

Viene pubblicato sulla rivista anche un fumetto sul rapimento di Aldo Moro avvenuto un anno prima e sulle trattative avvenute per salvarlo: per questo motivo il giornale viene sequestrato da tutte le edicole pochi giorni dopo. Nonostante le successive vicende giudiziarie che avranno come oggetto la rivista, Metropoli uscirà ancora con altri sei numeri. Tuttavia, anche a causa dei contatti tenuti con Valerio Morucci e Adriana Faranda - due ex militanti di Potere Operaio entrati poi nella Brigate Rosse, ma contrari all'uccisione di Moro - Pace venne accusato di essere un fiancheggiatore del partito armato. Da latitante si rifugia in Francia, dove risiederà per 25 anni grazie all'omonima dottrina Mitterrand sui reati di natura politica, lavorando presso il giornale Libération. Nel 1990 viene condannato in via definitiva a quattro anni per associazione sovversiva, con pena prescritta.

L'esperienza in televisione

Nel 1997 ritorna in Italia. In televisione dove diventa popolare con la conduzione del programma Otto e mezzo, su La7, dal 2008 al 2010: inzialmente aveva curato per la trasmissione il servizio di apertura ("Il Punto"), poi ne è diventato presentatore per alcuni mesi al posto di Giuliano Ferrara, co-conducendo insieme a Ritanna Armeni e successivamente Alessandra Sardoni. È stato sposato due volte: prima con Stefania Rossini, giornalista de L'Espresso, poi con Giovanna Botteri. Dalla relazione con l'inviata del Tg3 - con cui poi si separerà - è nata Sarah Ginevra. Nel 2007 ha pubblicato il libro "Nicolas Sarkozy, l'ultimo gollista" sulla vita dell'ex Presidente della Repubblica francese. Negli ultimi anni aveva collaborato con Il Foglio.

Otto e Mezzo, è morto Lanfranco Pace: "Ci spiace dare questa notizia". Libero Quotidiano il 04 novembre 2023

È morto il giornalista Lanfranco Pace, protagonista dei movimenti della sinistra extraparlamentare del post-68 ed ex leader di Potere Operaio. A darne l'annuncio il quotidiano "Il Foglio": "Ci spiace dare questa notizia: è morto oggi Lanfranco Pace. Lanfranco è stato parte della storia di questo giornale - si legge sul sito internet della testata diretta da Claudio Cerasa - Per il Foglio ha scritto di politica, di attualità, di sport, soprattutto del suo amato Milan nella rubrica che teneva nell'inserto del martedì 'That win the best', Per oltre un anno ci ha intrattenuto con il suo pagellone politico, l'appuntamento domenicale nel quale riassumeva i fatti della settimana".

Nato a Fagnano Alto (L''Aquila) il 1 gennaio 1947, dopo il diploma Pace si iscrisse alla Facoltà di Ingegneria a Roma e nel 1968 all'Università 'La Sapienza' fece parte del comitato studentesco entrando in contatto con Oreste Scalzone e Franco Piperno, i due fondatori di Potere Operaio. Pace fu in seguito uno dei dirigenti del movimento extraparlamentare e nella sua evoluzione successiva Autonomia operaia.  

Nel 1997 venne chiamato dal direttore Giuliano Ferrara e nel 2008 subentrò per un periodo al suo posto alla conduzione del programma televisivo Otto e mezzo su La7 con Ritanna Armeni; fino a quel momento ne aveva curato il servizio d'apertura, chiamato 'Il Punto'. Le cronache raccontano che Pace, assieme a Franco Piperno, nella primavera del 1978, all'epoca del sequestro Moro, provarono a prendere contatti con i brigatisti rossi Valerio Morucci e Adriana Faranda, che tenevano prigioniero lo statista democristiano, nella speranza di salvare la vita del presidente della Democrazia Cristiana. Da qui l'accusa di essere un fiancheggiatore del partito armato. Da latitante si rifugiò in Francia per 25 anni. Nel 1990 venne condannato in via definitiva a quattro anni per associazione sovversiva, con pena poi prescritta.

Militante e giornalista. Lanfranco Pace, chi era il leader di Potere operaio scomparso a 77 anni. Nato politicamente nel Movimento studentesco, non rinnegò mai nulla del suo passato rivoluzionario. Dopo l’espatrio a Parigi, l’avventura giornalistica. David Romoli su L'Unità il 7 Novembre 2023

Nella sua vita Lanfranco Pace, scomparso due giorni fa a 77 anni, è stato molte cose: giornalista in Francia e poi in Italia, intellettuale anomalo e sottile, grande pokerista e gran rubacuori, ingegnere, militante politico e dirigente di Potere operaio. In una certa misura, come per molti altri della sua generazione, l’esperienza che ha poi condizionato tutto il resto è stata quest’ultima. Potere operaio è stato un gruppo della sinistra extraparlamentare italiana degli anni 70, formatosi nel settembre 1969 e scioltosi nel giugno 1973: molto citato ancora oggi, però non altrettanto conosciuto nella sua realtà. Senza il Movimento studentesco del ‘68, di cui Pace fu militante, Po, come gli altri gruppi della sinistra extraparlamentare, non sarebbe mai esistito. Ma soprattutto non sarebbe mai nato senza le improvvise e durissime lotte operaie spontanee che esplosero, senza che nessuno le avesse organizzate e meno di tutti i sindacati, alla Fiat nella primavera del ‘69. A gestire quel conflitto fu una struttura autonoma e informale, l’Assemblea Operai-Studenti, che si riuniva non in una sede politica ma in un bar nei pressi di Mirafiori. Il periodico La Classe, che aveva iniziato le pubblicazioni qualche settimana prima, diventò subito l’organo ufficiale di quel conflitto. In quelle esperienze non confluivano solo il Movimento studentesco e il nascente nuovo Movimento operaio ma anche esperienze precedenti, quella del gruppo toscano Il Potere Operaio, tra i cui leader spiccava Adriano Sofri e che interveniva sulle fabbriche toscane, e Il Potere Operaio veneto-emiliano, in cui era elemento centrale Toni Negri ma anche militanti operai di Porto Marghera. L’elaborazione teorica discendeva dalle riviste dell’operaismo del decennio precedente, i Quaderni Rossi prima, Classe Operaia poi. L’operaismo veicolava una lettura nuova e all’epoca fortemente eretica del marxismo. Studiò la composizione della classe operaia in Italia e le sue trasformazioni in corso. Ipotizzò che motore dello sviluppo non fosse, come nella visione marxista classica, il capitale, che il conflitto operaio tallonava e inseguiva, ma, al contrario, la lotta operaia, che obbligava il capitale a modificare le sue traiettorie per difendersi.

Nel settembre del 1969 l’Assemblea Operai-Studenti tentò di trasformarsi in organizzazione, anche in vista di un autunno che si prevedeva, e che sarebbe poi in effetti stato, ad altissimo tasso di conflittualità operaia. Invece di gruppi, anche per dissapori personali, ne nacquero due: Lotta continua, destinata a diventare di gran lunga la principale organizzazione della sinistra extraparlamentare in Italia, e Potere operaio, di dimensioni molto più ridotte e concentrato soprattutto in alcune aree del Paese, tra cui Roma. Nella capitale divennero dirigenti del gruppo, oltre a Negri, due dei principali leader del movimento del ‘68: Franco Piperno e Oreste Scalzone. Pace scelse la loro stessa strada. I due gruppi “cugini” nati nel settembre ‘69 avevano, soprattutto all’inizio, molti punti in comune ma anche fondamentali differenze. Lc, anche nella sua fase iniziale “operaista”, rappresentava la “medietà” del Movimento: al suo interno erano presenti un po’ tutte le correnti che animavano quel movimento e anche per questo l’organizzazione si concentrò soprattutto sulla pratica militante, trascurando un’elaborazione teorica che invece in Po fu sempre centrale. All’interno di Potere operaio Lanfranco Pace rappresentava quella che oggi, ma un po’ anche allora, si definirebbe “la destra”. Certo sul termine bisogna intendersi. La strategia di Po prevedeva un progressivo innalzamento dei livelli di scontro, anche di piazza, con l’obiettivo di arrivare passo dopo passo al conflitto armato. Si dotò subito di una struttura illegale clandestina incaricata di accumulare armi. Allacciò rapporti molto stretti con uno dei primissimi gruppi armati in Italia, i Gap di Giangiacomo Feltrinelli. Pace, molto intelligente ma anche lucido e realistico, non dissentiva dall’obiettivo di fondo ma premeva per evitare azzardi troppo avventurosi, passi troppo estremi e privi di prospettive concrete nella costruzione di quello che Po definiva “il partito dell’insurrezione”. Po si sciolse nell’estate del 1973, in parte perché la prospettiva di Negri, che puntava ormai sulle assemblee autonome operaie, e quelle di Piperno, che intendeva mantenere un’organizzazione quasi partitica, erano diventate inconciliabili. Ma a imporre lo scioglimento fu anche la tragedia del rogo del 16 aprile 1973, quando un gruppo di militanti di Po, senza che la leadership ne sapesse nulla, cercò di dar fuoco alla porta di casa di un dirigente del Msi nel popolare quartiere romano di Primavalle.

Nelle intenzioni del gruppo avrebbe dovuto essere un attentato dimostrativo, invece persero la vita due dei figli del dirigente del Msi, tra cui un bimbo di 8 anni. Il trauma fu enorme ma l’organizzazione, pur avendo scoperto presto la verità, scelse di far esaptriare i colpevoli e di negare con una campagna clamorosa la loro responsabilità. Negli anni successivi, pur essendo approdato a sponde molto diverse come giornalista di punta del Foglio, Pace non avrebbe mai rinnegato niente del suo passato rivoluzionario. Tranne proprio la decisione di “coprire” i colpevoli di quel misfatto. Nel 1978, nei tremendi 55 giorni del sequestro Moro, Pace e Piperno cercarono di salvare la vita del presidente della Dc battendo l’unica via praticabile. Cercarono e trovarono un contatto con i loro vecchi compagni di Po Valerio Morucci e Adriana Faranda. Pace fece la spola tra il quartier generale di Craxi, l’unico leader politico favorevole alla trattativa, e il ristorante dove incontrava i due ricercatissimi militanti in clandestinità. Il tentativo di Piperno e Pace non approdò ad alcun risultato: lo Stato sarebbe stato pronto a trattare come si fa con comuni banditi, offrendo un riscatto in denaro ma senza concedere niente sull’unico piano che interessasse le Br, quello politico. Le insistenze di Morucci e Faranda non convinsero i leader Br, soprattutto Mario Moretti, a evitare comunque l’esecuzione. Pace fu in quei giorni la persona che arrivò più vicina di tutti a salvare Moro ma alla fine anche uno dei grandi sconfitti. Nel 1979 un gruppo di ex militanti di Po diede vita a un periodico, Metropoli, che finì subito nel mirino degli inquirenti. Il 7 aprile una clamorosa montatura giudiziaria aveva colpito Negri e molti altri leader dell’Autonomia operaia, accusati di essere i capi e i cervelli delle Br. Pochi mesi dopo sarebbe toccata la stessa sorte a quasi tutti i redattori di Metropoli. Pace, colpito da mandato di cattura tra i primi, aveva già lasciato il Paese. Sarebbe rimasto in Francia per quasi vent’anni, imboccando con successo una nuova strada, quella del giornalismo, prima a Libération, poi, tornato in Italia, sul Foglio. Le posizioni politiche erano cambiate di molto rispetto agli anni di Po, ma lo sguardo era rimasto lo stesso. Nella continua polemica con gli eredi del Pd, nella critica corrosiva per l’invadenza della magistratura, nella lucidità fredda con cui sapeva analizzare i rapporti di forza senza sbavature moralistiche, Lanfranco Pace era rimasto quello di allora. David Romoli 7 Novembre 2023

(Adnkronos venerdì 3 novembre 2023) - Lo sceneggiatore e produttore televisivo statunitense Peter Steven Fischer, uno dei tre creatori del telefilm "La signora in giallo", interpretato da Angela Lansbury, dopo aver firmato altre serie poliziesche di successo come "Columbo", "Baretta" ed "Ellery Queen", è morto all'età 88 anni in una casa di cura di Pacific Grove, in California. L'annuncio della scomparsa, avvenuta lunedì scorso, è stato dato dal nipote Jake McElrath a "The Hollywood Reporter". Fischer divenne un romanziere prolifico dopo aver lasciato Hollywood, scrivendo ovviamente gialli, genere che ha coltivo in tv per un trentennio.

Fischer, che aveva lavorato con i co-creatori di "Colombo", Richard Levinson e William Link nell'iconica serie interpretata da Peter Falk e aver sceneggiato "Ellery Queen", con Jim Hutton, accompagnò la stessa coppia Levinson-Link a un incontro con i dirigenti della rete Cbs nel 1984 per ideare una nuova serie tv. "Stavano cercando un giallo con una protagonista femminile, non specificavano se dovesse essere vecchia o giovane. Ci è venuta l'idea l'idea di 'La signora in giallo' che fondamentalmente era Agatha Christie e Miss Marple modellate in un unico personaggio: Jessica Fletcher", ha raccontato Fischer in un'intervista alcuni anni fa.

Dopo il rifiuto dell'ex star della sitcom "Arcibaldo" Jean Stapleton, i tre sceneggiatori Levinson, Link e Fischer chiesero alla tre volte candidata all'Oscar Angela Lansbury di interpretare Jessica Fletcher, un'insegnante di inglese in pensione, scrittrice di gialli e detective dilettante. Lansbury non aveva mai realizzato una serie tv ma accettò di buon grado. Fischer scrisse l'episodio pilota di "La signora in giallo", dal titolo "L'omicidio di Sherlock Holmes", andato in onda il 30 settembre 1984, e scrisse o co-scrisse quasi 40 di episodi ed è stato produttore esecutivo durante sette stagioni. Nel frattempo ha ricevuto un Edgar Award e tre nomination agli Emmy Award nel periodo 1985-87 ("La signora in giallo" non ha mai vinto quel trofeo). Il telefilm è stato realizzato fino al 1996.

"Me ne sono andato dal popolare telefilm dopo sette anni perché non sapevo come sceneggiatore come continuare a trovare idee davvero nuove - ha detto Fischer in un'intervista nel 2012 - Sapevo che avremmo potuto rielaborare vecchie trame con luoghi e nomi diversi e gli ascolti avrebbero resistito ma mi sarei annoiato e avremmo imbrogliato il pubblico".

Nato il 10 agosto 1935, Peter Steven Fischer ha studiato recitazione alla Johns Hopkins University e ha frequentato corsi estivi teatrali, ma ha scoperto di "non essere un attore e ha deciso di diventare uno scrittore". Fischer aveva 34 anni, viveva a Long Island e curava e pubblicava una rivista chiamata "Sports Car News" quando inviò, per gioco, la sceneggiatura di un film che aveva scritto a suo fratello minore, Geoff, direttore del casting degli Universal Studios. Così, quasi per caso, iniziò la sua carriera di sceneggiatore di Hollywood. Il suo secondo tentativo sarebbe diventato "L'ultimo bambino" della Abc, un telefilm di fantascienza del 1971 prodotto da Aaron Spelling con Michael Cole e Janet Margolin. 

Fischer ha poi scritto sceneggiature per telefilm come "Marcus Welby", "Difesa a oltranza", "Griff", "Il tenente Kojak", "Baretta", "Ellery Queen", fino a scrivere sei episodi per "Colombo" tra il 1974 e il '76. Fischer ha anche creato lo spin-off di "La signora in giallo" del 1987-88, "Provaci ancora, Harry" con Jerry Orbach e Barbara Babcock.

Diversi anni dopo aver lasciato Hollywood, Fischer divenne uno scrittore a tempo pieno, scrivendo gialli, alcuni ispirati alle vicende di "La signora in giallo" e una serie di 22 romanzi sotto il titolo complessivo "Hollywood Murder Mysteries" che ruotava attorno a un addetto stampa degli studios di nome Joe Bernardi. 

Fischer si ritirò da Hollywood nel 2002 e quattro anni dopo si trasferì a Pacific Grove, dove si è dedicato interamente alla narrativa. Lascia i suoi figli Megan e Christopher e i nipoti Peter, Nicholas, Samantha, Jake, Molly ed Eden. Sua moglie per quasi 60 anni, Lucille, è morta nel maggio 2017.

Morto Luigi Berlinguer, ex ministro della Pubblica istruzione: aveva 91 anni. Carlotta De Leo su Il Corriere della Sera mercoledì 1 novembre 2023.

Il politico e giurista era cugino di Enrico Berlinguer. Schlein: «Personalità appassionata e impegnata».  Valditara: «Sempre aperto al dialogo, ha lasciato una traccia importante»

È morto a Siena, all'età di 91 anni,  Luigi Berlinguer, politico, giurista e docente universitario. Nato a Sassari nel 1932, Berlinguer era ricoverato dall'estate scorsa. 

Cugino di Enrico Berlinguer (storico leader del Pci) e imparentato con l'ex Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, ha militato nel Pci, Pds, Ds e nel Pd. Ha ricoperto il ruolo di ministro della Pubblica Istruzione  in tre diversi governi: nel 1993 con Carlo Azeglio Ciampi, nel 1996 durante il primo governo Prodi e poi con quello D’Alema, dal 1998 al 2000.  È stato, inoltre, deputato, senatore ed europarlamentare del Pd nella legislatura 2009-2014. 

A Siena - città dove ha insegnato diritto per molti anni all'università, di cui è stato anche rettore dal 1985 al 1994 - sarà aperta giovedì mattina la camera ardente nell'aula magna storica del rettorato dell'ateneo.

La carriera politica

Iscritto alla Federazione Giovanile Comunista Italiana sarda, la carriera di Luigi Berlinguer nel partito comunista parte dal basso. Prima consigliere comunale di Sennori (un piccolo centro della provincia di Sassari) dal 1956 al 1960, e sindaco dello stesso comune dal 1960 al 1964. Poi consigliere provinciale dal 1956, è stato deputato del PCI per la Sardegna nella quarta legislatura 1963-1968, membro della Commissione Affari costituzionali della Camera, impegnato in modo particolare sui temi della riforma della scuola e dell'università. Nel 1993, accetta la designazione a ministro dell'Università e della ricerca scientifica offertagli da Carlo Azeglio Ciampi. Nel 1994 si candida alla Camera come capolista progressista nella circoscrizione della Toscana e viene eletto. Ricandidatosi nel 1996, vince nel collegio di Firenze 1. Nel 2001, è eletto al Senato nel collegio di Pisa. Dal 1996 al 1998 assume nel primo governo Prodi la guida del Ministero della pubblica istruzione e, ad interim, di quello dell'Università e della ricerca scientifica e tecnologica, per proseguire nei successivi governi sino al 2000 come ministro della Pubblica istruzione. Dal 2007 è Presidente della Commissione di Garanzia del Partito Democratico. Nell'aprile del 2009, all'età di 77 anni, accetta la candidatura al Parlamento europeo per il Pd.

Schlein: aveva a cuore la nostra cultura politica

«Esprimo a nome di tutta la comunità democratica il più profondo cordoglio per la scomparsa di Luigi Berlinguer - afferma la segretaria del Pd, Elly Schlein - Ci lascia una personalità appassionata e impegnata ma soprattutto Luigi Berlinguer lascia a noi l’eredità di avere a cuore, e difendere, il patrimonio inestimabile della nostra cultura politica. Ai suoi familiari e ai suoi amici vanno le nostre condoglianze».

Prodi: autentica passione per la scuola pubblica

«A Luigi Berlinguer  ero legato da sentimenti di vera amicizia, un legame forte, a cui si univa una stima profonda. Aveva una autentica passione per la scuola pubblica, un impegno condotto con intelligenza e rigore. Era un

europeista convinto e ha dedicato la sua vita alla politica» scrive l'ex premier Romano Prodi. «Una vita per il miglioramento della ricerca e dell'insegnamento nel nostro paese. Lascia riforme importanti, valori profondi e idee lungimiranti. È stato un vero privilegio lavorare con lui» twitta l'ex premier Enrico Letta.

Valditara: sempre aperto al dialogo

«Apprendo ora con grande dolore della scomparsa di Luigi Berlinguer. È stato un ministro appassionato di scuola, sempre aperto al dialogo, ha lasciato una traccia importante. Ai suoi  cari le mie più sentite condoglianze». Lo scrive su X il ministro  dell'Istruzione, Giuseppe Valditara. 

Addio a Luigi Berlinguer, "padre" della parità scolastica. Storia di Paolo Ferrario su Avvenire mercoledì 1 novembre 2023.  

È morto all’ospedale Le Scotte di Siena, a 91 anni, Luigi Berlinguer, cugino del leader del Pci e ministro dell’Istruzione nel primo governo Prodi. Berlinguer, malato da tempo, è stato anche senatore ed europarlamentare del Pd dal 2009 al 2014. Al suo nome è legata la legge 62 del 2000 sulla parità scolastica.

«È stato un ministro appassionato di scuola, sempre aperto al dialogo, ha lasciato una traccia importante», ha scritto su X il ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara. Per l’ex-segretario del Pd, Enrico Letta, Berlinguer ha speso la «vita per il miglioramento della ricerca e dell’insegnamento nel nostro Paese. Lascia riforme importanti, valori profondi e idee lungimiranti. È stato un vero privilegio lavorare con lui», è il ricordo su X dell’ex premier.

La figura di Luigi Berlinguer è legata, come detto, alla legge 62 del 2000, che, da ministro, volle fermamente, per dare pari dignità alle scuole paritarie che, da allora, fanno parte dell’unico sistema nazionale d’istruzione. «Venni sollecitato dalle forze cattoliche a porre mano alla questione della parità scolastica, contro la quale si schierarono esponenti della sinistra estrema – ricordò, in un’intervista ad Avvenire, in occasione dei vent’anni della legge –. Ed io volli però dare vita a una legge che non solo creasse un sistema paritario, ma riconoscesse anche proprio quel diritto all’istruzione, di cui ritengo depositario qualunque bambino nato in questo Paese».

Un “diritto” che, purtroppo, da allora non è stato pienamente riconosciuto. Le famiglie che iscrivono i figli alle scuole paritarie, ancora oggi sono costrette a pagare il servizio scolastico due volte: prima con le tasse e poi con la retta. Un’ingiustizia a cui il governo sta cercando di porre rimedio, incrementando i finanziamenti statali alla scuola paritaria. Che, proprio in forza del dettato della legge 62/2000, svolge a tutti gli effetti un servizio pubblico, al pari della scuola statale. In ogni caso, la legge, pur non ancora pienamente attuata, «non è stata approvata invano», sosteneva Luigi Berlinguer nell’intervista al nostro giornale. E così motivava quel giudizio: «La stessa scuola paritaria ne ha tratto giovamento sul fronte della qualità dell’offerta, grazie anche al dover rispettare parametri chiari: ad esempio, l’obbligo di avere docenti abilitati come nelle statali. Sono poi le stesse famiglie a dimostrare di apprezzare questo miglioramento scegliendo le scuole paritarie che riescono a dare risposte alle loro esigenze con meno vincoli rispetto alla statali». Insomma, per l’ex-ministro, la legge 62 «ha impresso un cambiamento, uno stimolo ai gestori delle scuole paritarie proprio per promuovere la qualità dell’offerta formativa. E questo risultato lo attribuisco alle norme che abbiamo varato allora», aggiungeva Berlinguer.

La camera ardente dell’ex-ministro sarà aperta nell’aula magna dell’Università di Siena, dove Berlinguer ha insegnato Diritto per molti anni e dove è stato rettore dal 1985 al 1994

Morto Luigi Berlinguer, aveva 91 anni: cugino di Enrico, fu ministro della Pubblica Istruzione. La Repubblica mercoledì 1 novembre 2023.

Deputato, senatore ed europarlamentare. Chiamato al governo da Ciampi, Prodi e D’Alema. Era ricoverato da agosto. La camera ardente nell’università di Siena di cui fu rettore

È morto Luigi Berlinguer. L’ex ministro, 91 anni, era malato da tempo, era ricoverato all’ospedale Le Scotte di Siena dall’agosto scorso, quando le sue condizioni si erano aggravate. Originario di Sassari e cugino di Enrico Berlinguer, è stato deputato e senatore e aveva fatto parte del governo con tre diversi premier: nel 1993, con Carlo Azeglio Ciampi a Palazzo Chigi, aveva guidato il dicastero dell’Università e della ricerca scientifica, poi dal 1996 al 2000 era stato ministro della Pubblica istruzione, prima con Romano Prodi, poi con Massimo D’Alema.

L'ultima elezione risale al 2009, quando entrò nel Parlamento europeo con il Pd. Negli ultimi anni è stato presidente del Comitato nazionale per l'apprendimento pratico della musica per tutti gli studenti. La camera ardente sarà allestita giovedì nella sala del rettorato dell'università di Siena, ateneo che guidò dal 1985 al 1994.

Schlein: “Personalità appassionata e impegnata”

Immediato il cordoglio del ministro dell'Istruzione, Giuseppe Valditara, che su X scrive: “È stato un ministro appassionato di scuola, sempre aperto al dialogo, ha lasciato una traccia importante. Ai suoi cari le mie più sentite condoglianze”. Per la segretaria del Pd, Elly Schlein, Berlinguer, che definisce “personalità aappassionata e impegnata”, lascia “l'eredità di avere a cuore, e difendere, il patrimonio inestimabile della nostra cultura politica”. E Romano Prodi, che lo chiamò al governo, ricorda la sua “autentica passione per la scuola pubblica, un impegno condotto con intelligenza e rigore. Era un europeista convinto - aggiunge Prodi - e ha dedicato la sua vita alla politica”.

La riforma della scuola

Berlinguer, uomo di sinistra, fu il ministro della parità scolastica quando sancì che scuole gestite dallo Stato e le scuole di Enti locali o del privato sociale appartenevano a un unico sistema nazionale. Promosse nel 2000 una riforma della scuola che ebbe vita breve: un nuovo percorso di studi dalla scuola dell'infanzia alla secondaria di secondo grado alla formazione post-diploma, all'educazione degli adulti, all'università. In pratica elementari e medie venivano accorpate e ridotte da 8 a 7 anni, le superiori divise in due bienni, il primo con molti insegnamenti comuni, il secondo più specifico e un anno finale con maturità a conclusione del percorso. L'obbligo scolastico era fissato a 15 anni, cioè al termine del secondo anno del ciclo secondario, e per chi non prosegue gli studi fino alla maturità era prevista formazione professionale. Oltre a riformare i cicli e l'istruzione superiore, Berlinguer cambiò l'esame di maturità e gettò le basi per la riforma dell'università con la 'laurea a punti' (3 anni la breve più 2 anni la magistrale), poi presentata nel 2000 dal successore Zecchino. Fu poi la ministra Letizia Moratti, nel governo Berlusconi nato nel 2001, ad abrogare queste riforme della scuola.

Una carriera politica iniziata in Sardegna

La storia politica di Luigi Berlinguer era iniziata in Sardegna: iscritto alla Federazione Giovanile Comunista Italiana sarda, ne diventa segretario provinciale di Sassari e regionale. Nel 1952 è membro della direzione nazionale. Prima consigliere comunale di Sennori (un piccolo centro della provincia di Sassari) dal 1956 al 1960, e sindaco dello stesso comune dal 1960 al 1964. Poi consigliere provinciale dal 1956, è stato deputato del PCI per la Sardegna nella quarta legislatura 1963-1968, membro della Commissione Affari costituzionali della Camera, impegnato in modo particolare sui temi della riforma della scuola e dell'università.

Nel 1993, lasciando il rettorato di Siena, accetta la designazione a Ministro dell'Università e della ricerca scientifica offertagli dal Presidente del Consiglio dei ministri Carlo Azeglio Ciampi. Nel 1994 si candida alla Camera come capolista progressista nella circoscrizione della Toscana e viene eletto. Ricandidatosi nel 1996, vince nel collegio di Firenze 1. Nel 2001, è eletto al Senato nel Collegio di Pisa, chiamato a far parte della VII Commissione permanente Istruzione pubblica e ricerca e della Giunta per gli affari delle comunità europee. Dal 1996 al 1998 assume nel primo governo Prodi la guida del Ministero della pubblica istruzione e, ad interim, di quello dell'Università e della ricerca scientifica e tecnologica, per proseguire nei successivi governi sino al 2000 come ministro della Pubblica istruzione. Dal 2007 è Presidente della Commissione di Garanzia del Partito Democratico.

Nell'aprile del 2009, all'età di 77 anni, accetta la candidatura al Parlamento europeo per il Pd come capolista per la circoscrizione Nord Est. Nel 2010 ha firmato il manifesto del Gruppo Spinelli per un'Europa federale.

L’agire tecnico e politico per la scuola: Marco Campione ricorda Luigi Berlinguer. Marco Campione su Il Riformista l'1 Novembre 2023

Con la morte di Luigi Berlinguer se ne va uno degli ultimi esponenti della più grande stagione di riforme in ambito scolastico seconda solo a quella di Giovanni Gentile.Per questo lo ricorderanno nei prossimi giorni i suoi compagni di partito e qualche avversario. Spero non con lingua biforcuta: non se lo meriterebbe. Per me però se ne va un secondo padre, un maestro, un mentore. È stata probabilmente la persona, esclusi i legami familiari o di coppia, alla quale mi legava l’affetto più profondo.

Due cose, in particolare, che ho appreso, anzi compreso, da te sono ancora oggi la guida del mio agire politico e tecnico: la scuola è per gli studenti; governare vuol dire trovare soluzioni, risolvere problemi. Ecco, tecnico e politico: giocavamo ogni tanto su questo mio stare sempre un po’ di qua e un po’ di la della linea che divide questi due miei modi di intendere il lavoro per la scuola. Secondo te è l’unico modo per occuparsi seriamente di scuola essere un po’ tutte e due le cose.La tua prefazione al libro che ho curato con Emanuele Contu è un esempio, l’ennesimo, di questo e molto altro. Grazie Luigi per tutto quello che mi hai insegnato, che è molto di più e che tengo per me.

L'addio a 91 anni. Chi era Luigi Berlinguer: militante, dirigente politico e giurista ha attraversato tutte le istituzioni. Militante, dirigente politico, giurista. Ha attraversato tutte le istituzioni e in tutti i ruoli ha messo la sua storia, la sua fede di comunista italiano, il suo umanesimo integrale. Roberto Rampi su L'Unità il 3 Novembre 2023

Luigi Berlinguer è stato anche un importante Ministro della Pubblica Istruzione. Uno dei pochi a interpretare quel ruolo in senso totalmente politico e più legato al senso della scuola per la Repubblica che alla gestione del personale della scuola, come era, ed è stato ancora dopo, tradizione. E per questo ha tentato e in parte realizzato un ripensamento culturale della funzione e della conseguente organizzazione della scuola in Italia in una direzione di apertura alle idee, al nuovo, alle contaminazioni.

Provando a chiudere il ciclo della scuola di Stato, gentiliana, pensata per intruppare cittadini sudditi e aprire quello della scuola pubblica, nelle sue diverse forme, capace di fare tesoro delle diversità, la scuola dell’autonomia e del protagonismo degli studenti, la scuola capace di valorizzare le differenze e le diverse competenze.

Un progetto ambizioso che ho conosciuto da studente e da rappresentante degli studenti all’inizio della mia esperienza politica e ho ritrovato venti anni dopo ancora da compiere. A Luigi Berlinguer Ministro scrissi una lunga lettera da studente. Con Luigi Berlinguer da parlamentare ho condiviso serate, pomeriggi, convegni, passeggiate, viaggi per provare a riflettere, aggiornare, divulgare, condividere e confrontare quel pensiero, figlio anche, avrei scoperto, di una matrice banfiana condivisa e di una riscoperta gramsciana, che per diventare egemone deve diventare di popolo.

E qui emerge di Luigi Berlinguer tutto il prima e il dopo del suo impegno da ministro. Quello del militante politico, del dirigente politico, dello studioso di legge, del giurista, dell’accademico. È quello di chi ha attraversato tutte le istituzioni: consigliere comunale, provinciale, regionale, sindaco, deputato e senatore, europarlamentare. In tutti questi ruoli Luigi Berlinguer ha messo la sua storia, la sua fede di comunista italiano, il suo umanesimo integrale, la sua straordinaria curiosità per tutto ciò che era un fenomeno umano. I sui occhi vispi, la sua passione, l’instancabile desiderio di scoprire, di riflettere, di mettersi in discussione.

La passione per la musica è stata anche e soprattutto legata all’idea che il sapere non è solo né principalmente quello del Logos. E che ai saperi diversi si lega la possibilità o meno di percorsi meno classisti e di riscatto, di crescita per tutti. Il sapere concettuale di cui era grande dominatore era per lui intrinsecamente escludente rispetto agli altri talenti e alle altre capacità che pure fanno parte del bagaglio umano e sono spesso prevalenti in uomini e donne che troppo spesso vengono ancora tagliati fuori da percorsi omologanti.

Negli anni della nostra amicizia abbiamo esplorato la funzione delle arti nella scuola, ci siamo legati proprio su questo, e la funzione del pensiero della mano, come amava dire, della dimensione pratica della cultura non come avviamento al lavoro ma come cultura del lavoro e del lavoro come cultura.

Questo si legava inevitabilmente anche al pensiero sulla Politica e sulla Sinistra e sulla capacità di immaginare un modo diverso e innovativo di essere Politica e Partito. Con una attenzione profonda alla dimensione europea. Su questo Luigi Berlinguer ci consegna un lavoro intellettuale e pratico insieme che chiama le intelligenze più curiose ad applicarsi. Leggendolo, riascoltandolo e provando a produrre. E credo dovremo accettare la sfida e come sarebbe piaciuto a lui provare ad organizzarla. Roberto Rampi 3 Novembre 2023

Musica, famiglia e sardità. Il segno indelebile lasciato da Luigi Berlinguer. LUIGI ZANDA su Il Domani il 05 novembre 2023

Spesso le grandi personalità dell’università, della cultura e della politica, quando se ne vanno, si possono descrivere meglio ritornando alle radici del loro passato. E ritrovando quel ricordo che hanno lasciato in tutti coloro che le hanno conosciute

Luigi Berlinguer è stato una grande personalità dell’università, della cultura e della politica italiane. Ma per capirlo nel profondo bisogna guardare ai fondamentali della sua vita che sono la sua famiglia, Sassari e la Sardegna.

La Sardegna è una piccola-grande isola, piazzata al centro del Mediterraneo, con una sua storia e con una conformazione naturale molto fortunata per la magnificenza delle sue coste e per la parte ancora integra del suo territorio interno.

Ha due importanti università a Cagliari e a Sassari, dove hanno insegnato molti luminari soprattutto di medicina e giurisprudenza. In questo ambiente, riservato e quasi appartato, ma anche culturalmente molto aperto e vivace, la Sardegna ha dato i natali e ha formato il carattere e l’impegno civile di grandi personalità che hanno rivestito cariche importanti nella politica e nelle istituzioni italiane ed hanno goduto di grande rispetto internazionale.

A Sassari sono nati e hanno studiato due presidenti della Repubblica, Antonio Segni e Francesco Cossiga, e il segretario del più importante partito comunista dell’Europa occidentale, Enrico Berlinguer. Ad Ales è nato Antonio Gramsci, grande pensatore politico di sinistra la cui dottrina è oggetto di studio in tutte le università del mondo.

Respirando questa aria politica e questa atmosfera culturale, in questo crogiuolo di bellezze naturali, di tante genialità e di importanti tradizioni, a Sassari, in una bella e numerosa famiglia in cui tutti, uomini e donne, hanno speso gran parte della loro vita nell’impegno civile e politico, nel 1932 è nato Luigi Berlinguer, morto a Siena pochi giorni fa, a 91 anni.

Il territorio dove Luigi Berlinguer ha vissuto la sua esperienza universitaria è stato essenzialmente Siena. Ma l’Italia, l’Europa e il mondo sono stati il suo territorio politico. La base da cui sempre partiva e la sua casa erano a Siena dove, pochi anni dopo la laurea, si era trasferito con la moglie Marcella e dove si è svolta tutta la sua carriera accademica sino a diventare rettore di quella università.

A Roma ha vissuto a lungo da parlamentare e importante ministro, ma a Siena sono nati i suoi due figli, Jole e Aldo, ai quali era legato da un amore speciale, molto forte e molto rispettoso delle loro volontà.

In Luigi Berlinguer la sienitudine non ha mai avuto la meglio sulla sua sardità. Aveva un forte personalità e era sardo nella fermezza del carattere, nel senso della famiglia, nell’eleganza con cui custodiva le sue idee e i suoi ideali, nel senso del dovere, nella serenità con cui sapeva affrontare la battaglia politica, che non temeva.

Ma era anche un sardo che sommava ai caratteri quasi antropologici della sua isola una grande curiosità della vita, un micidiale umorismo solo sassarese, una bella cordialità e una preziosa franchezza. La sua allegria cominciava dagli occhi. Era un intellettuale con la passione per la discussione, il dibattito, il confronto delle idee.

Ma c’è un punto della personalità di Luigi Berlinguer che va detto perché mostra un angolo un po’ nascosto, una straordinaria sensibilità culturale e persino sentimentale che non è facile trovare nella politica italiana sempre troppo presa dalle tattiche del momento per curarsi del futuro dei giovani. Berlinguer era diverso e pensava col suo cervello.

Da ministro dell’Istruzione e poi dell’Università, non solo si è battuto a favore dei conservatori musicali, ma soprattutto ha cercato di introdurre l’insegnamento della musica nelle scuole. Non so se sia corretto fare la classifica delle iniziative politiche degli uomini e delle donne che hanno governato l’Italia. Ma è certo che, in questa immaginaria classifica, uno dei primi posti spetta a Luigi Berlinguer con la motivazione che il suo amore e il suo interesse per la musica e il suo desiderio che la musica potesse diventare uno strumento educativo per le giovani generazioni, sono il segno di quell’acuto intuito culturale al quale dovremmo affidarci se vogliamo che il mondo vada avanti nella giusta direzione.

La buona musica non è solo un vero piacere dei sensi, ma per i giovani e i meno giovani, per gli studenti come per i governanti, può essere anche la strada per scavare sino al profondo dell’anima ed educarla all’ascolto e alla pace.

Luigi Berlinguer è stato tutto questo e anche molto altro. In chi lo ha conosciuto e in chi gli è stato amico, ha lasciato un segno profondo. LUIGI ZANDA. Ex senatore della Repubblica dal 2003 al 2022

Addio Ernesto Ferrero, intellettuale che sapeva illuminare vita e letteratura. Ci lascia uno dei protagonisti dell'editoria italiana. Dirigente di grandi case editrici, direttore del Salone del Libro per quasi vent'anni e autore di saggi biografici sui grandi del nostro tempo. Sabina Minardi su L'Espresso il 31 Ottobre 2023

È morto Ernesto Ferrero. Si è spento un protagonista assoluto dell'editoria italiana, che ha attraversato, nel corso della sua lunga carriera, in tutti i suoi meandri: aveva cominciato da ufficio stampa nel 1963, in Einaudi. E all'interno della casa editrice torinese è stato redattore editoriale e dirigente, autore e traduttore (di Céline, di Flaubert, di Perec). Ha lavorato in Bollati Boringhieri, ha diretto marchi come Garzanti e Mondadori. Acutissimo critico letterario, dal 1998 al 2016 ha diretto il Salone del libro di Torino.  

L'empatia del suo sguardo era uno dei tratti che più colpiva nell'uomo e nello scrittore, capace di illuminare vita e letteratura con una scrittura di indiscutibile fascino. Come ha fatto con i tanti profondi, amati, saggi biografici: da Primo Levi a "Italo", dedicato a Calvino nel centenario della nascita: il suo ultimo libro, uscito da poche settimane. 

Chi erano veramente Napoleone (“N.”, romanzo vincitore del premio Strega nel 2000, ne ricostruiva i giorni dell'esilio attraverso gli occhi del suo bibliotecario), San Francesco (“Francesco e il Sultano” rievocava l'incontro col sultano Malik al-Kamil in un prodigioso dialogo tra Islam e cristianesimo), Emilio Salgari (“Disegnare il vento”, 2011), Emilio Gadda e tanti grandi maestri del Novecento ai quali Ferrero ha dedicato nel 2022 “Album di famiglia”?. Merito dei suoi "ritratti dal vivo" se ne sappiamo un bel po' di più. E di una capacità di scavo, di guardare dietro le quinte, di intrecciare il privato e il contesto pubblico, che hanno reso Ernesto Ferrero uno dei più stimati e autorevoli intellettuali del nostro tempo.

Morto Ernesto Ferrero, una vita nel nome e al servizio dei libri. CRISTINA TAGLIETTI su Il Corriere della Sera il 31 Ottobre 2023

Editore, critico, traduttore, narratore, organizzatore culturale, direttore, dal 1998 al 2016, del Salone del libro, è scomparso all’età di 85 anni dopo lunga malattia

È stata una vita nel nome, e al servizio, dei libri quella di Ernesto Ferrero, scomparso a 85 anni nella mattina del 31 ottobre dopo una lunga malattia che lo aveva fiaccato nel corpo ma non nello spirito, sempr e vigile e attento a ciò che succedeva intorno a lui, nel mondo culturale, nella società civile, nella politica. Fedele a una gentilezza calda, mai affettata, con un sorriso che a volte tradiva una vena malinconica, coltissimo ma senza snobismo, osservatore affilato di eventi e persone, Ferrero è stato molte cose: editore, critico, traduttore, narratore, organizzatore culturale, direttore, dal 1998 al 2016, del Salone del libro.

Nato a Torino il 6 maggio 1938, ha «abitato» il mondo editoriale italiano per oltre sessant’anni, da quando, nel 1963 inizia a lavorare come responsabile dell’ufficio stampa della casa editrice Einaudi, superando un esame dopo aver letto un annuncio sulla «Stampa» e lasciato il lavoro da assicuratore. Diventerà poi direttore letterario e, nel 1984, in un momento di difficile crisi finanziaria della casa editrice, direttore editoriale, fino al 1989.

Nel suo percorso ci sono state anche altre tappe — Boringhieri, Garzanti, Mondadori — ma il suo nome, e forse il suo cuore, sono sempre rimasti legati allo Struzzo. Scrittore finissimo, raccontò quell’esperienza e quelle stagioni che lo videro anche regista accorto delle celebri riunioni del mercoledì, in uno splendido memoir dall’incalzante passo narrativo, I migliori anni della nostra vita, dove i ricordi di genialità, ossessioni, ansie, vezzi di maestri, compagni di lavoro e di viaggio, si intrecciano a quelli di luoghi e paesaggi. «Pensai distintamente che per un prodigio insperato ero stato accolto nella regione mitologica in cui cresce l’abero della felicità» scrive nella prima pagina, ricordando l’inizio esaltante di quella avventura.

È nel fertile humus di via Biancamano (dove conosce anche la moglie Carla, compagna di tutta la vita) che affondano le radici di relazioni solide, basate su amicizia e competenza, come quelle con Primo Levi (a cui nel 2007 ha dedicato, tra l’altro, un saggio che ne ricostruisce vita e opere) e con Italo Calvino, al centro di una biografia per immagini, Album Calvino (Mondadori 2005), ma anche del suo ultimo lavoro, Italo, uscito per Einaudi da alcune settimane. Con loro («Italo e Primo non sprecano parole, per il rispetto che ne hanno. Parlano poco e lavorano molto. Stanno bene nelle loro tane» scrive), e con gli altri maestri che hanno fatto la storia della cultura novecentesca italiana dentro e fuori lo Struzzo — Einaudi, Morante, Feltrinelli, Fruttero e Lucentini, Ceronetti, Bobbio, Pavese, Foa, Garboli, Garzanti, solo per citarne alcuni — Ferrero ha intessuto un dialogo costante e fecondo, mettendoli al centro anche di uno degli ultimi libri, Album di famiglia, uscito da Einaudi nel 2022. Quei «maestri del Novecento ritratti dal vivo» formavano per lui «una famiglia ramificata, bizzarra, sorprendente, eccessiva, dispersa, perfino conflittuale, come tutte, ma straordinaria, coesa nelle stesse passioni, nello stesse sentire».

Nel corso degli anni la sua scrittura elegante e mai opaca si è applicata con la stesso slancio ai risvolti di copertina, alle recensioni e agli interventi sui giornali, come ai romanzi e ai saggi. Traduttore di Céline (sua la versione di Viaggio al termine della notte edita da Corbaccio), di Flaubert (Bouvard e Pécuchet nei Meridiani Mondadori), di Perec (Il condottiero, Voland), Ferrero ha scritto i suoi libri seguendo un gusto eclettico e curiosità radicate, che andavano dai delitti di Gilles de Rais, mostruoso protagonista del Quattrocento francese, al mistero del papiro di Artemidoro, dalla vita di San Francesco a Emilio Salgari, fino alle metamorfosi della lingua (Dizionario storico dei gerghi italiani, Mondadori 2002).

Come narratore aveva esordito nel 1980 con il romanzo Cervo Bianco (Mondadori), basato sulla storia vera di Edgar Laplante che, impersonando un falso capo indiano, incantò (e ingannò) gli italiani nel 1924, poi riscritto e nei mesi scorsi ripubblicato da Einaudi con il titolo L’anno dell’indiano. Nel 2000 con N., ispirato alla figura di Napoleone Bonaparte e ai suoi ultimi trecento giorni all’isola d’Elba, vinse il premio Strega, in una sfida all’ultima scheda con Case amori universi di Fosco Maraini.

Al timone del Salone del libro di Torino — accanto al presidente Rolando Picchioni da cui era lontano per formazione e ambizione, ma di cui fino all’ultimo ha difeso l’operato — ha governato con fermezza e disponibilità le tempeste più difficili, dai duri boicottaggi messi in campo contro Israele Paese ospite, all’invito, in seguito ritirato, all’Arabia Saudita, fino alle inchieste che portarono alla crisi della rassegna e al derby con Milano. Da «soldato sabaudo», come si definiva, con la rosa di carta nell’occhiello della giacca e un sorriso dolce sulle labbra.

Era l'einaudiano "signore dei libri". Editore, scrittore da Premio Strega e critico, è stato l'anima del Salone di Torino. Matteo Sacchi l'1 Novembre 2023 su Il Giornale.

È morto, a 85 anni, Ernesto Ferrero, direttore del Salone del Libro di Torino (dal 1998 al 2016), einaudiano di ferro e intellettuale di velluto, critico e scrittore da Premio Strega, capace di essere la summa di tutta un'epoca dell'editoria italiana, quello che indubbiamente, e a ragione, è stato considerato il signore dei libri. Classe 1938, Ferrero ha iniziato la sua lunghissima carriera editoriale all'Einaudi dove ha lavorato per un ventennio, partenza all'ufficio stampa per poi andare verso l'empireo, dal 1984 al 1989, direttore editoriale. Dopo è passato lasciando il segno, ma sempre con stile felpato e sabaudo, nei gangli decisionali dei principali editori italiani, tra cui Bollati Boringhieri, Garzanti (direttore editoriale) e Mondadori (direttore letterario). Parallela a quella puramente editoriale, Ferrero ha portato avanti anche una lunga carriera letteraria, spaziando dalla linguistica al romanzo. Da questo versante il «soldato sabaudo che ha salvato il Salone del libro», così è stato definito, era un talentuoso dotato di molte passioni. In primis dicevamo della lingua, al centro del suo saggio del 1972 I gerghi della malavita dal '500 a oggi (per i tipi di Mondadori). Si trattava di un ricco dizionario del gergo criminale, che raccoglieva tantissime voci, a partire dal Rinascimento, pescando dalla storia, dai dialetti, dalla tradizione orale e dai testi. Ma la chicca era il saggio introduttivo che spiegava il significato, le origini e la storia del gergo, con specifico riguardo al crimine.

Era l'inizio di un percorso colto in cui Ferrero ha esplorato la lingua letteraria con particolare attenzione a Gadda, Calvino e Levi. È dedicato a Calvino anche il suo ultimo libro Italo, uscito da pochi giorni per i tipi di Einaudi. Del resto non è un caso che uno dei suoi libri più noti sia Album di famiglia. Maestri del Novecento ritratti dal vivo (sempre per la casa dello struzzo). E basta quest'album per chiarire perché Ferrero è stato il signore dei libri. A parte i già citati Levi e Calvino ha intersecato le parabole di Calasso, Montale, Eco, Sciascia, Parise (che lo chiamava «contino» per quella sua aria risorgimentale), Bobbio...

E si potrebbe continuare. Per la quotidianità di una serie di personaggi epocali: leggere Ferrero. Leggere Ferrero anche per come è stata la vita day by day all'Einaudi dal 1963 al 1965: I migliori anni della nostra vita (Feltrinelli, 2005). Ma non è il caso di ridurre Ferrero ad un elenco di titoli. Anche se si potrebbe visto che sono tantissimi. Ah, en passant è stato anche traduttore di Flaubert, Céline e Perec.

E poi passioni come quella per Napoleone. Una passione coltivata sin da bambino guardando il busto dell'imperatore nella casa al mare del nonno a Diano Marina. Da quel busto con un volto calmo e quasi divino sino a N., il libro con cui Ferrero ha vinto il Premio Strega del 2000 e che è diventato un successo da grande schermo, N (Io e Napoleone) per la regia di Paolo Virzì. Il romanzo ricostruisce i giorni dell'esilio sull'Isola d'Elba di Napoleone attraverso gli occhi del suo bibliotecario, che all'inizio cova piani omicidi verso l'Imperatore e poi ne resta ammaliato. E non si può non cogliere tutte le implicazioni di uno sguardo amorevole verso un Napoleone bibliofilo... E napoleonico era il piglio di Ferrero al Salone. Ma un Napoleone giovane, alla campagna d'Italia. Sino alla soglia degli 80 anni, sotto le volte del Lingotto era famoso per le sue performance da maratoneta. Lo vedevi sfrecciare da una sala all'altra, ubiquo. Aveva anche un vezzoso contapassi, come confessò ai giornalisti. Altro vezzo l'amata rosa di carta, un origami di parole che sistemava all'occhiello dal giovedì mattina innaugurale alla domenica: «Me l'ha regalata l'amico Allemandi, è un portafortuna, e a me sembra profumi davvero».

Dettagli che danno l'idea di uno stile. Che manteneva anche nelle polemiche. Una carriera troppo lunga la sua per evitarle, del resto. E allora un po' di aneddotica anche qui. Non digerì il Nobel alla letteratura per Bob Dylan. Punzecchiato chiarì subito che il problema andava oltre: «Il Nobel a Dylan è una scelta assurda, sbagliata e incredibile... Quelli di Stoccolma sono abbonati alle scelte discutibili. Spesso hanno premiato gente che conoscevano solo gli addetti ai lavori... È inelegante dirlo adesso, ma anche il Nobel a Dario Fo fu una bizzarria pura».

Fu al centro di un clamoroso scambio di persone nel 2015. Si stava in piena acquisizione di Rcs da parte di Mondadori. Comparve un intervista a Ernesto Franco, allora direttore editoriale Einaudi, stranamente critico nei confronti dei vertici Mondadori. Ecco a Repubblica per un banale errore d'agenda avevano in realtà sentito Lui, Ernesto Ferrero. Che effettivamente sentendosi fare domande su Einaudi aveva giustamente pensato di dire la sua da ex che può ragionare da ex. Ne nacque un bell'errata corrige.

Ma sono tantissime le storie editoriali che ruotano attorno a Ferrero. Come universale è il cordoglio espresso ieri. Si va dal presidente dell'Associazione italiana editori Innocenzo Cipolletta - «Un protagonista indiscusso» - sino al ministro per la Pubblica amministrazione, e senatore di Forza Italia, Paolo Zangrillo - «Ci consegna una importante eredità: contribuire a valorizzare e diffondere la cultura italiana nel nostro Paese» - passando per il sindaco di Torino Stefano Lo Russo - «Acuto osservatore del mondo» - e il presidente della regione Piemonte Alberto Cirio: «Grande intellettuale». Un intellettuale che era einaudiano soprattutto: «Nello stile asciutto che migliora con la sottrazione» diceva. Oggi cosa rara.

Aveva 85 anni. È morto Ernesto Ferrero: l’editore e scrittore che ha diretto il Salone del Libro di Torino. Una vita al servizio dei libri. L'esordio nel 1963 nell'ufficio stampa dell'Einaudi, il Premio Strega nel 2000 per il suo romanzo su Napoleone Bonaparte. Ha diretto il Salone del Libro dal 1999 al 2016. Antonio Lamorte su L'Unità il 31 Ottobre 2023

Ernesto Ferrero è stato scrittore, editore, traduttore, critico letterario, organizzatore culturale, intellettuale. Premio Strega con il suo romanzo su Napoleone Bonaparte e direttore Salone del Libro di Torino che secondo alcuni non è stato più lo stesso dopo la sua guida. È morto a 85 anni, dopo una lunga malattia. Da pochissimo era stato pubblico il suo ultimo libro, Italo, pubblicato da Einaudi, dedicato allo scrittore Italo Calvino di cui quest’anno ricorre il centenario dalla nascita.

Una vita dedicata ai libri, aveva cominciato come responsabile dell’ufficio stampa della casa editrice Einaudi nel 1963. Lavorava come assicuratore. Era nato a Torino il 6 maggio 1938. Ha scritto saggi, narrativa, libri di memorie, libri per bambini. Ha lavorato con i grandi della letteratura italiana. Con N, in cui aveva descritto l’esilio di Napoleone sull’Isola d’Elba, aveva vinto il Premio Strega, il riconoscimento letterario più prestigioso in Italia, nell’edizione del 2000. Da traduttore aveva lavorato sulle opere di Ferdinand Céline, Gustave Flubert e George Perec. Da critico letterario si è occupato di Carlo Emilio Gadda e Primo Levi tra gli altri, soltanto in ultimo di Calvino. È stato una firma del quotidiano La Stampa.

È stato segretario generale di Bollati Boringhieri, direttore editoriale di Garzanti, direttore letterario di Arnoldo Mondadori Editore. È stato presidente onorario del Centro internazionale di studi Primo Levi di Torino e presidente delle giurie di diversi premi letterari, faceva parte del comitato direttivo del Premio Strega. Per quasi vent’anni ha diretto il Salone del Libro di Torino, dal 1998 al 2016. “Porteremo sempre nel nostro cuore il suo impegno instancabile e la sua dedizione verso la promozione della lettura, del libro e della letteratura, ma soprattutto la generosità, la gentilezza e l’ironia che lo hanno contraddistinto sul lavoro e nella vita”, il ricordo in una nota dell’organizzazione.

“La sua visione e il suo lavoro hanno trasformato il Salone Internazionale del Libro, che ha diretto dal 1998 al 2016, in un luogo di incontro, dialogo e confronto tra autrici e autori, lettrici e lettori, uno spazio in cui l’amore per la lettura e la conoscenza hanno creato anno dopo anno una comunità sempre più grande. Il suo esempio ci sarà sempre da guida per gli anni che verranno”. Esperienza ricordata anche dal sindaco Stefano Lo Russo. “Un intellettuale che ha dedicato la sua vita ai libri, acuto osservatore del mondo, uomo di cultura profonda che ha contribuito a rendere grande e internazionale il Salone del Libro di Torino”, ha scritto il primo cittadino sul social X.

Ferrero nel 2012 era stato premiato dall’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano con l’onorificenza di commendatore all’Ordine del merito della Repubblica Italiana. Ferrero lascia la moglie Carla e le figlie Chiara e Silvia. “Pensai distintamente che per un prodigio insperato ero stato accolto nella regione mitologica in cui cresce l’albero della felicità”, scrisse nella prima pagina del suo memoir I migliori anni della nostra vita sui tempi all’Einaudi da direttore letterario e direttore editoriale. Antonio Lamorte 31 Ottobre 2023

È morto Matthew Perry, Chandler in «Friends»: aveva 54 anni. Redazione Spettacoli su Il Corriere della Sera il 29 ottobre 2023.

L’attore è stato trovato senza vita nella sua abitazione nell’area di Los Angeles

Matthew Perry, Chandler nella popolare serie «Friends», è morto all’età di 54 anni. L’attore statunitense, è stato trovato morto nella sua abitazione nell’area di Los Angeles, nella jacuzzi che aveva in casa lasciando pensare che sia annegato. Secondo indiscrezioni, infatti, nella casa non sono state trovate droghe.

Perry aveva ottenuto diverse nomination agli Emmy Award, ed è famoso soprattutto per aver partecipato alla serie televisiva «Friends» nella quale ha interpretato per dieci anni il personaggio di Chandler Bing. La notizia è stata data dal sito di gossip Tmz e dal LA Times. Curioso che il suo ultimo post su Instagram fosse proprio in una vasca da bagno.

Matthew Perry era celebre in tutto il mondo per il ruolo nella sitcom di successo degli anni ‘90, andata in onda per 10 stagioni e nella quale lui aveva preso parte a tutti i 234 episodi. Affabile, ottimista e pronto alla battuta sullo schermo, Matthew aveva raccontato di recente le sue difficoltà personali, in particolare la sua dipendenza da farmaci e alcol: un libro di memorie di una bellezza straziante («Friends, Lovers and the Big Terrible Thing») in cui aveva condiviso dettagli scioccanti sulla sua vita e sui problemi passati.

Figlio di genitori separati (il padre aveva abbandonato la madre quando era bambino), aveva imparato presto a usare l’umorismo per attirare l’attenzione della mamma. A 14 anni, il primo incontro con l’alcool e aver compreso che su di lui «aveva un effetto completamente diverso» rispetto agli amici. mentre loro avevano vomitato, lui «sdraiato sull’erba» aveva percepito una sensazione di benessere: «Nulla mi dava fastidio». Da quel momento, aveva cominciato a bere e non aveva mai smesso. Quando aveva ottenuto il ruolo di Chandler Bing, era già un alcolizzato. Anche se Perry cercava di nascondere la sua condizione, i compagni di cast (Jennifer Aniston, in particolare) erano stati «comprensivi e pazienti».

«È come i pinguini: quando uno è malato o è ferito, gli altri lo circondano e lo sostengono, gli girano intorno finché il pinguino non riesce a camminare da solo. Questo è un po’ quello che il cast ha fatto per me». Così Perry per anni aveva alternato riabilitazione e riprese. L’unica stagione in cui era stato sobrio per tutto il tempo era stata la nona. «E indovinate in quale fui nominato come attore migliore? Forse avrebbe dovuto dirmi qualcosa». La dipendenza di Matthew Perry dall’alcol si era aggravato nel 1997 dopo un incidente su una moto d’acqua: a causa di alcune ferite molto dolorose, cominciò a far uso di un antidolorifico oppiaceo, il Vicodin, e in alcuni momenti arrivò a prenderne fino a 55 pastiglie al giorno.

Nel 2018, quando aveva 49 anni, l’attore subì una perforazione gastrointestinale provocata proprio dall’uso estremo di oppiacei. «Dopo due settimane di coma, ai miei familiari dissero che avevo solo il due per cento di possibilità di sopravvivere». Ce la fece, ma mentre si riprendeva e il colon guariva, l’attore dovette usare una sacca per colostomia. Nei mesi scorsi, quando appariva in pubblico spettinato e sovrappeso, aveva fatto temere di essere ricaduto nelle vecchie abitudini. All’inizio della settimana, era stato avvistato in un ristorante di Los Angeles, The Apple Pan, uscito a pranzo con un’amica, scarmigliato e con un’aria abbattuta. Curioso che l’ultimo post su Instagram lo mostri immerso proprio in una vasca da idromassaggio: si rilassa di notte, con indosso le cuffie per la musica, mentre guarda la città. Accanto una didascalia. «Oh, quindi l’acqua calda che turbina ti fa sentire bene? Io sono Mattman»: un riferimento che i follower hanno subito collegato al suo desiderio di interpretare Batman, il supereroe immaginario.

Estratto dell’articolo di Renato Franco per corriere.it domenica 29 ottobre 2023.

«Salve, il mio nome è Matthew, anche se potreste conoscermi con un altro nome. I miei amici mi chiamano Matty. E dovrei essere morto». È l’incipit di Friends, amanti e la Cosa Terribile (La nave di Teseo) , l’autobiografia in cui Matthew Perry — morto sabato 28 ottobre — si levava la maschera dell’attore di successo e affrontava la Cosa Terribile, ovvero la sua dipendenza, dall’alcol e dalle droghe. Una «dieta mortale» fatta di vodka (una bottiglia a sera), cocaina, oppiacei (a un certo punto era arrivato a prendere 55 pasticche di Vicodin al giorno), benzodiazepine (ovvero Xanax e tutti i medicinali ad azione ansiolitica). 

Matthew Perry — una popolarità globale grazie al ruolo di Chandler in Friends — raccontava come la sua vita in realtà fosse stata un inferno, sempre sull’orlo dell’abisso. Perché dietro allo sfarzo delle luci di Hollywood spesso aleggiano le ombre lunghe di una (de)pressione che tanti non riescono a sopportare.

L’abbandono del padre quando era piccolo, l’arrivo a Hollywood, le donne (tra cui Julia Roberts, lasciata perché «avevo troppa paura di essere lasciato io»), i 15 tentativi di riabilitazione, le 14 operazioni chirurgiche al colon. Quando aveva 49 anni l’attore era stato a un passo dalla morte. «Sono vivo per miracolo — disse —. Volevo condividere la mia storia quando ero sicuro di aver lasciato alle spalle il mio lato oscuro, lontano dai mali dell’alcolismo e della dipendenza».

Era stato anche in coma per due settimane e poi altri cinque mesi in ospedale: quando fu ricoverato i medici dissero alla famiglia che aveva solo il 2% di speranze di sopravvivere: «Mi attaccarono a un macchinario che respira al tuo posto. È soprannominato Ave Maria perché nessuno sopravvive. Quella notte cinque persone erano state attaccate a quella macchina: sono morte in quattro, mentre io sono sopravvissuto: perché? Perché proprio io?».

[…] quando iniziò a recitare in Friends, a 24 anni, la sua dipendenza dall’alcol era agli inizi. «In qualche modo potevo gestirla, ma a 34 anni ero davvero nei guai. Non sapevo come smettere». I suoi compagni di cast erano stati «comprensivi e pazienti; è come in natura per i pinguini: quando uno di loro è malato o ferito, viene circondato e sostenuto dagli altri; gli girano intorno finché quel pinguino non riesce a camminare da solo. È un po’ quello che ha fatto il cast per me».

[…] 

A un certo punto Matthew Perry era talmente sprofondato nell’abisso che qualunque sostanza non gli faceva più effetto: «Che io smetta di bere e fare uso di oppiacei non ha nulla a che vedere con la forza, comunque. Se qualcuno venisse a casa mia e mi dicesse “Eccoti un centinaio di milligrammi di Oxy”, gli risponderei che non bastano». 

Nonostante tutto non perdeva l’ironia. Nel libro raccontava che il padre una sera, dopo una sbronza colossale, andò a farsi una passeggiata e decise che non avrebbe più preso in mano una bottiglia: «Scusami? Sei andato a farti una camminata e hai smesso di bere? Io ho speso più di 7 milioni di dollari cercando di diventare sobrio. Ho partecipato a 6mila incontri di Alcolisti Anonimi. Sono stato in rehab 15 volte. Sono stato in ospedale psichiatrico, sono andato in terapia due volte a settimana per trent’anni, sono stato in punto di morte. E tu sei andato a farti una cazzo di camminata?».

La sua è stata la fragilissima vita di un uomo animato da un cieco e umanissimo desiderio di riconoscimento che lo ha spinto verso la fama e allo stesso tempo verso un immenso vuoto interiore, che non poteva essere colmato nemmeno dalla realizzazione dei suoi sogni più grandi. La dipendenza sempre accanto, come una pistola perennemente carica, che può sparare in qualunque momento: «Robert Downey Jr., parlando della sua dipendenza, una volta disse: “È come avere una pistola in bocca con il mio dito sul grilletto, e mi piace il sapore del metallo”. Capivo cosa volesse dire; lo comprendevo. Persino nei giorni buoni, quando sono sobrio e guardo al futuro, è sempre con me. C’è sempre una pistola».Estratto dell’articolo di Davide Gorni per corriere.it domenica 29 ottobre 2023.

Matthew Perry, Chandler Bing nella popolare serie Friends, è morto all’età di 54 anni. L’attore statunitense, è stato trovato morto nella sua abitazione nell’area di Los Angeles, nella jacuzzi che aveva in casa lasciando pensare che sia annegato. Secondo indiscrezioni nella casa non sono state trovate droghe. 

Perry, sempre secondo le prime indiscrezioni, aveva fatto attività fisica al mattino, prima di morire. Sarebbe tornato a casa dopo due ore di pickleball (uno sport con le racchette, simile al tennis, ma giocato su un campo più piccolo) e avrebbe mandato il suo assistente a fare delle commissioni. L'uomo, una volta rientrato, ha chiamato il numero di emergenza 911, intorno alle 16 ora locale, perché Perry non rispondeva. 

Poco dopo le 19, mentre gli elicotteri giravano sopra la casa che si trova su una collina con vista sull'Oceano Pacifico, sono arrivati la madre dell'attore, Suzanne Marie Langford, e suo marito, il conduttore televisivo Keith Morrison. 

[…] 

La dipendenza da farmaci e alcol

Matthew Perry era celebre in tutto il mondo per il ruolo nella sitcom di successo degli anni ‘90, andata in onda per 10 stagioni e nella quale lui aveva preso parte a tutti i 234 episodi. […] aveva raccontato di recente le sue difficoltà personali, in particolare la sua dipendenza da farmaci e alcol: un libro di memorie di una bellezza straziante («Friends, Lovers and the Big Terrible Thing», edito in Italia da La nave di Teseo con il titolo «Friends, amanti e la Cosa Terribile») in cui aveva condiviso dettagli scioccanti sulla sua vita e sui problemi passati. 

Figlio di genitori separati (il padre aveva abbandonato la madre quando era bambino), aveva imparato presto a usare l’umorismo per attirare l’attenzione della mamma. Nato nel Massachusetts nel 1969, Perry è cresciuto a Ottawa, in Canada, dove ha frequentato la scuola elementare con Justin Trudeau, l'attuale primo ministro canadese. 

A 14 anni, il primo incontro con l’alcool, che su di lui «aveva un effetto completamente diverso» rispetto agli amici. Mentre loro avevano vomitato, lui «sdraiato sull’erba» aveva percepito una sensazione di benessere: «Nulla mi dava fastidio». Da quel momento, aveva cominciato a bere e non aveva mai smesso. 

Quando aveva ottenuto il ruolo di Chandler Bing, era già un alcolizzato. Nel 2016, in un'intervista aveva detto di non ricordare di aver girato tre stagioni di Friends. Anche se Perry cercava di nascondere la sua condizione, i compagni di cast (Jennifer Aniston, in particolare) erano stati «comprensivi e pazienti». 

«È come i pinguini: quando uno è malato o è ferito, gli altri lo circondano e lo sostengono, gli girano intorno finché il pinguino non riesce a camminare da solo. Questo è un po’ quello che il cast ha fatto per me». Così Perry per anni aveva alternato riabilitazione e riprese. L’unica stagione in cui era stato sobrio per tutto il tempo era stata la nona. «E indovinate in quale fui nominato come attore migliore? Forse avrebbe dovuto dirmi qualcosa». 

La dipendenza di Matthew Perry dall’alcol si era aggravata nel 1997 dopo un incidente su una moto d’acqua: a causa di alcune ferite molto dolorose, cominciò a far uso di un antidolorifico oppiaceo, il Vicodin, e in alcuni momenti arrivò a prenderne fino a 55 pastiglie al giorno.

Nel 2013 Perry ha rivelato a «People» di essere diventato sobrio solo a 43 anni. L'anno precedente aveva trasformato la sua casa sulla spiaggia di Malibu in una struttura di «vita sobria» per ex alcolisti chiamata The Perry House e da allora ha cercato di dedicare tempo e risorse ad aiutare altri tossicodipendenti. […] 

La perforazione gastrointestinale

Nel 2018, quando aveva 49 anni, l’attore subì una perforazione gastrointestinale provocata proprio dall’uso estremo di oppiacei. «Dopo due settimane di coma, ai miei familiari dissero che avevo solo il due per cento di possibilità di sopravvivere». Ce la fece, ma mentre si riprendeva e il colon guariva, l’attore dovette usare una sacca per colostomia. Nei mesi scorsi, quando appariva in pubblico spettinato e sovrappeso, aveva fatto temere di essere ricaduto nelle vecchie abitudini. 

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All’inizio della settimana, era stato avvistato in un ristorante di Los Angeles, The Apple Pan, uscito a pranzo con un’amica, scarmigliato e con un’aria abbattuta. Curioso che l’ultimo post su Instagram lo mostri immerso proprio in una vasca da idromassaggio: si rilassa di notte, con indosso le cuffie per la musica, mentre guarda la città. Accanto una didascalia. «Oh, quindi l’acqua calda che turbina ti fa sentire bene? Io sono Mattman»: un riferimento che i follower hanno subito collegato al suo desiderio di interpretare Batman, il supereroe immaginario.

Estratto da corriere.it domenica 29 ottobre 2023.

Uno choc non solo per i fan, ma anche per amici e colleghi. Sono tante le reazioni alla morte di Matthew Perry , il popolare Chandler Bing della serie Friends, trovato morto nella sua abitazione a Los Angeles. 

A partire dall’account ufficiale della serie che lo ha reso famoso: «Siamo devastati nell’apprendere della scomparsa di Matthew Perry. È stato un vero dono per tutti noi. Il nostro pensiero va alla sua famiglia, ai suoi cari e a tutti i suoi fan». 

Ancora in silenzio gli attori del cast: Jennifer Aniston (Rachel), Courteney Cox (Monica, moglie di Chandler nella serie), David Schwimmer (Ross), Lisa Kudrow (Phoebe), Matt LeBlanc (Joey). 

L’attrice Shannen Doherty , nota per un'altra serie molto seguita in quegli anni, Beverly Hills 90210, su Instagram ha lasciato un lungo ricordo: «Eravamo una gang già da molto tempo. Siamo cresciuti tutti insieme andando a Formosa, ridendo costantemente. Matt ha scherzato con delle ragazze al bar. Ci siamo sempre divertiti e ci siamo sostenuti a vicenda. Ci trovavi sempre tutti insieme in uno stand a parlare nella nostra lingua inventata. E sì, Matt ha sempre avuto un grande senso dell’umorismo».

Ricorda ancora Doherty: «Matt e io avevamo un appuntamento ed era il giorno di San Valentino. Voleva prenotare in un ristorante a Malibu ma non poteva, quindi mio padre ha preso la prenotazione per lui. Siamo andati e lui ha parlato dell’indole comunicativa irlandese di mio padre per gran parte della notte. La nostra amicizia durava da molto tempo. Una vita davvero. So che molti stanno soffrendo, specialmente la nostra piccola banda. Mancherà a molti e sicuramente a noi. Potrei essere più poetica o dire le cose meglio, ma in questo momento prevalgono lo choc e la tristezza». 

[...]

Un’altra attrice, Mira Sorvino, scrive sui social: «Oh no!!! Matthew Perry!! Tu, dolce anima tormentata!! Possa trovare pace e felicità in Paradiso, facendo ridere tutti con il tuo spirito unico!!!». 

[...] 

E la collega Meredith Salenger: «Oh no, no, no, no no! Il mio cuore si spezza. Matthew e io ci conoscevamo da quando avevamo 16 anni. Sono senza parole. Riposa in pace dolcezza».

[…] 

Il premier canadese Justin Trudeau, con cui Perry era andato a scuola, a Ottawa, in Canada, ha scritto: «La scomparsa di Matthew Perry è scioccante e triste. Non dimenticherò mai i giochi che facevamo nel cortile della scuola, e so che le persone in tutto il mondo non dimenticheranno mai la gioia che portava loro. Grazie per tutte le risate, Matthew. Eri amato e ci mancherai». 

«Siamo sconvolti dalla scomparsa del nostro caro amico Matthew Perry — ha scritto in un comunicato la Warner Bros Television Group, che ha prodotto Friends — Matthew era un attore incredibilmente dotato e una parte indelebile della famiglia del Warner. L'impatto del suo genio comico si è sentito in tutto il mondo e la sua eredità continuerà a vivere nei cuori di molti. Questo è un giorno straziante e mandiamo il nostro affetto alla sua famiglia, ai suoi cari e a tutti i suoi devoti fan».

Matthew Perry è morto a 54 anni: addio a Chandler di 'Friends'. Il Tempo il 29 ottobre 2023

Addio a Matthew Perry, l’attore che aveva conquistato i cuori di milioni di persone nel mondo per il ruolo di Chandler in ‘Friends’. La star è scomparsa all’età di 54 anni, apparentemente annegato in una vasca da idromassaggio. La notizia è stata data dal sito di gossip Tmz e dal LA Times, che sottolineano come il suo ultimo post su Instagram fosse proprio in una vasca da bagno. L’attore è stato ritrovato nella sua casa di Los Angeles dai soccorritori, chiamati per una crisi cardiaca. Sul posto non sarebbero state trovate droga né tracce di un gioco erotico finito male. Perry era celebre in tutto il mondo per il ruolo nella sitcom di successo degli anni ‘90, andata in onda per 10 stagioni e nella quale lui aveva preso parte a tutti i 234 episodi. Affabile, ottimista e pronto alla battuta sullo schermo, Matthew aveva raccontato di recente le sue difficoltà personali, in particolare la sua dipendenza da farmaci e alcol: un libro di memorie di una bellezza straziante («Friends, Lovers and the Big Terrible Thing») in cui aveva condiviso dettagli scioccanti sulla sua vita e sui problemi passati. 

Figlio di genitori separati (il padre aveva abbandonato la madre quando era bambino), aveva imparato presto a usare l’umorismo per attirare l’attenzione della mamma. A 14 anni, il primo incontro con l’alcool e aver compreso che su di lui «aveva un effetto completamente diverso» rispetto agli amici. Mentre loro avevano vomitato, lui «sdraiato sull’erba» aveva percepito una sensazione di benessere: «Nulla mi dava fastidio». Da quel momento, aveva cominciato a bere e non aveva mai smesso. Quando aveva ottenuto il ruolo di Chandler Bing, era già un alcolizzato. Anche se Perry cercava di nascondere la sua condizione, i compagni di cast (Jennifer Aniston, in particolare) erano stati «comprensivi e pazienti. È come i pinguini, quando uno è malato o è ferito, gli altri lo circondano e lo sostengono, gli girano intorno finché il pinguino non riesce a camminare da solo. Questo è un pò quello che il cast ha fatto per me». Così Perry per anni aveva alternato riabilitazione e riprese. L’unica stagione in cui era stato sobrio per tutto il tempo era stata la nona. «E indovinate in quale fui nominato come attore migliore? Forse avrebbe dovuto dirmi qualcosa».  

La dipendenza di Matthew Perry dall’alcol si era aggravato nel 1997 dopo un incidente su una moto d’acqua: a causa di alcune ferite molto dolorose, cominciò a far uso di un antidolorifico oppiaceo, il Vicodin, e in alcuni momenti arrivò a prenderne fino a 55 pastiglie al giorno. Nel 2018, quando aveva 49 anni, l’attore subì una perforazione gastrointestinale provocata proprio dall’uso estremo di oppiacei. «Dopo due settimane di coma, ai miei familiari dissero che avevo solo il due per cento di possibilità di sopravvivere». Ce la fece, ma mentre si riprendeva e il colon guariva, l’attore dovette usare una sacca per colostomia e in quel lungo periodo, quasi un anno, si svegliò coperto delle sue stesse feci «da 50 a 60» volte. Nei mesi scorsi, quando appariva in pubblico spettinato e sovrappeso, aveva fatto temere di essere ricaduto nelle vecchie abitudini. Il mondo dice addio ad un’icona della tv.

Estratto dell'articolo di Tiziana Panettieri per “il Messaggero” lunedì 30 ottobre 2023.

[…] Matthew Perry, il Chandler Bing di "Friends", trovato morto ieri mattina a 54 anni nella jacuzzi della sua casa a Los Angeles, è l'ultimo di un elenco di attori dalla doppia vita, di cui una stroncata prematuramente, e l'altra che prosegue ancora nell'immaginario collettivo. 

A cavallo tra gli Anni '80 e '90 Jonathan Brandis era un astro nascente della tv e del cinema. Furono numerose le sue partecipazioni a serie dell'epoca come La signora in giallo e la sitcom Gli amici di papà, ma il suo volto è rimasto quello del balbuziente Bill Denbrough della miniserie It del 1990 tratta dal romanzo di Stephen King. Dopo questo ruolo, più nulla di rilevante. Il declino della sua carriera lo portò alla depressione e al suicidio nel 2003 a soli 27 anni.

Invece di anni non ne aveva neanche 20 Sawyer Sweeten, Geoffrey della sitcom "Tutti amano Raymond". Nel 2015 la babystar, che recitava nella serie in coppia con il fratello gemello Sullivan, si sparò un colpo alla testa nella veranda della casa dei suoi genitori in Texas. 

Una tragedia che non ha ancora trovato una spiegazione tale da scrivere una degna per quanto triste parola fine riguarda la morte di Johnny Lewis. Attore noto per i ruoli di Kip Epps in Sons of Anarchy e Dennis in The O.C, fu coinvolto in un incidente in moto nel 2011. Dai primi esami non emersero conseguenze, tuttavia cominciò a mostrare comportamenti illogici, bizzarri, diventò violento e incapace di prendere decisioni. I medici attribuirono questi sintomi all'abuso di droghe, ma i test non rivelarono mai nulla. Dopo tre arresti, nel 2012 il suo corpo esanime fu trovato nella sua abitazione fuori Los Angeles e la sua morte classificata come accidentale. Ancora oggi il motivo del suo cambiamento non ha trovato risposta soddisfacente.

Maledizioni vere e proprie invece si sono abbattute su "Il mio amico Arnold" e "Glee". La prima, sitcom di grande fama negli Anni 80, vide molti membri del cast colpiti da grande sfortuna, ma il caso più eclatante è quello di Dana Plato, interprete di Kimberly, con cui il destino si accanì anche dopo la scomparsa. L'attrice morì per un'overdose a soli 35 anni dopo essere stata anche dipendente dall'alcol, mentre nel 2010 suo figlio, allora 21enne, si uccise credendosi la causa di tutti i mali della madre.

Il caso di "Glee" è ancora una ferita aperta per il mondo dello spettacolo. Tre morti violente e tutte nel giro di pochi anni, a partire da Mark Salling, nella serie Noah Puckerman, che nel 2013 si impiccò a 35 anni un mese prima di ricevere la sentenza per l'accusa di possesso di materiale pedopornografico. Il 13 luglio 2013 toccò a Cory Monteith (Finn Hudson, uno dei protagonisti) morto a 31 anni per un mix letale di eroina e alcol da cui era dipendente sin dall'adolescenza. Una maledizione resa ancora più macabra dal ritrovamento del corpo di Naya Rivera lo stesso giorno, ma nel 2020. L'attrice, che vestiva i panni di Santana Lopez, aveva 33 anni e fu dichiarata persona scomparsa l'8 luglio.

[…]

Morto Matthew Perry, star di ‘Friends’. L’attore aveva 54 anni. Massimo Basile su La Repubblica il 29 ottobre 2023

L’hanno trovato morto nel pomeriggio di sabato nella vasca Jacuzzi della sua casa a Los Angeles. Se ne è andato così, a 54 anni, probabilmente annegato, forse dopo un arresto cardiaco, Matthew Perry, attore che ha legato il suo volto per dieci stagioni alla sitcom tv “Friends”, serie culto tra il 1994 e il 2004 incentrata sulle vicende di un gruppo di sei amici a Manhattan. La polizia ha detto di non aver trovato droga accanto al corpo. La precisazione è legata alla vicende che hanno attraversato tutta la vita dell’attore, alle prese, fin da ragazzino, con l’alcolismo e poi, da adulto, con la dipendenza dagli oppioidi, un mix che ha finito per accelerare il declino di Perry al punto che due anni fa, per la famosa “Reunion” di Friends, qualcuno aveva pensato che sarebbe stato doloroso far vedere al pubblico di appassionati l’ultima versione del Chandler Bing della serie. Alla fine aveva partecipato assieme a Jennifer Aniston, Courteney Cox, Lisa Kudrow, Matt LeBlanc e David Schwimmer.

In un memoriale pubblicato l’anno scorso, “Friends, Lovers, and the Big Terrible Thing”, l’attore aveva raccontato tutti i problemi che aveva incontrato, inclusi quelli legati alla difficoltà di controllare il peso durante la lavorazione della sitcom. A 14 anni aveva cominciato a bere. A diciotto si considerava un bevitore accanito. Nella sua vita ha partecipato a seimila riunioni dell’Anonima alcolisti. È stato quindici volte in centri di riabilitazione solo per l’alcol. Sessantacinque volte è stato disintossicato e ha speso tra i 7 e i 9 milioni di dollari per sottoporsi a cure e tornare sobrio. Gli oppioidi erano l’altro buco nero. Dopo la seconda stagione di “Friends”, a metà anni ’90, era andato a Las Vegas per girare un film, quando aveva avuto un incidente. Per tenere a bada il dolore gli venne prescritto il Vicodin. Da quel momento era diventato il suo farmaco. Era talmente dipendente dall’oppioide da prendere 55 pillole al giorno. Fingeva emicranie e di aver bisogno di esami speciali, per farsi prescrivere il Vicodin. Andava la domenica mattina a visitare le case in vendita perché sperava di trovare nei bagni tutti i farmaci conservati negli armadietti.

Tra le prove superate, una perforazione gastrointestinale causata dal consumo di oppio, che nel 2018 lo aveva costretto a un intervento chirurgico d’emergenza. Era rimasto in coma per due settimane, e ricoverato per cinque mesi. Era stato messo in una stanza attrezzata con altri quattro pazienti nelle sue stesse condizioni: gli altri erano morti, lui si era salvato, ma era stato costretto a girare per nove mesi con una sacca attaccata alla parete addominale. “Sono stato fortunato - aveva confessato - perché mi è andata bene, adesso non sarei qui a parlare. I dottori mi avevano dato il 2 per cento di possibilità di sopravvivere”. Sobrio da un anno, Perry aveva lasciato disorientati i suoi fans, perché era apparso in difficoltà nel parlare.

Tra un problema e l’altro ha continuato a fare l’attore. Aveva partecipato a “Beverly Hills 90210”, nella prima stagione, poi con la amica Aniston aveva girato una serie di sketch promozionali per il sistema Microsoft Windows 95. Ha recitato in “Mela e Tequila” con Salma Hayek, Dylan McDermot (“Appuntamento a tre”) e Bruce Willis (“Fbi: protezione testimoni” 1 e 2). Non era solo un attore comico, ma drammatico. Aveva interpretato con successo il consigliere della Casa Bianca Joe Quincy in “West Wing - Tutti gli uomini del presidente”. Perry non si era mai sposato, ma aveva avuto un paio d’anni fa una breve relazione con la producer Molly Hurwitz. In precedenza era stato legato all’attrice Lizzy Caplan.

Muore a 54 anni Matthew Perry, Chandler in Friends. "Il cadavere trovato nella sua jacuzzi". Gianluca Lo Nostro il 29 Ottobre 2023 su Il Giornale.

Si è spento nel pomeriggio di ieri nella sua abitazione di Los Angeles l'attore famoso per aver interpretato "Chandler Bing" nella sitcom Friends. Era da poco rientrato dopo aver fatto attivitià fisica. Aveva 54 anni

È morto l'attore statunitense Matthew Perry, il "Chandler" della celebre sitcom Friends. Il suo corpo è stato trovato senza vita nella sua abitazione a Los Angeles. Non si conoscono ancora le cause del decesso, ma secondo alcune indiscrezioni riportate dalla stampa americana Perry sarebbe annegato nella sua jacuzzi dopo essere rientrato da una sessione di due ore di pickleball, sport simile al tennis e al padel e molto comune negli Stati Uniti. I soccorsi sono stati allertati verso le quattro del pomeriggio (ora locale). Subito dopo, una pattuglia della polizia di Los Angeles del reparto omicidi è stata chiamata a indagare sulla morte per arresto cardiaco di un uomo di circa 50 anni. Il Los Angeles Times scrive che non sono state trovate droghe sul posto.

Matthew Perry era nato il 19 agosto 1969 a Williamstown, in Massachusetts, ma era cresciuto a Montreal, in Canada. Figlio di genitori separati, sua madre Suzanne Marie Langford è stata portavoce del primo ministro canadese Pierre Trudeau, padre dell'attuale capo del governo di Ottawa Justin Trudeau. La sua carriera è iniziata nella seconda metà degli anni Ottanta con il suo trasferimento definitivo in California, dove riesce a ritagliarsi ruoli minori in alcune serie importanti come Baby Sitter e Beverly Hills 90210.

La svolta arriva nel 1994, quando viene scelto da Nbc per dare il volto a "Chandler Bing", uno dei protagonisti di Friends, dove compare in tutti gli episodi fino all'ultima puntata nel 2004. Ha recitato anche in lungometraggi quali Fbi: Protezione testimoni, al fianco di Bruce Willis, Terapia d'amore e 17 Again - Ritorno al liceo, il suo ultimo film uscito nel 2009. L'ultima apparizione sul piccolo schermo risale al 2021, quando insieme agli altri membri del cast di Friends partecipa allo speciale Friends: The Reunion.

La vita di Perry è stata segnata dalla dipendenza da alcol e droghe, in particolare il Vicodin, sostanza che nel 1997 gli venne prescritta a causa di un incidente a bordo di una moto d'acqua. Più volte per questo motivo è andato in riabilitazione: le spese mediche per disintossicarsi, ha rivelato più tardi, sono arrivate a costargli circa 7 milioni di dollari. Così, in età più adulta, decide di raccontare questo periodo buio nel libro di memorie Friends, amanti e la cosa terribile pubblicato nel 2022. Nella sua biografia, Perry scrive di aver iniziato a bere a 14 anni, ma di essersi accorto di essere diventato alcolizzato a 21. Nel 2018 è stato ricoverato per cinque mesi per una perforazione gastrointestinale. "Dopo due settimane di coma, ai miei familiari dissero che avevo solo il due per cento di possibilità di sopravvivere", rivelò in quell'occasione.

Di recente la star di Friends si presentava un po' trasandato e sovrappeso, un aspetto che ha fatto preoccupare i fan. All'inizio della settimana, era stato visto in un ristorante di Los Angeles, The Apple Pan, uscito a pranzo con un'amica, scarmigliato e con un'aria abbattuta. Nel suo ultimo post condiviso su Instagram, Perry sembrava rilassarsi con le cuffie nel cuore della notte losangelina in una vasca da idromassaggio, forse la stessa dove sarebbe morto. E con quest'ironica didascalia: "Oh, quindi l'acqua calda che turbina ti fa sentire bene? Io sono Mattman": un riferimento che i follower hanno subito collegato al suo desiderio di interpretare Batman, il supereroe dei fumetti Dc.

Matthew Perry è morto: il tragico sospetto sulla star di "Friends". Libero Quotidiano il 29 ottobre 2023

Lutto nel mondo del cinema e della tv. Matthew Perry è morto all'età di 54 anni. L'attore, star della celebre serie "Friends" è stato trovato senza vita in una  vasca da idromassaggio. La notizia è stata riportata dal sito di gossip Tmz e dal LA Times. L'attore è stato ritrovato nella sua casa di Los Angeles da soccorritori chiamati per una crisi cardiaca. Dopo i primi rilievi sul posto, in casa dell'attore non sono stati ritrovate sostanze sospette e nemmeno tracce di un gioco erotico finito nel peggiore dei modi. Matthew Perry era famoso in tutto il mondo per il ruolo nella sitcom di successo degli anni '90, andata in onda per 10 stagioni.

Lui aveva preso parte a tutti gli episodi. Recentemente Perry aveva raccontato di recente le sue difficoltà personali, in particolare la sua dipendenza da farmaci e alcol. In un libro di memorie "Friends, Lovers and the Big Terrible Thing" aveva rivelato dettagli scioccanti sulla sua vita e sui problemi del passato. Aveva partecipato a “Beverly Hills 90210”, nella prima stagione.

Ha recitato in “Mela e Tequila” con Salma Hayek, Dylan McDermot (“Appuntamento a tre”) e Bruce Willis (“Fbi: protezione testimoni” 1 e 2). Non era solo un attore comico, ma drammatico. Aveva interpretato con successo il consigliere della Casa Bianca Joe Quincy in “West Wing - Tutti gli uomini del presidente”. 

Matthew Perry, la rivelazione: "Cosa ha fatto due ore prima di morire".  Libero Quotidiano il 29 ottobre 2023

Adesso sulla morte di Matthew Perry arrivano voci e dettagli che cercano di spiegare la prematura scomparsa dell'attore di "Friends". Perry è stato trovato senza vita dai soccorritori nella vasca da bagno. A quanto pare, secondo quanto avrebbe riferito una persona molto vicina all'attore, Perry avrebbe disputato una partita a pickleball. Poi dopo il rientro a casa avrebbe chiesto al suo assistente di sbrigare alcune commissioni. Poi il bagno e la morte improvvisa. "Abbiamo ricevuto conferme che si tratterebbe di morte per annegamento. Il corpo senza vita è stato trovato nella sua jacuzzi", hanno detto gli investigatori.

Un amico dell'attore avrebbe raccontato agli investigatori che Perry avrebbe giocato a pickleball per circa due ore. Poi il dramma. Quando l'assistente è tornato a casa, Perry non avrebbe risposto al citofono.

Da qui sarebbe scattato l'allarme. I soccorsi purtroppo non sono serviti a nulla. La polizia comunque, secondo quanto filtra da ambienti investigativi, porterà avanti un'indagine per chiarire le cause del decesso. Intanto i fan di "Friends" stanno invadendo i social con messaggi di cordoglio. Il mondo di Hollywood è sotto choc e nessuno si aspettava la morte di Perry. Recentemente l'attore aveva parlato dei suoi problemi legati all'alcolismo e agli oppioidi. Va sottolineato che all'interno della sua abitazione non sono stati rinvenute sostanze stupefacenti o altri elementi che possano far pensare a una morte legata all'assunzione di qualcosa. Solo un'autopsia può risolvere il mistero sulla morte di Perry.Ma per il momento l'ipotesi principale è quella di un malore.  

La cosa terribile. Il talento di Matthew Perry, e la sua incapacità di vivere. Guia Soncini su L'Inkiesta il 30 Ottobre 2023

È una consolazione minuscola ma importante esserci accorti mentre era ancora in vita che l’attore di Friends era molto bravo, anche come scrittore

C’è un momento, in “Friends, amanti e la Cosa Terribile”, in cui Matthew Perry racconta di quando s’è reso conto che no, il mondo non ce l’aveva con lui: il mondo di lui se ne fotteva. Il mondo inteso come universo, come una qualche divinità, come qualunque destino fosse quello per cui doveva soffrire.

Il mondo inteso come esseri umani, noialtri, Matthew Perry credevamo di conoscerlo, credevamo fosse uno di casa, e ora crediamo che ci sia morto un amico. Uno che, finché l’anno scorso non ha scritto un’autobiografia, neppure avevamo idea di quanto fosse stato male – ma è il secolo in cui pensiamo d’essere amici della gente che accende il telefono per farci vedere la stanza d’albergo in cui dorme a scrocco, figurati se non è normale che ci pensassimo amici di gente che ci entrava in casa una volta a settimana.

Lui, nel libro, guardava le stagioni di “Friends” e diagnosticava le sue dipendenze, qui sono grasso ed è alcol, qui sono magro e sono anfetamine, e noialtri capivamo una volta di più che non c’è come illudersi di conoscere la gente che non conosciamo per sbagliarsi: chi l’avrebbe detto che dietro quelle risate registrate c’era l’inferno (erano anche anni di minor dietro le quinte perpetuo: leggevamo un articolo ogni tanto, sulle vite dei famosi, mica il minuto per minuto delle loro cartelle cliniche).

«Devi diventare famoso, per sapere che diventare famoso non è la risposta», dice Perry a un altro punto di quel libro favoloso del quale non ripeterò il titolo italiano perché mi fa venire l’insonnia che La nave di Teseo non abbia messo la virgola dopo «amanti» (sarebbe stato brutto lo stesso, essendosi perso il gioco tra amici e “Friends”, ma almeno non sarebbe stato sgrammaticato: scusali, Matthew).

Dovevi diventare famoso negli anni in cui non lo eravamo tutti, intendeva, perché la fama di Matthew Perry, nato nel 1969, era come la fama di Joan Collins, nata nel 1933: non c’entrava niente con la celebrità come la intendiamo oggi. Oggi che siamo appunto tutti famosi, oggi che i numeri non vogliono dire più niente e se chiudono un podcast i quattro affezionati protestano convinti d’esser quattro milioni, e i produttori mica possono dire «non lo ascoltava nessuno, come quasi tutto ciò che facciamo», oggi che le decine di milioni di spettatori della tv di fine Novecento non esistono più.

Due settimane fa sono andata a teatro a vedere Joan Collins che raccontava la sua vita, e prima di quel pomeriggio non mi ero mai resa conto della sua carriera. Joan Collins ha iniziato a lavorare all’inizio degli anni Cinquanta, ha condiviso film con chiunque, da Paul Newman in giù, eppure la ragione per cui nel 2023 riempie un teatro londinese è che tra il 1981 e il 1989 è stata Alexis Carrington in “Dynasty”: la potenza con cui hanno fatto parte delle nostre vite coloro che ci entravano una volta a settimana quando guardavamo tutti la stessa cosa alla stessa ora seduti su divani analoghi, quella roba lì chi è famoso nel nostro cellulare se la sogna.

Ma forse bisogna parlare di attori. L’altro giorno guardavo la canissima performance d’una persona che m’è simpatica, e osservavo che gli attori sono forse gli unici che non m’importa sappiano fare il loro lavoro. Volete dirmi che voi invece stimate meno qualcuno perché non sa fare in maniera convincente un lavoro che consiste nel fare le facce? Dai, su.

Sabato notte, quando mi sono svegliata a un’ora che non sapevo più che ora fosse per colpa dell’ora solare, e ho preso il telefono e ho scoperto che era morto Matthew Perry, ho visto anche un pezzetto di Judi Dench al miglior talk show del mondo.

Judi Dench spero di non dovervi spiegare chi sia, il miglior programma di interviste del mondo è quello di Graham Norton, al quale l’ottantottenne Dench è andata a piazzare il proprio libro, che è una conversazione su Shakespeare nella quale Dench è più brava di me a spiegare i limiti del proprio mestiere. Come s’interpreta Titania nel “Sogno di una notte di mezzanotte”, chiede quello con cui parla, e Dench dice che non si fa: si lascia che il testo faccia il lavoro per te, e si spera d’avere la faccia giusta.

In tv, Norton le chiede di fare il juke-box di Shakespeare: facci uno Shakespeare, uno qualunque. Judi Dench chiede se vada bene un sonetto, e io tremo. Un sonetto sono quattordici versi (annuite come se l’aveste sempre saputo), e quattordici versi sono molto più dell’attenzione che è capace d’avere il pubblico d’oggi per una cosa che non cada nelle categorie dolenza esistenziale o aneddoto buffo (nella stessa puntata, Arnold Schwarzenegger raccontava che l’insegnante incaricato di togliere l’accento austriaco al suo inglese era morto, e quindi non poteva chiedergli i soldi indietro).

E invece Judi Dench recita un intero sonetto – il 29, che se siete shakespearologi obietterete caschi un po’ nella categoria della dolenza esistenziale a lieto fine – e lo studio televisivo ammutolisce incantato, e sì è merito di Shakespeare, ma forse c’entra anche quella cosa lì che sanno fare quelli molto bravi a fare le facce.

Il grande non detto di “Friends”, la sitcom più famosa tra quelle di cui siamo stati coevi, è che era scritta malissimo. È che veniva salvata da quelli che facevano le facce. E, di quelli che facevano le facce, il più bravo era indubbiamente Matthew Perry.

Sono contenta che abbia fatto in tempo a scrivere quel libro, e a farci scoprire che era anche uno scrittore, e un essere umano interessante (cosa che gli attori sono raramente: alle persone interessanti viene in mente di guadagnarsi da vivere facendo le facce solo in presenza d’un consistente disturbo mentale, e questo vale nei secoli, da Vittorio Gassman a Matthew Perry).

Non poteva che finire così, con una morte del cazzo e i giornali americani che possono dire che era destino perché è morto affogato e nella sua ultima foto su Instagram era in un idromassaggio (una vita a pensare che il guaio fossero i romanzi in cui l’infanzia era destino, solo perché non avevo ancora visto le cronache in cui le tue pagine social sono destino).

Non poteva che finire così, chiunque abbia letto quel libro lo sa, perché non si vive una vita in cui si muore così tanto, così spesso, si è così vivi-per-miracolo ma sul serio, non come le tiktoker che cercano di farsi compatire spacciando per «ci è mancato poco» una sbucciatura al ginocchio, non si vive quella vita lì per poi morire sereni a novant’anni.

Nella sua autobiografia, Perry raccontava cose atroci che non siamo più abituati a leggere, perché per la fama di oggi basta appunto il ginocchio sbucciato, perché chiunque abbia un io narrante ci tiene a fargli fare bella figura, mica a raccontare che si rompeva il sacchetto della colostomia e si svegliava coperto di merda. Perry raccontava la sua incapacità di vivere, l’anno scorso, con lo stesso vigore e lo stesso esito con cui, trent’anni fa, salvava le puntate d’una sitcom scritta male facendola sembrare un capolavoro.

Sono contenta d’essermi presa il disturbo di leggere quel libro e d’aver pensato che fosse il libro dell’anno, perché è insopportabile il Grande Indifferenziato con cui quando muoiono diventano tutti il più bravo. È una consolazione minuscola ma importante, sapere che dell’essere Matthew Perry il più bravo ci eravamo tutti accorti già da vivo. Importante, certo, solo per noi, che abbiamo il lusso d’esserlo ancora, vivi.

Estratto da “Friends, amanti e la Cosa Terribile”, di Matthew Perry (ed. La Nave di Teseo, 2022) lunedì 30 ottobre 2023.

A gennaio 2022, mi hanno fatto un’incisione di quindici centimetri ricucita con le graffette metalliche. Questa è la vita di qualcuno che ha ricevuto in dono la Cosa Terribile. E non mi permettono di fumare. Una giornata va bene quando riesco a superarla senza fumare e senza che avvenga qualcosa di folle. 

Quando non fumo, prendo pure peso – di recente ne ho preso infatti così tanto che, guardandomi allo specchio, pensavo qualcuno mi stesse seguendo. 

Quando diventi sobrio, ingrassi. Quando smetti di fumare, ingrassi. Queste sono le regole. Quanto a me, farei a cambio con ciascuno, nessuno escluso, dei miei amici – Pressman, Bierko, tutti – perché a nessuno di loro è toccato in sorte questo mostro con cui combattere. Nessuno di loro ha dovuto lottare per tutta la vita con un cervello progettato per ucciderli. Darei qualsiasi cosa per non averlo. Nessuno ci crede, ma è vero. La mia vita, comunque, non è più in fiamme. Oso dirlo in tutto questo tumulto.

Sono cresciuto. Sono più autentico, più genuino. Non ho più bisogno di far strillare dalle risate le persone riunite in una stanza. Ho bisogno soltanto di stare dritto e di andarmene da quella stanza. E possibilmente di non finire direttamente nell’armadio. Sono un me più calmo, ora. Un me più vero. Più capace. Di certo, è possibile che se volessi interpretare un bel personaggio in un film, adesso me lo dovrei scrivere da solo. Ma so fare anche questo.

Sono abbastanza. Sono più che abbastanza. E non ho più bisogno di mettere su uno show. Ho lasciato il mio segno. Ora è tempo di mettermi seduto e godermi la vita. E di trovare l’amore vero. E una vita reale. Non una condotta dalla paura. Sono me stesso. E questo dovrebbe essere abbastanza, è sempre stato abbastanza. Ero io quello che non lo capiva. E ora lo capisco. Sono un attore, sono un autore. Sono una persona. E una brava persona. Voglio cose buone per me stesso, e per gli altri, e posso continuare a lavorare per queste cose.

C’è una ragione se sono ancora qui. E, scoprire qual è, è il compito che mi è stato dato. E sarà rivelata. Non c’è fretta, non c’è disperazione. Il solo fatto di essere qui, e di avere a cuore gli altri, è quella la risposta. Adesso, quando mi sveglio, mi sveglio con curiosità, chiedendomi cosa il mondo abbia in serbo per me, e per sé. E questo basta ad andare avanti. Voglio continuare a imparare. Voglio continuare a insegnare. Queste sono le grandi speranze che ho per me stesso, ma nel frattempo, voglio ridere e passare del tempo buono con i miei amici. 

Voglio fare l’amore con una donna di cui sono pazzamente innamorato. Voglio diventare padre e voglio rendere mia madre e mio padre orgogliosi. Ho raggiunto molte cose nella mia vita, ma c’è ancora così tanto da fare, e questo mi eccita ogni giorno. Ero un ragazzino canadese i cui sogni si sono tutti avverati – solo che erano i sogni sbagliati. E invece di mollare, sono cambiato e ne ho trovati di nuovi. Continuo costantemente a trovarne.

Estratto dell’articolo di ilmessaggero.it mercoledì 1 novembre 2023.

La morte di Matthew Perry non è stata causata da overdose di Fentanyl o metanfetamine. Ecco i risultati dei primi test dell'autopsia (fatta il 29 ottobre) sul corpo dell'attore trovato senza vita nella sua vasca idromassaggio sabato scorso. Tuttavia per sapere se nel suo sangue fossero presenti altre droghe illegali o livelli di eventuali farmaci da prescrizione in percentuali letali bisognerà attendere dai 4 ai 6 mesi, quando gli esiti dell'autopsia saranno analizzati da un medico legale che confermerà le cause della morte. 

La star di Friends è morto lo scorso sabato all'età di 54 anni. È stato trovato senza vita nella sua jacuzzi nella sua casa a Pacific Palisades dopo aver giocato a pickleball per un paio d'ore prima al Riviera Country Club. Si ipotizza che Matthew possa essere annegato dopo aver avuto un arresto cardiaco. E se i risultati di questi test fossero confermati dall'autopsia vorrebbe dire che i suoi amici avevano ragione: nonostante gli anni turbolenti che aveva passato ora Perry «era sobrio e felice».

[…]

Perry ha documentato in modo approfondito la sua storia di lotta contro la dipendenza, anche nelle sue memorie pubblicate lo scorso anno. Ha sviluppato una dipendenza dal Vicodin in seguito a una moto d'acqua del 1997, un farmaco antidolorifico oppioide. Al culmine della sua dipendenza dal Vicodin prendeva 55 compresse al giorno, prima di essere ricoverato in riabilitazione per la prima volta. 

Matthew Perry, Lisa Kudrow (Phoebe di Friends) e il dolore del cast: «Siamo devastati. Era il momento migliore della sua vita. Forse la sua morte provocata da farmaci»

Perry ha rivelato di aver subito 14 interventi chirurgici e di essere andato in riabilitazione più di una dozzina di volte, ha riferito Today . «I medici hanno detto alla mia famiglia che avevo il due per cento di possibilità di vivere. Quello è stato il momento in cui mi sono davvero avvicinato alla fine della mia vita». 

Nelle sue memorie scrive di aver speso oltre 7 milioni di dollari mentre lottava per la sobrietà - in seguito ha affermato in un'intervista al New York Times - spendendo per questo 9 milioni di dollari. «Sono stato in un istituto psichiatrico, sono andato in terapia due volte a settimana per trent'anni, sono stato in punto di morte».

Estratto dell’articolo di ilmessaggero.it mercoledì 1 novembre 2023.

Matthew Perry «sono felice che tu sia in pace, sinceramente». Lo scrive la sua ultima fidanzata, Molly Hurwitz, che parla pubblicamente della loro relazione. Molto tormentata. 

[…] la relazione è andata avanti dal 2018 al 2021. A giugno di quell'anno la storia si interruppe. Perry rilasciò una dichiarazione: «A volte le cose non funzionano e questa è una di quelle. Auguro a Molly il meglio». 

Hurwitz ha anche ricordato di aver rivisto Friends con Perry in vista dello speciale, della reunion. «C...o, ero così bravo!!!... Vedi cosa ho fatto???», ricorda che aveva detto. «Il nostro rispetto e il nostro apprezzamento per l'umorismo è qualcosa che ci ha uniti. Stare con lui mentre riscopriva la sua genialità è stato magico», dice Molly.

La sua dichiarazione arriva dopo che è stata fotografata per la prima volta da quando Perry è stato trovato morto. La Hurwitz aveva un'aria depressa mentre portava a spasso il suo cane in un parco di Los Angeles vicino a casa sua e parlava cupamente con un gruppo di amici. L'agente letteraria indossava leggings neri e una camicia di flanella a quadri bianchi e neri annodata in vita sopra una maglietta bianca, scrive il Sun. 

Il 26 novembre 2020 Matthew dichiarò alla rivista People: «Ho deciso di fidanzarmi». Matthew e Molly erano già stati paparazzati dal Sun durante una romantica cena natalizia. «Per fortuna, mi è capitato di uscire con la donna più bella sulla faccia del pianeta in quel momento», aggiunse.

Poi però la relazione si era smagliata e ci fu la separazione con un'altra dichiarazione ufficiale diffusa il 1° giugno 2021. «A volte le cose non funzionano e questa è una di quelle. Auguro a Molly il meglio», disse. 

Nel maggio 2021 era trapelato che Hurwitz aveva messo in attesa il loro matrimonio dopo che lui aveva «flirtato con altre donne» mentre erano in pausa. Settimane prima della loro separazione, i fan avevano espresso preoccupazione per "Chandler" quando era sembrato farfugliare e appisolarsi durante le riprese dello speciale della reunion. […]

Matthew Perry e il patrimonio da oltre 120 milioni, ecco chi sono gli eredi. Grazie al suo lavoro da attore, Perry ha accumulato un considerevole patrimonio, fra denaro e immobili. Ecco chi potrebbero essere gli eredi.  Federico Garau il 4 Novembre 2023 su Il Giornale.

Lo scorso sabato 28 ottobre è scomparso l'attore Matthew Perry, rinvenuto senza vita nella vasca idromassaggio della sua abitazione di Los Angeles. Mentre le autorità stanno ancora cercando di ricostruire gli ultimi istanti di vita dell'attore, così da comprendere che cosa possa aver provocato il decesso, si comincia già a speculare su chi erediterà il grande patrimonio lasciato dall'artista.

Un patrimonio da star

Perry se ne è andato lasciando una considerevole ricchezza accumulata nel corso dei tanti anni di recitazione. Stando a quanto stimato da Celebrity Net Worth, portale web che si occupa proprio della valutazione del patrimonio complessivo delle star, l'attore avrebbe da parte un patrimonio che si aggira intorno ai 120 milioni di dollari. Molto del denaro ha fatto cumulo, mentre altro è stato speso dall'attore, che in questi anni si è molto impegnato a fare donazioni a quelle associazioni benefiche che si occupano della lotta contro le dipendenze. Si parla di almeno 9 milioni di dollari dati in beneficenza.

Il denaro è arrivato grazie al lavoro di Perry come attore, che ha raggiunto la fama recitando nella serie tv Friends. In quel particolare periodo della sua vita, infatti, l'artista sarebbe arrivato a guadagnare la considerevole cifra di un milione di dollari a settimana. Uno stipendio stellare del quale, incredibile ma vero, l'attore si era lamentato, chiedendo alla produzione una diminuzione. "Ci hanno pagato quella cifra per ogni episodio. Sembrava molto. Quindi abbiamo chiesto loro di ridurre il compenso. Ma alla fine abbiamo potuto goderci tutto grazie alla gentilezza di David Schwimmer e alle sue capacità di negoziazione", aveva dichiarato Perry, come riportato da Il Gazzettino.

Facendo il calcolo, l'attore avrebbe quindi ottenuto circa 90 milioni di dollari solo recitando nella serie di Friends. A ciò vanno aggiunte le cosiddette royalties, che avrebbero portato dai 10 ai 20 milioni di dollari all'anno.

Gli immobili

Oltre al denaro, Perry possedeva numerosi beni immobili, specialmente ville. L'attore ha sia comprato che venduto. Nel 1999 ha acquistato una villa a Beverly Hills alla cifra di 3,2 milioni di dollari, poi, nel 2001, ha venduto per 2 milioni la prima casa che aveva acquistato con i suoi guadagni. Nel 2005 ha venduto la casa di Beverly Hills, ristrutturata, a 6,9 milioni di dollari. Nello medesimo anno ha poi acquistato un appartamento a West Hollywood per 1,7 milioni di dollari. L'appartamento è poi stato venduto per 5,7 milioni di dollari nel 2014.

E, ancora: nel 2008 ha comprato un'altra casa a Los Angeles per 4,475 milioni di dollari. La casa è stata poi venduta nel 2011 a 4,6 milioni di dollari. Perry, a quel punto, ha acquistato una casa a Malibù per 12 milioni di dollari, poi ceduta nel 2021 per 13,1 milioni di dollari. Perry ha quindi comprato un attico a Century City (California), pagandolo 20 milioni. Era il 2017. Solo due anni dopo, l'attico è stato venduto per 21,6 milioni di dollari. L'acquirente sarebbe stata la cantante Rihanna.

Chi erediterà tutto?

Ma chi potrà beneficiare delle ricchezze accumulate dall'attore? Perry non ha figli, pertanto fonti del settore ritengono che gli eredi siano i suoi genitori, ossia Suzanne Langdon e John Bennett Perry. L'artista ha poi 5 fratelli, ossia Caitlin, Emily, Will, Madeline e Maria. Federico Garau

Funerali privati per Matthew Perry, presenti Aniston, Cox e altri attori. Le lacrime della madre. L'attore è stato sepolto nel Forest Lawn Cemetery di Los Angeles, situato proprio di fronte ai Warner Bros Studios. Presente tutto il cast di Friends. Federico Garau il 4 Novembre 2023 su Il Giornale.

È stato con una cerimonia privata che familiari e amici hanno detti addio a Matthew Perry, l'attore di 54 anni trovato morto nella sua abitazione lo scors 28 ottobre. Mentre le autorità cercano ancora di stabilire che cosa abbia determinato il decesso, argomento molto controverso, è giunto il momento dell'addio. La star di Friends riposa ora in un cimitero di Los Angeles.

Il funerale

La famiglia ha scelto per Perry una funerale privato a cui hanno potuto partecipare solo i parenti più stretti e gli amici di una vita. Fra questi ultimi anche diversi colleghi, come gli altri protagonisti di Friends che con lui hanno reso famosa e indimenticabile la sitcom.

Secondo quanto riferito dalla stampa estera, sono stati visti Jennifer Aniston, Lisa Kudrow, Courteney Cox e David Schwimmer. Le star sono arrivate insieme. Tutti vestiti in eleganti completi neri e con i volti segnati dal dolore per la perdita di quello che consideravano a tutti gli effetti un amico, non solo un collega di lavoro. "La signora Aniston è stata una delle prime ad arrivare. È stata molto riservata. Questo è un raduno di alto profilo", ha dichiarato una fonte al DailyMail.

Le esequie sono state un semplice servizio di un'ora svoltosi presso il Forest Lawn Cemetery di Los Angeles. Il cimitero si trova proprio davanti ai Warner Bros Studios, dove anche la serie Friends è stata girata per ben 10 stagioni. Il luogo giusto dove far riposare le spoglie di Perry, che nella sitcom interpretò il ruolo di Chandler Bing. In quello stesso cimitero sono stati sepolti anche Carrie Fisher, Bette Davis, Stan Laurel, Buster Keaton, Michael Hutchence, Paul Walker, Brittany Murphy e Anne Heche.

Si è trattato, dunque, di una cerimonia molto semplice. Presenti, ovviamente, la madre dell'attore, l'84enne Suzanne Morrison, che non è riuscita a trattenere la lacrime, e il patrigno Keith, 76 anni. Non è mancato neppure il padre, John Perry, 82 anni.

A quanto pare la funzione si è conclusa con una canzone di Peter Gabriel, Don't Give Up. Al momento non è stato riferito se, dopo la cerimonia privata, è prevista anche una celebrazione pubblica.

Il mistero sulla morte

Molto deve ancora essere chiarito sulla causa del decesso di Perry, che ha portato alla formulazione di numerose ipotesi. L'attore è stato trovato senza vita nella sua vasca idromassaggio e da allora si seguono molte piste. Secondo quanto riferito da Tmz, nella casa dell'attore non sarebbe state trovate droghe e, almeno per ora, non sono stati ancora resi pubblici di risultati degli esami tossicologici svolti durante l'autopsia. Perry aveva combattuto per anni contro le sue dipendenze, ma nella villa non ci sarebbero state tracce di ansiolitici o antidepressivi.

L'influencer Athenna Crosby, che ha pranzato con lui il giorno prima della sua morte, ha raccontato che l'attore era felice, parlava di futuro, dunque esclude la possibilità di suoicidio. Alcuni fan, invece, hanno visto in alcuni post contenenti immagini di Batman pubblicati da Perry una richiesta di aiuto.

Marco Giusti per Dagospia mercoledì 25 ottobre 2023.

Rest in Power detective Shaft. Riascoltiamo subito la celebre canzone di Isaac Hayes dei titoli di testa di “Shaft” che segnò davvero un’epoca. Perché se ne è andato Richard Roundtree, 81 anni, grande star del cinema nero violento anni ’70 che interpretò il mitico John Shaft in ben tre film nei primi anni’70, due diretti da un genio dell’immagine come Gordon Parks e il terzo dall’inglese bianco John Guillermin. Baffoni, basettone, capelli afro, giacca di pelle, Shaft fu il primo eroe nero della Blaxploitation. E molto doveva anche alla musica di Isaac Hayes, che vinse l’Oscar nel 1971, ma litigò con Gordon Parks al punto che nel secondo film la musica la suona e la compone lo stesso Parks.

Ne dà notizia anche Samuel L. Jackson, che riprese il personaggio qualche anno fa. “La scomparsa di Richard Roundtree è un colpo davvero duro. Mi è piaciuto stare con lui, imparare lavorare, ridere e sentirmi fortunato ad avere un idolo all’altezza di chi mi aspettavo che fosse!!! Grazie per averci fatti sentire veramente bene con noi stessi. Riposa nel potere!!!” . Per tanti ragazzini neri, Roundtree e il suo Shaft furono in assoluto i primi eroi che videro al cinema a cui ispirarsi per diventare grandi. Nato a Rochester, N.Y, nel 1942, Richard Roundtree, studiò alla Southern Illinois University, e dopo aver tentato una breve carriera di modello per il giornale Ebony, si unì come attore alla Negro Ensemble Company di New York alla fine degli anni ’60, dove si mise in luce interpretando il pugile Jack Johnson in “The Great White Hope”.

A 28 anni divenne una star interpretando da protagonista “Shaft” nel 1971, un film scritto d Ernest Tidyman e diretto da Gordon Parks che, costando solo mezzo milione di dollari, guadagnò ben 12 milioni di dollari e salvò la Metro Goldwyn Mayer dalla bancarotta. Ma il film, spiega bene oggi “Variety”, dimostrò allora anche quanto Hollywood sbagliasse nel non considerare il pubblico nero una vera e propria risorsa e non avesse mai cercato prima di arrivarci. “Shaft” non era il solito film sui rapporti fra bianchi e neri, era un vero e proprio film nero, con attori e regista nero, per un pubblico nero, dove non c’era bisogno di spiegare nulla. Shaft era l’eroe. Punto e basta. E il pubblico impazzì.

In una intervista del 2019 Roundtree spiegò che non gradiva l’idea della exploitation attaccata al genere Black. “Io ho avuto il privilegio di lavorare con il gentleman più di classe che abbia mai conosciuto nel mondo del cinema, Gordon Parks. Così quella parola, exploitation, la ritengo un po’ offensive attaccata a lui. L’ho sempre vista negative. Explotation- sfruttamento. Chi stiamo sfruttando? Quei film hanno dato lavora a tanta gente, che allora è entrata nel business, anche gente che oggi lavora come produttori e registi”. Shaft ebbe due sequel, “Shaft colpisce ancora”, ancora diretto da Parks e “Shaft in Africa”, diretto da John Guillermin, che doveva farne uno 007. Nel 1973 la CBS dette vita a una serie tv di “Shaft” con Roundtree protagonista, ma non funzionò benissimo. Ma intanto tutto il filone era partito.

 Lo stesso Roundtree è protagonista di “Shannon senza pietà”, diretto dall’inglese Gordon Hessler con Chuck Connors, Marie-José Nat, Max Von Sydow, poi del curioso western inglese girato in Almeria “Charley-One-Eye” di Don Chaffey. E lo troviamo a fianco di Peter O’Toole in una strampalata versione di Robinson CFrusoe, cioè “Man Friday” diretto da Jack Gold a fianco di Peter O’Toole. Perché se ne volesse fare una star del cinema europeo non è ben chiaro. Ma il progetto non funzionò del tutto.

Diventato una star Roundtree fece film costosi da coprotagonista come “Terremoto” di Mark Robson, ma anche “Un colpo da un miliardo di dollari” del prolifico Mehahem Golan con Robert Shaw, “Amici e nemici” di George Pan Cosmatos con Roger Moore, “Il gioco degli avvoltoi” di James Fargo con Richard Harris diventando la star nera alla Jim Brown da inserire in film di cassetta.

Pur mantenendo sempre il proprio status, girerà in tutto qualcosa come 160 film in 50 anni di carriera, si perde un po’ con la fine del Blaxploitation e diventa protagonista di piccoli horror come “Q — The Winged Serpent” di Larry Cohen, o una guest da aggiungere al trio di protagonisti di “Trio mortale” di Fred Williamson, cioè a Jim Brown, Jim Kelly e allo stesso Williamson. Fa tanta tv, naturalmente, da “Roots” a “Magnum P.I.”, “The Love Boat.” Roundtree non tornò mai ai livelli di popolarità e successo di “Shaft”, ma lavorò attivamente nel cinema, reinventandosi come buon caratterista, lo troviamo in“Se7en”, “Brick”,  “Speed Racer.”

Anche nella recente commedia “Moving On,” con Lily Tomlin e Jane Fonda, uscito solo un anno fa. Come Shaft tornò nel 2019 nel nuovo “Shaft” diretto da John Singleton, dove il nipote del detective era interpretato da Samuel L. Jackson. Si sposò due volte, con Mary Jane Grant (1963 – 1973) e con Karen M. Cierna (1980 – 1998). E ebbe ben quattro figlie femmine, Nicole, Tayler, Morgan e Kelli Roundtree e un maschio, James.

Marco Giusti per Dagospia domenica 22 ottobre 2023.  

Se ne va lo strepitoso caratterista spagnolo Jesús Guzmán, 97 anni, che avrete visto in tanti spaghetti western in ruoli fissi di becchino o di prete, ma è stato probabilmente anche il più prolifico degli attori spagnoli. Lo ricorderete sicuramente perché con bombetta e occhialini neri risponde alla celebre battuta del Colonnello Mortimer di Lee Van Cleef che apre “Per qualche dollaro in più” di Sergio Leone, “Questo treno ferma a Tucumcari?”, con “No, questo treno non ferma a Tucumcari”.  

A quel punto il Colonnello Mortimer chiude il libro che stava leggendo, adopera il freno d’emergenza e decide che quel treno fermerà a Tucumcari. Nella nostra testa Tucumcari è tutta lì, nella mitica battuta del film di Leone dove per la prima volta incontravamo Lee Van Cleef, allora oscuro caratterista di western americani che incontra un piccolo caratterista spagnolo dalla faccia buffa. 

Nella sua lunghissima carriera, Jesús Guzmán ha fatto di tutto, una marea di western, come quelli di Rafale Romero Marchent, “Mani di pistolero”, “I morti non si contano”, Lo irritarono e Santana fece piazza pulita”, ma anche “La morte sull’alta collina” di Alfredo Medori, “Vado, vedo e spara” di Enzo Castellari, “Amico, stammi lontano almeno un palmo” di Michele Lupo. Leone lo richiama come il padrone della locanda per “Il buono il brutto il cattivo”. 

Lo troviamo nelle buffe commedie spagnole anni ’60 con Marisol, le sorelle Pili e Mili, Manolo Escobar, ma soprattutto nella celebre serie tv spagnola “Cronicas de un pueblo” come il postino Braulio. E’ stato persino protagonista di qualche commedia erotica, come “Una prima en la banera” di Jaime G. Puig con Rosa Morata e “Amor y medias” di Antoni Ribas con Elena Maria Tejeiro.

Nato nel 1926 a Madrid, ha girato qualcosa come 138 film, iniziando nel 1956 con “Manolo guardia urbano” di Rafael J. Salvia con Manolo Moran, e proseguendo nella commedia con “Tres de la Cruz Roja”, “Rapina alle tre” di José Maria Forqué con José Luis López Vázquez, “El turista”. Con “I tre implacabili” di Joaquin Luiz Romero Marchent, il padre del western spagnolo, arriva al genere e diventa il becchino di fiducia delle coproduzioni italo-spagnole, ma è la sua partecipazione ai film di Leone che lo lancia davvero.

 Fa il prete in “Sette donne per i MacGregor” di Franco Giraldi, il barista in “Vado, vedo e sparo”, ha il personaggio di “Allegria” in “I morti non si contano”. In mezzo a tanto cinema spagnolo di genere, viene esportato come becchino anche nel divertente “In viaggio con la zia” di George Cukor. Nel 1971 inizia la lunga serie televisiva “Cronicas de un pueblo”, dove lo troviamo come il postino Braulio per 89 episodi, fino al 1974.  

Interpreta commedie di grande successo come “Zorrita Martinez” di Vicente Escrivà con Nadiuska e José Luiz Lopez Vasquez. Nel 1981 torna al cinema western con “Occhio alla penna” di Michele Lupo e nel 1987 lo ritroviamo nel cast del tardo film di Mario Monicelli “I picari” nel ruolo di gioielliere. Ha recitato fino all’ultimo, fra tv, corti e cinema, come dimostrano le sue apparizioni, già vecchissimo, in “Los del túnel” di pepon Montero o “El gran Vázquez” di Oscar Aibar.

(ANSA sabato 21 ottobre 2023) È morto stamani in ospedale a Firenze Sergio Staino, 83 anni. Il vignettista, papà di Bobo ed ex direttore dell'Unità, era ricoverato da qualche giorno: da tempo era malato. Sergio Staino, che è stato anche scrittore e regista - esordì alla regia nel 1989 con Cavalli si nasce -, era nato a Piancastagnaio (Siena) e ha poi vissuto a Scandicci, alle porte di Firenze. Con Bobo fece la sua prima comparsa nel 1979, sul mensile di fumetti Linus: da allora una lunga avventura, con una satira educata ma allo stesso tempo graffiante.

Bobo, impegnato a sinistra e prototipo dell'italiano medio pensante, lavoratore e disilluso padre di famiglia, è passato tra le pagine di diversi quotidiani e riviste, dove spesso commentava i fatti del giorno in modo incisivo. "Bobo nacque, come spesso accade, per disperazione - raccontava anni fa Staino -. Ero un uomo inquieto, in crisi. Cercavo che cosa fare da grande. L'immagine di Bobo nacque d'istinto. Anche il nome. Bobo è un arrabbiato, disilluso, romantico, democratico, di sinistra". 

Collaboratore tra il 1980 e il 1981 della pagina culturale del quotidiano Il Messaggero, e dall'anno successivo de l'Unità, di cui è stato il vignettista 'storico' divenendone poi direttore nel 2016, Staino dal 1986 aveva anche fondato e diretto il settimanale satirico Tango. Aveva anche collaborato con Rai3, dove nel 1987 ha diretto la rubrica Teletango e, nel 1993, firmato il programma satirico Cielito Lindo. Ha col,laborato anche con Avvenire, La Stampa e Atlante, il magazine online di Treccani.it.

Sergio Staino che vedeva senza occhi, sempre fedele ai suoi sogni. Walter Veltroni su Il Corriere della Sera sabato 21 ottobre 2023.

Il vignettista aveva 83 anni. Da Tango alla direzione dell’Unità, era rimasto ancorato ai valori di giustizia sociale, inclusione e multiculturalismo

Sergio Staino ci vedeva benissimo. I suoi occhi non funzionavano più, si erano progressivamente spenti. Ma lui vedeva. Caspita se vedeva. Anche se nell’ultima telefonata mi disse, senza apparente disperazione: «Ormai è finita, sono cieco». Ma ciechi erano stati Omero, Milton, Saramago, Borges, Andrea Camilleri, Vittorio Foa, l’ultimo Monet. Come loro però vedeva le cose del mondo e le traduceva in immagini, parole, opinioni.

La forza lapidaria di una vignetta

Più intelligente dell’intelligenza artificiale, ascoltava da sua moglie Bruna, dai suoi figli, da qualche amico o compagno, racconti che lo interessavano e li decodificava restituendoli ai suoi lettori con la forza lapidaria di una vignetta e o di una battuta. All’inizio del suo lavoro Bobo, il suo personaggio, sembrava un Cipputi della sinistra, qualcuno che si preoccupava, eravamo ancora ai tempi del Pci, di evitare derive moderate. Un guardiano dell’ortodossia. Così sembrava, ma solo ai più superficiali. La verità è che Bobo, e Sergio, sono stati sempre due cose in un corpo solo, un corpo d’inchiostro. Erano ancorati ai valori fondamentali della sinistra — la giustizia sociale, i diritti, l’inclusione, il multiculturalismo — ma, al tempo stesso, erano tanto intelligenti da sapere che proprio quei valori, per essere inverati, non potevano essere chiusi in cassaforte, trasformati in artigianato da contemplare con nostalgia. Da questo punto di vista il Sergio Staino che ho conosciuto e amato ha svolto una grande funzione pedagogica nel cuore del popolo della sinistra.

La direzione de l’Unità nel segno del riformismo

Dai tempi di Tango, quando laicizzava il suo rapporto con il partito a cui apparteneva con orgoglio, fino alla sua direzione de l’Unità che avvenne nel segno del riformismo e del rifiuto della demagogia, del populismo, delle semplificazioni di un tempo che gli appariva spesso devastato dalla sua futilità. Ricordo Sergio negli ultimi anni, un bastone nella mano e gli occhi spenti. Ma lo ricordo capace di esserci sempre, a Scandicci od ovunque, per animare la sua vita e quella degli altri di una passione invincibile. Si è sempre mosso in verticale, seguendo e stimolando le evoluzioni della sinistra. Ma mai in orizzontale, cambiando direzione. Lui, che vedeva senza occhi, non ha mai smesso di essere fedele ai suoi sogni più antichi.

La satira leggera e organica del compagno Bobo. Luigi Mascheroni il 22 Ottobre 2023 su Il Giornale.

È morto il disegnatore che inventò la figura del comunista disilluso ma sempre fedele al Partito

È morto Sergio Staino, e anche la Sinistra non sta molto bene. Aveva 83 anni, ed era ricoverato da tempo. Nelle vignette, di solito, si disegna una lapide con le lettere «R.I.P». Vignettista e fumettista, fra i più famosi disegnatori italiani di satira politica fra Prima e Seconda Repubblica, intesa come forma di Governo, e di mille giornali, da l'Espresso a Repubblica, intesa come quotidiano, Staino ha tratteggiato incoerenze, retorica e antitesi della Sinistra.

Fustigatore, ma col piumino. Lo scudiscio non sapeva, o non voleva, usarlo. A dispetto del caso «Nattango», estate 1986, quando su Tango disegnò, imitando lo stile di Giorgio Forattini, una caricatura del segretario comunista Alessandro Natta che ballava nudo al suono di un'orchestrina guidata da Bettino Craxi e Giulio Andreotti (cui non a caso appose subito una «Errata Corrige»), Sergio Staino incarnò perfettamente, da sinistra, la satira organica al Partito, in tutte le sue declinazioni: Pci, Pds, Ds e Pd. Sempre un po' con il freno a mano, niente a che fare con la satira più libera e irriverente del Male, anzi in assoluta ortodossia con la Casa Madre, da via delle Botteghe Oscure a via del Nazareno, anche in assenza, ormai, del Partito stesso. Non è un caso che a un certo punto ebbe persino la direzione dell'Unità, fra il 2016 e il 2017, quando poi il giornale chiuse.

Buonissimo rispetto a un perfido come Vauro, meno feroce ed elegante al confronto di un Vincino, più borghese dell'operaista Altan, di un sarcasmo dolce come semmai Ellekappa, Staino - un vecchio marxista dai lauti stipendi - tendeva a far risaltare le contraddizioni e la crisi di valori della sua Sinistra. Ma senza acredine. La sua era un'autosatira panciuta e pacioccona. Un po' come la sua creatura più celebre: Bobo, uno di famiglia. Sovrappeso, barba e calvizie, occhiali, nasone e profilo marxista-leninista (metà Umberto Eco, metà specchio del suo creatore), Bobo, rivoluzionario da tinello in perenne crisi di identità esistenziale, personifica il militante comunista che un tempo friggeva - volontario - le braciole alle feste dell'Unità ma che a un certo punto non c'è stato più. Staino continuò a disegnarlo identico, stesse utopie, stessa ideologia, anche quando il suo corrispettivo reale era del tutto scomparso, come le stesse feste dell'Unità, e poi persino l'Unità, ed era diventato una maschera.

Come una stella morta, Bobo per anni ha continuato a brillare in forma consolatoria, con meno satira e più retorica, anche quando il suo universo di riferimento - il Partito - era imploso. Ah, a proposito: forse Umberto Eco e lo stesso padre-disegnatore non c'entrano nulla con la fisionomia di Bobo, un sessantottino nato sulla carta nel 1979, su Linus, rivista diretta allora da Oreste Del Buono (e scusate se è tanto). Come ci suggerisce Fulvio Abbate, uno che la vecchia sinistra la conosce così bene da esserne uscito presto, l'alter ego di Staino è probabile sia ispirato a Gianni Carino, illustratore, umorista, disegnatore e autore di un'immortale storia del maiale: il De Porcellis. Comunque. Adesso Sergio Staino non c'è più. Bobo uscirà dai giornali e entrerà nelle antologie. E la sinistra non fa nemmeno più così tanto ridere.

Per il resto, di Staino si può solo dire bene. Afflitto da una malattia agli occhi che iniziò a colpirlo a solo 37 anni e che ultimamente lo aveva reso quasi cieco, ma senza mai impedirgli di lavorare («Il disegno io lo penso sempre molto e così mi sono accorto che la mia mano destra si muoveva da sola e disegnava quello che avevo in testa»), ha rispettato il luogo comune letterario e giornalistico secondo cui è il cieco a vedere meglio le degenerazioni della vita. Compagno diverso e allineato, Staino era un toscano di Piancastagnaio, terra di Siena, di santi e bestemmie, una laurea inutile in Architettura e una passione sviluppata dall'adolescenza: i fumetti. «È stata mia mamma a darmi il dono: fin da piccino ridisegnava con me i libri di fiabe - confessò una volta -. È lei che mi ha fatto amare il disegno. E da grande, per stare bene, prendevo in mano una matita».

Così, da grande, la matita l'ha usata tantissimo: oltre a lavorare per il Messaggero e l'Unità, ha fondato e diretto il settimanale satirico Tango, ha pubblicato su La Stampa, ha disegnato per Cuore, Tv Sorrisi e Canzoni e la Smemoranda. Anche per il Riformista... Nel 2017 Staino - uno dei presidenti onorari dell'UAAR, l'Unione di atei e agnostici razionalisti - ha collaborato anche con Avvenire. «Per me Gesù è un bellissimo personaggio storico, il primo dei socialisti, il primo a combattere per i poveri» spiegò.

E’ morto Staino, l’autore di Bobo. Angelo Vitolo su L'Identità il 21 Ottobre 2023
E’ morto Staino. A Firenze in  ospedale, all’età di 83 anni, la scomparsa dell’autore di Bobo, il personaggio dei fumetti che lo ha reso famoso. Nato e cresciuto a Piancastagnaio, nel Senese, diventò insegnante di educazione tecnica vivendo a Scandicci. Poi, l’esordio di Bobo, vagamente somigliante a Umberto Eco ma dichiaratamente ispirato a sé stesso, interprete e testimone delle tribolazioni del maggiore partito di una sinistra già allora pensosa sulla sua storia e sul suo incerto futuro. Lo scoprì Odb, Oreste Del Buono, direttore di Linus che lo pubblicò per primo nel 1979.

Di seguito, le collaborazioni con i quotidiani Il Messaggero e l’Unità, con cui iniziò a lavorare dal 1982. Nel 1986, in pieno boom della satira, Staino fonda e dirige il settimanale satirico Tango, arrivato anche nel 1987 realizza su Rai 3 con il programma Teletango.

Sempre per la Rai, il programma Cielito lindo, un varietà satirico condotto da Claudio Bisio e Athina Cenci. Nel 1989 Staino dirige e sceneggia il film Cavalli si nasce, e nel 1992 Non chiamarmi Omar, sviluppato a partire da un racconto di Altan. Nel 2007 realizza Emme, “periodico di filosofia da ridere e politica da piangere”, supplemento settimanale dell’Unità, continuando le sue collaborazioni anche con televisione, cinema e teatro.

L’8 settembre del 2016 la sua nomina a direttore del quotidiano l’Unità. Poi le collaborazioni con La Stampa e Avvenire. Negli ultimi anni, una malattia retinica che lo aveva di fatto reso quasi cieco.

Sergio Staino, addio al papà di Bobo icona della satira e della sinistra Il tempo il 21 ottobre 2023

È scomparso a Firenze, a 83 anni, Sergio Staino, disegnatore e fumettista. Il creatore di Bobo, il suo personaggio più famoso, fu anche direttore dell’Unità. Da tempo malato, era ricoverato da qualche giorno per l’aggravamento delle sue condizioni. Staino ha segnato per decenni la satira, ovviamente vista dalla sinistra. Bobo era un omone un po' calvo e con barbetta, vagamente somigliante a Umberto Eco, comunista come impostazione ideologica ma di animo critico anche verso il suo partito di riferimento come la satira richiede. Spesso era ritratto mentre spiegava alla figlia la politica italiana.

"Toscanaccio" di Siena, nato e cresciuto a Piancastagnaio prima di trasferirsi a Scandicci, laureato in architettura, Staino si dedica al mondo dei fumetti ed esordisce con la sua creatura Bobo nel 1979 su ’Linus’, la rivista allora diretta da Oreste Del Buono. Da qui, la fama e la collaborazione con diverse testate giornalistiche, dal ’Messaggero' a ’L’Unità’, prima di fondare e dirigere il settimanale satirico ’Tango'. Per la Rai, realizza il varietà ’Cielito Lindo' condotto da Claudio Bisio e Athina Cenci, mentre è datato 2007 ’Emme' autodefinito da lui come "periodico di filosofia da ridere e politica da piangere", supplemento settimanale dell’Unità, giornale che arriva a dirigere dal 15 settembre del 2016 al 6 aprile del 2017 e, dopo le dimissioni causate da uno sciopero dei giornalisti contro i tagli redazionali, dal 23 maggio al 2 giugno del 2017, giorno della definitiva chiusura della storica testata che fu l’organo ufficiale di informazione del Partito comunista italiano. Dal novembre dello stesso anno, le sue vignette vengono con regolarità pubblicate sul quotidiano ’La Stampa' prima con la dizione ’La Striscia di Bobo' e poi con la scritta ’Visto da Staino'. 

L’artista si è spento a 83 anni dopo una vita passata a raccontare la politica e la società. Giacomo Puletti su Il Dubbio il 21 ottobre 2023

Sergio Staino è morto a 83 anni dopo una lunga malattia. Toscano di Scandicci, ha passato una vita a disegnare fumetti e non solo, raccontando la vita politica del Pci prima, del Pds, Ds e Pd e poi e più in generale della sinistra italiana. 

«Un abbraccio di commossa vicinanza alla famiglia e agli amici di Sergio Staino per la sua scomparsa. È stato un intellettuale che con l'ironia, l’intelligenza e la matita ha segnato un pezzo importante dell'immaginario della sinistra. Siamo tutte e tutti cresciuti con le sue vignette, i suoi personaggi, le sue battute fulminanti. Ci mancherà moltissimo e faremo in modo che nelle prossime settimane e prossimi mesi la comunità Democratica lo ricordi con il grande affetto che a lui ci lega. Ai suoi cari e alle persone che gli hanno voluto bene e hanno lavorato con lui vanno le nostre più sentite condoglianze». Lo afferma la segretaria del Pd, Elly Schlein.

Profondo il cordoglio della politica. «Volevo bene a Sergio Staino. Era non solo un grande artista ma anche una persona buona e profonda – scrive il leader di Azione, Carlo Calenda – Conservo questa vignetta nel mio ufficio. La fece dopo un duro scontro con una multinazionale su una crisi industriale. Ed è per me una medaglia». Nella vignetta una bimba chiede a Bobo, lo storico personaggio alter ego di Staino, se Calenda sia «della Cgil». «No, è bravo di suo», risponde Bobo. 

«La morte di Sergio Staino mi riempie il cuore di tristezza. Sergio è stato spesso un feroce critico e allo stesso tempo un affettuoso fratello maggiore – commenta il leader di Iv, Matteo Renzi – Ma per me è sempre stato soprattutto una persona vera con cui confrontarsi e discutere. Il mio messaggio di condoglianze più affettuoso a Bruna, ai figli Michele e Ilaria, a tutti quelli che gli hanno voluto bene». 

Per Piero Fassino Bobo era «interprete dei sentimenti, delle ansie, delle speranze del popolo della sinistra». «Grazie Sergio, ci mancherai, ma ti porteremo nel cuore», scrive l’esponente dem. 

«Ci lascia oggi un grande toscano, Sergio Staino nato a Piancastagnaio, anima di un talento senza pari – scrive il presidente della Toscana, Eugenio Giani – Uomo straordinario che con le sue vignette ci ha coinvolto, divertito e fatto riflettere. Il babbo di “Bobo”, ex direttore de l'Unità riferimento insostituibile d'opinione per tutto il mondo progressista. Lascia un grande vuoto nel mondo della satira e in tutti noi». 

«Caro Sergio, che brutto scherzo che ci hai fatto: tu e Bobo per noi eravate immortali», afferma il sindaco di Firenze, Dario Nardella»

Lo ricorda anche il mondo della stampa, dopo gli anni a direttore de L’Unità. Per il direttore del Tg5, Clemente Mimun, Staino era «una gran bella persona», mentre il direttore del TGLa7, Enrico Mentana, lo ricorda come «mite e grande». 

Il vignettista e intellettuale. Il ritratto di Sergio Staino, umorista raffinato e attento osservatore. Il suo Bobo pieno di dubbi sul mondo che cambia. Di fatto, Staino era Bobo e Bobo, anche ‘fisicamente’ era un po’ Staino: un iscritto al partito, sovrappeso e barbuto, con mille dubbi e incertezze di fronte a un mondo che intorno a lui è cambiato tante volte e che continua a mutare a velocità crescente. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 21 Ottobre 2023

È morto a 83 anni a Firenze, al termine di una lunga malattia, Sergio Staino. Era nato a Scandicci e della Toscana incarnava l’ironia graffiante e l’umorismo raffinato. Definirlo semplicemente «disegnatore satirico» non renderebbe giustizia alla figura di un attento osservatore della politica e della società degli ultimi sessant’anni. Direttore per un breve periodo de L’Unità, di cui era stato vignettista per oltre due decenni, aveva disegnato per Linus e poi inventato e diretto Tango, diventato Cuore: gli inserti settimanali de L’Unità furono alla fine degli anni Ottanta il punto di riferimento della satira in Italia. Aveva combattuto negli ultimi tempi anche contro un principio di cecità che gli complicò, sfocandole, le immagini senza impedirgli di rimanere attivo, al suo tavolo da disegno.

Fieramente comunista, nel 1991 riconobbe il valore della ‘Svolta’ di Achille Occhetto e aderì al Pds, poi al Pd. Aveva preso anche la tessera radicale. Dichiaratamente riformista, manifestò la sua stima per la leadership di Matteo Renzi e dedicò numerose bordate, nelle sue vignette, alla vecchia sinistra incapace di rinnovarsi.

«Sergio Staino che con il suo pensiero critico ci ha aiutato a riconoscere i nostri difetti. Facendoci sorridere, ci spingeva a cambiare», ha detto di lui Paolo Gentiloni. Il commissario europeo si è dedicato a lungo alla comunicazione ed aveva intrecciato un’amicizia con Staino. Anche Matteo Renzi si unisce al cordoglio, con un post sui social: «La morte di Sergio Staino mi riempie il cuore di tristezza. Sergio è stato spesso un feroce critico e allo stesso tempo un affettuoso fratello maggiore. Ma per me è sempre stato soprattutto una persona vera con cui confrontarsi e discutere. Il mio messaggio di condoglianze più affettuoso a Bruna, ai figli Michele e Ilaria, a tutti quelli che gli hanno voluto bene». Anche Teresa Bellanova, che lo conosceva da lungo tempo, oggi lo ricorda: «Caro Sergio, ci siamo voluti bene. Mi mancheranno i complimenti affettuosi e le tue critiche severe ».

Fulvio Abbate, intellettuale scomodo e irrequieto della sinistra, lo ritrae così per Il Riformista: «Staino con Bobo ha rappresentato anche fuori tempo massimo una maschera politica che non esisteva più, ossia il militante comunista disposto anche a friggere le braciole. Di lui va ricordato Tango con spirito dissacrante e indisciplinato. Il pensiero va alla vignetta che prendeva in giro l’allora segretario del Pci, Alessandro Natta. Era molto amico del disegnatore francese Volinsky, come me. Rimase sotto choc per gli attentati a Charlie Hebdo in cui Volinsky perse la vita. Sembra che il suo personaggio Bobo in realtà esista davvero e che sia stato ispirato dalle fattezze di un artista di Reggio Emilia, Gianni Carino. Grafico e disegnatore di grande talento, amico di Staino».

Per altri a ispirare il ritratto di Bobo, il militante arrabbiato, bonario e disilluso, era stato invece il regista e cantautore romano Paolo Pietrangeli, scomparso due anni fa. Di fatto, Staino era Bobo e Bobo, anche ‘fisicamente’ era un po’ Staino: un iscritto al partito, sovrappeso e barbuto, con mille dubbi e incertezze di fronte a un mondo che intorno a lui è cambiato tante volte e che continua a mutare a velocità crescente. A proposito di Staino e del suo Bobo, scrisse Umberto Eco: «Molti lettori diranno ‘Bobo sei tutti noi’, altri proveranno rispetto per questo idealista che tenta sempre di risalire al suo paradiso disabitato, sicuro che se un giorno lui vi risalisse quello sarebbe un paradiso almeno terrestre. In ogni caso il messaggio di Bobo è: abbiate il coraggio di dirvi disperati, abbiate l’orgoglio testardo di essere dei perdenti. La vittoria non è un fine ma solo un doloroso e onesto stato d’animo».

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

Come è morto Sergio Staino, addio al grande vignettista. Aveva 83 anni ed era ricoverato in ospedale. Malato da tempo, con 'Bobo' - personaggio entrato di diritto nella storia e nella cultura di questo Paese - ha raccontato l'Italia. Indimenticabili la sua satira e spiccata ironia. Di sinistra ha sempre 'punzecchiato' la politica, con intelligenza ed educazione, senza mai fare passi indietro. È stato anche scrittore e regista ed ha avuto esperienze televisive. Soprattutto, Staino, è stato - oltre che vignettista storico - direttore di questo giornale. Alla sua famiglia vanno le più affettuose condoglianze dell'intera redazione. Redazione Web su L'Unità il 21 Ottobre 2023

È morto stamani in ospedale a Firenze Sergio Staino, 83 anni. Il vignettista, papà di Bobo ed ex direttore de l’Unità, era ricoverato da qualche giorno: da tempo era malato. Sergio Staino, che è stato anche scrittore e regista – esordì alla regia nel 1989 con Cavalli si nasce -, era nato a Piancastagnaio (in provincia di Siena) e ha poi vissuto a Scandicci, alle porte di Firenze. Con Bobo fece la sua prima comparsa nel 1979, sul mensile di fumetti Linus: da allora una lunga avventura, con una satira educata ma allo stesso tempo graffiante.

Come è morto Sergio Staino

Bobo, impegnato a sinistra e prototipo dell’italiano medio pensante, lavoratore e disilluso padre di famiglia, è passato tra le pagine di diversi quotidiani e riviste, dove spesso commentava i fatti del giorno in modo incisivo. “Bobo nacque, come spesso accade, per disperazione – raccontava anni fa Staino -. Ero un uomo inquieto, in crisi. Cercavo che cosa fare da grande. L’immagine di Bobo nacque d’istinto. Anche il nome. Bobo è un arrabbiato, disilluso, romantico, democratico, di sinistra“.

Biografia

Collaboratore tra il 1980 e il 1981 della pagina culturale del quotidiano Il Messaggero, e dall’anno successivo de l’Unità, di cui è stato il vignettista ‘storico’ divenendone poi direttore nel 2016, Staino dal 1986 aveva anche fondato e diretto il settimanale satirico Tango. Aveva anche collaborato con Rai3, dove nel 1987 ha diretto la rubrica Teletango e, nel 1993, firmato il programma satirico Cielito Lindo. Ha collaborato anche con Avvenire, La Stampa e Atlante, il magazine online di Treccani.it. Redazione Web 21 Ottobre 2023

La morte di Sergio Staino, il ricordo di Erasmo D’Angelis. È stato tante cose insieme, Sergio. Un Dario Fo con la matita, un Benigni della battuta, un combattente fino all’ultimo respiro, un raffinato intellettuale, un genio della battuta fulminante. Erasmo D'Angelis su Il Riformista il 21 Ottobre 2023

Sembra incredibile, ma Bobo è morto. Stamattina alle 10.59 il suo cuore si è fermato. Non ce l’ha fatta Sergio Staino. Quasi un anno fa, di colpo, dopo una bellissima e divertentissima cena al teatro del Sale per festeggiare il ritorno sulle scene di Maria Cassi, è stato colpito da una malattia e da allora ospedali, attese, allarmi, rianimazioni, poi riabilitazioni estenuanti, cure, trafile di medici, infermieri, il breve ritorno a casa e quindi il successivo ricovero.

Sergio aveva 83 anni e da quando, progressivamente, è diventato cieco, in realtà vedeva di più e meglio di tanti altri. Usava le mani e l’udito, toccava e ascoltava, e disegnava perfettamente andando a memoria, con l’aiuto di suo figlio Michele. Aveva ancora milioni di cose da raccontare, disegnare, creare e scrivere.

È stato tante cose insieme, Sergio. Un Dario Fo con la matita, un Benigni della battuta, un combattente fino all’ultimo respiro, un raffinato intellettuale, un genio della battuta fulminante. Spinto simultaneamente dall’entusiasmo e dall’amore per la vita, dall’allegria e dalla fedeltà per il suo “stainismo”, il suo comunismo anarchico e fuorilinea e sempre a modo suo. Aveva il dono e la passione di non mollare mai, e la certezza di essere sempre dalla parte della ragione e mai del torto. È passato attraverso mondi diversi, reduce dal marxismo-comunismo filocinese e dal berlinguerismo fino al successivo caos poco allegro che pare senza fine.

Ma qualsiasi posizione ha sostenuto lo ha fatto sempre alla Bobo, con l’allegria dell’irriducibile barricadero. Mai in vendita o al servizio del potere di turno. Intollerante verso le nullità e i mediocri al potere e i tic della sinistra e del centrosinistra. Lottatore contro la violenza rabbiosa contro i più indifesi del mondo, siano essi migranti o disperati. E a tutti i potenti faceva il pelo e il contropelo a vignette. Ha scritto libri, girato film, disegnato miliardi di Bobo azzeccati, ha diretto l’Unità renziana, ed è stato sempre sorretto dalla sublime arte toscanaccia. Addio indimenticabile Sergio. Erasmo D'Angelis

Era un lottatore continuo. Addio Sergio, maestro della satira: sei stato il raro caso dell’Homo Novus rinascimentale. Era un Dario Fo con la matita, un Benigni dalla battuta fulminante, un poeta perennemente ispirato, un raffinato giornalista. Ci ha lasciati a 83 anni il vignettista più famoso d’Italia, da un anno combatteva con un brutto male. A 37 anni la diagnosi alla retina, sapeva che sarebbe diventato quasi cieco, ma Sergio aveva la vista più lunga di tutti…Erasmo D'Angelis su Il Riformista il 24 Ottobre 2023

Sergio Staino, l’intellettuale più creativo e ostinatamente ottimista e di sinistra, sarà ricordato oggi nella cerimonia di commiato nel Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio. Chissà se lo aveva messo in conto di andarsene così, lui che aveva ancora milioni di cose da disegnare e scrivere. Da strenuo combattente fino all’ultimo respiro, lottava da quasi un anno contro il colpo a tradimento di una feroce malattia neurologica che lo ha ammutolito e inchiodato per undici mesi di sofferenze su un letto di ospedale e poi su una sedia a rotelle, attraversando crisi e rianimazioni, recuperi e riabilitazioni fino al brevissimo ritorno a casa nel settembre scorso. E poi l’ultimo drammatico ricovero. Abbiamo tutti sperato nel ritorno da dove lo aveva cacciato la malattia tra medicine, cannule, siringhe, tubi e tubicini sapientemente gestita, ma se ne è andato a 83 anni vissuti intensamente. Chi era Staino? Si poteva scherzare con lui sulla sua posa sempre più somigliante al mitologico “grande vecchio” o all’adorabile saggio dalla barba bianca e il bastone, seguito dall’immancabile vaffanculo se glielo ricordavi.

Ma Sergio è stato il raro caso dell’Homo Novus rinascimentale, ha concentrato su di sé tante cose insieme. Era un Dario Fo con la matita, un Benigni dalla battuta fulminante, un poeta perennemente ispirato, un raffinato giornalista, un genio della satira, un operatore culturale come pochi, un organizzatore irrefrenabile, un polemista indomabile, uno scopritore di talenti, il terapeuta della sinistra smarrita. Aveva il dono di farci ridere e sorridere amaro ogni mattina con una sua vignetta. Era spinto, simultaneamente, dall’entusiasmo e dall’allegria esplosiva, dall’indignazione e dalla rabbia contro le debacle della civiltà, dalla curiosità sfrenata e dall’amore per tutto ciò che era vita. Era un lottatore continuo per il suo originale “Stainismo”, una sorta di comunismo immaginario e libertario, la patria dei più indifesi di questo mondo. Scaricava sul suo alter ego Bobo delusioni e frustrazioni a nome di generazioni di militanti, ma nello stesso istante si ricaricava dell’entusiasmo del ricostruttore, senza mai mollare. Era intollerante verso le nullità e i mediocri al potere e i tic e gli errori soprattutto del suo mondo, la sinistra e il centrosinistra. Ha disegnato praticamente per una vita intera, ha scritto libri, ha girato film, ha diretto giornali, e ha fatto in tempo anche a lasciare un sorriso anche sul quotidiano dei vescovi, l’Avvenire, col suo Jesus, il barbuto e capellone della Galilea “che da grande vuol fare il profeta”.

Conoscendolo da un bel po’, raccogliere i sui ricordi viene facile, tanto più che Sergio era un narratore, a lui piaceva raccontare e raccontarsi. Ricordava la sua nascita nel 1940 nel delizioso paesino di minatori dell’Amiata, la Piancastagnaio circondata ancora dalle antiche mura intorno alla Rocca Aldobrandesca. Della sua famiglia di contadini e di suo padre, il carabiniere del posto, che quando si innamorò di sua madre Norina dovette fare i conti con suo nonno Ottavio: “Norina, mai con un carabiniere!”. Vinse però l’amore, anche se due giorni dopo la sua nascita il papà fu mandato in guerra sul fronte albanese, lasciando anche loro nella miseria più nera. E allora la Norina gli faceva passare il tempo a disegnare con la matita. Dopo la Liberazione, suo padre tornò vivo e fu trasferito a Firenze, dove fece le elementari e la media e lavoretti vari iniziando dalla vendita di bibite nei cinema parrocchiali, e quindi un corso per artigiani che lo spinse in una fabbrica di ceramiche artistiche. Concluse però l’università portando con sé tutto l’orgoglio del primo Staino laureato, e in architettura poi, e del primo Staino insegnante ancorché precario di applicazioni tecniche a Scandicci. La certezza di essere sempre dalla parte giusta della barricata politica però barcollò proprio nell’esordio giovanile da militante nella scheggia più minoritaria e più settaria.

Nel 69, l’architetto Staino si ritrovò infatti iscritto al Partito Comunista d’Italia marxista-leninista, i gruppettari più moralisti, filomaoisti e fissati col regime albanese di Enver Hoxha, e divenne membro del comitato provinciale di Firenze. Ma capì tutto quando lo selezionarono per l’epico viaggio-scuola a Tirana e lui, bell’e pronto a imbarcarsi, venne fermato dai tutori dell’ortodossia. “Sospettarono fossi una spia dell’occidente capitalista”, sorrideva a raccontarcela. Insomma, un infiltrato. Ma il motivo? “La mia barba. La barba era un forte indizio della mia deriva piccolo borghese, così mi dissero. Io non ci pensavo a togliermela e allora i capi mi misero fuori dalla delegazione. A quel punto però feci la dolorosa abiura, e me la tagliai. Ma quelli scoprirono un altro grave indizio di deriva morale e politica che portavo addosso: i pantaloni a zampa d’elefante. Un altro evidente cedimento borghese. E allora feci la dolorosa seconda abiura facendoli restringere, pur di avere a tutti i costi il visto d’ingresso dal regime albanese. Mi vergogno ancora e mi vergognerò sempre di aver fatto parte di quella setta, e di essere stato così stupido da non aver capito prima che storia era quella. E me ne andai anche per il loro rifiuto di partecipare al corteo sindacale unitario del primo maggio”.

Dieci anni dopo, il 10 ottobre del ’79, dalla sua matita nacque Bobo. Lo disegnò come in autoanalisi, identico a lui, stessi tratti fisici, stesso stato di turbamento e crisi politica cronica, stessa rabbia e stesse frustrazioni di una generazione di incalliti oppositori. Tirò fuori le prime strisce dal cassetto e le inviò a Oreste Del Buono. L’allora mitico direttore del mensile “Linus” gli propose di raccontare le avventure dell’intera famiglia Bobo con la moglie Bibi, la figlia Ilaria, il figlio Michele, il vecchio Molotov, la vicina Erna. Le strip uscirono a dicembre, e fu subito boom. E lui doppiamente orgoglioso perché piacquero anche all’inarrivabile Umberto Eco. Bobo era il prototipo del militante di sinistra, per status un sofferente continuo, l’esemplare della dilaniata base militante sempre più confusa e bisognosa della terapia-Staino. “Bobo – raccontava Sergio – rappresentava il mio bilancio politico dopo un decennio di militanza fanatica al fianco degli albanesi e dei cinesi. Avevo buttato via dieci anni. E tra me e Bobo l’identificazione è stata totale, e cominciai a scaricare addosso a lui i nervi scoperti della mitica base che ha le idee chiare, vuole un progetto politico forte. E lui mi ha sorretto per tutti questi anni”.

Aveva però anche un conto aperto con la vita, Sergio. Da quando, progressivamente, è diventato cieco. Con un coraggio da leone ha sfidato la peggiore delle disabilità per un illustratore, l’esaurirsi lento ma ineluttabile della vista. Un brutto colpo fin dal 1977, dalla diagnosi all’ospedale Maggiore di Trieste di retinite degenerativa. “Mi dissero che avevo la retina di un uomo di 120 anni, e io ne avevo solo 37. Ho pianto per giorni, e il terrore di non poter più disegnare mi angosciava”, ricordava. Sapeva che sarebbe arrivato quasi alla cecità totale. E se ha retto come ha retto, lo deve soprattutto all’amore sconfinato di Bruna, la sua amatissima roccia, l’instancabile compagna di una vita.

Cominciò allora a reagire, a usare le mani e l’udito, a toccare e ascoltare e a disegnare andando sempre più a memoria. La raccontava con un fondo di tristezza la sua cecità. Ma intanto collaborava anche con il Messaggero e La Stampa, e nel 1982 iniziò con l’Unità, su pressing di Emanuele Macaluso. E lì, nel 1986, inventò il settimanale satirico “Tango” che sopravvisse per 127 numeri come inserto dell’organo del Pci, ma con la sua libertà totale e il turbamento epocale ai piani alti delle Botteghe Oscure. Sergio fece da scudo umano contro ogni tentativo di chiuderlo, avendo aggregato il top della satira dell’epoca: Pazienza, Perini, Calligari, Altan, Ellekappa, Echaurren, Riondino, Serra, Luttazzi, Guccini, Gino e Michele.

Ma accadde che Giorgio Forattini lo sfidò a mettere alla berlina anche i dirigenti del Pci. Staino rilanciò con il “Nattango”, la vignetta-parodia col tratto di Forattini con il segretario Alessandro Natta che danzava nudo al ritmo dell’orchestrina del duo Craxi e Andreotti. E infierì la settimana successiva disegnando Natta suonatore e Craxi e Andreotti ballerini. Insomma, segnò la fine del culto della personalità ma anche la fine di Tango. A Botteghe Oscure non erano tanto spiritosi, anche se tre mesi dopo, il 16 gennaio 1989, il vuoto per la perdita di una fascia di nuovi lettori fu riempito da “Cuore” diretto da Michele Serra, sul quale collaborava. Tango era intanto diventato il programma di Raitre “Teletango” nel 1987, e poi nel 1993 “Cielito lindo”.

E arrivò la regia dei film come “Cavalli si nasce” nel 1988 e “Non chiamarmi Omar” nel 1992 da un racconto di Altan. E poi tantissimi libri, cataloghi, migliaia di feste de l’Unità segnando il legame sentimentale di una lunga storia d’amore politica e culturale, la direzione artistica di teatri e di rassegne come il Premio Tenco. Sergio ha però continuato a combattere contro il buio. Da artista visivo disegnava ormai a memoria, incredibilmente riusciva a illustrare il concetto e l’idea e il disegno e la battuta che gli usciva spontanea. Buttava giù la bozza, e suo figlio Michele padrone della sua tecnica nell’editing finale adeguava le proporzioni, definiva la colorazione sulle sue indicazioni perché lui nella sua mente vedeva forme e colori delle vignette. Tutti i santi giorni creava vignette, ovunque fosse, e arrivò anche la direzione de l’Unità, proprio quella renziana riportata in edicola, dall’8 settembre del 2016 al 6 aprile del 2017. Sulle colline di Scandicci, nel silenzio di San Martino alla Palma, disegnava con la tecnologia attraverso lenti di ingrandimento sempre più potenti e l’enorme schermo del computer per ipovedenti, con la tecnica digitale e la penna touch. Lavorava con quel po’ di luce e chiaroscuro che riusciva ancora a cogliere e man mano si riducevano. Ma Sergio aveva la vista più lunga di tutti. Erasmo D'Angelis

Caro Sergio, grazie per avermi cresciuto. GIORGIO FRANZAROLI su Il Domani il 21 ottobre 2023

Le tue vignette e le tue storielle, anche quelle svincolate dalla politica, mi hanno accompagnato per tutto il corso della mia esistenza. Avevo 12 anni quando ti leggevo su linus. Quando ormai un quarto di secolo fa facesti pubblicare le mie vignette su l’Unità, fu una tale iniezione di fiducia che pensai per la prima volta che avesse un senso fare questo mestiere

Caro Sergio, so che è prevedibile e melodrammatico scrivere di te in questo modo, ma non riesco a fare diversamente, perché le lacrime ci sono e non riesco a essere distaccato ricordandoti in terza persona.

Per chi fa il nostro mestiere sei stato importante, anche con le differenze di tutti, e per tanti di noi sei stato una presenza costante, fin dall’ esordio con quel tuo Bobo che ha tirato giù le braghe al Pci tantissime volte, pur restandovi fedele e devoto, come a una mamma. Le tue vignette e le tue storielle, anche quelle svincolate dalla politica, mi hanno accompagnato per tutto il corso della mia esistenza: avevo 12 anni quando ti leggevo su linus, più avanti sulle riviste d’autore come Orient Express, poi su Tango e i quotidiani che ormai compravo e leggevo regolarmente, perché proprio grazie alle tue vignette (con quelle di Altan, di Vincino, di Ellekappa…), mi ero innamorato della satira e di questo modo così diretto e sintetico di fare informazione.

Quando ormai un quarto di secolo fa facesti pubblicare le mie vignette su l’Unità, fu una tale iniezione di fiducia che pensai per la prima volta che avesse un senso fare questo mestiere, che fosse possibile fare vignette anche uscendo dall’underground, dove fino ad allora avevo bivaccato snobbando (sbagliando) quello che consideravo il mainstream. Qualche anno dopo ti ho conosciuto di persona, quando con Giampiero Caldarella stavi formando la squadra per il nuovo inserto satirico che da lì a qualche anno avrebbe esordito su l’Unità diretta da Antonio Padellaro.

Ci incontrammo tutti a Palermo con Vincino, Giampiero e i responsabili di Libera, a un incontro su mafia e satira. Eravamo in un luogo solenne: la Biblioteca Comunale di Palermo, dove Paolo Borsellino fece il suo ultimo discorso prima di essere ucciso. Fu in quel contesto che capii che quello che facevamo (e facciamo) non sono solo vignette.

Quella sera la tv locale trasmise un servizio su di noi, e il giorno dopo in aeroporto ci avvicinarono due figuri loschi, elegantissimi. Uno dei due disse: «Siete quelli che fanno la satira? la faceste a casa vostra» seguitando con sproloqui vari in dialetto siciliano. Io me la stavo facendo addosso, fino quasi a negare che eravamo noi quelli che avevano visto alla televisione. Tu invece sorridevi, e rispondevi a tono, prendendoli per il culo.

Successivamente i nostri incontri si sono fatti più frequenti e ravvicinati, come in quella Festa de l’Unità nazionale del 2007, dove ci stanziammo con una redazione residente per pubblicare un numero quotidiano di satira interno al giornale. Seguivamo dal vivo i dibattiti, tipo quello dove Fassino disse che ci “traghettava” tutti quanti nel Pd, e un secondo dopo lo immaginavamo nelle vesti di Caronte, che portava il partito dalla culla direttamente alla tomba. Tu ci consigliavi e ci guidavi, magari limavi qualche termine sbracato, ma non mi ricordo che nessuno di noi abbia mai subìto una censura da parte tua.

In quei giorni ci raccontavi delle tue avventure politiche, della tua passione, e ammiravamo la tua tenacia e il tuo coraggio, che ti portarono ad affrontare un viaggio a Cuba, in completa solitudine, nonostante la malattia che ti stava portando alla totale cecità; una maledizione per un disegnatore. Con Emme, l’inserto divenuto organico a l’Unità, per un paio di anni abbondanti fummo con gli altri che realizzavano il giornale una vera famiglia. Il metodo (tuo e di Giampiero) era quello di creare ogni numero in modo corale, per dirla ampollosamente, “dadaista”, suggerendo temi, titoli, battute, come funzionava nei giornali francesi ai tempi di Reiser e Wolinski.

Più volte ci radunavi, a Roma, a Firenze, a Forte Dei Marmi, per confrontarci e farci conoscere, tanto che se qualcuno avesse voluto sterminare la satira italiana, avrebbe avuto la possibilità di farci fuori tutti quanti in un colpo solo. Poi anche quell’avventura è finita, abbiamo preso strade diametralmente opposte, anche ideologicamente: tu mi criticavi per dove pubblicavo le mie vignette, io ti rispondevo di guardarti invece da Renzi, che affidandoti la direzione de l’Unità, ti aveva confezionato un trappolone micidiale (come poi è stato).

Ma non è mai venuto meno il reciproco rispetto e, da parte mia, la riconoscenza: eri sempre disponibile a partecipare alle iniziative alle quali ti invitavo, e io c’ero quando ti serviva una mano coi disegni se capitavi a Bologna. Quando è morto Vincino, con cui pure mi sentivo e mi incontravo (relativamente) spesso e, recentemente, il caro Fabio Norcini, mi sono reso conto che stavano venendo meno i miei punti di riferimento artistici, ma anche di vita. A te invece attribuivo ingenuamente una forza sovrumana, pensavo che ci avresti seppellito tutti, al di là delle risate.

Fino alla notizia del tuo ricovero. Il tuo recente ritorno a casa ci aveva illuso tutti, tanto che volevo invitarti a partecipare a una mostra. Una comune, carissima, amica mi ha sconsigliato di farlo. Forse ci sentiremo al telefono, parlando di te, con il groppo in gola. GIORGIO FRANZAROLI fumettista

Estratto dell'articolo di Edoardo Semmola per su Il Corriere della Sera lunedì 23 ottobre 2023.

Questo il necrologio per la morte di Sergio Staino pubblicato sul Corriere della Sera dal presidente della Savino Del Bene. Il suo  è sicuramente il necrologio più sui generis che si sia mai visto…

«Con affetto, amicizia. Volevo ricordare l’amico Sergio così com’era, senza condoglianze di circostanze. Bisogna ribellarsi al conformismo. Lo avevo mandato anche a un altro giornale della città, ma si è rifiutato di pubblicarlo».

Un grande vignettista e il presidente della Savino del Bene, cosa vi univa?

«Intanto eravamo vicini di casa, io sto a San Michele, lui a San Martino, ci sono 500 metri di distanza. Poi la politica, sinistroni tutti e due. E soprattutto una grande amicizia di trent’anni». 

Quando è nata?

«Su un autobus, andavamo verso piazza della Signoria per una manifestazione dell’allora Pds. Sedevamo vicini e ci siamo detti: visto che siamo qui, chiacchieriamo. Ci siamo subito divisi su qualcosa, noi ci dividevamo su ogni cosa, politicamente parlando, proprio perché siamo gente di sinistra, e la sinistra si divide su tutto, no?».

[…] 

Ma quella battuta sulle donne?

«Lo sa come fanno i ciechi, no? Toccano per “vedere”. E anche lui lo faceva. Anche se conosco donne che potrebbero giurare che faceva uguale anche prima di diventare cieco. Gli piacevano tanto, ma non lo ha mai fatto in maniera volgare. La mia governante per esempio si ricorda di come lui le toccasse il braccio per parlarle, e lo ricorda con affetto».

Michele Serra per “la Repubblica” - Estratto lunedì 23 ottobre 2023.

Sergio Staino non è stato solo un grande autore e narratore satirico (uno dei più importanti del Novecento italiano). È stato anche un intellettuale generoso e indomabile, neppure scalfito dal sospetto che la politica, la cultura, l’arte potessero mai perdere rilievo e significato sotto i colpi dei tempi nuovi. Intellettuale nel senso più profondo e più concreto del termine: una persona che suscita pensiero, lo provoca, lo organizza, e nel tumulto che ne deriva si sente vivo e utile. 

Oggi, in un mondo ideologicamente scardinato, non è facile capire quale ingegnoso, incredibile azzardo fu il suo Tango: un giornale di satira dentro l’organo ufficiale del Partito comunista, un bivacco chiassoso e programmaticamente libero dentro le mura già intaccate ma ancora imponenti di quel partito che per lui, come per milioni di italiani, era ancora casa e chiesa. Sergio, in quell’ormai lontano ’86, era già il padre di Bobo.

Ovvero l’autore di una vera e propria saga del disincanto, autobiografia collettiva di un mondo perfettamente cosciente della morte dell’ideologia eppure appassionatamente vivo, persona per persona; e fermamente intenzionato a non diventare mai cinico, mai immeschinito. 

In quelle strisce l’intenzione artistica di Staino era indistinguibile da quella politica: quel gruppo di famiglia era una specie di parlamentino domestico. Bobo è una delle più fortunate, limpide applicazioni dell’idea sessantottina che niente è solo privato, niente solo politico.

Si trattava di elaborare il lutto (la casa comune si stava sfarinando, la Bolognina era alle porte) senza piangersi addosso e anzi ridendo di se stessi, terapeuticamente, intelligentemente. Bobo lo faceva a partire dai suoi esordi politici giovanili, la militanza in un partitino marx-leninista settario e moralista del quale parlava quasi con tenerezza, come di una malattia formativa. Da quell’angustia il giovane Staino, architetto già con il guizzo del disegnatore, era sortito con una gran voglia di campo aperto e di avventura intellettuale. 

Ma la vittoria di Bobo, il suo successo ben presto molto solido, non gli bastava. Bobo era un eroe collettivo, insieme a Cipputi è stato ed è il testimone impavido di un trapasso d’epoca di quelli che tutto travolgono tranne i sentimenti forti e i princìpi solidi. Il suo romanzo non poteva esaurirsi nell’autobiografia, era un romanzo sociale ed era un romanzo politico.

Aveva necessità di compagni di viaggio e andò a snidarli quasi ovunque. (Me, molto giovane, mi inchiodò al bar Basso di Milano dicendomi: tu sei un autore di satira. Non mi risultava e glielo dissi, ma non mi sembrò che la mia opinione reggesse davanti alla sua, che era quella di un capo). 

Ancora oggi mi chiedo come abbia fatto, Sergio, a mettere insieme un gruppo di autori così lontani tra loro e così lontani da lui, gli anarchici, i menefreghisti, quelli del Settantasette, i comunisti, i radicali, gli allegri sporcaccioni “alla francese”, i moralisti pan-politici. 

Con un tasso di narcisismo e di ombrosità che, per giunta, tra i satirici è spesso altissimo, perché alla foga politica tocca sommare la prosopopea artistica. Ma la sua fiducia nella interminabile e sempre inconclusa discussione che costituisce l’essenza stessa della sinistra era così forte da vincere una scommessa che, sulla carta, sembrava quasi insensata.

Andrea Pazienza con Ellekappa, Vincino con Altan, Angese con Domenico Starnone, Mannelli con Francesco Guccini, tutto si tenne. E Paolo Hendel, David Riondino, le feste di Tango a Montecchio: Cuore fu, di quella storia, una fortunata discendenza. Il figlio di quel padre. 

Già lo slogan di lancio di Tango ,“chi si incazza è perduto”, diceva tutto dello spirito di Sergio, che era aperto, curioso, disponibile, mai arcigno, mai escludente. Da Mao a Matteo Renzi (non è una battuta, è l’enunciazione di una vastità) non c’è fase o personaggio della storia della sinistra e della post-sinistra con i quali Sergio non avesse voglia di aprire un contraddittorio permanente.

Addio all’attrice Marzia Ubaldi.

(ANSA domenica 22 ottobre 2023) - È morta sabato 21 ottobre a Narni, all'età di 85 anni, l'attrice e doppiatrice Marzia Ubaldi, volto di tante fiction, dai Cesaroni a Suburra a Call My Agent. La notizia, riportata dai media umbri, è stata diffusa dalla figlia, Emanuela Moschin: "Ciao Mamma - ha scritto su Facebook - Stavolta me l'hai combinata proprio grossa… il 'chi è di scena' è stato per te". Sono completamente svuotata". 

 Nata a Milano il 2 ottobre 1938, Ubaldi aveva iniziato la sua carriera negli anni '60 al Piccolo con Luigi Squarzina, nella Congiura, recitando poi in tante opere teatrali come Il Gabbiano, Le Tre Sorelle, La Donna Serpente. Nel 1966 fu la prima a incidere La ballata dell'amore cieco di Fabrizio De Andrè. Tra i suoi ruoli al cinema Il medico delle donne (1962), e Controsesso (1964) di Marco Ferreri. 

Più tardi è stata poi la fiction a regalarle la popolarità grazie a serie come Elisa di Rivombrosa, I Cesaroni, Suburra, fino alla sua ultima apparizione quest'anno nella serie Call my agent - Italia. Nella sua carriera ha anche doppiato attrici come Judi Dench, Maggie Smith, Anne Bancroft, Gena Rowlands, Vanessa Redgrave, Jeanne Moreau. Con Gastone Moschin, con cui era stata sposata dal 1960 al 1969, aveva fondato l'accademia di recitazione teatrale, televisiva e cinematografica Mumos con sede a Terni. I funerali si terranno lunedì 23 ottobre nella chiesa della Madonna del Ponte, a Narni Scalo.

È morta Marzia Ubaldi: addio all’attrice di «Call My Agent» e de «I Cesaroni». Storia di Redazione Spettacoli  su Il Corriere della Sera domenica 22 ottobre 2023.

Lutto nel mondo del cinema: sabato 21 ottobre 2023, a 85 anni, è morta Marzia Ubaldi. L’attrice e doppiatrice aveva 85 anni. Ex moglie di Gastone Moschin, con cui è stata sposata dal 1960 al 1969, insieme hanno fondato l’accademia di recitazione teatrale, televisiva e cinematografica Mumos con sede a Terni. Una lunga carriera la sua, tra cinema, musica, teatro e televisione. Da molti anni Marzia aveva scelto di stabilirsi a Narni, dove, insieme alla figlia Emanuela e alle due nipoti aveva avviato un allevamento di chihuahua.

Nata a Milano il 2 giugno del 1938, Marzia Ubaldi ha iniziato la sua carriera di attrice negli anni Sessanta presso il Piccolo di Milano dove è stata anche protagonista dell’opera La Congiura.Ebbe anche una carriera musicale e nel 1966 fu la prima a incidere La ballata dell’amore cieco di Fabrizio De Andrè. In parallelo è iniziata la sua carriera cinematografica con ruoli in Il medico delle donne, Farfalle, I Predatori, ma anche negli sceneggiati, come si chiamavano allora le fiction, La coscienza di Zeno, L’armadietto cinese.. E i successi noti al grande pubblico come Elisa di Rivombrosa, I Cesaroni, Nero Wolf, Suburra, fino alla sua ultima apparizione nel 2023 nella serie Call my agent – Italia. Negli ultimi giorni era proprio sul set della serie adattamento della serie francese Dix Pour Cent. Ubaldi avrebbe finito di girare le scene della seconda stagione nei giorni scorsi.arzia Ubaldi era anche una nota doppiatrice, ha dato la voce a Judi Dench, Maggie Smith, Faye Danaway.

«Ciao Mamma – scrive sulla sua pagina Facebook la figlia, Emanuela Moschin – Stavolta me l’hai combinata proprio grossa… il ‘chi è di scena’ è stato per te”. Sono completamente svuotata». Queste le parole di Emanuela . I funerali ci saranno lunedì 23 ottobre nella chiesa della Madonna del Ponte, a Narni Scalo.

Addio a Marzia Ubaldi: l'attrice ha recitato in "I Cesaroni" e "Suburra". "Ciao mamma... stavolta me l'hai combinata proprio grossa", è il commento commosso della figlia Emanuela. Federico Garau il 21 Ottobre 2023 su Il Giornale.

Si è spenta quest'oggi all'età di 85 anni Marzia Ubaldi, attrice e doppiatrice italiana resa celebre negli ultimi anni dai ruoli da lei interpretati in due serie televisive di grande successo come "I Cesaroni" e "Suburra".

Nata a Milano il 2 giugno del 1938, da anni aveva deciso di vivere alle porte di Capitone, frazione del comune di Narni della provincia di Terni, insieme alle sue due nipoti e alla figlia Emanuela, con cui gestiva un allevamento di chihuahua.

Fu negli anni Sessanta che iniziò la sua carriera di attrice teatrale presso il Piccolo Teatro di Milano, dove prese parte, nel ruolo di protagonista, all'opera "La Congiura", messa in scena dal regista Luigi Squarzina. Tra le altre interpretazioni teatrali di spicco, si ricordano quelle ne "Il Gabbiano", ne "Le Tre Sorelle" e ne "La Donna Serpente". Sempre negli anni Sessanta si affacciò anche al mondo della musica: come cantante firmò alcuni pezzi per la casa discografica Karim, e fu proprio lei a incidere la prima versione della celebre canzone "La ballata dell’amore cieco (o della vanità)" di Fabrizio De Andrè nel 1966:"Ne temevo la reazione...", aveva spiegato Ubaldi ricordando quel momento emozionante, "disse che era una meraviglia". Tra il 1960 e il 1967 fu sposata con l’attore Gastone Moschin. Con quest'ultimo, e con la figlia Emanuela, nel 2003 fondò l’accademia di recitazione teatrale, televisiva e cinematografica Mumos di Terni: tutti e tre ricoprirono il ruolo di docenti. Un'esperienza che per lei si concluse nel 2013.

In qualità di doppiatrice diede la sua voce a numerose attrici straniere particolarmente note, come Judi Dench, Maggie Smith, Anne Bancroft, Gena Rowlands, Vanessa Redgrave e Jeanne Moreau. Oltre che in teatro recitò anche per il grande schermo, a partire dalla sua partecipazione ne "Il medico delle donne" (1962), film diretto da Giorgio Simonelli. L'ultima esperienza cinematografica risale al 2020, quando prese parte al film "I predatori" di Pietro Castellitto.

Al suo attivo numerose partecipazioni in sceneggiati televisivi e serie, tra cui si ricordano "La coscienza di Zeno" (1966), "Nero Wolfe" (1969), "Incantesimo" (2003), Elisa di Rivombrosa (2003/2004), "I Cesaroni" (2010), "Questo nostro grande amore" (2012/2018) e Suburra (2020): la apparizione più recente è stata in "Call my agent", serie televisiva trasmessa da Sky all'inizio del 2023 e remake della francese Dix pour cent.

"Ciao Mamma. Stavolta me l’hai combinata proprio grossa... il ‘chi è di scena’ è stato per te. Sono completamente svuotata...", ha scritto sulla sua pagina facebook la figlia Emanuela Moschin. I funerali dell'attrice sono in programma il prossimo lunedì 23 ottobre alle ore 11.00 presso la chiesa Madonna del Ponte, in via del Santuario a Narni scalo.

Addio a Burt Young, il "Paulie" di Rocky. Il commosso post di Stallone. Scomparso all'età di 83 anni l'attore italo-americano Burt Young, conosciuto per il ruolo di Paulie Pennino nella saga di Rocky. Roberta Damiata il 19 Ottobre 2023 su Il Giornale.

È morto a Los Angeles all'età di 83 anni Burt Young, uno dei personaggi più amati della saga cinematografica di Rocky, cognato e amico di Rocky Balboa, l'iconico pugile interpretato da Sylvester Stallone. Per il suo personaggio di Paulie Pennino era stato candidato all'Oscar come miglior attore non protagonista. L'attore è scomparso l'8 ottobre, ma solo oggi se n'è avuta notizia per voce della figlia Anne Morea Steingieser al New York Times, che non ha però rivelato la causa del decesso..
La carriera di attore

Il vero nome era Gerald 'Jerry' Tommaso De Louise. Prima di dedicarsi al mondo del cinema aveva prestato servizio nel corpo dei Marines. La passione per la recitazione fu però più forte tanto a spingelo a studiare al prestigioso Actor Studio di Lee Strasberg. Durante il suo lungo percorso lavorativo Young ha prestato il suo volto principalmente a personaggi duri sia sul grande che sul piccolo schermo. La sua bravura recitativa riusciva ad imprimere una grande profondità a questo genere di parti.

Ricordato principalmente per il ruolo in Rocky in realtà è stato un attore che ha ricoperto molti ruoli partecipanto in tutto a oltre 160 produzioni cinematografiche e televisive. Fu Joe nel film C'era una volta in America di Sergio Leone, ha recitato anche in Chinatown, Il Papa del Greenwich Village e ha fatto numerose apparizioni come ospite in televisione in serie come M*A*S*H, The Rockford Files, Baretta e Law & Order.

La passione per la pittura

Grande amante dell'arte, in tarda età aveva dato seguito a questa passione diventando un'importante pittore, le cui opere sono state esposte nelle gallerie di tutto il mondo.

Il ricordo di Stallone

Sylvester Stallone, grande amico dell'attore, lo ha ricordato con un post molto commovente: "Al mio caro amico, Burt Young, sei stato un uomo e un artista incredibile, mancherai tantissimo a me e al Mondo... RIP". A lui si sono uniti molti altri personaggi del mondo dello spettacolo con cui l'attore aveva lavorato nel corso della sua lunga carriera.

Estratto dell’articolo di leggo.it giovedì 19 ottobre 2023

È morto Burt Young, attore che ha interpretato il ruolo di Paulie Pennino in Rocky. L'artista aveva 83 anni. È deceduto nella sua casa di Los Angeles. La sua morte è stata confermata dalla figlia, Anne Morea Steingieser, al New York Times, che non ha però rivelato la causa del decesso. 
Burt Young è stato uno dei protagonisti della fortunata serie di Rocky. Sylvester Stallone gli ha reso omaggio con un messaggio pubblicato sui social. «Al mio caro amico Burt Young, sei stato un uomo e un artista incredibile, mancherai tantissimo a me e al mondo», ha scritto Stallone.
Nato nel Queens, a New York, il 30 aprile 1940, mentre lavorava come pulitore di tappeti, venditore e installatore, Young iniziò a studiare all'Actors Studio con Lee Strasberg, che sarebbe stato il suo mentore. Il suo primo ingaggio come attore avvenne all'età di 28 anni in una commedia teatrale. I suoi primi film furono storie che ruotavano intorno al crimine: «La gang che non sapeva sparare» (1971), «Il mio uomo è una canaglia» (1971) e «Rubare alla mafia è un suicidio» (1972). 

L'attore scelse come nome d'arte quello composto dal suo attore e cantante preferiti, Burt Lancaster e Neil Young. Nel biennio 1973-74 Young fu particolarmente attivo, recitando in «Un grande amore da 50 dollari» di Mark Rydell, «40.000 dollari per non morire» di Karel Reisz, «Chinatown di Roman Polanski, »La gemma indiana« di Marvin J. Chomsky e »Killer Elite« di Sam Peckinpah.

Nei panni dell'arcigno pugile semi dilettante Paulie Pennino, fratello maggiore della moglie del migliore amico Rocky, Adrian (Talia Shire), Young è stato una colonna portante della saga di Stallone a partire dal film inaugurale del 1976. Dopo aver allenato il pugile in una cella frigorifera di un un mattatoio di Philadelphia, dove l'italo-americano Pauline Pennino era impiegato, l'attore è stato un punto fermo di tutti i film fino a »Rocky Balboa« (2006). 

[...] Ha recitato in «Convoy - Trincea d'asfalto» (1978) di Sam Peckinpah (1978), «California Dolls» (1981) di Robert Aldrich, «Oltre il ponte di Brooklyn» (1984) di Menahem Golan (1984), «Legami di sangue« (1989) di Peter Masterson, »Ultima fermata Brooklyn« (1989) di Uli Edel, »Partita col destino (1999) di Nick Stagliano (1999), «Pluto Nash» (2002) di Ron Underwood (2002). Young è stato diretto in più occasioni da registi italiani: «Amityville Possession» (1982) di Damiano Damiani, «Americano ross» (1991) di Alessandro D'Alatri (1991), «Cattive ragazze» (1992) di Marina Ripa di Meana (1992), «Alibi perfetto» (1992) di Aldo Lado, «Berlin '39» (1994) di Sergio Sollima, «Terra bruciata» (1999) di Fabio Segatori, «L'uomo della fortuna» (2000) di Silvia Saraceno, «Il nascondiglio» (2007) di Pupi Avati (2007), fino al più recente «Ci vediamo domani» (2013) di Andrea Zaccariello con Enrico Brignano. [...] 

Ha interpretato il padre mafioso in pensione del personaggio di Steve Schirripa ne «I Soprano». Per tutta la vita Young ha coltivato la passione per la pittura, alimentata da quando, all'età di 11 anni, vinse un cavalletto e una cassetta di colori in un concorso scolastico. Ha collaborato con lo scrittore Gabriele Tinti per il quale ha disegnato la copertina della raccolta di poesie «All over» e illustrato l'art book «A man».

Marco Giusti per Dagospia giovedì 19 ottobre 2023

Così perdiamo anche Burt Young, 83 anni, il Paulie della saga di Rocky, lo interpretò per ben sei volte, ma anche il Curly (Ricciolo) di “Chinatown” di Roman Polanski, il Pig Pen di “Convoy” di Sam Peckinpah, uno dei caratteristi italo-americani più famosi di sempre, piccolo, grassottello, con la faccia furba, sempre un po’ sporco, ma capace anche di dimostrare gentilezza, sentimento. Attivo sia in America che in Italia in ruolo, quasi sempre, di mafioso, boss o semplicemente italo-americano di Brooklyn.

Preparatissimo, impostato da Lee Strasberg a teatro e poi passato al cinema, è stato attivo fino all’ultimo, girando qualcosa come 169 film, tra film per il cinema e film per la tv, non facendosi negare partecipazioni eccellenti a serie famose come “Baretta” (venne nominato per un Emmy) o “I Soprano” come Bobby Baccalà Sr, diventando amico di grandi registi come Robert Aldrich e Sam Peckinpah o di attori come James Caan, con il quale ha girato ben quattro film o Peter Falk o Eli Wallach. Dopo aver interpretato un piccolo ruolo con Sergio Leone in “C’era una volta in America” fu Ciro Ippolito a chiamarlo in Italia come uno dei protagonisti, assieme a Eric Roberts e Eli Wallach” della serie tv “Donna d’onore” nel 1990. Un ruolo che gli aprì parecchie porte nel cinema italiano.

Nato nel Bronx nel 1940, ma non con questo nome, ha un passato un po’ misterioso che non ha mai voluto chiarire del tutto. Il padre era un venditore di ghiaccio che poi diventò insegnante. Viene arruolato come marine a 16 anni, tra il 1957 e il 1959. “Questa è l’ultima cosa legale che ho fatto per dieci anni”, dirà in un’intervista degli anni ’70. “Ho fatto un mucchio di cose che non posso riferire”. Fa mille mestieri. Di sicuro a un certo punto è costretto a lasciare New York e finisce a Nantucket.

Poi torna a New York a 28 anni. Sembra che in quegli anni si sia anche mosso nel pugilato agonistico, ma non col nome di Burt Young. A un certo punto, a Corona, nel Queens, dove abitava e lavorava, si fa chiamare Dick Mora, e fa da amico/manager a pugile chiamato Bobby Cassidy. Si vantava, ma è tutto da verificare, di aver fatto anche lui il pugile. Che il suo manager fosse stato Cus D’Amato, lo stesso di Floyd Patterson e del Mike Tyson degli inizi. Si vantava anche di aver sfidato per il titolo dei massimi a Toronto il pugile George Chuvalo nel 1960.

Di certo saranno state le sue storie sulla boxe a renderlo fondamentale come Paulie per Sylvester Stallone che lo vorrà a suo fianco nel 1976. A metà degli anni '60 si mette con una barista che voleva frequentare i corsi per attori di Lee Strasberg all’Actor’s Studio. Gli scrive una lettera non sapendo neanche se Lee Strasberg fosse un uomo e una donna. Ma la sua lettera, dove racconta tutto quello che ha combinato in quegli anni fa colpo, perché Strasberg lo chiama a casa sua. Non pensa che possa diventare un attore, ma gli permette di frequentare i suoi corsi. Così diventa attore di teatro off-Broadway e inizia a farsi un nome.
 “Burt era più un tipo che un attore", dirà anni dopo Strasberg, “Per lui è stato difficile. Se aveva qualcosa dentro, lo doveva smuovere. E’ stato quando ha messo del carattere nel suo tipo che è diventato un attore. Ha un tipo di gentilezza che è straordinaria”. Inizia il cinema nel 1970, con un altro nome, con una particina nell’horror “Carnival of Blood” di Leonard Kirtman, un film girato in due settimane e mezzo. Si riscrive anche il suo ruolo. E si vantava di non averlo mai visto.

Ma è già un solido caratterista di grande presenza, col nome di Burt Young, nel bel film di Ivan Passer, sempre del 1970, “Il mio uomo è una canaglia” (“Born To Win”) con George Segal, Karen Black e Paula Prentiss. Nello stesso film, come nel successivo “La gang che non sapeva sparare” di James Goldstone, una commedia sui mafiosi italo-americani con Jerry Orbach, Lionel Stander, troviamo assieme a lui anche un giovane Robert De Niro. Ma tutti e due hanno un ruolo maggiore già nel film di Goldstone. Burt Young è Willie Quarequlo. Lo troviamo anche in “Rubare alla mafia è un suicidio” di Barry Shear con Anthony Quinn e Tony Franciosa.

Incontra James Caan nell’ormai lontano “Un grande amore da 30 dollari” di Mark Rydell, dove recita con Eli Wallach. Seguono grandi titoli, come “Chinatown” di Roman Polanski, dove è Curly, ma la sua scena migliore venne tagliata al montaggio perché confondeva la logica narrativa del film (“L’hanno tagliata, ma hanno fatto bene”). O “Killer Elite” di Sam Peckinpah con James Caan e Robert Duvall, “Balordi&Co” sempre di Rydell con Caan, Elliott Gould e Michael Caine, “The Gambler” di Karel Reisz con Caan. E’ già un noto caratterista quando lo chiama Stallone per il ruolo di Paulie in “Rocky” nel 1976. 
La produzione dice che non ci sono molti soldi, ma Burt Young accetta di corsa, pensando che sia una grande occasione. Infatti, gli arriverà già nel 1976 una nomination agli Oscar e i sei film di Rocky che girerà ne faranno una star e gli daranno la popolarità che gli serviva per arrivare fino ai giorni d’oggi lavorando ininterrottamente. Gira ottimi film tra la fine degli anni ’70 e i primi ’80, “Ultimi bagliori di un crepuscolo”, “I ragazzi del coro” e “California Dolls” di Robert Aldrich, “Convoy” di Sam Peckinpah come Pig Pen.

Ha anche modo di scrivere la sceneggiatura di un film che lo vedrà protagonista, “Uncle Joe Shannon” diretto da Joseph C. Hanwright, dove interpreta un musicista depresso e, per una volta, non il solito italo-americano comico. Leone lo vuole in “C’era una volta in America” nel 1984, ma è più interessante il suo ruolo di Beg Bud Eddie in “Il papa di Greenwich Village” di Stuart Rosenberg. Prima di partire per l’Italia con “Donna d’onore”, chiamato da Ciro Ippolito, lo vediamo in “Ultima fermata Brooklyn" di Uli Edel con Jennifer Jason Leigh. 

 In Italia lo troviamo a più riprese, in “Terra bruciata”, sorta di mafia-western di Fabio segatori con Raoul Bova e Bianca Guaccero, “GoGo Tales” di Abel Ferrara, “Carnera” di Renzo Martinelli. Gira davvero di tutto negli anni successivi, ma non vediamo grandi film. Meglio come Bobby Baccalà Sr in una bella puntata de “I Soprano” 

Marco Molendini per Dagospia mercoledì 18 ottobre 2023.

Diceva Duke Ellington, A drum is a woman (Il tamburo è una donna) , oggi sarebbe  un titolo politicamente scorretto, ma ai tempi in cui scrisse quel brano, le donne nel jazz non erano neppure i tamburi, cantanti si (e che cantanti, Billie Holiday, Ella Fitzgerald, Sarah Vaughan), musiciste assai poco (Mary Lou Williams, Dorothy Donegan), musiciste e band leader ancora meno (l’ex signora Armstrong Lil Hardin). Carla Bley è stata una pioniera energica e piena di idee in anni tosti.

La sua storia, ora che se ne è andata a 87 anni dopo aver lottato contro un crudele tumore al cervello, resta un esempio folgorante nel jazz, per continuità, livello, originalità. Pianista, compositrice, organizzatrice negli anni Sessanta che contestavano anche in musica, assieme al marito Mike Mantler, mette insieme un’orchestra sperimentale che sfida tempi e difficoltà, la Jazz composer orchestra, una formazione d’avanguardia dura e pura che produce un’opera rimasta nella storia, Escalator over the hill.

Ama il jazz, ha fatto, perfino, la sigaraia al mitico Birdland, il jazz club intitolato a Charlie Parker, continua a farsi chiamare Bley dal cognome del primo marito, il pianista Paul Bley, ascolta musiche di ogni genere, jazz, classica, avanguardia, opera, rock.  A Londra incrocia Jack Bruce, suona le tastiere nella band del chitarrista dove c’è anche Mick Taylor, conosce Nick Mason con il quale lavorerà negli anni 80 (l’album  Fictitious Sports è in realtà un disco più di Carla che del batterista dei Pink Floyd, pubblicato a nome di Mason per ragioni commerciali). È curiosa di tutto, ha alcuni riferimenti prediletti come il contrabbassista Charlie Haden (con il quale prende parte, fin dall’inizio, a quell’appassionata avventura libertari della Liberation music orchestra).

Però ama sopratutto la sua big band che diventerà il laboratorio prediletto, tranne quando, anche per motivi economici girerà in formazioni ridotte, compreso l’eterno duo con il secondo marito, il contrabbassista Steve Swallow. La big band, è il suo teatro, i concerti sono happening controllati, i musicisti sono sempre di altissimo profilo, gli arrangiamenti sgargianti, l’energia travolgente, lei imperturbabile sotto quel casco di capelli biondi che la incorniciano.

È imperturbabile anche quel giorno infuocato di sudore e contestazioni a Città di Castello a Umbria jazz del ‘78. Il concerto è una scorpacciata di suoni (per fortuna si trova qualcosa su you tube) e mentre i contestatori assediano il palco minuscolo, la musica va avanti maestosa, più forte di ogni altra cosa. E ancora più indimenticabile è la sua presenza, sempre a Umbria jazz , dove è tornata tante volte, ma mai soprattutto quell’anno, il 1996. A San Francesco al prato, notte dopo notte in un luogo magico, sottratto al festival in un restauro brutale, incantava con pezzi come Who will rescue you?, con il trombone gigantesco di Gary Valente, la tromba di Lew Soloff, il sax di Andy Sheppard.

Concerti memorabili: per fortuna c’è la testimonianza raccolta in un disco live, The Carla Bley band goes to church cbe, pur bellissimo, non può restituire le emozioni di quelle notti senza fine, rese ancor più lunghe dalle richieste di bis e dalla voce di Carla lusingata che rimprovera  il pubblico: “You are very demanding”, siete insaziabili. Che bello essere insaziabili e che bello sarebbe rivivere una di quelle notti, specie in questi anni in cui le emozioni in musica, quando va bene, sono pallide sollecitazioni che lasciano a riposo l’adrenalina.

È morta Suzanne Somers, attrice di “Tre cuori in affitto”. Combatteva da anni contro un cancro. Aveva 76 anni. La Repubblica il 16 ottobre 2023.  

È morta Suzanne Somers, attrice nota per aver interpretato la bionda Chrissy Snow nel telefilm ”Tre cuori in affitto”. Aveva 76 anni. Somers combatteva contro un cancro al seno da oltre 23 anni. “Se ne è andata domenica mattina”, ha fatto sapere la famiglia in una dichiarazione. Suo marito Alan Hamel, suo figlio Bruce e altri parenti stretti erano con lei a Palm Springs, in California.

"La sua famiglia si era riunita per festeggiare il suo 77esimo compleanno, il 16 ottobre", si legge nella dichiarazione. "Invece, celebreranno la sua vita straordinaria e ringrazieranno i suoi milioni di fan e follower che l'hanno amata teneramente".

Somers è nata nel 1946 a San Bruno, California, da un padre giardiniere e una madre segretaria. Aveva trascorso un’infanzia molto difficile soprattutto a causa dei problemi di alcolismo di suo padre. Si era sposata a 19 anni, con Bruce Somers, dopo essere rimasta incinta del figlio Bruce. La coppia divorziò tre anni dopo e lei iniziò a fare la modella per The Anniversary Game. In quel periodo incontrò Hamel, che poi sposò nel 1977.

Debuttò come attrice alla fine degli anni 60: il suo primo ruolo nel film di Steve McQueen Bullitt. Divenne però celebre quando fu scelta come la bionda al volante della Thunderbird bianca nel film del 1973 American Graffiti di George Lucas.

Recitò in molte serie televisive negli anni 70, tra cui Agenzia Rockford, Magnum Force e L’uomo da sei milioni di dollari. La grande popolarità arrivò però con Tre cuori in affitto, trasmesso su ABC dal 1977 al 1984, anche se la sua partecipazione si interruppe nel 1981. Nella fortunata interpretava la bionda svampita che condivideva un appartamento a Los Angeles con Joyce De Witt e con uno straordinario John Ritter nei panni di Jack: il coinquilino che si fingeva gay pur di rimanere in casa con le due belle ragazze.

(ANSA lunedì 16 ottobre 2023) - Suzanne Somers, la star di popolari sitcom come Tre Cuori in Affitto è morta ieri a 76 anni nella sua casa di Palm Springs in California dopo una battaglia ultraventennale contro il cancro. Oggi sarebbe stato il suo 77esimo compleanno. "Era circondata dal marito Alan, il figlio Bruce e la famiglia più stretta, venuta per festeggiarla. Hanno invece celebrato la sua vita straordinaria", ha detto il portavoce R. Coury Hay. Suzanne era diventata famosa negli anni Settanta con la parte della bionda svampita in Tre Cuori in Affitto da cui era stata poi licenziata quando aveva chiesto di essere pagata come i colleghi maschi.

 Da lì aveva costruito un impero basato sul wellness lanciando tra l'altro un attrezzo ginnico battezzato ThighMaster per ottenere cosce d'acciaio di cui lei stessa fece da testimonial. Tre Cuori in Affitto aveva debuttato nel 1977: la storia di due ragazze che dividono un appartamento e che accettano un uomo come terzo inquilino: quando il padrone di casa obietta perchè un uomo single abitava con ragazze non sposate, il gruppo finge che lui sia gay. Arrivata alla quinta stagione, la serie era diventata una delle piu' popolari sulla tv americana.

Poi cominciarono a far notizia i negoziati contrattuali della Somers che nel 1982 pretese un aumento di 20mila dollari ad episodio, da 30 a 50mila dollari, e venne alla fine licenziata. Il debutto al cinema era stato nel 1973 con una piccolissima parte in American Graffiti: la Somers mormora "Ti amo" a una delle star, Richard Dreyfuss. Per quel film, Suzanne non ebbe crediti e alla fine della pellicola venne indicata solo come "Bionda su una T-Bird": la scena catturò l'attenzione del comico della notte Johnny Carson che la invitò a partecipare a una puntata del Tonight Show presentandola come "la misteriosa bionda sulla Thinderbird".

Da corriere.it domenica 15 ottobre 2023.  

È morto Cesare Rimini, avvocato, giornalista e scrittore italiano. Aveva 91 anni. Rimini è stato autore di molti commenti sul tema dei matrimoni — argomento sul quale era specializzato — sul Corriere della Sera e per il sito dove ha curato il forum «Matrimonio».

(...) Diversi i libri che ha pubblicato, non solo di diritto, per Mondadori, Longanesi, Fabbri, Bompiani, ESR. Da «Dica pure avvocato» del 1988 a «Una carta in più» del 1997 (con, in copertina, la carta d’identità di Rimini con il falso nome — Ruini — adattato nel periodo giovanile in cui viveva a Mondaino) a «Forse che no. Alla ricerca dell'eleganza», del 2011, per citare qualche titolo. 

Tra le sue opere, anche filastrocche per bambini. Nell’ambito della letteratura per ragazzi venne coinvolto nel progetto ludico didattico «La parola alla giuria», pubblicato a metà degli anni ‘70 sul Corriere dei Ragazzi, ideato e sceneggiato da Mino Milani e illustrato da Milo Manara. La rubrica, che istruiva un immaginario processo a vari personaggi della storia, prevedeva una sentenza espressa dai lettori che poi veniva giuridicamente commentata da Rimini.

Amico fraterno di Enzo Biagi, con il quale beveva il caffé ogni mattina, dagli anni ‘50 Rimini era stato un protagonista della vita sociale e culturale di Milano, «tra le città italiane — amava dire — più vitali». Per sette anni era stato presidente dell’Istituto Besta e per altri sette presidenti della Filarmonica della Scala.

Marco Giusti per Dagospia domenica 15 ottobre 2023.

Se ne va la strepitosa Piper Laurie, 91 anni, capelli rossi occhi castani, grande presenza sullo schermo, tre volte candidata all’Oscar, per “Lo spaccone” di Robert Rossen con Paul Newman giocatore di biliardo, per “Carrie – Lo sguardo di Satana” di Brian De Palma dove è la mamma cattivissima dai terribili capelli rosso fuoco di Sissy Spacek e per “Figli di un dio minore” di Randa Haines, primo film di una donna candidato agli Oscar. Ma il pubblico la amava soprattutto per aver preso parte a una serie di culto come “Twin Peaks” di David Lynch, ben 27 puntate.

Nata a Detroit nel 1932 come Rosetta Jacobs, si sposta ancora bambina a Los Angeles assieme alla famiglia per curare l’asma della sorella. A 16 anni la Universal la sceglie fra tante ragazzine che studiavano recitazione nelle scuole di Los Angeles, le cambiano il nome in Piper Laurie, che a lei, nelle interviste del tempo, sembra troppo simile a quello di Peter Lorre, le fanno un contratto di sette anni, 1000 dollari a settimana, e così fa il suo esordio a Hollywood giovanissima, nel 1950, come figlia di Ronald Reagan in “Louise”, da noi “Amo Luisa disperatamente”, diretto da Alexander Hall. 

E’ lì, come ha rivelata nella sua autobiografia senza veli, che perde la verginità, a 18 anni. A fargliela perdere, guarda un po’, è proprio il futuro presidente, Ronald Reagan, che aveva allora ben 39 anni. Decisi a sfruttarla il più possibile, i geni della Universal le fanno fare quattro-cinque film alla volta, mettendola a lavorare anche 18 ore di fila, la mandano in gira per l’America, la portano in Corea dai soldati in guerra. Tra i suoi primi film alla Universal troviamo “Il lattaio bussa una volta” di Charles Barton con Donald O’Connor, “Francis alle corse” di Arthur Lubin, sempre con Donald O’Connor, ma soprattutto “Il principe ladro”, favolistico in Technicolor diretto da Rudolph Maté dove per la prima volta fa coppia con Tony Curtis.

La Universal lanciò Tony Curtis e Piper Laurie come una vera e propria coppia giovanile in Technicolor e li volle in altri tre film, tutti a colori ovviamente, “Non c’è posto per lo sposo” di Douglas Sirk, “Il figlio di Alì Baba” di Kurt Neumann e “Bolide rosso” di George Sherman. Alla brava ragazza dai capelli rossi di Detroit unì il fascino di Tony Curtis. I nomi, ricordava Piper Laurie al tempo, erano spesso storpiati.

Venivano fuori anche come “Piper Cub e Tony Martin”. Ma Piper Laurie fece coppia anche con altri belli del tempo, come Rock Hudson, in “Il capitalista” di Douglas Sirk e “La spada di Damasco” di Nathan Juran, o come Tyrone Power in “L’avventuriero della Louisiana” di Rudolph Maté o Rory Calhoun in “Alba di fuoco” di George Sherman o Dana Andrews in “Segnali di fumo” di Jerry Hopper. I piccoli film della Universal fecero di Piper Laurie una sorta di ragazzina prezzemolino ma focosa che aveva la grinta necessaria per recitare da pari a pari con i belli del tempo non turbando troppo i sogni degli spettatori.

Non cambia molto i suoi ruoli passando alla RKO per il film in 3D “Agente federale X3” di Louis King con Victor Mature. Alla fine del contratto, rompe con la Universal e con tutta Hollywood perché non riesce più a sopportare lo studio system e tutta questa massa assurda di film. “Se fosse rimasta a Hollywood mi sarei uccisa”, dirà, “o qualcuno lo avrebbe fatto per me”. Ha sempre sostenuto, inoltre, che non la vedevano neanche come una vera e propria attrice, ma come una proprietà. In un’intervista del 1957 si apre e dice che non ha amato nessuno dei film che ha fatto a Hollywood, non ha mai amato il suono del nome finto che le avevano dato, il fatto che sentisse che la gente rideva quando la menzionavano come attrice con quel nome. E sosteneva che il male di tutto era un contratto che aveva firmato quando era davvero troppo piccola per capire, solo 16 anni… “La Piper Laurie che lo studio aveva creato era completamente irreale, una creatura folle che faceva il bagno nel latte e mangiava fiori e posava da pin-up per i film con questi capelli rossi. Io non ho nessun rispetto per i film che ho fatto in quei sette anni. Non ho mai avuto una parte né realistica né credibile”.

A metà degli anni ’50, quindi, ripudia tutto quello che ha fatto prima e si rimette in gioco da attrice drammatica. Fa un po’ di televisione e torna in un film dove finalmente recita, “Quattro donne aspettano” diretto da Robert Wise, dove assieme a Jean Simmons, Joan Fontaine e Sandra Dee è una delle quattro ragazze neozelandesi che aspettano i mariti americani soldati in guerra. E uno è Paul Newman. Non è un capolavoro, ma è comunque un film accettabile diretto da un bravo regista di prestigio. Il suo vero, grande ritorno al cinema però è nel 1961 con “Lo spaccone” di Robert Rossen dove torna a recitare con Paul Newman da co-protagonista in un ruolo, quello di Sarah Packard che le frutterà una nomination agli Oscar. Il film, malgrado le nove nomination, ne vinse solo due, uno per la fotografia e uno per la scenografia. Ma lanciò come attori Paul Newman, che anche nei racconti di Piper Laurie, fino a quel momento, non credeva molto nelle proprie capacità attoriali, e George C. Scott.

Pur lanciatissima, tra la prima nomination agli Oscar e la dimostrazione del fatto che fosse una vera attrice, per seguire la famiglia, il marito Joe Morgenstern e la figlia appena nata, Piper Laurie si allontanò dal cinema per ben quindici anni, anche se accettò una serie di film per la tv. Piccole cose. Per rivederla su grande schermo dobbiamo aspettare fino al 1976, quando Brian De Palma le offre in “Carrie – Lo sguardo di Satana”, il ruolo della sua vita, quello della terribile madre fanatica religiosa di Sissy Spacek. Qualcosa di memorabile che lasciò davvero il segno. Anche perché il pubblico non si era certo scordato la massa di filmetti zuccherosi in Technicolor che la rossa Piper Laurie aveva recitato negli anni ’50 . E il suo ruolo in “Carrie” sembrò a tutti la vera vendetta dell’attrice contro il mondo di Hollywood che l’aveva così malamente sfruttata da ragazzina.

Come mamma cattiva, pronta per l’horror, Piper Laurie rientrò alla grande nel mondo del cinema. “Carrie” fu un grande successo e dette il via a tutta una nuova serie di film dove è la famiglia a creare il vero orrore. La ritroviamo così in “Ruby” di Curtis Harrington con Stuart Whitman, ma anche in film difficili, come “Tim – Un uomo da odiare” di Michael Pate con Mel Gibson giovane e bello in un ruolo da ritardato che tutti sfruttano e Piper Laurie scelta dal regista proprio dopo averla vista in “Ruby”. Nella sua autobiografia, Piper Laurie racconta che lei e Mel Gibson, malgrado i 25 anni di differenza ebbero una storia sul set. 

Negli anni successivi, soprattutto dopo la separazione dal marito nel 1982, fa tanta tv, serie e film tv. Fra i rari film la ricordiamo come zia Emma in “Nel fantastico mondo di Oz” di Walter Murch, ma soprattutto in “Figli di un dio minore” di Randa Haines con Marlee Matlin e William Hurt, che la porterà per la terza volta alla nomination all’Oscar. Un film importante, anche perché fu il primo film diretto da una donna candidato al premio. Ma di tante nomination l’unico Oscar andò alla giovane interprete sordomuta Marlee Matlin. Negli anni ’80 ritroviamo Piper Laurie in film come “Appuntamento con la morte” di Michael Winner con Peter Ustinov, ma anche in film più marginali e originali come “Un piccolo sogno” di Marc Rocco, “Deviazioni” di Armand Mastroianni. Ma sarà il personaggio di Catherine Martell nella serie di culto di David Lynch “Twin Peaks” a darle una status ancora maggiore.

Toccata da Lynch e De Palma, con un passato così assurdo di film in Technicolor girati a Hollywood e con ben tre nomination per film del tutto diversi, Piper Laurie passa gli ultimi trent’anni della sua carriera passando da un film all’altro fino a pochissimi anni fa, l’ultimo film è “Cocaine – La vera storia di White Boy Rick” di Yann Demange del 1018. E alterna produzioni maggiori, come “The Crossing Guard” di Sean Penn con Jack Nicholson a horror italiani, come “Trauma” del maestro Dario Argento con Asia, da “I soldi degli altri” di Norman Jewison con Danny De Vito e Gregory Peck allo splatter “The Faculty” di Robert Rodriguez, recita con il vecchio Ernest Borgnine in “L’alba di un vecchio giorno” di Greg Swartz e con Joseph Gordon-Levitt in “This Is Hesher” di Spencer Susser. Senza scordare serie, partecipazioni. Il ruolo, negli ultimi film, era rigidamente quello della nonna.

Morta Louise Glück, poetessa premio Nobel. Storia di ROBERTO GALAVERNI su Il Corriere della Sera venerdì 13 ottobre 2023.

Quando nel 2020 fu conferito premio Nobel per la Letteratura a Louise Glück, non erano probabilmente in molti a conoscere questa poetessa statunitense nata nel 1943 a New York in una famiglia di immigrati ebrei provenienti dall’Ungheria. I lettori della sua poesia, tuttavia, conoscevano bene la necessità, la fondatezza e soprattutto la qualità del suo cantiere poetico, che è andato via via allargando la sua portata conoscitiva e spirituale, come se si fosse sviluppato a cerchi concentrici dissodando e annettendo territori sempre più ampi. Del resto, lo stesso premio Nobel era arrivato dopo una lunga serie di riconoscimenti importanti, dal Premio Pulitzer (1993), al National Book Award (2014), alla nomina a poeta laureato degli Stati Uniti nel 2003.

Il carattere più originale e riconoscibile della sua poesia sta probabilmente nella congiunzione tra l’asciuttezza e il rigore espressivo da un lato (è una poetessa, come suol dirsi, chirurgica), e la durezza dei temi e dei motivi più ricorrenti dall’altro. Sì, perché si tratta di una scrittrice con una visione assai poco edenica e compiacente dell’umano destino. Nelle sue raccolte di poesia parla anzitutto degli snodi traumatici che segnano lo sviluppo, se così si può chiamare, delle nostre vite (a partire dalla sua, che viene scrutata e analizzata senza alcun infingimento). E parla delle difficoltà dei rapporti interpersonali, delle meraviglie e insieme delle insidie dell’amore, della solitudine, degli irrigidimenti e delle falsificazioni ideologiche che intridono l’esistenza quotidiana compromettendone la possibile naturalezza. Sono versi, i suoi, scritti da qualcuno che ha conosciuto la violenza, la prevaricazione, l’ingiustizia, nella carne come nello spirito.

Proprio per questo, nelle sue poesie affiorano spesso non utopici e inarrivabili orizzonti di gioia, quanto degli attimi di reale condivisione e partecipazione umana, se non forse di felicità. Per esempio ne L’iris selvatico, la sua raccolta di poesia in assoluto più apprezzata, Glück scrive: «Nel giardino, nella pioviggine/ la giovane coppia che pianta/ un solco di piselli, come se/ nessuno l’avesse mai fatto prima,/ le grandi difficoltà non fossero mai state/ affrontate e risolte» (la traduzione è di Massimo Bacigalupo, mentre il libro, uscito in lingua originale nel 1992, è stato pubblicato in Italia nel 2020 da il Saggiatore, che poi è l’editore italiano della scrittrice statunitense).

Si vede bene, che a fronte del dolore, della sofferenza, dell’angoscia del vivere (che per questa autrice non sono solo o tanto di natura metafisica, ma ferite sempre storicamente ed esistenzialmente connotate), ciò a cui si aspira non è qualcosa di astratto, ma di direttamente vissuto e esperito, di conquistato adesso e qui. Non è una caso che L’iris selvatico sia il resoconto poetico — quasi un poema, o meglio una sinfonia in versi — di un periodo felice trascorso dall’autrice assieme al figlio in una casa del Vermont e in particolare nel suo rigoglioso giardino (grazie alle cure della poetessa-giardiniere). È la cura del vivente che più importa, quello che ci dicono i suoi versi.

Va poi aggiunto che Glück è riuscita come pochi altri poeti del nostro tempo a dialogare proficuamente con gli autori classici e in particolare con i miti antichi. Il che è senz’altro notevole, visto che si tratta di un’operazione sempre oltremodo pericolosa, in quanto a rischio di retorica e di anacronismo. E invece Glück di volta in volta sembra aver trovato nello schema-base del mito non solo un modello, ma una verifica e una certificazione per le sue intuizioni riguardo alla realtà presente della vita e più in genere dei comportamenti umani. Averno (2006), ad esempio, si rifà direttamente al mito di Persefone e della discesa agli inferi (gli antichi ritenevano che nel lago Averno si trovasse la porta d’accesso all’oltretomba) per indagare la natura dei rapporti familiari e coniugali.

E sono esattamente questi ultimi — la famiglia e l’amore (o il disamore) coniugale — i due motivi che ritornano con più continuità nei suoi versi. In Meadowlands (1997), ad esempio, tratta non solo della fine catastrofica, se così si può dire, di un matrimonio, ma anche e soprattutto della sostanza reale dei rapporti umani, della loro verità o della loro menzogna, della loro durata, dei loro condizionamenti. Mentre in Ararat (1990) il centro dell’attenzione sono le relazioni familiari, oscurate dalla presenza del lutto, anche se poi, proprio la presenza costante della ferita, dà adito a una voce poetica dolcissima e insieme struggente. In ogni caso, questa autrice, che oggi si compiange, è riuscita a fissare nei suoi versi la nostra esistenza lontano da ricette facili e da soluzioni falsamente concilianti (la sua poesia richiede lettori aperti e intelligenti), ma sempre con equilibrio e sobrietà, con intelligenza e una fraterna, umanissima partecipazione.

La vita, i premi e le opere

Louise Glück, morta venerdì 13 ottobre a 80 anni, era nata a New York nel 1943 in una famiglia di immigrati ebrei ungheresi. Nel 2020 ha vinto il Nobel per la Letteratura. L’Accademia di Svezia, nelle motivazioni del Nobel, scriveva di aver scelto la poetessa «per la sua inconfondibile voce poetica che con l’austera bellezza rende universale l’esistenza individuale». Prima del Nobel aveva ricevuto altri premi importanti, dal Pulitzer (1993) al National Book Award (2014), alla nomina a poeta laureato degli Usa nel 2003. Nel 2015 aveva ricevuto dal presidente Barack Obama la National Humanities Medal. In Italia nel 2022 le era stato consegnato il LericiPea alla carriera. In Italia i suoi libri sono pubblicati dal Saggiatore. Tradotti da Massimo Bacigalupo: L’iris selvatico(2020; era uscito nel 1992 per l’editore vicentino Giano), Averno (2020), Notte fedele e virtuosa(2021) e Ricette per l’inverno dal collettivo(2022); da Bianca Tarozzi: Ararat (2021; era apparso nel 2020 per l’editrice napoletana Dante & Descartes) e Meadowlands(2022)

È morta Louise Glück, premio nobel per la Letteratura 2020. Aveva 80 anni. DANIELE ERLER su Il Domani il 13 ottobre 2023

Aveva vinto il premio, a sorpresa, nell’anno peggiore del Covid e aveva così raggiunto il grande pubblico

Il suo premio Nobel, arrivato nell’anno peggiore del Covid, aveva sorpreso molti appassionati della letteratura. Perché la poetessa Louise Glück – morta venerdì a 80 anni – era un nome che si incontrava allora più spesso nei libri d’accademia che negli scaffali delle librerie casalinghe. Ai tempi solo due dei suoi libri erano disponibili nella traduzione italiana.

Ma proprio il Nobel aveva contribuito ad una nuova fama per la sua poetica, fatta di versi semplici e allo stesso tempo così intensi. L’accademia l’aveva premiata «per la sua inconfondibile voce poetica che con austera bellezza rende universale l’esistenza individuale».

L’ETERNITÀ DELLA POESIA

Le sue sono poesie brevi, che stanno in genere in una pagina. Aveva fatto della limatura dei versi un’arte. Diceva di amare quelle poesie che in pagina sembrano così limitate e che poi invece spalancano infiniti universi nella mente.

Credeva anche che la poesia avesse un vantaggio rispetto alla vita: la possibilità di durare oltre i limiti di un’esistenza che, per sua natura, non è eterna. E che per lei ha significato una sessantina d’anni di poesie e un riconoscimento, forse tardivo, che continuerà a sopravviverle.

LA SUA VITA

Nata a New York nel 1943, da una famiglia di immigrati ebrei ungheresi, è stata la prima poetessa americana premiata dopo T.S. Eliot nel 1948, se si esclude il Nobel a Bob Dylan nel 2016.

L’istruzione, l’amore per i classici e soprattutto per la poesia, le derivava dalla madre Beatrice, laureata in francese, in tempi in cui l’istruzione accademica femminile era ancora una rarità.

Glück ha avuto anche la particolarità di capire il potere della mente, partendo dalle sue fragilità. Con la psicoanalisi era riuscita a sconfiggere l’anoressia nervosa dell’adolescenza, con una trauma, finalmente risolto, che lascerà comunque le sue tracce nelle poesie.

Appunto, l’esperienza individuale che diventa universale, come si legge nella motivazione per il Nobel. Il suo esordio risale agli anni Sessanta, con le prime poesie e la pubblicazione della raccolta Firstborn nel 1968.

Superato un blocco creativo, ha ottenuto i primi successi nazionali negli anni Settanta e poi soprattutto negli anni Ottanta, con The triumph of Achilles (1985). Fra i suoi libri più noti ci sono L’iris selvatico (1992), con il quale ha vinto il Pulitzer, e Notte fedele e virtuosa (2014), vincitore del National Book Award.

DANIELE ERLER. Giornalista trentino, in redazione a Domani. In passato si è laureato in storia e ha fatto la scuola di giornalismo a Urbino. Ha scritto per giornali locali, per la Stampa e per il Fatto Quotidiano. Si occupa di digitale, tecnologia ed esteri, ma non solo. Si può contattare via mail o su instagram.

Muore a 80 anni Louise Glück, la poetessa premio Nobel per la letteratura nel 2020. La saggista e poetessa si è spenta il 13 ottobre nella sua casa di Cambridge. Aveva 80 anni ed era da tempo malata di cancro. Cristina Balbo il 14 Ottobre 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 La vita e la carriera di Louise Glück

 Il premio Nobel per la letteratura e gli ultimi riconoscimenti

È morta all’età di 80 anni Louise Glück. La saggista e poetessa di origine statunitense - che nella sua vita artistica ha ottenuto tantissimi riconoscimenti: dal Pulitzer nel 1993 sino al Nobel per la letteratura nel 2020 – era da tempo malata di cancro e si è spenta nella sua casa di Cambridge, in Massachusetts. A darne la notizia, l'Università di Yale, dove Louise insegnava ed il suo editor Jonathan Galassi che, però, non ha fornito ulteriori dettagli.

La vita e la carriera di Louise Glück

La poetessa, classe 1947, era nata a New York in una famiglia di immigrati ebrei ungheresi ed era cresciuta a Long Island. Una carriera ricca di successi: già all’età di appena 16 anni Glück aveva realizzato il suo primo libro, inviato ad un editore, ma mai pubblicato. Dopo essersi iscritta ad un workshop di poesia alla Columbia University, nel 1968 completa la sua prima collezione di poesie, Firstborn. Ma è soltanto sul finire degli anni Ottanta, dopo aver superato un lungo “blocco dello scrittore”, che la Glück inizia a emergere davvero: il suo linguaggio è“straordinario forte e diretto”, scriveva il Washington Post nel 1985. Nello stesso anno, infatti, ottiene il National Book Critics Circle Award per la sua collezione The Triumph of Achille. E ancora, nel 1993, è proprio uno dei suoi libri più amati, The Wild Iris, a farle valere il premio Pulitzer. Ma non è finita, perché a distanza di dieci anni, nel 2014, Louise riceve il National Book Award per la poesia, vinto grazie a Faithful and virtuos night.

Il Nobel per letteratura a Glück, poetessa Usa

Il premio Nobel per la letteratura e gli ultimi riconoscimenti

È nel 2021 che Louise Glück ottiene il premio dei premi, il Nobel per la letteratura“per la sua inconfondibile voce poetica che con austera bellezza rende universale l’esistenza individuale”. La poetessa è stata la 16esima donna a vincerlo. Prima di lei, l’ultimo americano premiato era stato Bob Dylan. "Potrò comprarmi una casa in Vermont", è stata questa la prima cosa che Louise ha pensato una volta ricevuta la telefonata del premio da Stoccolma con il relativo assegno da dieci milioni di corone svedesi.

La maggior parte delle opere dell’artista sono nate da personali momenti di difficoltà ed è per questo che ha esplorato temi molto delicati, come il trauma, la perdita, la famiglia e la solitudine. Nel 2016, Glück è stata anche invitata alla Casa Bianca dall’allora presidente statunitense Barack Obama per ricevere la National Humanities Medal, un premio conferito ogni anno a molteplici personalità che operano nel campo degli studi umanistici; in Italia, invece, proprio di recente, nel 2022, le era stato consegnato il LericiPea alla carriera. Cristina Balbo

(ANSA il 10 ottobre 2023) - Addio all'uomo più generoso d'America: Charles Feeney, pioniere dei duty free che nel corso di una lunga vita aveva segretamente donato in beneficenza quasi tutta la sua fortuna, è morto a 92 anni a San Francisco dove viveva in un modesto appartamento in affitto. Ha dato l'annuncio della scomparsa la Atlantic Philanthropies, un gruppo di fondazioni che Feeney aveva creato all'inizio degli anni Ottanta. Nel dicembre 2016, con una donazione di 7 milioni di dollari alla Cornell University che aveva frequentato da studente, Feeney aveva ufficialmente svuotato le casse di una ricchezza valutata a un certo punto a otto miliardi di dollari tenendo per se' la somma relativamente contenuta di due milioni di dollari da destinare ai cinque figli ormai adulti. 

Per decenni Feeney aveva accumulato miliardi e sfarzose residenze a New York, Londra, Parigi, Honolulu, San Francisco, Aspen in Colorado e sulla riviera Francese, ma al giro di boa del 50 anni il tycoon fu preso da dubbi sul senso della caccia a tanta ricchezza. La ragione risiedeva nei valori semplici che aveva appreso da ragazzo in una modesta famiglia cattolica e operaia del New Jersey. Feeney fece così marcia indietro: al polso un orologio da 10 dollari, abbandonò i circoli sociali frequentati da nababbi, prese a volare in classe economica, e anzichè in limousine, cominciò a spostarsi in metro. 

 Antesignano di scelte seguite poi da tycoon come Bill Gates e Warren Buffett, il miliardario decise di dar via il suo denaro in forma anonima, una scelta seguita solo dall'un per cento dei nababbi americani che preferiscono avere il proprio nome iscritto su musei, ospedali e altre entità da loro beneficate. Feeney fu 'smascherato' nel 1997 solo perchè la vendita del suo impero di duty free alla Louis Vuitton Moët Hennessy fece scattare meccanismi legali che non gli permisero piu' di tenere l' anonimato. A beneficiare dei doni non sono state solo università ed ospedali di prestigio (come la Cornell University o il Mount Sinai Hospital di New York).

Molte piccole istituzioni devono la loro sopravvivenza alla generosità di Feeney che non aveva dimenticato le origini: una buona fetta delle sue donazioni sono andate a università o ospedali irlandesi (Dublin City University, Trinity College, University of Limerick). Feeney fu anche il maggior finanziatore della sezione americana dello Sinn Fein (il braccio politico dell' Ira) e le sue condizioni - che i soldi fossero usati solo per attività non violente - contribuirono nel 1998 al successo dell'accordo di pace del Venerdì Santo.

GIORNALISTI: MORTO ETTORE MO. (Adnkronos il 10 ottobre 2023) - E' morto a 91 anni il giornalista, storico inviato di guerra del "Corriere della Sera", Ettore Mo. Era nato a Borgomanero il primo aprile del 1932.

Da corriere.it il 10 ottobre 2023.

Un tributo di Milena Gabanelli a Ettore Mo, quello che lei stessa ha definito “il mio maestro”. Immagini mostrate il primo aprile del 2012, durante una puntata di Report, nel giorno dell’ottantesimo compleanno del giornalista (morto il 9 ottobre all’età di 91 anni). Il tributo è un reportage di immagini di un viaggio fatto insieme in Cecenia nel 1995. 

Che finisce per essere una lezione di giornalismo, affidata alle stesse parole di Mo.

«Quando torni nella tua stanza di albergo e devi raccontare un fatto, devo scegliere le parole con una purezza incredibile - spiegava - Io parlo di castità verbale, ma io stesso mi sono reso conto che dopo tanti servizi drammatici che non è possibile un racconto senza aggettivi. 

Non ci sono riuscito, ma non è mai riuscito nessuno». «Se ti metti nella rotaia della disperazione umana, quindi delle guerre, non la puoi abbandonare - le parole con cui affidava il suo ‘testamento’ professionale - Scatta un certo meccanismo per cui non è più gente da pic nic».

Estratto dell’articolo di Lorenzo Cremonesi per il “Corriere della Sera” il 10 ottobre 2023.

Detestava i sotterfugi, le scorciatoie, i furbetti che dicono di essere arrivati prima sul luogo della storia e invece se la inventano di sana pianta aggiungendo di fantasia, copiando dalle agenzie comodamente seduti nelle camere di albergo. Scriveva con i suoi ritmi, odiava la fretta dello scoop, ma poi, quando arrivava il suo articolo, capivi che era fatto di cose viste e vissute, condito di particolari inaspettati, magari contradditori, però veri, onesti, indubbiamente verificati di persona.

[…]  Non gli importavano i soldi, le sue note spese erano sempre in ritardo e carenti, certamente non faceva “creste”, anzi, semmai metteva del suo, perché per lui il giornalismo e soprattutto il mestiere di inviato non era una professione come le altre, ma una sorta di missione, d’impegno totale e totalizzante al servizio del giornale, ma soprattutto del lettore e della necessità inderogabile di testimoniare. 

Scriviamo queste righe di getto, a caldo, appena ricevuta la notizia della morte a 91 anni di Ettore Mo, platealmente definito uno degli ultimi “tra i grandi inviati” del giornalismo italiano e firma di prestigio per decenni del Corriere della Sera. 

Amava raccontarsi, spesso accompagnato da un bicchiere di vino, che – diceva – lo aiutava a “sciogliersi”, a mettere in moto le ali della creatività. Una sera a Gerusalemme, si era ai tempi della Prima Intifada tra la fine del 1987 e il 1988, dopo avere scritto il reportage dai campi profughi palestinesi in fiamme, si dilungò nel ricordare i suoi inizi.

Era nato a Borgomanero nel 1932, aveva finito il liceo classico e si era iscritto a Lingue e Letterature Straniere a Ca’Foscari, una delle facoltà più note dell’università di Venezia. Ma presto si era accorto che la vita universitaria non faceva per lui. Senza un soldo aveva iniziato a viaggiare: Parigi, Madrid, Amburgo, sino a Londra. 

Si manteneva con lavoretti: cameriere, lavapiatti, steward. Quella sera a Gerusalemme si attardò con la memoria sulle sue esperienze come steward su una nave della marina mercantile britannica. «Non mi trattavano male, ma c’erano lunghe ore di tedio che cercavo di colmare leggendo tutto ciò che trovavo a tiro», diceva.

Nel 1962, a 31 anni, si presenta al corrispondente da Londra per il Corriere, che allora era Piero Ottone, per offrirsi come collaboratore. Alla direzione piace subito il suo stile diretto, l’amore per il racconto vissuto sul campo. Lo richiamano a Roma e Milano, poi nel 1979 riceve il primo incarico da inviato per gli Esteri. Il direttore Franco Di Bella gli dà fiducia: la storia è importante, siamo nel mezzo della rivoluzione iraniana e l’Ayatollah Khomeini è appena tornato a Teheran. 

[…] Pochi mesi dopo è folgorato dall’amore per il suo lavoro quando raggiunge l’Afghanistan. Inizia a seguire la guerra tra le brigate dei mujaheddin contro l’esercito d’invasione sovietico. E qui nel 1981 incontra uno dei personaggi che lo hanno più affascinato nella sua lunga carriera.

Intervista Ahmad Shah Massud, il “leone del Panshir”, il leader laico delle milizie locali tagike che vogliono scacciare i russi e però sono contrarie ai gruppi radicali islamici pashtun che ben presto formeranno il nocciolo duro delle formazioni militari talebane. I due si vedono più volte. Nei suoi ultimi viaggi in Afghanistan, sino a pochi anni fa, Ettore insisteva sempre per portare un fiore sulla tomba di Massud, assassinato dai militanti di Al Qaeda due giorni prima degli attentati dell’11 settembre 2001. 

Ha insistito per continuare a lavorare sin verso gli ottant’anni e i suoi servizi speciali toccano gran parte del nostro pianeta: dalla guerra nella ex Jugoslavia, alla Cecenia, al Pakistan, all’India. 

Fu tra l’altro uno dei pochi reporter occidentali che andarono a trovare i leader del neonato movimento di Hamas a Gaza quando vennero espulsi in Libano dal governo israeliano tra il 1992 e 1993. Rimase nelle loro tende nella terra di nessuno vicino al confine israeliano per 48 ore. Per lui il dovere di andare e raccontare superava qualsiasi barriera o pregiudizio.

È morto Ettore Mo: addio al giornalista, storico inviato degli esteri del “Corriere della Sera”. Da ragazzino le esperienze da cameriere e steward, bibliotecario e sguattero. Da inviato ha raccontato le grandi crisi tra Africa e Medio Oriente, Balcani e Asia e America Latina. Antonio Lamorte su L'Unità il 10 Ottobre 2023 

Ettore Mo era considerato uno degli ultimi grandi inviati di guerra italiani. Aveva raccontato le più grandi crisi mondiali degli ultimi decenni, intervistato personalità passate alla storia. Aveva raccontato tra Africa e Medio Oriente, Balcani e Asia, America Latina. È morto la scorsa notte, a 91 anni. “Non c’è niente di più di una guerra per raccontare il dolore e la crudeltà del genere umano. Nella guerra succede davvero di tutto, tutta la natura umana si rivela. Buona o cattiva che sia”. La notizia della morte è stata data dalla giornalista Milena Gabanelli sui social.

Mo aveva cominciato a Il Corriere della Sera, nei primi anni ’60, ed era rimasto tra le grandi firme del giornale. Prima aveva fatto da cameriere e sguattero, bibliotecario e insegnante, infermiere e steward tra Parigi, Stoccolma, Amburgo, Madrid, Londra. Si era imbarcato su una nave della marina mercantile britannica. Era nato a Borgomanero, in Piemonte. Dopo essersi iscritto all’università, aveva capito che quella non era la carriera per lui ed era partito. Il primo incarico diretto dal Corriere lo ebbe nel 1979, da inviato per gli Esteri. E nel 1979 si era trovato in Afghanistan e a quel Paese era sempre rimasto legato. Aveva intervistato Ahmad Shah Massud, il “Leone del Panshir”, i leader delle milizie locali tagike, grande rivale dei terroristi islamici pashtun, assassinato dai militanti di Al Qaeda due giorni prima degli attentati dell’11 settembre.

L’ultimo premio l’aveva vinto nel 2008, oltre una trentina in tutto in carriera. È morto mentre infuria la guerra tra Hamas e Israele, dopo l’attacco a sorpresa dei terroristi islamici di sabato scorso e i bombardamenti in risposta dello Stato ebraico. Mo fu tra i pochi reporter occidentali a incontrare il leader del neonato movimento di Hamas a Gaza quando erano stati espulsi in Libano dal governo israeliano tra il 1992 e il 1993. Era rimasto nelle loro tende nei pressi del confine israeliano. Aveva parlato del suo lavoro come di “una malattia: se hai avuto la fortuna di essere testimone dei più grandi avvenimenti non riesci più a farne a meno”.

Mo aveva detto in una delle sue ultime interviste lui sarebbe sempre rimasto appassionato soprattutto al Terzo Mondo, “sempre. Io sono del Terzo Mondo”. aveva risposto. “Se ne è andato Ettore Mo, uno dei più grandi giornalisti italiani, un compagno di viaggio, un amico e maestro. Da lui l’insegnamento più grande: imparare a raccontare senza aggettivi. Ci ho provato. Stasera sul tuo lago Maggiore fa un po’ più buio …”, ha scritto sui social Gabanelli. L’attuale inviato de Il Corriere della Sera Lorenzo Cremonesi ha scritto che “per lui il giornalismo e soprattutto il mestiere di inviato non era una professione come le altre, ma una sorta di missione, d’impegno totale e totalizzante al servizio del giornale, ma soprattutto del lettore e della necessità inderogabile di testimoniare”. 

Se ne è andato Ettore Mo, uno dei più grandi giornalisti italiani, un compagno di viaggio, un amico e maestro. Da lui l’insegnamento più grande: imparare a raccontare senza aggettivi. Ci ho provato. Stasera sul tuo lago Maggiore fa un po’ più buio. Antonio Lamorte 10 Ottobre 2023

Dagospia il 10 ottobre 2023. Dal profilo Facebook di Renzo Cianfanelli

Era un grande, anzi unico. Autodidatta geniale, nella vita aveva fatto di tutto. Cameriere di bordo, tenore di opera lirica. Istitutore in una scuola per ciechi. Insegnante perfino di francese. 

A Londra lo scoprì per caso Piero Ottone, all’epoca corrispondente per il Corriere. “Mia moglie Hanne cercava una baby-sitter e aveva messo un’inserzione sull’Evening Standard. Ero in casa e si presentò lui, un piccolo ragazzo entusiasta. ‘Ma veramente mia moglie cerca una donna’, gli dissi. E lui ‘non importa, il lavoro con i bambini lo faccio io. Voglio vivere a Londra. Scriverò delle storie. Il mio sogno è di fare come Hemingway. Anzi ho portato qui dei racconti’….”

“Fai vedere”, lo interruppe Ottone. Cosi incominciò il tirocinio di Ettore Mo al Corriere della Sera, aiuto corrispondente abusivo senza contratto. Erano gli anni della Swinging London, della principessa Margaret che amava il suo scudiero colonnello Townsend, ma non lo poteva sposare perché divorziato, dello scandalo Profumo, ministro che costretto a dimettersi perché aveva “mentito in parlamento” su una storia di prostitute, dei Beatles e di Mary Quant inventrice della minigonna. 

Ettore era pagato 50 lire per ogni riga pubblicata ma aveva talento da vendere. I suoi pezzi uscivano con la sigla V. (per Vice), poi dopo Ottone vennero a Londra Alfredo Pieroni con Pietro Sormani, Vero Roberti con Leonardo Vergani, Edgardo Bartoli e altri.

Ettore Mo aveva una tenacia, una capacità di lavoro impressionante. La firma gradualmente divenne E. Mo. e poi, qualche volta a titolo di premio Ettore Mo, sul Corriere d’Informazione e sulla Domenica del Corriere. Gli anni passavano. Ettore ebbe la fortuna di sposare una ragazza inglese altrettanto tenace. Nacquero anche tre figli, cosa possibile anche senza contratto grazie al Welfare State che allora funzionava sul serio. L’ufficio di Londra al Daily Telegraph in pratica era la sua vera casa dove lui era sempre presente fino a tarda notte. 

I colleghi italiani con firme prestigiose, anche se gli davano del “lei”, senza il suo aiuto non avrebbero potuto mandare avanti il lavoro. Il piccolo “Mr Mo” invece a Fleet Street, frequentando i pubs dove andavano i reporters inglesi lo conoscevano e stimavano tutti, gli passavano anche notizie perché lo consideravano uno di loro.

Alla fine, senza sindacati né raccomandazioni né appoggi, per l’indispensabile Mo successe il miracolo. Il direttore al Corriere era Giovanni Spadolini, poi sostituito da Piero Ottone. “Non si può andare così, bisogna fargli un regolare contratto” fu deciso a Milano. C’erano però, nel mondo chiuso, bizantino autoreferenziale del giornalismo italiano, dei grossi problemi. Ettore era bravissimo sì, ma per legge doveva essere retrocesso per 18 mesi a semplice praticante, e poi superare a Roma l’esame di Stato.

Con l’intera famiglia, così Ettore Mo fu trasferito a Monte Mario, a spese del giornale, e destinato provvisoriamente al ruolo di “trombettiere”. Doveva cioè rimanere per l’intera giornata nella sede del Messaggero, giornale di Roma e segnalare al Corriere a Milano le notizie di cronaca della capitale. Promosso. 

Giornalista professionista, a Milano qualcuno pensò che, avendo fatto nella vita anche il Tenore, Mo poteva andare bene per la Redazione Spettacoli. Lui non si scompose. Resta memorabile una sua intervista a Dario Fo, premio Nobel per la Letteratura, che si spiritosamente conclude con le parole: “Grazie Fo”. “Grazie Mo”.

Ma la vera apoteosi per  Mo doveva venire più tardi. Verso i 45-50 anni, quando i cronisti che non hanno la tempra di Hemingway incominciano a tirare i remi in barca. Ettore non era uno di questi. Si mise in testa di andare in Afghanistan, e finalmente riuscì a realizzare il suo sogno di sempre: viaggiare, conoscere il mondo, a volte anche rischiando la vita. Ha scritto mirabili storie su guerre tragedie e rivoluzioni, raccolte in decine di libri che restano una parte fondamentale dell’arte di cercare di capire le cose e spiegarle. Ha continuato a viaggiare, a navigare verso terre sconosciute con la curiosità dell’esploratore e raccontatore, senza protagonismi ridicoli e incurante del tempo che passa, fino a ben oltre gli ottanta e più anni. Era questa in fondo l’ansia che spingeva verso l’ignoto l’omerico Ulisse. Addio marinaio.

(ANSA il 9 ottobre 2023) È morto per un malore improvviso all'età di 76 anni Eugenio Palmieri, ex direttore dell'Agi. Nato a Roma il 9 maggio 1947 viveva a Lisbona. Palmieri nella sua lunga carriera ha lavorato, per l'Eni, per il Sole 24 ore, Il Tempo, Il Mondo e La Stampa occupandosi di economia e finanza. 

Nel maggio 1995 la nomina alla direzione dell'Agi, Agenzia Giornalistica Italia, incarico che mantenuto fino al 2001. Tra gli altri incarichi nel 2008 divenne presidente e amministratore delegato della società Telecom Media News, che controllava l'agenzia giornalistica APcom. Oggi in apertura dei lavori del Direttivo dell'Associazione Stampa Romana il presidente, Paolo Tripaldi, ne ha ricordato la figura esprimendo il cordoglio per la scomparsa.

Frank Cimini per giustiziami.it il 9 ottobre 2023.

Non era un magistrato ma la magistratura dovrebbe fargli un monumento da collocare davanti alla sede del Csm o dell’Anm. Con il suo silenzio salvò l’immagine e l’onore della magistratura e anche un paio di governi del centrosinistra. 

Intercettato dal Gico della guardia di finanza in una inchiesta di La Spezia aveva detto: “Di Pietro e Lucibello mi hanno sbancato” e ancora: “ Si pagò per uscire da Mani Pulite”.

A Brescia dove l’indagine fu trasferita l’ineffabile giudice decise che Pacini “aveva millantato”. Si trattava di salvare l’uomo simbolo di Mani Pulite e con lui l’immagine e l’onore di una intera categoria. 

Prevalse la ragion di Stato dopo che l’Associazione Nazionale Magistrati in un comunicato per la prima volta si schierò con l’indagato e non con i pm che indagava su di lui. Fu ovviamente anche l’ultima. Non sarebbe accaduto mai più.

Pierfrancesco Pacini Battaglia, come spiegò nel teleprocesso Cusani l’avvocato Giuliano Spazzali, “caro dottor Di Pietro entrò e uscì come una meteora dalle sue inchieste”. 

Pacini fu il regista dell’inchiesta sui fondi neri dell’Eni. Arrestato e subito rimesso in libertà il 18 marzo del 1993 perché decise di “collaborare” con il mitico pool che considerò lui “l’Eni buono”. Al pari di Franco Bernabe’ al quale sempre al teleprocesso Cusani Di Pietro chiese: “Ma all’Eni l’abbiamo finita con la pratica delle società offshore o no?”. Il testimone rispose: “La stiamo finendo”. Cioè confessò in diretta televisiva la commissione di un reato il falso in bilancio. Non fu indagato.

Era la giustizia due pesi due misure. Dove Sergio Cusani senza incarichi operativi e firme sui bilanci venne condannato a una pena doppia degli amministratori della Montedison. Fu una grande farsa con la scusa di ribaltare l’Italia come un calzino.

Estratto dell'articolo di lastampa.it il 9 ottobre 2023.

È morto all’età di 89 anni Pierfrancesco Pacini Battaglia, conosciuto come “Chicchi”, uno degli uomini simbolo di Tangentopoli, ma non solo. Originario di Bientina, da tempo viveva a Roma. Banchiere, uomo d’affari, scaltro e dalla battuta pronta, i verbali dei suoi interrogatori all’epoca di Mani Pulite diventavano titoli strepitosi per la cronaca giudiziaria.

[...] Partendo dai conti bancari usati per pagare le tangenti ai politici lombardi, nel corso 1993 i magistrati milanesi risalgono, da un bonifico all'altro, fino alle tesorerie estere con i fondi neri delle grandi aziende. A quel punto le indagini di Mani Pulite scoperchiano una serie di maxi-corruzioni di portata internazionale. Uno dei grandi protagonisti è Pierfrancesco Pacini Battaglia, un uomo d’affari toscano, titolare della banca svizzera Karfinco, che ha gestito per molti anni, nella massima riservatezza, i depositi segreti dell’Eni, il colosso petrolifero statale, e dei suoi manager più corrotti. Per misurarne l'importanza nel sistema, il giudice Italo Ghitti, con una battuta diventata celebre, lo definì «l’uomo che sta un gradino sotto Dio».

A lungo latitante all'estero, Pacini Battaglia si costituisce il 10 marzo 1993. Davanti a Di Pietro, svela le mediazioni multi-milionarie per il gas algerino, il petrolio libico e altri affari di rilevanza strategica, in precedenza mai sfiorati dalle indagini.

Nello stesso interrogatorio, per riguadagnare la libertà, Pacini confessa di aver fatto arrivare in Italia almeno 50 miliardi di lire: valigie di contanti prelevati in Svizzera, trasportati oltre confine da una società di trasporto valori e consegnati ai tesorieri del Psi e in parte minore della Dc. Nelle successive deposizioni il banchiere pisano ammette di aver gestito fondi neri dell'Eni, negli anni Ottanta, per cifre da Stato sovrano: oltre 500 miliardi di lire dell’epoca.

Nel 1997 Pacini viene riarrestato a La Spezia e poi condannato a Milano con l’accusa di aver corrotto l’ex numero uno delle Ferrovie dello Stato, Lorenzo Necci, evitando di coinvolgerlo in Mani Pulite. Le sue battute fulminanti e le maledizioni da toscanaccio, immortalate nelle fluviali intercettazioni ambientali, hanno insaporito per mesi le cronache giudiziarie.

Estratto dell’articolo di Antonio Carioti per il “Corriere della Sera” sabato 7 ottobre 2023.

L’occhio allenato del cronista esperto di umanità, il sottile senso dell’umorismo, la penna lieve e benevola anche nell’irrisione. Sono le tre qualità principali che avevano fatto dell’emiliano Luca Goldoni, scomparso ieri pomeriggio a 95 anni all’hospice di Casalecchio di Reno (Bologna), dove era stato ricoverato negli ultimi giorni per un peggioramento delle condizioni di salute, non solo un giornalista coi fiocchi, ma anche e soprattutto uno scrittore di strepitoso successo, con oltre tre milioni di copie dei suoi libri complessivamente vendute, specializzato nell’ironizzare sui costumi (e il malcostume) degli italiani.

[…] Qualche esempio sparso tra quelli, assai numerosi, editi da Mondadori: Esclusi i presenti (1973), Non ho parole (1978), Se torno a nascere (1981). Ma la stessa vena un po’ beffarda veniva messa in mostra da Goldoni nel raccontare i personaggi del passato nelle sue biografie, confezionate in uno stile che ricordava per certi versi i libri di storia di Indro Montanelli, ma con un’indulgenza e una bonomia maggiori rispetto al più severo collega toscano. 

Nato a Parma il 23 febbraio 1928, Goldoni aveva cominciato a lavorare da giovane come cronista di nera. Prima per il quotidiano della sua città d’origine, la «Gazzetta di Parma», e poi per «Il Resto del Carlino» di Bologna, testata della quale era poi divenuto un inviato di punta sui grandi avvenimenti internazionali: memorabile resta l’aneddoto della corrispondenza da Praga, subito dopo l’invasione sovietica dell’agosto 1968, che Goldoni dettò in dialetto parmigiano per sfuggire alle interferenze di un centralinista poliglotta e ficcanaso.

Poi era arrivata l’assunzione al «Corriere della Sera», che per poco non era saltata a causa di un’impuntatura di Goldoni, deciso a non spostarsi da Bologna, dove ormai aveva messo le radici. In compenso il quotidiano di via Solferino gli aveva fatto girare il mondo, con servizi da grandi metropoli e da luoghi sperduti, spesso in occasione di guerre, colpi di Stato, insurrezioni popolari. 

Goldoni ci rideva sopra, evidenziando il paradosso: quando sei un giornalista giovane, ansioso di partire per le destinazioni più esotiche e pericolose, ti mandano a cercare notizie in questura, mentre in età più matura, quando hai messo su famiglia e avresti voglia di infilarti metaforicamente le pantofole, ti ritrovi a prendere di continuo l’aereo per raggiungere in fretta terre lontane. 

In parallelo con il mestiere di inviato Goldoni aveva coltivato il suo talento per l’osservazione del nostro carattere nazionale e dei suoi tic. Dopo i primi volumi pubblicati dall’editore Cappelli di Bologna, come Italia veniale (1969) e Il pesce a mezz’acqua (1970) erano venuti i bestseller con Mondadori, a partire da È gradito l’abito scuro (1972).

Erano libri frutto di un’ispirazione naturale, coniugata tuttavia con un’applicazione assidua. «Ironia e umorismo — diceva Goldoni — non bussano alla porta, arrivano. Dell’umorismo di solito dico che è un’equazione di terzo grado che riesce o non riesce. Se sbagli una virgola o l’ordine delle parole, non riesce più». E lui raramente sbagliava. 

A un certo punto aveva deciso di passare dalla cronaca alla storia, mantenendo immutato il suo approccio. Insieme a Enzo Sermasi aveva raccontato il regime fascista attraverso le sue reminiscenze d’infanzia e adolescenza nel volume F iero l’occhio, svelto il passo (Mondadori, 1979), dotato di un ricco apparato fotografico. Estraneo a ogni inclinazione nostalgica nei riguardi del ventennio nero, Goldoni aveva però inteso rievocare, in una sorta di amarcord felliniano, l’atmosfera nella quale era cresciuto insieme a milioni di altri italiani.

Ancora in campo storico, si era poi dedicato a un personaggio centrale nelle vicende della sua Parma, la duchessa che era stata moglie di Napoleone, nel libro Maria Luigia donna in carriera (Rizzoli, 1991), cercando di uscire dagli stereotipi consueti e con un tocco attualizzante. Con benevola indulgenza si era quindi rivolto a un’altra donna ancora più controversa e considerata il simbolo della dissolutezza antica, la moglie dell’imperatore romano Claudio, nella biografia Messalina. Una spudorata innocenza (Rizzoli, 1992). 

[…] In quella direzione tra il sarcastico e lo sconsolato andava per esempio il libro del 2013 Tranelli d’Italia (Barbera editore), testimonianza concreta di uno spirito rimasto vivace anche in tarda età, come dimostravano del resto anche gli articoli che continuava a scrivere per il «Corriere» e altre testate.

Si rimane colpiti, scorrendo i suoi testi del passato anche piuttosto remoto, dalla perseveranza italica in fatto di cattive abitudini, tanto che certe annotazioni corrosive di Goldoni, un po’ da grillo parlante, sembrano ancora umide d’inchiostro. Ecco per esempio come si conclude un capitolo di Cioè, forse il suo maggiore successo, uscito da Mondadori nel 1977: «Il vero problema italiano è che stiamo andando tutti, ciascuno col suo buonsenso, verso una società senza senso». Serve aggiungere altro?

Addio a Keith Jefferson, attore "prediletto" da Quentin Tarantino. A causa di una grave malattia l'artista si è spento il 5 ottobre. Ha recitato in tre film del regista Quentin Tarantino. Carlo Lanna il 6 Ottobre 2023 su Il Giornale.

L’annuncio della sua scomparsa è stato dato dall’autorevole Hollywood Reporter, dopo che è stata condivisa una nota di Nicole St. John, agente di Keith Jefferson. L’attore 53enne è morto a causa di una grave malattia contro cui da tempo stava combattendo. Già lo scorso 9 agosto, in un breve ma accorato post sui social, aveva rivelato ai propri fan di avere il cancro: "Ogni tanto Dio ti dà una sfida e lascia a te il compito di risolverla si leggeva nel post sui social -. Quando mi è stato diagnosticato il cancro per la prima volta ho dovuto fermarmi, fare una pausa e non volevo condividerlo con nessuno. Né con la mia famiglia né con la famiglia allargata. Oggi sono finalmente in grado di condividerlo perché la mia fede si sta rafforzando".

"Ha scritto il suo ultimo film". La rivelazione su Quentin Tarantino

Purtroppo nonostante la sua forza d’animo la malattia ha preso il sopravvento e l’attore è venuto a mancare il 5 ottobre del 2023. Nato nel 1970 a Houston (Texas), fin da quando era ragazzino Jefferson aveva inseguito il sogno della recitazione. Si era diplomato come attore di teatro musicale presso la U.S. International di San Diego e poi aveva frequentato i corsi all'Università dell'Arizona. Il suo primo ruolo sul grande schermo in A proposito di donne risale al 1995 di Herbert Ross. Ha interpretato Pudgy Ralph accanto a Jamie Foxx, Leonardo DiCaprio, ma è grazie a Quentin Tarantino che ha raggiunto il successo. Insieme a Samuel L. Jackson ha recitato in Django Unchained, poi è apparso nel ruolo di Charly in The Hateful Eight, e come Land Pirate Keith in C'era una volta... a Hollywood.

Una grave perdita per il mondo del cinema. Al lutto, oltre ai fan, si sono uniti anche i tanti attori che hanno lavorato insieme a Jefferson. Come Jamie Foxx ha reso omaggio all'attore scomparso sui social media. "Questa notizia fa male. Keith, sei stato solo una grazia assoluta, per tutta la vita, il tuo cuore è puro – scrive -. Il tuo amore è incommensurabile, eri un'anima fantastica. Mancherai molto a tutti noi. Ci vorrà molto tempo per guarire. Addio, amico mio. Ti voglio ben". Neanche a dirlo, sia Foxx che Jefferson si erano conosciuti al college a San Diego e avevano iniziato a lavorare insieme negli anni '90 quando Keith aveva fatto un'apparizione in due episodi del Jamie Foxx Show. La sua ultima apparizione è nel film drammatico di Prime Video, dal titolo The Burial. Carlo Lanna

Marco Giusti per Dagospia mercoledì 4 ottobre 2023.

“Un giorno andai a trovarlo verso mezzogiorno”, raccontava Franco Brocani di Mario Schifano, “stava lavorando al grande quadro per Agnelli. Mi dice: Resta a pranzo che ci facciamo una bistecca alla Baudelaire. Si mette a tagliare con la sua solita velocità una fiorentina enorme e poi la cosparge di hascish. Ce la siamo mangiata e io sono andato nel pallone, mentre lui rideva come un bambino che aveva appena fatto uno scherzo a qualcuno”. 

Ricordando la storia della bistecca alla Baudelaire, ci dispiace dire che con Franco Brocani, regista, sceneggiatore, direttore della fotografia, attore, ma soprattutto amico del cuore degli anni d’oro di Mario Schifano e suo partner nella costruzione del cinema e della scena underground italiana, scomparso ormai più di due settimane fa, 14 settembre, senza che nessun giornale ne avesse riportato la notizia, se ne va un davvero un mondo. Internazionale, pieno di vita, di eccessi, ma anche di creatività.

Nato in Piemonte, a Murazzano, in provincia di Cuneo nel 1938, Franco Brocani studiò al Centro Sperimentale di Roma e iniziò poco più che ventenne una carriera di sceneggiatore e di documentarista già alla fine degli anni ’60, alternandola a qualche assistentato. Scrive per la regia di Giovanni Vento l’interessante “Il nero”, lungometraggio uscito nel 1967, storia di un giovane africano a Napoli, ma anche il corto “Il pantano” di Elio Piccon, prodotto dalla Corona Cinematografica di Elio Gagliardo. Dopo aver diretto qualche documentario uscendo dal CSC, ”Screck!”, “A settentrione”, “A proposito di S.W. Hayter”, si lega alla Corona Cinematografica di Elio Gagliardo per produrre una serie di cortometraggi da unire in sala ai film. 

Proprio per girare un documentario uno di questi filmi della Corona, Brocani conosce per la prima volta nel 1966 Mario Schifano. Titolo dell’opera doveva essere “E’ ormai sicuro il nostro viaggio a Marrakesh”, che diventerà poi “E’ ormai sicuro il nostro viaggio a Knossos al labirinto”. Un film che Brocani stesso pensava perduto, ma che è conservato negli archivi della Cineteca di Bologna assieme agli altri film della Corona. Mentre si lega a Schifano di una forte amicizia (“A Mario piacevo perché ero uno dei pochi che aveva il coraggio di criticarlo apertamente”), Brocani seguita a girare documentari-zavorra che nessuno voleva fare.

Contemporaneamente nel 1969 però lo troviamo assistente di Pasolini per l’episodio “La sequenza del fiore di carta” e di Siro Marcellini per il poliziesco girato a Genova “La legge dei gangsters” con Klaus Kinski. Gira il corto più personale “La specchio a forma di gabbia”, tratto da un racconto di Borges. Proprio Mario Schifano, nel 1969 lo omaggerà con un film sulla sua (futura) scomparsa, “Trapianto, consunzione e morte di Franco Brocani”, dove Brocani è sceneggiatore e attore assieme a Viva, Tano Festa, Adriano Aprà, Louis Waldon e lo stesso Schifano, e gli fece fare una sorta di salto di qualità, presentandogli il produttore Gianni Barcelloni per fare il suo primo lungometraggio, “Necropolis”, follia horror-artisticoide che girerà probabilmente nel 1968 e uscirà due anni dopo.

Barcelloni riuscì a rimediare 40 milioni di lire da un amico inglese che si vendette per l’occasione un quadro di Kenneth Noland e mise tutti sul film. Il cast era composto da una serie di attori amici di Mario e legato alla factory di Warhol che stazionavano a Roma. “Necropolis”, sorta di rilettura di Frankenstein, musicato da Gavin Bryars, è interpretato così dalle bellissime e scandalose Tina Aumont, Nicoletta Machiavelli, da Carmelo Bene e Pierre Clementi, Rada Rassimov, Aldo Mondino, Paul Jabara. Vennero pagati tutti un milione a testa. “Tutta gente fuori dalla realtà”, ricordava Brocani “per un uso superassiduo di stupefacenti”. 

Subito dopo, siamo nell’estate del 1968, Brocani e Schifano scrivono assieme a Positano “Umano, non umano”, che verrà firmato dal solo Mario. Francamente quasi tutte i dizionari riportano “Umano non umano” precedente a “Necropolis”, che uscì nel 1970, un anno dopo. E lo stesso Barcelloni ricordava di aver conosciuto Schifano mentre stava girando “Trapianta consunziione e morte di Franco Brocani”, e contemporaneamente un quadro ispirato ai Baci Perugina e le opere per la sala da pranzo di Gianni Agnelli, proprio per girare “Umano non umano”.

Quindi prima di “Necropolis”… Ma Brocani, nella biografia dedicata a Schifano da Luca Ronchi, precisa proprio che “Mario non avrebbe mai potuto girare Umano non umano se prima non avesse visto il mio Necropolis”. Possibile? E continua, “L’abbiamo scritto in base allo stesso schema, io ho collaborato alla sceneggiatura, adesso è considerato un classico ma nessuno ne conosce davvero la fenomenologia formale e ideale. (..) Erano tanti capitoli visti con un occhio più da pittore che da letterato o da vero cineasta”. Problemi di date a parte, l’estate del 1968 a Positano con Schifano a scrivere un film un po’ senza sceneggiatura, nei ricordi di Brocani, voleva dire anche frequentare le folli feste a casa di William Berger. 

O amici come Tina Aumont che si era fatta arrivare dall’Afghanistan dosi incredibili di acido. A Positano arrivano perfino Gli uccelli, il gruppo più scatenato del 68 romano. Durante la lavorazione del film la situazione non cambia. Anzi. Lo stesso Brocani racconta di Rada Rassimov che, a casa di Schifano, “ha cominciato a fumare cose strane, è andata nel pallone e si è liberata da ogni pudore. Di lei si poteva fare quello che si voleva. A un certo punto arriva il marito, Andermann, e si crea una situazione un po’ voyeuristica…”.

Tra gli altri corti che gira subito dopo “Necropolis” troviamo “La maschera del minotauro”, “Notte, orgogliosa sorella”, “Segnale di un pianeta in via di estinzione”, “Umano, decifrabile perduto”, “Omaggio a William Blake”.  Anche se non è facile districarsi in un periodo così ricco di titoli e di partecipazione, sono degli stessi anni, i primi ’70 anche il lungometraggio di finzione tedesco diretto da Volker Koch, “S.P.Q.R.”, dove lo troviamo attore assieme a Pier Pasolini, Ninetto Davoli, Lydia Mancinelli. E. già dal 1972 Brocani ha iniziato a collaborare anche come sceneggiatore nel cinema, decisamente meno artistico, di Angelo Pannacciò, un produttore e cineasta umbro che era arrivato nel dopoguerra a Roma pronto a qualsiasi impresa e che probabilmente aveva incontrato all’epoca di Siro Marcellini.

 Per Pannacciò scrive, senza firmarlo, l’horror erotico “Il sesso della strega”, e poi il suo secondo horror, “Un urlo dalle tenebre” con Richard Conte e Françoise Prevost. Sono piccole produzioni pagate malissimo, come ricordano attori e collaboratori di Pannacciò. E non si capisce bene perché avesse scritto film di questo tipo. Al tempo stesso, inoltre, seguita a girare i suoi corti, come “L’ippogrifo”, ispirato da Paul Valéry, e non sarà forse un caso che quando Pannacciò passerà all’hard (“Sì… lo voglio”, “Luce rossa”, “Erotico 2000”), che si dice sceneggiati in parte da Brocani, prenderà proprio il nom de plume di “Angel Valéry”.

Nel 1981 Brocani firma il suo secondo lungometraggio, “La via del silenzio”, cosceneggiato da Luigi Bazzoni e interpretato da Sibilla Sedat, Margareth Clementi, Stanko Molnar. Quasi una produzione tradizionale, seguito nel 1982 dal corto “Clodia”, scritto assieme a Riccardo Reim e tratto da un racconto di Marcel Schwob con Olimpia Carlisi, che diventerà la sua musa, e Elide Melli. Lo ritroviamo negli anni ’90 alle prese con altri lungometraggi, “Via i piedi dalla terra”(“La ghirlanda poetica”) con Francesco Carnelutti e Valeria D’Obici e nel 1997 “A ridosso dai ruderi”, sempre con Carnelutti, Angelica Ippolito, Paolo Graziosi, Vladimir Luxuria, Roperto Herlitzka.

Seguita a girare film, che non trovano una vera e proprio distribuzione, anche negli anni 2000. “Medicina, i misteri” con Olimpia Carlisi e Paolo Graziosi del 2002, “Le opere, i giorni” del 2006, che farà da base per un documentario girato da Giacomo Bartocci sul regista, “Franco Brocani – Cuore meccanico in corpo anonimo”. L’ultimo film che riesce a girare è “Schifanosaurus rex”, dedicato all’amico appena scomparso. Da anni viveva e lavorava a Civitella San Paolo, vicino Roma.

È morto Tommasino, storica spalla di Fiorello 84 anni, in tv in Stasera pago io 

(ANSA 1 ottobre 2023)  Tommaso Accardo, per tutti Tommasino, è morto oggi a 84 anni. È stato una storica spalla di Fiorello in vari programmi e spot tv e proprio lo showman con un post 'Ciao Tommasino' ha dato la notizia. Era nato a Gibellina in Sicilia e ha lavorato in piccoli ruoli nella pubblicità e nel cinema fino alla scoperta di Fiorello che lo volle con sè in un ciclo di spot e nel varietà Stasera pago io. Popolare, solare, il piccoletto con i baffi e la scoppola siciliana, è stato una presenza costante che il pubblico non ha dimenticato a giudicare dai tanti commenti social al post di Fiorello. 

Estratto da rainews.it lunedì 2 ottobre 2023.

Spalla storica di Fiorello e amico, Tommaso Accardo, detto Tommasino, è morto a 84 anni. Nato a Gibellina, in provincia di Trapani, il 26 marzo 1939, è stato lo showman di “Viva Rai2!” ad annunciarne il lutto. Nel 2001 il debutto in “Stasera pago io”, la tv varietà intrisa di sketch: tra i tanti le immagini in cui “Tommy” dorme profondamente mentre il comico lo incalza come può. 

L'attore quasi ride sotto i baffi e a fatica si trattiene mentre Fiorello scherza: “Oh, visto da lontano fai impressione, mamma mia, per svegliarlo come possiamo fare adesso? Abbiamo bisogno di una Cenerentola?” Chiamata, entra in scena Caroline: Accardo riceve un bacio e si avvinghia a lei. [...]

(ANSA sabato 30 settembre 2023) - E' morta a Roma, dopo una lunga malattia, all'età di 51 anni l'attrice Ketty Roselli. Nota al grande pubblico per avere interpretato il ruolo della dottoressa Flavia Cortona nella soap opera CentoVetrine, Ketty Roselli ha anche recitato in teatro dove ha preso parte a diversi musical, dall' opera rock Jesus Christ Superstar a Febbre del sabato sera per la regia di Massimo Piparo, da Grease a Chorus Line con al regia, rispettivamente di Saverio Marconi e Franco Miseria, ma anche a Serata d'onore insieme a Gigi Proietti, Sweet Charity insieme a Lorella Cuccarini e Buonasera sempre insieme a Gigi Proietti e tante altre.

Aveva inoltre preso parte a diverse altre fiction, da Don Matteo a Tutti pazzi per amore. Ad annunciare la sua morte un messaggio sui social: "è partita per il suo nuovo viaggio, dopo aver lottato fino all'ultimo senza mai mollare per la vita che tanto amava. 

Ricorderemo sempre il suo sorriso, la sua risata, la sua comicità, il suo talento, la sua empatia, il suo preoccuparsi per gli amici, la sua voglia di vivere, di viaggiare e di scoprire nuove cose. Questa era Ketty, la migliore amica del mondo. Quando guarderete il mare che tanto amava, ricordatevi di lei. Buon viaggio tesoro". Per l'ultimo addio è prevista una cerimonia buddista presso il Teatro Marconi di Roma, lunedì 2 ottobre alle 11.

È morta Ketty Roselli, attrice di «CentoVetrine» e «Don Matteo». Aveva 51 anni: «Ha lottato fino all’ultimo». Redazione Spettacoli su Il Corriere della Sera sabato 30 settembre 2023.

L’annuncio della scomparsa, avvenuta dopo una lunga malattia, è stato postato sul suo account Instagram 

È morta a Roma, dopo una lunga malattia, l’attrice Ketty Roselli, nota per aver interpretato la dottoressa Flavia Cortona nella soap opera «CentoVetrine» e per aver preso parte ad alcuni episodi di altre serie tv fra cui «Don Matteo» e «Nero a metà». Aveva 51 anni.

L’annuncio della sua scomparsa è stato postato sul suo account Instagram, che da tempo non veniva aggiornato: «Ketty è partita per il suo nuovo viaggio, dopo aver lottato fino all’ultimo senza mai mollare per la vita che tanto amava. Ricorderemo sempre il suo sorriso, la sua risata, la sua comicità, il suo talento, la sua empatia, il suo preoccuparsi per gli amici, la sua voglia di vivere, di viaggiare e di scoprire nuove cose. Questa era Ketty, la migliore amica del mondo. Quando guarderete il mare che tanto amava, ricordatevi di lei. Buon viaggio tesoro. Per chi vuole salutarla i funerali si terranno con cerimonia buddista presso: il Teatro Marconi Viale Marconi 698/E Roma Lunedì 2 Ottobre alle ore 11:00». 

Nata a Torino, Ketty Roselli aveva debuttato nel mondo dello spettacolo negli anni 90 come ballerina, partecipando a vari programmi tv. Era poi passata al teatro e ai musical, recitando tra le altre cose in «Jesus Christ Superstar», «Grease», in «Serata d’onore» con Gigi Proietti e «Sweet Charity» con Lorella Cuccarini».

Nel 2009 era entrata nel cast ricorrente di «CentoVetrine» interpretando, fino a luglio 2010, il ruolo della dottoressa Flavia Cortona. Oltre agli altri ruoli televisivi, aveva fatto parte del cast degli spettacoli di Enrico Brignano «Sono romano, ma non è colpa mia» e «Tutto suo padre».

Tanti i messaggi di cordoglio che sono arrivati da vari personaggi del mondo dello spettacolo. Il regista Massimiliano Bruno, sui social, ha salutato così l’attrice: «Addio Ketty Roselli ci porteremo la tua simpatia nel cuore e ti dedicheremo un sorriso di fronte al mare». Stefano Fresi ha scritto «buon viaggio Ketty», a cui fanno eco il «ciao Ketty» di Laura Freddi e il «mi dispiace» di Vittoria Belvedere. «Ciao Ketty ci siamo conosciute tanti anni fa eri anche una bravissima ballerina» è stato il messaggio di Matilde Brandi e poi quello di Marco Morandi: «Ciao Ketty, sappi che porterò con me le grasse risate che mi hai fatto fare, mi aiuteranno come oggi a rendere le lacrime meno amare».

Morta Ketty Roselli, l'attrice di "CentoVetrine" e "Don Matteo" aveva 51 anni. Roberta Damiata su Il Giornale il 30 Settembre 2023

Scomparsa a soli 51 anni l'attrice e ballerina Ketty Roselli. Aveva lavorato con i grandi del teatro. Il successo con le serie "CentoVetrine" e "Don Matteo"

Ketty Roselli, scomparsa oggi dopo una lunga malattia, era una ballerina e attrice molto amata e talentuosa. Tanti i messaggi di cordoglio da parte dei colleghi per la sua prematura scomparsa a soli 51 anni.

Grave lutto nel mondo dello spettacolo, se n'è andata alla prematura età di 51 anni, dopo una lunga malattia, l'attrice Ketty Roselli, nota per aver interpretato la dottoressa Flavia Cortona nella soap opera "CentoVetrine" e per aver preso parte ad alcuni episodi di altre serie tv fra cui "Don Matteo" e "Nero a metà". Era ricoverata in un ospedale di Roma. A darne notizia un messaggio sulla sua pagina Instagram, che da tempo vista la sua situazione di salute non veniva aggiornata.

Il post su Instagram

"Ketty è partita per il suo nuovo viaggio, dopo aver lottato fino all’ultimo senza mai mollare per la vita che tanto amava. Ricorderemo sempre il suo sorriso, la sua risata, la sua comicità, il suo talento, la sua empatia, il suo preoccuparsi per gli amici, la sua voglia di vivere, di viaggiare e di scoprire nuove cose. Questa era Ketty, la migliore amica del mondo. Quando guarderete il mare che tanto amava, ricordatevi di lei. Buon viaggio tesoro. Per chi vuole salutarla i funerali si terranno con cerimonia buddista presso: il Teatro Marconi Viale Marconi 698/E Roma Lunedì 2 Ottobre alle ore 11:00", si legge nel post.

La carriera

Ketty era nata a Torino e aveva cominciato a lavorare nel mondo dello spettacolo negli anni '90 come ballerina in molti programmi televisivi. All'amore per la danza si era poi aggiunto quello per il teatro e la recitazione che l'aveva vista partecipare a molte pièce teatrali come Jesus Christ Superstar, Grease, in Serata d’onore con Gigi Proietti e Sweet Charity con Lorella Cuccarini. Nel 2009 la svolta quando entra nel cast della soap CentoVetrine dove rimane fino al 2010 interpretando il personaggio della dottoressa Flavia Cortona. Nella sua carriera aveva lavorato anche con Pino Insegno ed Enrico Brignano negli spettacoli Sono romano, ma non è colpa mia e Tutto suo padre.

I tanti messaggi dei colleghi

Non appena si è diffusa la notizia moltissimi sono stati i messaggi di cordoglio da parte di personaggi del mondo dello spettacolo che l'avevano conosciuta, ma anche di gente comune e ammiratori che da sempre avevano apprezzato il suo lavoro. A cominciare dal regista Massimiliano Bruno: "Addio Ketty Roselli ci porteremo la tua simpatia nel cuore e ti dedicheremo un sorriso di fronte al mare". Ancora Laura Freddi, Matilde Brandi e Vittoria Belvedere che ha scritto: "Ciao Ketty ci siamo conosciute tanti anni fa eri anche una bravissima ballerina". Molto commovente anche il messaggio di Marco Morandi: "Ciao Ketty, sappi che porterò con me le grasse risate che mi hai fatto fare, mi aiuteranno come oggi a rendere le lacrime meno amare".

Estratto dell'articolo da gazzetta.it giovedì 28 settembre 2023.

Il mondo dello spettacolo piange la scomparsa di un grande attore. Sir Michael Gambon è morto in ospedale, a causa delle complicazioni legate ad una polmonite. […] La carriera di Gambon, durata più di cinquant'anni, è stata lunga e costellata di successi. Ma tra tutti i ruoli, ce n'è uno che lo ha reso particolarmente celebre e amato dal pubblico: quello del professor Silente nella saga di Harry Potter. 

Irlandese di nascita, Michael Gambon ha iniziato a lavorare per il National Theatre, sotto la guida di Laurence Olivier, per poi ottenere ruoli importanti nel teatro e nel cinema. Negli anni '80, ha interpretato ruoli memorabili come Re Lear e Otello per il Royal National Theatre e la Royal Shakespeare Company. Ha conquistato numerosi premi e riconoscimenti, tra cui il Laurence Olivier Theatre Award e il London Evening Standard Theatre Award, oltre a quattro BAFTA, due RTS Awards e un Olivier.

Nel mondo del cinema, Gambon ha recitato in film di grande successo come Il cuoco, il ladro, sua moglie e l'amante (1989) di Peter Greenaway e Il mistero di Sleepy Hollow (1999) di Tim Burton. Ma è stata la sua interpretazione di Albus Silente nella saga di Harry Potter a renderlo famoso in tutto il mondo. Dopo la morte del suo predecessore, Richard Harris, Gambon ha preso il suo posto nella serie di J. K. Rowling, interpretando il carismatico preside di Hogwarts in tutti i film successivi. 

[…] Gambon ha continuato a recitare in produzioni televisive di successo, come la serie Fortitude e la miniserie tratta dal romanzo di J.K. Rowling, Il seggio vacante. L'ultima apparizione nel 2019, in Judy, il film biografico su Judy Garland.

 “Siamo devastati nell'annunciare la perdita di Sir Michael Gambon", scrivono la moglie Anne e il figlio Fergus in una commovente dichiarazione affidata all'addetto stampa. "Amato marito e padre, Michael è morto pacificamente in ospedale con la moglie Anne e il figlio Fergus al suo capezzale, in seguito a un attacco di polmonite. Michael aveva 82 anni. Vi chiediamo di rispettare la nostra privacy in questo momento doloroso e ringraziamo tutti per i messaggi di sostegno e amore”. […]

Addio a Sir Michael Gambon: è morto l'indimenticabile Albus Silente di Harry Potter. Ha iniziato la sua carriera come attore di teatro a 20 anni. Ha ricoperto vari ruoli in produzioni cinematografiche e televesive, vincendo diversi premi. Filippo Jacopo Carpani il 28 Settembre 2023 su Il Giornale.

È morto Sir Michael Gambon, l’attore irlandese famoso per aver interpretato il professor Albus Silente in sei degli otto film nella saga di Harry Potter. Come riferito dalla Bbc, la vedova e il figlio Fergus hanno dichiarato che il loro “amato marito e padre” si è spento serenamente a 82 anni con la famiglia al suo fianco dopo aver sofferto di un attacco di polmonite. Il decesso è avvenuto in un ospedale di Witham, nella contea inglese dell’Essex.

I fan dell'attore, addolorati per la notizia, hanno espresso la loro tristezza e il loro cordoglio su X. “Abbiamo appena saputo della morte di Sir Micheal Gambon. Esprimiamo tutto il nostro amore per la famiglia e gli amici in questo momento buio”, si legge in un post del profilo Daily Harry Potter. Un altro tweet, sempre da una pagina dedicata alla saga di J.K. Rowling, recita: “Siamo incredibilmente addolorati per la scomparsa di Sir Michael Gambon. Con il suo umorismo, la sua gentilezza e la sua grazia ha portato una gioia incommensurabile ai fan di Harry Potter di tutto il mondo. Il suo ricordo rimarrà per sempre nei nostri cuori”.

Harry Potter, gli attori più amati del cast che ci hanno lasciato

Nato nel 1940 a Dublino da un ingegnere e una sarta, Michael Gambon ha iniziato la sua carriera come attore di teatro attorno ai vent’anni. Dopo aver girato l’Europa in una produzione itinerante dell’Othello di Shakespeare, è entrato a far parte della compagnia originale di attori del National Theater di Laurence Oliver a Londra, vincendo tre premi per le sue interpretazioni a cui, nel corso di cinquant’anni di attività, si aggiungeranno anche quattro Bafta e due Rts Award. Nel 1988, inoltre, è stato nominato cavaliere per i suoi servizi resi all’industria dell’intrattenimento, un titolo che, a differenza di altri, lui si rifiuterà sempre di utilizzare. La sua ultima apparizione sul palco di un teatro risale al 2012, in una produzione londinese del dramma di Samuel Beckett Tutti quelli che cadono.

Sul piccolo schermo è noto per il ruolo di Jules Maigret nell’omonima serie e per aver interpretato Philip Marlow nello show britannico The Singing Detective, trasmessa sulla Bbc. Ha lavorato in molte produzioni cinematografiche, ma quella che lo ha consegnato all’immortalità è la saga di Harry Potter tratta dai romanzi scritti da J.K. Rowling. Michael Gambon ha assunto il ruolo del professor Albus Silente, preside della scuola di magia di Hogwarts e mentore del protagonista, dopo la morte nel 2003 del precedente interprete Richard Harris, comparendo dal terzo film (Il prigioniero di Azkaban) in poi.

Addio Albus, eri Silente ma urlavi in faccia al Male. Morto a 82 anni l'attore che è stato il volto del preside di Hogwarts in sei film della saga di Harry Potter. Eleonora Barbieri il 29 Settembre 2023 su Il Giornale.

Lo chiamavano «The Great Gambon», il grande Gambon. Grande come il personaggio che al cinema più lo ha reso famoso: Albus Silente, il preside di Hogwarts, maestro e mentore di Harry Potter. Il mago più potente della sua generazione, l'unico in grado di combattere il Signore Oscuro. L'unico che Voldemort abbia mai temuto. Michael Gambon è morto ieri, nel letto di un ospedale di Witham, contea dell'Essex, a causa di una polmonite per cui era stato ricoverato. L'attore aveva 82 anni e accanto a lui c'erano la moglie e il figlio Fergus, che hanno annunciato come il loro «amato marito e padre» sia morto serenamente.

Gambon era nato a Dublino il 19 ottobre del 1940 e faceva l'attore da quando aveva ventidue anni: si era trasferito in Gran Bretagna durante l'infanzia, ma era tornato in Irlanda per il suo esordio a teatro, al dublinese Gates Theatre, nientemeno che in una rappresentazione di Otello. La sua carriera iniziale è stata tutta sul palcoscenico, grazie alla possibilità di lavorare al National Theatre di Londra diretto da un mostro sacro come Lawrence Olivier. Da lì le numerose interpretazioni teatrali in commedie e tragedie di Shakespeare; anche se la svolta, a livello di successo, è arrivata con il passaggio in televisione, nei panni «gialli» di Maigret e anche di Philip Marlow in The Singing Detective. Era il 1986 e lo sceneggiatore si chiamava Dennis Potter. Un cognome che nel suo destino era già scritto...

Secondo Daniel Radcliffe, l'interprete del maghetto, fra tutti gli attori della saga Michael Gambon era quello più simile al personaggio che portava in scena: era eccentrico quanto il preside della scuola di magia. Un ruolo che Gambon aveva intercettato «in corsa»: era subentrato dal terzo film in poi, recitando in sei pellicole su otto (Harry Potter e il prigioniero di Azkaban, Harry Potter e il calice di fuoco, Harry Potter e l'Ordine della fenice, Harry Potter e il Principe mezzosangue e Harry Potter e i doni della morte 1 e 2). Nei primi due episodi, Albus Silente aveva infatti il volto di Richard Harris, morto appena prima dell'uscita del secondo film, Harry Potter e la camera dei segreti. E, come sempre avviene quando i fan si sono già affezionati a un volto, non erano mancate le polemiche: per alcuni, Gambon mancava della naturale saggezza incarnata da Harris, che è una delle componenti fondamentali del personaggio di J.K. Rowling. Vero è, anche, che la scrittrice britannica ha creato un personaggio assai sfaccettato: quindi sì, Silente era saggio, ma era anche imprevedibile, misterioso, bizzarro (perfino per il mondo dei maghi), molto anziano eppure molto giovanile, e addirittura con tratti... birichini. Del resto, in originale Silente si chiama Dumbledore, nome che richiama bumblebee, il calabrone, con il suo ronzio/borbottio continuo: un uomo di silenzi impregnati di significati profondi quanto il «pensatoio» in cui affonda la sua bacchetta per trarne i ricordi, spesso ambigui e travagliati, di una esistenza lunga e piena di atti di coraggio ma, anche, di malvagità con cui avere a che fare, senza poterle cancellare con un incantesimo.

Qualcuno avrebbe preferito che a sostituire Harris nel ruolo di Silente fosse Ian McKellen, il Gandalf del Signore degli anelli; e qualcun altro ha avuto da ridire su certe interpretazioni troppo «focose». Ma Sir Gambon, che la Regina Elisabetta II nominò cavaliere per il suo contributo all'industria dello spettacolo e ha ricevuto anche quattro premi Bafta, si è fatto amare dai milioni di fan del maghetto, e non solo: aveva addirittura una «curva» intitolata a suo nome sulla pista di prova dello show della Bbc Top Gear, dove era spesso ospite. Oltre ad essere stato uno dei personaggi principali della saga di J.K. Rowling, nel 2015 Gambon ha recitato anche nell'adattamento televisivo di un altro romanzo della regina del bestseller, Il seggio vacante: una interpretazione considerata eccellente.

La sua è stata una carriera lunga cinquanta film, da Il cuoco, il ladro, sua moglie e l'amante (era il 1989), a Niente di personale, da Mary Reilly di Stephen Frears a Il mistero di Sleepy Hollow di Tim Burton; e poi Il discorso del re, dove è stato Giorgio V, Quartet, prima prova alla regia di Dustin Hoffman, e Vittoria e Abdul. Ma per tutti resterà il grande Albus Silente.

Armando Sommajuolo, morto il volto storico del Tg di La7: aveva 70 anni. Redazione Spettacoli su Il Corriere della Sera giovedì 28 settembre 2023.

Enrico Mentana ha dato l’annuncio della scomparsa del giornalista: «Per molti di voi era un volto amico, per noi un amato compagno di lavoro, un professionista solido, positivo, professionale, e soprattutto un uomo perbene. Un abbraccio ai suoi cari» 

Lutto nel mondo del giornalismo. È morto Armando Sommajuolo, volto noto di La7. Aveva 70 anni. Lo ha annunciato con un post su Instagram il direttore del Tg La7 Enrico Mentana. «Stamattina se n’è andato Armando Sommajuolo, colonna di questo telegiornale dai tempi in cui si chiamava Tmc news e fino al 2015 — ha scritto —. Per molti di voi un volto amico, per noi un amato compagno di lavoro, un professionista solido, positivo, professionale, e soprattutto un uomo perbene. Un abbraccio ai suoi cari».

Nel 2015 era andato in pensione e nell’annunzio del suo addio alla conduzione del telegiornale, Sommajuolo ha ringraziato così i suoi ascoltatori: «Ringrazio i miei ascoltatori che mi hanno “caz****o” quando c’era bisogno di “caz*****i” e mi hanno supportato nei momenti bui». Nato a Roma nel 1953, Sommajuolo aveva iniziato la sua carriera a ventitré anni, muovendo i primi passi nell’emittente romana di Teletevere, per poi passare sul finire degli anni Ottanta, a TMC che poi sarebbe diventata La7 nel 2001, di cui è stato una delle colonne portanti.

Estratto dell'articolo di liberoquotidiano.it giovedì 28 settembre 2023.

Lutto su La7. È morto all'età di 70 anni il giornalista Armando Sommajuolo, volto noto della rete di Urbano Cairo. Il triste annuncio è arrivato da Enrico Mentana. 

Il direttore del TgLa7 ha pubblicato un post su Instagram. "Stamattina se n'è andato Armando Sommajuolo, colonna di questo telegiornale dai tempi in cui si chiamava Tmc news e fino al 2015 - scrive - Per molti di noi un volto amico, per noi un amato compagno di lavoro, un professionista solido, positivo, professionale, e soprattutto un uomo perbene. Un abbraccio ai suoi cari".

Sommajuolo era nato a Roma nel 1953. Il suo esordio in ambito giornalistico è avvenuto all'età di ventitré anni nell'emittente romana di Teletevere, per poi passare sul finire degli Anni Ottanta, all'emittente TMC che poi sarebbe diventata proprio La7 nel 2001. Nel 2015, ospite del TgLa7 con Mentana, ha annunciato il suo ritiro. [...] 

Nella sua carriera Sommajuolo ha condotto anche programmi come Tesori di Famiglia e Zona Blu. Negli Anni Novanta, poi, ha ricoperto il ruolo di inviato speciale e ha seguito le principali crisi internazionali dall'Albania alla Somalia e Ruanda, dal Kosovo all'Afghanistan, passando per l'Ucraina, la Libia e raccontando anche la tragedia lo tsunami a Banda Aceh. All'interno del suo curriculum si annoverano anche programmi di approfondimento condotti sempre su La7, come LIFE, insieme a Tiziana Panella, quando alla conduzione del telegiornale vi era Mentana.

Marco Giusti per Dagospia martedì 26 settembre 2023.

Se ne va, a 90 anni precisi, David McCallum, una intera carriera, e un caschetto di capelli biondi poi diventati bianchi spesi dietro il cinema e il seriale di spionaggio e di grandi casi polizieschi tutti da risolvere. E’ stato in ben 457 episodi della serie “NCIS – Unità anticrimine”, dal 2003 a oggi, il dottor Donald "Ducky" Mallard. 

Ma per i signori di un’altra generazione è stato soprattutto la spia supercool russa Iliya Kuryakin che in coppia con l’altrettanto supercool spia americana Napoleon Solo di Robert Vaughn aveva dato vita all’incredibile serie di spie in tv prodotta dalla MGM, ideata da Sam Rolfe e supervisionata da Ian Fleming, “The Man From U.N.C.L.E”, 105 episodi tra il 1964 e il 1968, diretti da registi considerati minori, ma solidi artigiani, come Joseph Sargent, John Brahm, Alvin Ganzer, Alf Kjellin, Barry Shear, Richard Donner, Boris Sagal, Don Medford, Vincent McEveety, ma anche i più curiosi e moderni Michael Ritchie, Theodore J. Flicker.

Una serie che dette a McCallum e al suo personaggio una popolarità incredibile, al punto che riceveva più lettere di ammiratori, al tempo, di Elvis Presley o di Clark Gable. A differenza di tante serie americane, “The Man From U.N.C.L.E” non solo trattava temi come la Guerra Fredda, ma soprattutto si inseriva nel magico e geniale mondo dell’Eurospy, portandosi dietro guest star del calibro di Senta Berger, Sharon Tate, Vincent Price, Jack Palance, Janet Leigh, George Sanders, Joan Crawford, Luciana Paluzzi, Nancy Sinatra, Barbara Shelley, Joan Collins, Barbara Bouchet, Akim Tamiroff, Sonny e Cher, Telly Savalas, mischiando in un calderone pe-tarantiniano, la folle Europa degli anni ’60 e i rimasugli della Hollywood che fu. 

Un potenziale che lo scivolamento verso il comico della terza stagione, per adeguarsi a successi come il “Batman” tv, portò al calo di ascolti e quindi alla fine prematura della serie. Va detto che il potenziale venne nuovamente devastato anche dall’inutile remake cinematografico di pochi anni fa diretto da Guy Ritchie e interpretato da due belloni come Henry Cavill e Armie Hammer.

Ma quei 105 episodi degli anni ’60 segnarono così profondamente David McCallum nel suo ruolo che, pur attivissimo fino a oggi nel mondo del seriale, non riuscì mai più a uscire da quella dimensione e per lui il cinema rimase un sogno impossibile già nei primi anni ’70. 

Eppure per David McCallum, serio attore scozzese, nato a Glasgow, nel 1933, i primi passi, alla fine degli anni ’50, furono quelli di un attore portato al sicuro successo sia nel cinema inglese sia in quello di Hollywood. Come accadde a colleghi come Richard Harris, Laurence Harvey, Stanley Baker. 

Inizia nel 1957 con piccoli ruoli in una serie di film abbastanza importanti, “Colpo di mano a Creta” di Powell & Pressburger con Dirk Bogarde, “I piloti dell’inferno” di Cy Endfield con Stanley Baker, dove ha un buon ruolo di giovane ribelle alla James Dean, “La grande rapina” di Jack lee con Peter Finch, “L’incendiario” di Basil Dearden dove è l’antagonista, piromane, di Stanley Baker, “A Night to Remember” di Roy Ward Baker, la versione inglese del Titanic.

In pochi anni David McCallum riuscì a ritagliarsi dei ruoli di prestigio nel cinema inglese del tempo, in film che per i tempi, erano certamente moderni e innovativi. In “Criminal – Sexy” di Charles Saunders è protagonista assieme a sua moglie, la bionda Jill Ireland, che sposerà poi, alla fine degli anni ’60, in seconde nozze, Charles Bronson. Ma lo troviamo anche in film molto ricchi come “Billy Budd” diretto da Peter Ustinov con Robert Ryan e un giovanissimo Terence Stamp, o “Freud – Passioni segrete” di John Huston con Montgomery Clift, dove interpreta il paziente col complesso di Edipo e dove Huston lo aiuta a svoltare davvero, presentandogli il suo agente, che lo porta a un ruolo importante in “La grande fuga” di John Sturges con Steve McQueen, che girerà in Europa e lo porterà a Hollywood nel 1962.

Mentre sta girando “La grande fuga” gli arriva la proposta di diventare Giuda nel kolossal mammuth “La più grande storia del mondo” di George Stevens. E parte a Hollywood, dove non era mai stato, per il provino. “Ogni attore ha fatto uno studio su Giuda, è il personaggio dal cuore nero più buio che si possa pensare”, dirà. Non gli dicono niente, torna in Germania per completare il film. Riparte per Londra e il giorno dopo lo richiamano a Hollywood. 

Sotto contratto con la Metro Goldwyn Mayer. Piccolo, solo 1 metro e 70, non fisicato, bello, nervoso, ma senza il ghigno di Richard Widmark, più adatto a fare da spalla al protagonista che non il protagonista, Hollywood lo prova in una commedia girata in Italia a fianco di Sylva Koscina e un bel gruppo di attori nostrani, Fabrizi, Garrone, Modugno, cioè “Tre morsi nella mela" di Alvin Ganzer, che venne mal distribuito. E non sarà un successo.

La mossa giusta della MGM, che lo aveva sotto contratto, sarà invece unirlo a un altro attore lanciato da John Sturges come Robert Vaughn nella serie spionistica “The Man From U.N.C.L.E”, che farà il suo esordio nel 1968 e avrà un immediato successo in tutto il mondo. Se il nome di Napoleon Solo era idea di Ian Fleming, che collaborò alla nascita della serie, quello di Iliya sembra che venga da una commedia di Jules Dassin. Da ragazzini rimanemmo colpiti dal fatto che vari episodi della serie vennero distribuiti da noi come film e, ovviamente, ci andammo subito. 

Fa parte del mondo a metà tra cinema e tv anche “Con le spalle al muro”, un film diretto da Brian G. Hutton dove McCallum interpreta il protagonista, Sol Madrid, a fianco di nomi forti come Telly Savalas, Rip Torn e Stella Stevens.

Prova anche il film di guerra, il quasi televisivo “La squadriglia dei falchi rossi” di Boris Sagal e l’italiano “La cattura” di Paolo Cavara dove divide la scena con la cecchina russa di Nicoletta Machiavelli. Un buon film che non ebbe forse il successo sperato. Di fatto, i vari tentativi di Hollywood di fare di David McCallum un protagonista non funzionarono. Forse per il fisico, forse per la troppa riconoscibilità che gli aveva dato la tv, ma tutti i tantissimi film che farà negli anni successivi saranno di destinazione televisiva. Fino al clamoroso successo di “NCIS”.

Morto Francesco Cevasco, addio a un maestro del giornalismo. Storia di FERRUCCIO DE BORTOLI su Il Corriere della Sera venerdì 22 settembre 2023.

Tutto cominciò con una processione religiosa. Officiante il cardinale Giuseppe Siri, arcivescovo di Genova. Francesco Cevasco era allora un collaboratore abusivo del «Secolo XIX». La cronaca non si rivelò rituale. Tutt’altro. Una sfilata del potere cittadino. Con qualche vanità e goffaggine di troppo. La curia protestò vivacemente. Ma il capocronista, Pietro Ferro, apprezzò lo stile e il coraggio del giovane collaboratore. Era quello il «Decimonono» di Piero Ottone — che poi avrebbe diretto il «Corriere» — e di Cesare Lanza. Massimo Donelli, che condivise quei primi passi nella professione ed è stato uno dei suoi migliori amici, lo ricorda così: «Cesco era il mio fratello d’inchiostro, un mezzo secolo passato insieme senza mai litigare, nemmeno per ragioni sportive». Entrambi si ritrovarono poi — portati a Milano da Lanza — al «Corriere d’Informazione», l’edizione pomeridiana del «Corriere». Albe livide, cronaca nera, rosa. O, meglio, di tutti i colori. Anni di piombo ma anche irripetibili momenti di goliardia e di buon umore.

A un certo punto però, Cevasco, sampdoriano nel cuore, decise di lasciare Milano per tornare nella sua città natale. La nostalgia di casa, soprattutto se c’è il mare, diceva Donelli genoano nell’anima — che nel frattempo andò a Napoli al «Mattino» — è incontenibile. Noi padani di via Solferino, suoi compagni di banco, non riuscivamo a capirlo. Irresistibile per Cevasco era ancora di più la sfida professionale che lo attendeva: quella di rilanciare una testata storica come «Il Lavoro». Il glorioso foglio socialista era stato affidato, dal gruppo Rizzoli-Corriere della Sera, già in cattive acque, a Giuliano Zincone, che in quanto a carattere e irrequietezza assomigliava al suo predecessore, direttore de «Il Lavoro», il ligure più illustre dell’epoca che in quel momento stava al Quirinale: Sandro Pertini. L’avventura editoriale durò poco e non ebbe il successo sperato. Zincone e Cevasco si scontrarono con i loro editori sul dilemma se pubblicare o no i volantini delle Brigate Rosse. Si trattava in quel caso di salvare la vita di un giudice. «Il Lavoro», comunque, fu una grande palestra di talenti. Vi collaborarono, tra gli altri, giovanissimi, Lucia Annunziata, Gad Lerner, Luigi Manconi.

Nel lungo curriculum professionale di Cevasco l’episodio è minore — perché gran parte della sua vita professionale si è svolta al «Corriere», con una parentesi alla «Stampa», di cui è stato un assoluto protagonista — ma significativo. Illustra bene una delle caratteristiche straordinarie della sua personalità umana e professionale. Paolo Pietroni, che lo ebbe come vicedirettore ad «Amica», ne ricorda l’intelligenza dell’umiltà. «Poco tempo fa fu lui a suggerirmi il titolo del mio prossimo libro — Prima che si spengano le lucciole — e aggiunse che non era importante che lo finissi ma che mi facesse compagnia». Il gusto dell’avventura e la passione per il rotocalco (detto così fa molto Novecento, tipografie, piombo, fumo, atmosfere di cui ebbe sempre nostalgia) lo spinsero ad accettare la proposta di Edilio Rusconi di lanciare un nuovo prodotto di qualità, «Eva». Con sprezzo del pericolo mise in copertina una modella di colore. La sua lucciola, disse. Le regole di Rusconi erano le seguenti: mai un nero in copertina, il Papa meglio non metterlo perché non fa vendere, proibiti i titoli di traverso. L’esperienza di direttore di «Eva» finì bruscamente. Insieme a Lanfranco Vaccari, da condirettore, fu protagonista di una bella e coraggiosa stagione di giornalismo d’inchiesta all’«Europeo». Un’altra fucina di talenti. E di scoperte. «Telefona a questo giovane critico d’arte, si farà», mi disse una volta. «Ma non risponde mai». «Allora parla con la mamma». Lo sconosciuto era Vittorio Sgarbi.

Cevasco seguiva, stimolava, rincuorava con una pazienza certosina. Un carattere placido, solare, autoironico, che a tratti poteva sembrare persino fatalista. A Genova, e qui torniamo nella sua città natale, c’è una parola dialettale che ne definisce bene il carattere: miodin. Poche parole ma essenziali e taglienti alla bisogna. Ma una grande generosità di sorrisi nella virtù dell’ascolto. Una grande disciplina del lavoro — non ci sono orari se si fa qualcosa con passione — senza mai una lamentela, un cruccio, una protesta. Questa rocciosa bontà d’animo, mescolata a rigore e determinazione, gli aveva consentito di essere nella parte più importante della sua vita professionale, un capo amichevolmente rispettato e non gerarchicamente temuto. Per tanti anni è stato il responsabile della redazione culturale del «Corriere», oltre a dirigere «Sette». Amato da colleghi e collaboratori non sempre facili da dirigere, ansiosi di essere pubblicati, sempre timorosi che il cassetto fosse l’anticamera dell’oblio. Fernanda Pivano, carattere spigoloso, si addolciva alle sue parole. L’unico che perse la pazienza fu Gillo Dorfles che gli lanciò contro un posacenere, salvo poi scusarsi in tutti i modi. Dalla stanza di ospedale, nella quale ha trascorso le sue ultime ore, Francesco non poteva vedere il mare. Anche perché il mare calmo, rassicurante, placido, per noi che abbiamo avuto il privilegio di averlo amico e collega nell’ultimo mezzo secolo, è stato lui. Nessuno come lui.

Francesco Cevasco si è spento il 20 settembre al Policlinico di Milano, dove era ricoverato in seguito a una grave malattia. Era nato a Genova il 13 ottobre 1951. Corriere Della Sera

Da Ansa.

Da Adnkronos.

Da Dagospia.

Da Il Corriere della Sera.

Da La Repubblica.

Da La Stampa.

Da L’Espresso.

Da Il Domani.

Da L’Identità.

Da L’Inkiesta.

Da Il Sole 24 Ore.

Da La Gazzetta del Mezzogiorno.

Da Il Fatto Quotidiano.

Da Il Tempo.

Da Panorama.

Da Il Giornale.

Da Libero Quotidiano.

Da Il Dubbio.

Da Il Riformista.

Da l’Unità.

Da Ansa.

(ANSA venerdì 22 settembre 2023) - Oggi, alle ore 19.45, il Presidente Emerito della Repubblica, Senatore Giorgio Napolitano, si è spento presso la clinica Salvator Mundi al Gianicolo in Roma. (ANSA).  

La Biografia di Giorgio Napolitano - La storia raccontata da Giorgio Dell’Arti - cinquantamila.it

• Napoli 29 giugno 1925. Politico. Presidente della Repubblica (dal 10 maggio 2006). Eletto deputato dieci volte dal 1953 al 1996 (saltò solo l’elezione del 1963). Presidente della Camera nella XI legislatura (1992-1994), fu ministro degli Interni nel Prodi I (1996-1998). Deputato europeo dal 1989 al 1992 e di nuovo nel 1999, nel 2005 fu nominato da Ciampi senatore a vita. «Io sono atarassico» (durante lo spoglio delle schede al termine del quale sarebbe stato proclamato presidente della Repubblica).

• Ultime Il 21 febbraio 2007 si trovò a gestire la prima crisi di governo della sua esperienza di presidente. Il 24 gennaio 2008, dopo l’uscita dell’Udeur dalla maggioranza e la bocciatura di Prodi in Senato tentò di salvare la legislatura incaricando il presidente del Senato Marini di verificare l’esistenza di una maggioranza favorevole al cambiamento della legge elettorale. Accertato che questa maggioranza non c’era, il 6 febbraio 2008, alle 11 e 55 del mattino, sciolse il Parlamento.

• Nel giugno 2008 bloccò Berlusconi che voleva emanare un decreto legge per limitare le intercettazioni telefoniche di cui, a suo parere, i magistrati abusavano. Napolitano gli fece notare che mancavano i requisiti di necessità e urgenza. 

• Nel luglio 2008, al culmine della manifestazione anti-Berlusconi organizzata dalla rivista Micromega con l’Italia dei Valori, fu attaccato da Grillo: «Quando a Chiaiano c’erano le cariche della polizia lui era a Capri che festeggiava con due inquisiti, Bassolino e la moglie di Mastella».

• Nel luglio 2008 fu ancora attaccato, da Di Pietro e dall’Unità, per aver firmato «una legge immorale», cioè il lodo Alfano che impedisce alla magistratura di procedere contro le prime quattro cariche dello Stato. Veltroni lo difese (e Scalfari con lui) spiegando che la firma era un atto dovuto e che il presidente non avrebbe potuto far nulla. 

• Vita Figlio di un noto avvocato liberale, lui e suo padre avevano «gusti contrapposti. Della musica amava solo l’opera, e io tutto fuorché l’opera Ma la vera materia del contendere diventò quella del mio rifiuto di seguirlo nella scelta della professione di avvocato, e quella dello schierarmi politicamente con i comunisti» (Giorgio Napolitano, Dal Pci al socialismo europeo. Un’autobiografia politica, Laterza 2005). Laureato in Giurisprudenza (tesi: Il mancato sviluppo del Mezzogiorno).

• «Iscrittosi all’Università nell’autunno 1942, partecipò all’attività del Teatroguf e del Cineguf napoletano e mise in scena una commedia di Ugo Betti» (Mirella Serri). Ebbe anche un ruolo da protagonista in Viaggio a Cardiff di William Butler Yeats. Massimo Caprara, che allora voleva fare il regista, lo vide: «Era misurato, forbito, la fronte già ampiamente stempiata» (a Gian Antonio Stella). 

Pasquale Nonno, giornalista, lo frequentò da giovane: «Mostrava sempre un po’ di distacco dalle cose: prendeva parte, per esempio, alle partite di calcio della squadra del liceo ma senza sporcarsi le scarpe, come fotografo-massaggiatore-giornalista» (Gian Antonio Stella). 

Raffaele La Capria: «Napolitano era già da allora un giovane talmente serio, talmente educato, talmente studioso che, a pensarci bene, non mi sarei stupito se qualcuno mi avesse detto che un giorno sarebbe diventato presidente della Repubblica».

• «In quello stesso periodo, dirompente fu l’incontro con la politica: “Una lunga conversazione con Antonio Ghirelli mi convinse della dolorosa necessità che l’Italia per salvarsi doveva perdere la guerra”. Dopo la Liberazione ci fu l’avvicinamento e l’entrata nella casa comunista: 

“Scattò in me come una molla, ideale e morale. Fui coinvolto in quella ’corsa alla politica’ di cui parlava Giaime Pintor nell’ultima lettera al fratello Luigi”. Una corsa nella quale non c’era molto spazio per altri interessi. “Non avrei voluto abbandonare cinema, teatro, letture ma gli impegni politici mi imposero molti sacrifici, anche nei confronti della famiglia”» (Mirella Serri).

• Nel 1942 organizzò un gruppo antifascista, tre anni dopo aderì al Pci, diventando segretario federale a Napoli e poi a Caserta: «Si avvicinò al comunismo quando conobbe Salvatore Cacciapuoti, operaio metallurgico che, sopravvissuto a sei anni di carcere sotto il regime fascista, negli anni Quaranta dirigeva i comunisti napoletani a bacchetta. Sveglia alle 5, arrivo in federazione alle 7, rigore monacale e spirito organizzativo prussiano» (Gian Antonio Stella). 

• Il 7 giugno 1953 fu eletto deputato e divenne responsabile della Commissione meridionale del Comitato centrale del partito. «Era affascinato, come molti giovani comunisti e democratici, non tanto dall’esperienza dei Piani Quinquennali dell’Urss, ma piuttosto dall’esperienza del New Deal rooseveltiano e dalla Riforma Beveridge. Coerente con quelle scelte, più tardi, durante gli anni convulsi dei movimenti giovanili, non ha mai ceduto alla moda, o alla fascinazione, di Marcuse o di Fanon.

È un ammiratore di Keynes. È stato il primo dirigente comunista a sbarcare in America e l’unico (credo) a incontrarsi con Kissinger. Ha conosciuto e frequentato tutti gli esponenti della socialdemocrazia europea, da Gonzales a Glotz. È, da tempo, un europeista convinto. È sempre stato, insomma, un moderato, uno di coloro che credono nel lento, faticoso passo della democrazia. Non ama i sogni palingenetici. È convinto, con Isaiah Berlin che le “utopie come guida al comportamento possono rivelarsi letteralmente fatali”» (Miriam Mafai). 

• I compagni napoletani, per distinguerlo da Giorgio Amendola, lo chiamavano “Giorgio ’o sicco”. L’altro era, naturalmente, “Giorgio ’o chiatto”. 

• Nel 1968, quando il Pci dovette trovare un nuovo segretario che sostituisse Luigi Longo gravemente malato, la scelta cadde su Enrico Berlinguer. «L’aneddotica vuole che Amendola, leader storico della destra togliattiana e padre politico di Napolitano, abbia scelto Berlinguer per la maggiore esperienza internazionale (e chissà se è anche per questo che Napolitano, di lì a poco, sarebbe diventato il “ministro degli Esteri” del Pci); e poi perché, disse Amendola a “Giorgino”, come amava chiamarlo, “ti manca la grinta”.

Napolitano era allora l’unica alternativa a Berlinguer: chiamato da Longo (su insistenza di Amendola) a coordinare i rapporti fra la segreteria e l’Ufficio politico dopo la morte di Togliatti, mancò l’ascesa alla segreteria non certo per la “grinta” (che in verità, come riconobbe lo stesso Amendola, mancava anche a Berlinguer), ma per motivi squisitamente politici: alla segreteria del Pci si arriva dal centro, non dalle ali. Berlinguer era il “figlio del partito”, Napolitano il delfino di Amendola. Il primo fu eletto sulla base di un accordo fra il centro e la destra; il secondo di quell’accordo fu insieme garante e protagonista, fino alla drammatica rottura sulla riforma della scala mobile (1984)» (Fabrizio Rondolino). 

«Negli anni Ottanta, dopo la crisi della politica di solidarietà nazionale che Napolitano aveva condiviso e sostenuto, esplode il contrasto tra le due linee che fino allora avevano convissuto nel Pci. Da una parte c’è la linea di Berlinguer, che tende a chiudere il partito nella ridotta della “diversità” e nella esaltazione dell’orgoglio di partito, dall’altra la linea di Napolitano e altri riformisti, che vogliono evitare l’isolamento del partito, il suo arroccamento settario. (...)

Giorgio Napolitano viene messo sotto accusa in una riunione di direzione e poi, guardato con crescente sospetto, verrà accusato di indulgenza e simpatia, forse anche di connivenza, con Bettino Craxi. Poche settimane dopo lascerà la responsabilità della sezione di organizzazione del partito per assumere l’incarico di presidente dei deputati comunisti (incarico che allora, nel Pci, veniva considerato assai meno importante di quello di responsabile dell’organizzazione)» (Miriam Mafai). 

• Napolitano: «Per quel che riguarda me e anche altri – e voglio almeno citare un nome, quello di Gerardo Chiaromonte, col quale ci fu piena sintonia, sempre – noi fummo partigiani convinti dell’unità tra Pci e Psi ben prima che apparisse all’orizzonte Craxi. (...) È vero che ci trovammo in una posizione difficile, e vivemmo momenti scomodi e ingrati nel Pci e nel suo gruppo dirigente quando il clima divenne quello di un duello tra Pci e Psi, tra Berlinguer e Craxi. Ma il considerarci disposti a cedere alle pressioni di Craxi e addirittura a venir meno a un impegno di lealtà verso il partito, fu un’infamia».

• «Un uomo come Napolitano, indiscutibilmente il leader della destra comunista, veniva facilmente esorcizzato dagli ingraiani con l’epiteto di “migliorista”, con un chiaro riferimento al migliorismo prampoliniano (ossia a un’azione politica che intende migliorare le condizioni di vita e di lavoro della classe lavoratrice senza rivoluzionare le condizioni strutturali del capitalismo)» (Edmondo Berselli). 

• A molti apparve allora che l’azione di Napolitano fosse insufficiente. Ad esempio non difese il Parlamento dagli attacchi della magistratura, consentendo la cancellazione dell’immunità: l’ha ricordato di recente Giuliano Ferrara chiamandolo per questo “coniglio” e “sangue di segatura”. Valentino Parlato: «Il coraggio? Magari non l’ha avuto negli scontri immediati. Ma nella tenuta complessiva della sua storia politica, invece, sì». Luigi Pintor nel 1983 sull’Espresso: «Un uomo di marmo, anzi di porcellana, materia apprezzata ma fredda e superflua come una tazza di the: l’amaro the del generale Yen che circola abbondante nel sangue del Pci».

• Nel 1989 è ministro degli Esteri nel governo-ombra del Pci. È al Parlamento europeo dal 1989 al 1992, quando diventa presidente della Camera. Nel 1996, Romano Prodi lo sceglie come Ministro degli Interni. Primo ex-comunista a ricoprire la carica, propone quella che diverrà nel luglio 1998 la Legge Turco-Napolitano, che istituisce i centri di permanenza temporanea per gli immigrati clandestini. 

Molto criticato, sempre nel 1998, per non aver attuato un’adeguata sorveglianza su Licio Gelli, fuggito all’estero dopo essere evaso dal carcere già nel 1983. Dopo la caduta dell’esecutivo guidato da Prodi, è di nuovo europarlamentare dal 1999 al 2004 tra le file dei Democratici di Sinistra ricoprendo la carica di Presidente della Commissione Affari Costituzionali. Il 23 settembre 2005 è nominato, assieme a Sergio Pininfarina, senatore a vita da Carlo Azeglio Ciampi.

• Il 10 maggio 2006 viene eletto presidente della Repubblica: è il primo uomo proveniente dal Pci che arriva al Colle. L’elezione avvenne al quarto scrutinio: 543 voti (su 1009), cioè i 540 del centrosinistra più tre. La candidatura, trovata la domenica precedente, intendeva essere istituzionale, in quanto Napolitano era senatore a vita ed era già stato presidente della Camera. 

Casini e Fini avrebbero voluto contribuire all’elezione, ma Berlusconi e la Lega furono irremovibili: la scheda bianca risultò l’unico compromesso possibile. Per qualche giorno sembrò piuttosto forte la candidatura di D’Alema, lanciata dal Foglio e segretamente avversata soprattutto da Rutelli e Veltroni. 

• «A dispetto dell’aria fredda e distaccata, Napolitano, anche se non lo ammetterebbe mai, tiene alla sua popolarità e ne ha cura molto più di quanto appaia. È del tutto normale per un politico e non si tratta di vanità. Dopo essere stato per decenni un uomo-chiave della politica italiana, Napolitano era finito nel binario morto di un dorato notabilato e, in qualche confidenza con gli amici più intimi, aveva cominciato a parlare di un prossimo ritiro a vita privata. Poi, la determinazione dei Ds ad ottenere il Quirinale e il suo prestigioso curriculum istituzionale, combinati con lo sbarramento contro Massimo D’Alema, hanno compiuto il miracolo» (Paolo Passarini).

• «Fin dal primo discorso, non ha usato ipocrisie notarili nel caratterizzare l’interpretazione del suo ruolo al Quirinale. Il lungo impegno parlamentare, la determinazione nel sostegno alle sue convinzioni, anche quando erano in minoranza nel suo partito, non potevano che portarlo, coerentemente, a delineare una presidenza della Repubblica fortemente “politica”. 

Un aggettivo che va compreso nella sua accezione più alta, quella che esclude la faziosità, ma che intende la funzione di garanzia per tutti assolutamente compatibile con l’espressione di franchi e precisi orientamenti di indirizzo generale. Alla sincerità di questo proposito, Napolitano ha subito affiancato il timore che il modo con il quale era stato eletto, cioè solo da una risicata maggioranza, potesse favorire il sospetto di una sua non assoluta neutralità tra le parti. Più volte il Presidente della Repubblica ha fatto trasparire questa comprensibile preoccupazione» (Luigi La Spina). La signora Clio ha seguito lo spoglio del voto «mentre sbrigava le faccende domestiche» (Maria Corbi).

• Soprannominato “Re Umberto” per la somiglianza con l’ultimo regnante dei Savoia (o anche “Lord Carrington”), nella primavera del 1959 conobbe la moglie Clio Bittoni (vedi), figlia di antifascisti confinati all’isola di Ponza. Hanno due figli: Giulio (12 luglio 1969), giurista, «allievo prediletto di uno dei padri del diritto, il professor Sabino Cassese» (Gianni Biondini), docente di Istituzioni di diritto pubblico all’Università della Tuscia (Viterbo), dal 2002 componente della Cca (Camera di conciliazione e arbitrato), il tribunale arbitrale dello sport italiano; e Giovanni (1961), economista che lavora all’Autorità garante della concorrenza e del mercato. «I figli non sono stati battezzati con grande dolore di mia suocera. Ma mio marito disse che non voleva» (Clio Napolitano a Paolo Conti).

 • Due nipoti, Sofia e Simone. 

• Commenti La signora Clio, descrivendo il marito: «È molto pignolo, si irrita quando vede delle sciatterie. Gli errori quando uno parla: comincia a dire “mica si dice così, mica si pronuncia così”. Questa è una cosa che mi fa arrabbiare moltissimo. Lui mi ritiene molto aggressiva perché io perdo subito le staffe, a me piace litigare, mi piace alzare la voce, invece Giorgio è sempre uno che ragiona. Quando lavora in casa ascolta la musica ad alto volume».

• Eduardo Vittoria: «L’uomo ha stile. Sa muoversi, parlare, vestirsi come si deve» (Paolo Conti). 

• Denis Healy, dirigente laburista: «Napolitano è la migliore imitazione di un banchiere della city che io conosca» (Gian Antonio Stella). 

• Rosario Villari, storico: «Giorgio Napolitano è forse l’uomo più puntuale, più preciso, più preparato che io abbia mai conosciuto. Mai visto dimenticare un particolare, un appuntamento, una data. Come amico è lealissimo. Io in qualche momento, anche di scelte familiari, ho attinto alla sua saggezza. Io impulsivo, lui pacato, equilibrato» (Paolo Conti). 

• Filippo Ceccarelli: «È di gran lunga il più straordinario e pignolo autore di lettere e comunicati di smentita, rettifica, chiarimento e precisazione». 

• Giuseppe Leoni, architetto e fondatore della Lega con Umberto Bossi: «Quello lì, Napolitano, nel 96 ci ha mandato la polizia nella sede di via Bellerio, a prenderci a manganellate» (Giovanni Cerruti). 

• Beppe Grillo: «Il Presidente è eletto dai partiti, fa il suo dovere, li accudisce teneramente. L’età lo nobilita, con quegli anni può dire quello che vuole. Come il nonno a tavola quando arriva il dolce. Una volta c’era la bocca di Virna Lisi, oggi la dentiera presidenziale. Il presidente va eletto dagli italiani, non dai nostri dipendenti. Non deve avere più di cinquant’anni. Non serve un presidente da ospizio di garanzia dello status quo partitico. Voglio una persona giovane, della società civile, non legata ai partiti. Chiedo troppo?».

• Emilio Colombo, senatore a vita: «Un cosacco al Quirinale, va dicendo qualche cretino. E io non conosco comunisti meno comunisti di Napolitano e democratici più democratici di lui» (Federico Geremicca). 

• Lucio Branto, lettore della Repubblica, ha scritto al giornale: «Una sera d’autunno, in una via di Roma, eravamo in diverse persone ad attendere l’autobus che ci avrebbe portato a casa per la cena. Salimmo stipati. Confusa tra quella gente notai la presenza di Giorgio Napolitano. In piedi anche lui (alla sua età), con la sua borsa in mano». 

• Miriam Mafai: «Martedì pomeriggio, entrando nell’aula di Montecitorio, Giorgio Napolitano ha saggiato con il piede il tappeto rosso e sorridendo ha commentato: “Mi hanno detto che c’è una botola”. La botola non c’era, naturalmente. Ma se ci fosse stata egli sarebbe certamente riuscito ad evitarla andando avanti per la sua strada. Giorgio Napolitano è fatto così: è insieme cauto e coraggioso, prudente e determinato. 

Utilizzando ambedue questi registri, ricorrendo di volta in volta alla cautela o al coraggio, alla prudenza o alla determinazione, egli è riuscito, nel corso della sua lunghissima vita politica, a tener sempre ferma la barra delle proprie convinzioni e scelte politiche, anche quando nel suo partito erano contestate e, spesso, irrise. Apparentemente freddo, distaccato, è invece uomo di tenaci passioni e profondi convincimenti. Ignora la demagogia, nel lavoro è preciso fino alla pignoleria, ama i ragionamenti chiari, i documenti (anche in inglese) pieni di cifre. È paziente: quando viene sconfitto (e gli è accaduto spesso nel suo partito) sa aspettare, senza tuttavia organizzare (e gli è stato spesso rimproverato dai suoi) cordate o correnti».

• Daria Zangirolami, preside del liceo Tito Livio di Padova dove il giovane Napolitano, sfollato da Napoli, si diplomò a pieni voti nell’anno scolastico 1941-1942: «Siamo orgogliosi dell’elezione di Giorgio Napolitano. Il senatore a vita era uno studente modello» (Corriere della Sera). Sberleffo apparso sul settimanale Tango: «È gradito agli intellettuali modernisti, alla Nato, a Veca, al Psi, agli imprenditori liberal, a Scalfari: se piacesse anche ai comunisti sarebbe segretario da un pezzo» (Gian Antonio Stella). [Marinella Carione].

(ANSA martedì 26 settembre 2023) "Giorgio Napolitano era un leader e un politico e un nonno formidabile premuroso e pieno di attenzioni, era sempre presente per noi, ascoltava i nostri problemi in modo partecipe e comprensivo nonostante fosse già occupato con i problemi del Paese". Lo ha detto tra le lacrime Sofia May Napolitano durante la cerimonia in Aula alla Camera.

"Ci scriveva sempre, anche quando non sapevamo ancora leggere, ci telefonava quando vedeva dei cartoni in televisione che pensava ci sarebbero piaciuti. Ci veniva a prendere a scuola e ci portava a villa Borghese per un gelato. Ha sempre trovato il tempo per me e Simone, nonostante i suoi impegni", ha detto Sofia. "I consigli che ci ha dato ci fanno sentire fiduciosi in noi stesi quando dobbiamo affrontare scelte personali". 

"Ci siamo sempre sentiti orgogliosi di essere suoi nipoti, nonostante i suoi impegni, il fatto che sia stato un nonno così affettuoso e presente, è testamento dell'uomo eccezionale che era, sarà sempre la persona che ammiriamo di più", ha detto Sofia May Napolitano. "Spero che voi tutti possiate ricordarlo con lo stesso affetto e la stessa ammirazione che abbiamo per lui".

"Ci ha dato grandi opportunità, ci ha accompagnato a concerti, iniziative politiche e istituzionali e ci ha presentato a grandi personalità, tra queste la Regina Elisabetta alla quale era particolarmente legato", ha detto la nipote. "Ci ha portati a Stromboli e a Capri - ha aggiunto - luoghi a lui cari e siamo sempre rimasti colpiti da quanto fosse ammirato ovunque nel mondo e ci siamo sempre sentiti orgogliosi di essere suoi nipoti".

Da Adnkronos.

Da adnkronos.com martedì 26 settembre 2023. 

Napolitano: Gentiloni, 'precursore della scelta atlantista'

"Napolitano fu un precursore della scelta atlantista, che sempre difese, e lo dimostra anche l'amicizia con Obama che lo definì un leader visionario". Così Paolo Gentiloni ricordando Giorgio Napolitano ai funerali alla Camera. 

Napolitano: G.Letta, 'con Berlusconi possano chiarirsi e ritrovarsi nella luce'

"Dopo Berlusconi, Napolitano, a tre mesi l'uno dall'altro. Mi piace immaginare che incontrandosi lassù, possano dirsi quello che forse non si dissero quaggiù e, placata ogni polemica, possano anche chiarirsi e ritrovarsi nella luce". Lo ha affermato Gianni Letta, concludendo alla Camera il suo intervento per la commemorazione del Presidente emerito della Repubblica, Giorgio Napolitano. 

Napolitano: G.Letta, 'orgoglioso testimone stretta di mano con Berlusconi in Aula nel '94' 

Finocchiaro, 'per lui Parlamento luogo confronto che voleva autorevole'

“Giorgio Napolitano è stato, sopra a tutto, parlamentare. I dirigenti politici consideravano più importante l'impegno politico piuttosto che quello parlamentare. Lui vi si è invece 'immerso', perché lo considerava 'il luogo' per l'approfondimento e la riflessione sulle questioni, il confronto tra forze politiche, la ricerca della migliore tra le transazioni per la cura dell'interesse collettivo e perché credeva fermamente che nella qualità della rappresentanza risiede forza e autorevolezza del Parlamento e delle istituzioni repubblicane". Così Anna Finocchiaro ricordando Giorgio Napolitano ai funerali alla Camera. 

"Garantire efficacia ed efficienza dell'agire istituzionale per garantire la democrazia e per corrispondere alle esigenze del Paese resterà il suo continuo monito, la sua ossessione. Ci tornerà nel discorso di insediamento del 2013: 'Non si può più', in nessun campo, sottrarsi al dovere della proposta, alla ricerca della soluzione praticabile, alla decisione netta e tempestiva per le riforme di cui hanno bisogno improrogabile per sopravvivere e progredire la democrazia e la società italiana'".

Il suo primo impegno parlamentare è dedicato, ai temi economici; a partire dagli anni '70 si rafforza quello in materia di politica estera, che lo rende interlocutore degli maggiori protagonisti della scena politica internazionale. Pochi ricordano poi che, sempre, farà riferimento alla questione politica del ruolo e della condizione delle donne italiane. È Presidente della Camera dal '92 al '94. Nel febbraio del 93 oppone l'immunità di sede alla Guardia di Finanza delegata dalla Procura di Milano all'acquisizione di atti (peraltro già pubblici), nel maggio convoca la Giunta per il Regolamento per rendere palese il voto sulle autorizzazioni a procedere. Non serve commentare. Sarà due volte Presidente della Repubblica, altri lo ricorderanno" 

Napolitano, il figlio Giulio, 'non sopportava demagogia, urlo e invettiva'

"La politica per lui richiedeva analisi, ascolto, discussione, decisione, assunzione di responsabilità. Non sopportava la demagogia, lo spirito di fazione, la riduzione del confronto politico a urlo e invettiva". Lo ha affermato Giulio Napolitano, ricordando la figura del padre, il Presidente emerito della Repubblica, Giorgio.

Napolitano: La Russa, 'ha sempre rivendicato con orgoglio propria storia politica

"Il Presidente Napolitano ha sempre rivendicato con orgoglio la propria storia politica, le proprie radici, i valori in cui ha creduto. Come ho ricordato in Aula, in occasione dei suoi 70 anni di attività parlamentare, Giorgio Napolitano è stato testimone di una cultura che si fa politica e di una cultura politica che si fa istituzione". Lo ha detto il presidente del Senato, Ignazio La Russa, in un passaggio del suo intervento alla Camera per i funerali di Giorgio Napolitano.

"Da Capo dello Stato ha guidato la Nazione, riconoscendosi in quei valori che sono le fondamenta della nostra Carta Costituzionale -ricorda La Russa- . Certo, come tutti i grandi leader, ha avuto nell’agone politico confronti e contrasti, anche duri. Ha svolto ruoli e assunto scelte difficili. Ha attraversato tempi perigliosi che, tuttavia, ha sempre affrontato con la coerenza dei propri convincimenti politici e culturali, sapendoli conformare all’evoluzione dei tempi e delle mutate realtà storiche e sociali", aggiunge La Russa.

Da Dagospia.

Giampiero Mughini per Dagospia mercoledì 27 settembre 2023.

Caro Dago, spero di non lasciarmi fuorviare dal fatto che sono un italiano che non si dà pace del destino di Bettino Craxi, di un ex capo del governo che negli ultimi cinque anni della sua vita non poté mettere piede in Italia, se ti dico che in questo dolorosissimo momento della morte di un padre della patria quale Giorgio Napolitano, io reputo Craxi e Napolitano contigui nell'essere due italiani l'uno e l'altro indispensabili nell'aver creato il meglio dell'Italia odierna, dell'Italia europea e democratica, dell'Italia lontanissima dalle fanfaluche del Novecento, l'illusorietà della primazia del comunismo in primis. 

Sì, sì, entrambi hanno contribuito in maniera decisiva nell'allontanare dal nostro comun vedere l'illusorietà di quella visione fanatizzante della politica e della società, ed è stata la conquista più importante della nostra storia recente.

Nessuno di loro due lo poteva far meglio, nessuno dei due lo ha fatto meglio. Craxi col dirsi uno che dell'anticomunismo ne faceva una questione primaria e che questo suo ruolo lo ha interpretato tutta la vita e lo ha pagato caro. Napolitano con l'essere un italocomunista, ossia un comunista di una razza molto speciale del Novecento e che di quella razza s'è comunque tolto via via una particella dopo l'altra fino a diventare un politico che a fargli una radiografia del "comunista" non avrebbe svelato nulla. 

E seppure lui fosse uno che ancora nel 1956 scriveva (non credo ci credesse) che i carri armati sovietici avevano apportato il bene a Budapest, è diventato uno di cui l'Italia aveva bisogno come del pane pur di restare unita, cauta, rispettosi gli uni degli altri, vigile delle comuni regole europee, remota da qualsiasi fanatismo ideologico, figurati da quello secondo cui pur di rappresentare il proletariato ne potevi fare di cotte e di crude. Ve lo immaginate un Napolitano che recita una qualsiasi delle litanie che giustificavano il comunismo reale, quello che ovunque sia stato applicato ne ha massacrati a decine o centinaia di migliaia?

Beninteso la differenza tra i due personaggi resta, eccome. Craxi ci andava a petto in fuori, proclamava, alla bisogna ululava, doveva cercare soldi dappertutto pur di competere con quelli che i soldi li prendevano dall'Urss e ci sono negli archivi sovietici le ricevute che un ex comandante partigiano comunista firmava quando riceveva le valigette zeppe di dollari, e i nostri alleati americani lo sapevano di quelle valigette e la loro preoccupazione maggiore era che non fossero dollari falsi che avrebbero nuociuto alle quotazioni della loro moneta.

Napolitano non aveva bisogno di tutto questo finimondo, camminava passo dopo passo, diceva a Enrico Berlinguer che era sbagliato far valere che i comunisti erano "moralmente" superiori a tutti gli altri, che le regole della democrazia repubblicana erano valide per tutti e che non c'era che da osservarle scrupolosamente. Ci credeva a tal punto in queste regole, che si prestò una seconda volta a fare il Presidente di una Repubblica democratica e pluralista. 

Chi meglio di lui ha cancellato l'opzione del "comunismo" dalle opzioni reali di un Paese moderno e vivibile? Chi? Sì o no la pensava esattamente come quell'altro padre della patria, Craxi appunto,  morto dopo un intervento chirurgico in Tunisia in cui uno dei medici indirizzava la torcia a vedere meglio quello che davvero stavano cucendo e ricucendo?

DAGOREPORT domenica 24 settembre 2023. Ecco come, nel 2011, spuntò l’idea a Giorgio Napolitano di nominare Mario Monti a capo del governo, mettendo alla porta Silvio Berlusconi. Nomina che il centro-destra, furioso, liquidò e liquida al pari di un “golpe” del Quirinale, da una parte; dall’altra, il governo di Monti fece e fa incazzare Achille Occhetto e Pierluigi Bersani, ancora convinti che le dimissioni a colpi di spread del Cavalier Pompetta dovessero portare allo scioglimento delle Camere e alle elezioni, con la conseguente vittoria del Partito Democratico.

Intanto va ricordato che “Re Giorgio” ha sempre considerato il presidente di Forza Italia poco più di una macchietta e quando la situazione economico-finanziaria del paese precipitò - con i tassi di interesse così alti, si rischiava di non pagare gli stipendi pubblici -, il Colle avrebbe preferito l’addio del Satrapo di Arcore per sostituirlo sulla prima poltrona di Palazzo Chigi dal suo ministro del Tesoro Giulio Tremonti, che da via XX Settembre aveva la regia del bilancio scassato dello Stato.

Ma il decisionismo di Re Giorgio (insieme a Cossiga e Scalfaro, il presidente più interventista) non aveva fatto i conti con l’ego espanso di Re Silvio, incapace di pensare il mondo senza se stesso al centro della scena. Infatti non si è mai preoccupati di lasciare spazio a un vero successore in Forza Italia. 

Una volta avvisato da Gianni Letta e Renato Brunetta di alcuni colloqui tenuti riservatissimi tra Napolitano e Tremonti, al Berlusca si rizzarono i capelli trapiantati: ferito nell’amor proprio, cancellò definitivamente dalla sua agenda il “traditore Tremonti’’ e i rapporti già critici e malmostosi con il Capo dello Stato andarono a farsi fottere per sempre.

“Bruciata” l’ipotesi Tremonti, che fare? Sciogliere le Camere e andare al voto, sarebbero passati almeno sei mesi e con lo spread arrivato a 550, l’Italia rischiava la bancarotta. 

A quel punto, si accese una lampadina sulla testolina di un caro e affidabile amico della famiglia Napolitano, Enrico Letta: il professore Mario Monti alla guida di un governo tecnico che avrebbe cercato di mettere a posto i conti del paese. E fu lo stesso Enrico Letta, una volta ottenuto il semaforo verde dal Quirinale, a recarsi a casa di Monti per chiedere la sua disponibilità. Il resto è cronaca….

Da Il Corriere della Sera.

È morto Giorgio Napolitano, l’ex presidente aveva 98 anni. Marzio Breda su Il Corriere della Sera venerdì 22 settembre 2023.

Napolitano è morto oggi, 22 settembre. Il presidente emerito aveva da tempo problemi di salute: è stato il primo ad essere rieletto per un secondo mandato (e in un modo clamoroso). Camera ardente da domani nell’Aula del Senato 

Il presidente emerito Giorgio Napolitano è morto oggi a Roma (leggi qui le reazioni alla scomparsa). Aveva 98 anni. L’ex capo dello Stato da tempo aveva problemi di salute, anche legati all’età. Nel 2018 era stato ricoverato all’ospedale San Camillo e sottoposto a un intervento chirurgico per la dissezione dell’aorta. Poi il lento recupero. Nel maggio dello scorso anno un nuovo ricovero, questa volta all’ospedale Spallanzani, per un’operazione all’addome. Lascia la moglie Clio Maria Bittoni e i due figli Giovanni e Giulio.

«Resto convinto che la politica racchiuda in sé molta durezza, necessità, amoralità, molte expediency (opportunismi, ndr)… ma non potrà mai spogliarsi del tutto della sua componente ideale e spirituale, mai rinnegare completamente la parte etica e umanamente rispettabile della sua natura». Ecco come Giorgio Napolitano spiegava la propria fiducia nella politica, citando le parole che Thomas Mann aveva indirizzato dall’America ai tedeschi durante il nazismo. Ne faceva dunque un fatto di fede e ragione, fondate su una concezione alta e nobile di come andrebbe organizzata e amministrata la vita pubblica. Un sentimento che, nonostante certi giudizi di crudo realismo cui a volte si abbandonava, era rimasto lo stesso di quando aveva cominciato il suo percorso di dirigente di partito e uomo delle istituzioni.

Napolitano è morto, tutte le reazioni dal mondo della politica

È stato il primo presidente della Repubblica rieletto per un secondo mandato, e in un modo clamoroso per di più: con un larghissimo arco di partiti che si alternarono «in processione» al Quirinale, per pregarlo di restare un altro po’. Una scelta eccezionale, per dare alla politica il tempo di riformarsi e all’Italia di ripartire. E lui, avvertendo il paradosso d’essere richiamato in servizio sulla soglia dei novant’anni e quando nel Paese già dilagava l’epos giovanilistico, accettò con un discorso d’investitura che fu un’aspra denuncia delle degenerazioni della politica.

Tutto si tiene, nella parabola da capo dello Stato di Napolitano. L’imprinting del Pci al fianco di Giorgio Amendola e il successivo passaggio alle sponde del socialismo europeo, sulla scia ideale di Altiero Spinelli. L’impegno al Parlamento di Bruxelles e nei governi di casa nostra. Il ruolo di presidente della Camera, senatore a vita e, infine, inquilino del Colle. È stato l’undicesimo presidente della nostra storia repubblicana. Con un bis nel 2013 nato fra gli applausi delle Camere riunite e chiuso, un paio d’anni più tardi, in un clima paradossale. Perché si ritrovò assediato da accuse di forzature, scostamenti costituzionali e addirittura intrighi: un bombardamento politico e mediatico che gli parve «pianificato ad arte» per delegittimare i suoi sforzi di evitare che il sistema entrasse in torsione. Già, perché di Giorgio Napolitano al Quirinale va ricordato come abbia dovuto confrontarsi con un’instabilità drammatizzata da una sequenza di scandali e dalle ricadute della crisi economica e finanziaria cominciata nel 2008.

Lo stesso anno in cui dovette sciogliere anticipatamente le Camere per la dissoluzione della maggioranza di centrosinistra, alla quale nel 2011 seguì il crollo del centrodestra. Con la contestuale nascita di un esecutivo tecnico, affidato a Mario Monti, per evitare che l’Italia restasse senza guida durante la tempesta valutaria che minacciava la moneta unica in Europa. Una traghettamento che aveva deciso, e il Parlamento avallato con un ampio sostegno, nella sua qualità di «reggitore della crisi», come diceva Carlo Esposito, padre del costituzionalismo liberale.

Perno della politica e — per alcuni — modello istituzionale borderline che avrebbe quasi sconfinato in un semipresidenzialismo di fatto, Napolitano aveva esordito da capo dello Stato con atteggiamenti che promettevano laconicità. Un esempio. Il 9 luglio 2006, ai mondiali di calcio che consacrarono il trionfo degli azzurri, a chi gli chiedeva con quali emozioni avesse seguito l’ultimo rigore allo stadio di Berlino, replicò: «In tribuna tutti saltavano e ballavano, impazziti di gioia. E io, dentro di me, quando l’Italia ha vinto, ho fatto un salto altissimo».

Il cenno al salto interiore — nulla di plateale, quindi — riassumeva lo stile che voleva darsi. Solo che quella riservatezza riguardava la sfera privata, di cui era assai geloso, mentre il suo modo di stare sulla scena pubblica era invece pedagogico e contemplava pertanto molte esternazioni. Parlava come un libro stampato (a braccio, sottolineando con la voce i passaggi cruciali, cadenzando con pause appropriate le virgole e i punti) per motivare in punto di diritto gli atti significativi che firmava, magari con qualche riserva, o che rifiutava di firmare, come accadde per il lacerante caso Englaro.

Eppure, nonostante l’intento didattico (a uso della gente comune) con il quale intendeva dare trasparenza alla propria missione e nonostante un certo suo interventismo sia comunque avvenuto «a Costituzione invariata», parecchie sue scelte furono equivocate ad arte. Per delegittimarlo, a costo di ripescare in certe radici lontane della sua storia politica e umana. «Cialtronesche montature, volte a diffamare», mi scrisse in una lettera di allora, con il suo solito lessico che scivolava nel rétro. «Vicende macchiate da manipolazioni della verità e autentiche barbarie... Andrebbero ristabiliti alcuni civili parametri di giudizio nei confronti dell’esercizio, da parte mia, del delicato e faticoso mandato supplementare ancora in corso di svolgimento».

Ma da «uomo che sa governare le passioni», come fu definito, riuscì ad archiviare in fretta anche le amarezze. L’arrivo in Senato nel 2015 è stato per lui il rientro nell’amata vita parlamentare. Al Quirinale tornava di rado, ma evitando i riti della nostalgia. Infatti, a dispetto dell’età ormai veneranda, le sue riflessioni erano rivolte al futuro. Quello dell’Europa, dov’era rispettato e percepito come un’autorità morale. E quello dell’Italia, dove stavano cambiando moltissime cose nel panorama politico. A partire dal boom dei 5 Stelle, che dapprima gli era parso uno scatto emotivo del Paese e senza un vero seguito («di boom rammento solo quello economico degli anni Sessanta», aveva sentenziato un po’ acido), ma che poi lo incuriosì. Non a caso gli ha dedicato una mezza apertura di credito, parallela ad una tagliente censura del Pd, durante l’ultimo discorso che ha tenuto a Palazzo Madama. 

Stile anglosassone e pignoleria proverbiale: Napolitano dal Pci alla presidenza «interventista». Antonio Polito su Il Corriere della Sera venerdì 22 settembre 2023. 

Mai fazioso, ma sempre animato da una ferrea determinazione. Ha sempre messo la sua intelligenza al servizio di un progetto politico, anche a discapito del consenso popolare. 

Il presidente emerito Giorgio Napolitano è morto oggi a Roma a 98 anni (leggi qui le reazioni). Aveva da tempo gravi problemi di salute, anche legati all’età. Lascia la moglie Clio Maria Bittoni e i due figli Giovanni e Giulio. Di seguito, il ricordo del nostro editorialista Antonio Polito.

Per più di mezzo secolo, ogni volta che la politica italiana conosceva una svolta, diventava un rebus, s’incagliava in un intoppo, ci siamo chiesti che cosa ne pensasse Giorgio Napolitano. Per molti una guida, un riferimento di pragmatismo riformista, di buon senso e di senso delle istituzioni; per altri un avversario di cui comunque tener conto, rispettato perché sempre lucido e ben informato, esigente con sé stesso e con gli altri fino al limite di una proverbiale pignoleria. Mai fazioso, ma sempre animato da una ferrea determinazione, Napolitano è stato un politico a sangue freddo, quasi anglosassone, in un Paese a sangue caldo e sensibile alla demagogia. Talvolta a discapito del consenso popolare, ha costantemente messo la sua intelligenza al servizio di un progetto politico di riscatto nazionale; anche se quel progetto, con lo scorrere della storia, è mutato più volte sotto i suoi occhi, evolvendo dal socialismo marxista al costituzionalismo liberale, fino a identificare nell’unificazione europea il nuovo sol dell’avvenire.

Nella prima Repubblica, da dirigente comunista, fu attivissimo nel tentativo di staccare il Pci dal mito rivoluzionario russo e di portarlo nell’alveo della socialdemocrazia europea (anche se nel 1956 rimase dalla parte sbagliata, in difesa dell’intervento sovietico in Ungheria, un errore di «zelo conformistico» da lui poi apertamente riconosciuto). Si giocò per questo la guida del partito, che andò a Berlinguer dopo l’ictus che colpì Luigi Longo; trasformandosi così per i decenni a seguire nel capo riconosciuto della minoranza di destra nel Pci, e poi della corrente «migliorista» nei Ds: il dirigente più filosocialista in un partito che aveva invece ingaggiato un duello mortale con Craxi. Non stupisce dunque se sia stata proprio la fine del comunismo italiano, rimasto sepolto sotto le macerie del Muro di Berlino, ad aprirgli una seconda vita da uomo delle istituzioni: due volte capo dello Stato, oltre che presidente della Camera e ministro dell’Interno. È in questi anni tormentati che Napolitano influisce più direttamente sulla vita politica nazionale e spesso ne determina gli sviluppi, con un «interventismo» che gli avversari gli hanno rimproverato spesso con astio, ma che ha certamente aiutato la Repubblica ad uscire da momenti di grave e pericoloso stallo. Il più celebre di questi interventi presidenziali fu quello che lo portò a consigliare a Berlusconi, nel 2011, le dimissioni del suo governo, ormai senza più maggioranza in Parlamento e senza più credibilità in Europa, al culmine della crisi del debito pubblico italiano. La soluzione del governo Monti, da Napolitano preparata e voluta, porta ancora oggi con sé uno strascico di polemiche, ma senza alcun dubbio salvò da un rischio concreto di bancarotta finanziaria il nostro Paese, seppur stremato dal punto di vista fiscale e poi fiaccato dalla recessione.

L’altra occasione in cui Napolitano diede prova del suo stile «decisionista» nell’interpretare i poteri presidenziali fu nella crisi del 2013. L’incapacità del Parlamento di eleggere il suo successore spinse i leader di centrosinistra e centrodestra a chiedergli di accettare un nuovo mandato. Toccò dunque a lui trovare il modo di salvare una legislatura che sembrava nata morta perché senza una maggioranza al Senato, segnata com’era dal rebus del tripolarismo introdotto dal successo elettorale dei Cinque Stelle. Prima con l’incarico a Letta e le grandi intese con Berlusconi, poi con l’ascesa di Renzi, Napolitano riuscì nell’intento di traghettare lo Stato fuori da un’altra crisi di sistema, ponendo così le basi per le sue dimissioni dal Quirinale e il ritiro dalla politica attiva. L’incapacità dei leader e dei partiti, da lui sferzati, di darsi nuove regole costituzionali in grado di sorreggere un bipolarismo «normale», basato sulla legittimazione reciproca, rappresentò il più grande insuccesso delle sua presidenza e gli lasciò addosso una profonda amarezza.

Non che negli ultimi anni ci abbia fatto mancare il suo giudizio, spesso tagliente. Il cruccio di Giorgio Napolitano è sempre stato garantire la stabilità politica, a suo giudizio il tallone d’Achille del nostro Paese. A chi lo sentiva spesso, magari nel suo consueto giro di telefonate della domenica sera, aveva raccontato come l’ultima impresa di una vita la sua introduzione agli scritti politici di Thomas Mann, per il volume «Moniti all’Europa». Era infatti lì, nella dimensione europea, sulla scia di uomini che ammirava come Altiero Spinelli e Antonio Giolitti, che Napolitano collocava ormai la sua nuova patria politica. Ed è sempre nella prospettiva europea che ha giudicato, finché ha potuto, i nuovi protagonisti della vita politica nazionale, spesso con sconforto e allarme. Per quanto troppo giovane per esserne stato un padre costituente, Napolitano è stato un grande figlio della Repubblica, e un suo protagonista assoluto. Al di là delle polemiche, talvolta sgangherate e volgari nel chiacchiericcio dei social, la storia glielo riconoscerà. 

Chi è Clio Maria Bittoni, la moglie di Napolitano: insieme da oltre 60 anni. Paolo Foschi su Il Corriere della Sera venerdì 22 settembre 2023.

La laurea in legge a Napoli, il matrimonio civile in Campidoglio, la carriera da avvocato e le battaglia per i braccianti. E ancora i due figli e la voglia di normalità: ecco chi è Maria Clio Bittoni

«Non avrei mai potuto sposare un uomo che, in linea generale, non la pensasse come me»: in una delle rare interviste concesse, alla scrittrice Paola Severini per il libro Le mogli della Repubblica, Clio Maria Bittoni aveva svelato questa confidenza sulla sua vita accanto a Giorgio Napolitano, morto oggi all’età di 98 anni.

Poche parole che inquadrano il lunghissimo rapporto fra i due, oltre 60 anni insieme, fra amore e politica: sposati nel 1959 a Roma in Campidoglio con rito rigorosamente civile (come del resto si conveniva ai funzionari del Pci), si erano conosciuti all’inizio dello stesso anno a Napoli, dove lei si era laureata in giurisprudenza. E anche se aveva scelto di svolgere la carriera di avvocato, Clio Maria Bittoni la politica ce l’aveva nel sangue: quando nacque a Chiaravalle (Ancona) il 10 novembre del 1934, i genitori erano al confino per l’attivismo socialista della madre Diva Campanella. E anche il nome porta un pezzo di quella storia: si chiamava infatti Clio la figlia di una coppia greca che era stata al confino a Ponza insieme ai genitori della donna che poi diventerà la first lady.

Napolitano è morto, tutte le reazioni dal mondo della politica

Nove anni più giovane del marito, liceo a Jesi e poi, dopo la laurea alla Federico II di Napoli, pratica legale a Roma e una lunga carriera da avvocato prima come giuslavorista e poi per la Lega delle Cooperative, Maria Clio Bittoni ha interpretato il ruolo di first lady con un’assidua presenza accanto al coniuge agli eventi istituzionali, ma con un’attenzione rigorosa alla privacy senza rinunciare a una delle sue passioni: le sfilate di moda a cui per anni ha assistito, spesso ospite di stilisti famosi, quasi sempre senza la compagnia del marito.

All’inizio della carriera, Clio Maria Bittoni si era specializzata nell’applicazione della legge sull’equo canone in agricoltura, diventando molto popolare fra i braccianti che assisteva nelle battaglie legali contro i proprietari terrieri. Un’attività che le aveva portato una certa notorietà, tanto che una volta, come raccontò anni dopo lei stessa, accompagnando Giorgio Napolitano a un evento politico del partito ad Acerra, sentì dire da alcuni agricoltori: «Quello è il marito del nostro avvocato».

Attenta e scrupolosa nel lavoro, come racconta chi la conosce bene, è stata comunque lei pur fra mille impegni a occuparsi dei figli Giovanni (nato nel 1961) e Giulio (1969) quando il marito era in giro per l’attività politica. E, come ricordano, era spesso lei a portarli allo stadio quando erano piccoli.

Quando nel 1992 Giorgio Napolitano venne eletto presidente della Camera, Maria Clio lasciò il lavoro alla Lega delle Cooperative perché « mi sembrava inopportuno rimanere, essendo le mie controparti le commissioni parlamentari, la presidenza del Consiglio e altri organismi istituzionali. Ecco, forse in questo senso Giorgio ha influenzato la realizzazione di un percorso professionale».

Arrivata al Quirinale, fra incontri istituzionali e voglia di normalità, in qualche occasione si sottrasse ai protocolli, come quando nel settembre del 2012 si mise in fila per assistere alla mostra di Vermeer nelle Scuderie del Quirinale, insistendo per pagare il biglietto. Il 28 giugno del 2007 invece era stata investita sulle strisce davanti al portone laterale di via XX Settembre del palazzo presidenziale: era uscita da sola a piedi per una passeggiata, come era solita fare «per sentirmi libera».

Negli ultimi anni, abbandonata la casa e gli uffici al Quirinale, Maria Clio ha ripreso in mano la gestione della casa di via dei Serpenti, nel rione Monti, dove per anni è stata vista andare di persona a gettare l’immondizia nei cassonetti, ma con l’accortezza di usare buste di negozi di moda: perché «così è più decoroso».

Quando Henry Kissinger salutò Giorgio Napolitano e lo chiamò: «Il mio comunista preferito». Paolo Franchi su Il Corriere della Sera venerdì 22 settembre 2023. 

Era stato il primo nel partito a comprendere che il tempo del comunismo era esaurito e che il solo esito possibile, e auspicabile, era quello socialdemocratico

Quando Henry Kissinger lo salutò calorosamente definendolo il suo comunista preferito, precisò sorridente: former communist, ex comunista. Aveva dolorosamente chiaro, Giorgio Napolitano - morto oggi, 22 settembre, all’età di 98 anni - , che la parte in cui fin da giovanissimo aveva militato, la sinistra, era entrata in una crisi di idee, di proposte, e prima ancora di identità, dagli esiti a dir poco oscuri. Ma non smise mai, finché le forze glielo consentirono, di seguirne da presso le dinamiche, per cervellotiche che gli apparissero, e persino le vicende quotidiane. Perché per quanto allargato si fosse il suo sistema di relazioni, sapeva che quello era in ultima analisi il suo mondo, o almeno il suo retroterra: lo ricordo bene citare commosso nome per nome, storia per storia, gli operai comunisti napoletani conosciuti da vicino nei suoi primi passi nel Pci.

Era stato il primo e il più conseguente, tra i comunisti italiani, a comprendere che il tempo del comunismo era esaurito, ad Est come a Ovest, e (a differenza di Enrico Berlinguer) che il solo esito possibile, e auspicabile, era quello socialdemocratico. Se ne è andato quando anche le grandi socialdemocrazie, un po’ in tutta Europa, sono attraversate da una crisi profonda, e da società impaurite emergono forze populiste verso la cui cultura e la cui visione del mondo ha sempre provato, sin da quando vestivano i panni del qualunquismo o, a sinistra, del massimalismo parolaio e impotente, un forte fastidio politico e intellettuale. Ma da politico per vocazione ha sempre saputo che con la realtà – tutta la realtà, anche quella che meno ci piace – bisogna fare freddamente i conti. Con una punta di compiacimento, si autodefiniva «atarassico», adducendo a mo’ di prova la dedica apposta da Curzio Malaparte alla copia di Kaputt che gli regalò, al termine di un lungo colloquio caprese, nel 1944: un elogio della capacità del giovane interlocutore di non perdere la calma «neppure dinanzi all’Apocalisse».

Al Pci si iscrisse nel novembre del 1945, entrando dal portone principale: il suo cursus honorum fu seguito e coltivato sin dai primi passi soprattutto, da Giorgio Amendola Fu proprio Amendola, nel 1950, a sorprenderlo, comunicandogli che tre anni dopo sarebbe stato eletto alla Camera, e a spedirlo, nel 1951, a guidare la federazione di Caserta, rassicurando il padre, l’avvocato liberale Giovanni Napolitano, che nella logica del Pci quella non era una retrocessione, ma un passaggio obbligato. Cominciò a prendere corpo in quegli anni, dentro e fuori il Pci, la vulgata secondo la quale l’atarassico Napolitano, sarebbe stato prima il discepolo, poi il delfino, infine l’erede di Amendola, che poteva essere definito in mille modi («passione politica allo stato puro», secondo Napolitano), ma atarassico sicuramente no.

Di certo Napolitano, a differenza di Amendola, preferì di gran lunga, anche nel confronto interno, il fioretto alla sciabola. Ciò non gli impedì di contestare apertamente (correva l’anno 1981) il Berlinguer della questione morale e dell’orgogliosa rivendicazione della “diversità” comunista, contrapponendogli il Togliatti che aveva esortato il partito, di fronte al nascente centro-sinistra, «a saper scendere e muoversi sul terreno riformistico” invece di disperdersi in «vuote invettive». Ma nemmeno lo indusse a organizzare le sue truppe per dare battaglia, neppure quando su di lui e i «miglioristi» si abbatté l’accusa di essere la quinta colonna dell’odiato Bettino. Bastò perché da più parti gli si contestasse di non essere un combattente politico. In effetti combattente non era, ma credo che al fondo di questo atteggiamento ci fosse soprattutto la convinzione che i riformisti, tra i comunisti e, dopo l’Ottantanove, i post comunisti, fossero minoranza; in grado di condizionare, quindi, non di rovesciare il tavolo. Se si trattasse di un eccesso di realismo che ha pesato negativamente sulle grame sorti successive della sinistra italiana è tuttora questione aperta.

Quando papa Ratzinger annunciò (in anticipo) a Napolitano le dimissioni: «Non ce la faccio più». Gian Guido Vecchi su Il Corriere della Sera venerdì 22 settembre 2023.

L'ex Presidente della Repubblica seppe con una settimana di anticipo che Benedetto XVI avrebbe lasciato l'incarico. Era il febbraio del 2013. Un'amicizia nata dall'aver avuto «due vite integralmente iscritte nell’esperienza storica del Novecento»

Giorgio Napolitano ha l’aria commossa, la voce s’incrina. «Santità, ella non si stupirà se nelle mie brevi parole affioreranno accenti di particolare emozione…». Aula Paolo VI, 4 febbraio 2013, concerto in occasione dell’84° anniversario dei Patti Lateranensi. Benedetto XVI e il primo presidente ex comunista della Repubblica italiana si guardano negli occhi. In astratto sarebbe difficile immaginare due persone più diverse e invece si conoscono da anni, hanno quasi la stessa età e l’amicizia è cresciuta nel tempo, qualcosa che va oltre il rispetto istituzionale e i buoni rapporti ormai consolidati tra i «due Colli» sulle rive opposte del Tevere, Quirinale e Vaticano. Il presidente della Repubblica ricorda «gli appuntamenti, propiziati da un comune amore per la musica, che si sono succeduti da un anno all’altro» e spiega che questo concerto sarà «per me» l’ultimo perché «coincide con la parte finale del mio mandato». 

Da giorni si scrive e si parla del congedo dal Papa del Presidente che si prepara ad andare, e nessuno in quel momento può sospettare che stia accadendo esattamente il contrario. Nessuno, tranne loro due. L’emozione di Napolitano non dipende solo dall’occasione. Prima del concerto hanno parlato in privato e Ratzinger gliel’ha detto: «Non ce la faccio più». Di lì a una settimana, l’11 febbraio 2013, Benedetto XVI annuncerà ai cardinali e al mondo la propria «rinuncia al pontificato». In quel momento il Presidente è l’unico a saperlo, fuori da una cerchia ristrettissima di collaboratori del Papa. Ha la stessa reazione esterrefatta che sette giorni più tardi proverà tutto il mondo: «Ma non è mai successo…». Giorgio Napolitano ne parlerà anni più tardi, nel 2018, in un’intervista per il libro Oltretevere (Piemme) di Alessandro Acciavatti: «Al mio istintivo moto di stupore, egli rispose semplicemente come molte cose stessero succedendo che non erano mai accadute prima, in molteplici sfere. E poi, naturalmente mi disse del suo affaticamento e quindi della vera e propria impossibilità per lui di continuare. Provai sentimenti di grande ammirazione e solidarietà nei suoi confronti». 

In quei sette giorni, Napolitano custodirà uno dei segreti più incredibili nella storia della Chiesa. Nella primavera di quell’anno, il 20 aprile, sarà il primo presidente della Repubblica ad essere rieletto per un secondo mandato. Quello che doveva essere il congedo del Presidente al Papa, a posteriori, era diventato l’opposto. Ma era solo un congedo formale, perché Napolitano e Ratzinger continueranno a scriversi e a vedersi, nel monastero vaticano Mater Ecclesiae dove il Papa emerito si è ritirato: «Restai ammirato dalla modestia e sobrietà di quel suo studio, che rifletteva una sua dedizione ormai totale allo studio e alla meditazione». Nell’intervista ad Acciavatti, Napolitano spiegava com’era nata quell’amicizia: «In un mio breve scritto per il volume dedicato nel 2013 ai discorsi di Benedetto XVI Ragione e diritto, la singolare reciproca comprensione e per molti aspetti di comunanza umana e ideale tra noi mi apparvero scaturire dall’avere sia io che lui vissuto le nostre vite come “integralmente iscritte nell’esperienza storica del Novecento”. Un’esperienza che aveva traumaticamente scosso, fino alla metà del secolo scorso, i nostri due Paesi, Italia e Germania, e che era quindi sfociata nella visione, da entrambi noi condivisa, “di una nuova Europa finalmente unita nella pace e nella libertà”». In quello stesso libro, Benedetto XVI ripercorreva i suoi rapporti con Giorgio Napolitano e concludeva: «Per l’Italia ha rappresentato certo una fortuna essere guidata in tempi difficili e tra scogli di ogni tipo da un uomo così».

Le accuse (sempre respinte da Giorgio Napolitano) del complotto per far cadere Berlusconi. Roberto Gressi su Il Corriere della Sera venerdì 22 settembre 2023.

Secondo i “complottisti’ l’allora presidente fu fra i protagonisti della trappola per costringere il Cavaliere alle dimissioni. «Solo fumo»

Il presidente emerito Giorgio Napolitano è morto oggi a Roma. Aveva 98 anni.

Il governo, il quarto dell’era Berlusconi, è alle corde. Diviso, non riesce a fare le riforme necessarie a rimettere in sesto il bilancio. La maggioranza è appesa a un filo, l’Italia rischia la bancarotta. Silvio Berlusconi sale al Colle e si dimette. Giorgio Napolitano affida a Mario Monti il compito di varare un governo sopra le parti, che porti il Paese fuori dai guai. Oppure no, o almeno non proprio.

La versione di Forza Italia e del Cavaliere è tutt’altra: ci fu un complotto europeo contro l’Italia e il suo governo, sotto la guida dei poteri forti, e il presidente della Repubblica fu il regista di una trappola preparata da tempo per decapitare chi aveva piena legittimità a governare, avendo vinto le elezioni. Due letture e uno scontro mai sopito nel tempo, con accuse ripetute a Giorgio Napolitano che le ha sempre respinte con decisione: «L’interpretazione che si pretende di dare ai fatti in termini di complotto è fumo, solo fumo».

Quella del 2011 fu un’estate drammatica. Oggi chiunque parla dello spread, ma allora gli italiani non sapevano nemmeno che cosa fosse. Si scoprì che quel numero si può ignorare quando è piccolo, ma è dinamite quando diventa grande. I conti saltano, non si riescono a pagare gli interessi sul debito, il Paese finisce in ginocchio. Sono mesi di fibrillazione. Esce fuori anche un acronimo: Piigs. Parola insultante, che raggruppa le nazioni che non riescono a tenere il passo. Ci sono la Grecia, il Portogallo, l’Irlanda, la Spagna. E c’è l’Italia. Il numerino, quello dello spread, partito a gennaio da 173, arriverà a metà autunno a segnare il suo record storico: 574 punti.

Le reazioni alla morte di Giorgio Napolitano. In diretta

Il clima è torbido, ci sono le preoccupazioni di Bankitalia, gli allarmi della Bce, i moniti di Standard & Poor’s, ma soprattutto si sghignazza. In un attimo diventa virale il video in cui Angela Merkel e Nicolas Sarkozy, a Bruxelles, rispondono alle domande dei giornalisti. Gli chiedono se hanno fiducia in Berlusconi. Merkel, in imbarazzo, fa cenno di sì, poi incrocia lo sguardo sornione di Sarkozy, e tutti e due scoppiano a ridere. Il resto è un ruzzolare verso la crisi. Il 9 novembre Napolitano nomina Monti senatore a vita. Tre giorni dopo, il 12, alla fine di una giornata frenetica, Berlusconi si dimette. Il 16 novembre il presidente della Repubblica dà a Monti l’incarico per formare un governo tecnico.

Lo spread resterà alto ancora per poco, poi tornerà nei ranghi. La cronaca, più che asciutta, perché le vicende di quell’anno furono infinite, termina qui. Ma la polemica continuerà ad ardere sotto la cenere, fino a divampare di nuovo in un incendio, all’uscita di un libro di Alan Friedman dal titolo “Ammazziamo il Gattopardo”. Il giornalista rilancia la tesi del complotto, sostenendo che Giorgio Napolitano aveva già incontrato in giugno Mario Monti, con lo scopo di preparare il terreno per sostituire Silvio Berlusconi, raccoglie anche le confidenze di Carlo De Benedetti e Romano Prodi.

Il Giornale titolerà così la sua prima pagina: “Napolitano non è più il nostro presidente, nel 2011 Re Giorgio tramò in segreto con Monti per far fuori Berlusconi e il suo governo”. Giorgio Napolitano ha sempre respinto ogni accusa. In una lettera al Corriere dirà: «Nessuna difficoltà, certo, a ricordare di aver ricevuto nel mio studio il professor Monti più volte nel corso del 2011 e non solo in estate, apprezzando in particolare il suo impegno europeistico… ma i veri fatti sono noti e incontrovertibili. Ed essi si riassumono in un sempre più evidente logoramento della maggioranza di governo uscita vincente dalle elezioni del 2008… Le confidenze personali e l’interpretazione che si pretende di darne in termini di complotto sono fumo, soltanto fumo».

Le lodi e i cordogli stringati. L’eco delle divisioni nel ricordo di Napolitano. Storia di Maria Teresa Meli su Il Corriere della Sera sabato 23 settembre 2023.

Giorgio Napolitano è stato un presidente della Repubblica che in una fase della nostra storia ha diviso la politica italiana, benché abbia unito il Paese. Tanto che alla fine questo suo ruolo di collante della nazione gli è stato riconosciuto anche da quel centrodestra che lo aveva osteggiato. E nel 2013 la maggior parte dei leader di partito gli ha chiesto di ricandidarsi per un secondo mandato. Ancora oggi, dopo la sua scomparsa , l’eco delle divisioni degli anni passati si riverbera nei commenti che accompagnano la sua uscita di scena.

La mente, inevitabilmente, va indietro nel tempo, al 2011, l’anno in cui Silvio Berlusconi fu costretto alle dimissioni e l’allora capo della Stato Napolitano chiamò a Palazzo Chigi Mario Monti. Il leader di Forza Italia gridò al «complotto». Ma qualche anno dopo Berlusconi chiese, insieme ad altri leader politici, la rielezione al Colle di Napolitano.

Maurizio Gasparri, che all’epoca era capogruppo al Senato del Pdl, ricorda così quel periodo: « Napolitano appartiene a quella schiera sempre più sparuta di veri protagonisti della vita politica. Il riconoscimento da parte mia di un rapporto personale sempre rispettoso, nonostante i diversi percorsi di provenienza, non mi fa dimenticare i momenti difficili, soprattutto quelli 2010-2011». E Gasparri prosegue: «Allora capogruppo del Pdl, il partito principale del tempo, ebbi con lui un confronto costante nel corso della legislatura. Sulla fine del governo Berlusconi demandiamo ormai agli storici la narrazione dei fatti. Non posso trascurare il fatto che Napolitano, in alcuni passaggi, apparve partecipe delle vicende che portarono al logoramento del governo. Ma quell’epilogo fu dovuto, in modo particolare, ad alcuni tradimenti del centrodestra e all’azione faziosa ed infondata della magistratura».

I dissidi e le divisioni di un tempo traspaiono dai titoli che alcuni quotidiani hanno dedicato alla scomparsa di Napolitano. « Fine del comunista che ha usato la democrazia», titola Il Giornale. «Addio a Napolitano, il comunista pentito. Commissariò l’Italia in nome della Ue», scrive Libero. E La Verità: «Addio al comunista diventato presidente con la sconfitta del comunismo».

Evidentemente i fatti del 2011 e la diffidenza da parte della destra per un esponente che veniva dalle file del Pci non sono stati definitivamente archiviati.

E qualcuno spiega così la decisione di Giorgia Meloni di far diffondere una nota stringatissima e laconica in cui esprime «il cordoglio a nome del governo italiano» e dedica «un pensiero e le condoglianze alla famiglia». Ma è anche vero che la premier ieri ha chiesto al suo partito di sospendere tutte le iniziative in programma in questi giorni e ha cancellato l’evento di oggi, all’Auditorium della Conciliazione, con il quale avrebbe dovuto festeggiare il primo anno a Palazzo Chigi.

Anche il cordoglio di Matteo Salvini è espresso con un pugno di parole: «Napolitano è stato un protagonista della vita politica del Paese». Freddo pure il commento di Giuseppe Conte, che esprime il «massimo cordoglio» del suo partito. Chissà, forse Conte era condizionato dal fatto di essersi (momentaneamente) riappacificato con Beppe Grillo. L’elevato nel 2014 aveva fatto chiedere al M5S l’impeachment nei suoi confronti.

Nel frattempo si sono scatenati i soliti hater amanti dell’anonimato. E ieri a San Siro, per Milan-Verona, il minuto di silenzio per Napolitano è stato interrotto da fischi e cori delle tifoserie. Ma dal campo è scattato l’applauso dei giocatori a cui si è associato tutto lo stadio.

Il funerale laico del presidente Napolitano. La prima volta a Montecitorio. Alessandra Arachi su Il Corriere della Sera sabato 23 settembre 2023.

Al rito gli interventi di chi è stato testimone della sua vita. FdI e Pd annullano le loro kermesse 

Non era mai successo che un funerale di Stato venisse celebrato nell’aula di Montecitorio. Per Giorgio Napolitano martedì verranno aperte le porte dell’emiciclo della Camera dei deputati e alle 11.30 cominceranno le esequie laiche.

Ci sono due precedenti di funerali di Stato laici per due presidenti della Camera: Nilde Iotti, 1999, e Pietro Ingrao, 2015. Ma per tutti e due venne allestito un palco davanti al Palazzo di Montecitorio, non dentro. All’interno del Senato verrà allestita invece la camera ardente. Il pubblico potrà accedere oggi dalle 11, ma il presidente della Repubblica Sergio Mattarella la aprirà già alle 10 (il feretro arriverà alle 9) insieme al presidente di Palazzo Madama Ignazio La Russa, davanti alla moglie Clio e ai figli Giovanni e Giulio. Il numero uno del Senato, appena tornato a Roma, si è recato a controllare la camera ardente allestita nella sala Nassiriya, che rimarrà aperta sino alle sei del pomeriggio di oggi e domani dalle 10 alle quattro del pomeriggio.

Per rispetto dell’uomo che per la prima volta nella storia del nostro Paese è stato eletto due volte presidente della Repubblica si è fermata la politica. Annullate le iniziative previste dal Partito democratico ma anche la kermesse organizzata da Fratelli d’Italia, «L’Italia vincente», compreso l’intervento della premier Giorgia Meloni, in programma oggi all’Auditorium della Conciliazione a un anno dalla vittoria alle elezioni. Per Giorgio Napolitano è stato dichiarato il lutto nazionale.

Non facile il cerimoniale per il funerale del presidente emerito. Bisogna calibrare gli inviti. I posti dentro la Camera sono contati, sono tanti ma ci saranno davvero molte persone che parteciperanno. A cominciare dai parlamentari, i membri del governo, il presidente della Repubblica e i suoi accompagnatori, le cariche istituzionali. In testa poi i familiari di Napolitano e i suoi amici, alla fine saranno un centinaio gli inviti personali. La Camera conta più di un migliaio di posti nell’emiciclo, oltre ai banchi del governo e altri duecentotrenta posti nelle tribune. Un funerale laico, per definizione, non prevede alcun rito religioso. Per ricordare Napolitano verranno tenute orazioni da parte di chi è stato testimone della sua vita privata e politica già entrata di diritto nella Storia.

«L’Europa perde un suo convinto sostenitore. Il suo impegno per rafforzare l’Europa e la democrazia rimarrà con noi», ha voluto ricordare il presidente del Consiglio europeo Charles Michel. Emma Bonino appoggia il giudizio di Michel, aggiungendo: «È stato una guida ferma e saggia in momenti delicati per il Paese». Anche Gianni Pittella, storico parlamentare della sinistra riformista meridionale ne ricorda «il monito severo all’unità europea come unico orizzonte possibile per l’Italia». E Gianfranco Rotondi, storico esponente Dc, lo definisce «arbitro e notaio rispettoso del ruolo affidatogli dalla Costituzione».

All’Accademia della Crusca non hanno dubbi: «Napolitano seppe valorizzare la funzione della lingua italiana cogliendo il valore della forza unificatrice e identitaria che l’italiano, lingua di intellettuali e di popolo, ha sempre esercitato nella storia del Paese, al Nord come al Sud. L’italiano è stato lo strumento del dibattito politico che ha portato all’Assemblea costituente e alla Repubblica, dalla Liberazione a oggi».

Napolitano, ecco perché Papa Francesco ha pregato alla camera ardente di un presidente laico. Gian Guido Vecchi su Il Corriere della Sera domenica 24 settembre 2023.

La scelta di Napolitano di avere un funerale laico non ha impedito al Pontefice di rendere omaggio all’ex capo dello Stato. Un gesto che va oltre i buoni rapporti tra Quirinale e Vaticano

Non è solo questione di rispetto istituzionale. L’immagine di Francesco che si alza dalla sedia a rotelle e, appoggiato al bastone, s’avvicina al feretro di Giorgio Napolitano, nella camera ardente allestita al Senato, restando a lungo in preghiera silenziosa davanti alla bara ricoperta dalla bandiera tricolore, va oltre i buoni rapporti ormai consolidati tra i «due Colli» sulle rive opposte del Tevere, Quirinale e Vaticano.

Migranti, Tajani: «A Ventimiglia Parigi sbaglia con i respingimenti. A Berlino chiederò spiegazioni»

Il cardinale Ravasi, oratore al rito laico: «Napolitano non ha mai smesso di interrogarsi». Gian Guido Vecchi su Il Corriere della Sera domenica 24 settembre 2023.

Il biblista: «Parlavamo di Dante e Beccaria. L'ultima volta che ci siamo sentiti mi ha detto "sto riprendendo a leggere Pascal"» 

«L’ultima volta che ci siamo sentiti, non molto tempo fa, mi ha detto: sto riprendendo a leggere Pascal». Il cardinale Gianfranco Ravasi, domattina, sarà tra gli oratori chiamati a parlare, nell’aula di Montecitorio, alla commemorazione civile di Giorgio Napolitano. Il grande biblista sorride: «È anche un modo per ricambiare la sua presenza ad Assisi, quando da presidente della Repubblica accettò l’invito a partecipare al “Cortile dei Gentili”, il 5 ottobre 2012, un dialogo tra credenti e non credenti sul tema “Dio, questo Sconosciuto”».

Come spiegarlo a chi lo troverà strano, eminenza?

«È un gesto di rispetto nei confronti di una persona che ha rappresentato in maniera ideale il tema dell’interrogazione, della ricerca. Altri parleranno del politico, del giurista, del suo impegno per l’Europa. Ma è giusto che si desideri anche una presenza per così dire spirituale. Napolitano si è sempre interessato ai temi della trascendenza, anche se è un orizzonte al quale non è giunto. Il Dio Sconosciuto, l’apertura alle grandi domande. Come scriveva Wittgenstein: “Ho voluto indagare i contorni di un’isola, ma ciò che ho scoperto sono i confini dell’Oceano”».

Qualcuno dirà: un cardinale a una cerimonia laica?

«Mi ha fatto piacere l’invito dell’istituzione e dei familiari. Del resto, è bello il gesto che Papa Francesco ha compiuto alla camera ardente: non solo rispetto istituzionale, ma anche nei confronti di un uomo che ha sempre avuto in sé una dimensione morale e di apertura a ciò che va oltre il fenomeno. Non dimentichiamo mai che Cristo non esitava ad andare in ambienti fortemente laici. Questa è la forza del cristianesimo: non essere chiuso nel suo orto protettivo ma ascoltare ciò che sta oltre e l’altro che ti ascolta».

Quando vi conosceste?

«Il 25 aprile 1998. Ero prefetto dell’Ambrosiana e lui ministro dell’Interno, arrivato a Milano per la Liberazione. Aveva chiesto di vedere la Biblioteca e incontrarmi. Nel mio studio c’era una “reliquia laica” che gli mostrai: il manoscritto di Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria. Era commosso, davanti a quel testo fitto di correzioni e macchie d’inchiostro che dicevano la fatica della stesura. La passione per la ricerca...».

Il momento più significativo della vostra amicizia?

«Il dialogo ad Assisi. Ricostruì il momento giovanile della sua crisi religiosa ma anche il permanere del suo interrogarsi, le grandi domande alimentate dalla sue letture. Era un grande umanista: letteratura, filosofia... Amava Thomas Mann, citava in tedesco l’incipit di Giuseppe e i suoi fratelli. A Palazzo Giustiniani teneva sulla scrivania la Divina Commedia, diceva che aveva il bisogno di leggerne ogni giorno qualche verso. Quando conclusi il mio incarico, gli chiesi di diventare presidente della “Casa di Dante” di Roma, e lui accettò».

Ad Assisi, Napolitano citò una frase di Bobbio: «Vorrei funerali civili. Credo di non essermi mai allontanato dalla religione dei padri, ma dalla chiesa sì. Ormai da troppo tempo per tornarvi di soppiatto all’ultima ora».

«Straordinaria, ma nel caso di Napolitano è sempre rimasto un legame con la Chiesa, anche per il suo ruolo istituzionale ma non solo: penso all’amicizia profonda e autentica con Benedetto XVI».

Ratzinger gli anticipò la decisione di dimettersi...

«C’era una sintonia profonda e uno dei legami era la musica. Napolitano arrivava a parlare di Berg, Schönberg, Berio... Del resto c’era in lui una sorta di spiritualità laica. L’ha sempre avuta. Una volta avevo recensito un libro di Pierre Emmanuel, poeta cattolico che scrisse anche versi sulla resistenza francese ai nazisti. L’indomani ci incontrammo, “l’ho letta e sono andato a vedere nella mia biblioteca”, e mi mostrò un libro del poeta. Dentro c’era una sua nota a penna: Napoli, 1943. Era ancora un ragazzo».

Napolitano, ecco perché Papa Francesco ha pregato alla camera ardente di un presidente laico. Gian Guido Vecchi su Il Corriere della Sera domenica 24 settembre 2023.

La scelta di Napolitano di avere un funerale laico non ha impedito al Pontefice di rendere omaggio all’ex capo dello Stato. Un gesto che va oltre i buoni rapporti tra Quirinale e Vaticano

Non è solo questione di rispetto istituzionale. L’immagine di Francesco che si alza dalla sedia a rotelle e, appoggiato al bastone, s’avvicina al feretro di Giorgio Napolitano, nella camera ardente allestita al Senato, restando a lungo in preghiera silenziosa davanti alla bara ricoperta dalla bandiera tricolore, va oltre i buoni rapporti ormai consolidati tra i «due Colli» sulle rive opposte del Tevere, Quirinale e Vaticano.

Anche il telegramma che il Papa aveva inviato alla signora Clio andava al di là cordoglio formale: Bergoglio esprimeva «sentimenti di commozione e riconoscenza» per un «uomo di Stato» del quale «ho apprezzato l’umanità e la lungimiranza nell’assumere con rettitudine scelte importanti, specialmente in momenti delicati per la vita del Paese, con il costante intento di promuovere l’unità e la concordia in spirito di solidarietà, animato dalla ricerca del bene comune». Così Francesco si diceva vicino alla moglie e ai familiari, «assicurando il ricordo nella preghiera».

Anche adesso, il Vaticano fa sapere che il Papa ha voluto «esprimere, con la presenza e la preghiera, il suo personale affetto a lui e alla famiglia, e onorare il grande servizio reso all’Italia». E poco importa che il primo presidente ex comunista nella storia della Repubblica abbia scelto per sé i funerali «laici». Francesco è il Papa che, nell’enciclica «Fratelli tutti», a proposito della parabola evangelica del Buon Samaritano, scriveva che «a volte, coloro che dicono di non credere possono vivere la volontà di Dio meglio dei credenti».

Giorgio Napolitano era stato legato da un’amicizia lunga e sincera con Joseph Ratzinger, che gli aveva confidato di volersi dimettere una settimana prima di annunciare la propria «rinuncia». Poi era andato a trovare il Papa emerito nel monastero vaticano Mater Ecclesiae, dove si era ritirato. Benedetto XVI aveva scritto di lui: «Per l’Italia ha rappresentato certo una fortuna essere guidata in tempi difficili e tra scogli di ogni tipo da un uomo così».

È quello che pensa anche Francesco, che lo aveva conosciuto fin dal primo anno di pontificato: la partecipazione di Napolitano alla Messa di inizio del ministero petrino, il 19 marzo 2013, la prima visita ufficiale in Vaticano il 18 giugno, e poi Francesco che ricambia il 14 novembre al Quirinale. Un anno più tardi, il 21 novembre 2014, si videro a Santa Marta, un incontro privato a sorpresa, fuori dal protocollo ufficiale, e parlarono a lungo. Sabato sera Francesco è tornato da Marsiglia, ventiquattr’ore di viaggio intenso e serrato per denunciare ancora una volta la tragedia delle migrazioni nel Mediterraneo, «occorre ripartire dal grido silenzioso degli ultimi». Naturale che fosse stanco, è un uomo che a dicembre compirà 87 anni, ma dopo l’Angelus si è fatto accompagnare alla camera ardente, primo Papa a varcare la soglia del Senato.

Non bastava il telegramma, ha voluto esserci. Francesco ha sempre parlato anzitutto attraverso i gesti. La preghiera muta e rispettosa davanti al feretro, il Papa che si china a baciare la signora Clio, seduta come lui su una carrozzina.

Altro che golpe del 2011 Berlusconi era sollevato. Storia di Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera lunedì 25 settembre 2023.

Caro Aldo, Giorgio Napolitano è stato uno storico dirigente del Partito comunista italiano, presidente della Camera e ministro dell’Interno e capo dello Stato per due mandati. Fu accusato di aver manovrato un complotto per far cadere il governo guidato da Silvio Berlusconi, insinuazioni sempre respinte. Lei che ne pensa? Fabio Sìcari, Piombino Ho letto giudizi critici sulla figura di Napolitano, in particolare sulla sua presunta inimicizia con Berlusconi, tanto da aver orchestrato, a loro dire, un vero e proprio «golpe» nel 2011 per farlo dimettere da presidente del Consiglio. Potrebbe spiegare come sono andate le cose? Marco Ferrari

Cari lettori, Qualsiasi personaggio può e deve essere soggetto a un giudizio critico, financo il Papa; figuriamoci un presidente della Repubblica. Di solito i capi dello Stato italiano sono ammirati ed elogiati finché restano sul Colle; poi vengono dimenticati in fretta. È accaduto persino a un gigante come Ciampi, cui la sua città natale, Livorno, ha negato l’intitolazione di una rotonda. Ovviamente anche Napolitano può essere criticato. Ma l’idea che nel 2011 abbia architettato un golpe antiberlusconiano è un falso storico clamoroso. Posso dirlo con certezza perché la fonte è inattaccabile: Berlusconi stesso. Lo intervistai il 13 novembre. Era una domenica. Il giorno prima si era dimesso. Tutto in lui — il tono di voce, lo spirito, la sostanza stessa di quello che diceva — indicava sollievo. Tutto gli consigliava di rinunciare al governo: i rapporti deteriorati con Francia, Germania, Stati Uniti; la corsa dello spread; l’interesse delle sue stesse aziende, che è sempre stato la sua stella polare. «Vediamo adesso come se la cava il professore» sorrise, riferendosi a Monti, che nel 1994 aveva nominato commissario europeo. Berlusconi non ce l’aveva con Napolitano; non a caso fu dalle file berlusconiane che giunse la prima proposta di rieleggerlo, un anno e mezzo dopo. L’idea che Napolitano abbia fatto un colpo di Stato è successiva, ed è sbagliata. Le forze che avevano lavorato contro Berlusconi erano state altre: Sarkozy, Merkel, Obama, la speculazione internazionale; e forse qualcuno del suo stesso campo, che sognava di prenderne il posto, come l’altro giorno ha ricordato Maurizio Gasparri. Un ruolo-chiave lo ebbe la Lega, che rifiutò di fare la riforma delle pensioni (le pensioni di anzianità erano quasi tutte al Nord), proprio come nel 1994: quando Berlusconi fu fatto cadere da Bossi, non dai magistrati. Poi c’è un altro mito parallelo: in quel novembre 2011 il Pd di Bersani avrebbe dovuto pretendere le elezioni, anziché sostenere il governo Monti. Ma se l’alternativa fossero state le elezioni subito, Berlusconi non si sarebbe mai dimesso. Neppure Fini voleva il voto anticipato. E in ogni caso Napolitano aveva il dovere costituzionale di far proseguire la legislatura, in presenza di una maggioranza parlamentare.

Fini: «Napolitano aveva un rispetto sacrale per la Costituzione. La caduta del governo Berlusconi? Racconti falsi». Tommaso Labate su Il Corriere della Sera il 26 Settembre 2023

L'ex presidente della Camera: «Complotto? Al contrario, era molto rigoroso»

Gianfranco Fini, che ricordo ha del presidente Napolitano?

«Quello di un uomo molto rigoroso. Che diventava puntiglioso tutte le volte che si trattava di rispettare o di difendere l’equilibrio tra poteri dello Stato. Vede, Giorgio Napolitano ha avuto un rispetto sacrale della Costituzione. A differenza di alcuni predecessori, che hanno inciso nella dialettica tra partiti e in certi casi l’hanno determinata, come Scalfaro o prima ancora Cossiga, mai, neanche una volta ho sentito fare al presidente Napolitano considerazioni o anche solo accenni al dibattito politico-partitico in corso allora».

Per cinque dei nove anni di Napolitano al Colle, lei fu presidente della Camera. E anche il leader di partito che staccò un pezzo importante dalla maggioranza di Berlusconi.

«Furono anni turbolenti. E lo furono anche per alcune mie scelte politiche, certo. Ma la teoria secondo cui l’allora capo dello Stato fosse il regista di un complotto per far cadere Berlusconi con la mia complicità non solo è infondata ma anche offensiva. Con falsi racconti degni della spazzatura che continuano a circolare».

Si riferisce alle testimonianze di chi sostenne che lei avrebbe fatto ascoltare in viva voce una telefonata in cui il presidente si compiaceva delle difficoltà che le sue scelte avevano creato al governo?

«Una cosa totalmente falsa. Napolitano non si occupava delle vicende politiche in presenza, figurarsi se l’avrebbe fatto per telefono. Le voglio raccontare alcuni episodi del mio rapporto con lui».

Cominci pure.

«Da presidente della Repubblica, nel 2008, Napolitano aveva promulgato, accompagnandolo da una nota, il lodo Alfano, che ridisegnava la disciplina dell’immunità delle alte cariche dello Stato. Un anno dopo, siamo nell’ottobre del 2009, la Corte costituzionale bocciò la norma. Berlusconi reagì malissimo e dichiarò che la sinistra aveva in mano tutto, compreso il capo dello Stato e i giudici della Consulta. Da presidente della Camera dichiarai che il presidente del Consiglio era pienamente legittimato dal voto popolare a governare ma che questo non lo legittimava a denigrare il presidente della Repubblica e la Consulta».

E quindi?

«Mai, neanche una volta, neanche in un inciso o in una mezza frase, parlando con me Napolitano fece un riferimento, ancorché velato, alla mia presa di posizione rispetto a quelle dichiarazioni di Berlusconi. Non dico di apprezzamento, o di ringraziamento, ci mancherebbe; ma nulla di nulla, neanche un accenno. Per dire di come fosse attento oltre ogni scrupolo al rigorosissimo rispetto delle sue prerogative, alla necessità di non travalicarle in nessun caso».

Complotto o non complotto, come risponde a chi pensa che il Quirinale ebbe un ruolo nella sua decisione di presentare una mozione di sfiducia contro il governo Berlusconi?

«Nella primavera del 2010 venni estromesso dal Popolo delle Libertà…».

Il giorno del famoso «che fai, mi cacci?» con cui lei rispose a Berlusconi.

«Esattamente. Né in quel giorno, né nei giorni o nelle settimane o nei mesi successivi, il presidente Napolitano parlò con me delle dinamiche in corso nella maggioranza, del mio rapporto con Berlusconi, dell’oggettivo indebolimento dell’esecutivo».

Molti finiani denunciarono i tempi lunghi che vennero riservati al voto sulla mozione di sfiducia, sottolineando l’ampio margine che ebbero i berlusconiani per cercare i famosi «responsabili».

«La preoccupazione principale del Quirinale era mettere in sicurezza l’approvazione della legge di bilancio, in discussione al Senato. Il giorno in cui alcuni ministri si dimisero dal governo esprimendomi la loro solidarietà, a metà novembre 2010, io e Schifani venimmo convocati da Napolitano. Il capo dello Stato chiese al presidente del Senato in che tempi, ragionevolmente, l’Aula avrebbe approvato la manovra. “Venti giorni”, fu la risposta. I tempi della mozione di sfiducia furono dettati da questo timing. Se avessi voluto, data l’assenza di un accordo nella conferenza dei capigruppo, avrei potuto fissare immediatamente la votazione sulla sfiducia. Non lo feci perché sarebbe stato irresponsabile dal punto di vista istituzionale. Solo molto tempo dopo, Napolitano mi disse di aver apprezzato la mia decisione…».

I figli, la nipote, l’eco di un rimprovero (e il fantasma del comunismo): i funerali di Napolitano. Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera martedì 26 settembre 2023. 

In quella Camera dove Giorgio Napolitano mise piede per l’ultima volta 10 anni fa, nel durissimo discorso per la rielezione, la famiglia, la politica italiana e quella internazionale hanno salutato l’ex presidente. Discorsi accorati, qualche gaffe, nessun segno di croce: «La sua memoria appartiene all’Italia»

Strano funerale, senza bara, senza preti, senza chiesa, senza popolo: deserta piazza Capranica con il maxischermo, un centinaio di persone davanti a quello di piazza del Parlamento. Popolo tenuto lontano non tanto dalla proverbiale indifferenza romana quanto dallo spiegamento di forze: poliziotti, carabinieri, finanzieri, militari, vigili, agenti in borghese, in un trionfo di sirene e transenne che da tempo hanno preso il posto della lupa e dell’aquila come simbolo della capitale. Sulla soglia di Montecitorio si allunga la fila dei notabili vestiti a lutto, ripresi con il telefonino dai turisti incuriositi in sandali e bermuda. D’Alema ripete l’aneddoto di Napolitano presidente della Camera che lo rimanda a casa a cambiarsi — «il commesso mi portò un biglietto, c’era scritto: il capo del maggiore gruppo di opposizione non può presentarsi così» — e aggiunge: «Napolitano tenne l’orazione funebre di mio padre. Io non sono mai stato amendoliano; ma mio padre sì».

Il fantasma del comunismo si aggira sulla cerimonia laica, e resterà a lungo un non detto, almeno fino all’intervento di Anna Finocchiaro: «Napolitano scelse il Pci perché era il partito che aveva combattuto più duramente il fascismo, e perché si mescolava con il popolo».

La chiesa di Napolitano è il Parlamento, la Camera dei deputati, dove iniziò la sua vita pubblica nel 1953, a ventotto anni, e dove la chiude ora, a novantotto. L’ultima volta che lo si era visto qui a Montecitorio fu dopo la rielezione, la prima nella storia repubblicana, dieci anni fa. Napolitano tenne un discorso durissimo, in cui strigliò i parlamentari, quasi diede loro degli incapaci, e li esortò a fare le riforme per rendere il sistema più efficiente e più vicino ai cittadini. Il fallimento non potrebbe essere più totale; ma è tutto di chi è seduto sugli scranni, non di chi è chiuso nel feretro. Con l’aggravante che chi è venuto dopo, dall’invasione grillina in poi, non ha finora trovato soluzioni.

Nell’emiciclo non ci sono solo parlamentari, ma amici di famiglia, uomini di cultura, crocerossine, partigiane, più militari in alta uniforme curiosamente collocati all’estrema sinistra, tra cui spicca tutto bianco il comandante De Falco, quello che invitò sbrigativamente Schettino a risalire a bordo. Poca destra, quasi tutta sui banchi del governo. Si rivedono volti dimenticati: Quagliariello, Vincenzo Visco che a molti fa pensare alla dichiarazione dei redditi, Occhetto, Silvia Costa e il mitico Alessandro Bianchi, ministro cossuttiano ai Trasporti nel governo Ciampi, con capelli lunghi sul collo. Ognuno cerca un amico con cui far passare il tempo, Schlein conversa con Landini, Teresa Bellanova non rinuncia ai suoi colori sgargianti, unica nota di arancione e viola in un’aula scura. Arriva Liliana Segre, c’è anche Giuliano Ferrara. Nessuno vuole sedersi vicino a Soumahoro.

Capannello di ex premier, in Italia categoria più numerosa dei metalmeccanici: Prodi, Conte, Letta, D’Alema, Monti, Amato, Gentiloni… Renzi arriverà a mezzogiorno meno dieci, abbronzatissimo. Alle 11 appare sullo schermo il feretro coperto dal tricolore, risuonano le note dell’inno, ci si alza in piedi e nessuno osa sedersi: passano così venti minuti di silenzio e imbarazzo. Si vede Macron in gilet chinarsi quasi fino a baciare le mani a Clio Napolitano, da giorni a fianco del marito pur con la bombola d’ossigeno. In tribuna ci sono gli agenti della scorta del Quirinale, i migliori d’Italia, gli stessi dai tempi di Ciampi, che a tutti aveva dato la stessa istruzione: «Non siate mai scortesi con i cittadini».

Ora i capi di Stato stranieri entrano in aula: l’ex presidente francese Hollande con l’andatura da «pinguino», titolo della canzone cattivella che gli ha dedicato Carla Bruni; poi Macron, che si gira a cercare con lo sguardo Mario Draghi, lo vede, lo saluta portandosi la mano sul cuore. Ecco Giorgia Meloni: vestita di nero pare ancora più piccolina, ma quando guadagna la sedia da premier tutti i suoi ministri – Pichetto Fratin, Urso, Crosetto, Piantedosi, Tajani – scattano in piedi per lasciarla passare.

Parla per primo il presidente della Camera Fontana, emozionatissimo, e dà mano a Wikipedia: «Dopo la laurea in giurisprudenza conseguita all’università di Napoli…». La Russa lo chiama Napoletano con la e ma almeno ci mette un po’ di cuore. Il presidente tedesco Steinmeier infila le cuffie per la traduzione; Macron ne fa a meno. Sgarbi deve aver fatto tardi ieri sera e si assopisce .

Parla Giulio Napolitano e sembra davvero di rivedere il padre: alto, asciutto, non una parola di troppo. Ma i tempi si fanno lunghi e sui banchi cominciano a vedersi i cellulari, spicca quello dell’ex ministra Fedeli, rosso acceso in tinta con gli occhiali e i capelli.

Sofia Napolitano, accompagnata dal fratello Simone, ricorda il nonno rigoroso e affettuoso, che le telefonava da bambina per segnalarle un cartone animato che le sarebbe potuto piacere — e qui la Meloni si volta per guardare in viso Sofia, mentre i suoi ministri restano con lo sguardo in avanti —, e da ragazza le indicava i libri e gli articoli utili per i suoi studi (ora si gira anche Salvini).

Adesso sono tutti commossi: se a un funerale ognuno piange anche la propria morte questo è particolarmente vero per un ex capo dello Stato, vale per i parlamentari della sua generazione – Jas Gawronski e Franco Debenedetti, nel 1996 candidati della destra e della sinistra nel collegio Torino centro al Senato, siedono uno accanto all’altro – come per gli ospiti stranieri, compresa l’altezza reale duchessa di Edimburgo che il protocollo piazza accanto a Pina Picierno vicepresidente del Parlamento europeo.

Dopo la Finocchiaro parla Gianni Letta: ricorda Napolitano sulla Flaminia presidenziale con Berlusconi, immagina che i due nell’aldilà possano essersi parlati, chiariti. Un messaggio a destra: ma quale golpe. L’ex ministro Lupi tamburella con le mani, sotto i banchi cominciano frenetiche consultazioni dei cellulari. Il posto accanto a Soumahoro è rimasto vuoto.

Monsignor Ravasi cita Thomas Mann, Mozart, Beccaria e conclude con il profeta Daniele, capitolo 12, versetto 3: «“I saggi risplenderanno come lo splendore del firmamento, coloro che avranno indotto molti alla giustizia risplenderanno come le stelle per sempre”. Questo è il fiore ideale che depongo sul feretro del presidente».

«Per la crisi Covid er calcio nun ha avuto un euro!» tuonerà nel Transatlantico Claudio Lotito, che è qui perché «tutta ’a famija Napolitano è daaa Lazio».

Amato evoca la morte del consigliere D’Ambrosio, le intercettazioni, il moto d’orgoglio di Napolitano – «fu stabilito che il presidente della Repubblica deve poter contare sull’assoluta riservatezza delle sue comunicazioni» –; segue Gentiloni sull’impegno europeista. Parte la suoneria di un cellulare, poi di un altro, il ritmo dei discorsi accelera.

Macron si ferma a salutare un giovane in sedia a rotelle: è lo storico Alessandro Acciavatti, autore di studi importanti sui rapporti tra Quirinale e Vaticano. Franco Carraro ricorda l’incontro con l’imperatore Hirohito all’Olimpiade di Tokyo 1964. Passano Giovanni Malagò e Luca Barbareschi. Ravasi e Sgarbi discutono se siano più tersi i cieli di Perugino, Piero della Francesca o Ercole de’ Roberti. Brando Benifei, capogruppo Pd all’Europarlamento, avanza con ciuffo ondeggiante tipo promoter di discoteca anni 80 che gli avrebbe provocato un biglietto di Napolitano più severo di quello per D’Alema. Nel Transatlantico passa ora il feretro, nessuno azzarda un segno di croce, non l’ha fatto neppure il Papa. Finocchiaro: «Giorgio ha dedicato la sua vita all’Italia, e a essa appartiene la sua memoria». Fuori, passanti in lacrime ma per l’assenza di taxi, oggi particolarmente introvabili. A Roma, anche quando cambia tutto, all’apparenza non cambia mai nulla.

Estratto dell’articolo di Gianna Fregonara per il “Corriere della Sera” giovedì 28 settembre 2023.

C’è una frase che Sofia May Napolitano, 26 anni, tiene nel suo telefonino: «Me la disse il nonno nel 2018. Una sera prima di andare a dormire gli avevo chiesto chi fossero le persone che ammirava di più. Mi rispose: mio padre Giovanni, Giorgio Amendola e l’archeologo Ranuccio Bianchi Bandinelli. […] 

Con il suo discorso alla Camera durante il rito laico in memoria di Giorgio Napolitano, suo nonno, ha fatto commuovere tutti: «Sono appunti che avevo preso da qualche tempo. Il testo l’ho provato e riprovato davanti a mamma e papà». Ed è andata bene: «Ma al microfono, vicino a me, c’era anche mio fratello nel caso...».  

Simone, 24 anni, è qui anche oggi sul divano di quello che l’ex presidente della Repubblica usava come studio in casa mentre Sofia racconta un nonno «inedito» per i più, affettuoso e partecipe della vita dei suoi nipoti anche nei periodi in cui sono stati lontani […] 

Lei ha raccontato dei suoi consigli sui cartoni animati.

«Un episodio. Stavamo guardando i Power Rangers e si vedeva male ma Simone non voleva cambiare canale. Telefonò il nonno, e cambiammo canale».

Vi ha dato consigli per gli studi, parlavate di politica?

«Ne parlavamo ma non c’erano condizionamenti. Anche quando ci mandava articoli o libri che pensava ci potessero interessare, non era pressante. Per esempio, sapeva che facevo la tesi sull’impatto del linguaggio politico in tema di immigrazione — era il periodo del governo Conte con Salvini — e mi mandava articoli di attualità. Era attento a cosa gli dicevo, mi ascoltava, alla fine gliel’ho dedicata».

La politica piace anche a lei se ha scelto Scienze politiche.

«Non ero sicura di cosa volevo fare, così, forse anche perché la politica era stata così importante nella nostra famiglia scelsi Scienze politiche. Poi mi sono specializzata in diritto: in Inghilterra — ho studiato a Bath — questo è possibile, non come in Italia». 

E il nonno che cosa le ha detto di questa scelta?

«Dal 2010 ci eravamo trasferiti a Ginevra perché la mamma ha avuto un incarico alle Nazioni Unite. I nonni sono venuti alla cerimonia del mio diploma, tornavano dalla Germania dove il nonno aveva ritirato il premio Kissinger e mi ha regalato una copia del suo libro “L’Ordine Mondiale”. Ma quando ha saputo che andavo da sola a Bath si è preoccupato».

Forse temeva che si sentisse sola.

«Sì, mi telefonava e mi diceva di essere allegra, di andare a teatro. Era il suo modo di dirmi di divertirmi, ma una diciottenne del ventunesimo secolo magari a teatro non ci va (sorriso)... Una volta tenne un discorso all’Italian Society dell’Università, si fermò a parlare con gli studenti, era curioso dei giovani. Quando era al Quirinale ricevette la mia classe: alcune insegnanti sono venute alla camera ardente». 

Lei ha raccontato di quando insieme incontraste la Regina Elisabetta.

«Era il 2014, andammo a pranzo, non più di dodici, quindici persone al tavolo. Eravamo seduti vicini: io, lui e la Regina. Il principe Filippo mi chiese che cosa volevo studiare. Io risposi: forse politica e lui mi disse: ripensaci! Un’altra volta mi portò in Cina con lui, nel 2010. Avevo tredici anni, la prima volta in Asia».

Che regali faceva «nonno Giorgio»?

«[…] Ci regalò il primo telefonino, l’Iphone 3, ma eravamo più grandi. Facevamo dei collegamenti Skype, trovava il modo di chiamare qualcuno di noi ogni sera». 

Cosa facevate a Natale?

«[…] Si giocava a bocce, a scopa. Da piccoli a nascondino». […]

Da La Repubblica.

Estratto dell’articolo di Stefano Cappellini per “la Repubblica” sabato 23 settembre 2023.

Achille Occhetto […] Che politico è stato Napolitano?

«Di prim’ordine. Uno dei più significativi esponenti della Prima Repubblica». […] «[…] Malgrado le molteplici occasioni di disaccordo i nostri rapporti sono sempre stati civili e spesso affettuosi». 

Quali furono le divergenze più importanti ai tempi del Pci?

«Al momento della scelta tra Napolitano e Berlinguer come segretario dopo Longo, io da membro della segreteria fui interpellato e scelsi Berlinguer. Poi fu Napolitano, anni dopo, a esprimere contrarietà alla mia elezione a leader». 

Vi divideva anche il giudizio politico sull’ultimo Berlinguer.

«Non condividevo le sue critiche alla questione morale sollevata da Berlinguer, che a mio avviso ebbe il merito di porre per primo un tema cruciale. Berlinguer non invocò la magistratura ma chiese l’autoriforma della politica. Quella che chiese in piena Tangentopoli anche Craxi nel famoso discorso in aula, quando chiamò in correità tutta la politica. Ma ormai era tardi». 

E le divergenze dopo la fine del Pci?

«Un atteggiamento diverso verso la globalizzazione neoliberista e le politiche dell’austerità. E i miei dubbi quando come presidente della Repubblica, davanti alla bancarotta di Berlusconi, lavorò alla tela acuta e sottile del governo tecnico di Mario Monti, da cui però è nata la grande crisi della sinistra».

Perché?

«Se si fosse votato subito dopo le dimissioni di Berlusconi ci sarebbe stato un successo della sinistra. Non so se sarebbe bastato a formare un governo, ma avrebbe rimesso in movimento la politica, l’unico humus nel quale la sinistra può vivere». 

Anche lei da leader del Partito democratico della sinistra, il soggetto nato sulle ceneri del Pci, votò il sostegno a un governo tecnico, quello di Carlo Azeglio Ciampi nel 1993. E poi perse le elezioni contro Berlusconi.

«Un governo tecnico può servire in alcuni momenti a fronteggiare emergenze, ma se si toglie dalla politica il sale, cioè il contrasto, la sinistra è la prima a pagare un prezzo. […]».

[…] Napolitano era politicamente più vicino a Craxi che a Berlinguer?

«Napolitano non amava gli eccessi del craxismo, ma per un certo periodo pensò che ci fossero più aspetti di modernità nella politica di Craxi che non in quella di Berlinguer. In questo, come ho detto, secondo me sbagliava. Con Berlinguer c’erano differenze caratteriali, non erano fatti per andare a cena insieme tutte le sere. Ciò non toglie che Berlinguer affidò proprio a lui e me il compito di scrivere il programma di medio termine del Pci. […]».

Come risolveste i dissidi tra di voi nella stesura del programma?

«Io mi occupai della parte valoriale, Napolitano della parte economica. Lui guardava con compiacenza gli aspetti di più lunga prospettiva che mettevo nella mia parte, e io apprezzavo la sua concretezza e anche l’originalità di molte posizioni della sua corrente migliorista». […]

Estratto dell’articolo di Concetto Vecchio per "la Repubblica" domenica 24 settembre 2023.

Rino Formica, che presidente è stato Giorgio Napolitano? […] È stato un buon presidente della Repubblica?

«È stato rispettoso della Costituzione, ma ha avuto la tendenza ad intervenire. In questo è stato un liberale intrusivo». 

È giusto che sia così un Capo dello Stato?

«Sì, ha fatto bene, la carica va resa viva. La vitalità va trasmessa al corpo vivo dell’istituzione». 

Cosa intende?

«Le istituzioni hanno bisogno di una guida salda, sicura e prevedibile nei momenti di crisi. La passività è un elemento di imprevedibilità».

Scegliere Monti non è stato un errore?

«La nomina di Monti nasce dal timore dello sbandamento che potesse nascere in seguito allo scioglimento delle Camere. Ha preferito un periodo di transizione prima di andare al voto, visto che lo spread era arrivato a 550». 

L’austerità che ne è seguita non è stata all’origine del successo del populismo grillino?

«Manca la controprova che le cose sarebbe andate diversamente senza quella nomina». 

A destra gli hanno rinfacciato di essersi schierato con i carri armati sovietici nell’Ungheria del ’56.

«In quel preciso momento storico prevalse in lui la necessità di difendere il sogno di una grande forza popolare comunista nutrita di valori liberali».

Prevalse la ragion di partito?

«La ragione di non ostacolare un atto del socialismo reale armato e contraddittorio». 

[…] Fu popolare?

«Non era un cerca applausi. Se doveva difendere qualcuno lo faceva senza puntare all’approvazione. Dopo la seconda elezione attaccò duramente il Parlamento per l’incapacità a uscire dallo stallo». […]

Estratto dell’articolo di Claudio Tito per “la Repubblica” domenica 24 settembre 2023.

«Cosa dissi a Berlusconi? Solo che bisognava salvare il Paese». Molti anni dopo, quando aveva già lasciato il Quirinale, Giorgio Napolitano raccontava così il colloquio che entrò nella storia d’Italia. L’incontro durante il quale, l’11 novembre del 2011, Silvio Berlusconi rassegnò le dimissioni per chiudere quasi definitivamente la sua stagione politica. Almeno quella da primo protagonista.

«Bisognava salvare il Paese», sintetizzava il capo dello Stato emerito durante una visita svolta nella redazione di Repubblica da senatore a vita. […] L’incubo prendeva le forme di un numero: quello che indicava lo spread tra i titoli di Stato italiani, i Btp, e i bund tedeschi. Tra l’8 e l’11 novembre il differenziale aveva battuto quasi tutti i record. Si avvicinava a quota 600. 

[…] nonostante le rassicurazioni e le sottovalutazioni del governo di allora, nello studio di Napolitano arrivavano diversi report drammatici. […] Con i tassi di interesse così alti, l’Italia rischiava la bancarotta. Lo spread era sinonimo di fallimento. La pubblica amministrazione era sul punto di non pagare gli stipendi pubblici. […] Un dossier di cui Napolitano ha parlato quella sera e nelle interlocuzioni precedenti con il premier. E soprattutto lo ha discusso successivamente con il nuovo capo del governo, Mario Monti. […] La sensazione permanente che da un momento all’altro potesse saltare il banco […]

Mentre il Cavaliere decideva allora di arrendersi davanti all’evidenza dei fatti, la piazza di fronte il Palazzo del Quirinale si riempiva. Molti giovani. Tutti invocavano il nome di Giorgio Napolitano e urlavano «Berlusconi a casa». […] La popolarità del capo dello Stato raggiungeva uno dei massimi picchi. […] La tensione era talmente alta da impressionare anche il premier dimissionario. […] «Vorrei entrare dall’ingresso laterale. Non fatemi passare da piazza del Quirinale» […] «Non è possibile – la risposta del Cerimoniale del Quirinale – è un incontro ufficiale. Il passaggio è uno solo».

Il Cavaliere […] attraversò le “forche caudine” di quella piazza che alternava la festa alla protesta e segnò la fine di un’epoca. […] Nei ricordi emersi solo molto tempo dopo, il capo dello Stato emerito giustificava quella modalità anche per evitare di dover fronteggiare la possibile aggressività di Berlusconi. L’anno prima, per una lite su un decreto relativo alla presentazione delle liste elettorali, il capo di Forza Italia era arrivato addirittura a minacciare di manifestare e circondare il Quirinale. Parole minatorie che vennero respinte. 

Ma si trattò di un episodio che in quelle circostanze Napolitano cercò di non replicare. Per salvare il Paese pensò a Mario Monti. Con un motivo principale: i rapporti efficaci del professore bocconiano con l’Ue. […]

Da La Stampa.

Estratto dell’articolo di Federico Geremicca per “la Stampa” sabato 23 settembre 2023.

[…] Giorgio Napolitano […] non è stato mai davvero amato dal "popolo del Pci". "Migliorista" è forse la definizione più accettabile (coniata dal filosofo Salvatore Veca) che accompagnò lui e altri dirigenti come Amendola, Chiaromonte e Macaluso, per almeno due decenni. "Miglioristi", sì, perché teorizzavano – appunto – il possibile miglioramento dall'interno delle società capitaliste, attraverso riforme socialdemocratiche e non per mezzo di impossibili rivoluzioni. 

Durissimi furono gli scontri con dirigenti del peso di Pietro Ingrao. E spesso al termine "miglioristi" si aggiungeva un'accusa che, ai tempi, doveva risultare per un comunista sommamente offensiva: amici di Craxi...

[…] Giorgio Napolitano è stato il primo e fin'ora unico Presidente della Repubblica proveniente da un partito comunista. Ed è stato anche il primo ad esser addirittura rieletto dopo un primo mandato. Ma è stato anche il primo ex comunista a occupare (1996, governo Prodi) la delicatissima poltrona di ministro dell'Interno ed il primo a ottenere (col Pci ancora in vita e grazie all'aiuto di Giulio Andreotti) il visto d'ingresso per gli Stati Uniti: vi andò per svolgere conferenze ad Aspen ed Harvard, e fu più o meno in quel tempo – nella seconda metà degli anni'70 – che per Henry Kissinger Giorgio Napolitano divenne «My favorite communist».

[…] per Napolitano è stata da sempre non discutibile: prima il Paese e le sue istituzioni e poi il Partito, Pci o Pd che si chiamasse. Origina da qui, per esempio, il grande freddo che calò con Pier Luigi Bersani nel terribile autunno-inverno del 2011 quando, piuttosto che far precipitare il Paese verso elezioni anticipate (con i sondaggi che davano il Pd largo vincitore...) insediò Mario Monti a Palazzo Chigi per tentare di arginare la tempesta economica che stava travolgendo il Paese e il governo di Silvio Berlusconi. E non diverse sono le ragioni che lo hanno poi portato in rotta di collisione – ed è storia più recente – con Matteo Renzi.

In verità, pochi immaginavano che i due potessero intendersi, troppo diversi per generazioni, riferimenti e perfino modo d'interpretare l'azione politica. E invece, tra il più anziano dei Presidenti e il più giovane premier della storia repubblicana, scattò una scintilla. O meglio: Napolitano decise di sostenere il tentativo innovatore dell'ex sindaco di Firenze […] 

Ma per il Presidente […] l'avvio della campagna per il referendum costituzionale segnò un progressivo ed evidente distacco da Renzi, potente premier-segretario. A quel comunista atipico e pignolo, le riforme costituzionali proposte sembravano contraddittorie e confuse. E non apprezzò – sopra ogni altra cosa – l'estrema personalizzazione che caratterizzò quella battaglia politico-istituzionale. Suggerì prudenza, ascolto delle ragioni degli altri, tentò possibili mediazioni. Ma Renzi tirò dritto: e per il referendum (e tra i due presidenti) finì come finì[…]

Estratto dell’articolo di Fabio Martini per “la Stampa” sabato 23 settembre 2023.

[…]

Allievo di Giorgio Amendola, negli anni Settanta Napolitano diventa il punto di riferimento della destra del Pci, un'area che si differenziò per il suo europeismo, per l'apertura a tutte le tradizioni della sinistra europea e per il dialogo col Psi. Una linea politica che porta Napolitano a criticare pubblicamente le scelte di un leader carismatico e "intoccabile" come Berlinguer. 

Su L'Unità, nell'agosto del 1981, contestò il modo in cui il segretario aveva posto «l'orgogliosa riaffermazione della nostra diversità», mettendo in guardia il Pci dai pericoli del settarismo e dell'isolamento. Berlinguer se la prese e inchiodò per molte ore una riunione della Direzione del Pci, allo scopo di "condannare" chi lo aveva criticato pubblicamente.

Ha raccontato Miriam Mafai: «Da Nilde Iotti, allora presidente della Camera, Berlinguer pretendeva un atteggiamento di condiscendenza o sostegno nei confronti dell'azione di ostruzionismo nella quale era impegnato il gruppo comunista. A difesa dell'operato della Iotti si schierò Napolitano. La discussione fu così aspra che Napolitano, alla fine, scrisse una lettera per dimettersi dalla presidenza del gruppo parlamentare».[…]

Estratto dell’articolo di Fabio Martini per “la Stampa” martedì 26 settembre 2023.

Massimo D'Alema, a suo tempo il primo "figlio del partito" comunista ad esser diventato capo di un governo italiano, estrae due episodi inediti dalla galleria di eventi che lo videro a fianco di Giorgio Napolitano, col quale peraltro ha avuto anche contrasti politici: «Era il 1998 e quando si pose la questione che io diventassi presidente del Consiglio, Napolitano mi scrisse una lettera personale nella quale non soltanto mi espresse il suo consenso, ma capendo che i Ds non avrebbero potuto tenere anche il Viminale, mise subito a disposizione il suo mandato di ministro dell'Interno. Molti anni dopo, in una mostra su Nilde Iotti, lessi un'altra lettera inedita che lei aveva scritto a Napolitano per complimentarsi del suo nobile gesto e nella quale sosteneva che occorreva aiutare la nuova generazione ad emergere».

Otto anni più tardi accadde che lei e Napolitano vi ritrovaste nel giro di pochi giorni candidati per il Quirinale. In quelle ore foste abili nel tenere sotto traccia un'aspra contesa personale per una carica così prestigiosa?

«No, non è così. Il segretario del partito, Piero Fassino, avanzò pubblicamente la mia candidatura, informando Prodi. Berlusconi, pur esprimendo stima personale, obiettò sul fatto che io fossi molto impegnato nella lotta politica. In effetti trovai che questo argomento non era infondato, ne parlammo con Fassino e insieme decidemmo di proporre la candidatura di Napolitano».

I personalismi erano così ben governati? Non è un'oleografia?

«Non lo è. Quello era un gruppo dirigente di persone che si rispettavano. […]». […] «Nella Direzione del Pci […] C'era una disciplina intellettuale, l'idea di una missione: cose che non esistono più e alle quali ogni tanto mi capita di pensare con qualche nostalgia». 

[…] «La generazionale di Napolitano ha vissuto il rapporto con lo stalinismo in modo drammatico. […] Napolitano […] è […] stato il primo dirigente comunista ad aver avuto una cultura anglosassone, compresa una conoscenza assai avanzata della lingua inglese. Quando molti anni dopo come Ministro degli Esteri lo accompagnai in visita di Stato a Washington, nel corso del pranzo alla Casa Bianca col presidente Bush, era indiscutibilmente guardato dai suoi interlocutori come una grande personalità, autorevole».

Qual è il filo rosso della lunga vita di Giorgio Napolitano?

«Ha incarnato nella forma più alta il nesso tra il Pci e la democrazia italiana […] Come disse Togliatti: non siamo mai stati un accampamento cosacco, ma una parte del popolo italiano. Napolitano lo ha dimostrato […]». 

Era un uomo rigoroso ma anche severo oltre ogni immaginazione…

«Sì, è stato sempre un uomo severo, anche se capace di slanci affettuosi. Quando lui era presidente della Camera, mi ero presentato ad una riunione dei capigruppo vestito in modo un po' trasandato. Un commesso mi consegnò un bigliettino: "Il presidente del maggior gruppo di opposizione non può presentarsi così". Dovetti correre a casa, a cambiarmi. Anche se c'è un episodio indimenticabile di un Capodanno napoletano che lo descrive bene…».

Cosa accadde?

«Nella bellissima casa di Umberto Siola, grande architetto napoletano, alla fine della cena di fine anno vidi Napolitano cantare canzoni napoletane! Assieme a Nino D'Angelo! Ma anche quella sera restò lui: nella baraonda dei mortaretti si sentivano le "bombe Maradona" e lui, che aveva fatto una apposita circolare, si chiese: ma saranno regolari? C'era tutto Napolitano: si abbandonò al canto ma si pose il problema della regolarità dei botti». […]

Da L’Espresso.

È morto Giorgio Napolitano, il presidente della Repubblica che da arbitro si fece giocatore. Scompare a 98 anni a Roma il primo comunista a salire al Colle e il primo a essere rieletto. Per oltre mezzo secolo è stato protagonista della vita democratica del Paese. Carlo Tecce su L'Espresso il 22 Settembre 2023.  

È morto oggi a Roma Giorgio Napolitano. Aveva compiuto 98 anni lo scorso 29 giugno. È stato il primo presidente della Repubblica comunista, il primo a essere eletto due volte. Ha lasciato il Quirinale con le dimissioni del 14 gennaio 2015 dopo 9 anni e 8 mesi, e perciò il successore Sergio Mattarella, anch’egli al secondo mandato, non l’ha ancora superato. 

Napolitano lasciò la presidenza della Repubblica convinto che la profonda irrequietezza istituzionale avesse trovato in Matteo Renzi e nelle sue riforme costituzionali uno stabilizzatore. Non fu una lettura corretta. Ha sbagliato. Come gli accadde in un momento solenne per l’evoluzione del Partito comunista italiana. Quando nel ‘56 i sovietici invasero Budapest con i carrarmati e sedarono con la forza la rivoluzione popolare. Il già parlamentare Napolitano si schierò con Mosca, salvo poi pentirsene pubblicamente fino a occupare nel Pci l’area più dialogante e riformista, aperta agli Stati Uniti e ai socialisti di Bettino Craxi. Fu un esponente dei cosiddetti «miglioristi» cresciuti con Giorgio Amendola assieme agli amici Emanuele Macaluso e Gerardo Chiaromonte. 

Già ministro dell’Interno con delega alla Protezione Civile, presidente della Camera, deputato per dieci legislature, eurodeputato per due, Napolitano fu insellato al Colle il 15 maggio 2006, mezzo secolo dopo i fatti di Budapest. Romano Prodi era tornato a Palazzo Chigi non con la felice intuizione dell’Ulivo, ma con la terribile accozzaglia dell’Unione, una maggioranza assai esigua al Senato per colpa della legge elettorale «porcata» di Roberto Calderoli promulgata da Napolitano, un Silvio Berlusconi sconfitto di misura e pronto a ribaltare Palazzo Madama con l’ausilio di ogni risorsa a sua disposizione, ovviamente il denaro. Nel grembo del centrosinistra cresceva, e male, e storto, il Partito democratico per fondere le due anime del centrosinistra con dieci anni di ritardo. Il centro era rappresentato da Prodi alla presidenza del Consiglio, la sinistra da Napolitano alla presidenza della Repubblica. Il disegno fu ispirato e approvato, e viceversa, dall’allora ministro degli Esteri, il compagno Massimo D’Alema. Napolitano non scelse né gli uni né gli altri, scelse sé stesso, avocando al Colle poteri inediti, esibendosi in un interventismo anomalo che gli valse l’appellativo di «Re Giorgio». Anziché ricostruire il tessuto democratico e l’architettura partitica di una Repubblica che non s’è mai più ripresa dopo la “Guerra Fredda” e che anzi fu annichilita dall’avvento berlusconiano, Napolitano si precipitò in campo dismettendo i panni dell’arbitro. Il contrario esatto dello stile moderato del democristiano doc Mattarella. Caduto il governo di Romano Prodi convocò le elezioni che diedero a Berlusconi una maggioranza larghissima, dissipata in tre anni per gli scandali sessuali e la recessione economica nonché per la rottura con Gianfranco Fini. 

Il 2011 fu l’anno della svolta, di una virata muscolare dopo la sonnacchiosa vigilanza alle intemperanze di Berlusconi. Più filoamericano di tanti filoamericani, alla vigilia del 150esimo dell’Italia unita, Napolitano abbracciò la linea di Washington per la destituzione di Gheddafi in Libia, un errore strategico di cui ancora oggi si pagano le terribili conseguenze. In quella estate allestì la soluzione di Mario Monti per placare i mercati e gli alleati europei e dunque impedendo le urne anticipate al Pd di Pierluigi Bersani. Il governo molto sangue e qualche lacrima di Monti, che fu un governo di salvezza nazionale, prezioso a Berlusconi per diluire le sue colpe nel buio della memoria degli italiani e ferale a Bersani per mantenere un consenso che era la dote di chi sta all’opposizione, ha cullato e allevato il populismo in Italia con le sue varie declinazioni: i Cinque Stelle, la Lega di Salvini, i Fratelli d’Italia di Meloni. Se nel 2011 Napolitano avesse sciolto le Camere, probabilmente la storia d’Italia degli ultimi dieci anni e dei prossimi dieci sarebbe stata diversa. 

La non vittoria di Bersani, già logorato all’interno dal rampante politico fiorentino Matteo Renzi, portò al secondo mandato di Napolitano e al mandato pastrocchio di Enrico Letta con una innaturale sinergia fra Pd e Fi. Il governo Letta era la risposta errata di Napolitano al populismo. Fu altra energia gratuita per pompare i voti dei Cinque Stelle e abbattere la Casta e pure il Parlamento. La condanna di Berlusconi per frode fiscale e l’inutile scissione di Angelino Alfano da Forza Italia furono un’agonia istituzionale finché il patto del Nazareno fra il Pd di Renzi e Silvio Berlusconi non portò in tempi brevi al governo del medesimo Renzi con la benedizione del Quirinale. 

Napolitano lasciò a Mattarella un Paese sfibrato che ha covato la sua rabbia per due anni durante i governi di Renzi prima e di Paolo Gentiloni poi. Le elezioni del 2018 con l’apoteosi dei grillini e dei leghisti, affascinati e contaminati dai cinesi e dai russi e animati da spinte antieuropee, furono la prova più difficile che sia mai capitata a un presidente della Repubblica dalla fine del terrorismo. Mattarella ha assecondato l’evoluzione politica incidendo quando necessario e l’Italia ha superato il governo gialloverde, le pessime relazioni con la Francia, la fase più acuta della pandemia e infine a Palazzo Chigi è rientrato un governo con una maggioranza chiara e, a distanza di tre lustri, indicata dai cittadini. 

Da Il Domani.

È morto Giorgio Napolitano, il riformista che non volle strappare con Berlinguer. DANIELA PREZIOSI su Il Domani il 22 settembre 2023

Se ne va l’ultimo dei grandi comunisti. Che in realtà fu il primo: ad andare negli Usa, a fare il ministro dell’interno, a credere nell’Europa. Sulla scala mobile e sul rapporto con il Psi il dissenso con il suo segretario fu grande. Ma la lettera di dimissioni da presidente dei deputati non fu mai consegnata

L’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano è morto oggi a 98 anni, dopo che le sue condizioni di salute si erano aggravate negli ultimi giorni. La tentazione di dire che con lui se ne va l’ultimo prestigioso comunista italiano vivente è forte, dopo la morte del suo carissimo Emanuele Macaluso, compagno di una vita di battaglie. È durata un secolo a cavallo di due secoli, la vita di Napolitano, che era nato a Napoli nel 1925 da un padre, Giovanni, avvocato liberale di finissima cultura e Carolina Bobbio, figlia di nobili napoletani di origine piemontese. È stato deputato, senatore, presidente della camera, ministro, eurodeputato e due volte capo dello stato. 

Un destino incrociato, quello dei due amici di origine sociale così diversa. Macaluso è siciliano, per aiutare la famiglia non può studiare – è perito industriale – ma diventa un dirigente, un giornalista, un intellettuale nella militanza di partito e nel sindacato. Napolitano è aristocratico, colto di famiglia, anglofilo.

Sono diversissimi anche nel temperamento, sanguigno uno, imperturbabile l’altro. Ma entrambi sono monumenti alla loro cultura politica, che fu quella di Paolo Bufalini, Luciano Lama, Gerardo Chiaromonte e Nilde Iotti, e che venne definita dalla sinistra ingraiana con una venatura di disprezzo «migliorista», e «la destra Pci» perché ispirata a un miglioramento delle condizioni della classe operaia sui valori del socialismo democratico e antifascista del partigiano Giorgio Amendola, in un partito che usava con disprezzo la parola «socialdemocratico» come un sinonimo di menscevico.

GLI ULTIMI COMUNISTI

Dopo la morte di Amendola, Napolitano è il capo indiscusso della corrente. Destini incrociati, i loro, forse anche nella morte: Macaluso se n’è andato nel gennaio del 2021 a cent’anni quasi esatti dalla nascita del suo Pci, Napolitano se n’è andato poco più di cent’anni dopo la nascita di Enrico Berlinguer. 

Entrambe sono biografie di comunisti che volevano evolvere in socialista il loro partito, forse salvandolo. L’occasione mancata fu la fine del Pci, dopo la caduta del Muro di Berlino. Nel centenario della nascita del Pci, due anni fa, tutta la vecchia guardia ha ammesso che Macaluso e Napolitano avevano visto bene e avevano visto lungo.

Ma la battaglia fu persa, non solo per responsabilità della loro corrente minoritaria e neanche per solo per colpa del Pci. Di fatto storia di quel partito è andata da tutt’altra parte. Forse spingendo da tutt’altra parte anche la storia del paese.

MY FAVOURITE COMMUNIST 

In realtà però è più corretto dire che se ne va non l’ultimo, ma il “primo” comunista. Il primo a ricevere un visto per volare negli Usa nel 1978, dove va a «spiegare il Pci agli americani», come poi raccontò su Rinascita («Il Pci spiegato agli americani: le conferenze a Harward, Princeton e Yale, le domande degli studenti sulla politica italiana, l’incontro con economisti come Tobin, Modigliani e Samuelson»); in pieno sequestro Moro.

Fu più tardi Giulio Andreotti a rivelare di aver favorito quel viaggio per ragioni di stato: «Napolitano potè spiegare agli americani l’evoluzione del Pci e il senso della politica che il suo partito perseguiva in quegli anni». Napolitano in quell’occasione spiega a chi considera il comunismo italiano ancora un’appendice di Mosca, che «il Pci non si opponeva più alla Nato come negli anni Sessanta». Sono le basi del compromesso storico. 

Nella famosa intervista rilasciata a Giampaolo Pansa del Corriere della Sera pochi giorni prima delle elezioni del giugno 1976, Enrico Berlinguer aveva già impresso quella svolta, anche se in termini diversi: «Io voglio che l’Italia non esca dal Patto Atlantico» aveva detto il segretario, «non solo perché la nostra uscita sconvolgerebbe l’equilibrio internazionale. Mi sento più sicuro stando di qua», sapendo che se «all’Est, forse, vorrebbero che noi costruissimo il socialismo come piace a loro», d’altro canto in Occidente «alcuni non vorrebbero neppure lasciarci cominciare a farlo, anche nella libertà». Napolitano invece scavalca l’Atlantico per esprimere una linea di «piena e leale» solidarietà agli Stati Uniti e alla Nato; quella che con malizia portò poi Henry Kissinger a dichiarare che Napolitano era «my favourite communist», «il suo comunista preferito».

LA QUESTIONE MORALE

Napolitano è anche il primo comunista a pensare di dimettersi per dissenso con il suo austero e carismatico segretario sassarese, che era stato preferito a lui come successore di Luigi Longo. Ma non era una questione personale, era tutta politica, in un partito-chiesa in cui non era neanche immaginabile un gesto di rottura dall’interno (quelli del gruppo del manifesto erano stati radiati nel 1969 con l’accusa di filomaoismo). Siamo nel 1981.

Berlinguer ha rilasciato a Eugenio Scalfari la famosa intervista sulla questione morale. Uno schiaffo in piena faccia per la corrente dei miglioristi che si batte per costruire un rapporto positivo con il Psi di Craxi.

«Eravamo entrambi sbigottiti – ricorda lo stesso Napolitano – perché in quella clamorosa esternazione di Berlinguer coglievamo un’esasperazione pericolosa come non mai, una sorta di rinuncia a fare politica visto che non riconoscevamo più alcun interlocutore valido e negavamo che gli altri partiti, ridotti a “macchine di potere e di clientela”, esprimessero posizioni e programmi con cui potessimo e dovessimo confrontarci».

Dopo un mese Napolitano, in occasione dell’anniversario della morte di Togliatti, esprime il suo dissenso sull’Unità: attraverso il Migliore contro la linea del segretario. Un gesto fortissimo. 

I socialisti avviati al governo con la Dc, per bocca di Claudio Martelli, sono sprezzanti. A settembre, in una riunione di direzione, i berlingueriani accusano Napolitano, lo racconta lui stesso, di aver favorito gli attacchi contro il segretario e di aver nobilitato «il riformismo del Psi» in marcia verso palazzo Chigi, senza e contro i comunisti.

UN ERRORE POLITICO

L’articolo sull’Unità, dice Adalberto Minucci, è «un errore politico», bisogna «evitare che in un momento di crisi acuta le opinioni, lecite, di un dirigente possano essere usate come momento di contrapposizione». L’episodio è citato in molti saggi. Vi si sofferma Giampiero Cazzato in «Il custode» (Castelvecchi, 2011), che racconta di un Pci capace di ricomporre i dissensi: di lì a poco Napolitano diventa capogruppo del gruppo comunista a Montecitorio.

Ma le distanze riesplodono poco dopo con la riforma della scala mobile. È Macaluso a ricordarlo, nel 2005 sul quotidiano Il Riformista. Napolitano «con Formica, capogruppo dei socialisti, aveva trovato un’intesa per rendere il testo accettabile anche per i comunisti. Intesa che poi venne mandata all’aria da entrambe le parti. Ma in quel momento Berlinguer comincia a vedere di cattivo occhio sia Napolitano sia Nilde Iotti, allora presidente della Camera.

A Nilde Iotti sembra rimproverare di tutelare più il governo che il suo partito, mentre su Napolitano pesa il sospetto di morbidezza per via della sua nota contrarietà alla linea scelta in quella fase dal Pci, durante la dura battaglia parlamentare che precedette il referendum. Da lì in avanti i rapporti si inasprirono a tal punto che quando Berlinguer morì (7 giugno 1984, ndr) Napolitano aveva già in tasca la lettera di dimissioni da capogruppo». Una lettera che però non fu mai consegnata.  

MINISTRO E PRESIDENTE

E ancora è il primo (ormai ex) comunista a ricoprire la carica di ministro dell’interno, nel 1996, posto cruciale che solo grazie allo sdoganamento atlantista poté ricoprire. È Romano Prodi a sceglierlo.

E ancora e soprattutto, dieci anni dopo, Napolitano è il primo comunista a diventare presidente della Repubblica, e sette anni dopo il primo a essere rieletto al Colle. Gestisce la crisi del governo Prodi, nel 2007, e il ritorno di Silvio Berlusconi a palazzo Chigi. In una legislatura segnata dalla crisi economica, dagli avvisi dell’Europa al governo. E dalla crisi interna della maggioranza di centrodestra, con la scissione di Gianfranco Fini. 

Uno degli episodi più contestati accade nella fine del 2010. Fini ha presentato una mozione di sfiducia, Berlusconi non ha più i voti per andare avanti ma il voto viene calendarizzata a fine anno, quando il Cavaliere ha avuto il tempo di riacquistare – in una maniera che poi sarà oggetto di indagini e condanne – i consensi. Secondo i detrattori è proprio il Colle a chiedere il rallentamento di quel voto e a dare la possibilità al governo di navigare ancora. 

Chi lavorava al suo fianco nega con forza. «L’esigenza di approvare in Parlamento le leggi di stabilità e di bilancio, dandole la precedenza sulla discussione di una mozione di sfiducia al governo Berlusconi, derivava da una necessità oggettiva, di fronte alla difficile situazione finanziaria internazionale, e si muoveva nel solco di una decisione simile presa alla fine del 1994 dal presidente Scalfaro», racconta Giovanni Matteoli, il dirigente e amico di una vita che poi diventerà suo segretario.

«Del resto, sull'importanza di dare un segnale di continuità e di rigore approvando nei tempi stabiliti le leggi di stabilità e di bilancio per il 2011 tutti allora convennero», «Quel che accadde poi, con la ricerca affannosa in Parlamento di voti favorevoli al governo – la cosiddetta "campagna acquisti"- fu un ulteriore segno della crisi delle forze politiche, dell'indebolimento del ruolo del Parlamento e della pochezza delle classi dirigenti».

IL VERO SEGRETARIO

Chi la pensa diversamente è convinto che se si fosse andati subito al voto il centrosinistra guidato da Pier Luigi Bersani avrebbe potuto vincere. Certo Bersani non chiede il voto, perché «al Colle c’è il vero segretario del Pd», dicono le voci di palazzo.

Altra tesi contestata dai “napolitanos”: «Ricordo, e sarebbe difficile scordare, che la coalizione che si opponeva alle destre e al populismo era una riassunta nella famosa foto di Vasto, il Pd, Sel, e Italia viva», racconta Umberto Ranieri, «Ma era coalizione striminzita che non sarebbe stata in grado né di sconfiggere la destra né di fronteggiare il populismo. Il risultato che arrivò nel 2013 lo dimostra. Perdemmo milioni di voti. La strategia politica del Pd si risolveva nella ricostituzione di uno schieramento di sinistra ristretta, i risultati parlano chiaro. E intanto però è chiaro che il governo Monti era inevitabile, le sue misure furono difficili ma indispensabili per evitare il tracollo. Il Pd pagò un prezzo certo».

Per Ranieri il “dirigismo” di Napolitano è un mito: «Napolitano è stato un impeccabile presidente della Repubblica, rispettoso e difensore sempre della Costituzione . È stato al Quirinale in anni molto difficili, quelli della crisi economica. Grazie alla sua determinazione aprì una prospettiva di salvezza per il paese. Fu evitato il rischio del tracollo, in una situazione di crisi dei partiti, e di debolezza del governo».

E anche Pasquale Cascella, all’epoca era il suo portavoce, contesta la tesi di un Napolitano interventista: «Ha messo sempre davanti a tutto il senso delle istituzioni, è stato un uomo delle istituzioni, e però un politico. L'esplosione della crisi del sistema politico portò a a dilatare i poteri del  presidente a fisarmonica», la definizione è di Giuliano Amato, ma è di molto precedente a questi tempi difficili.

RE GIORGIO

Un anno dopo le cose vanno diversamente. Il 5 agosto arriva la famosa lettera della Banca comune europea a firma del presidente uscente Claude Trichet e da quello designato Mario Draghi. A novembre Berlusconi prende atto di non avere più una maggioranza parlamentare alla camera. I titoli di stato sono sotto una serie di attacchi speculativi. 

Napolitano si accorda con Berlusconi: approvata la finanziaria il premier si dimetterà. Così avviene. Napolitano intanto ha nominato Monti senatore a vita. Subito dopo l’approvazione della legge di Bilancio viene chiamato a palazzo Chigi. Ed è per questa mossa che “salva” l’Italia – secondo alcuni, la rovina secondo altri – che il New York Times definisce Napolitano «Re Giorgio», per la sua volitiva scelta di andare oltre le prerogative presidenziali e dirigere dal Quirinale la scelta.

L’ARRIVO DEI GRILLINI

Da qui in avanti la sinistra si divide sul giudizio sul capo dello stato. Di certo la mossa Monti gonfia i consenso dei Cinque stelle. Nel maggio del 2012 alle amministrative i grillini fanno un salto di qualità, sono 250 gli eletti.

Napolitano commenta con distacco «dalle elezioni escono motivi di riflessione per le forze politiche e per i cittadini sul rapporto con la politica e sui problemi di governabilità oggi a livello locale». Ma a domanda dei cronisti sul «boom» della nuova forza politica, è lapidario: «Di boom ricordo quello degli anni Sessanta, altri non ne vedo».

Alle elezioni politiche del 2013 non sarà possibile non vedere il «boom», M5S arriva al 25 per cento. «Napolitano non li sottovalutava», spiega oggi Cascella, «e più che preoccupato del boom dei Cinque stelle era preoccupato del fatto che si chiamassero fuori dal sistema, e che la politica non cercasse in qualche modo di far valere la propria ragione d'essere rispetto alle spinte populiste».

LA CENA

I grillini non lo voteranno alla sua rielezione, nel 2013, dopo la bocciatura clamorosa di Romano Prodi e Franco Marini dalle stesse file della coalizione, due candidature dal senso opposto entrambe firmate da Bersani che ha guidato l’alleanza Italia bene comune alla «non vittoria». Neanche la Sel di Nichi Vendola vota Napolitano. «Sono Stato», è il titolo di prima del manifesto. 

Nasce il governo le larghe intese guidate da Enrico Letta. «La rielezione sbloccò la situazione, consentendo la nascita di un governo di larga coalizione e l'avvio delle riforme costituzionali», ricorda Matteoli, «ma poi la sentenza di condanna definitiva di Berlusconi e le lotte dentro la maggioranza e il Pd si scaricarono sull’azione del governo e del Parlamento vanificando gli impegni presi».

Berlusconi, in forza delle sentenze, decade da senatore, la destra si riunisce davanti a palazzo Grazioli gridando al «colpo di stato».  Napolitano viene indicato come il regista della caduta del Cavaliere per via giudiziaria da una destra ormai in confusione. Il governo di Letta sopravvive pochi mesi.

Presto il presidente del consiglio deve cedere all’assalto politico dell’astro nascente, il nuovo segretario del Pd Matteo Renzi. Il Colle non benedice volentieri quell’operazione. Ma Renzi, in una cena al Quirinale in cui si autoinvita, mette l’anziano capo dello stato di fronte all’evidenza dei numeri che stanno dalla sua parte. 

LE DIMISSIONI

Napolitano si dimetterà allo scoccare del secondo anno del suo secondo mandato. Un mandato accettato perché la richiesta era stata avanzata da quasi tutti i partiti, cui si aggiunse l'appello dei Presidenti delle Regioni. Il paese era senza un governo e con un parlamento profondamente diviso, un alto livello dello spread e una procedura d'infrazione europea sui conti pubblici.

Da lì fa una vita ritirata. Ma vigile e consapevole, quasi fino all’ultimo. A gennaio scorso ha risposto a Sergio Mattarella, che lo ha chiamato dal Colle per le consultazioni delle imminenti elezioni; finirà con un reincarico, e il precedente è proprio quello di Napolitano.

UNA BIOGRAFIA COLLETTIVA

La sua lunga vita contiene anche molto altro. Anche la storia di un comunista che, con i suoi compagni, diventa europeista, come ha raccontato poi nella sua autobiografia politica. «Dal PCI al socialismo europeo» (Laterza, 2005) accogliendo la trasformazione della sua cultura politica con un «grave tormento autocritico», partita dall’adesione «acritica alle posizioni negative verso l’integrazione europea», anzi «la ripulsa», «la drastica pregiudiziale», dominata dalla scelta di campo fra Usa e Urss. 

«L’errore maggiore», poi lo definì. Il cambio di segno avvenne negli anni 60, «con il determinante concorso» dell’eurocomunismo di Berlinguer. Sulla lezione di Altiero Spinelli medita in profondità: «La sua resta una grande lezione di metodo: non chiudere le proprie analisi in alcuno schema, confrontarsi creativamente con la realtà nella sua evoluzione, ispirarsi tenacemente a idealità non passeggere come quelle dell'unità e del comune destino dell'Europa, saper risollevarsi da ogni sconfitta».

Anche per questo la storia di Napolitano è la biografia collettiva di una parte della generazione dei comunisti che, come ancora ha scritto lui stesso, non è «rimasta eguale al punto di partenza» ma è «passata attraverso decisive evoluzioni della realtà internazionale e nazionale e attraverso personali, profonde, dichiarate revisioni».

«C’è una frase di Berlinguer che di rado ho sentito richiamata», dice a Walter Veltroni che lo intervista per un libro uscito nel 2014, «”Che cos’è il Partito comunista italiano? È un partito comunista diverso da tutti gli altri”. Quel concetto di diversità mi andava bene», ragiona, «nonostante ciò, superare quella che ormai era una crisi fatale dell’ideologia, del movimento rivoluzionario, del processo politico del socialismo in Unione sovietica e in quel blocco di stati… Alla morte di Berlinguer, il mio stato d’animo fu perciò non solo quello del dolore personale, ma quello del senso del fatale declino del partito con cui avevamo entrambi identificato la nostra vita».

DANIELA PREZIOSI. Cronista politica e poi inviata parlamentare del Manifesto, segue dagli anni Novanta le vicende della politica italiana e della sinistra. È stata conduttrice radiofonica per Radio2, è autrice di documentari, è laureata in Lettere con una tesi sull'editoria femminista degli anni Settanta. Nata a Viterbo, vive a Roma, ha un figlio.

La procura contro il presidente Giorgio Napolitano, storia di una guerra nello stato. ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 22 settembre 2023

Le telefonate fra Giorgio Napolitano e l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino nell’inchiesta sulla trattativa stato-mafia. L’ira del Presidente che ha investito la Corte Costituzionale per risolvere “il conflitto di poteri”. Telefonate distrutte o forse no. Il giallo della duplicazione

Alla fine ci sono riusciti a far declinare le generalità a un Presidente della Repubblica: «Napolitano Giorgio, nato a Napoli il 29 giugno 1925 e residente a Palazzo del Quirinale, Roma...». A cosa sia servita la deposizione del testimone più eccellente non si è mai capito, di sicuro quel giorno è stata scritta la pagina più tormentata di una guerra istituzionalmente sanguinosa fra una procura della repubblica e un Capo dello Stato. Sembra passato un secolo, tutto è accaduto un'estate di poco più di dieci anni fa. La procura ”autonoma” di Palermo contro l'Italia rappresentata dal suo Presidente.

LA “CASUALITÀ” DELLE COMUNICAZIONI ASCOLTATE

Il procedimento penale era il numero 11609/08, il processo sulla trattativa, la materia del contendere quattro telefonate intercettate fra Giorgio Napolitano e il ministro dell'Interno Nicola Mancino - allora imputato (poi assolto) per falsa testimonianza - su un totale di 9.295 comunicazioni ascoltate dai funzionari della direzione investigativa antimafia intorno ai misteri di un patto indicibile. Naturalmente, solo quelle quattro hanno fatto clamore e hanno fatto scandalo. Ma la voce di Napolitano, anche se captata "indirettamente”, sarebbe potuta scivolare in un 'inchiesta giudiziaria? Le parole di un presidente della Repubblica potevano davvero finire fra le pieghe di un'indagine dove lo stato stava processando sé stesso? Intercettazioni catturate per caso, un caso che però ha messo sottosopra l'Italia, un “partito” pro Napolitano e un “partito” pro pubblici ministeri di Palermo, polemica arroventata con gran parte della magistratura schierata contro Antonio Ingroia, Nino Di Matteo, Roberto Tartaglia e Francesco Del Bene, i sostituti procuratori che indagavano sulla trattativa stato-mafia e che avevano osato puntare la loro attenzione investigativa sul primo degli italiani.

Che cosa si erano mai detti Mancino e Napolitano in quelle quattro telefonate durate diciotto minuti, la prima datata 7 novembre 2011 e l'ultima 9 maggio 2012? Quali segreti si erano confidati? E poi, erano proprio segreti o chiacchiere in libertà fra due vecchi amici? 

LA DISTRUZIONE ALL’UCCIARDONE 

Il presidente della Repubblica non la prese bene. Anche perché cominciarono a diffondersi voci incontrollate sul contenuto delle telefonate, sussurri e grida, sospetti piccoli e grandi.. Così Giorgio Napolitano chiese alla Corte Costituzionale di risolvere "il conflitto fra poteri”. E così il 15 gennaio 2013 la Consulta ordinò di distruggere la pen drive dove c'erano le telefonate del Presidente, Tre mesi dopo l'operazione venne materialmente eseguita nell'antico carcere palermitano dell'Ucciardone.

L'affaire sembrava chiuso. Ma in Italia le vicende non si chiudono mai perché si chiudono e poi si riaprono. Il sospetto ce l'hanno avuto i procuratori di Caltanissetta, quelli che indagavano sulle scorrerie del vicepresidente di Confindustria Antonello Montante, un imprenditore con un passato di frequentazioni mafiose e nonostante ciò piaceva tanto a un paio di ministri dell'Interno e a un po' di magistrati. 

L’INTRIGO MONTANTE

I procuratori di Caltanissetta, in una sessantina di pagine della loro richiesta di custodia cautelare contro Montante, avanzarono l'ipotesi che il funambolico imprenditore fosse entrato in possesso di una duplicazione delle famose telefonate fra Napolitano e Mancino. C'era tutto un mondo di spie intorno a Calogero Montante interessato a quelle conversazioni. Anche il direttore dei servizi segreti del tempo Arturo Esposito, anche l'ex presidente del Senato e attuale governatore della Sicilia Renato Schifani. Tutti e due sono ancora imputati per associazione a delinquere a Caltanissetta. Un bell'ambientino.

Ma le telefonate del Presidente hanno fatto tante altre vittime. Una è il povero Loris D'Ambrosio, il vecchio amico di Giovanni Falcone stroncato da un infarto nei giorni della discovery delle carte sulla trattativa stato mafia, nell'estate del 2012. Altre telefonate, questa volta fra D'Ambrosio e Mancino. E altri sospetti, questa volta sino all'infarto del consigliere giuridico di Napolitano. Che il 28 ottobre del 2014, in un'udienza solenne e a porte chiuse nelle sale del Quirinale, ha risposto a una ventina di domande dei suoi grandi "nemici”, i procuratori di Palermo.

POSE CERIMONIOSE

Un'esplosione di sorrisi, cerimoniose pose, reciproche morbidezze. Il Capo dello stato ha perfino allargato il confine tracciato dalla corte di assise e confessato il grande ricatto del 1993 nella notte delle bombe e del black out a Palazzo Chigi: «Fu subito chiaro che era un’ulteriore tappa della strategia stragista portata avanti dall’ala più oltranzista di Cosa Nostra per porre i poteri dello Stato davanti a un aut aut ». Giorgio Napolitano ha sostanzialmente ammesso che una fazione della mafia siciliana stava minacciando le istituzioni: o fate i conti con noi o continuiamo a seminare terrore. Altri sorrisi e altre cerimonose pose. Ma la procura "autonoma” di Palermo non ha mai amato quel Presidente. Affettuosamente ricambiata.

ATTILIO BOLZONI. Giornalista, scrive di mafie. Ha iniziato come cronista al giornale L'Ora di Palermo, poi a Repubblica per quarant'anni. Tra i suoi libri: Il capo dei capi e La Giustizia è Cosa Nostra firmati con Giuseppe D'Avanzo, Parole d'Onore, Uomini Soli, Faq Mafia e Il Padrino dell'Antimafia.

Il partito e lo stato. Le due case di Giorgio Napolitano. MARCO DAMILANO su Il Domani il 22 settembre 2023

«Per me Roma è Montecitorio, il parlamento è stato la mia prima e più grande casa e lo è rimasto per decenni», ha scritto l’ex presidente della Repubblica. Il Pci e il parlamento. Napolitano è stato il punto di congiunzione, il volto del Pci come altro partito-stato, oltre alla Dc

«L'importante è fare attività politica, non averla fatta», aveva scritto alla fine della sua auto-biografia, citando Plutarco. Aveva voluto intitolarla Dal Pci al socialismo europeo, pubblicata da Laterza. «L’età che ho raggiunto predispone alla testimonianza e alla riflessione... è il tempo del ricordi affettuoso dei tanti con i quali ho combattuto buone battaglie e sostenuto cause sbagliate, e cercato via via di correggere errori, di esplorare strade nuove».

Era il 2005, Giorgio Napolitano era stato nominato senatore a vita, sembrava congedarsi dalla politica attiva. Invece stava per aprirsi il momento più intenso, con l’elezione a presidente della Repubblica, dal 2006 al 2013 e poi, di nuovo, il primo presidente rieletto, fino all’inizio del 2015. Ha fatto politica fino all’ultimo giorno della sua vita. Chiamato in tarda età a rappresentare le ragioni dell’unità nazionale nel decennio della crisi repubblicana, nell’età della sfiducia e della rabbia verso le istituzioni, destinata ad abbattersi anche sulla sua persona.

Quando era ragazzo, al risuonare delle sirene durante i raid aerei americani a Napoli del 1943, si rifugiava nelle grotte di tufo di palazzo Serra di Cassano, trascorreva le notti sotto le bombe, tra i signori e il popolino: «imparai a reagire con molto autocontrollo e con ragionevole fatalismo: un apprendimento che mi sarebbe tornato utile». Sarebbe tornato utile soprattutto nel 2011, quando l’Italia era arrivata a un passo dal fallimento non solo economico, nell’anno in cui si celebravano i 150 anni dalla fondazione dello stato unitario.

IL CONTE DI CAVOUR

Per mesi Napolitano aveva ripercorso le tappe dell’unità nazionale. Il suo eroe nell'epopea risorgimentale non era Garibaldi o Mazzini, ma un politico, Camillo Benso, il conte di Cavour. Il presidente sembrava identificarsi in quel primo ministro che guidava il cambiamento con «realismo e moderazione», che «seppe governare la dialettica di posizioni e di spinte e padroneggiare quel processo fino a condurlo allo sbocco più avanzato», lo aveva ricordato a Santena dove il conte è sepolto.

Quasi un ricongiungimento con la sua tradizione familiare: il padre, avvocato penalista tra i più prestigiosi di Napoli, era liberale, crociano. Citò Cavour nel discorso più importante, il messaggio al parlamento in seduta comune il 17 marzo, festa dell’unità nazionale. «Reggeremo – in questo gran mare aperto – alle grandi prove che ci attendono, a condizione che operi nuovamente un forte cemento nazionale unitario. Non so quando e come accadrà, confido che accada...».

Nel «gran mare aperto», alla fine del 2011, di fronte alla capitolazione del governo di Silvio Berlusconi e dei partiti, si pose come garante dei tecnici, con un governo presieduto da Mario Monti ma guidato dalla sua ispirazione. Napolitano era stato costretto a commissariare la politica, lui che nel 1945 aveva preso la tessera del Partito comunista e aveva fatto della politica una “scelta di vita”.

Nel partito era cresciuto prima nella ruvida scuola del Pci napoletano di Salvatore Cacciapuoti, poi nella corrente migliorista di Giorgio Amendola, da cui aveva appreso una concezione della politica che è prima di tutto analisi dei rapporti di forza, ostilità verso i movimenti della società e cambiamento dall’alto affidato alle élite illuminate.

In tutto il suo percorso c’è un legame privilegiato con gli europeisti di matrice azionista come Altiero Spinelli, e con il mondo della finanza, come il governatore della Banca d’Italia Paolo Baffi che gli scrisse nel 1989, poco prima di morire: «Seguo con interesse il vostro travaglio auspicando un esito che ricuperi pienamente alla società italiana ed europea tante forze intellettuali e morali oggi quasi ghettizzate (e il vuoto si sente)».

LA SUA SECONDA CASA

La sua seconda casa è stata il parlamento. Eletto per la prima volta deputato nel 1953 con 42.956 preferenze nella circoscrizione Napoli-Caserta, rieletto nel 1958 con 31.969 voti. «È nato il 29 giugno 1925 a Napoli, ove risiede in via Monte di Dio, 49», con il numero civico, scriveva di sé sulla Navicella il giovane deputato comunista, con il puntiglio che sarebbe diventato famoso. «Membro della delegazione italiana al Primo congresso studentesco mondiale, che ha luogo a Praga nell’agosto del 1946».

«Per me Roma è Montecitorio, il parlamento è stato la mia prima e più grande casa e lo è rimasto per decenni», scriverà. Il Pci e il parlamento. Il partito e lo stato. Napolitano è stato il punto di congiunzione, il volto del Pci come altro partito-stato, oltre alla Dc. Non estraneo agli aspetti manovrieri e di lotta per il potere. «La politica racchiude in sé molta durezza, necessità, amoralità, molte expendiency, ma non potrà mai rinnegare completamente la parte etica e umanamente rispettabile della sua natura», aveva scritto, con le parole dell’adorato Thomas Mann.

La politica gli ha sempre negato la guida del partito, il Pci, troppo socialdemocratico, troppo liberal, e gli ha assegnato i ruoli più importanti nelle istituzioni: presidente della Camera, ministro dell’Interno, presidente della commissione Affari costituzionali del Parlamento europeo dal 1999 al 2004. Ricordo il suo addio agli elettori nel 2004, in una sala a San Giorgio a Cremano, con emozionata ironia: «Mi avete votato per dieci legislature italiane e una europea. Ora potete riposarvi».

22 APRILE 2013

Non c’era il riposo per lui, però. Ricordo il 22 aprile 2013, una pioggia leggera d’autunno e invece era primavera, il campanone di Montecitorio che risuonava come succede ogni volta che un nuovo presidente della Repubblica si prepara a iniziare il suo mandato giurando sulla Costituzione. L’eletto era il rieletto Napolitano, a 88 anni, dopo l’impasse dei grandi elettori sul nome del suo successore.

Dentro l’aula imbandierata a festa stava per andare in scena uno spettacolo memorabile. L’ira del vecchio presidente su chi lo aveva votato due giorni prima per un secondo mandato, al sesto scrutinio, con 738 voti, il 73 per cento, tra questi Silvio Berlusconi che aveva accettato di votare per un ex comunista, a differenza della prima volta, nel 2006, per l’uomo che gli aveva chiesto nel 2011 di lasciare palazzo Chigi.

Alle 17 del pomeriggio sembrava un uomo stanco, si concesse un bicchiere d’acqua e poi cominciò a parlare. Con una requisitoria di quaranta minuti, indimenticabile. «Non prevedevo di tornare in quest’aula da presidente della Repubblica... Questo è il punto di arrivo di omissioni, guasti, chiusure, irresponsabilità». I grandi elettori applaudirono e lo spettacolo si fece surreale. Perché erano loro, i destinatari della reprimenda presidenziale. E più lui li rimproverava e li prendeva a ceffoni, più loro applaudivano. «Sulle riforme ogni sforzo è stato vanificato dalle stesse forze politiche che sono venute a chiedermi di restare. Ho il dovere di essere franco: se troverò ancora sordità non esiterò a trarne le conseguenze. Attenzione, il vostro applauso non induca a nessuna indulgenza!».

Era il Napolitano finale, deluso, arrabbiato. Le riforme per cui si era battuto per decenni non erano arrivate. Il secondo mandato lo aveva visto addirittura chiamato a deporre il 28 ottobre 2014, come testimone nel processo avviato dalla procura di Palermo sulla trattativa stato-mafia durante le stragi del 1993. Il Quirinale era diventato una prigione per lui, come aveva ammesso con una bambina che lo interrogava.

Una fatica di Sisifo, aveva scritto l’amico di una vita Eugenio Scalfari: «Ha fatto il possibile e l’impossibile per compiere e far compiere qualche passo avanti. E questo è avvenuto ma non è stato sufficiente. Questa è la tristezza che Napolitano ha sentito emergere dentro di sé...».

Quando ha firmato le dimissioni e lasciato il Quirinale, il 14 gennaio 2015, tornando a casa, nell’abitazione nel quartiere Monti, a meno di cento metri, lasciò sulla sua scrivania incorniciate le parole scritte su un cartoncino bianco del primo presidente eletto con la Costituzione, Luigi Einaudi: «È dovere del presidente di evitare che si pongano, nel suo silenzio o nella inammissibile sua ignoranza dell’occorso, precedenti, grazie ai quali accada o sembri accadere che egli non trasmetta al suo successore, immuni da qualsiasi incrinatura, le facoltà che la Costituzione gli attribuisce». Era stato il suo giuramento di fedeltà, che non aveva mai tradito.

MARCO DAMILANO. Giornalista e saggista, è stato direttore de L'Espresso dal 2017 al 2022. Collabora con Domani e, da settembre 2022, conduce una striscia quotidiana di informazione in onda su Rai3

IL RICORDO. L’ex portavoce Caprara: «Ha portato il Pci fuori dalla tradizione illiberale» DA.PREZ. su Il Domani il 22 settembre 2023

Ha contribuito a costruire il paese dopo vent’anni di dittatura fascista. Il ricordo: «È stato un dirigente di partito che nel corso del tempo ha saputo correggere gli errori compiuti»

«Con Giorgio Napolitano se ne va uno degli italiani che da giovani contribuirono a ricostruire la politica del nostro Paese in seguito a venti anni di dittatura fascista». Maurizio Caprara, giornalista e commentatore del Corriere della Sera, già corrispondente diplomatico, è stato il direttore dell’Ufficio per la stampa e la comunicazione della presidenza della Repubblica nel secondo mandato di Napolitano. 

Oggi, in occasione della morte, lo ricorda così: «È stato un dirigente di partito che nel corso del tempo ha saputo correggere gli errori compiuti: ha avuto un ruolo notevole nel contribuire a portare fuori dai confini di una tradizione illiberale una parte consistente della sinistra italiana, quella legata al Partito comunista. Da ministro dell’Interno, da presidente della Camera e poi della Repubblica ha agito senza spirito di parte, ma questo non lo portò ad assecondare antichi difetti del nostro paese».

«Incurante del calo di popolarità che ne sarebbe potuto derivare, dal Quirinale ha difeso i diritti dei detenuti affinché non vivessero in carceri sovraffollate e al di sotto dei livelli di decenza adatti a società democratiche. Tra i suoi meriti c’è l’aver dato rilievo istituzionale all’esigenza di prevenire gli infortuni sul lavoro. Accettò suo malgrado il secondo mandato da presidente della Repubblica».

«Lo fece affinché l’Italia, varando le necessarie riforme, rendesse adeguato ai tempi il proprio sistema politico. Che questo allora non sia risultato possibile non rende superato, bensì ancora più attuale il suo insegnamento. Mai l’ho sentito impiegare espressioni di disprezzo partigiano verso alcune delle forze che senza capire o voler capire le sue volontà più lo attaccarono».

DA.PREZ. Cronista politica e poi inviata parlamentare del Manifesto, segue dagli anni Novanta le vicende della politica italiana e della sinistra. È stata conduttrice radiofonica per Radio2, è autrice di documentari, è laureata in Lettere con una tesi sull'editoria femminista degli anni Settanta. Nata a Viterbo, vive a Roma, ha un figlio.

Da L’Identità.

Napolitano: 70 anni nelle istituzioni, 9 al Quirinale. Redazione su L'Identità il 22 Settembre 2023 

Per Giorgio Napolitano, morto oggi all’età di 98 anni, una vita trascorsa – 70 anni in tutto – nelle istituzioni fino a quella più alta, vale a dire la Presidenza della Repubblica, con la prima riconferma della storia dopo il settennato, avvenuta per una serie di contingenze che resero necessaria una rielezione che portò ad un prolungamento del mandato di altri due anni. Ma non è stata la sola prima volta che può vantare nel suo curriculum.

Napolitano è stato infatti il primo ex comunista a diventare Presidente della Repubblica; ma anche il primo ex comunista nominato ministro dell’Interno; il primo dirigente comunista inviato negli Stati Uniti. Napolitano nasce a Napoli il 29 giugno del 1925 e si laurea in Giurisprudenza nel dicembre del 1947 presso l’Università del capoluogo campano con una tesi in economia politica. Da studente universitario è impegnato con i giovani antifascisti e a vent’anni si iscrive al Partito comunista.

Nel 1953 viene eletto per la prima volta alla Camera, dove verrà sempre riconfermato, tranne che nella quarta legislatura, nella circoscrizione di Napoli fino al 1996. Nel 1992 ne diverrà presidente, dopo l’elezione a Capo dello Stato di Oscar Luigi Scalfaro, e sarà chiamato a governare l’Assemblea di Montecitorio al culmine di Tangentopoli, sempre geloso custode delle prerogative parlamentari.

Così, di fronte alla richiesta “irrituale agli uffici della Camera, da parte di un ufficiale della Guardia di Finanza, su invito della Procura della Repubblica di Milano, di atti peraltro già pubblicati per obbligo di legge sulla Gazzetta ufficiale”, Napolitano ribadisce “i principi inderogabili cui si deve ispirare una corretta collaborazione tra il Parlamento ed il potere giudiziario”, esprimendo “viva preoccupazione per il verificarsi di casi che toccano questi principi”, ottenendo dal Procuratore di Milano, Francesco Saverio Borrelli, “formali scuse” dopo avergli manifestato “stupore e disappunto”.

Mentre il suicidio del deputato socialista, Sergio Moroni, il 2 settembre del 1992, “fu il momento umanamente e moralmente più angoscioso che vissi da presidente della Camera”, confesserà alcuni anni dopo Napolitano, destinatario di una lettera da parte dello stesso parlamentare prima di compiere il tragico gesto.

Dopo quel biennio, scocca l’ora del maggioritario e della vittoria del centrodestra e di fronte alle attese e agli interrogativi che suscita l’avvento del governo di Silvio Berlusconi, durante il dibattito sulla fiducia l’ormai ex presidente della Camera disegna il perimetro di quello che dovrebbe essere il terreno di un corretto rapporto tra maggioranza e opposizione. Un discorso rimasto celebre, che spinge il nuovo premier a lasciare i banchi del Governo per congratularsi con Napolitano.

“L’opposizione -dice tra l’altro il futuro Capo dello Stato- non deve impedire che si deliberi in Parlamento, ma ha ragione di esigere misura e correttezza, riconoscimento e rispetto dei propri diritti. L’opposizione non deve impedire che questo governo governi; anzi, ha interesse a che non ci siano alibi per ogni possibile inazione o contraddizione da parte del governo. Quel che sollecitiamo è il linguaggio di un serio confronto istituzionale, di un confronto in quest’Aula sulla complessità ineludibile dei problemi e delle scelte di governo. È anche così che si rispetta sul serio il Parlamento ed il suo ruolo insostituibile nel sistema democratico, in una democrazia dell’alternanza: e non c’è nulla che prema di più a chi vi parla, nulla che dovrebbe premere di più a tutti noi”.

I primi incarichi nel Partito comunista, vedono Napolitano nominato segretario delle federazioni di Napoli e Caserta, mentre dal 1956 diviene membro del Comitato centrale, dove assume l’incarico di responsabile della commissione meridionale. Entrato a far parte della Direzione, nel triennio 1976-79, gli anni della solidarietà nazionale, è responsabile della politica economica del partito, mentre dal 1986 dirige la commissione per la Politica estera e le relazioni internazionali. E quando nel 1989 Achille Occhetto darà vita al ‘governo ombra’ ne sarà nominato ministro degli Esteri.

Allievo di Giorgio Amendola, con Gerardo Chiaromonte ed Emanuele Macaluso, Napolitano nei suoi 70 anni nelle istituzioni e nella politica è uno degli esponenti di spicco della corrente migliorista, quella più moderata del partito, che lo vede sempre impegnato a tenere aperti i canali di dialogo con il Psi, anche negli anni del duro scontro tra Enrico Berlinguer e Bettino Craxi. Sia per la sua linea politica che per gli incarichi ricoperti, Napolitano cura i rapporti con i Laburisti inglesi, i Socialisti francesi, i Socialdemocratici tedeschi, i Democratici statunitensi. E dopo un iniziale rifiuto del visto da parte del segretario di Stato Henry Kissinger nel 1975, tre anni dopo sarà il primo dirigente comunista a recarsi negli Usa, nel pieno della stagione del compromesso storico.

Un viaggio reso possibile grazie anche ai buoni uffici del presidente del Consiglio, Giulio Andreotti, come ricorderà anni dopo Napolitano in una lettera al leader democristiano: “Non dimentico come ti adoperasti per il buon esito di quella mia prima missione negli Stati Uniti”.

Kissinger invece si farà perdonare con gli interessi 40 anni dopo, quando nel 2015 gli consegnerà di persona l’omonimo premio all’American Academy a Berlino. “Ha salvato la democrazia Italia nel bel mezzo della crisi economica globale. Per me -dirà l’ex capo della diplomazia americana- ha un grande significato celebrare Napolitano: vero leader democratico, amico delle relazioni atlantiche e difensore della dignità degli esseri umani”.

Tornando alla sua attività all’interno del Pci, Napolitano alla morte di Berlinguer sfiora la segreteria, spinto da un altro esponente migliorista come il segretario della Cgil Luciano Lama, ma alla fine prevarrà Alessandro Natta. In quegli anni, esattamente tra il 1981 e il 1986, sarà comunque capogruppo alla Camera.

Dopo aver lasciato l’assemblea di Montecitorio, nel 1996 viene nominato ministro dell’Interno nel primo Governo di Romano Prodi e con la ministra della Solidarietà sociale, Livia Turco – una tappa importante per Napolitano nei suoi 70 anni nelle istituzioni – , terrà a battesimo la legge sull’immigrazione che tra l’altro istituisce i Cpt, Centri di permanenza temporanea.

Chiusa anche quell’esperienza quando a palazzo Chigi approda Massimo D’Alema, dal 1999 al 2004 Napolitano è parlamentare europeo, esperienza vissuta anche nel triennio 1989-1992. Come ex presidente della Camera, nel 2003 viene nominato a guida dell’omonima Fondazione, nata per favorire la conoscenza e la divulgazione del patrimonio storico e del ruolo istituzionale dell’Assemblea di Montecitorio. Il 23 settembre del 2005 il ritorno nel Parlamento italiano, quando Carlo Azeglio Ciampi lo nomina senatore a vita, un’altra scadenza significativa per Napolitano nei suoi 70 anni nelle istituzioni. Sarà una parentesi di pochi mesi, perché il 10 maggio 2006 è viene eletto Presidente della Repubblica con 543 voti, quelli della maggioranza di centrosinistra.

‘The quiet power broker’, il posato mediatore, lo definirà il ‘New York Times’, con espressione che sintetizza un settennato durante il quale la funzione di garante si concretizza in un’attività in grado di assicurare il costante equilibrio del sistema istituzionale, soprattutto nei momenti più critici e delicati.

Come nell’autunno del 2011, l’anno in cui si celebrano i 150 anni dell’unità d’Italia, quando la crisi del Governo Berlusconi e la preoccupante situazione economica legata all’elevato livello raggiunto dallo spread, portano alla nascita dell’Esecutivo tecnico guidato da Mario Monti e sostenuto da un’ampia maggioranza parlamentare. La stessa che nella primavera del 2013, dopo la bocciatura di Franco Marini e di Romano Prodi ad opera dei franchi tiratori, chiederà a Napolitano di restare al Quirinale alla fine del suo settennato. Accetta e il 20 aprile arriva la sua rielezione con 738 voti. La prima ma non l’ultima volta nella storia repubblicana di una conferma al Quirinale dopo il settennato, visto che la stessa cosa accadrà nel 2022 con Sergio Mattarella, anche in questo caso per superare uno stallo parlamentare che sembra insuperabile.

Giurando davanti al Parlamento riunito in seduta comune, Napolitano, denuncia l'”imperdonabile nulla di fatto in materia di sia pur limitate e mirate riforme della seconda parte della Costituzione”. Per questo, è il suo appello “non si può più, in nessun campo, sottrarsi al dovere della proposta, alla ricerca della soluzione praticabile, alla decisione netta e tempestiva per le riforme di cui hanno bisogno improrogabile per sopravvivere e progredire la democrazia e la società italiana”.

Un obiettivo che porta alla formazione del governo di larghe intese guidato da Enrico Letta e un impegno che non cessa anche quando Napolitano, dopo 70 anni nelle istituzioni,  decide che è arrivato il momento di lasciare il Quirinale, il 14 gennaio 2015. Nove anni durante i quali si ricordano anche l’impegno europeista, suggellato da momenti dalla forte valenza simbolica, come la storica visita il 23 marzo 2013 insieme al Presidente tedesco Joachim Gauck a Sant’Anna di Stazzema per commemorare le vittime dell’eccidio compiuto dai nazisti.

Restano poi scolpite nella memoria le immagini che testimoniano lo speciale e intenso rapporto con Benedetto XVI, culminato nel concerto in Vaticano del 4 febbraio 2013 organizzato in occasione dell’anniversario dei Patti lateranensi.

Napolitano, con commozione, ricorda “la memoria dei nostri incontri e colloqui, in molteplici occasioni, nel corso di questi sette difficili anni”. Parole che vengono lette come un commiato in vista della fine del settennato, che invece verrà prolungato ancora di due anni, mentre una settimana dopo sarà Ratzinger a lasciare sorpresa il Soglio di Pietro. 

Per Napolitano il cordoglio di Mattarella, Bergoglio, Meloni, Schlein. Angelo Vitolo su L'Identità il 22 Settembre 2023

Per Napolitano il cordoglio delle istituzioni e della politica con i messaggi di Sergio Mattarella, Giorgia Meloni, Elly Schlein. Alla moglie Clio, le parole di Papa Bergoglio.

Mattarella: “Protagonista di pace e progresso”

“Protagonista di sviluppo sociale, pace e progresso per l’Italia e l’Europa”: queste le prime parole per il suo predecessore da Sergio Mattarella, presidente della Repubblica, che esprime “dolore profondo”. Commovente e riflessivo, il suo riferimento ad “una vita testimone della storia del secondo Novecento con i suoi drammi, la sua complessità, i suoi traguardi, le sue speranze”. E ancora lo definisce “intelligente garante dei valori della nostra comunità”, ricordando anche “la sua inesauribile azione contro le morti sul lavoro” e “la convinta opera europeistica e di rafforzamento dei valori delle democrazie, interpretando significative battaglie con sentita attenzione alle istanze di rinnovamento presenti nella società. Inesauribile fu la sua azione per combattere la spirale delle morti sul lavoro”.

Da Papa Bergoglio “commozione e riconoscenza”

In un telegramma, il cordoglio di Papa Bergoglio. Per la moglie Clio le sue parole: “La scomparsa di suo marito ha suscitato in me sentimenti di commozione e al tempo stesso di riconoscenza per questo uomo di Stato che, nello svolgimento delle sue alte cariche istituzionali, ha manifestato grandi doti di intelletto e sincera passione per la vita politica italiana nonché vivo interesse per le sorti delle nazioni”. Il pontefice conserva “grata memoria degli incontri personali avuti” con l’ex Capo dello Stato “durante i quali ne ho apprezzato l’umanità e la lungimiranza nell’assumere con rettitudine scelte importanti, specialmente in momenti delicati per la vita del Paese, con il costante intento di promuovere l’unità è la concordia in spirito di solidarietà, animato dalla ricerca del bene comune”. A Clio Napolitano e ai familiari la sua “vicinanza assicurando il ricordo nella preghiera” invocando “sulle persone care la consolazione del cuore”.

Da Giorgia Meloni “un pensiero alla famiglia”

Stringato e secco il messaggio da Palazzo Chigi, a nome di Giorgia Meloni: “La presidente del Consiglio dei ministri, Giorgia Meloni, esprime cordoglio, a nome del Governo italiano, per la scomparsa del presidente emerito della Repubblica, Giorgio Napolitano. Alla famiglia un pensiero e le più sentite condoglianze”. A lei si uniscono altri esponenti dell’esecutivo, dal ministro della Difesa Guido Crosetto (“Esprimo il mio profondo cordoglio, quello del ministero della Difesa e di tutto il personale delle Forze Armate”) a quello dell’Agricoltura, Francesco Lollobrigida (“Con lui scompare uno dei protagonisti più impegnati e presenti nella vita politica e istituzionale italiana. Alla famiglia e ai suoi cari giungano le mie più sincere condoglianze”).

“Un fervente europeista” per Elly Schlein

“Addio al presidente Giorgio Napolitano”, il  saluto di commiato per Giorgio Napolitano dalla segretaria del Pd Elly Schlein, che afferma: “Perdiamo un protagonista della storia del nostro Paese, che dal Colle l’ha guidato a lungo in momenti difficili”. Di seguito, il ricordo della “sua visione e la sua fervida convinzione europeista hanno contribuito a segnare la vocazione all’apertura e alla cooperazione dell’Italia, indicando una via di integrazione che va ancora proseguita. Tutta la comunità democratica si stringe affettuosamente alla sua famiglia e ai suoi cari in questo momento di doloroso cordoglio”.

Napolitano teste al processo Stato – Mafia. Redazione su L'Identità il 22 Settembre 2023 

Una data storica, il 28 ottobre 2014: Napolitano teste al processo Stato – Mafia. Per la prima volta nella storia della Repubblica un Capo dello Stato in carica è teste in un processo che tratta dei rapporti tra mafia e politica. Un primato del quale Giorgio Napolitano avrebbe fatto volentieri a meno.  Una testimonianza, quella dell’allora Capo dello Stato – morto oggi a 98 anni – dinanzi alla Corte d’Assise di Palermo in trasferta al Quirinale, resa nell’ambito del processo sulla cosiddetta trattativa tra lo Stato e Cosa nostra dopo le stragi del ’92-’93 e nata dalla lettera del consigliere giuridico del presidente, Loris D’Ambrosio, che nel giugno 2012, mentre sui media appaiono le intercettazioni registrate dalla Procura di Palermo tra lui e Nicola Mancino, decide di dare le dimissioni, che vengono respinte.  Un mese dopo D’Ambrosio muore, stroncato da un infarto.

Nella lettera il consigliere teme di “essere stato allora considerato solo un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi”. Parole che per la Procura palermitana meritano di essere approfondite, anche con l’autorevole ausilio del Capo dello Stato. Nella deposizione del 28 ottobre al Colle, Napolitano le definisce però “ipotesi prive di sostegno oggettivo perché altrimenti il magistrato eccellente Loris D’Ambrosio avrebbe saputo benissimo quale era il suo dovere”.

Il rapporto tra Napolitano e le toghe palermitane non è stato privo di contrasti.  Nel luglio 2012 il Colle solleva il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, ritenendo che le prerogative del Presidente della Repubblica siano state lese per la decisione presa dalla Procura palermitana a proposito dell’utilizzo di conversazioni telefoniche tra il Capo dello Stato e l’ex ministro dell’Interno, Nicola Mancino, intercettate sull’utenza di quest’ultimo.

Una scelta spiegata con queste parole: è “dovere del Presidente della Repubblica, secondo l’insegnamento di Luigi Einaudi, evitare che si pongano, nel suo silenzio o nella inammissibile sua ignoranza dell’occorso, precedenti, grazie ai quali accada o sembri accadere che egli non trasmetta al suo successore immuni da qualsiasi incrinatura le facoltà che la Costituzione gli attribuisce”.

Una vicenda che si trascina per mesi, fino a quando, nell’aprile del 2013, proprio mentre le Camere cercano, invano, di eleggere il successore di Napolitano, la Corte di Cassazione mette la parola fine alla lunga diatriba delle telefonate tra lo stesso Napolitano e Mancino: le intercettazioni dei quattro colloqui, infatti, verranno distrutte. La Corte d’Assise di Palermo, però, non molla la presa e ribadisce la necessità di sentire come testimone al processo sulla trattativa Stato-mafia il Capo dello Stato.

La deposizione, chiesta dai Pm, era già stata ammessa, ma dopo la lettera inviata a fine novembre alla Corte d’Assise da Napolitano, alcuni legali ne avevano chiesto la revoca.  In quella lettera il Capo dello Stato chiedeva di fatto di evitare la deposizione, spiegando di non sapere assolutamente nulla delle vicende che sono d’interesse della Corte. Si arriva così al giorno della deposizione, off limits per la stampa. La trascrizione delle tre ore di faccia a faccia con i giudici sarà diffusa pochi giorni dopo.

Tra le 40 persone che varcano la soglia del Quirinale per partecipare all’udienza c’è anche il legale di Totò Riina Luca Cianferoni.  Per Napolitano teste, il suo ex consigliere giuridico era “animato da spirito di verità”. Era un D’Ambrosio “insofferente” dopo la pubblicazione delle sue telefonate con Mancino, ma non preannunciò al Capo dello Stato né la lettera né le dimissioni. Quanto alle bombe dei primi anni Novanta, il Presidente dice chiaramente che con gli attentati “la mafia voleva destabilizzare il sistema”.

Nel suo congedo dalle toghe, da Presidente del Csm, Napolitano, nel plenum straordinario del 21 dicembre insiste sulla necessità di lasciarsi definitivamente alle spalle lo “sterile scontro” tra politica e magistratura, ma al tempo stesso sottolinea come non si possano non “segnalare comportamenti impropriamente protagonistici e iniziative di dubbia sostenibilità assunti, nel corso degli anni, da alcuni magistrati della pubblica accusa”. Nessun riferimento diretto, naturalmente, allo scontro con i magistrati palermitani, ma è una ferita ancora aperta.

Giovanardi “Io c’ero e vi dico che in fondo Napolitano ha aiutato Berlusconi”. Redazione su L'Identità il 24 Settembre 2023

di CARLO GIOVANARDI – Leggo giudizi non proprio benevoli sul ruolo che Giorgio Napolitano, allora Presidente della Repubblica, avrebbe avuto nella caduta del Governo Berlusconi quater, di cui facevo parte come sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. Premetto che non ho condiviso tutte le scelte del Presidente Napolitano, a cominciare da quella di non controfirmare il decreto legge con il quale si voleva impedire la morte ( per mancanza di acqua e cibo ) di Eluana Englaro. Ma a maggior ragione intendo difendere il ruolo del Capo dello Stato in avvenimenti che ho vissuto di persona.

Era 10 aprile del 2010 quando assistetti, allibito come tutti, allo scontro pubblico tra Silvio Berlusconi, Presidente del Consiglio e Gianfranco Fini, Presidente della Camera, culminato nella famosa frase di Fini “che fai mi cacci?” (dal PDL, ndr). Ed in effetti in un successivo Ufficio di Presidenza del PDL, di cui facevo parte, fu deliberata l’ espulsione di Fini. Intervenendo in quella sede misi in guardia Berlusconi dal pericolo di mettere in moto una situazione scivolosa che avrebbe messo in pericolo maggioranza e governo, ma ormai il dado era tratto. Il 30 luglio Gianfranco Fini diede vita a Futuro e Libertà, costituendo gruppi parlamentari autonomi sia alla Camera che al Senato, che votarono comunque un mozione di rinnovata fiducia al Governo Berlusconi, risultando numericamente determinanti per arrivare alla maggioranza. Agli inizi di novembre mi chiamò Andrea Ronchi, Ministro per le Politiche Europee, per mettermi al corrente dell’ intenzione di Fini , che sapeva essere mio buon amico, di ritirare la delegazione di Futuro e Libertà dal Governo il prossimo 7 novembre.

Chiamai Gianfranco, che scherzando consideravo assieme con Berlusconi uno dei miei due papà politici, parlai a lungo con lui ma non ci fu nulla da fare: alla mia osservazione che con la costituzione dei suoi Gruppi aveva vinto la partita e poteva da una posizione di forza negoziare la composizione di un nuovo Governo Berlusconi, replicò che lui con Berlusconi aveva definitivamente chiuso, anche davanti al rischio, che gli feci presente , che i miei due papà si ammazzassero a vicenda.

Dopo il ritiro della delegazione dal Governo ecco entrare in scena il Presidente Napolitano che, esercitando la sua moral suasion, chiese di posticipare il voto di fiducia a dopo l’approvazione della Legge Finanziaria 2010. E così, quando si arrivò al voto il 14 di dicembre, grazie all’ abile regia di recupero consensi da parte di Denis Verdini, la mozione di sfiducia venne respinta con 314 voti contrari e 311 favorevoli. Sfido chiunque pertanto a sostenere che Giorgio Napolitano in quella occasione non fu imparziale con Berlusconi, non strumentalizzando le sue difficoltà ma facendo invece prevalere l’interesse del Paese in una difficile congiuntura economica. Guai seri di nuovo per il Governo si affacciarono invece a sorpresa alla Camera l’ 11 ottobre del 2011 quando una votazione più tecnica che politica, l’approvazione del Rendiconto dello Stato dell’anno precedente, finì 290 contro 290 essendo necessari per l’approvazione 291 voti, magari quello di Giulio Tremonti che stava entrando in Aula o quello di Umberto Bossi che era stato trattenuto in Transatlantico da alcuni giornalisti.

Quando l’8 novembre la votazione venne ripetuta le opposizioni si astennero dal partecipare ed il provvedimento passò con soli 308 voti a favore, con la dimostrazione politica e numerica che alla Camera il Governo Berlusconi non aveva più la maggioranza assoluta dei voti, mentre continuava lo stillicidio di deputati che abbandonavano il Pdl per passare a gruppi di opposizione, ultimi e decisivi Gabriella Carlucci e Giorgio Stracquadanio. Ci fu un estremo tentativo da parte del Governo di raddrizzare la situazione con un decreto legge che fronteggiasse l’ esplosione dello spread, ma Napolitano non lo firmò, anche perchè nel frattempo erano nati contrasti e malintesi tra il Ministro dell’Economia Giulio Tremonti e quello della Pubblica Amministrazione Renato Brunetta. Dopo le dimissioni di Berlusconi, mi recai subito a Palazzo Grazioli assieme al Ministro Gianfranco Rotondi e fummo ricevuti dal Presidente dimissionario con la solita cordialità. Alla nostra domanda, “Allora Silvio si va ad elezioni anticipate come abbiamo sempre detto?” sollevò gli occhi da un documento che aveva sulla scrivania e ci disse: “Questa è la nomina di Senatore a vita di Mario Monti, che Napolitano mi chiede di controfirmare”, pertanto niente elezioni anticipate perché il nostro senso di responsabilità verso il Paese ci impone di appoggiare il Governo che presiederà Monti, come accadde poi sia alla Camera che al Senato.

Così sono andate le cose ed onestamente non vedo colpe che si possano addebitare a Giorgio Napolitano che nel 2010 salvò il Governo in carica e nel 2011, mentre crollava il quadro politico, legittimamente e doverosamente si era messo in moto per cercare vie di soluzione alla crisi.

Mi permetto infine un suggerimento ed un invito all’attuale Governo ed all’attuale maggioranza: è vitale che abbassi il tasso di conflittualità interna se non vuole ripetere l’ esperienza del Berlusconi quater.

Cerno, Il Giornale e Napolitano. Da dirigente Pd deluso dalle reazioni dei capi della sinistra. Redazione su L'Identità il 25 Settembre 2023

di VINCENZO MARTINES

Caro Tommaso,

ho letto il tuo articolo su “Il Giornale” e posso immaginare quanto si possano essere scatenati gli haters. Mi sorprende, di più, la reazione di certi capi storici della Sinistra, perché essi stessi protagonisti o silenti complici delle scelte che fece l’allora Capo dello Staro Giorgio Napolitano, almeno nell’occasione che provo a sintetizzare.

Che Napolitano fosse un decisionista e attivo attore di ciò che lui riteneva indispensabile per superare impasse che giudicava malsane, per il procedere del Governo nazionale, hai scritto ed è una palese sua caratteristica.

Che un pezzo della Sinistra ne approfittò per assecondarne, a proprio favore, le conseguenze, è una altrettanta acclarata verità. Mi riferisco al 2014 quando fu defenestrato Letta e cooptato da Matteo Renzi. Lo dico da testimone diretto.

In due Direzioni nazionali consecutive, si consumò il “delitto” politico su Letta e si segnò (negativamente per quel che mi riguarda) l’imminente futuro politico soprattutto delle forze di progresso, con un’alleanza (malsana) con il Nuovo Cento Destra di Alfano.

Per farla breve: Napolitano ritenne che Letta non fosse in grado di proseguire il suo lavoro, chiamò Renzi, che brillava dell’appoggio, post elezioni europee, del celeberrimo 40,01% e gli chiese se si sentiva di ordire la “congiura”, partendo dall’interno del PD, per consumarne la conclusione in Parlamento. Senza passare dalle urne.

La sparuta minoranza capitanata da Civati, con Elly Schlein e pochi altri (tra i quali chi ti scrive) votarono contro la mozione Letticida perché sostenevamo che il passaggio doveva esser consumato nelle urne e con la forza di Renzi dell’epoca, sarebbe stato possibile costruire una colazione vincente di centrosinistra, senza dover creare accrocchi politici con Angelino Alfano.

Ma le trame erano ormai a buon punto. Con l’avallo di Bersani, di Cuperlo e il resto del Comando della sinistra storica interna, si trovò la via dialettica per giustificare la “salita” renziana. Forse pensavano di poter trattare o addirittura di ingabbiare Renzi, una volta lui sedutosi alla sedia di Primo Ministro. Fu destituito Letta e fu giustificato Renzi, a partire dai contenuti dialettici della vecchia guardia.

La stessa “vecchia guardia” che nel giro di pochi mesi abbandonò il PD (lasciandoci soli a far minoranza interna in pochissimi affezionati al PD e senza Civati) con un artificio retorico che ancora mi suona nelle orecchie. Se ne andarono dicendo che era venuta meno “l’agibilità politica” nel PD che potesse giustificare la loro presenza.

Ora son tornati, è un bene, ma spero che quella necessità di dialettica che tu reclami, finalmente cancelli quella vena di ipocrisia che non ci fa bene. Anzi è il peggiore dei mali per chi, come noi che abbiamo a cuore le sorti dei progressisti italiani, sappiamo che non potremo mai fare a meno di confrontarci schiettamente, per proporre vie nuove alla società che aspiriamo di poter rappresentare. Enzo

Da L’Inkiesta.

Re GiorgioNapolitano, il presidente che faceva politica. Mario Lavia su L'Inkiesta il 23 Settembre 2023

L’ex Capo dello Stato è deceduto a novantotto anni. È stato un uomo spiritoso, arguto e di grande cultura e ha dedicato tutta la sua vita al partito e alle istituzioni

«L’importante è fare politica, non averla fatta», scriveva Giorgio Napolitano citando Plutarco. Adesso che ha lasciato questo mondo all’età di novantotto anni, dunque dopo una vita lunga e pienissima, si può ben dire che Giorgio Napolitano è stato uno di quegli uomini che hanno dedicato letteralmente tutta la vita, attimo per attimo, giorno per giorno, anno per anno, alla lotta politica.

Finché ha potuto, si capisce, giacché da tempo, prima dell’ultimo ricovero, se ne stava rintanato, salvo sporadiche uscite (anche al Senato), nella sua casa non lontana da quel Quirinale da dove aveva dominato la scena politica per tanti anni, per ben due mandati, dal 2006 al 2015, “richiamato” nel 2013 per un secondo mandato vista l’incapacità del Parlamento di trovare un successore. Anni duri.

La collaborazione-competizione con un Silvio Berlusconi che non lo amò mai, per usare un eufemismo, le difficoltà economiche di un Paese incapace di intraprendere la strada delle riforme, complice anche, per lui, il vecchio riformista, l’inadeguatezza del centrosinistra, e “costretto” per questo ad inventarsi soluzioni nuove e discusse, come l’incarico a Mario Monti per un governo tecnico che gli sembrava, e probabilmente era, l’unica soluzione in quel pantano politico dopo la rovinosa caduta del Cavaliere.

Ciascuno di questi argomenti meriterebbe un discorso lungo. Perché si tratta di passaggi drammatici e di una figura complessa, un temperamento non facile, una figura al tempo stesso capace di grandi slanci e accorte sottigliezze, un uomo di partito diventato uomo di Stato senza altra appartenenza che non a quella dei valori costituzionali. Un uomo anche molto criticato. Dalla destra, si è detto: in fondo il Capo dello Stato era rimasto un “comunista”, mai perdonandogli una militanza in un partito come il Pci che aveva commesso errori tragici, poi riconosciuti, come il famoso appoggio all’invasione sovietica dell’Ungheria nel 1956.

Ma anche da sinistra, perché l’uomo di Stato prevaleva sugli interessi di partito anche se questo comportava prezzi alti per “il partito”, come quando, dopo il voto del 2013, non si arrese alla pretesa di Pier Luigi Bersani di formare un governo pur non disponendo dei numeri necessari. Eppure era stato, eccome, uomo di partito, Napolitano.

Dalla fine della guerra si affermò come un dirigente del “partito nuovo” voluto da Palmiro Togliatti, un partito che di fatto, pur con tutte le doppiezze del caso, rompeva con l’idea rivoluzionaria in favore di una strategia democratica e parlamentare, dentro la quale egli si battè sempre per una visione gradualista, unitaria, nazionale: e decenni dopo fu il “migliorismo” erede della “destra” amendoliana che nel Pci contrastava i residui estremisti, se non rivoluzionari, ancora presenti. Chiusa la storia del comunismo con il crollo del Muro, Napolitano era il più attrezzato per andare oltre. Per lui, l’approdo avrebbe dovuto essere naturaliter la socialdemocrazia, ma il Pci-Pds scelse una strada diversa e non perfettamente definita.

Il resto è storia ravvicinata: presidente della Camera duro e imparziale, l’impegno europeo a lungo coltivato in anni di esperienza come “ministro degli Esteri” del Pci, la nomina a senatore a vita e di lì il Quirinale, per un “novennato” in cui scoprì un tratto per lui nuovo, quella popolarità che il Paese non gli lesinava ad ogni occasione.

Un presidente interventista, si disse: ed era vero, si spinse ai limiti del potere presidenziale, mai valicandoli, perché come disse Giuliano Amato, «è stato un po’ come il motore di avviamento che si mette in funzione quando il motore principale si spegne. il motore principale si spegne». E infine è stato un uomo di grande cultura (l’amato Thomas Mann, il teatro, il grande cenacolo intellettuale della Napoli di Francesco Rosi, Eduardo, Raffaele La Capria, Giuseppe Patroni Griffi, Antonio Ghirelli), ed era, anche se chi non lo ha conosciuto non lo immagina, un uomo spiritoso, arguto, nel suo stile british che tanto aveva colpito la regina Elisabetta, mescolato con una napoletanità mai misconosciuta, anzi. Certo, era duro.

Chissà se c’è qualche traccia dei famosi bigliettini nei quali esprimeva le sue critiche a questo o quel dirigente durante le riunioni, o se vivono i ricordi di certe sue sfuriate. Pignolo, curioso, fino a che ha potuto, leggeva, seguiva, s’informava. Un Presidente della Repubblica di assoluta importanza nella storia d’Italia, una figura centrale nella vicenda della sinistra, un italiano che non bisognerà dimenticare.

Da Il Sole 24 Ore.

Estratto dell’articolo di Ni.Ba. per “Il Sole 24 Ore” mercoledì 27 settembre 2023.

«Davvero tarderà molto a nascere, se nascerà, un italiano con le sue qualità messe al servizio di una politica vissuta come il luogo fondamentale in cui interagire con gli altri». Giuliano Amato, nell'intervento ai funerali laici dell'ex capo dello Stato, percorre il filo dell'intera vita di Giorgio Napolitano cogliendone il senso più profondo in «una delle citazioni più belle» nei suoi discorsi. «Quella di un giovane condannato a morte della Resistenza che scrive alla madre: “Ci hanno fatto credere - scriveva - che la politica è sporcizia e lavoro da specialisti. Invece la politica e la cosa pubblica siamo noi stessi”. Napolitano lo ha insegnato a tutti noi». 

Una vicenda umana lunghissima, ricostruita dai primi passi di una giovinezza di letture (mai interrotte) con aspirazioni diverse dalla politica quali l'arte, la recitazione, il cinema. «Si racconta che il suo debutto avvenne a sedici anni in classe, con una declamazione della Pioggia nel Pineto accolta dall'applauso di studenti e professori. E i suoi amici di gioventù, quando pensavano di darsi al cinema, erano Francesco Rosi, Raffaele La Capria, Giuseppe Patroni Griffi, Antonio Ghirelli». 

Furono poi la condizione disastrata di Napoli, le ragioni della Resistenza a spingere Napolitano verso la causa del Partito comunista, «ben più del marxismo e ancor più del leninismo, che lui leggeva con le lenti di Croce» secondo l'ex presidente emerito della Corte costituzionale. 

«[…] Grande per questo fu il suo tormento interiore davanti alla tragedia di Budapest del 1956 e a quella di Praga del 1968, che portarono altri a lasciare il partito, lui a dedicarsi alla difficile impresa di far prevalere nello stesso partito altre fondamenta ed altre ragioni comuni, che c'erano. Occorreva a tal fine un lungo lavoro di radicamento nella democrazia, in Europa, in Occidente e di questo lavoro fu lui protagonista».

Amato, voluto dai familiari insieme agli altri per la commemorazione solenne, ricorre anche alla sfera personale per rimarcare uno dei nuclei dell'impegno di Napolitano mai abbandonati, neanche nei momenti più difficili. «Dell'Europa ha fatto una missione per sé e per l'Italia. Quando ebbe un periodo di debolezza di cuore e Clio lo accompagnò tutte le settimane, li incontravo nei corridoi del Parlamento europeo, lui che non voleva rinunciare al suo lavoro in Europa e lei che gli stava accanto perché non si fidava a lasciarlo da solo». […]

Da La Gazzetta del Mezzogiorno.

Il Presidente Emerito della Repubblica, Senatore Giorgio Napolitano, si è spento presso la clinica Salvator Mundi al Gianicolo in Roma. REDAZIONE ONLINE su La Gazzetta del Mezzogiorno il 22 Settembre 2023

Oggi, alle ore 19.45, il Presidente Emerito della Repubblica, Senatore Giorgio Napolitano, si è spento presso la clinica Salvator Mundi al Gianicolo in Roma.

Giorgio Napolitano è nato a Napoli il 29 giugno 1925, sposato con Clio Bittoni, ha avuto due figli, Giovanni e Giulio. Si è laureato in giurisprudenza nel dicembre 1947 presso l’Università di Napoli con una tesi in economia politica. Nel 1945-46 è stato attivo nel movimento per i Consigli studenteschi di Facoltà e delegato al primo Congresso nazionale universitario. Fin dal 1942, a Napoli, iscrittosi all’Università, ha fatto parte di un gruppo di giovani antifascisti e ha aderito, nel 1945, al Partito Comunista Italiano, di cui è stato militante e poi dirigente fino alla costituzione del Partito Democratico della Sinistra.

Dall’autunno del 1946 alla primavera del 1948 ha fatto parte della segreteria del Centro Economico Italiano per il Mezzogiorno presieduto dal sen. Paratore. Ha inoltre partecipato attivamente al Movimento per la Rinascita del Mezzogiorno fin dalla sua nascita (dicembre 1947) e per oltre 10 anni.

È stato eletto alla Camera dei Deputati per la prima volta nel 1953 e ne ha fatto parte - tranne che nella IV legislatura - fino al 1996, riconfermato sempre nella circoscrizione di Napoli.

La sua attività parlamentare si è svolta nella fase iniziale in seno alla commissione Bilancio e Partecipazioni Statali, concentrandosi - anche nei dibattiti in Assemblea - sui problemi dello sviluppo del Mezzogiorno e sui temi della politica economica nazionale. Nella VIII (dal 1981) e nella IX Legislatura (fino al 1986) è stato Presidente del Gruppo dei deputati comunisti.

Negli anni '80 si è impegnato in particolare sui problemi della politica internazionale ed europea, sia nella Commissione Affari Esteri della Camera dei Deputati, sia come membro (1984-92 e 1994-96) della delegazione italiana all’Assemblea dell’Atlantico del Nord, sia attraverso molteplici iniziative di carattere politico e culturale. Già a partire dagli anni '70, ha svolto una vasta attività di conferenze e dibattiti all’estero: negli istituti di politica internazionale in Gran Bretagna e in Germania, presso numerose Università degli Stati Uniti (Harvard, Princeton, Yale, Chicago, Berkeley, SAIS e CSIS di Washington). Dal 1989 al 1992 è stato membro del Parlamento europeo.

Nell’XI legislatura, il 3 giugno 1992, è stato eletto presidente della Camera, restando in carica fino alla conclusione della legislatura nell’aprile del 1994. Nella XII legislatura ha fatto nuovamente parte della commissione Esteri ed è stato presidente della commissione speciale per il riordino del settore radiotelevisivo.

Non più parlamentare, è stato ministro dell’Interno e per il coordinamento della Protezione civile nel governo Prodi, dal maggio 1996 all’ottobre 1998. Dal 1995 al 2006 è stato presidente del Consiglio italiano del Movimento europeo. Rieletto deputato europeo nel 1999, è stato fino al 2004 presidente della commissione per gli Affari costituzionali del Parlamento di Strasburgo.

Nel 2003 è stato nominato presidente della Fondazione della Camera dal presidente della Camera Pier Ferdinando Casini. Il 23 settembre 2005 è stato nominato senatore a vita dal presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi.

Il 10 maggio 2006 è stato eletto presidente della Repubblica con 543 voti. Ha prestato giuramento il 15 maggio 2006. Il 20 aprile 2013 è stato rieletto presidente della Repubblica con 738 voti. Ha prestato giuramento il 22 aprile 2013. Ha rassegnato le dimissioni il 14 gennaio 2015. È divenuto senatore di diritto e a vita quale presidente emerito della Repubblica.

IL CORDOGLIO DI BARDI

«Condoglianze alla famiglia di Giorgio Napolitano. Ci lascia un grande politico, un vero statista, un meridionale illustre». Così su X il presidente della Regione Basilicata, Vito Bardi.

IL RAPPORTO CON LA PUGLIA E LA BASILICATA

Intenso e profondo il legame di Giorgio Napolitano con la Puglia. Bari gli stava un po’ nel cuore: qui viveva suo fratello Massimo, architetto di fama. Non a caso in una delle visite da presidente, nell’ottobre 2013, scoprì la targa commemorativa sulla facciata del palazzo ex Enel, progettato molti anni prima da Massimo e dall’architetto Vittorio Chiaia.

Nel 2006 venne, invece, a conferire al Gonfalone del Comune di Bari la Medaglia d’Oro al merito civile in ricordo degli eventi che tra il 1940 e il 1945 hanno visto protagonista la popolazione barese. Suggestiva la cerimonia di consegna avvenuta nella Sala del Tridente all’interno della Fiera del Levante: in quell’occasione Napolitano fu ospite della Gazzetta del Mezzogiorno e visitò la mostra delle storiche pagine del nostro giornale. Nello stesso anno la visita al laboratorio di Nanotecnologie dell’Università di Lecce. Nel 2007 conferì la Medaglia d’Oro al merito civile anche a Foggia nel corso di una cerimonia tenuta a Roma il 25 aprile. Nel 2010 invece, l’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università di Bari: nel corso della cerimonia l’intitolazione dell’Ateneo ad Aldo Moro.

Memorabile anche la sua presenza a Barletta nel novembre del 2011: il presidente partecipò a un commovente incontro organizzato a un mese dal crollo di via Roma nel quale morirono cinque lavoratrici.

Gli ultimi ricordi pugliesi sono del novembre 2015: una mattinata trascorsa al Sacrario dei Caduti d’Oltremare di Bari, una serie di incontri istituzionali poi una cena in un ristorante affacciato sul mare a nord del capoluogo con un menu di piatti della tradizione, come da espressa richiesta del presidente. Il giorno successivo la visita nella cella di Antonio Gramsci nel carcere di Turi e l’abbraccio infine della gente di Conversano.

In Basilicata ricordano infine la visita del primo ottobre del 2009 a Matera, Potenza e Rionero: incontrò i metalmeccanici, si recò all’Università e in serata a teatro. Il suo messaggio: c’è bisogno di un Sud che non pianga su se stesso.

Quando il presidente Napolitano arrivò a Bari e minacciò Emiliano di querela. Nel 2013 si irritò con l’allora sindaco per le dichiarazioni sul presunto salvacondotto per Berlusconi. MASSIMILIANO SCAGLIARINI su La Gazzetta del Mezzogiorno il 25 Settembre 2023

C’è una foto, sul sito del Quirinale, che ricorda della visita di Giorgio Napolitano a Bari il 29 ottobre 2013. La stretta di mano racconta meglio di tante parole quanto avvenne quel giorno tra l’allora sindaco Michele Emiliano e il presidente della Repubblica, il primo con gli occhi bassi e il secondo che guarda altrove.

Napolitano quel giorno era a Bari per l’intitolazione del palazzo ex Enel al fratello scomparso, l’architetto Massimo Napolitano che ne fu il progettista insieme a Vittorio Chiaya. E l’incontro con il sindaco, padrone di casa, non fu affatto cordiale, tutt’altro. Napolitano era infatti seccato, a dire poco, per le dichiarazioni che la settimana prima Emiliano aveva rilasciato a «La7» (poi riprese dal «Fatto») in cui evocava l’esistenza di accordo tra Pd e Pdl per garantire un salvacondotto giudiziario a Silvio Berlusconi con il placet del Quirinale. Circostanza che il Colle aveva sempre smentito, e che Emiliano invece dava invece per vera.

Il tema dell’«agibilità politica» di Berlusconi ha agitato per mesi il dibattito politico di quei tempi. Ma si era definitivamente chiusa in estate, quando dal Quirinale era stato chiarito il «no» assoluto del presidente a qualunque ipotesi di interventi ad-personam sull’allora Cavaliere (che poi, dopo la condanna, sarebbe stato dichiarato decaduto da senatore). Napolitano non era disponibile a concedere la grazia a Berlusconi, né tantomeno a subire «ricatti» sulla possibile tenuta del governo in conseguenza dell’(allora imminente) condanna del leader azzurro.

È per questo che, secondo chi assistette all’incontro di Bari (la circostanza all’epoca fu raccontata su queste colonne), il presidente della Repubblica fu estremamente gelido con Emiliano e non mancò di chiedere spiegazioni e manifestargli il suo disappunto. «Guardi - gli disse in sostanza - che se non fossi il presidente della Repubblica avrei dovuto querelarla, perché quello che ha detto oltre che inventato è anche offensivo nei miei confronti». La ricostruzione è ben più di un sapido retroscena, perché l’irritazione del Colle è nero su bianco. «Solo il Fatto Quotidiano crede alle ridicole panzane come quella del “patto tradito” dal presidente Napolitano”», scrisse il 22 ottobre 2013 l’ufficio stampa del Quirinale. «La posizione del presidente in materia di provvedimenti di clemenza è stata a suo tempo espressa con la massima chiarezza e precisione nella dichiarazione del 13 agosto scorso».

Da Il Fatto Quotidiano.

Estratto dell’articolo di ilfattoquotidiano.it sabato 23 settembre 2023.

Con Giorgio Napolitano “è venuto a mancare uno statista eccezionale e un vero patriota italiano”. Tra i messaggi giunti da tutto il mondo per la scomparsa dell’ex capo dello Stato spicca quello di Vladimir Putin, che ha voluto esprimere le proprie condoglianze con un telegramma inviato all’attuale presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Incappando però in un rumoroso strafalcione biografico.

“Napolitano lottò coraggiosamente contro il fascismo nelle file della Resistenza e poi ha servito fedelmente per molti anni il suo Paese, anche come presidente e in altre alte cariche governative”, scrive infatti il capo del Cremlino. […] La “lotta” di Napolitano nella Resistenza è però un falso: l’ex inquilino del Quirinale non fu mai partigiano e anzi, negli ultimi anni della seconda Guerra mondiale – quando studiava Giurisprudenza alla Federico II di Napoli – fece parte del Guf, il Gruppo universitario fascista, pubblicando articoli di critica cinematografica e teatrale sul settimanale IX maggio. […]

Da Il Tempo.

Stasera Italia, la verità di Sallusti su Giorgio Napolitano. Luca De Lellis su Il tempo il 22 settembre 2023

Giorgio Napolitano e Alessandro Sallusti hanno condotto due vite agli antipodi. L’uno (il direttore de Il Giornale) a giudicare l’operato dell’altro (l’ex Presidente della Repubblica). Ma in un preciso frangente le rispettive storie si sono incrociate. Era il 20 dicembre di 11 anni fa quando Napolitano presentava la grazia per commutare la pena detentiva del direttore per diffamazione in pena pecuniaria. Nel giorno della morte dell’ormai 98enne ex Capo di Stato, intervenuto a Stasera Italia, trasmissione in onda su Rete 4, Sallusti ha ricordato a modo suo il defunto, definendola una “figura molto complessa, per la quale però le ombre prevalgono sulle luci”. Insomma, l’ospite del conduttore Nicola Porro riconosce lo spessore politico di Napolitano ma non ne ha condiviso diverse scelte operate nel corso della sua carriera. 

Come quando era al Quirinale, nel suo ultimo scorcio da Presidente della Repubblica e, parola di Sallusti, “sono stato testimone oculare di come abbia interferito pesantemente nella vita politica italiana, entrando in campo di persona per far cadere l’ultimo governo Berlusconi". Il direttore de "Il Giornale" prosegue nel racconto del retroscena: “Ci sono testimonianze dirette di come Napolitano appoggiò la scissione di Gianfranco Fini (che decretò la fine del Popolo della Libertà, ndr), nonché quella del governo presieduto dal Cavaliere”. Addirittura, rivela Sallusti che frequentava spesso Arcore, in quel periodo “Berlusconi si sentiva angosciato dal fatto che Napolitano pressasse alcuni suoi parlamentari per spingerli a uscire dalla maggioranza, cosa che poi avvenne”. Il piano di Napolitano era chiaro perché, spiega l’ospite, “intanto parlava con Mario Monti e Corrado Passera quando ancora c’era una persona che godeva della maggioranza parlamentare”. A novembre 2011, poi, l’inevitabile epilogo, con Berlusconi che sopraffatto dalla crisi economica e dallo spread, giunto alle stelle, dovette rassegnare le sue dimissioni spianando la strada al governo tecnico di Monti. Ormai acqua passata ma le vecchie ruggini riaffiorano nel giorno della scomparsa di una figura controversa come Giorgio Napolitano.

"Le ombre prevalgono sulle luci". Morte Napolitano, la verità di Sallusti. Luigi Bisignani su Il tempo il 23 settembre 2023

Caro direttore, intelligence e monarchia, realtà e bufale attorno a Giorgio Napolitano. Scomparso a Roma a 98 anni, fu il primo comunista a diventare ministro dell’Interno, presidente della Camera e, per due volte, presidente della Repubblica, inaugurando una discutibile tradizione. Quando poi, a inizio 2015, si dimise, nel suo quartiere, a piazza Santa Maria dei Monti, il macellaio Pietro Stecchiotti gli organizzò una solenne festa di bentornato a casa, con il Colosseo disegnato sulla torta. Tuttavia, per capire meglio l’incredibile cursus honorum del comunista preferito dal centenario Henry Kissinger, bisogna partire da Giulio Andreotti. Nel 1978, il Divo lo aiutò, quasi facendogli da garante, nel suo primo viaggio in Usa, fino ad allora preclusi ai dirigenti del Pci, per alcune conferenze nelle maggiori università statunitensi. Napolitano rimase sempre grato ad Andreotti per questa «introduction», tanto da scrivergli una lettera il 9 maggio 2006 - conservata nell’Archivio Andreotti - il giorno prima della sua salita al Colle, nella quale si legge: «Non dimentico come ti adoperasti per il buon esito di quella mia prima missione negli Stati Uniti: venni a chiederti consiglio nel tuo studio a Palazzo Chigi, mi assicurasti il sostegno della nostra ambasciata e a Washington mi mettesti in contatto con Lamberto Dini, a casa del quale potei incontrare il rappresentante del Fondo monetario». È così che Napolitano raccontò quella missione - con Alberto Jacoviello, corrispondente de L’Unità sempre alle costole quasi per controllarlo - su Rinascita. «Si fa fatica, da parte di molti, a "inquadrarci"; e non parlo di avversari dichiarati e irriducibili, ma di persone e forze impegnate a comprendere e a valutare obiettivamente la realtà del Pci. È comunque un fatto che si è acceso un interesse, che si sono aperti canali di comunicazione e di confronto. Bisogna percorrerli, anche se il cammino non sarà semplice». Un’apertura importante che diversi anni dopo lo porterà al Viminale.

Tra le panzane su di lui: «educazione sabauda», direbbero sorridendo i maligni che qualche anno fa fecero girare in rete la bufala, corroborata da una certa somiglianza fisica, che Napolitano potesse essere effettivamente di sangue blu, figlio illegittimo dell’ultimo re d’Italia, Umberto II di Savoia, e per questo chiamato «Re Giorgio». Un gossip alimentato dalla circostanza che sua madre, contessa di Napoli (titolo che, da comunista doc, lui ha sempre accuratamente nascosto), fosse una delle dame di compagnia della regina. Invece quel «titolo nobiliare», meno romanticamente, gli venne affibbiato su input dell’ex presidente della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelsky, durante il caso delle intercettazioni telefoniche con Nicola Mancino per la vicenda della «trattativa Stato-mafia». Napolitano voleva che fossero distrutte in quanto giudicate irrilevanti: così Zagrebelsky lo accusò di «rivendicare privilegi da monarca assoluto», appunto da re. Ma quella non fu la sola contumelia che Napolitano si prese. Il giornalista e storico inglese Perry Anderson lo apostrofò, sulla rivista London Review of Books: «Vicar of Bray», paragonandolo a un novello don Abbondio che cambia parere ogni volta pur di ottenere credito politico. Naturalmente anche la destra italiana non mancò di criticarlo, perfino il mite Sandro Bondi gli diede «dell’inutile» e, in seguito, Renato Brunetta rincarò la dose biasimandolo perché non era a suo dire «super partes». Ma, è dal popolo della sinistra - tu quoque - che sono arrivati gli attacchi più duri. Il più eclatante fu quando, nell’aprile del 1996, capolista a Napoli non venne rieletto deputato. Uno smacco che lui poté consolare con l’incarico a ministro dell’Interno del governo dell’Ulivo di Romano Prodi.

La vita dura di un «Gattopardo» che nel 2011, in qualità di presidente della Repubblica, fece nascere il governo dell’austerità «abbattendo» il premier Silvio Berlusconi e sostituendolo con Mario Monti che, guarda caso, era stato nominato, appena una settimana prima, senatore a vita, sempre da Napolitano, con un accordo di cui mai si sapranno i collateral agreements, lasciando peraltro in bianco nomi meritevoli come Gianni Letta e Lamberto Dini. Due anni dopo Re Giorgio, nonostante le perplessità di molti, inforna altri senatori a vita, come «stampella al governo di sinistra di turno», per dirla alla Francesco Storace, il quale si prende una condanna per vilipendio al Capo dello Stato. Dell’infornata di senatori, una è donna: Elena Cattaneo, 50 anni appena, professoressa che si fa notare più per le assenze che per la propria scienza. Questo era Giorgio Napolitano, grande amico dei Papi ed europeista convinto, l’uomo dall’animo da mediatore che, tolti i modi azzimati e raffinati, era propedeutico a sé stesso e alla causa che abbracciava. Di Berlusconi è stato sempre un fiero oppositore, ad eccezione del debole per due ministre dei governi del Cavaliere, Stefania Prestigiacomo e Mara Carfagna. Apprezzava anche altre compagnie e preparava in ogni minimo dettaglio gli incontri con il mondo dello spettacolo. Nei corridoi del Quirinale viene ancora ricordato un siparietto divertente in cui la first lady signora Clio, amata moglie di Napolitano, prima di andare ad un ricevimento con la regina consorte Rania di Giordania in visita in Italia, appare davanti al marito con indosso una preziosa collana del tesoro dei Savoia. Napolitano le chiede se sia il caso e Clio, senza scomporsi: «Se non la metto oggi davanti ad una regina quando mai lo farò?» Chissà se in quel momento il presidente non abbia pensato: «meglio stare in costume nelle acque di Stromboli», il suo buen retiro estivo o in quelle di Capalbio. In effetti, un comunista vero che ci sta a fare con una regina? A tal proposito, un giudizio del giornalista Edmondo Berselli recitava: «Napolitano è la sintesi migliore dell'impossibilità del Pci di essere normale». Ad impossibilia nemo tenetur.

Morto Napolitano, da "ministro degli Esteri" Pci a Presidente della Repubblica. Il tempo il 22 settembre 2023

Primo Capo dello Stato rieletto nella storia della Repubblica, unico presidente nato e cresciuto politicamente nelle fila del Pci (di cui era considerato il "ministro degli Esteri", per la capacità di tenere i rapporti internazionali del partito), europeista e atlantista convinto (tanto da essere considerato l’unico comunista amato Oltreoceano), uomo così impegnato nella difesa delle istituzioni da reinterpretare, in qualche caso, le prerogative previste dalla Costituzione per il suo ruolo pur di mettere al sicuro il Paese. Giorgio Napolitano si è spento all’età di 98 anni, compiuti lo scorso 29 giugno. Eletto quale undicesimo inquilino del Colle la prima volta il 10 maggio 2006 e la seconda volta il 20 aprile 2013, Napolitano ha indossato, in entrambi i mandati da presidente della Repubblica, oltre alle vesti che gli competevano come garante della Costituzione, anche quelle di un Capo di Stato con maggiori poteri esecutivi, indirizzando e guidando il lavoro dei cinque governi che ha battezzato.

Quasi 9 anni trascorsi nelle stanze del fu Palazzo dei Papi e prima una vita in politica e per la politica, come deputato (viene eletto per la prima volta nel 1953 e ne fa parte - tranne che nella IV legislatura - fino al 1996), presidente della Camera dal 1992 al 1994, europarlamentare, ministro dell’Interno del governo Prodi dal maggio 1996 all’ottobre 1998. È proprio in seguito alle dimissioni del secondo governo Prodi che Napolitano si trova a gestire le sue due prime crisi dell’esecutivo, da presidente della Repubblica: nel 2007 e nel 2008, quando poi decide di sciogliere le Camere. Nel novembre 2011 è il quarto governo guidato da Silvio Berlusconi a non avere più una maggioranza parlamentare alla Camera. L’Italia è sotto un forte attacco speculativo ai titoli di Stato e Napolitano si accorda con il Cavaliere per un suo passo indietro non appena concluso l’iter di approvazione delle leggi di bilancio. L’inquilino del Colle affida a Mario Monti, dopo averlo nominato senatore a vita, l’incarico per la formazione di un nuovo Governo e assume un ruolo da kingmaker anche nella fase di formazione dell’esecutivo, tanto che il New York Times attribuisce al Capo dello Stato italiano il soprannome di "Re Giorgio". Cresce intanto la fortuna del M5S. Napolitano non ne riconosce il «boom» nelle amministrative 2012 («ricordo quello degli anni Sessanta, altri non ne vedo», azzarda) ma si trova in più di un’occasione a confrontarsi con l’arrivo dell’antipolitica che si propone come forza di governo. Nel 2013, dopo le elezioni politiche della "non vittoria" del Pd, l’allora inquilino del Colle affida a Pierluigi Bersani un mandato esplorativo per verificare se esista una maggioranza in Parlamento. Beppe Grillo e compagni dicono no e ne segue uno stallo che coinvolge anche la scelta del suo successore al Colle. Dopo 5 votazioni andate a vuoto e il rischio di una paralisi istituzionale Napolitano dice sì al secondo mandato. «È un segno di rinnovata fiducia che raccolgo comprendendone il senso, anche se sottopone a seria prova le mie forze», dice, mettendo in evidenza «l’affetto che ho visto in questi anni crescere verso di me e verso l’istituzione che rappresentavo».

"Re Giorgio", però, non risparmia il j’accuse: bisogna «offrire, al Paese e al mondo, una testimonianza di consapevolezza e di coesione nazionale, di vitalità istituzionale, di volontà di dare risposte ai nostri problemi. È a questa prova che non mi sono sottratto», dice, ma mentre i parlamentari lo applaudono punta il dito contro quanto accaduto: «Il punto di arrivo di una lunga serie di omissioni e di guasti, di chiusure e di irresponsabilità», che partono dalle mancate risposte a «esigenze fondate e domande pressanti di riforma delle istituzioni e di rinnovamento della politica e dei partiti». Dopo aver prestato il secondo giuramento, Napolitano individua allora in Enrico Letta la figura per guidare un esecutivo di larghe intese, sostenuto anche da FI. Nel febbraio 2014 il vicesegretario Pd si dimette, di fatto sfiduciato da Matteo Renzi, e il presidente della Repubblica incarica il "rottamatore" fiorentino di formare il governo, non tralasciando di intervenire, anche in questo caso, sulla lista dei ministri. Tanti i "moniti" ancora rivolti alla politica, fino all’ultimo discorso agli italiani. È il 31 dicembre del 2014 e Napolitano spiega la decisione di lasciare, di «rassegnare le dimissioni», interrompendo dopo meno di due anni il suo secondo settennato: «Ho il dovere di non sottovalutare i segni dell’affaticamento e le incognite che essi racchiudono e dunque di non esitare», dice chiaro. Il suo però non è un addio. La mancata attuazione delle riforme istituzionali gli impone nuovi interventi, anche se da senatore a vita e presidente emerito. Così accade con il contestato disegno di legge Boschi, che però «deve essere portato al suo compimento». Fino alla battaglia referendaria, quando richiama alla pacificazione e al dialogo costruttivo ricordando «lo spirito che condusse una larghissima maggioranza ad approvare la Carta nell’Assemblea costituente nonostante, su punti non da poco, molti avessero forti riserve». Al telefono le ultime "consultazioni", interpellato dal suo successore Sergio Mattarella per la formazione degli ultimi Governi della Repubblica.

Napolitano? "Stalinista anche da presidente", Sansonetti a carte scoperte. Il Tempo il 23 settembre 2023

"Diciamola tutta, Giorgio Napolitano è sempre stato stalinista". Piero Sansonetti nel corso della puntata di sabato 23 settembre di Stasera Italia weekend, su Rete 4, non ci gira troppo intorno. Il presidente emerito della Repubblica scomparso venerdì 22 settembre era a capo dell'ala migliorista del Pci che includeva esponenti come Gerardo Chiaromonte ed Emanuele Macaluso. Ed è stato il primo capo dello Stato comunista, oltre che il primo a essere rieletto.

Il direttore dell'Unità afferma che Napolitano è "sempre stato stalinista, anche per l'amore della stabilità". Pierluigi Battista, in studio, ribatte che tutto il Pc era stalinista, ma Sansonetti insiste: Berlinguer e Ingrao non lo erano, mentre il presidente emerito lo è restato "negli '60, '70, '80... Nella sua corrente approvò l'invasione di Kabul", ossia la guerra promossa dall'Unione Sovietica in Afghanistan a partire dal 1979. 

"Nel dopo Togliatti una parte del Pci si libera dello stalinismo, nella corrente di Napolitano non tutti lo hanno fatto", rimarca Sansonetti, "interpretava la stabilità come ragion di Stato, in questo senso è stato stalinista anche da presidente della Repubblica", è il commento senza filtri del direttore dell'Unità, a riprova che la figura del presidente emerito continua a suscitare posizioni contrastanti in tutti gli schieramenti.  

"Testimonianza diretta": Sallusti da Porro, il retroscena sulle trame di Napolitano. Il Tempo il 23 settembre 2023

Il Giorgio Napolitano "interventista" non è iniziato nel dicembre del 2010, durante la tentata sfiducia al governo di Silvio Berlusconi, né tantomeno qualche mese dopo, quando nell'autunno del 2011 arrivò la spallata "europea" al governo con le dimissioni del premier. Come ricorda il Giornale, ci sarebbe stata l'ombra di Re Giorgio dietro il "Che fai, mi cacci?" pronunciato da Gianfranco Fini contro il Cav. Era il 22 aprile del 2010 e di fatto quel giorno segnò la spaccatura dentro al Pdl, una crisi che di lì a poche settimane porterà alla scissione dei finiani di Futuro e libertà. 

Secondo quanto riferito nel 2015 dal finiano Amedeo Laboccetta, vicinissimo all'allora presidente della Camera, nel suo libro Almirante, Berlusconi, Fini, Tremonti, Napolitano. La vita è un incontro, il presidente della Repubblica giocò un ruolo decisivo in quella crisi. "Berlusconi va politicamente eliminato. E Napolitano è della partita. Il presidente della Repubblica condivide, sostiene e avalla tutta l’operazione", rivela Laboccetta riferendosi a una confidenza fattagli da Fini in persona, subito dopo quella scenata alla direzione nazionale del Pdl.

"Per far capire che non bluffava - scrive il Giornale -, l’ex leader di An avrebbe chiamato Napolitano, in vivavoce, raccontandogli dello scontro appena avvenuto. «Caro presidente, come avrai visto abbiamo vissuto una giornata campale», dice Fini, stando al racconto di Laboccetta. «Più che campale, direi una giornata storica», replica l’allora Capo dello Stato. «Ovviamente – riprende Fini - caro Giorgio, continuo ad andare avanti senza tentennamenti». «Certamente, fai bene. Ma fallo sempre con la tua ben nota scaltrezza», approva Napolitano, prima che la conversazione termini. «Avevo assistito in diretta all’organizzazione di un golpe bianco orchestrato dalla prima e dalla terza carica dello Stato», sintetizza Laboccetta nel suo libro". 

Di quel colloquio riservato era a conoscenza anche lo stesso Berlusconi, che ospite di Bruno Vespa a Porta a porta riferì di 12 testimoni. Tra questi, un ascoltatore della Zanzara, il programma di Giuseppe Cruciani e David Parenzo su Radio 24, che raccontò in diretta: "Fini mise in vivavoce il telefono, perché doveva convincere una parte del partito ad allontanarsi da Berlusconi e a fare cadere il governo nel voto di fiducia. Napolitano chiese la disponibilità a Gianfranco Fini di formare un nuovo governo. Gli chiese se se la sentiva". Un complotto, per dirla con le parole di Laboccetta, "una guerra lampo, un colpo di Stato. E dietro tutto c’era lo zampino di Re Giorgio Napolitano".

Da Panorama.

Come Eravamo Carlo Puca. Ora parliamo in Napolitano. Panorama il 22 Settembre 2023

Da Panorama del 22 ottobre 2009 «Dotarsi di un ghost-writer? Macché. Giorgio Napolitano è uno che si scrive tutto da solo: i discorsi, le esternazioni, i pareri. Con la carta e la penna, a mano». La rivelazione a Panorama di Emanuele Macaluso, storico esponente della sinistra migliorista, fra i più grandi amici del capo dello Stato, permette di stabilire che il comunicato di lunedì 12 ottobre («È del tutto falsa l’affermazione che al Quirinale si siano “stipulati patti” su leggi la cui iniziativa, come è noto, spetta al governo») è stato vergato direttamente dal presidente della Repubblica: stilografica e carta assorbente. Dunque l’accordo tra il Colle e Palazzo Chigi sull’approvazione del lodo Alfano da parte della Corte costituzionale era una certezza solo per Silvio Berlusconi. O forse il patto, come risulta a Panorama, è stato rotto dalla Consulta e non da Napolitano, al quale era stata prospettata una soluzione di mezzo, con la legge rimandata alle Camere solo per qualche minimo aggiustamento. Certo è che il comunicato è comunque atipico. Almeno rispetto alla consuetudine del Quirinale. «Napolitano tende a esprimere un linguaggio diretto, a rispondere alle critiche, a spiegare le sue azioni passo dopo passo. È il tratto distintivo del suo settennato» spiega Macaluso. In effetti la storia mediatica della presidenza della Repubblica è un susseguirsi di dire e non dire, di locuzioni come «fonti vicine al Colle riportano» o «ambienti del Quirinale dicono che». In teoria, una consuetudine ideale per Napolitano, classificato come «leader diafano». Lo stesso che Giorgio Amendola, il padre di tutti i miglioristi, definiva «uno che parla usando la vaselina». E invece, per un paradosso della storia, «questo presidente si è rivelato tra i più reattivi» dice il quirinalista del Corriere della sera, Marzio Breda. «Napolitano preferisce che un pensiero si diffonda attraverso le sue parole, più che con la loro interpretazione» ribadisce Macaluso. Ma sono anche cambiati i tempi. Spiega Antonio Ghirelli, ex portavoce del presidente Sandro Pertini: «Negli anni Ottanta la dialettica politica era netta, ma civile. Oggi invece si sfiora la rissa. Napolitano è uomo pacato ma deve necessariamente avere più ruolo e visibilità del focoso Pertini». Di segno dei tempi parla anche Breda: «Il capo dello Stato era così relativamente marginale che fino alle picconate di Francesco Cossiga poche testate avevano il quirinalista». Pertini, per esempio, veniva seguito dai «coloristi», gli specialisti degli articoli di descrizione dell’ambiente. Oscar Luigi Scalfaro preferiva invece esternare soltanto alle cerimonie militari. Carlo Azeglio Ciampi è stato il più silente di tutti. È nel suo settennato che trionfa il metodo del «silenzio parlato». Quando Ciampi stava zitto, parlavano «le fonti del Colle». Quando Ciampi parlava, era per ripetere le stesse cose di predecessori e successore. Una fra tante: «La patria è una e indivisibile». Chi poteva mai contraddirlo? Nonostante le innovazioni di Napolitano, il metodo Ciampi non è del tutto tramontato. Dopo la decisione della procura di Roma di indagare Maurizio Belpietro e Antonio Di Pietro per vilipendio al capo dello Stato, «gli ambienti del Colle» si sono risvegliati. Spiega Breda: «Storicamente, quando le faccende del Paese si complicano, è normale l’esplosione del linguaggio fasciato e delle fonti laterali». C’è sempre un momento, nell’infuriare della battaglia, in cui ci si nasconde un po’.

Caro presidente Napolitano, faccia una nuova legge elettorale poi si dimetta.

La Rubrica - Come Eravamo Giuliano Ferrara Panorama il 22 Settembre 2023

Da Panorama del 2014 È il solito problema. Uscire di scena. Come uscire di scena. Quando farlo. Come giustificarsi ai propri e agli altrui occhi, quando la scelta sia libera e limpida. È il problema di Giorgio Napolitano. È troppo intelligente per non sapere che con la cacciata di Silvio Berlusconi dal Senato e con l’elezione di Matteo Renzi a valanga tutto è cambiato. La base elettorale della rielezione si è scoagulata, è un flusso emorragico che non lascia circolare il sangue, non dà nutrimento e linfa al secondo mandato. Bisogna preparare l’uscita, attrezzarsi con urgenza e senso pratico, altrimenti si pesta l’acqua nel mortaio, si trasforma una milizia repubblicana onorevole, risultati innegabili, un profilo severo e significativo di custode dell’unità istituzionale del Paese in una resistenza alla realtà. Per il teorizzatore del principio di realtà, per l’uomo che ha lavorato contro i ribaltoni quando Berlusconi ce la faceva a stare in sella, che ha trovato una soluzione consensuale e inedita con il governo tecnocratico, che ha cercato di avere in Enrico Letta un campione della pacificazione, senza riuscirci, si annunciano giorni grigi e tristi. Prima delle dimissioni, l’ultimo strappo positivo e inventivo, da mettere in calendario a Parlamento rinnovato, è la legge elettorale.

La Costituzione affida implicitamente poteri di persuasione e di spinta immensi a un capo dello Stato che debba fronteggiare il vuoto. E oggi la risultante proporzionale della sentenza babbiona della Consulta è un vuoto politico mascherato da ritorno indietro di 20 anni, una decisione che non viene dalla sovranità, la quale costituzionalmente appartiene al popolo e ai suoi rappresentanti, non ai giudici costituzionali legislatori improvvisati in una controversia giurisdizionale. Qui Napolitano può forzare, collegarsi con il fenomeno politico espresso nelle primarie del Pd con l’elezione di un trentenne alla guida del partito di maggioranza delle Camere, stringere un patto anche con Berlusconi che valga come una testimonianza di pacificazione dopo la cacciata, adoperarsi per una riedizione del Mattarellum o comunque per una soluzione maggioritaria tutta e subito. Sarebbe, questo strappo attivistico e testimoniale, anche un passaggio della staffetta indicativo della volontà di rinnovamento, che sola giustifica la saggezza un po’ spenta di noi vecchi. Uscire di scena con un’altra «rupture», in favore della capacità politica del popolo sovrano costituzionale, per offrirgli la possibilità di eleggere il suo governo direttamente, con una scelta vincolante e tassativa. Allora tutte le chiacchiere maligne sul secondo mandato, sulla sua costitutiva incapacità di esprimere un realismo dell’avvenire, invece che una rassegnazione pavida a un’evoluzione purchessia delle cose, crepuscolare e di nomenclatura, si dissolverebbero come per incanto. E il secondo mandato di Napolitano sarebbe compiuto in fedeltà a uno stile politico e a una cultura che è sempre stata impegnata, comunque, nel bene e nel male, nel giusto e nell’erroneo, a riempire i vuoti lasciati da un sistema pazzo, che verrà scardinato malamente e al ribasso senza un gesto finale e conclusivo del Quirinale e del suo inquilino dei tempi di maggior crisi.

Ainis: «Napolitano, un presidente della Repubblica fortemente politico». Linda Di Benedetto su Panorama il 23 Settembre 2023

Analisi dell'operato di un uomo che ha segnato la storia politica italiana

Statista, uomo simbolo di due se non tre repubbliche politiche ma anche personaggio forte, forse a volte troppo e non libero da qualche critica. La morte di Giorgio Napolitano da qualsiasi parte la si veda segna un'epoca, divisiva, forse la più divisiva di sempre, come divisivo è stato lui. «Penso che ogni presidente - dice Michele Ainis, costituzionalista e politologo - si trovi a nuotare in una particolare stagione della storia e che questo incida sul suo operato e per Napolitano è stato lo stesso. Lui ha avuto nove anni di presidenza in cui si sono alternati vari governi. Prima che fosse rieletto mi telefonó e mi chiese di andarlo a trovare, era convinto che fossero gli ultimi giorni della sua presidenza allora non pensava ne desiderava di essere rieletto ma alla fine dovette accettare. Fu un ripiego come poi lo è stato Mattarella. Entrambi erano stati rieletti per superare un impasse ma nel caso di Napolitano avrebbe fatto bene a rifiutare. Nel suo secondo mandato infatti la sua popolarità è declinata a causa della caduta del governo Berlusconi». Cosa successe dopo la caduta del Governo Berlusconi? «Nel caso del governo Monti, Napolitano ha esercitato una "fantasia" costituzionale nominando Monti senatore a vita e proiettandolo di fatto nelle istituzioni cosi divenne premier per un fatto consequenziale. Usò ingegno e fantasia». Quali furono gli episodi che lo misero in crisi?

«Ci fu il conflitto sul decreto legge che intendeva superare la sentenza di Eluana Englaro. In quel caso mostró un potere di controllo del presidente della repubblica sulla decretazione d'urgenza diventato poi più incisivo, dimostrando che sono gli uomini a determinare il movimento della "fisarmonica" costituzionale». Come riuscì a cambiare gli equilibri del Paese ed internazionali? «Napolitano è stato l'unico ex comunista presidente della repubblica come Giorgia Meloni ex missina è stato il primo premier donna del Paese. Questo dimostra che sono gli uomini e le donne che incarnano le istituzioni ed è vero anche il contrario perché poi queste figure si istituzionalizzano come nel caso della Meloni. A livello internazionale non ha avuto un ruolo rilevante ha dimostrato e lo dico scherzando che i comunisti non mangiano bambini ed era ben accetto in America perché parlava bene l'inglese». Napolitano politico di professione della prima repubblica si trovo in in un contesto di tipo maggioritario cosa può dirci a riguardo? «Il sistema maggioritario è arrivato nel 1993 quindi prima di Napolitano, che si è trovato a percorrerne la crisi insieme al duello tra Berlusconi e Prodi. Mentre all'inizio della seconda Repubblica si è trovato a gestire un'Italia tripolare perché si erano affermati i 5 stelle e si è fatto carico di numerose critiche per la caduta del Governo Berlusconi e anche adesso che sta male ci sono stati degli episodi in cui è stato fortemente attaccato sui social sempre per lo stesso motivo. Anche la sinistra lo ha attaccato in passato per le intercettazioni della Trattativa Stato-Mafia dove parlava Loris D'Ambrosio ex consigliere del Quirinale con Nicola Mancino. La sentenza della Corte Costituzionale non le ritenne valide. Non si può intercettare il presidente». Qual è la sua eredità? «La sua eredità è che in certe fasi della politica il ruolo di presidente non è solo di rappresentanza ma politico. Ha dimostrato come questa fisarmonica costituzionale possa adattarsi ai vari contesti storici. Napolitano nei suoi discorsi usava una moral suasion, mentre Mattarella ad esempio esercita la sua persuasione in privato».

Da Il Giornale.

Napolitano, una vita di contraddizioni: dai giovani fascisti al Pci. Massimiliano Scafi il 23 Settembre 2023 su Il Giornale.

Record e giravolte del politico che ha segnato la nostra Repubblica: primo comunista negli Usa, al Viminale e al Quirinale, dove restò per nove anni grazie alla storica riconferma. Quando i pm intercettarono i suoi colloqui

Dieci anni di monarchia assoluta. Dieci anni lunghi, intensi, eccessivi. Poi sfinito, a gennaio 2015, King George aveva lasciato il trono, ma solo perché proprio non ce la faceva più. «Ho toccato con mano come l'età comporti crescenti limitazioni - aveva spiegato a Capodanno, pochi giorni prima dell'abdicazione - e non si possono sottovalutare i segni dell'affaticamento». Altrimenti, potete starne certi, sarebbe rimasto ancora là per tutto il secondo mandato a comandare le operazioni, a fare e disfare governi, a organizzare ribaltoni, forse a morire sul campo e non tanti anni più tardi in un letto d'ospedale. E anche dopo, fuori dalla reggia non si è certo comportato come un sovrano emerito, anzi per un bel po' si è fatto sentire: i discorsi a Palazzo Madama, le scudisciare al suo Pd, i consigli a Sergio Mattarella per risolvere le crisi. Altro che pensionato.

Molto odiato, anche molto amato, sicuramente molto contrastato. Quando fu eletto, nel 2006, la maggioranza degli italiani non ne era certo entusiasta. Quando fu confermato, nel 2013, la sua popolarità era schizzata all'85 per cento. Quando si dimise, era crollata al 39. Del resto quella di Giorgio Napolitano non è stata una presidenza leggera, neutra, notarile, ma sempre al limite e talvolta debordante. Come banale non è stata la sua intera vita pubblica.

Primo membro del comitato centrale del Pci ad ottenere un visto per l'America. Primo dirigente politico di livello a sopravvivere al passaggio tra la prima e la seconda Repubblica. Primo comunista ad arrivare al Quirinale. Primo capo di Stato ad essere rieletto per un secondo mandato. Primo presidente in carica a dover subire un interrogatorio dai pm: successe all'epoca del processo sulla presunta trattativa Stato-mafia. E il suo primo viaggio all'estero nel 2006 fu il pellegrinaggio-espiazione a Budapest, dove si inchinò sulla tomba di Imre Nagy: nel 1956, mezzo secolo prima, si era schierato a favore dell'invasione sovietica dell'Ungheria. Ora chiedeva scusa.

Giorgio Napolitano era nato a Napoli il 29 giugno 1925. Figlio di un avvocato della buona borghesia, studi classici, giurisprudenza alla Federico II, una passione per la letteratura e il teatro che gli è rimasta sempre. Da ragazzo aveva recitato da protagonista in Viaggio a Cardiff, di William Butler Yeats. Tanti anni dopo, nel 1994, sotto lo pseudonimo di Tommaso Pignatelli, scrisse una raccolta di sonetti, Pe' cupia' o chiarfo, per copiare l'acquazzone, apprezzata da Natalia Ginsburg. Elegante, sobrio, parlava un inglese perfetto: nel Pci, anche per le sue posizioni «di destra», lo chiamavano l'amerikano. Oppure re Umberto: erano quasi identici.

E «di destra» lo è stato davvero, quando all'università si era iscritto al Guf. Poi nel 1944 cominciò a frequentare il gruppo di comunisti napoletani e l'anno dopo entro nel Pci. Deputato dal 1953, allievo di Giovanni Amendola, diventò presto uno degli esponenti di maggior peso dell'ala moderata e riformista, i miglioristi, che più tardi si avvicinarono alla socialdemocrazia e alla Ostpolitik di Willy Brandt. Negli anni settanta svolse una notevole attività all'estero, tenendo conferenze in Gran Bretagna, Germania e Usa.

Doveva diventare segretario nel 1983, alla morte di Enrico Berlinguer. Era scritto, scontato, invece gli fu preferito il più grigio e ortodosso Alessandro Natta. Nel 1991, nel mezzo della guerra del Golfo, da europarlamentare e ministro degli Esteri ombra ruppe una specie di tabù, organizzando uno storico viaggio in Israele e riportando le posizioni di Botteghe Oscure verso una maggiore attenzione alle istanze della comunità ebraica. Nel 1992 venne eletto presidente della Camera. L'anno successivo, in piena Tangentopoli, fece cacciare via un ufficiale della Guardia di finanza che si era presentato a Montecitorio sventolando un ordine di esibizione dei bilanci dei partiti, firmato da Gherardo Colombo. Però pretese che le autorizzazioni a procedere contro Bettino Craxi fossero votate a scrutinio palese.

Nel 1996 Romano Prodi lo scelse come ministro degli Interni: sua, insieme alla Turco, la prima legge sul controllo dell'immigrazione, contestata all'epoca da sinistra perché considerata troppo dura. Dopo la caduta del governo del Professore, tornò al Parlamento europeo, finché Ciampi non lo nominò senatore a vita. Il dieci maggio 2006, al quarto scrutinio, superando la candidatura di Massimo D'Alema, venne eletto undicesimo presidente della Repubblica italiana. Un margine stretto, 543 voti. Iniziò il settennato mandando Prodi a Palazzo Chigi, omaggiando Nagy, concedendo la grazia a Bompressi e volando a Berlino per la finale dei mondiali di calcio Italia-Francia. Due anni dopo Silvio Berlusconi rivinse le elezioni e per Napolitano si aprì un difficile periodo di coabitazione. Seguendo le orme di Ciampi, re Giorgio cercava di limitare il Cav con la moral suasion con successi alterni. Criticato da destra perché cercava di frenare le leggi più discusse, criticato pure da sinistra perché non si opponeva abbastanza e quei provvedimenti, dopo tanti tira e molla, alla fine li controfirmava.

Si andò avanti così fino al 2011, quando Berlusconi, indebolito da alcune defenzioni nella maggioranza, malvisto da Francia e Germania e sotto pressione per lo spread schizzato a livelli record, fu fortemente convinto a passare la mano a Mario Monti, che nel frattempo King George aveva prontamente nominato senatore a vita. Regista dell'operazione, voluta da Bruxelles e ritenuta un golpe da Forza Italia, Napolitano. Monti e i suoi tecnici governarono un annetto, con il sostegno di quasi tutti i partiti. Nel 2013 nuove elezioni con la vittoria dimezzata del Pd, che ottenne la maggioranza solo alla Camera. Il capo dello Stato diede l'incarico a Pierluigi Bersani, che cercò nei Cinque stelle i numeri mancanti e ottenne solamente un umiliante e inconcludente confronto in streaming con i grillini. Il sistema si bloccò.

Nel frattempo stava scadendo anche il primo settennato. Senza governo, senza un accordo, senza un nome per la presidenza: ecco avverarsi il temuto ingorgo istituzionale, ecco la processione di leader sul Colle per chiedere a Napolitano di concedere il bis. Il 20 aprile 2013, stavolta con 738 voti, nacque il Giorgio II. Tre giorni più tardi, dopo un discorso di fuoco di Napolitano alle Camere, Enrico Letta si insediò a Palazzo Chigi a capo di un esecutivo di unità nazionale con lo scopo di fare le riforme.

Ma in autunno la condanna di Berlusconi e la sua incandidabilità provocò l'uscita del centrodestra dalla coalizione. Letta tirò avanti per un po', finché il Quirinale non lo sostituì con l'astro nascente Matteo Renzi. Per Napolitano ancora un paio d'anni, fino alle dimissioni nel 2015. Una lunga monarchia condizionata dalla crisi economica e dal vuoto di potere della politica, che il Re della Repubblica ha riempito, segnata pure da ruvidi scontri tra Colle e magistratura, fatta di tanti rimproveri ai giudici «protagonisti», culminata con l'intercettazione «casuale» di un colloquio tra il presidente e Nicola Mancino e il conflitto di attribuzione con la procura di Palermo. I dieci anni di Re Giorgio. Troppi, secondo i suoi critici.

Re Giorgio, il presidente monarca che ha comandato per nove anni al Colle. Napolitano si è spento alle 19,53 a 98 anni Il suo lungo regno da capo dello Stato rieletto e la vita sotto il segno del Pci. Guidò anche la Camera dei deputati. Il feretro al Senato. Massimiliano Scafi il 23 Settembre 2023 su Il Giornale.

Quasi un secolo di vita, 98 anni, combattuti fino all'ultimo. Gravissimo da un paio di settimane, qualche giorno fa i medici del Salvator Mundi avevano perso le speranze e confidavano solo «nella sua forte tempra» ma lui continuava a tenere botta. Quasi un secolo, che racchiude tutte le forze e le contraddizioni e i contrasti nel nostro recente passato. Come dice adesso Sergio Mattarella, l'uomo che ha ereditato il suo regno. «Nell'esistenza di Giorgio Napolitano si specchia larga parte della storia della seconda metà del Novecento, con i suoi drammi, con la sua complessità, con i suoi traguardi».

King George, il re della Repubblica, è morto in serata. Accanto a lui la moglie Clio e i due figli. Ora la camera ardente al Senato. Se ne va il monarca che per più di nove anni ha comandato le operazioni dal Colle. Il presidente dei record, del braccio di ferro con Silvio Berlusconi, del ribaltone, dei poteri elastici, degli scontri con i magistrati politicizzati. Luci, ombre, un uomo molto amato e insieme molto odiato. Comunque non un personaggio banale.

Primo esponente del Pci a piacere agli Usa: l'ambasciatore Gardner lo incontrava di nascosto. Primo dirigente del Bottegone a parlare un inglese fluente e ad ottenere il visto per Washington: nel partito, dove era sempre in minoranza, lo chiamavano l'amerikano. Primo comunista a salire al Quirinale. Primo presidente della Repubblica ad essere rieletto. Primo capo di Stato a subire un interrogatorio dai pm di Palermo.

Da tempo era ricoverato al Salvator Mundi, in «un quadro generale particolarmente complesso». Da una settimana si era pure aggravato e, raccontano fonti sanitarie, «nelle ultime ore la situazione si era ulteriormente complicata». Appeso un filo, che si è spezzato. E non è vero, fanno sapere dalla famiglia, che i medici avessero staccato le macchine che lo aiutavano a respirare. Nessun accanimento terapeutico ma anche nessuna forma di accompagnamento.

Del resto l'ex capo dello Stato ha una storia medica complessa. Già nel 2013, alla conclusione del suo primo mandato, era pronto ad abbandonare Il Quirinale. La fatica, gli acciacchi, pareva difficile restare lì nonostante il peggioramento della situazione politica. Le elezioni senza vincitori, nessun nome alternativo per il Colle, Romano Prodi e Franco Marini impallinati dal fuoco amico dei franchi tiratori del Pd, i grillini per conto loro impantanati nella candidatura di Stefano Rodota. L'ingorgo istituzionale, la tempesta perfetta che stava per inghiottire il Paese. Niente governo, niente presidente della Repubblica, nessuno che potesse sciogliere di nuovo le Camere e rimandare gli italiani alle urne.

Così i leader dei principali partiti di centrosinistra e centrodestra erano saliti per le scale del palazzo dei Papi e avevano chiesto a King George di restare ancora sul trono. Lui, la salute già traballante, compiuti già novant'anni, si era fatto convincere per spirito di servizio, battezzando un governo di unità nazionale guidato da Enrico Letta con al primo punto del programma le riforme istituzionali. Unica condizione, la durata del mandato: io rimango, però non per sette anni.

Il patto era durato poco, il tempo che un tribunale condannasse il Cav e che il centrodestra uscisse dalla maggioranza. Poco era durato pure il picco di popolarità di Napolitano, che aveva raggiunto il suo massimo con il discorso nel quale ha scudisciato il Parlamento incapace.

Nel gennaio del 2015 le dimissioni, da presidente più anziano della storia d'Italia. A Palazzo Giustiniani aveva continuato a seguire la politica: incontri, discorsi, suggerimenti a Mattarella su come gestire le crisi. Ma le sue condizioni iniziavano a peggiorare. Nel 2018 un malore improvviso e il ricovero d'urgenza all'ospedale San Camillo, dove il professor Francesco Musumeci lo aveva operato per la dissecazione dell'aorta. Giorni passati tra la vita e la morte, poi il recupero «grazie alla sua forte fibra». Nel maggio 2022 altro allarme, quando re Giorgio fu costretto a subire un intervento addominale allo Spallanzani. Due ore sotto i ferri, nove giorni di convalescenza prima di rientrare nella sua casa al quartiere Monti. «Ha tempra e coraggio da vendere», le parole di Giuseppe Ettorre, il chirurgo oncologo. Infine, l'ultimo ricovero.

L'eterno comunista: con i carri armati russi e contro Solzenicyn. La vita intera e la carriera in ossequio all'unica "Chiesa": il Pci e l'Urss. Nel '56 condannò la rivolta ungherese, poi attaccò ogni dissidente. Roberto Chiarini il 23 Settembre 2023 su Il Giornale.

Da quando è caduto il muro di Berlino e con esso è crollato anche da noi il Pci, abbiamo scoperto che, nonostante il partito comunista italiano avesse avuto un seguito di massa, e anche la convinta adesione di una gran parte del mondo intellettuale, i comunisti erano stati pochi. E quei pochi che c'erano, lo erano stati comunisti di un comunismo speciale. Veltroni ha voluto far credere che non è mai stato comunista. È stato solo direttore dell'Unità, quotidiano del partito comunista. D'Alema ammette, anzi rivendica, sì, di esser stato comunista, ma orgogliosamente un comunista italiano. Insomma, l'esser stati comunisti in Italia non avrebbe significato semplicemente cercare un'originale «via italiana al socialismo», ma qualcosa che col comunismo realizzato non aveva nulla a che fare. Il comunismo italiano era così originale che finiva di essere comunismo. Era invece vuoi il propugnatore di «una democrazia progressiva» vuoi la piena attuazione della «Costituzione più bella del mondo» vuoi il presidio contro il risorgente pericolo fascista.

Come è stato possibile, vien da chiedersi, che si sia perpetuata la contraddizione di professarsi comunisti e di vantarsi democratici? Più che una contraddizione, a ben guardare, si dovrebbe parlare di dissociazione tra ideologia professata e politica perseguita. Da una parte c'erano i comportamenti di un partito che prima ha combattuto per la rinascita della democrazia e poi per la sua difesa e compimento. Dall'altra continuava a professare un'ideologia che fungeva da collante di una comunità di fedeli erogando loro una gratificazione simbolica capace di alimentare una passione e una militanza uniche nella storia d'Italia.

In poche parole, professarsi comunisti significava sentirsi - ed essere - una forza democratica di sinistra, ma al contempo nutrire un'identità utile a farsi sentire un partito diverso, alternativo, incontaminato rispetto alla dominante politica politicante di un'Italia sempre a rischio di cadere nel gorgo di un neofascismo mai davvero debellato e comunque incapace di realizzare una democrazia compiuta. Questa dissociazione comportava certo dei benefici politici: salvaguardare la saldezza di una chiesa che rimaneva al riparo dalle dure repliche della storia.

La biografia politica di Giorgio Napolitano è per certi versi illuminante e emblematica di questa contraddizione. Lui, comunista migliorista, ossia esponente di quell'ala del Pci che degli orrori del comunismo reale aveva preso coscienza, nei momenti più drammatici di vita del comunismo internazionale ha dovuto chinare la testa e adeguarsi all'obbedienza che richiedeva la chiesa comunista.

Nel 1956, di fronte alla rivolta di Budapest non se l'è sentita di disobbedire e ha avallato il sopruso consumato dalla madre patria del comunismo a danno di un popolo che anelava solo alla libertà. La repressione del moto ungherese era necessaria sostenne - per «salvare la pace nel mondo».

Ancora. Nel febbraio 1974, pochi giorni prima dell'espulsione di Aleksandr Solzenicyn dall'Urss, fu autore di una nota riservata del Pci nella quale veniva attaccato lo scrittore perché con la sua dissidenza avrebbe danneggiato l'Urss e la distensione.

La difficoltà a sostenere la dissidenza degli artisti dell'Est ritorna nel 1977, in occasione della Biennale del dissenso organizzata a Venezia da Carlo Ripa di Meana. Napolitano non prese le distanze dalla linea, fatta di ostracismo e di ostacoli frapposti al suo finanziamento, seguita dal Pci.

A comunismo defunto, è tornato a riflettere sul travagliato percorso della sua vita di comunista. «Il sentiero della mia vita (riconobbe con indubbia sincerità ma anche con una punta di auto-assoluzione) è un processo passato attraverso prove ed errori. Ho attraversato delle revisioni profonde, molto meditate e intensamente vissute».

La sua storia insegna che l'esser stati sostenitori di una via originale al socialismo, come lo fu convintamente il Pci, non ha evitato ai suoi dirigenti di sottostare a lungo all'obbligo di obbedienza al comunismo ortodosso, alla sua ideologia, all'internazionalismo, rendendo con ciò impossibile una riunificazione con la sinistra che col totalitarismo comunista aveva già fatto i suoi conti. Roberto Chiarini

Le prove delle trame tra il Quirinale e i pm. "I contatti partirono appena vinse il Cav". Nel libro "Il Sistema" scritto con Sallusti, l'ex leader Anm Palamara svelò la mobilitazione delle toghe per minare l'ultimo governo Berlusconi. "Colloqui diretti con Napolitano". Redazione il 23 Settembre 2023 su Il Giornale.

Nel libro confessione «Il sistema» scritto con Alessandro Sallusti, l'ex magistrato Luca Palamara, capo della politica giudiziaria negli anni dell'antiberlusconismo, svela come le toghe si mossero in costante contatto con il Quirinale fin dal 2008, anno in cui il centrodestra stravince le elezioni. «L'8 maggio 2008 si insedia il quarto governo Berlusconi- racconta Palamara e a svolta non ci trova pronti, la giunta Anm centrista monocolore di cui in quel momento ero segretario era troppo debole per affrontare la guerra che ci aspettava. Ne ero pienamente consapevole, e siccome l'esito elettorale la vittoria del centrodestra era nell'aria, le trattative per rafforzarla iniziarono ben prima del voto. Il mio maestro Marcello Matera mi fa capire che è necessario allargare velocemente la giunta alle correnti di sinistra, in primis Magistratura democratica. A chiederlo sono sia la sinistra politica sia quella giudiziaria. E lo chiedono a gran voce le procure più importanti a partire da quella di Milano guidata da Bruti Liberati, storico leader associativo che temono di rimanere senza scudo protettivo. Si fanno incontri sia con il Pd sia con Loris D'Ambrosio, consigliere giuridico del presidente Napolitano: se Berlusconi è tornato anche noi dobbiamo tornare in campo. Bisogna agire in fretta, e soprattutto bisogna fare posto in giunta a Magistratura democratica, che pretende e ottiene la poltrona di segretario generale».

Da lì in poi fu un assalto giudiziario al Cavaliere e ai suoi uomini, Palamara è a capo di quel sistema.

Chiede Sallusti: «Una cosa è difendere i magistrati che indagano su un esponente politico avverso a buona parte della categoria, un'altra essere testimoni, attivi o passivi me lo dirà lei, di un governo che tra mille polemiche e in un momento di grande tensione economico-finanziaria sta per essere accompagnato alla porta. Lei che ruolo gioca in quei mesi del 2011 in cui si prepara l'assalto finale a Berlusconi?».

Risponde Palamara: «Nella decisiva estate del 2011 mi era capitato di avere colloqui diretti con il presidente Napolitano, a volte bypassando anche il protocollo. Il presidente voleva capire da me come l'Anm intendeva muoversi su quel delicato e incandescente scacchiere di fine anno. I primi di novembre mi chiama Loris D'Ambrosio siamo nei giorni della piena emergenza economica per lo spread alle stelle per dirmi che era opportuno fare una chiacchierata di persona con il presidente e di portare pure Giuseppe Cascini, segretario dell'Anm e uno dei leader della sinistra giudiziaria. Il governo Berlusconi era sotto bersaglio da più parti e nel colloquio avemmo una sorta di anticipazione implicita che presto sarebbe finita un'epoca, un ciclo. All'uscita dal Quirinale mi ricordo perfettamente la frase di Cascini: Ti rendi conto, ci ha fatto capire che per Berlusconi è finita. Missione compiuta, abbiamo portato a casa la pelle, la città è salva, anche il nostro compito è finito».

Sallusti incalza: sia più preciso, che cosa vi siete detti lei e Napolitano? «Parliamo di un momento delicatissimo risponde Palamara - in cui c'era un governo in difficoltà, ma pur sempre in carica. Diciamo che è stato un po' il resoconto della nostra attività, che il Quirinale aveva costantemente, anche tramite Loris D'Ambrosio, seguito da vicino e condiviso. È pacifico che tutte le iniziative e le posizioni assunte dall'Anm di quegli anni erano sostenute dal presidente della Repubblica. La mia percezione fu che questo incontro, diciamo così, suggellasse il lavoro svolto in una fase specifica. Per capirci, nessuno disse esplicitamente: Abbiamo mandato via Berlusconi, ma il senso del discorso portava a quella conclusione. Qualche giorno dopo, il 16 novembre, Berlusconi sale al Colle per dimettersi e inizia la stagione di Mario Monti».

Valeria Di Corrado per il Messaggero - Estratti il 10 ottobre 2023.

Non può essere ritenuto una vittima del dovere Loris D'Ambrosio, il consigliere giuridico del Quirinale (durante la presidenza di Giorgio Napolitano) morto nel 2012 per un infarto. È questa la conclusione alla quale è arrivata la quarta commissione del Csm, che ha chiesto perciò al plenum di bocciare l'istanza per il riconoscimento del beneficio presentata dai familiari del giurista. 

Oltre alla decisione in sé, a colpire è anche il clamoroso ritardo della risposta da parte del Consiglio superiore della magistratura: più di sei anni, considerato che la richiesta è datata 21 luglio 2017. Un ritardo che comunque non è addebitabile (se non in minima parte) alla consiliatura in carica a Palazzo dei Marescialli, ma a quella precedente. 

LA VICENDA D'Ambrosio fu colpito dall'infarto in un momento difficile della sua vita: era stato oggetto di attacchi e critiche dopo che era stato pubblicato il contenuto delle sue telefonate con l'ex ministro dell'Interno Nicola Mancino. Intercettazioni finite nel fascicolo della procura di Palermo, che indagava sulla presunta trattativa tra Stato e mafia.

«Una campagna violenta e irresponsabile di insinuazione e di escogitazioni ingiuriose di cui era stato pubblicamente esposto, senza alcun rispetto per la sua storia e la sua sensibilità», come scrisse Napolitano nella nota con la quale annunciò, «con profondo dolore e animo sconvolto», la morte del suo «prezioso» collaboratore, «impegnato in prima linea anche al fianco di Giovanni Falcone». Alla pubblicazione delle telefonate di D'Ambrosio erano seguite indiscrezioni sulle chiamate captate tra Napolitano e Mancino, che portarono l'allora capo dello Stato a sollevare il conflitto di attribuzioni davanti alla Corte Costituzionale nei confronti della procura di Palermo. 

L'ISTANZA Un anno dopo la morte del giurista, gli eredi chiesero di accedere ai benefici previsti per i familiari di chi è stato vittima del dovere, o «equiparato vittima del dovere», previsti dalla legge 206 del 2004. La quarta commissione del Csm ha recepito senza modificarlo il parere dell'Ufficio Studi di Palazzo dei Marescialli, che analizzando nel dettaglio la normativa ha escluso che ci potessero essere spiragli per il riconoscimento a D'Ambrosio dello status di «vittima del dovere». Ora la parola passa al plenum, che si pronuncerà domani.

Ma è difficile che possa capovolgere la decisione, considerato che in commissione è passata all'unanimità. I familiari delle vittime del dovere hanno diritto al risarcimento di tutti i danni, patrimoniali e non patrimoniali, oltre a un vitalizio mensile, l'esenzione dal pagamento del ticket sanitario, l'accesso a borse di studio e l'assistenza psicologica.

L'uomo di Stato e la macchina del fango. Loris D’Ambrosio morì di malagiustizia e di gogna mediatica: il Csm riconosca il professore “vittima del dovere”. Benedetta Frucci su Il Riformista l'11 Ottobre 2023

La quarta commissione del Consiglio Superiore della Magistratura ha respinto la richiesta di dichiarare Loris D’Ambrosio “vittima del dovere”. Una decisione che, nel rispetto delle valutazioni fatte dai consiglieri, lascia l’amaro in bocca. Loris D’Ambrosio è stato per tutti l’incarnazione del servitore dello Stato. Ha dedicato anima e corpo alle istituzioni e alla lotta alla mafia. Al ministero della Giustizia con Falcone e poi con Diliberto, Castelli, Alfano, Severino. Al Quirinale con Carlo Azelio Ciampi e con Giorgio Napolitano poi. Fu coinvolto nel processo farsa sulla trattativa Stato-Mafia, furono pubblicate le sue conversazioni con Mancino, fu vittima di una campagna di odio da parte dei soliti noti. Offrì le sue dimissioni a Napolitano nonostante tutto e il Presidente le rifiutò con forza, ribadendogli la sua stima e la sua fiducia.

Loris D’Ambrosio morì d’infarto, proprio nei giorni in cui la macchina del fango si accaniva contro di lui. Tutti raccontano che ne soffrì in modo totalizzante. Si racconta a ragione che ne soffrì moltissimo anche Giorgio Napolitano: come accade a tutte le vittime di pm ideologizzati che vedono colpiti non tanto e solo se stessi, ma anche gli amici, i consiglieri, i collaboratori. Durissime furono le parole del Presidente: “Insieme con l’angoscia per la perdita gravissima, atroce è il mio rammarico per una campagna violenta e irresponsabile di insinuazioni e di escogitazioni ingiuriose cui era stato di recente pubblicamente esposto, senza alcun rispetto per la sua storia e la sua sensibilità”. E quando arrivò a Londra, alla vigilia delle Olimpiadi, compiuto il suo dovere si ritirò dicendo: “Non resto a cena al Villaggio, non voglio che il mio stato d’animo pesi sulla vostra allegria”.

Riconoscere D’Ambrosio vittima del dovere non sarebbe stata certo un’esagerazione: di gogna mediatica, di mala giustizia e del dolore che provocano si muore. E si può solo immaginare il dolore che possa aver provato un uomo così retto, un uomo di Stato appunto, davanti a quelle accuse così terribili. Loris D’Ambrosio è l’immagine perfetta delle conseguenze nefaste sulla vita delle persone che provoca la saldatura fra pm ideologizzati e una certa stampa. Per questo voglio rivolgere da queste pagine un appello al nuovo Csm, che ha già dato prova di essere di tutta altra caratura rispetto ai precedenti, che con il suo Presidente Pinelli ha dimostrato in più occasioni di possedere ed esercitare equilibrio nelle scelte: quando la pratica arriverà al plenum, la invii nuovamente in commissione affinché sia approfondita la questione. È l’appello di chi ha conosciuto l’umanità, la compostezza, il calore non dell’uomo di Stato, ma del professore. Il professore che alla fine di una lezione sul diritto penale, si fermò a discutere con una studentessa dubbiosa e preoccupata per il rispetto dei diritti umani sul perché il 41bis che aveva contribuito a scrivere era stato fondamentale nella lotta alla mafia e su come i diritti del detenuto venivano comunque garantiti.

Il professore che raccontava di quanto la Mafia fosse crudele, senza paura, con il suo tono composto. E quando arrivò a parlare del piccolo di Matteo, il religioso silenzio con cui le lezioni erano seguite fu rotto dalla commozione.

Da studenti non avevamo troppa consapevolezza del suo peso nelle istituzioni. Ma alla fine del corso, eravamo certi di aver trovato un esempio da seguire. Sarebbe davvero un gesto potente, riconoscerlo vittima del dovere. Per D’Ambrosio e per tutti coloro (a partire da Enzo Tortora) che di malagiustizia sono morti.

Benedetta Frucci 

La gogna. Per il Csm “D’Ambrosio non è vittima del dovere”, ma il capo della magistratura si ribella. Dalla presidente della Corte di Cassazione unico no nel Plenum alla delibera che nega il riconoscimento al magistrato morto d’infarto nel 2012 dopo essere stato infangato nel processo “Trattativa Stato-Mafia”. Paolo Comi su L'Unità il 12 Ottobre 2023

“Ciascuno di noi di fronte alla propria coscienza è tranquillo che questa pratica possa essere deliberata in questo modo o noi avremmo il dovere di integrare la rappresentazione dei fatti per avere una nuova valutazione da parte della Commissione tecnica competente che possano disporre di un quadro che qui è monco e parziale?”. A dirlo ieri in Plenum è stata Margherita Cassano, presidente della Corte di Cassazione, prima di votare, da sola, contro la delibera che ha negato il riconoscimento di vittima del dovere a Loris D’Ambrosio.

“Nell’ultimo periodo di servizio prestato presso il Quirinale è stato esposto ad un’inaccettabile gogna mediatica rivolta di fatto al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, è stato il garante della stabilità delle istituzioni democratiche nel momento in cui si poneva il problema di intercettazioni telefoniche in cui era coinvolto il presidente”, ha aggiunto Cassano. E nelle carte del Csm che fanno concludere per negargli il riconoscimento di vittima del dovere “è stato omesso l’esame di questa parte della storia drammatica di questo collega, di cui ciascuno di noi è debitore perché è una figura rara di rigore professionale, competenza e totale dedizione alla causa dello Stato”.

Il Csm ha tenuto conto nella sua valutazione anche del parere di una Commissione medico-legale. Ma questa Commissione, ha obiettato Cassano, “non ha potuto valutare i fatti nella loro interezza”, perché fondata su informativa della Procura generale di Roma, risalente al 2018, che ha fornito “notizie parziali e lacunose” ignorando proprio l’ultima parte dell’esperienza professionale di D’Ambrosio.

Di diverso avviso, invece, il Plenum che ha votato, con due astensioni, una quanto mai ‘burocratica’ delibera, appiattita sulle pronunce dei giudici amministrativi in materia.

Nel 2015 il decesso di D’Ambrosio avvenuto nell’estate di tre anni prima, scrive il Csm, veniva riconosciuto dipendente da causa da servizio, con il conseguente diritto all’equo indennizzo in relazione all’infermità di cui era affetto. Due anni più tardi, però, i familiari del magistrato inviavano al Ministero della giustizia una istanza tesa al riconoscimento dello status di “vittima del dovere” o “equiparato vittima del dovere”, e dei correlati ulteriori benefici. Il procuratore generale presso la Corte di Appello di Roma, nel 2018, forniva elementi utili per la valutazione circa la sussistenza delle condizioni per il riconoscimento dello status richiesto. Passa un altro anno e la Commissione medica decise di escludere sulla base delle evidenze agli atti, che la patologia che aveva causato il decesso potesse essere considerata come “contratta in occasione od a seguito” di una particolare missione svolta in vita dall’interessato, rimettendo alla Comitato di Verifica l’eventuale attribuzione della stessa a “particolari condizioni ambientali od operative di missione”.

Il Comitato di Verifica, a giugno dello scorso anno, espresse un parere negativo, rilevando che “dall’esame degli atti non si evidenziano condizioni ambientali od operative di missione comunque implicanti l’esistenza o il sopravvenire di circostanze straordinarie e fatti di servizio che abbiano esposto il dipendente a maggiori disagi o fatiche in rapporto alle ordinarie condizioni di svolgimento dei compiti di istituto ….”. L’incartamento veniva così inviato dal Ministero al Csm che la scorsa primavera chiedeva un parere all’Ufficio studi il quale, dopo sei mesi, stroncava ogni possibile richiesta dei familiari di D’Ambrosio.

Palazzo dei Marescialli in serata ha fatto filtrare un laconico commento. “Pur riconoscendo a D’Ambrosio trascorsi umani, professionali e istituzionali di raro spessore, il Csm non può sottrarsi all’applicazione delle norme che regolano la materia sottoposta alla sua attenzione e, nel caso di specie, nessun ulteriore approfondimento avrebbe potuto condurre a ravvisare quelle condizioni ambientali od operative di missione comunque implicanti l’esistenza o il sopravvenire di circostanze straordinarie e fatti di servizio che abbiano esposto il dipendente a maggiori disagi o fatiche in rapporto alle ordinarie condizioni di svolgimento dei compiti di istituto ….” necessarie per il riconoscimento dello status richiesto. Insomma, la gogna non conta. Paolo Comi 12 Ottobre 2023

Morto re Giorgio, un plenum burocrate archivia la “pratica” senza avere più imbarazzi. La decisione del Csm di negare a D’Ambrosio il riconoscimento di essere stato “vittima del dovere”, pone due rilevanti problemi e lascia sul terreno, di conseguenza, due ombre che sarà difficile cancellare. Tiziana Maiolo su Il Dubbio il 12 ottobre 2023

Giorgio Napolitano, presidente della Repubblica e anche del Csm non c’è più, ma sarà una coincidenza se a pochi giorni si sono aperti i cassetti e il “corpo estraneo” è venuto fuori: la pratica Loris D’Ambrosio. Superato l’imbarazzo del ricordo di qualcosa di terribile che aveva portato alla morte per infarto, quasi un suicidio per istigazione, il consigliere giuridico del Presidente, la pratica è stata archiviata, con fredda indifferenza. Indifferenza di almeno tre ministri guardasigilli, a partire dal 2017, e cioè Orlando, Bonafede e Cartabia, che hanno l’hanno tenuta nel cassetto. Ma non particolare speditezza e attenzione anche da parte dello stesso Csm. Che comunque l’ha archiviata.

La decisione del Csm di negare a D’ambrosio il riconoscimento di essere stato “vittima del dovere”, pone due rilevanti problemi e lascia sul terreno, di conseguenza, due ombre che sarà difficile cancellare. La prima riguarda lo stesso ruolo del Csm e la sua capacità di essere laico e “politico” pur senza ricadere in quella lottizzazione e guerra tra correnti che avevano caratterizzato un certo passato. Cioè quel lungo periodo di cui fu protagonista tra gli altri Luca Palamara, che ha saputo ben raccontarlo per poi prenderne le distanze, ma che ha pagato per tutti finendo radiato dalla magistratura. Essere diversi da quel che furono i colleghi, magistrati e laici d’un tempo, non può però significare che si debba cadere da un eccesso di politicità a un eccesso di cinica burocratizzazione. Come a dire che, se non ci è più concesso di sguainare ogni giorno spade e spadoni, di impallinare il politico che ci sta antipatico, di esercitarci allegramente nella giurisprudenza creativa, allora noi usciamo dal cono della politica e ce ne laviamo le mani.

Che Loris D’Ambrosio sia stato una vittima è difficile da negare. Poi diremo di chi e di che cosa. Limitiamoci per ora al fatto. Che riguarda una famiglia che ha perso d’improvviso, non per un infarto capitato per caso, ma per un crepacuore determinato, come disse Napolitano, da “una campagna e irresponsabile di insinuazione ed escogitazioni ingiuriose di cui era stato pubblicamente esposto, senza alcun rispetto per la sua storia e la sua sensibilità”, un uomo fino a poco prima rispettato e ammirato. Una famiglia che chiede gli venga riconosciuto il titolo non di eroe ( che avrebbe meritato) ma di caduto sul lavoro, vittima del dovere o “equiparato vittima del dovere”, come previsto dalla legge 206 del 2004. Possibile che tre diversi ministri di differenti maggioranze politiche siano stati indifferenti?

Grave anche il fatto che improvvisamente gli eroi della giurisprudenza creativa che affollano il mondo delle toghe dai luoghi più periferici del mondo giudiziario fino allo stesso Csm si siano trasformati in freddi burocrati ligi alle virgole e incapaci persino di comprendere il significato in lingua italiana del termine “equiparato”. Così la mancanza di quel nesso di causalità che dovrebbe concatenare gli eventi e che così spesso sono gli avvocati difensori a denunciare nei processi penali, al Csm è diventata così palese da schierare laici, togati, di destra, di sinistra e agnostici fino a liberarsi nel suo nome di quel fardello che la presenza di Napolitano in vita rendeva imbarazzante.

Quando la norma definisce vittime del dovere i dipendenti pubblici deceduti o rimasti invalidi “in conseguenza di eventi verificatisi nel contrasto ad ogni tipo di criminalità, nello svolgimento di servizi di ordine pubblico” eccetera, dobbiamo o no interpretare? È quel che magistrati di ogni livello praticano tutti i giorni, e che noi spesso critichiamo quando siano palesi gli eccessi. Ma ieri, al plenum del Csm e già due giorni prima nella quarta commissione, non un’ombra di dubbio pare aver solcato la fronte dei consiglieri.

Con l’eccezione di Margherita Cassano, prima presidente della Cassazione, che non voterà a favore della delibera, manifestando “fortissimi dubbi e perplessità” e porrà la domanda: ma siete sicuri che non ci sia stato un legame tra i due eventi? Cioè, interpretiamo, tra il randellamento costante e preciso sul corpo e sullo spirito di D’Ambrosio, colpevole di aver risposto al telefono mentre chiamava non il capo dei corleonesi, ma un ex ministro nonché vice del Csm di nome Nicola Mancino, e poi la perdita della vita. E qui veniamo alla seconda ombra che la decisione di ieri del Csm lascia sul terreno. Un non- detto alto come un grattacielo.

Il processo “trattativa Stato- mafia”, che non è stato solo la bufala del secolo, ma qualcosa di molto più grande e pericoloso. Perché Loris D’Ambrosio, quando ha risposto a quella telefonata, che era lo sfogo di un personaggio inquisito ed esposto a ogni tipo di violento sberleffo, ma poi assolto, si è messo involontariamente dall’altra parte della barricata. Quella dei “nemici” di chi quel processo aveva istruito e voluto. Quella in cui c’erano tutti gli innocenti di quel processo, da Mancino a Mannino, dal generale Mori fino a Marcello Dell’Utri. E ha automaticamente commesso il reato di lesa maestà. Così le bastonate sono arrivate anche addosso a lui, e fino al Presidente Napolitano, costretto a sollevare conflitto di attribuzioni alla Corte Costituzionale.

Una ferita che evidentemente è ancora aperta, nonostante su quel processo i giudici abbiano detto la parola definitiva, stabilendo che era solo un colossale imbroglio. Un riconoscimento da parte del Csm alla memoria di una toga che era senza macchia e fu trattata come sporca da quel carrozzone mediatico- giudiziario di allora, sarebbe stato un gesto politico importante. E avrebbe chiuso una storia. È prevalsa l’ignavia, prima del mondo politico, e poi del Csm, che l’ha travestita da virtuosa applicazione della norma. E rimangono ombre sul terreno, dove la bufala- trattativa pare non morire mai.

"Perse l’occasione di pacificare il Paese quando non concesse la grazia a Berlusconi". Il vicepresidente della Camera: «Napolitano fu una delle figure più autorevoli nella storia del Pci. Tanto che Henry Kissinger lo chiamava “il mio comunista preferito”». Stefano Zurlo il 23 Settembre 2023 su Il Giornale.

L’omaggio non è rituale: «Sa come lo chiamava Henry Kissinger?

Come? «My favourite communist, il mio comunista preferito».

Giorgio Mulè, vicepresidente della Camera e dirigente di Forza Italia, ricorda un altro episodio della lunga biografia di Giorgio Napolitano: «Fu fra i primi comunisti a cui gli americani diedero il visto d’ingresso in un’epoca in cui Botteghe oscure dipendeva da Mosca».

Re Giorgio, fu ribattezzato.

«Una figura imponente che qualche volta è rimasta intrappolata in una visione di parte, in molte occasioni invece ha saputo trovare una sintesi per il bene del Paese».

Per esempio?

«Sulla giustizia, capitolo incandescente per tanti anni. Napolitano e i miglioristi avevano posizioni non legate a schemi di parte, soprattutto avevano compreso bene la svolta giustizialista di alcune frange della magistratura».

Con Berlusconi però andó in un altro modo.

«Credo sia stata un grande occasione persa». 

Si riferisce alla mancata concessione della grazia dopo la condanna definitiva per frode fiscale nel 2013?

«Certo, quello era il momento in cui dopo vent’anni di duelli e polemiche, il presidente avrebbe potuto portare per mano il Paese verso la pacificazione».

C’era una sentenza definiva di condanna. Come si poteva mettere fra parentesi quel verdetto?

«Uno dei giudici di quel collegio, non qualcuno di Forza Italia, parló di un plotone di esecuzione. C’erano tutte le premesse, secondo me, per trovare una via d’uscita onorevole per tutti, ma Napolitano non se la sentì e la trattativa morì sul nascere perchè vincolata a richieste impossibili: il provvedimento di clemenza in cambio di un’uscita di scena del Cavaliere. Inaccettabile e infatti non se ne fece nulla. Peccato, perché Napolitano era un personaggio autorevole, capace con il suo carisma e la sua biografia di far compiere un passo in avanti all’Italia. Come invece fu in altre circostanze, quando spinse il suo partito verso il Patto Atlantico e la Nato». 

Un campione della democrazia in un Pci che non aveva abbandonato del tutto il mito della Rivoluzione?

«Si. E la conquista di certi valori non fu automatica. Possiamo dire che Napolitano fu uno degli artefici, dopo Berlinguer, della progressiva evoluzione del Pci e del suo affrancamento da Mosca e dall’Unione sovietica».

Poi c’è naturalmente un altro snodo della vita italiana in cui il Presidente della repubblica gioca un ruolo decisivo e ancora una volta si torna a Berlusconi e alla fine del suo governo nel novembre 2011.

«Quella fu una congiura, esemplificata dal sorrisetto sardonico della Merkel e di Sarkozy, con la sponda del Fondo monetario internazionale». 

L’Italia attraversava una crisi finanziaria fortissima. C’erano alternative?

«L’Italia fu spinta verso il baratro». 

Napolitano?

«Si piegò a queste istanze e confezionó un ruolo su misura per Mario Monti. In pratica, Berlusconi fu costretto a lasciare Palazzo Chigi».

Mattarella: "Fedele alla Costituzione". Scarne condoglianze di Palazzo Chigi. Papa Francesco «riconoscente» Draghi: «Gratitudine personale» Monti: «Statista europeo». D’Alema: «Simbolo dello Stato democratico». Laura Cesaretti il 23 Settembre 2023 su Il Giornale.

La morte di Giorgio Napolitano «mi addolora profondamente», dice il suo successore al soglio quirinalizio Sergio Mattarella. Esprimendo «i sentimenti più intensi di gratitudine della Repubblica» e «il cordoglio dell’intera Nazione». Il capo dello Stato, nel suo messaggio di saluto e omaggio all’ex inquilino del Colle, l’unico oltre a lui ad essere confermato per un secondo mandato, sceglie di sottolineare alcuni aspetti di una vita politica «in cui si specchia larga parte della seconda metà del Novecento»: dalla «fedeltà alla Costituzione e acuta intelligenza» con cui ha interpretato «il ruolo di garante dei valori della nostra comunità» alla «inesauribile azione per combattere la spirale delle morti sul lavoro». «Commosso e riconoscente» è il ricordo di Papa Francesco, che sottolinea «le grandi doti di intelletto e di sincera passione, animati dalla ricerca del bene comune».

Mentre a serale bandiere vengono calate a mezz’asta su tutti i palazzi istituzionali, dalla maggioranza di centrodestra arrivano i primi commenti. Improntati ad una rispettosa freddezza: «Cordoglio a nome del governo», dice un secco comunicato di Palazzo Chigi. Alla famiglia un pensiero e le più sentite condoglianze».

Un distacco evidentemente voluto, quello della premier Giorgia Meloni, che sceglie di non intervenire in prima persona. Seguita a ruota da Matteo Salvini: «È stato un protagonista della vita politica del Paese. Una preghiera e un pensiero per i suoi cari». Assai più personale e diretto il ricordo del ministro degli Esteri Antonio Tajani: «Abbiamo lavorato per anni insieme al Parlamento europeo. Non condividevo le sue idee», ma è stato «un importante protagonista». Nel centrodestra si distingue il centrista Maurizio Lupi, che non solo ricorda «il primo esponente Pci a volare negli Usa», ma celebra quel governo di larghe intese, «con Pd e Fi», che Napolitano promosse nel 2013: «Una pausa nel bipolarismo cattivo che alimentava lo scontro politico» e la «partecipazione di forze diverse e antagoniste alla costruzione insieme del bene comune». Calorosamente rispettosi e super-partes anche i commenti dei presidenti di Camera e Senato: per Ignazio La Russa «l’Italia perde uno straordinario testimone della storia repubblicana»; mentre per Lorenzo Fontana «scompare un autentico servitore dello Stato».

L’ex premier Mario Draghi sceglie, significativamente, di sottolineare come Napolitano abbia «accompagnato l’Italia con la sua visione europeista» e «tenuto ferma la sua collocazione atlantica, rafforzandone il ruolo nel mondo». Mentre l’ex capo del governo dell’Ulivo, Romano Prodi, oltre a ricordarne la «salda ispirazione europeista» e la «apertura al riformismo» (a differenza di altri epigoni del Pci, sembra essere il sottinteso) utilizza un’angolatura assai soggettiva, celebrando Napolitano come «preziosissimo collaboratore come ministro degli Interni durante il mio primo governo». Per Massimo D’Alema fu un «simbolo dello Stato democratico», per Mario Monti «il suo modo di fare politica era l’esatto contrario di quello che oggi genera sfiducia nei cittadini». Un altro ex premier, Matteo Renzi, racconta i suoi «mille ricordi», dalla «emozione del giuramento al Quirinale» alla «discussione sui ministri», fino alla «perfetta collaborazione istituzionale negli anni di Palazzo Chigi», inclusa anche «qualche reprimenda prima e dopo». E tiene a sottolineare anche «il dolore per quell’assurdo interrogatorio» cui Napolitano fu sottoposto dai magistrati della clamorosamente fallita inchiesta Stato-Mafia. Laura Cesaretti

Il "comunista preferito" di Kissinger: Giorgio Napolitano e il rapporto con gli Usa. Storia di Francesca Salvatore su Il Giornale venerdì 22 settembre 2023.

Giorgio Napolitano è stato il primo dirigente del Pci ad essere invitato negli Stati Uniti d'America: l'occasione fu quella di una serie di "lezioni americane" nelle più prestigiose università dell'Ivy League, rimaste nella storia di quel 1978 così pieno di significati sia per Washington che per Roma.

Un rapporto che si sarebbe consolidato nel tempo e con conseguenze importanti nel dialogo tra Stati Uniti e Italia, soprattutto con le amministrazioni Bush e Obama, "coetanee" del doppio mandato di Napolitano. Durante la prima, i due Capi di Stato si sono incontrati due volte nel 2007: a giugno Bush si recò a Roma e nel dicembre dello stesso anno Napolitano ricambiò la visita recandosi a Washington. L'anno successivo, Bush ritornò al Quirinale per la sua ultima visita da Presidente degli Stati Uniti d'America. Ben tre incontri di alto livello con George W. Bush Jr. sul tramonto del suo mandato, che confermarono Napolitano come "forza stabilizzatrice del governo e del sistema", come sostenne l'ex ambasciatore Usa in Italia Ronald Spogli.

Ma la relazione speciale con la Casa Bianca si consolidò soprattutto con Barack Obama, incontrato ben sette volte, con il quale ex Presidente della Repubblica mostrò di avere una sintonia profonda su molte delle questioni di politica internazionale. Il Presidente Usa è stato ricevuto al Quirinale nel 2009 e nel marzo 2013. Napolitano è stato ospite alla Casa Bianca nel 2010 e nel 2013. Alle visite di Stato si affiancano gli incontri a L'Aquila, dopo il terremoto, nel luglio 2009 per il G8, a Varsavia, nel 2011, per il summit dei Capi di Stato dell'Europa centrale al quale ha preso parte anche il Presidente americano, e in Normandia nel giugno del 2014 per le celebrazioni del settantesimo anniversario dello sbarco alleato. In più di un'occasione i due Presidenti hanno avuto conversazioni telefoniche per discutere di temi politici ed economici, soprattutto nel bel mezzo della crisi economica che dagli Usa si abbattè sull'Europa come un nuovo 1929. Un'intesa che ha dimostrato ancora una volta la considerazione e il rispetto che l'altra sponda dell'Atlantico ha avuto per l' "amico Giorgio" e per il suo "mandato storico", come ebbe a definirlo proprio Obama che non dimenticò di elogiarne i suoi rilevanti contributi offerti "a vantaggio non solo della sua Nazione, ma anche dell'Europa e della comunità transatlantica".

Quando Washington negò il visto a Napolitano

Eppure c'era stato un tempo, qualche anno prima di quel fatidico 1978, in cui Giorgio Napolitano si era visto rifiutare il visto di ingresso negli Stati Uniti "per evitare di dare un attestato di rispettabilità al Pci". Fu la svolta verso la socialdemocrazia europea, o per lo meno quella che da Washington venne percepita come tale, che rese l'America post maccartismo più indulgente verso i grandi dirigenti di sinistra d'Oltreoceano: il grande politologo Joseph LaPalombara pensò che i tempi fosse maturi per un invito che giungeva direttamente dal tempio di Yale e cofirmato da alti papaveri di Princeton e Harvard. Una proposta che nel lontano 1975, però, non bastò a convincere il lapidario Henry Kissinger che giudicò i tempi poco maturi per dare uno scossone allo Smith Act.

Quel visto tanto vituperato sarà poi concesso, per paradosso, proprio nel bel mezzo della tregenda vissuta dall'Italia alle prese con le Br e il rapimento Moro. Ebbe inizio un lavorìo certosino, da ambe le sponde dell'Atlantico, da parte di chi voleva quel "comunista differente" in America per raccontare le evoluzioni della socialdemocrazia europea, e di numerosi esponenti della politica italiana (come Giulio Andreotti) che si diedero da fare perchè quel visto giungesse a destinazione. Nonostante la Guerra Fredda fosse nel bel mezzo di mutamenti importanti (Helsinki, il Salt...era già tutto accaduto), l'amministrazione Carter aveva ammorbidito la red scare in fatto di concessione dei visti, tanto da concedere al futuro "amico Giorgio" il permesso di sbarcare negli Stati Uniti. Un fascino magnetico incantò gli studenti di Harvard, Princetone e Yale, gli atenei che lo avevano voluto a tutti i costi. Grandi lezioni di economia e politica internazionali, tutte in un inglese più che fluente.

Napolitano, il "comunista preferito" di Kissinger

Ma è col vecchio saggio Henry Kissinger che, inaspettatamente, Napolitano avrebbe costruito un'intesa più che cordiale: un profondo rispetto reciproco, tra studiosi d'alto livello ancor prima che menti prestate alla politica, e su scranni così distanti come i loro negli anni Settanta.

Quando si incontrarono per la prima volta, due uomini così sfaccetati e intelligenti oltre misura, stabilirono una connessione sincera tanto da far ammettere al granitico ex Segretario di Stato Usa che egli sarebbe stato sempre "il suo comunista preferito": Napolitano gli restituì la battuta, sornione, definendosi "former communist!". Così, molti anni dopo, nel 2015, quando all'ex presidente della Repubblica venne conferito il premio Kissinger in quel di Berlino, l' "amico Henry" gli scrisse una calorosa mail nella quale gli dava appuntamento nella capitale tedesca per conferirgli di persona il riconoscimento che porta ancora il suo nome. Non si vedevano da "soli" due anni, da quando Kissinger lo aveva incontrato per un lungo faccia a faccia presso il Waldorf Astoria di New York. Da quell'intesa nacque buona parte di quel credito che l'Italia si è guadagnata nei rapporti Usa, passando da cobelligerante "col cappello in mano", a interlocutore di alto livello sebbene sotto l'ombrello atlantico. Il Giornale

La politica si ferma per il "re". Cordoglio da tutto il mondo. Putin scrive a Mattarella. E poi niente fronzoli, così pare avesse detto alla famiglia. Ma insomma, queste sono pur sempre le esequie di un re. Massimiliano Scafi il 24 Settembre 2023 su Il Giornale.

E poi niente fronzoli, così pare avesse detto alla famiglia. Ma insomma, queste sono pur sempre le esequie di un re. Il feretro passerà nella piazza barocca disegnata dal Bernini, scortato da sei carabinieri in alta uniforme, e sarà sistemato nell'Aula di Montecitorio, al centro dell'emiciclo, poggiato su un piccolo basamento. Martedì alle 11,30 dunque i funerali di Stato di Giorgio Napolitano, come disposto da Palazzo Chigi, e giornata di lutto nazionale. Una cerimonia laica, alla presenza di Sergio Mattarella, dei presidenti di Camera e Senato, dei parlamentari, dei rappresentanti del governo. Qualche fiore, i discorsi, le bandiere, la diretta tv, i maxi schermi in strada, la gente dietro le transenne. E stamattina alle dieci a Palazzo Madama, nella sala Nassyria, verrà aperta la camera ardente. Intanto negli edifici pubblici e nelle ambasciate all'estero i tricolori sono tutti a mezz'asta.

Per King George si ferma la politica italiana. FdI ha sospeso l'attività di partito, «in segno di cordoglio e di partecipazione al dolore per la scomparsa del presidente emerito» e ha rinviato di una settimana la convention «L'Italia vincente». Giorgia Meloni ha rimandato di una settimana un suo intervento all'auditorium di via della Conciliazione, un previsto bagno di folla per celebrare il trionfo elettorale di un anno fa. Soppresse pure diverse iniziative ministeriali: Carlo Nordio non parteciperà a un convegno sulla giustizia a Perugia. E con qualche ora di ritardo anche il suo Pd si è mosso e ha annullato alcuni appuntamenti: Elly Schlein ad esempio salterà un viaggio a Genova per inaugurare un nuovo circolo. «Un abbraccio a tutti quelli che hanno avuto l'onore di lavorare con lui», dice la segretaria dem.

A Botteghe Oscure, dove era sempre in minoranza, lo chiamavano l'amerikano. Ecco infatti il messaggio del segretario di Stato Usa Antony Blinken: «Mi unisco al dolore del popolo italiano e dei familiari per la perdita di uno statista che ha dedicato la sua vita alla democrazia, ai diritti umani e all'unità europea». Paradossalmente, sono parole simili a quelle scelte da Vladimir Putin, in un telegramma inviato a Mattarella: «È venuto a mancare uno statista eccezionale e un vero patriota, che ha servito il suo Paese fedelmente per molti anni come presidente e in altre cariche governative. Io ho avuto la fortuna di parlarci in diverse occasioni». Segue una nota sulfurea della Tass: «Napolitano ha incontrato più volte il leader russo, che conserverà per sempre un caro ricordo».

Primo comunista al Quirinale, primo presidente ad essere stato eletto due volte, primo anche ad avere dei funerali solenni al coperto, sotto la vetrata liberty dell'architetto Basile. Non è previsto nessun rito religioso, solo degli interventi affidati a persone vicine a King George. In piazza Montecitorio, all'aperto, si era celebrato nel 1999 l'ultimo addio a Nilde Iotti, prima donna presidente della Camera. A tenere le orazioni furono Luciano Violante, Walter Veltroni e proprio Giorgio Napolitano. Stessa procedura nel 2015 per Pietro Ingrao, con i discorsi di Alfredo Reichlin, del regista Ettore Scola e don Luigi Ciotti, mentre il maestro Ambrogio Sparagna suonava Bella ciao.

Riti solenni in chiesa invece per altri inquilini del Colle della Prima Repubblica. Luigi Einaudi, Giovanni Gronchi e Antonio Segni furono salutati in pompa magna nella basilica di Santa Maria degli Angeli. Doppie esequie per Giuseppe Saragat, una messa a Santa Chiara e una manifestazione in piazza Navona. Riservatissimi e aperti solo ai familiari i funerali di Sandro Pertini, nel suo paese natale, Stella, in Liguria. Altrettante private le estreme onoranze per Francesco Cossiga: il Picconatore aveva addirittura lasciato una lettera in cui rifiutava sdegnosamente le celebrazioni ufficiali. Oscar Luigi Scalfaro invece fu ricordato in una funzione a Santa Maria in Trastevere. Basso profilo pure per Carlo Azeglio Ciampi: una messa per pochi intimi nel quartiere Trieste, dove abitava da decenni. 

"Comunista liberale" anzi, "atarassico". I coccodrilli chic cadono nel ridicolo. I giornali di sinistra hanno fatto a gara per elogiare il defunto e nascondere il suo passato La vincitrice per distacco? "Repubblica". Alessandro Gnocchi il 24 Settembre 2023 su Il Giornale.

Il giudizio sulla persona tocca a Dio, per chi ci crede. Il giudizio sull'uomo politico spetta invece agli storici che procedono lenti ma inesorabili. Nel frattempo, nulla ci vieta di leggere cosa scrivono i giornalisti, che procedono frettolosi ma indulgenti soprattutto quando devono commemorare un «intoccabile» come Giorgio Napolitano, due volte presidente della Repubblica, morto venerdì scorso a 98 anni. Sarà l'ansia di dover nascondere il passato del «migliorista» Napolitano, stalinista per decenni dopo una giovinezza a scrivere sulla rivista del Gruppo universitario fascista di Napoli. Sarà il desiderio di spiccare per originalità della tesi o di ottenere un titolo a effetto da sbattere in prima pagina. Sarà tutto questo ma ieri molti quotidiani si sono abbandonati alla elegia visionaria. Apprendiamo, dal Corriere della Sera, che Napolitano si definiva un comunista «atarassico». Proprio così: atarassico, imperturbabile. Come Democrito. Come Seneca. Del resto Curzio Malaparte regalò una copia della Pelle al giovane Napolitano. Nella dedica, Malaparte diceva che il giovane Giorgio non perdeva la calma «neppure dinanzi all'Apocalisse». Nessun dubbio, per il Corriere, che Malaparte si fosse sbagliato o fosse sarcastico. Napolitano era davvero così: atarassico. Eppure per l'intraprendenza (poco atarassica) nel gestire il potere fu soprannominato «Re Giorgio»...

Massì, tutto sommato ci può stare. Napolitano rimase imperturbabile, atarassico, davanti ai carri armati sovietici nelle strade di Budapest. Sostenne con imperturbabilità l'esilio di Solgenitsyn. Fu atarassico anche davanti alla censura della Biennale del dissenso. Imperturbabile, replicò all'Enrico Berlinguer della questione morale contrapponendogli Palmiro Togliatti, non a caso detto il Migliore, elogiato per la capacità di muoversi sul terreno «riformistico» senza perdersi in «vuote invettive». Era il 1981. Atarassico, da presidente della Repubblica, affondò il governo Berlusconi nel 2011.

Sotto tono, stranamente, la Stampa. Si limita a qualche titolo elogiativo: «Cautela, prudenza, disciplina, educazione, controllo ... dimostrò di non perdere la calma neppure dinnanzi all'Apocalisse». Avete già capito: Malaparte, l'imperturbabilità, l'atarassia.

Il capolavoro è confezionato da Repubblica. Grazie al quotidiano della sinistra, apprendiamo una notizia davvero scioccante: Napolitano era «un liberale tra le file del Pci». Siamo oltre al comunista atarassico, siamo al comunista liberale, un caso unico nella storia, un ossimoro, un carnivoro vegano. Di Napolitano si può dire tutto, che sia stato nei Guf e poi comunista, ma non che sia stato liberale. Il comunista liberale è una convergenza parallela, che regala un brivido caldo e crea attorno a sé il silenzio assordante di chi legge Repubblica, incredulo. Nella fiaba della vita di Napolitano, secondo Repubblica, tutto è smussato. Addirittura scopriamo che la «brutalità» dei comunisti era inconcepibile per il colto e raffinato Giorgio. Ma quindi i soldati dell'Armata rossa, a Budapest, regalavano carezze, non sventagliate di mitragliatrice? O i carri armati sovietici sparavano pallottole gentili e non brutali? Altrimenti non si spiega il pieno appoggio di Napolitano, il liberale, l'atarassico, all'invasione. Definirlo comunista liberale è fare un torto a Napolitano, che era un comunista, se volete migliorista, e basta.

Monti e l'amnesia sui contatti col Colle. Le trame del Quirinale prima della chiamata: senatore a vita e poi al governo. Fabrizio De Feo il 24 Settembre 2023 su Il Giornale.

Nella storia di Giorgio Napolitano non c'è solo il Rione Monti, dove l'ex capo dello Stato abitava, a occupare un posto particolare nella sua vita. Il nome dell'ex presidente della Repubblica è anche inevitabilmente legato a quello di Mario Monti (foto). L'ex Commissario europeo ricorda sul Corriere della Sera la figura di Napolitano che lo nominò senatore a vita prima di affidargli l'incarico di formare un governo tecnico. La chiamata dal Colle, dice, «non mi sorprese, dopo mesi di speculazioni giornalistiche». A Federico Fubini che gli chiede se questi contatti fossero iniziati nei mesi precedenti, Monti risponde: «Nel 2010 e nel 2011, quando lo andavo a trovare, mi esprimeva le sue preoccupazioni». Monti però nega di aver parlato con lui di un governo tecnico.

La narrazione relativa ai mesi che precedettero la caduta del governo Berlusconi è però costellata da alcuni punti poco chiari. Secondo molti esponenti del centrodestra la preparazione alla successione del Cavaliere sarebbe iniziata con un po' troppo anticipo. Una volontà di assumere il ruolo di king maker (o di «premier-maker») che da allora nell'immaginario trasformò Napolitano in Re Giorgio. Nella calda estate del 2011, infatti, i contatti tra il Quirinale e l'economista non vennero lesinati. Alan Friedman, nel suo libro «Ammazziamo il Gattopardo», scrive: «Le conversazioni tra Napolitano e Monti precedono di quattro o cinque mesi la nomina a Palazzo Chigi». Lo stesso Friedman riporterà poi il racconto di Carlo De Benedetti che si confrontò con Monti in agosto a San Moritz, sull'opportunità di accettare o meno l'incarico. L'Ingegnere diede questo consiglio: «Non puoi far nulla per farti nominare e nemmeno rifiutare».

Rivelazioni che nel 2014 gli azzurri Paolo Romani e Renato Brunetta stigmatizzarono con una nota: «Ci domandiamo se sia rispettoso della Costituzione e del voto preordinare un governo che stravolgeva il responso delle urne, quando la bufera spread doveva ancora abbattersi sul paese».

La rete di potere sulla giustizia. I suoi corazzieri furono i giudici. I retroscena della monarchia giudiziaria di King George. La visita segreta all'avvocato Coppi per chiedere a Berlusconi di ritirarsi in cambio della grazia. E quella telefonata irritata al direttore del Tg1. Augusto Minzolini il 23 Settembre 2023 su Il Giornale. 

Ormai è Storia che non è merce per la polemica politica, ma semmai fornisce spunti di riflessione per comprendere i tortuosi sentieri del Potere nel nostro paese ai tempi di King George, perché in molti hanno paragonato gli anni di Giorgio Napolitano al Quirinale ad una monarchia.

Nel luglio del 2020 scrissi proprio su Il Giornale di un episodio significativo che mi fu raccontato da uno dei protagonisti: naturalmente con il Re ancora in vita l'interessato ne aveva perso memoria. Riguardava una visita dell'allora Capo dello Stato nello studio dell'avvocato Franco Coppi nel quartiere Parioli. Il penalista aveva difeso Silvio Berlusconi nel processo che determinò la sua condanna, la conseguente decadenza da senatore, l'allontanamento per diversi anni dalla politica e la pena ai servizi sociali di Cesano Boscone. Si trattava in quei frangenti di individuare una via d'uscita visto che il Cav, peraltro a ragione, considerava la sentenza ingiusta, l'ultimo atto di una persecuzione politica nei suoi confronti.

L'unica soluzione possibile era la concessione della grazia da parte del Capo dello Stato. Il Nap confidò al penalista in quell'afoso pomeriggio di agosto del 2013 che era possibilista ma solo ad una precisa condizione: Berlusconi, all'epoca leader del centro-destra, avrebbe dovuto annunciare pubblicamente in maniera solenne il suo ritiro dalla politica. Insomma, si chiedeva al Cav la resa, un atto di sottomissione. Ovviamente, non se ne fece nulla perché Berlusconi considerò simile imposizione ancora più inaccettabile della condanna, ma a dieci anni di distanza quella vicenda è la dimostrazione forse più lampante di come all'epoca Napolitano, capo dello Stato nonché presidente del Csm, fondò il suo Potere anche sull'influenza che poteva esercitare sui giudici, su un processo di trasformazione, francamente patologico, delle nostre istituzioni nelle quali mentre era garantita l'autonomia della magistratura dalla politica, la politica si trovava ad essere sempre più succube delle toghe. Al punto da infiltrare nel nostro sistema comportamenti, interpretazioni del diritto, prassi più propri di un regime che non di una democrazia. E già, Napolitano fu un presidente interventista, regnò sulle istituzioni più che esserne un garante. Si sbarazzò dell'ultimo governo guidato dal Cavaliere, frutto di elezioni plebiscitarie, giocando di sponda con le cancellerie europee, con la Merkel e Sarkò. E disgregò la maggioranza di centro-destra seducendo Gianfranco Fini con l'idea di una sua possibile successione a Berlusconi. Da direttore del Tg1 - altro aneddoto - ho ricevuto ben poche telefonate dai politici ma una mi arrivò direttamente dal Quirinale senza passare per il centralino. Alzai la cornetta del telefono e mi ritrovai ad interloquire direttamente con Napolitano che mi contestò l'uso dell'espressione «ribaltone» a proposito del tentativo di Fini e dei suoi, eletti nelle liste del Pdl capitanate dal Cav, di provocare la crisi di governo. Gli chiesi, non senza una punta d'ironia, quale altra parola avrei potuto usare per descrivere un'operazione del genere visto che era stato lo stesso Fini a coniare quel termine quando Umberto Bossi silurò il primo governo Berlusconi. Non la prese bene. E il primo segnale arrivò due settimane dopo: l'allora capo dello Stato invece di dare un'intervista al Tg1, il telegiornale istituzionale per eccellenza con il più alto share, la diede al Tg2, che aveva un terzo se non un quarto di telespettatori. E visto che King George ha sempre avuto una memoria da elefante, sarà stata una coincidenza, un mese dopo le dimissioni del Cav da premier fui cacciato dal Tg1. Ovviamente il pretesto non poteva non essere giudiziario, lo strumento di Potere del Re. Napolitano, mi si conceda la battuta, poteva contare più sulle toghe che sui corazzieri.

Da lì cominciò il mio calvario. L'accusa era di aver utilizzato in maniera scorretta la carta di credito aziendale. Insomma, i soldi, quelle colpe che ti espongono al pubblico ludibrio, come capitava ai dissidenti in Unione sovietica o, ancora oggi, nella Russia di Putin. Fui assolto in primo grado, dalla Corte dei Conti, dal giudice del lavoro, dall'Ordine dei giornalisti, ma ebbi la malsana idea da senatore di teorizzare l'impeachment del Nap per le stranezze che accompagnarono la crisi del governo Berlusconi e per la distruzione delle registrazioni delle telefonate tra Nicola Mancino, ministro dell'Interno ai tempi della trattativa Stato-mafia, e il consigliere giuridico del Quirinale. Nella storia del Paese furono le uniche ad essere distrutte per volontà del Re, nell'epoca in cui le intercettazioni erano considerate, nei tribunali e nelle procure, sacre come i versetti della Bibbia. E visto che l'Elefante regale non dimentica mi ritrovai come giudice in appello un magistrato che era stato per dodici anni deputato e senatore del Pd, ma, soprattutto, sottosegretario di Napolitano al ministero dell'Interno: in quattro ore la sentenza di assoluzione fu «ribaltata». E poi - visto che da quelle parti sono meticolosi - in Cassazione mi capitò come relatore l'ex-capo di gabinetto del ministro della Giustizia dell'ultimo governo Prodi, che subito dopo, dal 2008 al 2013, aveva lavorato gomito a gomito negli Stati Uniti con l'ex-sottosegretario del Nap: erano gli unici due magistrati che avevamo oltreoceano, uno consigliere giuridico dell'ambasciata italiana, l'altro consigliere della delegazione italiana all'Onu. Inutile dire che avevano ottenuto quei ruoli anche grazie all'interessamento del Quirinale: da quelle parti avevano una particolare abilità nel giocare con le carriere dei magistrati degna dei prestigiatori. Io, invece, condivisi il destino del Cav ai servizi sociali, togliendomi però una soddisfazione: l'assemblea di Palazzo Madama respinse la richiesta di decadenza da senatore giudicando la sentenza che mi aveva condannato una mezza persecuzione. Racconto questi aneddoti e queste storie senza rancore. Napolitano in fondo è stato solo o soprattutto un uomo di Potere. Educato alla scuola di Botteghe Oscure. Convinto seguace degli insegnamenti del Machiavelli per cui il fine giustifica i mezzi. Si tratti della difesa dell'intervento sovietico in Ungheria, oppure della liquidazione di un governo votato dagli elettori. Un protagonista del Palazzo, intriso di retorica e di ipocrisia, persuaso in coscienza di fare il bene del Paese. Questa è l'unica scusante che si scorge a malapena dietro le spesse lenti dell'ideologia.

Quel "Grande Vecchio" che a colpi di intrighi fece cadere Berlusconi. Il libro "Berlusconi deve cadere. Cronaca di un complotto", scritto nel 2014 dall'ex ministro Brunetta per il "Giornale", ricostruì il complotto che nel 2011 portò alla caduta del governo di centrodestra con la regia di Napolitano. Ecco quale fu il suo vero ruolo. Renato Brunetta il 23 Settembre 2023 su Il Giornale. 

Giorgio Napolitano resta un ossimoro vivente. Diventa amico dei nemici, e nemico degli amici. Ha un carisma eccezionale nel confondere, nel provocare scissioni, restando nel contempo polo di attrazione degli opposti. Se proprio è necessario pensare a un Grande Vecchio, lui sarebbe perfetto.

Era un Grande Vecchio anche da giovane. Quando nel 1970 ci fu la scissione del Gruppo del Manifesto, di Rossana Rossanda e Luigi Pintor, fu incaricato di ricondurre all'ovile Massimo Caprara, napoletano come lui, della nidiata di giovani intellettuali liberali sedotti da Togliatti nel 1944-45. Ebbene riuscì a non fare accadere nulla, anzi a spingere fuori anche Caprara. E votò per la radiazione dell'amico. Al quale, nel momento della morte, 40 anni dopo, dedicò un commosso ricordo. Sincero senz'altro. Ma intanto l'aveva radiato.

Un caso di ambivalenza, di capacità di fascinazione volta per volta a destra e a sinistra, lo ha raccontato nella intervista a Rai Tre, a «Che tempo che fa», il 13 aprile 2014. Interrogato da Fabio Fazio rievoca: «Kissinger era segretario di Stato quando fui invitato da quattro o cinque delle maggiori università americane, e presentai la domanda per avere il visto. Occorreva un nulla osta waiver del segretario di Stato americano, se il richiedente era un comunista o un fascista. Io ero il primo caso, ovviamente, e Kissinger non volle prendere in considerazione la concessione del visto». Kissinger (K. per antonomasia, da cui amerikano) era stato direttore del Centro di Studi europei ad Harvard e mal sopportava l'idea di ospitare il comunista che aveva benedetto l'invasione sovietica dell'Ungheria a pontificare nella sua università, in piena guerra fredda. Era il 1975. Poi ecco che Enrico Letta di rientro dagli Usa gli portò, stupito, nel settembre del 2013, i saluti cordiali del medesimo K.

Si vanta, sempre da Fazio, Napolitano: «Poi abbiamo avuto uno straordinario recupero di rapporti amichevoli».

Nel frattempo il Pci si era scisso, aveva esaltato e ucciso Achille Occhetto, cambiando nome. E Napolitano, navigatore di tutti i mari, accompagnatore silente delle varie divisioni, separando se stesso dalla visione comunista, ma non dal proprio curriculum, approda al Quirinale. È il garante dell'unità della nazione. Per garantire questa unità fa poltiglie di qualsiasi gruppo coeso che incontra sulla sua strada, per regalare ai suoi disegni di sovrano un pulviscolo ossequioso. Quando lo scisso si accorge dell'uso che di lui viene fatto, si ritrova solo, e non conta niente, dunque viene scaricato.

Dal 2006 in poi, eletto presidente della Repubblica, favorisce, incoraggia, pratica la moral scission, scusate il maccheronico. Lo fa blandendo e consigliando presidenti ed ex presidenti del Senato e della Camera. Il primo a fruire dei consigli e a lasciarsi sospingere dall'Udc al Partito democratico è stato Marco Follini. Quindi è cascato nella rete Pier Ferdinando Casini, in corsa da solo nel 2008.

Poi è stata la volta di Gianfranco Fini. E qui la lusinga di Napolitano è stata ad effetto devastatorio per l'Italia, e un nodo centrale del complotto. Napolitano possiamo dire, per usare un'espressione alla moda, è stato il Grande Vecchio a sua insaputa. Sin dagli inizi del quarto governo Berlusconi, Fini assunse una posizione di polemica nei confronti della politica economica e dell'arroganza personale di Giulio Tremonti. Una vecchia storia. Già nel 2004, dinanzi alla tracotanza di Tremonti era riuscito a sbatterlo fuori dal governo. Nel 2008, l'idiosincrasia reciproca fu uno dei motivi che indusse Fini a scegliere una postazione istituzionale in luogo di assumere una carica ministeriale importante. Fu Fini, nei primi mesi di governo, a raccogliere e proteggere la grandissima parte di ministri vessati e impediti di fare il loro lavoro, dai continui dinieghi e diktat di Tremonti coi suoi tagli lineari. Fini in quel momento era senza alcun dubbio il delfino di Berlusconi, destinato pacificamente a succedergli alla testa del Popolo della libertà e di tutto il centrodestra. Improvvisamente, invece di far quadrato con i ministri, e ben al di là dei confini di quella che era stata Alleanza nazionale, trasformò il suo motivato rifiuto dell'egemonia di Tremonti, che si riteneva il garante della Lega nel governo, in ostilità a Berlusconi. Meditò e condusse a compimento una scissione che sin dal luglio del 2010 rese debole la nostra maggioranza, dapprima sottoposta al ricatto del suo gruppo parlamentare, di cui non ricordo nemmeno il nome, e poi il 14 dicembre miracolosamente sopravvissuta grazie al rientro di alcuni scissionisti nei nostri ranghi e all'apporto di alcuni «responsabili» il 14 dicembre 2010. Da allora la navigazione fu perigliosissima. L'onorevole Amedeo Laboccetta ha spiegato questo impazzimento di un delfino trasformato in acciuga recando testimonianza di colloqui avuti da Fini con Napolitano, che ne lusingò le ambizioni, prospettandogli la guida del governo con la liquidazione giudiziaria di Berlusconi.

Fallito il golpe di Palazzo del 14 dicembre 2010, con la fiducia ottenuto da Berlusconi, il lavorio di Napolitano si concentrò su Tremonti, a sua volta convinto di poter essere chiamato a sostituire il Cavaliere a Palazzo Chigi. Poi eccoci a Mario Mauro, amico di vecchia data di Napolitano al parlamento europeo, unico di Forza Italia a perorarne l'ascesa al Colle nel maggio del 2006. Parla con il capo dello Stato e si allea con Monti in Scelta civica. Napolitano lo premia facendolo ministro della Difesa, e poi lo scarica solitario e triste quando non serve più all'arrivo di Renzi, non prima di aver condotto Mauro a separarsi anche da Scelta civica. Lo stesso con Alfano e con i suoi ministri, non a caso nominati da Napolitano, ben consapevole che erano destinati a separarsi dal fondatore di Arcore. Stessa storia nel Partito democratico.

In fondo Letta è il braccio destro di Bersani, amputatogli da Napolitano per fare un governo in cui i lettiani sono scissionisti rispetto ai bersaniani. E i 101 che bocciarono Prodi per il Colle non è che avessero un nume diverso da quello residente in quel momento al Quirinale.

E Renzi? Nella nostra storia Napolitano non è il capo del complotto, neanche ne è comprimario. Semplicemente è la condizione sine qua non dello scivolamento della valanga dello spread addosso a una maggioranza resa fragile.

L'unico potere forte italiano, se la maggioranza è debole, il governo è fragile, e il popolo viene a bella posta impedito di esprimersi elettoralmente, è lui, il capo dello Stato che per essere garante dell'unità nazionale si fa Re, a costo di frantumare tutto il resto, secondo il motto divide et impera.

Il Camaleonte. Giorgio Napolitano è morto, aveva 98 anni vissuti prima al servizio del comunismo più feroce, poi della sinistra sua erede. Alessandro Sallusti il 24 Settembre 2023 su Il Giornale.

Giorgio Napolitano è morto, aveva 98 anni vissuti prima al servizio del comunismo più feroce, poi della sinistra sua erede. Sì, Giorgio Napolitano, parlandone da vivo, è stato un militante a volte senza scrupoli, come quando inneggiò all'invasione russa dell'Ungheria e sottoscrisse la condanna a morte del suo presidente Imre Nagy, cosa che non gli impedì quasi cinquant'anni dopo di diventare Presidente della Repubblica italiana. Perché ai comunisti tutto si perdona, compreso di essere stati per anni al soldo di una potenza straniera, l'Unione Sovietica, che aveva puntato i suoi missili a testata nucleare contro l'Italia.

Da quella compagnia che aveva le mani sporche di sangue innocente, Napolitano si sfilò in tempo per diventare atlantista, non prima di avere partecipato alla messa al rogo dello scrittore dissidente premio Nobel Aleksandr Solzenicyn, che Mosca aveva internato in un gulag in Siberia. Da buon camaleonte, arriva nel 2006 al Quirinale, primo presidente proveniente dal Pci, ripescato dall'oblio di parlamentare europeo dove lo aveva relegato il partito e dove lo si ricorda soprattutto per rimborsi di biglietti aerei non dovuti.

Ecco, questa, in sintesi, è la biografia che non leggerete praticamente da nessuna parte del presidente emerito. Come non leggerete la storia della seconda vita di Napolitano, «sincero democratico» sì, ma regista delle trame che hanno portato alla caduta dell'ultimo governo Berlusconi prima, alla sua discutibile e anomala condanna poi e, infine, alla conseguente cacciata dal Senato del Cavaliere, grazie a una legge applicata in modo retroattivo.

Di tutto questo c'è ampia letteratura, molti testimoni oculari sono ancora vivi e hanno già rivelato come fu proprio Napolitano a incoraggiare e sostenere sia l'accerchiamento giudiziario (nelle sue memorie Luca Palamara ne parla diffusamente) sia il progetto scissionista di Gianfranco Fini, primo passo del piano di ribaltone a favore del governo Monti, una manovra che ha fatto parlare, forse con eccessiva enfasi ma non con infondatezza, di «golpe del Quirinale».

Insomma, è morto un comunista che ha saputo farsi camaleonte e usare la democrazia a suo piacimento per fini politici di parte. Dopo Oscar Luigi Scalfaro (se non alla pari), penso che Napolitano sia stato il peggior presidente della Repubblica. Ci inchiniamo di fronte alla sua morte, non di fronte alla sua vita.

Il dolore composto di Clio. La prima uscita pubblica senza il suo Giorgio dopo 64 anni insieme. È arrivata per prima, e lo ha aspettato. È scesa dall'automobile lentamente; poi ha percorso in carrozzina il tappeto rosso lungo il quale, poco dopo, sarebbe passata la bara di suo marito. Eleonora Barbieri il 25 Settembre 2023 su Il Giornale.

È arrivata per prima, e lo ha aspettato. È scesa dall'automobile lentamente; poi ha percorso in carrozzina il tappeto rosso lungo il quale, poco dopo, sarebbe passata la bara di suo marito, fino alla sala Nassiriya di Palazzo Madama. Clio Napolitano ha avuto un sorriso per tutti. Il suo Giorgio era avvolto nel Tricolore e circondato da quei segni e quelle manifestazioni del cerimoniale che competono alle massime cariche della Repubblica, che lei ha sempre mostrato di non apprezzare granché. Ma è rimasta seduta lì, vicino a lui, fino all'ultimo. Come ha sempre fatto.

Un cappellino nero, un tailleur pantalone nero, sandali ai piedi, una sciarpa al collo, una spilla e le immancabili perle. Lunghe, lunghissime, quanto il tempo trascorso accanto all'amore di una vita: sessantaquattro anni di matrimonio solidissimo quanto la fede comunista di Clio e Giorgio, sposi al Campidoglio nel 1959 e, da allora, sempre insieme. Certo, il credo del Partito imponeva il rito civile, ma paradossalmente la loro unione è stata, e sarà sempre, sigillata una Forza superiore. Quell'amore traspariva ieri negli occhi di Clio, dieci anni più giovane del marito: ottantotto, portati con il piglio che l'ha sempre contraddistinta. Un piglio così autentico da non avere bisogno di esternazioni: che sia sempre stata una donna tutta d'un pezzo, Clio Napolitano non ha mai avuto alcun bisogno di dimostrarlo. Perciò, quando il marito è diventato presidente della Camera dei deputati, nel 1992, lei ha lasciato la carriera da avvocato del lavoro, per evitare qualsiasi - diciamo così - conflitto di interessi. E quando il marito è diventato Presidente della Repubblica non ha mai cercato un palcoscenico per sé stessa: lo ha accompagnato nelle occasioni ufficiali e nei viaggi all'estero, ma senza mai volersi mostrare protagonista. Il che non significa che sia rimasta in ombra, anzi: impossibile non apprezzare la sua eleganza, che talvolta l'ha portata anche a osare colori poco «ortodossi» per una first lady, la sua bellezza, il suo carattere, il suo essere sempre lì a offrire il suo braccio. Chi fosse il vero Presidente è sempre stato chiaro. Non c'è mai stata necessità di rimarcarlo.

Perciò anche ieri, nella prima uscita pubblica senza Giorgio, si è comportata esattamente come durante i loro nove anni di vita al Quirinale. È arrivata poco prima delle 10, quando al Senato è stata aperta la camera ardente, e se ne è andata poco prima delle due. E, mentre riceveva i rispetti del presidente Mattarella, della premier Meloni e di Papa Francesco, oltre che di tutta la schiera di chi si è messo in coda per l'ultimo saluto al marito, Clio è rimasta accanto a lui, un passo indietro all'apparenza, una radice inamovibile di quella coppia inossidabile nella realtà. Senza esibizionismi, eppure assolutamente presente: coi sorrisi gentili, la compostezza, e il senso di luminosità e di nostalgia insieme che emanava, come a staccarsi da tutta quella ritualità che, pur rispettandola, non le è mai andata a genio. Ai tempi della presidenza del marito si mise in coda per visitare la mostra di Vermeer (alle Scuderie del Quirinale...), insistendo per pagare il biglietto. Volle alloggiare al Palazzo della Panetteria, anziché al Quirinale, e un giorno, attraversando le strisce, fu investita e si ruppe una gamba e un braccio. Amava tornare a casa sua e di Giorgio, al rione Monti, dove hanno abitato per tutta la vita. Vita reale: il lavoro, i due figli, i nipoti, le sigarette, il bar, le vacanze a Stromboli.

Ora, in quella casa, il suo Giorgio non c'è più. Clio, che porta il nome della prima delle Muse, ha sempre saputo che certe apparenze non sono sostanza. E allora stringe un po' il cuore ad immaginarla in quella casa, quando si sarà tolta il suo filo di perle, e non avrà a chi raccontare la sua giornata.

Com'è triste vedere Francesco inerte davanti alla morte. Esultano gli ex Pci. Una volta si segnavano tutti, ora non lo fa neppure Bergoglio a Palazzo Madama per non urtare una cerimonia laica. E per Veltroni e compagni il gesto suona ormai come un'offesa. Camillo Langone il 25 Settembre 2023 su Il Giornale.

Un fatto straordinario, ha detto Walter Veltroni commentando il Papa entrato e uscito dalla camera ardente di Napolitano senza nemmeno un segno della croce. Lo dico anch'io: è proprio un fatto straordinario. E però in senso opposto: a differenza del Veltroni gongolante su RaiTre lo giudico un fatto straordinariamente negativo. Un tempo il segno della croce lo facevano tutti e in tante occasioni. Mia nonna, la ricordo come se fosse ora, lo faceva anche quando sentiva la sirena di un'ambulanza. Io che pure non sono né nonno né Papa lo faccio ogni volta che entro in un cimitero. È un gesto per me naturale che significa almeno due cose: pietà verso i morti e preghiera verso chi ha promesso di farli risorgere. E figuriamoci se non lo faccio in una camera mortuaria, un posto dove non mi metto certo ad analizzare la fede o la non fede del defunto: lo faccio e basta. Del resto se i famigliari fossero infastiditi da simili visioni potrebbero sempre affiggere un cartello: «Ingresso vietato ai cristiani» In tal caso girerei i tacchi e me ne tornerei a casa, siccome non entro dove non posso essere me stesso. E per un cristiano il segno della croce è per l'appunto cruciale. Un tempo lo facevano tutti e adesso non lo fa nemmeno il Papa. Non mi piace fare la parte dell'apocalittico, è un ruolo ingrato, ma se quanto accaduto nella camera ardente del Senato non evidenzia lo stato agonico del cattolicesimo romano ditemi voi. Per Veltroni la fissità bergogliana testimonia il «grande rispetto del pontefice nei confronti delle istituzioni di questo Paese». L'ex capo del partito democratico sembra dunque confondere il segno della croce con la pernacchia. Ma se davvero i segni cristiani sono considerati ormai alla stregua di insulti, perché non andare oltre? Perché non avvicinarsi ancor più alla sensibilità del mondo incredulo? Nel corso della loro storia i gesuiti lo hanno fatto molte volte: andarono in Cina per evangelizzare e a forza di avvicinamenti finirono cinesizzati, andarono verso il comunismo per cristianizzarlo e a forza di avvicinamenti finirono comunistizzati... Il Papa gesuita che ha fatto trenta al prossimo funerale potrebbe fare trentuno: presentarsi in clergyman, senza quell'assurdo, anacronistico abito bianco e soprattutto senza quell'impressionante croce sul petto, indelicata verso atei, buddisti, maomettani, zoroastriani

Veltroni su RaiTre ha parlato ovviamente anche di politica. Argomento su cui sembrava più ferrato. Sembrava. Secondo lui Napolitano ha sempre «fatto ciò che andava fatto, agendo nell'interesse nazionale». Secondo me nell'elogio veltroniano mancava un «sovra»: in almeno due occasioni (guerra di Libia e cacciata di Berlusconi) il cosiddetto Re Giorgio agì nell'interesse sovranazionale. Ma non è questo il momento e non è questo l'articolo, non vorrei andare fuori tema e torno al nocciolo della questione che è squisitamente religiosa.

Un Papa così inerte è sconfortante per tutti i fedeli. Starsene impalato davanti a una bara è un venir meno alla propria missione, assegnata da Gesù a Pietro (e dunque ai suoi successori) durante l'Ultima Cena: «Conferma i tuoi fratelli». Un Papa che davanti alla morte si mostra senza parole né gesti non conferma: smentisce. Forse è stato ultra rispettoso verso l'ateo morto, di sicuro è stato poco riguardoso verso i cristiani vivi, in primis quelli che nei paesi islamici hanno pagato e pagano la manifestazione esteriore del proprio cristianesimo con persecuzioni e carcere, a volte col patibolo. In ogni tempo i grandi pensatori cristiani hanno assegnato grande valore al segno della croce. Per Tertulliano bisognerebbe farselo «ad ogni passo, quando si entra e quando si esce, nell'indossare i vestiti, a tavola, nell'andare a letto...». Per Ratzinger è nientemeno che «la sintesi della nostra fede». Invece il video del Papa immoto e silenzioso al Senato mi è sembrato una sintesi dell'agnosticismo costituzionale. E mi ha fatto venire in mente una poesia poco allegra di Cesare Pavese, quella che finisce così: «Scenderemo nel gorgo muti». Vade retro! Gesù nel Vangelo di Matteo ci esorta a fare l'esatto contrario: «Gridatelo sui tetti!». Lui che da quindici secoli fa il segno della croce nel mosaico di Sant'Apollinare in Classe.

Hanno fatto un golpe anti Cav ma fingono di non ricordarselo. Andrea Indini il 27 Settembre 2023 su Il Giornale.

Monti, Fornero e Fini corrono a smentire qualsiasi coinvolgimento del Colle nelle dimissioni di Berlusconi nel 2011. Ma le trame con le cancellerie europee riportano tutt'altra storia

I ricordi, per carità, ognuno li rielabora come vuole. O meglio: come più gli conviene. Le verità più scomode vengono infatti corrette, taciute, molto spesso riscritte completamente. Così sta succedendo in questi giorni sulle pagine di una certa stampa dove, in concomitanza con la morte di Giorgio Napolitano, una pletora di ex della politica sono tornati a difendere quelle manovre che alcuni analisti non si sono fatti problemi a definire golpiste e che, nel novembre del 2011, portarono Silvio Berlusconi a lasciare Palazzo Chigi e passare il testimone a Mario Monti. Una mossa a tenaglia partita all'estero, nelle cancellerie di Bruxelles e sulle principali piazze finanziarie con l'attacco ai titoli di Stato e la corsa sfrenata dello spread da una parte e la lettera di Jean-Claude Trichet e i sorrisini di Angela Merkel e Nicholas Sarkozy dall'altra, e poi conclusasi nelle stanze del potere romano con lo strappo di Gianfranco Fini dal Pdl da una parte e la nomina di Monti a senatore a vita dall'altra. Un lungo avvicinamento a quello che fu un vero e proprio ribaltamento del voto popolare supervisionato, passo dopo passo, dall'uomo del Colle.

Oggi gli autori di quelle trame non vogliono che si parli di golpe. Non lo vuole Monti, in primis. Che arriva persino a negare che ci furono da parte della Germania pressioni per far fuori il Cavaliere. Pressioni documentate anche dal Wall Street Journal che rivelò la telefonata fatta dalla Merkel a Napolitano qualche settimana prima del ribaltone. E nemmeno Elsa Fornero lo vuole. Per lei l'allora capo dello Stato fu "custode e garante della Costituzione". "Era preoccupato che il deterioramento della situazione - spiega in un intervento sulla Stampa - determinasse non soltanto una crisi finanziaria ma anche le premesse per un diffuso anti sovranismo, anti-europeismo viscerale e per una nostra uscita dall'euro, e forse dall'Europa". Insomma, Napolitano salvatore della patria. Una narrazione che trova ampiamente spazio anche nell'ardita ricostruzione di Fini, al tempo presidente della Camera e soprattutto king-maker dello sfilacciamento del Pdl. "La teoria secondo cui l'allora capo dello Stato fosse il regista di un complotto per far cadere Berlusconi con la mia complicità - commenta al Corriere della Sera - non solo è infondata ma anche offensiva. Con falsi racconti degni della spazzatura che continua a circolare".

Per Pier Ferdinando Casini chi parla di golpe va soltanto a caccia di "fantasmi". Eppure dai racconti di tutti loro emerge (prepotente) il ruolo decisivo di Napolitano in un momento che ha dato il via a un decennio di maggioranze e governi non più scelti dagli italiani. Un ruolo, quello dell'allora capo dello Stato, che si era fatto sempre più incisivo con il passare dei mesi e l'acuirsi di una crisi più politica che economica. "Negli anni ci siamo confrontati spesso", ammette ora Monti in una intervista al Corriere della Sera. "Erano scambi piuttosto approfonditi". I due si vedevano già nel 2010. Poi, nel 2011, il rapporto si fa sempre più stretto. "Le conversazioni tra Napolitano e Monti precedono di quattro o cinque mesi la nomina a Palazzo Chigi", svela Alan Friedman nel libro Ammazziamo il Gattopardo. È di quell'estate pure la chiacchierata tra l'ex Bce e Carlo De Benedetti. I due si trovavano a Sankt Moritz e sul tavolo c'era già l'ipotesi di un incarico da premier. Una rottura che andava prepara nei minimi dettagli. E, infatti, a distanza di quasi dodici anni, Monti lo dice chiaramente: "Io mi sentivo benissimo perché lui era stato il tessitore di un consenso parlamentare che fece sì che io potessi governare con la maggioranza più ampia che ci sia mai stata". Il tessitore, appunto. Di una tela che imbrigliò il Paese in riforme e misure che ne minarono fortemente la crescita.

I funerali laici di Napolitano. Il figlio: "Fece anche errori". Sfilata di potenti a Montecitorio. Letta sul rapporto col Cav: "Mi piace immaginare che possano chiarirsi lassù". Massimiliano Scafi il 27 Settembre 2023 su Il Giornale.

Quattro sono i capi di Stato e una decina gli ex premier. Sei i corazzieri che vegliano la bara e cento gli ambasciatori in grisaglia. Nove gli interventi, mille il pubblico di parlamentari, sindaci, sindacalisti, capitani d'industria e, al centro, sotto le vetrate liberty di Montecitorio, i presidenti dei due paesi forti dell'Europa, Francia e Germania. Il rito, i simboli, la potenza delle immagini. Il tentativo di riunificare una nazione. Ecco i funerali solenni, laici, un po' freddi forse, di palazzo più che di popolo, di re Giorgio. Ecco che pure Ignazio La Russa rende omaggio a Napolitano, l'ex comunista «che ha saputo conformare i propri convincimenti all'evoluzione dei tempi». E quando tocca a Gianni Letta, si capisce il senso profondo di questa liturgia nazionale bipartisan. «È un lutto repubblicano, basta con le divisioni». Superati anche, dice, gli scontri con Silvio Berlusconi. «Mi piace immaginare che incontrandosi lassù possano chiarirsi e ritrovarsi nella luce».

King George e il Cav, una storia di ribaltoni e incomprensioni. Ora però che sono scomparsi a tre mesi di distanza, Letta propone «di chiudere quel capitolo turbolento» e di andare avanti. «Erano due persone così distanti - spiega l'uomo che teneva i rapporti e i segreti - due mondi opposti, due figure diverse chiamate a condividere i massimi incarichi di Stato». Non si sono mai presi. «Poteva essere difficile quella convivenza e infatti non fu sempre facile, non mancarono i momenti di tensione e di polemiche, ma da tutte e due le parti non venne mai meno la volontà e la forza di mantenere il rapporto nei binari della correttezza istituzionale».

Dal Bottegone al Colle, primo comunista al Quirinale, primo presidente eletto due volte. Esequie di Stato per l'uomo dei record: era dai tempi di Giuseppe Saragat che non accadeva. E non era mai successo che il corpo di un presidente venisse portato dentro la Camera per l'estremo saluto. Certo, ricorda la Russa, Napolitano è stato divisivo, «ha svolto ruoli e assunto decisioni difficili, come i grandi leader ha avuto contrasti». Non poteva piacere a tutti, lo ammette pure il figlio Giulio. «Ha combattuto buone battaglie e sostenuto scelte sbagliate, riconoscendo anche i suoi errori. Non ricordo un solo giorno della vita di mio padre senza la politica, che per lui era una cosa seria che richiedeva analisi, ascolto e assunzione di responsabilità. Non sopportava la demagogia e l'urlo».

Uomo dei contrasti, odiato e amato, mai banale. Sulla scrivania aveva la foto di Churchil con le dita a V dopo la vittoria, come rammenta Paolo Gentiloni. «È stato un sostenitore dell'atlantismo e dell'europeismo, secondo lui l'Italia poteva avere un futuro di sviluppo soltanto nell'Unione. La Ue è stata una scelta di campo e di vita fin dai tempi del Pci». Una svolta tardiva? Eppure nel partito, dove era sempre in minoranza, lo consideravano di destra e lo chiamavano l'amerikano. «Grande fu il suo tormento di fronte ai fatti di Budapest del 1956 e di Praga nel 1969 - ricorda Giuliano Amato - che lo portarono alla difficile impresa di far prevalere nel partito le ragioni della democrazia». Sforzo fallito, vinse come al solito la linea ortodossa e Napolitano si allineò alla decisione di sostenere comunque Mosca. Ma nel 2006, appena eletto al Quirinale, compì un gesto di riparazione e nel suo primo viaggio all'estero, a Budapest, depose una corona di fiori e si inchinò sulla tomba di Imre Nagy.

Funerali laici, con il feretro che attraversa Roma: dal Senato alla Camera al cimitero acattolico del Testaccio. Il Papa non ha fatto il segno della croce e ora il cardinale Angelo Ravasi, amico di Napolitano e protagonista di un lungo dialogo tra atei e credenti, vuole portare «un fiore ideale tratto dal libro del profeta Daniele: i saggi risplenderanno come lo splendore del firmamento». Anna Finocchiaro si commuove. «Ma Giorgio non era un tenero - racconta - io più che le telefonate temevo le lettere. Quando si infuriava la sua calligrafia diventava molto appuntita».

Il bianco e il nero. "Era Re Giorgio...". "Non aveva alternative...". Lo scontro su Napolitano. La controversa figura dell'ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano continua a dividere. Ecco le opinioni dei costituzionalisti Alfonso Celotto e Stefano Ceccanti. Francesco Curridori il 28 Settembre 2023 su Il Giornale.

Giorgio Napolitano è stato il primo presidente della Repubblica ad essere rieletto e le sue scelte hanno segnato il corso della Seconda Repubblica. Per la rubrica Il bianco e il nero abbiamo raccolto le opinioni dei costituzionalisti Alfonso Celotto e Stefano Ceccanti.

Che giudizio dà dei due mandati di Napolitano come Capo dello Stato?

Ceccanti: “Penso che nelle difficili condizioni del Parlamento spaccato frontalmente in due nel 2006 in cui era stato eletto e poi in quello spaccato in tre nel 2013 sarebbe stato difficile fare meglio. E questo lo hanno giudicato le forze politiche rieleggendolo a larghissima maggioranza nel 2013. Peccato che non sia riuscito ad aiutare le forze politiche a varare insieme la riforma costituzionale che avrebbe stabilizzato il sistema, ossia, come ha ricordato il suo portavoce Cascella, un combinato di una legge elettorale con effetti maggioritari in grado di legittimare direttamente i Governi con norme costituzionali di ispirazione tedesca per evitare l'instabilità in corso di mandato”.

Celotto: “È stato un presidente importante. Molti lo ricordano come ‘Re Giorgio’ proprio perché è dovuto intervenire in una fase di crisi della politica. Ha iniziato il suo mandato con la felice vittoria dei Mondiali di calcio e, poi, si è trovato ad attraversare momenti molto difficili, nel 2011 e nel 2013. Come tutti ha fatto cose buone e cose cattive, però, è da ricordare come il primo presidente che ha fatto due mandati”.

È stato giusto rieleggerlo oppure il "doppio mandato" è stato un errore?

Ceccanti: “Nel parlamento eletto nel 2013, rigidamente spaccato in tre, che non era riuscito nelle settimane precedenti a comporre un qualsiasi Governo, dubito che fossero sul momento a disposizione alternative migliori”.

Celotto: “Il doppio mandato, in quel momento di crisi, è stata un’eccezione e lui l’ha letta in questo modo. La Costituzione non lo prevede, ma nemmeno lo vieta e anche la riconferma di Mattarella evidenzia che la crisi della politica non è finita”.

Quello del 2011 fu un golpe di Stato?

Ceccanti: “No, come tutti sanno fu un'implosione del centrodestra che si rivelò incapace di fare la riforma delle pensioni contro cui Bossi elevò il suo dito medio, mancata riforma che danneggiava l'intera zona Euro. Napolitano si trovò tra un centrodestra imploso e il centrosinistra Bersani-Vendola-Di Pietro che sarebbe stato ugualmente incapace di sciogliere quel nodo. Ricorse quindi a Monti, curando in ogni modo di tenere dentro Berlusconi, vincitore delle elezioni precedenti. I partiti accettarono perché il governo tecnico consentiva di fare le riforme attribuendole a Monti e non a loro stessi. Lo sappiamo tutti. Altrimenti se fosse stato un golpe Berlusconi non lo avrebbe rieletto convintamente”.

Celotto: “Usare la parola golpe mi sembra improprio perché il presidente della Repubblica ha il potere di individuare il governo più adatto per il momento. In quella fase di crisi serviva un esecutivo tecnico e il presidente della Repubblica ha, perciò, interpretato i suoi poteri in maniera elastica così da mettere in sicurezza l’Italia”.

Con Napolitano, la Costituzione materiale ha avuto la meglio su quella formale?

Ceccanti: “No, la Costituzione formale consente una pluralità di interpretazioni, ha margini di elasticità, che consentono al Capo dello Stato di fungere da motore di riserva se quello normale si blocca”.

Celotto: “La nostra Carta è breve e lascia spazio ampio spazio all’adattamento della forma di governo. sicuramente in questi ultimi anni, i vari organi di garanzia come il Capo dello Stato e la Corte Costituzionali sono spesso diventati poteri di amministrazione attiva, cioè si sono avvicinati di più alle scelte e alle decisioni politiche”.

Napolitano ha introdotto la stagione dei cosiddetti "governi del presidente". È stato un bene?

Ceccanti: “No, non l'ha creata Lui. C'erano stato già il Governo Dini e quello si era lasciato dietro per anni ben altre polemiche perché per varie e complesse ragioni Forza Italia e Alleanza Nazionale che avevano vinto le elezioni precedenti, si erano trovate fuori dalla maggioranza. Napolitano, costretto a un Governo del Presidente, volle a tutti i costi che quello strappo non si ripetesse e ci riuscì”.

Celotto: “I governi del presidente sono stati spesso evocati nella nostra Repubblica, non solo da Napolitano. Basti pensare anche ai governi Ciampi e Dini. La verità è che negli ultimi 15 anni abbiamo avuto diversi governi fragili, a riprova della difficoltà di funzionamento della forma di governo”.

Da Libero Quotidiano.

Mieli a Otto e mezzo: "Napolitano? Io suo grande amico, ma dobbiamo dirlo". Libero Quotidiano il 23 settembre 2023

"Al Capo dello Stato non spetta giudicare, al Capo dello Stato se non c'è più una maggioranza tocca chiamare le elezioni". Paolo Mieli, in studio da Lilli Gruber a Otto e mezzo, su La7, non risparmia critiche a Giorgio Napolitano, il presidente emerito della Repubblica scomparso venerdì sera a 98 anni.

"Credo di essere stato un suo buon amico per tutta la vita- premette l'ex direttore del Corriere della Sera - ma faccio un riassunto delle critiche che gli sono state poste. Nel Pci non diede mai battaglia aperta, di quelle frontali come aveva fatto Pietro Ingrao per lui non era mai il momento giusto. Secondo: le critiche all'Unione sovietica vennero sempre dopo, 20 o 30 anni. Non parliamo solo dell'invasione dell'Ungheria, ma anche gli euromissili o il serpente monetario europeo, non era mai il momento di dare battaglia". 

"Quando fu presidente della Camera fece passare la legge per cui si votava a scrutinio palese l'avviso di garanzia, non l'arresto. Beh, quello cambiò la storia d'Italia". Da presidente della Repubblica, nota poi Mieli, "salvò Berlusconi. Nel senso che se nel 2010 avesse mandato le camere al voto... In quell'occasione gli rimproverarono tutti di aver preso il tempo necessario a Berlusconi di convincere alcuni parlamentari a passare dalla sua parte". Il riferimento è al tentativo di spallata di Gianfranco Fini (e Italo Bocchino, presente in collegamento a Otto e mezzo) con la sfiducia al governo respinta grazie all'apporto dei voti decisivi dei famosi "responsabili". 

"Ultimo - conclude Mieli - non capì che il Paese stava cambiando e che c'era il populismo, il qualunquismo. C'era una sua famosa frase: ma quale boom dei 5 Stelle, io conosco solo il boom economico. Non capì quella fase, pensò che tutto si sarebbe messo a posto e mise su il governo presieduto da Mario Monti". Il resto è storia.

Giorgio Napolitano, l'avversario del Cav che ha trasformato il Colle. Claudio Brigliadori Libero Quotidiano il 22 settembre 2023

L'unico comunista italiano ben accolto negli Stati Uniti. Basterebbe questo per riassumere chi e cosa è stato Giorgio Napolitano. La verità però è molto più complessa di un aneddoto o di uno slogan: è fatta di sfumature e contraddizioni. Intellettuale cavallo di razza della sinistra napoletana, riformista poi migliorista, che prima obbedisce agli ordini di scuderia e vota sì ai carri armati di Mosca in marcia su Budapest nel 1956 e poi, 12 anni dopo si ribella all'amico sovietico che voleva fare altrettanto in Cecoslovacchia. Il ministro degli Esteri del Partito comunista italiano, "l'uomo delle istituzioni" di Botteghe oscure che più di ogni altro, pur già esponente della vecchia guardia rossa, ha giovato della caduta del Muro. Tra i pochi "presentabili" tra i compagni, è stato presidente della Camera, poi ministro, infine presidente della Repubblica. E proprio per quanto fatto al Quirinale, forse, Re Giorgio verrà ricordato: nemico di Silvio Berlusconi, gran burattinaio della caduta del Cav nell'autunno del 2010, esempio perfetto di presidente interventista.

IL DIVO ROSSO

Altro che arbitro, il primo comunista al Colle ha dato le carte e rovesciato il tavolo, a suo piacimento, ma sempre ben attento agli interessi internazionali. Più attento all'opinione delle cancellerie estere che alle voci provenienti dalle sedi di partito nostrane, è stato forse anche per questo l'uomo della provvidenza a cui anche Forza Italia ha chiesto, in ginocchio, di restare alla guida della Repubblica in un momento drammatico, la primavera del 2013. Un paradosso, come il fatto che tutti i parlamentari riuniti in sessione plenaria per ratificarne la conferma abbiano applaudito a scena aperta l'uomo che, inusitatamente, anziché ringraziarli, li prese a pesci in faccia in aula. Una scena indimenticabile. Il Napolitano-2 dura poco, meno di due anni. Poi le dimissioni, non appena la situazione si stabilizza. Non poteva sapere, allora, prima di cominciare il suo personale, appartato tramonto umano e politico, che quel "bis" avrebbe fatto scuola, imitato anche dal suo successore Mattarella. Con la morte di Napolitano si chiudono Prima e Seconda Repubblica, avendo accompagnato l'Italia e i suoi segreti dal Dopoguerra a oggi. In fondo, ha rappresentato per ex comunisti e progressisti quel che è stato Giulio Andreotti per il mondo democristiano e cattolico. Una inevitabile, talvolta imbarazzante, sempre fondamentale chiave di volta. 

L'OMBRA DI PAMIRO

Nato il 29 giugno del 1925, come quasi tutti i suoi coetanei non può non essere fascista. E infatti, da universitario alla Federico II, è iscritto al GUF (Gruppi Universitari Fascisti) e scrive di cinema sul settimanale IX maggio. A guerra finita, dopo l'avvicinamento "sottobanco", il giovane Napolitano può entrare ufficialmente nel Pci. Dal 1956 al 1996 siede in Parlamento, con eccezione di una legislatura, e condiziona il rapporto tra comunisti e socialisti. Fin dagli anni di Palmiro Togliatti segretario, infatti, è esponente di spicco della corrente dei "riformisti" per creare, come si diceva in gergo, "la via italiana al socialismo". Utopia bella e buona, anche perché c'è la Storia a mettersi di mezzo. Nel 1956 l'Unione sovietica decide di invadere l'Ungheria per reprimere la rivolta pacifica degli studenti e rimuovere il governo di Imre Nagy: la repressione, approvata dal Pci e da Napolitano, provoca 2.700 morti. Cinquant'anni dopo, nel 2006, lo stesso Napolitano, ormai transitato in pieno atlantismo, riconosce: "Aveva ragione Nenni", il leader socialista che si oppose al putsch militare sovietico. 

DA BUDAPEST A PRAGA

Forse è questa la più grande macchia dell'allievo di Giorgio Amendola, un laico crociano intrappolato nei meccanismi perversi della Guerra Fredda. Una ammenda, non sufficiente certo, ma significativa arriva nel decennio successivo, quando dopo la morte del "Migliore" Togliatti la scalata porta Napolitano alla direzione nazionale del partito. Nel 1968 Mosca soffoca nel sangue anche la Primavera di Praga e i comunisti italiani si dissociano, per quanto possibile, dalla "casa madre". Ed è proprio lui a scrivere il comunicato ufficiale del partito. 

TRA ENRICO E BETTINO

Gli anni Settanta e Ottanta sono il terreno su cui Napolitano coltiva le sue future ambizioni istituzionali: è lo "sherpa" dei sempre complicati rapporti con i socialisti italiani ed europei, tratta con Bettino Craxi e quest'ultimo sarà decisivo nel far rientrare gli ex comunisti nella famiglia della socialdemocrazia europea. Di suo, Napolitano ci mette rapporti personali sempre più fitti con i protagonisti della sinistra moderata internazionale, come il tedesco dell'Ovest Willy Brandt. E non mancano gli attriti con il suo grande rivale interno, Enrico Berlinguer. Da un lato il segretario, comunista duro e puro, quello della "questione morale". Dall'altro il "migliorista", criticato perché giudicato dall'ala destra del partito troppo malleabile, spregiudicato, un po' "situazionista". Avrà ragione lui, e ne trarrà i frutti a momento debito. 

CAMALEONTE

La crisi del comunismo internazionale, più volte adombrata da Napolitano, arriva per lui come una manna tra 1989 e 1991. E infatti è il più lesto ad approfittarne. Mentre Achille Occhetto si mette in spalla il gravoso compito di "chiudere" il Pci e dar vita a quell'ibrido che risponde al nome di Pds (fino alla tragica sconfitta alle politiche del 1994 contro l'outsider Silvio Berlusconi), Napolitano si gode la fama di "statista" maturata negli anni della difficile convivenza con Dc e Psi. Il volto rassicurante del moderatismo rosso si garantisce la nomina alla presidenza della Camera nel 1992, l'anno di Tangentopoli e inizio della fine della Prima repubblica. Anche in questa fase, spicca per tempismo cavalcando l'onda giustizialista e opponendosi alla immunità per i parlamentari.  

GRAZIE PRODI

Il 1996 è l'anno in cui iscrive il suo nome nella storia della Repubblica: il centrosinistra vince per la prima volta le elezioni, il democristianone Romano Prodi diventa premier e affida proprio a lui le chiavi del Viminale, facendolo diventare il primo comunista al Ministero degli Interni. L'esecutivo dura quel che dura, travolto dalle bizze dei comunisti residuali, quelli di Bertinotti e di Rifondazione. Con cui Napolitano non ha mai avuto rapporti di particolare stima. Nel 1999 si apre la finestra europea: da ministro a europarlamentare a Strasburgo, quindi presidente della Commissione Affari costituzionali. Fino al 2004 tesse rapporti che si riveleranno preziosissimi con tutti i leader europei, ben oltre i confini del Partito socialista. Le amicizie influenti nel Ppe si riveleranno, da lì a qualche anno, anche un viatico per gestire personalmente la vita politica italiana come nessun altro presidente, nemmeno il picconatore Cossiga, aveva fatto prima di lui.  

DALL'EUROPA AL COLLE

Nel 2004 è Ciampi a nominarlo senatore a vita, l'anticamera della gloria quirinalizia che arriva nel 2006. Un colpo di mano del centrosinistra, reduce dalla striminzita vittoria alle politiche. Prodi è di nuovo a Palazzo Chigi è l'occasione è propizia: maggioranza e opposizione non trovano la quadra sui candidati favoriti (Franco Marini, Emma Bonino e Massimo D'Alema proposti dai progressisti, Gianni Letta dal centrosinistra) e alla quarta spunta proprio lui, Napolitano, eletto con 543 voti su 990 votanti. Il primo presidente ex comunista, non proprio con scelta bipartisan. Inizia così il settennato più turbolento nella storia recente della Repubblica italiana. I primi anni coincidono con l'inevitabile crisi di Prodi e poi con il biennio d'oro del berlusconismo, che tra 2008 e 2009 marcia a velocità di crociera mai raggiunte. I sondaggi affidano al Cav un gradimento da record, ma saranno prima i gossip privati poi la crisi della finanza e dell'economia reale a frenarlo.  

L'INTERVENTISTA

Napolitano ci mette del suo. Lo scandalo Noemi Letizia, con il divorzio da Veronica Lario, mette in moto una macchina del fango senza precedenti contro il premier, che nella primavera del 2010 rompe con Gianfranco Fini. Secondo i retroscena, è proprio Napolitano a soffiare sul fuoco delle divisioni, convinto che un Berlusconi padrone assoluto della scena sia un danno per il Paese. L'ex capo di AN prova la spallata in aula, ma la sfiducia viene respinta. Non è ancora finita, però. Il Quirinale e il governo entrano in conflitto apertissimo sul tema della giustizia, dal centrodestra si inizia a parlare di un presidente pregiudizialmente contro. 

LA GUERRA (AL CAV)

Tra fine 2010 e inizio 2011 esplodono le primavere arabe. Francia e Usa vogliono intervenire in Libia, convinti ormai che Gheddafi abbia i giorni contati. L'appoggio ai ribelli è scoperto, Berlusconi nicchia per motivi di amiciza personale con il Rais ma anche intuendo i rischi di una operazione militare alle porte dell'Italia. Napolitano si mette l'elmetto e, di fatto, impone al governo di unirsi alla coalizione dei volenterosi per "liberare" Tripoli. E' un suicidio annunciato che darà la stura alle ondate migratorie del decennio successivo e alla instabilità dell'area, da cui prova a trarre giovamento economico l'Eliseo. Il presidente della Repubblica, però, considera primario non uscire dal quadro delle alleanze internazionali. Berlusconi stava per dimettersi, pur di negare il via libera alla missione, ma non lo fece solo per "un atto di responsabilità da riconoscergli ancora oggi", ricoderà qualche anno dopo Napolitano. Questione di mesi, comunque. 

LA SPALLATA

Il crac greco e la lettera della Bce nell'estate dello stesso anno, con mezza Europa convinta che l'Italia sia sulla strada del default, fanno il resto: è l'inizio dell'"euro-complotto", ammesso nel suo libro autobiografico dal presidente francese Sarkozy. Napolitano è costantemente in contatto con Parigi, Berlino, Bruxelles, Washington. Tutti premono affinché Berlusconi, giudicato imprevedibile, venga sostituito da una personalità più organica al grande scacchiere internazionale come Mario Monti. Quando Napolitano nomina il professore senatore a vita, è il segnale: Berlusconi, persi per strada i voti di Fini, non può reggere. Il Colle riunisce tutti i leader dell'arco parlamentare e li convince, forse li obbliga a dire sì al Loden. Monti è accolto come il salvatore della Patria, il Colle gli guarda le spalle e lo protegge per consentirgli riforme lacrime e sangue come quella delle pensioni firmata Fornero. Il "golpetto" ai danni del centrodestra ha però avvelenato il clima, la luna di miele forzata dura qualche mese e genera, nell'allora scrollata di spalle, la genesi di un partito contrario al "governissimo", all'esecutivo di "salvezza nazionale", al dentro-tutti: Fratelli d'Italia. A pochi giorni dal Natale 2012 si arriva così a un altro terremoto, con il centrodestra che toglie la fiducia al governo. Tutti al voto, nel febbraio del 2013. Nessuno lo immagina, ancora, ma si sta per chiudere la Seconda repubblica.  

DRAMMA ITALIANO

Dal voto esce un quadro politico stile Vietnam: il Pd di Bersani, a cui Napolitano aveva imposto di proseguire la legislatura nel 2011, riesce nell'impresa di "non vincere", con Berlusconi autore dell'ultimo miracolo, un sostanziale pareggio, e Monti e Fini azzoppati dagli elettori. Il Quirinale, che si immaginava di dover gestire una transizione morbida con il centrosinistra di nuovo al governo, deve invece fare i conti con la bomba Movimento 5 Stelle, che demolisce il sistema maggioritario "dall'interno" e facendo saltare in aria il bipolarismo (molto teorico) a cui l'Italia si era affidata dopo Mani Pulite per garantirsi un minimo di stabilità. Le consultazioni, drammatiche, coincidono con la scadenza della presidenza di Napolitano. In Parlamento le forze in campo non trovano un'intesa sul suo successore, sono i giorni scovolgenti dei 101 "franchi tiratori" che uccellano il favorito Romano Prodi. Contemporaneamente, Pd e 5 stelle trattano per formare un governo e Beppe Grillo si arrocca chiedendo in cambio l'intesa su un presidente "grillino". Non si va avanti, e qui Napolitano ne inventa un'altra indicando i "dieci saggi", provenienti da tutti i partiti, che sulla carta hanno il compito di trovare un terreno comune per formare un esecutivo. Dopo giorni tremendi, emerge una ipotesi fin lì giudicata clamorosa, se non incostituzionale: rieleggere Napolitano. Bersani è entusiasta, Berlusconi pure. La disperazione della classe politica in carica è evidente, e Re Giorgio è costretto a ricevere al Colle la delegazione dei leader, che lo implorano di accettare. Il presidente ha 78 anni, si dice sfinito dall'esperienza. Ma alla fine accetta, ritrovatosi in un cul de sac che lui stesso ha più o meno involontariamente creato "tifando" per Monti qualche mese prima.   

SCHIAFFI AGLI ONOREVOLI

Il discorso alla Camera, mentre deputati e senatori lo applaudono con un senso di liberazione, è brutale, quasi violento: il presidente dice di aver accettato il bis esclusivamente per senso di responsabilità istituzionale, "ma sapendo che quanto è accaduto qui nei giorni scorsi ha rappresentato il punto di arrivo di una lunga serie di omissioni e di guasti, di chiusure e di irresponsabilità". E poi via con l'elenco degli errori di ogni singolo partito, con gli onorevoli che battono le mani auto-umiliandosi ogni 30 secondi. Il secondo mandato di Napolitano finisce nel 2015: il tempo di veder nascere e morire il governo di unità nazionale di Letta (Enrico) e battezzare il governo di Matteo Renzi, via via più spostato a sinistra. L'ultima soddisfazione del vecchio comunista, l'ultima illusione del "riformatore" anche lui abbagliato dalla furbizia del "rottamatore". Da quando al Colle si è seduto Mattarella, che come lui ha vissuto in prima fila e anche più drammaticamente la stagione degli Anni di Piombo e del trapasso storico degli anni Novanta, Napolitano si è visto sempre più di rado a Palazzo Madama, consapevole che dopo tanto protagonismo l'unica opzione era sparire gradualmente dalla scena. Facile per chi, al ruolo di primo attore, ha sempre preferito lavorare nell'ombra, da regista.

Napolitano, la telefonata in gran segreto a Monti: la vera storia del 2011. Libero Quotidiano il 22 settembre 2023ta in gran segreto a Monti: la vera storia del 2011

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Giorgio Napolitano è stato un abile politico. Non a caso si è messo alle spalle una grandissima carriera nel Partito Comunista. Divenne in poco tempo il "ministro" degli esteri rosso per poi arrivare al Colle e stringere mani ai presidenti americani dopo la caduta del muro di Berlino. Ma questa abilità l'ha dimostrata anche nella politica interna, preparando a volte il terreno a nuovi governi con forse troppo anticipo. È il caso della caduta del governo Berlusconi nel 2011. In quella caldissima estate che aveva preceduto le dimissioni del Cavaliere, Napolitano contattò Mario Monti per sondare il terreno per un nuovo governo in autunno. E così fu, come tutti sappiamo.

Era stato proprio Mario Monti in un'intervista al Corriere a confermare l'accaduto: "Sì, il Colle mi chiese di essere disponibile in caso di necessità". Una frase che qualche anno fa scatenò un vero e proprio terremoto politico con le proteste di Forza Italia che definì quella mossa "irrispettosa della Costituzione". Di fatto Napolitano, come sostengono anche oggi gli azzurri, "preordinò un governo che stravolgeva il responso delle urne". 

E lo stesso Monti ha confermato ancora più tardi quei contatti col Colle in anticipo sugli eventi. Alla domanda di Alan Friedman: “Con rispetto, e per la cronaca, lei non smentisce che, nel giugno-luglio 2011, il presidente della Repubblica le ha fatto capire o le ha chiesto esplicitamente di essere disponibile se fosse stato necessario?”, l’ex premier rispose: “Sì, mi ha dato segnali in quel senso“. Poi in un'intervista al Tg1 sempre Monti aveva detto: "Nell’estate del 2011 ho avuto dal presidente della Repubblica dei segnali: mi aveva fatto capire che che in caso di necessità dovevo essere disponibile. Ma è assurdo che che venga considerato anomalo che un presidente della Repubblica si assicuri di capire se ci sia un’alternativa se si dovesse porre un problema". Fatti consegnati ormai alla Storia. 

Giorgio Napolitano, dai tank di Budapest agli Usa: la parabola del comunista. Libero Quotidiano il 22 settembre 2023

Giorgio Napolitano, il primo presidente della Repubblica che ha giurato per due volte, inutile girarci intorno, era un comunista. Un comunista vero, uno di quelli che ha lavorato a stretto contatto con Palmiro Togliatti destreggiandosi poi con abilità nelle varie correnti del partito diventando interprete perfetto dell'apparato. Era ritenuto "elegante" per la conoscenza dell'inglese e dunque per lui le porte per la scalata al partito nei ruoli chiave si sono aperte subito. Il suo rapporto con Togliatti gli permise poi, dopo la morte del "Migliore" di dare vita a una corrente a lui dedicata, quella dei "Miglioristi". Sotto di lui ha radunato tutti gli allievi del capo. Ma nella sua lunga carriera all'interno del "Partito" ha dovuto anche fare i conti con la repressione sovietica di Budapest e Napolitano stesso è stato tra coloro che chiesero l'intervento dei carri armati. Il 1956 è forse l'anno più buio per il comunismo: la ferocia trova posto anche dopo la guerra con i tank sovietici.

E Napolitano disse anche, come ha ricordato il Corriere, che l'intervento "sovietico ha non solo contribuito a impedire che l’Ungheria cadesse nel caos e nella controrivoluzione ma alla pace nel mondo". Poi, dopo aver indossato gli abiti eleganti di ministro degli Esteri del partito comunista si è destreggiato nei continui cambiamenti del Pci diventato Pds prima, Ds dopo e Pd adesso.

Poi arriva la grande occasione per il Colle: mai un comunista aveva messo piede al Quirinale accomodandosi sulla poltrona del potere. Ma con la caduta del muro di Berlino in Italia le cose in Italia sono cambiate e così anche un comunista ha potuto varcare il portone del Palazzo sul Colle. Come Henry Kissinger ha affermato, Giorgio Napolitano sarebbe sempre stato “il suo comunista preferito”.

Una frase che la dice lunga sull'abilità nel guardare a Est e a Ovest assicurando anche a Washington la stabilità politica che un alleato come l'Italia deve avere. Ecco perché anche un repubblicano come George W. Bush salutò con entusiasmo l'elezione di Re Giorgio nel 2006. E la stessa cosa fece Barack Obama nei suoi anni alla Casa Bianca. Insomma, Napolitano è stato un comunista a stelle e strisce. Anche in questo caso ha mostrato tutta la maestria del politico di lungo corso. L'ultimo capolavoro di Re Giorgio, comunista convinto. 

Napolitano morto, Ignazio La Russa: "Chi è stato per me il presidente". Libero Quotidiano il 22 settembre 2023

Sono forse le parole di Ignazio La Russa e Roberto Calderoli le parole più commosse tra le fila del centrodestra per ricordare Giorgio Napolitano, il presidente emerito scomparso a 98 anni. Una clamorosa lezione alla sinistra, visti anche alcuni vergognosi commenti emersi nel giorno della morte di Silvio Berlusconi lo scorso 12 giugno. Ed è significativo che la bella prova di rispetto umano, politico e istituzionale arrivino da due protagonisti agli antipodi rispetto a Re Giorgio, comunista, europeista e napoletano. Alla faccia delle accuse di "fascismo" che sempre piovono sulla testa di La Russa e di "razzismo", per Calderoli.

Ovviamente spetta alla premier Giorgia Meloni esprimere "cordoglio, a nome del governo italiano, per la scomparsa del Presidente emerito della Repubblica. Alla famiglia un pensiero e le più sentite condoglianze". Anche Matteo Salvini, vicepremier e leader della Lega, "esprime il proprio cordoglio per la scomparsa del presidente emerito, Giorgio Napolitano. È stato un protagonista della vita politica del Paese. Una preghiera e un pensiero per i suoi cari". Gli fa eco Antonio Tajani, leader di Forza Italia ed erede di Berlusconi, che proprio Napolitano indusse alle dimissioni nell'autunno del 2011: "Sono profondamente rattristato per la morte di Giorgio Napolitano. Abbiamo lavorato per anni insieme al Parlamento europeo. Non condividevo le sue idee, ma lo considero un importante protagonista della storia politica italiana. Sono vicino alla sua famiglia". 

Quindi, le parole per certo verso sorprendenti di La Russa, per una vita sulla sponda opposta del "comunista" Napolitano: "Con la scomparsa del presidente emerito Giorgio Napolitano l'Italia perde uno straordinario testimone della nostra storia repubblicana. Per lui politica, cultura e istituzioni erano vita, passione, ma anche razionalità e coerenza. Quando ero ministro della Difesa aveva stabilito con me, da capo supremo delle forze armate, un forte rapporto di collaborazione e io mai ho celato le mie simpatie personali nei suoi confronti, nonostante avessimo posizioni politiche ben distanti. Al presidente Napolitano, ho sempre riconosciuto la sua puntigliosa attenzione nei confronti delle nostre forze armate, del loro onore, delle loro qualità, della loro necessità di essere considerate uno dei momenti fondamentali della comunità nazionale. Ricordo, inoltre, che la sua parola fu decisiva affinché la celebrazione per i centocinquanta anni dell'Unità d'Italia avvenisse con l'importanza che meritava". 

Anche Giancarlo Giorgetti, ministro dell'Economia e numero 2 della Lega, lo rammenta con un aneddoto personale: "Saluto con rispetto e commozione un protagonista della storia politica del nostro Paese, una persona che mi ha dimostrato stima e fiducia in momenti difficili della vita politica italiana. Esprimo condoglianze sentite e sincere ai familiari e alle persone che gli sono state vicine". Giorgetti fu nominato nel 2013 proprio dall'allora Capo dello Stato tra i 10 saggi per elaborare un piano di riforme istituzionali ed economiche e sbrogliare il quadro di impasse politica post-elezioni.

"Rendo onore ad un grande avversario - è invece il pensiero di Calderoli, ministro per gli Affari regionali e le autonomie -, con cui però ho anche condiviso amicizia e stima. Esprimo il mio cordoglio per la scomparsa del presidente emerito Giorgio Napolitano e la mia vicinanza alla sua famiglia in questo momento di dolore".

Cruciani a Stasera Italia: "Napolitano? Cinico e capace di tramare". Libero Quotidiano il 22 settembre 2023

Anche a Stasera Italia su Rete 4, come per Otto e mezzo su La7, tiene banco la morte di Giorgio Napolitano, il presidente emerito della Repubblica scomparso venerdì sera a 98 anni dopo che le sue condizioni di salute erano peggiorate irreparabilmente nell'ultima settimana.

In studio, ospite di Nicola Porro, c'è anche Giuseppe Cruciani che come suo solito va a fondo nel ritratto di "Re Giorgio" senza disegnarne un "santino" politico in ossequio all'enorme rilievo istituzionale avuto dal primo Capo dello Stato comunista nella storia italiana. 

"Un grande politico, certamente - premette il giornalista, conduttore de La Zanzara su Radio 24 -, ma di estremo realismo e cinismo, capace di allearsi e di tramare, non in senso negativo, con chiunque". "Lui fece politica molto attiva durante gli anni della Presidenza della Repubblica - sottolinea Cruciani -, il che ovviamente per i puristi della Presidenza della Repubblica, quelli che a sinistra dicono 'eh il presidente della Repubblica è super partes', sembra oggi quasi di dire una cosa folle". 

"Ma è così - conclude l'opinionista -, lui fece una politica molto attiva, come ha detto prima Sallusti interferendo pesantemente nella vita politica, ma non in senso negativo anche qui, perché è così. Quel che veniva rimproverato a Cossiga non venne poi rimproverato a Napolitano. Apparteneva inevitabilmente alla élite di questo Paese, e mano a mano che la politica cambiò veniva visto dalle persone comuni come qualcuno che faceva parte dell'establishment di questo Paese". 

Padellaro, "Napolitano e le leggi vergogna di Berlusconi". Libero Quotidiano il 22 settembre 2023

Bastone e carota per Giorgio Napolitano. Ospite di Otto e mezzo in collegamento con Lilli Gruber su La7, Antonio Padellaro ricorda i tanti attriti tra il Fatto quotidiano e il presidente emerito, morto venerdì sera a 98 anni. E l'ultimo ricordo del braccio destro di Marco Travaglio non lesina altre critiche al primo Capo di Stato comunista nella storia della Repubblica. 

"È un uomo protagonista del 900. Personaggio di spessore che oggi ci sogniamo", premette l'editorialista del Fatto, che poi inizia a infilzarne la memoria: "Era un arbitro che si era fatto giocatore in campo". "Perché?", domanda la Gruber, ben sapendo dove si sarebbe andati a parare. 

"Quando lui è stato Presidente della Repubblica, nell'epoca di Silvio Berlusconi imperante, ha deciso che tutte le leggi vergogna andavano firmate. Compresa la legge più vergogna delle altre, lo Scudo fiscale, il rientro di capitali nei Paradisi fiscali in Italia attraverso un condono di pochi spiccioli. Noi chiedemmo a Napolitano di non firmare, raccogliemmo 250mila firme ma lui firmò lo stesso". 

"È stato l'uomo che ha tolto Berlusconi da Palazzo Chigi. Lo ha fatto dimettere - conclude Padellaro -. Aveva una alternativa, c'era l'ascesa dei 5 Stelle che avrebbero potuto formare con il Pd di Bersani un governo di centrosinistra. Ma Napolitano diede vita al governo tecnico di Mario Monti e da quel momento il centro-destra ha fatto perdere voti al centro-sinistra". 

Paolo Mieli, "Napolitano l'ho conosciuto da bambino". Libero Quotidiano il 22 settembre 2023

"Io l'ho conosciuto da bambino". Paolo Mieli, ospite di Lilli Gruber a Otto e mezzo, ricorda in diretta Giorgio Napolitano, presidente emerito della Repubblica scomparso a 98 anni pochi minuti prima della messa in onda del talk di La7.

"Per molti anni, insieme a mio padre - premette l'ex direttore del Corriere della Sera, oggi opinionista del quotidiano di via Solferino - è stato l'unico comunista a parlare inglese fluidamente. L'aveva perfezionato durante l'occupazione americana e la liberazione di Napoli nel 1944 e '45, e qualsiasi personalità del mondo anglosassone che venisse in Italia e volesse parlare con un dirigente comunista andava per necessità da Napolitano, se non avesse voluto portarsi dietro un interprete".

In quegli anni, ricorda la Gruber, il Partito comunista italiano era il più potente in Europa e gli americani guardavano ai comunisti italiani sempre con diffidenza. "Anche i comunisti italiani guardavano con diffidenza agli americani - sottolinea Mieli -, anzi erano ostili, dalla Corea al Vietnam, era la Guerra Fredda. Napolitano era un moderato, il delfino di Giorgio Amendola, contrapposto a Pietro Ingrao".

"Quando morì Togliatti - ricorda ancora Mieli -, sembrava che dovesse essere lui il nuovo segretario ma dopo un biennio gli fu preferito Berlinguer. Da quel momento si occupato di politica internazionale e di socialdemocrazia. Per questo, quando cadde il comunismo, era l'unica figura di riferimento buona per fare il presidente della Camera, il ministro degli Interni, il primo e secondo presidente comunista. Fece tutto questo da una posizione dissidente nel Pci, perché l'anima del partito era Berlinguer e lui era un socialdemocratico, considerato di destra". 

Italo Bocchino imbarazza la Gruber: "Napolitano fascista". Libero Quotidiano il 22 settembre 2023

"Ha cominciato la sua attività politica da fascista". Il Giorgio Napolitano che la sinistra, forse, voleva rimuovere: è Italo Bocchino, ospite di Lilli Gruber a Otto e mezzo su La7, a ricordare il passato del presidente emerito della Repubblica scomparso a 98 anni. Il ritratto di Re Giorgio è affidato a commentatori come Paolo Mieli ex direttore del Corriere della Sera, Antonio Padellaro (editorialista del Fatto quotidiano, nonché ex direttore dell'Unità) e Silvia Borelli Sciorilli. Ma Bocchino dà un punto di vista tutto politico alla vita e all'operato di Napolitano, avendone incrociato le strade in primissima persona.

"E' stato uno dei grandi protagonisti della storia repubblicana italiana, un uomo colto, raffinato, intelligente, di grande educazione, un uomo molto molto rigoroso, pignolo. Appuntava tutto in ogni singolo colloquio. Sarebbe un torto alla sua memoria non considerare Napolitano complessivamente: giovane universitario fascista, ha sposato acriticamente l'intervento dell'Unione sovietica contro i ragazzi che protestavano pacificamente in Ungheria, Kissinger lo adorava per i segnali di moderazione dati al Partito comunista". 

"Poi è arrivata l'altra pagina, quella del 2010-11", quella del "golpetto" che portò alle dimissioni l'allora premier Silvio Berlusconi. In quel tempo Bocchino era a fianco di Gianfranco Fini in Futuro e libertà, proprio contro il Cav: "Io ero capogruppo in quel tempo, e devo dire che Napolitano era in grande, grande difficoltà".

Da liberoquotidiano.it sabato 23 settembre 2023.

"Hai fatto il ritratto di un grande opportunista, questo è". Antonio Padellaro va dritto al punto e in collegamento con Lilli Gruber a Otto e mezzo, su La7, definisce così Giorgio Napolitano. Il presidente emerito della Repubblica, il primo comunista al Quirinale, è morto venerdì sera a 98 anni. L'editorialista del Fatto quotidiano ascolta con attenzione "l'elenco magistrale fatto da Paolo Mieli", pochi secondi prima di lui, con tutte le colpe politiche di Re Giorgio, dai tempi del Pci e dell'Unione sovietica fino al Colle, e va giù ancora più duro. 

"Tutte le ambiguità di Napolitano ci dicono che questo personaggio, che certamente ha fatto comodo a un certo tipo di sistema,  beh insomma ha sempre agito legittimamente nel suo interesse personale". 

"Il suo essere Napolitano ha creato problemi anche al sistema complessivo - rincare Padellaro -. Quando viene rieletto la seconda volta, attenzione: crea un precedente. In quel momento certifica l'incapacità della democrazia parlamentare di nominare un nuovo presidente della Repubblica". "Però è stata la sconfitta dei partiti politici, è stato uno psicodramma", lo interrompe la Gruber. 

"Sì, verissimo, ma lui è stato il medico che ha continuato a somministrare i medicinali che invece di guarire il sistema politico hanno fatto sì che questa malattia permanesse".

Napolitano, Francesco Storace: quando celebrò Giorgio Almirante. Francesco Storace su Libero Quotidiano il 24 settembre 2023

Quel 26 giugno del 2014 fummo in molti a restare stupiti favorevolmente. Il giorno successivo sarebbe stato il centenario della nascita di Giorgio Almirante e al Colle c’era un comunista del calibro di Giorgio Napolitano. Che spese parole bellissime in ricordo del leader missino scomparso nel 1988. Gli diede atto della fede nella democrazia: «Il Parlamento è stato il luogo», scrisse Napolitano «in cui si è svolta la parte prevalente della lunga attività politica di Almirante, per l’intero arco delle prime dieci legislature repubblicane».

LOTTA IN PARLAMENTO

E aggiunse: «Egli fu sempre consapevole che solo attraverso il riconoscimento dell’istituzione parlamentare e la concreta partecipazione ai suoi lavori, pur da una posizione di radicale opposizione, rispetto ai governi, la forza politica da lui guidata avrebbe potuto trovare una piena legittimazione nel sistema democratico nato dalla Costituzione».

Ma non solo. Napolitano gli rese anche merito per quel che Almirante fece contro le tensioni estreme: «In questo quadro egli ha avuto il merito di contrastare impulsi e comportamenti antiparlamentari che tendevano periodicamente ad emergere, dimostrando un convinto rispetto per le istituzioni repubblicane, che in Parlamento si esprimeva attraverso uno stile oratorio efficace e privo di eccessi anche se aspro nei toni».

Infine, l’apprezzamento più bello, sul senso dello Stato: «Giorgio Almirante è stato espressione di una generazione di leader di partito che, pur da posizioni ideologiche profondamente diverse, hanno saputo confrontarsi mantenendo un reciproco rispetto, a dimostrazione di un superiore senso dello Stato che ancora oggi rappresenta un esempio». Questo messaggio andrebbe letto oggi anche a chi guarda a quel leader della destra italiana ancora con il torcicollo rivolto al passato, come se dieci legislature trascorse in Parlamento non avessero consacrato la sua profonda fede nella democrazia. E pensare che ci sono ancora sindaci che non vogliono saperne di intitolare strade delle loro città a quell’Uomo. Quelle parole di Napolitano furono davvero belle.

Da Il Dubbio.

1925 – 2023. Addio Re Giorgio. È morto Giorgio Napolitano, l’ex capo dello Stato aveva 98 anni. Ex dirigente del Pci, ex ministro dell’Interno, ex presidente della Camera, Napolitano era un politico della vecchia scuola, mai sedotto dalla retorica un po’ demagogica della trasparenza assoluta. Con lui è cambiato il Quirinale. Paolo Delgado su Il Dubbio il 22 settembre 2023

Lo chiamavano “re Giorgio” e il soprannome, per nulla esagerato, dice molto su come il primo e unico esponente del vecchio Pci asceso al Colle interpretasse il suo mandato. Gli esempi sono innumerevoli ma anche solo i più clamorosi bastano a inquadrare la particolarità di quella presidenza. Nel novembre del 2010 la rottura tra Berlusconi e Fini sembrava dover decretare la caduta del governo del Cavaliere. I numeri parlavano chiaro, le mozioni di sfiducia erano state depositate. Napolitano si mise di mezzo chiese sia a Fini che al Pd di posticipare il voto per non mettere a rischio l'approvazione della legge di bilancio. Il Pd era già allora condizionato in ogni sua scelta dal peso di un presidente della Repubblica che aveva però potere assoluto sul suo partito di provenienza. Fini, allora presidente della Camera si piegò, anche perché non era certo facile dire di no a Giorgio Napolitano. Per Berlusconi quel mese di dilazione significò la salvezza: gli diede il tempo per allestire la campagna acquisti che il 14 dicembre, a sorpresa e grazie al passaggio di campo di due senatori eletti con l’Italia dei valori di Antonio Di Pietro, portò alla sconfitta della mozione di sfiducia e alla disfatta di Gianfranco Fini.

Non che Napolitano intendesse fare un favore a Silvio Berlusconi. Ma tutta la sua presidenza era stata segnata da una strenua campagna contro il rischio di elezioni anticipate. Considerava l'interruzione anzi tempo delle legislature la grande iattura della politica italiana e adoperò tutte le sue numerose armi, sino a una forzatura estrema del suo ruolo, per evitare quell'esito. L'ex dirigente del Pci, ex ministro dell’Interno, ex presidente della Camera, inoltre, non interpretava affatto il ruolo del primo cittadino come quello di un arbitro che osserva senza impicciarsi. Al contrario, dal primo all'ultimo giorno del suo regno fece del Quirinale un potente soggetto politico pronto a entrare in partita ogni volta che il presidente lo ritenesse opportuno “nell'interesse del Paese”.

Nel marzo del 2011 Berlusconi era fermamente contrario, come ammetterà anni dopo lo stesso Napolitano, alla partecipazione dell'Italia alla spedizione militare delle potenze occidentali in Libia, tanto da minacciare le dimissioni. I fatti gli avrebbero poi dato ragione. Il presidente della Repubblica e capo delle Forze Armate aveva invece convocato il Consiglio supremo di difesa e preso apertamente posizione a favore dell'intervento. «Gheddafi sta sfidando il mondo e l'Italia non può restare indifferente», aveva detto. La decisione tedesca di non attaccare la aveva definita «incomprensibile».

Quando la notizia dell'attacco imminente arrivò a Roma, il 18 marzo, tutti i vertici istituzionali erano al Teatro dell'Opera, dove andava in scena il Nabucco in onore dei 150 anni dell'unità d'Italia. Berlusconi, Letta, il ministro della Difesa La Russa e i capi di Stato maggiore si appartarono in una saletta. Il presidente irruppe poco dopo e dopo il suo pronunciamento, in qualità appunto di capo delle Forze armate, per un Berlusconi già fiaccato dalla ribellione interna che lo aveva quasi scalzato meno di tre mesi prima resistere era impossibile. L'Italia partecipò così a una guerra il cui vero obiettivo era proprio scalzare la posizione privilegiata dell'Italia in Libia.

Quando nell'estate dello stesso anno si scatenò la tempesta dello spread, il presidente era già fermamente deciso a liberarsi dal governo Berlusconi. Il nome del successore, Mario Monti, circolava da molto prima che lo spread iniziasse la sua pazza corsa in agosto. «Alcuni segnali mi erano arrivati già da giugno, ma cosa c'è di strano?» avrebbe ammesso candidamente Monti qualche anno dopo. In agosto, dopo l'invio della lettera memorandum all'Italia il presidente, secondo la ricostruzione dello stesso Monti, «mi fece capire che in caso di necessità dovevo essere disponibile». Il 9 novembre Napolitano nominò Monti senatore a vita. Una settimana dopo, a seguito delle dimissioni di Berlusconi, era presidente del Consiglio.

Il presidente, fresco di rielezione, rispose spiegando le sue attività con «il sempre più evidente logoramento della maggioranza di governo» e almeno in parte era certamente sincero. Napolitano era un politico della vecchia scuola, mai sedotto dalla retorica un po' demagogica della trasparenza assoluta, convinto invece che la difesa di quelli che considerava in assoluta onestà «gli interessi del Paese» andasse organizzata e gestita muovendosi attivamente. Lo aveva già provato a fare, al momento della caduta del governo Prodi, nel 2008 insistendo inutilmente perché il professore si sottraesse al voto del Senato, evitando così di perdere ogni chance di rientro in gioco. Già allora il suo obiettivo era evitare la fine anticipata, in quel caso molto anticipata, della legislatura, verificando la possibilità di una maggioranza di larghe intese.

La nascita di quella maggioranza, la seconda dopo Monti, Napolitano la avrebbe posta come condizione per accettare il secondo mandato, nel 2013, dopo il disastro della bocciatura di Prodi da parte di 101 franchi tiratori. Napolitano a quel secondo mandato non ambiva proprio, lo considerava anzi un pessimo precedente, destinato a ripetersi e aveva ragione. Forse proprio perché sapeva di aver forzato al massimo i limiti del suo ruolo istituzionale, riteneva pericoloso che un presidente diventato grazie a lui figura essenziale del gioco politico potesse regnare per 14 anni. Si dimise infatti meno di due anni dopo la nuova elezione. Ma dopo il suo passaggio il Quirinale non poteva tornare a essere quello di prima: ormai era, e in qualche misura è rimasto, nonostante lo stile di Mattarella così distante da quello del predecessore, il palazzo reale.

Quando Napolitano temeva il secondo mandato: «E se perdo lucidità?» Le paure e le preoccupazioni di un uomo di Stato, alla vigilia del secondo mandato al Quirinale, confidate al grande amico Emanuele Macaluso. Aldo Varano su Il Dubbio il 24 settembre 2023

Spetterà in futuro agli storici definire il ruolo di Giorgio Napolitano nella storia d’Italia e nelle vicende della Repubblica. Un ruolo di primo piano se si tiene conto che fu l’unico politico del nostro paese che ebbe una parte di straordinaria importanza nella storia, nella vita e nella direzione del Pci e, insieme, in quella della Repubblica. Di più. Fu l’unico leader, prima del Presidente Mattarella, a venire eletto per due volte consecutive Presidente della Repubblica, da sempre la più prestigiosa carica italiana. E non c’è certo bisogno di scervellarsi per capire a chi allude Emanuele Macaluso, che pure aveva diviso per anni la stessa stanza con Berlinguer a Botteghe Oscure, quando rivela in un libro che Luigi Longo, ex segretario del Pci e successore di Togliatti, gli aveva rivelato «che era pentito di avere scelto Berlinguer come suo successore» ( cfr. Comunisti a modo nostro, Macaluso e Petruccioli, Marsilio 2020, pag. 218,).

Avendo avuto la fortuna di conoscere da vicino sia Napolitano che Macaluso, per meglio raccontare Napolitano, mi permetto di ricordare una confidenza che Macaluso, molto privatamente, mi fece sul suo amico Napolitano qualche mese dopo che, superati decisamente gli 80 e rotti anni, era, suo malgrado, diventato per la seconda volta Presidente degli italiani. Si guardò intorno per essere sicuro che nessuno ci ascoltasse Macaluso, e mi raccontò: «Con Giorgio ci sentiamo ogni mattina. Prestissimo, come abbiamo sempre fatto per decenni. È preoccupatissimo per la rielezione. L’ha accettata per responsabilità verso la Repubblica. Ma lui è in sofferenza. Lo inquieta il pensiero e il rischio di fare al paese danni involontariamente. Dice che bisogna creare subito le condizioni perché possa venire sostituito. Lo assilla - continuò Macaluso - un’idea che all’inizio mi ha stupito ma che in realtà non è tanto bislacca, specie all’età mia e sua di ultraottantenni. M’ha detto: “E se perdo lucidità e non me ne accorgo? capisci i danni che posso fare all’Italia?”. Io la prima volta gli ho detto: “Scusa, se ti capita t’inventi qualcosa e ti dimetti in tronco”. E lui: “Facile a dirsi. E se non me ne accorgo che perdo lucidità proprio perché non sono più lucido?” E poi, quasi di getto: “Purtroppo non c’è uno che possa venire a dirmi: senta Napolitano lei non regge più quindi la dispenso da subito e con effetto immediato dal suo lavoro di Presidente. Insomma, posso danneggiare l’Italia senza volerlo e senza che nessuno me lo possa impedire”». Macaluso parlava quasi rivivendo le angosce del suo amico. Sapeva di potersi fidare e quindi si sfogava anche lui.

Finalmente nel 2015 “Re Giorgio”, come polemicamente lo chiamavano gli avversari, dopo aver sommato nove anni di presidenza della Repubblica, riuscì a passare la mano. Venne eletto al suo posto un altro politico di livello altissimo: Sergio Mattarella. Anche lui, da studioso teorico della norma che il presidente può venire eletto una volta soltanto, sarebbe stato rieletto, e avrebbe accettato per responsabilità verso la Repubblica.

Napolitano, in maniera più lucida di Giorgio Amendola del quale era considerato e si riteneva allievo, insieme a Chiaromonte, Macaluso, La Torre e molti altri dirigenti del Pci, in gran parte meridionali ( aspetto curiosamente poco indagato da studiosi e politologi), aveva segnato nella storia della Repubblica, la rottura di fatto di una parte ampia dei comunisti italiani dalle suggestioni e ipoteche dell’Unione sovietica.

Non una rottura e un rifiuto espliciti. Lo scontro fu indiretto e si consumò per intero attorno alla scelta tra politica del compromesso storico, ipotizzata e teorizzata soprattutto da Berlinguer con l’appoggio di una parte larga della sinistra del Pci ( specialmente dopo il colpo di Stato della destra militare contro la democrazia in Cile) e quella delle larghe alleanze che guardava in modo privilegiato alla tradizione e alla realtà dei socialisti italiani e delle componenti politiche di cultura laica, che Napolitano mise al centro dei suoi sforzi.

Il compromesso storico immaginava una strategia e uno spazio di autonomia crescente del Pci dal movimento comunista internazionale egemonizzato dal comunismo sovietico, senza però romperne per intero e in modo radicale i vincoli con quell’esperienza. Fu attorno a questa questione che si divisero e ricomposero le correnti sotterranee che attraversavano il Pci.

La divisione non era di poco conto. Nel primo caso per il Pci il problema fondamentale diventava l’alleanza coi cattolici della Dc e la strategia che fu chiamata del “compromesso storico”. La seconda ipotesi puntava, invece, alla costruzione di uno schieramento di socialisti e laici che avrebbe dovuto attirare nell’alleanza anche i cattolici di sinistra. Sulla prima ipotesi erano schierate le componenti che sostenevano di essere più di sinistra. L’altra, di cui Napolitano diventerà il leader di fatto puntava a costruire un’alleanza che riunificava il mondo della sinistra: quello socialista, quello comunista, quello laico. Un mondo che veniva considerato prioritario pur senza porre alcuna opposizione di principio contro i cattolici. Nel dibattito i comunisti che sostenevano questa strategia furono soprannominati “miglioristi”, una definizione che diventò un insulto. L’accusa neanche tanto velata contro i “miglioristi” era che avessero rinunciato al progetto di una reale trasformazione della società per inseguire piccoli miglioramenti che lasciavano intatta la realtà violenta dello sfruttamento capitalista. Nel primo caso, laici e socialisti erano una componente utile ma non strategica. Nel secondo, l’unità coi socialisti ed i laici era la componente fondamentale e prioritaria che avrebbe dovuto attrarre e coinvolgere anche le componenti della sinistra cattolica.

La storia avrebbe scelto una strada più semplice energica e lineare facendo crollare, come cosa ovvia naturale e necessaria, il comunismo sovietico. Anche in Italia crollò tutto. Occhetto, l’ultimo segretario del Pci, fece un’assemblea di anziani militanti bolognesi in una sezione e con loro di fatto decise di sciogliere il Pci arrivato fuori tempo massimo all’appuntamento con la storia ( un congresso avrebbe poi approvato tutto nel 1991 trasformando quel che era rimasto del Pci in Partito democratico della sinistra).

Napolitano, il comunista liberale che sfidò il potere della magistratura. Si formò tra le “lezioni” di Luigi Einaudi e la “scelta di vita” di Giorgio Amendola. Francesco Damato su Il Dubbio il 22 settembre 2023

Se Massimo D’Alema è stato il primo e sinora unico dirigente proveniente dal Pci e salito alla guida di un governo in Italia, presiedendone addirittura due in un solo anno e mezzo, Giorgio Napolitano è stato il primo e unico a salire ancora più in alto, al Quirinale. Ma già prima era stato ministro dell’Interno al Viminale: un’altra postazione che sembrava impossibile per un politico della sua provenienza.

Al Quirinale da presidente della Repubblica egli si guadagnò in breve tempo, per l’energia messa nell’esercizio delle sue funzioni, il soprannome più cordiale che critico di “Re Giorgio”. E vi rimase non per sette anni, quanto dura il mandato del capo dello Stato, ma nove, essendo stato confermato quasi plebiscitariamente alla scadenza, nel 2013, con 738 voti su 1007 fra senatori, deputati e delegati regionali. La prima volta i voti favorevoli erano stati 543.

Il presidente rieletto sarebbe rimasto per tutto il secondo mandato, sino al 2020, se volontariamente non vi avesse rinunciato dopo due anni per stanchezza fisica dichiarata ma francamente dubbia. Ho sempre avuto il sospetto che egli avesse lasciato per un misto di delusione e preoccupazione procuratogli dai metodi un po’ spicci, diciamo così, con i quali Matteo Renzi, da lui nominato presidente del Consiglio nel 2014, guidava il governo e insieme il Pd, dove erano confluiti i resti del Pci, della sinistra democristiana e cespugli ambientalisti e liberali. Proprio per quei metodi spicci, ostentati presentandosi al Senato con le mani in tasca e l’annuncio che quella che stava chiedendo sarebbe stata l’ultima fiducia di quell’assemblea ad un governo, la riforma costituzionale cui tanto teneva anche il capo dello Stato sarebbe stata bocciata in un referendum improvvidamente trasformato dal presidente del Consiglio in un plebiscito su se stesso. Ma a quel punto, per stanchezza -ripeto- dichiarata ma dubbia, Napolitano aveva già lasciato il Quirinale, sostituito da Sergio Mattarella.

Nei nove anni di Presidenza della Repubblica Napolitano non era mai riuscito a raggiungere la popolarità del socialista Sandro Pertini, l’uomo più a sinistra che lo avesse preceduto al vertice dello Stato. Lui, del resto, nell’esercizio delle sue funzioni non aveva mai puntato sulla popolarità, anche a costo di strappi come quelli compiuti da Pertini sostituendosi al governo nella composizione di una vertenza dei controllori di volo che minacciava di paralizzare il traffico aereo, quanto sull’ordine nei rapporti fra le istituzioni, anche a costo di procurare grosse delusioni a chi magari aveva fatto qualche affidamento su di lui non dico per sovvertire quell’ordine ma per ricavarne un vantaggio nella eterna lotta politica.

Nell’autunno del 2010, per esempio, l’allora presidente della Camera Gianfranco Fini ruppe clamorosamente la maggioranza di centrodestra che lo aveva peraltro portato al vertice di Montecitorio in cambio del ritorno di Silvio Berlusconi a Palazzo Chigi. Una mozione di sfiducia contro il governo promossa dai finiani, e preparata sin nell’ufficio dello stesso Fini, venne praticamente bloccata da Napolitano intimando di fatto alle Camere di sgomberare prima il campo dall’adempimento dell’obbligo di approvare entro la fine dell’anno il bilancio dello Stato. E quando la mozione fu finalmente messa ai voti perse Fini e vinse Berlusconi, che nel frattempo aveva voluto e saputo serrare le file del centrodestra.

La crisi sopraggiunse dopo un anno, con l’arrivo di Mario Monti a Palazzo Chigi, previa la sua nomina a senatore di a vita con la voglia peraltro di Berlusconi di controfirmane la nomina, ma non per questo la situazione politica svoltò a favore di Fini. Che nelle elezioni anticipate del 2013, pur ricandidandosi alla Camera in uno schieramento allestito a sorpresa da Monti, non riuscì a tornarvi.

Non meno forte -credo- fu la delusione procurata da Napolitano all’amico ed ex compagno di partito Pier Luigi Bersani nel 2013, quando gli tolse l’incarico affidatogli di presidente del Consiglio, declassandolo a pre-incarico, per impedirgli di formare un governo poco ortodosso, diciamo così, per la nostra Costituzione: un governo dallo stesso Bersani definito con una certa imprudenza “di minoranza e combattimento”. Esso avrebbe dovuto guadagnarsi strada facendo la fiducia e non so cos’altro dei grillini arrivati in Parlamento per aprirlo come una scatola di tonno o sardine.

Di militanza comunista, avendo visto nella forte organizzazione del Pci una condizione decisiva per la lotta al fascismo, ma di formazione culturalmente liberale, come per certi versi il più anziano Giorgio Amendola, non fu certamente per caso che Napolitano si trovò spesso al Quirinale a ispirarsi all’azione e alle prediche per niente inutili di Luigi Einaudi. Al quale si richiamò, per esempio, motivando il clamoroso ricorso alla Corte Costituzionale contro il sostanziale tentativo della Procura di Palermo di coinvolgerlo nelle indagini e nel processo, intercettandone il telefono, sulla presunta trattativa fra lo Stato e la mafia negli anni delle stragi. Di Einaudi, in particolare, Napolitano ricordò il monito ai successori a trasmettere intatti i poteri del presidente della Repubblica, da chiunque minacciati: anche da una magistratura il cui Consiglio Superiore peraltro è costituzionalmente presieduto dallo stesso Capo dello Stato.

Quel ricorso di Napolitano alla Corte Costituzionale è generalmente indicato fra gli atti più significativi della sua Presidenza con riferimento ai rapporti fra politica e giustizia, o fra politica e magistratura. Senza volergli togliere nulla, per carità, e liberandolo dall’aspetto personale sostanzialmente rimproveratogli da un critico come il presidente emerito della Consulta Gustavo Zagrebelsky, che immaginò i giudici della Corte quasi intimiditi dall’iniziativa di Napolitano che ne aveva nominati alcuni, considero ancora più significative, sul piano politico e istituzionale, le distanze dalla magistratura prese da Napolitano commentando la vicenda giudiziaria di Bettino Craxi.

Ciò avvenne in una lettera pubblica alla vedova scritta nel decimo anniversario della morte del leader socialista. In essa il presidente della Repubblica e -ripeto- presidente del Consiglio Superiore della Magistratura lamentò due cose delle quali non so francamente quale possa e debba tuttora considerarsi più grave: il “brusco cambiamento” intervenuto nei rapporti fra giustizia e politica, e quindi nell’equilibrio fra i poteri, con la gestione delle indagini sul finanziamento tanto illegale quanto diffuso dei partiti e la “severità senza pari” -testuale anch’essa- adottata contro Craxi. Del quale peraltro Napolitano anche nel Pci, da dirigente di minoranza, aveva preso le difese politicamente in anni ben precedenti alle cosiddette “Mani pulite”: per esempio, all’epoca della cosiddetta “solidarietà nazionale”, contestando la discriminazione contro i socialisti accettata o -peggio ancora- chiesta da Enrico Berlinguer per appoggiare dall’esterno, tra astensione e regolare voto di fiducia, un governo monocolore democristiano: del quale non facessero parte i comunisti ma neppure i socialisti, appunto.

 Quando Napolitano scrisse alla vedova Craxi: «Contro di lui una durezza senza eguali». Resta finora l’unica presa di posizione sul “Caso C. “ di un presidente della Repubblica e anche, implicitamente, la più netta o tra le più nette denunce, comunque la più altisonante. Paola Sacchi su Il Dubbio il 23 settembre 2023

La signora Anna Craxi, vedova di Bettino, come ci raccontò in due delle sue rare interviste a Panorama e poi anni dopo a Il Dubbio, restò sorpresa e commossa da quelle nette parole che per la prima volta un presidente della Repubblica, peraltro proveniente dal Pci-Pds-Ds, area “migliorista”, usò a difesa dello statista socialista, morto in esilio a Hammamet, a soli 65 anni. Ne avrebbe compiuti 66 il mese successivo. Il famoso fax di casa Craxi, sulla collina, detta in Tunisia “dei serpenti e degli sciacalli”, senza vista mare, sfornò la lettera dal Quirinale del Capo dello Stato, con un riconoscimento inedito: per Bettino Craxi fu usata “una durezza senza eguali”. Nella lettera, indirizzata alla vedova e a partire da lei a tutta la famiglia Craxi, Napolitano, pur senza rimettere, come precisa, l’esito delle conclusioni della vicenda giudiziaria, ricordò anche una delle decisioni della Corte europea di Strasburgo che annullarono alcune sentenze di condanna di Craxi perché emesse “senza giusto processo”.

Resta finora l’unica presa di posizione sul “Caso C. “ di un presidente della Repubblica e anche, implicitamente, la più netta o tra le più nette denunce, comunque la più altisonante, contro il particolare accanimento di “mani pulite” nei confronti dell’ex leader del Psi e dell’ex premier che guidò il governo della cosiddetta Prima Repubblica, realizzando significative riforme. Il “Caso C.”, unico nel mondo occidentale, che continua a non fare onore all’Italia, cui dette una lezione di civiltà la piccola e povera Tunisia, ospitando Craxi come rifugiato politico (trattato italo-tunisino 1966), è ora inevitabilmente intrecciato allo strano caso di un Capo dello Stato, ex presidente della Camera, ex ministro dell’Interno, e soprattutto ex esponente di spicco dell’area “migliorista”, la destra interna al Pci, che durante Tangentopoli aprì per la prima volta le porte di Montecitorio alla Guardia di Finanza, dette il via all’eliminazione dell’immunità parlamentare, o meglio al grosso di questa ultima trincea a difesa del primato della politica. Un presidente che però non sposò a testa china il durissimo scontro ingaggiato da Enrico Berlinguer contro Craxi sul decreto di San Valentino, scontro, perso dal Pci al referendum, contro una misura che salvò l’Italia dall’inflazione galoppante. Una battaglia contro il governo Craxi che anche lo stesso segretario generale della Cgil, Luciano Lama, altro esponente dei “miglioristi”, liquidati nel Pci come “gli amici di Craxi", non approvò dentro di sé, ma disse sì in nome di quella disciplina di partito unanimistica sigillata dalla regola del “centralismo democratico”. Ma qui entra in campo la storia di una componente minoritaria del Pci che non raggiunse l’obiettivo più avanzato del riformismo anche sul piano della giustizia, pur essendo stata per paradosso l’unica dell’ex Pci poi lambita e colpita da “mani pulite”, insieme con il Psi e la destra della Dc.

Emanuele Macaluso, il più eretico e coraggioso dei “miglioristi”, pur fraterno amico e compagno, una volta, lui l’ex stretto collaboratore di Palmiro Togliatti, in privato ammise: “Giorgio è troppo cauteloso”. Ma qui entra in campo la complessa figura e anche affascinante storia di un presidente venuto dall’alta borghesia intellettuale di avvocati di Napoli, con tanto di amicizia familiare con il liberale Benedetto Croce, con un padre, come lo stesso Napolitano racconta nella sua autobiografia, che non si entusiasmò per la scelta del figlio di abbracciare il Pci, fino a diventare, anche in virtù di queste alte origini sul piano sociale, il primo comunista ad avere il lasciapassare per la Casa Bianca. Napolitano non condannò neppure l’invasione in Ungheria. E non andò, seppur in visita ufficiale a Tunisi, sulla tomba di Craxi al cimitero cristiano a Hammamet. Ma quelle sue nette parole a difesa dello statista socialista, che nelle sue litografie è stato molto duro e graffiante con “il Nap”, seppur molto postume restano con tutta la loro autorevolezza.

La sinistra dovrebbe ripartire anche da lì per fare finalmente i conti con il “Caso C.” e tutte le conseguenze negative per il Paese. Non solo per la stessa sinistra. Stefania Craxi, senatrice Fi, presidente commissione Esteri e difesa, pur criticando Napolitano, per "mancanza di determinazione nel difendere il primato politica”, gli dà atto di “un gesto importante, compiuto da un comunista che aveva a lungo sperato nella ricomposizione unitaria della sinistra italiana". Quelle parole del “Nap” restano pure scolpite nella memoria di suo fratello Bobo Craxi. E certamente della signora Anna Maria Moncini, vedova Craxi.

«Napolitano fu un uomo di partito ma con una visione che andava oltre».

Petruccioli, già parlamentare comunista e presidente del Cda Rai, ricorda l’ex presidente della Repubblica come «il massimo interprete di una vicenda intellettuale, politica e morale» che è stata il Partito comunista italiano. Giacomo Puletti su Il Dubbio il 24 settembre 2023

Claudio Petruccioli, già comunista, parlamentare e presidente del Cda Rai, per decenni ha condiviso la sua parabola politica con quella di Giorgio Napolitano, di cui nel giorno della scomparsa ricorda «la prudenza» come «tratto permanente, generale e tipico della sua personalità» per poi descrivere l’ex presidente della Repubblica come «il massimo interprete di una vicenda intellettuale, politica e morale» che è stata il Partito comunista italiano. 

Onorevole Petruccioli, qual è il suo ricordo personale e politico del presidente Napolitano?

Prima ancora di parlare dei miei rapporti personali e politici con Napolitano penso sia giusto parlare di lui, della sua vita e della sua parabola politica e umana. Nel momento in cui questa parabola si conclude si deve riconoscere che essa sia stata unica e straordinaria. Già questo basterebbe per spiegare l’essenziale sulla personalità di Napolitano e sul suo rapporto con la politica, con il Pci, con le istituzioni. 

Una parabola che comincia da giovanissimo, con l’Italia divisa in due dopo l’ 8 settembre…

Alla fine della guerra Napolitano aveva vent’anni, era un giovane studente che si interessava molto di cultura in una Napoli molto in fermento, anche se disordinata e affamata. Conosceva l’inglese e lavorava come traduttore e interprete con gli Alleati e attraverso le attività culturali diventa comunista. La sua era l’attività di un giovane intellettuale che poi fa la “scelta di vita”, come scrisse Amendola, diventando prima funzionario di partito e poi dirigente. Il momento di svolta tuttavia arriva nel 1956.

Come visse Napolitano l’invasione dell’Ungheria da parte dell’Unione sovietica?

Il 1956 fu un anno cruciale non solo nella storia del Pci ma anche di tutto coloro che allora erano nel Pci. Io ero ancora troppo giovane ma manifestavo già all’epoca per l’Ungheria, dopo aver ascoltato i drammatici resoconti radiofonici con le scariche di mitra in sottofondo. Napolitano all’epoca faceva parte dei giovani, con Macaluso, Tortorella, Cossutta e altri, che nell’ottavo Congresso del Pci Togliatti promosse nel comitato centrale. Quel Congresso ha segnato la vita di tutti, compresa quella di Napolitano.

Cosa accadde?

A Napolitano venne affidata la risposta ufficiale e critica nei confronti di Antonio Giolitti che aveva invece in modo molto esplicito toccato il punto fondamentale della vicenda ungherese, cioè cos’era diventato il socialismo scaturito dalla rivoluzione d’ottobre. Napolitano svolse quel compito con umana correttezza ma con un’ortodossia politica e ideologica molto stretta. In un certo senso la vicenda di Napolitano all’ottavo Congresso segna il tornante nella vita di tanti e del Pci stesso, perché la risposta del partito alla crisi ungherese diede vita alla divergenza irreparabile tra Pci e Psi che compromise per tutti i decenni successivi la possibilità di unire la sinistra in Italia.

Un obiettivo che Napolitano ha cercato di raggiungere per tutta la sua vita politica…

Non dico che era il sogno ma di certo il proposito non solo di Giorgio Napolitano ma di tanti che stavano nel Pci, me compreso. Io sono entrato nel 1959 e facevo parte della primissima leva giovanile del post Ungheria. Eravamo contrarissimi all’intervento sovietico ma scegliemmo il Pci perché volevamo essere di sinistra e il Psi, che sicuramente per i giovani di allora sarebbe stata un’alternativa possibile, stava preparando l’alleanza di governo con la DC, il che contrastava con la nostra volontà di stare a sinistra.

Qual è il momento in cui le strade sua e di Napolitano s’incontrano?

Un momento importante fu l’undicesimo Congresso e lo scontro con Ingrao. Noi eravamo a favore dell’unificazione della sinistra, come volevano i miglioristi di Napolitano, ma dicemmo loro che non si poteva fare su posizioni di dialogo ma serviva in un certo senso una rivoluzione. Un altro momento decisivo fu il ’ 68. Io ero segretario della Fgci e ci fu una discussione molto forte sull’atteggiamento da assumere nei confronti del movimento degli studenti. Non volevamo assolutamente la rottura e ne discussi quasi dieci anni dopo con Giorgio Amendola, che invece aveva una posizione molto dura contro gli estremismi, che erano diffusi nel movimento. In quell’occasione Napolitano fu molto prudente, non si schierò sulle posizioni più polemiche di Amendola e si può dire che questa prudenza sia un tratto permanente, generale e tipico della sua personalità.

Da quel momento sarà sempre più vicino a Napolitano, umanamente e idealmente…

L’invasione della Cecoslovacchia ci unì perché il Pci agì in maniera diversa dal 1956. Non si arrivò alla separazione che sarebbe stata necessaria nei confronti dell’Urss ma si condannò decisamente l’intervento. Poi ci fu l’esperienza importante della solidarietà nazionale che fu un momento in cui io mi sono molto avvicinato a Napolitano. Nel senso che mi ero convinto che in un regime democratico un partito politico, pure con grandi disegni di rinnovamento della società e del paese, deve competere sul terreno del governo del paese. Non si può essere perennemente opposizione, altrimenti la democrazia ne risente.

E così cominciò la sua carriera parlamentare, sotto l’egida di Napolitano. Cosa le insegnò?

Sono stato eletto la prima volta in Parlamento nel 1983 quando Napolitano era presidente del gruppo alla Camera e sono stato “svezzato” da lui alla vita parlamentare. Fino alla svolta della Bolognina. Io ero tra quelli considerati ultras della svolta e anche Napolitano vedeva la possibilità di realizzare quella aspirazione che aveva sempre perseguito, cioè l’unificazione della sinistra. Era un punto di partenza, non di arrivo. In quegli anni molto travagliati ho fatto di tutto, per esempio al Congresso di Rimini, affinché i favorevoli alla svolta non si dividessero. Altri non lo fecero. D’Alema, ad esempio, non solo metteva in conto ma voleva che ci fosse una separazione tra i miglioristi. Considerava l’unità dei favorevoli alla svolta una scelta che non chiariva fino in fondo le posizioni in campo.

Come cambiò la parabola politica e umana di Napolitano dopo la caduta del muro di Berlino e tutto ciò che ne conseguì, compresa la Bolognina?

Dopo la caduta del muro di Berlino e la dissoluzione del mondo sovietico Napolitano appoggiò e sostenne la nascita del Pds ma scelse di diventare un uomo delle istituzioni. Dall’elezione a presidente della Camera nel 1992 non fu più un uomo di partito. Una scelta consapevole e determinata che spiega benissimo come il suo rapporto con la politica e il partito guardava più in generale all’Italia e all’Europa. Tanto è vero che nel 1999 si candida al Parlamento europeo. E lo fa con un certo dolore, come mi confidò, perché la sua candidatura di fatto rese impossibile la rielezione di Biagio De Giovanni, suo grande amico e seguace. E di questo soffrì. Ma lui voleva andare in Europa perché aveva in testa un’idea per la politica e per la sinistra dopo la caduta del Muro, dopo Maastricht e dopo l’Euro.

E arriviamo all’elezione alla Presidenza della Repubblica. Cosa ricorda di quegli anni?

Nel 2006 fu eletto presidente della Repubblica da un Parlamento di fatto diviso a metà. E infatti la legislatura durò solo due anni. Il premio di maggioranza voluto dal centrodestra fu decisivo per l’elezione di un presidente del centrosinistra, che tuttavia non fu contrastato da altre candidature forti. Fu un momento storico. Il ventenne che nel ’ 45 cominciava a entrare nell’atmosfera della politica, si era trasformato nell’ottantenne primo presidente comunista della Repubblica. L’unico comunista, almeno finora, al Quirinale. Ed è l’unico che poteva completare questa parabola. Berlinguer è ancora molto amato, ma non avrebbe mai potuto diventare presidente della Repubblica.

In cosa si sente particolarmente vicino all’esperienza di Napolitano?

Napolitano è stato un uomo di partito e in questo ci sentivamo vicini. Entrambi uomini di partito che sacrificavano al legame con il partito delle idee, delle critiche e dei dubbi che portavamo dentro. Il tutto perché consapevoli dell’importanza del rapporto con quel partito ai fini degli sviluppi futuri della sinistra in Italia e in Europa. Guardando sempre alle istituzioni e ai processi unitari in queste istituzioni.

Un ricordo del Napolitano uomo, prima che politico?

Nel ’ 56 Napolitano pronuncia la requisitoria contro Giolitti sull’Ungheria, nel 2006, esattamente 50 anni dopo, viene eletto presidente della Repubblica. La prima cosa che fa è andare a casa di Antonio Giolitti, lo abbraccia e gli chiede ufficialmente scusa. Mettendo assieme questi due estremi si comprende il dramma, la fatica, le contraddizioni eppure la linearità e l’onestà di una vicenda intellettuale, politica e morale di cui Napolitano è stato il massimo interprete e di cui pur da una posizione diversa anche io, come tanti altri, mi sento interamente parte.

Da Il Riformista.

Uno che su tutti i dossier importanti, si faceva sentire. Ciao Presidente Napolitano, ci hai costretto a studiare, a stare sul pezzo, ad amare le istituzioni e l’Europa. Matteo Renzi su Il Riformista il 23 Settembre 2023 

È il 12 ottobre del 2013. È sera. Sono alla guida della mia macchina tra Firenze e Pontassieve. Accanto a me mia moglie è al telefono con i bambini, per dire: “Stiamo arrivando”.

Ho appena annunciato la mia candidatura alla guida del Partito Democratico, a Bari. Finita la manifestazione pugliese ho preso l’aereo e appena sceso a Peretola vedo che un numero continua a chiamarmi con una certa insistenza. Non lo riconosco. Non rispondo. Ho la testa indirizzata alla campagna delle primarie, ma soprattutto penso ai miei impegni di sindaco. Scambio qualche impressione sull’evento con Agnese mentre arriviamo a casa dall’aeroporto.

E intanto quel numero continua a squillare.

Mi domando chi possa essere così insistente da chiamare in modo continuato per quasi un’ora.

Oh ma questo insiste, dico ad Agnese. Figurati se rispondo a uno sconosciuto, sarà la redazione di un giornale più insistente delle altre visto che è il numero ha un prefisso romano.

Capirò solo alla fine che quel numero – che imparerò a riconoscere – è il centralino del Quirinale.

Giorgio Napolitano, proprio lui, mi cerca. Indispettito.

A Bari infatti ho detto che sono contro un provvedimento di amnistia. E lui non l’ha presa benissimo (eufemismo!) e mi vuol far notare che la situazione carceraria esplode. Quando alla fine mi decido a rispondere al telefono, il Presidente mi parla per dieci minuti della necessità dell’amnistia. E mi invia a Palazzo Vecchio il testo del suo messaggio alle Camere con tanto di sottolineature a fianco. 

Nel merito avevamo ragione entrambi, credo.

L’amnistia non sarebbe stata accettata in quella fase politica e avrebbe prodotto più costi sociali che benefici. Ma le prigioni in quel momento scoppiavano e il paradosso è che sarà proprio il mio Governo l’anno successivo ad attuare una serie di misure deflattive della permanenza in carcere, senza però toccare il tasto amnistia o indulto.

Ma non è del merito che voglio parlarvi.

È che per me Giorgio Napolitano era questo.

Uno che su tutti i dossier importanti, si faceva sentire. Ti costringeva a studiare, a stare sul pezzo, a non rispondere in modo superficiale. Adesso che ci ha lasciato posso confessare che ho vissuto i primi incontri con lui come fossero esami. Io difficilmente mi preoccupo prima di incontrare chicchessia. Ho un carattere deciso, sono consapevole delle mie idee. E se è vero che il Quirinale mette soggezione a chiunque – e del resto non potrebbe essere diversamente vista la storia di quel Palazzo – è vero che quando ho varcato le porte di quello straordinario edificio non mi sono mai sentito a disagio con Ciampi o con Mattarella.

Con Napolitano, invece, era sempre un esame, specie all’inizio. Come quando – la settimana prima di ricevere l’incarico – vengo invitato a una cena informale dal Presidente. Sono a giocare alla playstation con i miei figli. Vedo il solito 06 con il numero corto. Riconosco il centralino del Quirinale. E rispondo subito stavolta, anche perché sto perdendo talmente male a Fifa contro i pargoli che prendo il telefono come una boa cui aggrapparsi per scappare da un naufragio (calcistico) imminente. È sabato e il Presidente mi invita a cena per il lunedì successivo, assieme al Premier Enrico Letta.

Auspica evidentemente un chiarimento informale.

A metà del pomeriggio del giorno della cena mi chiama Napolitano e mi spiega che ha deciso di non invitare Letta alla cena. Saremo solo noi, a casa. E la serata diventa l’ultimo esame prima di attribuirmi la responsabilità di formare il nuovo Governo.

Era davvero sempre un esame con lui. Come quando – ero già Premier – siamo sul divano del suo studio e a bruciapelo mi chiede se conosco quale sia l’unico atto che è sottratto alla reciproca controfirma. Tentenno. Faccio mente locale. Ripasso in un attimo gli esami di Diritto Pubblico, Costituzionale, Diritto parlamentare. Non mi viene in mente. Mi arrendo.

E lui soddisfatto mi guarda e mi dice: le mie dimissioni. Quando ti dimetterai tu, il Presidente della Repubblica sarà chiamato alla controfirma. Ma le dimissioni del Presidente della Repubblica non richiedono la controfirma del Presidente del Consiglio, sappilo.

Il messaggio era chiaro. “Caro Matteo, non insistere cercando di prolungare la mia permanenza, qui. Ormai ho deciso di andarmene.”

Effettivamente volevo che Napolitano arrivasse a inaugurare lui l’Expo nel maggio 2015. Ma dopo il dolore che aveva provato nel prepararsi all’interrogatorio dei PM di Palermo nell’ambito della c.d. Trattativa, un processo finito ovviamente nel nulla come molte iniziative dei professionisti dell’antimafia, Giorgio aveva deciso di dimettersi. Me lo disse subito dopo l’interrogatorio. Era ancora l’autunno del 2014. “Ti lascio finire il semestre di presidenza europeo perché devi portare a casa la flessibilità per il Paese” mi disse “ma quando scade il semestre io me ne vado”.

Un brivido mi passò lungo la schiena. Avevo il problema di terminare il percorso delle riforme e Berlusconi sembrava convinto ad andare avanti. Ma sapevo che sull’elezione del nuovo Presidente con Forza Italia non sarebbe stato facile trovare un punto di equilibrio perché dentro l’allora inner circle di Berlusconi e nel mondo dalemiano del PD in tanti aspettavano l’elezione del Capo dello Stato (che si preannunciava difficilissima dopo il suicidio politico di Bersani con i 101) per regolare i conti con me e far saltare anche il Nazareno. Volevo fare di tutto per convincere Napolitano a rinviare le dimissioni a maggio: in quel caso avrei chiuso la riforma elettorale e il passaggio decisivo della riforma costituzionale con l’appoggio anche di Forza Italia.

Napolitano fu irremovibile. Aveva deciso.

Il 13 gennaio 2015 al mattino parlo a Strasburgo chiudendo il semestre di presidenza iniziato nel nome di Telemaco.

Il 13 gennaio 2015 al pomeriggio Jean Claude Juncker annuncia la flessibilità per 30 miliardi di euro, operazione che salva il bilancio italiano e al quale avevamo lavorato con i ragazzi di Palazzo Chigi e del MEF per mesi.

Il 14 gennaio 2015 Giorgio Napolitano si dimette. Puntuale come un orologio svizzero.

Non tocca a me dare un giudizio “storico” alla Presidenza Napolitano.

Sarà interessante nel corso degli anni cercare di capire di più e meglio alcune scelte. E anche il suo modo di intendere l’istituto stesso della Presidenza. L’Italia ha una Costituzione che è già nella sostanza semipresidenziale. Se il Presidente intende utilizzare in modo estensivo i propri poteri, su molte cose il suo apporto è decisivo. Non condivido il giudizio di quella destra che accusò Napolitano di aver valicato i propri poteri. Chi conosce la Costituzione sa che i poteri del Presidente variano “a fisarmonica”: si allargano e si restringono sulla base delle scelte dello stesso Presidente. In alcuni passaggi l’impatto del Quirinale si è sentito molto, moltissimo. In altri meno. Io penso che su un paio di passaggi, soprattutto nei primi anni degli anni Dieci, Napolitano abbia avuto un ruolo decisivo nell’indirizzo dello Stato. Erano i momenti della rottura con Berlusconi, dalla Libia allo spread. Si può comprensibilmente discutere della bontà politica di quelle scelte, non della loro legittimità che è fuori discussione. Abbiamo una Costituzione in cui i poteri del Presidente della Repubblica sono enormi, piaccia o non piaccia. Quando non sono esercitati è per scelta del Presidente di turno. 

Inutile aggiungere che sul rapporto Berlusconi-Napolitano potrebbero essere scritti libri. La loro rottura fu durissima e Forza Italia ha spesso accusato il Presidente di aver agito contro il Cavaliere quantomeno nel 2011. E ciò nonostante Berlusconi voterà Napolitano nel 2013, per la rielezione. Rapporti complicati ma sempre aperti fin dal 1994: Berlusconi appena nominato aveva rotto il protocollo andando da Premier tra i banchi dell’opposizione per stringere la mano proprio all’allora capogruppo PDS, si dice su suggerimento di Giuliano Ferrara.

Tengo per me – come è giusto – tanti ricordi belli. Le risate sui nomi che si aspettavano di essere candidati come Presidenti al posto suo. I suggerimenti di politica estera. Le battute ammirate sulla liturgia della Chiesa Cattolica durante una cerimonia in Vaticano (“Vedi loro hanno un’attenzione alle forme liturgiche bellissima. Sono meglio di noi su questo” e confesso che non ho avuto il coraggio di chiedergli se per noi intendesse il cerimoniale del Quirinale o più probabilmente l’antica liturgia della chiesa comunista). L’orgoglio per il lavoro con la Regina Elisabetta e Barack Obama. I suggerimenti sul come evitare di litigare troppo con la Casa Bianca su alcune piccole/grandi questioni di merito. La passione per l’Europa, autentica, profonda, genuina. Le battute su qualche ambasciatore/ambasciatrice. La foto insieme nell’ufficio del Governo a Montecitorio mentre attendiamo l’elezione di Sergio Mattarella al quarto scrutinio. Il primo pranzo fuori dal Quirinale, a Casa Bleve.

E spesso il riferimento all’età: ma ti rendi conto che hai esattamente cinquant’anni meno di me? Lui del ’25, io del ’75.

Le reprimende invece sono pubbliche. Quella sull’amnistia, in primis. Ma anche l’intervento che Napolitano fece come Presidente del Senato nella prima seduta della scorsa legislatura dove riservò parole molto dure alla leadership del PD, cioè al sottoscritto. Sono in Aula e mi viene da sorridere pensando a come Napolitano sia sempre Napolitano. E anche in quella prima seduta della Legislatura non perda i tratti distintivi del proprio carattere. Mi giro verso Bonifazi e Faraone, che vengono dal PCI-PDS-DS e sussurro sorridente con la mano davanti alla bocca come fanno i calciatori: “il compagno Napolitano ha fatto l’analisi della sconfitta”.

Abbiamo lungamente discusso anche sui ministeri. Ma in quel caso non parlerei di litigio o reprimenda: era una normale dialettica costituzionale. Il Presidente della Repubblica ha tutto il diritto di sindacare le scelte dei singoli ministri, piaccia o non piaccia.

La sconfitta referendaria segna invece profondamente il nostro rapporto politico: lui credeva alla necessità assoluta delle riforme costituzionali. E quando diventa chiaro che il referendum non sarebbe passato accusò il colpo più di me: tu forse farai in tempo a vedere la riforma, io ormai non più, mi disse.

Ma il ricordo più bello dell’ultimo periodo è di natura personale. Dopo l’operazione gli porto un biglietto a mano di Obama. Sono in Sudafrica a un evento con l’ex Presidente. Sono i giorni di un vertice Putin-Trump e Obama mi appare molto colpito da quell’incontro. Chiacchieriamo di tutto, persino dei Cinque Stelle. Poi gli dico: Napolitano sta male, gli scrivi due righe? Non devo ripeterglielo. Impugna la penna a sinistra, come sempre, e scrive al carissimo Giorgio.

La stessa disponibilità che Napolitano ha quando gli chiedo di firmare una dedica a mia figlia. Ritroviamo una bella foto del grande Tiberio Barchielli con Ester che – elegante e soddisfatta – stringe la mano al Presidente davanti allo sguardo affettuoso di Agnese. Napolitano non si fa pregare: “Un augurio affettuoso alla bella Ester”. È il giugno del 2019. La firma è incerta, la mano malferma. Ma il Presidente è sempre lui.

Ho ripreso la foto stasera. È in camera di mia figlia, accanto a quella di Michelle Obama, tra i ricordi belli. Ed è tra i ricordi belli che resterà per me Giorgio Napolitano.

Che la terra ti sia lieve, caro Presidente.

Matteo Renzi 

Matteo Renzi (Firenze, 11 gennaio 1975) è un politico italiano e senatore della Repubblica. Ex presidente del Consiglio più giovane della storia italiana (2014-2016), è stato alla guida della Provincia di Firenze dal 2004 al 2009, sindaco di Firenze dal 2009 al 2014. Dal 3 maggio 2023 è direttore editoriale de Il Riformista

Avrebbe potuto diventare segretario del Pci due volte. Napolitano signore della politica con un unico limite: l’eccessiva prudenza nel (non) scendere in campo. Era la scuola comunista che lo spingeva ad essere così felpato, anche troppo, e anche un limite personale, la paura di rompere più che quella di perdere. Mario Lavia su Il Riformista il 23 Settembre 2023 

Giorgio Napolitano ha un posto d’onore nella lunga e tormentata vicenda della sinistra italiana, essendone stato per decenni un protagonista anche se mai in posizione di leader. Un grande dirigente di minoranza, si dovrebbe dire, anche se ai tempi e nel luogo (il Partito comunista italiano) dove agiva non prevedevano certo maggioranze e minoranze. Ma chi conosceva il Pci sapeva benissimo, ovviamente lui per primo, che le posizioni della “destra”, cioè dell’area riformista, erano minoritarie in un partito che malgrado tutte le evoluzioni restò fino alla fine ancora legato all’idea della sua superiorità morale e più in generale ostacolato da un impaccio nei confronti dell’idea di governo di un Paese complesso come il nostro. Napolitano, sulla scorta del suo maestro Giorgio Amendola, combatté dall’interno per fare del Pci appunto un partito di governo, dunque aperto alle alleanze politiche (i socialisti in primis), per introdurre quelle riforme che gradualmente migliorassero le condizioni dei cittadini italiani (di qui l’etichetta di “miglioristi” alla sua componente negli anni Ottanta), vincendo settarismi ed estremismi di ogni tipo.

Avrebbe potuto diventare segretario del Pci due volte, Napolitano, ma fu proprio lo stigma antiriformista a precludergli questa possibilità, una prima volta quando gli fu preferito Enrico Berlinguer e poi alla morte di questi quando si scelse il continuismo di Alessandro Natta (fu Luciano Lama a fare il nome di Napolitano) ma non era ancora l’epoca delle sfide a viso aperto, per quelle bisognerà aspettare il 1994 con la gara fra Massimo D’Alema e Walter Veltroni vinta dal primo. In questa sommaria ricostruzione c’è il vero limite di Giorgio Napolitano: la sua eccessiva prudenza nel (non) scendere in campo. Era la scuola comunista che lo spingeva ad essere così felpato, anche troppo, e anche un limite personale, la paura di rompere più che quella di perdere.

Fatto sta che alla fine il riformismo della “destra” non fece mai una battaglia sino in fondo, così che l’esito del dopo-Ottantanove paradossalmente non portò laddove era logico portasse, cioè alla socialdemocrazia di tipo europeo ma ad un nuovo partito – il Pds – che molto somigliava al vecchio pur rivestito di tratti “liberal” nemmeno troppo definiti. Ma allora per Napolitano si apriva un’altra fase della sua vita politica, quella dell’uomo di Stato, presidente della Camera, europarlamentare, ministro, infine Presidente della Repubblica. Eppure anche in questa seconda fase del suo impegno Napolitano portava la sostanza del suo riformismo, e instancabile fu l’azione per aiutare quel processo riformatore, innanzi tutto delle istituzioni, che non andò mai a buon fine per l’incapacità della politica, ivi compresa la lentezza, come minimo, del centrosinistra che tanto lo faceva penare, come ben sanno i protagonisti dell’Ulivo e i successivi dirigenti spesso richiamati anche duramente dal Capo dello Stato durante il suo “novennato” al Colle.

Ebbe ragione, Giorgio Napolitano? O lo dobbiamo considerare, alla fine, uno sconfitto? Fu Piero Fassino, allora segretario dei Ds, a tributare all’uomo politico napoletano il merito di aver visto le cose prima degli altri, e lo fece nel congresso dove i Ds si sciolsero in vista della formazione del Pd: l’applauso a quel passaggio del discorso di Fassino fu così caloroso che lo stesso Napolitano ne fu sorpreso. Ma era proprio così, lui aveva indicato l’orizzonte riformista molto prima di tutti gli altri, che vi giunsero anni e anni dopo, quando forse era troppo tardi. Ma fu anche isolato, e combattuto, da sinistra e da una destra che sotto l’impeto di Silvio Berlusconi ne fece un bersaglio costante, al quale peraltro resistette sempre con senso delle istituzioni. Barack Obama rimase colpito dalla forza del presidente italiano che tanto lo apprezzava. Un uomo coerente, Giorgio Napolitano, un signore della politica, uno che aveva capito molte cose prima del tempo, che è il segno tipico del riformista autentico. Mario Lavia

Il ricordo. Quella volta che Napolitano la fece grossa: il comizio e la democrazia (cristiana), un’esistenza che parlerà sempre agli italiani. Con Giorgio era sempre interessante discutere. Amava il cinema, il teatro, la musica classica, le vecchie librerie e non disdegnava il calcio. Umberto Ranieri su Il Riformista il 23 Settembre 2023 

Incontrai Giorgio Napolitano durante la preparazione del convegno sul “Marxismo degli anni sessanta e la formazione teorico-politica delle nuove generazioni”. Il marxismo si presentava nella versione gramsciana e mirava a costruire una linea autonoma di sviluppo del pensiero italiano che si richiamasse oltre l’opera di Gramsci ad Antonio Labriola, a Benedetto Croce ma anche, seppure in maniera non dichiarata, a Giovanni Gentile. “Effetto di padronanza” alludeva alla capacità che il marxismo aveva di interpretare e prevedere gli sviluppi della vicenda economico /sociale e di orientare la trasformazione della società in direzione del socialismo. Partecipai timido e impacciato ad una riunione a Botteghe Oscure in preparazione del convegno, ebbi l’ardire di intervenire nel corso di una discussione che si svolse a Napoli alla presenza di Napolitano. Sul suo volto avvertii il fastidio per gli interventi fumosi che si succedevano. Ebbi l’impressione di suscitare in lui un qualche interesse quando, in un intervento infarcito di oscuri riferimenti alla totalità, citai, probabilmente a sproposito in quel contesto, Benedetto Croce.

Temetti che Giorgio avesse colto la mia goffaggine e invece, nel suo intervento conclusivo, ricordò il mio riferimento a Croce. Toccai il cielo con un dito! Poi andai in Basilicata. Lì mi inviarono Gerardo Chiaromonte e Ugo Pecchioli. Giorgio riuscì a venire a Matera durante le settimane del rapimento Moro per concludere la conferenza programmatica del Pci. Si svolse al vecchio Jolly Hotel, al centro della città, poco distante dai Sassi. Mangiammo orecchiette e rape e bevemmo un bicchiere di aglianico da “Mario” un ristorante non lontano dalla federazione. Napolitano appariva consapevole della tormentata dialettica che si svolgeva in quei giorni fra le ragioni dell’uomo e le ragioni dello Stato, fra la coscienza e il potere. Ma cosa ne sarebbe stato dell’Italia, ci diceva, se a prevalere fosse il ricatto delle Brigate Rosse? Ne parlò concludendo la Conferenza. Napolitano tornò in Basilicata l’anno successivo durante la campagna elettorale per le elezioni del 1979. La politica di solidarietà nazionale era finita. Si era giunti al voto anticipato. La critica che veniva rivolta al partito, diffusa tra i militanti, era concentrata su un punto: il Pci avrebbe, dopo il successo del 20 giugno del ‘76, concesso troppo alla Dc. Decidemmo di impegnare Giorgio in iniziative rivolte alla classe operaia. Giungemmo a Pisticci in un pomeriggio di caldo asfissiante. Eravamo stati prima a Tito, un comune del potentino per un incontro con gli operai della Liquichimica.

A Pisticci Napolitano avrebbe parlato agli operai dell’Anic. Il comizio si sarebbe svolto fuori la fabbrica nell’ora del cambio di turno. Era stato preparato un palchetto, addobbato con bandiere rosse del partito e del sindacato. Da lì sopra Giorgio avrebbe parlato. Occorreva vincere la diffidenza diffusa tra gli operai verso la politica di solidarietà nazionale che molti consideravano un cedimento alla Dc. Parlò prima un operaio, poi toccò a Giorgio. Il suo era come sempre un lucido argomentare senza invettive e indulgenza alla demagogia. Tutto lo sforzo oratorio di Giorgio ruotava intorno ad un punto: il Pci non si era sottratto alle responsabilità cui era stato chiamato dal voto degli italiani e dalle difficoltà in cui si dibatteva il Paese anche rischiando di rimanere “in mezzo al guado” nel corso di una esperienza per tanti versi atipica. In ogni caso il Pci aveva ispirato la propria politica ad una visione degli interessi nazionali rispetto alla quale ogni altra considerazione era passata in secondo piano. “Il Pci, ha difeso solo gli interessi della democrazia italiana”! Con queste parole aveva deciso di concludere il suo comizio, Giorgio. Soltanto che, nel momento culminante del finale, prima dell’appello al voto, invece di italiana Giorgio urlò, cristiana! Per correggersi immediatamente ma suscitando un gelo tra noi che eravamo sotto il palchetto. Ricordo ancora le sue parole scendendo la traballante scaletta. Lo sussurrò in napoletano: l’aggio fatta grossa!

Con Giorgio era sempre interessante discutere. Amava il cinema, seguiva il teatro, sapeva di musica classica che acquistava in un delizioso e piccolo negozio al Pantheon, frequentava vecchie librerie per trovare antiche edizioni. Non disdegnava il calcio. Insieme vedemmo Napoli-Fiorentina al San Paolo, una partita che con l’1 a 1 segnò la vittoria matematica del primo scudetto al Napoli, e poi un fiume di persone ci coinvolse nella festa! Giorgio aveva il culto dell’amicizia: ricordo quella fraterna con Gerardo ed Emanuele, la gioia degli incontri a Napoli con i suoi antichi compagni, Maurizio Valenzi, Pietro Valenza, Carlo Fermariello, Andrea Geremicca, Franco Daniele, Peppino Vignola. Ricordo il rapporto affettuoso e il dialogo con i compagni più giovani. Sfidò il freddo di una sera gelida d’inverno già avanti negli anni per rendere omaggio al suo caro amico Biagio de Giovanni per l’ingresso nei Lincei. Quella di Giorgio è un’esistenza che parlerà sempre agli italiani che aspirano ad una politica che riguadagni umanità, fiducia e dignità. Umberto Ranieri

Una vita intensa e appagante. Il compagno Napolitano protagonista assoluto della storia della Repubblica: mai uomo di parte in senso stretto. Claudio Velardi su Il Riformista il 23 Settembre 2023 

Altri diranno – andando in profondità e con competenze adeguate – della storia di tenace rinnovatore della sinistra, servitore delle istituzioni e uomo di Stato di Giorgio Napolitano. Anche se ci vorrà tempo – e un sufficiente distacco dalle misere peripezie della quotidianità – per gettare uno sguardo d’insieme obiettivo sulla vita di un protagonista assoluto della storia della Repubblica.

Io posso solo pronunciare parole minori e fare ricorso all’aneddotica per spiegare cosa è stato Napolitano per me, giovane militante dello scorso secolo educato alla severa scuola del comunismo italiano, maturato nella sua area di influenza politica, ma sufficientemente intemperante da meritarmi più volte rimbrotti o veri e propri cazziatoni (espressi in modi pacati ma all’occorrenza gelidi) da parte sua.

Forse la prima volta che Giorgio si accorse di me fu durante una riunione successiva alla sconfitta elettorale del Pci del 1979, una di quelle frustranti analisi del voto di cui la sinistra era (ed è ancora) specialista. In tempi di compromesso storico e solidarietà nazionale, io pronunciai un discorsetto favorevole alla creazione di un’alternativa di sinistra e a un rapporto privilegiato con il Psi; fui accolto da un cospicuo applauso della platea, nel gelo della nomenclatura provinciale, ma ebbi l’onore di una misurata citazione nelle conclusioni di Napolitano, che si disse parzialmente d’accordo con me, facendo intendere che del tema – che per lui sarebbe poi diventato cruciale – bisognava discutere sul serio. Da allora i miei rapporti con lui divennero più

frequenti. Da funzionario di partito, lo accompagnavo spesso in provincia, ed era davvero una gran fatica: mentre me lo scarrozzavo in una scalcinata Fiat 850 grigio-topo temendo imprevisti vari – che non mancavano negli informi ingorghi delle periferie napoletane – ero tenuto a rispondere con precisione alle sue incalzanti domande sul tasso di disoccupazione a Casoria e sulle possibili soluzioni della crisi della ex-Rhodiatoce.

La mia tensione si scioglieva solo quando, di ritorno a notte inoltrata, gli facevo incontrare i suoi due amati Umberto: il delfino Ranieri e il prediletto Minopoli. A casa

mia, a cena, Giorgio si concedeva qualche confidenza sul partito e sul suo necessario rinnovamento politico. I due Umberto interloquivano con lui. Io ascoltavo, affascinato, intimorito e stravolto dalla stanchezza. Quando poi, negli anni successivi, “tradii” la

componente migliorista, di cui lui era nume tutelare, per collaborare con D’Alema, Napolitano mi opzionava, di tanto in tanto, per criticare questa o quella posizione del partito o del governo, inviandomi brevi e puntute lettere scritte con calligrafia ordinata e sghemba: messaggi di cui mi facevo portatore con scarso successo – anche se tra i due c’era un rapporto di grande rispetto – presso il mio dante causa. Venivano fuori, in quelle circostanze, le eterne aporie del dibattito tra i riformisti italiani: la forza dei contenuti e le scarse truppe al seguito; l’audacia delle intuizioni e la timidezza nel metterle in pratica; l’attitudine suicida a dividersi su bagattelle nominalistiche e di potere e il conseguente rifiuto di affidarsi a leadership effettive e durature. Si trattasse di Craxi, di D’Alema, poi di Veltroni o di Renzi.

O anche – forse soprattutto – di Napolitano, che il riconoscimento del suo indiscutibile ruolo l’ha conquistato tardi – fuori dall’opprimente recinto del partito – quando è salito sul Colle più alto, rimanendovi per nove, cruciali anni, occupando la postazione più adeguata – a mio avviso – per una personalità dalla cultura ricca e versatile, maniacalmente rispettosa delle istituzioni come solo un ex-comunista italiano poteva esserlo, mai uomo di parte in senso stretto. Ed è infatti negli ultimi anni che lo ricordo – quando capitava di vederci d’estate, a Capri o a Stromboli – più sereno e indulgente verso il mondo e verso sé stesso, forse anche intenerito dall’età: era consapevole di aver vissuto, il compagno Napolitano, una vita intensa e appagante.

Io sono uno dei tantissimi che l’hanno ammirato, ascoltato, seguito, temuto. Ed è stata una bella fortuna: sarà difficile dimenticarsene. Claudio Velardi

Lo stato di salute. Come è morto Giorgio Napolitano, i problemi di salute e le operazioni all’aorta e all’addome superate grazie alla “grande tempra”. L’ultima a maggio 2022, ricoverato in terapia intensiva dopo un intervento programmato allo Spallanzani di Roma. Redazione su Il Riformista il 22 Settembre 2023 

Il Presidente emerito della Repubblica Italiana, Giorgio Napolitano è morto quest’oggi a 98 anni. Nell’ultimo periodo le sue condizioni di salute, compromesse dall’età, erano peggiorate, rendendo necessario il ricoverato in una clinica romana. Nei recenti anni era stato più volte ricoverato tra operazioni e accertamenti.

Il 24 aprile 2018, a seguito di un malore con forti dolori al petto, venne trasportato d’urgenza all’Ospedale San Camillo di Roma, arrivando cosciente in sala operatoria prima di essere sottoposto ad un intervento all’aorta. Iniziò successivamente un programma di riabilitazione cardio-respiratoria “in ottime condizioni neuro-cognitive e psicologiche”. Al termine il professor Francesco Musumeci rassicurò sulle suo stato di salute: “Siamo molto soddisfatti e ottimisti”, dichiarando che “ovviamente i 92 anni conteranno sul recupero, ma sarà aiutato dalla sua grande tempra”. Fu dimesso il 7 giugno, ma i problemi per l’ex Presidente, divennero sempre più frequenti, tanto da rappresentare un grande ostacolo alla sua presenza in aula (0%) nelle ultime due legislature. Particolarmente significativa, la sua assenza nell’ottobre del 2022 a Palazzo Madama quando avrebbe dovuto ricoprire il ruolo di Presidente della XIX legislatura in qualità di senatore più anziano d’età: il suo posto fu preso da Liliana Segre. Eppure, Napolitano non fece mai mancare il suo intervento, anche a distanza.

Nel settembre 2019, gli stessi problemi lo costrinsero ad assentarsi nel giorno della fiducia al governo Conte bis. Nell’occasione ricordò che avrebbe dato il suo voto favorevole al nuovo esecutivo “pur di fronte a oggettive difficoltà e alla necessità di meglio definire convergenze politiche e programmatiche e la loro tenuta nel tempo”. Un successivo ricovero avvenne nel marzo del 2021, al Santo Spirito, “per verifiche finalizzate ad accertare l’origine di alcuni malesseri”.

Neppure il governo Draghi si avvalse del voto di Napolitano: “Non potendo essere presente al dibattito sulla fiducia per ragioni di salute – aveva dichiarato – desidero esprimere il mio convinto sostegno alla scelta del presidente Mattarella per un governo presieduto da Mario Draghi, e sostenuto con intento unitario da un ampio arco di forze politiche. Saprà affrontare i complessi compiti che lo attendono, forte del consenso del paese che di certo verrà confermato in Parlamento“.

A maggio del 2022, un’altra complicata operazione, all’addome, non correlata a nessuna patologia di tipo virale. Era stato ricoverato in terapia intensiva dopo un intervento programmato allo Spallanzani di Roma. «Sta bene. Le sue condizioni sono compatibili con quelle di un paziente della sua età», aveva spiegato subito dopo il chirurgo Giuseppe Maria Ettorre. Risalgono ad allora le ultime notizie sullo stato di salute dell’undicesimo Presidente della nostra Repubblica, prima della tragica scomparsa di oggi.

Mancherà alle istituzioni, al Paese, all’Europa. Napolitano era il meglio della sinistra italiana: riformista, rigoroso ed elegante nei rimproveri. Il rigore era la sua cifra, insieme ad una elegante ironia nel “rimproverare” atteggiamenti e scelte considerati non pienamente rispettosi delle istituzioni e poco coerenti con una sinistra che deve guardare al futuro. Walter Verini su Il Riformista il 23 Settembre 2023

Giorgio Napolitano ha incarnato per me il meglio della sinistra italiana ed europea. Una sinistra che ha tratto le sue radici dalle battaglie per la libertà e la democrazia. E che si è ritrovata (avendola addirittura firmata con Umberto Terracini) nella Carta Costituzionale.

Una sinistra immersa non tra la “gente” ma nel popolo. Che era e rappresentava il popolo e, insieme, era e rappresentava mondi della cultura, dei saperi, della scienza, della produzione. Una sinistra – per Napolitano quella del PCI fino al 1989 – che ha scontato grandi limiti nel rapporto con l’Unione Sovietica, nel lungo tempo della guerra fredda, nella divisione del mondo in campi. Ma una sinistra figlia anche della lezione gramsciana e in parte togliattiana. Protagonista della Resistenza insieme a forze di altre ispirazioni democratiche. E che aveva quindi nel proprio DNA i valori della democrazia e della libertà, del pluralismo, insieme a quelli dell’emancipazione e della giustizia sociale.

Con contraddizioni? Certamente. Con limiti, almeno fino alla condanna dei carrarmati sovietici che schiacciarono la Primavera di Praga nel ‘68? Sì, dopo avere perduto l’occasione storica di non condannare l’invasione sovietica dell’Ungheria nel 1956.

Ma queste contraddizioni forgiarono una classe dirigente che seppe far prevalere il senso delle Istituzioni. Le ragioni dell’interesse generale del Paese. Il profilo di una sinistra che non voleva guardare i cambiamenti dal buco della serratura, ma provare a viverli e governarli. Napolitano e il filone più riformista del PCI (penso all’Amendola che nel ‘64, all’alba del primo centro-sinistra, lanciò l’idea dell’unificazione tra PCI e PSI) si batterono dentro il PCI per l’affermazione di una sinistra moderna e innovatrice. Che non avesse paura di una “parolaccia” come riformista (pur di non pronunciare “riformisti”, si usava il termine “riformatori”, e poi “riformismo forte”…). Non tenendo conto che un autentico riformismo è quello che si nutre di valori e ideali anche radicali e di concretezza delle soluzioni. Altrimenti, senza radicalità di valori e di visione non c’è riformismo ma pragmatismo. E senza concretezza e realismo di soluzioni ci sono astrattezza e vocazione minoritaria.

Giorgio Napolitano (e con lui i Bufalini, Chiaromonte e Macaluso, Lama…) spinse molto, a volte in minoranza, per stimolare il partito a percorrere ineludibili tratti di strada. Berlinguer contribuì con il suo grande carisma, con il suo straordinario profilo etico e politico a far avanzare il PCI in questa direzione. Entro i limiti del suo tempo. Entro i limiti della responsabilità di un segretario di “tenere” unito il partito. Che tuttavia resse alle prove fondamentali della difesa della democrazia dal terrorismo (anche di quello che Rossanda definì dell’”album di famiglia”).

Napolitano rappresentò l’avanguardia di certe direzioni di marcia. L’Europa, la socialdemocrazia europea, un rapporto positivo con gli Stati Uniti. La tutela delle istituzioni democratiche come patrimonio della democrazia e di tutti i cittadini. Una visione non chiusa dello scontro sociale e delle relazioni industriali. La sinistra di Ingrao, per semplificare, era invece più attenta e curiosa a stimolare ricerca e attenzione su temi inediti per il Novecento: “il vivente non umano”, la radicalità del pensiero femminista, i diritti individuali. Ho sempre pensato alla ricchezza ideale e politica dei comunisti italiani (italiani) del lavoro di sintesi esercitato da Berlinguer (entro i limiti del suo tempo), sintesi che in realtà trovò evoluzione solo nella fine del PCI, nella nascita del PDS di Occhetto e nella nascita del PD di Veltroni, come figlio naturale (nato dieci anni dopo) di quell’Ulivo ‘96, strozzato nella culla, tra l’altro, da un partitismo miope. Sia nell’89 che nel 2007 Napolitano sostenne con decisione le “svolte”, comprendendo come una storia si fosse esaurita, come fosse necessario piantare nuove radici sulle vecchie, innestando nella cultura del socialismo democratico ed europeo (per lui la strada maestra) nuove culture riformiste.

E c’è poi il Napolitano uomo delle istituzioni. In un libro-intervista con Luciano Lama che pubblicai nel 1996, il leader sindacale “profetizzò” di vedere bene Giorgio Napolitano nelle “più alta magistratura dello Stato”. Già aveva dato prove di grande autorevolezza istituzionale guidando la Camera dei deputati negli anni difficili di “Mani pulite” e di quella fine della Prima Repubblica che in realtà non è mai finita.

Buon compleanno, Presidente Napolitano!

Vedeva giusto Lama. Dopo la Presidenza di Montecitorio, dopo essere stato il primo ministro dell’Interno ex-comunista, dopo una intensa esperienza al Parlamento europeo (un po’ un suo ambiente naturale), l’elezione al Quirinale fu, nel 2006, il compimento straordinario di un percorso straordinario. E se sette anni dopo, in un’altra difficilissima fase politica e istituzionale, tutto il Parlamento gli chiese di rimanere a garantire quella guida, quell’equilibrio, quell’essere riferimento per tutto il Paese, beh, volle dire quanto Giorgio Napolitano fosse riuscito a interpretare quel ruolo con quel rigore, quel profilo, quella naturale eleganza istituzionale, quel necessario “interventismo” che – nell’alveo della Costituzione – si richiede a un Capo dello Stato in momenti di paralisi della politica e del Parlamento.

Non è questa sede di bilanci. Molti sono stati i momenti “alti” del mandato presidenziale di Napolitano. Lo sferzante discorso al Parlamento dopo la sua seconda elezione e la lettera allo stesso Parlamento sull’emergenza carceri sono stati per me tra i più memorabili.

Ho molti ricordi personali del rapporto con Giorgio Napolitano. Nello scrivere questi pensieri non nascondo emozione e commozione. Da giovane dirigente locale del PCI lo invitai più volte a manifestazioni politiche, che ebbi l’onore di introdurre. Quando nacque, nel 1989, l’area riformista nella trasformazione da PCI a PDS, ne divenni coordinatore in Umbria (l’unica area politica culturale – non corrente – di cui ho fatto parte nella mia vita) e i rapporti erano frequenti. Tengo per me il ricordo di qualche colloquio nel suo studio al Quirinale, o in quello di Senatore a vita a palazzo Giustiniani, di qualche telefonata personale. Di biglietti vergati rigorosamente a mano. Il rigore era la sua cifra, insieme ad una elegante ironia nel “rimproverare” atteggiamenti e scelte considerati non pienamente rispettosi delle istituzioni e poco coerenti con una sinistra che deve guardare al futuro. Penso che Napolitano mancherà alle istituzioni, al Paese, all’Europa. Sono sicuro che mancherà a me. Walter Verini

Era il 28 maggio 2009 e fu un modo molto particolare per celebrare l’Unità d’Italia. Quello straordinario colloquio tra Giorgio Napolitano, Paolo Nespoli e gli astronauti della ISS. Redazione su Il Riformista il 22 Settembre 2023 

Era il 23 maggio 2011 e fu un modo molto particolare per celebrare l’Unità d’Italia, per ribadire l’importanza della ricerca scientifica ed esaltare l’eccellenza del Belpaese in imprese di valore come quella spaziale. Ma anche un’occasione per esaudire una curiosità comuni a tutti: cosa si prova a guardare il mondo e l’Italia da lassù.

Questi furono i principali punti toccati nel colloquio tra l’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e gli astronauti italiani sulla ISS: Paolo Nespoli, ormai in partenza dopo una permanenza nello spazio di quasi sei mesi, e Roberto Vittori, arrivato il 18 maggio sulla ISS a bordo dello Shuttle Endeavour.

Dopo aver salutato con qualche parola in russo il comandante della ISS, Dmitry Kondratiev, e poi in inglese il comandante dell’Endeavour, Mark Kelly, Napolitano si rivolse ai due astronauti del corpo ESA di nazionalità italiana con parole di riconoscenza.

“La partecipazione italiana a questa missione dà un significato a un’espressione che ripeto spesso: dobbiamo essere all’altezza delle più alte tradizioni italiane, e voi lo siete”, disse il Presidente della Repubblica.

Napolitano batte le mani quando i due astronauti dispiegarono la bandiera tricolore, consegnata da Napolitano a Vittori il 7 gennaio scorso, in apertura delle celebrazioni per i 150 anni dell’Unità. Vittori consegnò la bandiera a Nespoli, ‘perché la riporti a Terra al suo rientro con la navetta russa Souyz, in programma per il giorno seguente.

”L’Italia è un Paese bellissimo da quassù– ha detto Nespoli ricevendo la bandiera da Vittori – ed è importante andare avanti in attività come la ricerca e l’educazione”. Il presidente Napolitano dette appuntamento agli astronauti per riceverli al loro rientro a Terra.

Si sono conosciuti a Napoli, il matrimonio civile a Roma. Chi è Clio Maria Bittoni, moglie di Napolitano e avvocato dei braccianti: le dimissioni, l’incidente e la fila contro i privilegi del Quirinale. Redazione su Il Riformista il 23 Settembre 2023

Un amore lungo 64 anni nato alla facoltà di Giurisprudenza dell’università Federico II di Napoli e sbocciato definitivamente a Roma dove Giorgio Napolitano e Clio Maria Bittoni si sono ritrovati, lui per la carriera da parlamentare, lei per gli anni di pratica in un ufficio legale.

“Sono un monogamo incallito” aveva spiegato Napolitano, scomparso ieri all’età di 98 anni, a Maurizio Costanzo nel corso di una intervista nel 2016, quasi due anni dopo l’addio al Quirinale. Sessantaquattro anni passati insieme (il matrimonio con rito civile, tradizione per i funzionari del partito comunista, nel 1959), due figli (Giovanni e Giulio) e altrettanti nipoti. “Ci siamo intravisti a Napoli e dichiarati a Roma. Ci siamo molto frequentati al ristorante, tanto che mi diceva che l’avevo presa per fame…” ricordava Napolitano.

Clio è di 10 anni più giovane. Nata a Chiaravalle (Ancona) il 10 novembre 1934 da due genitori antifascisti che la concepirono mentre erano al confino sull’isola di Ponza e la chiamarono Clio perché con loro c’era un “compagno” greco che aveva così chiamato la sua di bambina.

Dopo il liceo a Jesi e l’università a Napoli, Clio Bittoni inizia a lavorare a Roma come avvocata dei braccianti, specializzata in diritto del lavoro e nell’applicazione della legge sull’equo canone in agricoltura. Diventa così popolare tra i braccianti che, come raccontato da lei stessa, una volta accompagnò il marito ad Acerra per una manifestazione del partito e tra gli agricoltori ce n’erano molti di quelli che aveva assistito che cominciarono a dire: “vedi, quello è il marito dell’avvocato nostro”. Per anni ha lavorato nell’ufficio legislativo della Lega delle Cooperative. Nel 1992 però la svolta: arrivano le dimissioni in concomitanza con l’elezione di Napolitano a presidente della Camera dei deputati. “Lasciai perché mi sembrava inopportuno rimanere, essendo le mie controparti le commissioni parlamentari, la presidenza del Consiglio e altri organismi istituzionali. Ecco, forse in questo senso Giorgio ha influenzato la realizzazione di un percorso professionale”.

Arrivata al Colle, da first lady Clio Bittoni, pur mantenendo sempre un profilo basso e distaccato, ha spesso partecipato a eventi ufficiali accompagnando il marito in quasi tutti i viaggi di Stato. Ha anche partecipato da sola a eventi mondani, accettando l’invito di numerosi stilisti per presenziare alle loro sfilate. Nelle visite dei vari capi di Stato in Italia ha ricevuto diverse consorti di spicco, come la regina Rania di Giordania o la first lady statunitense Michelle Obama. Nel corso dei suoi 9 anni al Quirinale non ha mai amato i protocolli: nel settembre del 2012 si è messa in fila come una comune cittadina per vedere una mostra d’arte su Vermeer allestita nelle scuderie del Quirinale, insistendo nel voler pagare il biglietto.

Racconta il Corriere:

All’inizio del settennato le guardie del corpo della presidenza della Repubblica tentano di arginare gli strappi al protocollo di Clio, preoccupati per la sua sicurezza. Poi un giorno lei sale in macchina con il marito, sconvolgendo il protocollo perché la sua presenza non era prevista, e al semaforo all’angolo con via Nazionale scende dall’auto presidenziale. A quel punto gli uomini della sicurezza capiscono che è meglio arrendersi.

Dopo alcuni anni vissuti nell’ala del palazzo del Quirinale riservata ai presidenti, assieme al marito, si è trasferita nell’appartamento del palazzo della Panetteria, di fatto in uno dei lati del Quirinale, dove si sentiva più libera dai protocolli e dalle formalità.

Nel giugno del 2007 mentre stava attraversando a piedi via del Quirinale, dopo essere uscita da un ingresso laterale, viene investita da un’auto riportando una frattura composta alla tibia sinistra e la frattura dell’omero destro.

Bittoni si è più volte spesa personalmente in difesa della donne, scrivendo lettere pubblicate poi in diversi quotidiani. Nel marzo del 2014, in occasione della giornata in ricordo delle vittime della violenza, si è recata personalmente, assieme al segretario generale della presidenza della Repubblica Donato Marra, a deporre un mazzo di fiori alla fontana dei Dioscuri su piazza del Quirinale, che per l’occasione era stata illuminata di rosso con proiettati i nomi di alcune delle vittime delle sanguinose aggressioni sulla base dell’obelisco. Dopo i nove anni trascorsi al Quirinale, Napolitano e Bittoni tornano nell’amato rione Monti a Roma dove vengono accolti calorosamente dai residenti.

L’ultima lezione politica di Giorgio Napolitano nel giorno del suo ricordo in Parlamento. Il rito è laico. Si può. Si deve. Una curiosità colpisce: Giorgia Meloni non applaude Paolo Gentiloni che tratteggia l’ex Presidente della Repubblica europeista e atlantista convinto. Per lui, ha detto l’ex Premier, “l’Europa è stata sempre la via maestra. E noi cercheremo di seguirla”. Claudia Fusani su Il Riformista il 27 Settembre 2023 

L’ennesima prima volta nella lunga vita politica di Giorgio Napolitano è stata quella di mettere tutti insieme nell’aula del Parlamento per lui così centrale nella vita democratica e dare l’ultima lezione. Su cosa deve essere la politica. E sul valore delle istituzioni. Il tutto recuperando quella ritualità nelle forme – ogni dettaglio del complesso cerimoniale con 800 ospiti seduti tra cui vari capi di Stato – spesso snobbata e che invece diventa sostanza. Una bella giornata, seria e ricca di spunti, al di là delle legittime e personali emozioni che il Presidente emerito avrà senz’altro gradito. E pazienza se qualcuno oggi ne scriverà per criticare “l’autocelebrazione” a tratti anche “di maniera”.

Il cuore di una cerimonia laica sono le orazioni funebri. Il cerimoniale ha deciso fin da subito di non portare la bara in aula e di lasciarla esposta, coperta dal tricolore, per l’ultimissimo saluto, nella sala del governo. Qui infatti sono sfilati, il Presidente Mattarella, gli ex premier Monti, Draghi, Gentiloni, Renzi, il presidente francese Macron, l’ex Francoise Hollande, il tedesco Steinmeier, il governo e tutte le autorità italiane e straniere. La lista delle massime cariche è completa. La società civile invitata dalla famiglia, da Carlo Feltrinelli alla partigiana Iole Mancini, staffetta della Brigata Garibaldi, 103 anni. Bastano questi nomi per raccontare l’eredità di Giorgio Napolitano. Che le orazioni funebri hanno raccontato, ciascuna per la sua parte, ciascuna parte di un racconto totale del politico, dell’uomo, del padre (ha parlato il figlio Giulio), del nonno (bravissima la nipote Sofia).

Anna Finocchiaro ha raccontato il compagno di partito che credeva “nella conoscenza e nella competenza, nel pragmatismo e che rifuggiva all’ideologismo” riuscendo così nel percorso che lo ha portato “dal Pci al socialismo europeo”. Aveva due “ossessioni” Napolitano: il Parlamento come luogo della sintesi e superamento tra posizioni diverse per la cura dell’interesse collettivo”; le riforme “di cui hanno bisogno improrogabile per sopravvivere e progredire la democrazia e la società italiana”. Per tutto questo Napolitano “appartiene alla memoria dell’Italia”.

Gli oratori stanno seduti al banco riservato alla Presidenza, a destra e a sinistra del presidente del Senato Ignazio La Russa che ha saputo riconoscere il valore del politico (“È stato testimone di una cultura che si fa politica e di una politica che si fa istituzione”) e del presidente della Camera Lorenzo Fontana. Tutti pieni i posti al banco del governo che a volte è sembrato quasi ospite e spettatore. Soprattutto a loro ha parlato Gianni Letta, testimone dei “difficili” anni e delle tensioni in cui Berlusconi era premier e Napolitano presidente. L’ex sottosegretario, uomo forte di palazzo Chigi, ha smontato la tesi del complotto che tanti analisti, soprattutto di destra, hanno alimentato in questi giorni. “Due persone così diverse e lontane, tra loro c’è stata una convivenza difficile, con momenti di tensione e polemiche ma da tutte e due le parti non vennero mai meno la volontà e la forza di mantenere il rapporto nei binari della correttezza istituzionale e del rigoroso rispetto delle forme e dei limiti fissati dalla Costituzione”. Di fronte ad un lutto che Letta definisce “repubblicano” non ci possono essere divisioni. Morto tre mesi fa Berlusconi, morto oggi Napolitano, si chiude idealmente “un capitolo tormentato della nostra storia”.

Ogni intervento si conclude tra gli applausi. Il rito è laico. Si può. Si deve. Giorgia Meloni però non applaude Paolo Gentiloni che tratteggia il Napolitano europeista e atlantista convinto, scelte di campo “non retoriche ma frutto di un cambiamento di rotta all’interno del Pci”. Per lui, ha detto Gentiloni, “l’Europa è stata sempre la via maestra. E noi cercheremo di seguirla sempre con te”.

Giuliano Amato, come sempre, spiazza e riesce a parlare del momento più difficile per il presidente Napolitano: quando un pool di magistrati di Palermo si era convinto che la trattativa Stato-mafia si fosse allungata fino a lambire il Colle. Ospitò i pm “a casa sua” per una testimonianza che durò otto lunghe ore rispondendo ad ogni domanda. Il momento più basso per la magistratura italiana. Il momento più alto per l’istituzione Quirinale. Che sollevò il conflitto di attribuzione davanti alla Corte Costituzionale per distruggere le telefonate con il suo collaboratore Loris D’Ambrosio, telefonate “casualmente acquisite a processo ma non immediatamente distrutte”. Dopo la rabbia, Amato sa anche commuovere quando ricorda il più bell’insegnamento del Presidente emerito che amava citare le parole del giovane antifascista condannato a morte: “Ci hanno fatto credere che la politica è sporcizia o è lavoro da specialisti e invece la politica siamo noi”.

Spiazza, a modo suo, il cardinal Ravasi che regala istantanee del rapporto privato tra un ministro di fede e un politico convintamente ateo. Gli scambi di libri (“quando ero prefetto della biblioteca Ambrosiana e lui ministro dell’Interno gli regalai dei “Delitti e delle pene” di Beccaria e lui cercò subito le pagine sulla pena di morte”), gli incontri con Papa Benedetto, le citazioni di Thomas Mann (“Il cristianesimo rimane una delle colonne portanti della civiltà occidentale e la civiltà mediterranea è l’altra”), l’amore per la Divina Commedia e per la musica. “In uno dei concerti offerti a papa Benedetto, dopo aver ascoltato l’Ave verum Corpus di Mozart, li definì 4 minuti di bellezza ultraterrena”. Un’ora e quaranta minuti filano via così, parole, memoria, ascolto, applausi. L’ultima lezione.

Claudia Fusani. Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.

"Ci ha sempre detto che qualunque obiettivo è raggiungibile". Il discorso di Sofia Napolitano: “Nonno Giorgio ci chiamava per i cartoni animati, l’uscita da scuola e il gelato a Villa Borghese”. Redazione su Il Riformista il 26 Settembre 2023 

“Giorgio Napolitano era un nonno formidabile e attento, anche quando eravamo piccoli ci chiamava quando gli sembrava che ci fossero in televisione cartoni animati che ci sarebbero piaciuti”. E’ il ricordo di Sofia May Napolitano, la nipote 26enne del presidente emerito Giorgio Napolitano, scomparso venerdì 22 settembre all’età di 98 anni. Il suo discorso, nel corso dei funerali di Stato laici a Montecitorio, è stato genuino ed emozionante. “Ha sempre trovato il tempo di venirci a prendere a scuola per portarci a mangiare un gelato a Villa Borghese” ha spiegato Sofia, figlia del primogenito (Giovanni) di Giorgio Napolitano.

“Era un leader, un politico e un uomo formidabile premuroso, pieno di attenzioni. Era sempre presente per noi, ascoltava i nostri problemi in modo partecipe e comprensivo nonostante fosse già occupato con i problemi del Paese” sottolinea Sofia nella lettura della lettera dedicata al nonno. “Ci ha sempre detto che qualunque obiettivo è raggiungibile, si ricordava tutto ciò che gli dicevamo e ci ha fatto sentire di poter confidare in lui ogni volta che ne avevamo bisogno. Ci ha insegnato come fosse importante trattare chiunque con rispetto e cortesia, a prescindere dalle differenze di opinioni e di posizioni, ci ha insegnato quanto siano importanti la famiglia e le amicizie”, continua.

“Ci ha insegnato quanto sia importante amare quello che si fa e combattere per i propri ideali, senza curarsi degli ostacoli o delle complicazioni da superare. Sarà sempre la persona che ammiriamo di più: spero che voi tutti possiate ricordarlo con lo stesso affetto e con la stessa ammirazione che abbiamo per lui. Ci ha presentato a grandi personalità, tra queste la Regina Elisabetta a cui era particolarmente legato. Ci ha portato a Stromboli e a Capri, luoghi a lui cari. Siamo sempre rimasti colpiti da quanto fosse ammirato e apprezzato ovunque nel mondo e ci siamo sempre sentiti orgogliosi di essere suoi nipoti”. Un discorso, quello del Napolitano più intimo e familiare, che è stato salutato con un lungo applauso.

Prima di Sofia, a parlare è stato il secondogenito del presidente Napolitano, il figlio Giulio: “A nome della nostra Famiglia, Vi ringrazio per la Vostra presenza e vicinanza oggi e tra le migliaia di persone che abbiamo salutato alla camera ardente al Senato nei giorni scorsi. Viviamo questo momento in spirito di unità e condivisione. Un deferente ringraziamento a Papa Francesco, per le parole e i gesti che ci hanno emozionato. Non ricordo, nella lunga e straordinaria vita di mio padre, un solo giorno che non sia stato di lavoro. Il suo lavoro – e il senso profondo della sua esistenza – era la politica, intesa come ideale, missione e professione. La politica era per lui, come per molti di quella eccezionale generazione, una cosa seria. Richiedeva analisi, ascolto, discussione, decisione, assunzione di responsabilità. Non sopportava la demagogia, lo spirito di fazione, la riduzione del confronto politico a urlo e invettiva. La politica era inscindibile dalla vita privata e familiare, era il nostro orizzonte quotidiano. La tensione verso la dimensione collettiva non gli impediva di essere un marito, un padre e un nonno affettuosissimo, attento ai nostri bisogni, gioie e preoccupazioni, e di seguire i nostri studi e iniziative nei campi più vari. Ci ripeteva quanto fossero importanti il senso della famiglia, gli affetti, l’amicizia e l’allegria”.

“Amava la musica classica, l’arte, il cinema, il teatro e la letteratura (cito qui solo il debito intellettuale verso Thomas Mann) e cercava di trasmettercene la passione, ma senza forzarci; al tempo stesso, era pronto a seguire gli interessi di noi ragazzi, anche i più lontani. Si trattava di una visione della vita profondamente condivisa con mia madre nel loro rapporto indissolubile, capace di andare oltre le diversità di carattere e temperamento e di offrire una guida sicura a noi figli e poi agli amatissimi nipoti, nella continua presenza emotiva anche nei momenti di distanza fisica. In un disegno in prima elementare nell’ormai lontano 1976, lo ritrassi, accompagnato dalla scritta orgogliosa «mio papà fa il deputato al Parlamento», seduto davanti alla scrivania con una penna in mano. Per cinquant’anni, l’ho visto in quella posizione migliaia di volte, a leggere libri e saggi, studiare documenti e rapporti, scrivere appunti, lettere e discorsi, anche quando era Presidente della Repubblica, nonostante l’agenda sempre più fitta e il peso crescente dell’età. Per mio padre, tuttavia, la politica non era solo un’attività intellettuale. Era scelta etica e motivazione morale, partecipazione fisica e affettiva: insieme alle persone, ai lavoratori, ai cittadini, nelle campagne e nelle fabbriche, nei centri di studio e di cultura, nelle assemblee popolari e nelle piazze d’Italia (a cominciare da quelle della sua amata Napoli), nelle sezioni e feste di partito come nelle aule parlamentari, negli uffici ministeriali e in quelle istituzionali, giorno dopo giorno, senza mai risparmiarsi”.

“L’ho seguito da bambino, poi da ragazzo e quindi da adulto infinite volte: anche in questo Palazzo, di cui mi ha insegnato sin da quando ero piccolo il profondo valore simbolico di luogo rappresentativo della volontà popolare. Ogni volta ammiravo la dignità del suo portamento, la naturale eleganza dei movimenti, l’apertura del sorriso a chiunque gli si avvicinasse, con curiosità e modestia. E ascoltavo la sua voce calda e vibrante; la lingua ricca, d’altri tempi, quasi ammaliante; il tono severo, ma non di rado stemperato dall’ironia. Credeva nella lotta politica, nella partecipazione democratica, nel confronto tra idee diverse, nella ricerca di soluzioni per migliorare le condizioni di vita dei cittadini e dei lavoratori, ridurre le diseguaglianze, favorire lo sviluppo del Mezzogiorno. In questo impegno politico, come scrisse a conclusione della sua autobiografia del 2005, «ho combattuto buone battaglie e sostenuto cause sbagliate, e cercato via via di correggere errori, di esplorare strade nuove». Tra queste nuovi percorsi, vi furono le «straordinarie» prove della partecipazione a quell’«appassionante crogiuolo che è il Parlamento europeo», al servizio del progetto dell’integrazione e dell’unità europea. Da Presidente della Repubblica, ha sentito intensamente «la ricchezza [della] vicinanza al popolo italiano». Ha sempre guardato alla «grande, vitale risorsa della Costituzione», osservando che «non c’è terreno comune migliore di quello di un autentico, profondo, operante patriottismo costituzionale»” “E tra le giornate più felici da Capo dello Stato – ne sono testimone insieme alla mia Famiglia e ai suoi più stretti collaboratori – vi furono quelle della celebrazione – «con orgoglio e fiducia, pur nella coscienza critica dei tanti problemi rimasti irrisolti e delle nuove sfide con cui fare i conti» – del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, circondato dal calore e dall’attiva partecipazione popolare nei luoghi del Risorgimento lungo l’intera penisola. Tutti in quel momento si riconobbero in ciò che di più alto e fondamentale ci unisce. Per il bene dell’Italia e del suo ruolo in Europa e nel mondo, ha sempre sperato e agito per il rinnovamento della politica e delle istituzioni. E ha accettato, con spirito di sacrificio e senso del dovere, il prolungamento estremo delle sue più alte responsabilità prima di riassumere, fin quando ha potuto, le vesti di senatore con scrupolo e rigore, mostrando sino alla fine che cos’è la nobiltà della politica e del servizio alla Repubblica. Lo abbiamo sentito e gli siamo stati vicini con amore sino all’ultimo. Ne preserveremo e ne coltiveremo il ricordo. Ancora grazie a tutti Voi”.

Da l’Unità.

Chi è Clio Bettoni la moglie di Giorgio Napolitano, l’amore di una vita e madre di Giovanni e Giulio. Napolitano, nonostante la lunga e straordinaria carriera politica, è sempre stato legato alle sue radici (e alla sua città, Napoli) e soprattutto alle persone a lui più vicine: Clio Maria Bettoni e i due figli nati dal loro matrimonio. Una figura sempre al fianco del marito, una donna che è stata come una colonna per l'ex Presidente della Repubblica. Andrea Aversa su L'Unità il 23 Settembre 2023

Una storia d’amore durata 64 anni. Almeno considerando la data del matrimonio, era il 1959 quando Clio Maria Bettoni ha sposato l’ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Tanto amore e rispetto ma anche tanti sacrifici. Una vita che ha dovuto sempre raggiungere un compromesso: trovare un equilibro tra le esigenze private con quelle pubbliche, politiche e istituzionali. Avvocato, nata a Chiaravalle mentre i genitori erano al confine sull’isola di Ponza, Clio Bettoni è nata e cresciuta in una famiglia socialista. Deve il suo nome alla figlia di un amico e ‘compagno’ greco anche lui confinato sulla pontina più grande.

Chi sono la moglie e i figli di Giorgio Napolitano

‘Università canaglia‘, possiamo dire. Si, perché Giorgio e Clio si sono incontrati e conosciuti alla Federico II di Napoli. L’ateneo era frequentato da colui che diventerà il primo comunista ad essere eletto al Quirinale e il il primo che riceverà un secondo mandato. Alla facoltà di giurisprudenza era iscritta colei che diventerà sua moglie e compagna di vita. Un rapporto laico il loro, consacrato con rito civile e che ha dato vita a due figli: Giovanni e Giulio, non battezzati e nati rispettivamente nel 1961 e nel 1969. Questi ultimi daranno due nipoti alla coppia, facendo diventare Giorgio e Clio – appunto – nonni.

La ‘carriera’ politica e la famiglia

Dei due figli non si sa molto. Giovanni ha il nome del nonno paterno e alla fine degli anni ’90 è stato dirigente dell’Autorità garante per le telecomunicazioni (Agicom). Giulio è diventato professore ordinario di diritto amministrativo presso l’Università Roma 3. La madre ha iniziato a saggiare la politica dopo la liberazione. I genitori iniziarono a farle frequentare qualche sezione del Partito Comunista. Non è forse un caso che Clio è diventata esperta di diritto del lavoro e appassionata di diritti civili. Tuttavia, come lei stessa ha dichiarato in passato, non era molto entusiasta della vita di partito. Poi, a Roma, è iniziata ufficialmente la frequentazione con Napolitano.

I sacrifici

Quando Giorgio Napolitano ha iniziato a ricoprire ruoli politici e istituzionali, come quello di Presidente della Camera nel 1992, la moglie ha dovuto sacrificare il proprio percorso professionale, facendo subire alla sua carriera di avvocato una brusca frenata. Il tutto fatto sempre con grande forza, dignità e riserbo. La capacità di anteporre alle proprie esigenze quelle della famiglia e dello spessore istituzionale del marito. Poi è arrivato il Quirinale. Un’avventura che ha visto Clio Bettoni accompagnare sempre e dovunque il marito. Non è un mistero che insieme ai figli fosse stata contraria alla rielezione. Così come non è un mistero che sia stata la famiglia di Napolitano a spingere per le dimissioni. Era giunto il momento di tornare alla vita privata. Quella di sempre, tra le mura di casa e con i propri cari. Senza più l’oppressione dei protocolli e delle formalità di Stato.

Andrea Aversa 23 Settembre 2023

Dal Pci al Quirinale. È morto Giorgio Napolitano, l’ex presidente della Repubblica aveva 98 anni. Redazione su L'Unità il 22 Settembre 2023 

Giorgio Napolitano, presidente emerito della Repubblica, è morto oggi a Roma. L’ex capo dello Stato aveva compiuto 98 anni lo scorso 29 giugno. Le sue condizioni di salute si erano aggravate nei giorni scorsi, ma Napolitano presentava già da tempo un quadro clinico particolarmente complesso. Napolitano si è spento alle 19.45 di oggi, 22 settembre 2023, presso la clinica Salvator Mundi al Gianicolo, a Roma: fino all’ultimo accanto a lui la moglie Clio Bittoni e i figli Giovanni e Giulio.

Il 21 maggio del 2022 era stato operato all’addome e ricoverato nove giorni all’ospedale romano Spallanzani. Il decorso post operatorio, con l’intervento realizzato dall’equipe guidata dal chirurgo Giuseppe Maria Ettorre, specialista di chirurgia oncologica, era stato regolare

Quello di maggio 2022 era il secondo intervento da quando Napolitano aveva lasciato la presidenza della Repubblica, all’inizio del 2015, dopo due anni dall’inedito secondo mandato al Quirinale. Già il 24 aprile 2018, nove giorni dopo aver parlato con il presidente Sergio Mattarella in occasione delle consultazioni post elezioni, il senatore a vita era stato ricoverato all’ospedale San Camillo di Roma per un improvviso malore e aveva subito un complesso intervento all’aorta, eseguito dal professore Francesco Musumeci.

Napolitano è stato l’undicesimo presidente della Repubblica, dal 15 maggio 2006 al 14 gennaio 2015, il primo della storia italiana a essere stato eletto per un secondo mandato e il primo a salire al Quirinale dopo esser stato membro del Partito Comunista Italiano.

Esponente della corrente “migliorista” del Pci, Napolitano è stato anche presidente della Camera (nel 1992 subentrando a Oscar Luigi Scalfaro, salito al Quirinale) e ministro dell’Interno nel primo governo Prodi. La sua prima elezione al Quirinale è del  10 maggio 2006, poi il secondo mandato il 20 aprile del 2013 rassegnando le proprie dimissioni il 14 gennaio 2015.

Secondo mandato che fu segnato da un rielezione caotica: durante i giorni delle votazioni nell’Aula di Montecitorio vennero proposti e poi bruciati candidati come Franco Marini e Romano Prodi, fermato da 101 franchi tiratori del Pd. Il M5S puntava invece su Stefano Rodotà.

Venne soprannominato Re Giorgio (‘King George’) dal New York Times, appellativo che aprì la strada al dibattito se Napolitano sia stato troppo interventista o se, come altri capi di Stato, abbia esercitato con pienezza i poteri attribuitigli dalla Costituzione.

Come capo dello Stato ha conferito l’incarico a cinque presidenti del Consiglio dei ministri: Romano Prodi (2006-2008), Silvio Berlusconi (2008-2011), Mario Monti (2011-2013), Enrico Letta (2013-2014) e Matteo Renzi (2014-2016).

Protagonista assoluto della politica per oltre 60 anni, Napolitano era nato a Napoli il 29 giugno 1925 dal padre Giovanni, avvocato, poeta e saggista, e dalla madre Carolina Bobbio, figlia di nobili partenopei di origine piemontese. Nel 1945 entrò nel Partito Comunista e nel 1953 venne eletto per la prima volta in Parlamento, posto che occupò con qualche breve interruzione fino al ’96 nelle vesti di deputato e senatore, ma anche di europarlamentare a Strasburgo.

“La sua morte mi addolora profondamente e, mentre esprimo alla sua memoria i sentimenti più intensi di gratitudine della Repubblica, rivolgo ai familiari il cordoglio dell’intera nazione“, è il messaggio del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che ricorda così il suo predecessore al Quirinale.  “Nella vita di Giorgio Napolitano si specchia larga parte della storia della seconda metà del Novecento, con i suoi drammi, la sua complessità, i suoi traguardi, le sue speranze. Dalla frequentazione, negli anni giovanili, dello stimolante ambiente culturale napoletano, all’adesione alla causa antifascista e del movimento comunista, all’impegno per lo sviluppo del Mezzogiorno e delle classi sociali subalterne, sino poi alla convinta opera europeistica e di rafforzamento dei valori delle democrazie, il presidente Napolitano ha interpretato significative battaglie per lo sviluppo sociale, la pace e il progresso dell’Italia e dell’Europa“. Ancora, continua Mattarella: “Membro del Parlamento Europeo, e Presidente della sua Commissione Affari costituzionali, promosse il rafforzamento delle istituzioni comunitarie per un’Europa sempre più autorevole e unita. Eletto alle più alte magistrature dello Stato, Presidente della Camera dei Deputati, Senatore a vita, Presidente della Repubblica per due mandati, ha interpretato con fedeltà alla Costituzione e acuta intelligenza il ruolo di garante dei valori della nostra comunità, con sentita attenzione alle istanze di rinnovamento presenti nella società. Votato alla causa dei lavoratori, inesauribile fu la sua azione per combattere la spirale delle morti sul lavoro“.

Molto più “secco” il comunicato arrivato da Palazzo Chigi per la morte di Giorgio Napolitano: “Il Presidente del Consiglio dei ministri, Giorgia Meloni, esprime cordoglio, a nome del Governo italiano, per la scomparsa del Presidente emerito della Repubblica, Giorgio Napolitano. Alla famiglia un pensiero e le più sentite condoglianze”.

Anche Papa Francesco ha ricordato l’ex presidente della Repubblica. La sua morte, scrive il Pontefice argentino, “ha suscitato in me sentimenti di commozione e al tempo stesso di riconoscenza per questo uomo di Stato che, nello svolgimento delle sue alte cariche istituzionali, ha manifestato grandi doti di intelletto e sincera passione per la vita politica italiana, nonché vivo interesse per le sorti delle nazioni“. “Conservo grata memoria degli incontri personali avuti con lui – ricorda il Papa in un telegramma alla moglie Clio Bittoni – durante i quali ne ho apprezzato l’umanità e la lungimiranza nell’assumere con rettitudine scelte importanti, specialmente in momenti delicati per la vita del Paese, con il costante intento di promuovere l’unità e la concordia in spirito di solidarietà, animato dalla ricerca del bene comune“. Redazione - 22 Settembre 2023

L'addio a 96 anni. Chi era Giorgio Napolitano, il comunista che piaceva anche a Washington. Scalò subito le gerarchie del Pci, da ragazzo. La rottura con Giolitti nel ‘56. La corsa alla successione di Togliatti, bruciato da Berlinguer. Poi il viaggio nelle istituzioni fino al Quirinale. David Romoli su L'Unità il 23 Settembre 2023

Giorgio Napolitano ha vissuto due vite e le ha traversate entrambe seguendo la stessa bussola. È stato un dirigente comunista di primissimo piano, in lizza con Enrico Berlinguer per succedere a Luigi Longo come segretario del partito. Poi è stato un uomo delle istituzioni, il primo ex comunista ministro degli Interni e soprattutto il primo e l’unico eletto presidente della Repubblica. Di primati, Napolitano, ne vanta anche altri: il primo comunista accolto negli Usa, nel 1978, il primo capo dello Stato eletto per la seconda volta alla scadenza del mandato.

Prima ancora era stato autore di sonetti, appassionato di teatro, attore ma anche militante politico dal 1942, a 17 anni, iscritto al Pci dal 1945. Poteva scegliere tra diverse strade e imboccò quella della politica: subito segretario federale a Napoli poi a Caserta. Dal 1953 deputato e dal Parlamento sarebbe uscito solo 33 anni dopo, con due anni di presidenza dal 1992 al 1994, ma solo per traslocare al Viminale, poi al Parlamento europeo, a palazzo Madama come senatore a vita dal 2005, infine per 10 anni al Quirinale. Giorgino, come lo chiamavano nel Pci per distinguerlo dal suo padre politico e capocorrente Amendola, “il Giorgione”, entrò subito a far parte dell’area moderata e più vicina al riformismo, quella appunto di Amendola e di Antonio Giolitti.

Ma quando nel 1956 i carri armati russi entrarono a Budapest e Giolitti si schierò contro l’invasione, il compito di scagliare l’anatema fu affidato, come d’uso nei partiti comunisti dell’epoca, proprio a chi gli era stato più vicino, dunque a Napolitano. Come poteva non capire, Giolitti, che quei carri armati avessero “contribuito in maniera decisiva a salvare la pace nel mondo”? Il cruccio di quella requisitoria molto vicina al tradimento Napolitano, per sua stessa ammissione, se lo sarebbe portato dietro per tutta la vita.

Le scuse ufficiali sarebbero arrivate nel 2006 quando, appena eletto capo dello Stato, l’antico “Giorgino” inaugurò il suo mandato andando a trovare a casa sua Giolitti per ammettere che mezzo secolo prima era lui ad avere ragione. Nel Pci degli anni ‘60 i cavalli di razza erano due: Enrico Berlinguer e Giorgio Napolitano. Non si amavano anche se si rispettavano. Dopo il congresso che nel ‘66 aveva registrato la sconfitta totale della sinistra di Pietro Ingrao, era noto che uno dei due sarebbe stato scelto come successore del segretario Longo.

Il conclave rosso, alla fine, optò per il togliattiano sardo piuttosto che per l’amendoliano di Napoli che in una prima fase, come vicesegretario di fatto, era sembrato in vantaggio. Come responsabile economico del Pci, Napolitano, già allora attento ai rapporti con il mondo socialdemocratico e in Italia con il Psi, riformista privo di qualsiasi nostalgia rivoluzionaria, anche nel senso di quella rivoluzione pacifi ca e praticata a colpi di “riforme di struttura” nella quale crdevano invece ancora molti comunisti, è stato con Berlinguer il vero dirigente di una solidarietà nazionale interpretata però dal responsabile economico in modo estremo: forse l’unico dirigente comunista nella storia ad aver proposto una diminuzione dei salari operai in nome della responsabilità nazionale e dell’interesse generale. Non a caso proprio in quegli anni, fu il primo comunista italiano a ottenere il visto per una serie di conferenze negli Usa.

Il suo riformismo suscitava interesse e apprezzamento, anche se dovette aspettare 10 anni prima che fosse invitato negli Usa, grazie ai buoni uffici di Giulio Andreotti, stavolta apertamente in veste di politico. Piaceva anche così: “He is my favourite communist”, lo elogiò Kissinger. Eppure fu proprio lui a siglare la fine dell’accordo con la Dc con un discorso contro lo Sme che a risentirlo oggi suona come un circostanziato atto d’accusa contro la moneta unica per come è stata realizzata. L’intesa con il compagno e rivale Berlinguer non sopravvisse alla solidarietà nazionale. Della nuova strada imboccata dal segretario a Napolitano non piaceva niente: non la competizione durissima con il Psi di Craxi, meno che mai una questione morale che il dirigente napoletano riteneva portasse solo all’isolamento. Lo pensava e lo scrisse a chiare lettere sull’Unità.

Nel Pci di Berlinguer e Napolitano, come in quello di Amendola Ingrao, c’erano molta più democrazia, trasparenza politica e coraggio di quanto non capiti oggi nel Pd. Dopo la morte del segretario, Napolitano tornò in lizza ma il partito preferì Natta e probabilmente commise un fatale errore. La seconda vita del comunista Napolitano inizia nel 1996, quando occupa nel governo Prodi la poltrona più nevralgica, il ministero degli Interni ma prende la rincorsa il 10 maggio del 2006, quando alla quarta votazione fu eletto presidente della Repubblica con il voto della sola maggioranza. Nessuno si apsettava che Giorgio Napolitano si dimostrasse un presidente-arbitro, di quelli che si tengono quanto più possibile lontani dalla lizza e interpretano col massimo rigore i limiti del loro mandato. Nessuno però si aspettava neppure un presidente che quei limiti li forzava al massimo grado, con la palese intenzione di indirizzare il corso della vita politica “nell’interesse del Paese”.

Poteva contare sulla fedeltà assoluta, spesso obtorto collo, comunque eccessiva del suo Pd. Interpretava le preorogative del Quirinale in modo a dir poco molto estensivo. La bussola era ancora quella adoperata dal dirigente del Pci: interesse nazionale al primo posto, o quel che il presidente riteneva essere tale, decisionismo assoluto, diffidenza nei confronti di ogni retorica demagogica, e dunque pronunciata idiosincrasia nei confronti del M5S, che lo odiava ed era ricambiato: storica la reazione alla domanda sulla vittoria elettorale dei 5S nel 2013: “Come valuta il boom del M5S?”. “Non ho sentito nessun boom”. Stella polare della sua presidenza fu l’evitare a ogni costo l’interruzione anticipata delle legislature, fonte a suo parere di quasi tutti i mali della politica italiana. Napolitano convinse Fini e il Pd a rimandare di un mese il voto sulle mozioni di sfiducia contro il governo Berlusconi, lasso di tempo che permise al Cavaliere di procedere con la sua campagna acquisti e salvarsi per un pelo.

Spinse poi, nel marzo 2011, lo stesso Berlusconi a imbarcarsi nella spedizione contro la Libia, che il Cavaliere considerava a ragione una follia autolesionista. Ma il presidente, capo delle Forza armate, gli tagliò l’erba sotto i piedi convocando il Consiglio supremo di difesa e anticipando la scelta: “Gheddafi sta sfi dando il mondo. L’Italia non può restare indifferente”. Sin dal giugno 2011 iniziò a preparare la caduta di un governo Berlusconi che riteneva ormai decotto e per la successione si rivolse a Monti, che sarebbe effettivamente diventato presidente del consiglio, con un governo di unità nazionale, in novembre. Si oppose in tutti i modi all’alleanza tra Pd, Sel e Idv, la cosiddetta “foto di Vasto” e, dopo le elezioni, rifiutò la richiesta di Bersani che voleva tentare la carta di un governo di minoranza per mettere alle strette i 5S.

A Giorgio Napolitano i governi di unità nazionale piacevano: garantivano quella stabilità che considerava più essenziale di tutto il resto. Quando, dopo il disastro dell’agguato dei 101 franchi tiratori contro Prodi nell’elezione del nuovo presidente, tutte le forze politiche si recarono in ginocchio al Quirinale chiedendogli di accettare un secondo mandato, sferzò i presenti e pose come condizione non negoziabile la nascita appunto di un nuovo governo di unità nazionale, presieduto da Enrico Letta.

Ma il reincarico lo accettò malvolentieri, convinto che fosse un danno per la democrazia. Era stato più un sovrano che capo dello Stato ma proprio per questo sapeva che una presidenza che lui stesso aveva reso così forte, per non degenerare in monarchia, doveva avere almeno limiti temporali rigidi. Accettò il secondo mandato ma appena possibile, dopo meno di due anni, re Giorgio si tolse la corona. David Romoli 23 Settembre 2023

Storia del PCI. Chi erano i comunisti “miglioristi”: la corrente da Amendola a Napolitano e lo scontro con Berlinguer. Il dibattito all'interno del più grande Partito Comunista del mondo occidentale. Napolitano riconobbe che quella definizione aveva una connotazione spregiativa, “anche se a ben pensarci poi tante volte come PCI avevamo detto di voler lottare per un'Italia migliore”. Redazione Web su L'Unità il 26 Settembre 2023 

Giorgio Napolitano ammise che essere definiti “miglioristi” non era certo un complimento, all’interno del Partito Comunista. Erano tempi di grande dibattito, di accesa dialettica all’interno del più grande Partito Comunista nel mondo occidentale. L’ex Presidente della Repubblica, morto lo scorso venerdì 22 settembre, era stato tra i più autorevoli esponenti della corrente. Il migliorismo fu un orientamento politico che si sviluppò tra la fine degli anni ’70 e gli anni ’80 all’interno del PCI e della sinistra in generale che contemplava la possibilità di migliorare il sistema e la società non con la rivoluzione quanto a partire e “operando all’interno delle sue stesse strutture e accettandone in parte i metodi” si legge sulla Treccani.

Fin dalla sua nascita il 21 gennaio del 1921 a Livorno, il Partito Comunista Italiano era animato da diverse correnti e orientamenti che emersero soprattutto dopo l’invasione dell’Ungheria delle truppe sovietiche, dopo il rapporto del leader sovietico Nikita Kruscev sui crimini di Stalin al XX Congresso del PCUS del 1956 e dopo la morte del segretario Palmiro Togliatti. Il dibattito all’interno del Partito si focalizzava sui rapporti con Mosca e sulla relazione da intrattenere con la società capitalista.

Napolitano era delfino di Giorgio Amendola, il principale esponente della corrente definita riformista, che non coltivava l’idea della rivoluzione quanto più quella di riforme graduali di stampo socialista. Pietro Ingrao invece guidava la corrente che sosteneva un’unione con le organizzazioni di lotta nate nelle fabbriche e con i movimenti nati durante le proteste del ’68. Lo scontro esplose all’XI Congresso del Partito, nel 1966, due anni dopo la morte di Togliatti. A prevalere furono le idee della fazione di Amendola. Quando quest’ultimo morì, nel 1980, Napolitano divenne leader della corrente.

Che con il passare degli anni venne definita “di destra”, all’interno del partito: che puntava a una partecipazione attiva al governo del Paese e a una collaborazione fitta con i partiti moderati piuttosto che alla rivoluzione o allo scontro con il mondo capitalista. “Fummo etichettati – spiegò Napolitano anni dopo in un’intervista – come ‘miglioristi’ e quella etichettatura era polemica e perfino spregiativa, anche se a ben pensarci poi tante volte come PCI avevamo detto di voler lottare per un’Italia migliore”. Dopo una stretta collaborazione dal 1976 al 1979 con Enrico Berlinguer, Napolitano guidò l’opposizione interna più forte al segretario comunista.

E infatti dalle pagine dell’Unità del 21 agosto 1981, Napolitano scrisse un duro articolo contro la “questione morale” lanciata da Berlinguer in un’intervista a Eugenio Scalfari. “’Saper scendere e muoversi sul terreno riformistico’ anziché pretendere di combattere il riformismo con ‘pure contrapposizioni verbali’ o ‘vuote invettive’”. Napolitano poche settimane dopo lasciò l’organizzazione del partito e divenne capogruppo dei deputati comunisti.

“Con Formica, capogruppo dei socialisti, aveva trovato un’intesa per rendere il testo accettabile anche per i comunisti – ha ricordato un altro comunista migliorista, Emanuele Macaluso, su Il Riformista nel 2005 – Intesa che poi venne mandata all’aria da entrambe le parti. Ma in quel momento Berlinguer comincia a vedere di cattivo occhio sia Napolitano sia Nilde Iotti, allora presidente della Camera. A Nilde Iotti sembra rimproverare di tutelare più il governo che il suo partito, mentre su Napolitano pesa il sospetto di morbidezza per via della sua nota contrarietà alla linea scelta in quella fase dal Pci, durante la dura battaglia parlamentare che precedette il referendum. Da lì in avanti i rapporti si inasprirono a tal punto che quando Berlinguer morì Napolitano aveva già in tasca la lettera di dimissioni da capogruppo. Una lettera mai recapitata, in quel funesto 7 giugno 1984”. Dopo la svolta della Bolognina del novembre 1989 e lo scioglimento del Partito Comunista Italiano nel febbraio 1991, Napolitano si distaccò sempre più dalle attività di partito. Redazione Web 26 Settembre 2023

I funerali dell'ex Presidente. Napolitano è stato un gigante, con la sua scomparsa non salutiamo anche l’eredità del Pci. Penso che il contributo più grande che ha dato all’Italia è stata la sua militanza nel partito che più di tutti gli altri, per mezzo secolo, ha difeso i diritti dei lavoratori ed ha svolto una straordinaria azione riformista. Piero Sansonetti su L'Unità il 27 Settembre 2023

Molte persone illustri, tra le quali il presidente della Repubblica e il cardinal Ravasi, ieri hanno dato l’addio a Giorgio Napolitano. È stata una cerimonia ricca di pensiero, di politica, di cultura. Giorgio Napolitano era proprio questo: uomo di pensiero e di cultura. E uomo politico fino al più profondo dell’anima. Faceva parte della generazione che ha reso grande l’Italia. Dopo la disfatta del fascismo che aveva gettato nel fango e nella povertà e nella distruzione il nostro paese.

Per me Napolitano è stato solo accidentalmente il presidente della Repubblica. Lo ho sempre considerato uno dei quattro o cinque più importanti dirigenti del Pci del dopo Togliatti. Insieme a Berlinguer, a Ingrao, ad Amendola, a Pajetta e a un’altra decina di suoi coetanei di doti intellettuali fuori dal comune e di ferrea struttura morale: Reichlin, Lama, Chiaromonte, Trentin, Macaluso, Natta, Tortorella. Penso che il contributo più grande che ha dato all’Italia è stata la sua militanza nel partito che più di tutti gli altri, per mezzo secolo, ha difeso i diritti dei lavoratori ed ha svolto una straordinaria azione riformista. Cambiando l’Italia, il suo spirito pubblico, la sua struttura statale, il welfare, e producendo degli elementi fondamentali di riequilibrio sociale e di riduzione delle diseguaglianze. Il Pci è stato il più forte dei partiti riformisti.

Napolitano faceva parte di una delle tre grandi correnti del partito comunista. Quella che era definita migliorista, o “di destra”. Poi c’era il centro berlingueriano, che era largamente maggioritario, e poi la robusta corrente della sinistra di Ingrao. Su molti temi queste correnti avevano idee diverse. Si diedero battaglia aperta, coinvolgendo non qualche circolo magico ma circa un milione e mezzo di militanti. E per militanti non si intendeva tifosi, ma persone che tutte le sere, o quasi, dopo il lavoro andavano in sezione, e discutevano, e studiavano, e si accapigliavano. Erano un esercito popolare colto, appassionato, con un’altissima aspirazione alla giustizia e ai principi.

Le correnti del Pci si diedero spesso battaglia aperta, Nel ‘66, al congresso numero 11, quando i miglioristi pensavano a un allargamento del centrosinistra, e gli ingraiani a un “nuovo modello di sviluppo”, ispirato più a Giovanni XXIII che alla socialdemocrazia. Si diedero battaglia più avanti, sul compromesso storico, sul pacifismo, sulla questione morale, sull’ambientalismo e sul femminismo. Anche sul garantismo. Non avevano posti di governo da spartirsi, neanche ci pensavano. Giocavano con le idee e con i grtandi maestri: Marx, Benjamin, Rosa Luxemburg…

Ho militato molti anni in quel partito. Ha segnato la mia vita. Non ero dalla parte di Napolitano, stavo con Ingrao, ed ebbi un rapporto fortissimo, bellissimo, importantissimo (per me) con Chiaromonte, che era migliorista come Napolitano e adorava Togliatti e Croce, due personaggi che io non ho mai amato. Ma Napolitano era Napolitano. Era un gigante, paragonato ai politici di oggi era molto più di un gigante. E il Pci era un partito straordinario, decisivo per gli equilibri e lo sviluppo dell’Italia, fondamentale nella crescita delle masse popolari (noi dicevamo così: masse popolari).

Anche nella lotta di classe, che ha sempre combattuto e sempre con spirito nazionale e pacifico. L’idea oggi è che salutato Napolitano si può mettere nella tomba anche il ricordo del Pci. No, amici, miei, no cari compagni: cancellare l’eredità politica e il bagaglio di sapere, di capacità di lotta e di sacrificio, di collettività, che il Pci ci ha lasciato, sarebbe un delitto. Per l’Italia, E sarebbe la morte – la morte – della sinistra. Questo piccolo giornale corsaro farà di tutto per impedire che questo avvenga.

Piero Sansonetti 27 Settembre 2023 

L'addio e le polemiche. Fatto e Corriere resuscitano i populisti: “Napolitano fu un golpista”. Nel salotto di Lilli Gruber Mieli e Padellaro riciclano la teoria grillina del presidente tecnocrate al servizio dei poteri forti, reo di aver di aver abolito le elezioni nel 2011. Michele Prospero su L'Unità il 27 Settembre 2023 

La trasmissione di Lilli Gruber dedicata alla morte di Giorgio Napolitano ha avuto quantomeno il pregio di rendere anche visivamente percepibile la corrispondenza di antipolitici sensi tra le penne del sistema e i fogli della rivolta giustizialista. In studio, totale è infatti apparsa la convergenza tra Paolo Mieli e Antonio Padellaro nell’analisi sommaria, a tratti persino liquidatoria, del presidente scomparso (si ascoltino le parole di Mieli in merito al “salvataggio” di Berlusconi ad opera del Quirinale o all’inconfessabile “segreto” della telefonata con Mancino, sulla quale la Consulta ha però pronunciato parole definitive).

Le loro valutazioni hanno disvelato la miscela composita di quella destra culturale, più che direttamente politica, che ha inciso in profondità nelle fasi di impasse della repubblica. Nella figura del capo dello Stato, entrambi, il giornalista precocemente reclutato dalla Dc, in bilico tra l’unzione di Andreotti e quella di De Mita, e l’opinionista che in gioventù fu sedotto dai canti inneggianti al “partito dell’insurrezione” prima di entrare nella corte di Agnelli (il “piombo” delle rotative manteneva sempre il suo fascino), vedono il simbolo “rosso” che si è insinuato nelle stanze repubblicane.

Secondo la chiave antisistema abilmente maneggiata dai due direttori, Napolitano incarnò quella cultura dello Stato e delle regole – il mito della stabilità delle istituzioni come valore essenziale in giunture critiche che tracimano nella sfera economico-finanziaria – contro la quale hanno nutrito negli anni pesanti riserve sostanziali. I loro bersagli preferiti sono stati, tra i post-comunisti, soprattutto quelli più dotati di uno spirito di autonomia politica, e perciò puntualmente braccati come i custodi della non troppo amata repubblica dei partiti. Cruciale si rivelò, agli inizi degli anni 90, la regia in salsa antipartitocratica attraverso la quale Mieli guidò il coro omologato dei media contro le logore nomenclature e a sostegno del devastante nuovismo populista che avanzava con il tintinnar di manette.

Anche la seconda ondata demagogica, che entrò in gestazione nel 2007 per poi esplodere nel 2013, vide l’indiscusso protagonismo del gruppo Rizzoli-Corriere della Sera che lanciò un autentico ordigno confezionato da Stella e Rizzo contro la Casta: il libro, uscito a maggio del 2007, fece da apripista per il “Vaffa-Day” tenutosi a settembre, preparando così la futura conquista “comica” del Palazzo (“non siamo un partito, non siamo una casta, siamo cittadini punto e basta”, cantavano i pentastellati nello “Tsunami tour”). Editorialisti di spicco di via Solferino – prima di transitare tra le camicie verdi di Salvini e poi in quelle nere di Meloni – dichiararono non a caso il loro voto nel 2013 a Grillo, salutato come il giustiziere della partitocrazia nascosta ormai solo al Nazareno.

Nel settembre del 2012, lo stesso Mieli con Padellaro partecipò alla festa del Fatto quotidiano nella quale sul banco degli imputati figurava proprio il Quirinale, condannato a ogni piè sospinto come il centro di espropriazione delle libertà costituzionali, e perciò da graffiare attraverso un movimento di liberazione popolare contro le élite. Con lucidità di visione, in quell’occasione Mieli affermò che il dato di partenza – premessa necessaria per agire nella situazione concreta – era chiaro: “l’establishment non si fida del centrosinistra” a guida Bersani.

E dunque non mancavano spazi per un’attività movimentista la quale smascherasse il Colle come potenza ostile che aveva abolito le elezioni, mentre solo le sacre schede potevano decidere i governi nei “Paesi civili dell’orbe terracqueo” (ecco svelato l’ispiratore lessicale di Meloni). Il trucco dei cosiddetti poteri forti dell’informazione è sempre lo stesso: invocano la soluzione tecnocratica in funzione salvifico-emergenziale, accarezzandola come conferma alla loro idea del fallimento dei politici di professione, e poi infilzano senza pietà proprio il partito, storicamente sempre appartenente al fronte del centrosinistra, più esposto nel sostegno parlamentare ad un esecutivo oramai resosi impopolare.

Arrivano a preparare finanche assalti al sistema politico denunciando “ammucchiate” e restringimenti della sovranità del popolo. Ancora adesso Mieli imputa a Napolitano l’innesco di una strategia interventista dal Quirinale che avrebbe strapazzato le prerogative del Parlamento (quasi il 90% dei deputati sosteneva però Monti, che l’allora presidente di Rcs disse peraltro di avere pure votato quando si presentò con la lista personale “Scelta Civica”). La natura problematica dei governi cosiddetti “del presidente” è indubbia. Surrogato all’italiana della “larga coalizione”, l’esecutivo a guida tecnica si è confermato in ben tre occasioni come un preludio quasi regolare alle eruzioni antipolitiche (tornate elettorali del ’94, del 2013 e infine del 2022).

E però non esistono parentesi di supplenza, sotto gli occhi vigili del discreto controllo presidenziale, senza un esplicito supporto dei partiti che in maniera quasi unanime cedono lo scettro al tecnico di turno. Al costoso – in termini di consenso – governo Monti, le forze politiche, poi travolte nelle cabine, avrebbero potuto opporsi, oppure – se questa opzione di lotta era impossibile – operare affinché la sua durata si limitasse alla gestione dell’emergenza, con il varo della legge finanziaria e l’abbassamento dello spread. Sulla opportunità di anticipare le elezioni al 2012, nell’ottica di frenare l’usura delle sigle tradizionali, il Quirinale non si sarebbe messo di traverso.

Il Corriere e i sodali più stretti di Montezemolo lavorarono in quei mesi su un doppio binario: da un lato, fornirono le munizioni a Monti, spingendo con loro uomini e mezzi per accompagnare la “salita in campo” dell’ex rettore bocconiano, il quale, sedotto dal sogno bonapartista di un’acclamazione ex post, ruppe il patto di lealtà con Napolitano; dall’altro, vedendo che il loro terzo polo tecnico-civico, malgrado lo show del premier con il cagnolino in Tv, stentava nei sondaggi, garantirono un’assistenza preziosa al giro di Grillo nelle piazze dense di rancore. Lo reputavano un semplice fattore di disturbo capace di bloccare la conquista di una maggioranza autosufficiente da parte di Bersani (bastonato in malo modo proprio dal giornale di Padellaro per le vicende della banca senese a urne quasi aperte) e rendere così nuovamente indispensabili le larghe intese, anche dopo il sacro pronunciamento dei cittadini.

Dopo aver fatto l’apostolo della sovranità popolare calpestata, Mieli nel marzo del 2013 scoprì le carte e invocò un nuovo governo tecnico, magari non più presieduto da Monti. E le penne del Corriere che avevano optato per il M5s insorsero contro il tentativo di dialogo tra Pd e grillini, stigmatizzato come un cedimento antipolitico dell’ultimo partito responsabile rimasto su piazza. L’impatto del comico genovese, che per certi ambienti influenti doveva risultare un semplice impaccio momentaneo, fu invece travolgente. Le scelte politico-istituzionali di ogni presidente della Repubblica, come “gestore delle crisi parlamentari”, possono essere variamente interpretate e, nel caso, anche disapprovate con forza, magari non brandendo la “piazza” più volte evocata da Grillo per combattere il “golpetto” di Napolitano.

Un trattamento diverso di Bersani dopo la sua “non vittoria” avrebbe con ogni probabilità accompagnato ad una diversa evoluzione del quadro politico e assicurato l’innalzamento di qualche argine in più alla deriva democratica. Sullo sfondo, però, pesa l’evidenza storica dello sfaldamento del Pd, della sua decomposizione avviata già prima del voto del 2013 con l’inopinata rottamazione di figure come D’Alema. Per i nodi culturali irrisolti, i dem erano ormai diventati essi stessi un fattore di decadenza del sistema. Il partito dei tecnici, disegnato dalle élite mediatico-finanziarie, e il non-partito del comico, incoraggiato dai laboratori informatici di influenza, raccoglievano sicuramente istanze e malesseri peninsulari, ma nel loro tragitto si avvertivano anche gli echi di dinamiche di carattere sovranazionale.

In ogni caso la presidenza “italo-europea”, che Napolitano inaugurò, ha operato in questo scenario di una democrazia fragile e obbligata per via della sua stessa vulnerabilità (non solo finanziaria) a intrattenere legami di riconoscimento, prassi di contrattazione, interlocuzioni sempre più frequenti con le grandi cancellerie. Per questo incastro che si è creato tra i molteplici livelli istituzionali nei Paesi occidentali, i toni emersi nei messaggi dei più importanti leader internazionali suonano, oltre che riconoscenti, molto più pregnanti, circa la funzione storica ricoperta dal presidente Napolitano, rispetto alle accuse di opportunismo pronunciate in maniera alquanto provinciale da Padellaro e Mieli. Sconfitto dinanzi alle antipolitiche corrispondenze del Fatto e della vecchia Rizzoli, Napolitano si riprende, con l’apprezzamento degli statisti di ogni parte del mondo, il prestigio che aveva accumulato nel corso del suo mandato, in un tempo di crisi e insorgenza populistica.

Michele Prospero 27 Settembre 2023

La destra non ha un suo Napolitano, il disprezzo è solo invidia. Uno che potesse dirsi espressione di questa destra senza tuttavia rappresentare, in caso di elezione, un desolante motivo di discredito per il Paese. Non c’era. E non c’è. Iuri Maria Prado su L'Unità il 27 Settembre 2023 

Il risentimento sprezzante che un certo mondo di destra ha dimostrato in morte di Giorgio Napolitano non ha nulla a che fare con la storia comunista di quel notabile della Repubblica, con la sua vicenda politica, legittimamente discutibile dal punto di vista avversario, insomma con il merito della militanza di partito, pubblica e istituzionale dell’ex capo dello Stato ora defunto. Né ancora la ragione di quel dispetto, a volte sconfinante nel dileggio, risiede nelle presunte o effettive cospirazioni di cui Giorgio Napolitano si sarebbe reso responsabile o complice nell’impianto del governo tecnico (uno degli innumeri, in Italia) a detrimento del Paese che aveva votato a destra.

Non è il Napolitano “carrista”, né quello del ribaltone antiberlusconiano, a eccitare l’acrimonia cui stiamo assistendo. È altro. È la rabbiosa consapevolezza di non aver saputo mettere insieme e coltivare una classe dirigente capace di esprimere rappresentanti di levatura non si dice analoga, ma anche solo lontanamente comparabile. Non che servisse, ma se ne ebbe una riprova esemplare e sconfortante al tempo dell’ultima elezione del presidente della Repubblica: fatte (mannaggia) le inevitabili scremature, e dunque esclusi i profughi delle cene eleganti, gli epigoni dei mazzieri anni Settanta, le truppe di giovanotti delle televendite di posateria d’argento e smacchiatori miracolosi, gli eserciti di signorine con curriculum 90-60-90, chi ci mandavano al Quirinale? Un nome, per favore.

Uno che potesse dirsi espressione di questa destra senza tuttavia rappresentare, in caso di elezione, un desolante motivo di discredito per il Paese. Non c’era. E non c’è. E non è colpa dell’egemonia culturale di sinistra, che pure esisteva e persiste, se la destra continua a credere che il riscontro elettorale assolva dal dovere di allevare e scegliere i migliori, non i più fedeli, di parlare alla gente senza essere plebei, infine di fare questa cosa un po’ strana che è leggere ogni tanto qualche libro. La morte di Napolitano ha messo in faccia al Paese una destra cui manca il proprio Napolitano. Una cosa che alla destra non va giù, e allora è ributtata fuori in quei modi oltraggiosi. Iuri Maria Prado 27 Settembre 2023 

Quando Napolitano si scontrò con Berlinguer sulla “questione morale”: l’articolo sull’Unità dell’agosto 1981. Dopo l'intervista del segretario a Scalfari, il leader migliorista citava Togliatti e invitava il partito a "scendere e muoversi sul terreno riformistico, anziché pretendere di combattere il riformismo con pure contrapposizioni verbali o vuote invettive". Redazione Web su L'Unità il 27 Settembre 2023

Dalle colonne de L’Unità del 21 agosto 1981 Giorgio Napolitano rispondeva a Enrico Berlinguer all’intervista, rilasciata a Eugenio Scalfari e pubblicata da La Repubblica il 21 luglio 1981, in cui il segretario del Partito Comunista Italiano rilanciava la cosiddetta “questione morale” e affermava la “nostra diversità”. Forse il momento di scontro più duro tra la linea del leader e quella della corrente dei cosiddetti miglioristi. L’editoriale fu intitolato Perché è essenziale il richiamo a Togliatti e al leader comunista faceva più volte riferimento.

Per far fronte alle sfide di politica interna ed estera, del Mezzogiorno e della condizione giovanile, “è decisivo saper procedere secondo il metodo che Togliatti ci ha insegnato” scriveva Napolitano ed era decisivo “saper mettere a frutto, nelle condizioni di oggi, la grande scelta togliattiana del ‘partito nuovo’, in quanto partito che ‘non si limita alla critica e alla propaganda’, ma propone soluzioni, promuove una combattiva e costruttiva partecipazione e azione di massa, sviluppa un’’iniziativa politica’ capace di modificare posizioni e dati di fatto negativi”.

Napolitano insisteva nella ricerca “dell’intesa con quei partiti che rappresentano forze sociali interessate al cambiamento, legate all’esigenza di una guida nuova, progressiva, della società italiana”. Per il leader migliorista di fronte alle “degenerazioni prodottesi nella vita pubblica, non ci limitiamo a sottolineare la nostra estraneità a quei fenomeni e a quei comportamenti; non ci chiudiamo in un’orgogliosa riaffermazione della nostra ‘diversità’ ma intendiamo far leva sulle ‘peculiarità’ del nostro partito per contribuire a un corretto rilancio della funzione dei partiti in generale come elemento insostituibile di continuità e di sviluppo della vita democratica”. 

Napolitano sosteneva la necessità di un “confronto chiarificatore” che partisse dalle esperienze di collaborazione già in atto tra comunisti, socialisti e altre forze di sinistra e laiche, anche quelle sviluppate nel governo di regioni, grandi città ed enti locali. “È indispensabile che da parte nostra si sappia sollecitare e praticare questo confronto con la stessa, instancabile insistenza unitaria, con lo stesso respiro di grande forza politica nazionale, e con la stessa apertura rinnovatrice di cui Togliatti diede esempio dinanzi all’avvento del centro-sinistra. Il Togliatti che invitava il partito a saper ‘scendere e muoversi sul terreno riformistico’, anziché pretendere di combattere il riformismo con ‘pure contrapposizioni verbali’ o ‘vuote invettive’, e sanciva la nostra adesione a una prospettiva di sviluppo graduale verso il socialismo, ed esaltava la ‘felice colpa’ dei comunisti jugoslavi di ‘aver innovato nella dottrina, e nella pratica della lotta per il socialismo’. È a quell’esempio che occorre ispirarsi”.

Qualche tempo dopo quell’articolo, Napolitano lasciò la responsabilità della sezione di organizzazione del partito per assumere l’incarico di capogruppo dei deputati comunisti, che all’epoca era un ruolo considerato meno importante rispetto a quello lasciato all’interno del partito. Il leader della corrente migliorista venne definito all’interno del partito come un “destro” o “riformista” per le sue posizioni.

L’edizione del quotidiano del 21 agosto 1981 è acquistabile sul sito de L’Unità a questo link.

Redazione Web 27 Settembre 2023

L'addio al Capo dello Stato. Giorgio Napolitano non è l’ultimo comunista ma il primo socialdemocratico

Mentre negli anni 70 Enrico Berlinguer si incaponisce nell’estremo tentativo di tenere in vita una tradizione politica sconfitta dalla storia, Giorgio Napolitano, fin dal decennio precedente, lavora per la ricollocazione della sinistra italiana nel campo del socialismo democratico e liberale. Vittorio Ferla su L'Unità il 28 Settembre 2023 

Le critiche rivolte alla figura, all’opera e alla storia di Giorgio Napolitano in occasione della sua morte sono sostanzialmente due. La prima, che arriva da destra, è che l’ex presidente della Repubblica sia alla fin fine l’ultimo dei comunisti e che l’impronta ideologica e buia del Novecento resti impressa in modo indelebile sulla sua vicenda. La seconda, che arriva soprattutto da sinistra, è che l’ex dirigente del Pci sia stato in fondo un opportunista, guidato in alcuni passaggi cruciali – soprattutto durante gli anni trascorsi al Quirinale – da un uso strumentale e sovrabbondante delle sue prerogative.

In verità, come ha chiarito l’ex senatrice ed ex ministra Anna Finocchiaro, nel corso del funerale di stato nell’aula della Camera, “Giorgio Napolitano si iscrive al Pci nel dicembre del ‘45 e spiegherà di averlo fatto ‘per impulso morale, piuttosto che per motivazioni ideologiche’, ancora confuse e imprecise. E sulla scorta di due ragioni: il Pci è il partito che più ha combattuto il fascismo; il Pci si mescola al popolo”. Insomma, l’iscrizione al Pci fu soprattutto un impeto esistenziale di libertà e di giustizia, il rifiuto del fascismo in un’Italia e in una Napoli che cercavano un’identità democratica nel caos del dopoguerra, non certo l’adesione ad un’asfittica e ottusa ideologia autoritaria. Aiutano a comprendere fino in fondo il punto le parole di Henry Kissinger, colui che gli rifiutò il visto di ingresso negli Stati Uniti la prima volta e che glielo concesse la seconda.

“Giorgio Napolitano mi fece capire il ruolo che aveva avuto il comunismo italiano nella difesa della democrazia”, disse molti anni dopo l’ex-Segretario di Stato americano. Quel viaggio negli Usa tanto desiderato da Napolitano, grande estimatore della democrazia a stelle e strisce, fu l’inizio di un’improbabile quanto profonda amicizia tra i due personaggi, che si nutrì di ammirazione e comprensione reciproca. E, del resto, pure Stefano Stefanini, ex consigliere diplomatico di Napolitano ha di recente espresso il dubbio che l’ex presidente fosse mai stato comunista: “Lo sentii spesso citare Croce e Keynes; mai Marx”, ha ammesso. Alla base di questo dubbio ci sono ragioni profonde che emergono dai “due caratteri propri del suo impegno politico”, esplicitati ancora da Finocchiaro: la conoscenza e il pragmatismo.

Il primo, ha detto l’ex ministra, “è la necessità che la conoscenza e la competenza siano a fondamento dell’analisi e della proposta”. Nella prefazione a I moniti all’Europa di Thomas Mann, Napolitano scrive: “Non può esserci politica, nella pienezza del suo significato e della sua efficacia, in assenza di serie basi e validi strumenti culturali…”. Il secondo carattere è il pragmatismo, “perché l’agire politico ha come fine quello di mutare positivamente l’esistente. Ancora qui, credo, sta un altro tratto del suo impegno, frutto di maturazione e di coraggioso riconoscimento di errori: sfuggire all’ideologismo”, ha concluso Finocchiaro. Facile, qui, il richiamo alla lezione di un suo illustre predecessore: quel Luigi Einaudi che, nel 1955, nelle sue Prediche inutili, si domandava: “come si può deliberare senza conoscere?”. E sottolineava che “il problema, una volta posto, deve esser risoluto”.

Insomma, nel metodo politico di Napolitano è più facile riscontrare le tracce di quel pragmatismo liberaldemocratico che nel ‘pragmatico’ coglie il razionale come mezzo sensato, frutto di un’analisi intelligente, per la soluzione di un problema di interesse generale. Il valore di un’idea non può mai essere misurato nella sua conformità a un pacchetto ideologico definito una volta per tutte, ma soltanto nelle conseguenze concrete, positive o negative, a cui può dar luogo la sua interpretazione. Pertanto, al platonismo tipico del marxismo-leninismo, Napolitano ha sempre opposto nella prassi il valore del riformismo e del gradualismo. Ecco perché, per Napolitano, i limiti della storia del Pci non stanno nell’incapacità di realizzare la rivoluzione rovesciando il sistema capitalista, bensì nella colpevole resistenza all’evoluzione socialdemocratica che, portando la sinistra italiana nella famiglia delle sinistre europee, avrebbe permesso all’Italia di godere di una democrazia matura basata sull’alternanza tra forze che si riconoscono in una comune matrice costituzionale liberaldemocratica.

Così, mentre negli anni 70 Enrico Berlinguer si incaponisce nell’estremo tentativo di tenere in vita una tradizione politica sconfitta dalla storia, Giorgio Napolitano, fin dal decennio precedente, lavora per la ricollocazione della sinistra italiana nel campo del socialismo democratico e liberale. Ben prima del crollo del Muro di Berlino del 1989, Napolitano è convinto che, pure in mancanza di un esplicito momento Bad Godesberg – quando nel ’59 i socialdemocratici tedeschi abbandonarono ufficialmente l’ideologia marxista e l’obiettivo di un capovolgimento rivoluzionario della società, riconobbero l’economia di mercato e cominciarono a rappresentarsi come espressione del popolo intero e non della sola classe dei lavoratori – il Pci debba autocomprendersi come “parte integrante della sinistra europea e non del movimento comunista” (come avviene nel Congresso di Firenze del 1986).

Una espressione che oggi appare scontata ma che allora sancisce la rottura definitiva del cordone ombelicale con l’Unione Sovietica e la rinuncia all’identità comunista classica. Negli anni 80, per Napolitano, c’è una sola strada: quella riformista propria della dimensione europea. Da qui discende la necessità storica di un ‘ricongiungimento familiare’ con le forze della sinistra occidentale che sono socialiste, laburiste, socialdemocratiche, avendo superato le vecchie pregiudiziali ideologiche del ’900. L’Europa diventa per Napolitano l’obiettivo e la frontiera della sinistra italiana. Contro l’internazionalismo classista del movimento comunista, da sempre diffidente nei confronti del federalismo europeo, Napolitano è un ammiratore di Altiero Spinelli, per anni isolato nel Pci proprio per la sua tensione europeista, e di Alcide De Gasperi, la cui visione è per lui “talmente lungimirante che vale per l’oggi come valeva negli anni 50”.

La conseguente accusa di “migliorismo” – non serve rovesciare il sistema capitalistico, è sufficiente ‘migliorarlo’ – rivoltagli dagli avversari interni (primo tra tutti, Pietro Ingrao) e vissuta con fastidio e sofferenza da Napolitano, si traduce nel nome di un’area, quella dei ‘miglioristi’, spesso guardati con sospetto come la ‘destra’ del partito che dialoga con l’odiato concorrente: il Psi. In realtà, quella dei miglioristi – espressione che alla fine avrà il sopravvento – non diventerà mai una vera e propria corrente. Lo dimostra anche la vicenda di Libertà Eguale, l’associazione fondata alla fine degli anni 90 da un gruppo composito di riformisti di diversa provenienza culturale – tra gli altri, i postcomunisti Enrico Morando e Claudio Petruccioli e i cattolici democratici Giorgio Tonini e Stefano Ceccanti – che si ispira in larga parte alla lezione di Giorgio Napolitano. Non l’ultimo dei comunisti, ma il primo dei socialdemocratici. Vittorio Ferla 28 Settembre 2023

Il messaggio dimenticato. Storia della presidenza di Giorgio Napolitano: l’unico messaggio alle Camere sull’emergenza carceri. C'è un passaggio della sua presidenza rimasto in ombra in questi giorni di celebrazioni. È la denuncia dello stato delle nostre prigioni, lontano anni luce dalla Costituzione. Inizia tutto con un convegno del Partito radicale e un’ intuizione di Pannella... Andrea Pugiotto, Franco Corleone su L'Unità il 29 Settembre 2023

1. Della lunga presidenza di Giorgio Napolitano c’è un significativo passaggio che – in queste giornate commemorative – non è stato adeguatamente ricordato. Proviamo a farlo noi che ne siamo stati testimoni e compartecipi. Cronologicamente, si colloca tra la coda del suo primo settennato e uno degli atti istituzionali più rilevanti del suo successivo mandato: il messaggio inviato alle Camere – l’unico della sua presidenza – dedicato alla questione carceraria.

2. Tutto prende avvio dal convegno per la riforma della giustizia, promosso in Senato dal Partito Radicale. È il 28 luglio 2011. A inaugurarlo è il Capo dello Stato con un intervento tutt’altro che rituale. Soppesate con cura, pronuncia parole fiammeggianti per denunciare al Paese la condizione carceraria: è «una questione di prepotente urgenza sul piano costituzionale e civile» che ha raggiunto un «punto critico insostenibile», «una realtà che ci umilia in Europa e ci allarma, per la sofferenza quotidiana – fino all’impulso a togliersi la vita – di migliaia di esseri umani chiusi in carceri che definire sovraffollate è quasi un eufemismo, per non parlare dell’estremo orrore dei residui ospedali psichiatrici giudiziari, inconcepibili in qualsiasi paese appena appena civile».

«Evidente in generale – proseguiva il Presidente Napolitano – l’abisso che separa la realtà carceraria di oggi dal dettato costituzionale sulla funzione rieducatrice della pena e sui diritti e la dignità della persona. È una realtà non giustificabile in nome della sicurezza, che ne viene più insidiata che garantita». Non è un’opinione, né un retroscena. È un fatto, attestato dalla più Alta carica dello Stato: quella detentiva è una condizione di conclamata, flagrante illegalità.

3. Denunciando l’orrore della vita quotidiana nei manicomi giudiziari, il presidente Napolitano aveva ancora negli occhi le atroci immagini riprese durante ispezioni parlamentari svolte, senza preavviso, nei sei OPG esistenti in Italia: «Strutture pseudo ospedaliere che solo coraggiose iniziative bipartisan di una Commissione parlamentare [d’inchiesta sul servizio sanitario, guidata dal senatore Marino] stanno finalmente mettendo in mora». Il regista Francesco Cordio ne trarrà un docufilm esemplare (Lo Stato della follia, 2013).

Quelle parole del presidente Napolitano saranno il miglior viatico per la loro chiusura definitiva, stabilita con legge (n. 81 del 2014) e concretamente realizzata grazie al tenace lavoro del Commissario ad acta nominato dal Governo. Il superamento dell’ultimo residuo manicomiale ha così restituito anche ai folli-rei diritti e umanità.

4. Tutto in salita, invece, sarà il seguito della denunciata illegalità di corpi reclusi in celle stipate fino all’inverosimile. Con intelligenza politica, Marco Pannella coglie immediatamente l’eccezionale rilevanza delle parole di Napolitano («prepotente urgenza») e rilancia: vuole che il Quirinale investa il Parlamento del problema, usando la prerogativa presidenziale del messaggio alle Camere. Pannella aveva ragione. Una questione è urgente quando richiede interventi immediati e rapidi; è l’opposto del «puoi farlo quando credi». Se quell’urgenza è anche prepotente, vuol dire che s’impone come priorità assoluta da affrontare senza indugi. Il Capo dello Stato onori allora le proprie parole, perché anche per lui deve valere la regola del «dico quel che penso e faccio quel che dico».

Per centrare l’obiettivo, il leader radicale sollecita la dottrina costituzionalistica a prendere un’iniziativa. Ne nasce una lettera-aperta, rivolta al presidente Napolitano, che raccoglie numerosissime e autorevoli adesioni tra i giuristi e i garanti dei detenuti (la si può leggere in appendice a un nostro volume: Il delitto della pena, Ediesse, 2012). Il suo testo suffraga la denuncia del Quirinale con preoccupate argomentazioni giuridiche ed eloquenti dati numerici.

E rivolge al Capo dello Stato la richiesta di un suo messaggio (ai sensi dell’art. 87, comma 2, Cost.) che chiami il Parlamento a sciogliere l’intreccio tra i tempi biblici della giustizia penale e il sovraffollamento carcerario, anche attraverso il ricorso a strumenti di clemenza generale: i soli idonei a interrompere, subito, una persistente situazione d’illegalità interna e internazionale. A quell’interlocuzione (cui lavorò con passione e competenza il consigliere Loris D’Ambrosio) il presidente Napolitano non si sottrae. Risponde pubblicamente, il 25 luglio 2012, sulle pagine del Corriere della Sera. E invita al Quirinale una delegazione dei firmatari della lettera-aperta.

5. L’incontro si svolge il 27 settembre 2012. Entrambi facevamo parte di quella delegazione (con Francesco Di Donato, Fulco Lanchester, Renzo Orlandi, Tullio Padovani, Marco Ruotolo, Vladimiro Zagrebelsky). Ricordiamo bene la lunga conversazione con il presidente Napolitano che, con franchezza, ci illustra le ragioni per cui non intendeva rivolgere un formale messaggio alle Camere. È una facoltà – ci dice – non un obbligo, rivendicando così la scelta di non esercitare tale prerogativa, come già altri suoi predecessori.

È un’arma scarica – ci ricorda – che mai ha innescato un processo deliberativo parlamentare, anzi: talvolta il messaggio è stato ignorato, incrinando così l’autorevolezza presidenziale. Nell’era della comunicazione di massa – aggiunge – il messaggio formale cede il posto all’esternazione, al discorso pubblico, alla nota ufficiale diffusa in rete. Terminato l’incontro, però, detta un comunicato stampa in cui segnala alle Camere «sia le questioni di un possibile, speciale ricorso a misure di clemenza, sia della necessaria riflessione sull’attuale formulazione dell’art. 79 Cost. che a ciò oppone così rilevanti ostacoli». Gli avvenimenti successivi dimostreranno che aveva ragione lui, a temere un messaggio inascoltato, ma che noi non avevamo torto, nell’avvertire il Capo dello Stato che il Paese andava incontro a una condanna esemplare davanti alla Corte europea dei diritti umani.

6. A mutare lo scenario sarà proprio la sentenza-pilota della Corte di Strasburgo (Torreggiani, 8 gennaio 2013): con voto unanime, condanna l’Italia per un sovraffollamento carcerario «strutturale e sistemico» che trasforma la detenzione in una pena inumana e degradante, chiamando tutti i poteri statali ad agire «senza indugio». Rieletto al Quirinale da pochi mesi, Napolitano svolge egregiamente la sua parte indirizzando il messaggio alle Camere. È l’8 ottobre 2013.

Quel testo, ancora oggi, rivela una struttura sapiente. Prospetta una strategia complessiva che prevede «congiuntamente» una serie di interventi capaci di fermare la catastrofe (i rimedi straordinari dell’amnistia e dell’indulto), di limitare i danni (l’aumento della capienza complessiva degli istituti penitenziari) e di risalire la china (attraverso mirate riforme dell’ordinamento penitenziario). E lo fa con i giusti toni: la condanna dell’Italia è definita un «fatto di eccezionale rilievo»; «imperativo», «dovere», «obbligo», sono parole che nel suo messaggio ricorrono dieci volte, spesso insieme all’aggettivo «costituzionale».

Eppure, Camera e Senato non lo discuteranno mai. Per la clemenza necessaria – si disse – non esistevano le condizioni politiche. Quasi che potessero d’incanto materializzarsi da sole. Quasi che la politica non consistesse proprio nell’agire trasformando. La saldatura tra posizioni securitarie, giustizialiste e populiste impedì finanche la calendarizzazione del dibattito. Fu un silenzio imbarazzante: per chi lo mise in atto, non certo per chi l’ha subito.

Ancora oggi paghiamo, con il record di suicidi dietro le sbarre, quell’occasione sprecata. Allora, Giorgio Napolitano rivelò una cultura politica consapevole che la bulimia di reati e pene non serve alla sicurezza «che ne viene più insidiata che garantita». Basta sfogliare settimanalmente la Gazzetta Ufficiale per capire che quella cultura, da tempo, non abita nelle stanze del Governo e nelle aule parlamentari.

Andrea Pugiotto, Franco Corleone - 29 Settembre 2023

Il dibattito su Napolitano. Giorgio Napoli il comunista liberale, il lungo viaggio del PCI nella democrazia. Il fecondo dialogo tra Della Volpe e Bobbio, l’articolo 13 della Costituzione, le istanze partecipative di Ingrao e quelle riformiste di Amendola. Il peculiare caso del comunismo italiano. Michele Prospero su L'Unità il 14 Ottobre 2023

Si è svolto un intrigante dibattito sul Foglio in merito alla formula di “comunista liberale” che è stata utilizzata a proposito del profilo politico di Giorgio Napolitano. A Giuliano Ferrara l’accoppiata appare come un puro ossimoro, mentre al linguista Franco Lo Piparo sembra un accostamento di elementi eterogenei ma possibile: nella sostanza – egli dice – la combinazione è già accennata in Gramsci.

Se la dizione di comunismo liberale evoca un miscuglio di concetti, per cui ad un po’ di Marx si aggiunge un tantino di Kant o di Mill, allora si tratta di una vacua propensione al sincretismo. Però, proprio un filosofo come Galvano della Volpe, che respingeva le conciliazioni eclettiche a vantaggio dell’autonomia teorica del programma scientifico del “Moro”, intrattenne negli anni 50 un fecondo dialogo con il liberale Norberto Bobbio. Nel corso del confronto, il pensatore imolese mutò di accento e, raccogliendo gli stimoli intellettuali dell’interlocutore, ricavò il bisogno di riformulare alcune sue asserzioni troppo rigide. La discussione convinse della Volpe che andassero accolte le tecniche formali del liberalismo (primato della legge, habeas corpus) entro la prospettiva marxista.

In uno scritto apparso su Sisifo nel 1989, tornando sullo scontro di oltre trent’anni prima, Bobbio rilevò che della Volpe ritoccò assai il suo testo originario dopo la loro polemica suggerendo di risalire come radice della legalità socialista non solo al “democratico” Rousseau, ma anche al liberale Locke con le sue istanze di libertà personale, garantismo. Sul terreno politico-costituzionale, va tenuto presente che l’articolo della Costituzione influenzato più organicamente dai postulati liberal-garantisti è forse il 13. Nella redazione del testo, fondamentale si rivelò proprio la “penna verde”, e con taluni residui staliniani, di Togliatti. Il dispositivo raccoglie il principio della inviolabilità della libertà personale, presidiato dalla riserva di legge assoluta e da quella di giurisdizione, nonché il divieto – in nome della dignità dell’uomo – di atti di violenza sulle persone sottoposte a restrizioni di libertà.

Per i comunisti, la chiarezza teorica sul rapporto con il corredo delle tecniche liberali è giunta più tardi rispetto alla conseguente pratica politica e allo stesso disegno costituzionale. Nel 1953, proprio il “comunista liberale” Napolitano censurò in un editoriale sull’Unità il giovane storico Paolo Spriano che a Frattocchie si era lasciato sfuggire una critica alla nozione di “dittatura del proletariato”. Questa locuzione negli anni successivi cadrà in disuso per poi scomparire di fatto nella pubblicistica comunista.

Nella disputa tra gli studiosi marxisti attorno allo “Stato di diritto”, aveva sicuramente ragione Valentino Gerratana a recuperare questa formula come un valore imprescindibile nella strategia gradualistica del Pci; e aveva torto Lucio Colletti, grande innovatore nella gnoseologia e però con categorie scivolose sul piano della teoria politica, il quale sosteneva la necessità di un nuovo modello di democrazia antiparlamentare, visto che lo Stato di diritto esisteva già in Italia e non poteva perciò rappresentare un vero obiettivo progettuale della sinistra.

Le sensibilità dentro il gruppo dirigente del Pci sulle forme della democrazia erano diverse, ma non incompatibili tra loro. Sul tema, nel convegno “Togliatti e il Mezzogiorno” (Bari, 1975), ci fu uno scambio di battute tra Amendola e Ingrao. “Lasciate che io ringrazi Amendola per l’ironia indulgente, con cui egli mi lascia la fiaccola un po’ impallidita della democrazia diretta. Io preferisco parlare di democrazia di base, di presenza diffusa e organizzata delle masse. Dunque un intreccio organizzato, tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta” (Ingrao, Masse e potere, Editori Riuniti, 1977).

Al di là degli scambi non sempre in punta di fioretto tra i due grandi dirigenti di Botteghe Oscure, anche per Amendola (La classe operaia nel ventennio repubblicano) la transizione al socialismo si configurava come “il fiorire di una democrazia, assicurata non solamente dal funzionamento degli istituti rappresentativi, ma da una pluralità di centri di vita democratica e dalla esistenza di forme decentrate di autogoverno e di autogestione, nelle fabbriche, nelle università, nei quartieri delle città e nelle campagne, che permettano una larga e diretta partecipazione alle scelte politiche ed economiche che interessano i lavoratori”.

La differenza tra l’“eretico” e il “riformista” riguardava dunque non già l’innesto di contropoteri né l’ampliamento, con inedite migliorie, degli istituti della rappresentanza come luogo centrale della innovazione, ma il senso da dare alle riforme di struttura: Ingrao inseriva le grandi politiche di riforma entro un quadro strategico coerente, orientato verso un disegno di rottura delle compatibilità sistematiche per imporre un’altra razionalità; per Amendola, invece, le misure riformatrici dovevano incardinarsi sulla esigenza di superare i ritardi nello sviluppo, sugli interessi immediati che maturavano nelle lotte contingenti, senza alcun piano preordinato o progetto mirante alla discontinuità di sistema in vista di una diversa società.

Nel comportamento politico, il Pci, durante la sua lunga marcia nelle istituzioni, non ha mai interrotto il legame con la migliore produzione teorica liberaldemocratica. Nel 1977, la formula di Berlinguer sul “valore storicamente universale della democrazia”, mettendo a frutto un suggerimento di Umberto Cerroni (O. Massari, Gianfranco Pasquino come mio «tutor» tra politica e scienza, in A. Panebianco, a cura di, Una certa idea di scienza politica, Bologna, 2016), troncava in radice la questione. La diatriba si ripresentò come ancora sospesa, almeno al livello teorico-politico, nei primi anni 80. Nel convegno del Pci svoltosi al Ripetta nel 1982, la cultura della democrazia-valore venne contestata con l’assunzione dell’immagine esplicita della “crisi della democrazia”. Rispetto ai precedenti canoni del marxismo, curioso verso la democrazia-metodo, egemonici nel partito diventarono gli originali approcci legati al decisionismo politico, al post-operaismo, alla teologia politica, alla biopolitica.

Con la fine dell’Urss e l’eutanasia del Pci, poi, si riaffacciarono le tonalità liberali, ma ormai non si trattava più dell’introduzione del criterio di legalità, delle regole procedurali e di garanzia sopra delle fondamenta che richiamassero alla storia del comunismo italiano, bensì di una confusa conversione al mito di una “Cosa-carovana” quale incarnazione di un radicalismo di massa con corde molto sensibili al giustizialismo, all’antipolitica, al direttismo referendario. Paolo Franchi ricorda giustamente, a chi fantastica su un “liberale” partenopeo che per estraneità genetica non citava né Marx né Lenin, che in realtà nella formazione, nelle letture e negli scritti di Napolitano – il quale rese omaggio anche al “comandante Che Guevara” – si rintracciano tutte le canoniche curiosità, le tendenze, e anche i dogmatismi della tradizione comunista.

Semmai, il momento in cui Napolitano si spinse oltre il Pci, e anche il corpo più ampio del socialismo europeo, pare rappresentato da un suo scritto del 2011, quando in maniera esplicita al centro del recupero concettuale non stava, crocianamente, il liberalismo (politico), ma, alla maniera di Einaudi, il liberismo con il suo “Stato minimo”. Se nell’autobiografia Dal Pci al socialismo europeo rivendicava la scoperta di Keynes, con le pagine su “Reset”, quasi per fornire una base teorica al governo tecnico prossimo al varo e alle ricette necessarie ad uscire dalla grande crisi del debito sovrano, Napolitano rileggeva il rapporto Stato-mercato e l’esperienza dell’economia mista secondo la lente di Guido Carli (giudicava “interessante e suggestiva” la sua interpretazione della parabola repubblicana come dominata dalle culture marxista e cattolica, accomunate dal “disconoscimento del mercato”).

La “Costituzione economica” congegnata da Einaudi e De Gasperi tra il ’46 e il ‘47, come risposta dall’alto delle élite ancorata “alle regole e alle istituzioni monetarie internazionali” e posta al riparo dal dibattito costituente, veniva esaltata rispetto al disegno dei rapporti economici tracciato nella Carta del 1948. Napolitano proponeva di rispolverare “le verità del «liberismo» einaudiano”, ostile alla lettera e allo spirito dell’articolo 41 della Costituzione, all’idea di “piani” e “programmi”, e censore di “espressioni di dubbio significato” come quella di “utilità sociale” dell’iniziativa economica privata. Anche in questo suo rigetto dello “Stato proprietario” e dell’alluvionale espansione della spesa pubblica motivato dalla competitività dell’economia, Napolitano trovava appigli nella tradizione alludendo alle “ispirazioni di cultura liberale pure presenti nello stesso Pci”.

Il problema, però, non è la singola convergenza su politiche di concorrenza e di ammodernamento del sistema produttivo, ma la reviviscenza, sulla scia dell’intreccio originario tra il governo De Gasperi, il Quirinale e la Banca d’Italia avversi alle illusioni “sociali” dell’Assemblea costituente, di un illuminismo economico-politico che affida a istituzioni tecniche le grandi riforme che gli interessi di parte ciecamente respingono. Il mito dell’“interesse generale”, che le classi dirigenti devono perseguire senza badare alla costruzione di un consenso attorno alle modernizzazioni, presenta dei buchi neri che possono generare cortocircuiti, reazioni demagogiche.

Anche Occhetto volò in Inghilterra prima delle elezioni, ma, quando presentò ai laburisti il suo piano di privatizzazioni, i padroni di casa gridarono alla follia. Che occasionali politiche di libero scambio fossero (e siano) efficaci ed utili, nemmeno Marx lo metteva in dubbio, e Lenin le praticò con la Nep. Ha invece il sapore della novità il liberismo eretto a sistema etico-politico, per giunta proprio quando il trentennio liberista è al tappeto. Dopo la grande recessione del 2008, riaffiora il ritorno al protezionismo del “capitalismo politico” in un’età di guerre non solo commerciali.

Il modello misto all’italiana sarà anche risultato arcaico, e lo statalismo costoso, ma il connubio pubblico-privato ha garantito decenni di innovazioni, crescita e diritti sociali. La nuova costituzione economica imposta dai vincoli europei e da sua maestà il debito pubblico si sarà anche dimostrata più “competitiva” e agile nella ricezione del diritto comunitario, ma si è accompagnata a trenta lunghi anni di decrescita. La legislazione nazionale ispirata alle regole della concorrenza e del mercato, quali connotati del minimalismo statale, ha finora inaugurato, accanto alla stagnazione, una lunga deflazione salariale.

L’impasto di liberismo e governi tecnici ha poi incrementato nel comportamento elettorale il risentimento antipolitico e il populismo. E qui comincia quella terra inesplorata entro la quale, in assenza di una evoluzione dell’integrazione europea in direzione dell’approdo federale, le sinistre europee stentano a prendere le giuste misure. Prevalgono i tornaconti nazionali, per cui accanto a richieste di Stato minimo (per gli altri) fioriscono capitalismi (quello renano o francese) nei quali lo Stato gestore e regolatore continua a svolgere una funzione rilevante. Michele Prospero 14 Ottobre 2023

Da corriere.it venerdì 15 settembre 2023. 

È morto in un clinica romana il paroliere Franco Migliacci, autore, tra gli altri successi, di un titolo iconico della canzone italiana come «Nel blu dipinto di blu». Aveva 92 anni. Nel corso della sua carriera ha scritto innumerevoli brani per tanti artisti: «Nel blu dipinto di blu», realizzata insieme a Domenico Modugno nel 1958, è stata seguita da canzoni conosciutissime come «Tintarella di luna» o «Fatti mandare dalla mamma a prendere il latte», «Una rotonda sul mare» così come «C’era un ragazzo...».

Marco Molendini per Dagospia venerdì 15 settembre 2023. 

Franco Migliacci non è solo «penso che un sogno così non ritorni mai più, mi dipingevo le mani e la faccia di blù...». E' anche «Il pullover che mi ha dato tu sai mia cara possiede una virtù». E' «tintarella di luna, tintarella color latte». E' «Bambina piccolina, patatina col naso piccolino, patatino». E' «fatti mandare dalla mamma a prendere il latte». E' «una rotonda sul mare, il nostro disco che suona, vedo gli amici ballare». E' «c'era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones». 

E' «tu mi fai girar, tu mi fai girar come fossi una bambola». E' «che sarà, che sarà, che sarà, che sarà della mia vita chi lo sa?». E' «holaila, holaila, Heidi, Heidi, il tuo nido è sui monti». E' «uno su mille ce la fa, ma quanto è dura la salita». E' la storia della canzone italiana in anni ricchi e creativi. E' la storia della Rca, fabbrica dei miracoli (musicali) sulla Tiburtina. E' stato tante altre cose ancora. E' stato anche la voce in italiano di Klaus Kinski, quando per un periodo ha fatto il doppiatore.

Del resto, lui ragazzo mantovano, era venuto a Roma attirato dalla chimera del cinema (partecipa a una marea di film come comparsa, per guadagnare da vivere e annusare quel clima). E' una vita avventurosa, la sua, finché non gli viene la voglia di mandare il mondo a quel paese dipingendosi le mani e la faccia di blu. 

E' l'estate del 1957, ha 26 anni e la canzone italiana più famosa nasce da una serata di alcoliche delusioni e dai poster di due quadri di Chagall, Il gallo rosso e Il pittore e la sua modella. Poi c'è la forza entusiasta di Mimmo Modugno, il resto è una storia fortunata di una canzone che vince a Sanremo e poi riesce ad attraversare l'Atlantico sbarcando in America. Per Franco la vita cambia, c'è Modugno che è un gran bel trampolino di lancio, poi arriva la Rca che comincia a macinare musica e talenti. Lui ha intuito e porta subito quello che quello che storicamente viene lanciato come primo cantautore, Gianni Meccia.

Il seguito viene facile, fra decine e decine di successi: Gianni Morandi, Rita Pavone, Patty Pravo, Nada. Migliacci produce anche il primo album di Renato Zero per la Rca, No, mamma no, che si apre con una canzone, Paleobarattolo, che fa eco al successo di Gianni Meccia, Il barattolo: «Chiuso dentro ad un barattolo/sono stato chiuso in un barattolo/ per vent'anni e trentamila secoli...». 

E' stata lunga la storia di Franco, gran timoniere della canzone italiana, che se ne va a 92 anni lasciando una lunga scia di ricordi e la testimonianza di una storia del pop di casa nostra basata sulla professionalità, la consapevolezza e la semplicità. E' vero «uno su mille ce la fa», ma se ha il talento di Franco Migliacci è più facile.

BIOGRAFIA DI FRANCO MIGLIACCI

Da cinquantamila.it - la storia raccontata da Giorgio Dell'Arti 

Franco Migliacci, nato a Mantova il 28 ottobre 1930. Autore. Compositore. Collaboratore di Gianni Rodari, in Rai come speaker e interprete di commedie, nel 1957 entrò in una compagnia di teatro comprendente Virna Lisi e Domenico Modugno, per il quale scrisse le parole della sua prima canzone, Nel blu dipinto di blu (vincitrice del Festival di Sanremo 1958, due Grammy Awards, decine di milioni di copie vendute). Ha scritto canzoni portate al successo dai più grandi cantanti italiani:

Mina (Tintarella di luna), Gianni Morandi (In ginocchio da te, Non son degno di te, C’era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones), Rita Pavone (Come te non c’è nessuno), Fred Bongusto (Una rotonda sul mare), Patty Pravo (La bambola). Sue anche alcune sigle dei cartoni animati, come Heidi, Le nuove avventure di Lupin III e Mazinga. Nel 1991 fondò con Modugno e Franco Micalizzi il Sindacato nazionale autori e compositori (Snac) ed iniziò una battaglia in difesa dei diritti degli autori che lo portò al vertice della Siae (di cui fu presidente dal 2003 al 2005). 

• «Il più chirurgico scrittore di canzoni degli ultimi cinquant’anni, un perfetto allestitore di sillabe. Mogol sarà un genio istintivo, ma Migliacci è il più elegante disegnatore di versi, perfetto nella metrica e nelle invenzioni, creatore di trovate siderali come Tintarella di luna per Mina, “Tin tin tin, raggi di luna, tin tin tin, baciano te”» (Edmondo Berselli).

• Con Modugno si conobbero «durante un provino cinematografico. Il film era Carica eroica di De Robertis. Era una storia di militari dove c’erano tanti ufficiali che avevano gli attendenti, e sceglievano aspiranti attori di tutte le cadenze e dialetti, un siciliano, un toscano, un calabrese. Scelsero Modugno per il siciliano, perché lui bleffava bene, e me per il toscano. Io mi ammalai e non girai il film, lui invece fece un bel successo, moriva, con la fisarmonica che si afflosciava tra le braccia». 

Nel blu dipinto di blu nacque un giorno che «lui mi dà appuntamento, una magica domenica del 1957, per andare al mare con due ragazze. Io aspetto fino all’una e capisco che mi ha dato buca. Ero arrabbiatissimo. Con trecento lire scesi giù, andai dal vinaio, mi sbronzai con una bottiglia di chianti e aspettai il ritorno di Mimmo per litigare, ma mi addormentai.

Quando mi svegliai, non so da dove veniva, vidi un foglio strappato da un giornale con la riproduzione di Le coq rouge di Chagall e del pittore e la modella con la faccia dipinta di blu. Scrissi di getto “Di blu mi son dipinto per volare fino al cielo... io volo nel blu dipinto di blu”. La sera andai ad aspettarlo in Piazza del Popolo, lui arrivò, io gliene dissi di tutti i colori, poi gli feci leggere il testo. Lui mi disse “Questo è un successo della madonna”. E dopo poco nacque la canzone» (ad Ernesto Assante). Era la sua prima canzone, ebbe un successo mondiale. 

• Nel 2012, dopo aver visto uno spezzone della fiction di Raiuno Volare – La grande storia di Domenico Modugno (diretta da Riccardo Milani e interpretata da Beppe Fiorello), si arrabbiò per il modo in cui veniva presentato il suo personaggio (interpretato da Alessandro Tiberi): «Mi sono visto, per caso, in una scena della fiction, trasmessa nella puntata del Viaggio di Pippo Baudo dedicata a Modugno e sono rimasto basito. Mi sono sentito offeso e umiliato» (Corriere della Sera).

È morto Fernando Botero, artista celebre per le sue voluminose figure umane. STEFANO BUCCI su Il Corriere della Sera venerdì 15 settembre 2023. 

Il grande pittore e scultore colombiano è scomparso a 91 anni

È morto venerdì 15 settembre nel Principato di Monaco, all’età di 91 anni, il celebre scultore colombiano Fernando Botero, universalmente conosciuto per le voluminose figure (uomini, donne, animali e persino oggetti che spesso sconfinavano nel grottesco) rappresentate nelle sue opere (ma anche scultore, illustratore, disegnatore). La notizia viene confermata dal quotidiano colombiano «El Tiempo», che definisce Botero come «l’artista colombiano più grande di tutti i tempi». Il decesso dello scultore nato a Medellin era stato annunciata in un primo momento dall’emittente «W Radio». Fonti vicine al pittore hanno riferito a «El Tiempo» che Botero aveva problemi di salute; è stato ricoverato per diversi giorni in un centro medico, ma lui stesso ha chiesto di essere trasferito a casa, nel Principato di Monaco, per curarsi. È morto per una polmonite.

Nato il 19 aprile 1932 a Medellín (le sue sculture decorano Plaza Botero nel centro città), Botero è stato (secondo il presidente colombiano Gustavo Petro) «il pittore delle nostre tradizioni e dei nostri difetti, il pittore delle nostre virtù», legatissimo all’Italia e in particolare a Pietrasanta , dove aveva casa e studio. Un amore definitivamente scoppiato quando, negli anni Settanta, Botero aveva soggiornato in Versilia. E un amore ricambiato, tanto che nel 2001 era stato nominato cittadino onorario di Pietrasanta, quasi in omaggio alle sue origine italiane (in particolare genovesi). Lo scorso maggio era morta la moglie di Botero Sophia Vari, pittrice e scultrice di fama internazionale, anche lei molto legata alla Versilia.

Inizialmente ispirato dall’opera di Orozco, Rivera, Siqueiros, Botero era già arrivato in Italia negli anni Cinquanta: a Firenze dove studiò la tecnica dell’affresco all’Accademia di San Marco a Firenze. Dopo una breve esperienza di espressionismo astratto (Mona Lisa, 1961, New York, Museum of Modern Art), Botero era poi approdato a forme tondeggianti e gonfiate, alle figurazioni spesso ironiche o sottilmente caricaturali (La famiglia del presidente, 1967, New York, Museum of Modern Art) che lo avrebbero reso famoso e che avrebbero fatto scuola (il boterismo).

Dagli anni Settanta Botero aveva scelto di dedicarsi anche alla scultura, riproponendo il suo stile nella terza dimensione. Nel 2000 sono stati inaugurati a Bogotá un museo a suo nome e a Medellín il progetto culturale noto come «Ciudad Botero», che comprende anche il rinnovamento del Museo de Antioquia. In concomitanza con l’ottantesimo anniversario della nascita era stata allestita a Pietrasanta la mostra Fernando Botero: disegnatore e scultore (2012), in cui sono state esposte ottanta opere provenienti dalla collezione privata dell’artista, e al Museo de Bellas Artes di Bilbao l’artista colombiano era stato celebrato con l’antologica Fernando Botero. Celebración.

Una fama, quella di Botero, non molto condivisa dai critici, ma che non ha conosciuto pause, fino all’ultimo: lo scorso 3 settembre si era appena chiusa una mostra nella sede della Fondazione Bancaja di Valencia mentre il 20 settembre si aprirà (fino al 6 ottobre) Botero, Larger-than-life all’Opera Gallery Dubai.

È morto Fernando Botero, l'artista delle figure voluminose. Guglielmo Calvi il 15 Settembre 2023 su Il Giornale.

Si è spento, all'età di 91 anni, Fernando Botero, l'artista famoso in tutto il mondo per le forme voluminose delle sue opere

È morto, all'età di 91 anni, Fernando Botero Angulo, il pittore e scultore colombiano che era conosciuto per il volume che contraddistingueva le sue rappresentazioni artistiche. A dare la notizia è stato il quotidiano colombiano "El Tiempo" che ha omaggiato l'artista definendolo come "l'artista colombiano più grande di tutti i tempi".

Il Ministero della Cultura colombiano ha annunciato che il più celebre artista della loro terra è morto nella sua abitazione a Monte Carlo.

La vita

Fernando Botero nasce a Medellin, Colombia, nel 1932 e sin da bambino nutre una forte passione per l'arte e il disegno. Crescendo, rimane particolarmente influenzato dall'architettura barocca e dalle illustrazioni della Divina Commedia che saranno fondamentali per la sue rappresentazioni artistiche. La stessa città di Medellin, molto fiorente a livello commerciale ed artistico, sarà anche fonte d'ispirazione per i suoi quadri e le sue sculture. Durante l'adolescenza, ha modo di farsi notare lavorando con il giornale locale "El colombiano" realizzando vignette ed esponendo le sue prime opere in uno spazio d'arte contemporanea nella sua città natia.

Nel 1952, all'età di 20 anni, Botero vince un concorso per giovani artisti indetto dalla Biblioteca Nazionale di Bogotà e con i soldi vinti decide di partire alla volta dell'Europa e per ammirare con i suoi occhi i tesori artistici che offre il Vecchio Continente. in Italia, il giovane artista rimarrà particolarmente colpito da Giotto e dai maestri del Rinascimento, in particolare da Andrea Mantegna di cui riprodurrà alcune opere. L'interesse per la pittura italiana lo porterà a trascorrere svariati anni in Toscana, nella zona della Versilia.

La vera svolta per l'artista arriva alla fine degli anni Cinquanta quando, viaggiando tra Messico e Stati Uniti, scopre l'espressionismo astratto che lo conduce all'elaborazione della dilatazione del volume delle forme che diventerà, poi, il tratto distintivo della sua arte.

Negli anni Sessanta si concentra molto sulla scultura, mettendo da parte la pittura che riprenderà a metà degli anni Settanta, quando si trasferisce stabilmente a Pietrasanta, in Toscana, e non la abbandonerà mai più.

Lo stile

Lo stile dell'artista colombiano, per molti critici e storici dell'arte, rappresenta un unicum nel panorama artistico mondiale.

Lo scultore e pittore sudamericano ha fatto dell'abbondanza dei suoi soggetti il suo tratto distintivo, accrescendo il volume delle sue forme fino a renderle irreali e riempiendole con diversi strati di colore. Botero mediante la realizzazione delle sue opere ha voluto rappresentare un inno alla vita e, secondo lui, l'abbondanza di forme e di colore si rifà proprio a questo, oltre a trasmettere sensualità e soddisfazione. L'artista colombiano ha sempre dichiarato di avvertire il bisogno insaziabile di esplorazione dell'individuo con l'auspicio di raggiungere la perfezione nelle opere dipinte e scolpite. Botero, però, si è sempre dimostrato distaccato dai soggetti scolpiti o ritratti perché, nella sua concezione, non era possibile raggiungere ciò che è ideale indi per cui i suoi personaggi hanno sempre lo sguardo perso nel vuoto volto a significare l'assenza di dimensione morale e psicologica.

Botero ha anche specificato che, nella sua arte, le dimensioni sproporzionate e abnormi rappresentano anche i ricordi dell'infanzia trascorsa a Medellin, segnati dalla violenza che gli faceva sembrare tutto troppo grande per la sua giovane età.

Celebre è una sua dichiarazione sul rapporto con l'arte: "Nell'arte il segreto per crescere è confrontarsi. Un'esposizione in un museo è una opportunità per confrontare un'opera con un'altra che è sempre la migliore lezione di pittura. Occorrono occhi freschi, liberi da ogni pregiudizio. Fortunatamente l'arte ha una grande dote, quella di essere inesauribile. È un processo senza fine, nel quale non si smette mai di imparare."

Morto Domenico De Masi, addio al sociologo: un male fulminante. Libero Quotidiano il 09 settembre 2023

Addio a Domenico De Masi: è morto a Roma il celebre sociologo, docente emerito di Sociologia del Lavoro all'Università Sapienza di Roma. Aveva 85 anni. Una notizia che travolge il mondo della cultura e anche quello della politica.

Soltanto lo scorso 15 agosto, De Masi aveva scoperto di essere afflitto da una malattia invasiva. La diagnosi lo aveva colpito mentre era in vacanza a Ravello, quando i medici del policlinico Gemelli di Roma gli dissero che, purtroppo, gli restava poco da vivere. Insomma, un male fulminante, quello che ha portato via il celebre sociologo, volto noto che popolava il dibattito televisivo, le cui posizioni negli ultimi anni erano vicine a quelle del M5s.

Dei grillini era considerato uno degli ispiratori. In primis per quel che riguarda il reddito di cittadinanza, per il quale si è sempre speso: prima per portare il M5s a vararlo, ora per difenderlo. Nel corso della sua carriera accademica, il suo focus ha riguardato la sociologia del lavoro e delle organizzazioni, dunque la società postindustriale, lo sviluppo e il sottosviluppo. E ancora, l'analisi dei sistemi urbani, della sociologia applicata al tempo libero e alla creatività, ai metodi e alle tecniche della ricerca sociale con particolare riguardo alle indagini previsionali.

La sociologia di De Masi: dalla parte dei più deboli. Carlo Bordoni su Il Corriere della Sera sabato 9 settembre 2023.

Il lavoro e le diseguaglianze al centro delle ricerche dello studioso che si avvicinò ai Cinque Stelle e ispirò il reddito di cittadinanza 

Domenico De Masi (1938-2023)

Domenico De Masi se n’è andato sabato 9 settembre a 85 anni, in seguito a una breve ma micidiale malattia. Con lui se ne va un pezzo della sociologia italiana, un pezzo solo in parte accademico (perché Mimmo, come lo chiamavano gli amici, aveva ricoperto tutti gli incarichi universitari, fino alla presidenza della facoltà di Scienze della Comunicazione alla Sapienza di Roma), poiché si era dedicato con generosità alle analisi sul campo, diventando il maggior esperto di sociologia del lavoro.

Sarà perché, come amava ricordare, era di umili origini (era nato a Rotello in provincia di Campobasso), ma la sua sociologia è sempre stata dalla parte dei più deboli. L’impegno per combattere le disuguaglianze lo aveva fatto avvicinare al Movimento Cinque Stelle, di cui è stato per un certo periodo l’eminenza grigia. Ma le espressioni di cordoglio per la sua scomparsa giungono da tutto l’arco delle forze politiche. Lo ricordano con affetto, tra gli altri, il leader del M5S Giuseppe Conte, la segretaria del Pd Elly Schlein, il vicepresidente della Camera Giorgio Mulè, il ministro Adolfo Urso. Anche il presidente del Brasile Lula lo saluta con un post su X.

Pur senza ammetterlo esplicitamente, De Masi è stato l’ispiratore del reddito di cittadinanza: dietro questa idea c’è la filosofia di André Gorz, i suoi studi sul lavoro immateriale e quel concetto — persino scandaloso per il secolo scorso — di «reddito di esistenza», un compenso che spetta a tutte le persone che fanno parte della società e contribuiscono, per il fatto di esistere, alla sua continuità.

L’influenza di Gorz e del suo innovativo spirito utopistico attraversa le pagine di uno dei suoi libri più significativi, Il lavoro nel XXI secolo (Einaudi, 2018), dove De Masi ripercorre la storia del lavoro dalle origini all’epoca post-industriale, mettendo in evidenza come spesso sia stato utilizzato quale strumento di oppressione e di controllo delle masse popolari. Qui De Masi evidenzia come il lavoro — tema irrinunciabile di ogni analisi sociologica — abbia costituito l’elemento fondamentale per realizzare l’identità umana.

Un’identità messa in crisi proprio a partire dagli anni Ottanta, in cui Jeremy Rifkin preconizza la «fine del lavoro». Soprattutto la fine del lavoro materiale è responsabile di molte delle criticità odierne e di un individualismo esasperato: succede infatti che la perdita di identità nella professione debba essere compensata da forti iniezioni di fiducia e consapevolezza di sé.

De Masi, da convinto ottimista, vede però nel lavoro immateriale non tanto una perdita, quanto un’occasione propizia per dare maggior spazio a quella straordinaria qualità umana finora repressa dal lavoro fisico: la creatività. È la grande sfida del terzo millennio, sviluppare il pensiero laterale, la creatività umana, forse la più grande ricchezza ancora non sfruttata appieno.

Ecco allora i voluminosi studi pubblicati da De Masi che ne dimostrano le possibilità concrete, da L’emozione e la regola (Laterza, 1990) a La fantasia e la concretezza (Rizzoli, 2003). Qui lo studioso mette in luce, con un lampo di genialità, l’opposto del lavoro: l’ozio (L’ozio creativo, Ediesse, 1995 e Una semplice rivoluzione, Rizzoli 2016).

L’otium latino come il contrario di negotium, l’attività pubblica, economicamente produttiva che si svolge fuori casa, non è, come si pensa, l’assenza di ogni attività, bensì la possibilità di dedicarsi a ciò che dà soddisfazione, a ciò che si crea per sé. Anche se l’otium è legato al privato, non significa che non abbia effetti sull’intera società. Così come la creatività produce effetti benefici di cui tutti possono godere.

Considerata la fine del lavoro o comunque la sua drastica riduzione, De Masi propone una società in cui l’otium abbia una precisa funzione sociale generativa di un valore aggiunto. Lo afferma provocatoriamente in Lavorare gratis, lavorare tutti. Perché il futuro è dei disoccupati (Rizzoli, 2017), andando a ipotizzare le conseguenze a medio termine: Lavoro 2025. Il futuro dell’occupazione (o della disoccupazione), Marsilio 2017.

Al momento della pandemia De Masi ha agevolmente dimostrato la concretezza delle sue teorizzazioni sostenendo l’utilità del lavoro a distanza, pur con le dovute cautele (Smart working, Marsilio, 2020).

L’ultimo suo libro si intitola La felicità negata (Einaudi, 2022), dove si interroga sull’aumento delle disuguaglianze. De Masi mette sinteticamente a confronto la Scuola di Francoforte, che propone un marxismo sfrondato dal dominio dell’economia sulla sovrastruttura culturale, e la Scuola neoliberista di Vienna, osservando tristemente come abbia prevalso la seconda. Un moto di pessimismo in un sociologo che ha fatto dell’ottimismo, della creatività e del pensiero critico la sua ragione di vita.

Estratto dell'articolo di Salvatore Cannavò per ilfattoquotidiano.it sabato 9 settembre 2023.

“Bisogna essere leggeri come una rondine, non come una piuma” è il motto di Paul Valery che aveva scelto per descriversi sul proprio sito web. […] Quella rondine, Domenico De Masi, morto all’età di 85 anni, a seguito di una improvvisa e micidiale malattia, lo è stato per tutta la sua lunga vita. Piantata nel Novecento con la determinazione, intellettuale, organizzativa, di puntare al XXI secolo, e anche oltre. 

Senza il 900 non si capisce la sua poliedrica vivacità culturale, la rete di relazioni praticamente infinita, il cosmopolitismo che lo porta a studiare a Parigi alla vigilia del ’68 e negli ultimi venti anni a divenire una star intellettuale in Brasile.

[…] nasce a Rotello, in provincia di Campobasso, nel 1938, frequenta il liceo a Caserta e si va a laureare in Giurisprudenza all’Università a Perugia. Il primo vero salto arriva dopo la laurea, quando si trasferisce a Parigi per il dottorato in Sociologia del Lavoro affidandosi alla sapienza di Alain Touraine con cui entra in quella dimensione, che non lo lascerà più, di sociologia applicata ai processi reali, che costituiva la vera novità introdotta dal sociologo francese. 

Su questo asse costruisce una elaborazione che non solo riflette sui processi lavorativi, ma li studia direttamente in fabbrica e si candida poi a governarli su forme nuove. Un’impostazione che gli deriva anche dall’incontro con Adriano Olivetti per cui lavora brevemente e poi l’intesa con Touraine e con la “doppia dialettica delle classi”, che prescrive non solo la contrapposizione marxiana tra borghesia e proletariato ma anche quella che vede imprenditori illuminati contrapposti a una classe subalterna conservatrice.

Di ritorno da Parigi inizia la carriera accademica, prima come assistente di sociologia all’università Federico II di Napoli, che affianca però a quella di ricercatore all’Italsider di Bagnoli. Nel 1970 accetta l’incarico di assistente presso la appena costituita facoltà di Scienze politiche all’università di Cagliari, e lì si trova a fianco di una serie di menti brillanti come Gustavo Zagrebelsky, Valerio Onida, Luigi Berlinguer, Franco Bassanini. 

Torna poi a Napoli, all’Orientale, dove insegna Sociologia a Scienze politiche, di nuovo alla Federico II tra il 1974 e il 1977 per poi approdare a Roma dove insegna Sociologia presso il Magistero fino a divenire preside della facoltà di Sociologia e Scienze della Comunicazione.

I manuali di organizzazione del lavoro e di sociologia del lavoro che pubblica sono innumerevoli, tra i libri più rilevanti, Il lavoratore post-industriale, Il futuro del lavoro fino a Ozio creativo dove sostiene che “la quantità e qualità del prodotto non dipendono dal controllo sul lavoratore ma dipendono dalla sua motivazione” e dalla sua capacità di entrare nella dimensione di “ozio creativo”. 

Una visione sul futuro, uno squarcio sul mondo digitale e sulle rivoluzioni tecnologiche, non a caso De Masi sarà in prima fila nell’analizzare la dirompente novità dello Smart working così come della riduzione dell’orario di lavoro, del reddito di cittadinanza. E mantiene però l’attenzione alle aziende, realizza l’Associazione italiana dei formatori, crea la S3Studium che poi si trasforma in società di consulenza. È anche in questa veste che crea la Scuola del Fatto, dove la tematica del lavoro assume un ruolo centrale anche nel rapporto con le migliori imprese italiane.

La sua natura visionaria si è accostata a Beppe Grillo, amante delle innovazioni che hanno un impatto concreto sulla vita delle persone. Per i 5 stelle elabora prima una ricerca sul lavoro, poi costruirà una indagine sulla loro cultura politica e diventa sempre più un consigliere ascoltato. 

Nel corso della campagna elettorale del 2022 rivela le pressioni subite da Beppe Grillo da Mario Draghi per rimuovere Giuseppe Conte. Una polemica che dilaga immediatamente e che metterà fine ai rapporti con il leader genovese. Con Conte, invece, prova a fondare una Scuola politica dei 5 Stelle, progetto che però abbandona. 

[…]

Vive poi una seconda vita in Brasile dove hanno scoperto i suoi libri, traducendoli, e dove diventa figura molto ascoltata dal Partito dei lavoratori e dallo stesso Lula. Si “innamora” soprattutto di una figura che paragona a Olivetti, Oscar Niemeyer, architetto di Brasilia di cui ricorda una bellissima frase ben visibile nel suo studio: “Ciò che conta non è l’architettura, ma è la vita, gli amici e questo mondo ingiusto che dobbiamo modificare”. De Masi, con il suo lavoro intellettuale, la sua vitalità, la sua capacità di organizzatore, un po’ ha contribuito a farlo.

La morte di De Masi, il sociologo comunista che ha inventato il reddito grillino. Il professore si è spento a Roma all'età di 85 anni Anticapitalista, teorico della decrescita felice e dell'ozio creativo è diventato un faro per il M5s Amico di Lula, Grillo e Conte, poi ha scelto Elly. Francesco Maria Del Vigo il 10 Settembre 2023 su Il Giornale.

Affabile e affabulatore, meridionalissimo di un meridionalismo cosmopolita che passava da Parigi per planare nel sud del mondo, Domenico De Masi passerà alla storia come l'ispiratore di uno dei provvedimenti più discussi e sciagurati della storia della politica italiana: il reddito di cittadinanza. Il sociologo - che è morto ieri a 85 anni dopo una breve e fulminante malattia - nasce geograficamente in un piccolo paesino di una manciata di anime in provincia di Campobasso, ma politicamente fiorisce ai bordi del Partito Comunista Italiano.

Una vita accademica che parte con una laurea in giurisprudenza, un dottorato in sociologia a Parigi e culmina con la presidenza della Facoltà di Sociologia e Scienza della comunicazione all'università di Roma. In mezzo a una vita di studio, molto impegno civile e politico, decine di pubblicazioni e idee e provocazioni intellettuali che - nel bene e nel male - hanno segnato gli ultimi anni di storia del nostro Paese. E non solo.

Perché le opere del sociologo molisano - con tutto il loro portato ideologico di ispirazione post marxista - attraversano l'oceano e sbarcano in Brasile, dove De Masi diventa una sorta di star per la sinistra locale e in particolar modo del Partito dei lavoratori, stringendo un rapporto di amicizia personale col presidente Lula, che andrà anche a trovare in carcere durante la sua detenzione.

Amico di Lula in Brasile, ma anche di Beppe Grillo e Giuseppe Conte in Italia, sempre seguendo una linea invisibile, ma che purtroppo abbiamo potuto toccare con mano, che unisce quel che resta del comunismo e del socialismo con il pauperismo e il mito della decrescita felice, tutto all'insegna di una critica tanto spietata quanto capziosa al sistema capitalistico. De Masi teorizza l'ozio creativo, profetizza un futuro senza occupazione e spalanca le porte alle orde grilline che brandiscono come una scimitarra il «suo» reddito di cittadinanza. Idea pericolante, trasformata in un obbrobrio statalista e assistenzialista dai pentastellati che non vedevano l'ora di affacciarsi dai balconi per decretare la fine della povertà. La storia recente ci racconta che poi, gli italiani e il buonsenso, hanno decretato la fine del reddito, il quale - ahinoi - non ha sconfitto la miseria ma prosciugato le casse dello Stato.

Ma anche durante la liaison con il M5S - che s'incrina quando in una intervista al Fatto Quotidiano spiffera le pressioni di Draghi su Grillo per far fuori Conte - De Masi è un grillino atipico, la sua bonomia stride con certi strepiti antipolitici. Colto, educato, ironico e pacato svolazza da un talk show all'altro senza mai alzare la voce, ma difendendo sempre con tenacia le sue posizioni, anche quelle assolutamente indifendibili. Quando si stempera la passione pentastellata torna nella sinistra dalla quale, in realtà, non si era mai allontanato e alle primarie del Pd sceglie Elly Schlein.

Il cordoglio della politica è trasversale: da Giorgio Mulè alla leader dei dem, passando per Sgarbi, Casini, Renzi, l'amico Lula e i grillini al gran completo dal fondatore in giù. Tutti ricordano - nella diversità di idee - il suo rispetto e la sua pacatezza. Tutto quello che è mancato ai suoi cattivi discepoli a Cinque Stelle.

L'addio a 85 anni. Chi era Domenico De Masi: il sociologo tra Olivetti, Marx e Lula. Ieri l’addio. Nell’ultima intervista all’Unità incalzava le sinistre “Giocare di rimessa è perdente, nessun partito li rappresenta più, ma proletariato e sottoproletariato non appartengono all’archeologia...” Umberto De Giovannangeli su L'Unità il 12 Settembre 2023

La cultura poliedrica corazzata di una simpatia che traeva ispirazione dalla sua vantata “napoletanità”. O viceversa. Fate un po’ voi, poco cambia. Perché Domenico De Masi, scomparso sabato scorso all’età di 85 anni, era questo. E tantissimo altro. Nel campo della sociologia del lavoro era un’autorità. Docente emerito di Sociologia del lavoro all’Università La Sapienza di Roma già preside della Facoltà di Scienze della Comunicazione presso lo stesso ateneo, una sterminata pubblicistica di libri.

De Masi ha elaborato un suo paradigma partendo dal pensiero di maestri come Alexis de Tocqueville, Karl Marx, Frederick Taylor, Daniel Bell, André Gorz, Alain Touraine, Agnes Heller e approdando a contenuti originali in base a ricerche centrate soprattutto sul mondo del lavoro. Per la cronaca politica italiana è stato l’ispiratore di Beppe Grillo e Giuseppe Conte, e naturalmente di Travaglio. Certo i 5 Stelle hanno imparato molto da lui, ma francamente non solo loro.

Negli ultimi venti anni, tanto per dire, De Masi in Brasile viene considerato un intellettuale di riferimento, ed è figura molto ascoltata dal Partito dei lavoratori e dallo stesso presidente Luiz Inacio Lula da Silva, che, da New Delhi dove era impegnato nei lavori del G20, ha inviato un messaggio di sentite condoglianze alla famiglia, alla sua compagna di una vita, la vedova Susi Del Santo. In Brasile, De Masi resta attratto soprattutto dalla figura di Oscar Niemeyer, architetto di Brasilia, figura che paragona a Olivetti, e di cui teneva una celebre frase nel proprio studio: “Ciò che conta non è l’architettura, ma è la vita, gli amici e questo mondo ingiusto che dobbiamo modificare”. Ciò che De Masi, con il proprio lavoro, la propria vitalità intellettuale e la propria ricerca ha contribuito a fare.

Altra frase significativa per rappresentare il professore, è quella con cui si descriveva nel proprio sito web: “Bisogna essere leggeri come una rondine, non come una piuma”, motto di Paul Valery. Una rondine, cioè un uccello determinato ma non altezzoso. Non si arrabbiava facilmente, ma indignarsi, sì. Chi scrive ha avuto con lui, molto recentemente, due lunghe conversazioni, diventate interviste, tra le ultime della sua vita, con l’Unità. La presidente del Consiglio lo aveva attaccato pesantemente, scambiandolo per altro con De Rita, per una coraggiosa presa di posizione sulla guerra nel programma serale di Bruno Vespa. Ne parlammo.

“Nei cinque minuti da Vespa, io avevo detto anche che è vigliacco mandare le armi e non andare di persona a combattere. Quando i giovani polacchi, i giovani francesi, andavano a combattere con Garibaldi, venivano loro non è che mandavano le baionette. Noi invece mandiamo le armi e restiamo al sicuro. Borsellino e Falcone, citati dalla Meloni, hanno fatto proprio come ho detto io. Non hanno mandato le armi contro la mafia restandosene a Roma. Sono stati ammazzati in un territorio della mafia. Falcone e Borsellino dimostrano proprio quello che dico io: se uno vuole combattere un nemico deve andarci di persona, non deve mandare vigliaccamente delle armi. Ma la Meloni ha spezzettato strumentalmente quello che avevo detto, distorcendo volutamente e totalmente il mio pensiero. Lei ha voluto usare me per sbeffeggiare i 5 Stelle, senza sapere che io non c’entro niente con i 5Stelle. Non sono un “filosofo dei 5Stelle” come ha detto lei. In primo luogo, sono un sociologo, ma non saprei dire se la Meloni conosca la differenza tra i saperi. E poi non sono il filosofo di nessuno se non di me stesso. Se poi qualcuno vuole prendere qualche idea mia, ben venga”.

L’ultimo colloquio, alcune settimane prima della scoperta di quel male che in pochissimo tempo lo ha portato via, era incentrato su un malessere sociale che fatica a trasformarsi in movimento collettivo. De Masi aveva una sua chiave di lettura. Come sempre, appassionata. “C’è una dispersione, una frantumazione sociale che ha radici lontane e che ha evidenti ricadute politiche e nelle trasmigrazioni elettorali. C’è chi vota a destra, chi protesta astenendosi… È qui che le sinistre dovrebbero aprire una seria, severa riflessione. Che non si limiti a fotografare l’esistente, sperando di poter cavalcare a sua volta quella rabbia sociale che fino a ieri ha fatto la fortuna di Fratelli d’Italia e della Meloni. Giocare di rimessa è perdente. Bisognerebbe aprire un dibattito, e L’Unità che si rifà a Gramsci e Berlinguer potrebbe farsene promotrice, sul perché sia venuto meno un partito che dia rappresentanza al proletariato e al sottoproletariato, categorie che vanno ridefinite al presente ma che non appartengono in quanto tali all’archeologia politica e ideologica. Un partito che sappia svolgere una funzione pedagogica, di guida. Un partito che al momento non c’è”.

Lavoro agile, diritto alla felicità e all’inclusione. E critica spietata al liberismo. De Masi sapeva ascoltare, capire, condividere. L’ultima conversazione telefonica, era la fine di luglio, si era conclusa con un invito: “Se passa da queste parti, mi venga a trovare a Ravello”. Il suo meraviglioso buen ritiro. Non c’è stato tempo. In tantissimi l’hanno salutato per l’ultima volta ieri , al Tempio di Vibia Sabina e Adriano a piazza di Pietra, nel cuore di Roma. Una cerimonia laica, che ha riunito quell’universo creativo con cui aveva sempre interagito. Con passione, senza spocchia professorale. Umberto De Giovannangeli 12 Settembre 2023

Estratto dell’articolo di leggo.it sabato 9 settembre 2023.

Flavio Repetto, "re del cioccolato" è morto a 92 anni a Novi Ligure. Al fondatore e titolare della storica azienda dolciaria Elah-Dufour-Novi Flavio Repetto fu conferita l'onorificenza di Cavaliere al merito del lavoro nel 1985 […]

Nato nel dicembre del 1931 a Lerma (Ovada), all'età di 14 anni si trasferì con la famiglia a Genova, dove di giorno lavorava come cameriere e di sera studiava ragioneria all'istituto Avanzini. L'Università di Genova nel 2004 gli conferì la laurea Honoris Causa in Ingegneria Meccanica. 

Nel 2007 fu premiato con il Candy Kettle Award, l'oscar europeo dell'industria dolciaria. Nello stesso anno fu eletto presidente della Fondazione Carige, che all'epoca controllava la principale banca ligure. Dopo il diploma si trasferì da Genova a Roma e a soli 23 anni diventò direttore della filiale italiana di un'azienda americana.

Tornato a Lerma, decise di avviare un'attività in proprio, l'azienda vinicola Vallechiara per l'imbottigliamento del vino e all'inizio degli anni sessanta fondò la Generale Ristorazione S.p.A. lanciando la prima ristorazione collettiva di qualità, arrivando a servire 50 mila pasti al giorno fornendo aziende come Ansaldo, Italsider, Michelin, Fiat, Finmeccanica ed Erg. 

Nel 1975 acquisì la maggioranza della Sibeto, società di imbottigliamento e distribuzione della Coca Cola per il Piemonte e la Valle d'Aosta e costruì uno stabilimento a Biella. Nel 1981 iniziò il percorso nel settore dolciario, quando inizialmente decise di acquisire i marchi Elah e Dufour, assieme allo stabilimento di Genova Pegli.

Nel 1985 acquisì la Novi, fondata nel 1903 da Giovanni Battista Gambarotta, e decise di formare il gruppo Elah-Dufour-Novi (portando il marchio Novi anche all'estero), arrivando a un fatturato di oltre 130 milioni di euro. […]

Chi era Flavio Repetto, il «re del cioccolato» che ha rilanciato Novi: «Sono sempre stato un ottimista». Storia di Paola Pica su Il Corriere della Sera sabato 9 settembre 2023.

Flavio Repetto, patron dello storico gruppo dolciario Elah Dufour Novi, è morto a Novi Ligure nella notte tra venerdì 8 e sabato 9 settembre. Aveva 92 anni. Qui riproponiamo un’intervista pubblicata il 21 marzo del 2022 su l’Economia del Corriere.

Quando Flavio Repetto si affaccia alla carriera — a poco più di 23 anni viene chiamato a guidare lo stabilimento italiano di un’azienda americana — Adriano Olivetti aveva già cambiato l’idea di fabbrica, di lavoro, di comunità. Ed è a quel modello innovativo che legava per la prima volta imprenditoria e responsabilità sociale che Repetto guarda, come tanti giovani di allora nel dopoguerra. Ed è rimasta quella la spinta che ancor oggi, a 90 anni compiuti l’11 dicembre del 2021, porta quasi ogni giorno al suo posto in ufficio il patron dell’industria dolciaria Elah Dufour Novi. Perché quello che conta per chi fa impresa e che ancora Repetto sente di poter fare «è creare il lavoro per i giovani. E la vera ricchezza della fabbrica, del resto, sono le persone». Sono i fatti, dice, a raccontare una storia come la sua.

«L’azienda è un capitale di rischio, non di debiti», è l’adagio che ripete. Coerentemente, sottolinea, «le mie aziende sono solide. Basta leggere i bilanci per verificare che la gran parte degli utili, anno dopo anno, viene reinvestita nell’attività». Tenacia, rapidità nelle decisioni, sensibilità sono secondo lo stesso imprenditore originario di Lerma, piccolo paese dell’Alessandrino, Alto Monferrato, «le caratteristiche che aiutano a farcela» anche se forse la fortuna più grande, osserva, «è quella di esser sempre rimasto un ottimista».

Nel 1945 Repetto si trasferisce con la famiglia a Genova, dove lavora come cameriere e studia di sera da ragioniere. Dopo il diploma parte per Roma dove lavora nell’azienda americana. Torna poi a Lerma nel suo Monferrato («mi è sempre rimasto nel cuore») e inizia un’attività in proprio: la vinicola Vallechiara per l’imbottigliamento del vino. È il primo, in Italia, a immaginare e realizzare le bottigliette monoporzione. Un’innovazione che apre possibilità e mercati inesplorati. All’inizio degli anni Sessanta Flavio Repetto fonda la GR (Generale Ristorazione) e lancia prima ristorazione collettiva di qualità, coinvolgendo gli chef di cucina delle navi Costa e Italia Navigazione. Negli anni Settanta arriva a servire 50 mila pasti al giorno e a fornire aziende come Ansaldo, Italsider, Michelin, Fiat, Finmeccanica. A Roma sia la Camera dei Deputati che il Senato della Repubblica, per i loro ristoranti interni, scelgono la GR di Repetto. La GR è il suo terzo successo.

Nel 1975 acquisisce la maggioranza di Sibeto, società di imbottigliamento e distribuzione della Coca Cola per il Piemonte e la Valle d’Aosta. Costruisce un nuovo stabilimento a Biella per il quale la multinazionale di Atlanta gli conferisce un premio. «Un giorno, casualmente, parlando con una giornalista de il Secolo XIX — ricorda— vengo a sapere che la Dufour è in serie difficoltà e sta per fallire; decido allora di acquistarla insieme ad un’altra regina del dolciario, anch’essa nella stessa situazione, e già fusa assieme alla Dufour: Elah». L’atto ufficiale di acquisto viene siglato il 31 dicembre del 1981 presso il Tribunale Fallimentare di Genova. Assume le maestranze ormai senza lavoro e inizia la fase di ristrutturazione totale dello stabilimento Elah di Genova Pegli. Nel 1985 rileva Novi, anch’essa in fase fallimentare e con un passato illustre e tradizione secolare. Nasce così la realtà che spazia dal cioccolato alle caramelle, ai preparati per dolci, alla Crema Novi con oltre il 45% di nocciole delle nostre colline.

Repetto costruisce a Novi Ligure in tempi record uno stabilimento dotato di una impiantistica tra le più avanzate del settore, arrivato oggi a oltre 60 mila metri quadrati. I tre marchi corrono sui rispettivi mercati, Novi diventa leader nelle tavolette e rende «popolare» e sempre più apprezzato in Italia il cioccolato fondente. È il promotore del Consorzio per la difesa della nocciola Piemonte («la più buona del mondo») e firma, siamo nel 2016, l’accordo di filiera con Coldiretti Asti-Alessandria, in cui il gruppo si impegna ad acquistare nocciole dagli oltre 300 produttori locali affiliati. Da allora è stato istituito anche il Premio Qualità Novi, destinato ai produttori più meritevoli. Nel 1999 aveva rilevato Baratti & Milano e lo stabilimento di produzione a Bra nel cuneese, rinnovandolo completamente. Con Baratti & Milano rileva l’omonimo Caffè in Piazza Castello a Torino uno tra i più celebri locali storici d’Italia. Le altre attività

Novi ha sponsorizzato la spedizione «K2. 50 anni dopo» per celebrare la mitica spedizione Desio, nonché l’Amerigo Vespucci, il grande veliero della Marina Militare italiana. E ha sostenuto Legambiente con l’iniziativa Treno Verde, mentre l’impegno nella cultura è affidato al contributo al Teatro Nazionale di Genova. Repetto ha sostenuto e sostiene poi diverse attività sportive giovanili, la squadra di Basket di Casale Monferrato (JB Monferrato) e la Società Forza e Virtù di Novi Ligure. Dal 2020, infine, Novi è Cioccolato Ufficiale del Giro d’Italia di ciclismo. Di pari passo con il percorso imprenditoriale vanno i riconoscimenti istituzionali, dalla laurea Honoris dell’Università di Genova, alle cittadinanze onorarie di Bra e Novi Ligure. Ma «l’alta onorificenza» che lo rende più fiero e a distanza di quasi quarant’anni ancora lo commuove è quella di Cavaliere del Lavoro ricevuta dalle mani di Sandro Pertini.

Estratto da repubblica.it mercoledì 6 settembre 2023.

Si è spento nella sua casa di Roma il regista Giuliano Montaldo. Nato a Genova nel 1930 avrebbe compiuto 94 anni il prossimo 22 febbraio. Vicini a lui sua moglie Vera Pescarolo, la figlia Elisabetta e i suoi due nipoti Inti e Jana Carboni. Per scelta della famiglia non si terranno esequie pubbliche. 

Regista, sceneggiatore e attore, diresse oltre 20 film. Tra questi Gli intoccabili (1969); Sacco e Vanzetti (1970); Giordano Bruno (1973); L'Agnese va a morire (1976); Gli occhiali d'oro (1987). Montaldo fu molto attivo anche nella produzione di grandi opere televisive come il kolossal in otto puntate Marco Polo.

La storia raccontata da Giorgio Dell’Arti - cinquantamila.it - Estratti

Giuliano Montaldo, nato a Genova il 22 febbraio 1930 (92 anni). Regista. Sceneggiatore. Attore. Vincitore, tra l’altro, di due David di Donatello: uno alla carriera (2007), l’altro quale miglior attore non protagonista (2018, per Tutto quello che vuoi di Francesco Bruni). «I film più belli sono quelli che non sei riuscito a girare davvero, però li hai immaginati proprio come li volevi tu, senza risparmi e senza restrizioni» (a Fulvia Caprara)

• «Quando sono nato pesavo 5,2 kg: sulla culla scrissero “Maciste”» (a Giuseppe Fantasia). «Una vita di miracoli. Piccoli e grandi, seri e buffi, come quello della gatta Giulia, che sembrava muta e invece salvò con un potente “miao” la vita di un neonato “molto inquieto. Ero scivolato, finendo sotto le coperte: il miagolio servì ad avvertire mia madre”» (Caprara). 

«Gli anni della scuola? “Ero in perenne imbarazzo: gli altri si tiravano le palline di carta, io sembravo già un uomo. Marinavo, e quando il preside lo scoprì mi convocò. ‘Hai falsificato il certificato medico: dovrei buttarti fuori da tutte le scuole d’Italia’. Il mio atteggiamento da maschio forte è crollato. Lui: ‘Ti posso venire incontro: l’anno, lo finisci con me, in questa stanza’. Un periodo straordinario, in cui abbiamo parlato di tutto”» (Arianna Finos). «“Prima dell’inizio della guerra, anche io, ovviamente, ero un balilla”. 

(…) Che anno era? “Arrivai a Roma alla fine del 1950”» (Gnoli). «Andai incontro a difficoltà economiche, ma non mi scoraggiai. Il primo anno romano in pratica mangiavo solo supplì». «“La città brulicava di pellegrini. Pensavo a mia madre che voleva che mi facessi prete. Ma la città, al di là della patina di sacro, era un luogo di tentazioni continue. Passavo da una pensione all’altra. Ma costavano troppo. 

Alla fine, Lizzani mi suggerì di rivolgermi a una signora che affittava le camere. ‘Giulià, se sei carino con lei, quella te fa dormì gratis’, disse, strizzando l’occhio”. Andò? “Andai. Era alta un metro e trenta. Cattivissima e arrapatissima. Dovetti scappare di notte, dopo un assedio durato qualche giorno. Finii nell’appartamento di Gillo Pontecorvo. Un porto di mare. Intanto, Lizzani mi chiamò per interpretare Cronache di poveri amanti. Mi attaccai a lui perché volevo capire com’era il mestiere di regista. 

Fu molto generoso. E, quando Gillo cominciò a girare i suoi film, mi prese prima come segretario di edizione e poi aiuto regista». «Una volta Fellini mi disse: “Carissimo, vieni, ché ti faccio fare l’aiuto regista”. Mi presentai, ma di aiuto regista ce n’erano venti. Stessa cosa un mese dopo. Alla fine lo incontrai in via Veneto, e gli dissi: “Federico, ho appena firmato un contratto che mi vieta di lavorare con te”. Che adorabile mentitore che era Fellini». 

(…)

Con Klaus Kinski. “Bravo, ma un rompiscatole terrificante. Ne combinò una che non scorderò mai. Finisce la scena, va dal capo macchinista: ‘Fai flic floc con me? Dammi il dito’. Quello non capisce, glielo dà, e lui, ‘tac’, glielo rompe. Ho dovuto farlo scortare, perché il macchinista ogni giorno mi diceva ‘L’ultimo giorno di set, dotto’, mi devo vendicare’. Fu un successo: gli americani mi offrirono Gli intoccabili”. […] Tumultuoso il rapporto con Cassavetes. “La prima settimana, sì. Metteva bocca su tutto: ‘Hai cambiato obiettivo? Quale hai messo? Perché il carrello?’.

A un certo punto l’ho messo spalle al muro: ha bofonchiato qualche scusa. Il giorno dopo, busso alla roulotte: ‘Sono io che lascio il film’. Salta giù e mi abbraccia. Siamo diventati amici”. Nei Settanta è arrivato Dio è con noi. “Storia vera che Andrea Barbato lesse sul Der Spiegel: due ragazzi buttano la divisa tedesca, finiscono in un ex lager trasformato in campo di prigionia canadese. I tedeschi li vogliono processare come disertori: verranno fucilati dai tedeschi con i fucili dei canadesi nel quinto giorno di pace. Un film troppo duro da digerire per il pubblico”. Sacco e Vanzetti ha avuto un pubblico mondiale. “In Italia molti non sapevano chi fossero: con il fascismo in corso si era parlato poco delle manifestazioni per Nick e Bart. Un produttore mi chiese: ‘È il nome di una ditta di import-export?’”» (Finos).

«Con Ennio Morricone pensammo alla colonna sonora: lui voleva una ballata, e l’unica che poteva eseguirla era Joan Baez. Sapevamo che era amica di Furio Colombo. Le mandammo attraverso di lui la sceneggiatura, e lei mi telefonò il mattino seguente, dicendomi: “Ci sto!”. Grazie al nostro film, gli studenti di diritto di Boston ricostruirono il processo in tempo reale, e dopo sette anni il governatore Michael Dukakis riabilitò i due italiani nel corso di una cerimonia cui fui invitato» (a Barbara Palombelli). 

«Giordano Bruno, altra storia di intolleranza. “Una sera Vera e io, in Campo de’ Fiori a Roma, ascoltiamo un professore che spiega agli studenti, sotto la statua, chi è Giordano Bruno. È scattata la scintilla. Volonté era meraviglioso e ossessionato. Nella notte, non so come, entra nella nostra stanza d’albergo urlando: ‘Ma come fate a dormire, ché domani me bruciano vivo?’. Si infilò nel lettone e dormì tra me e Vera”. […] 

(…) «Un comunista, Montaldo, ma senza tessera, e ci tiene a dirlo. […] “Credo che la libertà sia anche quella di avere delle idee senza mettersi le manette. A questo proposito Cesare Zavattini una volta mi disse: ‘Non iscriverti mai a nulla, perché hai il diritto di cambiare il tuo pensiero’. Io, il mio pensiero, non l’ho mai cambiato, ma l’idea di poterlo fare mi ha sempre aiutato a rimanere fedele”» (Cristina Piccino) • Ha definito Genova «la mia città, il luogo in cui sono nato e che continuo ad amare, anche se da molto tempo vivo a Roma. Ma forse proprio per questo, perché sono lontano, l’amore che provo per Genova è ancora più forte» (ad Andrea Plebe)

• «Come sei diventato tifoso del Genoa? “Avevo otto anni quando mio zio, un tipo all’antica con un bastoncino con la testa di avorio, mi portò la prima volta allo stadio. Era sempre elegantissimo, un genoano sfegatato. Andammo a Marassi. Il Genoa perde, e mio zio comincia a litigare: se ne va e mi dimentica allo stadio. Allora non c’erano i telefonini… Poi eravamo dei soldatini, in quel tempo, all’età di otto anni. Restai immobile lì. Ero smarrito e mi stavo congelando. 

(…) «“Un film su Allende è uno dei miei due sogni mai realizzati”. Qual è l’altro? “Avrei voluto fare un film sul rogo del Reichstag. Ma poi cadde il Muro di Berlino, e il mondo cambiò”» (Scorranese)

• «Quella del regista non è stata una vita facile, ma non la cambierei con nessun altro mestiere» • «L’età è un dato oggettivo, ma la combatto. Se non mi ricordo il nome di una persona incontrata per strada, a costo di scervellarmi fino alle 3 di notte, non vado a dormire fino a quando non ho risolto l’enigma. È uno sforzo che i vecchi devono compiere». «Invecchiare è assistere al proprio cedimento. Questo mi provoca un po’ d’ansia. Eppure, da un po’ di tempo, sento crescere in me una specie di tranquilla sicurezza. Non vorrei che fosse una forma di rincoglionimento».

«Montaldo, di che cosa ha maggiormente paura oggi? “Di dimenticare le cose che ho vissuto. Oggi rivivo i ricordi proprio come se ogni giorno girassi un film solo per me”» (Scorranese) • «Se penso che il destino mi aveva riservato un posto da facchino al porto di Genova, se mi passa la licenza, direi che ho avuto un gran culo».

Addio a Giuliano Montaldo, il Signore del Cinema. Il suo cinema da «Tiro al piccione» a «Sacco e Vanzetti». OSCAR IARUSSI su La Gazzetta del Mezzogiorno il 7 Settembre 2023

Giuliano Montaldo o del carattere italiano nei momenti difficili: la caparbietà e l’energia, il talento e l’estro. Montaldo, scomparso ieri a 93 anni, è stato ricordato da tanti colleghi, amici, allievi, studiosi. Alberto Barbera, direttore della Mostra di Venezia, ne parla come di «un grandissimo regista, attore, il più grande raccontatore di barzellette, un vero signore. Uno dei protagonisti che hanno contribuito a fare immenso il cinema italiano nel dopoguerra». A Montaldo e a sua moglie Vera Pescarolo il pugliese Fabrizio Corallo ha dedicato nel 2020 il documentario Vera & Giuliano. Non una mera biografia, bensì il racconto di una storia d’amore cominciata sessant’anni fa e che ha continuato a vibrare di progetti e sogni comuni, come quello di tornare in Mongolia dove la coppia trascorse mesi faticosi e felicissimi per le riprese di Marco Polo diretto da Montaldo nell’81, un successo Rai venduto in mezzo mondo e suggellato da un premio Emmy, l’Oscar della Tv.

La passione fra i due nacque da un colpo di fulmine nell’ufficio del produttore Leo Pescarolo, scomparso nel 2006, fratello di Vera, che si chiama come la mamma, Vera Vergani, attrice teatrale e del cinema muto negli Anni ’10-20 del secolo scorso, ammiratissima Oltreoceano. La Vergani conobbe il comandante di Marina Leonardo Pescarolo durante una traversata atlantica e per amore abbandonò le scene (era la sorella del giornalista e scrittore Orio Vergani). Una bella storia di famiglia cui nel film di Corallo contribuiscono con le loro testimonianze la figlia Elisabetta Montaldo, artista, e Inti Carboni, il figlio di Elisabetta, oggi produttore e aiuto regista, stretto collaboratore dei nonni sul set.

È il milieu vitale, ironico e politicamente impegnato del cinema italiano fin dagli Anni ’50 in cui si colloca da par suo Montaldo, nato a Genova il 22 febbraio 1930 e formatosi alla scuola impareggiabile del Neorealismo. Il «marziano genovese a Roma» - per dirla con il titolo dell’autobiografia scritta qualche anno fa insieme alla studiosa Caterina Taricano - trova ospitalità nella casa di Gillo Pontecorvo in via Massaciuccoli nel quartiere Trieste della Capitale, una sorta di «comune» in cui vivevano tra gli altri il regista Franco Giraldi e il critico Callisto Cosulich.

Ex giovanissimo partigiano nella sua Liguria, Montaldo debutta come attore quasi per caso nel 1951 quando Carlo Lizzani lo sceglie per il film resistenziale Achtung! Banditi! insieme a Gina Lollobrigida, da cui era impossibile non restare abbagliati. Le foto sul set mostrano un bel ragazzone, che diremmo abbastanza somigliante a Nicholas Cage, il nipote di Francis Ford Coppola, il quale sarà poi il protagonista di Tempo di uccidere tratto dall’omonimo capolavoro di Ennio Flaiano sulla guerra d’Africa, diretto da Montaldo nell’89. Alla Resistenza Montaldo dedicherà anche il commovente L’Agnese va a morire (1976) ispirato al romanzo di Renata Viganò (da riscoprire sia il libro sia il film).

Invece l’esordio da regista del Nostro è un fiasco, sebbene il film resti bellissimo, Tiro al piccione (1961), ritratto di un giovane fascista della Repubblica di Salò e della sua tormentata presa di coscienza, uno scandaglio delle ragioni di un ragazzo «dalla parte del torto». Seguiranno altri titoli memorabili, tra cui va ricordato almeno Sacco e Vanzetti del 1971, la ricostruzione del tragico caso giudiziario che portò all’illegale condanna a morte dei due anarchici italiani nell’America del 1927. Il film fruttò il premio di Cannes per il miglior attore al barese Riccardo Cucciolla nel ruolo del pugliese Nicola Sacco (mentre Volontè interpreta il piemontese Bartolomeo Vanzetti) e diventò un simbolo della contestazione giovanile anche in virtù della celeberrima ballata Here’s to You composta da Ennio Morricone. A cantarla è la soave e battagliera Joan Baez, che Montaldo conobbe all’indomani del suo arrivo a New York grazie ai buoni uffici del giornalista Furio Colombo.

Il regista tributò un omaggio a Cucciolla al Bif&st 2010, poco dopo il decennale della scomparsa dell’interprete, con la proiezione di Sacco e Vanzetti, fra le cui comparse figura anche Roberto Cicutto, presidente della Biennale di Venezia. L’ha ricordato ieri lo stesso Cicutto: «Ho fatto la comparsa perché al tempo guadagnavo 15mila lire e l’idea di passare due settimane a Cinecittà era bella. Mi commuove ricordare questa cosa personale, ma Giuliano Montaldo avrebbe detto “The show must go on”». Già, lo spettacolo deve continuare, il cinema resiste.

Addio a Giuliano Montaldo, il grande regista di "Sacco e Vanzetti". Si è spento a Roma il regista, attore e sceneggiatore Giuliano Montaldo, aveva 93 anni. Tra i suoi capolavori, "Sacco e Vanzetti", "Gli Occhiali d'oro" e il kolossal "Marco Polo". Roberta Damiata il 6 Settembre 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 I primi lavori da regista

 I grandi riconoscimenti

 Non solo cinema

Avrebbe compiuto 94 anni il prossimo 22 febbraio, il grande regista e sceneggiatore genovese Giuliano Montaldo, scomparso oggi nella sua casa di Roma. Nato nella città ligure ma diventato romano d'adozione, aveva iniziato la carriera come attore nel film Achtung! Banditi! nel 1952, recitando accanto a Gina Lollobrigida e ancora in Cronache di poveri amanti dividendo il set con Marcello Mastroianni. Tra le sue partecipazioni anche il film Il Caimano di Nanni Moretti e L'Abbiamo fatta grossa di Carlo Verdone.

I primi lavori da regista

Nel 1961 passa dietro la macchina da presa con il film Tiro al piccione, seguito da Una bella grinta nel 1965. Arrivano poi i grandi capolavori, come Gli Intoccabili del 1969 con John Cassavetes e Peter Falk, e la trilogia del potere con i film, Dio è con noi (1970), Sacco e Vanzetti (1971) e Giordano Bruno (1973), rispettivamente sul potere militare, giudiziario e religioso. Tra gli altri grandi film L’Agnese va a morire (1976) e Gli Occhiali d’Oro (1987) e ancora I demoni di San Pietroburgo (2008) e L’industriale (2011). Indimenticabile il kolossal in otto puntate Marco Polo del 1982. Oltre 20 i film da lui diretti molti dei quali con le musiche di Ennio Morricone con cui il grande maestro aveva formato un legame lavorativo molto proficuo.

I grandi riconoscimenti

Nel 2007 vinse il David di Donatello per la sua straordinaria carriera, ma molti altri furono i premi che gli vennero riconosciuti, tanti dei quali anche come attore. Nel 2017 un altro David come migliore attore non protagonista per la sua interpretazione in Tutto quello che vuoi di Francesco Bruni, nel 2012 un Nastro d’Argento speciale per il ruolo nel documentario Quattro volte vent’anni, diretto da Marco Spagnoli.

Non solo cinema

Montaldo fu anche un grande regista teatrale, sia in Italia che all'estero, di opere liriche come Turandot (1983), Il Trovatore (1990), La bohéme (1994), Otello (1994) Il flauto magico (1995), Nabucco (1997) e Tosca (1998) nella grande rappresentazione allo Stadio Olimpico di Roma. Nel 1999, e fino al 2009, fu il primo presidente di Rai Cinema e nel 2016-17 presiedette l'Accademia del Cinema Italiano-Premi David di Donatello. Nel 2002 fu nominato Cavaliere di Gran Croce dal Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi.

Nel 2021 ha dato alle stampe la sua autobiografia Un Grande Amore (Ed. La nave di Teseo), dove ha raccontato in prima persona la sua vita e la sua lunga carriera di oltre 70 anni, sia nelle vesti di attore che di regista e sceneggiatore, con una lunga parte dedicata alla moglie, compagna di vita e lavoro, Vera Pescaroli. Per volere della famiglia il funerale si terrà in forma privata.

Lutto nel mondo del cinema. È morto Giuliano Montaldo, addio al regista di “Sacco e Vanzetti” e “L’Agnese va a morire”. Regista e sceneggiatore, anche attore vincitore di un David di Donatello. Tra gli ultimi di una generazione di registi che ha fatto grande il cinema italiano a partire dagli anni Sessanta. Redazione Web su L'Unità il 6 Settembre 2023 

Salutano “l’eterno ragazzo del cinema italiano”, il “compagno” e “Partigiano”, il “regista dell’impegno”. Giuliano Montaldo era di certo uno degli ultimi grandi di una generazione di registi che avevano fatto grande il cinema italiano a partire dagli anni Sessanta. È morto, a 93 anni si è spento nella sua casa di Roma vicino alla moglie Vera Pescarolo, alla figlia Elisabetta e ai nipoti Inti e Hana Carboni. Per scelta della famiglia non si terranno esequie pubbliche.

Romano d’azione, genovese di nascita. A vent’anni arrivò a Roma con il sogno del cinema. Il regista Carlo Lizzani lo volle aiuto-regista nel 1951 per Achtung, Banditi!. Si girava in Liguria, Montaldo era pratico dei luoghi e si fece notare anche come attore. Per quanto gli venissero affidate altre piccole parti, era dietro la macchina da presa il suo posto, spinto anche da Elio Petri, istruito da Citto Maselli e Luciano Emmer. Esordì nel 1961 in Tiro al piccione, il successivo Una bella grinta uscì nel 1965. Poco successo di pubblico, anche la critica piuttosto severa.

Montaldo conquistò i produttori con i thriller Ad ogni costo con Edward G.Robinson e Gli intoccabili con John Cassavetes. Gott mit uns del 1970, ambientato nella Germania nazista, segnò il cambio di passo nella carriera e il primo capitolo di una trilogia sulle aberrazioni del potere che continuò con Sacco e Vanzetti e Giordano Bruno. Due grandi successi popolari con le grandissime interpretazioni di Gian Maria Volontè. Seguirono L’Agnese va a morire, gli otto episodi di Marco Polo per la televisione, Gli occhiali d’oro, Tempo di uccidere. Di nuovo attore con Nanni Moretti per Il Caimano, fu anche presidente del David di Donatello nel 2017. Statuetta che aveva vinto da attore non protagonista per Tutto quello che vuoi di Francesco Bruni.

Per anni alternò la regia cinematografica a quelle liriche – con Pavarotti, Placido Domingo, Cecilia Gasdia. E dal 1999 al 2004 fu Presidente di RaiCinema. Aveva raccontato la sua vita nell’autobiografia Un grande amore pubblicata da La Nave di Teseo. Aveva paura “di dimenticare le cose che ho vissuto. Oggi rivivo i ricordi proprio come se ogni giorno girassi un film solo per me” aveva raccontato in un’intervista al Corriere della Sera in cui rivelava che avrebbe sempre desiderato realizzare un film su Salvador Allende e un altro sull’incendio del Reichstag. Redazione Web 6 Settembre 2023

Addio a Steve Harwell, cantante degli Smash Mouth: la rockstar aveva 56 anni. Il frontman della band diventata famosa tra la fine degli anni '90 e l'inizio dei 2000, soffriva di epatite e aveva una forte dipendenza dall'alcol. Redazione Web su L'Unità il 4 Settembre 2023 

È morto all’età di 56 anni il cantante degli Smash Mouth, Steve Harwell. Il frontman storico della rock band, che era uno dei membri fondatori originali nel 1994, è deceduto questa mattina nella sua casa di Boise, nell’Idaho, a causa di un’insufficienza epatica, secondo quanto riferito dal suo manager a Tmz. Harwell era stato in una casa di riposo e gli erano stati concessi solo pochi giorni di vita.

Come è morto Steve Harwell cantante degli Smash Mouth

Il rocker stava combattendo la sua battaglia contro l’abuso di alcol e pare anche di droghe, tra gli altri disturbi. La sua band raggiunse la fama tra la fine degli anni ’90 e l’inizio degli anni 2000, grazie al loro album ‘Astro Lounge‘ che conteneva alcune delle canzoni più famose della band, come “All Star“. Harwell nel 2001 aveva perso un figlio stroncato da una leucemia fulminante. Il piccolo, avuto con l’ex Michelle Laroqu si chiamava Presley.

Il ricordo

“Era circondato da familiari e amici e si è spento serenamente“, ha detto il manager. Questo il ricordo della band, con la quale Harwell ha venduto più di 10 milioni di dischi: “Steve Harwell era vero americano. Un personaggio più grande della vita stessa, che si è alzato nel cielo come un fuoco d’artificio. Dovrebbe essere ricordato per la sua incrollabile concentrazione e l’appassionata determinazione nel raggiungere la vetta della celebrità nel pop. E il fatto che abbia raggiunto questo obiettivo quasi impossibile con un’esperienza musicale molto limitata rende i suoi successi ancora più eccezionali. I suoi unici strumenti erano un fascino e un carisma irrefrenabili, la sua ambizione impavida e spericolata». Una vita «vissuta a tutto gas, bruciando brillantemente attraverso l’universo prima di spegnersi“. Redazione Web 4 Settembre 2023

E’ morto il cantautore Jimmy Buffett.

Jimmy Buffett, morto il cantautore Usa divenuto celebre per «Margaritaville». Storia di Redazione Spettacoli su Il Corriere della Sera sabato 2 settembre 2023.

Addio al cantante country americano e imprenditore di successo Jimmy Buffett, diventato famoso con la sua hit del 1977 «Margaritaville». Buffett è morto venerdì sera all'età di 76 anni, secondo una dichiarazione pubblicata sul suo sito web. «Jimmy ci ha lasciato serenamente la notte del primo settembre, circondato dalla sua famiglia, dai suoi amici, dalla sua musica e dai suoi cani. Mancherà a tanti». Le cause del decesso non sono state al momento rese note. «È una notizia molto triste, un uomo adorabile se n'è andato troppo presto — ha reagito su Instagram il cantante britannico Elton John —. Jimmy Buffett era un artista unico e prezioso».

La sua celebre hit dal sapore caraibico, «Margaritaville», è rimast« in cima alle classifiche di Billboard per 22 settimane, fungendo da trampolino di lancio per una carriera musicale di successo ma anche nel mondo degli affari. Soprannominato il «sindaco di Margaritaville», il cantante ha prodotto una trentina di album nel corso della sua carriera, mescolando sonorità country, folk e caraibiche e sviluppando con successo catene di hotel, ristoranti e negozi, capitalizzando la sua immagine easy, che celebrava che celebrava le Florida Keys, il sole e la vita notturna.

Nato il 25 dicembre 1946 nello stato del Mississippi ma cresciuto nella vicina Alabama, Buffett aveva iniziato a suonare la chitarra al college, inizialmente esibendosi per strada e su piccoli palchi a New Orleans, secondo il suo sito web. Ha pubblicato il suo primo album nel 1970, l'inizio di una ricca carriera che lo ha portato anche alla pubblicazione di libri bestseller, nonché ad apparizioni nel cinema o in televisione e persino sui palcoscenici di Broadway, con il suo musical «Escape to Margaritaville». Si prevedeva che il cantante avrebbe pubblicato un nuovo album entro la fine dell'anno. Il cantante dei Beach Boys Brian Wilson ha reso omaggio a Jimmy Buffett su X (ex Twitter), pubblicando una foto della copertina dell'album «Havana Daydreamin», pubblicato nel 1976. «Amore e misericordia, Jimmy Buffett», ha scritto nella didascalia.

Estratto da tgcom24.mediaset.it sabato 2 settembre 2023.

È morto a 68 anni Jack Sonni, nome legato ai Dire Straits. Il chitarrista infatti si unì alla band, con altri turnisti, su invito di Mark Knopfler per registrare l'album cult "Brothers in arms". Sonni partecipò poi al relativo tour mondiale, uno dei maggiori successi nella storia della band britannica, e suonò anche al Live Aid a Wembley, il 13 luglio 1985. La causa della sua morte non è stata però ancora rivelata.

Morto Sixto Rodriguez, il cantante che visse due volte

John Sonni era nato in Indiana nel 1954 e aveva studiato al Conservatorio. Trasferitosi a New York alla fine degli anni 70, aveva fondato la band The Leisure Class. Nel 1978 mentre lavorava in un negozio di musica, proprio dove incontrò David e Mark Knopfler, con cui iniziò un rapporto di amicizia. Dopo aver collaborato con i Dire Straits per il disco e il tour, il musicista statunitense ha lavorato con aziende produttrici di strumenti e accessori musicali, ha intrapreso la carriera di scrittore e negli ultimi anni era tornato a suonare con la sua band originaria.

[…]

(ANSA l'1 settembre 2023 ) - Mohamed al Fayed, l'ex proprietario di Harrods il cui figlio Dodi rimase ucciso insieme alla principessa Diana in un incidente stradale, è morto all'età di 94 anni. La sua vita, raccontata dalla Bbc, inizia in Egitto, dove nacque il 27 gennaio 1929. Mohamed al Fayed costruì un impero commerciale in Medio Oriente prima di trasferirsi nel Regno Unito negli anni Settanta, senza mai riuscire a realizzare l'ambizione di ottenere un passaporto per il suo Paese d'adozione. 

Dopo la morte del figlio maggiore Dodi in un incidente d'auto insieme alla principessa Diana, al Fayed ha passato anni a interrogarsi sulle circostanze della loro morte. Nell'ultimo decennio, al Fayed era rimasto in gran parte lontano dalle luci della ribalta pubblica, vivendo nella sua villa nel Surrey con la moglie Heini. In una dichiarazione rilasciata questa sera, la sua famiglia ha affermato che: "La signora Mohamed al Fayed, i suoi figli e i suoi nipoti desiderano confermare che il suo amato marito, il loro padre e il loro nonno, Mohamed, si è spento serenamente di vecchiaia mercoledì 30 agosto 2023. Ha goduto di una lunga e soddisfacente pensione circondato dai suoi cari".

Il Fulham Football Club, di cui Fayed era stato proprietario negli anni '90, ha dichiarato stasera di essere "incredibilmente rattristato" per la sua morte. "Abbiamo un debito di gratitudine nei confronti di Mohammed per ciò che ha fatto per il nostro club e i nostri pensieri sono rivolti alla sua famiglia e ai suoi amici in questo triste momento", ha dichiarato in un comunicato. Il suo successore al club, Shahid Khan, ha espresso le sue condoglianze in un tributo sul sito web del club, "La storia del Fulham non può essere raccontata senza un capitolo dedicato all'impatto positivo del signor Al Fayed come presidente", ha dichiarato.

 "La sua eredità sarà ricordata per la promozione in Premier League, per la finale di Europa League e per i momenti di magia vissuti da giocatori e squadre". Al Fayed è passato dalla vendita di bibite gassate per le strade della natia Alessandria d'Egitto a diventare un grande nome del mondo degli affari. 

La svolta è arrivata dopo l'incontro con la prima moglie, Samira Khashoggi, sorella del milionario saudita Adnan Khashoggi, che assunse nella sua attività di importazione in Arabia Saudita.

Il matrimonio durò appena due anni ma l'azienda di spedizioni non fermò la sua ascesa e nel 1966 al Fayed divenne consulente di uno degli uomini più ricchi del mondo, il Sultano del Brunei. Nel 1974 il trasferimento in Gran Bretagna. Cinque anni dopo acquista l'hotel Ritz di Parigi con il fratello Ali per 20 milioni di sterline. Nel 1985 rileva Harrods per 615 milioni di sterline, dopo una feroce guerra di offerte con il gruppo minerario Lonrho. 

Sotto la sua proprietà, il Fulham FC è passato dalla terza serie alla Premier League. E' stato un grande benefattore. Ha donato grandi somme di denaro a enti di beneficenza, tra cui il Great Ormond Street Hospital. Nel 1987 ha istituito la Al Fayed Charitable Foundation per migliorare la vita dei giovani poveri e molto malati.

È dal suo hotel Ritz di Parigi che il figlio Dodi, produttore cinematografico, e l'allora compagna Diana, Principessa del Galles, sono partiti prima dell'incidente d'auto che li ha uccisi entrambi nel 1997. Al Fayed fallì due volte nel tentativo di ottenere la cittadinanza britannica. 

Nella seconda occasione, nel 1995, infuriato per il rifiuto, dichiarò alla stampa di aver pagato due ministri conservatori, Neil Hamilton e Tim Smith, perché facessero domande alla Camera dei Comuni sui suoi interessi. Entrambi lasciarono il governo e Hamilton, che negò le accuse, perse anche una causa per diffamazione contro Al Fayed. Nel 2010, al Fayed ha venduto Harrods al fondo sovrano del Qatar. Quasi la metà del prezzo di acquisto è stata utilizzata per ripianare i debiti dell'azienda.

Mohamed al Fayed morto. Suo figlio Dodi morì insieme alla principessa Diana. Enrico Franceschini su La Repubblica l'1 Settembre 2023.  

L’imprenditore aveva 94 anni. Era stato proprietario dei grandi magazzini Harrods e della squadra di calcio del Fulham

Se n’è andato il giorno prima del ventiseiesimo anniversario della scomparsa del suo amatissimo figlio e dunque anche della principessa Diana, che era con lui in quella tragica notte a Parigi. Il destino li ha legati così fino all’ultimo, Mohammed al Fayed, il miliardario egiziano che fu a lungo proprietario dei grandi magazzini Harrods di Londra, e Dodi al Fayed, il giovane playboy che avrebbe potuto diventare il patrigno musulmano del principe William, l’attuale erede al trono britannico. A differenza del figlio, la cui fine è stata un giallo o come minimo un dramma che ha fatto palpitare il mondo, il padre è deceduto di vecchiaia, 94enne, nella sua residenza londinese, con accanto altri figli e la seconda moglie, una ex fotomodella finlandese di trent’anni più giovane. Ma se sia stata una morte serena, come si suole dire in questi casi, potrebbe dirlo soltanto lui.

Il dramma della morte di Dodi

Per moltissimo tempo, infatti, al Fayed si era battuto per dimostrare che suo figlio Dodi e lady D erano morti per un complotto, ordinato dal principe Filippo in persona, dunque dai vertici della famiglia reale, allo scopo di impedire che la monarchia finisse per imparentarsi con una famiglia egiziana di fede islamica. La cosiddetta teoria della cospirazione, a cui hanno creduto e credono ancora in tanti, sebbene sia stata smentita da tutte le indagini, oltre che da un semplice dettaglio: se quella notte nel tunnel parigino la principessa avesse indossato la cintura di sicurezza, si sarebbe salvata. Un piccolo fatto che nessun complotto sarebbe stato in grado di prevedere. Ma per i patiti delle cospirazioni, i fatti non contano niente. E anche se alla fine al Fayed fu costretto a riconoscere in un’aula di tribunale che le sue accuse erano prive di fondamento, chissà se quando si è spento, 24 ore prima dell’anniversario della morte del figlio, i suoi ultimi pensieri sono stati ancora una volta funestati dal sospetto di un colossale complotto.

Gli affari

Nato nel 1929 ad Alessandria d’Egitto da una famiglia della classe media, Mohammed aprì con i fratelli una compagnia di spedizioni via mare, prima nel suo Paese, quindi in Italia, a Genova, infine a Londra. A fargli fare fortuna in Inghilterra, nel settore edile, furono all’inizio disinvolte amicizie con Papa “Doc” Duvalier, il dittatore di Haiti, e con l’emiro del Dubai. Nel 1979 comprò il mitico Hotel Ritz di Parigi. Cinque anni dopo acquistò i non meno leggendari magazzini Harrods a Londra. Seguirono altre acquisizioni, non prive di controversie e cause legali. Non poteva mancare la proprietà di una squadra di calcio della capitale: il Fulham.

Ma l’affare più grande della sua vita sfumò per l’appunto tragicamente. Nel 1996, dopo il divorzio di Diana dal principe Carlo, la principessa cominciò una relazione con Dodi, il figlio di al Fayed, che l’estate seguente la intratteneva insieme ai figli William e Harry sul suo yacht a Montecarlo. Poi la coppia volò a Parigi, soggiornando nell’albergo dei Fayed, il Ritz. La sera del 31 agosto 1997, la loro auto, guidata da un’autista fornito dall’hotel e inseguita dai paparazzi, andò a sbattere contro un pilastro di un tunnel, uccidendo Dodi, Diana e l’autista: si salvò soltanto la guardia del corpo di lady D, l’unico che aveva allacciato la cintura.

Gli ultimi anni

Distrutto dal dolore, al Fayed sostenne che Diana era incinta, che avrebbe sposato Dodi, e che era stata uccisa per volere dei Windsor al fine di evitare che William, futuro re, avesse un giorno un fratellastro musulmano dalla pelle scura. La sua insistenza nella tesi della cospirazione fu tale da risultare in un processo per diffamazione. I giudici stabilirono che Dodi e Diana erano morti per l’ubriachezza dell’autista e l’alta velocità della macchina. Una perizia rivelò che Diana, al momento della morte, non stava aspettando un bambino. Nemmeno quello convinse al Fayed: la perizia, affermò, faceva parte del complotto. Ma al termine del procedimento fu costretto ad ammettere a denti stretti che le sue accuse erano senza prove.

Di lui si è continuato a parlare anche dopo la morte del figlio e della eventuale nuora. Fece costruire per loro un memoriale piuttosto kitsch all’interno di Harrods.

Nel 2010 ha venduto i grandi magazzini all’emiro del Qatar per 1 miliardo e mezzo di sterline, pari a quasi 2 miliardi di euro: somma che, aggiunta agli altri suoi investimenti, ne faceva tuttora il 1493esimo uomo più ricco della terra. Nel frattempo si era risposato, con una ex-top model finlandese, Heini Wathen. E aveva dovuto difendersi da accuse di molestie sessuali da numerose sue dipendenti, oltre che da una ragazza minorenne.

Era sicuramente un personaggio stravagante. Quando lo incontrai, a una serata promozionale da Harrods per il lancio di un prodotto italiano, era a braccetto con una donna giovane e bellissima. “Lei è italiano eh?”, mi disse, quindi estrasse di tasca tre o quattro pilloline di colore blu e le depose nella mia mano. “Ah, ah”, rise davanti alla mia reazione sorpresa, “non è mica Viagra, sono mentine!”. In quel momento, il dolore per la morte del figlio, la tempesta di polemiche sul presunto complotto della monarchia contro la sua famiglia, sembravano lontani. Ma il passato non è mai morto, non è nemmeno mai del tutto passato, come scriveva Faulkner, e il destino lo ha unito al figlio sino alla fine, facendogli esalare l’ultimo respiro alla vigilia dell’anniversario della morte di Dodi.

Al Fayed, il miliardario che accusò la Casa reale e non diventò mai british. Storia di Tony Damascelli su Il Giornale il 3 settembre 2023.

Mohamed Al Fayed è morto un giorno prima di suo figlio, ventisei anni dopo. C'è un legame tra la sua scomparsa e quella della regina Elisabetta II e del suo consorte Filippo. Perché proprio l'egiziano Mohamed Fayed, che a Londra aggiunse al proprio cognome l'Al, denunciò un complotto omicida della famiglia reale teso a eliminare, in una notte sola, quella del 31 agosto del 1997, suo figlio Dodi e la principessa Diana a lui legata, per impedire il matrimonio di una principessa con un musulmano. Furono giorni, settimane e mesi di voci cattive per i reali inglesi e per il gossip dei tabloid britannici. Fayed era convinto delle proprie parole, definì i Windsor «la famiglia Dracula». I fedeli della religione musulmana si sono riuniti alla moschea in Regent's Park e il funerale si svolgerà secondo i riti dello stesso credo.

La storia e l'avventura di Mohammed Fayed parte da Alessandria di Egitto in una data non sempre definita, lui accreditava il 1933, in seguito si accertò che la nascita risaliva al 1929. Fece lavori vari, tra questi facchino al porto, prese a vendere macchine per cucire e bibite quando conobbe e si innamorò, su una spiaggia di Alessandria d'Egitto, di Samira Khashoggi, sorella di Adnan, imprenditore e trafficante d'armi che lo assunse al settore import export. Il matrimonio venne celebrato nel 1954, si sciolse due anni dopo e in quell'arco di tempo nacque Dodi. Nel 1958 Fayed partì per Genova, per poi trasferirsi a Londra dove si improvvisò consigliere del sultano del Brunei e creò la Genevaco, una ditta di spedizioni e, dopo un incontro con lo sceicco del Dubi, si occupò del cantiere di riparazioni marittime in quel porto. Gli affari andavano a mille, nel giro di pochissimi anni Fayed arrivò a comprare, era il 1979, il Ritz Hotel di Parigi, il sito da cui partì l'ultimo viaggio in auto di suo figlio e di Diana. Ormai aveva chiaro il suo progetto, mettersi in concorrenza con i capitalisti inglesi e la tappa più clamorosa avvenne quando superò l'offerta presentata dal colosso delle estrazioni minerarie, la Lonrho (del cui board aveva fatto parte per nove mesi), per l'acquisto della House of Fraser, la holding che controllava i grandi magazzini Harrod's, una istituzione inglese, quasi come la famiglia reale. Il governo di Londra, sollecitato dall'azionista di Lonrho, Roland Rowland, accusò Fayed, che aveva aggiunto l'Al al proprio cognome, di avere manipolato le carte dell'offerta e dell'acquisto. Fayed dimostrò di avere un patrimonio trasparente e quindi in regola per comprare Harrod's, l'affare si concluse per 615 milioni di sterline. Per completare la sfida, prese in locazione, per anni 50, la dimora parigina dei duchi Edoardo e Wallis, provvedendo a un restauro faraonico che gli valse, nel 1989, il più alto riconoscimento della città. Non si fermava il contenzioso con il governo, venne accusato di avere corrotto due ministri che avevano presentato interrogazioni parlamentari in suo favore, accertati i fatti i due parlamentari rassegnarono le dimissioni. Ma ormai l'attività di Fayed non aveva limiti, cercò di comprare London News Radio, fece un'offerta per l'Observer e acquistò la rivista umoristica Punch. Tentò in tutti i modi di ottenere la cittadinanza britannica, richiesta puntualmente respinta. Sovvenzionò senza successo la campagna elettorale di numerosi candidati del Partito conservatore. Decise di investire nello sport, acquistando il Fulham, di cui divenne presidente, e chiese a Michael Jackson di presenziare alle partite al Craven Cottage di Londra. Il club fu poi venduto al milionario Shahid Khan. Nel 2006 mise sul mercato le azioni di Harrod's che passarono, in cambio di due miliardi e mezzo di sterline, nella proprietà di un fondo qatariota.

Non aveva mai rinunciato all'accusa contro i Windsor per la morte del figlio nell'incidente sotto il ponte dell'Alma di Parigi. Le indagini avevano escluso qualunque coinvolgimento della famiglia reale ma Mohammed Al Fayed ha lasciato in eredità ai suoi cinque figli e alla moglie, Heini Wathèn, ex modella finlandese, il sospetto che il regno inglese abbia messo fine ad un bellissimo matrimonio, in quell'ultima notte di agosto. La stessa che si è portata via Mohammed e la sua lunga storia.

È morto a 94 anni Mohamed Al Fayed, padre di Dodi. Redazione su Il Riformista l'1 Settembre 2023 

È morto a 94 anni Mohamed Al Fayed, l’imprenditore egiziano proprietario dei grandi magazzini Harrods e della squadra di calcio del Fulham.

Era padre di Dodi  che rimase ucciso il 31 agosto del 1997 insieme a Diana in un incidente stradale a Parigi.

In un comunicato diffuso dal Fulham FC, la sua famiglia ha dichiarato: “La signora Mohamed Al Fayed, i suoi figli e i suoi nipoti desiderano confermare che il suo amato marito, il loro padre e il loro nonno, Mohamed, si è spento pacificamente per vecchiaia mercoledì 30 agosto 2023. Ha goduto di una lunga e soddisfacente vecchiaia circondato dai suoi cari. La famiglia chiede di rispettare la sua privacy in questo momento”.

Mohamed Al-Fayed è stato un imprenditore egiziano nato il 27 gennaio 1929 ad Alessandria in Egitto. Era noto per i suoi interessi commerciali nel Regno Unito, che includevano la proprietà dell’Hôtel Ritz a Parigi e, in precedenza, del grande magazzino Harrods e del Fulham F.C., entrambi a Londra. Al momento della sua morte, la sua ricchezza era stimata in circa 2 miliardi di dollari USA.

Al-Fayed è nato come figlio maggiore di un insegnante di scuola primaria. Ha iniziato la sua carriera imprenditoriale in Egitto, fondando una compagnia di spedizioni prima di trasferire la sede a Genova, Italia. Negli anni ’60, si trasferì in Inghilterra e divenne un consulente finanziario per il Sultano del Brunei. Nel 1979, insieme al fratello Ali, acquistò l’Hotel Ritz di Parigi. L’obiettivo successivo dei Fayed divenne il mitico grande magazzino londinese Harrods, tempio dello shopping mondiale e simbolo del Regno Unito, e nel 1985 i fratelli riuscirono ad aggiudicarsi il negozio di Knightsbridge con un’offerta pubblica di acquisto di 615 milioni di sterline. Ha mantenuto la proprietà del negozio dopo l’ingresso del gruppo Frasers nel mercato pubblico fino al 2010, quando lo ha venduto alla Qatar Holding.

Si è sposato due volte: la prima con Samira Khashoggi dal 1954 al 1956, con cui ha avuto un figlio, Dodi, e la seconda con l’ex modella Heini Wathén nel 1985, con cui ha avuto quattro figli.

Dodi Al-Fayed è noto per la sua relazione con Diana, Principessa del Galles; entrambi sono morti in un incidente d’auto a Parigi nel 1997. Mohamed Al-Fayed è stato una figura controversa, spesso al centro di polemiche e teorie del complotto, soprattutto riguardanti la morte di suo figlio e Diana. Il miliardario infatti ha combattuto una lunga campagna dopo la morte di Dodi e Diana, sostenendo che l’incidente non era stato un incidente e che era stato orchestrato dai servizi di sicurezza britannici. Tuttavia, la polizia francese concluse che si era trattato di un incidente, causato dall’eccesso di velocità e dall’elevato tasso di alcol nel sangue del conducente Henri Paul. Nel 2006, un’inchiesta della polizia metropolitana guidata da Lord Stevens non ha trovato prove a sostegno delle affermazioni sul coinvolgimento dei servizi di sicurezza. Al Fayed divenne amico di Diana grazie alla sua sponsorizzazione di enti di beneficenza e di eventi a cui partecipavano i membri della famiglia reale.

Addio ad Alessandro Vento, il genio dei siti web che sapeva sognare. Storia di Alessio Ribaudo su Il Corriere della Sera domenica 27 agosto 2023.

Sin dai primi vagiti la sua vita era stata scandita dal ticchettio di macchine per scrivere, le narici piene dell’inebriante odore che solo l’inchiostro ancora caldo lascia impresso nella carta dei giornali. L’editore Alessandro Vento — scomparso ieri a 45 anni all’ospedale Humanitas di Rozzano, dopo aver lottato con tutte le sue forze contro una malattia tanto subdola quanto cattiva — era figlio d’arte. Suo padre Pietro, un maestro per tanti giovani giornalisti siciliani, era stato direttore ed editore dello storico settimanale «Trapani Sera». Gli insegnò a separare i fatti dalle opinioni, a confrontare la stessa notizia su più giornali e, soprattutto, il rispetto «sacrale» per la verità. Punti cardinali che Alessandro non ha mai perso di vista neanche dopo la scomparsa del padre quando aveva appena 12 anni.

La formazione

Dopo aver frequentato la scuola militare «Nunziatella» di Napoli aveva collaborato con passione con radio, tv e quotidiani locali del Trapanese. Così, alla fine degli anni Novanta, poco più che maggiorenne arrivò il primo passo verso il giornalismo: un’opportunità a «Oggi Sicilia», quotidiano dell’allora gruppo Ciarrapico, che gli consentì di diventare giornalista professionista a 22 anni. Un impegno che non gli fece perdere di vista lo studio universitario e la passione per l’informatica. Quella che, ben presto, lo mise in luce nel mondo dell’editoria nazionale. Il Tempo di Roma lo chiamò come manager per implementare i sistema informatici e lì rimase quasi due anni. Poi il grande salto in Rcs Mediagroup dove si occupò prima a Padova del e poi fu chiamato a Milano come planning & circulation manager. Sette anni in cui seppe essere giornalista fra i giornalisti, manager fra i manager e tipografo fra i tipografi. Tanto che i colleghi più vicini gli affibbiarono il soprannome di «domatore delle rotative». Fra i corridoi di via Solferino questo ragazzone alto, imponente anche nel timbro vocale, correva con lo smartphone perennemente incollato all’orecchio per trovare soluzioni a problemi che sembravano irrisolvibili conquistandosi la fiducia e la stima di direttori e amministratori delegati.

L’imprenditoria

La scelta di diventare imprenditore avvenne nel 2010 quando lasciò Rcs per fondare una sua azienda: D-Share. Lui che sapeva sognare ma lavorare sino allo stremo per tagliare i traguardi che si poneva, seppe farla diventare nel giro di pochi anni leader nel mercato delle tecnologie per i media. Dai progetti digitali alle soluzioni software editoriali passando per radio, agenzie di stampa. Nel giro di poco tempo aveva già cinquanta dipendenti. Arrivarono anche le collaborazioni all’estero: dall’Huffington Post negli Stati Uniti al quotidiano argentino Clarin sino al francese Le Figaro, lo spagnolo El Pais L’Espresso. Quindi nel 2020 la scelta di cedere la maggioranza all’Agenzia giornalistica Italia, gruppo Eni, fondare un’innovativa App di video-informazione che chiamò . Come tutti i siciliani di mare aperto che, per dirla con Sgalambro, prima o poi si fece attrarre dalla legge dell’appartenenza e decise di ritornare alle radici. A Palermo assunse 12 giornalisti e lanciò il progetto lo scorso febbraio. È stata l’ultima sua avventura, condivisa e intervallata dal tempo trascorso con la compagna Carolina e i due figli — Paolo, 15 anni e Anna, 13 — avuti con la moglie Francesca dalla quale era separato. Negli ultimi mesi, una malattia subdola e cattiva lo ha aggredito ma lui ha provato a tenergli testa sino alla fine. «Sono in forte ripresa», provava a rassicurare gli amici più intimi con i quali, non molte settimane fa, discuteva con la passione di sempre dello sviluppo di Sallo!, del futuro dell’editoria e di nuovi progetti che gli frullavano per la testa. La voce, quella forte e stentorea di sempre, lo faceva immaginare non aggredito dai graffi della malattia ma forte e veloce come un centometrista. Lo stesso che mentre saliva e scendeva da una scaletta di aereo in Lituania era capace di telefonare per pochi secondi per dire: «Dobbiamo confrontarci su una nuova idea ma ti richiamo appena scalo a Parigi perché poi quando arriverò a New York avrò una riunione dietro l’altra». Così, magari, si scopriva che l’aveva chiamato il New York Times. Del resto, quando la situazione nei giornali di mezzo mondo sembrava impossibile da risolvere il suo telefono iniziava a squillare. Alessandro sembrava correre sempre più veloce di tutti, stupiva la sua capacità di riempire la giornata di appuntamenti da un punto all’altro dell’Italia ma riusciva a trovare un’ora per una cena con gli amici al «Rigolo». Il suo posto del cuore dove si sentiva coccolato come a casa e si lasciava andare a confidenze, sogni, risate. Erano sorprese, improvvise, inaspettate. Come quella volta che, lo scorso 12 maggio, cancellò tutti i suoi appuntamenti per sfidare a basket suo figlio. Postò una foto su Facebook: «In un periodo infernale come — credetemi — non potete immaginare, oggi ho disdetto due call e buttato via il pc per andare a giocare un’ora a basket in un campetto con mio figlio, che è più alto di me e che me le ha suonate di santa ragione. È stata, di gran lunga, la cosa più bella e più importante che io abbia fatto in questi anni. Grazie Paolo». Per anni Alessandro, con fogli excel, grafici e, all’occorrenza telefonate provvidenziali, ha saputo indicare con chiarezza ai giornalisti quando era ora di fermare i polpastrelli sulla tastiera per andare in stampa e in edicola. Con il suo carattere sempre che scorreva su un filo di lama fra ironia e rigore era capace di mettere in guardia dai pericoli, raccontarti come poteva essere migliore il futuro. Una generosità d’animo rara che si concretava con la capacità di protezione degli amici di cui era confidente attento. Aveva la capacità di donarsi senza far pesare i suoi problemi che raccontava solo ai più intimi in modo sfumato. Ecco perché forse la notizia della sua morte, mutuando un gergo giornalistico, ha dato il «buco» a tutti. Nessuno avrebbe mai immaginato che, proprio lui che con la sua fisicità faceva sentire la sua presenza, sarebbe uscito di scena in punta di piedi: in silenzio quasi a non voler «disturbare» le tantissime persone che lo avevano stimato e amato.

Estratto dell’articolo di Daniele Seclì per fanpage.it domenica 27 agosto 2023.

È morta Hersha Parady, l'attrice molto amata per il ruolo dell'insegnante Alice Garvey nella serie La casa nella prateria, aveva 78 anni. La morte è avvenuta mercoledì 23 agosto a Norfolk, in Virginia. Parady si trovava nella casa del figlio Jonathan Peverall. Quest'ultimo ha fatto sapere a The Hollywood Reporter, che sua madre aveva un tumore al cervello. 

L'attrice Hersha Parady è entrata a far parte del cast della serie La casa nella prateria nel 1976, interpretando in un solo episodio Eliza, cognata di Charles Ingalls. Dal 1977, poi, tornò nella serie con un ruolo che mantenne fino al 1980, dunque dalla quarta alla sesta stagione. Interpretava Alice Garvey, l'insegnante della scuola di Walnut Grove. 

[…] Protagonista di uno dei momenti più drammatici della serie fu proprio il personaggio di Alice Garvey. L'insegnante moriva tragicamente in un incendio scoppiato nella scuola per ciechi, tentando di salvare gli allievi.

Nella vita di Hersha Parady, il lungo amore con il produttore John Peverall, da cui ebbe il figlio Jonathan che in questi giorni piange la sua morte. Nata il 25 maggio 1945 in Ohio, prima di raggiungere Los Angeles si era accostata all'arte della recitazione nei teatri locali. 

Dopo avere interpretato alcuni ruoli, fece il provino per vestire i panni di Caroline Ingalls nella serie La casa nella prateria, ma venne scelta l'attrice Karen Grassle. Così, nella stessa serie, interpretò prima la cognata di Charles Ingalls per un solo episodio e poi l'insegnante Alice per 35 episodi. Dopo la Casa nella Prateria ha recitato nei film Raw Courage e The Break. Inoltre, ha preso parte a numerose serie tv.

(AGI venerdì 25 agosto 2023) - E' morto in California all'età di 84 anni David Jacobs, sceneggiatore e produttore della soap culto degli anni '80 'Dallas' e del suo spin off 'California' (Knots landing), andate in onda sulla Cbs e sulle emittenti di mezzo mondo. Gli era stato diagnosticato l'Alzheimer ed e' deceduto in seguito a una serie di infezioni. 

'Dallas' partì nel 1978 come una mini-serie in cinque puntate ma ebbe un tale successo che ando' avanti per 14 stagioni e 357 episodi, fino al 1991. Fu una delle prime serie a essere distribuite in quasi tutto il mondo (90 Paesi) con doppiaggi in 67 lingue diverse. Gli episodi più famosi rimangono l'attentato a J.R. e quello in cui si svelava il colpevole che fu seguito in America da più di 83 milioni di persone, con uno share del 76%. Anche la serie 'California', ambientata in un sobborgo di Los Angeles, e' andata avanti per 14 stagioni sulla Cbs per un totale di 344 episodi, tra il 1979 e il 1993.

(AGI) - Nato a Baltimora, Jacobs inizo' a lavorare scrivendo libri e articoli per il New York Times e riviste come Esquire e Newsweek. Grazie alla sceneggiatura di "In casa Lawrence", in onda su Abc tra il 1976 e 1980, Jacobs aveva ottenuto un contratto la Lorimar Productions dove insieme al giovane dirigente Michael Filerman fu ideata 'Dallas'. Il protagonista era il petroliere J.R. Ewing, interpretato da Larry Hagman. 

Jacobs firmo' le prime due stagioni e resto' il consulente creativo di "Dallas" per tutta la durata della serie. Scrisse le prime puntate della serie senza esser mai stato a Dallas: "Pensavo, mi atterro' agli stereotipi e poi ci andro' e li correggero'. Poi ci sono andato e ho capito che mi potevo spingere oltre, c'e' qualcosa della citta' e dei suoi abitanti che puo' essere definita stravagante ma non e' mai ostentazione".

'Dallas' era stata rifatta nel 2012 ma con critiche contrastanti e la serie ando' in onda 'solo' per tre stagioni. Sempre per la Cbs, Jacobs ha anche co-creato "Paradise", un western andato in onda per tre stagioni (1988-91), e ha creato "Four Corners". 

Morto David Jacobs, l’ideatore delle serie tv «Dallas» e «California». Redazione Spettacoli su Il Corriere della Sera il 23 agosto 2023.  

Lo sceneggiatore e produttore che cambiò il volto della televisione negli anni ‘80 è scomparso in seguito alle complicazioni legate a una serie di infezioni

Lo sceneggiatore e produttore statunitense David Jacobs, creatore delle soap opera di grande successo «Dallas» e «California», è morto all’età di 84 anni al Providence Saint Joseph Medical Center di Burbank, in California. L’annuncio della scomparsa, avvenuta domenica 20 agosto, è stato dato dal figlio Aaron a «The Hollywood Reporter», precisando che il padre aveva combattuto il morbo di Alzheimer nel corso degli anni ed è deceduto per complicazioni dovute a una serie di infezioni.

«Dallas» nella sua versione originale è andato in onda per 14 stagioni e 357 episodi sulla rete americana Cbs, iniziando come miniserie in cinque parti nell’aprile 1978 prima di concludersi nel maggio 1991, ed è stato lo spettacolo n. 1 nelle classifiche Nielsen dopo la quarta, quinta e settima stagione. Nel frattempo, lo spin-off «Knots Landing» (in italiano nota con il titolo «California») ha debuttato nel dicembre 1979, sempre sulla Cbs, ed è andato in onda per 14 stagioni — e 344 episodi — un solido punto fermo del giovedì sera fino a maggio 1993.

Basandosi sul suo lavoro come story editor per la serie della Abc «In casa Lawrence» (1976-80), Jacobs aveva siglato un contratto con la Lorimar Productions, dove aveva stretto un’amicizia con Michael Filerman, un giovane dirigente dello sviluppo dei programmi tv. Dal loro incontro nacque poi «Dallas» con Larry Hagman nei panni del petroliere J.R. Ewing, di cui Jacobs ha firmato per intera le prime due stagioni. Jacobs è rimasto, tuttavia, un consulente creativo di «Dallas» per tutta la durata della serie. Per la Cbs, Jacobs ha anche co-creato «Paradise», un western andato in onda per tre stagioni (1988-91), e ha creato «Four Corners», durato cinque episodi nel 1998. È stato anche produttore esecutivo di «Lois & Clark: Le nuove avventure di Superman» (1993) e di «Homefront - La guerra a casa», ottenendo due nomination agli Emmy nel 1991-92 per il suo lavoro. Come sceneggiatore David Jacobs ha firmato anche episodi delle serie tv «Kazinski», «La sindrome di Lazzaro», «I segreti di Midland Heights» e «Shannon».

Da Ansa e Cinquantamila.

Da Il Corriere della Sera.

Da La Stampa.

Da L’Identità.

Da L’Inkiesta.

Da La Gazzetta del Mezzogiorno.

Da Il Corriere del Giorno.

Da Il Giornale.

Da Libero Quotidiano.

Da Il Riformista.

Da L'Unità.

Da Fanpage.it

Da Ansa e Cinquantamila.

(ANSA martedì 22 agosto 2023) - - È morto Toto Cutugno. A 80 anni appena compiuti a luglio il cantautore si è spento oggi intorno alle 16 all'ospedale San Raffaele di Milano dove era ricoverato. A dare la notizia all'ANSA è il suo manager Danilo Mancuso che spiega che, ''dopo una lunga malattia, il cantante si era aggravato negli ultimi mesi''.

Da cinquantamila.it – la storia raccontata da Giorgio Dell’Arti”

• (Salvatore) Fosdinovo (Massa Carrara) 7 luglio 1943. Cantante. 15 volte concorrente al Festival di Sanremo, ospite nel 2013 ha cantato con il Coro dell’Armata Rossa la sua canzone più famosa L’italiano (nell’86 premio come disco italiano più venduto al mondo negli ultimi cinque anni). 

• Padre ottimo suonatore di tromba e sottufficiale di Marina d’origine siciliana, madre casalinga. «“Buongiorno Italia, gli spaghetti al dente, e un partigiano come presidente”: era l’83, quella canzone sembrava fatta per vincere, invece il premio toccò a Tiziana Rivale. La giuria popolare del Totip e le vendite dei dischi nel mondo intero risarcirono solo in parte l’irato cantautore con la chitarra in mano.

Per 5 volte secondo a Sanremo (1984, 1987, 1988, 1989, 1990), Toto comunque una volta vinse: nell’80, con Solo noi, nell’edizione della rinascita del Festival, quella del “Wojtilaccio” di Benigni» (Ranieri Polese). Ultimi Sanremo: nel 2010 (Aeroplani) e nel 2008 (Un falco chiuso in gabbia) dove il suo litigio col critico del Corriere della Sera Mario Luzzatto Fegiz (l’aveva accusato di aver stonato) fu tra i pochi picchi d’ascolto.

«Dal 1978, intanto, Cutugno aveva cominciato a collaborare con la tv: Mike Bongiorno (1924-2009) gli chiede la sigla per Scommettiamo? (1976-1978); poi, con gli anni Ottanta, diviene una presenza costante in video: Domenica in, Piacere Raiuno, fino a I fatti vostri (da cui si congeda nel 2000). 

Oggi, Toto è molto più famoso all’estero che a casa nostra:, nel 2002 per esempio un dj americano ha spopolato con il remix dell’Italiano; in Spagna, Francia, Germania i suoi album continuano a vendere. E ora piace moltissimo in Russia e dintorni» (Polese, cit.).

Dagli stadi della Siberia alle sale del Cremlino, alle feste lussuose degli oligarchi, lo accolgono fan estasiati che lo elogiano come “il maestro melodico più grande di tutti i tempi” [Anna Zafesova, Sta 17/10/2013]. Nel 2007 ha un concerto in Kazakistan davanti a 84 mila spettatori, invitato dal presidente in persona. 

«Nei Paesi dell’Est mi chiamano maestro quando maestro non sono. Sono un autodidatta, un selvaggio della musica. In Italia mi danno del ruffiano, quello che fa canzoni popolari giocando sui sentimenti. Anche questo non è giusto. Mi piacerebbe essere riconosciuto per quello che sono. Né un maestro né ruffiano. Solo uno che fa il suo lavoro con grande passione» [Giuseppe Fumagalli, Ogg 30/10/2013]. Nel 2011 i Paesi Baltici lo accolgono come «the italian musical legend» [Sam Logger, The Baltic Times 30/11/2011].

«Questo, in fondo, era il suo destino: già ai suoi esordi, nel 1975, il primo successo d’autore lo ottiene in Francia, dove Joe Dassin traduce una sua canzone nel bestseller L’été indien. Dalida, Johnny Hallyday, Sheila cantano suoi motivi; in Italia Cutugno scrive per Celentano, la Vanoni, Modugno, Leali. È l’unico italiano, dopo la Cinquetti, a vincere l’Eurofestival (Zagabria, 1990). 

Eppure, da noi non gli si è mai perdonato il canto da italiano vero, la cifra nazional-popolare insistita ma sincera. Neppure il volume impressionante dei suoi incassi nel mondo ha fatto riconoscere il talento di questo artista perennemente non in linea con le nostre mode e tendenze. Peccato. Anche lui, un giorno, sarà riscoperto dall’industria del revival e da tardive infatuazioni snob (da Totò in poi è la regola)» (Polese, cit.).

• Su L’Italiano: «Gli italiani sono cambiati e oggi aggiungerei un paio di strofe. La prima dedicata agli immigrati: “Buongiorno Italia di Italiani vari, che noi chiamiamo extracomunitari/che hanno la pelle di un altro colore/ma per bandiera hanno il tricolore”. La seconda: “Buongiorno Italia e il mutuo da pagare/e il dubbio amletico di chi votare/coi talent show illudi figli/e una tv foriera di sbadigli”. Direi che ci possono stare» [Fumagalli, cit.]. 

• Fama di uomo di destra (è stato ospite di manifestazioni di An e Azione giovani)

• Albano è l’uomo che ama di più al mondo dopo suo figlio. Fu lui a convincerlo a sottoporsi a un esame medico che evidenziò un tumore da cui poi guarì [Ogg 3/11/2010]. 

«Ho vissuto 4 mesi a letto a fare chemioterapia. Non ho mai mollato, mi sono aggrappato a tutto e ho trovato Dio, sono diventato più tollerante e più generoso» (a Gabriella Mancini). 

• Sposato con Carla, conosciuta nel 1966 a Lignano Sabbiadoro: «Lei era in vacanza e io suonavo in un locale alla moda. Ormai stiamo insieme da una vita». Un figlio, Nico (avuto nel 1989 da un’altra donna quand’era già sposato).

Da Il Corriere della Sera.

È morto Toto Cutugno: aveva 80 anni. A Sanremo fu l’eterno secondo (15 partecipazioni e una sola vittoria). Andrea Laffranchi Il Corriere della Sera martedì 22 agosto 2023.

Era ricoverato al San Raffaele, da diversi mesi. Nel 1980 vinse a Sanremo con «Solo noi», poi una sfilza di secondi posti. Pippo Baudo: «Una perdita troppo grande per me». I funerali giovedì a Milano. Lascia la moglie Carla e un figlio, Nicolò 

Se Modugno fu il mister Volare che fece apprezzare la nostra melodia negli Stati Uniti, Toto Cutugno è stato il simbolo dell’«italiano vero» per il resto del mondo. Non c’è taxista che, percepito il nostro accento, non cerchi un aggancio intonando un bel «lasciatemi cantare».

Toto Cutugno è morto martedì pomeriggio all’ospedale San Raffaele di Milano «dopo una lunga malattia» aggravatasi «negli ultimi mesi», ha fatto sapere il suo manager Danilo Mancuso. I funerali sono previsti per giovedì mattina alle 11 a Milano nella basilica dei Santi Nereo e Achilleo. Lascia la moglie Carla e un figlio, Nicolò, che rivelò di aver avuto da una relazione extraconiugale.

Toto e la sua musica hanno fatto parte dell’immaginario collettivo degli anni Ottanta e Novanta. È stato un meme prima che esistessero i social. Era un modo di dire, un luogo comune, zero in coolness ma milioni dischi venduti anche se nessuno confessava di ascoltarlo. Praticamente la Democrazia Cristiana della canzone.

Toto, nato Salvatore in provincia di Carrara nel 1943, inizia presto con la musica, alle elementari, spinto dal papà che lo porta come tamburo nella banda di paese in cui suonava. Quindi le prime esperienze con dei gruppetti e l’esordio discografico nel 1965 come batterista di Toto e i tati. L’evoluzione in cantante arriva nel 1976 con gli Albatros e un terzo posto a Sanremo. La band funziona, ma in parallelo Toto cerca la luce come solista: nel 1977 «Donna donna mia» è sigla del quiz di Mike Bongiorno «Scommettiamo?». C’è un terzo versante professionale, quello come autore, cercato anche all’estero da artisti come Miguel Bosè, Johnny Hallyday e Mireille Mathieu. È Adriano Celentano però a consacrare la sua firma: Toto è l’autore di «Soli», brano che nel 1979 rilancia nelle classifiche il Molleggiato, e l’anno dopo è sua anche «Il tempo se ne va».

È il suo momento d’oro. Nel 1980 Cutugno vince Sanremo con «Solo noi». Prima partecipazione, primo centro per quello che poi diventerà l’eterno secondo del Festival. Ha il record di presenze, 15, in coabitazione con Al Bano, Peppino Di Capri, Anna Oxa e Milva, ma solo lui si è piazzato al secondo posto per ben sei volte, 1984, 1987, 1988, 1989, 1990 e nel 2005 in coppia con Annalisa Minetti. E sarebbero sette mettendoci anche «Ragazzi di oggi» di Luis Miguel di cui fu autore.

Addirittura fuori dal podio invece «L’italiano», la sua hit internazionale, che nel 1983 si classificò solo al quinto posto. Un racconto che strofa dopo strofa componeva il ritratto di un’Italia semplice, fin troppo stereotipata, fatta di cattolicesimo e calcio, amore e spaghetti al dente, cuore e amore (sì c’è anche quella rima abusata) scritto, assieme a Cristiano Minellono, ancora una volta per Celentano che però l’aveva rifiutata.

Nel 1990, a solidificare la sua presenza internazionale, un duetto a Sanremo con Ray Charles («Gli amori») e la vittoria all’Eurovision Song Contest con «Insieme: 1992», una canzone a sfondo europeista. La popolarità di Toto era più forte del suo volto perennemente imbronciato e della sua ruvidità. Tanto forte da portarlo addirittura ad essere un volto tv, persino alla conduzione di «Domenica in» (1987-88 e 1992-93).

Quando la sua popolarità in Italia ha iniziato a calare a fine anni Novanta sono stati i Paesi ex comunisti ad accoglierlo come un idolo proprio perché quel pubblico lo identificava proprio con il Festival di Sanremo, l’unica finestra sulla musica occidentale concessa dai regimi comunisti prima della caduta del Muro. Per la sua vicinanza alla Russia, nel 2013 si era esibito da ospite a Sanremo con il coro dell’Armata rossa, era stato criticato in Ucraina, prima ancora della guerra.

La scrittura di Toto era semplice, elementare, diretta: nelle sue canzoni non c’era tensione verso la sperimentazione o velleità intellettuali. Lui stesso ammetteva di far ricorso agli «accordi del barbiere», il riferimento era a quello di Siviglia di Rossini, per sottolineare la semplicità armonica della sua composizione. La critica non lo ha mai apprezzato proprio per questo. E lui non ha mai apprezzato la critica, con la quale si è pizzicato più di una volta.

La moglie Carla, il figlio Nico, la sorella Anna: la famiglia di Toto Cutugno. Storia di Redazione Online su Il Corriere della Sera martedì 22 agosto 2023.

Una relazione tenuta sempre fuori dai riflettori, da un uomo che sotto i riflettori ha passato la vita. Toto Cutugno, morto oggi a Milano all’età di 80 anni, ha sposato Carla nel 1971. I due hanno sempre mantenuto grande riserbo intorno alla loro relazione. Non hanno avuto figli, anche se nel 1990 Toto Cutugno è diventato papà di un bambino, Nico, nato da una relazione extraconiugale. Il figlio Nico

«Carla poteva cacciarmi di casa e invece non lo ha fatto - raccontò il cantante nel 2018 al Corriere -. Al contrario, la prima cosa che mi disse fu di riconoscere mio figlio e dargli il mio cognome. Nico Cutugno è laureato in Economia ed è uno di quei tanti bravi ragazzi italiani sui quali il nostro Paese dovrebbe puntare». La morte della sorellina di 7 anni

Ma la vita di Cutugno è stata segnata da un dramma. «Ho visto morire mia sorella Anna, la più grande, sotto i miei occhi, soffocata. Stava mangiando gli gnocchi e uno le andò di traverso — disse sempre Cutugno nell’intervista al Corriere —. Aveva 7 anni, io 5. Pochi mesi dopo nacque mio fratello Roberto, a cui voglio un bene dell’anima, che si ammalò di meningite e da allora, come previde il medico, ha avuto una vita agitata. E poi l’altra mia sorella, Rosanna, che è stata la prima bambina a essere operata al cuore in Italia, a Torino. Papà si indebitò per quell’intervento. Che finì di pagare a rate nel 1978, due anni prima di morire». Le origini

Nato a Tendola, in provincia di Massa-Carrara, figlio di un Sottufficiale di Marina originario di Barcellona Pozzo di Gotto, Domenico, e di una casalinga, Olga, Cutugno è cresciuto a La Spezia, città che considerò sempre casa. Il padre, suonatore di tromba, lo avvicinò alla musica: a nove anni, Toto suonava il tamburo nella stessa banda di La Spezia del padre. Il passaggio alla batteria, da autodidatta, avvenne poco dopo. In seguito passò alla fisarmonica, visto che non può permettersi un piano. 

«L’Italiano», il testo integrale della canzone di Toto Cutugno. Storia di Redazione Spettacoli su Il Corriere della Sera martedì 22 agosto 2023.

È. A dare la notizia è stato il suo manager Danilo Mancuso, spiegando che «dopo una lunga malattia, il cantante si era aggravato negli ultimi mesi».

Lasciatemi cantare Con la chitarra in mano Lasciatemi cantare Sono un italiano

Buongiorno Italia, gli spaghetti al dente e un partigiano come presidente con l’autoradio sempre nella mano destra un canarino sopra la finestra

Buongiorno Italia con i tuoi artisti con troppa America sui manifesti con le canzoni, con amore con il cuore con più donne e sempre meno suore

Buongiorno Italia, buongiorno Maria con gli occhi pieni di malinconia buongiorno Dio lo sai che ci sono anch’io

Lasciatemi cantare Con la chitarra in mano lasciatemi cantare una canzone piano piano lasciatemi cantare perché ne sono fiero sono un italiano ,un italiano vero

Buongiorno Italia che non si spaventa con la crema da barba alla menta Con un vestito gessato sul blu E la moviola la domenica in TV

Buongiorno Italia col caffè ristretto le calze nuove nel primo cassetto con la bandiera in tintoria e una Seicento giù di carrozzeria

Buongiorno Italia, buongiorno Maria con gli occhi pieni di malinconia buongiorno Dio lo sai che ci sono anch’io

Lasciatemi cantare Con la chitarra in mano lasciatemi cantare una canzone piano piano lasciatemi cantare perché ne sono fiero sono un italiano ,un italiano vero (bis)

Al Bano: «Con Toto Cutugno eravamo fratelli. La malattia? Se la portava dietro da vent’anni. L’ultima volta? Gli auguri quattro mesi fa, ma stava già molto male». Storia di Matteo Cruccu su Il Corriere della Sera martedì 22 agosto 2023.

«Ma quali rivali, ma quali nemici eravamo fratelli io e Toto»: all’inizio la voce è quella tonitruante di sempre, anche se poi si fa sommessa. Albano Carrisi ha appreso la notizia della morte di Cutugno mentre stava facendo le prove per un concerto a Forte dei Marmi. Ed è molto triste. La storia minima della nostra canzone li ha sempre dipinti come acerrimi rivali, con le disfide di Sanremo, dove l’altro arrivava troppo spesso dietro il vincitore e non sembrava prenderla bene: niente di tutto questo. Amici sempre e in movimento sempre: Al Bano, ottantenne come il collega appena scomparso , non smette mai. E così avrebbe fatto Toto, se la salute lo avesse sorretto.

«Ma è una malattia che viene da lontano la sua» dice Al Bano.

Quando lo venne a sapere lei?

«Già nel 2004 mi venne a chiedere consiglio, perché avevo amici al San Raffaele e lo aiutai per le prime cure e le prime diagnosi di tumore alla prostata. Allora gli diedero cinque mesi di vita, ma ha resistito poi altri vent’anni».

L’ultima volta che l’ha sentito?

«Tre mesi fa mi ha fatto gli auguri per il mio compleanno, ma ci eravamo visti a casa sua l’anno prima e già li avevo capito che non stava bene. Eravamo davvero amici, come le ho detto»

Nel 1977: io ero in giro già da un po’, lui si stava facendo largo. Lavoravamo per la stessa casa discografica, dovevamo incidere in francese, gli diedi un discreto numero di consigli. Da lì nacque una frequentazione durata una vita: veniva a casa mia a Cellino San Marco , siamo andati insieme a Mosca, dov’era popolarissimo, come si sa. Venne con me alla festa per i miei 70 anni e fu un successo straordinario»

Un’amicizia resistita quindi anche ai duelli sanremesi, quando lei arrivava primo e lui secondo. Come nel 1984, lei con «Ci sarà» e lui con «Serenata».

«Questa storia dell’eterno secondo sicuramente lo faceva arrabbiare, ma a me non ha mai detto niente. Certo, al Festival sei uno contro tutti, l’amicizia viene meno».

Non vinse nemmeno con «L’Italiano» l’anno prima...

«Io avevo capito subito invece che si trattava di una grande canzone. E Toto non ne era affatto geloso, tant’è che la incidemmo insieme una decina d’anni dopo. La verità è che lui era un campione, ma l’hanno sempre trattato male».

Chi?

«La critica radical chic non lo vedeva di buon occhio. Ma quello che conta sono le canzoni e le sue resteranno per sempre».

Mia Martini intervistata da Toto Cutugno, gli dice apertamente: «Ti trovo molto antipatico». CorriereTv su Il Corriere della Sera martedì 22 agosto 2023.

«Ti trovo molto antipatico e arrogante»: Mia Martini svelò apertamente durante un’intervista rilasciata proprio a Toto Cutugno cosa pensava di lui. «Ti trovo arrogante perché molto spesso, nel lavoro, non ti curi degli altri. Fai delle cose antipatiche, non hai molto rispetto degli altri artisti. Ti trovo presuntuoso e non mi piace la tua musica»: così l’artista svelò durante il tour di “Sanremo in the World” del 1990, trasmesso su Rai Uno e condotto da Toto Cutugno.

Il cantante si è spento all’età di 80 anni all’ospedale San Raffaele di Milano. A ‘Che tempo che fa’ raccontò la genesi del brano diventato celebre in tutto il mondo. CorriereTv su Il Corriere della Sera martedì 22 agosto 2023.

Toto Cutugno è morto all’età di 80 anni, il 22 agosto 2023. Da diversi mesi era ricoverato all’ospedale San Raffaele di Milano. 

Nel 2018, ospite a ‘Che tempo che fa’ di Fabio Fazio su Rai 1, raccontò la genesi de L’Italiano, brano del cantante diventato ormai celebre in tutto il mondo: «Lo scrissi per Adriano Celentano, ma mi disse ‘ non lo canterò mai perché non ho bisogno di dire sono un italiano vero, la gente lo sa…».

Toto Cutugno canta «L’italiano» in cinese. Il Corriere della Sera 27 maggio 2015.

Toto Cutugno ha realizzato ad hoc il videoclip «L’italiano», la sua canzone più famosa ma cantata in cinese, per la promozione del nuovo programma di Real Time, «Italiani made in China”», che debutterà il 3 giugno (ogni mercoledì) alle 23.05 sul canale del gruppo Discovery. Il cantante non comparirà nella serie, ma si è prestato al gioco perché ha sposato la filosofia del programma: «Far capire che ormai essere italiano vuol dire anche essere multietnico». Il programma racconta le storie di sei ragazzi cinesi di seconda generazione che lasceranno le loro famiglie per andare alla ricerca delle loro origini a 10.000 km di distanza, verso un luogo che non hanno mai visto o che hanno dimenticato, ma a cui appartengono: la Cina

«Coro russo? Sono sconvolto. Dovevo andare in Siria con loro»; le parole di Toto Cutugno dopo la tragedia. CorriereTv su Il Corriere della Sera il 25 dicembre 2016.

Il cantante aveva collaborato con l’ensemble rimasto coinvolto nel disastro aereo sul Mar Nero: «Mi avevano invitato»

«Sono sconvolto da questa tragedia, anche perché un mese fa hanno contattato il mio manager per invitarmi in Siria ed esibirmi nello stesso spettacolo, proprio il 29 dicembre. Probabilmente saremmo dovuti andare a Mosca e partire da lì, avevamo già un altro impegno in calendario e abbiamo dovuto rinunciare. Il destino forse ha voluto così». Queste le parole di Toto Cutugno, a commento dell’aereo russo precipitato nel Mar Nero. A bordo anche 64 membri del celebre Coro dell’Armata Rossa, con il quale l’artista italiano aveva collaborato diverse volte. «Ho tanti ricordi - spiega il cantante - con il coro dell’esercito russo, il più bello risale a quando li ho invitati al Festival di Sanremo nel 2013, in occasione del Premio alla carriera, erano felici di cantare con me. Avevamo altri progetti insieme, cantavano `L’Italiano´ in un modo pazzesco, a Sanremo già durante le prove la loro esecuzione era perfetta, non una virgola fuori posto. Esprimo - conclude Cutugno - le mie condoglianze alle loro famiglie, erano delle persone stupende».

Estratto dell'articolo di Carlo Vulpio per il “Corriere della Sera” - 12 dicembre 2018

Cotugno o Cutugno?

«Ogni volta devo precisare. Cotugno è cognome napoletano. Cutugno invece è siciliano. E mio padre Domenico era di Barcellona Pozzo di Gotto. Quindi io mi chiamo Cutugno, Salvatore Cutugno». 

Nato però a Fosdinovo, in provincia di Massa Carrara, 75 anni fa.

«Sì, perché papà era un sottufficiale della Marina e lavorava a La Spezia. Aveva la passione per la tromba e faceva parte della banda musicale comunale. È stato lui ad avvicinarmi alla musica: il tamburino, la batteria, il pianoforte, la fisarmonica. Mia madre Olga, invece, era toscana. Donna piena di attenzioni, ma severa».

Una famiglia felicemente normale?

«Diciamo di sì. Se non fosse per le disgrazie che ci hanno segnati. Ho visto morire mia sorella Anna, la più grande, sotto i miei occhi, soffocata. Stava mangiando gli gnocchi e uno le andò di traverso. Aveva 7 anni, io 5. Pochi mesi dopo nacque mio fratello Roberto, a cui voglio un bene dell' anima, che si ammalò di meningite e da allora, come previde il medico, ha avuto una vita agitata. E poi l' altra mia sorella, Rosanna, che è stata la prima bambina a essere operata al cuore in Italia, a Torino. Papà si indebitò per quell' intervento. Che finì di pagare a rate nel 1978, due anni prima di morire».

Fermiamoci un attimo.  «L'Italiano» di Toto Cutugno, fra le prime tre canzoni italiane conosciute nel mondo insieme con «Volare» e «'O sole mio», è già tutta qui. Gente normale, per bene, che lavora, si sacrifica per i figli, spera sempre in un futuro migliore, non odia, ma al contrario ama: «gli spaghetti al dente e un partigiano come Presidente», «l'autoradio sempre nella mano destra e un canarino sopra la finestra», le «Maria con gli occhi pieni di malinconia» e «la moviola la domenica in tv». 

Un'Italia popolare, quindi, non populista. Poiché L'Italiano è semplicità, non ovvietà. È connessione sentimentale con un popolo, è il nazionale popolare autentico, quello che intendeva Antonio Gramsci, non la sua vulgata, non il nazionalpopolare tuttoattaccato, per indicare qualcosa di categoria inferiore. Non c'è bisogno quindi di «sdoganare» Toto Cutugno, o di «riabilitarlo».

Occorre semmai vendicarlo, della supponenza e del disprezzo che senza motivo artistico vero gli sono stati riservati, perché Cutugno è un grande artista. «Sente» la musica. La compone.

Scrive i testi. Più di 300 canzoni, eseguite da tutti i più grandi cantanti degli ultimi quarant'anni, in Italia e all' estero. Da Adriano Celentano a Ray Charles, per citare solo due nomi. 

[...] 

Un'accusa del genere per esempio le è stata rivolta per la canzone «Figli», seconda a Sanremo del 1987.

«Questa canzone dice: "Figli del Duemila/ bianchi e neri tutti in fila/ per un secolo migliore". Trent'anni fa. Ruffiana o anticipatrice?». 

[...] 

Com'è nata «L' Italiano»?

«Eravamo in Canada, a Toronto. Quella sera, io mi ero esibito in teatro davanti a 3.500 persone e ricordo che a un certo punto realizzai che quei 7.000 occhi che mi guardavano erano tutti occhi di italiani. Pensai: scriverò una canzone per questa gente». 

L' ha composta lì, in teatro?

«No. È stato nel ristorante italiano "Mamma Rosa", in cui andavamo sempre a mangiare perché la proprietaria aveva due figlie bellissime. Avevamo con noi le chitarre e abbiamo cominciato a cantare. A un certo punto mi son fatto dare un pezzo di carta e ho messo giù un La minore-Re minore e poi il resto. Quindi ho chiamato Popi Minellono e gli ho detto: scrivimi il testo di questa canzone, vorrei intitolarla "Con quegli occhi di italiano"». 

E Minellono non ha pensato che quella sera lei si fosse solo entusiasmato per le figlie di Mamma Rosa?

«Non credo, perché la prima cosa che mi disse fu che il titolo doveva essere L'Italiano. La seconda venne a dirmela dopo tre giorni: "Toto, ho fatto una bomba"». 

Però avete pensato di farla cantare a Celentano. Perché?

«Perché era perfetta per lui. Perché per Celentano avevo già scritto "Soli" e "Il tempo se ne va", due grandi successi».

Invece Celentano fece il gran rifiuto.

«Ci gelò: non ho bisogno di dire che sono un italiano vero, disse, perché io lo sono già». 

E poi lei nel 1983 portò «L'Italiano» a Sanremo ?

«No. Prima si pensò di farla eseguire a Gigi Sabani che doveva cantarla imitando Celentano. Solo quando la ascoltò Gianni Ravera e la definì un capolavoro mi decisi a cantarla io a Sanremo. Dove, com' è noto, la canzone arrivò al quarto posto nel voto della giuria e al primo nel voto popolare».

Ha sempre detto di sé di essere timido e di aver persino paura quando sale sul palco. 

Come mai?

«Timido lo sono sempre stato. A 18 anni, per la prima volta una ragazza mi disse che ero un bel ragazzo, e io arrossii e credo di essere rimasto così, imbambolato, per qualche giorno». 

Nemmeno quando vinse Sanremo nel 1980 con «Solo noi» superò la timidezza?

«Macché. Non manifestai il benché minimo entusiasmo. Me ne andai da solo in macchina a fare un giro verso Bordighera. Mi fermai su una spiaggia, di notte, e mi misi a urlare». 

[...]

[...] 

E la Cutugno-mania esplosa in Russia, come se la spiega?

«Sorprendente, emozionante. Ma è così anche in Ucraina, Albania, Polonia, Georgia, Azerbaigian, Kazakhstan, Egitto, Israele... Credo che la canzone, la melodia, la lingua italiana abbiano un fascino insuperabile».

Celentano: «Aveva fatto “L’Italiano” per me. Gli dissi di no e feci una c... mondiale». Giovanna Maria Fagnani su Il Corriere della Sera il 22 agosto 2023.

Toto Cutugno non aveva dormito tutta la notte, pensando al successo che avrebbero raggiunto insieme, lui come autore e Celentano come interprete. Lo struggente messaggio di addio del «molleggiato» per l’amico di una vita 

«Ciao Toto! ...Ricordo che eravamo in macchina... una Cinquecento credo, e tu insistevi perché io incidessi “L’Italiano”.  Una superbomba appena ultimata la notte prima che ci vedessimo». Comincia con queste parole, come se stesse telefonando a un amico, il commovente messaggio di addio che Adriano Celentano ha scritto per Toto Cutugno, scomparso martedì all’ospedale San Raffaele di Milano, a 80 anni.

E sembra di vederli, mentre chiacchierano in macchina. E si respira l’entusiasmo di Cutugno. «Non ho dormito tutta la notte— mi dicesti —pensando al successo che faremo, tu come interprete, e io come autore» scrive Celentano oggi. L’artista comprese di trovarsi di fronte a una hit che era un vero gioiello. «Il brano era davvero forte!!!» scrive Celentano. Il potenziale della canzone è innegabile, l’entusiasmo dell’amico è contagiante.

Ma Adriano si tira indietro. «Ma ciò che più di tutto mi frenava era proprio la frase piu’ importante: “Io sono un italiano vero”. Una frase oltretutto insostituibile, in quanto è proprio su questa che si regge l’intera impalcatura di quella grande opera.  E io sentirmi pronunciare: “Sono un italiano vero” mi sembrava di volermi innalzare». 

Cutugno resta basito. «Lui non credeva alle sue orecchie» scrive oggi Celentano. Prova a convincerlo: «Ma non capisci che è proprio questo il punto, io l’ho scritta pensando a te, perché tu sei davvero un italiano vero”. “Si lo so” — gli dissi io —però non mi va di dirlo io…”».

E così Cutugno, che de «L’Italiano» voleva essere solo autore e non interprete, vide tramontare il suo progetto. Ma ebbe una rivincita colossale. La hit è una delle canzoni italiane più eseguite al mondo.

E Celentano? Oggi nel suo struggente addio all’amico scrive: «Non sempre, ma a volte la troppo scrupolosità si può trasformare in una cazzata mondiale» e gli fa una promessa: «Nonostante tu l’abbia cantata come l’avrei cantata io, oggi, se la dovessi ricantare la canterei esattamente come l’hai cantata tu! Eri e rimarrai, un grande indimenticabile! Ti voglio bene. Adriano»

Dagospia mercoledì 23 agosto 2023. Mail di Carlo Vulpio al Cdr del “Corriere della Sera”

Buongiorno a tutti.

Segnalo il bellissimo pezzo su Cutugno a firma di Veltroni, il quale copia dall’intervista di Vulpio (a Cutugno) senza citare né l’autore (Vulpio) né il giornale (Corriere della Sera, 9/12/2018). 

Dagospia, ieri, che ha rilanciato questa mia intervista, ha citato correttamente autore e testata. Veltroni, no. Chissà perché. O è distratto, o lo fa apposta, oppure copia e basta, come Saviano. 

Vabbè, l’eleganza vera e la correttezza autentica, non l’affettazione dei modi, sono per pochi. Ce ne faremo una ragione. Ma, come diceva Totò (non Toto), qua nessuno è fesso. 

Auguri

Carlo Vulpio

Walter Veltroni per il “Corriere della Sera” mercoledì 23 agosto 2023.

Le vite non cominciano tutte in piano. Alcune scivolano giù facili in discesa, molte altre devono faticare in salita. Specie nel tempo in cui è nato Salvatore Cutugno. Era l’inizio di luglio del 1943, due giorni ancora e gli alleati sarebbero sbarcati in Sicilia, la terra di suo padre, e diciotto giorni dopo Mussolini sarebbe caduto, ma l’Italia avrebbe continuato ad essere bombardata e occupata dallo straniero. 

Nella casa di Fosdinovo, vicino a Massa, dove il padre, sottufficiale di Marina, è stato trasferito, nascono i tre piccoli Cutugno. Anna morirà bambina davanti a lui, di due anni più piccolo: «Ho visto morire mia sorella Anna, la più grande, sotto i miei occhi, soffocata. Stava mangiando gli gnocchi e uno le andò di traverso. 

Aveva 7 anni, io 5. Pochi mesi dopo nacque mio fratello Roberto, a cui voglio un bene dell’anima, che si ammalò di meningite e da allora, come previde il medico, ha avuto una vita agitata. E poi l’altra mia sorella. Rosanna, che è stata la prima bambina a essere operata al cuore in Italia». 

(...)

Cutugno ha vissuto una vita in sospensione sul sellino, come i grandi scalatori, fin dall’inizio. Regali ne ha avuti pochi, dalla vita. Se non un talento musicale che era un tocco magico. Si dica quel che si vuole, ma Cutugno è stato tra i cantanti italiani più popolari nel mondo. Non solo per le canzoni che ha interpretato direttamente, ma per quelle che ha scritto per i più grandi cantanti francesi e spagnoli, come «Noi, ragazzi di oggi» per Miguel Bosè e per gli assist che ha fornito ai suoi colleghi italiani: «Il tempo se ne va» e «Soli» ad Adriano Celentano o «Io amo» a Fausto Leali. 

Eppure su di lui è sempre esistito un pregiudizio per il quale Toto Cutugno ha sofferto. Si è sempre sentito considerare un cantante popolare, non un cantautore. Ha venduto più di 100 milioni di dischi in tutto il mondo e questo è stato, da molti, considerato una colpa. Perché, si sa, per certe parrocchie aristocratiche se le espressioni artistiche incontrano il grande pubblico vuol dire che non sono artistiche.  

(...)

«L’Italiano», «Solo noi», «Gli amori» sono belle canzoni, orecchiabili e riconoscibili. La linea melodica di Cutugno ha avuto una sua coerenza e la gente gli ha voluto bene. Quelli come lui hanno faticato, più di altri. Hanno battuto i locali più sdruciti, cantato in piazze distratte, combattuto al Festivalbar o al Disco per l’estate. Nulla gli è stato donato. Ogni cosa è stata conquistata.

E per quel bambino in piedi sui pedali della vita aver vinto Sanremo, poi in Europa, aver venduto quella marea di dischi, essere conosciuto in tutto il mondo deve essere stato un sogno e una meraviglia. Conosciuto come italiano fiero di esserlo. «Buongiorno Italia col caffè ristretto /Le calze nuove nel primo cassetto/Con la bandiera in tintoria /E una Seicento giù di carrozzeria». 

Quel bambino spaventato dalla vita un giorno ha scritto questa canzone in cui si inneggiava a «Un partigiano come Presidente» e in cui si parlava dell’Italia che fatica e spera. Ciò che questo Paese fa, da sempre e per sempre.

Estratto dell’articolo di Mario Luzzatto Fegiz per il “Corriere della Sera” mercoledì 23 agosto 2023.

Fino a qualche anno fa non erano frequenti le risse televisive. Anche per questo fece scalpore uno scontro in diretta fra Toto Cutugno e il sottoscritto al Dopofestival condotto da Elio. Correva l’anno 2008. A tarda notte si dibatte e a un certo punto io faccio notare a Toto Cutugno che ha stonato. Apriti social. Cutugno avanza minaccioso verso la postazione dei giornalisti e mi apostrofa: «Ma quando vai in pensione? Quella che hai detto è una str...”». 

Il pubblico in sala fischia, Elio si interpone temendo forse uno scontro fisico. Un po’ me l’aspettavo. […]  Io non perdo la calma e confesso, con un sorriso, di essere molto interessato a vedere come se la cava davanti al pubblico delle ex Repubbliche sovietiche dove lo strapagano. Insomma subisco l’aggressione senza ricambiare gli insulti. La Rai pensa bene di replicare lo scontro nella sera seguente in prime time. Registrando il picco d’ascolto.

[…]  Ci saremmo perdonati negli anni successivi. In realtà con Cutugno io spesso me le sono cercate. Mi riferisco a una puntata di «Scherzi a parte». Con la complicità della direzione del Corriere creammo una pagina che titolava: «Il disco truffa di Toto Cutugno», in cui si stroncava il suo ultimo album definendo l’artista un «improbabile guitto». Era circa mezzanotte e Radio Kiss Kiss ospitava per l’appunto Cutugno. Gli venne mostrata la pagina falsa del Corriere . Lui impallidì. In quel mentre squillò il telefono. Ero io che rincaravo la dose. Finché arrivò la liberatoria «Sei su “Scherzi a parte”». Fu così felice che non si arrabbiò.

Cutugno piaceva al popolo, i critici invece lo massacravano: lui era il simbolo del bel canto popolare. I critici tutti sul rock e la canzone d’autore. L’intellighentzia però fu sconfitta anni dopo. Quando Céline Dion in concerto a Milano offri fra i bis «L’Italiano» lasciando stupiti i detrattori, i colti. 

Per le platee dell’Est Cutugno era una divinità, anche per quella timbrica che ricordava molto quella di Celentano: tanto che era richiestissimo da quelle parti. Aveva infatti preso casa da decenni non lontano dall’aeroporto di Linate. Viaggiava sempre con aereo privato nell’ex Unione Sovietica e incassava compensi importanti. E a volte rientrava a Milano subito dopo lo show.

L’addio a Toto Cutugno e l’importanza dei numeri 2. Storia di Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera giovedì 24 agosto 2023.

Caro Aldo, Cutugno è stato un grande artista, umile, cuore nobile, uomo esemplare, che ha vissuto nel rispetto dei valori autentici, profondamente legato alla famiglia e all’Italia che ha saputo magistralmente cantare e rappresentare. Giulio Davì Un autore di canzoni che hanno fatto la storia della canzone italiana, non gli è stato attribuito dalla critica ciò che meritava. Nicola Delli Carri Per me è sempre stato un bravissimo cantante, da piccolo mio figlio cantava una sua canzone (L’italiano), e oggi rivivo con gioia quei periodi. Alessandra Cupperi

Cari lettori, La scomparsa di Toto Cutugno ha emozionato molti tra voi. Tutti conoscevamo le sue canzoni; e di tante non sapevamo che fossero sue. Il segreto di Toto Cutugno è il segreto dei numeri 2. Quelli che stanno dietro le quinte. Quelli che collezionano medaglie, non d’oro ma d’argento. Cinque volte secondo a Sanremo. Spesso in cima alle hit parade, ma con testi e musiche affidate a un altro. Ascoltavamo «Noi ragazzi di oggi» di Miguel Bosé: ed era Toto Cutugno. Cantavamo «Io amo» pensando di imitare Fausto Leali; ed era Toto Cutugno. Credevamo di chiudere fuori il mondo «con il suo casino» come Celentano; ed era ancora Toto Cutugno. I padri che restano in ansia per le figlie si immedesimavano sempre in Celentano, quando cantava «e intanto il tempo se ne va/ e non ti senti più bambina/ si cresce in fretta alla tua età/ non me ne sono accorto prima…»; ed era sempre Toto Cutugno. Quando poi Celentano rifiutò una canzone, forse perché troppo nazionalpopolare, e la cantò lui, Toto, ebbe un successo internazionale con «L’italiano»; ma a Sanremo arrivò di nuovo secondo (poi finalmente glielo fecero vincere). Per decenni in giro per il mondo noi italiani siamo stati accolti dalle parole di Cutugno: «Lasciatemi cantare con la chitarra in mano…». All’epoca non le sopportavamo, ci sembravano espressioni oleografiche, e un po’ lo erano. Ma di questi tempi scrivere «un partigiano come presidente» suonerebbe quasi sovversivo. Grazie, Toto. Già ti hanno rivalutato. Ti rimpiangeremo.

L’ultimo applauso a Cutugno: la folla intona «L’Italiano». Il parroco: «Era molto amato». Tra i vip Morandi, Pupo, Spagna. Storia di Chiara Maffioletti su Il Corriere della Sera giovedì 24 agosto 2023.

Già dalla strada, ben prima di arrivare al piazzale della Basilica dei Santi Nereo e Achilleo, si sente il coro delle tante, tantissime persone venute a salutare Toto Cutugno. Quel «lasciatemi cantare…» che tutti conoscono, quasi rimbomba nelle strade ancora mezze vuote e roventi di Milano.

Non sono tantissimi i personaggi famosi. Gianni Morandi, Mario Lavezzi, Ivana Spagna, Pupo. Sono soprattutto le persone comuni quelle che hanno sentito il bisogno di salutare il cantautore e sono sempre loro che, quando arriva il feretro, dopo l’applauso commosso gli parlano come se quella non fosse una bara ricoperta di rose bianche. Lo fanno come se Cutugno fosse lì, ad ascoltarli.

«Grande», «Bravo Toto» «Sei un grandissimo». Un uomo poi urla: “Toto perché?»!. È Stelio Stella, chitarrista del primo gruppo di Cutugno, Toto e i Tati. La chiesa si riempie, la sicurezza incanala le persone. La capienza è di mille persone ma ne sono arrivate molte di più.

Video correlato: Un lungo e commosso applauso accoglie il feretro di Michela Murgia (Dailymotion)

Al momento dell’omelia, il parroco della Basilica in cui Cutugno si era anche sposato con la sua Carla - che ascolta composta in prima fila, vicino al figlio di lui Nico -, confessa di aver ricevuto centinaia di messaggi: «Era molto amato ma è sempre rimasto una persona umile e disponibile. Ogni anno, ci faceva entrare in casa per la benedizione, prima di Natale. Non si aveva la sensazione di essere nella casa di una persona che aveva venduto milioni di dischi nel mondo. Ad aprirci la porta era semplicemente una persona aperta e accogliente». Quindi, ha svelato di quando Cutugno aveva chiesto di poter suonare l’organo che ora accompagna la cerimonia:« Lo ha fatto. Era un uomo di fede. Ho ricevuto anche diversi messaggi in cui mi si racconta che aveva aiutato, anche economicamente, diverse persone del quartiere».

Sceglie di leggerne un paio, tra cui quello del figlio di una condomina del cantautore: «Quando è morto mio padre, lui ha mostrato molta vicinanza e affetto a mia madre». Nelle parole di queste persone ci sono anche ricordi recenti, dei Cutugno provato dalla malattia: «Faceva battute sulle sue stampelle, ma si vedeva che ultimamente era provato». “Anche se era molto affaticato, io l’ho visto l’ultima volta che siamo andati a votare: anche in quel caso aveva fatto il suo dovere nonostante gli costasse fatica» spiega un’altra persona. C’è tanto affetto, ma anche molta gratitudine.

Una persona tiene in mano un cartello: «Toto mi hai salvato la vita»; un’altra spiega che se lui non l’avesse fatta appassionare alla musica, sarebbe finita in cattive compagnie. Amato nel mondo, legatissimo al suo quartiere, Città Studi, che viveva senza divismi. Quando il feretro torna nel sagrato, vengono liberati alcuni palloncini con impresse le note musicali. Un nuovo lungo applauso. Poi la gente torna a cantare, nel silenzio, quel brano che, per tanti, è un manifesto. E che per tutti, è Cutugno.

Da La Repubblica.

Estratto dell’articolo di Gino Castaldo per “la Repubblica” mercoledì 23 agosto 2023.  

Quella gli era venuta proprio bene, un grido, un’invocazione “Lasciatemi cantare...” e come se non bastasse “con la chitarra in mano” e poi una conclusione che fece saltare sulla sedia milioni spettatori che erano lì a trastullarsi col medio cattivo gusto che garantiva il Festival di Sanremo: “lasciatemi cantare… sono un italiano”.

Impavido, coraggioso, quasi blasfemo, abbastanza da far inferocire quelli che in lui vedevano l’incarnazione del più retrivo populismo canoro, abbastanza da solleticare gli orgogliosi patrioti che di belle canzoni che inneggiavano all’Italia proprio non ne avevano, dovevano accontentarsi di quella patetica Italia mia di Mino Reitano o ancor peggio molti anni dopo di quell’Italia amore mio che il principe Emanuele Filiberto ebbe l’impudenza di andare a cantare con Pupo a Sanremo.

Povero Cutugno, in quel caso subì davvero il cocente e cieco fervore del pregiudizio, perché ad ascoltarla bene quella canzone non era affatto male e se non […] fosse entrata quasi per sbaglio nel canzoniere di un capopopolo dell’ultramelodia, la canzone avrebbe avuto un destino diverso, per esempio se esattamante così com’era […] l’avesse cantata uno come Celentano. 

Non è una boutade, fu davvero proposta ad Adriano che, possiamo dire erroneamente, la rifiutò, e in più pur essendo uscita nel 1983 non era neanche ispirata alla vittoria ai Mondiali del 1982. […] la verità è che quella era proprio una bella canzone, e ti faceva digerire pure una rima “al dente/presidente” che non era il massimo, ma rendeva l’idea, e poi chi altri ha avuto il coraggio di cantare in tempi in cui l’orgoglio nazionale era ai minimi storici che era bello essere italiani, anzi che l’Italia andava carezzata, blandita, amata senza discussioni e soprattutto salutata […] per poi concludere sempre più sfacciatamente che a cantare non era solo un italiano, attenzione, era “un italiano vero”, povero grande Cutugno, quella gli era venuta davvero tanto bene. Tanto quanto un capolavoro d’arte popolare.

Da Rainews.

Estratto dell'articolo da rainews.it mercoledì 23 agosto 2023.

“L'italiano”, una delle canzoni italiane più popolari al mondo, portata al successo dallo stesso autore, Toto Cutugno, nel 1983 al Festival di Sanremo,  doveva essere interpretata da Adriano Celentano, “ma lui si rifiutò”. A raccontarlo, è stato lo stesso Cutugno [...] 

Ora, il “Molleggiato”, nel giorno della scomparsa di Cutugno, in un post affidato ai social, racconta perché non volle cantare quel brano. 

"Ciao Toto!...ricordo che eravamo in macchina... una cinquecento credo, e tu insistevi perché io incidessi 'L'italiano'. Una superbomba appena ultimata la notte prima che ci vedessimo", ricorda Celentano. "'Non ho dormito tutta la notte' -mi dicesti - 'pensando al successo che faremo, tu come interprete, e io come autore', il brano era davvero Forte!!! Ma ciò che più di tutto mi frenava era proprio la frase piu' importante: 'Io sono un italiano vero'.

Una frase oltretutto insostituibile, in quanto è proprio su questa che si regge l'intera impalcatura di quella grande opera.  E io sentirmi pronunciare: 'sono un italiano vero' mi sembrava di volermi innalzare.  Lui non credeva alle sue orecchie: 'ma non capisci che è proprio questo il punto, io l'ho scritta pensando a te, perché tu sei davvero un italiano vero'. 'Si lo so' - gli dissi io - 'però non mi va di dirlo io…'. 

Non sempre ma a volte la troppo scrupolosità si può trasformare in una cazzata mondiale. Però nonostante tu l'abbia cantata come l'avrei cantata io, oggi, se la dovessi ricantare la canterei esattamente come l'hai cantata tu! Eri e rimarrai, un grande indimenticabile! Ti voglio bene. Adriano", conclude Celentano.

Da Dagospia.

Dagonews mercoledì 23 agosto 2023.

“Toto Cutugno è stato spesso sottovalutato dall’intelligencija radical-chic nostrana”. Enrico Ruggeri ricorda sui social il cantante scomparso ieri a Milano a 80 anni. “Nel mondo molti grandi artisti incidevano le sue canzoni. Ma io non dimentico i Dopofestival nei quali certi giornalisti cercavano di umiliarlo, ricordo gli articoli e certe recensioni. In questo tempo di improvvisati è giusto ricordare chi faceva musica “leggera” con classe, cuore e grande preparazione tecnica”.

“Voleva che io aprissi un suo concerto in Russia”. Cristiano Malgioglio lo descrive come “un cantautore straordinario”. Scrisse grandi testi poi portati al successo da altri artisti, come nel caso di ‘”Soli” di Adriano Celentano, rammenta Jovanotti che pubblica uno scatto durante una data del Jova Beach Party con Brunori Sas e lo stesso Cutugno e rievoca il periodo in cui da giovanissimo ascoltava le canzoni degli Albatros, la band in cui Toto militava prima di lanciarsi nella carriera da solista.

“E’ stato un grande autore di canzoni popolari”, rimarca il chitarrista dei Pooh Dodi Battaglia mentre per Paolo Giordano, critico del Giornale, Toto Cutugno è stato “un italiano vero che gli italiani hanno faticato ad apprezzare come meritava…”

Da Il Messaggero.

Estratto dell'articolo di M. Mar. per “il Messaggero” mercoledì 23 agosto 2023.

Il rapporto tra Toto Cutugno e la Russia, e i Paesi del blocco sovietico prima e dopo l'Urss, è testimoniato da un aneddoto raccontato dallo stesso musicista, risalente al 1986, in piena Guerra Fredda. Quell'anno i russi decisero di imbarcarlo su una navicella spaziale: «Nell'86 mi chiesero se ero disposto ad andare nello spazio, come cantante, assieme a un medico, un pittore, uno scienziato e altri rappresentanti di categoria. Dissi di sì». 

Sembrava tutto fatto. Ma poi la clamorosa operazione sfumò: «L'addestramento era durissimo. E dovevo pure smettere di fumare. Lasciai perdere», confessò Cutugno anni dopo.

Ma perché Toto Cutugno piace così tanto nell'Europa dell'Est? «Mi dicono che le mie melodie ricordano quelle del loro passato. Di più non so», rispondeva. 

Di quel curioso legame si accorse anche Renzo Arbore, quando nel 2015 andò in tour in Russia: «Avevo un concerto a Mosca. A un certo punto mi ritrovai quasi costretto a cantare L'Italiano: il pubblico russo da un cantante italiano si aspettava questo. Dalla platea si alzò un coro: un'esperienza travolgente. Capii che Toto, lì, era davvero amatissimo», ricorda. I rapporti con la Russia crearono a Toto Cutugno anche qualche problema diplomatico.

[…] Nel 2013, invitato da Fabio Fazio come ospite a Sanremo per raccontare la storia della kermesse, Toto Cutugno scelse di presentarsi sul palco dell'Ariston dal coro dell'Armata Rossa (da lui voluto e pagato), simbolo di Mosca, con il quale cantò L'italiano: «Io quando li sento, mi commuovo sempre. Ho una nostalgia per l'Unione Sovietica del passato», si lasciò sfuggire sul palco, in diretta. […]

Da La Stampa.

Estratto da lastampa.it martedì 22 agosto 2023.

"Certo che ci sarà il concerto a Kiev domani sera, 4mila persone verranno e io, come sempre, li voglio emozionare e non li voglio deludere. Ho invitato il deputato che ha scritto la lettera a venire al concerto perché voglio conoscerlo e stringergli la mano e magari dopo aver ascoltato le mie canzoni cambia opinione su di me e capisce che io sono uno vero e faccio questo mestiere con amore e giro il mondo per far ascoltare le mie canzoni".

A parlare è Toto Cutugno, atterrato a Kiev e raggiunto dalle telecamere de La Vita in Diretta, il programma di Rai1 condotto da Francesca Fialdini e Tiberio Timperi. Dopo aver accartocciato simbolicamente la lettera di uno dei deputati della Verkhovna Rada dell'Ucraina inviata la scorsa settimana al capo della Sbu (i servizi di sicurezza del Paese), Vasyl Hrytsak per chiedere di inserire Toto Cutugno nella blacklist, […] il deputato "non può dire che io sono una spia filocomunista: è un'offesa alla mia dignità di uomo, non può dirlo se non ha le prove. Tiri fuori le prove e io pago quello che devo pagare".

Michela Tamburrino per “La Stampa” - Estratti mercoledì 23 agosto 2023.  

Erano gli anni dei gloriosi Festival di Sanremo di Baudiana memoria, dove tutto funzionava come un orologio svizzero, cantanti che cantavano, comici che facevano ridere, la valletta bruna e quella bionda.

Dal 1968 al 2008, ben tredici e in alcuni di questi c'era pure Toto Cutugno. Perché Toto, se ci si ferma a una conta squisitamente sanremese, era riuscito a battere persino Sua Pippità, quanto a permanenza sul palco dell’Ariston: ben 15 volte con una sola vittoria e una teoria infinita di secondi posti. 

Pippo e Toto avevano un rapporto speciale di affetto e simpatia negli anni diventata una bella amicizia. Pippo aveva un orecchio speciale per le canzoni e Toto, come una infinità di suoi colleghi, ci contava.

A sentire della scomparsa del cantante, Baudo parla non solo da amico ma soprattutto da estimatore sincero e qualificato. 

(...) 

Ricordiamo quando si presentò, nel 2013, con il coro simbolo di Mosca (da lui voluto e pagato, bloccando così le polemiche che pure ci furono) sulle note del suo L’Italiano riarrangiato per l’occasione.

«Certo che lo dobbiamo ricordare perché Cutugno era adorato all'estero, non solo in Russia e amatissimo dai grandi artisti. Tra le sue uscite eccezionali dobbiamo assolutamente parlare di quando Ray Charles cantò Gli amori, appunto di Cutugno. Una interpretazione meravigliosa. Charles ne fece una canzone sua, da brividi».

Possiamo dire che Cutugno era proprio un italiano vero?

«Certo che possiamo, anzi, dobbiamo. Quella canzone è un capolavoro che all'estero cantano tutti. Io ne sono testimone: Radio City Music Hall pieno di pubblico che la cantava in italiano senza sbagliare una parola. Piaceva tanto perché, oltre ad essere bello, catturava l’essenza dell’italianità». 

Quali erano i lati deboli e quelli vincenti di Cutugno?

«In lui combaciavano. Era tenero e fragile, mai sicuro di quello che faceva. E questo rappresentava la sua forza e, appunto, la sua debolezza. Una caratteristica dei veri artisti quella fragilità psicologica che li fa dubitare della loro grandezza. Io l’ho conosciuto in un momento particolarmente felice, mi presentò suo figlio, ne era orgogliosissimo». 

(...) 

Cutugno è nell’Olimpo dei cantanti pop?

«Ci sta in piena luce. Un posto che si è meritato nel corso di tutta la sua carriera d’artista. Vorrei tanto che il pubblico continuasse a volergli bene. Se lo merita». 

Chi può essere considerato l’erede di Toto Cutugno?

«Eredi? Mai averne». 

Valeria Arnaldi per “il Messaggero” - Estratti mercoledì 23 agosto 2023.

«È stato un grande nel mondo, ma è stato maltrattato in Italia».

Questo il primo commento di Albano Carrisi, che abbiamo raggiunto alla notizia della morte di Toto Cutugno, spentosi ieri pomeriggio al San Raffaele di Milano, dov'era ricoverato. Al Bano era suo amico da oltre quarant'anni, e con lui, in più occasioni, aveva condiviso il palco in Italia, in Russia e in altri Paesi, nonché gli studi di questa o quella trasmissione televisiva. 

(...)

In cosa sentiva che eravate diversi, distanti?

«Sul palco Toto era un accentratore, mentre io, in scena, non lo sono affatto, sono democratico. Lui invece, voleva sempre avere la chiusura dei concerti e via dicendo. Non era un suo difetto, però, attenzione, ero io ad essere sbagliato». 

E fuori dal palco che tipo era?

«Simpatico, divertente. Proprio come si vedeva quando era sotto i riflettori». 

Però, diceva che è stato maltrattato in Italia.

«Sì, ma è stato stra-amato all'estero. Davvero e ci tengo a sottolinearlo. Stra-amato è proprio la parola giusta da usare. È stato un grande nel mondo, ma per qualche strano motivo, che non saprei spiegare, in Italia non è accaduto altrettanto. Era visto quasi come un non-artista. Forse per snobismo, forse per miopia, dipende dai casi».

 Potrebbe essere rivalutato ora?

«Fu così anche con il grande Totò, che fu "scoperto" quando già non c'era più». 

Toto Cutugno disse che lei gli aveva salvato la vita. È vero?

«Era il 2004, ero socio fondatore dell'ospedale San Raffaele, lui aveva bisogno di cure. Chiamai i medici e mi diedi da fare per dargli la possibilità di essere operato. I dottori, poi, mi dissero che aveva cinque/sei mesi davanti. Dopo otto mesi, mi parlarono di nuovo delle sue condizioni e mi dissero che era un miracolato». 

E lui, per questo, la ringraziò sempre, anche pubblicamente.

«Sì, ma io gli dicevo che doveva ringraziare i medici, non me». 

Non c'è stato mai alcuno screzio tra voi?

«Per un periodo abbiamo smesso di sentirci e frequentarci proprio per quell'atteggiamento da accentratore in scena. Era un mattatore». 

E come vi siete ritrovati?

«Un giorno mi telefonò, mi parlò di una ragazza che si chiamava Cristina, mi disse che aveva avuto un figlio da lei (Ndr. Nicolò nato nel 1989) e che voleva condividere con me quella gioia. Quella richiesta così umana mi fece riflettere. Da quel momento i rapporti sono tornati esattamente come erano prima». 

Vi sentivate ancora?

«Sì certo, poi lui ha smesso di rispondere al telefono. Sarà accaduto circa cinque mesi fa. Non riuscivo a capire perché, non avevo altri contatti, il nostro era sempre stato un legame diretto. Si era aggravato, sì, ma non immaginavo che sarebbe successo quello che ora è accaduto».

Da Il Fatto Quotidiano.

Estratto dell’articolo di Stefano Mannucci per “il Fatto quotidiano” mercoledì 23 agosto 2023.

Adriano non era lucido. Aveva occhi solo per Ornella. Ascoltava Toto un po’ distrattamente grattandosi il mento, con la solita espressione da cacadubbi. “Fammela ascoltare un’altra volta”. Cutugno obbedì. Teneva moltissimo a quella canzone, nata quasi per caso durante una tournée in Canada. 

[...] Era l’inverno 1981, il Mundial e Paolo Rossi ancora di là da venire. Tornato a Milano, aveva fatto completare la musica al fido Cristiano Minellono.

Celentano parve emergere dalle nebbie del suo tribunale interiore. Emise la sentenza. “No”. Toto trasalì. “Come no?”. “Non la canterò mai”. “Ma perché?”, lo implorò l’altro. “Perché non ho bisogno di sottolineare di essere un italiano vero, io. La gente lo sa”. Cutugno uscì dalla roulotte, si allontanò dal set del Bisbetico domato, il flirt con la Muti stava facendo deragliare il Molleggiato. Pensò di appallottolare quel testo, non meritava di essere conservato nella custodia della chitarra. 

Ci volle Gianni Ravera per convincere Toto a portare L’italiano a Sanremo ’83. “[...] fregatene del suo rifiuto, la canterai tu. Vedrai che sarà un successo”. Insomma, successo.

Al Festival il brano arrivò quinto, dietro la “protetta” di Baudo, Tiziana Rivale, Donatella Milani, Dori Ghezzi. Un podio da storcere il naso. Quarta però era la sognante, magnifica Vacanze romane dei Matia Bazar. Subito dietro ecco L’italiano, premiata però da casa con il primato delle cartoline Totip, più di mezzo milione di voti. Un flop per la giuria, un trionfo di suffragi dai teleutenti. 

Da lì, la conquista del mondo: sì, i connazionali all’estero, la nostalgia di casa, l’orgoglio patrio, l’inno “ufficioso” cantabile quanto e più di Mameli. Versioni in mille lingue, dal finlandese al cinese. Naturalmente il russo. In tutta l’urss avevano visto il Festival di Sanremo, il Cremlino adottò Cutugno. E non solo lui.

Dissolvenza. 2019. Un gruppo di deputati ucraini invia un documento agli Sbu, i servizi segreti ucraini, chiedendo al loro capo Vasily Gritsak di mettere al bando il cantante Toto Cutugno in quanto “nemico del Paese”. Nel faldone non c’è solo l’andirivieni “per lavoro” dell’artista con la Russia, ma anche il gesto “protervo” di aver invitato il Coro dell’armata Rossa a Sanremo 2013, dove i soldati hanno accompagnato il musicista della Lunigiana in una esecuzione da superospite de L’italiano e di Nel blu dipinto di blu.

[…] Se n’è andato subito dopo essere diventato ottuagenario, portandosi nell’anima per tutta la vita l’incubo di veder morire soffocata, per un boccone di traverso, la sorella Anna. Lei aveva sette anni, lui due di meno. 

Una carriera da cento milioni di copie lo ha, per quanto si possa, consolato per quella tragedia. […] Ora tutta la musica italiana tributa a Cutugno l’omaggio che si deve al big sceso dal palco. Tra gli altri, Pippo Baudo sottolinea: “Mi ero accorto subito della potenza internazionale de L’italiano, Sembrava scontroso, era solo malinconico”. Inevitabilmente, la Meloni prova a mettere il cappello sulla memoria del cantautore nazional-popolare: “Addio, italiano vero”. Ma la miglior epigrafe ce la concede ancora Al Bano: “In tanti lo denigravano, lo incenseranno dopo morto. Toto, come Totò”.

Da L’Identità.

Addio a Toto Cutugno, l’italiano più amato all’estero. Giovanni Vasso su L'Identità il 22 Agosto 2023 

Lasciatelo cantare, Toto Cutugno, l’italiano più amato all’estero, è morto. Aveva da poco compiuto ottant’anni. Era ricoverato all’ospedale San Raffaele di Milano. Era malato da tempo. L’annuncio della morte di Toto Cutugno è arrivato dalla sua casa discografica, la Carosello Record-Edizioni Curci, che in una nota ha scritto: “A poco più di un mese dal suo ottantesimo compleanno ci lascia Toto Cutugno uno degli artisti italiani più famosi di sempre. Cantautore da oltre 100 milioni di copie, esponente della musica italiana più noto in tutto il mondo, cantautore che ha saputo portare la semplicità e la tradizione della canzone italiana anche all’estero, un artista dalla straordinaria carriera che continuerà a ispirarci e unirci”.

Già, perché Toto Cutugno è stato davvero l’italiano più amato all’estero. Sicuramente più all’estero che in patria. Aver venduto cento milioni di dischi, nel mondo, vorrà pur dire qualcosa. Ma non è solo la contabilità a dargli ragione. Ma quello che ha lasciato dietro di sé. La sua musica, le sue canzoni, per esempio. Ha vinto una sola volta Sanremo, nel 1980. Poi tre decadi passate al secondo posto, dove si è piazzato per ben cinque edizioni. Ma a dargli ragione non è il verdetto dei giudici né della giuria popolare, ma ciò che rimane della sua musica. C’è una canzone, sulle altre, che è diventata il (vero?) inno nazionale italiano. Almeno, all’estero. Prima che Netflix reinventasse “Bella Ciao”, con quel successo globale che è stato La Casa di Carta, fuori dai confini nazionali, per far riferimento alla musica italiana si sentiva spesso intonare, con mille e un accento straniero, “Lasciatemi cantare”. Una canzone, peraltro, di cui si sono serviti decine e decine di film coevi. Oppure la saga dell’ispettore Nico Giraldi, interpretato dall’immortale Tomas Milian, per la precisione nel film “Delitto in Formula 1”. O, ancora, nel cult “Al Bar dello Sport”, con Lino Banfi e Jerry Calà. E pensare che Adriano Celentano, per il quale era stata scritta quella canzone, la rifiutò. Regalando l’immortalità artistica a Toto Cutugno.

Toto Cutugno è stato un’icona, specialmente nei Paesi dell’Est. È stato forse il più apprezzato tra le decine di artisti italiani anni ’80 che, tra Russia ed Europa orientale, hanno ritrovato una seconda giovinezza mentre, in Italia, su di loro cadeva un po’ la cappa dell’oblio. A Mosca e dintorni, Toto Cutugno era un mito. Al punto da intrecciare un ponte solidissimo tra Italia e Russia. Che si consolidò con l’esibizione, officiata da Fabio Fazio, sul palco dell’Ariston di Sanremo del coro dell’Armata russa, insieme allo stesso Cutugno, nella canzone sua più iconica, l’Italiano. Appunto. Era il 2013, appena dieci anni fa. Sembra passata un’era geologica. E non solo per gli sconvolgimenti geopolitici che, nel frattempo, si sono registrati sui sismografi politici internazionali.

Era nato in quell’angolo di Italia dove Liguria e Toscana si toccano. Era originario della provincia di Massa Carrara ma era cresciuto a La Spezia, dove ha mosso i primi passi nella musica. Cominciò a fare sul serio con gli Albatros, dove inizia a cantare. Quindi nella seconda metà degli anni ’70 inizia la sua ascesa. Tutta intrecciata al pop, a Sanremo e, dopo gli anni ’90, alla Russia e all’Est Europa.

Da L’Inkiesta.

L’italiano vero. La lacca, i secondi posti e altri motivi per cui Toto Cutugno era un mito nazionalpopolare. Guia Soncini su L'Inkiesta il 22 Agosto 2023.

Il cantante morto a ottant’anni era famoso in un’epoca in cui la popolarità era solida e larga, da prima serata e da sagra di paese. Oggi la sua celebre canzone del 1983 viene canticchiata da generazioni che non hanno la più pallida idea di cosa significhi «un partigiano come presidente»

È il 2013. È il penultimo (per ora) Sanremo condotto da Fabio Fazio, e sono trent’anni dal Sanremo 1983. Quello che si ricorda perché Vasco Rossi arriva penultimo. Perché in gara c’è un frate. E perché la più moschicida tra le canzoni impresentabili, “L’italiano”, non vince.

Trent’anni dopo, nel 2013, è come se “L’italiano” – che tutti chiamano “Un italiano vero”, perché a volte le canzoni hanno i titoli che vengono dati loro dalla popolarità e non dagli autori – avesse vinto, e pare ovvio invitare Toto Cutugno.

Toto accetta con entusiasmo, e dice di voler fare «una cosa che lasci il segno». La Rai gli risponde come risponde abitualmente la Rai: non c’è una lira. Sai i budget, sai la crisi, sai la coda lunga di Lehman Brothers: vieni, canti “L’italiano”, non servono stranezze, la sanno tutti, son tutti contenti.

Toto acconsente. Poi qualche giorno dopo richiama: viene l’Armata rossa. I dirigenti Rai sbiancano: e chi la paga? Toto Cutugno risponde come può rispondere uno che da trent’anni incassa le royalties di una canzone che persino l’Armata rossa ha in repertorio: pago io.

Prima del riscaldamento globale, ci fu il buco nell’ozono, l’imminente fine del mondo di quando i bambini eravamo noi. Prima che il riscaldamento globale fosse colpa degli aerei privati delle star del cinema, il buco nell’ozono era colpa della lacca di Toto Cutugno.

I comici ci hanno campato per anni, a raccontarlo oggi mi viene da rivalutare “Lol”: siamo cresciuti con comici la cui idea di battuta era «Ogni volta che Toto Cutugno si pettina, il buco nell’ozono si allarga».

Toto Cutugno lo conoscono tutti per molte ragioni, la principale delle quali è che è stato famoso negli anni in cui essere famosi voleva dire essere davvero famosi. Non: essere di casa per qualche milione di persone che ti guardano anche mentre sei al gabinetto, e completamente ignoto a tutti gli altri.

Famoso quando esisteva il nazionalpopolare, in senso gramsciano ma più di tutto in senso baudiano. In quegli anni lì Toto lo prendevamo in giro tutti (che è il vero segno della popolarità), non solo per la lacca ma anche per i secondi posti a Sanremo. Non so neanche più quante volte sia arrivato secondo ai Sanremo degli anni Ottanta, ma ricordo quando m’innamorai fugacemente d’un belloccio che cantava una canzone scritta da lui.

Il belloccio si chiamava Luis Miguel, e arrivò anche lui secondo (un marchio di fabbrica) con “Noi, ragazzi di oggi”, scritta da Toto, come già lo era stata “Olympic Games”, cantata da Miguel Bosé: la me bambina s’innamorava di bellocci musicati da Toto, era una parafilia come un’altra.

L’unica volta che ho incrociato Toto Cutugno è stata quando Lorenzo Jovanotti ha affittato un negozio in piazza Gae Aulenti, a Milano. Era il Natale del 2017, e il giorno in cui andava a trovarlo Toto mi è sembrato doveroso andare in visita a un pezzo di storia d’Italia (se ricordo bene era anche la prima volta che si vedevano tra loro, Cutugno e Cherubini, anche se il secondo mi aveva raccontato di aver saccheggiato da un pezzo del primo l’«affacciati alla finestra, amore mio» di “Serenata rap”).

Quella sera Lorenzo gli chiese di quei sette secondi posti a Sanremo, e se arrivare sempre secondo gli bruciasse, e lui rispose: «Secondo te?». Poi si erano distratti prima di mettersi a cantare “Sarà quel che sarà”, la canzone di Tiziana Rivale che aveva vinto nell’83. Ancora mi dispiace che non l’abbiano fatta: era una di quelle canzoni che nei giorni di quel Sanremo lì mi sembravano stupendissime, e un minuto dopo erano dimenticate. Mica come “L’italiano”, che ancora la canticchiano generazioni che non hanno la più pallida idea di cosa significhi «un partigiano come presidente».

Del dietro le quinte, ricordo le facce del management di Lorenzo mentre Toto spiegava loro che era un delitto non farlo andare a esibirsi in Russia, che gli si sarebbe aperto tutto il mercato dell’est europeo, che avrebbe fatto un sacco di soldi. Come fai a dire a uno come Toto Cutugno che quel tipo di roba lì non esiste più, quel tipo di popolarità solida e larga, da prima serata e da sagra di paese, che non ha paura di sporcarsi coi mercati più impresentabili. Non glielo dici, e infatti quelli sorridevano e dicevano cose come «Ora vediamo».

La Russia è tornata l’anno scorso, quando ho pensato che bisognava intervistarlo, non solo perché quella sera a Milano Lorenzo gli aveva raccontato che Eugene, il cantante ucraino dei Gogol Bordello, gli aveva detto che “L’italiano” era la sua canzone preferita, perché incarnava il suo desiderio di libertà. Ma anche perché se non aveva qualcosa da dire sulla guerra lui, lui che era famoso lì quanto qui, lui che aveva pagato all’Armata rossa l’aereo e l’albergo e i tramezzini nei bar sanremesi.

Non era un’idea originalissima, come dimostrano tutte le interviste che in questo anno e mezzo avete letto sui giornali a tutto quel giro di cantanti famosi là e qua, Pupo, Al Bano, i Ricchi e poveri; ma non riuscii comunque a realizzarla, rinunciando dopo mezza giornata di rimbalzi tra il figlio, il manager, l’addetta stampa. Tutti gentilissimi e tutti perfetti per quello specifico tipo di celebrità ormai estinta: l’addetta stampa si chiamava Gessica, con la G.

Mi disse che magari più avanti, ora proprio no, Toto non riusciva a parlarne, soffriva troppo per questa situazione. Pensai che ci sarebbe stato tempo in futuro, perché il guaio con quelli che sono stati famosi negli anni in cui la fama era roba concreta è che pensi siano immortali, pensi non possano mai smettere d’essere un pezzo di paesaggio.

Pensai che prima o poi l’avrei intervistato, non tanto per sapere di Mosca, ma di Napoli. Di quando negli anni Novanta decisero che la sede Rai andava valorizzata, e mandarono lui e Alba Parietti a condurre una Domenica In da lì. Toto, lascia stare Vladimir, dimmi com’era lavorare con una che pensava d’esser lei quella famosa, tu che avevi fatto la storia delle canzonette e pensavamo che la cosa più rilevante di te fosse la lacca.

Da La Gazzetta del Mezzogiorno.

Milano, si è spento Toto Cutugno. Aveva 80 anni ed era al San Raffaele di Milano, ricoverato per una lunga malattia che si era aggravata negli ultimi mesi. REDAZIONE ONLINE su La Gazzetta del Mezzogiorno il 22 Agosto 2023.

È morto Toto Cutugno. Nato il 7 luglio 1943 e scomparso oggi 22 agosto all’ospedale San Raffaele di Milano dove era ricoverato per l’aggravarsi di una lunga malattia, Toto Cutugno è stato uno dei cantanti più amati in Italia e simbolo della melodia italiana all’estero grazie soprattutto a L’Italiano, diventato nel tempo una specie di inno nazionale. 

Un cuore grande che valicava i confini geografici, quello di Toto Cutugno. Nei giorni successivi l'incidente ferroviario tra la stazione di Andria e quella di Corato, il 12 luglio 2016, il più grave disastro ferroviario mai avvenuto in Puglia che causò la morte di 23 persone e il ferimento di 57, il cantante pubblicò un post sul suo profilo Facebook nel quale si faceva portavoce della richiesta di sangue dell'Avis regionale Puglia. «La Puglia ha bisogno di voi!», recitava il post, e indicava i centri trasfusionali pugliesi dell'Avis dove si sarebbe potuto donare sangue. 

Toscano ma cresciuto in Liguria, non ancora ventenne fonda un gruppo, Toto e i Tati, proponendo live i suoi brani. Il 1975 è l'anno del grande successo in Francia, dove Joe Dassin incide la sua L’etè Indien, che diventa una hit internazionale. Da lì le richieste si moltiplicano: Toto scrive canzoni per Mireille Mathieu, Dalida, Johnny Hallyday, Michel Sardou, Claude Francois, Hervè Vilard. In Italia compone per Domenico Modugno, Gigliola Cinquetti, Ornella Vanoni. Il debutto al festival di Sanremo è nel 1976: sul palco dell’Ariston sale con il suo gruppo, gli Albatros, con 'Volo AZ 504'. Arriva terzo. Poco dopo arriva "Nel cuore nei sensi", con cui partecipa al Festivalbar e che balza ai vertici delle classifiche nella versione francese incisa da Gerard Lenorman. L'anno dopo gli Albatros tornano a Sanremo con un’altra canzone di Toto, Gran Premio. Una svolta importante poi nel '78 con "Donna donna mia". Sigla del programma "Scommettiamo" condotto da Mike Bongiorno, raggiunge i vertici della hit parade. Un periodo fertile per Cutugno, che scrive anche la prima canzone per il grande Adriano Celentano, Soli. Una canzone che per mesi resterà al primo posto in classifica. Per l’album di debutto, "Voglio l’anima", bisognerà attendere il 1979. I brani saranno successivamente incisi da vari artisti, italiani e stranieri, e la title-track diventa sigla del programma tv francese "Saranno famosi", restando per settimane ai vertici della hit parade. Ma sono tanti i successi del Toto nazionale: Solo noi viene lanciato a Sanremo nel 1980 e vince: la sua unica vittoria in 15 festival. Nello stesso anno firma tutte le canzoni del disco Il tempo se ne va per Adriano Celentano. Dopo la pubblicazione di La mia musica, del 1981, nel 1983 con il suo brano-simbolo, L'Italiano arriva solo quinto ma la canzone vende milioni di dischi e lo rende famoso nel mondo, Israele, Iran e Corea compresi.

Quindici partecipazioni al festival di Sanremo all’attivo (con una storica performance nel 1990 in coppia con Ray Charles), autore di hit amatissime anche all’estero, da L’Italiano a Il tempo se ne va, La mia musica, Solo noi, per citarne solo alcune, Cutugno è stato un vero uomo di spettacolo, capace di passare con estrema disinvoltura dal cantautorato alla conduzione televisiva (nel 1987 fu alla guida di una fortunata edizione di 'Domenica In').

All’Ariston (è quasi leggenda la sua fama di "eterno secondo") tornerà tante volte, come interprete, autore e superospite, mai in modo scontato: nel 2010, dopo un periodo difficile per motivi di salute, arriva a Sanremo con Belen Rodriguez, con la quale canta Aeroplani. Nel 2012 invitato da Fabio Fazio, esegue L’Italiano con il coro dell’Armata rossa. Il suo legame con il festival è talmente forte che nel 2005 per parteciparvi rinuncia all’Olympia di Parigi. E, tra un festival e l’altro, Toto gira il mondo, non sta mai fermo sempre fedele al suo slogan: «Lasciatemi cantare con la chitarra in mano, lasciatemi cantare, sono un italiano». Nel 2018 per un malore è costretto ad annullare concerti in Belgio. Nello stesso anno ha la soddisfazione di cantare per la seconda volta nella lunga carriera all’Olympia di Parigi e Le Monde dedica per l’occasione una pagina all’italiano vero.

Nel 2019 scoppia un caso Ucraina: un gruppo di deputati ucraini con una lettera chiese di precludere per presunte posizioni filorusse l’ingresso a Toto Cutugno che aveva un concerto a Kiev sold out da tempo. Lui replicò di essere «sorpreso e preoccupato», dichiarandosi sempre distante dalla politica: «Io sono apolitico». La vicenda poi si sgonfia e lui riesce a cantare davanti ad un pubblico entusiasta. Nel 2021 fu felice di passare il testimone ai Maneskin a Eurovision: fu lui infatti il vincitore del concorso europeo nel 1990. Popolarissimo sia a Mosca che Kiev a guerra iniziata nel 2022 dichiarò: «sogno bambini russi e ucraini insieme». 

Da Il Corriere del Giorno.

E’ morto a 80 anni il cantante Toto Cutugno. Redazione CdG 1947 su il Corriere del Giorno il 22 Agosto 2023  

Ricoverato all'ospedale San Raffaele a Milano, era malato da tempo. Al Festival di Sanremo il trionfo con 'Solo noi' nel 1980. 'L'italiano' il suo successo più grande. I funerali giovedì a Milano

E’morto Toto Cutugno. Il cantante aveva 80 anni ed era malato da tempo. Si è spento all’ospedale San Raffaele di Milano dove era ricoverato nella struttura nota come ‘Iceberg’ da molte settimane per una patologia oncologica che si è aggravata negli ultimi giorni. Lui stesso diversi anni fa aveva raccontato di essere stato in cura proprio nell’Irccs milanese per un tumore alla prostata che aveva minacciato anche i reni con metastasi. Una malattia, il tumore, con la quale ha convissuto per lungo tempo. I funerali saranno celebrati alle 11 giovedì 24 agosto a Milano nella Basilica Parrocchia dei Santi Nereo e Achilleo in viale Argonne al civico 56.

Toto Cutugno, all’anagrafe Salvatore Cutugno, era nato a Fosdinovo il 7 luglio 1943. La sua carriera è legata a doppio filo al Festival di Sanremo, con 15 partecipazioni. Trionfò nel 1980 con ‘Solo noi’. In 6 edizioni si è piazzato secondo, una volta è arrivato terzo. Nel 1983, con “L’italiano” arriva quinto: il brano, però, diventerà il suo successo più grande. È stato considerato uno degli artisti italiani più noti e vanta oltre 100 milioni di copie di dischi vendute.

Il successo gli ha sorriso sia come interprete di sue canzoni che come autore o produttore per altri. Notissime infatti, le collaborazioni con altri, come quella con Adriano Celentano per “Il tempo se ne va“, che si racconta fosse ispirata alla figlia del molleggiato, Rosita, e prendesse spunto dalle riflessioni dei genitori che assistono alla crescita di un figlio. 

Ma il nome di Toto Cutugno che ha cantato anche con gli Albatros fra il 1976-77,  è legato soprattutto alla notissima “L’Italiano”, brano cantato e ricantato in tutto il mondo. Inoltre, dettaglio importante, Toto Cutugno è stato il cantante che con Al Bano, Peppino di Capri, Anna Oxa e Milva, detiene il record delle partecipazioni al Festival di Sanremo.

Se ne contano ben 15. Il festival era casa sua. Tre volte è salito sul palco dell’Ariston in veste di cantante non in gara, una con una versione di “Salirò” cantata con Daniele Silvestri in qualità di ospite nella serata dei Revival, e poi altre due volte, nel 2011 e 2013 per cantare ancora l’Italiano una volta insieme a Tricarico e un’altra con il coro dell’Armata Rossa. 

A Sanremo, Cutugno è giunto una volta primo, sei volte secondo, quinto con L’Italiano, e ha piazzato nei primi tre posti anche alcuni brani scritti per altri artisti. Sua nel 1990, la vittoria all’Eurovision Song Contest con il brano “Insieme”: 1992, secondo dei tre artisti italiani di sempre a riuscirci, dopo Gigliola Cinquetti nel 1964 e prima dei Maneskin nel 2021

Cutugno ha più volte raccontato che “L’Italiano” era stata scritta con Cristiano Minellono, per Adriano Celentano che rifiutò di interpretarla. L’allora patron del Festival, Gianni Ravera, convinse Toto Cutugno a cantarla e fu un successo mondiale. Il brano scalò le classifiche europee, rimase in Italia nella Top 10 per settimane, divenne cover grazie ad altri artisti nel mondo e fu tradotto in diverse lingue, facendo vendere milioni di copie. 

La notizia della scomparsa di Cutugno è stata diffusa da Carosello Records ed Edizioni Curci in una nota congiunta : “A poco più di un mese dal suo ottantesimo compleanno – si legge – ci lascia uno degli artisti italiani più famosi di sempre. Cantautore da oltre 100 milioni di copie, esponente della musica italiana più noto in tutto il mondo, cantautore che ha saputo portare la semplicità e la tradizione della canzone italiana anche all’estero, un artista dalla straordinaria carriera che continuerà a ispirarci e unirci“.

“Ciao a Toto Cutugno, un italiano vero”, ha scritto la premier Giorgia Meloni. “Con la scomparsa di Toto Cutugno il mondo della musica perde un interprete popolare e importante. Un artista, con l’orgoglio di essere italiano, apprezzato anche all’estero, i cui successi sono stati la colonna sonora di un’epoca. Dimostrò il suo talento anche come autore. Sono vicino alla famiglia e alle persone a lui più care in questo momento doloroso “, dichiara il Ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano. Redazione CdG 1947

Da Il Giornale.

È morto Toto Cutugno, aveva 80 anni: addio a "un italiano vero". Se n'è andato dopo una lunga malattia il cantautore Toto Cutugno. A darne notizia il suo manager. Aveva portato l'Italia nel mondo. Roberta Damiata il 22 agosto 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 Una lunga carriera

 L'Italiano il brano cult famoso in tutto il mondo

 Il successo all'estero

 Il passaggio di testimone ai Maneskin

 La lunga malattia e l'aiuto di Al Bano

È morto Toto Cutugno, l'amatissimo cantautore che con il brano L'Italiano ha portato la bellezza del nostro Paese in tutto il mondo. Aveva 80 anni appena compiuti a luglio. Si è spento alle 16 all'ospedale San Raffaele di Milano dove era ricoverato. A dare la notizia all'Ansa è il suo manager Danilo Mancuso che ha spiegato che, "dopo una lunga malattia, il cantante si era aggravato negli ultimi mesi".

Una lunga carriera

Nato il 7 luglio del 1943, da sempre appassionato di canto, è stato il simbolo della melodia italiana all'estero. Di tutti quei migranti e quelle seconde generazioni lontane dall'Italia che in lui trovavano un legame forte nelle loro radici. Toscano ma cresciuto in Liguria, non ancora ventenne fonda un gruppo, Toto e i Tati, proponendo dal vivo i suoi brani. Il 1975 è l'anno del grande successo in Francia e l'anno successivo c'è il debutto al Festival di Sanremo: sul palco dell'Ariston sale con il suo gruppo, gli Albatros, con Volo AZ 504. Arriva terzo. Ma sono ben 15 le sue partecipazioni al Festival della Musica italiana, tra cui una storica, l'edizione del 1990, in coppia con Ray Charles.

Arriva poi Nel cuore nei sensi, brano con cui partecipa al Festivalbar che arriva ai primi posti della classifica francese per la versione incisa da Gerard Lenorman. Un talento il suo, nello scrivere parole semplici che arrivano direttamente al cuore delle persone, che lo portò a diventare autore anche per Adiano Celentano con il pezzo Soli. Una canzone che per mesi resterà al primo posto in classifica. Ma non solo, nel 1980, sua è la firma di tutti i brani del disco Il tempo se ne và proprio di Adriano Celentano, che alterna con la sua attività di cantante sempre amato e acclamato.

L'Italiano il brano cult famoso in tutto il mondo

Nel 1981 esce: La mia musica, e due anni dopo è nuovamente sul palco del Festival di Sanremo con il brano che lo renderà famoso in tutto il mondo: L'Italiano. La canzone vende milioni di dischi e lo rende famoso nel mondo, Israele, Iran e Corea compresi. Nel 2010 dopo un periodo difficile per motivi di salute, scopre di avere un tumore alla prostata, arriva a Sanremo con Belen Rodriguez, con la quale canta Aeroplani. Nel 2012 invitato da Fabio Fazio, canta L'Italiano con il coro dell'Armata rossa visto che la Russia è uno dei Paesi in cui è più amato. Il suo legame con il Festival è comunque talmente forte che nel 2005 pur di parteciparvi, rinuncia al palco all'Olympia di Parigi. Un legame con l'Italia che ha sempre messo al primo posto.

Il successo all'estero

Nel frattempo però Cutugno gira il mondo portando la sua melodia e le sue parole che toccano il cuore. Ma proprio per la sua grande fama non mancano neanche i problemi, come nel 2019 quando scoppia il caso Ucraina. Un gruppo di deputati ucraini con una lettera chiese di precludere per presunte posizioni filorusse l'ingresso a Toto Cutugno che aveva un concerto a Kiev sold out da tempo. Lui replicò di essere "sorpreso e preoccupato", dichiarandosi sempre distante dalla politica: "Io sono apolitico".

Il passaggio di testimone ai Maneskin

Era stato lui nel 1990 a vincencere l'Eurovision con il brano Insieme e da quel momento in poi nessuno era più riuscito a riportare a casa quel titolo. Ci riuscirono nel 2021 i Maneskin, e il cantautore espresse per loro parole molto belle e di grande orgoglio cedendogli il testimone.

La lunga malattia e l'aiuto di Al Bano

Nel 2008 aveva lottato contro un cancro ed era stato proprio lui a dichiarlo anni dopo dicendo: “Non gliel’ho data vinta. Ho combattuto e sto meglio”. Si trattava di un grave tumore alla prostata, da cui si salvò anche grazie all'aiuto dell'amico Al Bano. "Ho conosciuto questo medico che mi ha presentato Al Bano, che aveva operato suo suocero e lavorava al San Raffaele. Mi ha salvato la vita. Io sono un miracolato. Mi godo la vita, perchè è un dono di Dio e va vissuta al massimo"

In seguito però il tumore si era estero raggiungendo anche un rene, che fu costretto a rimuovere. Anche questa volta Cutugno si riprese, ma alla fine, quella battaglia con la malattia si è ripresentata, e all'età di 80 anni non gli ha lasciato scampo. Di lui però rimarrà sempre una grandissima eredità musicale che, è proprio il caso di dirlo, il mondo ci invidia.

Chi è Nico, il figlio di Toto Cutugno fuori dal matrimonio accolto dalla moglie Carla. Nicolò Cutugno è il figlio che il cantante ha avuto da una relazione extraconiugale che gli è stata perdonata con molto amore dalla moglie. Francesca Galici il 22 agosto 2023 su Il Giornale.

A 80 anni si è spento Toto Cutugno, cantante simbolo del panorama italiano. Da tempo malato, è scomparso questo pomeriggio attorno alle 16 all'ospedale San Raffaele di Milano. La malattia l'ha tenuto lontano dalle scene per lungo tempo ma durante tutti gli anni di attività è stato un punto di riferimento. "L'Italiano", brano del 1983, è la sua canzone simbolo, il brano che, a parte l'Inno di Mameli, riesce a unire tutti gli italiani sotto le sue note. Ha raggiunto la popolarità in Italia ma anche all'estero, in particolare in Sudamerica e in Russia, al punto tale che l'Ucraina l'aveva inserito in una lista nera allo scoppio della guerra. Della sua vita privata non si sa molto a parte un dettaglio: è stato sempre molto riservato e si sa solo che è stato sposato con Carla e che ha avuto un figlio, ma non è dalla consorte.

Nicolò Cutugno, infatti, è frutto dell'amore di Toto Cutugno con un'amante, Cristina. Nonostante questo avvenimento, il cantante ha sempre raccontato che la moglie ha continuato a stargli al fianco. "Ero e sono sposato con Carla e volevo un figlio. E questo figlio, Nico, l’avevo avuto da Cristina. Carla poteva cacciarmi di casa e invece non lo ha fatto. Al contrario, la prima cosa che mi disse fu di riconoscere mio figlio e dargli il mio cognome", ha spiegato il cantante, mettendo in evidenza il grande cuore e la grande intelligenza della donna che lo ha accompagnato per tutta la vita. Di Nicolò Cutugno si sa molto poco, è un ragazzo riservato e lontano dal mondo dello spettacolo. Nel 2018, intervistato dal Corriere della Sera, ha rivelato che il ragazzo aveva "28 anni, è laureato in Economia ed è uno di quei tanti bravi ragazzi italiani sui quali il nostro Paese dovrebbe puntare".

Molto meno si sa della moglie Carla, che ha sempre preferito rimanere lontana dai riflettori, nonostante la grande popolarità del marito. Si sa che i due si sono sposati nel 1971 e che tra loro c'è stato un grande amore. E non sarebbe potuto che essere così, visto il tradimento che la donna ha perdonato al marito.

Non solo "L'Italiano": ecco le canzoni più famose di Toto Cutugno. Da “Voglio andare a vivere in campagna” a “L'italiano”, i brani indimenticabili del cantautore di Fosdinovo. Massimo Balsamo il 22 agosto 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 Solo noi (1980)

 L’italiano (1983)

 Serenata (1984)

 Le mamme (1989)

 Gli amori (1990)

 Voglio andare a vivere in campagna (1995)

A poco più di un mese dal suo ottantesimo compleanno ci lascia uno degli artisti italiani più amati e famosi di sempre. Toto Cutugno si è spento all’ospedale San Raffaele dopo una lunga battaglia con la malattia. Con la sua scomparsa se ne va il simbolo della melodia italiana all’estero, un artista da oltre 100 milioni di copie che ha lasciato un segno indelebile nella storia della musica nostrana. Habitué del festival di Sanremo con ben quindici partecipazioni – tanto da rinunciare all’Olympia di Parigi nel 2005 per accettare l’invito all’Ariston – Toto Cutugno ha conosciuto il successo in tutto il mondo in nome del suo slogan: “Lasciatemi cantare con la chitarra in mano, lasciatemi cantare, sono un italiano".

Solo noi (1980)

“Solo noi” è uno dei primi grandi successi firmati da Toto Cutugno, un brano straordinario che gli ha permesso di trionfare al festival di Sanremo 1980, scavalcando “Su di noi” di Pupo e “Mariù” di Gianni Morandi. La canzone rimase nella top ten fino alla fine di maggio – per più di tre mesi – posizionandosi al diciottesimo posto nella classifica generale dei singoli più venduti.

L’italiano (1983)

Scritta da Cristiano Minellono come “Su di noi”, “L’italiano” ha reso Toto Cutugno famoso in tutto il mondo, tanto da diventare il portavoce della canzone italiana. Presentata al festival di Sanremo – poi vinto da “Sarà quel che sarà” di Tiziana Rivale – la canzone trionfò nella speciale classifica Totip “Cantanti & vincenti”. 100 milioni di copie vendute in tutto il mondo e traduzione in decine di lingue, compreso il cinese.

Serenata (1984)

Un anno dopo “L’italiano”, Toto Cutugno firma un’altra bellissima canzone: “Serenata”. Meno famosa di altre, vanta sfumature romantiche, tanto da essere dedicata alla prima moglie Carla. Secondo a Sanremo, il brano è stato scritto insieme a Vito Pallavicini.

Le mamme (1989)

Anche “Le mamme” si è classificata al secondo posto al festival di Sanremo, superata soltanto dalla coppia composta da Fausto Leali e Anna Oxa. Secondo molti, si tratta della canzone più bella dedicata a una madre e risulta difficile non commuoversi.

Gli amori (1990)

Tris di secondi posti per Toto Cutugno con “Gli amori” nel 1990, ma c’è di più. E’ infatti passata alla storia l’esibizione al Palafiori al fianco di Ray Charles, un’incredibile standing ovation da brividi. Quindici anni più tardi, il brano è stato scelto da Sergio Castellitto per la colonna sonora del suo film “Non ti muovere”, con protagonista Penelope Cruz.

Voglio andare a vivere in campagna (1995)

Diciottesima al festival di Sanremo del 1995, “Voglio andare a vivere in campagna” non fu molto apprezzata in un primo momento. Il tempo però ha dato ragione a Toto Cutugno: un inno alle origini diventato uno dei suoi brani più amati e cantati in tutto il mondo.

Da Libero Quotidiano.

Toto Cutugno morto dopo un lungo ricovero: "Di cosa soffriva". Libero Quotidiano il 22 agosto 2023

Toto Cutugno si è spento oggi, martedì 22 agosto, all’età di 80 anni. Li aveva compiuti soltanto lo scorso luglio, ma purtroppo il celebre cantautore è venuto a mancare all’ospedale San Raffaele di Milano, dove si trovava ricoverato da molte settimane. Cutugno soffriva di una patologia oncologica che si è aggravata negli ultimi giorni, conducendolo alla morte. Anni fa il cantautore aveva raccontato di essere stato in cura per un tumore alla prostata che aveva minacciato anche i reni.  

Cutugno ha dovuto convivere per parecchio tempo con la malattia. Al Bano Carrisi ha svelato un retroscena a riguardo: “Circa 15 anni fa mi chiamò, essendo io uno dei fondatori dell’ospedale San Raffaele di Milano, affinché gli segnalassi un professore per curare il suo male. Un male grave, visto che i medici allora mi dissero che aveva solo 5 mesi di vita. Invece lui è stato grandissimo, ha resistito 15 anni. Un vero miracolo”. Ovviamente la morte di Cutugno ha smosso l’intero Paese, con la premier Giorgia Meloni che lo ha salutato così: “Ciao a Toto Cutugno, un italiano vero”. 

La notizia della sua scomparsa è stata diffusa da Carosello Records ed Edizioni Curci in una nota: "A poco più di un mese dal suo ottantesimo compleanno - si legge - ci lascia uno degli artisti italiani più famosi di sempre. Cantautore da oltre 100 milioni di copie, esponente della musica italiana più noto in tutto il mondo, cantautore che ha saputo portare la semplicità e la tradizione della canzone italiana anche all'estero, un artista dalla straordinaria carriera che continuerà a ispirarci e unirci”.

Toto Cutugno, il ricordo di Baudo: "Cosa faceva in 10 minuti". Leonardo Iannacci su Libero Quotidiano il 24 agosto 2023

Cinicamente snobbato da una certa critica radical chic che lo considerava il più nazional-popolare dei nostri cantautori, Toto Cutugno si è sempre preso una rivincita sul piano personale nei gusti del pubblico e nella stima che ha raccolto fuori dai nostri confini. Lo confermano i 100 milioni di dischi venduti e la sua L’Italiano (scritta in un ristorante italiano di Toronto), divenuta quasi un secondo inno in cinque continenti. Piaccia o no, le cose stanno così anche se il buon Toto, sofferente da tempo per una forma tumorale alla prostata e ai reni, ha pensato (male) di lasciarci ieri all’età di 80 anni. Il decesso all’ospedale San Raffaele di Milano. I funerali si terranno domani a Milano. 

L’OMAGGIO DI VETTEL

La sua popolarità era davvero enorme all’estero, a tal punto che qualche anno fa Sebastian Vettel, pilota della Ferrari, per festeggiare una grande vittoria in Formula 1. Vettel intonò dall’abitacolo della propria monoposto proprio L’Italiano, cantandola in onore del nostro paese: «Lasciatemi guidare con la chitarra in mano...», e tutto il mondo si stupì. In Francia è stato tra gli autori più ricercati e ha scritto per Mirelle Mathieu e Johnny Hallyday, in Spagna per Miguel Bosè e Luis Miguel.

Negli Stati Uniti ha collaborato per Iggy Pop. Persino in Cina lo conoscono. «Toto era davvero popolare in tutto il mondo. Non ricordo una serata all’estero nella quale le sue canzoni non venissero citate», è Pippo Baudo, affranto per la scomparsa dell’amico, a celebrane il ricordo. «L’Italiano non è una bella canzone ma un vero capolavoro di pop-melodico con un testo che rimarrà per sempre, un brano che si inserisce nell’immaginario del nostro paese come un nuovo inno. Parla della gente comune, si rivolge alle persone di tutti i giorni ed è un ritratto impressionistico dell’Italia degli anni Ottanta-Novanta. Noi eravamo così in quegli anni e lui ci ha dipinti all perfezione. Chi era Toto? Un uomo timido, tenerissimo con suo figlio ma che poteva apparire a volte scontroso e persino ombroso. Era un artista in grado di scrivere canzoni in dieci-quindici minuti quando aveva l’ispirazione. Quindi un asso della musica».

Nato a Fosdinovo, in provincia di Massa Carrara, Cutugno aveva mosso i primi passi negli anni Settanta, dapprima con i Toto&i Rockers, poi con gli Albatros. Successivamente ha preso il via un felice percorso da solista che lo ha portato a fattive collaborazioni con Adriano Celentano, per cui scrisse Soli e l’intero album Il tempo se ne va, e ad agguantare notevoli successi. Lo testimoniano le quindici partecipazioni al Festival di Sanremo che vinse nel 1980 con il brano Solo noi e dove è giunto in sei occasioni al secondo posto. Una curiosità: il suo brano più celebre, L’Italiano appunto, all’Ariston si classificò soltanto al quinto posto (media tra il quarto posto del voto della giuria e il primo del voto popolare).

Ben prima dei Maneskin, nel 1990, Cutugno era stato l’ultimo cantante italiano a vincere l’Eurofestival, l’attuale Eurovision Song Contest: con il brano Insieme dominò la manifestazione che si teneva quell’anno a Zagabria, guadagnandosi persino il diritto di presentare quella successiva del 1991. Insieme allo stesso Celentano, a Pupo, Al Bano e i Ricchi e Poveri, è stato poi tra i cantanti italiani più celebrati nella Mosca putiniana.

SOLIDO RAPPORTO

Il nuovo millennio lo ha visto protagonista di un solido rapporto con il nascente show-business della Russia e con i suoi nuovi fan dell’est europeo, scelta che lo rese inviso all’Ucraina: a Kiev considerò artista “non gradito”. Toto fu molto colpito da questo diktat: «Faccio musica, non politica». Una delle sue ultime partecipazioni al Festival di Sanremo, da ospite, fu singolare perché riuscì a portare sul palco dell'Ariston il coro dell’Armata Rossa. Pensava alle sette note, Cutugno, soltanto a quelle. Epilogo con Baudo: «Perché lo hanno sempre definito un cantante nazional-popolare? Gelosie... Forse perché chi diceva questa baggianata non è mai riuscito a essere nè popolare e nè nazionale come lui. Addio Toto». 

 Morning News, Red Ronnie: "Cosa scrisse Repubblica su Toto Cutugno". Libero Quotidiano il 23 agosto 2023

"In Italia è sembrato sempre un po' snobbato, perché?": Simona Branchetti lo ha chiesto a Red Ronnie a proposito di Toto Cutugno, scomparso ieri all'età di 80 anni dopo un lungo ricovero in ospedale. Il giornalista e critico musicale, allora, in videocollegamento con Morning News su Canale 5, ha risposto: "Semplice, perché c'è una certa intellighenzia, soprattutto nei critici musicali, che decide ciò che è buono e ciò che è sbagliato". E questo - ha continuato Red Ronnie - "è un grave errore, per me non esiste la musica di serie A o di serie B, tutta la musica che dà emozioni è una musica valida. A me è successo anche quando mi occupavo dei Duran Duran, che tutti criticavano".

A tal proposito il critico ha voluto ricordare un episodio in particolare: "Nel 1990 lui andò a Sanremo con 'Gli amori' in coppia con Ray Charles, La Repubblica scrisse: 'Dio salvi Ray Charles', questa è una cattiveria allucinante". A sostenere che Toto Cutugno non sia stato apprezzato abbastanza è stato anche Al Bano Carrisi, che a LaPresse ha confidato: "Grande musicista, purtroppo in Italia non l'hanno capito come avrebbe meritato. All'estero ha avuto un grande successo, le sue canzoni sono state cantate da grandi interpreti in Francia e Germania. In Russia era un numero 1. Alla festa dei miei 70 anni in Russia c'era anche lui e fu un grande successo".

Da Il Riformista.

15 Festival di Sanremo e il successo internazionale. Addio a Toto Cutugno, “Italiano vero” morto a 80 anni: la storia del brano celebre in tutto il mondo che Celentano rifiutò. Redazione su Il Riformista il 22 Agosto 2023 

Addio a Toto Cutugno, celebre cantautore italiano morto martedì 22 agosto all’età di 80 anni in seguito a una lunga malattia. Era ricoverato all’ospedale San Raffaele di Milano. A dare la notizia all’agenzia ANSA è il suo manager Danilo Mancuso che spiega che, ”dopo una lunga malattia, il cantante si era aggravato negli ultimi mesi”  I funerali saranno celebrati giovedì 24 agosto alle ore 11 alla Basilica Parrocchia dei Santi Nereo e Achilleo in viale Argonne 56 a Milano.

Pseudonimo di Salvatore Cutugno, era nato a Fosdinovo, in provincia di Massa Carrara il 7 luglio 1943 ma è cresciuto a La Spezia dove i genitori si trasferirono per lavoro. E’ stato un cantautore, compositore, paroliere e conduttore televisivo italiano. Ha partecipato a ben 15 edizioni del Festival di Sanremo vincendolo nel 1980 con “Solo noi“. Per sei volte si è classificato al secondo posto. Con oltre 100 milioni di copie vendute, è tra gli artisti musicali italiani di maggior successo. Ha raggiunto la vetta delle classifiche, sia come interprete dei propri brani, sia come produttore e autore di canzoni per altri, in particolare per Adriano Celentano, negli anni settanta e ottanta. Nel 1990 ha vinto l‘Eurovision Song Contest con il brano Insieme: 1992, secondo dei tre artisti italiani di sempre a riuscirci, dopo Gigliola Cinquetti nel 1964 e prima dei Måneskin nel 2021. È uno dei 5 artisti a detenere il record di partecipazioni al Festival di Sanremo (gli altri 4 sono Al Bano, Peppino di Capri, Milva e Anna Oxa).

L’ITALIANO – Esplose in tutto il mondo nel 1983 quando al Festival di Sanremo cantò “Lasciatemi cantare con la chitarra in mano…” la celebre frase del brano suo più famoso e internazionale “L’italiano”. Nonostante il quinto, la canzone vince la votazione popolare, Scritta insieme a Cristiano Minellono, il brano era stato inizialmente pensato per l’interpretazione di Adriano Celentano che rifiutò (“non lo canterò mai perché non ho bisogno di dire sono un italiano vero, la gente lo sa…). Fu Gianni Ravera, organizzatore del Festival di Sanremo, a convincerlo a interpretarla. L’italiano scala le classifiche europee (in Italia raggiunge la prima posizione e rimane nella Top 10 per settimane), viene poi inciso e tradotto da vari artisti in diverse lingue, vendendo milioni di dischi.

Iniziato alla musica dal papà, suonatore di tromba, Cutugno a nove anni suona il tamburo nella stessa banda di La Spezia in cui suona il padre. Il passaggio alla batteria, da autodidatta, avviene poco dopo. A tredici anni partecipa a un concorso regionale dove arriva terzo. Passa poi alla fisarmonica visto che non può permettersi un piano. Non ancora ventenne fonda un gruppo, Toto e i Tati, proponendo live i suoi brani. Il 1975 è l’anno del grande successo in Francia e l’anno successivo c’è il debutto al festival di Sanremo.

IL TUMORE ALLA PROSTATA –  Nel 2008 aveva lottato contro un cancro: “Non gliel’ho data vinta. Ho combattuto e sto meglio”, aveva dichiarato nel 2018.. Gli venne diagnosticato un grave tumore alla prostata, Cutugno riuscì a salvarsi soltanto grazie all’intervento chirurgico di un medico presentatogli dall’amico e collega Al Bano Carrisi: “Mi hanno portato al San Raffaele – ricordava Cutugno – Al Bano mi ha fatto conoscere il chirurgo che ha operato suo suocero e che mi ha salvato la vita. Io sono un miracolato. Mi godo la vita, perché è un dono di Dio e va vissuta al massimo”. Il tumore aveva coinvolto anche un rene; fu costretto a rimuoverlo, ma dopo l’operazione il cantante ritrovò una buona forma: “Anche se ogni mese devo andare a fare una visita, ora sto bene, l’unico problema che ho è che ai concerti non posso camminare tanto”.

Nel 2010, dopo un periodo difficile per motivi di salute , arriva a Sanremo con Belen Rodriguez, con la quale canta Aeroplani. Nel 2012 invitato da Fabio Fazio, esegue L’Italiano con il coro dell’Armata rossa. Il suo legame con il festival è talmente forte che nel 2005 per parteciparvi rinuncia all’Olympia di Parigi. Nel 2019 scoppia un caso Ucraina: un gruppo di deputati ucraini con una lettera chiese di precludere per presunte posizioni filorusse l’ingresso a Toto Cutugno che aveva un concerto a Kiev sold out da tempo. Lui replicò di essere “sorpreso e preoccupato”, dichiarandosi sempre distante dalla politica: “Io sono apolitico”. Nel 2021 è stato felice di passare il testimone ai Maneskin a Eurovision: fu lui infatti il vincitore del concorso europeo nel 1990.

“Siamo ancora increduli, Toto“, le prime parole del Nuovo Imaie, a cui Cutugno era iscritto. “Poco più di un mese fa avevi tagliato il traguardo degli 80 anni. Tu, che hai scritto i testi delle canzoni italiane che tutti ricordano e amano cantare a tutte le latitudini del pianeta. Canzoni, che con la tua generosità hai regalato anche a colleghi come Adriano Celentano, Fausto Leali, I Ricchi e Poveri, Miguel Bosè, Johnny Halliday, Dalida e Luis Miguel (citarli tutti sarebbe un’impresa). Ti ricorderemo sempre e dentro di noi ti lasceremo cantare…con la chitarra in mano. Ciao Toto, si, il cielo ti attende. I tuoi colleghi e amici del Nuovo Imaie”.

La notizia della scomparsa è stata commentata anche da Carosello Records ed Edizioni Curci in una nota: “A poco più di un mese dal suo ottantesimo compleanno – si legge – ci lascia uno degli artisti italiani più famosi di sempre. Cantautore da oltre 100 milioni di copie, esponente della musica italiana più noto in tutto il mondo, cantautore che ha saputo portare la semplicità e la tradizione della canzone italiana anche all’estero, un artista dalla straordinaria carriera che continuerà a ispirarci e unirci”.

"Se mento Nico si arrabbia. Ma a me piacciono molto le bugie". Chi è la moglie di Toto Cutugno: Carla, il figlio Nico (nato da un’altra relazione) e la sorella morta a 7 anni mentre mangiava. Redazione su Il Riformista il 22 Agosto 2023 

Toto Cutugno è morto a 80 anni dopo una lunga malattia. Il celebre cantautore e compositore italiano era sposato dal 1971 con Carla, una donna molto riservata che non ha mai ceduto alle luci della ribalta. La coppia non ha mai avuto figli. Un rapporto duraturo il loro, andato avanti per oltre 50 anni, che attraversò dei periodi complicati, a partire dalla nascita del figlio Nico, avuto da una relazione extraconiugale. A raccontarli fu lo stesso artista in una intervista rilasciata al Corriere della Sera nel 2018.

“Nico? Io gli ho raccontato che ero e sono sposato con Carla e che volevo un figlio. E che questo figlio, Nico, l’avevo avuto da Cristina. Carla poteva cacciarmi di casa e invece non lo ha fatto. Al contrario, la prima cosa che mi disse fu di riconoscere mio figlio e dargli il mio cognome. Nico Cutugno oggi ha 28 anni, è laureato in Economia ed è uno di quei tanti bravi ragazzi italiani sui quali il nostro Paese dovrebbe puntare”, aveva ricordato il cantautore.

Successivamente ha poi raccontato il rapporto con il figlio Nico, che oggi ha 33 anni: “Merito 10 in lealtà. A mio figlio Nico ho sempre insegnato a vivere così, senza mancare di rispetto a nessuno. Cosa mi ha insegnato lui? A essere sincero. Se mento Nico si arrabbia. Ma a me piacciono molto le bugie”.

Nato a Fosdinovo in provincia di Massa Carrara, Cutugno è cresciuto a La Spezia dove i genitori Domenico (sottufficiale di Marina originario di Messina) e Olga (casalinga) si erano trasferiti per ragioni lavorative pochi mesi dopo la sua nascita. Sempre al Corriere della Sera raccontò la scomparsa prematura della sorella più grande, Anna: “Ho visto morire mia sorella Anna, la più grande, sotto i miei occhi, soffocata. Stava mangiando gli gnocchi e uno le andò di traverso. Aveva 7 anni, io 5”. Altri due fratelli dell’artista sono Roberto e Rosanna. Di loro ha raccontato: “Mio fratello Roberto, a cui voglio un bene dell’anima, si ammalò di meningite e da allora, come aveva previsto il medico, ha avuto una vita agitata. E poi l’altra mia sorella, Rosanna, che è stata la prima bambina a essere operata al cuore in Italia, a Torino. Papà si indebitò per quell’intervento che finì di pagare a rate nel 1978, due anni prima di morire”. 

L'aneddoto dietro al successo mondiale. Cutugno e L’Italiano rifiutato da Celentano: “E’ nata in Canada al ristorante, Adriano non volle cantarla perché la gente già lo sa”. Redazione su Il Riformista il 22 Agosto 2023 

Quel brano diventato famoso in tutto il mondo non doveva cantarlo lui, Toto Cutugno, scomparso nel primo pomeriggio di martedì 22 agosto all’ospedale San Raffaele di Milano dopo una lunga malattia. A raccontarlo lo stesso cantautore qualche anno fa nel corso della trasmissione Che Tempo Che Fa condotta da Fabio Fazio. L’Italiano “è nato in Canada. Eravamo a mangiare con i miei musicisti nel ristorante dove avrei fatto poi il concerto. Siccome loro portavano sempre le chitarre perché a volte si suonava, mi han dato la chitarra, ho fatto un “la” minore, “lasciatemi cantare con la chitarra in mano“, ho preso un pezzo di carta, ho scritto un rigo musicale e poi le note”.

Cutugno spiegò poi la reazione e il rifiuto di Adriano Celentano: “Son tornato a Milano, vado da Popi (Cristiano, ndr) Minellono e ha scritto questo capolavoro. L’abbiamo fatto per Celentano, andiamo da lui che stava facendo Il Bisbetico domato, andiamo in roulotte e gli diciamo ‘Adriano questa è una canzone pazzesca‘. Lui ha sentito la canzone, l’ha riascoltata e poi ha detto semplicemente queste parole ‘Questa canzone non la farò mai perché non ho bisogno di dire sono un italiano, sono un italiano vero, perché la gente lo sa già“.

A convincere Cutugno a interpretare quel brano diventato poi famoso in tutto il mondo fu Gianni Ravera, organizzatore del Festival di Sanremo nel 1983. L’Italiano scala le classifiche europee (in Italia raggiunge la prima posizione e rimane nella Top 10 per settimane), viene poi inciso e tradotto da vari artisti in diverse lingue, vendendo milioni di dischi. Nonostante il quinto, la canzone vince la votazione popolare.

Addio all'italiano vero. La storia di Toto Cutugno a Sanremo: una sola vittoria, e quella volta con Belen. Redazione su Il Riformista il 22 Agosto 2023 

Una lunga storia, quella di Toto Cutugno con il Festival di Sanremo. Il cantatore, scomparso oggi all’età di 80 anni, ha partecipato a 15 edizioni (record assieme ad Al Bano, Peppino di Capri, Anna Oxa e Milva) vincendolo soltanto una volta, all’esordio, nel 1980 con Solo Noi, arrivando sei volte secondo, una volta terzo, e due volte quarto.

Il quinto posto però resta il più bello. Risale all’edizione 1983 del Festival, la sua seconda, quando si presentò in gara con il brano che rimarrà per sempre: L’Italiano. Fu Gianni Ravera, organizzatore della manifestazione, a convincerlo ad interpretarlo; era infatti stato scritto per Adriano Celentano, che rifiutò.

Nel 1984 secondo con Serenata, nell’86 quarto con Azzurra malinconia. Poi il podio per quattro edizioni, tutte con medaglia d’argento: Figli (1987), Le mamme (1989), Gli amori (1990). Nel 95’ un deludente 17° posto con Voglio andare a vivere in campagna, nel 97’ stessa posizione con Faccia Pulita. Poi nel 2005 sfiora nuovamente la vittoria di un posto con “Come noi nessuno al mondo”. Nel 2008 è in gara con Un falco chiuso in Gabbia (quarto).

Il 2010 è stata la sua ultima apparizione da protagonista, con il singolo Aeroplani, cantato nella serata dedicata ai duetti assieme a Belen Rodriguez.

Cutugno prese parte alla Kermesse anche in qualità di autore, raccogliendo strepitosi successi con “Noi ragazzi di oggi”, cantata da Luis Miguel e “Io Amo”, interpretata da Fausto Leali.

Nel 2004 è ospite della serata Revival assieme a Daniele Silvestri, così come nel 2011 con Tricarico e nel 2013 con il Coro dell’Armata Rossa.

Come è morto Toto Cutugno: la malattia e il ricovero al San Raffaele. Redazione su Il Riformista il 22 Agosto 2023 

Toto Cutugno si è spento questo pomeriggio alle ore 16 e all’età di 80 anni al San Raffaele di Milano, dove era ricoverato da tempo.

A dare la notizia all’Ansa è il suo manager Danilo Mancuso  che spiega come dopo una lunga malattia le condizioni del cantante si erano aggravate negli ultimi mesi.

Il ritratto

Nel 2008 aveva lottato contro un cancro: “Non gliel’ho data vinta. Ho combattuto e sto meglio”, aveva dichiarato nel 2018.. Gli venne diagnosticato un grave tumore alla prostata, Cutugno riuscì a salvarsi soltanto grazie all’intervento chirurgico di un medico presentatogli dall’amico e collega Al Bano Carrisi: “Mi hanno portato al San Raffaele – ricordava Cutugno – Al Bano mi ha fatto conoscere il chirurgo che ha operato suo suocero e che mi ha salvato la vita. Io sono un miracolato. Mi godo la vita, perché è un dono di Dio e va vissuta al massimo”. Il tumore aveva coinvolto anche un rene; fu costretto a rimuoverlo, ma dopo l’operazione il cantante ritrovò una buona forma: “Anche se ogni mese devo andare a fare una visita, ora sto bene, l’unico problema che ho è che ai concerti non posso camminare tanto”.

Da L'Unità.

Lutto nel mondo della musica. È morto Toto Cutugno, addio a “L’italiano vero” della canzone. Redazione Web su L'Unità il 22 Agosto 2023 

Difficile possano togliergli da dosso quell’etichetta: di “italiano vero” della musica. Perché Toto Cutugno con quella canzone ha fatto la storia, con quella è letteralmente esploso, quel ritornello lo ha reso famoso ben oltre i soli confini della penisola. Un inno. Aveva 80 anni, era malato da tempo. È morto oggi pomeriggio all’ospedale San Raffaele di Milano dov’era ricoverato. La notizia è stata data all’Ansa dal suo manager Danilo Mancuso. “Dopo una lunga malattia, il cantante si era aggravato negli ultimi mesi”.

Era il 1993 quando scriveva L’Italiano, trent’anni fa. Un ritornello che ha fatto il giro del mondo, scritto in Canada, a Toronto. Dopo un concerto davanti a 3.500 persone. “A un certo punto realizzai che quei 7.000 occhi che mi guardavano erano tutti occhi di italiani. Pensai: scriverò una canzone per questa gente”, raccontò in un’intervista a Il Corriere della Sera. La scrisse nel ristorante italiano “Mamma Rosa”, voleva chiamarla Con quegli occhi di italiano, chiese a Popi Minellono di scrivere il testo. Quella canzone la offrirono ad Adriano Celentano che invece rifiutò. La portò lui stesso a Sanremo, arrivò quarta ma prima nel voto popolare.

Da allora fu storia. Prima era stato Salvatore nato a Fosdinovo, in provincia di Massa Carrara. Padre Domenico, di Barcellona Pozzo di Gotto, sottufficiale della Marina in servizio a La Spezia. Madre Olga, toscana. Una sorella più grande, Anna, che morì a sette anni soffocata dagli gnocchi andati di traverso. Salvatore aveva cinque anni. Un fratello ammalato di meningite, un’altra sorella Rosanna, malata di cuore. Si avvicinò alla musica grazie alla passione del padre, che suonava la tromba. Cominciò con il tamburo in una banda a La Spezia dove suonava Domenico.

I primi passi li fece proprio in gruppi rock and roll come batterista, cominciò da solista e compose sigle per la televisione. Partecipò 15 volte al Festival di Sanremo, vinse una volta nel 1980 con Solo noi. È arrivato secondo sei volte, nel 1990 cantò all’Ariston con Ray Charles. È stato anche conduttore per la televisione e coach per la trasmissione “Ora o mai più”. Era amatissimo nell’Europa dell’Est. In Russia e in Ucraina, Albania, Polonia, Georgia, Azerbaigian, Kazakhstan. Dopo l’invasione da parte della Russia è stato accusato da alcuni parlamentari ucraini di essere filo-russo.

Più di trecento canzoni composte, la vittoria all’Eurofestival del 1990 a Zagabria, con Insieme 1992. Ha scritto per artisti italiani come Adriano Celentano, Fausto Leali, I Ricchi e Poveri e internazionali come Johnny Hallyday, Dalida, Miguel Bosé e Luis Miguel. Nel 2007 aveva scoperto un tumore alla prostata che si era esteso fino ai reni e per il quale era stato in cura proprio nell’Irccs milanese.  A consigliargli di farsi visitare l’amico e collega Al Bano Carrisi. Si era ripreso, aveva ricominciato a fare concerti. Lascia la moglie Carla, sposata nel 1971, e il figlio Nico nato nel 1990 da un’altra relazione.

“Siamo ancora increduli, Toto”, le prime parole del Nuovo Imaie, a cui Cutugno era iscritto. “Poco più di un mese fa avevi tagliato il traguardo degli 80 anni. Tu, che hai scritto i testi delle canzoni italiane che tutti ricordano e amano cantare a tutte le latitudini del pianeta. Canzoni, che con la tua generosità hai regalato anche a colleghi come Adriano Celentano, Fausto Leali, I Ricchi e Poveri, Miguel Bosè, Johnny Halliday, Dalida e Luis Miguel (citarli tutti sarebbe un’impresa). Ti ricorderemo sempre e dentro di noi ti lasceremo cantare .. .con la chitarra in mano. Ciao Toto, si, il cielo ti attende. I tuoi colleghi e amici del Nuovo Imaie”.

Redazione Web 22 Agosto 2023

 Il matrimonio nel 1971. Chi è la moglie di Toto Cutugno: il matrimonio con Carla e il figlio Nico nato da un’altra relazione. Redazione Web su L'Unità il 22 Agosto 2023

Se n’è andato a 80 anni, oggi pomeriggio, all’ospedale San Raffaele di Milano. Dopo tantissime canzoni scritte e cantate: Toto Cotugno ne ha scritte tantissime d’amore. Lo sa bene la moglie Carla, una vita insieme a partire dagli anni Settanta, un rapporto vissuto nella privacy considerato il carattere di lei poco incline alle luci del mondo dello spettacolo. Un rapporto lunghissimo, anche difficile, complicato. Lo aveva raccontato lo stesso cantante.

Con Carla si era sposato nel 1971. La coppia non ha mai avuto figli. Lui però un figlio lo aveva avuto, da una relazione extraconiugale. “Carla poteva cacciarmi di casa e invece non lo ha fatto. Al contrario, la prima cosa che mi disse fu di riconoscere mio figlio e dargli il mio cognome. Nico Cutugno oggi ha 28 anni, è laureato in Economia ed è uno di quei tanti bravi ragazzi italiani sui quali il nostro Paese dovrebbe puntare”, aveva raccontato l’artista in un’intervista a Il Corriere della Sera nel 2018.

Era nato Salvatore a Fosdinovo, in provincia di Massa Carrara. Padre Domenico, di Barcellona Pozzo di Gotto, sottufficiale della Marina in servizio a La Spezia. Madre Olga, toscana. Una sorella più grande, Anna, che morì a sette anni soffocata dagli gnocchi andati di traverso. Salvatore aveva cinque anni. Un fratello ammalato di meningite, un’altra sorella Rosanna, malata di cuore. Si avvicinò alla musica grazie alla passione del padre, che suonava la tromba. Cominciò con il tamburo in una banda a La Spezia dove suonava Domenico.

I primi passi li fece proprio in gruppi rock and roll come batterista, cominciò da solista e compose sigle per la televisione. Partecipò 15 volte al Festival di Sanremo, vinse una volta nel 1980 con Solo noi. È arrivato secondo sei volte, nel 1990 cantò all’Ariston con Ray Charles. È stato anche conduttore per la televisione e coach per la trasmissione “Ora o mai più”. Era amatissimo nell’Europa dell’Est. In Russia e in Ucraina, Albania, Polonia, Georgia, Azerbaigian, Kazakhstan. Dopo l’invasione da parte della Russia è stato accusato da alcuni parlamentari ucraini di essere filo-russo.

Più di trecento canzoni composte, la vittoria all’Eurofestival del 1990 a Zagabria, con Insieme 1992. Ha scritto per artisti italiani come Adriano Celentano, Fausto Leali, I Ricchi e Poveri e internazionali come Johnny Hallyday, Dalida, Miguel Bosé e Luis Miguel. Nel 2007 aveva scoperto un tumore alla prostata che si era esteso fino ai reni e per il quale era stato in cura proprio nell’Irccs milanese.  A consigliargli di farsi visitare l’amico e collega Al Bano Carrisi. Si era ripreso, aveva ricominciato a fare concerti.

Era il 1993 quando scriveva L’Italiano, trent’anni fa. Un ritornello che ha fatto il giro del mondo, scritto in Canada, a Toronto. Dopo un concerto davanti a 3.500 persone. “A un certo punto realizzai che quei 7.000 occhi che mi guardavano erano tutti occhi di italiani. Pensai: scriverò una canzone per questa gente”, raccontò in un’intervista a Il Corriere della Sera. La scrisse nel ristorante italiano “Mamma Rosa”, voleva chiamarla Con quegli occhi di italiano, chiese a Popi Minellono di scrivere il testo. Quella canzone la offrirono ad Adriano Celentano che invece rifiutò. La portò lui stesso a Sanremo, arrivò quarta ma prima nel voto popolare.

Redazione Web 22 Agosto 2023

Da Fanpage.it

Estratto da fanpage.it giovedì 24 agosto 2023.

Erano centinaia le persone presenti ai funerali di Toto Cutugno, celebrati a Milano il 24 agosto. L'artista, scomparso a 80 anni, è stato salutato dalla folla presente, che per l'ultimo saluto ha intonato il suo successo più grande, L'Italiano. Presenti anche alcuni colleghi e personaggi del mondo dello spettacolo, tra cui Gianni Morandi, Pupo, Fausto Leali, Ivana Spagna. 

Morandi e Pupo ai funerali di Toto Cutugno

Un parterre decisamente ridotto, come ha fatto notare Pupo parlando con la stampa insieme a Morandi a margine dei funerali: "La presenza di Gianni a questo evento è significativa. Sono mancati un po' di colleghi, ci siamo solo noi due, mi è dispiaciuto un po'". Toto Cutugno bistrattato in Italia?, chiedono i giornalisti. Pupo dice di sì senza mezzi termini, Morandi precisa: "Io credo di no. Qualcuno diceva fosse un cantautore troppo popolare, io dico di no, dico che è stato un grande cantautore, ma anche un grande interprete". 

Le parole di Gianni Morandi

Quindi Morandi ha parlato del suo rapporto con Toto Cutugno: "Io ho un grande rispetto per Toto – ha detto Morandi – come interprete e anche come autore, perché ha scritto canzoni meravigliose, una delle quali, L'Italiano, che è tra le tre o quattro canzoni italiane più famose al mondo.  

(...) 

Pupo critica i colleghi assenti

A tal proposito Pupo ha aggiunto: "Nell'80 c'eravamo io, te, lui, Ruggeri, Benigni che presentava. Fu un'edizione di rilancio del Festival di Sanremo. […] La presenza di Gianni a questo evento è significativa. Sono mancati un po' di colleghi, ci siamo solo noi due, mi è dispiaciuto un po'". Infine i due scherzano, per sdrammatizzare. Pupo chiede a Morandi: "Che canzone vuoi che canti al tuo funerale?". "Fatti mandare dalla mamma", risponde l'altro prima di allontanarsi.

Pdf, è morto l’inventore: chi era John Warnock, co-fondatore di Adobe. Storia di Redazione Economia su Il Corriere della Sera martedì 22 agosto 2023.

John Warnock, l’uomo che ha contribuito a inventare il Pdf, il formato universale per scambiare documenti digitali, e co-fondato Adobe Systems, è morto a 82 anni. L’imprenditore e informatico della Silicon Valley si è spento sabato circondato dalla famiglia, ha fatto sapere Adobe in un comunicato. L’azienda non ha indicato la causa del decesso né il luogo in cui Warnock è deceduto. «La genialità e le innovazioni di John hanno lasciato un segno indelebile in Adobe, nell’industria tecnologica e nel mondo», ha precisato la società.

Uno studente mediocre

Warnock ha lavorato per Xerox prima di creare, insieme al collega Charles Geschke, una società attorno a un’idea rifiutata nel 1982. Quasi dieci anni dopo, Warnock ha delineato una prima versione del Portable Document Format, o Pdf, trasformando il modo in cui i documenti vengono scambiati. Originario di Holladay, sobborgo di Salt Lake City, di lui diceva che era uno studente mediocre. In realtà poi si è laureato in matematica, ha conseguito un dottorato in ingegneria elettrica all’Università dello Utah e ha mantenuto stretti legami con il suo stato d’origine anche dopo essere andato in pensione come Ceo di Adobe nel 2000.

Ha risolto il radicale di Jacobson

Nel 2013 Warnock ha raccontato a Continuum, rivista dell’Università dello Utah, che era un alunno mediocre fino a quando un insegnante della Olympus High School non si interessò a lui: «Ho avuto un insegnante fantastico al liceo che, essenzialmente, mi ha completamente cambiato». E ancora: «Era davvero bravo a farti amare la matematica, ed è stato allora che mi sono appassionato». Continua a definirsi uno studente «mediocre» Warnock, ma lascia il segno durante la laurea specialistica. Nel 1964 ha risolto il radicale di Jacobson, un problema di algebra astratta che era rimasto un mistero da quando era stato posto otto anni prima.

Sua moglie Marva Mullins

L’anno successivo ha conosciuto Marva Mullins. Cinque settimane dopo è diventata sua moglie. Warnock ha lavorato in un negozio di pneumatici, ma poi ha deciso che il campo accademico, poco remunerato, non faceva per lui e ha fatto domanda per lavorare all’Ibm, iniziando la sua formazione in informatica. Ha conseguito un dottorato all’Università dello Utah, dove negli anni ‘60 si è unito a un gruppo di ricercatori all’avanguardia che lavoravano su un precursore di Internet finanziato dal Dipartimento della Difesa. Già allora Warnock lavorava al rendering delle immagini sui computer.

Adobe e PostScript

Alla fine degli anni ‘70, Warnock si è trasferito a Palo Alto, in California, per lavorare per Xerox sulla grafica interattiva per computer. Lì ha incontrato Geschke e insieme hanno lavorato allo sviluppo del protocollo di stampa e grafica InterPress. Quando Xerox si è opposta, i due hanno deciso di creare la propria azienda. Hanno fondato Adobe nel 1982 e hanno creato PostScript, un programma che ha contribuito a rendere fattibile per la prima volta la stampa su piccola scala. In seguito l’azienda ha creato il Pdf. Fino al 2017, Warnock e Geschke sono rimasti co-presidenti del Consiglio di amministrazione dell’azienda. Warnock è rimasto membro del Consiglio fino alla sua morte. Warnock lascia la moglie e tre figli.

Addio a John Warnock, co-fondatore di Adobe. Con lui se ne va il genio della creazione digitale. Morto all'età di 82 anni John Warnock, il co-fondatore dell'azienda Adobe. Insieme a Charles Geshke, diede vita alla società che ha creato le più importanti innovazioni digitali, come il formato PDF. Roberta Damiata il 22 Agosto 2023 su Il Giornale.

Dopo Charles Geshke, morto a 81 anni nel 2021, John Warnock è scomparso sabato all'età di 82 anni. Della morte si ha avuto notizia soltanto nella serata di ieri, 21 agosot. Era il co-fondatore dell'azienda Adobe che ha avuto un impatto fondamentale nella creazione di rivoluzionarie innovazioni digitali, come il formato PDF o la stampa PostScript. Warnock ha guidato il gruppo tecnologico fino al 2000, continuando poi come presidente del consiglio di amministrazione fino al 2017.

A dare la triste notizia la stessa Adobe, il cui amministratore delegato Shantanu Narayen ha commentato in una lettera inviata ai dipendenti che: "La genialità e le innovazioni tecnologiche di John hanno cambiato il mondo. È stato uno dei più grandi inventori della nostra generazione con un impatto significativo su come comunichiamo attraverso parole, immagini e video. Le mie interazioni con John negli ultimi 25 anni sono state la parte migliore della mia carriera professionale". Warnock era originario di Salt Lake City e aveva conseguito un dottorato in ingegneria elettrica e informatica, un master in matematica e una laurea in matematica e filosofia all'Università dello Utah.

Aveva conosciuto Geschke allo Xerox Parc, il laboratorio di ricerca californiano, alle pendici di Coyote Hill in piena Silicon Valley, che è stato una delle più importanti fucine di talenti e innovazione della storia dell’informatica e non solo. Avevano poi deciso di unire le loro conoscenze dando vita ad Adobe. Il loro lavoro era una sorta di "visione" per creare strumenti che permettessero di fare qualcosa che prima non era possibile, ovvero la capacità di lavorare su progetti, design, layout, come se fossero sulla carta, trasformandoli invece in bit da modificare sul computer in maniera più veloce, precisa ed intuitiva.

Il suo amore per la matematica

La CNN riporta oggi un inedito racconto di Warnock del 2013, quando ricordò che al liceo un professore gli disse che non aveva alcuna possibilità di diventare un ingegnere di successo perchè: "Non era portato per la matematica, e non aveva superato il primo esame di algebra. Ma un altro - raccontò -mi ha completamente cambiato, era davvero bravo ed è stato allora che mi sono appassionato alla matematica".

La storia della società che cambiò il mondo

Quando Geshke e Warnock fondarono Adobe, fu la moglie di quest'ultimo, Marta una graphic designer, a crearne il logo originale. Il primo programma lanciato, il software di pubblicazione desktop Adobe PostScript, uscì dall'azienda soltanto due anni dopo. Warnock è stato CEO dell'azienda fino al 2000, ma successivamente ha rivestito il ruolo di co-presidente del consiglio insieme a Geschke fino al 2017. Dopo tale periodo, Warnock è rimasto nel consiglio di amministrazione dell'azienda.

Dalla grafica all'intelligenza artificiale

Quando si pensa ad Adobe viene in mente una società legata a prodotti come Photoshop, Premiere o Adobe Acrobat, ma negli anni, grazie alla sua magistrale guida ha ampliato la produzione in molteplici settori. Durante il periodo in cui Warnock è stato CEO, ha creato software standard del settore per il business, il design grafico, la fotografia, il montaggio video, la registrazione audio e molto altro ancora, arrivando recentemente ad abbracciare anche il settore dell'intelligenza artificiale, con Adobe Firefly una delle applicazioni più conosciute nel mercato.

Apple deve ad Adobe il suo successo

Grazie ad Adobe, Apple è riuscita nel tempo a decollare e a diventare la società che tutti conosciamo, e anche per questo motivo negli Stati Uniti Geschke e Warnock hanno ricevuto molti premi, tra cui la prestigiosa Medaglia Nazionale per la Tecnologia e l’Innovazione (National Medal of Technology and Innovation), onorificenza assegnata dal Presidente USA a inventori e innovatori statunitensi che hanno dato contributi fondamentali allo sviluppo di nuove e importanti tecnologie.

Con lui finisce un'epoca

Prima con la morte di Geschke e ora con quella di Warnock, sono tutti concordi nel dire che finisce un'epoca. Probabilmente i profitti, le differenzazioni e le nuove tecnologie continueranno a progredire ma, con loro finisce l'era dell'intuizione, della visione delle cose a cui dare forma senza quantificare il profitto o le rendite guardando più al prodotto che al capitale. Warnock lascia la moglie e tre figli.

Addio a Ron Cephas Jones, star di This Is Us. Angelo Vitolo su L'Identità il 20 Agosto 2023 

Addio a Ron Cephas Jones, star di This Is Us, aveva 66 anni e da tempo soffriva di un problema polmonare.  La notizia della sua scomparsa è stata diffusa dal suo manager. L’attore statunitense Ron Cephas Jones, vincitore di due Emmy Awards per aver interpretato William Hill nella serie tv di grande successo “This Is Us”, è morto all’età di 66 anni. Il manager dell’attore, Dan Spilo, ha spiegato, con una dichiarazione a “People”, che l’attore soffriva di “un problema polmonare di lunga data”. “Nel corso della sua carriera, il suo calore, la sua bellezza, la sua generosità, la sua gentilezza e il suo cuore sono stati percepiti da chiunque abbia avuto la fortuna di conoscerlo”, si legge nel comunicato diffuso.

Jones ha iniziato a recitare al college e poi in teatro, ma è diventato famoso per la prima volta nel 2016, interpretando nella serie della Nbc “This Is Us” William Hill, il padre biologico del personaggio di Sterling K. Brown, Randall Pearson, che è stato adottato dopo essere stato abbandonato in una caserma dei pompieri da bambino. L’arco emotivo della riconnessione padre-figlio, così come la trama redentrice che raccontava, ha conquistato il pubblico e la critica, e Jones è stato nominato per quattro Emmy Awards, l’Oscar della televisione, per la sua interpretazione, vincendone due, nel 2018 e nel 2020.

Il palcoscenico è stato l’amore formativo di Jones e ha trascorso gran parte della sua carriera recitando nel teatro. Nel 2022 ha vinto un Drama Desk Award ed è stato nominato per un Tony Award per la sua interpretazione come attore protagonista nello spettacolo della drammaturga vincitrice del Premio Pulitzer Lynn Nottage “Clyde’s”.

Nato il 18 gennaio 1957 a Paterson, nel New Jersey, dopo gli studi di recitazione Jones ha calcato i palcoscenici di Broadway per i successivi 30 anni, recitando occasionalmente in ruoli televisivi e cinematografici. Jones nel 1999 recitò nel film di Woody Allen “Accordi e disaccordi” ed è poi apparso in “Little Senegal” (2001), “Paid in Full” (2002), “Carlito’s way – Scalata al potere” (2005), “Ashes” (2010), “Dog Days” (2018) e “Venom” (2018).

Tra gli altri crediti televisivi di Jones figurano “Lisey’s Story”, “Better Things”, “The Get Down”, “Law & Order: Organized Crime”, “Law & Order: Criminal Intent”, “Law & Order”. Dal 2015 al 2016 ha interpretato il ruolo dell’hacker Leslie Romero nella serie tv “Mr. Robot”. Nel 2016 ha recitato la parte di Bobby Fish nella serie “Luke Cage”, interpretando il ruolo fino al 2018.

Addio a Ron Cephas-Jones, morto a 66 anni la star della serie tv "This Is Us". Morto per una polmonite ostruttiva cronica l'attore Ron Cephas-Jones, protagonista dell'acclamata serie "This Is Us". Aveva 66 anni. Roberta Damiata il 20 Agosto 2023 su Il Giornale.

È scomparso alla sola età di 66 anni per una malattia polmonare ostruttiva cronica, Ron Cephas-Jones, attore protagonista della nota serie "This Is Us". A darne notizia il suo manager, Dan Spillo con un comunicato alla rivista People. "Dan se n'è andato a causa di un problema polmonare di vecchia data. Nel corso della sua carriera, il suo calore, la bellezza, la generosità, la gentilezza e il cuore sono stati percepiti da chiunque abbia avuto la fortuna di conoscerlo". L'attore era ricoverato da oltre due mesi in un ospedale di Los Angeles.

La fama

Nato il 18 gennaio 1957 a Paterson, nel New Jersey, dopo gli studi di recitazione che da sempre lo avevano appassionato, aveva trascorso la sua carriera per la maggior parte a calcare i teatri di Brodway, anche dopo il trapianto che con molta difficoltà lo aveva costretto a imparare nuovamente a camminare e a respirare. Aveva iniziato al college ottenendo poi grande fama tra gli amanti del teatro. Fu però nel 2016 con il ruolo di William Hill nella serie della Nbc This Is Us a regalarle la grande popolarità anche sul piccolo schermo. Il suo personaggio era nella serie quello del padre biologico di Sterling K. Brown, interpretato da Randall Pearson, che era stato adottato dopo essere stato abbandonato in una caserma dei pompieri da bambino.

La storia e la sua immensa bravura nell'interpretarlo, conquistarono il pubblico tanto da farlo nominare per ben per quattro Emmy Awards per la sua interpretazione, vincendone due, nel 2018 e nel 2020. Ma non fu l'unico premio, Nel 2022 vinse un Drama Desk Award ed è stato nominato per un Tony Award grazie alla sua interpretazione come attore protagonista nello spettacolo Clydès della drammaturga vincitrice del Premio Pulitzer Lynn Nottage .

I numerosi ruoli interpretati

Nel 1999 recitò nel film di Woody Allen Accordi e disaccordi ed è poi apparso in Little Senegal (2001), Paid in Full (2002), Carlitòs way - Scalata al potere (2005), Ashes (2010), Dog Days (2018) e Venom (2018). Tra le altre apparizioni televisive figurano Lisey's Story, Better Things, The Get Down, Law & Order: Organized Crime, Law & Order: Criminal Intent, Law & Order. Dal 2015 al 2016 ha interpretato il ruolo dell'hacker Leslie Romero nella serie tv Mr. Robot. Nel 2016 ha recitato la parte di Bobby Fish nella serie Luke Cage, interpretando il ruolo fino al 2018.

Da corriere.it sabato 19 agosto 2023. 

Addio a Roberto Colaninno. È morto a 80 anni uno dei principali protagonisti della finanza e dell’industria italiana degli ultimi 50 anni: dagli esordi sono nel 1969 alla Fiaam, azienda mantovana di componentistica auto, fino all’Olivetti, alla Telecom dei «capitani coraggiosi» e alla Piaggio quotata in Borsa e adesso stabilmente vicino ai massimi storici.

BIOGRAFIA DI ROBERTO COLANINNO. Da cinquantamila.it – la Storia raccontata da Giorgio Dell’Arti

Mantova 16 agosto 1943. Imprenditore. Presidente del gruppo Piaggio. «A uno che ha gestito mille miliardi di fatturato nessuno offrirà mai un’azienda da 10 mila miliardi se questi 10 mila miliardi non sono marci». 

• Vita Figlio di un sottufficiale dell’esercito e di una sarta, studi di ragioneria al Pitentino, università a Parma interrotta per lavorare. «Cosa poteva fare, nei primi anni Sessanta, un giovane ragioniere appena diplomato? Per prima cosa una domanda di assunzione in banca. Ma all’Agricola, la banca per antonomasia per un mantovano, gli risposero picche. Con la formula burocratica usuale: “Al momento non abbiamo disponibilità di posti in organico”. 

Ventiquattro anni dopo Colaninno sarà nominato consigliere di amministrazione di quella stessa banca. Una bella rivincita. A scoprire che quel giovane poteva avere del talento fu qualche tempo dopo Walter Francesconi, imprenditore, titolare di una piccola azienda, la Fiaam Filter, produttrice di accessori per auto. La conoscenza fu quasi casuale.

Colaninno, abbandonata l’idea di fare il bancario, era entrato in uno studio legale specializzato in problematiche fiscali, al quale si rivolgevano industriali, commercianti e artigiani per risolvere i loro problemi con il fisco. E lì Francesconi, cliente dello studio, si accorse del giovane praticante brillante e discreto, già abituato a districarsi tra denunce Iva e ritenute d’acconto. 

Gli propose di occuparsi a tempo pieno della contabilità dell’azienda. Cosa che Colaninno fece talmente bene da meritarsi, passo dopo passo, la fiducia dell’azionista di controllo. Da lì a qualche anno avrebbe scalato le gerarchie interne fino a diventare amministratore delegato. 

L’esperienza in Fiaam è importante per capire la filosofia operativa di Colaninno. Uno che non si accontenta di lavorare per conto terzi, ma vuole entrare in prima persona in tutti i business. Quando Francesconi decide di vendere la società per ritirarsi dagli affari e dedicarsi alla pittura, è Colaninno che si preoccupa di trovare il compratore: la britannica Turner & Newall.

Come mediazione ottiene una piccola quota del capitale. Qualche anno dopo la storia si ripete: gli inglesi lasciano e lui si dà da fare per collocare altrove la maggioranza. Questa volta la strada di Colaninno si incrocia con quella di Carlo De Benedetti: il finanziere piemontese, al culmine del suo successo, accetta di rilevare la Fiaam, collocandola nella Sogefi, altra società, mantovana di origine, concentrata sull’attività immobiliare e destinata a diventare il secondo polo industriale del gruppo, dopo l’Olivetti. È l’inizio di un sodalizio di successo. Per oltre quindici anni Colaninno guida da plenipotenzario la Sogefi. 

La società cresce rapidamente e da piccola holding diventa una multinazionale della componentistica auto, quotata in Borsa. De Benedetti lo lascia fare. E i successi permettono al ragioniere di Mantova di conquistare i galloni di uomo di fiducia dell’ingegnere. Fino a quando, nel 1996, viene chiamato a gestire la stessa Olivetti» (Giacomo Ferrari). 

«Di telefoni il ragionier Colaninno non si era mai occupato in vita sua fino all’età di 53 anni quando, in ventiquattr’ore, giusto il tempo di consultarsi con la moglie Oretta Schiavetti, accetta l’offerta di De Benedetti che lo vuole alla guida di un’Olivetti ormai con l’acqua alla gola. Nel 1997, dopo qualche mese di noviziato (dice all’Espresso, ndr): “Qui sono troppo intelligenti, hanno inventato tante cose, ma un’azienda non è un laboratorio e la Olivetti non ha le forze per coltivare tutti questi business: Omnitel e forse Infostrada hanno un domani, il resto è da vendere o da chiudere”.

I telefoni sono il futuro da conquistare. Conclude Colaninno: “In questa posizione hanno fallito grandi nomi, se andrà male anche a me, nessuno mi metterà in croce”. È una missione impossibile, almeno in apparenza. E Colaninno si accontenta di uno stipendio nemmeno troppo elevato (2,5 miliardi di lire dichiarati nel bilancio 1998) anche perché spunta da De Benedetti una stock option robusta: in pratica può acquistare a mille lire l’una 12 milioni di azioni Olivetti. Facendo leva su questa stock option costruirà le sue fortune di capitalista.

Quella che è chiamato a condurre Colaninno è la liquidazione della Olivetti come gruppo industriale. I conti vengono risanati. Il titolo si rianima, anzi si esalta. I computer passano all’avvocato Edward Gottesman, la società Op Computers, che ha rilevato Scarmagno e gli altri stabilimenti, è in stato fallimentare, anche il diritto ventennale d’utilizzo del marchio Olivetti per queste produzioni è messo in vendita come un tornio, nella primavera del 1998 Colaninno vende alla Wang Laboratories di Joseph Tucci la Olsy, la vecchia Olivetti System & Networks che ancora ha 11 mila addetti e in cambio riceve il 20 per cento di Wang, un anno dopo, quando una sconosciuta società olandese lancia un’Opa sulla Wang, tutti sono felici di aderire: in testa Colaninno che si sdebita con Tucci chiamandolo nel consiglio Telecom.

A questo punto – siamo ormai in estate – Colaninno comincia ad avere chiaro il quadro della situazione. L’emergenza Olivetti è finita. C’è ancora da sistemare la Olivetti Lexicon, la Olivetti Ricerca, un po’ di servizi centrali senza futuro: ottomila dipendenti, tutte aziende che perdono, ma perdono poco se paragonate ai computer e alla Olsy. E poi la telefonia è decollata. Alla grande. Omnitel è una storia di successo. Infostrada vale già tanti soldi. Il titolo si sta risvegliando: dalle 600 lire del 1997 viaggia verso le tremila. Grazie alla stock option, il Ragioniere è miliardario. La moglie, che si è comprata quasi un milione di Olivetti, è forse la più ricca insegnante di lettere di Mantova» (Massimo Mucchetti).

• «Trovatosi quel tesoro in tasca avrebbe potuto tenerselo, magari comprandosi il 49 per cento che era della Mannesmann. Si sarebbe ritrovato la Omnitel, che è una delle aziende di maggior successo d’Europa e che macina utili a più non posso. Consigliato da banchieri d’affari assai bravi a fare il loro mestiere che è quello di guadagnare commissioni miliardarie, e incoraggiato dal primo ministro del tempo, Massimo D’Alema, ha scelto invece di vendere Omnitel e Infostrada e tentare la conquista di Telecom. 

A Palazzo Chigi in quei mesi si ragionava in grande, si teorizzavano i campioni nazionali, vista da fuori sembrava una merchant bank (vedi anche ROSSI Guido – ndr), ma dentro ci si immaginava un ruolo di modernizzatori e architetti del nuovo capitalismo italiano. Colaninno in quel contesto era l’uomo che ci voleva, era quello che con il suo coraggio, la sua determinazione, la sua spregiudicatezza avrebbe dato la spallata al grande capitalismo facendolo apparire all’improvviso vecchio, esangue, superato. Si decise, il profeta del nuovo capitalismo italiano sarebbe stato lui. 

L’Opa del secolo, la madre di tutte le scalate, per qualche tempo fu vera gloria. Il ragioniere mantovano era diventato l’idolo dei piccoli azionisti, dei day trader, dei bocconiani, il mondo intero sapeva della sua esistenza e delle sue gesta. Passati i mesi, le cose si sono fatte più complicate. Colaninno si trovava a fare molti mestieri, quello del manager, quello dell’imprenditore, quello del socio-gestore, e con un’azienda da guidare di dimensioni neanche lontanamente comparabili con quelle che nella sua vita gli era capitato di guidare» (Marco Panara). 

• Sulla scalata Telecom (opa lanciata il 21 febbraio 1999) vedi anche GNUTTI Emilio e RICUCCI Stefano.

• Fu della gestione Colaninno anche il tentativo di Telecom di creare con La 7 un polo televisivo alternativo a Mediaset «che, pur abortito sul nascere, portò a una improvvisa impennata dei prezzi sul fronte dei contratti ai teledivi che a Cologno monzese non gradirono. Fu allora che Colaninno bollò la levata di scudi del centro destra come un incomprensibile starnazzare di oche esagitate» (Paolo Madron). 

• Venduta Telecom (nel 2001, vedi TRONCHETTI PROVERA Marco) «ha incassato il colpo del rientro nel semianonimato di gente ricca, ma senza potere. La Fiat, raccontò a un’amica giornalista, poteva essere la grande occasione, ma non è andata. Segno che il format dei favolosi anni 1988-98, quelli in cui i raider specializzati diventavano imprenditori grazie a una buona intuizione, è ormai finito, azzerato dai nuovi modelli dell’era globalizzata. Che cosa poteva restargli, se non il suo motto: back to the basic? La Piaggio, sospira lui, è solo il primo passo» (Monica Setta).

• “Colaninno sale in Vespa” è il titolo dei giornali nel luglio 2003. Il finanziere conclude l’accordo di acquisizione con il fondo Morgan Grenfell, il proprietario di allora, e batte la concorrenza di un altro fondo, l’americano Cerberus: il marchio delle due ruote famoso in tutto il mondo torna in mani italiane. Il 24 settembre la firma. Nel 2004 lo sbarco in Cina (l’intesa con il gruppo Zongshen prevede la produzione e la commercializzazione di oltre 300 mila veicoli l’anno) e soprattutto l’acquisto dell’Aprilia, altro storico marchio del settore. Colaninno è alla guida del quarto polo motociclistico mondiale, il primo europeo: «600 mila moto l’anno, fatturato di oltre 1,5 miliardi di euro, 8 stabilimenti nel mondo, seimila dipendenti» (Valerio Berruti). Nel luglio 2006 porta l’azienda di Pontedera in Borsa.

• Nel 2007 si disse fiducioso: «Il risanamento del gruppo (Piaggio, Aprilia, Moto Guzzi, Gilera, Vespa, Derbi) è finito e ora guardiamo con fiducia al futuro». Nel 2008 è stato invece costretto a posticipare di un anno gli obiettivi del piano industriale: «Abbiamo rivisto le aspettative di vendita nei prossimi anni perché riteniamo che il ciclo negativo non sia finito. L’importante è che l’impresa generi cassa, controlli i debiti e sia altamente innovativa». Anche gli anni successivi si sono rivelati difficili per l’impresa di Pontedera: il mercato europeo in calo cronico, mentre l’India e il Vietnam, dove Piaggio si è insediata, richiedono più tempo del previsto per dare le soddisfazioni attese. [Alessandra Puato, Cds 28/10/2013]. 

• Al salone di Milano del 2013 ha annunciato il ritorno dell’Aprilia in MotoGp nel 2016: «Dopo i successi in Superbike, vogliamo tornare in MotoGP per vincere sin da subito. A me non piace arrivare secondo o terzo, punto a vincere perché è nel nostro dna». 

• Altra società del gruppo Immsi, la holding di Roberto Colaninno, è la Intermarine per la quale il settore militare rappresenta ormai la quasi totalità del portafoglio ordini. «Siamo usciti dal mercato degli yacht e non abbiamo intenzione di rientrarci, nella difesa invece c’è un’importantissima ripresa» [Filippo Santelli, Cds 21/8/2013]. 

• All’inizio di giugno 2008 spunta il suo nome tra gli industriali italiani nella cordata per il salvataggio di Alitalia, ma per lui è pregiudiziale una scelta precisa sul partner internazionale. «Oltre a questa, l’ex alfiere della razza padana ha messo altre due condizioni: essere lui a comandare, e conoscendolo la cosa non sorprende affatto, visto che da sempre ritiene la sua propensione ad aggiustare giocattoli rotti imprescindibile dal suo pieno e diretto coinvolgimento. Inoltre che lo Stato, ovvero il venditore, non sia esoso e crei un contesto favorevole all’operazione, cosa su cui il futuro acquirente, chiunque esso sia, può già contare» (Paolo Madron). 

Alla fine è entrato da presidente nella Cai, la società costituita apposta per rilevare le attività di Alitalia e Air One (vedi BERLUSCONI Silvio, PADOA-SCHIOPPA Tommaso e TOTO Carlo). Dopo cinque anni Alitalia è di nuovo in difficoltà. Nel febbraio 2013 Colaninno è stato costretto a chiamare a raccolta i soci per finanziare un prestito obbligazionario. A ottobre 2013 l’Assemblea di Alitalia ha approvato l’aumento di capitale al quale aderiscono la famiglia Benetton, Roberto Colaninno, Banca Intesa. Nel cda del 31 ottobre 2013 Alitalia ha preso atto dell’impegno di Poste Italiane alla sottoscrizione di 75 milioni di euro a copertura dell’eventuale inoptato. Tra i soci ancora mancanti all’appello della sottoscrizione Air France, che attende il momento opportuno per dettare le proprie condizioni. Nello stesso cda Colaninno ha formalizzato le sue dimissioni da presidente nella Cai rimanendo socio di riferimento della compagnia.

• «Ho creduto nel progetto Alitalia nel 2008 e continuo a credere e a difendere l’investimento che ho fatto: Alitalia è un marchio straordinario, una compagnia con enormi potenzialità di business» (ad Alessandro Plateroti) [S24 5/11/2013]. 

• È uscito dal cda di Capitalia dopo la fusione con Unicredit (non prima di aver fatto da mediatore nella disputa tra Geronzi e Arpe). 

• Il sultano dell’Oman ha commissionato ai suoi cantieri navali Rodriquez cinque catamarani per 90 milioni di dollari.

• Ha affidato a Massimiliano Fuksas, «architetto di fiducia della famiglia Colaninno» (La Nuova Sardegna), il progetto del Museo storico della Vespa: una gigantesca bolla rossa lunga 300 metri che galleggerà a mezz’aria dentro la fabbrica di Pontedera. 

• In quanto ex consigliere della Banca agricola mantovana, condannato in primo grado a 4 anni e 1 mese, più l’interdizione dai pubblici uffici per 5 anni, per il crac Italcase.

• Sposato dal 1969 con Oretta Schiavetti, «bella ragazza di buona famiglia, lombarda doc» (Giancarlo Mazzuca), conosciuta durante un’escursione in montagna a metà degli anni Sessanta. Laureata in Lettere, con la passione dei mobili antichi, lei si presentò anche nella lista dei Popolari (prima dei non eletti) alle amministrative di Mantova. Due figli, Matteo (1970, vedi) e Michele (1977). Il secondogenito, laurea in Economia alla Cattolica, è direttore generale dell’Immsi, consigliere d’amministrazione della Piaggio e dei cantieri navali Rodriquez di Sarzana, amministratore delegato di Omniaholding, cassaforte di famiglia. Il 17 ottobre 2007 il matrimonio con Anna Di Salvo, amante dell’arte e della cultura, responsabile delle relazioni esterne del Centro di Palazzo Te, in quella che fu la basilica di corte dei Gonzaga. 

• Commenti «Sono allibito che Colaninno definisca le critiche del centrodestra come “starnazzamento”. Gli faccio sommessamente presente che noi non siamo oche e che lui non è al di sopra del giudizio politico» (Marco Follini dopo un’intervista di Colaninno al Tg1 sull’operazione Seat Telemontecarlo).

• «Il Ragioniere mantovano (Roberto) è talmente legato all’Ingegnere (Carlo De Benedetti - ndr) da citarlo in 23 pagine su 211 (più di quanto faccia per Enrico Cuccia, Massimo D’Alema o gli Agnelli) nell’intervista-libro-memoriale (Primo tempo, Rizzoli 2006) con Rinaldo Gianola, giornalista ex Repubblica, da anni vicedirettore dell’Unità» (Fabio Dal Boni). 

• «Alla Piaggio Colaninno ha realizzato un’operazione di risanamento industriale, che alcuni paragonano al lavoro di Sergio Marchionne in Fiat. Ha riportato in utile una società che dagli anni Novanta era entrata in un tunnel dal quale sembrava che non sarebbe più uscita» (Il Foglio). 

• Gianni Agnelli a Luca Cordero di Montezemolo che richiesto di un parere aveva detto di veder bene Colaninno alla Fiat: «E se questo poi lancia un’Opa sulla General Motors?».

Estratto dell’articolo di Nicola Borzi per “il Fatto quotidiano” domenica 20 agosto 2023.

Morto ieri a 80 anni, Roberto Colaninno da tempo era lontano dai riflettori della finanza. Ma da metà anni 90 per un quindicennio il manager e imprenditore di Mantova aveva tenuto banco nelle cronache per le sue numerose scorribande, spesso benedette dalla politica nazionale ma non sempre dal successo. 

De mortuis nisi bonum è il mantra di questo Paese: dunque giù lodi per un capitano d’azienda che ha fatto parlare molto di sé, ma le due cui due maggiori avventure, Telecom e Alitalia, non sono tra le case history da insegnare nelle business school.

[…]  Da Mantova “l’ingegnere” lo porta a Ivrea, dove nel 1995 prende le redini della Olivetti in crisi nera. Colaninno cede l’informatica e trasforma l’azienda in holding di telecomunicazioni. Nel 1998 vende per oltre 7 miliardi Omnitel, all’epoca secondo gestore nazionale dei cellulari. 

[…]  L’apice lo tocca a inizio 1999 quando, con la benedizione di Palazzo Chigi dove all’epoca siede Massimo D’Alema (“l’unica merchant bank dove non si parla inglese”), Olivetti crea una cordata di imprenditori del Nord tra i quali il bresciano Emilio Gnutti […] e con un sistema di scatole cinesi societarie porta al successo un’offerta pubblica di acquisto totalitaria su Telecom Italia, privatizzata da poco e gestita da un “nocciolino duro” di azioni, pagando la cifra monstre di 117 mila miliardi di lire, suppergiù 59 miliardi di euro.

Poi riversa i debiti per “la madre di tutte le Opa” sul gigante delle Tlc europee, che nonostante due decenni di tagli e cessioni da quel salasso non si è più ripreso e ormai è un attore di secondo piano nel settore. 

Lui ne esce nel 2001, cedendo a Trochetti Provera in cambio di un gruzzolo adeguato e della Immsi. […] a dicembre 2008 nuova avventura: il governo Berlusconi benedice i “capitani coraggiosi” guidati da Colaninno che comprano il 75% di Alitalia-Cai. A ottobre 2013 Cai arriva al capolinea dopo aver perso un miliardo e 252 milioni in 4 anni e 7 mesi.  A confronto, i 5 miliardi di perdite in 20 anni dell’Alitalia pubblica erano quasi meglio. […]

Estratto dell’articolo di Fabio Martini per “La Stampa” domenica 20 agosto 2023. 

[…] D'Alema ha un ricordo forte: «Devo dire la verità: credo che sia una perdita significativa per l'economia italiana: oramai non abbiamo più, tra i grandi, molti imprenditori-produttori, che cioè abbiamo un interesse preminente per la produzione di beni. In occasione dell'Opa su Telecom, Colaninno fu protagonista di un'operazione senza precedenti: in Italia mai una grande impresa era passata di mano sul mercato, ma sempre attraverso i salotti».

Sono passati 24 anni dalla celebre Opa Telecom ad opera dei "capitani coraggiosi", da allora se ne è molto discettato e tra i principali protagonisti ci fu una strana coppia: il primo presidente comunista della storia d'Italia e quel figlio di un sottufficiale dell'esercito e di una sarta, che aveva studiato ragioneria e aveva dovuto smettere l'Università a Parma per iniziare a lavorare.

Roberto Colaninno aveva mostrato subito di saperci fare alla guida di piccole e grandi imprese, fino a quando alla fine degli anni Novanta, consigliato da banchieri d'affari interessati a guadagnare commissioni miliardarie, si era deciso al grande passo: tentare la conquista di Telecom.

A Palazzo Chigi piaceva l'idea di campioni nazionali capaci di conquistarsi un posto al sole e questa simpatia ha incoraggiato dietrologie di ogni tipo sul rapporto personale tra Colaninno e D'Alema. 

L'ex presidente del Consiglio affronta l'argomento con un sorriso divertito, privo del proverbiale sarcasmo: «Quando lui fece la famosa Opa, io non lo conoscevo personalmente, cosa alla quale non credeva nessuno e tutti si facevano matte risate, ma in realtà diversi anni dopo Colaninno mi disse: "Caro D'Alema hanno messo in giro la voce che avrei pagato tangenti per Telecom e noi sappiamo come stanno le cose e perciò ti chiedo: ti posso offrire una cena?". Un aneddoto che D'Alema corona così: «Ricordo che andammo a cena con le nostre famiglie».

[…] Massimo D'Alema chiosa così: «Parliamoci chiaro: in Italia mai una grande impresa era stata acquisita sul mercato, ma sempre attraverso i salotti. Era un'operazione di mercato in un contesto di capitalismo asfittico e controllato da pochi. Ricordo che dissi ad Umberto Agnelli: il governo non c'entra e se lo ritenete possibile, perché non fate una controfferta?». 

Operazione con forti margini di rischio, legata ad una scommessa: colmare il forte debito del passato con gli utili del futuro. E infatti non mancarono le riserve, a cominciare da quella di Draghi, allora direttore generale del Tesoro. Ricorda D'Alema: «La linea del governo ovviamente la decidemmo assieme. Avevo come ministro dell'Economia Carlo Azeglio Ciampi, che non era precisamente uno che facesse quel che dicevo io. Con lui discutevamo con grande rispetto reciproco.

L'idea in definitiva era questa: se davanti ad un'operazione di mercato, il governo fosse intervenuto per impedirla, sarebbe stato un messaggio molto antipatico, che avrebbe potuto allontanare investitori stranieri». 

Lo Stato avrebbe potuto far valere i propri "diritti" su una azienda strategica come Telecom? D'Alema obietta: «Avremmo potuto far leva su una piccola quota pubblica, ma come avremmo potuto opporre un interesse strategico del Paese, quando un gruppo di italiani voleva comparsi un'azienda italiana? Capisco, se fossero stati ostrogoti…». 

[…] Per D'Alema, «Colaninno avrebbe dato un'impronta diversa alla storia delle tlc nel nostro Paese». E dunque quale è stata la sua cifra imprenditoriale ed umana? «Anche alla Piaggio ha dimostrato di essere un industriale e di non essere uno speculatore. Era un uomo estremamente perbene».

Carlo De Benedetti su Roberto Colaninno: «Eravamo concorrenti, poi diventò un mio grande amico». Storia di Nicola Saldutti su Il Corriere della Sera sabato 19 agosto 2023.

«È l’unica persona che ha vissuto un pezzo di strada importantissima con me. Aveva con me una sorta di rapporto di figliolanza, anche se avevamo soltanto nove anni di differenza. L’Italia perde un grande imprenditore, aveva una capacità di lavoro, un coraggio e un ottimismo di cui c’è un gran bisogno per questo Paese».

Carlo De Benedetti ripercorre la lunga storia insieme a Roberto Colaninno. Due uomini profondamente diversi, le cui strade si sono incrociate tanti anni fa: «Colaninno lavorava in un’azienda a Mantova, la Fiaam Filter, di filtri olio e aria per auto. All’epoca ero a capo della Gilardini. Eravamo concorrenti…».

Concorrenti?

«Sì, anche noi producevamo filtri. Ci siamo conosciuti allora e ho visto in lui un grande potenziale, non soltanto come manager, ma come imprenditore. Così insieme abbiamo fondato la Sogefi nel 1981, lui amministratore delegato, io presidente. Il nostro lungo rapporto è nato così».

Poi la svolta dell’Olivetti?

«Quando in Olivetti mi ritrovai senza amministratore delegato, con l’uscita di Caio, conoscendo le sue capacità, la sua dedizione al lavoro e le sue doti gli proposi di lasciare Sogefi. E diventò lui il capo azienda dell’Olivetti. E per la verità mi ricordo che non disse subito sì…»

Perché?

Video correlato: Coaching, Claudia Benedetti: attenzione alla multipotenzialit? (Dailymotion)

«Era molto legato a sua moglie Oretta, tornò a Mantova per parlarne con lei. Poi venne a Ivrea e accettò la sfida. Prendemmo insieme la decisione di vendere la perla Omnitel (la società di telefonia mobile, ndr) ai tedeschi di Mannesmann che poi la rivendettero a Vodafone. In quegli anni fece un lavoro straordinario, cercò di ridurre i costi anche perché l’Olivetti era in una strana situazione, non c’erano più i prodotti per cui era nata, le macchine da scrivere, ed era diventata la società più liquida d’Italia, una specie di cassaforte che però continuava a perdere sul suo business tradizionale…».

Allora partì per l’avventura Telecom. Era stata la madre di tutte le privatizzazioni e diventò la madre di tutte le sc alate...

«Entrò in contatto con il gruppo dei soci bresciani, in particolare Gnutti, e inventarono di comprare Telecom Italia. Un’operazione alla quale, e glielo dissi, ero assolutamente contrario perché non ritenevo avessimo la squadra per gestirla. La consideravo un’impresa ardua e sbagliata. Lui la fece lo stesso perché era una persona totalmente indipendente e determinata. Si organizzò l’Offerta pubblica di acquisto, poi mio figlio Marco andò con lui e Colaninno lo scelse come amministratore delegato di Tim».

C’è la storia della finanza e dell’impresa in Italia, in questo suo racconto di Colaninno, protagonista di un pezzo di storia del Paese...

«È così. Quando Gnutti vendette la Bell (la holding che deteneva il controllo di Telecom, ndr) ci rimase malissimo, ruppe i rapporti. La sua passione per fare l’imprenditore, la sua capacità di lavoro, il suo coraggio, erano troppo importanti per lui. Che infatti decise di comprare la Piaggio».

Un’impresa dalle grandi tradizioni, ma che allora non era un gruppo in buone condizioni, ora è diventato un gioiello…

«A Pontedera fece un lavoro straordinario, resuscitò un marchio come la Vespa e pure essendo un gruppo piccolo rispetto ai giganti giapponesi, è riuscito a renderlo protagonista del mercato mondiale. Un uomo partito da Mantova, con il titolo di studio di ragioniere ma con una capacità imprenditoriale veramente notevole. Era attaccatissimo alla sua famiglia, quando lavorava all’Olivetti partiva la mattina dalla sua città per venire a Ivrea e tornava anche di notte per ritornare dalla moglie Oretta e dai suoi figli Matteo e Michele. Perdo un amico vero».

Vi sentivate ancora?

«Per lungo tempo ci siamo sentiti la domenica mattina alle dieci. Lo facevamo sempre. Lui mi parlava dei suoi progetti, dall’apertura del nuovo stabilimento in Vietnam a nuove idee di imprese possibili. Questo era Colaninno e queste conversazioni sono uno dei ricordi più belli che custodirò di noi».

Addio a Roberto Colaninno, protagonista dell'industria italiana. Ottant'anni appena compiuti, la sua famiglia era originaria di Acquaviva delle Fonti ma da tempo viveva a Mantova. REDAZIONE ONLINE su La Gazzetta del Mezzogiorno il 19 Agosto 2023

Addio a Roberto Colaninno, uno degli imprenditori protagonisti dell’industria italiana ed attualmente presidente di Immsi, la finanziaria di famiglia, e presidente e amministratore delegato di Piaggio.

Ottanta anni appena compiuti, il 16 agosto, sposato, padre di Matteo e Michele, quest’ultimo amministratore delegato e direttore generale di Immsi, Roberto Colaninno aveva conseguito il diploma di ragioniere e da mezzo secolo era al centro della scena imprenditoriale italiana.

L’imprenditore, la cui famiglia era originaria di Acquaviva delle Fonti, da tempo ormai viveva a Mantova. La sua carriera inizia nel 1969 alla Fiaam Filter, azienda italiana di componenti per auto con sede a Mantova, di cui diviene amministratore delegato. Nel 1981 fonda la Sogefi, società di componentistica meccanica, con sede a Mantova, entrata ben presto nell’orbita della Cir dell’ingegner Carlo De Benedetti.

Nel 1995 è amministratore delegato di Olivetti nel momento della massima crisi dell’azienda. In quegli anni Colaninno annuncia che bisogna uscire dall’informatica e trasforma l'azienda in una holding di telecomunicazioni. Nel 1998 vende per oltre 7 miliardi di euro anche Omnitel, all’epoca secondo gestore nazionale dei cellulari.

All’inizio del 1999 lancia una offerta pubblica di acquisto totalitaria su Telecom Italia, pagando a tutti gli azionisti un prezzo considerato equo dalla Borsa. L’operazione ha successo e Colaninno diventa presidente e amministratore delegato. Nel 2002 Colaninno acquista Immsi, nata dallo scorporo degli immobili della Sirti, società della galassia Telecom operante nel settore delle reti telefoniche, società operante nel settore immobiliare, trasformata da Colaninno in una Holding di partecipazioni industriali e quotata in Borsa. Nel 2003 attraverso Immsi acquista Piaggio. Negli anni Piaggio cresce ed ora opera con diversi marchi, oltre al proprio: Vespa, Gilera, Scarabeo, Aprilia, Moto Guzzi, Derbi, Ape, Piaggio Veicoli Commerciali.

Nel 2008 viene costituita, in seguito a una iniziativa di Silvio Berlusconi, nasce la Compagnia Aerea Italiana, una società-veicolo che intende acquisire l’Alitalia, di cui Colaninno è stato presidente. Nel 2015 la Cai è azionista al 51% della nuova Alitalia con il 49% in mano a Etihad Airways.

Colaninno è morto nella sua abitazione di Mantova a palazzo Canossa, un edificio del Seicento nel cuore della città completamente restaurato dove abitano anche i figli Matteo e Michele con le rispettive famiglie.

La salma si trova in casa dove sarà allestita la camera ardente ma solo per i familiari e i parenti più stretti. Roberto Colaninno, nonostante i suoi interessi finanziari e imprenditoriali spaziassero ormai da Pontedera all’Asia, era rimasto con salde radici mantovane ed era molto riservato.

La stessa riservatezza che mantiene oggi la famiglia, chiusa nel suo dolore, che ha deciso per i funerali in forma privata senza ancora comunicare né la data né il luogo esatto. 

Addio a Roberto Colaninno, da Olivetti a Piaggio: la scalata dell’imprenditore visionario che ha guidato lo sviluppo dell’Italia. Redazione su Il riformista il 19 Agosto 2023 

Addio a Roberto Colaninno, mantovano (ma originario di Acquaviva delle Fonti, in provincia di Bari) classe 1943: aveva compiuto ottant’anni il 16 agosto scorso. L’imprenditore che ha guidato colossi come Olivetti, Telecom e Piaggio è scomparso nelle prime ore di sabato 19 agosto. La notizia della morte è stata ufficializzata da Omniaholding, la holding di controllo della famiglia. Sposato e padre di Matteo e Michele, quest’ultimo amministratore delegato e direttore generale di Immsi, i funerali di Colaninno si svolgeranno a Mantova in forma privata.

Il nome di Colaninno è legato alla Piaggio, società che controllava attraverso la Immsi e di cui era presidente e amministratore delegato. Nel 2008 celebre la visita al Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, per mostrargli i mezzi del gruppo in occasione del sessantesimo anniversario. Negli anni Piaggio cresce ed ora opera con diversi marchi, oltre al proprio: Vespa, Gilera, Scarabeo, Aprilia, Moto Guzzi, Derbi, Ape, Piaggio Veicoli Commerciali.

L’Italia piange uno dei principali protagonisti della finanza e dell’industria del Bel Paese degli ultimi 50 anni. Cavaliere del lavoro dal Duemila, dagli esordi nel 1969 alla Fiaam, azienda mantovana di componentistica auto, fino all’Olivetti e alla Telecom, ha concluso la sua carriera da imprenditore alla Piaggio, di cui era presidente e amministratore delegato.

Dopo la Fiaam, Colaninno nel 1981 fonda a Mantova la Sogefi, sempre componentistica auto, che quota in Borsa. Nella metà degli anni Novanta diventa ad della Olivetti, azienda in crisi che rilancia ampliando gli orizzonti e trasformandola da azienda d’informatica in una holding di telecomunicazioni. Nel 1998 vende per oltre 7 miliardi di euro Omnitel, all’epoca secondo gestore nazionale dei cellulari.

Un anno dopo, nel febbraio 1999, lancia l’Opa su Telecom Italia, una scalata da 60 miliardi di euro, conclusa con la conquista del 51% della società. In Telecom, Colaninno diventa presidente e amministratore delegato, e presidente di Tim. Nel 2001 ci sarà quindi l’uscita in favore della Pirelli.

Omniaholding e Omniainvest sono le società holding e di investimento da lui costituite, attraverso le quali nel 2002, dopo aver avvicinato la Fiat, compra la Immsi: quotata in Borsa e dedita all’immobiliare. Allarga allora il perimetro e acquista il controllo di Piaggio e Intermarine, e siamo arrivati al 2003.

Nel 2008 viene costituita, in seguito a una iniziativa di Silvio Berlusconi, nasce la Compagnia Aerea Italiana, una società-veicolo che intende acquisire l’Alitalia, di cui Colaninno è stato presidente.  Infine nel 2015 diventa presidente della nuova Alitalia SAI, quella nata con l’ingresso di Etihad. Due anni dopo esce dal consiglio di amministrazione. 

“A nome di tutte e tutti abbraccio forte Matteo. Tuo papà è stato un grandissimo imprenditore ma prima di tutto una figura straordinariamente importante per te e per la tua famiglia. Ti siamo vicini e sappiamo che stai affrontando il dolore di questo momento con la forza della fede e con la tenacia di cui ci hai sempre dato prova in questi anni. Forza Mat!”. Questo il messaggio di Matteo Renzi inviato nella chat dei dirigenti di Italia Viva dopo la scomparsa a 80 anni di Roberto Colaninno.

Chi è e come è morto Roberto Colannino, addio al manager e imprenditore italiano. Ha lavorato nelle principali industrie e società italiane. Ha fondato gruppi finanziari prestigiosi ed è stato nominato Cavaliere del Lavoro. Aveva 80 anni. Redazione Web su L'Unità il 19 Agosto 2023

Dall’Olivetti alla Telecom, passando per l’Alitalia, è morto Roberto Colannino, l’imprenditore che ha rilanciato il gruppo Piaggio. Aveva compiuto da poco 80 anni. Era nato a Mantova il 16 agosto del 1943. Colaninno era presidente e amministratore delegato di Piaggio, presidente di Immsi spa (società che controlla il gruppo Piaggio) e presidente dell’advisory board di Piaggio fast forward, società con sede a Cambridge, Massachusetts (Usa). Dopo le iniziali esperienze in Fiaam (azienda italiana di componentistica auto) di cui diventa amministratore delegato, Colaninno ha fondato nel 1981 a Mantova la Sogefi che, sotto la sua guida, arriva ad essere uno dei principali gruppi italiani nel settore della componentistica auto e viene quotato in Borsa.

Chi è e come è morto Roberto Colannino

Nello stesso periodo ricopre incarichi in importanti multinazionali americane e inglesi del settore automotive. A settembre del 1996 assunse l’incarico di amministratore delegato di Olivetti. In breve tempo, anche grazie ad accordi internazionali, risana l’azienda e la trasforma in una holding delle telecomunicazioni. A febbraio del 1999, alla guida di Olivetti, l’imprenditore mantovano lancia sul mercato la più grande Offerta pubblica di acquisto mai tentata sino ad allora in Italia, per un valore complessivo di oltre 60 miliardi di euro, conclusa con l’acquisizione del 51% di Telecom Italia. Ne divenne presidente e amministratore delegato, oltre che presidente di Tim (cariche che ha mantenuto fino al 31 luglio 2001). A settembre del 1998 fonda Omniaholding spa, società finanziaria di famiglia di cui era presidente.

La carriera

A settembre del 2002 costituisce, con altri soci, Omniainvest spa, società di partecipazioni oggi controllata da Omniaholding. A novembre 2002, attraverso Omniaholding e Omniainvest rileva Immsi spa, società di gestione di attività immobiliari quotata in Borsa. Alle attività immobiliari, Immsi affianca dal febbraio 2003 anche quelle di partecipazioni in aziende industriali e di servizi, tra cui quelle di controllo del gruppo Piaggio e del Gruppo Intermarine. Nel 2008 il Gruppo Immsi è tra i soci fondatori di Cai (Compagnia aerea italiana), società che acquisisce le compagnie aeree Alitalia e Airone. Colaninno è stato presidente e consigliere di amministrazione di Alitalia; membro del consiglio di Mediobanca, Capitalia e altre istituzioni finanziarie, e del consiglio direttivo e della giunta di Confindustria. Nel 2000 è stato nominato Cavaliere del Lavoro, e nel 2014 è stato insignito dell’onorificenza di ufficiale della Legion d’Honneur.

Redazione Web 19 Agosto 2023

L'intervista. Debenedetti ricorda Colaninno: “Seppe vincere la sfida all’impossibile”. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 27 Agosto 2023

A una settimana dalla scomparsa di Roberto Colaninno abbiamo intervistato Franco Debenedetti, manager, economista e più volte Senatore che accompagnò Colaninno dagli esordi lungo tutta una sfolgorante carriera.

Come definirebbe Roberto Colaninno?

«Uno dei protagonisti dell’economia italiana degli ultimi decenni: ma con la particolarità di essersi dato, e superato, obbiettivi ambiziosissimi, al limite dell’impossibile» .

Una lunga carriera, quella di Colaninno, con tanti successi e qualche stop…

«Carriera non è la parola giusta, è un percorso che per schematizzare, dividerei in tre fasi. La prima: dalla fabbrichetta di Mantova al governo di una multinazionale. La seconda: da primo fornitore privato di telefonia mobile, a ideatore e protagonista della scalata a Stet, quella che verrà chiamata la madre di tutte le privatizzazioni. La terza: dalla finanza e dall’industria a quella che chiamava “la mia università”, dove studiare le tecniche di progettazione delle attività digitali, con l’Interaction Design Institute di Ivrea» .

Vediamoli nel dettaglio.

«“Il primo tempo”» è il titolo della sua biografia fino al 2006. La nostra Gilardini (dei fratelli Carlo e Franco, ndr.) aveva comperato una grossa fabbrica di filtri, e questo ci aveva portato a incontrare sul mercato Colaninno come concorrente, piccolo ma vivacissimo. Finì che lui accettò di venderci la fabbrichetta di filtri per fare qualcosa di grosso insieme. La conclusione di un contratto con gli americani per il diritto a usare il loro marchio e rilevare le loro fabbriche in Europa fu il primo lavoro che facemmo insieme, e fu l’inizio della nostra amicizia. Io mettevo a posto le fabbriche, lui conquistava mercati. E fu la Sogefi, che Gilardini portò in Borsa».

Quando si separarono le vostre strade?

«Umanamente, mai: ancora a distanza di anni, il ricordo di una clausola “furbastra” che ero riuscito a infilare nel contratto con gli americani ci metteva allegria. Ma io, con i referendum Segni, l’elezione diretta dei sindaci iniziai a interessarmi direttamente alla politica, e dopo la “discesa in campo”, mi candidai e fui eletto senatore. Naturalmente mi dimisi da ogni carica in Olivetti e in Gilardini, compreso quella di presidente di Sogefi» .

E Colaninno?

«Mio fratello l’aveva nominato amministratore delegato di Olivetti, dove le cose andavano malissimo nei prodotti tradizionali. Ma Elserino Piol, altro manager illuminato, aveva intravisto l’avvento della telefonia mobile: mio fratello capisce che questo poteva essere il salvataggio e il futuro di Olivetti: e Omnitel, un’azienda privata che si mette a far concorrenza al monopolio Stet-Telecom, fu da subito un successo» .

Quando finisce l’avventura di Omnitel?

«Quando le banche rifiutarono di fare un prestito all’Olivetti, Colaninno capisce che bisogna far cassa. Deve vendere una partecipazione di minoranza a Mannesmann, la quale stava mettendo insieme i pezzi di quella che sarà Vodafone. Sembrava mission impossibile perfino a Carlo: Roberto vendette un terzo di Omnitel realizzando l’equivalente di 7 miliardi di euro. Ma se le banche non facevano credito all’Olivetti, a rischiare di fallire era l’IRI; anche l’Italia doveva vendere. I Governi Ciampi e Amato avevano spianato la strada, nella XII legislatura coi governi Berlusconi e Dini si incomincia a fare sul serio» .

E questo mette un tarlo nella mente di Colaninno: se lo Stato vende Stet, perché non può essere Olivetti a comperarla?

«Intanto c’era un ostacolo legislativo: la legge Ciampi chiedeva che, per ogni settore che veniva privatizzato, venisse prima costituita un’autorità di regolazione. Io cercai di far sì che le legge costitutiva dell’autorità per l’energia elettrica e del gas fosse allargata a comprendere anche norme specifiche per le telecomunicazioni, ma i DS si opposero: volevano che fosse si facesse una legge apposita per le telecomunicazioni per avere l’occasione di inserire norme che ponessero limiti alle televisioni di Berlusconi. E questo ritardò parecchio l’operazione di privatizzazione» .

Che soluzione trovò Colaninno in quel caso?

«Colaninno capisce che un outsider può comprare Stet solo in modo limpido, lanciando un’OPA: sarà il mercato a determinare il valore dell’azienda. Dove trovare i soldi? Intanto vendendo a Mannesmann i 2/3 di Omnitel ancora in mano a Olivetti. Poi coinvolgendo industriali (i cosiddetti bresciani) in un’operazione così ambiziosa. E infine chiedendo un prestito ad una grande banca americana. E procurandosi il necessario consenso politico. Della maggioranza di governo faceva parte anche Rifondazione Comunista. Ero in vacanza quando mi raggiunge la telefonata di Ciampi: “Franco, ho convinto Bertinotti, vendiamo Telecom tutta intera.”»

Spallata dopo spallata avete fatto fare qualche passo avanti a un sistema ingessato…

«Da allora quasi ogni mattina prendevamo un caffè al bar di Piazza Sant’Eustachio e a fare il punto di una partita appassionante, che finirà con il tappo di champagne che salta fuori dalla finestra di Mediobanca: la più grande OPA italiana di sempre (e una delle più grandi europee) si era conclusa con successo. Dopo di che al caffè di Sant’Eustacchio si prese a parlare di come portare Stet alla redditività: intanto vendendo le partecipazioni estere e badando invece di non perdere le nuove occasioni dell’economia digitale, per esempio dando vita a un mega portale web. Sempre avanti» .

Al mondo digitale è legata anche l’idea pioneristica della vostra università a Ivrea, ce la racconta?

«Questo è il collegamento con quella che ho chiamato la terza fase della carriera di Roberto Colaninno. Nasce da un’istanza “sentimentale”, voler lasciare a Ivrea qualcosa di duraturo in riconoscimento alla città che aveva permesso al capo di una fabbrichetta di Mantova di diventare quello di una delle massime aziende italiane. La chiamava “la mia università”: mia moglie convince me a convincere Colaninno a fare qualcosa di nuovo e di funzionale all’economia digitale: un istituto di progettazione delle interazioni, specializzato per le telecomunicazioni» .

Il progetto prese piede?

«Eccome. La cosa aveva interessato anche i guru dell’università di Stanford. Ricordo tra gli altri Bill Verplank, l’inventore dei simboli con cui si indicano gli “oggetti” e le “azioni” dei computer, e Terry Winograd, di Google, noto per il lavoro pionieristico sul linguaggio naturale. Nel giugno 2000 avevamo portato a bordo Gillian Crampton Smith, direttrice e persona chiave dell’iniziativa, il cda di Telecom delibera di fondare Interaction Design Ivrea dotandola di 39 milioni di euro per il periodo 2000-2005; fatto e approvato il programma didattico, scritto lo statuto e il business plan per cinque anni. A dicembre è inaugurato l’edificio, ricavato da Ettore Sottsass dall’edificio per le ricerche di Olivetti, a gennaio 2001 inizia l’attività di ricerca, a settembre arrivano i primi trenta studenti dall’estero» .

Poi però si ferma, cosa è intervenuto?

«Un’indagine della Procura (finita al solito in niente) su un preteso conflitto di interesse in Seat Pagine Gialle mette in allarme alcuni soci bresciani di Colaninno, che nel luglio 2001 finisce per cedere a Pirelli il controllo di Olivetti-Telecom. Venendo meno Telecom, l’università è sprovvista dei fondi necessari a andare avanti, e si ferma. Riattivarla sarebbe il miglior riconoscimento per il grande esempio di vita di Roberto Colaninno» .

E arriviamo così alla Piaggio, alla sfida della mobilità sostenibile…

«Nel 2002 Colaninno riparte acquisendo Immsi, società del settore immobiliare, che trasforma in una holding industriale tramite cui nel 2003 acquisisce Piaggio. Nel dicembre 2004 ne amplia il perimetro industriale, e con l’acquisizione dei marchi motociclistici Aprilia e Moto Guzzi entra nel business delle moto. Nel 2006 la quotazione con cui si abbatte il debito. Allora sull’orlo del fallimento, qualche consulente propose di puntare sugli Stati Uniti sull’onda dell’eterna fama del film Vacanze Romane. Colaninno invece punta a farne un oggetto distintivo per i nuovi ricchi dei Paesi emergenti. Apre una rete di vendita “di lusso” in Vietnam, e a seguire negli altri Paesi del sud est. Io lo seguii come membro del Cda Piaggio, ma lì ero un silenzioso e affettuoso osservatore».

Che lezione trarre dalla vita di Colaninno?

«Tutti abbiamo una lezione da trarne: la crescita, quella vera, quella capace di produrre livelli di benessere più elevati e di attenuare le disuguaglianze, la fa la voglia di rischiare e di intraprendere di individui, la loro determinazione, le loro aspirazioni, la loro determinazione».

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

È MORTA RENATA SCOTTO.

(ANSA mercoledì 16 agosto 2023) - E' morta a Savona il soprano Renata Scotto. Nata nel 1934, soprano conosciuto in tutta Italia e nel mondo, è mancata questa notte all'età di 89 anni. Lo ha annunciato il sindaco Marco Russo: "è morta una cantante unica, una grande musicista, una grande artista, una grande donna - ha scritto sui social -. Una grande savonese. Colta, raffinata, generosa, semplice".  

Dopo aver studiato a Milano, Renata Scotto ha debuttato nel 1952 sul palco del Teatro Chiabrera di Savona ne La Traviata. Durante la sua lunga carriera, ha calcato le scene dei più prestigiosi teatri mondiali come La Scala di Milano, il Metropolitan di New York e la Royal Opera House di Londra ed è diventata celebre soprano di fama internazionale. Nel 1965 ha cantato al Metropolitan Opera di New York debuttando con Madama Butterfly e nel 1986 ne curò la regia. Nel 2020 ha riportato il suo talento nella sua città natale dove ha fatto la regista de "La traviata" sempre al Chiabrera.

"È un istinto che mi porta a cantare e a ritornare nella mia città", aveva detto in occasione della presentazione. "Lei, che ha toccato il vertice dell'arte mondiale, aveva la semplicità dei grandi, e ogni volta che la si incontrava, sembrava lei ad essere felice di parlare con l'altro - ha scritto ancora il sindaco -. 

Il suo amore per la musica era contagioso e sapeva, con un solo gesto, con un solo sguardo, con poche parole, trasmettere sia la tensione verso la perfezione, che lei conosceva, sia la semplicità accessibile della musica per chiunque. Ci mancherà in tutto. Ci mancherà il suo saluto gioioso e affettuoso. Savona le sarà sempre grata e resterà un esempio per tutti noi e un riferimento costante per la nostra città".

(ANSA mercoledì 16 agosto 2023) - "Ho il cuore a pezzi" ha scritto sui social Placido Domingo definendola "una dei più grandi cantanti lirici di tutti i tempi, una insegnante dedicata ai giovani cantanti e per me, personalmente, una dei partner più assidui sul palco con più di cento rappresentazioni insieme" ma "soprattutto una carissima amica". Nata a Savona nel 1934, aveva debuttato appena diciannovenne nella Traviata proprio nella sua città. L'anno seguente esordì alla Scala con La Wally.

L'inizio di una carriera proseguita in Italia e all'estero (a partire dalla tournée Scaligera in Inghilterra del 1957 in cui si alternò con Maria Callas e Rosanna Carteri) con un repertorio vastissimo, a cui oltre al canto ha affiancato anche la regia d'opera e l'insegnamento con la creazione a Savona dell'Accademia Operistica Renata Scotto. 

"Ha legato il suo nome e la sua arte, alla musica lirica in tutto il mondo e ha illuminato con la sua voce anche il nostro palcoscenico fiorentino in moltissime occasioni" le ha reso omaggio il teatro del Maggio, "Una musicista cui il Teatro alla Scala, insieme a tutto il mondo dell'opera, è legato da un immenso debito di gratitudine. 

Una tecnica vocale esemplare - hanno sottolineato dal Piermarini - ma soprattutto un'intelligenza del testo poetico e musicale con pochi confronti e una sensibilità drammatica sempre dominata da gusto infallibile hanno permesso al soprano ligure di interpretare alla Scala e nel mondo una varietà di parti, da Bellini a Donizetti fino a Verdi lasciando in ciascuno il segno di una personalità inconfondibile". 

Estratto dell’articolo di Alberto Mattioli per “la Stampa” giovedì 17 agosto 2023.

Aveva debuttato nel 1952, a 19 anni, al teatro Chiabrera di Savona, e non esattamente con un personaggio facile: Violetta in Traviata. Il 7 dicembre del '53, era già alla sua prima "prima" della Scala, in una parte (per ora) relativamente minore: Walter nella Wally di Catalani. 

La consacrazione arrivò il 3 settembre 1957, al King's Theater di Edimburgo dove la Scala portava in tournée La sonnambula, quattro recite con Maria Callas protagonista nel mitico spettacolo di Visconti. Dopo la terza, la greca diede forfait fra le polemiche: venne, vide e vinse lei. 

Renata Scotto è morta ieri a Savona, dov'era nata nel 1934. Famiglia modesta, studi prima da sfollata durante la guerra, poi a Milano con Mercedes Llopart […]

La prima vita artistica di Scotto si svolge alla Scala, dove diventa una delle primedonne più amate dell'evo d. C. (dopo Callas): 17 titoli. Da segnalare la sua Giulietta nei Capuleti e Montecchi di Bellini e, sempre a proposito degli Abbado che non t'aspetti, la leggendaria Lucia di Lammermoor del 7 dicembre '67. 

Ma la storia d'amore fra Scotto e Milano finisce proprio per colpa della Callas. Il 7 dicembre, al suo terzo e ultimo Sant'Ambroeus, Scotto canta I vespri siciliani. Ma in teatro arriva Maria, già ritirata, cui la Scala riserva dimostrazioni d'affetto definite "deliranti" dalle cronache. 

Narrano testimoni attendibili che all'uscita al proscenio la compagnia cantante si trovò davanti un muro di schiene: erano tutti voltati verso il palco "della Maria", che era poi quello di Luchino che l'ospitava. "La Renata" ci rimase male, rilasciò un'intervista velenosetta a Stop (era ancora l'epoca dei rotocalchi popolari), e a una replica fu massacrata dai callasiani con urla di "Guitta!", "Miagoli!", "Via! Via!", mentre i suoi fedeli rispondevano e si accendevano risse. 

Nel finale, planò sul palcoscenico un mazzo di radicchi (ravanelli, riferiscono altre fonti) che lei, tragicamente impassibile, raccolse e odorò come se fossero state rose. Per sbloccare i camerini assediati dalle opposte fazioni dovette intervenire la polizia.

Scotto si trasferì allora nel nuovo mondo, diventando una delle dive in servizio permanente effettivo del Metropolitan di New York: dal '65, debutto con Madama Butterfly, all'87 ben 319 recite di un repertorio che dalle prime parti liriche (fu memorabile anche in Elisir d'amore, Rigoletto, Bohème) […] 

In America imparò anche a recitare, e così lei, che i loggionisti della Scala chiamavano "la teiera" per l'altezza non watussa e l'abitudine di tenere le mani sui fianchi, nei video che arrivavano dal Met sembrava appena uscita dall'Actors Studio.

In Italia, la sua roccaforte degli anni Settanta fu il Maggio, con esiti memorabili con un giovane Muti. La voce non era eccezionale né per estensione né per timbro; le sue corde vocali non erano state baciate da Dio, ma sapeva usarle alla perfezione. E la fraseggiatrice era una delle più sottili, fantasiose e raffinate documentate dai dischi, che per fortuna sono tanti. 

Un'interprete di statura storica. Peperina, anche. Non mancarono gli scontri: epici quelli con Luciano Pavarotti per una disgraziata Bohème al Met nel '77 (la prima opera trasmessa in diretta nel continente americano, per inciso) e in seguito per una Gioconda a San Francisco dove la guerra da fredda divenne bollente. 

 Ma al concerto per i trent'anni di carriera del tenorissimo, nel '91 a Reggio Emilia, Scotto venne e duettò come se nulla fosse successo. Quanto a Mirella Freni, nei favolosi Sixties erano le due giovani dive della Scala. Forse non si amavano e di certo non si amavano le rispettive tifoserie: ma evitarono sempre scontri troppo evidenti. 

Però poi incisero insieme un disco dove la romanza a due voci del Bianca e Fernando di Bellini è la prova definitiva dell'esistenza di Dio e uno dei monumenti più alti mai innalzati alla gloria del canto lirico italiano. 

[…]  lascia due figli e molti ricordi memorabili in noi spettatori ammirati, grati e costernati. Ci accorgiamo di essere diversamente giovani quando iniziano a spegnersi le voci che abbiamo amato quando eravamo giovani e basta.

È morta Renata Scotto, grande soprano: aveva 89 anni. Enrico Girardi su Il Corriere della Sera mercoledì 16 agosto 2023.

Aveva debuttato a 19 anni come Violetta nella Traviata. Fin dall’inizio la sua fu una carriera internazionale che la faceva essere di casa a Londra, New York, Vienna, Berlino, ma la Scala era suo punto fermo 

È mancata ieri a nella sua Savona Renata Scotto, senza dubbio una delle massime interpreti della scena operistica mondiale del Novecento. Nata nel 1934, il soprano ligure nella sua lunga e composita carriera ha rappresentato una pietra miliare nella storia della vocalità. Ciò si deve soprattutto a una versatilità, che le ha permesso di affrontare un repertorio vasto e diversificato con una consapevolezza stilistica che pochi altri cantanti hanno espresso a livelli così alti.

In un momento in cui andava affermandosi in modo vieppiù marcato quell’attitudine allo specialismo che si ritrovava ad esempio nelle voci di Sutherland, Horne, Berganza, Verrett, Price e numerose altre interpreti di tal rango, Renata Scotto ha saputo dedicarsi — in ciò somigliando alla Callas — al belcantismo come a Verdi, al pieno Romanticismo come al Verismo, a Puccini come a Wagner, ai francesi, fino a Strauss, Schönberg e ai musicisti contemporanei.

In altre parole, ha dimostrato che la materia vocale è fondamentale, che la tecnica lo è altrettanto ma che gli aspetti ancora più importanti del sommo interprete vocale sono la sensibilità culturale e l’intelligenza artistica. Non a caso è proprio a lei che si sono rivolti decine e decine di interpreti, anche già affermati, desiderosi di accumulare più frecce tecniche e stilistiche all’arco della loro vocalità. Nessuno di questi ultimi ha poi mai mancato di riferire del suo estremo rigore tecnico abbinato a una limpida umanità, fatta di educazione, rispetto, solidarietà.

La voce di Renata Scotto è stata più luminosa che profonda: una voce non particolarmente ampia di volume eppur capace di ampia proiezione, se la proiezione è quel misterioso elemento che permette a una voce di arrivare chiara e pulita alle orecchie del pubblico. Alimentava tale caratteristica una naturale predisposizione al fraseggio, che le permetteva di sapere dove e come respirare, quando «rubare», dove essere rigorosi o liberi sul tempo, sempre rispettando il legato e la fluidità dell’insieme. Il suo stile belcantistico era naturale. Non dava mai l’impressione che lo sostenesse un’acrobatica muscolarità.

Le cronache ricordano che la sua carriera prese il largo a Edimburgo quando, con le maestranze della Scala, sostituì la Callas in una serie di acclamate recite della belliniana «Sonnambula». Fin dall’inizio la sua fu dunque una carriera internazionale che la faceva essere di casa a Londra, New York, Vienna, Berlino come nelle altre piazze che contano, insieme con i massimi cantanti del suo tempo a partire da Luciano Pavarotti. Ma il suo punto di riferimento è stata la Scala, dove era amatissima e dove tornava con svizzera puntualità.

Ampio il repertorio e il lascito discografico. Difficile suggerire un solo ascolto a chi volesse farsi un’idea di chi è stata Renata Scotto. Andando a istinto si potrebbe dire le pucciniane Cio-Cio-San e Liù e la donizettiana Lucia. Ma come lasciar fuori la sua Violetta, memorabile sia nelle acrobazie del primo, sia nella drammaticità del secondo, sia nel lirismo del terzo atto.

(ANSA lunedì 14 agosto 2023) – Il sociologo, giornalista e scrittore, Francesco Alberoni, é morto all'età di 93 anni a Milano. Alberoni si è spento al Policlinico dove era ricoverato da alcuni giorni per una complicazione sopraggiunta durante una terapia alla quale era sottoposto per problemi renali. La data dei funerali di Alberoni non è stata ancora stabilita. 

Alberoni, noto in tutto il mondo per i suoi studi sui movimenti collettivi e i processi amorosi, era nato a Piacenza il 31 dicembre del 1929. Docente di sociologia all'università di Milano dal 1964, si è occupato di comunicazioni di massa, di fenomeni migratorî, di partecipazione politica in Italia. Tra le sue opere più celebri, Movimento e istituzione; L'élite senza potere: ricerca sociologica sul divismo: L'Italia in trasformazione; ma anche Innamoramento e amore; L'erotismo; L'arte del comando; Sesso e amore; Leader e masse; Lezioni d'amore; L'arte di amare. Il grande amore erotico che dura.

Membro del consiglio di amministrazione e consigliere anziano facente veci di presidente della Rai nel 2005, Albertoni è stato anche editorialista del Corriere della Sera, che dal 1982 al 2011, ogni lunedì, ha ospitato in prima pagina una sua rubrica intitolata Pubblico e privato. Nel 2015 è stato pubblicato il volume antologico Il tradimento. Come l'America ha tradito l'Europa e altri saggi, mentre è del 2016 il saggio L'arte di avere coraggio. Alberoni è stato anche rettore dell'Università di Trento dal 1968 al 1970 e della Iulm dal 1997 al 2001. 

BIOGRAFIA DI FRANCESCO ALBERONI

Da cinquantamila.it – la storia raccontata da Giorgio Dell’Arti

Francesco Alberoni, nato a Borgonovo (Piacenza) 31 dicembre 1929. Sociologo. «Va’ pensierino» (Roberto D’Agostino). 

• Vita Tra i pochissimi capaci di costruire bestseller con saggi socio-filosofici. Sua teoria più nota quella che rende l’innamoramento simile allo stato rivoluzionario che prepara il cambiamento di una società: come per la società, che passata la fase rivoluzionaria si dota di istituzioni, allo stesso modo l’innamoramento si stabilizzerebbe poi nello stadio più alto dell’amore.

Fino al 2011 ha scritto ogni lunedì sul Corriere della Sera, poi sul Giornale. È stato presidente del Centro sperimentale di cinematografia e ha fondato la scuola di regia televisiva e per la fiction a Milano. È stato: rettore dell’Università di Trento (1968-1970); rettore dello Iulm di Milano (1997-2001); consigliere d’amministrazione della Rai (2003-2005, come membro più anziano svolse la funzione di presidente dopo le dimissioni di Lucia Annunziata); presidente del Centro sperimentale di cinematografia di Roma (2002-2012).

Messo sotto accusa di continuo per via di un pensiero che si vuole troppo facile ed esposto con una scrittura troppo chiara (da cui la battuta di D’Agostino riferita in testa), ha risposto: «Non mi consideri presuntuoso, ma anche di Cicerone dicevano così: scrive troppo chiaro. E Galileo? C’è gente che dice che il suo Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo è un libro banale perché può essere capito anche da un bambino delle elementari».

«A scuola ero un allievo modello, perfezionista. Non sopportavo invece la disciplina di tipo militare richiesta allora ai bambini dal regime fascista. In compenso ero un leader naturale, avevo sempre attorno a me una banda di ragazzini che trascinavo inventando giochi collettivi e avventure. Peccato che a casa mia non ci fossero libri. Li scoprirò più tardi, finita la guerra nel 1945, nella Biblioteca comunale dove passerò la maggior parte dei miei pomeriggi leggendo moltissimo di storia e di filosofia».

• All’università avrebbe voluto iscriversi a Filosofia, fu costretto a rinunciare perché aveva fatto il liceo scientifico, così si iscrisse a Medicina a Pavia con l’idea di fare psichiatria «come Sigmund Freud o Karl Jaspers». Dopo la laurea, quando stava per partire per gli Usa, fu chiamato a lavorare con padre Agostino Gemelli, che guidava il più importante istituto di Psicologia italiano. Sull’esperienza all’Università di Trento. 

«Il movimento studentesco, nel 1967, aveva compiuto un’occupazione durata sei mesi, e aveva costretto quasi tutti i docenti a dare le dimissioni. Io sono stato chiamato proprio per ricostruire l’università dalle macerie del processo rivoluzionario. Ero affascinato dal compito non perché mi lusingasse il ruolo di rettore, ma perché mi interessavano i movimenti. Li avevo studiati anche empiricamente (...) 

Appena arrivato, avevo proposto al gruppo dirigente del movimento il mio progetto di organizzazione didattica dell’università. Bisognava studiare i classici della sociologia, su questo non ero disposto a cedere. Per coinvolgerli avevo introdotto la psicanalisi (...) Poi ho proposto agli studenti più anziani di collaborare con il docente per fare i seminari di sociologia (...)

A Trento ho avuto anche la conferma che c’è un’affinità profonda fra innamoramento e movimento. Nell’innamoramento due persone si piacciono prima di conoscersi, e tendono a mettere in comune le loro risorse e le loro esperienze. Avviene lo stesso nel movimento (...) 

Marzo 1970. La mia avventura di Trento è finita. Ho deciso di dare le dimissioni da rettore. Fra poco nelle strade ci sarà la battaglia che vede schierati, da un lato, gli studenti e, dall’altro, le forze dell’ordine e la cittadinanza. L’ho evitata per quasi un anno e mezzo, ma ora sono subentrati due fattori nuovi che sfuggono al mio controllo: il primo è la partenza di tutta la leadership del movimento studentesco da Trento. Con la fine dell’anno scolastico se ne sono andati: c’è chi si è laureato, chi si è sposato, chi è andato a lavorare, chi a continuare l’attività politica altrove. Il secondo fattore: si sono raddoppiati gli iscritti. La nuova massa di matricole è totalmente diversa.

I ragazzi che hanno creato il movimento erano una élite. Studiavano e avevano scoperto per proprio conto le idee in cui credevano (...) Le nuove matricole sciamano per le vie di Trento (...) non studiano, non pensano. Hanno la testa piena di confuse idee marxiste-rivoluzionarie. Parlano di movimento, ma non sono un movimento (...) Sono un branco, un aggregato, senza leadership, senza progetto (...) Sanno solo ripetere formule, recitare slogan che hanno orecchiato, fare gesti che hanno visto fare da altri, o di cui hanno sentito parlare (...) I trentini non vedono l’ora che la polizia gli dia una solenne pestata (...) Ci si prepara allo scontro che arriverà inevitabilmente con reciproca soddisfazione (...) Prima che avvenga tutto questo, io mi sarò dimesso. Riunirò l’ultimo plenum dei professori e farò la mia relazione non in prosa, ma in versi, in strambotti. Che almeno il mio rettorato finisca in allegria, con risate» (da Le sorgenti dei sogni).

• Aiutò Diego Della Valle a battezzare le sue scarpe Tod’s. Partecipò, in posizione di rilievo, al team Barilla che inventò la formula del Mulino Bianco. Nel 2013 ha pubblicato la biografia Pietro Barilla: tutto è fatto per il futuro andate avanti con coraggio (Rizzoli).

• Sposato con Rosa Alberoni.

Morto Francesco Alberoni, il sociologo dell’amore. CARLO BORDONI su Il Corriere della Sera lunedì 14 agosto 2023.

Il sociologo, giornalista e scrittore Francesco Alberoni è morto all’età di 93 anni a Milano. Era divenuto una star della cultura nel 1979, quando uscì «Innamoramento e amore» 

Il sociologo, giornalista e scrittore Francesco Alberoni è morto all’età di 93 anni a Milano. Alberoni si è spento al Policlinico, dove era ricoverato da alcuni giorni per una complicazione sopraggiunta durante una terapia alla quale era sottoposto per problemi renali. 

Può l’amore, questione intima e privata, essere oggetto d’indagine sociologica? Francesco Alberoni, scomparso all’età di 93 anni, lo ha dimostrato per primo, traendone un successo internazionale e meritandosi l’appellativo di sociologo dell’amore. O meglio, dell’innamoramento, perché non vi è dubbio che la sua preferenza sia andata a questo movimento, capace di «infondere negli individui un’energia straordinaria», anche se inevitabilmente destinato a finire, lasciando nella migliore delle ipotesi l’amore. Nella sua lunga carriera – era nato a Borgonovo Val Tidone (Piacenza) il 31 dicembre 1929 – Alberoni è stato professore di sociologia alla Cattolica di Milano dal 1964, rettore dell’Università di Trento negli anni caldi della contestazione studentesca tra il 1968 e il ’70, e poi ancora professore all’Università di Catania e alla Statale di Milano. Nei suoi studi aveva toccato i fenomeni del divismo in L’élite senza potere (1963), dell’immigrazione in Contributo allo studio dell’integrazione sociale dell’immigrato (1960) e del consumismo in Consumi e società (1964). 

Nel 1997 è stato tra i fondatori dello Iulm di Milano e primo rettore fino al 2001. Ma anche consigliere d’amministrazione della Rai (2002-05) e presidente del Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma (2002-12), dimostrando una rara capacità di tradurre l’analisi sociologica in un linguaggio comprensibile a tutti. È ben nota, infatti, anche la sua attività di editorialista: per quasi trent’anni, tutti i lunedì, dal 1982 al 2011, ha tenuto la rubrica «Pubblico & Privato» sulla prima pagina del Corriere della Sera, mantenendo un serrato dialogo con i lettori, poi raccolto in volume da Rizzoli. Era divenuto una star della cultura nel 1979, quando uscì Innamoramento e amore: un milione di copie, tradotto in tutto il mondo. Con questo libro la sociologia usciva dal chiuso dell’Università e scendeva nelle strade, diventava di colpo una faccenda del quotidiano, duttile strumento di comprensione dell’agire umano. Ma anche tema di animata discussione: in quegli anni si era acceso un dibattito tra i sostenitori dell’innamoramento e quelli dell’amore. Se fosse più importante la fase nascente del sentimento, un movimento in cerca di affermazione, incerto, ma spontaneo e vitale, oppure la sua stabilizzazione, l’amore, quale affermazione di un rapporto profondo, destinato a durare nel tempo, pur senza grosse sorprese. 

Sulla scia di Innamoramento e amore erano venuti L’amicizia (1984), L’erotismo (1986), L’altruismo e la morale (1989), Gli invidiosi (1991), Il volo nuziale (1992), Ti amo (1996), La speranza (2001), Sesso e amore (2006), fino al più recente L’amore e gli amori (2017), dove riprendeva il suo tema più caro. Se Bauman avesse incontrato Alberoni, forse avrebbe incluso la sua idea di amore tra le caratteristiche di una società solida, riservando alla società liquida le potenzialità destabilizzatrici dell’innamoramento. 

Ma i due linguaggi avrebbero dimostrato la loro incompatibilità poiché l’idea alberoniana di statu nascenti, proveniente per filiazione diretta dal pensiero di Max Weber attorno alla figura del capo carismatico (all’interno dello studio sulle forme di potere), è un’azione allo stesso tempo imprevista e creativa, quasi rivoluzionaria, che investe della sua straordinaria forza espressiva ogni aspetto collettivo. Lo statu nascenti è infatti il momento primario, costruttivo di qualsiasi innovazione sociale, su cui tornerà più tardi in Leader e masse (2007). 

Come ogni altro atto rivoluzionario, l’innamoramento è sì un movimento collettivo, eppure riguarda solo due persone – una comunità ridotta all’osso – impegnata nel costruire una relazione sociale tanto nuova da stravolgere le vite di entrambi. Come ricorda Weber è anche una questione di potere: ognuno è capo carismatico dell’altro. «Ogni innamorato appare all’altro come unico, insostituibile, sacro». Da qui le problematiche ben note: le «dinamiche di coppia», i condizionamenti reciproci, i tentativi di prevaricazione, le aspettative tradite, fino al disamore. Porre fine a un movimento collettivo, sia pure numericamente ridotto a due componenti, è sempre un problema gravoso. 

Ricollegandosi a Freud, Alberoni spiegava il processo di socializzazione partendo dagli impulsi fondamentali di Eros e Thanatos. La sua teoria partiva da lontano. Già nel programmatico Statu Nascenti (1968) aveva tracciato l’emergere dei momenti creativi dell’agire umano, che rappresentano una particolare condizione del sistema sociale, quella che Max Weber chiama appunto lo “stato nascente”, cioè la potenza rivoluzionaria creatrice della storia. 

In quel libro, in cui sono rintracciabili le radici fondamentali del suo pensiero sui movimenti collettivi, esaminava l’evoluzione dei processi sociali elementari (l’incontro con l’altro, la conversione, la partecipazione politica), nei loro effetti all’interno della società. Ma anche nelle reazioni al consumismo, che aveva cambiato i rapporti economici e comportamentali della società di massa, la nascita dei culti, i movimenti eversivi. La sua intuizione è stata, oltre che probante sul piano scientifico, in quanto riflessione sull’origine dei momenti collettivi, anche vincente sul piano dell’applicazione di questi principi al campo dei sentimenti, facendone una questione largamente sentita a livello popolare. In questo traspare la formazione medica e la profonda preparazione psicologica di Alberoni, ma anche l’appartenenza della sua teoria a un momento storico determinato. Siamo agli inizi del postmoderno (Jean-François Lyotard ha appena pubblicato il suo manifesto, La condizione postmoderna) ed è inevitabile che la sociologia, allora affetta da una profonda crisi d’identità, si volga al privato. Che riversi le problematiche del mutamento sociale sull’individuo, esaltandone la centralità in una società sempre più frammentata e di difficile decifrazione. Merito di Alberoni è perciò quello di aver indicato, in anticipo sui tempi, l’esigenza di occuparsi dell’individualizzazione come fenomeno crescente e tendenza inevitabile della tarda modernità.

Alberoni, il diritto alla stanchezza e il dolcevita: così conquistò gli studenti nel ’68. Da Adnkronos su L'Identità il 14 Agosto 2023

Francesco Alberoni ha vissuto la contestazione giovanile del 1968 nella duplice veste di studioso della sociologia e di rettore dell'Università di Trento. "Comandavo anche con gli esempi – ha raccontato lo studioso in un articolo per 'Panorama' nel 2000 – Scelsi di mostrare di non avere mai paura di niente e di dire con chiarezza che tutti avevano diritto di parlare; introdussi in università il diritto alla stanchezza che si poteva proclamare durante le lezioni o i seminari".  In quel periodo professori e rettori incarnavano l'autorità e Alberoni scelse di percorrere strade che riducessero le distanze tra il corpo docente e gli studenti. Un'altra delle idee innovative di Alberoni fu quella del cambio di abbigliamento: mantenuta la giacca, il professore di sociologia abbandonò camicia e cravatta, sostituite da un maglione a collo alto. "Gli studenti lo considerare un abbigliamento informale e per questo lo apprezzarono – ha raccontato – Una volta misi un dolcevita rosso e mi presentai in assemblea, chiedendo: 'avete visto che bel maglione?' e tutti risero". Finita la contestazione, Alberoni ha continuato a vestirsi sempre con i dolcevita sotto la giacca. "Avevo iniziato a mettere i dolcevita per difendermi dal mal di gola…"

Alberoni, lo studioso dei movimenti collettivi. Da Adnkronos su L'Identità il 15 Agosto 2023

E' proprio dall'effetto di sconvolgimento provocato dai modelli di consumo occidentali sulle società arcaiche che Francesco Alberoni ha incominciato nella seconda metà degli anni Sessanta lo studio dei movimenti collettivi. Il contatto con una civiltà a tecnologia superiore, i cui beni di consumo (armi, mezzi di trasporto, abbigliamento etc.) sono superiori, produce uno stato di ambivalenza verso la propria tradizione, i propri valori. E l'ambivalenza produce disgregazione culturale. I singoli individui si fanno sedurre dai nuovi beni, dai nuovi costumi e tradiscono le proprie tradizioni. La vita sociale si sregola il disordine cresce paurosamente. Però oltre una certa soglia di disordine, scoppia un movimento collettivo che prima espelle poi integra i nuovi modelli in un nuovo ordine sociale.  Alberoni si accorge che, parlando del capo carismatico allo stato nascente, Max Weber ha descritto non solo le proprietà del capo, ma dell'intero gruppo. Lo stato nascente è l'inizio del movimento, uno stato emozionale e mentale particolarissimo, esso crea una nuova storia, promette il rinnovamento del mondo. Poi lo stato nascente diventa movimento e questo istituzione. L'istituzione sorta per realizzare il sogno di fratellanza universale dello stato nascente però se ne allontana sempre più finché, oltre un certo livello di sclerosi, deve essere rivitalizzata da un nuovo movimento. E' il Grande Ciclo Collettivo che Alberoni espone nel volume "Questioni di Sociologia" (Editrice la Scuola, 1967). L'anno successivo Alberoni scopre che le proprietà dello stato nascente esistono anche in un fenomeno apparentemente diversissimo: l'innamoramento. E lo espone nel libro "Statu Nascenti. Studi sui processi collettivi" (Il Mulino 1968). Invitato da Tom Burns a preparare un libro sui consumi per la Penguin Education Alberoni espone queste nuove tesi che producono scandalo. Il sociologo rifiuta di modificarle e, per quasi dieci anni smette di partecipare alle attività della Associazione Internazionale di Sociologia dove era segretario generale per il settore Comunicazioni di Massa. Si ritira all'Università di Catania dove scrive la teoria dei movimenti collettivi ("Movimento e Istituzione", Il Mulino, 1977, poi arricchito 1981). Nel 1989 ha riscritto "Movimento e Istituzione" risolvendo molti nodi teorici come l'esperienza fondamentale dello stato nascente, la differenza fra stato nascente e nirvana, la teoria della democrazia, le Civilizzazioni Culturali e l'ha chiamata "Genesi" (Garzanti 1989).  In seguito su questo argomento ha scritto "Leader e masse" (Rizzoli 2005) in cui ha fatto alcuni approfondimenti sui movimenti collettivi contemporanei non europei. Infine nel 2014 ha scritto quello che considera la sua opera conclusiva sull'argomento riprendendo il vecchio titolo "Movimento e istituzione" ma col sottotitolo come "Nascono i partiti, le chiese, le nazioni, le civiltà" (Sonzogno, 2014).

Francesco Alberoni, addio al sociologo dell'innamoramento: aveva 93 anni. Il Tempo il 14 agosto 2023

Il sociologo e scrittore Francesco  Alberoni è morto a Milano all’età di 93 anni. È stato il primo studioso italiano a scrivere di «sociologia dei consumi» e a indagare il fenomeno allora nascente del divismo. Era considerato il più importante studioso internazionale dei «movimenti collettivi». Ma soprattutto Alberoni - morto al Policlinico di Milano - ha studiato per tutta la sua vita professionale l’innamoramento e le dinamiche che regolano l’amore. Nel 1979 pubblicò il saggio «Innamoramento e amore» (Garzanti) che, tradotto in 24 lingue, ha avuto un tale successo da farlo diventare a livello mondiale il sociologo della fenomenologia dell’amore, l’indagatore dei misteriosi meccanismi per cui nasce il legame tra due esseri che si scelgono. Nel 1968 Alberoni diventa rettore dell’Università di Trento, rimanendo in carica per un biennio fino al 1970. Visiting Professor di sociologia all’Università di Losanna, è poi professore ordinario di sociologia all’Università di Catania, per poi passare nel 1978 all’Università Statale di Milano. Infine è stato rettore dal 1997 al 2001 della Libera Università di Lingue e Comunicazione Iulm di Milano. Era nato il 31 dicembre 1929 a Piacenza.

Su Twitter lo ricorda così l’europarlamentare di FdI Carlo Fidanza: «Ho avuto il piacere di conoscere il prof. Francesco Alberoni soltanto negli ultimi anni quando, dopo una vita dedicata allo studio e alla scrittura, scelse di abbracciare l’impegno politico con FratellidItalia. Un estremo gesto d’amore, lui che l’amore lo ha sempre scandagliato e raccontato in ogni sua sfumatura, per la sua amata Italia. Grazie di tutto Professore, ci mancherà». 

«Ci ha lasciato oggi un grande sociologo, un grande scrittore, ma soprattutto un grande uomo che mi ha onorato fino all’ultimo della sua amicizia. Francesco Alberoni ha sempre saputo cogliere l’evoluzione della società e le ha raccontate con quella semplicità ed efficacia che lo hanno fatto diventare di famiglia per tanti italiani. La sua vicinanza a Fratelli d’Italia e la sua sincera stima per Giorgia Meloni sono stati importanti per la crescita del centrodestra in Italia. Al figlio Paolo e agli altri suoi figli ed affetti la mia vicinanza. A Dio, Francesco», ha dichiarato il presidente del Senato Ignazio La Russa.

Pier Ferdinando Casini fa la sua profezia sull'Italia. Secondo il senatore, il nostro Paese affronterà un'emergenza legata ai conti dello Stato. Se n'è parlato nel corso della trasmissione In onda del 14 agosto. Casini ha affrontato anche altri nodi come il salario minimo, i migranti e l'emergenza dell'Emilia Romagna.    

"A settembre-ottobre il problema dell'Italia saranno i conti dello Stato - ha detto Casini - Non abbiamo le risorse per tutti gli obiettivi che ha annunciato la maggioranza. Quanto agli extraprofitti, in passato non hanno avuto un grande successo. La strada scelta è sbagliata e i primi a dissociarsi sono stati i partiti della maggioranza. I proventi degli extraprofitti saranno soltanto 2 miliardi ma è stato provocato un grave danno reputazionale. Insomma la montagna ha partorito un topolino. Per quanto riguarda l'emergenza dell'Emilia Romagna, i soldi finora non sono arrivati se non in percentuali irrisorie. Per questo Meloni e Bonaccini devono lavorare insieme per il bene dei cittadini romagnoli".          

La presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, interrompe le sue vacanze in Puglia per un breve viaggio a sorpresa, destinazione Valona. La premier sceglie di trascorrere alcune ore sulla sponda opposta dell’Adriatico, su invito del primo ministro albanese, Edi Rama, che la riceve nella sua villa nei pressi della città costiera. Una visita informale, che secondo i media locali dovrebbe durare due giorni, che arriva a pochi giorni dal dibattito scatenato proprio dallo stesso Rama, che sui social aveva sottolineato il boom turistico nel suo Paese, dovuto in particolare proprio alla forte presenza di italiani, paragonandolo a un "controesodo" rispetto a quello degli albanesi nei primi anni '90.

Rama aveva, però, anche sottolineato di ammirare Giorgia Meloni, e di sentirsi un "fratello d’Italia". Così ecco che, alla vigilia di Ferragosto, la premier spiazza tutti e sceglie di prendere un traghetto di linea, il "Prince", per una visita privata all'"amico" albanese. Lasciata la masseria di Ceglie Messapica, in provincia di Brindisi, dove sta trascorrendo le vacanze con il marito, la figlia, la sorella Arianna e il cognato, il ministro Francesco Lollobrigida, Meloni si è recata, con la famiglia, al porto brindisino per imbarcarsi sul traghetto. Giunta a Valona, è stata ricevuta al porto dallo stesso Rama (i media locali hanno pubblicato un video del corteo delle auto) e si dovrebbe fermare in Albania per due giorni. 

Il corteo dei due premier si è diretto verso la villa del primo ministro albanese, dove Meloni si tratterrà per una visita privata e una breve "appendice" delle vacanze pugliesi. Provando a lasciarsi alle spalle per qualche giorno il dibattito politico interno, negli ultimi giorni incentrato sul tema del salario minimo, per il quale le opposizioni unite hanno iniziato a raccogliere le firme arrivando, come hanno annunciato, a 100mila sottoscrizioni sulla piattaforma dedicata, in meno di 24 ore e nonostante i problemi tecnici delle prime ore dovute ai troppi accessi. La premier, dopo aver affidato l’intero dossier al Cnel, concedendo 60 giorni per arrivare a una soluzione condivisa, decide dunque di staccare la spina almeno a Ferragosto, andando a trovare l’omologo albanese per qualche ora di relax, durante la quale non potranno però mancare colloqui su temi politici che interessano le due sponde dell’Adriatico.

Loredana Lecciso fa la sua rivelazione su Alfonso Signorini e il Grande Fratello. Anni fa Signorini le propose di fare l'opinionista nel reality show ma poi non se ne fece più nulla. Negli ultimi giorni, invece, qualcuno ha parlato dell'ipotesi di prendere parte allo show nella prossima stagione. Loredana Lecciso, però, smentisce tutto.    

"Io e Jasmine al Gf Vip? È una fake news, non abbiamo mai sostenuto alcun provino». Così all’Adnkronos Loredana Lecciso smentisce la notizia che sta circolando su alcuni siti di informazione secondo la quale la compagna di Al Bano e la figlia Jasmine Carrisi avrebbero fatto il provino per entrare nella casa del nuovo ’Gf Vip’. «Ogni anno puntualmente esce questa notizia - dice divertita Loredana - stimo molto Alfonso Signorini e seguo il suo programma ma a dispetto del pensiero collettivo sono una persona molto insicura e l’idea di essere ripresa h24 dalle telecamere mi metterebbe molta ansia. Qualche anno fa - rivela - Signorini mi propose di partecipare come opinionista al "Gf Vip", l’idea mi allettava molto ma poi la cosa non si concretizzò», conclude la Lecciso.

Università e tv: grazie ai suoi libri fu il primo sociologo amato dal grande pubblico. Francesco Alberoni, morto ieri notte a 93 anni al Policlinico di Milano, è stato una colonna di questo giornale ma soprattutto il sociologo di maggior successo in Italia. Alessandro Gnocchi il 15 Agosto 2023 su Il Giornale.

Francesco Alberoni, morto ieri notte a 93 anni al Policlinico di Milano, è stato una colonna di questo giornale ma soprattutto il sociologo di maggior successo in Italia. Molti lo ricordano per i suoi libri sull'innamoramento nei quali Alberoni portava la politica nella vita di coppia e il sentimento nella vita pubblica. Le sue teorie rasentano la genialità, e chi ci ha scherzato sopra non ha capito niente. I movimenti di massa, secondo Alberoni, potevano essere spiegati come una forma di innamoramento per il leader. Questo era particolarmente vero in alcuni momenti della storia d'Italia. Solo i grandi avevano il privilegio di sedurre le masse. Così Alberoni spiegava, ad esempio, il successo di Silvio Berlusconi. Dopo il leader di Forza Italia, Alberoni diede pari credito solo al primo Matteo Renzi, che saprà prima incantare e poi deludere brutalmente i suoi «fedeli d'amore».

Con un'idea uguale e contraria, Alberoni spiegava l'innamoramento tra persone, in particolare l'amore delle coppie. L'amore è una forza rivoluzionaria: in piccolo è una ribellione (a se stessi, alle convenienze, alle usanze borghesi, ai cuori tiepidi) assimilabile alla presa della Bastiglia. Non c'è amore, e non c'è coppia, senza un cambiamento radicale. Se la coppia è capace di rinnovare la sfida, a se stessa e al mondo esterno, allora può durare per sempre. Queste idee sono alla base di successi milionari, ottenuti con bestseller che si trovano quasi in ogni casa italiana. La grande popolarità era cominciata nel 1979 con «Innamoramento e amore»: un milione di copie, tradotto in tutto il mondo. Questo saggio faceva uscire la sociologia dalle aule universitarie e la portava nei nostri salotti, mostrando come la vita sentimentale avesse un rapporto molto preciso con quella pubblica. L'innamoramento era la fase iniziale dell'amore, quella rivoluzionaria. Poi subentrava l'amore vero e proprio, un sentimento stabile, che ci dona una forza insospettabile, specie quando, nel rapporto, sembra farsi largo, in modo irrimediabile, la routine. Sulla scia di Innamoramento e amore erano venuti altri bestseller come L'amicizia (1984), L'erotismo (1986), L'altruismo e la morale fino al più recente L'amore e gli amori (2017), dove riprendeva il suo tema più caro.

Forse a qualcuno è sfuggita la profondità del pensiero di Alberoni, che sapeva anche essere un grande divulgatore: chi legge questo giornale ha potuto ammirare la chiarezza delle sue dissertazioni settimanali. Era anche un uomo simpatico. Ironizzava sul suo successo, che riteneva comunque, e giustamente, meritatissimo, e anche sulla sua ricchezza, un tema spesso ostico da affrontare per molti ma non per lui. Chi ha avuto la fortuna di frequentarlo, ricorda la spiegazione lucidissima del trionfo di Beppe Grillo e dei Cinque stelle; una spiegazione geniale, perché nel momento di massimo consenso, Alberoni già intravedeva l'altrettanto rapido declino. Grillo, come «amante», era deludente: non c'era sostanza da condividere con i suoi «innamorati» che presto si sarebbero stancati.

Basterebbe questo per fare di Alberoni un totem della cultura europea (italiana infatti è poco, non vorrete dire che un Bauman o un Augé gli sono superiori!). Ma Alberoni era stato anche molte altre cose, fin dai tempi in cui arrivava con la sua decapottabile alla tristemente famosa università di Trento, della quale era rettore. Come sappiamo, proprio Trento fu l'incubatrice del terrorismo rosso.

Oggi vi perforeranno le orecchie con «Alberoni sociologo pop». Sappiate che è soltanto un luogo comune in voga presso i suoi detrattori. In realtà Alberoni ha avuto una istruzione di primissimo livello. Nato a Piacenza nel 1929, dopo aver studiato al liceo scientifico Respighi si trasferì a Pavia, dove fu allievo del Collegio Cairoli e si laureò in medicina nel 1953. Sempre a Pavia studiò psichiatria, con Carlo Berlucchi ed Ermenegildo Gastaldi, e statistica on Giulio Maccacaro, divenendo allievo di sir Ronald Fisher. In seguito studiò a Milano psicoanalisi con Franco Fornari, matematica e teoria dell'informazione con Guido Bortone, lavorando inoltre con padre Agostino Gemelli. Può bastare per capire la profondità della cultura di Alberoni, uno che poteva dare del tu a Roland Barthes. È stato il primo studioso italiano a scrivere di «sociologia dei consumi». Abile nel passare dalla teoria alla pratica, fu anche un grande inventore di pubblicità. Dopo aver scritto Consumi e società, capolavoro sulla nascita delle tecniche di marketing, diventa consulente di molte imprese. Per Piero Bassetti segue l'invenzione di prodotti come il Piumone e il lenzuolo Perfetto. Per Anna e Carlo Bonomi si applica alle campagne della Postal Market e della Miralanza. Lancia Stefanel e Trussardi.

Infine il suo capolavoro in questo settore: la collaborazione al lancio, per Pietro Barilla, del Mulino Bianco. Fu anche il primo a indagare il fenomeno nascente del divismo: pionieristico, e bellissimo, è il suo Il potere senza élite, roba del 1963. Era ed è considerato tuttora il più importante studioso internazionale dei «movimenti collettivi». I suoi libri più importanti sono Statu nascenti. Studi sui processi collettivi (1968) e Classi e generazioni (1970).

Il testo identificato come pietra angolare della costruzione del pensiero sociologico di Alberoni è Movimento e istituzione (1977): il concetto sviluppato nel libro gravita attorno alla definizione dello stato nascente, la «condizione nascente», il momento in cui la leadership, le idee, la comunicazione si fondono dando origine al movimento.

Altro che sociologo pop. Francesco Alberoni è stato un grande studioso con la capacità unica di essere comprensibile a tutti, quando voleva. Resta un maestro tutto sommato neppure compreso fino in fondo. Il successo, in un certo senso, ha fatto ombra alle sue idee, assolutamente calzanti e innovative.


 


 

Addio a Marcello Gallo, “professore dei professori”. Il giurista aveva 99 anni e fu relatore della tesi di Marco Pannella a Urbino. Gennaro Grimolizzi su Il Dubbio il 10 agosto 2023

Ha suscitato grande commozione la scomparsa di Marcello Gallo. Il giurista aveva 99 anni (nacque a Roma nel 1924) ed è stato ordinario di diritto penale nelle Università di Urbino, Torino e Roma “La Sapienza”. È stato anche Accademico dei Lincei e all’impegno universitario affiancò quello in politica: fu eletto senatore della Democrazia Cristiana nel 1983 per poi essere riconfermato nel 1987. Prima di approdare in Parlamento, negli anni Sessanta, ricoprì la carica di assessore comunale a Torino, sua città di adozione. Il professor Gallo fu allievo di Francesco Antolisei, autore di uno dei più importanti manuali di diritto penale. L’insigne penalista, scomparso pochi giorni fa, fu relatore della tesi del leader del Partito Radicale Marco Pannella, laureatosi ad Urbino nel 1953.

Tra gli scritti di Marcello Gallo sono ancora attuali gli “Appunti di Diritto penale”, pubblicati in varie edizioni da Giappichelli editore. Nel primo volume, dedicato alla legge penale, l’autore fa una premessa molto interessante che si ricollega direttamente al titolo della pubblicazione. Gli “Appunti” di diritto penale e sul diritto penale avevano - e hanno – un carattere di supporto ai manuali.

Gallo attribuisce alle parole un valore fondamentale. Non può essere diversamente per un giurista e per chi ha formato generazioni di avvocati, notai e magistrati. «Le parole – scrive il “professore dei professori”, come veniva affettuosamente chiamato - hanno il loro posto in frasi, testi e situazioni. Liberiamo la parola dal suo isolamento, poniamola nella concatenazione del suo contesto, ed insieme a questo in una situazione di vita vissuta. È così che si presentano normalmente le parole. Altrimenti non si comprende cos’è una parola e come funziona il suo significato». A questo punto una precisazione, degna dello studioso della scienza penalistica: «La frase è il ponte tra il significato e l’intendimento. Assieme all’ulteriore contesto e alla situazione inerente, la frase limita il significato (ampio, vago, sociale, astratto) in funzione dell’intendimento (circoscritto, preciso, ordinariamente individuale e concreto)».

I lettori più attenti possono notare che negli “Appunti” spicca la seguente dedica: «Allo Stato dei diritti». L’uso del plurale non è casuale, come spiega lo stesso autore, perché «è nello Stato dei diritti che la nostra attesa di determinazione viene maggiormente appagata». Con una precisazione che, seppur inserita tra le note – la prima del volume -, assume lo stesso un carattere fondamentale alla stregua del resto del testo. «Preferisco parlare – spiega Gallo – di Stato dei diritti anziché, come si usa, di Stato di diritto. Questa è formula che è sorta, e vieppiù si è sviluppata nel tempo, caricata di buone intenzioni. Il significato che le si attribuisce, però, è condivisibile solo da chi dà alla parola diritto un valore superiore a quello della mera positività. Dal punto di vista dell’effettuale, ogni Stato, cioè gli ordinamenti la cui norma base non riposi su altra appartenente ad un sistema di rango superiore, è Stato di diritto: perfino il più embrionale o tirannico. Certo, mi rendo conto che anche Stato di diritti rinvia all’assetto normativo che tali diritti assicura. C’è, però, il grande vantaggio di individualizzare le prescrizioni normative: mettendo in evidenza la posizione di soggetti titolari di facoltà o aspettative. C’è, insomma, l’espressione di un momento di garanzia che serve a definire in senso penalistico un ordinamento, uno Stato».

Sin qui, seppur brevemente, abbiamo preso in considerazione una piccolissima parte dell’opera dell’accademico romano-torinese. Nella comunità accademica in tanti ricordano gli insegnamenti di Gallo. Tra questi Nicola Triggiani, ordinario di Diritto processuale penale nell’Università di Bari “Aldo Moro”. «Ho incontrato – dice al Dubbio - il professor Marcello Gallo una sola volta, molti anni fa, in occasione di un convegno all’Università di Bari. Fu per me davvero una grande emozione conoscerlo personalmente, perché la sua fama lo precedeva e mi aveva parlato molto di lui, sempre con grande entusiasmo e commossa devozione, il professor Aldo Regina, ordinario di Diritto penale nell’Ateneo barese e suo allievo. A confermare il tributo che intere generazioni di penalisti devono all’insigne giurista, torinese d’adozione, basterebbe ricordare proprio la dedica che il professor Regina ha inserito in un suo recente lavoro intitolato “Memorie per la toga”: “Al mio Maestro – Marcello Gallo – al quale devo tutto ciò che so di diritto penale”».

Passione per lo studio, ma anche per la toga. Gallo si è recato in udienza fino a qualche anno fa, nonostante le precarie condizioni di salute. «L’eredità scientifica e culturale di Gallo – commenta il professor Triggiani - è immensa e colpisce anche il valore della sua testimonianza umana: la perdita della vista negli ultimi 25-30 anni della sua vita e l’avanzare dell’età non gli hanno assolutamente impedito di continuare instancabilmente i suoi studi, di elaborare progetti, di restare, con la sua dirittura morale, onestà intellettuale e professionalità, un punto di riferimento imprescindibile per l’accademia e l’avvocatura. I suoi studi monografici, tra i quali spiccano, in particolare, quelli sul dolo e sul concorso di persone nel reato, restano dei contributi fondamentali della scienza penalistica e il tempo trascorso dalla loro pubblicazione non toglie nulla alla validità della costruzione dogmatica. Ancora di recente aveva ripubblicato una nuova edizione dei suoi celebri “Appunti” e, da ultimo, aveva dato alle stampe il volume “Le formule assolutorie di merito-Art. 530 c.p.p.”».

L’insigne penalista è stato pure un uomo delle istituzioni, come evidenzia Nicola Triggiani. «Il nome di Gallo – aggiunge - resta legato anche al vigente codice di procedura penale, avendo presieduto, da senatore della Democrazia Cristiana, la Commissione bicamerale per il parere al Governo sulle norme delegate relative al nuovo codice di rito, consentendo così, dopo questo vaglio di conformità ai princìpi della legge-delega, il varo definitivo del provvedimento, entrato in vigore il 24 ottobre 1989. E, come ricorda lo stesso Gallo in un articolo del 2019, scritto per celebrare i trent’anni di vigenza del codice (“Romanzo di un codice”), la Commissione parlamentare da lui presieduta affrontò l’impegno sempre in stretta collaborazione con i componenti della Commissione ministeriale presieduta dal professor Giandomenico Pisapia. Gli intendimenti, le motivazioni, il modello vagheggiato erano, infatti, comuni ad entrambi i gruppi: l’“obiettivo era inverare, nel concreto della prassi giudiziaria penale, i grandi principi della Carta costituzionale”».

Il professor Triggiani è certo che il pensiero del compianto Accademico dei Lincei troverà sempre terreno fertile: «Da studioso del processo penale, mi piace concludere questa breve riflessione sull’opera del Maestro con un suo attualissimo monito: “Poiché un codice di procedura è essenzialmente stipulazione di un modus operandi, l’operatività abbisogna di una regolamentazione precisa, scarsa di angolature e frammentazioni. Le eccezioni, inevitabili, dovrebbero essere poche e tutte dichiarate con la maggiore evidenza”».

(ANSA giovedì 10 agosto 2023) - È morta l'attrice Antonella Lualdi, una splendida signora del cinema italiano. La notizia dal fratello Carlo contattato dall'ANSA. 92 anni, Lualdi era ricoverata in un ospedale fuori Roma, precisa Carlo, avvisato da Stella, una delle due figlie con Antonellina dell'attrice. 

Popolarissima negli anni '50 e '60, aveva sposato il collega Franco Interlenghi cominciando un lungo sodalizio anche professionale. Lualdi aveva recitato per Ettore Scola, con Vittorio Gassman e in tanti film a cominciare da Miracolo a Viggiù di Luigi Giachino che l'aveva lanciata nel dopoguerra. Era nata a Beirut in Libano il 6 luglio 1931.

Estratto dell'articolo di Giulio De Santis per il “Corriere della Sera” giovedì 10 agosto 2023.

L’appartamento romano di Ponte Milvio, dove l’attrice Antonella Lualdi aveva vissuto con l’amato marito Franco Interlenghi, era diventato una prigione. E per questo tre anni fa aveva deciso di denunciare la nipote Virginia Sanjust, 45 anni, ex «signorina buonasera». Ora la donna è stata condannata per tentata estorsione a un anno e 6 mesi e per stalking nei confronti dell’ex fidanzato. Il verbale di sua nonna racconta il terrore in cui era costretta a vivere l’intera famiglia. 

È il 9 marzo 2020 quando Lualdi, 92 anni, si presenta in commissariato. «Ieri, verso le quattro di pomeriggio, Virginia è venuta a casa con sua mamma, mia figlia Antonella Interlenghi. All’inizio mi è parsa tranquilla. Antonella le aveva dato i soldi per le sigarette, 5 euro. Virginia infatti vive con una pensione, per i suoi problemi di salute. Comunque, vedendola tranquilla, abbiamo deciso che potessero rimanere», racconta.

C’è una premessa: «Nel 2018 sono stata aggredita da Virginia, che mi ha provocato delle lesioni tali da impormi di andare al pronto soccorso». È successo anche in seguito. Lualdi non lo nasconde quando afferma che «Virginia è molto aggressiva. Abbiamo il terrore della sua presenza. Siamo stati costretti, per paura, a togliere i coltelli. E in casa viviamo tutti con le porte delle camere chiuse a chiave». 

Ecco perché quel 9 marzo di tre anni fa l’attrice decide «di chiudermi a chiave in camera». La rabbia della nipote esplode: «Virginia ha cominciato a bussare con insistenza alla porta. Ha modi minacciosi. Vuole dei soldi, altrimenti dice che sfascerà casa. Visto il mio rifiuto, Virginia ha continuato a bussare con violenza, anche con dei calci. Dopo pochi attimi ho sentito il rumore di vetri rotti». Ad aprire quella porta, Lualdi proprio non ce la fa: «Da dentro la mia camera, ho chiamato le forze dell’ordine.

Che sono arrivate subito. Ed hanno portato, insieme al personale sanitario, Virginia in ospedale». Soltanto allora Lualdi esce dalla stanza e quasi non può credere a quello che vede: «Ho trovato la casa devastata. Lampade sradicate, quadri staccati dalle pareti e sfasciati in terra, le mensole in vetro del bagno infrante, cocci di vasi antichi e moderni ovunque». 

Mentre esplode la furia di Santjust la nonna ricorda che tutti erano chiusi nelle stanze: «Anche mia figlia Antonella si è rinchiusa, al sicuro. Lo scorso Natale Virginia ha picchiato la mamma per obbligarla a lavare i piatti e fare il bucato, abbiamo chiamato la polizia». Ennesimo episodio di una lunga serie durata anni. Lualdi lo racconta ai poliziotti con disperazione: «La condizione di Virginia si è aggravata. Fa richieste di denaro, ha una condotta aggressiva e problemi con la droga». 

(...)

È morto Jamie Reid, le sue cover per i Sex Pistols nella storia del punk. Storia di Redazione Spettacoli Corriere della Sera mercoledì 9 agosto 2023.

La Union Jack (la bandiera inglese) con il volto della regina Elisabetta con occhi e bocca coperti dalla scritta «Sex Pistols» e «God Save The Queen». Oppure il ritratto, sempre di Elisabetta II, con una spilla da balia che le chiude la bocca. La fama della band inglese pioniera del punk deve molto a Jamie Reid, scomparso l’8 agosto, a 76 anni. Artista e anarchico, Reid ha creato l’artwork per molti dei successi della band negli anni 70, tra cui «God Save The Queen», inno alla dissacrazione della monarchia e dell’immagine fino ad allora quasi intoccabile della regina Elisabetta II.

La notizia della scomparsa è stata confermata alla Bbc dal suo gallerista londinese di riferimento. Ignote per ora le cause del decesso. «È con tristezza - ha fatto sapere la John Marchant Gallery - che annunciamo la scomparsa di Jamie MacGregor Reid». La galleria ricorda Reid come «un artista iconoclasta, un anarchico, un punk ribelle, hippie e romantico». Lascia «l’amata figlia Rowan, la nipote Rose, oltre a un’enorme eredità creativa» di pittore e disegnatore. Emblema del movimento punk, il suo nome resta legato indissolubilmente ai suoni e allo stile dei Sex Pistols.

Estratto dell'articolo di Luca Valtorta per repubblica.it mercoledì 9 agosto 2023.

È stato l’autore di una delle immagini più famose della storia della musica e del costume: quella della regina Elisabetta con al posto degli occhi la scritta “God Save the Queen” e al posto della bocca il nome “Sex Pistols” realizzati con le lettere in stile missiva anonima, ma in realtà, Jamie Reid ha fatto molto di più. Ha creato l’immaginario di una delle controculture più importanti della storia contemporanea, il punk. […]

Senza di lui molto probabilmente le cose sarebbero andate diversamente. A cooptarlo fu Malcolm McLaren, manager dei Sex Pistols, suo compagno di corso presso l’Art School di Londra. Era proprio Reid ad essere più vicino a correnti di pensiero politico quali il situazionismo a cui in seguito McLaren farà spesso riferimento nel suo racconto di come avrebbe imposto ai media i Sex Pistols attraverso una precisa strategia. Il creare “situazioni” potenzialmente deflagranti era infatti alla base delle teorie di Guy Debord che del situazionismo è stato il teorico.

[…]

Artista rivoluzionario e iconoclasta, è principalmente conosciuto per il suo innovativo lavoro con i Sex Pistols, la band punk che ha catturato l'energia cruda e la disillusione della fine degli anni '70. Il design grafico e le immagini visive di Reid sono diventate sinonimo dell'etica della band, creando un'identità visiva inconfondibile tanto provocatoria quanto la musica stessa. Le sue opere in stile collage, di provenienza surrealista, caratterizzate dall'uso di colori audaci, testi provocatori e immagini iconoclaste, hanno catturato e definito lo spirito anarchico del punk e agito come una potente forma di commento sociale.

La creazione più famosa di Reid è senza dubbio la copertina del primo 45 giri dei Sex Pistols, God Save the Queen: l'immagine iconica di una Regina Elisabetta che è stata ripresa in molte, diverse versioni. La più celebre, quella che appare in copertina del 45 giri, è la meno oltraggiosa. Molto più forte è la versione in cui la regina appare con una spilla nel labbro e due svastiche nell’iride facendo luce, una volta per tutte sul presunto “fascismo” dei Sex Pistols, come racconta anche John Lydon su Robinson, spiegando una volte per tutte il vero senso del famoso verso “God save the Queen/ the fascist regime”, che, insieme all’utilizzo provocatorio della svastica, aveva in passato generato equivoci facendo passare i Sex Pistols ma anche i Clash (!) e il punk in generale come movimento di matrice neonazista. […]

 Sebbene l'associazione di Reid con i Sex Pistols gli abbia portato un riconoscimento diffuso, i suoi sforzi artistici si sono estesi ben oltre questa collaborazione, tanto che le sue opere sono ospitate nelle collezioni permanenti del Museum of Modern Art di New York, del Victoria & Albert Museum di Londra e della Tate Modern Gallery. Ha continuato ad affrontare questioni politiche e sociali, creando opere d'arte che criticavano il consumismo, le politiche governative e lo stato della società moderna. Il suo impegno nell'arte e la sua capacità di usare i media visivi per comunicare messaggi potenti lo hanno consolidato come un pioniere nel campo dell'arte di protesta. […]

Si è spento Peppino Gagliardi, 83 anni di gloria canora. Natascia Festa su Il Corriere della Sera mercoledì 9 agosto 2023.

Se n'è andato l'indimenticabile interprete di «Settembre», è lutto nel mondo dell'arte 

E’ morto Peppino Gagliardi. Quest’estate non arriverà “Settembre”. Il cantante si è spento ieri a 83 anni. Cresciuto nel popolare quartiere del Vasto, tra piazza Carlo III e via Foria, raccontava che era stato scoperto da un gruppo di musicisti durante una festa nel suo palazzo. 

A 13 anni, quando perse il padre, quel talento gli fu utile: con la fisarmonica iniziò a suonare ai matrimoni e alle feste di piazza. Andò bene e fondò I Gagliardi giocando con il suo cognome. Tra musicarelli e festival di Napoli e poi di Sanremo arriva la notorietà nazionale. 

 E’ con “Che vuole questa musica stasera”, traccia di “Profumo di donna” di Dino Risi il successo vero. E poi l’Italia cantò “T’amo e t’amerò” e “Come le viole” con cui Peppino tornò all’Ariston nel 1972. Si definiva, come il suo album del 1974, un “Vagabondo della verità”. Il cordoglio ieri notte correva veloce sui social: in tanti hanno salutato un’altra voce di Napoli che non vibrerà più. Resta la musica, resta l’arte.

Peppino Gagliardi è morto, mito della musica napoletana: protagonista a Sanremo e Un disco per l'estate. Aveva 83 anni ed era conosciuto in tutto il mondo. Federico Vacalebre su Il Messaggero giovedì 10 agosto 2023

Settembre non verrà. Se n’è andato Peppino Gagliardi, leone della vecchia guardia napoletana, 83 anni compiuti il 25 maggio. Quando ne compì 80, in pieno lockdown, minimizzò come uno scugnizziello, come lo scugnizziello che era rimasto, nonostante l’età, nonostante la scelta di vivere a Roma: «Diciamo che faccio due volte 40 anni, ma in euro sono la metà, come rispetto alla lira. E avrò 18 anni fino alla fine». 

Lui ascoltava Ray Charles e Joe Tex, ma anche i grandi cantautori francesi, aveva dentro la melodia partenopea classica e nel ‘63 sfornò «T’amo e t’amerò», ritrovandosi al centro di tutto: «Camminavo per via Toledo e da tutti i negozi si sentiva la mia canzone. Ma non capivo quello che mi stava succedendo». Arrivarono altri successi dopo quel «T’amo e t’amerò», hit anche nei paesi arabi) furono «Che vuole questa musica stasera» (1968, era nella colonna sonora di «Profumo di donna»), «Settembre» (1970, seconda a «Un disco per l’estate»). Passò dai Festival di Napoli (nel 1963 con «Maje»; nel 1964 con «Nisciuno ‘o ppo’ capì», scritta con Gaetano Amendola, il suo paroliere di riferimento, e «Mparame a vule’ bene»; nel 1966 con «Scriveme» di Murolo e «Sole malato» di Pazzaglia e Modugno; nel 1969 con «’O scugnizzo», terzo posto) a quelli di Sanremo (nel ‘65 con «Ti credo» in abbinamento con Timi Yuro; nel 1966 con «Se tu non fossi qui» di Carlo Alberto Rossi, doppiata da Pat Boone e poi ripresa da Mina; nel ‘68 con «Che vale per me», ancora di C.A. Rossi, con Eartha Kitt; nel 1972 secondo con «Come le viole», rilanciata nel 2006 da Giuliano Palma, tra i suoi fan eccellenti, con Benny Andersson degli Abba ed Alvaro Soler).

Lo dissero «cantore dell’amore nevrotico» perché era difficile definire le sue composizioni, il suo canto insieme melodico e innovativo, nasale, dalle sonorità pastose, frutto di una voglia di nuovo che non rompeva con la tradizione. 

Addio a Peppino Gagliardi, il «vagabondo della verità» muore a 83 anni. Open.it giovedì 10 agosto 2023

Peppino Gagliardi è morto ieri all’età di 83 anni. Icona della musica napoletana, era cresciuto nel quartiere popolare del Vasto dove aveva mosso i primi passi nel mondo della musica suonando e cantando alle feste della zona. Lì, raccontava sempre, era stato notato da un gruppo di musicisti mentre si esibiva proprio nel palazzo dove abitava. Il cambio di vita arrivò con la morte del padre, tra il 1953 e il 1954, quando per guadagnarsi da vivere iniziò a suonare la propria fisarmonica ai matrimoni e alle feste rionali, guadagnandosi quel tanto di fama sufficiente a lanciare I Gagliardi, il suo gruppo. Partecipò varie volte a Sanremo, le prime senza riscuotere particolare calore da pubblico e giuria. Continuando a suonare nella sua Napoli, però, arrivò la notorietà, che coincide con Che vuole questa musica stasera, brano di Profumo di Donna di Dino Risi. Vi furono altri successi nazionali come Settembre (1970), T’amo e t’amerò e Come le viole, con i quali tornò a calcare i palchi dell’Ariston, in una carriera da Vagabondo della verità, come si definiva, e come ha intitolato uno dei suoi album, nel 1974. Da ieri rimane la sua musica e il ricordo di un’artista che, pur da vagabondo, non ha mai abbandonato la sua città.

Ciro Ippolito per Dagospia giovedì 10 agosto 2023.

Peppino, grande amico mio! Ci conosciamo da sempre, siamo dello stesso quartiere: la Ferrovia. 

Primi Anni 60. Peppino di Napoli (così si chiamava allora) e il suo complesso I Gagliardi, si esibiva al Lido Eldorado, glorioso stabilimento balneare al Borgo Marinaro, gestito da mio fratello Giorgio, responsabile della malefatta del cambio di nome sulla locandina, per richiamare Peppino Di Capri allora in voga. 

Nell’arco di una stagione, si rivelò subito un cantante e fisarmonicista di grande talento e il successo fu immediato. Con il suo vero nome, Peppino Gagliardi, fece le sue prime incisioni per la Zeus di Espedito Barrucci, mitico discografico partenopeo e A voce e mamma, classica canzone napoletana, cantata alla sua maniera, con voce roca e spiazzante per l’Epoca, fece gridare allo scandalo i conservatori del bel canto, ma suscitò l’entusiasmo degli scugnizzi.

Il grande successo arrivò con T’amo e T’amerò, da hit regionale a grande successo internazionale e cover in tutto il mondo. Passato ad una Major discografica, diventa uno degli artisti di punta dei San Remo: ’65 con Ti Credo in abbinamento con Timi Yuro; ’66 Se tu non fossi qui, in abbinamento con Pat Boone (brano di Carlo Alberto Rossi inciso anche da Mina); ’68 Che vale per me, in abbinamento con Eartha Kitty. 

I trionfi al Festival di Napoli. Ma sono tanti i successi di Peppino Gagliardi nelle colonne sonore dei film. Che vuole questa musica stasera, in Profumo di Donna di Dino Risi, The man from U.N.C.L.E., di Guy Ritchie. Lo Spietato di Renato De Maria con Riccardo Scamarcio e tanti, tanti ancora.

Ho condiviso con Peppino, un bellissimo periodo della mia vita. Ricordo le magiche serate passate a casa sua in Via Orazio a Napoli, quando sul terrazzino che affacciava sul Golfo di Napoli, cantava le sue nuove composizioni e si andava avanti fino all’alba. Di solito il pubblico era formato da: Vittorio Marsiglia, Emilio Campassi, Gaetano Amendola, Gianni Aterrano , Aurelio e Marisa Fierro, Roberto Murolo, mio fratello Tonino, qualche amica e il sottoscritto. 

Spesso accompagnavo Peppino alle serate e gli facevo da supporter. Estate 1970, Disco per l’estate, Casinò di Saint Vincent. Peppino cantava: Settembre, brano che si è piazzato al secondo posto, ma e’ poi diventato il successo dell’Anno. Io ero andato con Peppino, il discografico era Aurelio Fierro.

Durante la tre giorni della manifestazione, per le stradine di Saint Vincent si era radunata un sacco di gente, tutti fans dei cantanti in gara. Per entrare al casinò, gli addetti ai lavori avevano un pass, compreso il sottoscritto. Il secondo giorno, arriva Aurelio Fierro e mi dice che gli serviva il mio pass, perché era arrivato un suo cliente proprietario di una catena di negozi di dischi in Sicilia che doveva passare assolutamente. 

Gli dico: Aurè ed io come entro? Fierro mi dice: ma tu non hai problemi, perché tutti ti prendono per un attore americano. Difatti, quando camminavo per Saint Vincent, con la giacca di renna sfrangiata, il cappellone da cowboy e i rayban, un sacco di gente mi chiedeva l’autografo. Arriviamo all’ingresso del teatro e Peppino e Aurelio cominciano a dire: è arrivato Dean Queen, è arrivato Dean Queen, fate largo, please please. 

Come nelle favole, quella sera un agente di cinema mi ha notato e… adesso sono qua purtroppo, con il cuore infranto, a ricordare il mio grande amico di una vita.

Come ha scritto Federico Vacalebre sul Mattino:

Settembre non verrà. 

Ciao Peppi!

Un abbraccio a Lucia, Massimiliano e Davide.

 Addio a «Sugar Man» Rodriguez, il cantautore che visse due volte. Storia di Giovanna Maria Fagnani Corriere della Sera mercoledì 9 agosto 2023.

Ci scherzava, Sixto Rodriguez, per tutti «The Sugar Man», quando lo ricordava nelle interviste: nel 1998, quando la fama spuntò improvvisa dopo trent’anni passati nell’oblio, nacque un sito battezzato «The Great Rodriguez Hunt (La grande caccia a Rodriguez)», con l’intenzione di trovare informazioni sul musicista. «Pensavano addirittura che fossi morto», raccontava il cantautore, arrivato al culmine del successo ormai ultrasettantenne. Rodriguez, 81 anni, è scomparso mercoledì. A darne notizia il sito Sugarman.org. Il cantautore di Detroit lascia tre figlie, Sandra, Eva e Regan.

Di lui si dice che «visse due volte», perché stato protagonista di una delle più incredibili vicende artistiche degli ultimi decenni. Chiamato Sixto perché sesto figlio, era nato da una famiglia di modeste condizioni. Suo padre era messicano, immigrato negli Stati Uniti negli anni venti, mentre sua madre era statunitense di origini native americane ed europee. La maggior parte delle sue canzoni tratta temi sociali e soprattutto indaga poeticamente le condizioni della classe operaia del suo Paese. Dopo avere mosso i primi passi nell’industria discografica nel 1967 negli anni Settanta, dato che la carriera non decollava, abbandonò la via della musica per lavorare come operaio e darsi anche all’impegno politico.

L’abbandonò, ignaro che le sue canzoni stavano, invece, continuando a «lavorare» per lui. Non nella madrepatria, ma in Sud Africa, dove le sue canzoni a sfondo politico e sociale negli anni Ottanta, censurate dal governo segregazionista , diventarono delle hit. Nel 1997, Stephen Segerman, proprietario di un negozio di dischi, riscopre la sua produzione e si mette a cercarlo, creando anche il sito «The Great Rodriguez Hunt (La grande caccia a Rodriguez)». Nel 2013, il regista trentacinquenne Malik Bendjelloul sceglie proprio la storia di questo cantante americano, sconosciuto nel mondo ma più famoso di Elvis in Sudafrica, come tema del suo documentario «Searching for Sugar Man», che vince il premio Oscar. E per «Sugar Man» arriva, finalmente, a 70 anni, la fama internazionale e concerti da tutto esaurito da settimane, anche a Milano e a Bologna.

Addio a Sixto Rodriguez, il folksinger che ha vissuto due vite. Gabriele Antonucci su Panorama il 9 Agosto 2023

Il cantautore di origini messicane, morto a 81 anni e paragonato da molti a Bob Dylan per il suo stile, aveva conosciuto il successo internazionale solo in tarda età grazie al documentario Premio Oscar "Searching for Sugar Man"

Il mondo della musica piange la scomparsa, a 81 anni, di Sixto Rodriguez, soprannominato "Sugar Man" grazie a una delle sue canzoni più famose. La notizia della morte del cantautore, nato il 10 luglio 1942 a Detroit, è stata annunciata per prima dal sito 'Sugarman' e poi ripresa dai media americani: l'artista lascia tre figlie, Sandra, Eva e Regan. La sua singolare storia è stata raccontata magnificamente dal documentario Searching for Sugar Man, diretto dal regista svedese Malik Bendjelloul e presentato in anteprima al Sundance Film Festival nel 2012. Searching for Sugar Man ha vinto meritatamente l'Oscar come miglior documentario nel 2013, raccontando la carriera artistica del cantautore di Detroit, di origini messicane, che, pur avendo prodotto quattro album e diversi brani di assoluto valore, non era mai stata prodiga di riconoscimenti, tanto da costringere Sixto a lavorato come operaio per gran parte della sua esistenza, tentando anche la carriera politica attraverso le candidature al consiglio comunale, a sindaco di Detroit e a rappresentante dello Stato del Michigan. I suoi primi due dischi, Cold Fact nel 1970 e Coming from Reality nel 1971, passarono praticamente inosservati negli Usa, mentre ebbero un buon successo in Australia, grazie alla felice intuizione di una casa discografica locale, che ne comprò i diritti e li ripubblicò insieme in una raccolta. Grazie al passaparola e alla forza dei testi delle sue canzoni, che in molti paragonarono a quelle di Bob Dylan per il loro messaggio e per le loro metafore, Sixto Rodriguez diventò famoso, a sua insaputa, in Sudafrica, dove i bianchi che non approvavano l'apartheid adottarono i suoi brani come veri e pripri inni politici. Intorno alla figura misteriosa e sfuggente del cantautore, nacquero alcune leggende metropolitane che ne aumentarono a dismisura il fascino: alcuni affermavano che si fosse suicidato sul palco durante un concerto, altri che si trovasse in carcere, altri ancora in manicomio. Il realtà Rodriguez, del tutto ignaro della sua fama in Sudafrica (allora non c'erano ancora i social network e internet era ancora agli albori), continuò a dividersi tra il suo lavoro da operaio e la sua attività politica, fino al 1997, quando Stephen Segerman, proprietario di un negozio di dischi, riscoprì la sua produzione artistica e si mise a cercarlo, creando anche il sito «The Great Rodriguez Hunt (La grande caccia a Rodriguez). Segerman, dopo varie peripezie, riuscì finalmente a incontrare il cantautore, che solo allora scoprì di essere più famoso di Elvis in Sudafrica, dove aveva venduto oltre mezzo milione di dischi. Dopo un trionfale tour in Sudafrica con sei date sold out e l'Oscar per il docufilm sulla sua vita Searching for Sugar Man, Sixto Rodriguez ha conosciuto una seconda carriera artistica, con tanti concerti in giro per il mondo e con i suoi dischi finalmente ripubblicati e distribuiti come meritavano. Perché a volte la vita ti può dare una seconda opportunità, soprattutto quando non pensavi più di averne un'altra.

Estratto dell'articolo da rainews.it giovedì 10 agosto 2023.

E' morto a 80 anni a Los Angeles Robbie Robertson, uno dei più grandi cantautori e musicisti della storia del rock e leader dei 'The Band', il gruppo che a lungo accompagnò Bob Dylan. Dal supporto a Bob Dylan al successo come gruppo autonomo, The Band ha influenzato profondamente la musica popolare americana negli anni '60 e '70. Il gruppo suonò al festival di Woodstock del 1969 e conobbe un successo tale da farla apparire sulla copertina di "Time". 

Fu Robertson a scrivere alcune delle più grandi e note canzoni della Band, tra le quali "The Weight", "The Night They Drove Ol' Dixie Down" e "Up On Cripple Creek". "The Weight", in particolare, è una delle canzoni più famose di tutti i tempi: un brano folk con elementi country e gospel e allusioni bibliche, un classico della canzone americana.

Nato il 5 luglio 1943 a Toronto, in Canada, con radici sia mohawk che ebraiche, Robertson lavorò nei carnevali itineranti durante la prima adolescenza, prima di entrare a far parte o di fondare diverse band. "Suono la chitarra da così tanto tempo che non ricordo quando ho iniziato", disse alla rivista Rolling Stone nel 1968. 

Nel 1976 Robertson decise uno stop dei concerti del gruppo e organizzò un ultimo saluto, con un raduno di star a San Francisco. A salire sul palco, celebrità del calibro di Dylan, Van Morrison, Neil Young, Muddy Waters e tanti altri. Il concerto venne filmato da Martin Scorsese che ne fece un celebre documentario uscito nel 1978; "The Last Waltz".

E proprio con Scorsese la collaborazione continuò. Robertson infatti ha lavorato alle colonne sonore di diversi film del regista, tra cui ''The Departed" e "The Irishman'', "Casino" e "Gangs of New York". 

"La musica della Band, e la successiva musica solista di Robbie, sembravano provenire dal luogo più profondo del cuore di questo continente, dalle sue tradizioni, dalle sue tragedie e dalle sue gioie", ha dichiarato Scorsese in un comunicato. […]

Addio a Robbie Roberston, genio del rock. Gianni Poglio su Panorama il 10 Agosto 2023

Dagli inizi con The Band, il gruppo che accompagnato Bob Dylan, alla carriera solista, alle colonne sonore per Martin Scorsese

Cantante, chitarrista, compositore, Robbie Robertson, morto a Los Angeles a 80 anni, è stato un artista geniale, innovativo, che ha scritto alcune delle pagine più belle della musica degli ultimi cinquant'anni. I suoi inizi sono notoriamente legati al ruolo nella storica The Band, il gruppo che negli anni Sessanta ha accompagnato Bob Dylan nella svolta rock. Robertson era un talento puro della chitarra ed aveva una voce intensa profonda, un timbro unico che dava un sapore speciale alle sue interpretazioni. Resta per sempre nella storia il disco di debutto con The Band, Music from the big pink, uscito nel 1968. Un mix inedito, per i tempi, tra rock, soul, country e folk. Una pietra miliare, come il brano più noto della tracklist, The Weight, sempre presente nelle classifiche delle canzoni più belle di sempre. L'ultimo concerto di The Band, nel novembre del 1976, venne immortalato da Martin Scorsese nel filmThe Last Waltz che colse alla perfezione lo spirito e il mood di un evento epocale a cui parteciparono, tra gli altri, anche Bob Dylan, Eric Clapton, Joni Mitchell, Muddy Waters, Ron Wood, Ringo Starr e Neil Young. La vena di musicista e compositore dell'artista canadese non si spense con la fine del gruppo. A dimostrarlo, gli ispirati album solisti, a cominciare da "Robbie Roberston", uscito nel 1987 che vede anche la partecipazione degli U2 nei brani Sweet Fire Of Love e Testimony e di Peter Gabriel in Broken Arrow e Fallen Angel. Tra le perle, il singolo Somewhere down the crazy river. Non da meno Storyville del 1991, ispirato al jazz sound di New Orleans con sprazzi di soul e R&B. Ma il meglio arriva nel 1994 con Music for The Native Americans, un colpo di genio nel segno della World Music, che contiene brani scritti da Robertson e dai The Red Road Ensemble per il film-documentario televisivo The Native Americans. Il disco fu la prima incursione di Robertson nella scrittura di musiche ispirate alle origini Mohawk della madre. L'estrema duttilità del suo approccio alla musica emerge poi in Contact from the underworld of Redboy, che tiene insieme elettronica, trip hop e canti tradizionali indigeni canadesi. A seguire, How to become Clayrvoiant, uscito nel 2011 e arricchito dalla presenza di Steve Winwood, Tom Morello e Pino Palladino. A chiudere la sua carriera, Sinematic del 2019, eccellente addio alle scene di un musicista di grandissimo talento e raffinatezza. Come produttore e compositore di colonne sonore, Robertson ha collaborato con Martin Scorsese nei film Toro Scatenato (1980), Il re della commedia (1983), Casinò (1995), The Departed (2006), The Wolf of Wall Street (2013), The Irishman (2019) e Killers of the Flower Moon (2023).

Marco Molendini per Dagospia giovedì 10 agosto 2023.

«Sono in missione e se mi cerchi troverai solo polvere»: Robbie Robertson amava l'ombra e rispose così, anni fa, a una domanda sulla sua carriera che aveva cominciato a volare quando poco più che ventenne si trovò al fianco di Bob Dylan. La sua è una storia nobile di un personaggio controcorrente. Non solo per il suo sangue indiano e ebreo, «sono un esperto per quanto riguarda le persecuzioni» ha scritto nel suo libro di memorie Testimony, ma per la sua carriera fatta di sottrazioni e una folgorante esplosione.

Il suo Last Waltz Robertson, folgorato dal rock a 13 anni, lo ha ballato a 80 anni. Se ne è andato dopo una lunga malattia, chiudendo la sua storia personale e quella di una formazione, The Band, che ha segnato la storia ma è stata segnata dai lutti: Richard Manuel il pianista suicida a 43 anni, Rick Danko il bassista cantante ucciso da un infarto a 56, Levon Helm il batterista e cantante per un cancro a 71. Unico superstite l'organista Garth Hudson. 

Anche Robertson se ne è andato per una malattia, contro la quale ha combattuto a lungo, ma non lascia solo polvere. Pochi artisti sono stati presenti nei momenti decisivi della storia del rock come lui, eppure ancor meno artisti hanno mostrato altrettanto rigore: carattere, probabilmente il suo sangue in buona parte pellerossa.

Quando  Dylan lo fece contattare dal suo manager per far parte del suo gruppo di supporto, su consiglio di John Hammond, Robbie sulle prime disse di no. Aveva 22 anni, poi insieme a Helm cominciò a suonare con Bob e a portare dentro la formazione a uno a uno i componenti del gruppo con cui lavorava da tempo,  The Hawks, nati per accompagnare  la star del rockabilly Ronnie Hawkins (uno dei primi maestri di Robertson è stato Buddy Holly).

Con Dylan gli Hawks, dopo aver fatto un tour in Texas, parteciparono a una session dell'album Blonde on blonde, uno dei capolavori del cantautore dì Duluth, e iniziarono una partnership che, è stato scritto, segna una svolta nella canzone di protesta e nella costruzione di un linguaggio country rock»... 

Poi The Hawks accettarono la richiesta di Dylan di trasferirsi a Woodstock, in una casa chiamata Big Pink,  la base per realizzare due album Music from Big Pink, pubblicato nel 68 in cui Robertson firmava pezzi come The Weight e Chest fever, e poi The Band, con Up on Cripple Creek.  E' lì che viene registrata la musica di Dylan che poi sarà successivamente pubblicata sotto il titolo di The basement tapes. Ed è al festival di Woodstock che The Hawks, diventati The Band,  riscuotono un successo tale da finire sulla copertina di Time.

Eric Clapton, è stato lui a raccontarlo a Robertson, dopo aver ascoltato Music From Big Pink rimase così colpito da decidere di lasciare i Cream. La forza di quella musica sta nella capacità di mescolare e suoni e miti dell’America musicale dal folk al country e al blues, al soul, alla musica da saloon, a quella religiosa, ai predicatori, ai medicine shows a quel senso largo dello spazio così tipicamente nordamericano evocato da testi complessi sull'America dura e colorata di un tempo. 

Robbie, con il suo animo quieto, era la mente di The Band e della sua gentle revolution. Eppure si arrabbiò fino a sciogliere il gruppo, irritato dall'uso di droghe dei suoi colleghi.

L'addio di The Band alla Winterland ball room di San Francisco nel 1978 mette insieme Dylan, Van Morrison, Neil Young, Muddy Waters e Martin Scorsese lo registra in uno dei più bei film di musica della storia, The Last waltz. 

Le reunion, che sono all'ordine del giorno nella storia del rock, per The Band saranno sempre parziali perché, fra Helm e Robertson era sceso il muro della rabbia, con il primo che accusava il secondo di avidità e di essersi appropriato del repertorio del gruppo. E Robertson non sarà mai presente a nessuna rimpatriata: sceglie la via solista, con parsimonia.

Realizza pochi album, cinque in tutto, collabora con Neil Diamond, esplora la musica delle sue origini con Music for the native americans, ma soprattutto si dedica a scrivere per il cinema stringendo un rapporto solidissimo con Martin Scorsese con il quale lavora a Re per una notte, Casino, The departed, The Irishmen fino a Killers of the flower moon, di quest’anno, l’ultimo valzer di Robbie.

Il capo della banda. L’indelebile eredità musicale di Robbie Robertson. Maurizio Antonini su L'Inkiesta il 10 Agosto 2023

Scomparso a ottant’anni dopo una carriera di grande influenza sulla musica rock, il chitarrista canadese fondatore della Band è stato autore di composizioni uniche capaci di evocare il carattere mitico della storia americana 

Con la morte di Robbie Robertson (Toronto, 5 luglio 1943 – Los Angeles, 9 agosto 2023) scompare una figura leggendaria e uno degli artisti più influenti della musica americana. Autore di composizioni di straordinaria bellezza – capaci di evocare come nessuno prima e dopo di lui (nonostante la sua origine canadese) il carattere mitico della storia americana – membro fondatore di uno dei gruppi più importanti della musica americana – The Band – e musicista eccelso – il suo raffinato stile chitarristico, in parte debitore di quello di Curtis Mayfield, si discostava sensibilmente da quello sturm und drang in voga alla fine degli anni ’60 – Robbie Robertson godette della massima stima e dell’apprezzamento dei maggiori artisti del suo tempo. Bob Dylan, con cui collaborò a più riprese negli anni ’60 e ’70 (gli storici tour del 1965 e del 1974; le altrettanto storiche registrazioni del 1966 e 1967 nel basement di Big Pink, a Woodstock), lo considerava un suo pari. George Harrison, dopo aver ascoltato il primo album della Band (Music from Big Pink), si precipitò a Woodstock per conoscere lui e gli altri componenti del gruppo (del pari musicisti straordinari). Eric Clapton, in crisi con i Cream, cercò di convincere Robbie Robertson, senza riuscirci, a invitarlo a entrare nel gruppo.

Ma facciamo un passo indietro. Robbie Robertson entrò a far parte giovanissimo, all’inizio degli anni ’60, degli Hawks di Ronnie Hawkins, rocker dell’Arkansas, stabilitosi permanentemente a Toronto. Hawkins, grande entertainer e cantante capace secondo alcuni di rivaleggiare con Elvis Presley (era molto amato da John Lennon), non era uomo da grandi ambizioni. Preferiva infatti essere il big fish in a small pond a Toronto piuttosto che imbarcarsi in tour sfiancanti (e pericolosi, basti pensare alla fine di Buddy Holly). Gli Hawks erano una straordinaria fucina di talenti, ma Ronnie Hawkins gestiva la band con mano di ferro, approccio dittatoriale e braccino corto sul piano degli stipendi. Al punto che dopo qualche tempo regolarmente i suoi musicisti si stancavano e andavano a cercare fortuna altrove. Così fu per Robbie Robertson e i suoi “fratelli” (il bassista Rick Danko, il batterista Levon Helm, il tastierista Garth Hudson e il pianista Richard Manuel). Tutti musicisti eccezionali e (tre di loro, Danko, Helm e Manuel) vocalist tra i più grandi della musica americana.

I primi anni senza Hawkins al timone furono di stenti e di mera sopravvivenza. Fino a quando non arrivò una chiamata dal management di un certo Bob Dylan. Era il 1965. Loro di Bob sapevano poco o nulla. Al tempo suonavano blues, rock’n roll, jazz, soul. Tutto meno che il folk prediletto (allora) dal Vate di Duluth. Era il periodo della svolta elettrica di Bob. Aveva bisogno di una backing band e gli Hawks facevano al caso suo. Ebbe così inizio uno dei più straordinari passaggi  della musica americana. Nella prima parte dei concerti, Bob si esibiva da solo alla chitarra acustica. Tutto bene, tutto sotto controllo, pubblico rapito e felice. Nella seconda parte, imbracciava la chitarra elettrica e, supportato da Robbie e dai suoi fratelli, si lanciava in interpretazioni lancinanti e a volume (per i tempi) assordante di pezzi vecchi e nuovi. Il che scatenava le contestazioni dei puristi del folk che pretendevano che restasse – vita natural durante – il menestrello di Blowin’ in the Wind. Non capivano o non volevano capire, poveri inetti, che stavano assistendo a una rivoluzione musicale.

Terminato il tour, di ritorno a Woodstock dove risiedeva in quegli anni, Dylan decise di portare con sé i musicisti di quella che tre anni più tardi diventerà The Band. Si incontravano quotidianamente o giù di lì nella cantina di una casa immersa nel verde, colorata di rosa. La chiamarono Big Pink. Lì per la prima volta, sotto l’influenza di Bob Dylan, che sfornava nuove canzoni a getto continuo, i musicisti della Band (Robbie in particolare) iniziarono a loro volta a scrivere pezzi originali. Con esiti immediatamente eccellenti, al punto che – grazie anche ai buoni uffici del potente manager di Bob, Albert Grossman – si videro offrire un contratto discografico dall’importante etichetta Capitol.

Ha inizio così la vicenda discografica della Band – con Velvet Underground e Steely Dan tra i più grandi e influenti gruppi della storia della musica americana. Il primo album, Music From Big Pink, del 1968, è un capolavoro assoluto che mescola i vari generi della musica americana in una sintesi unica e originale. L’album successivo, intitolato semplicemente The Band, è del pari un’opera eccezionalmente evocativa; tra i pezzi più belli e significativi vi è una composizione di Robbie, dal titolo The Night they drove Old Dixie Down, uno straordinario ritratto della Guerra di Secessione vista dagli occhi di un soldato sudista (per questo motivo oggi il pezzo è oggetto di richieste di censura da parte dei soloni del politicamente corretto: no comment). Anche gli album successivi, pur non all’altezza dei primi due capolavori, furono opere di alto livello. 

Purtroppo, il rock’n roll lifestyle iniziava a incidere sulla tenuta del gruppo. Manuel, Danko e Helm facevano abuso di sostanze e di alcool e dedicavano sempre minor tempo alla composizione. Robbie si trovava sempre più a dover tirare la carretta da solo. Fino a quando decise di porre fine all’avventura, ma in grande stile. Con un concerto tenutosi il Giorno del Ringraziamento del 1976 al Winterland di San Francisco. Fu un evento straordinario, preceduto da una cena per i fortunati quattromila spettatori e arricchito dalla partecipazione di tutti o quasi gli artisti che nel corso degli anni avevano collaborato in varie incarnazioni con la Band: oltre a Bob Dylan, si esibirono Van Morrison, Muddy Waters, Neil Young, Paul Butterfield, Ronnie Hawkins, Joni Mitchell e altri luminari. Il concerto, immortalato da Martin Scorsese per la posterità in The Last Waltz, rappresenta la degna chiusura di una fase della musica americana che con il senno di poi sconfina ormai nella mitologia. La fine di un’era. Poco più di un anno più tardi, su quel palco si esibirono i Sex Pistols. 

Successivamente, Robbie si dedicò a produrre colonne sonore per l’amico Martin Scorsese e, dal 1987, a incidere dischi solisti che, pur non privi di momenti di interesse e di reale ispirazione, non possono essere neanche lontanamente paragonati ai primi due capolavori della Band.

Gli ultimi decenni della sua vita furono amareggiati, oltre che dalla scomparsa per suicidio di Richard Manuel e per morte naturale di Rick Danko, dalle veementi accuse di cupidigia ed egoismo mossegli a più riprese dal suo vecchio partner Levon Helm, segnatamente nell’autobiografia pubblicata da quest’ultimo nel 1993 dal titolo This Wheel’s on fire. Robbie a lungo evitò di polemizzare con Levon Helm (scomparso nel 2012), dopodiché a sua volta cercò di chiarire come stavano effettivamente le cose nella prima parte della sua autobiografia (Testimony) e nel documentario “Once were brothers”, opere dalle quali si evinceva chiaramente, oltre che l’unicità di quella straordinaria formazione, l’importanza cruciale del contributo di Robbie alle fortune del gruppo. Di quella straordinaria Band, oggi, rimane in vita solo Garth Hudson, apparentemente in assai precarie condizioni di salute.

Chiudo con un ricordo personale. Tanti anni fa, con il mio amico Enzo Capua decidemmo di recarci a Woodstock per andare alla ricerca di Big Pink. Con qualche difficoltà riuscimmo ad arrivare. Eravamo fuori, in contemplazione, quando dal basement uscì un uomo. Ci avvicinammo timidamente e chiedemmo se fosse possibile dare un’occhiata all’interno, fu molto cortese e ci fece entrare. Ci disse anche che il suo nome era Donald La Sala, era italo-americano e aveva fatto richiesta di cittadinanza italiana. Il mondo è piccolo. Oggi è possibile dormire a Big Pink per circa seicento dollari al giorno (sono tre stanze da letto). Non è troppo, tutto sommato, considerando che quelle mura sono impregnate della storia della musica americana. Riposa in pace, Robbie. Continueremo ad ascoltare religiosamente la tua musica e quella dei tuoi fratelli.

 The weight. La canzone di Robbie Robertson che evoca il senso di libertà americano (e il suo fardello). Mario Lavia su L'Inkiesta il 10 Agosto 2023

Uno dei successi della Band è un brano gioioso come la corsa all’oro, come un bivacco davanti al falò nella prateria, come una festa con birra e ragazze. Le strofe misteriose racchiudono un’epoca irripetibile, e non a a caso è una delle tracce più importanti del film Easy Rider

Le canzoni più iconiche dell’America degli anni Sessanta e Settanta, quelli tra la Nuova Frontiera e la fine dell’epoca hippy, sono a mio avviso due: Like a rolling stone di Bob Dylan e The weight della Band. Dell’inno cupo e al tempo stesso musicalmente solare di Dylan c’è poco da dire, è forse la più bella canzone mai scritta, mentre qui vogliamo parlare di The weight – il peso, il fardello – scritta da un genio della musica scomparso mercoledì, Robbie Robertson, fondatore e leader della Band. 

Questo pezzo non a caso è una delle tracce salienti di Easy rider, il celebre film di Dennis Hopper – con lui protagonista insieme a Peter Fonda ma vi compare anche un giovane Jack Nicholson – il più grande road movie mai realizzato che identifica a perfezione lo spirito di libertà di quel grande Paese fisicamente espresso dagli enormi paesaggi americani nel quale i giovani sono gli Eroi come i loro avi lo erano stati quando l’America divenne l’America: un film-mito, Hopper e Fonda come Achille e Aiace, le loro Harley Davidson come le navi di Ulisse lanciate verso un’Itaca di liberazione, ed ecco, sotto, la grande musica di Jimi Hendrix, dei Byrds, degli Steppenwolf: e della Band con questo loro pezzo gioioso come la corsa all’oro, come un bivacco davanti al falò nella prateria, come una festa con birra e ragazze. 

The weight ha una melodia felice, un suono limpido e come inevitabile, la perfezione del susseguirsi delle strofe, la gioia dell’inno ma senza retorica, le voci mischiate come in un coro di chiesa, il drumming e la voce di Levon Helm, il batterista celebrato anni dopo da Bruce Springsteen, il riff eterno di Robertson, le armonie degli altri, Richard Manuel, Rick Danko e Garth Hudson (l’unico del gruppo ancora vivo) e ha un testo oscuro su cui si sono interrogati per anni in molti: «I pulled into Nazareth, was feeling ’bout half past dead/ I just need some place where I can lay my head/ Hey, mister, can you tell me, where a man might find a bed?/ He just grinned and shook my hand, “No” was all he said» (Sono entrato a Nazareth, mi sentivo come se fossi mezzo morto/ Avevo proprio bisogno di un posto dove posare il capo/ “Hey, Signore! Mi potrebbe dire dove si può trovare un letto?”/ Lui accennò un sorriso, mi strinse la mano e, “No”, fu tutto ciò che disse). 

Questo loner cerca dunque un approdo dopo un girovagare tipicamente americano e via via incontra personaggi strani, un po’ come in Pian della Tortilla di Steinbeck – questi strani Carmen, Miss Moses, Luke, Crazy Chester – che in un modo o nell’altro scansano il protagonista, è questo il suo fardello (si tenga presente che la parola weight non compare mai), e in mezzo c’è il famoso ritornello: «Take a load off Fanny, take a load for free/ Take a load off Fanny, and you put the load right on me» (Molla il tuo fardello Annie, mollalo gratis/ Molla il tuo fardello Annie e puoi metterlo sulle mie spalle). 

Un testo surreale che rimanda a questa idea del peso, del gravame: ma peso, di che cosa? Forse quello del dover andare, sempre, altrove, far from here dicono tante canzoni, lontano, secondo l’inesorabile destino dell’Americano, verso un altro mondo dove piazzare temporaneamente le tende, ed è un bel fardello fisico ed esistenziale. Ma forse potrebbe trattarsi anche della liberazione del peso della responsabilità? C’è chi lo ha interpretato così, come un’evocazione della stanchezza di vivere dentro la fantasmagoria della vita e chissà del trascendente (la citazione di Nazareth secondo alcuni sarebbe un riferimento di tipo religioso), un modo per dire alle tante “Fanny” che puoi mettere il tuo fardello sulle mie spalle, qui ci sono io, Fanny, e insieme cammineremo fianco a fianco, e qui siamo tra Tempi moderni e John Fante. 

Poi alla fine si capisce qualcosa in più. «Catch a cannon ball now to take me down the line/ my bag is sinkin’ low and I do believe it’s time/to get back to Miss Fanny, you know she’s the only one/ who sent me here with her regards for everyone». Ecco, il nostro loner triste («my bag is sinkin’ low») aveva un compito, portare i saluti di Fanny a tutti («her regards for everyone»), ma tutti lo hanno snobbato perché non lo capivano, ed ecco qui il peso dell’America quando non ti ascolta, ecco la fatica del ritorno, ecco svelato il mistero di una giornata joyciana del protagonista, la sua missione fallita. Ma in ogni caso l’America c’è e c’è sempre una Fanny da qualche parte, non resta che andare. 

È molto probabile che neppure Robbie Robertson avesse chiarissimo il senso di quelle strofe, d’altronde è capitato migliaia di volte a gente non proprio sciocca tipo John Lennon o Paul Simon, per non dire di Dylan che se avesse dovuto riflettere su ogni parola che ha scritto gli ci sarebbero volute venti vite ma quello che è certo è che fin da questo pezzo, il primo successo della Band, Robertson mostra di essere dentro la letteratura americana di quegli anni, da Kerouac a naturalmente a Dylan, per il quale il gruppo diventerà la sacrestia in cui scendere a celebrare i momenti difficili, il teatro greco nel quale mettere in scena alcuni suoi capolavori: The basement tapes, il live Before the flood che contiene un lato, come si diceva quando i dischi erano i dischi, proprio della Band (anche qui c’è una perfetta esecuzione di The weight).

Il gruppo di Robbie Robertson è stato il miglior supporto per Dylan, perché la Band era l’America, lui era ed è molto di più, intendiamoci ma quello bastava. Lo capì Martin Scorsese che cercava e tuttora cerca di scandagliare l’ontologia dell’America e The last waltz, il film sul concerto d’addio del gruppo e dei loro amici canadesi («You know this guy», dice a Robbie, ed entra Neil Young per una struggente Helpless con Joni Mitchell che eleva la sua elegia nel coro), è giustamente un capitolo della storia dell’America, con il suo eterno fardello sulle spalle.

William Friedkin è morto, diresse Linda Blair nell’«Esorcista». Redazione Spettacoli lunedì 7 agosto 2023.

Aveva 87 anni. Vinse anche l’Oscar grazie a «Il braccio violento della legge» 

William Friedkin, il regista di un film di culto come L’esorcista, è morto a Los Angeles. Aveva 87 anni. La sua morte è stata confermata dal rettore della Chapman University Stephen Galloway, amico della moglie di Friedkin, Sherry Lansing. 

Maestro dell’horror

Insieme a Peter Bogdanovich, Francis Ford Coppola e Hal Ashby, Friedkin è salito agli onori della cronaca negli anni Settanta, facendo parte di una nuova generazione di registi vivaci e intraprendenti. Combinando la sua esperienza in televisione, in particolare nei documentari, con uno stile di montaggio all’avanguardia, Friedkin ha portato una nuova energia ai generi horror e thriller poliziesco in cui si è specializzato. 

L’Oscar nel 1972

Nel 1972 vinse l’Oscar per Il braccio violento della legge, un racconto moralmente ambiguo, girato in stile documentaristico e contenente una delle sequenze di inseguimento in auto più famose del cinema. Grazie a Gene Hackman (anche lui Oscar come miglior attore) il film divenne una pietra di paragone per il genere poliziesco al cinema e in televisione per gli anni a venire.

Il successo con «L’esorcista»

Ma il suo nome è legato soprattutto a L’esorcista , pellicola che ebbe un successo incredibile malgrado i problemi di censura. La testa che ruota di Linda Blair è entrata nella storia del cinema.

È morto William Friedkin, regista de "L'esorcista". Il cineasta di Chicago si è spento all'età di 87 anni. Premio Oscar per "Il braccio violento della legge", è stato premiato nel 2013 con il Leone d'oro alla carriera alla Mostra di Venezia. Massimo Balsamo il 7 Agosto 2023 su Il Giornale.

Lutto nel mondo del cinema: il regista William Friedkin è morto lunedì a Los Angeles. Come riportato da Variety, la sua morte è stata confermata dal rettore della Chapman University Stephen Galloway, amico della moglie del cineasta, Sherry Lansing. Atteso a inizio settembre alla Mostra di Venezia per presentare - fuori concorso - il suo ultimo film, "The Caine Mutiny Court-Martial", il regista si è spento all'età di 87 anni.

Punto di riferimento della Nuova Hollywood, Friedkin ha scritto pagine importanti del cinema statunitense tra gli anni Settanta e gli anni Settanta insieme a colleghi come Peter Bogdanovich, Francis Ford Coppola e Hal Ashby. Registi audaci, pronti a tutto per lasciare il segno. In particolare, il cineasta nato a Chicago ha combinato la sua esperienza televisiva con uno stile di montaggio all'avanguardia, innovando il poliziesco e l'horror.

La carriera di Friedkin è iniziata negli anni Sessanta grazie alla stazione televisiva WGN, passando nel giro di pochi anni dall'ufficio corrispondenza - lavorava come fattorino - alla produzione e infine alla regia. Nel 1962 il primo film, il documentario "The People vs Paul Crump", su un uomo di colore condannato a morte. Il primo lungometraggio di finzione risale al 1967, "Good Times", seguito da "Quella notte inventarono lo spogliarello", "Quella notte inventarono lo spogliarello" e "Festa per il compleanno del caro amico Harold". Poi il successo.

Friedkin nel 1971 ha diretto "Il braccio violento della legge", conosciuto anche con il titolo internazionale "The French Connection", premiato con 5 premi Oscar (tra cui quello alla miglior regia) e tre Golden Globe. Con il passare degli anni è diventato un cult del genere poliziesco. Subito dopo, un altro film che ha tracciato un solco: "L'esorcista" del 1973, tratto dall'omonimo romanzo di William Peter Blatty. Un thriller fortemente stilizzato, metro di paragone per ogni film horror negli ultimi cinquant'anni.

Friedkin ha poi realizzato una serie di film meno fortunati ma di grande qualità, come "Vivere e morire a Los Angeles" del 1985. Il regista si è successivamente diviso tra piccolo e grande schermo, raccogliendo ottimi riscontri per il documentario "Howard Hawks: American Artist". Negli ultimi anni ha realizzato "Killer Joe" nel 2011 e il documentario "The Devil and Father Amorth", dedicato al celebre esorcista scomparso nel 2016. Come anticipato, il suo ultimo film - "The Caine Mutiny Court-Martial" - sarà presentato tra meno di un mese alla Mostra di Venezia.

Viva l’esorcista Travis. Qualche cosa, il sesso dei sedicenni e la spietata sincerità di William Friedkin. Guia Soncini su L'Inkiesta il 9 Agosto 2023

Il rapper acclamato al Circo Massimo non l’ho mai sentito nominare. In compenso i miei neuroni hanno immagazzinato il momento in cui il regista del “Braccio violento della legge” ha messo a posto un giovane collega mitomane

L’anno scorso sono andata a vedere il concerto di chiusura della tournée di Lorenzo Jovanotti. Tra gli ospiti c’era Tommaso Paradiso, e quindi quella è la sera in cui ho sentito per la prima volta, quattro anni e spicci dopo l’uscita, quella canzone in cui c’è il verso «ti mando un vocale di dieci minuti».

In genere a questo punto l’uditorio si divide tra chi dice «ma non è possibile che non l’avessi mai sentita», e chi mi conosce. Non ascolto la radio né altre forme di trasmissione dei viventi: la mia capacità di evitare le cose che non m’interessa non evitare è sopraffina.

Non è neanche una forma di rifiuto: mi piace tantissimo “Viva la vida”, dei Coldplay, ma quand’è uscita non l’ho sentita per più di un anno, finché non mi è passato davanti un video di Lady Gaga che la rifaceva alla Bbc. E non ho mai sentito una canzone di Lady Gaga finché Courtney Love non ne ha cantata una a una sfilata di Givenchy.

Il che non m’impediva di sapere chi fosse Lady Gaga, o che i Coldplay avessero in repertorio un brano intitolato “Viva la vida”, o che ci fosse una canzone di Tommaso Paradiso citata anche dai muri, con quel benedetto vocale di dieci minuti. Non è neanche una prerogativa esclusivamente mia: la cultura popolare è fatta di cose che conosci perché stanno nell’aria, anche se non le hai mai consumate.

È quindi con un certo sconcerto che dichiaro questa la settimana in cui non solo non conosco i dettagli, ma non ho neanche mai sentito nominare i fenomeni. È cominciata un paio di giorni fa, quando su Twitter ho intravisto una polemica che ci ho messo un po’ a ricostruire.

Su Netflix c’è a quanto pare una serie inglese per adolescenti, si chiama “Heartstopper”. Che non l’abbia mai vista è normale (l’ultima serie per adolescenti che ho visto è “L’albero delle mele”), ma non l’ho neanche mai sentita. Come aggravante, la polemica viene da tal Pietro Turano, che pure non ho mai sentito nominare ma che l’internet e le mie amiche con figli mi dicono essere noto (è un attore, ha fatto “Skam” – che invece appartiene al sottogenere «serie per adolescenti che so che esistono ma non guardo neanche se mi pagate»).

Insomma Turano dice com’è possibile che in questa serie non scopino mai, e l’internet insorge: hanno sedici anni, non ti vergogni, pervertito. Leggo e penso: ma se a sedici anni non scopate, quando lo fate? Con la crisi di mezz’età? Leggo e penso: ma se a sedici anni non scopate, cosa fate tutto il giorno? I compiti?

Poi mi metto a guardare l’anteprima della prossima puntata di quel manifesto di sedicennitudine senile che è “And just like that”. Miranda vede uscire, dalla stanza del figlio, la figlia di Charlotte. Corre dall’amica dicendole: scopano, e quella dice: ma figurati. Miranda insiste: era senza mutande, Charlotte dice: ma si saranno fermati a chiacchierare fino a tardi e poi si sarà addormentata castamente senza mutande, e Miranda conclude: certo, proprio quel che fanno gli adolescenti arrapati.

(Un paio di puntate fa, Charlotte vagava per New York nella tempesta di neve per comprare i preservativi alla figlia che voleva scopare, adesso è stravolta all’idea che scopi: ma non soffermiamoci sull’insensatezza di tutto, dai costumi alla sceneggiatura, nella serie più brutta e inutile del momento).

Quindi gli adolescenti scopano, non come nella serie inglese e sul Twitter italiano. O forse no. Forse, proprio come le sue attrici adulte in tempi di quiet luxury sono perennemente in tacchi e maniche a sbuffo come fosse il 1997, in “And just like that” gli adolescenti sono sceneggiati come adolescenti del Novecento, per i quali gli ormoni erano libido e non pastiglie che ti prendevi sperando di cambiare sesso e sentirti speciale.

Non ero ancora venuta a capo della sessualità dei diciottenni, quando ho scoperto che tutti i trentenni a Roma erano al concerto di uno che non avevo mai sentito nominare. Non una Lady Gaga, di cui non avevo mai sentito una canzone ma avevo letto decine di interviste; non un Tommaso Paradiso, di cui non avevo mai sentito una canzone ma conoscevo i ritornelli; non un Chris Martin, di cui non ho sentito canzoni famosissime ma l’Instagram della cui ex moglie seguo religiosamente. No, proprio uno – Travis Qualchecosa – il cui nome non mi era mai passato davanti.

L’unico elemento che mi diceva qualcosa, di quel che stava accadendo al Circo Massimo, era che ospite sul palco c’era l’ex marito di Kim Kardashian. Com’è possibile che a Roma decine di migliaia di persone sappiano che il posto giusto in cui andare a instagrammarsi è il concerto di uno della cui esistenza io sono ignara? È dunque questa la maturità, guardare i video dal Circo Massimo come mio nonno guardava la mia felpa con quei capelloni dei Beatles? Possedere le mutande fabbricate da Kim Kardashian riduce i miei gradi di separazione dal fenomeno musicale del momento?

Nel 2015 William Friedkin e Nicolas Winding Refn registrano una conversazione su “Il salario della paura”, un film di Friedkin del 1977. Friedkin, che è morto l’altroieri, è uno di quei registi che conoscete anche se non lo conoscete.

Se siete adulti, perché insomma ha fatto “L’esorcista” e “Vivere e morire a Los Angeles” e mica avrete vissuto in una cella d’isolamento, eravate vivi quando esisteva il cinema, qualcosina avrete visto. Se siete giovani e malati di presentismo, perché qualche settimana fa c’è stata una polemica su “Il braccio violento della legge”, ora di proprietà di Disney: la piattaforma ha tagliato una battuta in cui Gene Hackman diceva «nigger», e se siete giovani magari avrete pure pensato che Disney avesse ragione (che il dio della carenza di senso del ridicolo vi perdoni).

Refn, di cui non ho mai visto un film (il Tommaso Paradiso dei registi), è un fighetto che va molto di moda tra i cinefili svezzati da Mtv, con “Drive” vinse pure un qualche premio a Cannes (ma ora “Drive” è ufficialmente «quel film col tizio che fa Ken in “Barbie”»).

Uno dei vantaggi di questo secolo è che quando muore qualcuno di famoso c’è sempre chi ha abbastanza tempo libero da andare a cercare meraviglie e condividerle col mondo, quindi qualcuno è andato a ritagliare gli ultimi minuti di quella conversazione del 2015. Refn aveva fatto di recente “Solo Dio perdona”, un altro film col futuro Ken di “Barbie”, e l’avevano stroncato. Friedkin si mette a parlare della consapevolezza del valore dei propri film contrapposta all’accoglienza che ricevono, e lo sventurato dice, del suo compitino, «La penso come te, non ho rimpianti rispetto a “Solo Dio perdona”, penso che sia un capolavoro e lo è».

E a quel punto Friedkin gli spiega due o tre cose. «Se quello è un capolavoro, “Quarto potere” cos’è?». Ma anche che i dolori sono gli amici che muoiono, mica i film che non incassano. Ma anche che «la riscoperta» di cui continua a cianciare il giovane coglione, il successo tardivo, non è una categoria, «non l’hanno riscoperto: è sempre stato lì», obietta il venerato maestro senza niente da dimostrare quando il giovane coglione gli dice che “2001: Odissea nello spazio” non incassò bene quando uscì ma poi l’abbiamo riscoperto.

Soprattutto, Friedkin gli spiega, al giovane coglione, che i quattro anni trascorsi e secondo lui sufficienti a valutare la capolavoritudine del suo compitino, sono «un brufolo sul buco del culo del mondo»: aspetta i settant’anni passati da “Quarto potere” e poi ne riparliamo, ragazzino.

Refn sbuffa, perché è un giovane coglione che ha passato la conversazione a dirgli «io sono una versione giovane di te» ed è davvero convinto che quello sia un confronto alla pari: è lui il regista che piace alla gente che piace, diamine.

Nel 1978 al Teatro Tenda a Roma fanno una serata per Eduardo De Filippo. Vittorio Gassman – che era Vittorio Gassman, all’epoca cinquantaseienne – lo presenta, Eduardo entra e sovrappone due racconti. Quello di “Filumena Marturano”, scritta perché sua sorella Titina era dispiaciuta d’avere una parte marginale in “Questi fantasmi”. E quello di una cosa teatrale andata male trent’anni prima, e di come il giovane Gassman fosse stato all’epoca affettuoso con lui.

(Un giorno poi dovremo parlare di come il genio sia in effetti velocità d’esecuzione: Eduardo che scrive “Filumena Marturano” in dodici giorni, Jovanotti che scrive “Piove” in due ore. Un giorno, ma non oggi).

Gassman non dice a Eduardo che le cose andate male poi il pubblico delle generazioni successive le riscopre, non dice d’essere un giovane De Filippo, non dice niente. Gassman – non esattamente uno senza ego – dice suppergiù tre parole in dieci minuti, lasciando intatte le pause di Eduardo, i cambi di registro di Eduardo, la grandezza di Eduardo. E quindi forse è questa, la maturità: decidere di usare i propri neuroni per immagazzinare vite e opere dei Gassman, e non dei giovani coglioni.

Estratto da repubblica.it lunedì 7 agosto 2023.

È morto a 92 anni Mario Tronti, una vita a sinistra. Già militante del Partito comunista italiano, Tronti è stato anche parlamentare. Eletto la prima volta al Senato nel 1992 con il Pds e, successivamente, nel 2013 con il Partito democratico. 

Da alcuni anni si era allontanato dai riflettori della politica: "Sono in ritiro spirituale, nel monastero di Poppi, nel Casentino, retto dalle monache camaldolesi. Mercoledì compio 90 anni e questo passaggio bisogna farlo bene, sentirlo interiormente", aveva detto a Repubblica in occasione del suo novantesimo compleanno. […] 

BIOGRAFIA DI MARIO TRONTI. Da cinquantamila.it - la storia raccontata da Giorgio Dell'Arti

Mario Tronti, nato a Roma il 24 luglio 1931. Filosofo e politico. Padre dell’operaismo italiano (da lui tenuto a battesimo con il libro Operai e capitale nel 1966), ha insegnato per trent’anni all’Università di Siena. Senatore Pd eletto nel 2013 (era già stato senatore col Pds nel 1992). Presidente della Fondazione Crs (Centro per la Riforma dello Stato)- Archivio Pietro Ingrao. 

• Negli ultimi anni ha teorizzato la necessità di una teologia politica come forma di congiunzione fra gli insegnamenti del cattolicesimo romano e la teoria politica classica. «Come il compimento della moderna autonomia della politica che interpreta però l’altro da sé come un oltre da sé: è il trascendente che diventa fatto costitutivo, fondativo o, come è stato detto genealogico della politica». 

• Non fa mistero né si vergogna della sua nostalgia per il "magnifico Novecento". Di sé ha scritto, autoironico: «Sono anch’io un’antichità del moderno».

• Fedele alla linea anti-ideologica del realismo politico, non si considera un uomo di sinistra, ancor meno un progressista «Il progressismo è oggi la cosa più lontana da me. Respingo l’idea che quanto avviene di nuovo è sempre meglio e più avanzato di ciò che c’era prima. (…) Sono uno sconfitto, non un vinto. Le vittorie non sono mai definitive. Però abbiamo perso non una battaglia ma la guerra del ‘900» (da un’intervista ad Antonio Gnoli) [Rep 28/9/2014].

• «Quando parla lo fa in modo rapsodico, per frammenti, con frequenti pause, piuttosto sollevato di parlare a pochi, mai a molti come insegnava Kojève. Quando scrive lo fa con uno stile martellante, ossessivo, apodittico, tesi e antitesi senza sintesi perché la sintesi, dice, è il terreno del potere. Per questo fu non poco criticato. Se poi si pensa che mise insieme il Marx meno conosciuto e il pensiero negativo, che fu attento ai grandi pensatori reazionari come Del Noce e Joseph de Maistre, che tenne insieme la scintilla di Lenin e le avanguardie artistiche e letterarie dell’inizio del Novecento, si può capire quanto fosse fuori dal coro. Non è mai stato in televisione. Perciò per i tempi che corrono sarebbe anche ragionevole dubitare che sia mai esistito» (Lanfranco Pace) [Fog 15/10/2011].

• Sul suo libro Per la critica del presente (Ediesse 2013) «Viviamo in un tempo della fine, lo dico senza emozioni apocalittiche che non mi appartengono. Ma è forse anche la fine del grande capitalismo e delle sue ideologie. Vede, la maledizione della Sinistra dopo il Pci è stata non avere avversari di rango. Per essere grandi ci vogliono avversari grandi. (...) La cosiddetta Sinistra dei diritti, maggioritaria oggi, finisce per essere un intellettualismo di massa, un consolatorio scambio al ribasso. Basta qualche battaglia contro l’immoralità e ti senti a posto dentro questa società» (da un’intervista di Michele Smargiassi) [Rep 5/9/2013].

• È zio di Renato Zero. «I suoi genitori avevano il banco ai mercati generali, si alzavano alle 4 di mattina. Andavo a trovarlo nella sua casa sull’Ostiense. Ricordo una piccola stanza foderata di libri, questo ragazzo più vecchio dei suoi anni; ero così fiero di lui. Per me il comunismo era questo: un padre che torna a casa dal lavoro, mette in tavola un pane e un fiasco d’olio, e con quel che ha risparmiato compra un libro a suo figlio» (Renato Zero ad Aldo Cazzullo [Cds 23/9/2010]. 

• «Chi corre non pensa. Pensa solo chi cammina» (a Gnoli cit.). 

È stato senatore e docente. È morto Mario Tronti, si è spento a 92 anni il “padre” dell’operaismo. Redazione su L'Unità il 7 Agosto 2023

Pochi giorni fa, il 21 luglio, aveva festeggiato 92 anni. Oggi, come comunicato via social dal deputato del Partito Democratico Stefano Vaccari, si è spento nella sua casa di Ferentillo, in provincia di Terni, Mario Tronti.

Per 30 anni docente universitario a Siena, dove ha insegnato Filosofia morale e poi Filosofia politica, senatore nelle file del Partito democratico della sinistra e nel 2013 nel Partito democratico, è considerato uno dei principali fondatori ed esponenti del marxismo operaista teorico degli anni Sessanta.

Mario Tronti. Nato a Roma il 24 luglio 1931, iniziò la sua militanza politica nel Pci duranti gli anni ’50. È stato con Renato Panzieri tra i fondatori della rivista Quaderni Rossi, da cui si separò nel 1963 per fondare la rivista Classe operaia, della quale fu direttore. Questo percorso lo portò ad allontanarsi dal Pci, pur senza mai uscirne formalmente, e ad animare l’esperienza radicale dell’operaismo, che rappresentò per molti versi la matrice della nuova sinistra degli anni ’60. Di fronte all’irruzione dell’operaio-massa sulla scena delle società occidentali, l’operaismo di Tronti seppe proporre un’analisi moderna delle relazioni di classe e soprattutto mettere l’accento sul fattore soggettivo, rivendicando la centralità politica della classe. Le sue idee una sistemazione nel 1966 con la pubblicazione di Operai e capitale, un libro di forte impatto letterario (è stato inserito tra le 2250 opere del Dizionario delle opere della Letteratura Italiana Einaudi), che eserciterà un’influenza notevole sulla contestazione giovanile e più in generale sull’ondata di mobilitazione che ebbe inizio negli anni immediatamente successivi. 

Fu proprio la sconfitta della spontaneità operaia e dell’ondata di mobilitazione, colta anticipatamente da Tronti e non invece da altri operaisti come Toni Negri (di qui la rottura tra loro, avvenuta nel 1967-’68), a indurlo a spostare la sua riflessione sul “problema del politico”, ovvero della direzione e della mediazione politica. Ebbe inizio da qui la teorizzazione trontiana dell’”autonomia del politico”. Si trattò di una fase più intellettuale che politica dell’esperienza di Tronti, il quale si dedicò prevalentemente all’insegnamento (Filosofia morale e poi Filosofia politica) presso l’ateneo senese e all’attività pubblicistica, fondando tra l’altro nel 1981 l’influente rivista Laboratorio politico. Riavvicinatosi al Pci di Enrico Berlinguer, in questo periodo Tronti fu finalmente “riabilitato” dal gruppo dirigente del partito, entrando a far parte più volte del Comitato centrale. Più volte parlamentare, dal 2004 al 2015 è stato presidente della Fondazione Crs (Centro per la Riforma dello Stato)-Archivio Pietro Ingrao.

Le reazioni

“Con Mario Tronti scompare un intellettuale raffinato, in costante ricerca, che ha dato un contributo molto profondo alla sinistra italiana ed europea. Le sue riflessioni, sempre percorse dal dubbio, le sue analisi, mai banali, ma anche il suo impegno politico intenso e diretto rappresentano un patrimonio da non disperdere. Tutta la comunità democratica si stringe attorno alla sua famiglia e ai suoi cari“, è il ricordo affidato ad una nota dalla segretaria del Partito democratico Elly Schlein. “Mario Tronti ci ha purtroppo lasciato. Esprimo a nome mio personale e da parte delle senatrici e dei senatori del Pd profondo cordoglio alla famiglia e a tutti i suoi affetti più cari. Tronti è stato un filosofo, un grande intellettuale, un uomo politico che lascia un segno indelebile nella storia della sinistra italiana”, dice invece Francesco Boccia, presidente del gruppo del Pd al Senato.

“La perdita di Mario Tronti è un grande dolore – scrive invece il senatore Pd Francesco Verducci – Una grandissima perdita per la sinistra, per la politica e per la cultura italiana. Mario Tronti è stato una persona speciale. Un pensatore raffinatissimo e geniale, padre dell’operaismo politico, pensatore tra i più influenti, uno dei maggiori teorici contemporanei del marxismo, studiato in tutto il mondo. E una persona dalle qualità umane straordinarie. Per tanti di noi un riferimento fondamentale da sempre. Un grandissimo onore averlo conosciuto, aver potuto imparare da lui, aver potuto lavorare con Mario Tronti“. Redazione - 7 Agosto 2023

Il ritratto del personaggio. Chi è Mario Tronti, il più grande filosofo politico del dopoguerra. Compirà 92 anni il più grande filosofo politico del dopoguerra. Auguri a un maestro. Goffredo Bettini su L'Unità il 12 Luglio 2023

Tra qualche giorno, il 21 luglio, Tronti compirà 92 anni. Il più grande filosofo politico del dopoguerra, almeno per me, sta invecchiando dolcemente. Conduce una vita disciplinata, parca; eppure ancora indomita per capacità di pensiero e attenzione sul procedere degli avvenimenti. Prassi e teoria, si rincorrono vicendevolmente. Come sempre, per lui.

Immerso nel suo ambiente popolare, risponde ad ogni lettera, interloquisce per iscritto, interviene su riviste e giornali, passeggia perché salutare anche per la mente, prende la metropolitana e il bus, pranza sempre alla stessa ora, va spesso in biblioteca a studiare. Un raro esempio di coerenza tra gli ideali che professa e l’esistenza che conduce; indissolubilmente, e forse oggi ancor di più, legata alla missione alla quale si è vincolato fin da ragazzo: cambiare alla radice una realtà che non gli piace. Partendo dagli ultimi, dagli offesi, dagli sfruttati.

Oggi anch’egli deve fare i conti con la scarsità di strumenti che abbiamo, con la pervasività del paradigma turbo-liberista che arriva fino in fondo alla radice umana delle persone. Se lo senti parlare, anche in privato, al telefono, la voce di Tronti è lucida e decisa nell’esprimere le sue convinzioni; eppure è come se arrivasse da lontano, da un altro mondo, da un’altra epoca. È impastata di pessimismo sul presente, seppure attraversata dal vivido rovello di “entrare in guerra con il mondo”, per costruirne un altro. Tronti rimane, nella sua essenza, un rivoluzionario. Solo il conflitto può aprire la strada ad una pacificazione. Un rivoluzionario, consapevole come pochi altri, che la sinistra e il movimento operaio hanno subito una sconfitta storica. Non valutata per la sua dimensione e i suoi effetti. Invece, Tronti la considera lo spartiacque di un’intera epoca: che segna il passaggio tra “il grande” e “il piccolo” Novecento.

Tronti, “un politico che pensa”, fin dagli anni Sessanta si è messo sulle spalle, con tante speranze, il compito di trovare le vie per combattere gli avversari di classe; che continuamente si trasformano e ti sfidano. L’operaismo: “Operai e capitale”. Un classico che spinge la classe operaia a diventare soggetto fondante di una alternativa di società. Nel cuore dei rapporti di produzione. Nella fabbrica moderna: dove si può rovesciare la dialettica tra servo e padrone. Non si tratta di un appello generico al protagonismo degli operai. Piuttosto la presa di coscienza da parte di una “aristocrazia” di classe, che si fa “forza”, potenza, azione foriera di teoria e di prassi, in grado di ergersi, nella sua nobile essenzialità, fino a un conflitto faccia a faccia con l’avversario.

È il fascino (fortissimo anche in me) di quei densi cortei operai, senza simboli di rappresentanze politiche o sindacali, “nudi” nel presentare sé stessi. Autosufficienti, talvolta silenziosi; lavoro “vivo” che manifesta la sua inevitabile politicità, in modo diretto. Per contendere un’egemonia sul complesso dei rapporti sociali, allora pensata possibile. Poi: il passaggio difficile dopo il ‘68- ‘69. Le lotte giovanili e dei lavoratori decisive per migliorare i salari e i diritti, ma alla fine incapaci di un salto di qualità. Di smuovere gli assetti di potere. Anzi: a quel livello, dopo la rivolta, vince la reazione di destra. A quel punto Tronti svolta; o meglio completa e approfondisce il suo pensiero.

È la fase dell’”autonomia del politico”. Difficile dare conto della ricchezza della sua riflessione.

Ma, in sostanza, si prende atto che la “fabbrica” non basta più. Ciò che il padronato perde, recupera, con i resti, attraverso gli strumenti del governo, del potere, della diffusa statualità, della sapienza tecnico amministrativa, ereditata da un grande passato. La classe, dunque, deve confliggere anche lì: nel cuore dello stato e della politica. Con sagacia tattica, cultura e professionalità. Appropriandosi del sapere di chi per secoli ha comandato, ritorcendoglielo contro. Machiavelli e Schmidt, prima di tutti. Tronti si riavvicina al Pci. Al partito. A metà degli anni ‘80 accetta la proposta avanzata dal sottoscritto, allora segretario dei comunisti romani, di entrare nella segreteria. Fu un privilegio per noi, a quel tempo poco più che ragazzi. Era attento, puntuale, modesto e autorevolissimo nel suo lavoro di direzione. A lunghi silenzi alternava “sciabolate” politiche e di pensiero. Come quando svolse una relazione di fronte a più di mille iscritti, in polemica con Occhetto, circa la ricollocazione storia della rivoluzione sovietica.

Al di là degli esiti tragici successivi, considerata, comunque, la scintilla che ha cambiato il Pianeta. Proprio alla fine di quel decennio, tuttavia, per Tronti si chiude il sipario. Si apre un altro scenario, rapidissimo e spietato nel suo evolvere. Il crollo dell’Urss: la pietra sopra il Novecento che ha sognato “l’assalto al cielo”. Non si intravedono più cieli. Il pensiero, unico e vincente, pare indiscutibile e oggettivo. È in simbiosi subalterna, con il travolgente sviluppo capitalistico-finanziario; che corre sulle ali della scienza e della tecnica. E che è quello che comanda veramente. La “merce” permea ogni realtà e ogni forma di vita. Ha ingoiato i soggetti del cambiamento, gli slanci verso un “oltre”, lo spazio vitale per una rivolta. Alla sinistra pare restino solo due strade, aborrite da Tronti: integrarsi per addolcire lo stato delle cose o praticare il minoritarismo ideologico, astratto e inconcludente. Frammento sociale, consolatorio e autoreferenziale, a cui è preclusa l’ipotesi di confliggere nei rapporti sociali e per la conquista del governo e dello stato.

Giunge così la terza fase, coerentemente connessa con le precedenti, della ricerca di Tronti. Urgente ma non affannosa. Libera, “sporca”, attraversante e attraversata da sortite nel pensiero cresciuto nel campo avverso. Stimoli “scorretti”, arrivando dove la sinistra non è mai riuscita ad arrivare. Da “La politica al tramonto” fino a “Lo spirito libero” si compongono pagine temerarie; eppure non aeree, astratte; piuttosto dedite a riprendere in mano un filo perduto. Se il capitalismo finanziario ha dato forma alla forma mondo e la forma mondo ha dato forma (o ha deformato) le forme umane e della vita, dove sono gli appigli per scalare di nuovo la montagna?

Qui Tronti si fa, volutamente, evocativo, più indefinito, persino misterioso; e dal suo autentico struggimento e realismo pessimista, azzarda visioni, più che programmi e analisi scientifiche. Non trascurando la loro utilità per una militanza e un risveglio dal basso; a cui dedica ancora una parte del suo tempo. Dove il pertugio? Non tutto è colonizzato e colonizzabile. Nella profondità dell’umano, la sonda del pensiero critico può trovare grandi sorprese e la “libertà” dello spirito. Spirito, sfuggente come la vita stessa. Non misurabile, non calcolabile, non prevedibile. Eppure insopprimibile; perché è un “sì” alla vita che contrasta l’inerzia delle cose, la passività e la pigrizia manipolabile.

Ci sono molti echi di un altro gigante del pensiero della sinistra: Pietro Ingrao. È come un tirare su per i capelli gli esseri umani dalla poltiglia indistinta e massificata del melmoso presente. È una frontiera oltre la quale la mercificazione, a certe condizioni, trova territori di indisponibilità. È il pensiero che va “oltre”, si sottrae, non viene a patti, cerca solidarietà tra affini, smuove il terreno per percorsi molteplici e in ombra. È un lavoro in gran parte molecolare. Pretende tempi lunghi. E pretende una politica già da oggi in grado di produrre cultura, dubbio, riflessione in movimento; rifuggendo un democraticismo inconcludente, ramificazione e rimbombo del messaggio dominante.

Quando, invece, occorre alludere a nuove forme “ordinatrici”; che disordinano l’ordine universalmente definito da una manciata di potenti. Insomma: la sconfitta subita non è solo sociale e politica. Piuttosto antropologica. È lì che si verifica la contraddizione fondamentale. Si è aperta una crisi di civiltà; ormai messa in discussione, da un paradigma che tutti gli altri ingoia.

Tronti suggerisce spunti di azione. Senza illudersi. La transizione, se vi sarà, durerà molto tempo. È impervia. Non spingere in avanti alla cieca è dimostrazione di forza ed è la sola possibilità per una “epifania” di sbocchi allo stato attuale difficilmente decifrabili. È giusto prendere atto dell’oscurità che ci circonda; continuando a tentare di accendere luce. La crisi di civiltà inchioda tutto il passato al presente. Lo consuma e lo svilisce. Nega anche il futuro; perché il presente si può innovare esclusivamente entro i suoi stessi confini. Una reiterazione che assomiglia a un istinto di morte. La “libertà” dello spirito è, al contrario, il recupero di tutto ciò che si vorrebbe perduto. Non solo il lascito della nostra parte. Piuttosto le “idee” di tutto il grande pensiero. Gli autori, i filosofi, i politici, anche del campo che abbiamo combattuto. Perché da lì si può imparare. Soprattutto da quelli che hanno visto per primi il “demonio” dell’Occidente e lo hanno penetrato con occhio follemente lucido. Dostoevskij e Nietzsche, sopra ogni altro.

In questo senso, la prospettiva di Tronti è catecontica. La storia va frenata, va rallentata nella sua corsa verso un burrone e la liquidazione dello spirito. Altro che una generica innovazione, sulla quale competere con i nostri avversari! È stata questa la via che ha portato alla subalternità della sinistra. Rallentare, invece, per non nutrire ancor di più uno sviluppo malsano, inumano e distorto. Prendere tempo; per riorganizzarsi. Semmai ammassare ai confini dello scontro, tutto il materiale più significativo di una tradizione antica; utile ad affinare le coscienze e a contrastare il silenzio.

Immaginare un “oltre”; non come un disegno definito. Piuttosto come l’impulso incancellabile e insopprimibile alla libertà. Occorrono “profeti”. Da non intendere come sognatori o indovini del tempo che verrà. Semmai come testimoni di un possibile altro “luogo”; in grado di mettere in tensione il presente. Per comprenderlo con più profondità nelle sue faglie nascoste, nei suoi sviluppi autentici, nella dialettica che nutre, seppure negata dal potere.

Tronti ragiona in termini di una nuova “teologia politica”. In odio al presente. Un al di là che per i credenti è il destino della verità celeste e per i non credenti la possibilità dell’essere umano di innalzare l’essere umano. Nel segno dei tempi, sottolineo io, questi percorsi si dovrebbero intrecciare. Tra socialismo e cristianesimo, tra le parole di Francesco e il recupero di una laica integrità umana, ci sono assonanze, da non far morire. La stessa preghiera come ricorda Taubes: “E anche qualcos’altro rispetto al canto nella Chiesa cristiana: pregando si grida, si geme, si prende d’assalto il cielo”. Credo sia questo il pregare che impegna Tronti. Anche nei suoi frequenti ritiri nella dimensione del convento.

Ecco il perché degli auguri a un maestro. So che egli non gradisce questa definizione. Gli insegnamenti nascono nel fuoco dei grandi stravolgimenti storici. La Rivoluzione francese, la comune di Parigi, la rivoluzione dei soviet, le lotte operaie e sociali. Tutto questo produce pensiero. Altrimenti ammuffito, nella normalizzazione gestita dai forti. Ma chiamarlo maestro, per me, non è pretendere da lui lezioni, che non intende impartire. Piuttosto testimoniare una gratitudine a una presenza militante e al tempo stesso speculativa, che ha segnato la nostra storia e le nostre vite. Goffredo Bettini 12 Luglio 2023

Dalla pagina Facebook di Goffredo Bettini lunedì 7 agosto 2023.

Qualche settimana fa avevo scritto un lungo "elogio" a Mario Tronti. Per il suo 92° compleanno. Mi aveva risposto: "Carissimo Goffredo, intanto un grazie di cuore. Scusa il ritardo della risposta, ma ho voluto gustare e meditare lo scritto, come merita. E’ bellissimo e non c'è da aggiungere altro, né da modificare. Non mi è mai capitato di leggere su di me cose così precise ed esaurienti. Un grande abbraccio, Mario" 

Oggi mi è giunta una telefonata della figlia, che mi ha comunicato la sua scomparsa. Sono contento, nel mio piccolo, di avergli reso omaggio. E non giova, in questa dolorosissima occasione, ripetere ciò che è stato già detto. Solo un pensiero, che trafigge, alla consapevolezza che non c'è più.

Con Tronti se ne va una "forma", uno stile, un modo di essere, un approccio, un suono delle parole, l'intercalare lento che prepara l'affondo, il pudore dei grandi, la tenacia dei rivoluzionari, l'educazione e la nobiltà del popolo, l'odore dei "mercati generali", il disprezzo per il narcisismo, l'odio per la merce, la speranza dello "spirito libero", l'indifferenza per la piccola borghesia che annaspa, la pietà e lo sdegno per gli "offesi" del mondo, le camminate solitarie, i tram e il metrò, le biblioteche, lo sguardo che lacrima di nostalgia perché non hai fatto tutto ciò che potevi fare e lo hai lasciato andare, il fastidio per la volgarità, i gesti smisurati, gli schiamazzi che disturbano la quiete, la tracotante manifestazione di te medesimo, penosa illusione di segnalarti all'universo che tutto ignora.

Tronti è un contenuto. Per me, radicalmente una forma, che ha lottato contro la deformazione di tutte le forme decretata dalla forma-mondo del capitalismo odierno che tutto rende cosa. 

Addio, amico caro.

Nulla di te potrà essere disperso da chi ha attinto al tuo pensiero.

Morto Mario Tronti, intellettuale a lungo militante del Pci e poi senatore del Pds. «Le sue riflessioni, sempre percorse dal dubbio, le sue analisi, mai banali, ma anche il suo impegno politico intenso e diretto rappresentano un patrimonio da non disperdere», ha detto la segretaria del Pd, Elly Schlein. Giacomo Puletti su Il Dubbio il 7 agosto 2023

É morto il filosofo Mario Tronti, a lungo militante del Pci e poi senatore del Pds nell'undicesima legislatura e del Pd nella diciassettesima. Aveva compiuto 92 anni il 24 luglio scorso, e subito sono arrivati i messaggi di cordoglio dal mondo della politica. 

«Con Mario Tronti scompare un intellettuale raffinato, in costante ricerca, che ha dato un contributo molto profondo alla sinistra italiana ed europea - ha detto la segretaria del Pd, Elly Schlein – Le sue riflessioni, sempre percorse dal dubbio, le sue analisi, mai banali, ma anche il suo impegno politico intenso e diretto rappresentano un patrimonio da non disperdere. Tutta la comunità democratica si stringe attorno alla sua famiglia e ai suoi cari». 

«Ci lascia un grande intellettuale, il padre dell’operaismo italiano – scrive Massimiliano Smeriglio, eurodeputato S&D – Un narratore lucido del ‘900 e di questo scorcio di secolo. Che la terra ti sia lieve compagno Mario». 

Si unisce al coro anche il capogruppo dem al Senato, Francesco Boccia. «Esprimo a nome mio personale e da parte delle senatrici e dei senatori del Pd profondo cordoglio alla famiglia e a tutti i suoi affetti più cari - spiega Boccia – Tronti è stato un filosofo, un grande intellettuale, un uomo politico che lascia un segno indelebile nella storia della sinistra italiana». 

Morto Tronti, comunista eretico e garantista. Teorico dell'operaismo, non si abbandonò mai alle derive giustizialiste del Pd. Gian Maria De Francesco l' 8 Agosto 2023 su Il Giornale.

«La legalità democratica non ha molto a che fare con il giustizialismo e neanche con il garantismo, peloso o sbraitato che sia». Il filosofo Mario Tronti, scomparso ieri all'età di 92 anni, amava spiazzare la sinistra con queste sortite che parevano tradire la sua storia intellettuale, intrisa non solo di Marx ed Engels ma anche di Togliatti e Berlinguer. Questa affermazione restituisce i motivi del perché nella sua carriera parlamentare (è stato senatore del Pds dal 1992 al 1994 e del Pd dal 2013 al 2018; ndr) non si sia mai abbandonato alle pulsioni manettare dei suoi compagni di partito. Quando gli sembrava che la giustizia stesse facendo politica e che una parte del Parlamento si appoggiasse ai magistrati per trarne legittimazione alle sue battaglie, egli si sottraeva, si tirava indietro.

Un paradosso molto difficile da comprendere se si collega questo suo atteggiamento garantista a uno spirito profondamente rivoluzionario. Ed è proprio da Engels che bisogna partire per cercare di interpretarlo. «Engels aveva sottolineato i vantaggi della democrazia e aveva sottolineato la disperazione dei reazionari di fine Ottocento davanti ai risultati elettorali; gridavano: la légalité nous tue, la legalità ci uccide». È questa una delle glosse trontiane al problema della rivoluzione che viene superata o, per meglio dire, «sussunta» in una nuova categoria che è l'«autonomia del politico».

Ora, se il nostro lettore si confrontasse con la biografia di Tronti potrebbe confondersi. Romano di Ostiense, padre comunista, laurea in filosofia alla Sapienza con Ugo Spirito e, soprattutto, innovatore della ricerca sul pensiero marxiano con Operai e capitale e, soprattutto, con la fondazione assieme a Raniero Panzieri dei Quaderni Rossi. Insomma, cosa c'entra il garantismo con il curriculum di questo preclaro docente dell'Università di Siena?

È un percorso difficile da ricostruire se si pensa che il pensiero di Tronti ispirò Toni Negri, motivandolo a fondare la rivista Potere Operaio da cui poi si originò l'omonimo movimento politico nel quale militarono Franco Piperno, Oreste Scalzone e poi Valerio Morucci. Ebbene, la ricerca trontiana era iniziata con una rilettura più autentica di Marx a partire dai Grundrisse nei quali il filosofo tedesco iniziò a delineare la correlazione tra rapporti di produzione e forma dello Stato. Dunque, per la prima volta, si apriva alla filosofia e al pensiero politico la possibilità di un'analisi «dal basso» della condizione operaia e della liberazione dello stesso «operaio-massa» dal dominio del capitale che, in quest'ottica, lo trasforma in merce.

Ma se per Toni Negri e i suoi estimatori (come Gilles Deleuze e Félix Guattari) questa analisi doveva necessariamente sintetizzarsi nella «sovversione» le cui modalità possono giustificare anche forme estreme di lotta, Tronti si sganciò preventivamente da queste derive elaborando proprio il concetto di «autonomia del politico». È la politica che deve recepire le indicazioni e creare un luogo per il raggiungimento degli obiettivi «proletari».

Tronti criticò Negri e i sessantottini («Non era il rosso dell'alba, bensì quello del tramonto»). Non gli piacevano né il «campo largo del Pd» né Conte. D'altronde, Giuseppi ed Elly assomigliano più a Toni che a lui.

Mario Tronti era una speranza di pensiero nel deserto della sinistra”, il ricordo di Sergio Cofferati. Umberto De Giovannangeli su L'Unità l'8 Agosto 2023

Il “padre” dell’operaismo ricordato, nel giorno della sua scomparsa, da colui che è stato il leader della più grande organizzazione sindacale. Una vita nel sindacato, nella Cgil, della quale è stato segretario generale dal giugno 1994 al settembre 2002, promotore della più grande manifestazione di piazza nella storia del dopoguerra. Mario Tronti visto da Sergio Cofferati.

Cosa ha rappresentato per il movimento operaio e sindacale Mario Tronti?

Una interlocuzione di altissimo valore. Il suo pensiero, e la traduzione di esso in testi scritti hanno aiutato la discussione interna alle organizzazioni compresa la Cgil, per tanto tempo. È stato uno stimolo importante, non solo perché quello di Mario Tronti era un pensiero profondo, ma anche perché aveva sempre il coraggio di affrontare, a volte con largo anticipo, i temi che riguardano il lavoro e l’economia, anche in contrasto con i comportamenti e le opinioni prevalenti in quel momento.

Mario garantiva dialettica e profondità nella definizione dei temi che erano oggetto di confronto, discussione, ricerca. E questo è stato per tutta la sinistra, non solo per le organizzazioni, ma in generale per chi ha vissuto e lavorato. L’elaborazione di Mario Tronti è stato uno stimolo importante per chiunque abbia lavorato con una visione progressista di riferimento.

Mario Tronti è stato giustamente definito il “padre” dell’operaismo. Cosa ha rappresentato quello specifico pensiero, anche nello sviluppo del conflitto di classe e delle stesse organizzazioni, sociali e politiche, che a quella classe facevano riferimento?

È stato in primo luogo uno stimolo a cercare sempre di dare sostanza alle azioni necessarie nel mondo della rappresentanza, sia quella politica sia quella sociale. E poi ha consentito di guardare in profondità ad alcuni fenomeni che, purtroppo, tanti soggetti guardavano con distrazione o addirittura ignoravano. Cosa ha rappresentato il lavoro industriale e le persone che lo praticavano, qualunque fosse il dettaglio, è sempre stato molto importante, soprattutto in tutto il dopoguerra, quando in Europa, oltre che in Italia, l’uscita dalle dittature ha consentito alla democrazia di dispiegarsi, però l’ha spinta, in qualche circostanza viene da dire costretta, a fare i conti con la società nella quale la democrazia si sviluppava, si radicava. La società nei suoi contenuti, sia quelli ideali che quelli materiali. Quando dico quelli materiali, penso a quelli che riguardano ciò che poi è stato realizzato per rappresentare le imprese, per rappresentare il lavoro, in generale per l’economia. E Mario in questo ha avuto un ruolo molto, molto importante, riempiendo dei vuoti che la semplice rappresentanza non era stata in grado qualche volta neanche di percepire.

Nella sua ultima, impegnata intervista, concessa a l’Unità nei primi giorni del suo ritorno in edicola, segno tangibile e illuminante del suo legame con il giornale fondato da Antonio Gramsci, Mario Tronti ragionò proprio sull’attualità del pensiero gramsciano, rideclinandolo in rapporto alla società dei lavori oggi.

Uno stimolo del tutto positivo. Gramsci nelle sue riflessioni, nelle sue proposte, parte dalla società del suo tempo, ma i valori e le dinamiche, come giustamente sottolineava Tronti in quell’intervista, che Gramsci esplora e propone, sono connesse al tema generale, all’economia e al lavoro, al livello più alto che possono avere. E poi come l’economia e il lavoro in quel periodo storico si stanno sviluppando oppure stanno regredendo, è dato dalle caratteristiche di dettaglio della loro composizione. Ma la dimensione generale vale nel tempo, si forma con comportamenti e attività diverse da quelle precedenti, ma sempre lì ritorna.

In questo c’è ancora oggi un’attualità, una modernità del pensiero di Mario Tronti?

Sì. Poco percepita, secondo me, ma c’è ancora. E c’è bisogno anche di approfondimenti culturali come quelli che lui garantiva. C’è un vuoto da colmare.

“Comunque, come programma minimo, vorrei che si cominciasse a ragionare di politica e memoria, politica di parte e memoria di parte. Poi, nella irrazionalità della storia, potrebbe accendersi una scintilla. E se capace di incendiare la prateria, questo spetterà a chi sapremo lasciare il testimone”. Così Tronti conclude la sua ultima intervista a l’Unità.

Come considerazione, come ipotesi, è molto affascinante. Ma è molto difficile che si realizzi perché la sinistra di oggi è poco incline a guardare lontano e ancor meno a guardare la storia passata. Vive molto alla giornata, senza progetti.

Progetti che potrebbero essere ambiziosi, qualche volta addirittura esagerati. Un progetto stimola sempre azioni e partecipazione, ma oggi di tutto questo non si vede traccia.

Questo “deserto” non è dovuto anche a un regresso delle responsabilità di quello che un tempo si sarebbe definito il mondo dell’intellettualità. Anche su questo Tronti amava ragionare, con una lucidità “impietosa”.

Mario aveva ragione anche in questo. Le responsabilità sono molteplici e diffuse. Ci sono quelle delle organizzazioni di rappresentanza che tendono a vivere alla giornata, senza un progetto che guardi lontano. Poi la realizzazione del progetto può essere molto difficile, complessa, conflittuale, ma il progetto dà vita e oggi di questo non c’è traccia.

E poi, certo, in parallelo c’è il venir meno di un lavoro intellettuale. L’attività intellettuale dovrebbe essere rivolta sempre a guardare il futuro e a cercare le soluzioni che lo possano rendere migliore, più facile da realizzare. E questo oggi purtroppo non c’è. C’è una dimensione intellettuale molto ristretta, angusta, che fatica a guardare al tempo ravvicinato e ignora completamente il tempo lontano, tant’è che poi ci si trova di fronte a cambiamenti, che riguardano l’economia, la società, l’ambiente, improvvisi che non sono stati minimamente affrontati nei segnali che avevano dato in passato dall’intellettualità.

Mario era fatto di un’altra pasta. Ci mancherà. Umberto De Giovannangeli 8 Agosto 2023

Massimo Cacciari ricorda Mario Tronti: “Siamo stati sconfitti”. Umberto De Giovannangeli su L'Unità il 10 Agosto 2023 

“Caro Mario, le stelle di quel pensiero critico che ti ha sempre ispirato, non brillano più in questa povera Italia annichilita da un pensiero unico che ha fatto strame di ogni criticità. Siamo stati sconfitti, ma non per questo ti sei, ci siamo arresi o peggio ancora passati al nemico”. Mario Tronti e l’Italia di oggi. La parola a Massimo Cacciari.

Mario Tronti, il suo pensiero, la sua praxis e l’Italia di oggi. Cosa ne resta, professor Cacciari?

È un altro mondo. È molto difficile stabilire dei rapporti. Mancano tutti quei riferimenti. Navighiamo sotto un altro cielo. Non ci sono più le stelle che c’erano allora. Mario sapeva benissimo che la rotta non poteva più essere quella, che non si trattava semplicemente di naviganti inesperti, ma si trattava di navigare sotto un altro cielo. Non c’erano più le stelle polari d’allora. Quei riferimenti sociali, quei soggetti, nel senso letterale del termine, quelle forze che sostenevano la tua azione, la tua prassi, sono venute meno. Non è possibile istituire paragoni.

A unirvi è stato un percorso di ricerca politica e culturale che ha lasciato un segno nella sinistra.

Oggi francamente non so, ma certo è stata una esperienza, un’avventura collettiva indimenticabile per quanti l’hanno vissuta. Penso agli anni a cavallo tra la fine degli anni ’70 e gli inizi degli anni ’80, quando con Mario si tentano esperimenti tipo Laboratorio politico e Il Centauro, nei quali lavoravano tutti gli intellettuali che nel bene e nel male hanno fatto la storia culturale italiana degli ultimi trent’anni. Si lavorava attorno alla coscienza che cambiavano le costellazioni, in cielo e in terra, sia i riferimenti ideali che i soggetti pratici, organizzati, politici. Iniziare una nuova rotta, definire nuove forme organizzative, individuare nuovi soggetti. Questo fu lo sforzo di quegli anni. Non è mancasse la coscienza, in Mario tanto meno. Quando si passa dal discorso operaista classico, tra gli anni ’60 e ’70, al tema dell’autonomia del politico. Lì c’è un salto netto. Si capisce che quel soggetto a cui si faceva riferimento negli anni ’60, viene meno. E viene meno per due fattori fondamentali…

Quali, professor Cacciari?

L’incapacità da parte di quello che allora si diceva movimento operaio di organizzare un esito politico alle lotte sviluppate tra gli anni ’60 e ’70, l’autunno caldo. L’inadeguatezza totale, su cui Laboratorio politico insistette molto, del compromesso storico, che fu una grande iniziativa politica ma del tutto inadeguata per dare risposta ai contenuti di quelle lotte, da un lato. E dall’altro, la controrivoluzione capitalistica globale, rappresentata dai Reagan, dalle Thatcher, dalla crisi delle socialdemocrazie e dei socialismi in Europa. Ricordo un lungo, ficcante saggio di Umberto Coldagelli sulla crisi della sinistra francese. Non è che mancasse l’analisi, la consapevolezza. C’è un ceto intellettuale, da Mario, per un verso, ma anche De Giovanni dall’altro, Asor, o i più giovani, come Marramao, me, Giorgio Agamben, Roberto Esposito, che consapevolezza ne aveva. Ma non ce l’abbiamo fatta. È stata una sconfitta. Una sconfitta di cui Mario è dolorosamente consapevole in tutti gli anni successivi. Senza per questo arrendersi. Non è che quando sei sconfitto devi arrenderti e tanto meno passare dalla parte del nemico. Ad accompagnarci è stato anche un certo disincanto, che forse è stato una lezione di vita. Dolorosa ma formativa.

In che senso?

Non siamo mai rimasti incantati o illusi sulle nostre capacità e sulla situazione in cui ci riversavamo. Questa è la storia. La storia di due generazioni, quella di Mario, di Asor, per un verso molto lontano ma pur analogo di Toni Negri, e quelli più giovani. Quelli della generazione ancora successiva appartengono ad un’altra era glaciale. Può esistere una sinistra senza un pensiero forte… Certamente non può esistere una sinistra senza pensiero critico. Questo è pacifico. Prim’ancora che si potesse parlare di sinistra, di destra, è tutta la origine illuministica e pre-illuministica di tutto ciò che si potesse dire vaghissimamente di sinistra, nasce dal pensiero critico. È un pensiero critico. Un pensiero che non si adatta alla situazione da nessun punto di vista. Se manca ironia e paradossalità, che erano grandi doti di Mario, non ci può essere sinistra. La sinistra può essere tutto quello che vuoi ma non può non essere pensiero critico. È un punto di vista, un atteggiamento culturale, intellettuale, di radicale, costante insoddisfazione rispetto allo stato di cose esistenti. Se manca questa energia, se tutto si risolve in adattamento e compromesso, tutto ci può essere fuorché una sinistra. Dopo di che è chiaro che si deve passare ai contenuti, ai programmi, ai progetti e tutto deve essere realistico, non ci deve essere utopia, benissimo. È la lezione che abbiamo sempre cercato di combinare tra il miglior Marx e i Max Weber, gli Schumpeter ecc. Questo va rivendicato a merito di questa “scuola”. Nessuna ideologia, nessun vogliamoci bene, nessun irenismo. Nulla a che fare o a che vedere con questo dulcorame che è diventata la cosiddetta sinistra, per carità. Pensiero critico può essere la scuola di Francoforte, può essere quello che vuoi, ma prima di tutto è un atteggiamento nei confronti della realtà che caratterizza una cultura di sinistra.

Lei parla di una sinistra “edulcorata”…

C’è stato uno smottamento di tutta la sinistra, anche sindacale, dalla capacità di rappresentare quella che storicamente è la loro base sociale. Basta vedere la geografia del voto delle ultime elezioni. Se avessero votato quelli sopra i 65 anni il Pd avrebbe il 28%, se avessero votato solo quelli sotto i 25 anni il Pd avrebbe il 12, se avessero votato quelli con il reddito medio alto il Pd sarebbe il primo partito, se avessero votato i più poveri sarebbe l’ultimo. Questi qui hanno pensato che siccome non c’era più la centralità della fabbrica, della classe operaia si fosse giunti al punto della famosa società liquida, dove i partiti diventano semplicemente movimenti di opinione senza più differenze, ed hanno perso completamente di vista il fatto che la società è fatta di tanti settori molto differenziati e le disuguaglianze aumentano. I partiti della sinistra non si sono resi conto di questo e hanno smesso di rappresentare queste disuguaglianze in una situazione nella quale le differenze si moltiplicano.

Temi cruciali, peraltro affrontati con la consueta passione civile e lucidità intellettuale da Mario Tronti nella sua ultima intervista, concessa a l’Unità. E qui torniamo al pensiero critico: Un pensiero non può non riguardare un tema cruciale, di drammatica attualità come è quello della guerra.

È evidente. Nessun irenismo pacifistico. Fintanto che ci saranno uomini, ci saranno nemici, citazione di Petrarca. Detto questo, il comprendere realisticamente le cause dei conflitti, sapere che nel mondo contemporaneo il conflitto è produttivo, a differenza dell’idiotismo che ti racconta che le guerre sono solo distruzione, sono solo sciagure, follie, questo irenismo pacifistico non porta da nessuna parte. Capire che le guerre sono grandi e tragici momenti costituenti. Costituenti di ceti politici, di classi dirigenti, di diritti… Comprenderne le cause, e aggiornare questa comprensione. Non potremmo più accontentarci di spiegazioni vetero marxiste del tipo che le guerre sono semplicemente frutto di contraddizioni intercapitalistiche, imperialistiche. Continuo sforzo critico di aggiornamento senza nessun irenismo e con la volontà ferma di giungere alla eliminazione della guerra come guerra tra popoli, come guerra tra nazioni, e invece la positività del conflitto interno. Questo è il punto fondamentale. Il conflitto interno. Il conflitto tra interessi, il conflitto tra idee, il conflitto tra strategie, è l’anima dello spirito europeo. Quindi positività del conflitto e di ogni sforzo per eliminare la guerra tra Stati, che rappresenta la combinazione virtuosa nel pensiero di Mario.

Una idea di conflitto che genera riconoscimento reciproco.

Questa idea di un conflitto che crea riconoscimento è l’idea fondamentale per intendere come il rapporto e la genesi delle identità e delle differenze siano un processo, una dinamica e non possano essere ridotte ad una serie di definizioni a priori immutabili e valide in ogni momento e in ogni luogo.

Lei ha usato il termine conflitto, un tempo si sarebbe detto lotta di classe.

Certo che sì.

Ma perché se ne ha così tanta paura, anche solo ad evocare la lotta di classe?

Perché hanno vinto quelli che hanno fatto credere che c’è il popolo, che c’è la gente. È passata questa straordinaria ideologia, ideologia nel senso critico, marxiano del termine, per cui, appunto, noi siamo “un popolo”, “una gente”, e tutte le differenze interne al concetto di popolo scompaiono, totalmente cancellate. Differenze interne al popolo che erano presenti anche ai tempi dell’antica Roma. Popolo è un concetto politico, non è tutto il popolo. Il popolo è quella parte di Roma che era organizzata nei suoi comizi, che ha una sua valenza politica la sua autonoma rappresentanza politica e confligge, un concetto quello di “cunfliggere” in cui vale anche il “cun”, non soltanto la lotta, con il Senato. Mentre è passata una ideologia del tutto funzionale al potere dominante per cui siamo un popolo e dentro quel popolo non c’è conflitto, o non deve esserci conflitto. Tipico del pensiero non critico. Critico vuol dire “crisi”, vuol dire divisione, vuol dire distinzione, vuol dire discernere, tutto questo vuol dire critico. Il pensiero non critico è il pensiero che tende sempre, per propria natura, ad essere pensiero unico. Pensiero unico è letteralmente l’opposto del pensiero critico. Il pensiero critico è pensiero che si sa parziale, che si sa in conflitto, il che non vuol dire che ciò con cui confliggi è sia il tuo “Nemico” assoluto. Questa è una semplificazione “schmittiana”, tra amico-nemico ci sono infiniti intermedi. Ma certo non c’è il “popolo”. È una invenzione del pensiero dominante, cioè del pensiero unico. Contro cui Mario si è sempre battuto. Umberto De Giovannangeli 10 Agosto 2023

Addio al presidente di Saclà, è morto a 84 anni Lorenzo Ercole. La sua vita è stata completamente dedicata all'impegno nell'azienda fondata dal padre: Cavaliere al merito del lavoro, fino all'ultimo ha creduto fortemente nel progetto del nuovo stabilimento a Castello D'Annone. Lorenzo Grossi il 5 Agosto 2023 su Il Giornale.

Lorenzo Ercole, presidente della Fratelli Saclà, è deceduto nella tarda serata di ieri all'età di 84 anni. Era ricoverato all'Ospedale di Asti. Cavaliere al merito del lavoro, lo scorso anno aveva ricevuto il distintivo d'oro per i 25 anni dalla nomina dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Nel 2021 aveva partecipato, con tutta la famiglia, all'inaugurazione di via Pierina Campanella, cofondatrice con il marito, Secondo "Pinin" Ercole, della Saclà, nella zona industriale di corso Alessandria ad Asti. Al suo fianco di Lorenzo, nel momento dell'addio, c'erano la moglie Fernanda e la figlia Chiara, che è adesso al timone dell'azienda di famiglia. La giovane Ceo rappresenta la terza generazione al comando del brand ideato nel lontano 1939 da Secondo Ercole e sua moglie Piera Campanella. Fu loro l'intuizione di conservare gli ortaggi di stagione della valle del Tanaro per poterli rendere pronti all'uso tutto l'anno. Gli anni del grande sviluppo si sono poi susseguiti sotto la guida di Lorenzo e di Carlo, il quale compirà 92 anni a settembre.

Il successo decennale di Saclà

Oggi, con circa 250 addetti (tra interni ed esterni) e 140 milioni di fatturato, Saclà esporta il 50% dei prodotti in 70 paesi del mondo, da Est a Ovest. La famiglia aveva poi lavorato all'ultimo grande progetto fortemente voluto da Lorenzo Ercole: il nuovo stabilimento inaugurato nel 2022 a Castello d'Annone. Si parla di 28mila metri quadrati coperti su un'area di 165mila metri quadrati. "Era un sito industriale in disuso, ci sono voluti anni per smantellarlo e ideare il nuovo lay out con tecnologie di ultima generazione. Papà oggi non è potuto intervenire oggi ma questo è stabilimento è la concretizzazione del progetto che ha voluto fin dal 2014", aveva raccontato Chiara, con un pizzico di emozione.

Le olive Saclà vennero lanciate sul mercato nel 1960 ed entrarono immediatamente nel cuore dei consumatori grazie (soprattutto) lo spot su Carosello che canticchiava "Olivolì Olivolà le olive Saclà!", restano il cavallo di battaglia. Tra vasetti, buste e latte le confezioni sfiorano i 28 milioni di pezzi. Sottoli e sottaceti sono gli altri prodotti di punta dell'azienda ma non mancano le novità come le recentissime salse etniche. Da anni è presente anche la linea bio che include succhi di frutta e marmellate. Appassionato al suo lavoro come allo sviluppo del territorio, Lorenzo Ercole è stato un punto di riferimento per i colleghi imprenditori in seno a Confindustria. Non è stata ancora nota la data dei funerali. Lorenzo Grossi

(ANSA sabato 5 agosto 2023) - "Caro Idris, quanti ricordi e quante risate! Grazie per la tua amicizia e la tua ironia. Sono stati anni bellissimi quelli che abbiamo trascorso insieme. Mancherai tantissimo". Lo scrive su twitter Fabio Fazio.

(ANSA sabato 5 agosto 2023) - Alla rassegna La Terrazza di San Casciano dei Bagni, salotto culturale senese, Fabio Fazio, commosso, ha ricordato l'amico Idris Sanneh, tifoso juventino di Quelli che il calcio, scomparso il 4 agosto: "Una persona di grande simpatia, generosità, schiettezza. In quel mondo paludato del calcio arrivò quella trasmissione dove c'era un inviato della borsa che andava negli stadi, una suora che urlava come una pazza, Idris che era incontenibile: è stata una rivoluzione vera", ha detto il conduttore.

Fazio, appena passato al canale 9 del gruppo Warner Bros - Discovery Italia, ha anche svelato anticipazioni sul nuovo show che sarà ancora intitolato Che tempo che fa: "Sarà ospite fissa Ornella Vanoni che rivelerà il suo diario segreto. È per il pubblico giovane perché non conta l'età anagrafica, ma la sua imprevedibilità perché lei è davvero capace di tutto". 

In trasmissione ci sarà anche Nino Frassica, oltre alle già annunciate Luciana Littizzetto e Filippa Lagerback. Il conduttore ha ricostruito infine la separazione dalla Rai: "Quando hai un contratto d'affitto in scadenza e non ti viene rinnovato, nonostante mesi di trattative che improvvisamente si interrompono, se arriva l'occasione di essere accolti in un'altra casa ospitale si va in quella casa dove ho trovato un ambiente davvero entusiasta", ha dichiarato Fazio, riferendosi a Discovery Italia, per poi ammettere di trovarsi spesso in difficoltà con il suo inglese.

Estratto da gazzetta.it sabato 5 agosto 2023.

Il giornalista e opinionista televisivo Idris, al secolo Edrissa Sanneh, si è spento oggi a Brescia all'età di 72 anni nella struttura ospedaliera in cui era ricoverato da tempo. 

Nato a Brufut, in Gambia, il 2 gennaio 1951, Edrissa Sanneh era arrivato in Italia nel 1972 grazie a una borsa di studio ottenuta presso l'Università per Stranieri di Perugia, ma dopo aver trascorso del tempo nella città umbra decise di trasferirsi a Brescia, dove ha terminato gli studi e iniziato a lavorare come DJ.

[…]  Il suo debutto televisivo avviene grazie all'emittente locale RTG Radio TeleGarda, ma la svolta arriva nel 1989 quando partecipa e vince il programma di Canale 5 Star 90, dedicato alla scoperta di nuovi talenti. Da lì ci furono altre partecipazioni a programmi televisivi come La ruota della fortuna e Il Quizzone […] e il programma che gli diede la notorietà, Quelli che il calcio. 

Conosciuto da tutti come Idris, Edrissa Sanneh partecipò in qualità di ospite alle edizioni del programma nel 1994, nel 2000 e poi ancora nel 2007 e nel 2009. Nel 2005 fu tra i concorrenti de L'Isola dei Famosi” e nel 2016 partecipò come ospite a Grand Hotel Chiambretti. Nel corso degli anni Idris ha intrapreso anche la carriera di attore, recitando nel film Bianco e nero di Fabrizio Laurenti nel 1990 e nel film Tifosi di Neri Parenti del 1999, ma anche nella serie tv Butta La Luna tra il 2006 e il 2009. 

[…]  Idris è sempre stato un grande tifoso della Juventus, fin dal suo arrivo in Italia, ed è proprio grazie a questa sua passione che è riuscito a far breccia nel cuore del pubblico italiano, anche se negli ultimi anni la sua presenza sulle principali emittenti nazionali si era ridotta. Edrissa Sanneh lascia la moglie e le quattro figlie nate in Italia dal suo lungo matrimonio. […] 

BIOGRAFIA DI IDRIS

Da cinquantamila.it – la storia raccontata da Giorgio Dell’Arti 

• (Edrissa Sanneh) Brufut (Gambia) 2 gennaio 1951. Conduttore tv, giornalista, opinionista. «Il giornalista tifoso l’ho inventato io. Prima non esisteva nessuno, tra gli iscritti all’albo, che si schierava tanto apertamente. Poi sono venuti tutti a ruota». Nel 2005 partecipò all’ Isola dei famosi.

• Viene da una famiglia poligama: padre con quattro mogli e 21 figli. In Italia dal 1972 con una borsa di studio ottenuta all’Università per stranieri di Perugia, dj a Brescia, vinse un concorso indetto da Canale 5 per nuovi talenti (Star 90), divenne famoso nella trasmissione di Fabio Fazio Quelli che il calcio, alla quale partecipava nella veste di tifoso juventino. «L’amore per la Juve è nato in Africa. La squadra aveva comprato Nestor Combin, il mio idolo, dal St Etienne. È il ’66 e tutti in quel periodo tifano Inter, Milan o Benfica. Io, bastian contrario, scelgo i bianconeri e inizio a seguirli attraverso le pagine dell’Equipe. Amore eterno». Dal 2000 direttore del tg multietnico di ReteBrescia. 

• «Sono un musulmano all’acqua di rose, però durante il Ramadan perdo fino a 10 chili. Conosco donne che ne approfittano per dimagrire». 

• Ha fondato New Cold System, società che produce prodotti halal. 

• Un film nel 1990, Bianco e nero di Fabrizio Laurenti. Sposato con un’italiana, quattro figlie: Laura, Binta, Hadja, Hadin. Nonno di Pietro.

Estratto dell’articolo di Doriano Rabotti per ilgiorno.it sabato 5 agosto 2023. 

«Mi chiamava Muzungo, il mio grande fratello. Era una persona di una bontà e generosità uniche”. Marino Bartoletti ricorda così Edrissa Sanneh, noto a tutti come Idris, tifoso juventino lanciato da ‘Quelli che il calcio’ che è scomparso venerdì a Brescia all’età di 72 anni.

“Il suo personaggio nacque in un modo molto particolare: avevo presentato ad Angelo Guglielmi, direttore di Rai Tre, il progetto di ‘Quelli che il calcio’. Avevo ipotizzato personaggi un po’ particolari, quasi di fantasia. Non sapevo che uno di questi esisteva davvero: pensavo a un extracomunitario colto e simpatico, il regista Paolo Beldì mi disse che conosceva la persona giusta per quel ruolo. Lo provammo nel numero zero e non uscì più dalla trasmissione. Perdo un amico di una umanità unica, che si spendeva con generosità ogni volta che lo coinvolgevo in un progetto. L’avevo sentito qualche settimana fa. L’eredità più bella che lascia è l’amore di tutti nei suoi confronti: in un paese che è sempre spaccato dal tifo, a lui volevano bene tutti".

È morto il giornalista Idris Sanneh, era diventato famoso a «Quelli che il calcio». Wilma Petenzi su Il Corriere della Sera venerdì 4 agosto 2023.

Era ricoverato in Poliambulanza da una ventina di giorni. Non c'è stato nulla da fare. Aveva 72 anni. Lascia la moglie e quattro figlie. Era uno dei tifosi juventini più famoso e popolare

Idris, aveva 72 anni

È morto a Brescia, Idris, il personaggio televisivo e giornalista, grande tifoso della Juve. Era ricoverato in ospedale da alcune settimane. Edrissa Sanneh, questo il nome completo, originario del Gambia aveva 72 anni e viveva a Bedizzole in provincia di Brescia. 

La sua risata era sensazionale. Gli occhi immensi, la lingua veloce, la battuta pronta. Anche Fabio Fazio, che con «Quelli che il calcio» l’aveva fatto entrare nelle case degli italiani faceva fatica ad arginare il suo carattere, la sua vitalità. Idris Sanneh giganteggiava nello studio della trasmissione televisiva, inteneriva e divertiva con la sua passione immensa per la Juventus, la squadra di chi veste alla marinara, ma che accendeva il cuore di questo giovane africano trapiantato a Bedizzole, nel Bresciano.

Nato in Gambia, aveva 21 fratelli. In Italia Idris era arrivato nel 1972 con una borsa di studio ottenuta all’Università per Stranieri di Perugia. Dopo l’Umbria si sposta in Lombardia e sceglie Brescia dove, terminati gli studi, comincia a lavorare come dj nelle discoteche e nelle radio locali. La sua prima importante apparizione televisiva è nella trasmissione «Tele Vù Cumprà» prodotta e trasmessa dall’emittente locale RTG Radio TeleGarda, di cui rimase celebre lo sketch paradossale in cui Idris interpretava, parlando in dialetto bresciano, una persona che rifiutava di acquistare prodotti come fazzoletti di carta e accendini da un venditore porta a porta di pelle bianca.

I suoi esordi come giornalista sportivo risalgono al 1977 per RTV-Radio televisione bresciana (emittente locale confluita alcuni anni dopo in Retebrescia), dove conduceva anche il programma musicale settimanale Idris Show. Nel 1989 partecipa e vince a Star 90, programma di Canale 5 per nuovi talenti. Nel 1990 intraprende anche la carriera di attore, nel film «Bianco e nero» di Fabrizio Laurenti.

Tifoso della Juventus, la sua immagine è stata consacrata in anni di apparizioni alla popolare trasmissione televisiva Quelli che il calcio, condotta da Fabio Fazio: «È grazie al mio tifo per la Juventus che sono diventato famoso», ammetterà in un’intervista. Per anni si è occupato della direzione del Tg multietnico in onda su ReteBrescia. Idris è sposato con una italiana ed è padre di quattro figlie: Laura, Binta, Francesca Hadija e Hadin. Il 3 ottobre 2005 è diventato nonno del piccolo Pietro, figlio della figlia maggiore: «Voglio essere chiamato nonno Idris perché per me è un titolo nobiliare, mi fa onore». 

Nel 2005 ha partecipato all’Isola dei Famosi nel 2005, venendo eliminato nel corso della settima puntata con il 52% dei voti. Nella stagione calcistica 2010/2011 è stato opinionista calcistico nella trasmissione Bianco & Nero d’autore in onda su Teleromagna, la quale si occupa del Cesena.Nel 2011/2012 partecipa a Lato B, trasmissione sportiva sulla Serie B in onda su San Marino RTV. Dal 2012 torna a Quelli che il calcio, sempre come tifoso, e opinionista.

Ieri Idris ha scritto l'ultima pagina di una vita vissuta intensamente, sempre alla ribalta. È morto in una giornata senza calcio. La Juve ha perso uno dei suoi tifosi più singolari.

«Mi appare un sms col numero di Idris. Sorrido: come sempre. Poi mi si gela il sangue! “Ciao care amiche e cari amici, Idris Sanneh ha lasciato questa terra oggi, di venerdì, il suo giorno preferito, accompagnato dalle sue Donne e da tanto Amore. La mancanza che sentiremo è superata solo dalla straordinarietà della sua vita, dei suoi insegnamenti e del suo cuore…La sua presenza si rinnoverà ogni giorno nei cuori e nelle azioni di tutte noi… Inchallah Papà”. Mi chiamava “il mio Muzungo”, che stava per “grande fratello bianco”. E la nostra era veramente fratellanza pura, fatta di amore, di ironia, di complicità, di dolcezza. Era un uomo entusiasta, intelligente, tollerante, colto, spiritoso, riconoscente. Mi voleva un bene dell’anima. E io a lui! Quando usciva dalle righe mi chiedeva di "perdonarlo". Ed era fin troppo facile, vista la sua innocente bontà. Ma stavolta credo proprio che non ci riuscirò In questo mondo di divisioni infami sapeva sempre unire, mai dividere Se ne va veramente un pezzo della mia vita.

Inchallah mon frère. Bon voyage». Così sui social lo ricorda Marino Bartoletti, che con Idris era a «Quelli che il calcio», l'uomo moviola, a fianco del tifoso juventino. Colleghi in tv e amici inseparabili.

Cordoglio per la morte di Idris anche dalle figure istituzionali. «Con cordoglio partecipo al dolore dei familiari del caro Idris, una figura storica per lo sport, tifoso della Juventus, un bresciano doc. Impegnato anche nel sociale, primo promotore della Consulta per gli immigrati, si è sempre contraddistinto per la sua simpatia e professionalità» scrive Emanuele Moraschini, presidente della Provincia di Brescia.

La camera ardente per permettere ai fan di salutare Idris per l'ultima volta è stata allestita presso l'istituto ospedaliero Fondazione Poliambulanza di Brescia, l'ultimo addio sarà lunedì 7 agosto a Bedizzole.

Il toccante saluto della figlia di Idris: «Ciao papà, ci hai resi orgogliosi della nostra pelle, sei entrato nelle case dei razzisti». Massimiliano Del Barba lunedì 7 agosto 2023.

Treccine bionde e castane, Francesca Hadija ha raccontato il padre durante la cerimonia funebre a Bedizzole: «Sei stato grande come il mare» 

Treccine bionde e castane, un vestito bianchissimo che illumina la sua pelle nera. Prima che la terra umida del cimitero di Bedizzole, in provincia di Brescia, ingoi per sempre Edrissa Sanneh, per tutti Idris, Francesca Hadija, una delle quattro figlie del giornalista televisivo, storico volto di "Quelli che il calcio" scomparso venerdì 4 agosto, abbraccia la madre e racconta il padre, ne dipinge in pochi tratti il suo sorriso, intelligente e autoironico, un sorriso che lo ha rumorosamente contenuto per 72 anni.

«Parlava il dialetto bresciano e diceva Inshallah - dice con una voce spezzata che gradualmente conquista fermezza Francesca Hadija - . Aulico e popolare... aulico e popolare. Per noi è stato un mare e il mare non si può diluire, resta, con le sue onde, con la sua forza». Attorno a lei una folla bianca e nera - i colori della sua Juventus ma anche e soprattutto il melting pot sociale che la sua figura esplosiva ha saputo generare - le si stringe con forza. In sottofondo una preghiera in arabo. Poi solo la sua voce: «Mio padre è stato un uomo colto, simpatico e democraticamente nero. È stato talmente intelligente da riuscire a entrare nelle case di tutti, anche dei più razzisti. Mio padre c'era». 

Un discorso travolgente, che ha abbracciato la vita del giornalista dalla sua quotidianità familiare alle sue più intime convinzioni umane e politiche.  «Era un uomo aulico e popolare, era comunista, era un uomo politico e tutto ciò che ha fatto in vita è stato politico. Era un uomo di giustizia».

Infine la giovane donna si rivolge alle 500 - forse più, molte di più - persone presenti alla celebrazione funebre «Il vuoto che sentite è più del vuoto di una perdita di circostanza, ma questo vuoto dobbiamo riempirlo con i valori per i quali mio papà ha vissuto. Ovvero la bellezza, l'amore, la giustizia e l'unione. Che il sole irradi il tuo nome e che la notte ritmi il tuo canto. Ciao». 

Morto Angus Cloud, star di "Euphoria": aveva 25 anni. Scomparso per cause ancora da accertare, Angus Cloud, star di "Euphoria" e astro nascente hollywoodiano. Aveva solo 25 anni. Roberta Damiata l'1 Agosto 2023 su Il Giornale.

Aveva perso il padre la settimana scorsa, ed ora arriva la triste notizia che ha sconvolto il mondo del cinema, che anche lui, Angus Cloud, giovane star della serie cult Euphoria intepretata da Zendaya, è morto all'età di soli 25 anni. A darne notizia per primo il sito di TMZ, riportanto un commovente annuncio della famiglia del giovane attore. “È con il cuore spezzato che oggi dobbiamo dire addio a un incredibile essere umano”, ha dichiara in una nota con cui comunicava la morte di Cloud. “Come artista, amico, fratello e figlio, Angus era speciale per moltissime persone in tantissimi modi diversi”.

La tragica scomparsa del padre

“La settimana scorsa Angus ha dato l’addio a suo padre, e stava affrontando intensamente questa perdita”, continua la nota. “Il solo conforto che abbiamo ora è sapere che ora si è riunito a suo padre, che era il suo migliore amico. Angus ha parlato apertamente della sua lotta per la salute mentale, e speriamo che la sua morte possa essere un monito per tutti quelli come lui, che non devono sentirsi soli a lottare in silenzio”.

Ignote le cause della morte

Al momento non sono state rese note le cause del decesso, anche se le dichiarazioni della famiglia porterebbero a pensare che possa trattarsi di suicidio. Le informazioni riportate da sito americano parlano anche di una possibile overdose. Al momento le uniche notizie confermate sono il luogo del decesso, nella casa di famiglia ad Oakland, in California, dove era nato il 10 luglio del 1998.

Era considerato da tutti una stella nascente di Hollywood anche se prima del ruolo in Euphoria dove intepretava Fezco, non aveva mai recitato. Venne scelto quasi per caso, mentre stava camminando per strada a New York e venne notato dall'esperta di casting Eléonore Hendricks. Inizialmente Cloud sospettando una truffa, aveva declinato l'offerta, ma dopo l'incontro con la direttrice del casting Jennifer Venditti decise di accettare, e il creatore della serie Sam Levinson lo aveva reso un co-protagonista insieme a Zendaya per le prime due stagioni.

La sua breve, ma "intensa" carriera

Di recente era stato scelto per recitare in Scream 6. Oltre a Euphoria, aveva partecipato ai film North Hollywood e The Line, e ad alcuni videoclip di musicisti come Becky G, Karol G e Juice WRLD. Aveva anche girato altri due progetti di prossima uscita. Lo scorso marzo, aveva risposto a chi criticava Euphoria di mitizzare l’uso di droghe, dicendo che in realtà era un fedele racconto dei giovani americani di oggi. “Speriamo che tutti lo ricordino per il suo umorismo, la sua risata e l’amore che aveva per tutti. Chiediamo il rispetto della nostra privacy, stiamo ancora realizzando questa perdita devastante", ha concluso la famiglia che dopo la nota si è chiusa nel dolore della grave perdita.

Estratto dell’articolo di Arianna Finos per “la Repubblica” mercoledì 2 agosto 2023.

Sconvolge, ma non stupisce, la morte di Angus Cloud, 25 anni. L'attore, diventato popolare grazie alla serie Euphoria , se n'è andato mentre era a Oakland, a casa della madre, che ha chiamato il 911 la notte del 29 luglio. Si sospetta un'overdose, o il suicidio. […] 

Angus Cloud non avrebbe voluto, e non sarebbe stato giusto, essere inserito nella lista delle star morte giovani, magari in uno di quei demenziali “club” sotto cui raggruppare gli artisti scomparsi per overdose, depressione, crisi da troppo o poco successo. Heath Ledger e Kurt Cobain, Amy Winehouse e tanti altri, scorrendo indietro nel tempo. 

Lui la recitazione e la fama non li aveva inseguiti: a Euphoria era arrivato perché un agente di casting lo aveva fermato per strada nel Greenwich Village di New York. Lui, che faceva il cameriere, pensava a uno scherzo. «Mi sono chiesto: vedi in me una star? No, probabilmente uno spacciatore», aveva commentato l'attore con l'umorismo perfetto di un graphic novel di Zerocalcare. 

[…] non ha mai preso sul serio il business: «I colleghi lavorano sodo, puntano alla cima, per me è solo un'occasione troppo bella per dire no». Ambivalente il rapporto con la fama: «Non mi piace che mi si noti per strada, mi sento come se mi guardassi sempre alle spalle, ma a chi corre e mi spinge il telefono in faccia spiego che non sono un pagliaccio a una sfilata di carnevale».

La battaglia di Cloud non riguardava l'arte ma la vita: da anni alle prese con dipendenze e problemi mentali — l'ultimo duro colpo è stato la morte dell'amato padre — seppellito in Irlanda qualche giorno fa. Un malessere, il suo, che riguarda milioni di giovani nel mondo. 

Secondo uno studio del Centers for disease control and prevention il 22% dei ragazzi americani dice di aver pensato almeno una volta al suicidio, parlano di depressione il 57% delle ragazze e il 29% dei maschi.

La dipendenza, spiegano gli esperti, è un tentativo di auto-cura, per provare sollievo. Altre star — Angelina Jolie e Brad Pitt, Leonardo DiCaprio, Lady Gaga, Cara Delevingne — hanno rivelato i loro problemi. Cloud ricordava: «La dipendenza è seria, molti medici la chiamano malattia. La gente non capisce, dice che “scegli” di drogarti mentre non scegli il cancro. Ma chi ci è passato sa che è quasi impossibile smettere, allora si butta via la vita, si muore». […]

Estratto dell'articolo da repubblica.it lunedì 7 agosto 2023.

Lisa Cloud, la madre dell’attore celebre per la serie tv Euphoria, ha scritto un lungo post sul suo profilo Facebook, in cui esclude l’ipotesi che suo figlio si sia suicidato, affermando che la sua morte potrebbe essere stata causata da una overdose accidentale. 

Lo scorso 31 luglio, Angus Cloud, 25 anni, era stato trovato morto per una overdose nella sua casa di Oakland. Le vere cause del decesso non sono ancora chiare ma si era parlato anche di suicidio, in quanto l’attore soffriva da tempo di depressione e il dolore per la recente scomparsa del padre aveva aggravato la situazione.

[…] “Voglio anche che sappiate che, sebbene mio figlio sia stato profondamente addolorato per la prematura morte di suo padre per mesotelioma, il suo ultimo giorno è stato di gioia. Stava sistemando la sua stanza e mettendo a posto oggetti in giro con l'intento di rimanere un po’ nella casa che amava. Ha parlato del suo intento di aiutare a provvedere alle sue sorelle al college, e anche aiutarmi emotivamente e finanziariamente. Non voleva porre fine alla sua vita. Quando ci siamo abbracciati per la buonanotte ci siamo detti quanto ci volevamo bene e lui ha detto che mi avrebbe visto la mattina”.

“Non so se o cosa possa aver messo nel suo corpo dopo. […] Potremmo scoprire che è andato in overdose accidentalmente e tragicamente, ma è chiaro che non aveva intenzione di lasciare questo mondo. […]

Morte Angus Cloud, i risultati dell'autopsia: "Morto a causa di una miscela di droghe". L'attore, diventato famoso per il suo ruolo nella serie "Euphoria", è morto a fine luglio. Rosamaria Bombai Pubblicato il 22 Settembre 2023 su Notizie.it.

A rivelare le cause di morte dell’attore Angus Cloud è stata l’autopsia eseguita sul corpo del 25enne: una miscela di droghe ha stroncato la vita dell’attore, diventato famoso per il suo ruolo nella serie Hbo “Euphoria“.

L’autopsia

A distanza di quasi due mesi dalla morte dell’attore avvenuta il 31 luglio, è arrivata la conferma da parte del portavoce del Dipartimento di patologia forense della contea di Alameda, in California, che ha dichiarato: “Cloud è morto a causa di una miscela letale di fentanyl, cocaina, matanfetamine e benzodiazepine. La sua è considerata un’overdose accidentale“.

La morte del padre pochi giorni prima

Molte persone a lui vicine, nel giorno della sua morte, avevano fatto sapere che l’attore aveva lottato intensamente per la perdita del padre, scomparso una settimana prima: “Il solo conforto che abbiamo è sapere che Angus ora si è riunito con il suo papà, che era il suo migliore amico. Aveva parlato apertamente della sua battaglia per la salute mentale e speriamo che la sua morte possa ricordare ad altri che non sono soli e che non dovrebbero lottare da soli in silenzio. Speriamo che il mondo lo ricordi per il suo umorismo, la sua risata, il suo amore per tutti“, il comunicato dei familiari dell’attore.

E’ morto l’attore Paul Reubens, era Pee-wee Herman: aveva 70 anni. Da adnkronos su L'Identità il 31 Luglio 2023

(Adnkronos) – Paul Reubens, l'attore che ha dato il volto al personaggio di Pee-wee Herman, è morto all'età di 70 anni. Reubens era malato di cancro da anni, come ha reso noto il suo ufficio stampa annunciando il decesso. L'attore ha affidato al suo staff una nota da diffondere: "Per favore, accettate le mie scuse, non sono apparso in pubblico con ciò che ho affrontato negli ultimi 6 anni. Ho sempre avvertito l'enorme quantità d amore e rispetto dai miei amici, fan e sostenitori. Vi ho amato così tanto e ho gioito recitando per voi". Pee-wee Herman, un adulto mai cresciuto, è stato il protagonista di uno show che la Hbo ha trasmesso per anni dal 1985. Il personaggio è stato protagonista anche di due film, Pee-wee's Big Adventure diretto da Tim Burton nel 1985 e Pee-wee's Big Holiday, prodotto nel 2016 per Netflix.  —spettacoliwebinfo@adnkronos.com (Web Info)

Marco Giusti per Dagospia l'1 agosto 2023.

Se ne va a 70 anni Paul Reubens, più noto come Pee-Wee-Herman, celebre comico stravagante degli anni ’80, idolo dei bambini perché quasi un cartone animato, massacrato per sempre da un terribile scandalo sessuale che gli troncò la carriera nell’ormai lontano 1991. Nato come Paul Rubenfeld nel 1952 a Peeksville, New York, figlio di uno dei primi piloti dell’aviazione israeliana, cresciuto in Florida, a Sarasota, dove i genitori avevano un negozio di lampade.

 Crescere a Sarasota, dove passavano l’inverno i circensi del Ringling Bros and Barnum and Bailey Circus, lo aveva formato e sarà questo, assieme alla visione di “I Love Lucy” in tv da quando era piccolo, ha dichiarato, oltre alla voglia di far ridere il pubblico dei bambini, a dar vita al suo buffo personaggio clownesco. Studia alla California Institute of Arts, si mantiene all’università con lavoretti e entra nel giro del teatro d’improvvisazione di Los Angeles.

Fa anche qualche particina al cinema, lo troviamo infatti ne “The Blues Brothers” di John Landis, 1980, e in “America, America” di Alfred Sole, 1982. Ma è col suo gruppo di improvvisazione teatrale, The Groundings, che Paul Reubens inventa il personaggio di Pee-Wee, un comico che non fa ridere, dai vestiti assurdi, talmente fuori di testa che persino Marlon Brando pensava che fosse un personaggio reale. Nel 1981 aveva il suo show, il “Pee-Wee-Herman Show” che poi divenne, tra il 1986 e il 1990, il televisivo “Pee-Wee’s Playhouse” e lo portò al cinema con Tim Burton con “Pee-Wee’s Big Adventure” nel 1985 seguito tre anni dopo da “Big Top Pee Wee” di Randall Kleiser, il regista di “Grease”.

Nel 1991 venne scoperto a masturbarsi in un cinema porno. Con l’accusa di atti osceni in luogo pubblico la sua carriera finì malamente e il personaggio di Pee Wee quasi scomparì dalle stazioni televisive. Sostenuto da gran parte della comunità di attori e cinematografari di Hollywood, si è sempre dichiarato innocente, avrà un bel ruolo, il padre del Pinguino, nello strepitoso “Batman – Il ritorno” di Tim Burton nel 1992, un altro in “Buffy l’ammazzavampiri”, Danny De Vito lo vuole in “Matilda sei mitica”.

Non farà molti film negli anni successivi, ma non possiamo non ricordarlo in “Blow” di Ted Demme e nel fondamentale “Perdona e dimentica” di Todd Solondz del 2010. In tv lo troviamo nella serie “The BLacklist” nel 2015 e nelle successive “Gotham” e “Mosaic”. Nel 2002 venne colpito dall’accusa di pedopornografia su internet, ma venne completamente scagionato due anni dopo. Anche in questo caso si è sempre dichiarato innocente. Solo nel 2016 il suo personaggio più noto tornò su Netflix con il film “Pee-Wee’s Big Holiday” diretto da John Lee.

Giornalismo pugliese in lutto: morta la collega Daniela Mazzacane. Conduttrice di TeleNorba, si è spenta a 59 anni dopo una lunga malattia combattuta fino alla fine. I funerali domani a Bari nella chiesa di San Ferdinando. REDAZIONE ONLINE su La Gazzetta del Mezzogiorno l'1 agosto 2023.  

Giornalismo pugliese in lutto per la morte di Daniela Mazzacane, giornalista e conduttrice di TeleNorba.

Daniela si è spenta a 59 anni dopo una lunga malattia che ha combattuto con coraggio e sempre col sorriso sulle labbra.

La sua lunga carriera ne ha visto l'esordio 25 anni fa con la conduzione del Tg delle 7.30. Poi Tg Prima e successivamente conduttrice di Pomeriggio Norba. Ha anche collaborato con Radio Norba.

Madre di due ragazze, Francesca e Donatella, era sposata con Ciccio, al suo fianco fino alla fine. Uno dei suoi ultimi post sui social è proprio dedicato al marito, nell'anniversario del loro matrimonio. «E sono 31 di vita insieme tra momenti intensamente felici ma anche di sacrifici e battaglie - scriveva - ma quando c’è il rispetto e l’affetto trionfa sempre l’amore. Grazie marito mio, sei il migliore del mondo»

Sui social il cordoglio dei colleghi e amici, ma anche di chi l'aveva conosciuta in ambito lavorativo. 

I funerali si terranno domani a Bari, alle 10, nella chiesa di San Ferdinando

È morta Daniela Mazzacane, giornalista e volto popolare di Telenorba: lottava contro la malattia. Aveva 59 anni e da 25 lavorava per l’emittente televisiva, dove aveva esordito alla guida del Tg del mattino. La sua storia aveva attirato l’attenzione di Gigi Marzullo, che l’aveva intervistata su Rai 1 raccontando la sua popolarità. I funerali si svolgeranno mercoledì 2 agosto a Bari.. A cura di Giulia Turco su Fanpage.it l'1 agosto 2023. 

È morta Daniela Mazzacane, giornalista e volto del tg Norba, che da tempo lottava contro una malattia. Aveva 59 anni e da 25 lavorava per l’emittente televisiva, dove aveva esordito alla guida del Tg del mattino, diretto da Vincenzo Magistà. I colleghi si sono stretti in un doloroso cordoglio, ricordando in particolare la sua umiltà: “Ci mancherai”. I funerali, fa sapere Repubblica, si svolgeranno mercoledì 2 agosto a Bari. 

Chi era Daniela Mazzacane

La sua storia aveva attirato l’attenzione di Gigi Marzullo, che l’aveva intervistata su Rai 1 raccontando la sua carriera di successo. Aveva la capacità spontanea di entrare nelle case degli italiani in maniera semplice e rassicurante  Daniela Mazzacane, diventata presto popolare anche tra i più giovani, ai quali non aveva mai negato un selfie, raccontano i colleghi. Ha coordinato e condotto il Tg Prima, che trattava temi di cultura e società, in seguito era stata alla guida di Pomeriggio Norba, prima di essere colpita dalla malattia. La notizia della sua scomparsa è arrivata nella mattina di martedì 1 agosto, tramite il profilo social di Telenorba. “La notizia che non avremmo mai voluto dare. Ci ha lasciati la nostra adorata collega Daniela Mazzacane”. 

Il cordoglio dei colleghi

“Daniela era l’amica di tutti, difficile litigare con lei. Aveva anche collaborato con Radio Norba curando alcuni collegamenti da Sanremo e spesso era lei ad essere incaricata di intervistare per il Tg Norba gli artisti ospiti di Radio Norba”, ricorda il direttore di Norba Notizie Maurizio Angelillo. “C’è poi Daniela Mazzacane madre di due ragazze, Francesca e Donatella, di cui andava orgogliosa raccontando sui social i loro successi scolastici, e moglie di un marito, Ciccio, che le è sempre stato a fianco sino all’ultimo”, continua Angelillo. “Le dissi che volevo scrivere un libro su di lei: la sua popolarità era per me un fenomeno fuori dal normale che andava raccontata. Iniziammo a lavorare poi vicissitudini varie ci fecero lasciare il lavoro a metà. Peccato. L’ultimo capitolo, Daniela, di un libro che non c’è, l’hai scritto tu. Ci mancherai”.

Morto Luca Di Meo, lo scrittore che fu Wu Ming 3 e Luther Blissett. ORAZIO LABBATE su Il Corriere della Sera lunedì 31 luglio 2023.

Scomparso a Bologna a 59 anni appena compiuti. L’annuncio sul blog del collettivo di cui fu uno dei fondatori nel 2000 e da cui era uscito 15 anni fa. Insieme agli altri membri del progetto Luther Blissett aveva raggiunto il successo nel 1999 con «Q» 

L’immagine postata sul blog dal collettivo che annuncia la morte di Di Meo: si tratta di una incisione di Albrecht Dürer, «Nemesi, o Grande Fortuna», 1502 circa

È scomparso all’età di 59 anni, dopo una terribile malattia, lo scrittore Luca Di Meo. Conosciuto nel mondo letterario con lo pseudonimo di Wu Ming 3, era uno dei membri fondatori del Luther Blissett Project (1994-99), nonché del famoso collettivo di scrittori Wu Ming. Insieme agli altri quattro autori — Roberto Bui, Giovanni Cattabriga, Federico Guglielmi e Riccardo Pedrini —, ha segnato il mondo editoriale attraverso la precisa scelta di un controverso e coriaceo anonimato (occasionalmente interrotto da eventi pubblici in gruppo), atto a introdurre un’innovativa visione dell’opera letteraria, grazie, soprattutto, alla forza di un’identità basata sul carismatico peso dell’opacità.

Con Wu Ming — che significa «senza nome» —, Di Meo ha partecipato alla stesura di un’ottima serie di opere che hanno segnato un nuovo modo di fare e intendere la letteratura. Si tratta della creazione di romanzi storici, articolati secondo tempi diversi e sottotrame tentacolari, dalla rocambolesca potenza narrativa. Un mondo ampio fatto di un incredibile numero di vicende, scandite sotto una lente seria e carnevalesca, attraverso una lingua dalla forza immaginativa, bellica, sociale, quasi antipolitica, dall’insolente gusto trasversale.

Come in Manituana (Einaudi, 2007), prima anta del «Trittico dell’Atlantico» in cui, negli ultimi trent’anni del XVIII secolo, si raccontano, attraverso una magnifica gestione avventurosa, non solo le guerre tra lealisti e ribelli che portarono alla fondazione degli Stati Uniti d’America, ma anche vicende dall’aura potentemente piratesca ed etica con protagonisti le tribù indiane del posto.

Ma non è solo in Manituana che si apprezza la profonda qualità narratologica di Wu Ming (sembra di leggere sulle pagine i colossal cinematografici anni Sessanta della Universal Pictures, ora molto più underground), è altresì in 54 (Einaudi, 2002), dove l’ampiezza storica — a partire dal 1954 —, si intreccia, con inventiva, lungo le questioni spionistiche relative al Partito comunista del tempo (tra Italia, Jugoslavia, Costa Azzurra), coinvolgendo anche l’assurda figura di Cary Grant.

È però soprattutto con Q (Einaudi, 1999), romanzo finalista al Premio Strega 1999, firmato dal collettivo Luther Blissett, che Di Meo e gli altri quattro autori acquisiscono notorietà. Senza mai perdere la loro tensione a una radicalità nell’inquinare, in maniera pittoresca, la storia, anzi tingendola di furiosa e colorata eresia. Q è ambientato nel Cinquecento. Vede come protagonista un eretico anabattista, costretto a celarsi, cambiando costantemente identità, per via dell’Inquisizione la quale ha spedito sulle sue tracce la spia di un cardinale di Roma, Q.

Un libro collettivo, il quale, grazie a una prima persona invasa da dati storici mai lineari (obiettivo del romanzo è, infatti, essere un rebus dentro e contro la storia che il lettore deve accettare), si conferma una specie di rompicapo pauroso, pregno di ideali, nonché il più conosciuto manifesto letterario del collettivo. Un manifesto di successo, il loro, che è, a conti fatti, incentrato su una narrativa radicale dove la storia è una mappa che può essere invasa di elementi reali e non. Lo è al di là della funzione misteriosa che possiede l’invisibilità di facciata degli autori. È la loro scrittura, dunque, in grado di permettere un attacco carismatico alle questioni più abissali della contemporaneità: dalle politiche alle religiose, passando per quelle esistenziali.

Luca Di Meo (Wu Ming 3) si era poi distaccato dal gruppo tra il 2008 e il 2009, suo il progetto sul calcio Fútbologia come il documentario Nel pallone. Tuttavia, come nello spirito del collettivo — che lo ricorda con sincera e toccante delicatezza dando notizia della sua scomparsa —, non perderà la grandezza della sua maschera fondativa, né il ruolo apicale, né il talento silenzioso, ora nell’invisibile e mai.

Oltre a Di Meo, si celavano dietro il nome del collettivo Luther Blissett, poi Wu Ming, altri tre autori bolognesi: Roberto Bui, Giovanni Cattabriga e Federico Guglielmi. Tra i romanzi del collettivo pubblicati da Einaudi con la collaborazione di Luca Di Meo figurano «54» (2002), in cui si intrecciano tre storie ambientate nel 1954; «Manituana» (2007), la cui azione si dipana nel 1775, ai tempi delle «guerre indiane» combattute dalla nazione irochese; «Altai» (2009), narrazione ambientata tra il 1569 e il 1571 che riprende alcuni personaggi già apparsi in «Q».

L’annuncio della morte di Luca Di Meo, avvenuta domenica 30 luglio, è stata diffusa dal collettivo Wu Ming, di cui aveva fatto parte. «Nella seconda metà dei Novanta — ricorda il collettivo — Luca fu, tra le altre cose, Luther Blissett il cui nome era legione. In quel periodo scrivemmo il romanzo che ci avrebbe cambiato la vita. Nell’anno 2000 fondammo Wu Ming. Lui uscì dal collettivo otto anni dopo». «Nel frattempo — scrive ancora Wu Ming — c’eravamo persi di vista, e ritrovati, e ci saremmo ripersi e di nuovo incontrati. Ogni tanto abbiamo fatto la reunion, come ogni band che si rispetti».

 È morto Luca Di Meo, già Luther Blissett, già Wu Ming 3. Uno degli autori del magnifico romanzo Q. BEPPE COTTAFAVI, editor, su Il Domani il 31 luglio 2023

Il 30 luglio è morto a 59 anni, nella sua casa di Bologna, lo scrittore Luca Di Meo. Che ha fatto parte del collettivo Wu Ming e prima ancora della sezione di bolognese degli artisti facenti parte del Luther Blisset Project (1994-99). Coautore del capolavoro Q, Einaudi Stile libero. Un libro che è proibito non leggere. Uscì nel 1999.

L’ESORDIO

Anno Domini 1555. Sopravvissuto a quarant’anni di lotte che hanno sconvolto l’Europa, un eretico dai mille nomi racconta la sua storia e quella del suo nemico, Q. Predicatori, mercenari, banchieri, stampatori di libri proibiti, principi e papi compongono l’affresco dei tumultuosi anni delle guerre di religione: dalla Germania di Lutero al regno anabattista di Münster, all’Italia insidiata dall’Inquisizione.

Pubblicato in quattordici lingue e in trenta paesi, Q è l’esordio narrativo del rivoluzionario collettivo Wu Ming. Una delle rarissime, lucide e rivoluzionarie imprese di scrittura collettiva, in un contesto letterario che coltiva il mito romantico e narcisista dell’autore e della sua ispirazione individuale. Un nucleo di destabilizzatori dell’ovvio e degli stereotipi.

Q, finalista allo Strega, è un formidabile romanzo d’avventura. Una meravigliosa lettura estiva. Tutti gli aspetti che rendono attraente la lotta politica sono trasmessi con tono elettrizzante: interminabili dispute teoriche, incontri insoliti, meravigliose imprese senza speranza, nemici imbattibili, tradimenti imprevisti, esaltazione collettiva, viaggi clandestini.

È uno dei migliori romanzi della fine del secolo e del millennio, nato nel milieu bolognese delle lezioni di semiotica di Umberto Eco, negli anni in cui prendeva forma la scrittura del Nome della Rosa, un altro grande romanzo di storia e di dispute teoriche, di quelle di storia di Carlo Ginzburg tra Menocchio, formaggi e vermi, del sugo della vita e del pane selvaggio delle lezioni di letteratura di Piero Camporesi.

CONTRO LO STREGA

Q arrivò alla finale del Premio Strega 1999, ma gli autori disertarono la cerimonia. «Lo Strega è una buffonata, una delle tante istituzioni inutili di questo paese», dichiararono con due mesi d’anticipo all’inserto Io Donna del Corriere della Sera, 15 maggio 1999. 

«Naturalmente non ci interessa vincere», aggiunsero, «anche perché il primo posto è sempre assegnato in anticipo, ma se per caso dovessimo entrare nella cinquina, abbiamo consigliato alla Einaudi di comprarci il quarto posto».

In un’altra intervista, stavolta sul quotidiano L’Unità del 30 aprile 1999, avevano detto: «Il premio Strega è più truccato di Sanremo e quest’anno è già appaltato alla Maraini». Mancavano ancora cinque settimane alla finale, che il 9 luglio avrebbe effettivamente portato Luther Blissett al quarto posto e incoronato vincitrice Dacia Maraini con la raccolta di racconti Buio.

IL RICORDO

Dopo aver scritto il romanzo Q, nel 2000 Di Meo è stato uno dei cinque fondatori, insieme con gli amici del Luther Blisset Project, del collettivo denominatosi Wu Ming (“senza nome” oppure “cinque nomi”), con Roberto Bui, Giovanni Cattabriga, Federico Guglielmi e Riccardo Pedrini.

Dopo otto anni uscì dal collettivo, e a ricordarlo a modo loro sono propri i compagni di quella grande avventura. Sul loro blog wumingfundation.com.

Luca muore il 30 luglio, una domenica. Muore nel suo appartamento di Bologna, nove giorni dopo aver compiuto 59 anni, quindici anni dopo aver lasciato Wu Ming, quattro anni dopo l’ultimo evento insieme, quasi sei mesi dopo l’ultima seduta di chemio, ché tanto non serviva più a niente. Antidolorifici, e via andare.

La notizia non era inattesa, ma quando arriva è inattesa sempre. Comincia a girare nel pomeriggio, raggiungendo persone sparpagliate qua e là per i quattro cantoni d’Europa. Noi compresi. Uno di noi la riceve mentre è sul traghetto per la Grecia.

Luca «non c’è più». Questa la frase di Christiano al telefono da Berlino.

Uno di noi – cioè: uno del quartetto che scrisse Q – «non c’è più» in quel senso lì. Anni di lavoro sul confine tra presenza e assenza, sull’esserci senza apparire, poi arriva quel senso lì.

Nella seconda metà dei Novanta Luca fu, tra le altre cose, Luther Blissett, il cui nome era legione. In quel periodo scrivemmo il romanzo che ci avrebbe cambiato la vita.

Nell’anno 2000 fondammo Wu Ming. Lui uscì dal collettivo otto anni dopo. Tra Manituana e Altai. Nel darne notizia, parlammo di un umore «non facile da descrivere. È l’umore con cui guadagni l’uscita d’emergenza se il cinema va a fuoco: hai pagato il biglietto, ma pazienza. Il film piaceva a tutti, ma pazienza. […] muoversi, uscire di corsa, non aspettare che il fumo ci soffocasse e le fiamme bruciassero il culo. Questo è tutto quello che possiamo dirvi senza calpestare il diritto alla riservatezza – nostro e di Luca.»

I fatti nostri non li raccontiamo, quelli di uno di noi che se ne va men che meno. Anni dopo, Luca si sentì di farlo e ne scrisse su Giap.

Nel frattempo c’eravamo persi di vista, e ritrovati, e ci saremmo ripersi e di nuovo incontrati. Ogni tanto abbiamo fatto la reunion, come ogni band che si rispetti. La prima volta nel 2011. L’ultima nel 2019: la sala Stabat Mater dell’Archiginnasio stracolma per il ventennale di Q. Chi c’era la ricorderà finché campa. Poi ci siamo ripersi. Per l’ennesima volta. Stavolta l’ultima. Stavolta indietro non siamo riusciti a tornare.

Anche oggi, come quindici anni fa, l’umore è difficile da descrivere. Non metteremo in fila aneddoti: la prima volta che lo incontrammo, quel giorno che lui, le ultime parole scambiate… Niente.

Non aggiungeremo a queste altre parole. Almeno per un bel pezzo. Quel che abbiamo fatto insieme è stato importante, e rimane. Il resto lo teniamo per noi. Il resto è il rispetto che dobbiamo alla nostra storia comune. Ciao Luca. 

BEPPE COTTAFAVI, Editor e semiologo. Si è formato con Umberto Eco e Paolo Fabbri – è consulente editoriale di Mondadori Libri, dirige la casa editrice digitale Il dondolo del Comune di Modena e il Festival della Satira di Forte dei Marmi. Ha diretto Comix. È responsabile della sezione Idee di Domani.

Randy Meisner, morto il cofondatore degli Eagles e voce di «Take It to the Limit». Storia di Redazione Spettacoli Corriere della Sera giovedì 28 luglio 2023.

Randy Meisner, cantante, bassista e co-fondatore del gruppo rock americano The Eagles, è morto all’età di 77 anni a causa di complicazioni dovute a broncopneumopatia cronica ostruttiva. La notizia è stata resa nota attraverso un comunicato pubblicato sul sito ufficiale della sua ex band, in cui si precisa che la morte del musicista in pensione è avvenuta la notte del 26 luglio. «Randy era parte integrante degli Eagles ed è stato determinante nel primo successo della band. La sua estensione vocale era sorprendente, come evidenziato dalla ballata “Take It to the Limit”».

Gli Eagles sono nati nella città di Los Angeles nel 1971 formati da Meisner, Glenn Frey (1948-2016), Don Henley e Bernie Leadon. Nove anni dopo la band si sciolse a causa di disaccordi e problemi di droga. A quel punto avevano già creato i loro più grandi successi come «Take It Easy» del 1971, e nel 1976 presentarono «Hotel California», una delle canzoni più popolari nella storia del rock.

L’album omonimo è stato inserito dalla rivista specializzata «Rolling Stone» come uno dei 500 migliori album di tutti i tempi. Meisner, che in precedenza aveva fatto parte della band Poco, lasciò il gruppo nel 1977 per continuare la sua carriera da solista e fu sostituito da Timothy B. Schmit. Uno dei più grandi successi di Meisner nella sua carriera da solista è stato «Hearts on Fire» del 1981. Nel 2016, il musicista ha attraversato un periodo difficile dopo che sua moglie Lana Rae Meisner è stata colpita accidentalmente a morte mentre stava spostando un fucile all’interno della loro casa di Los Angeles.

Il musicista non ha preso parte al tour di reunion degli Eagles nel 1994, ma è apparso accanto alla band per un’apparizione nel 1998 alla cerimonia di investitura a New York City per la Rock and Roll Hall of Fame. Hanno eseguito «Take It Easy» e «Hotel California». È stato anche invitato dal gruppo a prendere parte al loro tour mondiale «History of the Eagles» nel 2013, ma non è stato in grado di unirsi a loro a causa dei suoi continui problemi di salute. La band, attualmente composta da Don Henley, Timothy B. Schmit, Vince Gill, Joe Walsh e Deacon Frey, ha recentemente annunciato il suo tour d’addio «The Long Goodbye» dopo 52 anni insieme.

Estratto da ilmessaggero.it mercoledì 26 luglio 2023. 

La cantante irlandese Sinéad O'Connor è morta all'età di 56 anni. L'acclamata interprete di Dublino ha pubblicato 10 album in studio, mentre la sua canzone Nothing Compares 2 U è stata nominata il singolo numero uno al mondo nel 1990 dai Billboard Music Awards.

Biografia di Sinéad O’Connor

 Da cinquantamila.it – la Storia raccontata da Giorgio Dell’Arti

Sinéad O’Connor, nata a Dublino l’8 dicembre 1966 (54 anni). Cantautrice. Una delle rockstar più eccentriche e controverse della storia della musica

• «La guerriera del pop» (Valeria Rusconi, la Repubblica, 18/8/2014)

• «Tormentata, inquieta e incline al suicidio» (la Repubblica, 27/10/2018)

• Diventata famosissima a 23 anni, nel 1990, con una cover di Nothing compares 2 U, scritta cinque anni prima dal cantante americano Prince per il gruppo The Family, ma di cui, fino ad allora, non s’era accorto nessuno • Capace di spaziare dal rock al folk al reggae. Undici album in studio, tre EP e due raccolte pubblicati tra il 1987 e il 2020. La sua interpretazione di Lay your head down per la colonna sonora del film Alberts Nobbs (Rodrigo García, 2011) è stata candidita al Golden Globe come miglior canzone originale

• Celebre per i suoi capelli tagliati cortissimi, praticamente a zero e per aver strappato una fotografia di Giovanni Paolo II in diretta al Saturday Night Life nel 1992, sulla NBC • Anticonformista, femminista, pacifista, antirazzista. Agorafobica, bipolare, dipendente dalla marijuana. Ha detto di essere lesbica, ma ha avuto quattro figli da quattro uomini diversi. È stata ordinata sacerdotessa da una strana setta mezzo cattolica mezzo ortodossa che riconosce il sacerdozio femminile, ha avuto una fase rastafariana e, nel 2018 si è convertita all’Islam assumendo il nome arabo di Shuhada’ Sadaqat 

• «“Forse non dovrei parlare con lei”, gracchia al telefono con voce seccata. “E perché mai? Abbiamo un appuntamento”. “Perché sto scrivendo un’autobiografia che uscirà alla fine del 2020, se incomincio a regalare scampoli di ricordi il libro diventerà inutile”» (Giuseppe Videtti, la Repubblica, 7/12/2019).

Titoli di testa «A diciassette anni mi tagliai i capelli quasi a zero. Quello che mi piaceva aveva una passione per il videoclip in cui Sinéad O’Connor cantava Nothin’ compares 2U piangendo, e io decisi di somigliarle. Quello che mi piaceva si mise con una con dei capelli biondi lunghi fino al culo, ma non è di questo che voglio parlare. Lo psicanalista da cui andavo mi disse “Ah, quindi lei vuole tornare nell’utero, per quello si è rasata come i neonati”, ma neanche di questo voglio parlare» (Guia Soncini, Linkiesta, 25/11/2020). 

Vita Terza dei cinque figli di Sean e Marie O’ Connor. Suo padre, ingegnere, poi barrister, diventerà uno dei capi del movimento divorzista irlandese

• I suoi fratelli: Joseph, Eimear, John, and Eoin

• Lei viene chiamata Sinéad Bernadette, come Sinéad de Valera, moglie del patriota irlandese Éamon de Valera. Secondo nome: Marie, come la Madonna. Terzo nome: Bernadette, come Santa Bernadette di Lourdes

• «Sono nata in Irlanda, un paese in cui il cattolicesimo ha avuto forme di teocrazia fondamentalista non riscontrabili in altre nazioni.

Così fin da piccola ho pensato che l’umanità dovesse liberare Dio dalla religione. Tutti quei dogmi e quei precetti non fanno che allontanarlo dalla nostra portata e ci impediscono di condividere il suo messaggio d’amore [...] Avevo 12 anni e stavo per promettere di servire lo Spirito Santo, un passo molto importante per me. Poi scopro che il sacerdote, terminato il rito, chiude l’ostia nel tabernacolo. 

Strano, mi son detta, prima ti insegnano che lo Spirito Santo è una colomba e poi lo chiudono in una gabbia d’oro. Da quel momento ho cominciato pensare che ci fosse qualcosa di sbagliato nella religione cattolica» (ad Alberto Dentice, L’Espresso, 29/9/2005)

• Sua madre muore in un incidente d’auto. Lei va a vivere con il padre e la nuova donna di lui. È una ragazza ribelle: marina la scuola, ruba dai negozi e per diciotto mesi finisce in un collegio della rete Magdalene Asylum, gestito dalle suore dell’Ordine di Nostra Signora della Carità. Una delle volontarie dell’istituto è la sorella di Paul Byrne, batterista nei In Tua Nua. Sentita Sinéad cantare Evergreen di Barbra Stresand, pensano di prenderla come cantante nella loro band, ma poi lasciano perdere: è troppo giovane.

«Cantare era un sogno che coltivava fin da bambina? “No, da adolescente. Avevo 14 anni quando ho cominciato. Lo facevo anche prima, ma non credevo che sarebbe diventato un lavoro. A casa successe un pandemonio quando comunicai la decisione. A mio padre per poco non venne un infarto. Mia madre è morta nel 1995, lui invece è vivo e vegeto e continua a dire: ‘Avresti dovuto seguire i miei consigli e trovarti un lavoro serio’”» (Videtti) • Lei invece segue la classica strada di chi vuole fare l’artista. Lascia la scuola prima del diploma. Si mantiene facendo la cameriera. Canta con vari complessini di Dublino. Primo grande successo: la colonna sonora del film Captive, scritta e eseguita assieme a David Howell Evans , detto The Edge, chitarrista degli U2

• Capisce di essere pronta per il suo primo album. «Il successo di The lion and the cobra (1987) cambiò la sua vita. Un carico di responsabilità che non si aspettava? (Esita molto prima di rispondere) “Lo dico col senno di poi, fu un peso troppo grande per una ragazza di vent’anni. L’ho capito crescendo, ora saprei come affrontare la situazione, all’epoca ero molto naïve”» (Videtti) • «Pretendevano che fossi femminile al massimo, che mi comportassi in maniera seducente, un concetto che ho fatto sempre fatica ad afferrare. Ne scrissero di tutti i colori sulla mia testa rasata: perché volevo mortificare la mia bellezza, perché avevo paura della mia femminilità, ecc. Lo star system è sempre stato malato e, spesso, feroce con le donne che non soddisfano certi requisiti» (a Videtti)

• «Lei, bellissima e innocente, il viso immacolato e gli occhi grandi, la ricordano tutti nel video di Nothing Compares 2 U, il capolavoro scritto da Prince che nel 1990 una cantante appena 24enne, con la testa rasata e le lacrime (vere) che le solcavano le guance, cantò come nessuno sarebbe riuscito, in uno dei primi piani più intensi della storia della musica e del videoclip. Riuscì a trasformare quella che poteva essere una semplice canzone d’amore in un crescendo dolente, sempre in bilico tra desiderio per l’amore perduto e la follia pura, con delle parole e una voce che sembrava spezzarsi, contando i minuti trascorsi "da quando te ne sei andato”. Un brano che in realtà era stato cantato pensando al rapporto conflittuale con la madre morta, ma la cui intensità, l’ossessione quasi maniacale per un’altra persona, ricordava molto da vicino quella di Every Breath You Take dei Police» (alla Rusconi)

• «Con la sua testa pelata, il suo modo di essere passionale e mistico in scena e nella vita, quei movimenti sbarazzini innestati su un look che è la negazione della femminilità, quella voce potente capace di muoversi nelle partiture più complesse, Sinead è diventata una leggenda nel giro di poco tempo. La scenografia è pulita e rigorosa: tre cornici di tendaggi vaporosi che si colorano di violetto, rosso, verde e arancione, due tastiere ai lati, batteria al centro e, di tanto in tanto, la compagnia discreta delle chitarre e del basso. Lei indossa stivaletti a punta, pantaloni neri attillati e una lunga maglietta bianca che ogni tanto solleva con innocente malizia.

La voce, capace di destreggiarsi anche senza accompagnamento musicale fra motivi ballabili e citazioni bibliche []…, ha un fascino ipnotico e viene usata in modo decisamente inconsueto. Il suo modo di ballare come un robot, con scatti quasi meccanici sempre in avanti, trasmette allo spettatore un’ansia impalpabile. Si tratta di una creatura umana o di un mutante nato in qualche laboratorio sonoro a quarantotto piste? È umana, non c’è dubbio. Soprattutto quando con la chitarra acustica si sbaglia, si ferma, ride, si scusa e ricomincia. 

Nel suo modo di esprimersi ci sono la profonda tristezza e la carica rabbiosa del punk, filtrate però da una ricerca di perfezione e di assoluto che si manifesta soprattutto nel piccolo gioiello scritto per lei da Prince Nothing compares 2 U, che viene cantato con proiezione di diapositive di volti enigmatici di statue antiche. E anche nei motivi più ricchi di suoni come Jerusalem c’è un trasporto mistico che lascia il segno Qua e là emerge naturalmente la carica  rivoluzionaria dell’irlandese ribelle, come in Black boys on Mopeds con duri attacchi alla signora Thatcher: “L’Inghilterra non è più la mitica terra di Madame George e delle rose, è la patria della polizia che ammazza i ragazzi neri”. Un concerto dunque di grande intensità» (Mario Luzzatto Fegiz, Corriere della Sera, 4/11/1990)

• Sinéad non si limita a criticare la signora Thatcher. Nel 1990, in gara per il premio Grammy, l’Oscar della musica, si ritira dalla competizione: non vuole che il suo nome venga votato, e anche dovesse vincere il premio, non andrà a ritirarlo: vuole denunciare «i valori falsi e distruttivi dell’industria musicale». Quando, in New Jersey, si rifiuta di cantare dopo l’inno americano, Frank Sinatra, 75 anni, dichiara che verrebbe «prenderla a calci nel sedere»

• «Era il 3 ottobre del 1992 quando, dopo aver fatto calare il silenzio nello studio del Saturday Night Live durante la sua esecuzione a cappella di War di Bob Marley, Sinéad strappò davanti alle telecamere una foto di Woytjla al grido di “Fight the real enemy!” (combatti il vero nemico). Piccola nota a margine per chi allora non era nato o non aveva le orecchie sufficientemente sturate: durante la canzone Sinéad sostituì un paio di parti del testo (originariamente dedicate ai regimi dittatoriali africani e alle popolazioni vittime delle loro violenze) con le parole “child abuse” e “children”, ripetendole e marcandole visibilmente. 

Durante le prove, per tranquillizzare la produzione, la cantante aveva portato con sé la foto di un bambino soldato, ma in vista della diretta la cambiò di nascosto con la celebre foto del Papa. Stracciando la foto del Pontefice, Sinéad sperava di sensibilizzare il pubblico americano sullo scandalo – allora ancora insabbiato ad arte – delle accuse di pedofilia nel clero irlandese, ma le cose non andarono proprio così. Si prese mazzate da destra e da sinistra e si giocò la carriera. Il suo gesto, infatti, destò molto scalpore e causò un’ondata piuttosto unanime di sdegno, ma nessuno ne colse (o ne volle cogliere) il vero significato. 

Oggi che […] la pedofilia tra i preti è una realtà davanti alla quale il Vaticano non può più far finta di nulla, l’atto di Sinéad ha smesso di sembrare una provocazione fine a se stessa e suona come la pura e semplice manifestazione di rabbia di una ragazza che per un attimo si era illusa di poter cambiare il mondo» (Costantino della Gherardesca, Il Foglio, 1/11/2018).

Polemiche «Quell’immagine era appesa sul muro della camera da letto di mia mamma fin dal giorno in cui il coglione fu investito della carica di Papa»

• Telefonate di protesta ricevute dalla NBC dopo la puntata: 4 mila 400

• «Ancora oggi si parla della foto strappata del Papa. Quella clamorosa presa di posizione le costò in pratica la carriera, oltre che la salute mentale» (Marco Pipitone, Il Fatto Quotidiano, 18/1/2020). 

Pretessa Fine anni 90. Una setta scissionista cattolica, la Irish Orthodox Catholic and Apostolic Church, la ordina sacerdotessa. Lei si fa fotografare in abito talare, dice di voler abbandonare le scene, chiede che la si chiami Madre Bernadette. «Ho sempre desiderato essere un prete, ma non avrei potuto essere protestante: io credo nella Vergine Maria» • «Sono gli anni forse più duri, quelli del declino artistico, delle droghe, della depressione, di un presumibilmente reale bipolarismo» (Gabriele Fazio, Agi, 27/10/2018).

Mariti Quattro. Il produttore John Reynolds, dal 1987 al 1991. Il giornalista Nick Sommerlad, dal 2001 al 2004. Il musicista Steve Cooney, dal 2010 al 2011 • Nel 2011 pubblicò un annuncio sul suo sito. È stufa di vivere «come una suora» e sta cercando un uomo. Requisiti del prossimo amante: «Non deve avere meno di 44 anni», «con un lavoro, deve vivere in Irlanda, ma non mi importa se proviene dal pianeta Zog», «deve essere abbastanza orbo per trovarmi carina», «trattamento preferenziale per coloro che indossano pantaloni di pelle: poliziotti, pompieri, contadini, giocatori di rugby o Robert Downey Jr.», «no tinture per capelli, no gel, no dopobarba», «non deve chiamarsi Brian o Nigel», «vorrei uno peloso, astenersi depilati o glabri», «dev’essere un tenerone e non solamente uno per una sveltina», «va bene uno per una botta e via», «deve voler bene a sua madre». La soluzione ideale sarebbe «un uomo molto dolce e affamato di sesso». Nell’attesa che il prescelto si facesse avanti, disse di aver iniziato a usare frutta e verdura al posto dell’uomo stesso.

Trovato un Barry Herridge, terapista, lo impalmò con una cerimonia nella Little White Wedding Chapel di Las Vegas, con tanto di Caddilac rosa. «Il matrimonio è durato 16 giorni. Abbiamo vissuto insieme solo per 7 giorni. Dal momento in cui ci siamo sposati mio marito è stato vittima di una grande pressione, soprattutto da persone a lui vicine. Gente che non mi ha mai incontrata di persona, ma che aveva già la propria opinione preconfezionata su di me».

Figli Quattro. Jake Reynolds (n. 1985), avuto dal primo marito. Rosin (n. 1995), avuta dal giornalista John Waters, che poi le ha fatto causa per ottenerne la custodia. Shane (n. 2004), dal musicista Donal Lunny. Yeshua Francis Neil (n. 2006), da tale Frank Bonadio.

Nipoti Uno, figlio del suo primo figlio, nato nel 2015. Soldi «Sono grata ai fan. Mi permettono di mantenere i miei figli senza dover sposare un miliardario schifoso con un pene di cinque centimetri».

Droga «Grazie a Dio non ho mai avuto problemi di alcol o droga. Ho sempre solo fumato erba. E lo faccio tutt’ora. Senza esagerare» (a Dentice). Nel 2016 è dovuta andare a disintossicarsi, perché aveva esagerato. 

Solitudine La volta che, a Chicago, postò un video delirante su Facebook: «Mi considerate feccia, invisibile. Finalmente vi sbarazzerete di me». Poi scomparve per trenta ore. Tutti pensarono si fosse suicidata. La polizia dell’Illinois la ritrovò in stato confusionale.

Politica Dice di provare compassione per Donald Trump. «Personalmente provo sempre un po’ di compassione per chi soffre di qualsivoglia malattia mentale e sono convinta che lui ne soffra. Ma poi ricordo ciò che ha fatto al confine tra Stati Uniti e Messico separando le famiglie, dividendo i bambini dai genitori, e allora la compassione scompare e tutto ciò che mi ritrovo a pensare è che Trump è l’incarnazione del male, un fascista» (a Raffaella Oliva, Rolling Stones, 19/12/2019). 

Magda Nel 2017 disse di essersi re-iscritta all’anagrafe come Magda Davitt. Voleva rinnegare il nome paterno. «Mio padre è adorabile ma io rifuggo il concetto di patriarcato». Una donna, disse, non appartiene né al padre né al marito.

Shuhada Nel 2018 si è presentata in pubblico con l’hijab dicendo di aver assunto il nome di Shuhada’ Sadaqat. «Questa è la naturale conclusione del viaggio di un qualsiasi teologo intelligente. Tutte le scritture portano all’Islam, il che rende tutte le altre scritture superflue».

Curiosità Ha subito un aborto e un’isterectomia • Suo fratello Joseph è uno scrittore

• Vive in Irlanda. «“Sfortunatamente sì” Perché sfortunatamente? “?Perché fa freddissimo!!! Sto morendo di freddo! (ride, nda)”» (Oliva) • Musicista preferito: Burning Spear • Miley Cyrus l’ha definita «un modello, un’ispirazione per la mia carriera» • Da tempo prova a convincere Frank Bonadio, padre del suo quarto figlio, a pubblicare il suo profilo sui siti di dating online: «Ma è troppo timido»

• «Il momento più difficile? “L’ostracismo che ho subìto dopo aver strappato in diretta tv la foto di Giovanni Paolo II”. Lo rifarebbe? “In quel momento era giusto”» (Videtti) • «Cosa le fa più paura? “Che tutto dipenda dal denaro. Vagheggio un’epoca in cui il denaro possa essere eliminato e gli esseri umani vivano dello stretto necessario. Ogni volta che sono costretta a mischiare musica e business mi sento di merda”» (ibidem)

• «La fede mi è tutt’oggi vicina, moltissimo. Specialmente quando canto: prima di salire sul palco prego, ciò che chiedo è prima di tutto il perdono, in secondo luogo che il pubblico a fine concerto si senta come dopo essere stato in chiesa» (Oliva) • «Ormai ascolto solo canti, di qualsiasi natura, indù, gregoriani, islamici. Musiche di pace, sono diventata vecchia». Titoli di coda «Infelicissima Irlanda, ha sostituito i suoi santi con gli U2» (Giulio Meotti, Il Foglio, 17/6/2018).

Da leggo.it mercoledì 26 luglio 2023.

Sinead O'Connor è pronta a mettere fine alla sua carriera musicale dopo oltre quattro decenni di successi, concerti e polemiche. "Questo è per annunciare il mio ritiro dai tour e dal lavoro nel mondo dei dischi. Sono invecchiata e sono stanca", ha annunciato la cantautrice irlandese in un post su Twitter. "È tempo per me di appendere le mie nappe dei capezzoli, avendo davvero dato il massimo. NVDA (il nuovo album della cantautrice il cui acronimo sta per 'No Veteran Dies Alone', ndr.) nel 2022 sarà la mia ultima uscita. E non ci saranno più tour o promo".

 O'Connor è tornata sotto i riflettori per promuovere il suo libro di memorie 'Rememberings', attualmente in vendita. Nel volume, la cantautrice documenta molteplici elementi che hanno plasmato la sua vita, tra cui la povertà, la separazione dei genitori e la crescita in mezzo a sconvolgimenti socio-politici. E parla anche di quell'apparizione che ha cambiato la carriera al Saturday Night Live, dove strappò una foto del Papa. 

"Stavo dicendo a mio figlio stasera che non vedo l'ora che arrivi il punto in cui sarò così vecchia e stupida da non ricordare nulla", ha detto l'artista in una recente intervista sul libro. "Nell'introduzione del libro dico scherzando che ho dimenticato a causa di tutta l'erba che ho fumato. Non è l'erba. I dieci anni dopo quella performance al Saturday Night Live, il modo in cui sono stato trattata è stato scioccante. Era di moda trattarmi male, che tu fossi nel mio letto, a una riunione del consiglio di amministrazione, a uno spettacolo televisivo, a un concerto o a una festa. Tutti mi trattavano come se fossi una stronza pazza perché ho strappato la foto del Papa. Sappiamo che sono una stronza pazza, ma non è per questo", ha ironizzato con amarezza. 

O'Connor ha inoltre rivelato che è stato scrivere il libro di memorie che l'ha aiutata a rendersi conto di essere il capo di se stessa e di non aver bisogno di aspettare "il permesso dagli uomini" e anche di volersi ritirare. Ma in tasca ha già un nuovo progetto: "Ho sempre voluto essere coinvolta in The Voice of Ireland... Ma non sono mai stato libera di farlo. Ora lo sono. Quindi, se mai mi volessero, possono contattare i miei manager", ha aggiunto sempre su Twitter con un "ps" all'annuncio del ritiro.

 Chiara Maffioletti per il "Corriere della Sera" mercoledì 26 luglio 2023.

«Sono stata una persona molto travagliata». Tempo fa, dovendosi descrivere, Sinéad O' Connor aveva usato queste parole, ma specificando anche una cosa, dopo tante inquietudini: «Indietro non ci voglio tornare».

È la vita, però, che sembra riportarla sempre al punto di partenza visto che ora, a 55 anni compiuti l'8 dicembre, la cantante si trova ad attraversare quello che con ogni probabilità è il suo travaglio più grande: la morte di uno dei suoi quattro figli, Shane, scappato dall'ospedale in cui era ricoverato dopo che per due volte aveva tentato di togliersi la vita. Aveva 17 anni. 

O' Connor, nel messaggio con cui ha dato notizia della sua scomparsa, ha parlato di lui come «la vera luce della mia vita». Una luce che si è spenta, lasciando ancora una volta spazio al buio. Il buio accompagna la cantante da sempre.

Nata a Dublino nel 1966, la sua è stata un'esistenza difficile già dall'infanzia: dopo la separazione dei genitori, quando lei aveva 9 anni, era stata affidata alla madre - alcolizzata e depressa, morirà nel 1985 in un incidente d'auto - diventando vittima dei suoi abusi e innescando quel rapporto di amore e odio poi cantato in diversi suoi brani.

La matrice di un'altra relazione complessa, quella con il cattolicesimo, si era formata poco dopo, quando il padre aveva deciso di trasferirla in diversi collegi religiosi. Un disprezzo detonato all'inizio degli anni Novanta quando - ormai famosa - si era resa protagonista di gesti che hanno fatto epoca.

Tra tutti, l'esibizione al Saturday Night Live, nel 1992: aveva denunciato a sorpresa la pedofilia in certi ambienti cattolici e infine aveva strappato davanti alle telecamere una foto di Papa Giovanni Paolo II, al grido di «combatti il vero nemico».

Ragazza inquieta e sfrontata, ribelle nelle idee e nel look (i suoi capelli rasati quando quasi nessuno osava farlo sono diventati un suo simbolo), nella musica sembrava aver trovato una strada per sedare le sue ansie.

Lei che prima di diventare nota in tutto il mondo era stata arrestata per furto, conoscendo anche il riformatorio. Una vita di saliscendi percorsi a velocità folle, come le scale che era in grado di scalare con la sua voce.

Nothing Compares 2 U diventava una delle più hit del decennio (nel 2015 ha dichiarato di non volerla più cantare) e lei nel mentre veniva sopraffatta dalle critiche per quel suo esporsi talvolta scellerato, bollato da chi ha l'etichetta facile come un comportamento squilibrato.

Attaccata, O' Connor era rientrata in quello stato depressivo già conosciuto in passato. Parallelamente alla musica, facevano parlare le sue scelte: a fine anni Novanta diventa prete di un movimento cattolico indipendente, decidendo di farsi chiamare Madre Bernadette Mary.

Una religiosa la cui missione è «salvare Dio dalla religione». Poi si dichiara per tre quarti eterosessuale e per un quarto gay, confessa i suoi tentativi di suicidio. Nel 2011 sposa Barry Herridge, suo quarto marito, da cui divorzierà 18 giorni dopo. 

Un'irrequietezza esplosa nell'epoca dei social, dove la fragilità della cantante è stata scandita a chiare lettere, da lei stessa. In un post su Facebook del 2015 fa pensare al suicidio: «Ho preso un'overdose. Non c'è altro modo per ottenere rispetto... Finalmente vi siete sbarazzati di me». 

Nel 2017 pubblica un video in cui dice: «Sono da sola, tutti mi trattano male e sono malata... Le malattie mentali sono come le droghe, sono uno stigma: le persone che dovrebbero amarti ti trattano male».

Quindi l'ultimo annuncio, nel 2018: «Sono orgogliosa di essere diventata musulmana. Avrò un nuovo nome: Shuhada Davitt». La sua ricerca della luce sembrava essere arrivata a un punto. Ma alla fine il buio è tornato, ancora una volta.

Sinead O’Connor è morta a 56 anni. Storia di Andrea Laffranchi Corriere della Sera mercoledì 26 luglio 2023.

La voce l’ha usata in tutti modi. Nelle canzoni anzitutto. Il timbro di Sinéad O’Connor, cantautrice irlandese scomparsa a 56 anni, era inconfondibile: tagliente, incisiva, sapeva gestire nella dinamica urlo e sussurro, precisa nell’incanalare emozioni e sentimenti senza inseguire gli algidi virtuosismi delle dive che andavano per la maggiore a cavallo fra anni 80 e 90. La voce, Sinéad la usava anche per far sentire il suo pensiero, le sue posizioni politiche e la sua visione della società. Libera e contro, al punto di mettere a rischio la sua stessa carriera. Come accadde nel 1992, al picco della popolarità, quando per denunciare gli abusi sessuali della Chiesa irlandese, in epoca in cui tutto era tenuto in silenzio, strappò la foto di papa Giovanni Paolo II in diretta tv al «Saturday Night Live» gridando «Combatti il vero nemico»: «Non mi dispiace averlo fatto e ne vado molto orgogliosa. Dio ci ha messo sulla terra per essere noi stessi. Non ho la mentalità di una popstar. Avevo fatto abbastanza soldi e non avevo bisogno di comportarmi diversamente da come sono pur di diventare famosa», ci raccontò anni dopo.

Scandalo e carriera interrotta: in America non la volle più nessuno, le radio boicottavano le sue canzoni, Joe Pesci e Madonna la criticarono apertamente, era diventata un’appestata dello show business. Il contagio si era esteso e l’aveva trascinata progressivamente in un gorgo fatto di tormenti, sofferenze e problemi di salute mentale che lei spesso riconduceva alle violenze, sia fisiche che psicologiche, che aveva subito, soprattutto dalla madre, da bambina.

Era nata nel 1966, famiglia disfunzionale e un passaggio in un istituto religioso per minori in cui, alle insofferenze per l’educazione rigida, aveva affiancato la scoperta della musica. Il debutto discografico era arrivato nel 1987 con «The Lion and the Cobra»: immagine potente, capelli rasati e lineamenti delicati, un alt-rock teso e graffiante, una coscienza civile. L’aggressività di «Mandinka», la forza di «Troy» che ripercorreva il travagliato rapporto con la madre le fecero mettere un piede nelle classifiche.

Video correlato: Sinead O'Connor e il gesto rimasto nella storia: quando strappò la foto di Papa Giovanni Paolo II (Corriere Tv)

La popolarità mondiale nel 1990 con il successivo album «I Do Not Want What I Haven’t Got», 7 milioni di copie vendute nel mondo trascinate da quel capolavoro di «Nothing Compares 2 U». Era una ballad firmata da Prince per i suoi The Family cinque anni prima che, grazie all’interpretazione immensa di O’Connor e a quel videoclip con lei in un intenso primo piano, fino alle lacrime, conquistò le classifiche globali e l’immaginario collettivo.

I capelli corti non erano solo un simbolo genderless e di battaglia al patriarcato, un modo per tenere a distanza da vera ribelle un marketing discografico che avrebbe voluto vendere la sua immagine in un modo più convenzionale. Questi erano temi che tornavano spesso nelle sue dichiarazioni, ma la cantautrice aveva anche confessato che il taglio rasato era un modo per nascondere la bellezza, per evitare di essere ancora vittima di molestie.

Tanto potente nella voce, quanto fragile dietro le quinte. Anche se in carriera la star aveva pubblicato dieci album, si parlava di lei più per gli scandali e per i suoi problemi personali che per la musica. Si era fatta ordinare sacerdotessa di una setta cattolica nel 1999; nel 2018 in segno di rifiuto del patriarcato aveva cambiato nome in Magda Davitt, e poco dopo si era quindi convertita all’Islam scegliendo di farsi chiamare Suhada’ Sadaqat; aveva confessato di essere stata diagnosticata come bipolare; le minacce e tentativi di suicidio; i messaggi deliranti e senza filtri sui social, compreso quello sulle caratteristiche sessuali di un potenziale marito (ne ha avuti quattro) che poi aveva trovato e da cui aveva divorziato in fretta e furia salvo poi riappacificarsi; il dolore per il suicidio, avvenuto lo scorso anno, di Shane, uno dei quattro figli.

Se ne è andata. «È con grande tristezza che diamo l’annuncio della morte della nostra amata Sinéad. La sua famiglia e gli amici sono devastati e chiedono che sia rispettata la privacy in un momento così difficile». Nessun dettaglio in più. Meglio ricordare solo quella voce.

Morta Sinead O'Connor, la cantante di "Nothing Compares 2 U". La cantante è stata trovata morta nella sua casa di Dublino. Sinead O'Connor lo scorso anno ha perso suo figlio appena 17enne. Francesca Galici il 26 Luglio 2023 su Il Giornale.

All'età di 56 anni si è spenta la cantante Sinead O'Connor. Lo riporta il New York Post. Nata a Dublino nel 1966, nel 2017 fece spaventare i fan per un video pubblicato online in cui dichiarava: "Sono da sola, tutti mi trattano male e sono malata. Le malattie mentali sono come le droghe. Vivo in un motel Travelodge in New Jersey e sono da sola. E non c'è niente nella mia vita eccetto il mio psichiatra, la persona più dolce al mondo, che mi tiene in vita. Voglio che tutti sappiano cosa significa, e perché faccio questo video. Le malattie mentali sono come le droghe, sono uno stigma. All'improvviso, tutte le persone che dovrebbero amarti e prendersi cura di te ti trattano male".

Quell'appello choc della cantante: "Muoio di fame..."

Nel gennaio 2022 ha subito la perdita di un figlio, Shane, di appena 17 anni. È stata la stessa cantante a darne annuncio sul suo profilo Twitter. Il ragazzo era scomparso da due giorni, dopo essere scappato da un centro psichiatrico dove era ricoverato per aver manifestato tendenze suicide. La cantante lascia altri tre figli. Per il momento non sono state rese note le cause del decesso. Figura di culto per tantissimi amanti della musica, ha inciso dieci dischi nel corso della sua carriera, che vede come massimo successo Nothing Compares 2 U, del 1990, e incluso nell'album I Do Not Want What I Haven't Got. Un brano straziante che le fece scalare le classifiche di tutto il mondo, tanto da essere nominato singolo numero uno al mondo dal Billboard Music Awards. In quello stesso anno, Sinead O'Connor prende parte allo storico concerto The Wall - Live in Berlin organizzato da Roger Waters il 10 settembre 1990.

Fin dagli anni Novanta la sua carriera è stata punteggiata di episodi controversi, come il taglio in diretta televisiva della foto di Papa Giovanni Paolo II, che è solo uno degli episodi che hanno segnato la sua immagine pubblica. Dopo il boom con Nothing Compares 2 U, in realtà scritta da Prince nel 1985, Sinead O'Connor non è mai più riuscita a replicare quel successo straordinario e la sua carriera si è avviata a un inevitabile declino, che ha inciso anche sulla sua salute mentale già labile. Quella canzone per lei ha rappresentato quasi una croce che si è portata avanti per anni, incapace di sopportarne il successo, tanto che il 16 marzo 2015 ha sulla sua pagina Facebook che non l'avrebbe mai più cantata perché non la sentiva più sua e non riusciva a interpretarla con quel carico emozionale che tutti si aspettavano da lei.

Sinaed O'Connor, il mistero sulla sua morte e l'ultimo drammatico post. Libero Quotidiano il 26 luglio 2023

Addio a Sinead O'Connor, la celebre cantante, uno dei miti di anni Ottanta e Novanta. Si è spenta a 56 anni dopo un lungo periodo di depressione, al termine di una vita durissima, piena di difficoltà, drammi e ferite. Celebre per una voce strepitosa, negli anni ha fatto molto parlare di sé: sia per il look eccentrico, per esempio i capelli rasati a zero quando su una donna erano quasi una assoluta novità, sia per le sue durissime e controverse prese di posizione. Per ora, non sono state rese note le cause del decesso.

Nata l'8 dicembre 1966 a Dublino, sin dai primi anni la O'Connor ha dovuto fare i conti con un'esistenza che non le ha fatto sconti: i suoi genitori divorziano quando lei ha 8 anni, la madre muore in un incidente stradale nel 1985 e Sinéad denuncia gli abusi della donna nei suoi confronti. Dunque le espulsioni dalle scuole cattoliche in cui il padre la aveva mandata a studiare, poi l'arresto per furto e il riformatorio. 

Diventerà una star a livello planetario con Nothing compares 2 U, canzone scritta da Prince che ha fatto la storia della musica. Ma nel 2015 annunciò che non la avrebbe più cantata: non la sentiva più sua, non la emozionava. 

Nel 2018 la conversione all'Islam, con il nome di Shuhada’ Davitt. In tutti questi ultimi anni la lotta contro una depressione drammatica, fortissima, lacerante. Nel 2017 pubblicò un video di 11 minuti che fece scalpore. Video in cui diceva: "Sono da sola, tutti mi trattano male e sono malata. Le malattie mentali sono come le droghe. Vivo in un motel Travelodge in New Jersey e sono da sola. E non c'è niente nella mia vita eccetto il mio psichiatra, la persona più dolce al mondo, che mi tiene in vita. Voglio che tutti sappiano cosa significa, e perché faccio questo video. Le malattie mentali sono come le droghe, sono uno stigma. All'improvviso, tutte le persone che dovrebbero amarti e prendersi cura di te ti trattano male". Parole che davano la cifra del dramma che viveva, giorno dopo giorno.

Quindi, nel 2022, l'ennesima pagina terrificante della sua vita: il suicidio del figlio Shane, che aveva solo 17 anni, nato da una relazione con il cantante folk Doal Lunny. Rivelò lei stessa quanto accaduto su Twitter: "Da allora vivo come una creatura notturna non morta. Era l'amore della mia vita, la lampada della mia anima. Eravamo un'anima in due metà. È stata l'unica persona che mi abbia mai amato incondizionatamente". Shane quando fu trovato morto era scomparso da due giorni dopo essere fuggito da un centro psichiatrico che lo aveva preso in cura per le sue tendenze suicide. Quel post sul figlio fu l'ultimo di Sinaed O'Connor, l'ultima manifestazione pubblica della cantante, che poi si chiuse in se stessa fino al giorno della sua morte. 

Voce delle generazioni che lottano per l'accettazione e la comprensione. Morte di Sinéad O’Connor: addio alla seconda madre di “Nothing Compares 2 U” che strappò la foto del Papa. Redazione su Il Riformista il 26 Luglio 2023 

Nata l’8 dicembre 1966, la sua voce e il suo spirito indomabile hanno profondamente influenzato il panorama musicale mondiale. O’Connor si è spenta a 56 anni, lasciando un vuoto incolmabile nella vita di milioni di fan.

Da adolescente turbolenta a icona musicale mondiale, O’Connor ha intrapreso un percorso unico. Divenne famosa negli anni ’90 con la sua versione di “Nothing Compares 2 U”, scritta da Prince. La canzone infatti, che grazie alla sua magistrale interpretazione divenne l’inno dei cuori infranti di tutto il mondo, era stata in realtà scritta qualche anno prima da Prince per i Family. Il brano non ebbe grande successo fin quando Sinéad non decise di inciderlo nel suo album I do not want what I haven’t got. Ad accompagnare la canzonem, un toccante video musicale che ha svelato al mondo un talento grezzo e vulnerabile, che da allora è diventato un simbolo di forza emotiva.

Il 16 marzo 2015 Sinéad ha annunciato sulla sua pagina Facebook che non avrebbe più cantato la canzone che l’ha resa famosa, perché non riusciva più a dare emozioni al brano. Dopo tre anni altro momento molto significativo per la cantanteche dichiara pubblicamente di essersi convertita all’Islam, scegliendo un nuovo nome ovvero Shuhada’ Davitt.

Il suo impatto è andato ben oltre la musica. Sinéad era un personaggio controverso e provocatorio che non aveva paura di esprimere le sue opinioni. Che si trattasse di rasare la testa o di strappare una foto del Papa durante una performance al Saturday Night Live, non ha mai esitato a mettere in discussione le norme sociali e a combattere per ciò in cui credeva.

Per la sua intera carriera, O’Connor ha lottato per temi come i diritti umani e la libertà di espressione. Il suo attivismo spesso l’ha portata in conflitto con i mass media e le istituzioni ecclesiastiche, ma nonostante le polemiche, ha sempre mantenuto un seguito devoto di fan che ammiravano il suo coraggio e la sua autenticità.

Sebbene O’Connor abbia affrontato una serie di sfide personali, compresa la lotta contro la malattia mentale, la sua musica è rimasta una fonte di conforto e ispirazione per molti. Le sue canzoni, piene di emozione cruda e onestà tagliente, hanno toccato il cuore di molti ascoltatori, permettendole di sviluppare una connessione unica con il suo pubblico.

Numerose celebrità e musicisti hanno espresso il loro cordoglio sui social media, ricordando O’Connor per il suo coraggio, la sua autenticità e il suo talento ineguagliabile.  Sinéad O’Connor resterà nell’immaginario collettivo come una figura ribelle e resiliente che lascia un’eredità di intransigenza, coraggio e arte. Le sue canzoni e la sua audacia hanno dato voce a generazioni di persone che lottano per l’accettazione e la comprensione. Questa perdita è un duro colpo per il mondo della musica, ma il suo spirito e la sua arte continueranno a risuonare nei cuori dei fan di tutto il mondo.

È morta Sinead O' Connor, la ribelle del rock. Gianni Poglio su Panorama il 26 Luglio 2023

La cantante irlandese aveva 56 anni. A renderla famosa in tutto il mondo, oltre ai primi ispirati album, il remake di Nothing Compares 2 U composta da Prince

Una vita travagliata attraversata da momenti di grande successo e ispirazione, ma anche da anni di depressione, tentativi di suicidio, resa ancora più tragica lo scorso anno dal suicidio del figlio diciassettenne, Shane. Sinead O'Connor, nata a Dublino l'8 dicembre del 1966, è stata una delle voci più importanti degli anni Ottanta e Novanta. Non ha avuto una vita facile e nemmeno una carriera artistica lineare: il successo arrivò nel 1987 con il disco d'esordio The Lion And The Cobra. Tutto il mondo si accorse del suo talento nel 1990 quando incise Nothing Compares 2 U, una canzone epocale scritto da Prince per The Family, uno dei suoi side project. In principio il brano non ebbe successo, ma la versione incisa dalla O'Connor l'ha trasformato in un classico senza tempo della musica contemporanea, accompagnato da un videoclip tutto incentrato sul viso della cantante e sui suoi passi all'interno del parco Saint-Cloud di Parigi.

Nel 1992 durante la sua partecipazione al Saturday Night Live fece qualcosa che nessuno aveva mai osato fare, un gesto per cui venne duramente attacca dai media e da una parte del pubblico. La O'Connor strappò in diretta una fotografia di Giovanni Paolo II in segno di protesta per le accuse di abusi sessuali che avevano investito i preti cattolici in Irlanda. Alla fine degli anni Novanta è stata venne ordinata prete un movimento cattolico indipendente, decidendo di farsi chiamare Madre Bernadette Mary. In più occasioni annunciò pubblicamente di voler abbandonare il music business con cui ha sempre avuto un rapporto controverso e conflittuale. Nel 2017 la pubblicazione di un video drammatico su Facebook in cui compariva da sola nella stanza di un motel e raccontava esplicitamente, parlando di sé, che «Le malattie mentali sono come le droghe, sono uno stigma: chi ti vuole e dovrebbe prendersi cura di te, all’improvviso inizia a trattarti male». Nel corso della sua carriera ha inciso dieci album in studio. Vale assolutamente la pena riascoltare i primi tre: The Lion and The Cobra, il successivo I Do Not Want What I Haven't Got e Am I not Your Girl?, una raccolta di cover di standard jazz che però non ha ottenuto il successo dei dischi precedenti. In mezzo a tutte le controversie e ai problemi personali e familiari, la O'Connor è tornata farsi sentire nel 2014 con un disco bellissimo, I'm not Bossy, I'm Boss, che ha ottenuto ottime recensioni in tutto il mondo.

1966-2023 Ascesa e caduta di Sinéad O’Connor, e del rock che sapeva ancora scandalizzare. Stefano Pistolini su L'Inkiesta il 27 Luglio 2023

Da anni l’artista irlandese lottava con la sua malattia mentale, e la vulnerabilità è sempre stata la sua cifra. È spesso sembrata un’estranea, ma la sua silhouette non è mai andata via

Sinéad O’Connor da Glenageary, Irlanda, è morta a soli 56 anni. Cause ancora da accertare – con molte probabilità sollevando altro dolore e rimpianto. D’altronde Sinéad era andata via tanto tempo fa e tutti gli appassionati di musica, i più stagionati dei quali erano rimasti folgorati al suo primo manifestarsi, lo sapevano benissimo.

Lei, del resto, da un pezzo non faceva mistero della sua malattia mentale e ne parlava come del suo miglior nemico, col quale non smetteva di combattere e al quale non aveva ancora voglia di soccombere.

Da poco poi, inaspettatamente, aveva fatto sapere con un post su Facebook d’aver preso la grande decisione: tornare a Londra dopo ventitré anni, completare un album che stava registrando a singhiozzo e poi partire per un tour mondiale che l’avrebbe vista protagonista nel 2024/25.

Chissà quanto c’era di vero e quanto di immaginato. Sinéad non era nemmeno mai stata avara di particolari sulla sua adolescenza, a cominciare dalla madre che l’aveva maltrattata al punto da spingerla a diventare, una volta adulta, una delle voci più potenti del Regno Unito contro la violenza sui bambini. Era stata un’adolescente difficile, una piccola ladra, un disastro di studentessa. Poi, ancora teenager, aveva registrato un demotape e la sua vita era cambiata.

A Dublino era entrata nell’entourage degli U2 e nel 1987 aveva pubblicato un album, a soli vent’anni, che le aveva garantito il successo, un’immediata fama e una nomination ai Grammy come migliore voce rock femminile – s’intitolava “The Lion and the Cobra” ed era il prologo del suo vero e proprio successo internazionale, arrivato al secondo disco, “I Do Not Want What I Haven’t Got,” che in scaletta aveva quella rilettura di Prince e di “Nothing Compares 2 U” che la proietterà in testa alle classifiche di mezzo mondo.

Una carriera musicale che sarebbe proseguita senza altri picchi fino al 1993 e all’apparizione al “Saturday Night Live” in cui Sinéad strappa in mille pezzi una fotografia del Papa, intonando una versione a cappella di “War” di Bob Marley, in segno di protesta contro gli abusi sessuali perpetrati dai sacerdoti cattolici contro i minori.

È lo scandalo che apre la crepa fatale nella sua carriera e inaugura il periodico bollettino medico sulle sue condizioni mentali, presto trasformatosi in un corollario degli eccessi del pop. Nel 1999 Sinéad tenta il suicidio nel giorno del trentatreesimo compleanno, poco dopo aver preso i voti come sacerdotessa della Chiesa latina tridentina (nel 2018 seguirà una conversione all’Islam, in occasione della quale assumerà il nome di Shuhada Sadaqat).

Nel 2003 le viene diagnosticato un grave disturbo bipolare e nel 2007 in un’intervista decide di mettere a parte il pubblico di tutta la verità sulla propria condizione. Da quel momento, mentre i media assumono atteggiamenti sempre più imbarazzati nei suoi confronti, si occupa in prima persona d’informare il mondo riguardo alle violente turbolenze della sua esistenza: nel 2013 critica Miley Cyrus per l’esplicita immagine sessuale che propone, nel 2015 racconta su Facebook di una sua overdose seguita alla lite col suo ex-marito, nel 2017 confessa d’essere ormai vittima di disturbi psichici multipli e di aver perduto la custodia del figlio tredicenne Shane. Ammette di sentirsi perseguitata da manie di autodistruzione, tenuta in vita soltanto dagli psichiatri che la curano. Chiede aiuto ai familiari e si dice convinta d’essere vittima di una perenne persecuzione.

L’anno scorso Shane, uno dei quattro figli avuti da quattro uomini diversi, si suicida a soli diciassette anni. Le successive cronache la descrivono rinchiusa in una casa di cura, ad anni luce da quella lei che aveva stregato il caravanserraglio del pop. Eppure nel tempo nessuno si è dimenticato di lei, della sua incredibile performance di tanti anni fa gorgheggiando “Nothing Compares 2 U”, di quel suo look teneramente trascendente da skinhead.

La vulnerabilità è sempre stata la sua cifra, quanto i suoi esaurimenti, la sua indomabilità, le sue contraddizioni, i suoi deliri caotici, pieni di rabbia e di verità. Il suo mondo era in bianco e nero, demoni e santi, paura, peccati e redenzioni. Ha traversato il mondo della musica come un’estranea occasionale, eppure la sua sottile silhouette non è mai andata via. La sua debolezza resta un monito alieno, residuo di uno stile di vita e di una condizione imbarazzante, oggi rimossa, impresentabile. Tutte questioni, per molti versi, connesse, annodate e partecipi della strana, irregolare, malata e seminale idea del rock.

Estratto da ilfattoquotidiano.it giovedì 27 luglio 2023.

[...] All’indomani del decesso di Sinead O’Connor emergono i primi dettagli su come l’artista si sia spenta. L’artista 56enne è stata trovata “priva di sensi” nella sua casa di Londra e immediatamente “dichiarata morta”. Lo fa sapere un report della polizia londinese. “[...] 

Da tempo la voce di Nothing Compares 2 U combatteva contro i propri problemi mentali: più volte aveva espresso il proposito di suicidarsi e nel 2020 aveva annunciato ai fan che avrebbe posticipo alcuni concerti per potersi prendere cura di se stessa: “Ho avuto sei anni molto traumatici e quest’anno è stato la fine, ma ora inizia il recupero” [...] “Sono cresciuta con molti traumi e abusi poi sono entrata direttamente nel mondo della musica e non ho mai imparato davvero come si conduca una vita normale. Non ho mai avuto il tempo necessario per guarire. Non ero pronta neanche per farlo”.

Riccardo Cavrioli per indieforbunnies.com giovedì 27 luglio 2023.

Alla luce della tragica scomparsa di Sinead O’Connor, innumerevoli musicisti e personaggi pubblici hanno condiviso tributi, saluti e omaggi in onore della cantante irlandese. 

Morrissey però non ci sta. In una nuova dichiarazione pubblicata sul suo sito web, il cantante ha criticato alcuni membri dell’industria musicale e dei media che hanno elogiato la O’Connor “SOLO ora, perché, farlo adesso è troppo tardi. Non avete avuto il coraggio di sostenerla quando era viva e vi stava cercando“.

“È stata abbandonata dalla sua etichetta dopo aver venduto 7 milioni di album. Ha perso la testa, sì, ma non è mai stata poco interessante, mai. Non aveva fatto niente di male. Aveva un’orgogliosa vulnerabilità… e c’è un certo odio da parte dell’industria musicale per i cantanti che non si “adattano” (questo lo so fin troppo bene), e non vengono mai elogiati fino a quando arriva la morte – quando, alla fine, non possono rispondere.

La stampa etichetterà gli artisti come appestati a causa di ciò che nascondono e hanno chiamato Sinead triste, grassa, pazza…oh ma non oggi! Gli amministratori delegati che avevano sfoggiato il loro sorriso più affascinante quando l’hanno rifiutata ora stanno facendo la fila per chiamarla “icona femminista”, e chiunque nell’ambiente musicale su Twitter si sta facendo sentire…quando sei stato TU a convincere Sinead ad arrendersi … perché ha rifiutato di essere etichettata ed è stata degradata, come sono sempre degradati quei pochi che muovono il mondo. Alla fine, la O’Connor è caduta vittima della stessa sorte di Judy Garland, Whitney Houston, Amy Winehouse, Marilyn Monroe e Billie Holiday.

Era una sfida, e non poteva essere inscatolata, e ha avuto il coraggio di parlare quando tutti gli altri sono rimasti in silenzio, al sicuro. È stata molestata semplicemente per essere se stessa. I suoi occhi finalmente si sono chiusi alla ricerca di un’anima da poter chiamare sua. Come sempre, i soliti e noiosi utenti del web si fermano a ‘”icona” e “leggenda”, quando la scorsa settimana avrebbero usato parole molto più crudeli e sprezzanti. Domani i fottuti adulatori torneranno ai loro posti di merda online e alla loro superiorità morale e ai loro necrologi da vomito, ripetuti come fossero pappagalli, che faranno scoprire le bugie di giorni come questo…quando Sinead non avrà più bisogno della tua sterile sbobba.

Estratto dell'articolo di Marinella Venegoni per la Stampa giovedì 27 luglio 2023.

La sorte le aveva regalato una voce meravigliosa, una delle più pure e oneste in circolazione negli ultimi 40 anni. 

Si dice Sinéad O'Connor e si pensa subito alla struggente Nothing compares 2 U, una specie di marchio di fabbrica che incise nel 1990, capolavoro di Prince: giaceva semisconosciuto e lei lo rese un successo internazionale nel 1990 e per sempre: fino a quando, pochi anni fa, annunciò che non avrebbe più cantato la canzone perché non le dava più stimoli. 

Ieri la vecchia ragazza irlandese che tanta ispirazione ha dato e preso dalla musica del suo Paese, misteriosamente come ha spesso vissuto, se n'è andata a 56 anni, e non ci sono per ora notizie sulle cause della morte; l'Irish Times parla di una lunga malattia, un periodo di depressione e di problemi pesanti, psicologici e di salute; aveva retto a fatica il dolore atroce causato su una personalità già debilitata dalla morte del figlio più amato, Shane di 17 anni, trovato morto nel gennaio 2022 dopo esser fuggito dall'ospedale psichiatrico nel quale era ricoverato proprio per tendenze suicide.

Dichiarò che non si sarebbe più esibita dal vivo, ma da tempo la sua vita era precipitata dall'arte alla cronaca. Straziavano le notizie del 2017 nelle quali raccontava la propria solitudine, il vivere nel New Jersey in alberghi sotto falso nome con la sola compagnia del suo psichiatra, al quale (diceva) doveva tutto: «Sono da sola, tutti mi trattano male e sono malata. Le malattie mentali sono come le droghe». 

Lascia altri tre figli, Jake, Roisin e Yeshua, di 36, 27 e 16 anni. È stata sposata tre volte, aveva rapporti burrascosi con gli ex mariti e altri amori; brevemente nel primo tour Usa si fidanzò con Anthony Kiedis dei Red Hot Chili Pepper, sposò un quarto marito a Las Vegas e divorziò dopo 18 giorni. Faticosa è stata la breve vita di Sinéad, un vero talento inquieto che non ha cessato di produrre dischi e canzoni quando i fantasmi della sua mente la lasciavano vivere: 10 album, i primi interessantissimi, sperimentali, e le uscite erano un evento. Un personaggio post-punk, rasata e perennemente in nero lungo, in controtendenza alla vita lussuriosa e colorata degli 80. Un bel viso, bellissimi grandi occhi, era una star.

Si imprigionò poco alla volta dentro fissazioni religiose che l'hanno portata a gesti clamorosi, fin da quando nel'92 al Saturday Night Live strappò la foto del Papa dell'epoca, Giovanni Paolo II. In un documentario presentato l'anno scorso al Sundance Festival, raccontava: «Avevo letto un articolo dove si spiegava che le famiglie desiderose di denunciare gli abusi sessuali all'interno della Chiesa, venivano messe a tacere. Ciò che ero stata educata a credere era una bugia. Il lavoro di un artista a volte è di suscitare reazioni a problemi che debbono essere affrontati. Hanno cercato di seppellirmi, non si sono resi conto che io ero un seme». 

Era nata a Dublino da una famiglia già problematica, i genitori si erano separati presto, la madre era alcolista e a sua volta soffriva di depressione. Ha un fratello scrittore di successo. Il canto e l'apprendimento della chitarra sembrano subito un sollievo, a soli 14 anni si unisce a un gruppo locale, scrive il suo primo pezzo, Take my hand, che diventa subito un piccolo successo, nel 1984: sarà la strada per il primo contratto discografico.

Esibisce già una forte personalità, si indovinerà presto il suo anticonformismo dalla testa rasata e dalle dichiarazioni provocatorie. Presto diventerà la beniamina di molti ragazzi nel mondo appassionati di cantautorato e alla ricerca di personaggi carismatici. Andrà a vivere a Londra, e il primo album del 1987, The Lion and the Cobra, visionario e sperimentale diventerà un successo in tutto il mondo, con ospite la giovane Enya che recita un pezzo di Bibbia. Inevitabile e a furor di popolo un tour mondiale. Nel '90 prende parte al monumentale concerto The Wall di Roger Waters, che festeggia la caduta del Muro, ma quando arriva a New York minaccia di lasciare il teatro se viene eseguito l'inno nazionale, e Frank Sinatra si arrabbia e minaccia di mandarla dentro a calci nel sedere.

C'è molta attenzione su di lei, che si amplifica con l'uscita di Nothing compares 2U, e proprio in quel periodo strappa in tv la foto del Papa. Segue un'esistenza a dir poco movimentata, con l'industria del disco e dei tour che si fa cauta sulle sue attività. Da parte sua, alterna ritorni sulla scena e confessioni a Oprah Winfrey alla tv Usa dove ammette di essere bipolare in seguito ad abusi in età infantile e di aver tentato il suicidio il giorno del trentatreesimo compleanno. 

La religione continua a ossessionarla, nel 2018 annuncia la conversione all'Islam. 

(...)

Estratto da leggo.it venerdì 28 luglio 2023.

Sinéad O'Connor, a chi andrà l'eredità della cantante scomparsa […] a 56 anni? Il suo patrimonio è stimato - secondo fonti irlandesi - in 4 milioni di sterline, con la maggior parte della fortuna proveniente da Nothing Compares 2 U. 

Il singolo ha infatti generato enormi royalties nel corso degli anni. Particolarmente complessa, però, la situazione familiare visto che Sinéad O'Connor si è sposata quattro volte e ha avuto altrettanti figli con il terzo Shane, morto tragicamente 18 mesi fa 

[…]. Intensa la sua vita sentimentale che si può riassumere così: il primo matrimonio risale al 1987 con il musicista John Reynolds, che ha coprodotto molti degli album, tra cui Universal Mother. Dall'unione della coppia nacque Jake. Nel 1991 il divorzio; seguì un altro matrimonio di breve durata, con il giornalista del Daily Mirror Nick Sommerlad, dal luglio 2001 al febbraio 2004;

Sinead O'Connor ebbe la figlia Roísín dalla relazione con il giornalista John Waters, mentre Shane, morto nel gennaio 2022, è nato dalla storia d'amore con il musicista Donal Lunny. La cantante irlandese ha avuto anche una lunga relazione con il reporter Dermott Hayes e un'altra - durata circa un anno nel 2006 - con l'uomo d'affari americano Frank Bonadio, padre di Yeshua. 

Poi le nozze con l'amico di lunga data e collega musicista Steve Cooney nel luglio 2010. Lei all'epoca aveva 45 anni, il marito 57. Infine, nel 2011, il quarto marito, il terapista Barry Herridge. Un matrimonio-lampo finito dopo soli 16 giorni (ma i due risultano separati e non divorziati). 

Il patrimonio netto dell'artista è stato stimato dall'Irish Daily Mail nel 2021 in quattro milioni di sterline, ma il sito Web Celebrity Net Worth parla oggi di "sole" 400.000 sterline a seguito di molti rovesci finanziati. A chi andrà la fortuna? Sinead O'Connor ha rivelato che lei e Barry Herridge hanno effettivamente vissuto insieme come marito e moglie per soli sette giorni prima di terminare la loro relazione alla vigilia di Natale, 16 giorni dopo la loro unione a Las Vegas. Ma si tratta anche dell'ultima unione dell'artista. Da verificare la presenza di un eventuale testamento, con molti degli eredi pronti a reclamare una parte dell'eredità. […]

Nothing compares, il ritratto intimo e libero di Sinéad O’Connor. Erika Pomella il 31 Luglio 2023 su Il Giornale.

Sinéad O’Connor, artista morta prematuramente a 56 anni, si racconta in un documentario che ne ripercorre gli esordi, le sofferenze e le contraddizioni

"Diventare una popstar è stato uno choc. Non lo volevo. Io volevo urlare." La voce fuori campo di Sinéad O’Connor prende per mano lo spettatore e lo conduce all'interno di Nothing Compares, documentario che il 30 luglio è andato per la prima volta in onda su Sky Documentaries e in simulcast su Sky Arte, ed è disponibile on demand, ma anche in streaming solo su Now Tv. Un documentario che aveva fatto il suo debutto allo scorso Sundance Film Festival e che porta sul piccolo schermo un ritratto inedito ma mai sfocato della cantante di origini irlandesi venuta a mancare solo pochi giorni fa.

La regista Kathryn Ferguson dirige un documentario che è in realtà una visione lucida di una cantante che non ha cercato la fama ma che, attraverso essa, ha cercato di risolvere i problemi di una vita personale fatta di abusi e sensi di colpa, dove ogni cosa in lei sembrava sbagliata. Ed ecco allora la musica che si fa terapia, le urla al microfono che diventano la valvola di sfogo per scacciare un peso che non si sa come affrontare e attraverso il quale si deve passare. E forse non è un caso che tutto il racconto, in questo bel documentario, venga fatto senza mai mostrare la cantante che si racconta. Le interviste che sono state realizzate dalla regista per questo ritratto intimo e diretto non vengono mai mostrare in video.

È la voce di Sinéad O’Connor che riempie lo schermo, è essa la vera protagonista, non il suo volto. Quella voce che la cantautrice ha utilizzato per costruire la sua identità, per sfuggire a una cultura che la voleva silenziosa e assoggettate alle rigide regole di un'Irlanda cattolica ed estremamente religiosa che ha costruito mostri sul senso di colpa. È quello che racconta la stessa O'Connor: una vita personale fatta di abusi, costretta a subire le crudeltà di una madre-mostro che solo la musica riusciva a tenere sotto controllo. Costretta, ancora, ad affrontare le sofferenze all'interno della sua famiglia e le conseguenze di un'emarginazione sociale mentre il padre volgeva lo sguardo da un'altra parte, troppo preoccupato a mantenere intatta la reputazione della famiglia, a non parlare dei problemi che si svolgevano dentro le mura domestiche, come se evitare i problemi li avesse fatti sparire.

Nothing Compares, un documentario-manifesto

Ed è sulle ceneri di questa storia personale che Sinéad O’Connor ha costruito se stessa e la sua identità di cantautrice: se la volevano coi capelli lunghi, le gonne inamidate e la voce soffusa degli angeli, lei rispondeva con la testa rasata, giacche enormi dove nascondeva la sua figura e la sua femminilità e grida intonatissime con cui urlava al mondo la sua esistenza, il suo diritto a essere come voleva, non come gli altri la volevano. È dunque il ritratto sentito di una donna che ha fatto la rivoluzione, che alla timidezza con cui fuggiva gli sguardi altrui controbilanciava una sicurezza quasi spaventosa, quando si trattava di dire ciò in cui credeva o di urlare la musica con la quale cercava di esprimere il suo mondo interiore.

Il suo rimpianto per aver sofferto tanto, per essere dovuta diventare forte anche quando non lo voleva. In questo senso fa quasi impressione la dicotomia che si crea tra la Sinéad O’Connor fuori dal palco e quella che cantava la sua musica davanti a folle via via più numerose. La prima è una creatura quasi elfica, che sorride in imbarazzo e parla a bassa voce, quasi dovesse chiedere il permesso. La seconda è invece una forza della natura, una cantante che ha saputo miscelare perfettamente la tradizione irlandese - nel documentario la O'Connor asserisce che il suo primo ricordo musicale è legato proprio al ricordo di suo padre che canta - con la nuova scena musicale di fine anni Ottanta, diventando la voce mainstream di coloro che non avevano voce, di coloro che non venivano ascoltati.

Con una regia psichedelica, che unisce filmati inediti d'archivio e videoclip dei brani più famosi, Nothing Compares non si limita ad essere un documentario di stampo biografico: non a caso la regista non vuole raccontare la vita della cantante, ma il peso che ha avuto nella cultura e nel mondo femminista (e non solo). Non è un caso, dunque, se la regista decide di affrontare un lasso di tempo breve, dal 1987 al 1993. Se da una parte è senza dubbio interessante seguire l'esordio di una cantante che è diventata manifesto di una rivoluzione culturale e musicale, capace di irretire anche i più scettici, dall'altra Kathryn Ferguson si concentra sull'ascesa e la caduta del mito nell'ottica degli Stati Uniti d'America, che in breve tempo hanno trasformato un'artista di grande talento in uno spauracchio, un volto da cancellare dietro un simbolo di divieto perché combatteva affinché la musica rimanesse libera, affinché restasse quel grido disperato di chi non aveva altro modo per rimanere a galla.

Nothing Compares, che è il brano che le ha regalato l'immortalità anche tra coloro che non erano suoi fan, diventa dunque il manifesto di una donna che non ha mai abbassato la testa e che quando veniva "seppellita" da chi la voleva cancellare sapeva di essere "un seme", qualcosa che avrebbe continuato a germogliare anche nella terra arida di una cultura e di una società che non sapevano comprenderla del tutto.

Estratto dell'articolo di Stefano Crippa per “il manifesto” mercoledì 9 agosto 2023.

È stata la firma per decenni sulle colonne del Messaggero dove ha raccontato il mondo della musica dentro e fuori le quinte, macinando chilometri per riportare cronache di concerti e tour di (quasi) tutti i protagonisti della musica che ha davvero contato dai settanta al nuovo millennio. 

Ma definire Paolo Zaccagnini solo ’giornalista’ è un po’ riduttivo, visto che ha fatto molte altre cose. Compresi due film con Nanni Moretti: Io sono un autarchico e Ecce Bombo. Vive a Dublino con la moglie – che è originaria di Kilkenny, l’antica capitale dell’Irlanda, e fra i tanti incontri della sua vita professionale c’è anche quello con Sinead O’Connor.

«Un grande personaggio ma con una personalità difficile – spiega raggiunto telefonicamente – ho avuto occasione di vederla e parlarle in due situazioni diverse. La prima volta venne a Milano, era giovanissima ed era reduce dal successo dell’album I Do Not want what I havent’ got, (1999), nella formazione con lei ricordo Marco Pironi (chitarrista, paroliere e produttore discografico britannico, ndr). 

Uno spettacolo bellissimo, curato in tutti i dettagli: lei con un abito bianco, sul palco a piedi nudi: capelli corti e quegli occhi e quel volto incredibile. Poteva avere il mondo ai suoi piedi ma non ha saputo reggere l’urto dello show business. Aveva idee molto forti e purtroppo buona parte delle persone che hanno questa personalità non sempre ce la fanno».

[…] dopo quel disco, i milioni di copie vendute, il Grammy award rifiutato, fa un bello scherzo alla sua etichetta (Universal) e incide un album di sole cover: Am I Not Your girl? fuori da ogni logica commerciale con brani estratti dal repertorio di icone come Billie Holiday, Sarah Vaughan scomodando perfino Marilyn Monroe.. Fu un fiasco pazzesco. 

 «Ma lei non si faceva mettere i piedi in testa da nessuno. La seconda volta che ho avuto occasione di parlarle è stato in una di quelle convention promozionali che andavano in quegli anni: Viva la voce nell’Anfiteatro romano di Fiesole, c’era addirittura Naomi Campbell – all’epoca fidanzata di Adam Clayton degli U2 – a cui la Sony fece incidere un (terribile) disco… Bene, lei era nel suo periodo di maggior esposizione mediatica, e doveva esibirsi: improvvisamente sparisce. Io e un mio collega – Andrea Spinelli – andiamo a cercarla, e la troviamo che sta contemplando la vallata.

Ci presentiamo e le dico: ’guardi per vederla sono venuti un sacco di giornalisti, un grande pubblico e le televisioni. Vorrei che lei si esibisse. Lei risponde di no, che in quel momento stava pensando ad altro e stava contemplando il cielo. Beh, io con molta faccia tosta – mi viene ancora da ridere a pensarci – le dico: sa io da ragazzo ero considerato un tipo, molto spiccio. Lei ribatte, a me non interessa. 

E io le dico no, le deve interessare: perché se non sale sul palco le spacco le gambe. Insomma, un po’ bruscamente devo averla ricondotta alla realtà perché è salita sul palco e ha tenuto una performance bellissima e lunghissima».

Estratto dell’articolo di Carlo Bordoni per corriere.it il 24 luglio 2023.

Se c’è una cosa che ha caratterizzato Marc Augé, antropologo e filosofo scomparso ieri all’età di 87 anni, è la laicità. Il suo Genio del paganesimo (1982) è la risposta, a ottant’anni di distanza, al Génie du Christianisme (1802) di Chateaubriand, per culminare nella dissacrazione ironica e irriverente de Le tre parole che cambiarono il mondo (2016), divertissement di genere fantapolitico, dove un insolito Papa Francesco si affaccia su Piazza San Pietro per annunciare che “Dio non esiste”. 

Nato a Poitiers il 2 settembre 1935, Augé ha svolto ricerche etnografiche soprattutto in Africa e nell’America latina, ha diretto la prestigiosa École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi, di cui è stato anche Presidente, e l’Istituto francese di Ricerche per lo sviluppo (IRD).

[...] ha dedicato molti suoi lavori alla “mobilità” umana nel mondo, come Un etnologo nel metrò (1986) e il divertente Il bello della bicicletta (2008), ma la sua fama internazionale è legata soprattutto all’intuizione dei “non-luoghi” (Non-luoghi. Introduzione a un’antropologia della surmodernità, 1992). 

«L’uomo è un animale simbiotico – scrive – e ha bisogno di relazioni inscritte nello spazio e nel tempo, ha bisogno di “luoghi” in cui la sua identità individuale si costruisca col contatto e grazie al riconoscimento degli altri». I non-luoghi sono allora quegli spazi realizzati artificialmente per esigenze di scambio, dove l’individuo è un’unità priva di identità personale. 

Sono gli aeroporti, le stazioni ferroviarie, i grandi centri commerciali, in cui confluiscono e transitano ogni giorno milioni di persone, senza che questo enorme afflusso riesca a costruire relazioni significative. Qui l’individuo è solo, utilizza codici impersonali e segue regole di comportamento generali. I non-luoghi sono il prodotto della modernità avanzata o, meglio, nella definizione di Augé, della “surmodernità”: l’evoluzione della società per effetto della globalizzazione e del superamento della postmodernità.

I non-luoghi sono il prodotto del consumismo, non solo dei beni materiali o deperibili, ma soprattutto della comunicazione: «La comunicazione è il bene di consumo per eccellenza e, paradossalmente, non smette di individualizzarsi». Il bisogno di relazioni, in cui costruire “luoghi” per confermare la propria identità e uscire da una solitudine devastante, spinge a ricercare brandelli di comunità negli stessi non-luoghi – come quei gruppi di giovani che si ritrovano nei supermercati o attorno alle stazioni – ma soprattutto nella rete, nei social, affascinanti non-luoghi di dipendenza ossessiva e compulsiva, dove si consuma il desiderio insoddisfatto di essere riconosciuti (e amati) dall’Altro.

[...] 

Sul tempo ha scritto pagine illuminanti (Che fine ha fatto il futuro?, 2008; Futuro, 2012; Il tempo senza età, 2014; Un altro mondo è possibile, 2017), arrivando alla conclusione che «si muore sempre giovani», poiché si sono perdute le differenze generazionali che scandivano le età della vita umana, con i ruoli e i comportamenti (anche estetici) delle tappe evolutive. Al punto da poter dire oggi che «la vecchiaia non esiste». Così il tempo si cristallizza e riduce il futuro a un’eventualità probabilistica.

La modernità ha cancellato le narrazioni del passato e ha fatto delle utopie ottocentesche una questione unicamente economica e quantitativa. L’incapacità di progettare il futuro sta forse nella conflittualità esistenziale del presente: «Cambiamo il mondo prima ancora di immaginarlo». Sarà per questo che lo sentiamo come estraneo, qualcosa che non ci appartiene. Insomma, un non-luogo.

Aveva 87 anni. È morto Marc Augé, addio al filosofo e antropologo del “nonluogo”. Redazione Web su L'Unità il 25 Luglio 2023 

Marc Augé fu il primo a utilizzare il termine di “nonluogo”: un concetto che descrive spazi frequentati quotidianamente da migliaia di persone, progettati in modo anonimo e stereotipato. Spazi come aeroporti, autogrill, centri commerciali, campi profughi, stazioni. Simboli della globalizzazione, dove però la formazione dei rapporti umani è complicata da dinamiche e funzioni, l’afflusso e il consumo di massa. L’antropologo, scrittore, etnologo e filosofo francese è morto nella notte tra il 23 e il 24 luglio, aveva 87 anni. La notizia in Italia è stata annunciata ieri dal Festivalfilosofia di Modena, di cui faceva parte del Comitato Scientifico dal 2009.

Era nato a Poitiers nel 1935. Aveva passato lunghi periodi di studio e di ricerca tra Africa occidentale e in America Latina. A partire da questo suo instancabile viaggiare aveva dedicato molte sue opere alla mobilità umana. Scritti come Un etnologo nel metrò e Il bello della bicicletta. Si era in seguito focalizzato sull’osservazione delle aree urbane metropolitane. Globalizzazione, la società multietnica, l’individualismo e la solitudine dell’epoca contemporanea, la moltiplicazione e l’influenza dei mass media.

Era diventato un personaggio molto influente nello studio delle scienze umane in Francia. Ha diretto l’École des Hautes Études en Sciences Sociales (EHESS), prestigiosa istituzione parigina che si occupa di formazione nelle scienze sociali, ed è stato direttore fino al 1970 dell’Ufficio della ricerca scientifica e tecnica d’oltremare (ORSTOM – ora Istituto di Ricerche per lo Sviluppo, IRD). La sua opera lo aveva reso noto anche all’estero.

La teoria dei “nonluoghi” l’aveva spiegata nell’opera Non-Lieux, introduction à une anthropologie de la surmodernité (1992). Aveva inaugurato una serie di riflessioni e dibattiti di filosofia, sociologia e arte a proposito delle relazioni tra gli esseri umani e gli spazi in cui si muovono. “L’uomo è un animale simbiotico – scriveva – e ha bisogno di relazioni inscritte nello spazio e nel tempo, ha bisogno di ‘luoghi’ in cui la sua identità individuale si costruisca col contatto e grazie al riconoscimento degli altri”. Il concetto indicava dunque spazi artificiali, costruiti per la loro funzionalità, in cui l’essere umano è privato della sua identità personale e in cui si muove tramite regole di comportamento generali e impersonali.

Spazi estranianti e senza storia né identità o relazioni, estranianti e de-culturalizzati. Una conseguenza della globalizzazione e degli effetti della postmodernità che si era evoluta in una “surmodernità”. La società di massa, aveva ipotizzato, è passata in una divisione in tre classi tra potenti, consumatori ed esclusi. Con le sue riflessioni sul tempo – in opere come Che fine ha fatto il futuro?, Futuro, Il tempo senza età, Un mondo è possibile – era arrivato alla conclusione che con la perdita delle differenze generazionali che scandivano l’età della vita, alla fine “si muore sempre giovani”.

Redazione Web 25 Luglio 2023

Alberto Dandolo per Dagospia il 23 luglio 2023. 

Si è spento ieri a Roma Emilio Leofreddi, fratello della nota conduttrice televisiva Monica.

Artista noto anche oltre i confini nazionali, Leofreddi è stato un pittore molto quotato. Ha esposto a Washington, al Cairo , alla Galleria d’arte moderna, Palazzo delle esposizioni e in molteplici altri templi dell'arte contemporanea.

I funerali si terranno domani, lunedì 24 luglio alle ore 16. 00 a Roma nella Basilica di Santa Maria in Trastevere. 

Biografia

Emilio Leofreddi è nato nel 1958 a Roma dove vive e lavora ancora oggi come pittore e autore video.

Ad inizio degli anni Novanta progetta installazioni con video e performance impegnate su tematiche politiche e sociali.

Del 1992 è la sua prima installazione “Balene”, contro la caccia alle balene, patrocinata da Greenpeace e finanziata da Mario Schifano e del 1993 è l’opera “Contact”, contro la pena di morte, patrocinata da Amnesty International e Nessuno tocchi Caino.

Del 1994 è il progetto realizzato contro la pena di morte con un’installazione che ha girato tutta l’Europa e gli Stati Uniti.

I video Contact (1992), contro la pena di morte, e Im – Media (1994), sulla pubblicità, sono stati acquisiti dall’Archivio Video del Palazzo delle Esposizioni di Roma. 

(...) 

Monica Leofreddi in lutto: è morto il fratello Emilio, pittore. Aveva 65 anni. Storia di Redazione Spettacoli su Il Corriere della Sera il 23 luglio 2023.

“Era mio fratello. È mio fratello. Era un artista. È un artista. Era un padre, un marito, un figlio, uno zio, un amico. Tutto ciò che è stato lo sarà per sempre nei ricordi, nelle sue opere libere, rivoluzionarie, visionarie, immortali”. Con queste parole colme d’amore e con alcuni scatti che li ritraggono in famiglia, pubblicati sui social, Monica Leofreddi dice addio a suo fratello Emilio, spentosi sabato a Roma. “Quanto ti voglio bene brother” continua la conduttrice, spiegando che i funerali si svolgeranno “Lunedì nella Basilica di Santa Maria in Trastevere”. Emilio Leofreddi, 65 anni, era un artista noto a livello internazionale. Nei giorni scorsi, Monica Leofreddi aveva spiegato ai follower che stava attraversando un momento difficile e per questo si era allontanata dai social.

Emilio Leofreddi, 65 anni, pittore e autore video, fin dagli anni Novanta aveva coniugato arte e impegno sociale, realizzando video installazioni e performance: la prima fu “Balene”, nel 1992, contro la caccia ai cetacei, patrocinata da Greenpeace. Seguì nel 1993 “Contact”, contro la pena di morte, patrocinata da Amnesty International e Nessuno tocchi Caino. Nel 1999 ha fondato a Roma, insieme a Ivan Barlafante, Claudio di Carlo e Andrea Orsini, lo studio d’arte collettivo Ice Badile Studio. Nello stesso anno ha esposto la sua personale ‘Human being’ al Moca (Museum of Contemporary Art) di Washington D.C. Negli anni, ha realizzato opere che sono state esposte nel Regno Unito, negli Stati Uniti, in Germania, India e Cina. Leofreddi è morto per una complicanza, emersa in seguito alla frattura del bacino subita alcuni mesi fa.

Josephine Chaplin, morta a Parigi la figlia del grande Charlie. Storia di Redazione Spettacoli su Il Corriere della Sera  il 21 luglio 2023.

La figlia del grande Charlie Chaplin (1889 – 1977), Josephine, è morta giovedì 13 luglio a Parigi. Aveva 74 anni ed era la sesta degli 11 figli della leggenda del cinema comico, la terza degli otto nati dall’unione con l’attrice american Oona O’Neill (1925 – 1991). Un necrologio è stato pubblicato dai famigliari su «Le Figaro» il 19. Lascia i figli Charly, Julien e Arthur e, secondo quanto riporta l’«Hollywood Reporter», i funerali si sarebbero svolti a Parigi «nell’intimità della famiglia».

Josephine Chaplin era nata a Santa Monica, in California, nel marzo del 1949. Era apparsa con il padre per la prima volta sullo schermo, all’età di tre anni, in «Luci della ribalta» (1952) e, con le sorelle Geraldine e Victoria, ne «La contessa di Hong Kong» (1967). Aveva poi recitato nei film «L’odore delle belve» (1972) con il futuro partner Maurice Ronet, al quale fu legata dal 1977 al 1983, anno della morte di lui; «Fuga verso il sole» (1972) di Menahem Golan con Laurence Harvey; in «Jack lo Squartatore» con Klaus Kinski (1976); e nei «Racconti di Canterbury» di Pier Paolo Pasolini nei panni di May, la moglie adultera dell’anziano Sir January (Hugh Griffith). Tra i suoi ultimi film «Il ragazzo della baia» (1984) con Kiefer Sutherland e Liv Ullmann. Nel 1998, ha interpretato Hadley Richardson, la prima moglie dello scrittore Ernest Hemingway, nella serie tv «Hemingway» con Stacy Keach.

(ANSA il 21 luglio 2023) - È morto Tony Bennett, 96 anni, era l'ultimo crooner americano. Nella sua lunga carriera ha vinto, tra gli altri premi, 20 Grammy Awards e ha realizzato 100 album. La morte di Tony Bennett - riferiscono i media americani - è stata annunciata dalla sua portavoce Sylvia Weiner, L'artista soffriva dal 2016 del morbo di Alzheimer, secondo quanto la moglie Susan aveva dichiarato nel febbraio 2021 ad AARP The Magazine. Ha continuato a esibirsi e registrare nonostante la sua malattia; la sua ultima esibizione pubblica fu nell'agosto di quell'anno, quando apparve con Lady Gaga al Radio City Music Hall in uno spettacolo intitolato One Last Time. 

 La carriera di oltre 70 anni di Bennett è stata notevole non solo per la sua longevità, ma anche per la sua costanza. In centinaia di concerti e date nei club e più di 150 registrazioni, Bennett è stato una sorta di custode della classica canzone popolare americana rappresentata da Cole Porter, Gershwin, Duke Ellington, Rodgers e Hammerstein e altri. Era l'ultimo grande crooner americano, dopo la morte di Dean Martin, Frank Sinatra e Perry Como.

Era nato a New York il 3 agosto 1926 da una famiglia di origini italiane: Anthony Benedetto (il suo vero nome) era uno dei tre figli di John Benedetto - un negoziante che nel 1906 era emigrato negli Stati Uniti da Podàrgoni, vicino a Reggio Calabria - e di Anna Suraci, una sarta che era nata negli Stati Uniti subito dopo l'emigrazione dei suoi genitori, anch'essi reggini, avvenuta nel 1899.

Da cinquantamila.it – la Storia raccontata da Giorgio Dell’Arti 

• (Anthony Dominick Benedetto) New York (Stati Uniti) 3 agosto 1926. Cantante. «L’ultimo dei crooner, l’ultimo di una razza eletta che includeva Nat ”King” Cole, Frank Sinatra, Bing Crosby, Mel Tormè e pochi altri. [...] ”Il blues è l’unica cultura che abbiamo [...] In Italia voi avete così tante culture nei secoli, arti figurative, scultura, pittura, musica, opera... Sono le magnifiche tradizioni italiane che hanno avuto tanto successo negli Stati Uniti. Le uniche tradizioni che possiamo vantare noi americani sono due: il baseball e il jazz.

La sorgente del jazz è il blues. Alle origini c’era New Orleans e gli afroamericani che arrivarono come schiavi, creando quelle affascinanti improvvisazioni. Non era solo musica triste, ma anche ottimistica, spirituale. Quando c’erano i funerali a New Orleans, loro suonavano tristezza e felicità. Nel blues è tutto improvvisato, sgorga tutto dal cuore, da quello che sente il performer [...] ho cantato con i maestri che il pubblico ha reso famosi prima dell’avvento del marketing. Ho duettato con Frank Sinatra, Louis Armstrong, Ella Fitzgerald, Doris Day e altri eccezionali professionisti che hanno passato anni sulla strada viaggiando di città in città, quando era il pubblico a decidere. [...] Quanto sono state importanti le radici italiane? ”Fondamentali.

Adoro l’humour, la parlata, la pittura senese, il buon cibo, tutto dell’Italia. Mia madre era un’italiana nata in America, papà era calabrese. Quando rimase sola, la mamma non aveva una lira per mantenerci. Se non ci avessero aiutato cugini e parenti, non so come ce la saremmo cavata. Io sono stato il più fortunato perché ho potuto vivere con le due cose che ho sempre amato fin da piccolo: la musica e la pittura. Ho speso la mia carriera cantando brani di Cole Porter, George Gershwin, Jerome Kern, Irving Berlin, Duke Ellington, che oggi sono diventati classici. Ho seguito il consiglio del mio amico Sinatra: ’Scegli sempre la qualità come ho fatto io, nelle canzoni, negli arrangiamenti, negli accompagnatori’. Sono un buon pittore [...]” [...]» (Giacomo Pellicciotti, ”la Repubblica” 7/1/2002).

È morto Tony Bennett, il grande crooner amato (anche) da Lady Gaga. Chiara Maffioletti su Il Corriere della Sera il 21 Luglio 2023 su Il Giornale.

Dopo una carriera lunga quasi 60 anni, il cantante aveva rivelato di soffrire d’Alzheimer. 

«Lavorare è sentirsi vivi», diceva Tony Bennett, il signore della musica, ultimo grande crooner morto ieri, a 96 anni (ne avrebbe compiuti 97 tra due settimane). E, da quando l’Alzheimer aveva iniziato a diventare più aggressivo (la malattia gli era stata diagnosticata nel 2016 ma solo nel 2021 ne aveva parlato pubblicamente), ci aveva pensato Susan Crow, la terza moglie del cantante, a spiegare che la sua non era solo una frase a effetto. «Non è più il Tony di una volta», aveva infatti dichiarato, parlando dei sempre più rari momenti di lucidità del marito. Aggiungendo: «Quando canta, invece sì che è il vecchio Tony». Il lavoro ha fatto sentire vivo fino all’ultimo, dunque, il leggendario interprete, che in una carriera lunga settanta anni, aveva vinto venti Grammy Awards e due Emmy grazie a una voce fuori dal comune, al pari del suo garbo. Un mix che aveva conquistato tutti, da Frank Sinatra («è il miglior cantante del settore», aveva detto parlando di lui) a Lady Gaga, con cui ha collaborato più volte. Proprio con lei, nel 2021, aveva fatto la sua ultima performance, nel concerto poi diventato anche uno speciale tv, One Last Time: An Evening with Tony Bennett and Lady Gaga.

A unire i due interpreti, anche le origini italiane. Anthony Benedetto — questo era il suo vero nome — era figlio di un negoziante e di una sarta arrivati negli Stati Uniti dalla Calabria. Fu Bob Hope a suggerirgli di cambiare nome con un meno esotico Tony Bennett. Il successo non tardò ad arrivare: nel 1950 Bennett aveva firmato il suo primo contratto con la Columbia Records. Il suo primo singolo di successo, Because of You, era restato in vetta alle classifiche per tre mesi, vendendo un milione di copie e proiettandolo nel firmamento dei crooner. In cento dischi, le canzoni di successo sono moltissime, da Cold, Cold Heart a Blue Velvet e Stranger in Paradise. O ancora I Left My Heart In San Francisco, The Way You Look Tonight e Body and Soul.

Tra il 1952 e il 1954 è Bennett-mania: il cantante si esibiva anche sette volte al giorno davanti a folle in delirio, destinate a diventare anche più grandi dopo il suo passaggio al jazz, con l’album The Beat of My Heart. E a rendere ancora più esponenziali i suoi numeri, ci aveva poi pensato la tv, di cui Bennett era diventato volto grazie al Tony Bennett Show. Gli Anni ‘70 sono quelli difficili, della tossicodipendenza, da cui era riemerso anche grazie all’aiuto del primo figlio. Ne aveva avuti quattro: due maschi dal primo matrimonio e due femmine dal secondo, finito nel 2007. Quello stesso anno aveva sposato Susan Crow. Per amore, certo. Ma anche quel suo inesauribile desiderio di sentirsi, sempre, vivo.

Addio a Tony Bennett, l'ultimo crooner. Da Gaga a Bublé la sua voce fece innamorare il mondo. Scomparso all'età di 96 anni il cantante americano Tony Bennett. Nella sua lunga carriera oltre 100 album e 20 Grammy Award. Indimenticabile il suo duetto con Lady Gaga. Dal 2016 era malato di Alzheimer. Roberta Damiata il 21 Luglio 2023 su Il Giornale.

Ascolta ora: "Addio a Tony Bennett, l'ultimo crooner. Da Gaga a Bublé la sua voce fece innamorare il mondo"

Grave lutto nel mondo della musica, è scomparso all'età di 96 anni il cantante Tony Bennett, considerato l'ultimo crooner (un cantante che si caratterizza per lo stile di canto dal tono caldo ed emotivo, ndr) americano. Era stato colpito nel 2016 dal morbo di Alzheimer, ma nonostante questo aveva continuato a esibirsi. A darne notizia la sua portavoce Sylvia Weiner. Indimenticabile fu il suo addio alla scena con lo spettacolo One Last Time al Radio City Music Hall, che commosse i telespettatori di tutto il mondo, insieme a Lady Gaga, con la quale ha registrato due album.

Una carriera la sua lunga 70 anni, costellata da numerosi premi e centinaia di dischi che avevano la grande forza di custodire la preziosa eredità della canzone popolare americana rappresentata da Cole Porter, Gershwin, Duke Ellington, Rodgers e Hammerstein e molti altri. Dopo la morte di Dean Martin, Frank Sinatra e Perry Como era rimasto lui a rappresentare e far conoscere alle nuove generazioni l'immenso valore di questo genere musicali.

Le sue origini

Bennett era nato come Anthony Dominick Benedetto nel Queens, a New York, il 3 agosto 1926 da una famiglia di origini italiane. Anthony Benedetto (il suo vero nome) era uno dei tre figli di John Benedetto, un negoziante che nel 1906 era emigrato negli Stati Uniti da Podàrgoni, vicino a Reggio Calabria, e di Anna Suraci, una sarta che era nata negli Stati Uniti subito dopo l'emigrazione dei suoi genitori, anch'essi reggini, avvenuta nel 1899. Iniziò a cantare quando era ancora un bambino. All'età di soli 10 anni, la sua voce accompagnò l'innaugurazione del Triborough Bridge, un sistema di ponti e viadotti di New York che collega Manhattan, Queens e Bronx.

Dopo essere stato arruolato per la Seconda Guerra Mondiale in Europa, tornato negli Stati Uniti nel 1946 cominciò a prendere lezioni di canto e musica, certo che quella era la strada da percorrere nella sua vita. Dopo qualche anno il suo grande talento fu scoperto da Bob Hope che lo mise sotto contratto con la Columbia. Agli inizi degli anni '50 la sua grande ascesa con le sue canzoni sempre ai primi posti delle classifiche americane. tanto che in un'intervista a Life Frank Sinatra disse di lui: "È il miglior cantante del settore. Mi entusiasma quando lo guardo. Mi commuove. È il cantante che riesce a trasmettere ciò che il compositore ha in mente, e probabilmente anche un po' di più".

I grandi record della sua carriera

Nel 2014, all'età di 88 anni, Bennett ha battuto il proprio record come artista vivente più anziano con un album n. 1 nella classifica Billboard 200 per Cheek to Cheek, il suo progetto di duetti con Lady Gaga. Tre anni prima, era in cima alle classifiche con Duets II, insieme a star come Carrie Underwood e Amy Winehouse, in quella che fu la sua ultima registrazione in studio. Il suo rapporto con Winehouse è stato ripreso nel documentario candidato all'Oscar Amy, che mostrava Bennett che incoraggiava pazientemente la giovane cantante nell'esibizione di Body and Soul. Ha vinto inoltre 20 Grammy Awards e ha realizzato 100 album. tra i suoi più grandi successi canzoni come I Left My Heart in San Francisco, Fly Me to the Moon, The Good Life e Steppin' Out with My Baby.

Gli indimenticabili duetti

La grande forza di Bennet fu quella di sapersi reinventare pur rimanendo sempre se stesso e avvicinando la sua musica alle giovano generazioni di artisti, usati come veicolo di conoscenza del suo genere. Nel corso della sua carriera, ha duettato con molti altri grandi nomi della musica, tra cui Lady Gaga, Frank Sinatra, Amy Winehouse e Michael Bublé, solo per citarne alcuni. Molto amante anche del Jazz tra le sue collaborazioni anche quella con il pianista Bill Evaans.

Marco Molendini per Dagospia il 21 luglio 2023.

Tony Bennett se ne va da sopravvissuto. Del resto coi suoi 96 anni ne ha viste di tutti i colori. Tony, newyorkese di sangue calabrese, era già in testa alle classifiche di vendita nel 1951, con Because of you, e poi è stato protagonista di dischi memorabili come quelli con l'orchestra di Count Basie o come quelli (i due più belli della sua carriera) con il pianista Bill Evans. In carriera ha vinto 19 grammy, di cui due con I left my heart in San Francisco, il suo cavallo di battaglia, che ha venduto 50 milioni di dischi. 

Insomma, un'istituzione, oltreché un sopravvissuto, citato da Francis Ford Coppola nel Padrino, quando il cantante Johnny Fontaine, in un ruolo che voleva rifarsi a Sinatra, chiede a Michael Corleone: «Mike dove vai? Sto per cantare la tua canzone favorita». E Mike: «Vado in cucina ad ascoltare un disco di Tony Bennett».  

Tony ha vissuto e resistito all’usura del tempo in modo miracoloso, provando a non arrendersi finché ha potuto, perfino quando l’alzheimer ha minacciato di cancellare la sua memoria personale. Fino all’ultimo ha messo in campo la sua voce, con la sua esuberanza e tecnica.

Eppure ha avuto una vita tutt'altro che tranquilla. Ha fatto la Seconda guerra mondiale (in Germania ha partecipato alla liberazione di un campo di concentramento), negli anni Cinquanta, al Paramount theatre di New York, faceva sette concerti al giorno. Ha vissuto anni di dipendenza da pillole e cocaina (con un episodio di overdose).  Il libro, All the things you are: The life of  Tony Bennett, ha raccontato che a finanziare, dopo la guerra, i suoi primissimi passi nel mondo dello spettacolo sarebbero stati gli “amici degli amici”.

Ma si racconta anche un spaventoso episodio, che risale a quando lo sconsiderato crooner si mise a corteggiare la ragazza di Tony Spilotro, capomafia che terrorizzava Las Vegas negli anni 70 (un tipo violento che ha ispirato il personaggio di Joe Pesci nel film Casino di Martin Scorsese). Finì bene, nel senso che Bennett se la cavò solo con qualche livido.  

La sua carriera ebbe un periodo di flessione e la risalita, grazie all’amicizia con Frank Sinatra, ripartì dal 1986 (l'anno di nascita di Lady Gaga) con l'album The art of excellence. Era solo l'inizio di un'ascesa incredibile che lo ha visto cercato, sedotto, ingaggiato da rock e pop star (anche Andrea Bocelli lo ha scelto quando ha fatto il concerto a Central park).

È stato l’ultimo a registrare una canzone con Amy Winehouse (il classico Body and soul), ha messo insieme duetti discografici con celebrità come Paul McCartney, Elton John, Stevie Wonder, Bono, Sting, Michael Bublè, e poi ha vissuto un’ultima stagione trionfale  con Lady Gaga  che  gli è stata vicino fino all’ultimo. Insieme qualche anno fa sono venuti anche in Italia, a Umbria jazz, un luogo che Tony amava particolarmente (lo ricordo fermarsi piacevolmente nella terra  della sua famiglia, tornando Anthony Benedetto, passando, le giornate a dipingere). E quell’ultima volta con Lady Gaga aveva già 88 anni, ma mostrava a tutta la voglia di non arrendersi al tempo che passa e, di mattina presto usciva dall’hotel Brufani in tuta e andava a fare jogging. Miracoloso Bennett. 

La scomparsa. Chi è e come è morto Tony Bennett, la malattia che ha stroncato la leggenda della musica Usa. Il grande vocalist americano aveva 96 anni. Milioni di dischi venduti e venti Grammy in bacheca hanno fatto di lui una delle star più amate della musica. Redazione Web su L'Unità il 21 Luglio 2023

Aveva 96 anni ed era da tempo malato di Alzheimer. Tony Bennet è deceduto. Ha perso la vita l’ultimo dei grandi crooner americani. Ora è lì, nell’Olimpo della musica insieme a personaggi del calibro di Frank Sinatra. In carriera ha vinto 20 Grammy e venduti milioni di dischi. Centinaia le esibizioni dal vivo, centinaia di migliaia i fan che lo hanno applaudito durante i suoi live show. La malattia lo aveva colpito nel 2021. A causa di questo triste evento Bennett dovette ritirarsi dalle scene. “Amo l’Italia, Tornare qui è come tornare a casa. Passo il mio tempo a dipingere la campagna o a gustare cibo delizioso e vino. Non devi essere italiano per amare l’Italia, ma per me è speciale tornare dove la mia famiglia ha le sue origini“, diceva del Belpaese.

Chi è e come è morto Tony Bennett

Nato a New York nel 1926, Bennett avrebbe compiuto 97 anni il prossimo 3 agosto. Il suo nome all’anagrafe era Anthony Dominick Benedetto. Il suo ‘palmares’ comprende anche 2 Emmy Awards, una nomina NEA Jazz Master ed è entrato a far parte del Kennedy Center Honors. Le sue origini sono italiane, nello specifico calabresi. Era il 1906 quando suo padre, un negoziante, era emigrato in America da Podargoni, paesino in provincia di Reggio Calabria. La madre, una sarta, era giunta negli Usa già nel 1899. Anche lei aveva origini calabresi. Nel 1944 Bennett si arruolò nell’esercito e andò a combattere in Germania. Dopo aver iniziato ad esibirsi nei locali, dove spesso lavorava come cameriere, ha firmato il suo primo contratto discografico nel 1950 per la Columbia Records.

Le origini e la musica di Tony Bennett

Dopo alcune esperienze da soliste e con band, raggiunge un primo apice della sua carriera negli anni ’60 ottenendo un ruolo da protagonista all’interno dello show televisivo che ha portato il suo nome: il Tony Bennett show. Negli anni ’70, invece, per Bennett è iniziata una fase di declino. In particolare, a fare notizia, è stata la sua dipendenza dalla droga. In quegli anni rischiò di perdere la vita per overdose di cocaina. Negli anni ’80, dopo essere uscito dal tunnel delle sostanze stupefacenti, Bennett è tornato in gran forma, sia nel mondo artistico che in quello dello show business. Prima una grande esibizione in occasione dei 40 anni di carriera di Sinatra, poi un nuovo contratto con la Columbia. ‘Benedetto‘ era tornato. E siamo così agli anni ’80 – ’90, dove fino ai 2000, Bennett era tornato in auge sia sul mercato che nel panorama musicale moderno. Complici la sua capacità di adattarsi ai cambiamenti della musica e le tante collaborazioni con artisti moderni ed esponenti di generi musicali differenti.

Redazione Web 21 Luglio 2023

(ANSA il 19 luglio 2023) – È morto questa mattina a Roma in ospedale dopo una breve fulminante malattia il giornalista, sceneggiatore, autore Andrea Purgatori, classe 1953. La notizia all'ANSA dai figli Edoardo, Ludovico, Victoria e dalla famiglia rappresentata dallo studio legale Cau. 

Per anni al Corriere della Sera dove si è occupato di terrorismo, intelligence, criminalità, si dedicò tra l'altro con tenacia alla strage di Ustica del 1980. Autore di reportage, ha condotto con successo su La7 Atlantide. Docente di sceneggiatura, consigliere degli autori, tra i suoi ultimi lavori la partecipazione al docu Vatican Girl sul caso di Emanuela Orlandi.

BIOGRAFIA DI ANDREA PURGATORI

Da cinquantamila.it - la storia raccontata da Giorgio Dell'Arti

Andrea Purgatori, nato a Roma il 1 febbraio 1953. Giornalista. Inviato del Corriere della Sera in Iraq, Iran, Algeria. Sceneggiatore, tra i film scritti Il muro di gomma (nel quale il protagonista è lui stesso alle prese con il caso di Ustica), Il giudice ragazzino, Nel continente nero, Vite blindate, Fortàpasc, L’industriale. 

Anche autore televisivo: Caravaggio (2007), Lo scandalo della Banca Romana (2010), Il commissario Nardone (2012), tutti andati in onda su Raiuno. Nel 2010 ha collaborato alla scrittura del film Vallanzasca - Gli angeli del male di Michele Placido, ma a lavoro terminato ha disconosciuto la sceneggiatura, ritirando la firma e dicendosi contrariato dal risultato qualitativo: «È venuto fuori un altro film».

• «Vengo da una famiglia di cineasti. Mio padre distribuiva i film italiani all’estero, mio zio, nel 1932, riuscì a portare Chaplin al Festival di Venezia e mio cugino fu candidato all’Oscar come sceneggiatore in Boccaccio ’70. Io già ai tempi del liceo facevo il segretario di produzione». 

• Amico di Corrado Guzzanti, ha partecipato nel 2002 al programma Il caso Scafroglia (era la voce fuori campo) e nel 2006 al film Fascisti su Marte (nella parte del camerata Fecchia). È apparso anche in un puntata della serie Boris.

È morto Andrea Purgatori: aveva 70 anni, colpito da una malattia fulminante. Cercò sempre la verità sul caso Ustica. Paolo Conti su Il Correre della Sera il 19 luglio 2023.

Il giornalista, autore di grandi inchieste sul caso Ustica e su quello di Emanuela Orlandi, è morto a causa di una malattia fulminante: aveva 70 anni 

Andrea Purgatori è morto. Giornalista, sceneggiatore e autore, classe 1953, è stato stroncato da una malattia fulminante, secondo quanto riferito dai figli Edoardo, Ludovico, Victoria e dalla famiglia. Per anni al «Corriere della Sera», dove si era occupato di terrorismo, intelligence, criminalità, Purgatori si era dedicato con tenacia alla strage di Ustica , del 1980, riuscendo con i suoi scoop a tenere aperto il caso. Su La7 ha condotto, con successo, il programma «Atlantide». Tra i suoi ultimi lavori la partecipazione al docu-film «Vatican Girl» sul caso di Emanuela Orlandi . Moltissime le reazioni di colleghi, politici, personaggi del mondo della cultura e dello spettacolo. Qui sotto, il ricordo firmato da Paolo Conti. 

Parlare di Andrea Purgatori significa partire da un punto essenziale della sua vita professionale che nel tempo è diventato una sorta di suo sinonimo. Grazie al suo impegno e a un lavoro che non ha conosciuto né pause né incertezze, l’inchiesta sulla strage di Ustica è rimasta aperta. 

Andrea Purgatori ha svelato le bugie e le omissioni di chi portava avanti la tesi di una bomba esplosa a bordo dell’Itavia che il 27 giugno 1980 viaggiava con 81 persone a bordo rivelando come il disastro fosse stato causato dall’impatto con un missile. E rimanendo sempre al fianco dei familiari delle vittime e soprattutto garantendo la ricerca della verità. Per questo Purgatori-Ustica è diventato un vero sinonimo, un marchio professionale di straordinaria continuità, di desiderio di arrivare alla verità, di difendere chi (i familiari delle vittime) si è ritrovato senza una persona cara e privato del proprio diritto a sapere cose fosse accaduto.

Le reazioni alla morte di Andrea Purgatori, in diretta

La vicenda di Ustica sintetizza tutto il carattere di Andrea Purgatori, il suo istinto di eccellente cronista (teneva molto a questo appellativo), di inviato di grande livello e qualità (per anni si occupò di Iran e di Libia in tempi in cui lavorare su quei campi era particolarmente complesso). Una scrittura densa, rapida, priva di inutili orpelli, diciamo severa. Esattamente come il linguaggio televisivo che i telespettatori hanno ritrovato nell’avventura di «Atlantide». 

Chi legge queste righe perdonerà l’uso del pronome personale. Ma io ho avuto il piacere, direi ora il privilegio, di lavorare per anni con lui. A metà degli anni ’80 l’allora direttore Piero Ostellino decise un radicale ricambio generazionale al vertice della cronaca di Roma. Andrea capocronista, 32 anni, ed io suo vice, a 31. Decisione che provocò molte perplessità in una redazione di consolidati professionisti. E fu come gettarsi in una vasca d’acqua ghiacciata. Cominciammo a lavorare insieme dalla mattina a notte fonda. Andrea aveva continuamente intuizioni controcorrente. Sapeva che una cronaca come la nostra, che doveva fare i conti con concorrenti storicamente molto radicati nel territorio, poteva attirare lettori solo giocando di contropiede, sorprendendoli continuamente. 

Rivoluzionò la grafica guardando ai quotidiani statunitensi (la sua permanenza da giovane negli Stati Uniti fu essenziale per la sua vita professionale e anche personale), puntò su un uso anche spettacolare delle fotografie, decise titoli più che coraggiosi. Pur essendo di fatto coetanei, devo a lui (oltre a mille, indelebili gesti di amicizia e di solidarietà, un patrimonio incancellabile) la scoperta di un modo diverso, direi proprio più coraggioso, di fare cronaca, di raccontare Roma, di non fare facile scandalismo ma di non temere mai il potere. Quando presi il suo posto partii da tutto questo patrimonio costruito soprattutto grazie a lui. 

Si potrebbero scrivere intere pagine sulle inchieste di Andrea Purgatori, sul suo stile, sulla sua classe professionale e umana, sul suo amore per la vita, per i tre figli e anche per le occasioni di felicità e di bellezza che l’esistenza può offrirti. 

Una magnifica e fiera persona, incapace di ipocrisie e di patteggiamenti, schietta, ironica ed elegantissima.

Un vero giornalista, un protagonista della nostra storia civile.

Un amico che nessuno potrà mai sostituire. Mai. 

ANDREA PURGATORI, 1953-2023

È morto Andrea Purgatori, il giornalista che indagò sulla strage di Ustica. A lungo giornalista del Corriere, il volto di La7 aveva 70 anni. Tra le sue inchieste il caso Moro e Orlandi. Il Dubbio il 19 luglio 2023.

È morto stamattina in un ospedale romano, dopo una breve malattia, il giornalista, sceneggiatore, autore e conduttore Andrea Purgatori. Lo si apprende in ambienti di La7, dove aveva condotto l'apprezzata trasmissione 'Atlantide'. Purgatori, che aveva 70 anni, si era fatto conoscere, dalle pagine del Corriere della Sera per i suoi articoli sul terrorismo e in particolare per la sua inchiesta sulla Strage di Ustica, a cui si dedicò per molti anni. Su Ustica scrisse anche la sceneggiatura di 'Il muro di gomma', diretto da Marco Risi. Era stato anche attore nel film 'Fascisti su Marte' diretto da Corrado Guzzanti e Igor Skofic.

Dal 12 maggio 2014 al 15 giugno 2020 è stato presidente di Greenpeace Italia. Era membro dell'Accademia del Cinema Italiano e dell'Accademia europea del cinema, presidente delle Giornate degli Autori e dal 4 marzo 2015 era membro del Consiglio di Gestione della Società Italiana degli Autori ed Editori (SIAE). Dalla stagione televisiva 2017-2018 conduceva su LA7 la nuova edizione di Atlantide, per il quale aveva ricevuto il Premio Flaiano 2019 come miglior programma culturale. Nell'autunno del 2022 è stato protagonista della docu-serie di Netflix 'Vatican Girl: la scomparsa di Emanuela Orlandi'. 

Inviato del Corriere della Sera dal 1976 al 2000, è noto per le inchieste e i reportage su casi scottanti del terrorismo internazionale e italiano negli "anni di piombo" e sullo stragismo, come il caso Moro e la strage di Ustica. Ha raccontato numerosi delitti di mafia dal 1982, fino alla cattura di Totò Riina. Ha realizzato reportage su molti conflitti, come la guerra in Libano del 1982, la guerra tra Iran e Iraq degli anni ottanta, la guerra del Golfo del 1991, l'Intifada e le rivolte in Tunisia e Algeria. Si è occupato di terrorismo, intelligence, criminalità, ma la sua inchiesta più importante riguarda la strage di Ustica del 1980.

Come scrive Paolo Conti che gli fu collega al quotidiano di Via Solferino, "Andrea Purgatori ha svelato le bugie e le omissioni di chi portava avanti la tesi di una bomba esplosa a bordo dell'Itavia che il 27 giugno 1980 viaggiava con 81 persone a bordo rivelando come il disastro fosse stato causato dall'impatto con un missile. E rimanendo sempre al fianco dei familiari delle vittime e soprattutto garantendo la ricerca della verità. Per questo Purgatori-Ustica è diventato un vero sinonimo, un marchio professionale di straordinaria continuità, di desiderio di arrivare alla verità".

Purgatori è stato autore di reportage e ha condotto su La7 la trasmissione d'inchiesta 'Atlantide'. Docente di sceneggiatura, consigliere degli autori, tra i suoi ultimi lavori la partecipazione alla docuserie di Netflix 'Vatican Girl' sul caso di Emanuela Orlandi. Per il cinema ha scritto tra l'altro 'Il muro di gomma' (1991) ispirato alla sua inchiesta sulla strage di Ustica, 'Il giudice ragazzino' (1994), 'L'industriale' (2011). Ha ottenuto tra gli altri il Nastro d'argento 1992 per il miglior soggetto con 'Il muro di gomma', il Premio Hemingway di giornalismo nel 1993, il Premio Crocodile - Altiero Spinelli per il giornalismo nel 1992, il Globo d'oro 1994 per la miglior sceneggiatura con 'Il giudice ragazzino' e nel 2009, con Marco Risi e Jim Carrington, si è aggiudicato il premio Sergio Amidei per la miglior sceneggiatura internazionale con il film 'Fortapa'sc'. Impegnato anche nelle battaglie ambientaliste, dal 12 maggio 2014 al 15 giugno 2020 è stato presidente di Greenpeace Italia.

E’ morto il giornalista Andrea Purgatori, aveva 70 anni. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 19 Luglio 2023 

La sottosegretaria alla Cultura Lucia Borgonzoni lo ha ricordato come "un professionista e un uomo che ha fatto della ricerca e del racconto della verità la sua cifra stilistica" con "pagine di giornalismo che rimarranno scolpite" e uno "sguardo acuto" anche nel "mondo della televisione e del cinema".

Si è spento questa mattina in un ospedale di Roma il giornalista Andrea Purgatori, sceneggiatore, autore aveva 70 anni.. Lo si apprende in ambienti di La7, dove aveva condotto l’apprezzata trasmissione “Atlantide“. Purgatori si era fatto conoscere, sulle pagine del Corriere della Sera, per i suoi articoli sul terrorismo e in particolare per la sua inchiesta sulla Strage di Ustica, a cui si dedicò per molti anni.

Il nome di Purgatori resterà legato indissolubilmente alla battaglia per far luce sull’incidente aereo del 1980 in cui morirono 81 persone, denunciando depistaggi e insabbiamenti e contribuendo a tenere aperta l’inchiesta giudiziaria per arrivare alla verità su cosa avvenne sul cielo a nord della Sicilia. Come ha scritto Paolo Cont un suo ex collega del Corriere della Sera: “ha svelato le bugie e le omissioni di chi portava avanti la tesi di una bomba a bordo, rivelando come il disastro fosse stato causato dall’impatto con un missile” ed aggiunto “Per questo Purgatori-Ustica è diventato un vero sinonimo, un marchio professionale di straordinaria continuità, di desiderio di arrivare alla verità“.

Su Ustica scrisse anche la sceneggiatura di “Il muro di gomma”, diretto da Marco Risi. Era stato anche attore nel film “Fascisti su Marte” diretto da Corrado Guzzanti e Igor Skofic. Dal 12 maggio 2014 al 15 giugno 2020 è stato presidente di Greenpeace Italia. Era membro dell’Accademia del Cinema Italiano e dell’Accademia europea del cinema, presidente delle “Giornate degli Autori” e dal 4 marzo 2015 era membro del Consiglio di Gestione della Società italiana degli Autori ed Editori (Siae).

La carriera di Purgatori ha spaziato anche sugli esteri, come inviato di guerra in Libano nel 1982, per la guerra tra Iran e Iraq e quella del Golfo del 1991.  Dalla stagione televisiva 2017-2018 conduceva su La7 la nuova edizione del programma “Atlantide”, per il quale aveva ricevuto il Premio Flaiano 2019 come Miglior programma culturale. Nell’autunno del 2022 è stato protagonista della docu-serie di Netflix “Vatican Girl: la scomparsa di Emanuela Orlandi”. Purgatori è stato per anni docente di sceneggiatura. Tra i film che ha scritto per il cinema, oltre a “Il muro di gomma” (1991), che racconta la sua storia come giornalista che indaga sulla strage di Ustica, “Il giudice ragazzino” (1994), “Fortapasc” (2009), “L’industriale” (2011) e per la televisione “Caravaggio” (2008), “Lo scandalo della Banca Romana” (2010) e “Il Commissario Nardone” (2012). 

Purgatori si era affermato nella scrittura di gialli e thriller come “Quattro piccole ostriche” (uscito nel 2019 per HarperCollins Italia). “A un passo dalla guerra” (Sperling&Kupfer), “Il bello della rabbia” (Dalai Editore) e “I segreti di Abu Omar” (Rizzoli) sono invece le pubblicazioni documentaristiche, volte far luce sulle tematiche che da sempre hanno distinto la sua carriera giornalistica .

Unanime il cordoglio della politica: la Camera lo ha ricordato con un minuto di silenzio. 

“Esprimo le mie condoglianze per la scomparsa di Andrea Purgatori, importante sceneggiatore, autore e cronista. Le sue inchieste, i suoi racconti, la sua voce rimarranno nella storia del giornalismo“. Così ha commentato il presidente del Senato Ignazio La Russa.

“Esprimo il mio cordoglio per la scomparsa di Andrea Purgatori. Cronista brillante, autore di documentari di successo, sceneggiatore e autore di indimenticabili programmi televisivi di inchiesta, scompare una delle firme prestigiose del giornalismo italiano. Ai familiari giungano le mie più sentite condoglianze”, ha dichiarato il presidente della Camera dei deputati, Lorenzo Fontana.

“Mi addolora la notizia della prematura scomparsa del bravissimo giornalista d’inchiesta Andrea Purgatori, da anni volto popolare e apprezzato conduttore di trasmissioni di successo come Atlantide. Purgatori dagli anni Ottanta a oggi ha saputo scavare tra i misteri italiani, tra le ombre anche delle nostre istituzioni, lo ricordiamo soprattutto per le sue inchieste giornalistiche sulla mafia e sui misteri legati alle stragi di Capaci e Via D’Amelio e per uno strano disegno del destino se ne va proprio oggi, nel giorno dell’attentato a Borsellino di cui si è tanto occupato. L’Italia e la televisione perdono un’altra grande figura, un altro pezzo di storia e di cronaca che ci lascia”. Così in una nota Roberto Calderoli, ministro per gli Affari regionali e le Autonomie.

“Voglio esprimere anche a nome di tutta la comunità democratica il mio profondo cordoglio per l’improvvisa scomparsa di Andrea Purgatori, grande giornalista che ha legato il proprio nome a importanti inchieste sul terrorismo e la criminalità. Ricordo la passione civile e la costanza con le quali ha seguito per 43 anni, fino alla fine, le indagini per la strage di Ustica. È riuscito a dare un contributo enorme alla battaglia per la verità, che oggi più che mai dobbiamo far proseguire. Ai suoi familiari, ai colleghi e agli amici vanno le nostre condoglianze”. Così in una nota la segretaria del Pd Elly Schlein

Redazione CdG 1947

Morto Andrea Purgatori, la voce dal sottosuolo che cercava la verità. Giornalista, scrittore, autore è passato dalle inchieste alla satira televisiva senza mai smettere di nutrire un pubblico affamato di intelligenza. Beatrice Dondi su L'espresso il 19 luglio 2023.

La sua voce sembrava arrivare dal sottosuolo, come le memorie. Stava laggiù chissà dove, nel profondo, a scavare, come il suo Atlantide, isola televisiva sommersa ma che nonostante Poseidone riusciva sempre a tornare alla luce portando qualcosa con sé. Andrea Purgatori aveva reso dal 2017 quel programma un faro limpido di ricerca accurata, in cui riusciva col rigore del cronista a far riemergere i non detti, personaggi, casi, storie dimenticate spesso per dolo, portando in primo piano l’importanza del vero, senza fare rumore.

Stretto nel suo maglione d’ordinanza non ha mai ceduto alle sirene dei talk show, perché per raccontare le storie di uomini e di mondi bastava la sua voce e il suo mestiere.

Per quarant’anni Purgatori ha legato il suo nome alla ricerca di un barlume di verità per la strage di Ustica. E poi il terrorismo, il caso Moro, Emanuela Orlandi, che diventerà poi una docu serie di successo internazionale, Vartican Girl su Netflix. Ma con quella stesa voce che sembrava impossibile riuscisse a dire qualcosa di non drammatico, come se stesse parlando con te, solo con te per impedire di farti girare lo sguardo da un'altra parte di fronte alla storia, ecco con quello stesso tono baritonale da Sparafucile che soffiava dalla barba la scomodità che ci circonda, era capace però di entrare a passo di valzer nell’intrattenimento più puro, quello della risata liberatoria.

Autore e protagonista con l’amico di sempre Corrado Guzzanti, dirigeva come un’orchestra lo studio surreale e irripetibile del Caso Scafroglia. Voce fuori campo di un Chi l’ha visto della notte in chiave meravigliosamente satirica, andava in onda su Rai Tre quando ancora era Rai Tre in una manciata di minuti ai limiti della notte. Era il 2002, l’ultima volta di Guzzanti alla Rai, ma la collaborazione tra i due doveva dare ancora molte soddisfazioni a un pubblico affamato di intelligenza. Così Purgatori passeggia in camicia nera coi fascisti su Marte, rosso pianeta bolscevico e traditor. E lo segue anche a Sky, come autore di Aniene a cui regala per la seconda edizione ancora una volta la sua voce.

Giornalista dunque, ma anche attore, autore, sceneggiatore, spesso sbucava all’improvviso, dove meno lo si poteva aspettare. In Boris, in The Bad Guy, con Carlo Verdone, dietro le quinte di Marco Paolini, per poi tornare a passeggiare davanti alla camera, guardando dritto la luce rossa, come un minatore dell’informazione che segue la sua torcia nel buio. E senza mai smettere di essere quello che era, una mente lucida, ironica, generosa e irripetibile. Come la sua voce.

Morte Andrea Purgatori, Atlantide: l'ultima impresa prima di lasciarci. Libero Quotidiano il 19 luglio 2023

Addio ad Andrea Purgatori: il giornalista, sceneggiatore e autore è morto a 70 anni. Stroncato da una malattia fulminante, così come fanno sapere i suoi figli e la sua famiglia. Un lutto improvviso e doloroso. Per anni al Corriere della Sera, dove ha indagato a fondo sulla strage di Ustica riuscendo a tenere aperto il caso, ora era in forza a La7, dove conduceva il programma Atlantide. Il mondo della politica, della cultura e del giornalismo si è stretto in un abbraccio profondo e sincero a Purgatori e alla sua famiglia.

Molto scosso Andrea Salerno, direttore de La7 dove Purgatori era tra i volti di punta. "Andrea Purgatori se n'è andato via. Perdo un amico vero, un compagno di avventure, di tanta vita, di lavori fatti assieme con divertimento e passione. Non riesco a crederci. Ai suoi cari, ai suoi adorati figli e alla sua famiglia, tutto l’amore e la vicinanza del mondo", ha scritto su Twitter Salerno.

E ancora: "Tutta La7tv si stringe attorno a loro e a chi gli ha voluto bene. Perdiamo un autore, un giornalista vero, di tacchi e suole consumate, che ci lascia tanto e ci ha insegnato tanto, a me per primo. Grazie amico, grazie per tutto e per sempre. E maledizione, nulla è giusto. Ciao", ha concluso.

Dunque, Salerno ha fatto sapere che questa sera, mercoledì 19 maggio, andrà in onda l'ultima puntata di Atlantide. "Un lascito, quello di Andrea Purgatori, che non andrà disperso, che cercheremo di applicare a quello che faremo, tutti i giorni di qui in avanti. Questa sera, nel suo mercoledì, andrà in onda l’ultima puntata di Atlantide sulle stragi di mafia fatta assieme e trasmessa a maggio per chiudere la stagione", aggiunge sempre su Twitter Salerno.

"Una puntata a cui Andrea aveva lavorato con tutte le sue forze e la sua tenacia in condizioni già non facili. Era una replica che avevamo pianificato assieme per ricordare l'attentato di Via D’Amelio. Voleva così e così sarà. E con Corrado Guzzanti, nell’ultimo mese, avevamo scherzato su un'idea per il 25 luglio che verrà... e come avrebbe detto lui: oh non sprechiamo l’occasione. Non la sprecheremo di certo Andrea", conclude Salerno con una promessa a Purgatori.

È morto Andrea Purgatori, il giornalista che indagò sulla strage di Ustica. A lungo giornalista del Corriere, il volto di La7 aveva 70 anni. Tra le sue inchieste il caso Moro e Orlandi. Il Dubbio il 19 luglio 2023

È morto stamattina in un ospedale romano, dopo una breve malattia, il giornalista, sceneggiatore, autore e conduttore Andrea Purgatori. Lo si apprende in ambienti di La7, dove aveva condotto l'apprezzata trasmissione 'Atlantide'. Purgatori, che aveva 70 anni, si era fatto conoscere, dalle pagine del Corriere della Sera per i suoi articoli sul terrorismo e in particolare per la sua inchiesta sulla Strage di Ustica, a cui si dedicò per molti anni. Su Ustica scrisse anche la sceneggiatura di 'Il muro di gomma', diretto da Marco Risi. Era stato anche attore nel film 'Fascisti su Marte' diretto da Corrado Guzzanti e Igor Skofic.

Dal 12 maggio 2014 al 15 giugno 2020 è stato presidente di Greenpeace Italia. Era membro dell'Accademia del Cinema Italiano e dell'Accademia europea del cinema, presidente delle Giornate degli Autori e dal 4 marzo 2015 era membro del Consiglio di Gestione della Società Italiana degli Autori ed Editori (SIAE). Dalla stagione televisiva 2017-2018 conduceva su LA7 la nuova edizione di Atlantide, per il quale aveva ricevuto il Premio Flaiano 2019 come miglior programma culturale. Nell'autunno del 2022 è stato protagonista della docu-serie di Netflix 'Vatican Girl: la scomparsa di Emanuela Orlandi'. 

Inviato del Corriere della Sera dal 1976 al 2000, è noto per le inchieste e i reportage su casi scottanti del terrorismo internazionale e italiano negli "anni di piombo" e sullo stragismo, come il caso Moro e la strage di Ustica. Ha raccontato numerosi delitti di mafia dal 1982, fino alla cattura di Totò Riina. Ha realizzato reportage su molti conflitti, come la guerra in Libano del 1982, la guerra tra Iran e Iraq degli anni ottanta, la guerra del Golfo del 1991, l'Intifada e le rivolte in Tunisia e Algeria. Si è occupato di terrorismo, intelligence, criminalità, ma la sua inchiesta più importante riguarda la strage di Ustica del 1980.

Come scrive Paolo Conti che gli fu collega al quotidiano di Via Solferino, "Andrea Purgatori ha svelato le bugie e le omissioni di chi portava avanti la tesi di una bomba esplosa a bordo dell'Itavia che il 27 giugno 1980 viaggiava con 81 persone a bordo rivelando come il disastro fosse stato causato dall'impatto con un missile. E rimanendo sempre al fianco dei familiari delle vittime e soprattutto garantendo la ricerca della verità. Per questo Purgatori-Ustica è diventato un vero sinonimo, un marchio professionale di straordinaria continuità, di desiderio di arrivare alla verità".

Purgatori è stato autore di reportage e ha condotto su La7 la trasmissione d'inchiesta 'Atlantide'. Docente di sceneggiatura, consigliere degli autori, tra i suoi ultimi lavori la partecipazione alla docuserie di Netflix 'Vatican Girl' sul caso di Emanuela Orlandi. Per il cinema ha scritto tra l'altro 'Il muro di gomma' (1991) ispirato alla sua inchiesta sulla strage di Ustica, 'Il giudice ragazzino' (1994), 'L'industriale' (2011). Ha ottenuto tra gli altri il Nastro d'argento 1992 per il miglior soggetto con 'Il muro di gomma', il Premio Hemingway di giornalismo nel 1993, il Premio Crocodile - Altiero Spinelli per il giornalismo nel 1992, il Globo d'oro 1994 per la miglior sceneggiatura con 'Il giudice ragazzino' e nel 2009, con Marco Risi e Jim Carrington, si è aggiudicato il premio Sergio Amidei per la miglior sceneggiatura internazionale con il film 'Fortapa'sc'. Impegnato anche nelle battaglie ambientaliste, dal 12 maggio 2014 al 15 giugno 2020 è stato presidente di Greenpeace Italia.

Andrea Purgatori, Telese si commuove a In Onda per il tweet della Roma. Il Tempo il 19 luglio 2023

È morto stamattina all'età di 70 anni in ospedale a Roma il giornalista Andrea Purgatori: era malato e le sue condizioni si erano aggravate nelle ultime ore. Giornalista d'inchiesta, ha lavorato con il Corriere della Sera, dove ha seguito la strage di Ustica e numerosi casi di cronaca. Ha condotto su La7 il programma 'Atlantide'. Purgatori ha anche partecipato al documentario 'Vatican Girl: la scomparsa di Emanuela Orlandi'. Il volto della televisione di Urbano Cairo viene ricordato nel corso della puntata del 19 luglio di In Onda, dove è ospite Flavia Perina, editorialista de: "Non era possibile dare nessuna etichetta ad Andrea Purgatori, non era un giornalista né di destra né di sinistra né di centro. Questa è la migliore dimostrazione della serietà e dell’equilibrio del suo lavoro".

Le parole della collega danno l’assist a Luca Telese, conduttore della trasmissione insieme a Marianna Aprile: "Aveva però un'etichetta, un'appartenenza molto forte, so quanto gli avrebbe fatto piacere leggere il tweet della Roma". La voce del giornalista è rotta dalla commozione per la scomparsa del collega ed Aprile viene in suo aiuto prendendo la parola. Purgatori era un grande tifoso della Roma – abbonato in Tribuna Tevere – e il club giallorosso ha voluto ricordarlo così: “Un fuoriclasse del giornalismo e un grande romanista. Ciao Andrea”. 

Andrea Purgatori, dal "muro di gomma" di Ustica a Emanuela Orlandi. Il Tempo il 19 luglio 2023

È morto a Roma all’età di 70 anni Andrea Purgatori, il giornalista d’inchiesta che picconò il "muro di gomma" attorno alla strage di Ustica e indagò sui misteri d’Italia, dalla stagione del terrorismo al caso Orlandi. Purgatori si è spento in ospedale dopo una breve, fulminante malattia. Come cronista e poi capo della cronaca del Corriere della Sera si era occupato di terrorismo, servizi segreti e criminalità firmando tantissimi servizi e reportage, dal caso Moro all’arresto di Totò Riina. Il nome di Purgatori resterà legato indissolubilmente alla battaglia per far luce sull’incidente aereo del 1980 in cui morirono 81 persone, denunciando depistaggi e insabbiamenti e contribuendo a tenere aperta l’inchiesta giudiziaria per arrivare alla verità su cosa avvenne sul cielo a nord della Sicilia. Come ha scritto un suo ex collega del Corriere, Paolo Conti, «ha svelato le bugie e le omissioni di chi portava avanti la tesi di una bomba a bordo, rivelando come il disastro fosse stato causato dall’impatto con un missile». «Per questo Purgatori-Ustica è diventato un vero sinonimo, un marchio professionale di straordinaria continuità, di desiderio di arrivare alla verità», ha aggiunto.

La carriera di Purgatori ha spaziato anche sugli esteri, come inviato di guerra in Libano nel 1982, per la guerra tra Iran e Iraq e quella del Golfo del 1991. Come autore televisivo si occupato di numerosi programmi della Rai (Uno di notte, Confini e tanti servizi per Dossier, Spazio Sette e Focus). Dopo la lunga esperienza al Corriere, di cui era tornato a essere un collaboratore, negli ultimi anni aveva condotto il programma di inchiesta Atlantide su La7 (Premio Flaiano 2019 come miglior programma culturale) e aveva collaborato come autore al documentario di Netflix Vatican Girl sul caso di Emanuela Orlandi. 

Il cinema lo ricorda soprattutto per la sceneggiatura del celebre "Il muro di gomma" del 1991 sulle inchieste sulla strage di Ustica (Nastro d’Argento per il migliore soggetto) e di Il giudice ragazzino (1994) sull’omicidio di Rosario Livatino. Impegnato sui temi dell’ambientalismo, dal 2014 al 2020 Purgatori è stato anche presidente di Greenpeace Italia. Unanime il cordoglio della politica: la Camera lo ha ricordato con un minuto di silenzio. La sottosegretaria alla Cultura Lucia Borgonzoni lo ha ricordato come «un professionista e un uomo che ha fatto della ricerca e del racconto della verità la sua cifra stilistica» con «pagine di giornalismo che rimarranno scolpite» e uno «sguardo acuto» anche nel «mondo della televisione e del cinema». La Fnsi lo ha definito «un esempio per tutti». 

A 70 anni. È morto Andrea Purgatori, addio al giornalista e conduttore televisivo. La scomparsa improvvisa, a causa di una malattia fulminante. Era stato anche attore e doppiatore, autore di grandi inchieste sui casi della strage di Ustica e sulla scomparsa di Emanuela Orlandi. Redazione Web su L'Unità il 19 Luglio 2023

È morto all’improvviso il giornalista e conduttore Andrea Purgatori, noto al grande pubblico per le sue inchieste e per la trasmissione che conduceva su La7, “Atlantide”, in onda dal 2017, che spaziava dai grandi misteri irrisolti a gialli italiani, dalla geopolitica a biografie storiche. Una notizia arrivata all’improvviso, diffusa da Il Corriere della Sera, il giornale per il quale Purgatori lavorava da oltre quarant’anni e per il quale continuava a scrivere. Purgatori è stato anche attore, sceneggiatore, doppiatore e saggista.

Secondo quanto riportato dal quotidiano, è stato stroncato da una malattia fulminante. È morto a Roma, dov’era nato nel 1953. Aveva studiato al Master of Science in Journalism della Columbia University a New York nel 1980. Per Il Corriere era stato inviato dal 1976 al 2000, aveva trattato inchieste e reportage su stragi di mafia e terrorismo, intelligence e guerre. Ha condotto e lavorato a programmi come Uno di notte, Dossier, Spazio Sette, Focus e Confini per la Rai.

Era risultato molto influente il suo contributo nelle inchieste sulla strage di Ustica e sul caso della scomparsa di Emanuela Orlandi. Su Ustica scrisse anche la sceneggiatura di Il muro di gomma, diretto da Marco Risi, e su Netflix era stato tra i protagonisti intervistati nella docu-serie Vatican Girl: la scomparsa di Emanuela Orlandi. Purgatori era stato anche attore nel film Fascisti su Marte diretto da Corrado Guzzanti e Igor Skofic. Dal 12 maggio 2014 al 15 giugno 2020 è stato presidente di Greenpeace Italia. Era membro dell’Accademia del Cinema Italiano e dell’Accademia europea del cinema, presidente delle Giornate degli Autori e dal 4 marzo 2015 era membro del Consiglio di Gestione della Società Italiana degli Autori ed Editori (SIAE).

Purgatori ha pubblicato anche un romanzo, Quattro piccole ostriche, per HarperCollins. Ha vinto il Premio Flaiano nel 2019 con Atlantide, come miglior trasmissione culturale. Ha vinto anche il Nastro d’Argento per Il Muro di Gomma, il Premio Hemingway di giornalismo, il Premio Crocodile – Altiero Spinelli, il Globo d’Oro alla miglior sceneggiatura per Il giudice ragazzino e il premio Sergio Amidei per la miglior sceneggiatura internazionale per Fortapàsc, il film ispirato alla vicenda e all’omicidio del giornalista napoletano Giancarlo Siani.

“La vicenda di Ustica sintetizza tutto il carattere di Andrea Purgatori – si legge nell’articolo in ricordo su Il Corriere della Sera – , il suo istinto di eccellente cronista (teneva molto a questo appellativo), di inviato di grande livello e qualità (per anni si occupò di Iran e di Libia in tempi in cui lavorare su quei campi era particolarmente complesso). Una scrittura densa, rapida, priva di inutili orpelli, diciamo severa. Esattamente come il linguaggio televisivo che i telespettatori hanno ritrovato nell’avventura di “Atlantide”.

Purgatori aveva sposato nel 1992 in Svizzera una storica dell’arte di origine tedesca. La coppia si era poi separata. Avevano avuto tre figli, Edoardo, Ludovico e Vittoria.

Redazione Web 19 Luglio 2023 

Il lavoro del cronista. Da Emanuela Orlandi a Ustica, tutte le grandi inchieste di Andrea Purgatori: “L’ora della verità”. Redazione Web su L'Unità il 19 Luglio 2023

Ricercava la verità a costo di scontrarsi con un ‘muro di gomma’ come il titolo del film diretto da Marco Risi ispirato proprio alle sue inchieste, quella di Ustica, per svelare i depistaggi e le coperture sul tragico incidente aereo del 27 giugno 1980 sulle acque dell’isola siciliana. Andrea Purgatori, giornalista e autore, si è spento a 70 anni a causa di una grave malattia che non gli ha lasciato scampo. Lascia un patrimonio collettivo di inchieste e ricerca della verità su alcuni dei cold case italiani mai risolti. Il modo con cui Purgatori ha indagato sulle reali cause che portarono all’abbattimento del volo Itavia, con la morte di 81 persone, fotografa il suo essere cronista nel senso più alto del termine.

“Senza Andrea Purgatori, per gli italiani Ustica sarebbe ancora uno splendido isolotto in mezzo al mare”, ha detto Beppe Giulietti, coordinatore dei Presidi di Articolo 21 e già Presidente della Fnsi, nel ricordare il collega. Purgatori per anni è stato, tra l’altro, al Corriere della Sera dove si è occupato di terrorismo, intelligence, criminalità, e si è dedicato con tenacia alla strage di Ustica del 1980. “Ma non solo quella, sia chiaro”, prosegue Giulietti. “È amaro pensare che con le regole di oggi sarebbe stato impossibile portare avanti quelle inchieste. Va detto che Andrea non seguì nemmeno le regole di ieri. Perché questo il giornalismo di inchiesta: mettere la ricerca della verità al centro”.

Al Corriere della Sera, da cronista puro, Purgatori si era occupato di terrorismo, intelligence, criminalità, firmando inchieste e reportage memorabili su alcuni tra i casi più scottanti dell’Italia negli ‘anni di piombo’ come il caso Moro. Ha raccontato numerosi delitti di mafia dal 1982, fino alla cattura di Totò Riina. Da reporter di guerra ha realizzato reportage su molti conflitti, come la guerra in Libano del 1982, la guerra tra Iran e Iraq degli anni ottanta, la guerra del Golfo del 1991, l’Intifada e le rivolte in Tunisia e Algeria. È stato autore e conduttore di ‘Uno di notte’ (Rai 1, 1999). Ha realizzato servizi televisivi per Dossier, Spazio Sette, Focus (Rai 2 1978/1988); in video ha condotto anche ‘Confini’ (Rai 3, 1996). Purgatori ha scritto anche per l’Unità, Vanity Fair, The Huffington Post e Le Monde diplomatique. Per la tv si è occupato di Tangentopoli, del caso Pecorelli, della caduta del muro di Berlino, della morte di Marco Pantani e, più recentemente, di quella dell’ambasciatore Luca Attanasio.

Si occupò tanto anche della vicenda di Emanuela Orlandi. Il 22 aprile scorso, Andrea Purgatori presentava la puntata di Atlantide che si occupava dell’inchiesta aperta in Vaticano sulla misteriosa scomparsa della ragazza con la fascetta. “L’ora della verità” era i titolo della puntata in cui rimise insieme i pezzi su quello che si sapeva fino ad allora sulla scomparsa della giovane. E non è un caso che tra i suoi ultimi lavori si annovera la partecipazione alla docuserie Netflix Vatican Girl. Scriveva Purgatori sul Corriere della Sera l’11 ottobre 2022: “Perché se quello di Emanuela non fu un rapimento su commissione di un potente pedofilo annidato all’interno del Vaticano, di sicuro la sua scomparsa fu usata come strumento di ricatto da chi (un’organizzazione mafiosa?) pretendeva dallo Ior la restituzione di una montagna di denaro che invece di essere riciclato era sparito nel crac da 1.200 miliardi di lire del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi (poi «suicidato» a Londra sotto il Ponte dei Frati Neri), di cui monsignor Marcinkus era corresponsabile. Un ricatto senza mai fornire la prova in vita di Emanuela, ma talmente inconfessabile da costringere il Vaticano a trattare. E così fu. Con una coda di altri ricatti incrociati, documenti falsificati, intrecci internazionali (il killer mancato del papa Ali Agca, la Polonia di Solidarnosc cara a Giovanni Paolo II), e un silenzio lungo quasi quarant’anni e tre pontificati che ha devastato una famiglia che da lì dove tutto è cominciato attende ancora risposte”.

“Un esempio per tutti. Sempre in prima linea nella ricerca della verità sui misteri italiani, nella lotta per sconfiggere i muri di gomma della storia della Repubblica, in difesa della libertà di stampa. Andrea Purgatori è stato un giornalista d’inchiesta straordinario, un eccellente scrittore, autore, sceneggiatore, volto televisivo. La sua scomparsa improvvisa ci lascia attoniti, frastornati”. Lo affermano, in una nota, Alessandra Costante e Vittorio di Trapani, segretaria generale e presidente della Federazione nazionale della Stampa italiana. “Il modo più giusto per onorare oggi la sua memoria – proseguono – è rinnovare l’impegno di tutte le croniste e i cronisti a continuare a indagare sui misteri d’Italia, a raccontarli, a cercare la verità. La Fnsi rivolge un commosso abbraccio ai colleghi de La7 e si stringe alla famiglia di Andrea”.

Redazione Web 19 Luglio 2023

Quale allegria. Andrea Purgatori e l’impresa coraggiosa di non morire in pubblico. Guia Soncini su L'Inkiesta il 20 Luglio 2023

Di fronte alla malattia, ognuno reagisce come crede e tutto è legittimo. La rappresentazione pubblica è lo spirito del tempo, ma da Nora Ephron a David Bowie al giornalista che a ventisette anni ha fatto la storia c’è anche un’alternativa

Ho un’amica che non è il ritratto della salute. Ogni tanto qualcuno mi chiama, chiedendo: ma come sta? Ma a te ha detto cos’ha? (Immagino che analoghe conversazioni possano in mia assenza riguardare me, che pure non figuro nella Treccani alla voce «massimo della forma»).

Di solito dico no, non lo so, parliamo d’altro, se volesse parlare della sua salute ne parlerebbe, e di solito la conversazione si conclude con: eh ma dobbiamo sapere. Ma perché dobbiamo sapere? Uno avrà il diritto di vivere e morire come vuole, di raccontare e tacere quel che gli pare?

C’è stato un momento, qualche anno fa, in cui che le persone famose raccontassero i loro malanni, le loro agonie, le loro diagnosi, c’è stato un momento in cui era una novità. Come tutte le novità, sembrava strana, e molte altre cose tra cui: significativa.

Come tutte le novità, incontrò una fase iniziale di moralismo spicciolo. Eh ma l’esibizionismo, eh ma la pornografia del dolore, eh ma la rava, eh ma la fava, eh ma io non lo farei mai. All’epoca noi felici pochi col senso del ridicolo provavamo ad arginare i moralisti da due spicci dicendo: ma che ne sai, di che faresti se ti dicessero che muori tra sei mesi. Che ne sai di come reagiresti. E soprattutto: ma perché gli altri devono morire come piace a te.

Poi, come tutti i cambiamenti clamorosi del costume avvenuti in questo secolo, la morte in diretta è diventata rapidamente normale, e adesso postare le foto della propria chemio non è più strano che postare quelle della pizza (ma si prendono più like, perché pure chi ti detesta – e sotto la foto della pizza scriverebbe «tu mangi la pizza da trenta euro e io non arrivo a fine mese, vergogna» – si sente un infame a non metterti un cuoricino se gli stai dicendo che sei terminale).

Nel 2023, solo chi è appena tornato da Marte ritiene che dare pubblicamente conto d’una propria malattia rappresenti qualcosa, qualunque cosa: che sia significativo, che (scusate la parola) normalizzi, che (scusate di nuovo la parola) sdogani.

Diceva Maurizio Costanzo che, quando ti chiedevano come stavi, bisognava sempre rispondere con qualche acciacco, così l’interlocutore poteva compatirti invece che invidiarti e ti risparmiavi gli spilloni nella bambolina. L’idea instagrammatica della bellissima che si riprende in lacrime o con lo smalto sbeccato per sembrarci meno aliena e irraggiungibile è la modernizzazione di quell’ovvio concetto, e mostrare le malattie è il perfezionamento di quella strategia: sono fragile, sono come voi.

Quando Nora Ephron è morta di nascosto, undici anni fa, non ha fatto impressione che non avesse fatto la cronaca momento per momento delle proprie cartelle cliniche: ancora non si faceva. Ha fatto impressione che non l’avesse detto agli amici, che i familiari abbiano dovuto chiamare chi doveva parlare al suo funerale dicendo: voleva che facessi un discorso pubblico, ma in privato non voleva dirti che stava morendo.

Che poi non è neanche vero che non l’avesse detto: l’aveva detto in letteratura, aveva pubblicato pochi mesi prima un libro in cui elencava le cose che le sarebbero mancate e le cose che non le sarebbero mancate, e nessuno di noi stolidi conoscenti, intervistatori, lettori, recensori, si era posto l’elementare domanda «ma le mancheranno perché? Dove andrà, che non ci saranno più Sarah Palin e i convegni sul cinema femminile?».

Quando, quattro anni dopo, uscì Blackstar, un disco così pieno di morte che in confronto il Requiem di Mozart era una marcia nuziale, a nessuno venne il sospetto che pochi giorni dopo sarebbe arrivata la notizia della morte di David Bowie.

Ma, poiché viviamo in un mondo di mitomani, e poiché chi osa far ciò che oggi è diventato eccezionale – non trasformare la propria morte una rappresentazione pubblica – ci priva del nostro diritto a sentirci dentro le cose, a saperla lunghissima, a fare i capiscioni, a causa di tutti questi nostri complessi, in morte di Bowie arrivarono quelli che a Ephron erano stati risparmiati: quelli che «certo, nell’ambiente si sapeva».

Ieri, mentre i conoscenti di Andrea Purgatori si telefonavano sconvolti dicendosi «ma mi aveva detto “un problema”, ma in un tono che io pensavo psoriasi», i social e le chat si riempivano di saperlalunghisti che inventavano diagnosi. Il «me l’ha detto mio cugino» della causa di morte è lo scotto che paghi se non ti fotografi in reparto.

Di Andrea Purgatori racconteranno tutti, del suo eccezionalismo (l’ha scritto Antonio Dipollina, ed è vero: era uno che non era fuoriposto mai, né quando faceva le inchieste né quando faceva il cazzone). A me fa impressione soprattutto che, quando lo chiamarono per dirgli che Ustica non era come sembrava e lui si mise lì e fece la storia del giornalismo italiano, aveva ventisette anni. Non so se vi ricordate i vostri ventisette anni: io mi ricordo i miei.

Delle cose importanti racconteranno tutti, e io vorrei quindi confermare la pessima opinione che avete di me raccontando una scemenza. Le donne che conosco si dividono (non voglio usare l’imperfetto) tra quelle che considerano Purgatori il massimo sex symbol della tv italiana, e quelle che dicono «ma per carità» (le seconde sono una minoranza, ma agguerrita).

Sei settimane fa ho passato la serata con una della mozione «per carità», e abbiamo baccagliato a lungo sul tema caldo della sdraiabilità di Purgatori (gli uomini presenti erano un po’ imbarazzati, e molto invidiosi). La mattina dopo ho chiamato un mio amico, che era anche uno dei più cari amici di Andrea Purgatori, e gli ho detto ma ti rendi conto, si mettono in discussione i fondamentali.

Lui, che diversamente da me sapeva come stava Purgatori, gli ha fatto il più gran regalo che si possa fare a uno che non vuole stare male in pubblico: ha fatto finta di non essere triste e preoccupato, ha simulato allegra complicità, e si è prestato per un minuto a discutere delle sfumature di sdraiabilità (col caldo meno, con l’aperitivo e l’aria condizionata di più: lo sapete, sono conversazioni che avete anche voi, ma di solito le avete su gente che poi campa ancora a lungo).

Ieri, quando un’amica di Purgatori mi ha scritto «affrontava tutto con allegria: anche le rotture di coglioni», ho pensato che ci sono tantissime ragioni per decidere di morire in pubblico, dall’affetto degli sconosciuti al bisogno di riempire la smisurata solitudine di certi reparti ospedalieri; ma stare male di nascosto è l’unica cosa che puoi fare se non vuoi passare mesi, anni a incarnare il lutto collettivo: se vuoi, invece di ricevere la contrizione dei passanti per la fine imminente, mentire e conservare per qualche attimo ancora la possibilità dell’allegria.

Quell’incontro con Purgatori nella sede romana del Corriere. Sciltian Gastaldi, Insegnante, giornalista e scrittore, su Il Riformista il 19 Luglio 2023

Era il 1991 e io avevo 16 anni. Avevo da poco visto il bellissimo film di Marco Risi, Il muro di gomma, tutto incentrato sull’appassionante storia di un giornalista d’assalto del Corriere della Sera, Andrea Purgatori, alla ricerca della verità sul caso Ustica. Di quella pellicola Purgatori era stato anche co-soggettista e co-sceneggiatore e io, da figlio di sceneggiatore, sapevo quanto importante fosse quel fatto.

Volevo fare il giornalista sin da allora, e quando seppi (non so bene come) che Purgatori, da studente, aveva frequentato il mio stesso liceo scientifico, l’Avogadro di Roma, mi feci coraggio e gli chiesi un appuntamento per un’intervista. Volevo capire come era arrivato a essere il giornalista che già era. Sì, a meno di 40 anni d’età lui era già un monumento della stampa italiana. Nel mio liceo, anzi, nel “nostro” liceo, non c’era nemmeno un giornalino d’istituto, per cui quella mia richiesta d’incontro nasceva solo per soddisfare un mio bisogno, un entrare in contatto con qualcuno che aveva avuto successo in un campo di mio interesse. All’epoca la scuola non provvedeva a nessun tipo di orientamento in uscita, non c’erano alternanze scuola-lavoro e nessun incontro con personaggi di campi non scolastici. Questo, a ripensarci oggi, rendeva ancora più debole la possibilità di ottenere un incontro con lui.

E invece Purgatori fu gentilissimo: lavorava all’epoca al Corriere della Sera nella redazione romana di via Tomacelli 160 e mi propose di andarlo a trovare lì, in centro. Entrai in quel palazzo ben consapevole che mi sarebbe tanto piaciuto poterci rientrare un giorno, da grande, come redattore (anche se a dirla tutta all’epoca avevo il pallino di Repubblica, ed era il periodo del gran dualismo fra i due quotidiani, al punto che mi sentivo un po’ come un tifoso della Lazio che entrava nella sede della Roma).

Ho dei ricordi a lampo di quella breve visita (non credo più di 20 minuti, perché rammento che avevo letto di dover fare domande brevi e poi non volevo rubargli troppo tempo). Mi presentò a qualcuno del suo open space, mi illustrò il casino delle scrivanie sua e di un po’ tutti. Una cosa che ricordo è che su qualche scrivania c’erano ancora delle macchine per scrivere insieme ai grossi monitor dei computer dell’epoca.

Non ricordo tutto ciò che gli chiesi, ma nella casa di mio padre dovrebbe ancora esserci da qualche parte il nastro della sua intervista; sicuramente una domanda sul come era diventato giornalista e lui mi raccontò di questo master in giornalismo della Columbia University di New York, che io all’epoca conoscevo già perché avevo letto che Furio Colombo, altra immensa penna della stampa, ci aveva insegnato. L’idea di frequentare una scuola di giornalismo mi nacque probabilmente da quell’incontro. Certamente gli chiesi di come gli era nato l’istinto per scrivere di Ustica, agli inizi del fatto. Purtroppo non ricordo bene cosa mi rispose.

Il mio ricordo di Purgatori è dunque quello di un uomo mite e gentile. Disposto a farsi intervistare da un pischello romano in calzoncini corti solo con la scusante di provenire dallo stesso liceo. Ricordo che in quel breve incontro pomeridiano Purgatori era chiaramente contento di fare il giornalista. Altri suoi colleghi in quella redazione mi erano parsi molto più annoiati, e le tante altre volte che sarei entrato in una redazione di giornale avrei rivisto quella noia negli occhi di molti altri futuri colleghi. Andrea Purgatori no, aveva l’aria di un uomo curioso, soddisfatto e interessato, perfino di rispondere alle mie scontate domande di sedicenne.

La bellezza e lo stile di Andrea Purgatori. Storia di Aldo Cazzullo su Corriere della Sera il 20 luglio 2023.  

Caro Aldo, Andrea Purgatori ha vergato pagine indimenticabili di giornalismo investigativo. Poi si trasformò in un documentato film-maker, realizzando imperdibili reportage su tanti misteri italiani. Da ieri il fratello della cittadina vaticana e i familiari delle vittime della tragedia di Ustica sono più soli. Pietro Mancini Un grande giornalista appassionato della verità. È un dovere morale raccogliere la sua eredità investigativa. Fabrizio Pascotto Un professionista straordinario alla ricerca della autenticità, ma anche un uomo perbene. Mancherà a questa nostra Italia. Alessia Massi

Cari lettori, Andrea Purgatori era uno di noi, nel senso che da molti decenni faceva parte della comunità del Corriere e poi de La7. Nello stesso tempo, Andrea Purgatori era la parte migliore di noi. Veniva da un’epoca in cui il giornalismo era più importante, e le vite dei giornalisti erano più varie, a volte drammatiche, a volte divertenti. Andrea era innanzitutto un uomo molto bello (certo secondo un canone diverso da quello odierno, che considera belli i tronisti depilati), aveva una faccia da attore, e infatti lo fu: si divertì molto a interpretare il camerata Fecchia in «Fascisti su Marte», con il suo amico Corrado Guzzanti. E poi era un uomo che aveva stile. Con i colleghi più giovani era amichevole, anche complice, ma non si apriva mai del tutto, aveva il tratto sfuggente del vecchio cronista che ha una notizia in più ma non può dirtela, perché forse la leggerai domani. C’è una scena ne «Il muro di gomma» in cui il protagonista, che interpreta appunto la parte di Purgatori, affronta e quasi aggredisce i vertici dell’aeronautica che escono impuniti dalle aule giudiziarie. Eravamo ragazzi quando vedemmo il film, e ci dicemmo che un giornalista avrebbe dovuto essere così, non contro il Palazzo ma fuori, del tutto disinteressato al potere e per nulla intimorito dai potenti. Sono passati più di trent’anni da allora, Andrea Purgatori ha affrontato molti altri argomenti oltre a Ustica, ha sperimentato nuovi modi di raccontare; ma non ha mai cambiato la sua attitudine, è sempre rimasto fedele a se stesso, e così noi lo ricorderemo.

Dagospia il 19 luglio 2023. Riceviamo e pubblichiamo:

Caro Dago,

non mi piace scrivere di cose personali, ma sento oggi l'urgenza di salutare, sul tuo sito, il grande amico Andrea Purgatori. Ci siamo conosciuti più di trent'anni, fa quando lui era corrispondente del “Corriere della Sera” per Roma, grazie alla sua moglie di allora, Nicole, che era critico d'Arte. 

Mi colpì subito la raffinata intelligenza di Andrea che era gemellata ad una profonda umiltà (rimaste assolutamente immutate fino ad oggi). 

La sua curiosità era straordinaria ed irrefrenabile. Un detective della Storia, uno di quelli bravi. Aveva la battuta sempre pronta, era leale, autoironico e burberamente affettuoso (come sanno esserlo, in modo assolutamente particolare, unico direi, i veri Romani).

Il grande pubblico lo ha conosciuto per le sue trasmissioni televisive. Ma mi fa piacere ricordarlo anche come scrittore. Quando mi inviò una copia del suo "Quattro Piccole Ostriche", appena pubblicato, mi chiese semplicemente: "leggilo e dimmi cosa ne pensi, se puoi sii severo". Lo lessi in un paio di giorni, quasi senza alzare lo sguardo dal libro.  

E' un thriller ambientato in Svizzera e a Berlino, prima e dopo la Guerra Fredda. Il mio rapporto fu: "acchiappa ed è molto ben scritto (davvero), ottima la descrizione dei luoghi e delle atmosfere". La risposta fu: "Bene, ti ringrazio Antonio, mi lusinghi, adesso potresti anche andare a comperartene finalmente una copia". Andrea, amico mio, oggi vado. Antonio Riello

Andrea Purgatori morto, l'orrore: "Fott***, avanti con la pulizia!". Chi è la belva. Libero Quotidiano il 19 luglio 2023

Come ogni scomparsa dal dopo Covid, non manca lo sciacallaggio dei no vax sulla morte di Andrea Purgatori. Accade sotto il tweet di Raffaella Regoli, giornalista di Fuori dal Coro. Qui spuntano diversi commenti con le emoji delle siringhe. Il riferimento è chiarissimo: i no vax vogliono associare il decesso del conduttore alle vaccinazioni contro il Covid. Altri, poi, accusano il giornalista di essere "stato complice su Covid e 'vaccinazioni'".

Finita qui? Niente affatto. Tra i commenti ecco quelli più vergognosi: "Pro siero .. quindi fo**sega… avanti con la pulizia". Tra chi insulta spunta anche lui, Paolo Pace, già esponente del partito Ancora Italia e successivamente candidato alla Camera con Italia Sovrana e Popolare. È lui su Facebook a scrivere: "Il tempo è galantuomo", condividendo gli screenshot riguardanti il decesso di Purgatori e quelli relativi ai suoi interventi critici contro i No Vax nel corso della pandemia Covid-19. Nello screen anche il seguente commento: "L’ennesimo odiatore ultravax che se ne va per malore o malattia fulminante. Ancora negate la correlazione? Ok, allora è il karma". 

Ma non solo, perché insulti simili appaiono anche nel gruppo Facebook Danni Collaterali. "Un altro mercenario in meno" scrive l’utente Filippo, "La sfoltita prosegue" commenta Lucia, "Bravo e serio. Rip" pubblica l’utente David, "Eppure ci credeva nel siero magico" scrive un’altra utente condividendo lo screenshot dell’intervento Twitter di Purgatori dove definiva i medici No Vax criminali.

Estratto dell’articolo di David Puente per open.online il 19 luglio 2023.

La morte di Andrea Purgatori, giornalista e conduttore di Atlantide su La7, ha dato il via a una serie di interventi social che agitano gli ambienti No Vax rilanciando lo slogan “nessuna correlazione”. Sotto il tweet di Raffaella Regoli, giornalista del programma televisivo Fuori dal Coro (Mediaset) particolarmente seguito da questi ambienti, si riscontrano diversi commenti con le emoji delle siringhe al fine di associare il decesso del conduttore con le vaccinazioni anti Covid, mentre altri accusano il giornalista di essere «stato complice su Covid e “vaccinazioni”». 

C’è chi va oltre, cogliendo la notizia con gioia scrivendo «Pro siero .. quindi fottesega… avanti con la pulizia…», mentre altri contestano la giornalista di Fuori Dal Coro per il suo tweet: «Brava Regoli il tuo obbiettivo raggiunto a lei non frega nulla della morte di Purgatori. Voleva scatenare l’odio». Quelli nel tweet di Regoli sono solo alcuni esempi.

«Il tempo è galantuomo» scrive via Facebook Paolo Pace, già esponente del partito Ancora Italia e successivamente candidato alla Camera con Italia Sovrana e Popolare, condividendo gli screenshot riguardanti il decesso di Purgatori e quelli relativi ai suoi interventi critici contro i No Vax nel corso della pandemia Covid-19. Nello screen leggiamo il seguente commento: «L’ennesimo odiatore ultravax che se ne va per malore o malattia fulminante. Ancora negate la correlazione? Ok, allora è il karma». 

Commenti simili si riscontrano all’interno del gruppo Facebook Danni Collaterali in un post di cordoglio pubblicato dal suo amministratore, l’ex senatore Gianluigi Paragone: «Un altro mercenario in meno» scrive l’utente Filippo, «La sfoltita prosegue» commenta Lucia, «Bravo e serio. Rip» pubblica l’utente David, «Eppure ci credeva nel siero magico» scrive un’altra utente condividendo lo screenshot dell’intervento Twitter di Purgatori dove definiva i medici No Vax criminali. 

(…)

La lista degli interventi prosegue con il gruppo Telegram Gli amici di Radio Radio (l’emittente che nel corso della pandemia Covid-19 ha ospitato personaggi controversi sulla vaccinazione e non solo) dove un utente condivide il post del canale La civetta bianca in cui vengono elencate le citazioni di Andrea Purgatori a favore delle vaccinazioni con una nota finale: «Andrea Purgatori schiatta questa mattina a Roma in ospedale dopo una breve fulminante malattia». 

«Il merito è del vaccino» scrivono come “citazione” nel canale Telegram Resistenza Attiva. Un post particolarmente condiviso da noti gruppi è quello del complottista Ugo Fuoco (ne parliamo qui, qui e qui), lo stesso che festeggiò la morte di David Sassoli:

Estratto da open.online giovedì 20 luglio 2023.

Corrado Guzzanti ricorda oggi l’amico Andrea Purgatori. Il giornalista d’inchiesta che si occupò di Ustica ed Emanuela Orlandi è morto ieri a Roma. «Avevo saputo della sua malattia solo di recente. Non ho fatto in tempo a salutarlo», esordisce l’attore in un’intervista a La Stampa. «Ci siamo conosciuti per “Il caso Scafroglia”. Era appena finita la stagione tv con Serena Dandini, il governo era cambiato e c’era uno spazietto incerto nella terza, quarta serata di Rai 3. 

(...) Inizialmente avevamo candidati che poi si si sono sfilati, così conobbi Andrea con cui è nata subito una grande amicizia, un’intesa perfetta. Perché era dotato, come sappiamo, di grande senso dell’umorismo. Come giornalista era serio e “cazzuto”. Autore di tonnellate di inchieste, ma, allo stesso tempo, era pieno di humour. Ce ne fossero come lui. Eravamo davvero uniti, abbiamo fatto tante cose e speravo di poterne fare ancora molte altre», dice a Fulvia Caprara. 

“Fascisti su Marte”

Guzzanti ricorda di aver trascinato Purgatori «anche nell’impresa di “Fascisti su Marte”, un film molto curioso. Giravamo di sabato e domenica in certe cave di pozzolana, sulla ghiaia, improvvisando, girando scene. Andrea interpretava il personaggio di Fecchia, nonostante il caldo, la sabbia, la camicia nera, i costumi di flanella, si divertiva moltissimo».

Per lui «era come stare in un parco giochi. L’ultima volta ci siamo ritrovati sul set di Boris dove aveva ripreso il suo ruolo, l’avvocato Kalemzuck. 

Andrea era una persona divertentissima, viva, piena di energie, che amava molto la vita e con cui era piacevolissimo stare. Uno che ha fatto di tutto, televisione, cinema, inchieste, romanzi, sceneggiature. Un uomo instancabile». 

Secondo Guzzanti «in tv abbondano giornalisti che si sentono intrattenitori e finiscono per esagerare. Quelli che, mentre parlano e danno le notizie, sembra facciano arrivare al pubblico soprattutto un messaggio, e cioè che dopo andranno a cena e si faranno quattro risate». 

L’esempio di Purgatori

Purgatori, invece, non era così: Spero che le nuove leve del giornalismo prendano esempio da lui, che era, appunto, la quintessenza di questo mestiere. Temo che oggi manchino persone così, capaci di fare un giornalismo vero, in cui si è anche pronti a correre rischi». 

In un’intervista al Fatto Quotidiano sempre Guzzanti spiega cosa si porterà sempre dentro di lui: «Forse la sua espressione con l’immancabile mezzo sigaro in bocca, come Clint Eastwood nei film di Sergio Leone. Lo teneva tra le labbra senza fumarlo, ché si sentiva in colpa. E i nostri pranzi, che erano una tradizione felice. Spero che Andrea abbia ispirato molti. Era la quintessenza del giornalismo, era ossessionato dalla verità». 

Estratto dell’articolo di Renato Franco per corriere.it giovedì 20 luglio 2023.

«Te devi riposa’: l’ultima volta che l’ho visto gli dissi proprio così, te devi riposa’. L’avevo visto troppo pallido, molto magro. Evidentemente c’era già qualcosa che non andava, la malattia stava già camminando. Ci mancherà, mancherà a tutti. Mi mancherà». Carlo Verdone — come tutti — è sorpreso e scioccato dalla morte di Andrea Purgatori, un grandissimo giornalista dall’ironia sopraffina, un uomo che sapeva alternare il rigore dell’inchiesta alla leggerezza profonda della satira e della comicità. Un marziano. 

Come aveva preconizzato in Fascisti su Marte, uno dei tanti lavori che aveva condiviso con Corrado Guzzanti che sui social lo ha ricordato così: «È morto uno dei miei amici più cari, compagno di molte follie come Il caso Scafroglia, Fascisti su Marte e Aniene. Un abbraccio a tutti quelli che gli hanno voluto bene, e sono tantissimi». 

Anche lei era tra quelli che gli hanno voluto bene...

«Perdo un carissimo amico, che stimavo tanto per la sua signorilità. Andrea è sempre stato un uomo discreto, affettuoso e generoso». 

(...)

Come vi eravate conosciuti?

«In modo casuale e naturale, come avviene nel mondo del cinema. Lo conobbi grazie a Marco Risi, il regista, poi nel corso degli anni ci siamo rivisti tante volte, abbiamo passato insieme cene e serate, più di una volta mi chiese interviste per il suo programma su La7. A un certo punto, una decina di anni fa, lo individuai come la persona giusta per un piccolo ruolo in Posti in piedi in paradiso».

Era il 2012. Nel film lei interpretava un ex discografico di successo che vive nel retro del suo negozio di vinili e arrotonda le scarse entrate vendendo memorabilia.

«Andrea veniva al negozio per comprarsi il cinturone di Jim Morrison che io tenevo dentro una teca, era il “marchio” del mio negozio di vinili e io non volevo darlo via». 

Perché lo scelse?

«Era perfetto, la persona giusta: rappresentava un signore della mia età che viveva come me di nostalgia musicale ed era innamorato di quel cinturone. Mi offriva qualunque cifra e alla fine io — che avevo bisogno di soldi — cedevo alle sue insistite richieste. Andrea fu bravissimo, non sbagliò niente». 

Nel 2016 lo prese anche in «L’abbiamo fatta grossa», lì Purgatori faceva il regista di teatro.

«Mi piaceva la sua voce, rauca, forte, da grande fumatore, una voce molto radiofonica. Con i suoi dolcevita neri poi aveva anche il physique du rôle da regista teatrale. Davanti alla macchina da presa era spigliato, recitava con grande naturalezza, non aveva paura di niente».

Nanni Delbecchi per il “Fatto quotidiano” giovedì 20 luglio 2023.

Ci dispiace per l’intelligenza artificiale, ma finché ci saranno giornalisti che indagano di persona, in tutte le direzioni, che vanno a vedere coi loro occhi e ascoltano con le loro orecchie, che se vengono gentilmente scoraggiati, avvertiti, depistati, rincarano la dose e indagano anche su questo; 

ci dispiace per la cara Chat GPT e compagnia, ma il loro momento non è ancora arrivato. Non sarà ancora il momento degli algoritmi prodigio finché ci saranno giornalisti come Andrea Purgatori, morto ieri mattina all’improvviso, nel pieno dell’attività e perfino della popolarità, cogliendo tutti di sorpresa, scusate ma devo togliere il disturbo, anche questa quasi una legione di giornalismo, e di stile.

(…)

Per Andrea Purgatori diventerà una questione personale andare a fondo sulla strage di Ustica in cui morirono 81 persone, il Dc-9 Itavia inabissatosi il 27 giugno 1980 lungo la rotta aerea militare, mettendo sistematicamente in dubbio le verità ufficiali e contribuendo a tenere aperta l'inchiesta giudiziaria.

Quarant’anni di bugie, insabbiamenti, omertà e assoluzioni; se cosa accadde veramente non lo sapremo mai, difficile trovare un affresco più ricco della sorte dei segreti di Stato in Italia, dove notoriamente la linea più breve tra due punti è un arabesco. In un’epoca in cui tutti con un telefono e una diretta social possono illudersi di essere reporter, la lezione di Purgatori insegna come un autentico reporter resti sempre tale, ovvero sé stesso, in qualunque campo si avventuri; vale per l’insegnamento, per i suoi camei di attore interprete di se stesso, per le numerose sceneggiature, ultima Vatican Girl sul caso Emanuela Orlandi, prima tra tutte Il muro di gomma, il film di Marco Risi ancora sulla tragedia di Ustica. 

E vale per il modo di fare televisione, a cui si era avvicinato negli ultimi anni a modo suo: sobrio e affilato come era l’uomo, tignoso come un cronista di razza, affabile come un narratore consumato. Quel che più colpisce nella conduzione di Atlantide – Storia di uomini e di mondi è proprio la solitudine del cronista, che non ha nulla di narcisistico alla Alberto Angela, di accademico alla Alessandro Barbero, di curiale alla Paolo Mieli.

Un caso unico e controcorrente, a fronte della tendenza Animal House del talk show medio. Mai più di un ospite alla volta, e sempre strettamente connesso con la materia trattata. Testimoni, studiosi, altri cronisti specialisti del caso; non gli indefessi frequentatori del Bar Sport. Fino a quando ci saranno giornalisti come Andrea Purgatori, in grado di lasciare in panchina le scalpitanti intelligenze artificiali? Questo è un altro discorso, i tempi non sembrano dei più propizi. 

Ma intanto, chi volesse capire qual è la differenza tra un giornalista e un opinionista televisivo, e come l’uno sia in buona sostanza il contrario dell’altro, vada a vedersi una qualsiasi puntata di Atlantide: Ustica, lo sbarco sulla Luna, o la recente, commossa ricostruzione dell’omicidio di Mino Pecorelli. Ecco: Andrea Purgatori è un giornalista.

Ecco, di seguito, uno stralcio del famoso scoop di Andrea Purgatori pubblicato sul “Corriere della Sera” del 21 aprile 1984

Ecco, di seguito, uno stralcio del famoso scoop di Andrea Purgatori su Ustica, pubblicato sul Corriere del 21 aprile 1984 Ci sono tracce evidenti di esplosivo sui reperti del DC/9 Itavia, disintegrato nel cielo di Ustica la sera di venerdì 27 giugno 1980. L’esplosivo è il T4, utilizzato nella fabbricazione di testate per missili aria/aria o di mine. 

Questa è la conclusione degli esperti dei labora­tori della nostra Aeronautica, che già nel 1983 avevano terminato gli esami ordinati dalla magistratura su cuscini e bagagli recuperati nel Tirreno, insieme ai resti di alcuni degli 81 passeggeri e membri di equipaggio del volo IH-870 Bo­logna-Palermo.(...) Le perizie, commissionate ai tecnici dell’Aeronautica militare italiana su indicazione degli specialisti del Rarde (il prestigioso Royal Armament Research and Development Establishment britannico) hanno fornito un risultato certo: la presenza di «T4».

Dunque, sufficienti ad escludere definitivamente I’ipotesi del cedimento strutturale che ha portato via all’inchiesta giudiziaria almeno un anno e mezzo di lavoro. Il DC/9 Itavia è andato a pezzi per una esplosione ma il caso rimane aperto: l’ordigno che quella sera di giugno ha «cancellato» la traccia del bireattore dai radar è una bomba oppure un missile aria/aria? Di fronte a questo bivio è ferma da tempo anche la Commissione d’inchiesta ministeriale, che ha completato solo la prima parte del lavoro con una missione a Washington e una a Londra, nel quartier generale del Rarde, appunto.

Agli atti della Commissione (presidente Carlo Luzzati) e nel fascicolo del magistrato (il giudice istruttore Vittorio Bucarelli) ci sono le copie dei documenti firmati dall’ingegner John C. Macidull, capo del gruppo di studio del NTSB che ha decodificato e interpretato i tabulati del radar in servizio nel basso Tirreno quando il DC/9 volava verso Palermo. 

Bene, questi documenti parlano chiaro: c’era un altro aereo che incrociava nel punto in cui è avvenuta l’esplosione. Il radar lo ha seguito prima, ma soprattutto dopo che il bireattore Itavia è stato distrutto. John C. Macidull lo ha confermato in una intervista al Corriere della Sera e alla Bbc. 

Successivamente, sempre al Corriere della Sera e in una seconda intervista alla televisione britannica, ha detto la sua anche John Transue, consulente di guerra aerea in servizio al Pentagono: a) quell’altro aereo aveva tutte le caratteristiche di un caccia; b) la manovra di avvicinamento al DC/9 era tipica in caso di attacco; c) la distanza minima (5 miglia, dice il radar) era adeguata per lanciare un missile aria/aria; d) la manovra d’attacco sembrava «deliberata», cioè quel missile non era partito accidentalmente per un errore del pilota. (...) Allora, chi ha distrutto il DC/9 Itavia?

Andrea Purgatori, la sua lezione: quando la cronaca diventa un film. Il giornalista ha legato il suo nome soprattutto all'inchiesta sulla tragedia di Ustica Ed è stato il primo a sceneggiare i suoi servizi, come si fa nell'informazione attuale . Fu uno dei grandi del Novecento. Francesco Specchia su Libero Quotidiano il 20 luglio 2023

Francesco Specchia, fiorentino di nascita, veronese d'adozione, ha una laurea in legge, una specializzazione in comunicazioni di massa e una antropologia criminale (ma non gli sono servite a nulla); a Libero si occupa prevalentemente di politica, tv e mass media. Si vanta di aver lavorato, tra gli altri, per Indro Montanelli alla Voce e per Albino Longhi all'Arena di Verona. Collabora con il TgCom e Radio Monte Carlo, ha scritto e condotto programmi televisivi, tra cui i talk show politici "Iceberg", "Alias" con Franco Debenedetti e "Versus", primo esperimento di talk show interattivo con i social network. Vive una perenne e macerante schizofrenia: ha lavorato per la satira e scritto vari saggi tra cui "Diario inedito del Grande Fratello" (Gremese) e "Gli Inaffondabili" (Marsilio), "Giulio Andreotti-Parola di Giulio" (Aliberti), ed è direttore della collana Mediamursia. Tifa Fiorentina, e non è mai riuscito ad entrare in una lobby, che fosse una...

L’anchor man deceduto ieri all’età di 70 anni Era il nostro Bob Woodward, il cronista venuto dall’impossibile, sempre all’ossessiva ricerca della «miglior versione possibile della verità» (come insegnava, appunto, il collega Premio Pulitzer del Washinton Post, uno dei suoi modelli, ai tempi dello scandalo Watergate).

Andrea Purgatori era una presenza irradiante. Poteva contare su un vocione baritonale che contrastava con la battuta di cristallo; sulla ragnatela di rughe d’espressione coperta dalla barba biblica assai coccolata dalle telecamere; e sul sigaro acceso all’infiammarsi di ogni inchiesta. Purgatori, giornalista, scrittore, sceneggiatore, ieri scomparso a 70 anni per un male fulminante, sembrava uno di quei personaggi svogliatamente impetuosi dei romanzi di Jean Claude Izzo.

Molti di noi-compreso chi scrive -sono stati spinti a questo mestiere abbeverandosi alle leggendarie inchieste di Purgatori, appunto, da inesausto inviato del Corriere della sera. Prima fra tutte quella sulla strage di Ustica che riaprì il caso del DC9 Itavia dopo undici anni, fornendo inoltre al mondo quel film capolavoro di Marco Risi, Il muro di gomma, che vinse tutti i premi immaginabili. 

STRAGI E DELITTI

Seguirono i casi scottanti del terrorismo internazionale e italiano negli “anni di piombo” e sullo stragismo, come il caso Moro. E poi venne un’imperlata di delitti di mafia dal 1982, fino alla cattura di Totò Riina. E arrivò Emanuela Orlandi (il suo ultimo lavoro per Netflix come autore è appunto Vatican Girl sulla ragazza scomparsa); e Vallanzasca; e la morte di Marco Pantani. Eppoi, Purgatori si concentrò sui reportage, descrivendo i conflitti più importanti del pianeta: la guerra in Libano del 1982 e quella tra Iran e Iraq degli anni ottanta, la guerra del Golfo del 1991, l’Intifada e le rivolte in Tunisia e Algeria. E qui rubò molta arte a un altro grande maestro, Ettore Mo: l’immenso globetrotter di via Solferino che fu il suo punto di riferimento estero, uno perennemente in viaggio su un cargo battente bandiera liberiana.

Purgatori era cresciuto alla scuola del rigoroso giornalismo d’America. Negli Stati Uniti aveva vissuto in gioventù, e lì si era formato, specie nella confezione delle inchieste e nella puntigliosa ricerca delle fonti.

Quando inciampava in una notizia Andrea non scendeva mai a patti con niente e nessuno. Invaso dal sacro fuoco, come cronista si nutriva di scoop. A cominciare da quando, a metà degli anni 80, l’allora direttore del Corriere Piero Ostellino lo piazzò a soli 32 anni sulla tolda della Cronaca di Roma del giornale; e lui, nella sua città, cominciò ad accarezzare la cronaca, nera e bianca, dal lato delle storie. E proprio in quella circostanza, a mio parere, si sviluppò il germe narrativo del ragazzo.

Di solito i grandi cronisti confezionano inchieste memorabili ma difettano nella scrittura; i grandi narratori, invece, scansano le notizie e si concentrano sul racconto. Purgatori si scoprì un formidabile condensato dei due. E fu così - mi piace pensare, partendo dalla lezione di A sangue freddo di Truman Capote - che il giornalista si mise la giacca dell’autore, riuscendo nell’impresa di trasformare i grandi casi di cronaca in scintillanti sceneggiature cinematografiche. Che, in seguito nel ciclo del programma Atlantide su La7 avrebbe reinterpretato in docufilm televisivi.

Era, il suo un format trasversale. Ci avevano provato in tanti - da Flaiano a Montanelli, da Steinbeck a Hammett in America-: epperò Andrea, a nostra memoria, era stato l’unico a riuscire a eccellere sia nel cinema che nella carta stampata, sia in tv che nell’editoria. Il suo eclettismo è paragonabile, forse, alla produzione ipercinetica di Maurizio Costanzo: solo che Andrea, rispetto a Maurizio, aveva meno pubblico ma un coté più internazionale.

E se i suoi pezzi facevano capolino su diverse e importanti testate giornalistiche, dall’Unità a Vanity Fair a Le Monde diplomatique, fino all’Huffington Post, il cinema era la sua seconda casa. La realtà a filo di racconto era un brand che mostrava con orgoglio ai suoi studenti di sceneggiatura. Bastano tre suoi titoli di film per evocarne la pulsione letteraria: Il muro di gomma (in cui appare, hitchcockianamente, in tre -quattro cameo), Fortapasc e Il giudice ragazzino sulla vita del giovane magistrato ucciso dalla mafia Rosario Livatino.

CAMERATI

Andrea era anche un cazzaro meraviglioso. Tutti lo ricordano, come attore, nel ruolo esilarante del “camerata Fecchia” in Fascisti su Marte di Corrado Guzzanti; o nei vari episodi di Boris, o nelle pellicole di Carlo Verdone. Ma l’ottimo critico cinematografico Michele Anselmi posta una foto di Purgatori che mi era sfuggita: Andrea nei panni di un rabbino ortodosso con tanto di treccine in Io c’è di Alessandro Aronadio, una commedia grottesca che evoca certi guizzi di Woody Allen. Comunque la si pensi, Andrea Purgatori è stato uno dei grandi giornalisti del ’900. Non esagero. Muore nel giorno della commemorazione di Paolo Borsellino, oggetto di una delle sue indimenticate inchieste. Purgatori lascia una moglie, tre figli Edoardo, Ludovico, Victoria, un impegno ecologista (fu presidente di Greenpeace) e l’aspirazione - senza traccia retorica - a un mondo migliore. La miglior versione possibile della verità...

Andrea Purgatori, il generale Camporini: "Non mi unisco alla beatificazione". Libero Quotidiano il 20 luglio 2023

"Perché non mi unisco alla beatificazione del collega Andrea Purgatori". Con questa frase Vincenzo Camporini ha pubblicato sul suo profilo Twitter un articolo di Gregory Alegi sul sito Startmag.it che si intitola così. Nell'articolo viene poi smontata la figura del giornalista e conduttore di La7 stroncato a 70 anni da una malattia fulminante. Il generale Camporini ha condiviso il pezzo perché d'accordo con il suo contenuto?

"La scomparsa del noto conduttore, sceneggiatore e giornalista", si legge nel pezzo, "è una tragedia umana. La malattia fulminante che lo ha travolto oggi lascerà in quanti gli erano vicini un vuoto che i tanti tributi alla memoria non potranno riempire. Ma lasciatemi dire che di qui alla sua santificazione, senza istruttoria, ma per chiara fama, fino all’applauso alla Camera, ce ne corre".

Quindi attacca: "Quando seguii i processi in Ustica in Assise d’appello, Cassazione e Corte dei Conti non lo vidi mai seduto a prendere appunti". E ancora: "Al lettore non era sempre chiaro che in Purgatori coesistevano il giornalista che aveva studiato alla Columbia School of Journalism e il presidente del sindacato degli sceneggiatori, il cercatore di documenti e il conduttore tv che doveva trovare scoop settimanali, il cronista e il protagonista. La capacità di drammatizzare lo rendeva capace più di immaginare scenari che di sottoporli a una rigorosa verifica, o almeno dar conto malvolentieri dei risultati di tale verifica. È il caso della partecipazione della portaerei Saratoga alla presunta battaglia aerea".  

"E perché non dire che la sua passione per lo scoop si era tradotta in scivoloni anche su altri temi? Il più celebre è forse 'il video dell’uccisione del generale Suleimani', il comandante dei pasdaran iraniani, colpito da un drone statunitense il 3 gennaio 2020 nei pressi dell’aeroporto di Baghdad. Cinque giorni dopo, l’8 gennaio, Purgatori trasmetteva nel suo programma Atlantide le immagini esclusive. Bastavano poche ore ai giornalisti Paolo Attivissimo e David Puente, da tempo impegnati contro bufale e fake news, per rivelare su Twitter e quotidiano Open che le spettacolari immagini dell’attacco erano tratte dal videogioco AC-130 gunship simulator". Insomma, conclude Alegi: "Si potrebbe andare avanti con fatti piccoli (l’inesistente TF-104S che avrebbe volato il 27 giugno, che gli contestai in radio) e grandi (l’intervista al marinaio della Saratoga, senza fact-checking e con traduzioni forzate), ma gli esempi possono per illustrare come il giovane paladino dell’inchiesta scomoda si fosse gradualmente trasformato nel difensore della sua stessa carriera". 

Purgatori, Filippi Facci controcorrente: "Cosa non mi piaceva di lui". Libero Quotidiano il 20 luglio 2023

Nel giorno della sua morte è anche Filippo Facci a ricordare il collega Andrea Purgatori. La firma di Libero però lo fa in maniera controcorrente, con un tweet in cui si legge: "Mi piaceva molto umanamente e meno giornalisticamente. Penso sia meglio del contrario". Immediata la replica degli utenti del web.

Tra questi uno che ricorda: "Stavolta non concordo. Per me era un grande giornalista. Certo, traspariva sempre il suo orientamento politico, ma comunque era sempre obiettivo e onesto. Purtroppo la sua peggiore puntata di Atlantide è proprio quella trasmessa stasera. Viva Purgatori". E Facci non fa mancare la sua risposta: "L'orientamento politico non è un difetto. Anzi, mi piacerebbe tanto averne uno". 

Purgatori è scomparso a 70 anni stroncato da una malattia fulminante. A darne la notizia i figli Edoardo, Ludovico e Victoria. Tra i suoi più grandi impegni la ricerca della verità sulla strage di Ustica. Proprio Purgatori ha svelato le bugie e le omissioni di chi portava avanti la tesi di una bomba esplosa a bordo della compagnia aerea Itavia che il 27 giugno 1980 viaggiava con 81 persone a bordo rivelando come il disastro fosse stato causato dall'impatto con un missile. 

(ANSA) - La Procura di Roma ha aperto un fascicolo di indagine per omicidio colposo in relazione alla morte del giornalista Andrea Purgatori. Il procedimento è stato aperto dopo una denuncia della famiglia su presunte cure sbagliate.

Estratto da open.online giovedì 20 luglio 2023. 

La famiglia di Andrea Purgatori ha presentato un esposto in Procura per presunte diagnosi e cure sbagliate dopo la morte del giornalista e conduttore di La7.

«La famiglia di Andrea Purgatori comunica che, a seguito di denuncia il Nas dei Carabinieri, al comando del Colonnello Alessandro Amadei, coordinati dai procuratori della Repubblica Sergio Colaiocco e Giorgio Orano – si legge in una nota diffusa dagli avvocati che assistono i famigliari del giornalista – stanno conducendo indagini per fare luce sulla correttezza delle diagnosi e delle cure apportate al loro caro, deceduto il 19 luglio 2023 dopo solo due mesi dalla diagnosi iniziale». 

La famiglia poi aggiunge […]: «In particolare, hanno chiesto che venga accertata la correttezza della diagnosi refertata ad Andrea Purgatori in una nota clinica romana e la conseguente necessità delle pesanti terapie a lui prescritte, e se, a causa dei medesimi eventuali errori diagnostici, siano state omesse le cure effettivamente necessarie […]». Attesa nei prossimi giorni l’autopsia che deve ancora essere disposta dalla procura alla quale parteciperanno anche i periti della famiglia.

La morte di Andrea Purgatori, denuncia della famiglia in Procura: «Diagnosi e cura sbagliate». Erica Dellapasqua giovedì 20 luglio 2023.

Presentato un esposto dei familiari del giornalista. Nei prossimi giorni sarà disposta l'autopsia   

Diagnosi e cure sbagliate: la famiglia di Andrea Purgatori, il giornalista e conduttore de La7 morto la mattina del 19 luglio, ha presentato un esposto in Procura. La notizia è stata diffusa nel pomeriggio dai legali che assistono la famiglia.

Il testo del comunicato: «La famiglia di Andrea Purgatori comunica che, a seguito di denuncia, il Nas dei Carabinieri, al comando del Colonnello Alessandro Amadei, coordinato dai Procuratori della Repubblica Sergio Colaiocco e Giorgio Orano, sta conducendo indagini per fare luce sulla correttezza delle diagnosi e delle cure apportate al loro caro, deceduto il 19 luglio 2023 dopo solo due mesi dalla diagnosi iniziale».

  «In particolare, i familiari hanno chiesto che venga accertata la correttezza della diagnosi refertata ad Andrea Purgatori in una nota clinica romana e la conseguente necessità delle pesanti terapie a lui prescritte, e se, a causa dei medesimi eventuali errori diagnostici, siano state omesse le cure effettivamente necessarie. La famiglia, rappresentata dall’avvocato  Gianfilippo Cau, è difesa nel procedimento dagli avvocati Alessandro e Michele Gentiloni Silveri».

Nei prossimi giorni la Procura disporrà l'autopsia alla quale parteciperanno anche periti nominati dalla famiglia.

Estratto dell’articolo di Andrea Tornago per “Domani” il 21 luglio 2023.

L’ultimo mistero di Andrea Purgatori è quello della sua morte. Qualche ora dopo il decesso i suoi famigliari hanno parlato di «breve e fulminante malattia» che avrebbe colpito il celebre giornalista negli ultimi mesi. Ma dietro alla sua scomparsa improvvisa si cela un intrico medico-legale, su cui adesso sta indagando la procura di Roma che ha aperto un fascicolo per omicidio colposo, disponendo l’autopsia. Un giallo basato su esami, diagnosi e pareri discordanti firmati da luminari della medicina, culminati nel tentativo estremo di salvargli la vita, purtroppo senza fortuna.

Un doloroso calvario che ha colpito Purgatori e i suoi congiunti per oltre due mesi. Tanto che il giorno stesso della sua morte, il 19 luglio scorso, assistiti dallo studio legale Gentiloni Silveri, i famigliari hanno presentato un’articolata denuncia ai carabinieri del Nas per omicidio colposo. L’esposto è finito sul tavolo del pm di turno, Giorgio Orano, coordinato dall’aggiunto Sergio Colaiocco, a capo del dipartimento che si occupa di reati causati da responsabilità professionale.

Tutto ha inizio il 24 aprile scorso, quando Purgatori si ricovera nella clinica privata Villa Margherita. Nulla di grave, solo un vago senso di spossatezza che gli suggerisce di eseguire qualche controllo: il giornalista è molto attento alla salute e si sottopone ad approfonditi check-up periodici da cui è sempre risultato in perfetta salute. 

Questa volta però dagli esami emergono parametri fuori posto, riscontrati da una tac e una biopsia, e viene inviato per approfondimenti in una famosa clinica sull’Aurelia, la Casa di Cura Pio XI. Qui, secondo la denuncia, ai primi di maggio il professor Gianfranco Gualdi, responsabile della radiologia e riconosciuto esperto della materia, formula una pesante diagnosi di tumore al polmone con metastasi diffuse agli organi vicini e al cervello.

Per il radiologo la situazione è molto grave ed è necessario dunque iniziare immediatamente la radioterapia. Purgatori viene così dirottato in una terza clinica dove sulla base della diagnosi decidono di iniziare immediatamente cicli di radioterapia ad altissimo dosaggio. 

Fino a quel momento, […] Purgatori è in ottima salute e prosegue normalmente la vita e l’attività professionale, tanto che i medici si stupiscono delle sue condizioni in rapporto al quadro clinico emerso dagli esami. Che corrisponde a quello di un malato terminale con un’aspettativa di vita non superiore ai sei mesi.

Purgatori cerca le migliori cure. Si rivolge a un centro altamente specializzato in radioterapia, […] dove confermano diagnosi e radioterapia proseguendo con gli alti dosaggi. Il giornalista sta ancora bene e il 17 maggio registra una puntata di “Atlantide”, il suo programma su La7. Ma dopo pochi giorni la situazione comincia a peggiorare. Purgatori è sempre più affaticato e confuso, provato dagli effetti collaterali dei potenti farmaci che è costretto ad assumere. 

Tuttavia nella clinica dove gli avevano diagnosticato il tumore il primario e la sua équipe confermano il buon esisto della terapia: le metastasi si sarebbero ridotte notevolmente. Le condizioni del giornalista, dice l’esposto, però precipitano. Fatica a svolgere le attività quotidiane, inizia a non bere e non mangiare. Esami e visite non riescono a risolvere il veloce aggravamento finché a giugno viene ricoverato nuovamente a Villa Margherita. 

L’esito della nuova tac […]  sconvolge tutte le certezze dolorosamente acquisite fino a quel momento: i medici riscontrano solo alcune ischemie cerebrali, ma non trovano traccia di alcuna metastasi al cervello. Per il medico questa diagnosi, clamorosamente diversa da quella che ha portato alla scelta della terapia, spiega pienamente il quadro clinico Purgatori. 

Due giorni dopo anche una risonanza magnetica al cervello esaminata dal neuroradiologo Alessandro Bozzao, professore ordinario della Sapienza, esclude la presenza di metastasi. Il professore è così sorpreso da ripetere una seconda volta l’esame, incrociandolo con quello eseguito alla Pio XI, prima di emettere il suo verdetto: non solo le metastasi non ci sono, ma non ci sarebbero mai state.

Domani ha parlato con la clinica Pio XI che però ha rimandato a Gualdi, ma la sua segretaria ha detto che non poteva parlare perché impegnato al lavoro. Dopo la tac, Andrea sta sempre peggio. Tra i luminari c’è chi conferma la diagnosi iniziale e insiste con le cure già avviate e chi la confuta radicalmente. I famigliari apprenderebbero pure di «una tremenda lite tra Gualdi e Bozzao», che però resta sulla sua posizione: tutti i radiogrammi effettuati fin dall’inizio confermano la sola diagnosi di ischemia cerebrale, una patologia forse curabile. 

Nel frattempo Purgatori è rientrato a casa, ma sta malissimo. La mattina dell’8 luglio il suo assistente personale chiama l’ambulanza che lo porta a sirene spiegate all’Umberto I. Le sue condizioni sono gravissime e i famigliari vengono accompagnati in una saletta dove i medici si preparano al delicato colloquio.

A sorpresa però non annunciano la sua morte ma fanno intervenire nella sala un radiologo, che in quei momenti concitati si preoccupa di confermare alla famiglia la presenza delle famose metastasi al cervello […] 

Il medico in questione, oltre a lavorare all’Umberto I, come sottolinea la famiglia nell’esposto, collaborava con Gualdi nella clinica Pio XI ed «era uno dei firmatari del referto del giorno 8 maggio da cui era partita la diagnosi». Il 19 luglio Purgatori muore all’Umberto I. I famigliari sono decisi ad approfondire eventuali responsabilità, senza fare sconti. Come avrebbe fatto Andrea.

Estratto dell’articolo di Ilaria Sacchettoni per roma.corriere.it sabato 22 luglio 2023.

I magistrati che indagano sulla morte del giornalista Andrea Purgatori, avvenuta al policlinico Umberto I il 19 luglio, hanno iscritto due nomi sul registro della Procura. 

Si tratterebbe dei sanitari che, lo scorso maggio, gli diagnosticarono un tumore avanzato, con metastasi al cervello, nella struttura privata Pio XI, fra cui il dottor Gianfranco Gualdi, responsabile della Radiologia della clinica. 

Il ragionamento, seguito dal procuratore aggiunto Sergio Colaiocco e dal pm Giorgio Orano, è complessivo: per provare l’ipotesi di omicidio colposo serve ricostruire cosa è avvenuto negli ultimi tre mesi nella vita dell’autore di «Atlantide», a partire dal suo ricovero per accertamenti a fine aprile (il primo ricovero a Villa Margherita risale al 24 aprile scorso). 

Una prima risposta verrà dall’autopsia che si annuncia minuziosamente approfondita da parte dei medici dell’équipe del Policlinico di Tor Vergata. Si utilizzerà per l’occasione una Tac che dovrà accertare se esistesse o meno la massa tumorale diagnosticata alla clinica Pio XI. 

(...)

I magistrati di piazzale Clodio si preparano anche all’eventualità che i risultati autoptici non siano definitivi ma richiedano un supplemento di verifiche da parte dei medici. E non è escluso che, per evitare conflitti di interesse, i pubblici ministeri decidano di rivolgersi altrove — è possibile infatti che i magistrati scelgano gli esperti oltre i confini regionali — per ottenere un parere che sia davvero al di sopra di ogni possibile dubbio. 

(...)

Oggi i pm incaricheranno ufficialmente i medici di Tor Vergata dell’approfondimento formulando una serie di quesiti. Gli esperti selezionati si prenderanno alcuni giorni per portare a termine il proprio incarico. E i pm ascolteranno il professor Alessandro Bozzao che, secondo la denuncia dei familiari, avrebbe avuto una lite con Gualdi proprio sulle diagnosi sbagliate. 

È chiaro quindi che serviranno ancora tempo e pazienza per conoscere tutta la verità sul caso Purgatori. 

Estratto dell’articolo di Giulia Santerini per “la Repubblica” sabato 22 luglio 2023.

«Lui sapeva che lottava contro un male pericolosissimo, il tumore al polmone, che doveva riguardarsi, che doveva affrontare delle cure. Non si prospettava il rischio immediato che si è purtroppo concretizzato. Ma su questo dobbiamo stare due passi indietro». 

Il direttore del Tg La7 Enrico Mentana ricorda l’amico e il collega Andrea Purgatori a Metropolis, il webtalk del gruppo Gedi: «L’ho incontrato nel 1978, lo conosco benissimo, non riesco a non usare il presente. Ci provo, vuole sapere chi è stato davvero?». […] 

C’è un’inchiesta sulla sua morte. Lo ha seguito negli ultimi mesi?

«Tra coetanei ci si dicono tante cose, ma sono ricordi personali. Andrea era un uomo solare, stava combattendo contro una malattia terribile senza esibizionismo. È vero che lui ha vissuto di inchieste e rivelazioni, ma non ci aspettiamo inchieste e rivelazioni qui, se non quelle tra buona e mala sanità. 

Non siamo i suoi familiari né i suoi medici. È legittimo che la famiglia avanzi un sospetto ed è giusto che si faccia chiarezza per via giudiziaria. E questo passa attraverso un’autopsia, quando si ipotizza negligenza nelle cure si procede così». 

Quali negligenze?

«Si sta discutendo se quelle nel cervello di Andrea invece di essere delle metastasi fossero delle ischemie. Ovvio che in questo caso le cure avrebbero dovuto essere diverse. Ma qui mi fermo, non sono cose di cui possiamo parlare noi». […]

Estratto dell’articolo di Andrea Ossino e Giuseppe Scarpa per “la Repubblica” sabato 22 luglio 2023. 

A uccidere Andrea Purgatori potrebbe essere stata un’infezione contratta quando il suo corpo era ormai stremato da cure che si sospetta siano state errate, perché errata, è il timore, sarebbe stata la diagnosi comunicata al giornalista dai medici della Casa di cura Pio XI, a Roma.

È qui che il dottor Gianfranco Gualdi e un suo collaboratore, adesso indagati, avrebbero diagnosticato un tumore ai polmoni con metastasi al cervello. I magistrati romani indagano dopo aver ricevuto la denuncia dei familiari del giornalista. L’indagine, in cui si ipotizza il reato di omicidio colposo, tuttavia non verte sull’infezione che Purgatori avrebbe contratto ma sulle cause che hanno indebolito il corpo del giornalista, debilitando le sue difese immunitarie. […] 

I carabinieri del Nas, coordinati dal procuratore aggiunto Sergio Colaiocco e dal pm Giorgio Orano, sono al lavoro per ricostruire un calvario durato poco più di due mesi, dal 24 aprile al 19 luglio, dalla prima visita fino al giorno in cui Purgatori è morto. 

Un compito difficile da ricostruire attraverso le cartelle cliniche da acquisire in diverse strutture ospedaliere: la Pio XI, dove lavora Gualdi, Villa Margherita, dove Purgatori è stato sottoposto a una Tac e a una biopsia e anche due ospedali pubblici: il San Pietro e l’Umberto I. 

Le strutture sanitarie non sono coinvolte nelle indagini, ma vengono citate nella denuncia depositata dalla famiglia Purgatori. Si tratta di un documento in cui sono racchiusi i fatti che iniziano il 24 aprile scorso, quando i medici della clinica Villa Margherita effettuano una tac e una biopsia.

Il responso convince il giornalista a bussare alla porta di una nota clinica romana, un’eccellenza in tema di sanità, la Pio XI. È qui che il dottor Gualdi e un suo collaboratore avrebbero spiegato che occorreva iniziare un percorso di radioterapia a causa di alcune metastasi riscontrate al cervello. 

Dunque i cicli ad alto dosaggio. E le rassicurazioni dei medici della Pio XI sul buon andamento della terapia.  Il corpo di Purgatori però diceva altro. Il giornalista non stava bene. Quindi una nuova visita dei medici di Villa Margherita e un nuovo responso: le metastasi al cervello non ci sono. La diagnosi merita di essere approfondita. Così Purgatori si rivolge a un docente della Sapienza secondo cui le metastasi al cervello non ci sarebbero mai state. […]

Estratto dell’articolo di Andrea Ossino, Giuseppe Scarpa per roma.repubblica.it sabato 22 luglio 2023.

Il dottor Gianfranco Gualdi e un suo collaboratore. Ci sono due persone iscritte nel registro degli indagati nell’indagine aperta dalla Procura di Roma, dopo l’esposto dei familiari, per la morte di Andrea Purgatori, avvenuta il 19 luglio per una patologia oncologica. Nei confronti dei due medici, che operano in una struttura di diagnostica della Capitale, l'accusa è di omicidio colposo. Intanto i pm dovrebbero affidare la prossima settimana l'incarico per effettuare l'autopsia. 

Parallelamente gli inquirenti stanno acquisendo, affidando l'attività ai carabinieri del Nas, tutto il materiale, comprese le cartelle cliniche, dove Purgatori è stato in cura, si tratta sia di strutture private che pubbliche. Tutte eccellenze della sanità romana: la casa di cura Pio XI, dove lavora Gualdi, Villa Margherita, dove Purgatori è stato sottoposto a una Tac e ad una biopsia e anche due ospedali pubblici: il San Pietro e l’Umberto I, il nosocomio dove il giornalista è morto mercoledì scorso. 

Le strutture sanitarie non sono coinvolte nelle indagini, ma gli investigatori provvederanno ad acquisire la documentazione necessaria per ricostruire la vicenda riassunta nell’esposto in cui i familiari elencano le tappe di una vicenda dolorosa e chiedono di chiarire alcuni aspetti. 

(...) 

Sono circostanze concrete attorno ai quali emerge il sospetto che ha portato i parenti del giornalista scorso a chiedere che si indaghi sulla morte avvenuta mercoledì scorso. Il dubbio è uno: a Purgatori sarebbero state diagnosticate metastasi al cervello che potrebbero non esserci mai state. Il sospetto è legittimo, se a confermarlo sono responsi firmati da medici e professori universitari. 

La prima diagnosi: un tumore ai polmoni con metastasi al cervello

(...)

Il nuovo responso: niente metastasi

È una nuova visita tra i corridoi della struttura Villa Margherita a ribaltare la situazione. Perché è qui che Purgatori viene sottoposto a una nuova visita. Ed è qui che arriva una diagnosi capace di sconvolgere tutto il quadro clinico: al giornalista non vengono riscontrate metastasi al cervello. Il responso merita un approfondimento quindi sarebbe intervenuto un professore de La Sapienza che avrebbe confermato l’assenza di metastasi. 

Lo scontro tra i medici luminari

Il docente si sarebbe spinto oltre. Perché confrontando i nuovi esami con le risonanze iniziali sarebbe emerso, secondo il professore, che le metastasi al cervello non ci sarebbero mai state. Una diversità di vedute che avrebbe dato adito a una discussione tra luminari. Un acceso confronto.

(...)

Per capire se effettivamente fossero presenti metastasi al cervello, la procura domani affiderà l’incarico autoptico ai medici dell’ospedale di Tor Vergata. Oltre ai consueti esami di rito verrà effettuata una tac, come richiesto dalla famiglia Purgatori. Se dovessero emergere elementi sospetti la procura successivamente richiederà un’ulteriore consulenza. Un parere per cui probabilmente verranno interpellati specialisti che solitamente lavorano fuori da Roma, visto che sono numerose le strutture sanitarie e i professionisti che si sono occupati della salute di Purgatori.

Estratto da open.online sabato 22 luglio 2023.

(...) E oggi a parlare della storia clinica del giornalista è proprio Bozzao. In un’intervista al Messaggero il professore di neuroradiologia a La Sapienza e responsabile dell’unità relativa al Sant’Andrea dice chiaro e tondo che la terapia era sbagliata. Ma aggiunge che questo potrebbe non aver influito sull’aspettativa di vita. 

La radioterapia sbagliata?

«In genere queste diagnosi sono piuttosto facili. Ma ci sono casi, come questo, in cui possono essere difficili», esordisce Bozzao. Perché le metastasi «potrebbero confondersi con qualcos’altro». Per individuarle, aggiunge il professore, ci vogliono competenza e professionalità. «Gli esami sono stati fatti in maniera corretta ma sono stati interpretati in maniera diversa», spiega.

E sembra riferirsi a quanto scritto nella denuncia: Purgatori è stato curato con la radioterapia al cervello, mentre quello che segnalavano gli esami erano ischemie. I familiari hanno anche parlato di una lite tra Gualdi e Bozzao, che quest’ultimo ha smentito. Bozzao spiega che delle analisi esiste una interpretazione di sintomatologia clinica che porta a una diagnosi: «Non è una questione di malafede ed ignoranza. È stata un’interpretazione di casi complessi che hanno portato a conseguenze terapeutiche diverse» 

La prognosi

Ma Bozzao dice a Graziella Melina qualcos’altro di molto importante: «A mio parere le conseguenze terapeutiche non hanno inciso sulla prognosi». Il dottore intende dire che la situazione del paziente era quella di un malato terminale. Però poi dice anche che la terapia «incide molto» sull’esito finale. 

Infine: «Quello che è stato fatto in termini terapeutici non credo abbia influito sulla prognosi del paziente, in tutta onestà. Però può darsi». E sull’aspettativa di vita? «Non credo, neanche. Poi questo ci sarà chi lo accerterà», conclude riferendosi evidentemente all’indagine della magistratura e all’autopsia sul corpo. Gli inquirenti ieri hanno acquisito le cartelle cliniche del paziente nelle strutture in cui è transitato. La verità la scriveranno i giudici.

In attesa dell'autopsia. Morte Purgatori, entrambe le diagnosi “potrebbero stare in piedi”. La lite furibonda con il medico del Vaticano: “Molto difficile sbagliarsi tra ischemia e metastasi”. Redazione su Il Riformista il 22 Luglio 2023 

Emergono ulteriori dettagli sulla vicenda della morte del giornalista Andrea Purgatori, che ha scosso per la sua velocità, e che è diventata in queste ore un caso mediatico e un’indagine giudiziaria che vede indagati il professore Gianfranco Gualdi, 75 anni, consulente radiologo del Vaticano dal 1981, insieme con Claudio Di Biasi, della sua équipe presso la clinica Pio XI di Roma. Ma i dubbi e le domande continuano ad affiorare.

“Confondere nella diagnostica una metastasi con un’ischemia è molto, molto difficile. Per conformazione delle masse, per il potenziamento che assumono con il mezzo di contrasto sono molto diverse”. Questo il parere del professor Giacomo Koch, direttore del dipartimento di Neuropsicofisiologia Sperimentale dell’Irccs Santa Lucia e ordinario di fisiologia università di Ferrara, intervistato dall’agenzia Dire.

Sbagliarsi quindi risulterebbe davvero improbabile – secondo l’esperto, soprattutto quando si tratta di più masse. Il sospetto dei familiari che hanno sporto denuncia è che Purgatori sia morto per le complicazioni determinate da una radioterapia ‘errata’ a cui si era sottoposto per trattare le metastasi cerebrali originate da un primario tumore ai polmoni.

In attesa dell’autopsia – intanto verrà nominato domani mattina in Procura a Roma il medico legale dell’Università di Tor Vergata che dovrà eseguire l’autopsia sul corpo del giornalista.  Al centro delle polemiche sarebbe la diagnosi anche e soprattutto a fronte di una successiva TAC eseguita dal professor Alessandro Bozzao del Policlinico Umberto I che escludeva la presenza di metastasi e che in un’intervista al Messaggero parla di terapia sbagliata.

“La radioterapia– spiega ancora il professor Koch – può dare infiammazioni acute che si controllano con dei farmaci. Il quadro di una persona con tumore ai polmoni e metastasi cerebrali- lo ribadisce- è molto grave. La radioterapia può essere palliativa per allungare la vita“. Koch non entra nel merito della vicenda giudiziaria che ora sullo stato di salute di Purgatori.

L’esposto presentato dalla famiglia – Viene chiesto alla magistratura di accertare se Purgatori fosse realmente colpito da metastasi al cervello, partite da un carcinoma che il giornalista aveva ai polmoni. Proprio attorno a questo punto, secondo gli investigatori, ruoterà l’intera inchiesta, che vede per il momento due professionisti indagati e tre cliniche coinvolte, quelle dove Purgatori si sarebbe recato per effettuare, oltre che le cure radioterapiche, anche gli esami medici strumentali come Tac, risonanze magnetiche, ecografie e analisi cliniche.

La lite tra il medico e il tecnico radiologo – I referti, secondo quanto dichiarato dai parenti nell’atto presentato attraverso i loro avvocati, sarebbero stati discordanti nelle diagnosi in quanto, a fronte di alcune risposte affermative sulla presenza di metastasi al cervello, ce ne sarebbero state altrettante che diagnosticavano invece diverse ischemie cerebrali senza la presenza di cellule tumorali. Tra i due indagati, un medico e un tecnico radiologo, a dire dei parenti del giornalista, sarebbe scoppiato un litigio furibondo, a causa della loro differente interpretazione di alcuni fotogrammi della Tac.

Secondo il luminare mostravano evidenti metastasi, mentre per il radiologo si trattava di ischemie che non andavano trattate con cure antitumorali invasive che avrebbero avuto conseguenze gravi sul paziente. Se le ipotesi della errata diagnosi, e del conseguente “bombardamento” inopportuno di radioterapia, dovessero essere confermate dai risultati dell’autopsia e della Tac, che verrà effettuata la prossima settimana, potrebbero essere iscritti nel registro degli indagati altri sanitari e tecnici che hanno avuto in carico Andrea Purgatori nelle cliniche private.

Può succedere che “dopo le radio le metastasi si riducano e che poi sopraggiungano ischemie, mentre la risonanza è più specifica per diagnosticare le ischemie, la TAC lo è per le metastasi”, precisa ancora il professor Koch.

Insomma da un punto di vista squisitamente medico le due diagnosi, in due momenti diversi, potrebbero stare in piedi entrambi. Parte del dibattito ruota anche intorno alla scelta di una clinica e non di un ospedale. E a proposito di come gestire una diagnosi cosi severa che piomba addosso all’improvviso ad una persona, il neurologo raccomanda: “La second opinion, se autorevole, è auspicabile ed è sempre un aiuto anche per chi prende in cura il paziente”.

Estratto dell'articolo di Ilaria Sacchettoni per il Corriere della Sera il 23 luglio 2023.

Ora si cerca l’eventuale nesso fra la morte del giornalista Andrea Purgatori e «i comportamenti del personale sanitario» che lo ebbe in cura. Il pm Giorgio Orano ha conferito ieri al professor Luigi Marsella del Policlinico di Tor Vergata l’incarico di accertare cause e «ogni altra circostanza utile» a raggiungere una verità sul caso Purgatori. 

(...)

Il quadro investigativo appare particolarmente complicato perché, nel fulmineo progredire della sua malattia, il giornalista aveva chiesto differenti pareri. «Gli esperti, alcuni veri e propri luminari, si erano divisi riguardo alla diagnosi di metastasi cerebrali formulata per la prima volta il 25 aprile, in maniera perfino clamorosa — riferisce la famiglia —. Negli ultimi tempi si sarebbe verificata una lite tra esperti riguardo ai risultati di una Tac». Di qua il professor Gualdi, convinto dell’esistenza di un tumore che dal polmone si era diffuso al cervello. Di là altri esperti, fra i quali il professor Alessandro Bozzao (ordinario di Neuroradiologia alla Sapienza), certi che vi fossero solo ischemie diffuse.

La diagnosi di Gualdi, tuttavia, appare contrastata anche dai medici del centro Humanitas di Rozzano ai quali Purgatori aveva deciso di rivolgersi quando l’esito dei trattamenti radiologici era apparso dubbio. Anche questi avevano sostenuto che vi fossero solo ischemie diffuse. Due gli interrogativi sollevati dai pm e ai quali i periti dovranno provare a rispondere: Purgatori è stato sottoposto a una terapia erronea? E questo ha inciso sulle sue aspettative di vita? Tra le ipotesi prende forma quella che a causare il decesso del giornalista, debilitato anche dalla radioterapia, possa essere stata un’infezione, una pericardite settica.

La famiglia, rappresentata dagli avvocati Alessandro e Michele Gentiloni Silveri, ha nominato un suo medico di fiducia per assistere l’autopsia: Vincenzo Pascali, direttore dell’Istituto di medicina legale della Cattolica. Il caso rischia di provocare uno scontro fra professionisti della medicina, due dei quali sotto indagine. E perciò l’avvocato Lattanzi sottolinea la propria distanza dalle polemiche: «Rispettiamo il dolore della famiglia — dice — e ci sottraiamo dal processo mediatico. Speriamo che il clamore si attenui, siamo sicuri che gli accertamenti tecnici dimostreranno la correttezza del loro operato». 

I risultati dell’autopsia potrebbero arrivare già nella serata di mercoledì ma i pm hanno in serbo anche la carta di un’ulteriore consulenza da effettuarsi oltre i confini romani, nel caso in cui si rendesse necessario precisare meglio la natura della patologia che ha colpito Purgatori. Resta l’incognita del funerale, legato ai tempi dell’inchiesta. La data potrà essere fissata solo quando gli esami tecnici saranno terminati.

Estratto dell’articolo di Melania Rizzoli per “Libero quotidiano” il 24 luglio 2023.

 Sono giorni difficili per i familiari di Andrea Purgatori, straziati dal dolore per la perdita prematura del loro caro, ma ancora di più per […] il tremendo sospetto che le cure alle quali fu sottoposto non furono adeguate, se non sbagliate. 

Una vicenda molto intricata e tormentata, affidata oggi alla Procura di Roma, che ha sequestrato esami, cartelle cliniche e salma del paziente per accertare se il percorso terapeutico scelto ed applicato a Purgatori sia stato corretto ed esente da gravi errori diagnostici o di valutazione.

La cosa che ha colpito di più i familiari, gli amici e l’opinione pubblica è stata la disputa tra il radiologo Gianfranco Gualdi, che per primo, il 9 maggio, rivelò al giornalista la presenza di un tumore del polmone in fase avanzata, con la nefasta diffusione di metastasi cerebrali, evidenziate nel corso di una Tac Totalbody al quale lo aveva sottoposto, e il prof Alessandro Bozzao, ordinario di neuroradiologia alla Sapienza, il quale, in una valutazione radiografica richiesta dal giornalista a un mese di distanza, dopo essere stato sottoposto, dal 14 maggio, a radioterapia ad alto dosaggio sul cervello, ha negato l’esistenza delle stesse, affermando addirittura che le metastasi non c’erano mai state, e che le immagini rilevate alla Tac cerebrale indicavano la presenza di alcune piccole e non preoccupanti zone ischemiche.

[…] qualcosa non è proprio andato per il verso giusto, visto che il paziente, che ha sempre continuato a lavorare durante le cure ed era in condizioni discrete, è entrato in coma improvvisamente e da quel che si capisce poi è prematuramente morto. 

La iniziale diagnosi del prof Gualdi è stata messa in discussione anche dai medici dell’Humanitas di Rozzano, ai quali Purgatori si era rivolto, quando, iniziando ad avere qualche dubbio sugli esiti dei trattamenti radiologici subìti ritenne opportuno richiedere un ulteriore parere […]. 

Il mondo medico è giustamente sconcertato nel leggere le notizie riportate dai quotidiani, soprattutto perché ci si chiede come sia possibile firmare un referto pesante come quello della presenza di ripetizioni del tumore diffuse nel cervello da parte di un medico molto esperto, per essere smentito il mese dopo da un altro stimato professionista che […] afferma che la diagnosi iniziale fu sbagliata, e che di conseguenza la terapia radiante effettuata sull’intero encefalo abbia fatto precipitare il paziente verso il baratro.

Conosco personalmente il prof Gianfranco Gualdi, nella capitale considerato una assoluta autorità nel campo della “diagnostica per immagini”, al punto di essere, dal 1981, consulente per il Vaticano ed aver seguito per anni Papa Wojtyla, […] e mi resta difficile immaginare che lui abbia visto e confermato radiologicamente delle metastasi inesistenti, come mi resta ancora più difficile credere che la radioterapia effettuata sul cervello del paziente le abbia fatte regredire in due settimane fino a farle scomparire, o addirittura ridurle a piccole lesioni ischemiche, quelle confermate dal neuroradiologo Bozzao. 

L’esame accurato e comparato delle immagini delle lastre e delle analisi dirimerà ogni dubbio, che tra qualche mese sarà verità, purtroppo a paziente non più in vita.

La cosa certa è che Andrea Purgatori il 6 giugno, nonostante le pesanti terapie, era in piedi e lavorava, è stato audito in Senato dalla Commissione d’inchiesta su Emanuela Orlandi, era lucido e preciso, senza alcun disturbo neurologico evidente. Il giorno dopo è stato in Calabria a ritirare un premio dalla Confartigianato e l’8 giugno era sul palco dell’Auditorium di Roma a presentare un libro con il regista Enrico Vanzina. Quindi nulla a che vedere con un malato grave, neurologico o terminale.

[…] Le sue condizioni però precipitano l’8 luglio, quando viene portato in ambulanza al policlinico Umberto I dove viene sottoposto ad una nuova Tac (senza contrasto) che, ironia della sorte, non evidenzia alcuna neoplasia polmonare, bensì una patologia definita “carcinosi dell’encefalo”, ovvero una malattia tumorale che aveva raggiunto le meningi, e di conseguenza causato il coma improvviso e irreversibile che aveva richiesto il ricovero urgente, fino a portare il paziente al decesso, senza aver mai ripreso conoscenza, il 19 luglio. 

[…]  In casi come questi lo stesso scontro tra professionisti della medicina non fa di certo onore alla categoria, ma soprattutto quello che è più triste e sconfortante in questa disgraziata vicenda è immaginare il tragico pellegrinare di un amico, di un paziente, fragile psicologicamente e provato moralmente dopo che gli è stata comunicata una diagnosi terribile, che ad ogni controllo radiologico viene informato su dissensi e dubbi diagnostici e su possibili e clamorosi errori di valutazione, e di conseguenza terapeutici, per cui viene gettato nello smarrimento e nello sconcerto personale, e soprattutto nella impossibilità di credere ad alcuno degli specialisti ai quali si era affidato per curarsi e forse guarire da una grave malattia che c’era o forse non è mai esistita.

Andrea Purgatori era un grande giornalista sempre alla ricerca della verità assoluta in tutti i molteplici casi di cronaca giudiziaria nazionale dei quali si è occupato, che ha affrontato ed approfondito sempre senza ideologie di sorta, e merita, per la sua storia e la sua dignità, che venga fatta luce sulla pratica sanitaria scelta per lui dai vari medici, professori e scienziati di fama, sulla effettiva causa della sua morte, che ha lasciato un vuoto incolmabile non solo in chi gli voleva bene, ma nell’intero giornalismo italiano.

Caro Dago, 

in relazione all'articolo di Melania Rizzoli pubblicato sul tuo sito, relativamente al caso Purgatori, mio buon conoscente e paziente, desidererei rilevare alcune inesattezze riportate nell'articolo. 

1- Il primo a diagnosticare a Purgatori un tumore del polmone sono stato io in data 24 Maggio presso la Casa di Cura Villa Margherita. 

Andrea, come ogni anno, si sottoponeva presso la clinica ad un check-up di routine; e purtroppo in questa occasione, malgrado l'apparente buona salute, riscontrai questa evidente massa tumorale ad esame TC senza mezzo di contrasto del torace.

Gli diedi la notizia personalmente al termine dell'esame, inutile immaginare lo sconforto ma anche la grande forza d'animo con cui Andrea reagì dopo pochi secondi. 

2-Come sempre succede nella pratica radiologica, nei casi in cui inaspettatamente si riscontra un grave problema, si è proceduto nel giorno successivo ad effettuare una TC Total Body con contrasto, e quindi una biopsia.

Che da lì a qualche giorno confermò la diagnosi di tumore del polmone. 

3- Dimesso Purgatori dalla Clinica Villa Margherita, il suo curante mi informò che il giornalista si sarebbe sottoposto ad ulteriori accertamenti come la PET in altra sede.

Il resto è storia. 

Mi sento in dovere di rettificare l'articolo della Rizzoli, di cui nutro profonda stima, solo perché, dopo settimane in cui ho letto tutto e il contrario di tutto sulla fine del grande giornalista, vista la portata mediatica della vicenda, mi sembra corretto riportare la cronologia dei fatti per rispetto alla famiglia e per coloro che leggono quotidianamente l'evolversi di questa triste storia. 

Un caro saluto,

Fabrizio Lucherini, medico specializzato in Diagnostica per Immagini e Radiologia

Estratto dell’articolo di Grazia Longo per “la Stampa” il 25 luglio 2023.

È Stato fatto tutto il possibile per salvare Andrea Purgatori? E soprattutto, com'è possibile che esistano due diagnosi diametralmente opposte? Da un lato, l'ipotesi di metastasi al cervello, sostenuta dal professor Gianfranco Gualdi, indagato con il suo collaboratore Claudio Di Biasi della clinica Pio XI. Dall'altro l'ipotesi che si tratti di ischemia, avallata dal professor Alessandro Bozzao della casa di cura Villa Margherita. 

Nel mezzo, dichiarazioni di medici. Il dottor Caponnetto, oncologo di Villa Margherita, ad esempio, ha raccontato a uno dei figli del giornalista di aver inviato la risonanza magnetica all'encefalo in America (senza precisare dove) e di aver avuto conferma della presenza di metastasi cerebrali. 

Lo stesso oncologo ha riferito sempre al figlio di Purgatori di vecchie rivalità tra il professor Gualdi e il professor Bozzao, tanto che il giovane ha avuto la sensazione di essere invitato a «non credere» al professor Bozzao. 

[…] Per far luce sulla vicenda, il pm Giorgio Orano e l'aggiunto Sergio Colaiocco (che hanno aperto un fascicolo per omicidio colposo) hanno ordinato una Tac sul corpo di Purgatori, che si svolgerà oggi pomeriggio, e l'autopsia fissata per domani pomeriggio. I magistrati hanno anche deciso di interrogare, come persone informate dei fatti, i medici che hanno avuto in cura il giornalista e quelli chiamati per i consulti. […]

Estratto dell’articolo di Ilaria Sacchettoni per il “Corriere della Sera” il 25 luglio 2023.

Una decina di convocazioni sono state inviate dalla cancelleria del pm Giorgio Orano agli indirizzi dei medici che hanno avuto in cura Andrea Purgatori. Si deve accertare se ci sia un nesso fra la morte del giornalista e le terapie alle quali è stato sottoposto. 

Raggiungere una prova certa di un eventuale omicidio colposo è lavoro complesso. Perciò i magistrati hanno incaricato il professor Luigi Marsella del Policlinico di Tor Vergata di rispondere a un quesito ampio e dettagliato che riguarda diagnosi effettuate e cure somministrate.

In attesa dei risultati […] il pm vuole ricostruire attraverso questi esperti — sentiti in qualità di persone informate sui fatti — gli ultimi due mesi di vita del giornalista. É certo che furono settimane di controlli frenetici nella speranza di smentire la tesi del professor Gianfranco Gualdi, il primo a diagnosticare, alla fine dello scorso aprile, una serie di «metastasi tumorali» che dai polmoni avrebbero raggiunto il cervello. 

Gualdi e il suo collaboratore Claudio Di Biasi sono stati iscritti sul registro degli indagati a garanzia delle loro stesse posizioni e su suggerimento del loro difensore, l’avvocato Fabio Lattanzi, hanno nominato come consulente di parte l’anatomopatologo de La Sapienza, Enrico Marinelli. 

L’elenco degli esami eseguiti da Purgatori ed enumerati nella denuncia presentata dai figli è lungo e univocamente orientato a confutare la tesi di Gualdi delle metastasi.

In effetti una tac effettuata il 10 giugno a Villa Margherita riscontra «solo ischemie e non anche metastasi». Due giorni dopo un altro controllo, stavolta del professor Alessandro Bozzao de La Sapienza, conferma la diagnosi di Villa Margherita e smentisce le metastasi. Un’ulteriore riscontro il 16 giugno, effettuato nuovamente da Bozzao, conforta la tesi delle ischemie. 

C’è poi il parere richiesto all’Humanitas di Rozzano che ancora una volta contraddice Gualdi e la presenza di metastasi. Che la guerra fra professionisti emeriti di radiologia e oncologia fosse conclamata è rivelato da un altro dettaglio. Un professore di Villa Margherita, l’oncologo Salvo Caponnetto, riferì ai familiari di Purgatori come le differenti letture delle Tac alle quali si sottopose il giornalista sarebbero state dovute a storiche divergenze fra i professori Gualdi e Bozzao.

[…] Gli stati d’animo dell’autore di «Atlantide» sono descritti nella denuncia della famiglia che, assistita dagli avvocati Alessandro e Michele Gentiloni Silverj, ha ora nominato il professor Vincenzo Pascali affinché assista agli esami autoptici. Intanto i carabinieri del Nas hanno prelevato cinque cartelle cliniche in altrettante strutture della capitale che hanno avuto un ruolo in questa vicenda. 

A breve una prima informativa sarà depositata in Procura. Al procuratore aggiunto Sergio Colaiocco e al suo sostituto toccherà appurare se vi sia nesso di causalità fra la morte e le terapie seguite da Purgatori. E se, per citare il quesito sottoposto agli esperti, vi siano stati «atti di negligenza o imprudenza e a chi siano addebitabili». […]

Purgatori, conclusa l'autopsia. "Analisi su inspessimento al cervello". Il Tempo il 26 luglio 2023

Si è conclusa l'autopsia sul corpo di Andrea Purgatori, il giornalista morto a Roma una settimana fa. L'esame è stato eseguito al policlinico di Tor Vergata e da quanto si apprende sarà necessario un approfondimento, rinviato al 6 settembre, delle analisi da compiere su un inspessimento rilevato al cervello. Un quadro, quello emerso dall'autopsia, che necessiterebbe di ulteriori approfondimenti anche sull’ipotesi di un’infezione.

All'autopsia su Purgatori hanno partecipato anche i consulenti nominati dalle parti. L'esame segue la tac effettuata ieri sempre nell’ambito degli accertamenti disposti dalla procura di Roma. Nel fascicolo aperto a piazzale Clodio in seguito all’esposto della famiglia del giornalista si procede per l’ipotesi di omicidio colposo. Nel registro degli indagati sono iscritti due medici. Nella denuncia i familiari di Purgatori hanno chiesto che venga fatta luce sulla correttezza della diagnosi refertata al giornalista e delle cure somministrate. 

Domani intanto la camera ardente di Andrea Purgatori sarà allestita in Campidoglio, nella Sala della Protomoteca, e sarà aperta al pubblico dalle ore 15 alle 19. I funerali si svolgeranno a Roma venerdì 28 luglio alle ore 10 presso la basilica di Santa Maria in Montesanto, nota come "Chiesa degli artisti", in piazza del Popolo.

Estratto dell’articolo di Valentina Errante per il Messaggero giovedì 27 luglio 2023.

Di certo i polmoni di Andrea Purgatori erano devastati dal tumore. Potrebbe essere stato un collasso cardiopolmonare a provocare il decesso del giornalista e sceneggiatore avvenuto lo scorso 19 luglio. Ma i risultati dell'autopsia, eseguita ieri, a Tor Vergata, sono parziali. 

Soltanto a settembre, infatti, il quadro sarà più chiaro. Al momento sembra esclusa l'infezione, una pericardite settica, ipotizzata dai familiari, assistiti dagli avvocati Michele e Alessandro Gentiloni Silveri, che hanno presentato un esposto in procura. Il nodo da sciogliere, per l'aggiunto Sergio Colaiocco e il pm Giorgio Orano che hanno aperto un fascicolo per omicidio colposo, è stabilire se la diagnosi di metastasi al cervello di un tumore primario al polmone fosse corretta. Soprattutto perché la famiglia ha chiesto di verificare se la pesante radioterapia alla quale Purgatori è stato sottoposto lo abbia indebolito al punto di accelerarne il decesso. 

Sul registro degli indagati sono stati iscritti i nomi del radiologo Gianfranco Gualdi e del suo collaboratore, Claudio Di Biasi, entrambi assistiti dall'avvocato Fabio Lattanzi, che hanno firmato quella prima diagnosi. Ma altri specialisti li hanno smentiti, quando le cure erano già in corso, sostenendo che al cervello ci fossero solo tracce di ischemia.

Dopo l'arrivo del nullaosta da parte della procura, sono stati fissati i funerali, che si svolgeranno domani alle 10 a Roma nella Chiesa degli Artisti in piazza del Popolo, mentre questo pomeriggio è prevista la camera ardente in Campidoglio. 

L'AUTOPSIA I pm della procura di Roma hanno già ascoltato alcuni testimoni, tra sanitari e conoscenti del giornalista (altri saranno convocati nei prossimi giorni) per ricostruire gli ultimi mesi di vita di Purgatori e il decorso della sua malattia. La tac, eseguita martedì, deve ancora essere letta dagli specialisti, mentre ieri l'autopsia eseguita dal professore Luigi Marsella dell'Università di Tor Vergata non ha dato risposte definitive. I risultati degli esami istologici eseguiti sul cervello, per stabilire l'esistenza o meno di metastasi, arriveranno solo alla fine di agosto e i consulenti delle parti si sono dati appuntamento il prossimo 6 settembre.

Tuttavia è stato rilevato un ispessimento del cervello. Intanto i Nas stanno esaminando le cartelle cliniche di tutte le strutture alle quali si è rivolto Purgatori, da Villa Margherita, alla Pio XI, presso la quale lavorano sia Gualdi che Di Biasi e che ha comunque precisato che il giornalista nella struttura «ha svolto solo accertamenti di diagnostica per immagini e una biopsia». Quindi villa San Pietro, la Paideia e il Policlinico, dove è morto dopo alcuni giorni di ricovero.

Domani i funerali. Addio Purgatori, il mondo del giornalismo alla camera ardente in Campidoglio: “Su Ustica anche noi gli dicevamo basta” ma lui era tenace. L’autopsia: “Grave danno ai polmoni ma aspettiamo esami”. Redazione su Il Riformista il 27 Luglio 2023 

Una grande folla commossa in perfetto e rispettoso silenzio. Tutto il mondo del giornalismo, dello spettacolo e della politica, ha presenziato oggi pomeriggio in Campidoglio per dare l’ultimo saluto ad Andrea Purgatori, scomparso per una malattia fulminante lo scorso 19 luglio in una clinica romana. La camera ardente è allestita nella Sala della Protomoteca, la bara è coperta con un copricassa di rose rosse e nebbiolina. Tra i volti noti ci sono il vicepresidente della Camera e deputato di Forza Italia Giorgio Mulé, Miguel Gotor, Roberto Scarpinato, i colleghi giornalisti tra i quali il direttore di La7 Andrea Salerno, Enrico Mentana e Sigfrido Ranucci. Presente anche Pietro Orlandi, il fratello di Emanuela, della cui scomparsa Purgatori si è occupato fin dai primi momenti scrivendo articoli sulle varie piste degli inquirenti e prendendo parte alla serie Netflix ‘Vatican Girl‘ uscita a settembre 2022.

La proposta di intitolargli Sala stampa della Camera dei deputati

“Proporrò che una delle sale stampa della Camera dei deputati sia intitolata alla memoria di Andrea Purgatori, per ciò che ha significato per il giornalismo italiano”. Lo scrive sui suoi canali social, insieme a un ricordo del giornalista scomparso, Giorgio Mulè, vicepresidente della Camera e deputato di Forza Italia, dopo aver lasciato la camera ardente in Campidoglio dove si è soffermato con i figli del giornalista.

Al Corriere anche noi giornalisti gli dicevamo: “Andrea basta”

“Andrea ha messo il gioco nella sua vita. E io ricordo solo divertimento, giochi, sorrisi, anche quando combatteva la sua battaglia per Ustica. L’ha combattuta anche contro il giornale”. Con queste parole Barbara Palombelli, sua collega negli anni al Corriere della Sera, ha ricordato Andrea Purgatori all’uscita dalla camera ardente in Campidoglio. “Ha combattuto contro tutti. Il muro di gomma eravamo anche noi che gli dicevamo ‘Andrea basta’. Ma lui ha tenuto ferma la barra. E poi si è reinventato mille volte. Ci mancherà tantissimo, aveva ancora tanti da fare” ha aggiunto.

Morte Purgatori, entrambe le diagnosi “potrebbero stare in piedi”. La lite furibonda con il medico del Vaticano: “Molto difficile sbagliarsi tra ischemia e metastasi”

Pietro Orlandi: “Oggi ricordo l’amico che mi mancherà”

“Oggi ricordo soprattutto l’amico. Per me, infatti, era prima un amico e poi il giornalista che tutti conosciamo. Sul giornalista, i fatti parlano chiaro. L’amico è quello che mi mancherà sicuramente, io mi appoggiavo molto a lui e ci sentivamo spesso”. E’ il ricordo commosso di Pietro Orlandi, fratello di Emanuela, all’uscita della camera ardente allestita per Andrea Purgatori in Campidoglio. “Era una persona eccezionale, come lui ne ho conosciuti veramente pochi. Mancherà come amico e come giornalista, anche per l’aiuto che mi stava dando. Ci teneva tantissimo al caso Orlandi e avrebbe fatto il consulente per la commissione d’inchiesta – ha aggiunto, ricordando l’impegno del giornalista romano che al caso Orlandi aveva dedicato un ampio impegno, realizzando anche con Netflix la serie ‘Vatican girl’

Ranucci: “Purgatori: un gigante dell’informazione che ci mancherà”

Lo ha detto il conduttore del programma Rai Report, Sigfrido Ranucci, all’uscita della camera ardente allestita in Campidoglio per Andrea Purgatori. “Era uno dei pochi con cui condividevo alcune chiavi di lettura di alcuni avvenimenti storici, soprattutto sulla mafia, che non va letta come un fenomeno a se stante, ma dentro la società e nella sua collusione. Lui è stato straordinario perché ha raccontato fatti che erano ancora nel buio, come Ustica o il caso Orlandi. Senza di lui, non conosceremmo tante cose. Ho detto che prima o poi ci ritroveremo e che saranno ‘affari loro’ se ci riusciamo”. “Ha sempre svolto l’attività giornalistica sulla strada – ha aggiunto -, è sempre stato veramente sul marciapiede e mai si è elevato a quella elite giornalistica che guarda dall’alto al basso. Andrea è stato uno dei rarissimi esempi di giornalisti della carta stampata che ha saputo lavorare nel mondo televisivo, che non è facile. E poi aveva una grande memoria enciclopedica, poteva contare su quel culto della memoria della quale il giornalismo non può fare a meno”.

Paolo Mieli svela l'impensabile su Purgatori: "Fui testimone obbligatorio". Libero Quotidiano il 28 luglio 2023

La7 si ferma e ricorda Andrea Purgatori nel giorno del suo funerale. In collegamento con Francesco Magnani a L'Aria Che Tira c'è Paolo Mieli. È lui a raccontare che "fui testimone obbligatorio nel giorno in cui decise di lasciare il posto fisso". Come ricordato dal giornalista, "Purgatori fece una cosa che nessuno avrebbe mai fatto, soprattutto uno affermato come lui". 

Ma il conduttore di Atlantide tirò dritto e "quel giorno decise di mettersi in proprio, di lasciare un incarico molto ben retribuito nel principale giornale italiano, il Corriere della Sera, da protagonista, e decise di fare lo sceneggiatore e le sue inchieste. Fece una cosa molto americana, che in Italia non fa nessuno". I due parlarono a lungo: "Venne nel mio ufficio, io ero sconcertato. Gli dissi: 'sei pazzo a fare una scelta del genere'". E invece, "aveva ragione lui, avevo torto io. Da quel momento è diventato qualcosa di più di quello che sarebbe diventato se avesse accettato di rimanere nel posto fisso". 

Un aneddoto, questo, già raccontato da Luca Telese. "Voglio ricordare - spiegava - quando nel 1999, al Corriere della Sera, irrompeva e iniziava a scherzare con tutti. Lui era quello che era, quello con le suole di scarpa che camminavano sulle notizie". Quando decise di lasciare il Corsera, "molti pensavano: Forse è ammattito, invece quell’addio gli ha regalato un’altra importante stagione".

Estratto dell’articolo di Fulvio Fiano, Claudio Guaitoli e Maria Rosa Pavia per corriere.it venerdì 28 luglio 2023.

In una Chiesa degli Artisti a piazza del Popolo gremita di firme e direttori delle maggiori testate giornalistiche italiane, attori, registi, personalità della società civile, il feretro  di Andrea Purgatori arriva in spalla a quattro pompieri in tenuta da intervento, casco incluso, su richiesta esplicita del corpo dei vigili del fuoco. 

[…] Ad accogliere la bara i tre figli, Edoardo, Victoria e Ludovico, l'ex moglie Nicole Schmitz e la compagna Errica Dall'Ara.

Nelle prime file, l’editore di Corriere della Sera e La7 Urbano Cairo: di fianco a lui Andrea Salerno, direttore de La7 (che ha anche ricordato Purgatori con parole toccanti a fine cerimonia)  Enrico Mentana,  direttore del tg e altre volti noti dell'emittente, fra cui Diego Bianchi, in arte «Zoro», Alessandra Sardoni, Tiziana Panella e ancora la redazione del programma che conduceva su La7, «Atlantide»,  Massimo Gramellini, Luca Telese, Mogol, Monica Guerritore col marito Roberto Zaccaria e - qua e là tra la folla dei presenti - il regista Vanzina e gli attori Francesco Montanari e Stefano Sarcinelli. 

E poi ancora Francesco Pannofino, Roberto Saviano. Pietro Sermonti, Michela Giraud, Antonello Fassari  e tanti altri. 

[…]

Il figlio Ludovico ha ricordato l'attaccamento al lavoro del padre dicendo: «Poteva andare avanti a lavorare anche fino alle 4 del mattino. E lo faceva. Ma nei momenti importanti c'era sempre e mi ha salvato più volte. Ricorderò sempre le sue chiamate giornaliere, di 63 secondi contati, in cui mi chiedeva se mi ero messo la sciarpa, se potevo mettere il casco in bici, se potevo andare a vedere la partita da lui. E poi chiudeva sempre dicendo "Scusami devo entrare in riunione, cia’cia, ciao". 

Andava sempre di fretta perché il tempo che aveva a disposizione non era mai abbastanza. Era un ansioso, un burbero. Ti ho voluto bene però adesso scusami devo entrare in riunione, cia’cia, ciao».

La figlia Victoria si è commossa ricordando il padre. Ha rievocato i momenti in cui da bambina gli chiedeva se sarebbe morto e lui le rispondeva con un sicuro: «No»: «Gliel'ho chiesto anche negli ultimi giorni e lui mi rispondeva: "Oddio Victoria, no"». 

Victoria continua ricordando la carriera del genitore ma sottolinea: «Il suo più grande successo è stato quello di essere padre perché nonostante tutto mi ha amata con tutto se stesso. Ti voglio bene, papi».

Estratto da lastampa.it venerdì 28 luglio 2023.

Una grande folla si è radunata a Piazza del Popolo per l'ultimo saluto ad Andrea Purgatori, il giornalista d'inchiesta morto il 19 luglio per un problema cardiopolmonare, secondo quanto evidenziato dall'autopsia. 

Il feretro, portato a spalla dai Vigili del fuoco (nella cui caserma Purgatori ha trascorso molte ore da cronista, n.d.r.), è stato accompagnano dentro la chiesa degli artisti dai figli Victoria, Edoardo e Ludovico, e dalla compagna Errica Dall'Ara.  Presente anche la ex moglie. […]

 Moltissimi i giornalisti presenti, dal direttore del Tg La7, Enrico Mentana, a quello del Messaggero, Massimo Martinelli, e poi l'editore Urbano Cairo e personaggi del mondo della cultura e dello spettacolo come Mogol e Vanzina, e cittadini comuni che raccontano di voler rendere omaggio a un giornalista che ha svelato verità nascoste su casi importanti come quelle relative alla strage di Ustica e a Emanuela Orlandi. 

Il figlio Ludovico: “Combatteva sempre e a qualsiasi costo”

«Mio padre aveva una immensa dedizione per la ricerca della verità, per la quale combatteva sempre e a qualsiasi costo. Era una persona cocciuta e molto coraggiosa». Così Ludovico Purgatori ha ricordato il padre, Andrea, leggendo una lettera al termine del funerale […] 

Roberto Saviano: “Ho il dono di avere imparato tanto da lui”

«Accanto al dolore c'è la consapevolezza che Andrea Purgatori ha insegnato che bisogna saper scegliere, e fare il giornalista significa decidere da che parte stare – ha detto Roberto Saviano ai cronisti davanti all'ingresso della basilica -. Lo ha fatto con dignità, passione e senza paura. Ho il dono di avere imparato tanto da lui».

[…] Don Insero: “Grati a un uomo in cerca della verità”

«Questa basilica non riesce a contenere la presenza, la stima, l'affetto e l'amore per lui», ha detto don Walter Insero nell’omelia funebre. 

«È stato un giornalista di inchiesta ma non solo - ha ricordato il prete - ha avuto un talento straordinario come sceneggiatore, conduttore tv, scrittore. La sua curiosità e la voglia di raccontare le storie lo hanno contraddistinto.

Un uomo che ha amato la vita, amava ballare viaggiare divertirsi. Forte e ironico fino alla fine. Coraggioso, ha preso la malattia di petto. È stato un uomo riservato, un padre affettuoso, molto apprensivo con i figli, amava molto i nipotini. Amava l'ambiente. È stato un uomo credente non praticante di una famiglia cattolica. La consolazione è che la sua anima non è morta, la nostra nemmeno. Lui continua ad amare da padre, nonno, amico. Ha sposato tante cause, si è preso cura di giornalisti più giovani. Sempre alla ricerca della verità adesso ha raggiunto la verità, Cristo è la verità, che perdoni i suoi peccati e lo accolga in paradiso»

Estratto dell'articolo di Marco Tullio Giordana per “la Repubblica” venerdì 28 luglio 2023.

Non entrerò nella questione se siano state ben fatte le diagnosi di Andrea Purgatori e conseguentemente prescritte le cure adeguate. È materia al momento sub judice e, dolore a parte, non mi sento in diritto di metterci bocca. Tutta la tenerezza possibile invece ai suoi figlioli, che per amore di verità hanno raddoppiato il peso della loro croce. Negli ultimi tre anni l’ho molto frequentato per via di un progetto che volevamo fare assieme. 

(...) 

Anche perché il nostro materiale si basava su atti processuali e sentenze passate in giudicato, inoppugnabili perfino per il plotone di avvocati incaricati di verificare. Questa serie, che inizialmente doveva chiamarsi “La zona grigia”, si trasformò abbastanza rapidamente in un’altra idea: non più il lungo film che avrebbe dovuto inevitabilmente misurarsi con le convenzioni romanzesche, ma una miscela di finzione e indagine giornalistica per la quale Andrea Purgatori era adattissimo grazie alla formidabile presenza scenica (faccia da Dick Tracy, voce profonda e autorevole, come quella del grande Sergio Zavoli o degli eroici baritoni verdiani) e alla credibilità delle sue trasmissioni, una su tutte quella “Atlandide” che lo hanno reso così popolare e benvoluto. 

Facemmo anche diversi sopralluoghi in Sicilia raccogliendo molte testimonianze – di magistrati, giornalisti, investigatori e anche di gente comune – per venire a capo di una scaletta stringente e inappellabile. 

L’uscita e il grande successo di “Vatican Girl”, dove Purgatori era voce narrante e carismatica presenza investigativa, ci convinse di essere sulla strada giusta e aumentò la nostra voglia di realizzare il progetto. Cominciarono subito alcune stranezze. Intanto la sensazione di essere intercettati, addirittura seguiti. Si trattasse di me ci sarebbe da ridere, ma trattandosi di Purgatori e delle sue inchieste sempre fastidiose e rivelatrici (Da Ustica a Pecorelli, da Pasolini a Moro, da Giovanni Paolo I a Emanuela Orlandi, per non dire che di queste) l’ipotesi non era peregrina.

Anche vedendosi privatamente da me o nella sua nuova abitazione piena di piante e quadri o in qualche ristorante deciso all’ultimo (e dove, cittadino del mondo, Andrea Purgatori si divertiva ad apostrofare in hindi, singalese o swahili i vari gestori), avvertivamo spesso una impalpabile sorveglianza, l’aggirarsi di figure strane. Con una certa incoscienza ne prendevamo atto senza osservare precauzioni, addirittura ridendone. 

In fondo le nostre informazioni provenivano da carte accessibili a chiunque, nulla era segreto o scandaloso o “coperto”, tutto era di dominio pubblico. La storia d’Italia sarebbe perfettamente leggibile solo ad aver voglia di raccontarla (e soprattutto di ascoltarla). Dunque? Dunque niente, soltanto una minuscola osservazione.

Malgrado la popolarità (bastava andare in giro con lui per rendersi conto da quanta stima e riconoscenza fosse circondato) Purgatori era anche molto odiato. Le sue inchieste, nella miglior tradizione del giornalismo di strada anziché di scrivania, erano immensamente disturbanti per i manovratori. 

Che parlassero di trattativa, di politici collusi, di delitti e mattanze eccellenti, prelati ambigui, giudici “avvicinati” e corrotti, le sue trasmissioni avevano sempre fatto centro e creato quel sentimento di appartenenza civile oggi sommamente detestato da chi non vuole né controllo né opposizione. Che a nessuno venga in mente di citare Anna Politkovskaja, o Alexander Litvinenko o Jamal Ahmad Khashoggi. Casomai a qualche stupido complottista, giusto per poterlo dileggiare.

Estratto dell’articolo di Carlo Picozza per “la Repubblica - Edizione Roma” giovedì 3 agosto 2023.

“Svariate metastasi”. Dalla sala settoria dove il giornalista d’inchiesta, Andrea Purgatori, è stato sottoposto all’autopsia il 26 luglio, trapelano nuove informazioni sulla natura e sulla causa della sua morte. Giusta o sbagliata che fosse la diagnosi, Purgatori non ce l’avrebbe fatta. 

Il tumore e i suoi satelliti, con i loro effetti devastanti, avevano già segnato in modo irreparabile il suo destino.

Il giornalista, autore e conduttore televisivo apprezzato e amato dai telespettatori e dagli stessi colleghi, aveva un’aspettativa di vita breve, condizionata pesantemente dallo stadio ormai avanzato del tumore e dalle repliche di questo.

Così, sul piano squisitamente giudiziario, a prescindere dalla validità delle diagnosi — che, contrastanti come sono state tra un clinico e un altro, hanno indotto la famiglia Purgatori a rivolgersi ai giudici — non dovrebbero esserci imputazioni di responsabilità verso i medici che avevano in cura Purgatori. La ridotta aspettativa di vita farebbe venir meno il nesso causale tra la condotta dei camici bianchi e il decesso.

L’ordinamento penale, infatti, prevede che sussista responsabilità dell’operatore sanitario solo di fronte a una condotta tale da nuocere al paziente “con un grado di probabilità, prossimo alla certezza”.

In altre parole, anche in presenza eventuale di un errore medico, la responsabilità del sanitario si concretizza solo di fronte a una accertata realizzazione del danno a carico dell’assistito

Secondo i tre consulenti della Procura di Roma, che hanno eseguito l’autopsia — presenti tre loro colleghi, due per la difesa e uno per la parte civile — sarebbe stato il tumore primitivo al polmone la causa dell’arresto cardiorespiratorio […] 

Eseguite la Tac e l’autopsia, si dovrà aspettare l’esame istologico dei tessuti e degli organi. Occorreranno dalle due alle tre settimane. Il prossimo 6 settembre, i consulenti della Procura si incontreranno di nuovo. Intanto, in queste ore è affiorata l’informazione su “svariate metastasi” 

[…]

A scanso di ogni dubbio, i consulenti potrebbero richiedere pure un’indagine microbiologica per scoprire se siano riscontrabili agenti patogeni infettivi. Anche se, per ora, i sei periti non hanno fatto cenno a infezioni di sorta ma solo al tumore primitivo […]

Anticipazione da "OGGI" mercoledì 16 agosto 2023.

Andrea Salerno, direttore di La7 e amico da decenni di Andrea Purgatori, scomparso lo scorso 19 luglio, lo ricorda sul settimanale OGGI, nel numero in edicola da domani. La morte del giornalista ha colto tutti di sorpresa e ha generato un’unanime ondata di commozione: «Non mi aspettavo tutto quello che è arrivato, un riconoscimento per una volta apartitico: da Giorgia Meloni a Nicola Fratoianni, tutti hanno riconosciuto l’onore delle armi a un giornalista di razza. Ha avuto il merito di provare a riannodare i fili della memoria, in un Paese totalmente allo sbando». 

Salerno, pur non entrando nel merito dell’inchiesta aperta su richiesta della famiglia del giornalista, aggiunge: «Ora io me lo immagino incazzato. Sicuramente lui non si aspettava né è stato avvertito di quel che sarebbe accaduto. Se avesse saputo che il suo futuro era così corto, conoscendolo sarebbe andato al mare invece di fare la radioterapia. Invece lui si voleva sbrigare con le cure proprio perché voleva andare alle Eolie.

E io ci litigavo, perché pensavo fosse folle andare sotto il sole in Sicilia in quelle condizioni, ma lui insisteva che lì sarebbe stato bene. Prima di uscire dalla clinica dopo le terapie, prima dell’ictus dopo il quale tutto è precipitato, mi scriveva messaggi per organizzare cene. Si sentiva bene, si è “ammalato” con le cure. 

Ma siccome può succedere che le cure destabilizzino, noi continuavamo comunque a fare progetti». E ricorda: «Ci siamo scambiati messaggi fino a che ha potuto. Pensavamo alla prossima stagione di Atlantide, avevamo già comprato i documentari. Ormai per tanti malati il cancro fa parte della vita, e Andrea si stava impegnando per superare questo passaggio e tornare in onda il prima possibile».

Andrea Purgatori, l’autopsia: non c’erano metastasi al cervello al momento della morte. Ilaria Sacchettoni su Il Corriere della Sera mercoledì 27 settembre 2023.

È quanto emerge dagli esami istologici completati oggi nell’ambito dell’indagine della Procura di Roma. Il comunicato della famiglia: «Prendiamo atto, unico intento è accertare la verità ed eventuali responsabili» 

Nessuna metastasi al cervello: quando il giornalista Andrea Purgatori è deceduto, lo scorso luglio, non aveva metastasi cerebrali. 

È quanto emerge «concordemente» dagli esami istologici completati oggi nell’ambito dell’indagine dei magistrati Sergio Colaiocco e Giorgio Orano volta ad approfondire le cause della scomparsa del giornalista che, tuttavia, era affetto da un tumore diagnosticato tempo prima.

Adesso bisognerà però stabilire se siano state le terapie a eliminare le metastasi o se invece ci sia stata una diagnosi errata e dunque una cura dannosa.

Nella giornata di mercoledì 27 settembre si è svolto un incontro tra i consulenti dei pm e quelli delle parti per fare il punto sulla attività effettuata in queste settimane all’istituto di medicina legale del Policlinico di Tor Vergata. Nel procedimento, avviato dopo una denuncia dei familiari, sono indagati due medici per omicidio colposo . Si tratta del professor Gianfranco Gualdi e del suo collaboratore e braccio destro Claudio Di Biasi, iscritti sul registro degli indagati nelle settimane scorse come atto dovuto e preliminare agli accertamenti.

Il parere di Gualdi e Di Biasi era in aperto conflitto con gli esami effettuati da altri specialisti e in particolare dal professor Alessandro Bozzao de La Sapienza. In virtù di questo contrasto i familiari assistiti dagli avvocati Alessandro e Michele Gentiloni avevano presentato una denuncia nei giorni immediatamente successivi alla scomparsa di Andrea Purgatori.

Il comunicato della famiglia Purgatori

«Gli avvocati Alessandro e Michele Gentiloni Silveri comunicano che, in relazione ai risultati preliminari della consulenza tecnica, circolati oggi, la famiglia Purgatori prende atto dell’assenza di metastasi cerebrali a carico di Andrea Purgatori e, come fin dall’inizio di questa vicenda, continua ad confidare nell’operato della Magistratura, con l’unico intento di far accertare la verità degli eventi e le eventuali responsabilità».

Estratto dell’articolo di Andrea Ossino per repubblica.it mercoledì 27 settembre 2023.

Gli accertamenti dei medici legali sono terminati: nel cervello di Andrea Purgatori non sono state rinvenute metastasi. È questo l’esito dell’esame istologico disposto dalla procura di Roma per accertare le cause della morte del giornalista scomparso lo scorso 19 luglio dopo un calvario ospedaliero durato per quattro mesi. 

Da appurare ancora come mai i dottor Luigi Tonino Marsella, Alessandro Mauriello e Michele Treglia non abbiano rinvenuto ciò che il collega Gianfranco Gualdi e il suo collaboratore, Claudio Di Biasi, avevano diagnosticato al gigante del giornalismo italiano, quando si era affidato alle loro cure.

I casi sono due: o la radioterapia disposta dai dottori della clinica Pio XI […] ha avuto effetti estremamente positivi, a tal punto da far scomparire le metastasi, o Gualdi e Di Biasi si sono sbagliati. È in questa seconda ipotesi che risiede il sospetto dei familiari di Purgatori, […], che hanno denunciato i fatti alla procura di Roma. Nel fascicolo […] i nomi di Gualdi e Di Biasi figurano nel registro degli indagati. […] 

Difficile affermare cosa tutto ciò possa comportare da un punto di vista giuridico. Gli indagati […] devono infatti rispondere di una colpa medica. In pratica occorre capire se abbiano o meno curato al meglio delle possibilità Andrea Purgatori o se per imperizia e negligenza abbiano potuto contribuire alla sua morte.

Le cause del decesso tuttavia sono già state accertate. E non dipendono dalle metastasi ma da una coagulopatia dovuta al tumore primitivo al polmone. Inoltre il responso degli ultimi esami clinici afferma che non sono state rilevate sofferenze al cervello. Quindi sembrerebbe che la radio non abbia influito sulle condizioni cerebrali del giornalista. 

La certezza al momento è una sola: gli esami clinici recenti dimostrano che le metastasi al cervello non ci sono. Sul perché si apre adesso il nuovo capitolo dell’indagine.

E' morta Jane Birkin

(ANSA domenica 16 luglio 2023) - E' morta all'età di 76 anni Jane Birkin, cantante e attrice britannica naturalizzata francese. Secondo le prime notizie, è stata trovata senza vita nella sua casa parigina.

Da cinquantamila.it – la storia raccontata da Giorgio Dell’Arti 

• Londra (Gran Bretagna) 14 dicembre 1947. Attrice. Cantante

• «Donna e bambina, musa e poetessa, sensuale e pudica, bellissima» (Laura Putti, ”la Repubblica” 24/3/2003). «Non è una cantante, ha una vocina infantile, incerta e bizarra, si appoggia e trova sostanza nei colori, nelle atmosfere, nei chiaroscuri» (Marco Molendini, ”Il Messaggero” 5/4/2003).

Figlia d’arte, interrompe gli studi scolastici e sceglie di darsi al teatro, dividendo poi la sua carriera tra musica e cinema. Dal matrimonio con Serge Gainsbourg nasce anche la collaborazione musicale: nel 1969 incide Je t’aime...moi non plus. 

Quindi arrivano gli album Lolita Go Home (1975) e Ex Fan des Sixties (1978). Dopo il divorzio da Gainsbourg, pubblica tra gli altri Je suis venue te dire que je m’en vais (1992) e Ballade de Johnny (1998). Al cinema al celebre nudo in Blow-up di Antonioni (1966), seguono, tra gli altri, Je t’aime, moi non plus (1976), Dust (1985) e Parole, parole, parole (1997). « stata la musa di Serge Gainsbourg, la ragazzina di Antonioni in Blow up , il simbolo internazionale dell’anticonformismo: attrice, regista o sceneggiatrice in più di settanta film. 

[…] Fu e resta la cantante che scandalizzò e conquistò il mondo con Je t’aime, moi non plus (che riproduceva nel testo e nella musica le varie fasi di un rapporto sessuale, dai preliminari all’orgasmo).

[…] ”Serge scrisse le migliori canzoni dopo che l’avevo lasciato (si sono separati nel 1981, nda ), per cui ero cosciente che ad averle ispirate ero stata proprio io, dopo avergli causato grandi sofferenze. Fu lui stesso a chiedermi di interpretarle e tra di noi si era quindi ristabilito un certo clima di amicizia-parentela. Un ricordo che ancora oggi mi amareggia: lui, dietro al vetro dello studio di registrazione, che piange mentre interpreto per la prima volta Fuir le bonheur (fuggire la felicità). 

[…] Je t’aime, moi non plus è una delle più belle canzoni che siano mai state scritte. Se ascolti la musica oggi, capisci già dalle prime note che ha una struttura melodica in grado di stregare la gente. 

Una volta ero in un taxi a Londra e il conducente mi ha riconosciuta. Si è bloccato in mezzo al traffico di Piccadilly, si è girato e mi ha detto: ”Tu sei quella che cantava quella canzone? Io ho tre figli, un lavoro del c... e non vedo l’ora di arrivare a casa ogni giorno a rimettere su quel disco’. Poi è partito di corsa, è arrivato sotto casa sua ed è andato a prendere il disco da farmi autografare.

Avrà avuto 55-60 anni e quella canzone gli ricordava precisi istanti della sua vita. Questo non mi sembra scandaloso. Tra l’altro è una canzone che è stata sfruttata tantissimo, così come altri brani di Serge, e ha avuto molte citazioni. […] Serge era troppo timido o forse riservato per scrivere ”io ti amo, anch’io’. Sarebbe stata una dichiarazione troppo diretta, automatica e volgare, che forse sì avrebbe fatto pensare a qualcosa di erotico. E poi... questa canzone non era stata scritta per me ma per Brigitte Bardot”» (Mario Luzzato Fegiz, ”Corriere della Sera” 21/10/2002).

Muore a 76 anni Jane Birkin: icona degli anni '70 con Serge Gainsbourg. L'iconica artista Jane Birkin è stata trovata morta nella sua casa parigina all'età di 76 anni. A maggio aveva cancellato tutti i suoi concerti. Cristina Balbo il 16 Luglio 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 La vita

 La carriera di Jane Birkin

È morta all’età di 76 anni l’attrice Jane Birkin. La cantante e attrice britannica naturalizzata francese, stando alle prime indiscrezioni, è stata trovata priva di vita nella sua casa parigina. “Sono sempre stata una grande ottimista, e mi rendo conto che ho ancora bisogno di un po' di tempo per poter esibirmi di nuovo sul palco e con te”, aveva scritto lo scorso maggio in un comunicato reso pubblico dopo avere cancellato dei concerti per motivi di salute.

La vita

L’artista, classe ’46 è nata a Londra e alla fine degli anni Sessanta si era trasferita in Francia. Dal primo matrimonio con il compositore John Barry - grazie al quale ha fatto il suo esordio nella musica quando ha cantato in un musical esortata da lui - ha avuto una figlia, Kate, nata nel 1967 e morta nel 2013. Durante le riprese del film Slogan nel 1968 ha conosciuto Serge Gainsbourg con cui ha formato una coppia iconica e da cui è nata Charlotte Gainsbourg. Jane e Serge insieme hanno lanciato in vetta alle classifiche nel 1969 l’intramontabile duetto “Je t'aime… moi non plus”. Una canzone caratterizzata da sussurri sensuali e provocatori, tanto da suscitare scalpore e da essere censurata da alcune radio a causa del suo contenuto esplicito. La relazione con Serge è durata dieci anni e, a seguito della fine della loro relazione, dal 1980 al 1992, ha condiviso la sua vita con il regista francese Jacques Doillon, con il quale ha avuto un’altra figlia, Lou Doillon. Nel 2021 aveva avuto un ictus leggero da cui, però, si era ripresa rapidamente e la figlia Charlotte le ha dedicato il documentario Jane by Charlotte. 

La carriera di Jane Birkin

Una vita all’insegna dell’arte: cantante, attrice, sceneggiatrice e regista. Il suo esordio cinematografico risale al 1965 con il film Non tutti ce l'hanno di Richard Lester; tuttavia è con il film seguente, Blow-Up di Michelangelo Antonioni (1966), ed in particolare con la scena in cui compare in topless, che la Birkin ha raggiunto la celebrità, diventando così un'icona della swinging London grazie al suo corpo androgino e alla sua femminilità sensuale. Jane Birkin ha recitato in tantissimi film, come La Piscine, Dom Juan 73 o La Fille prodigue. Inoltre, è stata impegnata anche nella carriera teatrale. Nel mondo della musica ha registrato album come solista muovendosi nei vari generi musicali tra cui il pop, il jazz e la musica folk. Tante le collaborazioni con diversi artisti di fama internazionale: tra cui Michel Legrand, Francoise Hardy e Brian Molko dei Placebo. Anche nel mondo della moda è stata un simbolo di eleganza; infatti, l’azienda di moda Hermès nel 1984 ha creato la celebre borsa Birkin Bag ispirata proprio a lei, diventata poi uno dei simboli di lusso più iconici e ambiti al mondo. Negi anni l'artista ha continuato a recitare sia al cinema che in televisione, lavorando con registi di grande fama dal calibro di Bertrand Tavernier, Jacques Rivette, Alain Resnais, James Ivory e Agnès Varda. Jane Birkin è stata anche impegnata nell’attivismo rendendosi protagonista del sostegno a diverse cause umanitarie e ambientali.

Anticipazione da "Oggi" giovedì 3 agosto 2023.

In un’intervista a OGGI, Charlotte Gainsbourg parla della madre Jane Birkin, scomparsa il 16 luglio scorso e sulla quale ha girato un docufilm, «Jane by Charlotte», nel 2021, come atto d’amore. «L’ho amata moltissimo, semplicemente non sapevo come mostrarglielo. Girare un film insieme è stato anche complicato, le ho fatto domande molto personali… È stato così bello che non volevamo finisse mai. Ho vissuto quattro anni in cui ho scoperto che cosa significa mettere una macchina da presa sulla propria madre. Mi serviva una scusa per guardarla con una lente d’ingrandimento, avevo bisogno di un’autorizzazione per starle molto vicino».

Charlotte racconta la separazione dei genitori: «Lei era stanca di feste e di mondanità, e anche dell’alcolismo di mio padre» (il cantautore Serge Gainsbourg, ndr). E la sua reazione: «A 13 anni mi sono rifugiata nel cinema, ho messo una distanza fra me e mia madre. Quando i miei genitori si sono separati stavo spesso con mio padre, per continuare a essere la sua unica figlia. Da parte di mia madre era diverso, c’erano le mie sorelle». Una delle quali, Kate, morì dieci anni fa: «È stata durissima per Jane, sono sparita quando si sentiva molto male. Poi, quando sono tornata a Parigi, sono entrata io in una grossa depressione».

E conclude: «Mi sono rifiutata di parlare di mio padre per 30 anni, mi sono aperta giusto un poco quando ho dovuto raccontare alla stampa i miei album musicali e dovevo includerlo per forza».

 Dall'iconica borsa di Hermès alla verità su Je T'Aime Moi Non Plus: la vita di Jane Birkin. Roberta Damiata il 16 Luglio 2023 su Il Giornale.

Non solo attrice e cantante, Jane Birkin fu un simbolo di libertà e sensualità che cambiò un'epoca. A partire dalla borsa che Hermès disegnò per lei

Icona indiscussa degli anni '70, per la sua sensualità e per la sua storia d'amore travagliata con Serge Gainsbourg, Jane Birkin ha segnato il cinema e la canzone in Francia e nel mondo. Con la sua scomparsa, se ne va non soltanto un'attrice, ma un personaggio che rivoluzionato un'epoca, ispirò canzoni e fece discutere per le sue scelte trasgressive, come quella di mostrare i suoi peli pubici per la prima volta al cinema.

Le sue nobili origini

Jane Birkin non era francese, ma nata a Londra il 14 dicembre 1946. Proprio il suo accento "così britannico" era diventato la sua firma e il suo carattere distintivo. Suo padre, David Birkin, era un ufficiale della Royal Navy e fu un grande combattente della resistenza. Si racconta che abbia salvato François Mitterrand durante la Seconda guerra mondiale. Sua madre, Judy Campbell, era un'attrice di una lunga stirpe di artisti. La biografia dell'attrice, scritta dalla sua amica Gabrielle Crawford, rivela che sarebbe una delle discendenti del re d'Inghilterra, Irlanda e Scozia Carlo II. Pronipote di Freda Dudley Ward, amante di Edoardo VIII re di Gran Bretagna e Irlanda del Nord, poi principe di Galles, la cui figlia aveva sposato il regista Carol Reed. Da parte di madre era inoltre cugina del matematico e filosofo Bertrand Russell.

Il collegio nell'isola di Wight

Sia lei che sua sorella furono mandate da piccole a studiare in un collegio sull'isola di Wight nel sud dell'inghilterra. Un'esperienza devastante, che ricorderà in alcune interviste. "Non ci chiamavano per nome, ma con un numero. Io ero il 99, mia sorella il 177. Non ero brava a scuola e quando i miei genitori mi chiesero se volevo continuare gli studi lì risposi che piuttosto sarei morta". All'epoca la ragazzina dalle: "gambe lunghe come spaghetti e il seno piatto" aveva problemi anche con la sua immagine. "È stato molto più tardi, quando avevo 18 o 19 anni, che ho capito che i miei difetti fisici potevano servirmi", ha confidato l'attrice.

Il primo matrimonio a 17 anni

Prima di incontrare Serge Gainbourg, sposò il compositore inglese John Barry, dal quale ha avuto anche una figlia, Kate Barry morta nel 2013 all'età di 46 anni, famoso per aver composto le musiche di diversi James Bond. Lo incontrò usando le conoscenze artistiche della madre, per ottenere ruoli al cinema. Quando si presentò all'audizione per il musical Passion Flower Hotel, lo vide e tra i due fu un colpo di fulmine. Lui aveva 13 anni più di lei, ma fu costretto dall'allora ragazzina a chiedere la sua mano al padre: "Pensavo fosse assolutamente indispensabile, altrimenti rischiavo di passare per una ragazza facile e frivola" raccontò poi lei. Così un giorno Barry si presentò nel negozio del padre: "Non avevo ancora 17 anni e chiese la mia mano. All'epoca pensavo di essere fatta per questo, per gestire la casa di un uomo, per preparargli la bistecca la sera, qualcuno per cui potevo essere una donna ideale".

L'iconica borsa che porta il suo nome

Avere una "Birkin" è il sogno di tutte le donne: è la borsa di Hermès che è più uno status symbol che un accessorio. Il suo prezzo va dai €6.800 e €126.000 e per averla c'è una lista d'attesa di circa 6 anni. Fu un'omaggio del marchio proprio a Jane Birkin, nato dopo un incontro tra l'attrice e il presidente della maison Hermès durante un volo Parigi-Londra nel 1981. Jane confidò di aver bisogno di un borsa pratica ed elegante che potesse contenere le sue cose e quelle di sua figlia Charlotte. Tornato a Parigi ordinò di crearne una per lei che portasse anche il suo nome. Nacque in quel momento uno degli accessori più costosi e desiderati al mondo del marchio.

Il primo incontro con Gainsbourg fu "spiacevole"

Il primo incontro tra Jane e Gainsbourg, che diventò una delle coppie mediatiche più famose al mondo, avvenne sul set del film Slogan nel 1968, ma non fu così romantico. Gainsbourg era infastidito perché Jane parlava pochissimo il francese. Il cantante si lamentava del fatto che gli era stata promessa la top model Marisa Berenson, e si trovava invece a lavorare: "Con una sconosciuta che non sa articolare correttamente tre parole francesi". Lei raccontò in seguito: "L'ho trovato complicato, arrogante, durante le riprese. Non aveva nessuna gentilezza nei miei confronti; mi ha messo molto a disagio". Fu il regista della pellicola Pierre Grimblat, che li riunì una sera a cena e fece scoccare la scintilla tra i due. Jane raccontò in seguito di essere rimasta affascinata dalla goffaggine di Gainsbourg: "Mascherata da una facciata di malvagità". Lui invece amò il suo lato androgino e il fascino: "Così inglese". Entrambi avevano il cuore spezzato, lei per il fallimento del suo matrimonio, lui per la rottura con Brigitte Bardot. La loro storia d'amore poteva quindi avere inizio.

"Je T'Aime Moi Non Plus", il migliore disco erotico di tutti i tempi

Era il 9 ottobre 1969 e per la prima volta la storica trasmissione della BBC Top of the Pops si rifiutò di mandare in onda il successo numero uno di quella settimana: Je T'Aime Moi Non Plus di Serge Gainsbourg cantata da Jane Birkin. Voci suadenti con gemiti e sospiri che ne decretarono il successo, ma anche lo scandalo mondiale. Scritta l'anno prima quando il cantautore francese aveva una relazione con Brigitte Bardot, la versione cantata da quest'ultima rimase nel cassetto fino al 1986. Nel 1969 Gainsbourg la incise con la nuova fiamma e incontrò immediatamente il grande successo di pubblico e la più bigotta censura: anche in Italia ne fu vietata la vendita. Jane raccontò poi che decise di cantarla solo per gelosia: "Non la amavo particolarmente, ho detto sì solo per non fargliela cantare con un'altra".

Gli amori di Jane

John Barry da cui Jane ha avuto la figlia Kate. Poi Serge Gainsbourg da cui nel 1971 è nata la figlia Charlotte Gainsbourg , anche lei attrice e cantante come i suoi genitori. Con lui si separò nel 1980, ma la loro passione trasformata in un affetto profondo, continuerà fino alla morte di lui nel 2011. Tra il 1980 e il 1992 ebbe poi una relazione con il regista Jacques Doillon. La loro figlia Lou è nata il 4 settembre 1982. Come i suoi genitori e la sua sorellastra Charlotte anche lei è un'attrice e cantante.

I lutti nella sua vita

Serge Gainsbourg morì nel 1991 nel suo appartamento di Parigi, in seguito al quinto attacco di cuore. Jane nonostante i 10 anni di separazione, ne rimase sconvolta. Il giorno del suo funerale, in lacrime sulla sua bara, venne sconvolta da un altro lutto. Morì anche suo padre. Nel 2013 subì un altro grave lutto, la figlia Kate Barry scomparsa improvvisamente all'età di 46 anni.

Roberta Damiata

Addio a Jane Birkin, scandalo e musa degli anni ‘70. La cantante e attrice britannica è morta nella sua casa di Parigi. Aveva 76 anni. Cantò “Je t'aime... moi non plus” con Serge Gainsbourg, con il quale formò la coppia più famosa di Parigi. Il Dubbio il 16 luglio 2023

È morta, all'età di 76 anni Jane Birkin, attrice e cantante britannica naturalizzata francese. L'artista del celebre duetto “Je t'aime... moi non plus” è stata trovata morta nella sua abitazione a Parigi: da qualche tempo aveva problemi di salute che l'avevano costretta a cancellare dei concerti.

Jane Birkin è stata la cantante francese dall'accento inglese più amata nel Paese d'Oltralpe, la musa di Serge Gainsbourg con il quale ha formato la coppia più famosa della Parigi degli anni '70. Silhouette androgina e broncio caratteristico, incarnazione del bohemien-chic, è stata un'icona, con una carriera di attrice e cantante ricchissima. Nata il 14 dicembre 1946 a Londra, da un grande combattente della resistenza, David Birkin, e la celebre attrice Judy Campbell, Jane venne notata al cinema in "Blow up" di Michelangelo Antonioni (Palma d'oro '67 a Cannes), dove la sua nudità fece scandalo. A 17 anni sposò il compositore inglese John Barry, 13 anni più grande di lei, con il quale ebbe una figlia Kate. Tre anni dopo, lui la lasciò e lei decise di tentare la fortuna a Parigi; nel 1968, sul set del film "Slogan" di Pierre Grimblat, incontrò Gainsbourg. Nel 1969 uscì il loro famoso singolo “Je t'aime, moi non plus”, un duetto che è rimasto nella storia della musica, vittima di censure ma con un successo mondiale.

Con Gainsbourg ebbe una figlia,Charlotte, e la coppia rimase insieme oltre dieci anni, ma anche dopo la fine della relazione Jane continuò a cantare le canzoni che lui scriveva per lei. Nel 1980 lo lasciò e si unì al regista Jacques Doillon, con il quale rimase 13 anni ed ebbe un'altra figlia, Lou. Impegnata in campo umanitario e nella lotta per l'ambiente, è stata anche ispiratrice della celebre borsa Birkin di Hermes, realizzata alla metà degli anni '80 dallo stilista della casa di moda francese, Jean-Louis Dumas.

Intensa la sua carriera di attrice, con decine di film a firma dei più grandi registi, come Jacques Rivette, Bertrand Tavernier, Jean-Luc Godard, Alain Resnais, James Ivory o Agnes Varda. Alla fine degli anni '80 fece il suo debutto sul palcoscenico del Bataclan di Parigi, poi del Casino di Parigi e dell'Olympia. Una vita intensa negli anni '90 tra teatro, concerti e il suo primo film da regista, “Oh! Pardon tu dormais”.

Nel 1999, pubblicò il primo disco senza Gainsbourg, “A la Legere”, con canzoni scritte per lei da cantautori francesi, mentre nel 2008 uscì il suo primo album in cui era autrice di tutti i testi, “Enfants d'hiver”, seguito nel 2020 da “Oh! Pardon tu dormais”, disco realizzato con il compositore e interprete francese Etienne Daho. Ma Serge era sempre “presente” per lei, anche dopo la sua morte nel 1991: nel 2018 Jane eseguì con un'orchestra classica i suoi pezzi, nel concerto “Birkin Gainsbourg le symphonique”.

Aveva 76 anni. È morta Jane Birkin, icona del cinema e della moda che fece sognare e scandalizzare. Dalla parte nel cult "Blow-Up" di Antonioni alla hit censurata "Je t'aime ... moi non plus" con Serge Gainsbourg. Aveva cancellato il tour estivo. È stata ritrovata morta in casa a Parigi. Redazione Web su L'Unità il 16 Luglio 2023 

Addio a un’icona, parola abusata di questi tempi, questa volta però azzeccata. Perché questo è stata Jane Birkin, cantante e attrice, musa e star della moda. È morta oggi all’età di 76 anni. Sarebbe stata ritrovata senza vita nella sua casa di Parigi. Legata in una relazione a Serge Gainsbourg, madre di Charlotte Gainsbourg, ha ispirato come una musa e scandalizzato con la sua sensualità, ha promosso grandi marchi ed è stata censurata.

Jane Mallory Birkin era nata il 14 dicembre 1946 a Marylebone, centro di Londra, a nord di Oxford Street, da una famiglia attiva nell’industria tessile. La madre Judy Gamble si faceva chiamare Campbell ed era attrice e cantante. Il padre David era stato comandante della Marina e coinvolto in questioni spionaggio. Il fratello Andrew divenne sceneggiatore. Birkin aveva 17 anni quando se ne andò a Londra per fare l’attrice.

La Londra della “Swinging London”, di fervore sociale e creativo. Moda, musica, cinema, pubblicità, politica. Birkin sposò il compositore John Barry, la coppia ebbe la figlia Kate e divorziò nel 1968. L’attrice bucò lo schermo nella scena della lotta nel film cult Blow-Up di Michelangelo Antonioni. Si trasferì in Francia e lavorò a Slogan, l’altro protagonista era l’attore e cantante francese Serge Gainsbourg. La relazione divenne la più mediatica e chiacchierata degli anni ’70, in Francia ma non solo, fece audience e scandalo soprattutto con la famosissima Je t’aime … moi non plus, uscita nel 1969.

Era stata scritta un paio di anni prima, avrebbe dovuta cantarla Brigitte Bardot con la quale Gainsbourg aveva avuto una relazione. Birkin cantava e ansimava e gemeva, la canzone rimandava a un rapporto sessuale tra due persone. Scandalo, liberazione sessuale ed erotismo disinibito. Fu censurata nel Regno Unito e anche in Italia. La storica trasmissione “Top of the Pops” si rifiutò di mandare in onda il brano che arrivò al numero uno della classifica. È diventata comunque una hit, tutt’ora molto nota al grande pubblico di diverse generazioni. Charlotte nacque nel 1971, la coppia si lasciò nel 1980. Birkin continuò a recitare per gli anni Ottanta, Novanta e Duemila. Anche in La Piscina con Alain Delon, in Una donna come me con Brigitte Bardot, in I baroni della medicina con Michel Piccoli e in Assassinio sul Nilo con Mia Farrow e Bette Davis.

Col registra francese Jacques Doillon ebbe una relazione e una figlia, Lou, anche lei modella, cantante e attrice, nata nel 1982. Birkin ispirò anche la borsa di Hermès che porta il suo nome, intorno alla cui nascita si sono alimentate diverse leggende. È diventata un accessorio “must have” ma per pochi, di lusso. L’attrice arrivò a sconfessarla nel 2015 per le partiche crudeli inferte ai coccodrilli per la produzione di borse. La casa di moda la seguì facendo sapere di aver implementato i controlli negli allevamenti. Birkin ha diretto anche un film, Boxes, e si è impegnata in diverse cause umanitarie, soprattutto con Amnesty International.

La prima figlia, Kate, diventata fotografa, è morta tragicamente nel 2013. A Paris Match nel 2017 l’attrice aveva raccontato della leucemia che aveva scoperto: “Mi sono resa conto che mi restavano solo dieci anni di vita”. Aveva sofferto nel 2021 un ictus dal quale si era ripresa rapidamente. La figlia Charlotte Gainsbourg le aveva dedicato il documentario Jane by Charlotte. Birkin lo scorso maggio aveva cancellato un tour per motivi di salute: “Sono sempre stata una grande ottimista, e mi rendo conto che ho ancora bisogno di un po’ di tempo per poter esibirmi di nuovo sul palco e con voi”. Redazione Web 16 Luglio 2023

Addio a Jane Birkin: la magia di Je t'aime moi non plus con Serge Gainsbourg. Gianni Poglio su Panorama il 16 Luglio 2023

Cantante, attrice e regista, la Birkin ha lasciato un segno indelebile nel leggendario brano con il cantautore francese. Una delle canzoni più sensuali di sempre

Aveva 76 anni Jane Birkin, la cantante e attrice nata a Londra e naturalizzata francese. Il suo corpo senza vita è stato trovato nella casa parigina dove viveva. Negli anni Sessanta e Settanta stata legata sentimentalmente e artisticamente al cantante e attore Serge Gainsbourg. Al loro incontro si deve uno dei brani più sensuali della storia della musica, ovvero l'indimenticabile Je t'ame moi non plus interpretato con Serge Gainsbourg. I due si incontrarono per la prima volta sul sito del film francese Slogan nel 1968, diventando in breve una delle coppie più celebri e trasgressive del jet set di quegli anni. Je t'aime moi non plus venne inciso per la prima volta da Gainsbourg con Brigitte Bardot, ma quella versione non venne mai pubblicata. Uscì invece nel 1969 e fece immediatamente scandalo per il contenuto altamente erotico, tra sospiri, gemiti e strofe sessualmente esplicite. In pochi mesi vendette cinque milioni di copie. Dopo aver chiuso la sua relazione con Brigitte Bardot nel 1968, il cantautore francese diede il via a una spasmodica ricerca per trovare un'interprete femminile da coinvolgere nel brano: si rivolse a Marianne Faithfull, Mireille Darc e Valerie Lagrange. Ma l'incontro con la Birkin sul set di Slogan si rivelò decisivo (pare che in un primo momento Gainsbourg non avesse gradito la presenza di Jane che nel cast aveva preso il posto della modella Marisa Berenson). Nacque così una relazione e i due si trasferirono all'Hotel di rue des Beaux Art, l'ultima residenza di Oscar Wilde, e la Birkin divenne la voce femminile del brano che conquistò le classifiche di mezzo mondo. Poco prima di incontrare Gainsbourg, la cantante aveva divorziato da John Barry, il famosissimo compositore delle colonne sonore dei primi film della saga di James Bond. Nel maggio del 1969 il brano venne censurato in Inghilterra dalla BBC e in Italia dalla Rai. A Lelio Luttazzi, il conduttore radiofonico della hit parade, fu vietato di nominare il titolo del brano e la sua posizione in classifica. A seguito della censura, per mesi, il 45 giri venne importato e poi commercializzato clandestinamente.  

Parigi, trovata morta in casa a 76 anni l'attrice e cantante Jane Birkin. Tra i suoi successi «Je t'aime... moi non plus», insieme a Serge Gainsbourg, suo compagno dell'epoca. REDAZIONE ONLINE su La Gazzetta del Mezzogiorno il 16 Luglio 2023  

È morta all’età di 76 anni Jane Birkin, cantante e attrice britannica naturalizzata francese.

Secondo le prime notizie, è stata trovata senza vita nella sua casa parigina.

Trasferitasi in Francia, nel 1968 sul set del film Slogan ha conosciuto il cantante e musicista Serge Gainsbourg (nato Lucién Ginzburg), con cui ha intrapreso una relazione durata fino al 1980. Nel 1969 la coppia Birkin-Gainsbourg ha conquistato la scena francese grazie alla pubblicazione della canzone Je t'aime... moi non plus, originariamente incisa da Gainsbourg assieme a Brigitte Bardot e non pubblicata. La canzone ha fatto scandalo all'epoca grazie ai gemiti della Birkin a commento del testo esplicito che, cantato da entrambi, alterna parole d'amore e descrizione di corpi nudi nel mezzo di un rapporto sessuale. Nel 1971 hanno avuto una figlia, Charlotte, anch'ella attrice e cantante.  Dopo la loro separazione, pur continuando la collaborazione con Gainsbourg come interprete di successo di canzoni appositamente scritte per lei, la Birkin ha scelto di modificare la propria immagine di buffa e sexy ragazzina inglese che aveva interpretato in oltre trenta film, per fare emergere una personalità più complessa.

L’inglese più amata dai francesi, l'icona sexy e pop degli anni Sessanta, la rivoluzione in minigonna, la vita tumultuosa. Ma soprattutto quel sussurro del "Je t'aime...moi non plus» che l’ha resa unica e indimenticabile. Era tutto questo e molto di più Jane Birkin, "un’artista completa, tanto dolce era la sua voce, tanto ardente il suo impegno» come ha voluto ricordarla il presidente Emmanuel Macron.

Londinese di origini, naturalizzata francese e musa di Serge Gainsbourg, è stata trovata oggi morta a 76 anni nella sua casa parigina. Da tempo era gravemente malata, tanto da essere costretta ad annullare i suoi concerti in primavera. Lo aveva annunciato lei stessa, spiegando di avere «bisogno di tempo» per tornare in scena, davanti al suo pubblico. L’ultima volta in pubblico era apparsa a febbraio - indebolita e sofferente - durante la cerimonia dei César, gli Oscar francesi, nel mese di febbraio. Al suo fianco, la figlia Charlotte Gainsbourg e la nipotina Alice.

Il successo planetario del duetto con Gainsbourg è pieno di risvolti: il pezzo era stato scritto per Brigitte Bardot, che lo interpretò per prima. Ma in seguito a divergenze con l’attrice francese, Gainsbourg chiese l’anno dopo alla sua nuova fiamma, la giovanissima inglese Jane Birkin, di cantarla per lui. Lei lo fece, con l’accento lievemente british che fece impazzire i francesi, con la voce più alta di un’ottava e i sospiri che proiettarono il brano al primo posto della Hit Parade inglese.

«E' impensabile vivere in un mondo senza la tua luce», ha scritto oggi su Instagram una delle persone che le sono state più vicine, il cantante Etienne Daho, ripensando a quella e a tante altre interpretazioni della Birkin. Al cinema, ha incantato passando da Antonioni in «Blow up» (Palma d’oro a Cannes nel 1967) a «La Piscina» al fianco di Romy Schneider e Alain Delon, nel 1969. Sul set fu protagonista di oltre 70 film, girando con Jean-Luc Godard, Jacques Doillon, Jacques Rivette, Agnès Varda o James Ivory. «Nonostante le apparenze - diceva - ho qualcosa in me di infinitamente triste, un terribile senso di colpa che non mi lascia da quando ero piccola». Non l’ha mai lasciata neppure il senso della modestia e della coscienza di sé, personaggio di fama mondiale che ripeteva di avere "l'istinto» dell’attrice, non il «talento».

Era nata nel 1946 a Londra, suo padre David Birkin era comandante della Marina britannica e uomo della Resistenza, sposato con l’attrice Judy Campbell. Jane, nella sua movimentata vita amorosa, ha avuto 3 figlie. La prima, Kate Barry, fu anche il più grande dolore della sua vita: era nata nel 1967 dal suo primo matrimonio con il celebre compositore John Barry, Jane aveva 19 anni e lui 13 più di lei. Kate diventò fotografa ma morì suicida nel 2013. All’arrivo in Francia, fu subito passione con Gainsbourg, più vecchio di 15 anni, che era stato appena lasciato dalla Bardot: fusione totale fra i due, successo planetario e nascita di Charlotte, nel 1971, cantante e attrice come la mamma. Il rapporto pieno di alti e bassi con Gainsbourg si ruppe nel 1980, quando Jane lo lasciò, sfinita dalle sua vita sregolata, dall’alcolismo e dai ripetuti tradimenti, con qualche episodio violento. Per 13 anni, Jane fu poi compagna del regista Lou Doillon, con il quale ebbe la sua ultima figlia, Lou, nel 1982.

Neanch’io. L’invidiabile ossatura di Jane Birkin e la buone maniere baciate dalla genetica. Guia Soncini su L'Inkiesta il 17 Luglio 2023

È stata una delle donne più belle del mondo, e in questo tempo menzognero in cui fingiamo che i canoni estetici non esistano, stava lì a ricordarci come una vita possa diventare leggendaria grazie al dna

Certo, aiuta avere quello stile che solo chi è un po’ di Londra e un po’ di Parigi, e che nessuna scuola di portamento può donarti se sei cresciuta tra Scurcola Marsicana e Conegliano Veneto, se non sei la francese col nome inglese che proprio non riesce a non essere chic, neanche quando simula orgasmi senza mai, mai, mai sembrare un mignottone.

Certo, aiuta avere fatto tre figlie con tre uomini di genio, e che le ragazze abbiano preso dalla madre forse il fascino ma certamente non la bellezza, e che agli incontri pubblici loro stessero inerpicate sui tacchi scomodi di chi non è abbastanza sicura di sé per non portarli, e tu avessi le Converse, e che quindi anche ben dopo i settant’anni, guardando loro e te, non si potesse che ribadire che avremmo fatto sempre e comunque a cambio con la vegliardaggine tua.

Certo, aiuta che quella che per decenni è stata la borsa più chic del mondo – poi sono arrivate le Victoria Beckham, le Kim Kardashian, le ricche senza gusto che non avevano la tua capacità di sembrare una barbona elegantissima – abbia preso il nome da te, costringendoti a ripetere in una vita d’interviste la storiella del proprietario di Hermès cui in aereo (era un Concorde? Sicuramente era un Concorde: era un secolo serio, mica c’era RyanAir) dici che ti servirebbe proprio una borsa capiente, e quello t’inventa la Birkin, che le ricche senza gusto portano come fosse la valigetta del portavalori e temessero di graffiarla, e tu portavi disegnata, sformata, janebirkinizzata.

Certo, aiuta che tutto quel che sfioravi diventasse leggenda nel male o nel bene, la tua prima figlia che si butta da una finestra a quarantacinque anni, la scimmia di pezza cui da piccola raccontavi i fatti tuoi messa nella bara di Serge Gainsbourg (il più leggendario dei tuoi compagni di vita, nessuno dei quali faceva il pizzaiolo).

Certo, aiuta essere la figlia della musa di Noël Coward, mica d’una massaia e d’un commercialista, aiuta avere consuetudine con la leggenda, non dover mai dimostrare niente a nessuno, ereditare quel basso profilo che è inutile provare a emulare, avere una madre che, quando le fai sentire il 45 giri di te che mugoli con Gainsbourg, si toglie d’imbarazzo dicendo «sublime melodia».

(La più formidabile opera di Jane Birkin è ovviamente stata Jane Birkin. Tra le opere minori, il Blow-Up di Antonioni, e appunto quella canzone di orgasmi simulati. Che s’intitolava con un gioco di parole, “Je t’aime, Moi non plus”, ti amo, neanch’io. Oggi ci sarebbe qualcuno che sconsiglia a Gainsbourg l’uso d’un titolo così poco largo: poi la gente non capisce).

Certo, aiuta aver fatto tutto all’età giusta, separarti dal padre della tua terza figlia a 45 anni e a quel punto non raccontare mai più niente della tua vita privata, aver avuto abbastanza relazioni pubbliche, abbastanza rotocalchi, abbastanza cose in tempo da non aver bisogno d’averne fuori tempo, da non aver bisogno di compensare con ridicoli amori senili raccontati a Instagram, a Point de vue, ai talk-show del pomeriggio. Non bisogna ripetere le cose meno bene di come si sono fatte una volta, dicevi con l’invidiabile serenità di chi non deve rifarsi dei mancati flirt giovanili.

Ma tutto questo non sarebbe bastato, a Jane Birkin, per diventare Jane Birkin, se non avesse avuto quell’ossatura. Quell’ossatura della faccia che le ha permesso di tenersi i denti separati senza sembrare mai una portuale, quell’ossatura del corpo che lei non è mai stata così sgraziata da sottolineare quanto fosse una benedizione, un corpo gamine che ti fa stare bene addosso qualunque abito, che ti fa sembrare pronta per il tappeto rosso con una maglietta bianca. Era così di buone maniere da giurarci che era stato un vero complesso, non avere tette, non avere fianchi, da mentire dicendo d’essere proprio una di noi che a scuola non ci piacevamo. E noi fingevamo di crederci, perché era Jane Birkin, e aveva l’aspetto di Jane Birkin, e con quell’aspetto anche le menzogne banali sono fascinose: fingeva gelosia verso Brigitte Bardot, ma lo sapeva lei come lo sappiamo noi che quelle come BB si sfasciano, quelle come JB no.

In questo tempo menzognero in cui fingiamo che i canoni estetici non esistano, che ognuna sia bella a modo suo, che Lizzo valga Kate Moss, Jane Birkin stava lì a ricordarci che sì, certo, puoi pesare duecento chili e stare in copertina, ma se non sei stata fortunata con la genetica quella tua copertina richiederà ore e ore di trucco e parrucco e illuminazione e guaine contenitive e vestiti fatti apposta per te da stilisti che figurarsi se abitualmente fanno quelle taglie per le quali serve più stoffa che per un tendone da circo. Mentre se sei Jane Birkin puoi entrare in uno studio televisivo con un maglione infeltrito e far dire a Serena Dandini, cui ridendo veniva da piangere d’invidia (come a tutte noi), «ce l’hai tu nell’armadio un tacco alto, ’na piuma de struzzo, ’na paillette?». (Birkin le aveva risposto che uh, nelle vite precedenti sì che ne aveva messe di paillette, ma era perché aveva quel modo lì: di chi mica ha bisogno di rimarcare superiorità, ci pensa la sua ossatura, a farlo per lei).

Se sei Jane Birkin e non ti va di metterti il reggiseno, sei irresistibile; se sei una di noi mortali, sei una pescivendola. Se eri Jane Birkin, potevi essere Jane Birkin. Se eri noialtre, potevi tutt’al più immedesimarti nella seconda parte di quel titolo. Jane Birkin, moi non plus. 

Estratto dell’articolo di Marco Consoli per “la Repubblica – D” – 23 aprile 2022

[…]  Charlotte Gainsbourg, 50 anni, protagonista di "21 grammi", "L’arte del sogno", "Nymphomaniac" e "Antichrist" (con cui ha vinto il premio come migliore attrice a Cannes) […] 

A giugno la ritroveremo davanti e dietro la macchina da presa in "Jane By Charlotte", documentario su sua madre Jane Birkin.

«Il nostro rapporto non è mai stato facilissimo, ci siamo allontanate ancor di più 9 anni fa, dopo la morte di mia sorella Kate (nata dalla relazione tra Birkin e il musicista John Barry, ndr).

Ho pensato che realizzare questo doc fosse un modo per riavvicinarci. Quattro anni fa ho cominciato a intervistarla, ma al momento di rispondere alle domande più intime su di noi, ha pensato che volessi accusarla. 

Con il tempo ha capito che stava sbagliando, le sue risposte erano necessarie per il mio film. E così abbiamo ricominciato a girare. Forse mi ha influenzato papà: anche lui aveva bisogno di scrivere una canzone, Lemon Incest, per dirmi che mi voleva bene».

[…] Girerebbe mai un film su Serge Gainsbourg?

«Avevamo un rapporto speciale, ma era un personaggio così noto che a volte mi sembrava che gli estranei lo conoscessero meglio di me. Per molto tempo non ho voluto leggere una sua biografia e preservare i miei ricordi più intimi. Ora le cose sono cambiate: non girerò film su di lui, ma forse la prossima estate trasformerò in museo la sua casa di Parigi. Non sarà facile psicologicamente, ma è arrivato il momento di condividere i miei ricordi».

Roberta Mercuri per vanityfair.it - ARTICOLO DEL 23 SETTEMBRE 2018

«Ero ossessionata dal sesso». A 71 anni Jane Birkin si mette a nudo. In un libro, Munkey Diaries, che altro non è che la pubblicazione integrale del suo diario, la cantante e attrice ha deciso di rivelare i dettagli più intimi della sua vita. Gli stessi che per anni ha confidato a Munkey, la scimmietta di peluche che vinse durante una tombola quando aveva undici anni e che ancora oggi tiene con sé. 

La prima parte del libro, 1957-1982, uscirà il 3 ottobre (per la seconda bisognerà aspettare il 2019), ma sfogliando le anticipazioni sul Nouvel Obs è evidente che la Birkin non ha voluto censurare nessun ricordo. A cominciare dal suo primo matrimonio. Nata a Londra il 14 dicembre 1946, a soli 17 anni Jane sposa il compositore inglese John Barry, autore delle colonne sonore di James Bond.

Con lui fa per la prima volta l’amore, da lui ha la sua prima figlia, Kate (morta suicida nel 2013). E proprio durante la loro relazione capisce di essere ossessionata dal sesso: «Non riesco a pensare ad altro. Ma non posso dire a John che è sposato con una maniaca sessuale». Il desiderio non l’abbandona mai e in più il marito non è un amante molto focoso: «Quando ero incinta non voleva neanche toccarmi». 

Nel 1968 i due si lasciano e Jane si innamora follemente di Serge Gainsbourg che finalmente sembra soddisfarla: «È così dolce, tenero, forte e sensuale, è sessualmente meraviglioso». Con lui Jane dà scandalo ansimando in Je t’aime moi non plus (censurata in mezzo mondo), con lui realizza i suoi desideri più reconditi, compreso quello di sentirsi, per una notte, «una sordida puttana».

Era il 1968: «“Voglio andare in un bordello!”, dissi a Serge dopo due dozzine di ostriche e un po’ di vino di troppo. Dieci minuti dopo eravamo a Pigalle, in una strada raccapricciante. È stato molto eccitante essere lì in miniabito nero e stivali alti fino alla coscia. La fantasia era realtà». Però durò poco: due lucciole di professione si scagliarono contro la Birkin e Gainsbourg, piuttosto imbarazzato, la fece risalire in fretta su un taxi. 

Dodici anni dopo, e dopo aver messo al mondo la secondogenita Charlotte, Jane lasciò il cantautore. Lo amava ancora ma l’alcolismo di lui la stava distruggendo: «Avevo voglia di morire. Davvero. E per mano sua». Anche quando conobbe il suo ultimo grande amore, il regista Jacques Doillons, da cui ebbe la terza figlia Lou, Jane non riuscì a dimenticare Serge. Tanto che all’inizio si chiedeva: «È possibile vivere in tre?». Quel ménage à trois è rimasto una delle poche fantasie erotiche che Jane, che dopo tante passioni vive sola da oltre vent’anni, non è riuscita a trasformare in realtà.

Marco Giusti per Dagospia il 17 luglio 2023.

Siamo stati tutti pazzamente innamorati di Jane Birkin. Personalmente da quando l’ho vista in “Blow Up” di Michelangelo Antonioni assieme a Gillian Hills in una scena violenta e perturbante che ci rimase davvero impressa e subito dopo in “Onyricon” di Joe Massot, piccolo film prodotto e musicato da George Harrison, dove il grande attore beckettiano Jack McGowran la spia da un buco nel muro. 

Magra magra, coi capelli lunghi, il seno piccolo, era la perfetta ragazza inglese del tempo. Aveva esordito al cinema con “The Knack” di Richard Lester coi Beatles e l’avevamo già vista in un giallo di Jack Smight, “La truffa che piaceva a Scotland Yard” con Warren Beatty e Susannah York, ma non ce ne eravamo accorti. Eppure il prototipo perfetta della ragazza della Swinging London, del tempo dei Beatles e dei primi collant colorati, quelli che le strappa David Hemmings in “Blow Up”. 

Non a caso a 19 anni si sposa col più famoso e ricco musicista inglese del tempo, il John Barry dei film di James Bond. E in Inghilterra le nasce pure una figlia, la sfortunata Kate. Ma l’abbiamo amata anche quando è diventata francese, inseguendo Serge Gainsbourg e un mondo hippy dei primi anni ’70, dove la trovavamo sempre nuda in ogni film, da “Katmandu” di André Cayatte a “Alba pagana” di Ugo Liberatore, da “Una donna come me” di Roger Vadim dove cade nelle braccia di Brigitte Bardot – Don Juan in una delle scene più bollenti di sempre per noi ragazzi al non bellissimo, ma delizioso “Primavera carnale” di Robert Benayoun, dove è una sorta di Alice sperduta nel mondo dei Cahiers.

Ma credo che i film dove reciti meglio siano i trasgressivi “Je t’aime… mais non plus” di Serge Gainsbourg dove ha i capelli da ragazzo e tenta di sedurre disperatamente un Joe Dallesandro che è proprio gay e al massimo la sodomizza e “La pirate” di Jacques Doillon, dove ha una folle storia d’amore lesbo con Maruschka Detmers, violentissima. 

Non a caso entrambi i film sono diretti dai suoi uomini, che l’hanno molto amata. E anche se al cinema è sempre sembrata una ragazza passiva, pronta a subire tutto, credo che nella realtà tutta questa passività non ci fosse proprio e che Jane Birkin abbia attraversato il cinema e la vita con la grazia che ci appariva sullo schermo, ma con una invidiabile fermezza. 

Confesso che i suoi film che più amo sono quelli a cavallo degli anni ’60 e ’70, “Slogan”, “Cannabis”, “Il romanzo di una ladro di cavalli” di Abraham Polonsky, dove recita anche Serge Gainsbourg, il clamoroso “Così nano così perverso” di Eddy Matalon, dove è la donna nel nano Michael Dunn, una assoluta follia, “La piscina” di Jacques Deray, dove (per me) è più bella di Romy Schneider, “Il montone infuriato” di Michel Deville. Ma è stata diretta anche da Jean-Luc Godard, “Cura la tua destra”, Bertrand Tavernier, “Daddy Nostalgie” con Dirk Bogarde, Alain Resnais , “Parole, parole, parole…”, Patrice Leconte, Jacques Rivette, Marion Hansel, Regis Wargnier, prima di arrivare a Agnès Varda.

Ha recitato con tutti e è stata bella e affascinante con tutti. Perfino in Italia, in una buffa commedia di Giorgio Capitani, “Bruciati da cocente follia” con Cochi, e in un thriller di Antonio Margheriti, “La morte negli occhi del gatto” con Hiram Keller, il protagonista del “Satyricon”. Ci mancherà Jane Birkin.

Ivan Rota per ilgiornaleditalia.it il 17 luglio 2023.

Jane Birkin é sempre stata una femminista, ma essere femministe non vuol dire odiare gli uomini. L' icona da poco scomparsa é sempre stata vicina alle donne e io che l'ho conosciuta lo posso dire. E posso dire che era simpatica come pochi. Poi la tristezza è di tutti. Logicamente non aveva nulla da condividere con le viziate figlie di papá generate da una intellettualmente sterile  "alta società" italica. Lei il papá lo aveva celebrato nel magnifico film Daddy Nostalgie con Dirk Bogarde. Era libera come il vento, ha passato tanti drammi e mai si é fatta abbattere.

Gettare fango su di lei accusandola di essere stata succube di relazioni tossiche é allucinante. Lei ha vissuto come voleva. Chi puó permettersi di accusarla? Ma si, Maria Laura Rodotà in un suo articolo in cui, da para-femminista di tempi antichi, si scaglia contro la ragazzina che ha rappresentato la vita e la morte come nel magico film La Piscina dove Eros e Thanatos convivevano. 

Arriva a dire anche che nel film Assassinio sul Nilo si avverte la sua sottomissione. Ecco cosa dice la Rodotà su La Stampa: "Nessuna voleva essere Jane Birkin; era sexy delicata e famosa ma con lo sguardo triste, da vittima bella degli anni Settanta. Una di quelle ragazze sempre esili, sempre coi capelli lunghi, sempre con una grazia infantile, da indifese. E nessuna di noi ragazzine tra medie e liceo, avrebbe voluto fidanzarsi con Serge Gainsbourg, ma ci veniva segnalato come partner ambitissimo. I due erano bravi, convincenti, e cantavano la canzone che tra il 1970 e il 1980, ha insegnato a infinite adolescenti come si mugola durante un amplesso. E come un uomo che ti maltratta e ironizza sul tuo innamoramento sia il più ganzo di tutti." Ma chi lo dice? Lei e le sue compagne di scuola?

A rimettere a posto tutto ecco Brigitte Bardot , con la quale Jane Birkin condivise l'amore per Serga Gainsbourg, in una struggente lettera che ha scritto in memoria dell' amica: "Una domenica 16 luglio davvero triste! 

Ho un grande dispiacere, Jane se n’è andata. Quando si è così belle, così fresche, così spontanee, con una voce da bambina, non si ha il diritto di morire. Jane resta eterna nei nostri cuori. Lei è sfuggita al fango che devasta la sua seconda patria (citazione della canzone La gadou composta da Gainsbourg) e ci sussurra Je t’aime . Nous non plus , le risponde quel che resta della Francia". Viva Jane per sempre.

Estratto dell’articolo di Stefano Mannucci per “il Fatto quotidiano” il 17 luglio 2023.

A Serge non fregava un accidente del Sessantotto. Le masse, i cortei, “siate realisti chiedete l’impossibile”. Per carità. Bastava essere in due. Cherchez la femme.  Possibilmente recitando ruoli assegnati, il Maschio Alfa e la Donna Trofeo. Ma qualcosa era andato storto, con Lei. 

La bionda l’aveva sfidato: “Scrivi per me la canzone d’amore più bella del mondo”. Detto fatto. Per un compositore talentuoso come Serge Gainsbourg era stato un gioco da ragazzi. Più complicato un duello rusticano tra uomini. Quello che gli aveva promesso il marito della bionda, il playboy svizzero Gunther Sachs: “Hai una storia con mia moglie. Ora la tronchi e guai se fai uscire il 45 giri con la voce di Brigitte”. La Bardot. Lei. La prima versione di Je t’aime…moi non plus.

Il titolo, che citava segretamente la rivalità artistica e politica tra Dalì e Picasso, diventava il resoconto di una buona scopata. Con il paradosso di quel “ti amo…”, “Neppure io” tra i due amanti a svelare il minuetto delle menzogne dietro troppi amplessi. 

Pòrtati a letto una come Brigitte Bardot e sfodera tutto il tuo repertorio da dongiovanni del cazzo. La Donna non è un Trofeo, ha capito la tua strategia però ci sta, vuole godere pro-quota. Ma se Lei è stata ricondotta nell’alveo coniugale, dovrai cercare l’altra, caro Serge. 

Scruti ovunque. Mireille Darc? Marianne Faithfull? Due trofei di Delon e Jagger? Naah. L’altra sarà una dea androgina che ha mostrato i seni nudi in Blow Up di Antonioni. La Parigi dei puttanieri trova la strada per la Swinging London. Jane Birkin. 

[…] Gainsbourg conosce Jane sul set di Slogan, del resto lei è un’attrice. Anche senza copione può fulminarti. Quando si gira verso la cinepresa, quel suo sguardo incendia la pellicola.  Serge e Jane vanno a cena: si stanno cordialmente sulle palle, si ameranno per tutta la vita e oltre la morte.

Reincidono Je t’aime, lei sospira in modo così credibile che nessuno potrebbe giurare stia facendo finta. Eccolo, il lascito del ’68: la piccola morte del sesso, l’amore che non è mai davvero libero, non con quei dialoghi sul talamo. Sono così spudorati che occorre farli tacere. Il mondo bacchettone bussa alla parete della coppia: smettetela con queste porcherie. In molti paesi, compresa la Gran Bretagna, la canzone viene censurata. 

A Ferragosto ’69 la Rai impone a Lelio Luttazzi, presentatore della Hit Parade radiofonica, di non nominare neppure il titolo o gli interpreti del brano, figurarsi mandarlo in onda. L’osservatore Romano dapprima bombarda con un lunare articolo in cui parla del pezzo senza indicarlo, quindi ne pubblica il testo per far capire che sia necessaria un’operazione di “profilassi morale”. Più cento ave Marie. La Procura impone il sequestro del disco nei negozi: naturalmente va a ruba sottobanco. Ostinate legioni di curiosi orientano l’antenna del transistor per tentare di captare Monte Carlo o Capodistria. Tutti attorno al letto di Serge e Jane, che intanto si sono alzati e vanno a progettare altrove le loro trasgressioni private. Il Mentore e la Post-lolita.

[…] Ma è tutto qui, per rendere iconica questa creatura dell’empireo, cui viene persino dedicata una borsa d’alta moda? Quanti film ci ricordiamo, della carriera di Jane? Tanti, e nessuno. E gli album? Ne ha incisi una ventina, molti dopo l’inevitabile separazione dall’uomo che aveva continuato a scrivere per lei, devastato dall’abbandono e dalla tirannia di un suo altro amante: l’alcool. […]

Estratto dell’articolo di Marco Cicala per “il Venerdì di Repubblica” – articolo del 18 ottobre 2019 il 17 luglio 2023. 

[…] Nel ’67 aveva inciso una prima versione con la sua musa Brigitte Bardot, ma il marito di lei, Gunther Sachs, che pure era un playboy, ne aveva bloccato la diffusione, imbestialito. Quella versione riemerse negli anni Ottanta. Circonfusa di leggenda. Correva voce che registrandola BB e Gainsbourg non si fossero limitati a simulare l’amplesso. Ma era solo marketing.

«Je t’aime… fu concepita per Brigitte, il grande amore di Serge. Lui non la considerava un inno alla liberazione sessuale ma un grido di soccorso amoroso, nel testo l’eros è un vicolo cieco, un “va e vieni” senza uscita. Quando lei dice: “Ti amo”, lui risponde “Nemmeno io” perché non le crede. In un certo senso è una canzone disperata».

Sarà. Ma a mezzo secolo di distanza resta piuttosto hot.

«Un giorno a Londra un tassista mi ha detto: “Grazie a quella canzone ho fatto cinque figli!”». 

Come ha vissuto la concorrenza con BB?

«Fino alla fine, in presenza di Brigitte, Serge continuava a sbiancare. Ma io non la vivevo come una rivalità. Girammo un film insieme, Don Juan. 

Regia di Roger Vadim. Bruttissimo. Un giorno Serge mi disse che lei voleva far uscire la prima versione di Je t’aime... per finanziare la causa animalista. Accettai. Sostengo ancora la sua associazione. Ci scriviamo ogni anno». […]

Estratto dell’articolo di Stefano Montefiori per corriere.it il 17 luglio 2023.

Riprese di «Una donna come me», coproduzione italo-francese diretta da Roger Vadim, primo marito di Brigitte Bardot e suo regista in «E dio creò la donna» (1956). Sul letto, sotto le lenzuola, nude, si ritrovano le due protagoniste, Brigitte Bardot e Jane Birkin. Momento di imbarazzo, anche perché Brigitte ha amato Serge Gainsbourg prima di Jane. 

Per rompere il ghiaccio, B. B. propone a Jane di cantare di nuovo, stavolta insieme e tra le risate, Je t’aime... Moi non plus, la canzone che fece conoscere al mondo la coppia Serge-Jane, ma che due anni prima Serge aveva scritto per lei, Brigitte Bardot, durante una notte nella quale B.B. gli aveva chiesto di comporre «la più bella canzone d’amore di sempre». 

B. B. l’aveva cantata ma poi c’aveva ripensato, e temendo la reazione del marito Gunter Sachs aveva chiesto a Gainsbourg di non pubblicare quel brano pieno di sospiri. Serge tenne la canzone nel cassetto, ma sapeva di avere a disposizione un capolavoro. Quando si innamorò di Jane, chiese a lei di reinterpretare la stessa canzone. [...]

Ieri Brigitte Bardot ha diffuso una lettera in memoria dell’amica e della complicità che le ha unite. «Una domenica 16 luglio davvero triste! Ho un grande dispiacere, Jane se n’è andata. Quando si è così belle, così fresche, così spontanee, con una voce da bambina, non si ha il diritto di morire. Jane resta eterna nei nostri cuori. Lei è sfuggita al fango che devasta la sua seconda patria (citazione della canzone La gadou composta da Gainsbourg) e ci sussurra Je t’aime . Nous non plus , le risponde quel che resta della Francia».

Estratto dell'articolo di Fulvia Caprara per “la Stampa” il 17 luglio 2023.

Nella storia di vita di Jane Birkin è racchiusa la parabola esemplare di un'intera generazione. Il valore ambivalente dell'anticonformismo. L'arma a doppio taglio dell'impeto trasgressivo. 

Da una parte c'è la giovinezza dorata e tormentata, il sussurro crescente di Je t'aime moi non plus, la sensualità androgina, l'aria da adolescente pronta a tutto. Dall'altra la maturità, gravata da memorie dolorose, dalla ferita per la perdita della figlia Kate, nata nel 1967 dal primo matrimonio con il compositore John Barry e morta suicida nel 2013, dalla sensazione di aver sfidato tutto ma di non essere mai riuscita a cristallizzare il senso di una felicità rotonda, completa. 

(...)

Estratto dell'articolo di Maria Laura Rodotà per “la Stampa” il 17 luglio 2023. 

Nessuna voleva essere Jane Birkin; era sexy delicata e famosa ma con lo sguardo triste, da vittima bella degli anni Settanta. Una di quelle ragazze sempre esili, sempre coi capelli lunghi, sempre con una grazia infantile, da indifese. 

E nessuna di noi ragazzine tra medie e liceo, avrebbe voluto fidanzarsi con Serge Gainsbourg, ma ci veniva segnalato come partner ambitissimo. I due erano bravi, convincenti, e cantavano la canzone che tra il 1970 e il 1980, ha insegnato a infinite adolescenti come si mugola durante un amplesso. E come un uomo che ti maltratta e ironizza sul tuo innamoramento sia il più ganzo di tutti. 

Erano i primi anni del femminismo. Personaggi della cultura pop come Gainsbourg lo combattevano con una loro forma di patriarcato controintuitivo: invitavano le fanciulle a liberarsi facendo sesso con loro, nei loro termini; comprensivi di abusi poco borghesi e traumatici, di infedeltà, di massacri dell'autostima spesso definitivi. 

Erano gli anni in cui c'era sempre un'amichetta con la cassetta di Je t'aime moi non plus. Che regalava emozioni e glorificava le relazioni svantaggiose, però con più eros e raffinatezza di altre produzioni musicali. In quegli anni, una giovane femmina non poteva entrare in un bar senza sentire «prendi una donna trattala male» o «voglio amare una donna che stira cantando», e almeno loro due si vedeva che stavano a Parigi.

Birkin era bella e brava, di carriera lunga e vita ricca. 

(...)

Birkin era stata con Gainsbourg, facendo una figlia, tra molte rotture, per tredici anni. Nei suoi diari usciti nel 2020 ha raccontato di una relazione spesso violenta. Con lui politicamente scorretto e lei disperata. E iconica nella disperazione, capace di tirargli una torta in faccia e poi di buttarsi nella Senna. Come molte vittime belle prosciugate ma affezionate, Birkin era poi stata vicina a Gainsbourg fino alla morte di lui. 

E l'aveva difeso quando era stato accusato di molestie. E raccontava contenta come da torbidi amanti notissimi erano diventati buoni vecchi amici, e son sempre belle cose (e però chi s'era preoccupata da piccola ha continuato a farlo, già nel 1978 la ricorda tristissima in Assassinio sul Nilo, ma forse sono proiezioni; e si spera che non le sia sempre andata così).

Giampiero Mughini per Dagospia il 18 luglio 2023.

Caro Dago, sono giorni e giorni che ce li ho come un groppo alla gola i nomi di Brigitte Bardot, di Serge Gainsbourg e di Jane Birkin. Appartengo alla generazione di chi aveva più o meno vent'anni al tempo in cui la Bardot creò la donna moderna e più tardi a quella donna Gainsbourg eresse un monumento musicale dal titolo "Je t'aime, moi non plus", e voleva dire che nelle storie d'amore le bugie contano quanto le verità, insaporiscono il tutto non meno che le verità. 

"Moi non plus" in francese vuol dire "nemmeno io" e dunque in quella canzone voleva dire "nemmeno io ti amo" e seppure loro due avessero il bisogno di pronunziare a voce alta il contrario.

Ne sta parlando uno che ha avuto tra le donne più importanti della sua vita due fuoriclasse della menzogna. Ho pietà delle odierne femministe che non si stancano di recitare la litania secondo cui le donne sono sempre migliori dell'uomo. Una parte del loro incanto viene dal fatto che alla bisogna sanno essere più "stronze" dell'uomo.

La Bardot seppe essere stronza all'ennesima potenza nei confronti di Gainsbourg al momento in cui loro due stavano per pubblicare il vinile con la famigerata canzone. 

Solo che in quel momento lei era sposata e suo marito aveva minacciato fuoco e fiamme se quel disco fosse venuto alla luce. "No, no, non possiamo farlo" disse la Bardot a Gainsbourg. Poco dopo gli telefonò da non ricordo più quale capitale europea dove stava girando un film e gli disse che  ci aveva ripensato, che sarebbe venuta da lui, che nel frattempo aveva comprato l'appartamentino al Quartiere latino che lui aveva addobbato nel senso di un omaggio alla Bardot e alla sua femminilità. 

In quell'appartamentino che era a suo modo una cella dell'anima, Gainsbourg stette ad aspettarla quattro giorni, ingurgitando immagino ettolitri di alcol. Lei non venne.

Nella vita di Gainsbourg irruppe sua volta Jane Birkin, che era a sua volta una delle mirabili donne moderne "create" dalla Bardot. Fu lei a cantare la prima edizione di "Je t'aime". Solo molti anni dopo la Bardot acconsentì a che venisse pubblicato il vinile con la canzone cantata da lei, e non v'ha dubbio che quella sua interpretazione tocca un'indicibile apoteosi erotica come del resto ogni movenza o "attitude" che la riguardasse.

Singolare poi che in nessun articolo di questi giorni ci fosse un benché minimo accenno a una terza dea del femminile entrata nella vita di Gainsbourg dopo il divorzio con la Birkin. A quelli che sono deboli di cuore sconsiglio vivamente l'acquisto di un libro, Bambou et les poupées, con le foto mirabolanti che le aveva scattato Gainsbourg.

Si chiamava Caroline von Paulus, detta "Bambou", aveva 21 anni (contro i 52 di Gainsbourg), quando lui la vide per la prima volta in una discoteca parigina dove lei stava danzando da sola, ondulata e attizzante. Lì in fondo, seduto da solo a un tavolo, c'era Gainsbourg con una sigaretta in bocca e con accanto una bottiglia di champagne. Lui la guarda la guarda la guarda. Quando lei finisce di danzare, il patron della discoteca le si avvicina a sussurrarle che quel signore lì in fondo vorrebbe averla al suo tavolo. 

Ma che diavolo vuole quello lì?, replica la ragazza e torna a danzare da sola. Ancor più provocante, ancor più scatenata, ancor più felice di avere un corpo con cui eccedere. Quando torna ansimante al suo tavolo, il signore lì in fondo le si avvicina con in mano la bottiglia di champagne. Il resto lo immaginate. 

La faccio breve. Perché altrimenti non la finisco più di raccattare primizie dai vari scaffali della mia biblioteca dedicati al culto della Bardot e ai suoi annessi e connessi. Gli ultimi tempi di Gainsbourg furono in ogni modo penosi. La Bardot racconta che una volta che con una sua amica era andata a fargli visita, lo tennero per il braccio nell'andare e tornare da casa di lui al marciapiede opposto dov'era un ristorante. 

Tutto del suo talento e dei suoi incontri con il femminile Gainsbourg lo aveva pagato eccome, lo aveva pagato caro nel senso di una sua progressiva autodistruzione. E questo a differenza delle sciocchezze sul "machismo" di Gainsbourg di cui ho letto su un giornale. Chi scrive fesserie su un giornale non paga mai, non risarcisce mai nessuno.   

L'addio a 76 anni. Chi era Jane Birkin, musa di Hermès e cantante simbolo. Nata il 14 dicembre 1946, il suo viso era la naturale perfezione somatica, trigonometria della bellezza. Era desiderata e desiderabile, un manifesto vivente del desiderio. Il mondo apparteneva interamente a lei. Fulvio Abbate su L'Unità il 18 Luglio 2023

Jane Birkin, la sua, tutta sua, solo sua, sostanza fotografica; “iconica”, si dirà poi. Eros assoluto, invidiabile, inarrivabile, “politico”, che raggiungeva lo sguardo altrui. I giorni dell’uscita di “Je t’aime.. moi non plus”. In Italia, provincia vaticana, il disco trovò gli occhi e le pecette nere dei censori, a coprire parole, note, e soprattutto a sbarrare l’ansimare di lei, la voce di un orgasmo annunciato. Livia, mia cugina, la ricordo a dirmi: “Il disco no, non l’ho ancora ascoltato, però ho letto il testo”, anche questo ritenuto non meno “scandaloso”, “scabroso”. Eravamo nel cortile di casa, davanti ai garage, cosmodromo della prima adolescenza dei già maturi anni Sessanta, il tempo delle polluzioni notturne, e lei, Jane, la sua voce, suggeriva, anche il fiotto finale.

Il “Ciao” blu appena acquistato, il viso di Che Guevara sui rotocalchi accanto a Celentano di “Azzurro”, i manifesti di “Giovani”, un gran pavese beat fissato sui cornicioni delle edicole, e ancora, su tutto, la sensazione che l’azzurro dell’Esagono, dove Jane Birkin aveva ormai il suo domicilio, il suo dominio pubblico spettacolare, raggiungesse anche noi, laggiù in spiaggia, in Sicilia. Il volto, il suo viso: naturale perfezione somatica, trigonometria della bellezza, ragazza sottile, di più, “esca dalle lunghe gambe”, come recitano altrove i versi del poeta gallese Dylan Thomas, comunque perfetti pure per lei. Jane Birkin fanciulla “folle come gli uccelli”, inarrivabile, dolente. Silente e insieme assordante nella sua evidenza erotica, seno acerbo, da fanciulla fiorita, sotto la camicia bianca da ragazzo.

La moda, sempre allora, brillava di un sentire umanamente rivoluzionario, addirittura, appunto, “militante”, insieme alla sostanza e il mirino dell’iride chiaro, nuovamente un eros assoluto, i trimestri erano ancora tali, i quadrimestri del “riflusso” lontani, da venire, le fibbie dei cinturoni, i coloratissimi orologi di Carnaby Street dai numeri vistosi ai polsi; i giorni dell’estate sembravano infiniti, la vita ricominciava ogni settembre. E Jane Birkin era lì, minigonna o short, al braccio un paniere di vimini mostrato come e meglio di una “Hermès”, la borsa che infine avrà il suo nome, accanto al suo doppio maschile, Serge… Serge Gainsbourg. Il titolo della loro canzone spalancata ancora su una nudità quieta, naturalmente orgogliosa, nella nostra ufficiale “Hit Parade” veniva pronunciato a malapena dal conduttore Lelio Luttazzi in blazer scuro e cravatta da compito signore borghese; pudore democristiano, si è già detto.

Eppure il mondo apparteneva interamente a Jane. Il glamour doveva ancora trovare la narrazione e le forme ordinarie della “riccanza” così come lo identifichiamo adesso. I manifesti, le serigrafie del maggio Sessantotto, il chepì e il naso di De Gaulle “vilipeso” dagli studenti, dai blouson noir sui muri accanto agli slogan, all’eco della rivolta, il pavé sotto la spiaggia, e proprio su quella spiaggia Lei, Jane Birkin, a levitare immobile, capelli lunghi, frangetta, incanto dello sguardo, ogni cosa scritta spray in corsivo, “Nous sommes tous indésiderables”, siamo tutti indesiderabili, forse il più esemplare. Non Jane, desiderata e desiderabile, di più, manifesto vivente del desiderio, del principio del piacere, pura desiderabilità, monotipo femminile di un nuovo modo e mondo perfino spettacolari, Jane che esisteva come forma perfetta di se stessa: i suoi incisivi, la bocca, lo sguardo toccato, presidio di uno stupore unico, davvero secondario che si trattasse di un’attrice e cantante. In lei si incarnava semmai, longilineo, il mito, senza tuttavia il peso che altrove gravava sulla “collega” Brigitte Bardot. Uno scatto da fotobusta le vede insieme, nude, a letto, il panneggio delle lenzuola, i loro sguardi, la femminilità “liberata”.

Anche la nudità era immediata, naturalezza del Nuovo. Bellezza che si sarebbe definita “apolide”. Irrilevante perfino che Jane B. risultasse londinese, ragazza venuta al mondo il 14 dicembre 1946, irrilevante ancora che fosse la rampolla di David Birkin, comandante della Royal Navy e figlia d’arte di un’attrice a sua volta anche cantante di musical, Judy Campbell. Sembrava infatti che la ragazza rispondesse solo a se stessa, al suo assoluto, icona in proprio, ben oltre i suoi giorni da protagonista della “Swining London”, nel paese che, cancellata ogni memoria delle V2 tedesche spioventi dal cielo sul costruito, degli allarmi aerei, della subway nei giorni di guerra, raffigurati come catacombe a grafite da Henry Moore, e degli elmetti “Tommy” a scodella, trovava infine la luccicanza di un’era giovane, eternamente adolescenziale dapprima optical, poi beat. Diciannovenne, sposerà il compositore John Barry, autore delle musiche dei film di 007, da cui avrà una prima figlia, Kate, tragicamente suicida nel 2013.

L’esordio cinematografico nel 1965 con Richard Lester, il regista dei film dei Beatles protagonisti, poi Blow Up di Antonioni… Ancora la sua nudità, ciò che sempre allora era pronunciato “topless”, e la fama, “grazie al suo corpo androgino e alla sua femminilità sensuale”, hanno scritto con prosa giornalistica ordinaria, “l’aria sbarazzina da tomboy, un maschiaccio”, diranno altri. Nel 1968 sul set di “Sloan” l’incontro con Gainsbourg, il loro sodalizio amoroso, sentimentale, masochistico, trasgressione e invidia sociale. La coppia, i dischi, immaginarli ancora adesso, i visi accostati, in sala d’incisione, ed era la fine del 1968. Su ordine della Procura della Repubblica di Milano, il disco, si è detto, finì sotto sequestro “su tutto il territorio nazionale”. Cinque milioni di copie e la coppia incoronata dalla fama, la pioggia di flash su loro in strada a Parigi. Occorre ancora immaginarli sempre insieme, al 5 bis di rue de Verneuil, 7° arrondissement, la tana.

Nel 1971 arriverà una bambina, Charlotte. Jane Birkin ha recitato fra gli altri anche per Jean-Luc Godard, Patrice Lecomte e Agnès Varda, e per Jacques Doillon, che sposerà dopo la separazione da Gainsbourg, e ancora la vedremo diretta da Bertrand Tavernier, Alain Resnais e Jacques Rivette… Tuttavia il suo curriculum risponde solo al suo volto, all’evidenza di questo. I concerti, poi lei in piazza contro il razzismo del Front National di Jean-Marie Lepen. E, restando all’ambito lavorativo, musicale, Paolo Conte, Manu Chao, Bryan Ferry, Caetano Veloso tra i compagni di strada artistica.

L’impegno in ambito sociale e umanitario come ambasciatrice di Amnesty International in Bosnia e Cecenia, i concerti in Cisgiordania e a Ramallah, l’adesione all’appello contro il riscaldamento globale pubblicato nel 2018 su “Le Monde”. Jane, fissa, imprigionata, ostaggio, come scarabeo, nell’ambra dell’età dell’oro della bellezza, che definire spettacolare è davvero poca cosa, il peso quasi tragico appunto dell’avvenenza, come sempre accade ai miti, Jane e la responsabilità, la colpa di invecchiare, agli occhi di chi l’avrebbe voluta per sempre ostaggio dei sogni notturni della propria generazione. Gli omaggi, il copia incolla del suo viso, le gambe, l’ovale del viso, la malinconia trattenuta, adesso ovunque sui social, come segno della più banale, sentimentale, ovvia incapacità interpretativa davanti alla sostanza della sua complessità, perfino del suo infranto interiore. Addio a ogni cosa bella.

Fulvio Abbate 18 Luglio 2023

Marco Cicala per “il Venerdì di Repubblica” – articolo del 18 ottobre 2019 il 17 luglio 2023.

Jane Birkin viene ad aprirmi trascinando una gamba. L’altro giorno s’è infortunata a un piede. Mentre ci dirigiamo in salotto le offro il braccio. Rifiuta sorridendo: «Ça va». Ha 72 anni e il sorriso incantevole di sempre. In Munkey Diaries (Edizioni Clichy) c’è la prima tranche della sua vita. 

Da quando era un’adolescente borghese di Chelsea, bellissima ma con un’autostima rasoterra («Faccio tutto male... Sono una frignona tremenda»), a quando divenne emblema di quella che nel secolo scorso […] veniva chiamata trasgressione. 

In mezzo, un matrimonio sbagliato col “guru” delle colonne sonore John Barry, poi piccoli ruoli in grandi film (Blow Up, La piscina) e infine gli anni folli appresso a quello sciroccato di Serge Gainsbourg, genio maudit del pop rock con cui nel 1969 pubblicò la leggendaria Je t’aime… moi non plus, ritenuta la canzone più erotica di sempre, ma forse da sempre fraintesa.

Intitolati allo scimmiotto di peluche con il quale si confidava da bambina, i diari di Jane Birkin sono un pezzo di storia intima del Novecento. Un controcanto dello showbiz. Prima di decidersi a pubblicarli, lei ha tergiversato parecchio: «Rileggendoli mi rendevo conto che ne uscivo male, ne venivo fuori come una tipa mediocre, vile, possessiva. Mi chiedevo: perché mai dovrei rovinarmi l’immagine davanti a chi mi segue da anni? Ho congelato tutto per mesi. Ma poi mi sono detta: merde, su di me hanno sempre scritto gli altri, forse adesso è venuto il mio turno. Pazienza se deluderò qualcuno, tanto vale dire la verità. E in un diario non puoi barare».

[…] Nel ’65 sposa l’inventore delle musiche-tormentone di 007. Lei ha 19 anni. Barry 13 di più. Non funzionò.

«Una catastrofe. Povero John, era stufo, e c’era da capirlo… Ritrovarsi accanto una ragazzina che passava le giornate a piagnucolare, che viveva aggrappata a lui. Era talentuoso, brillante, ma compassato, per niente sentimentale». 

Però fu lei, la «frignona», a filarsela.

«Se a un certo punto non avessi deciso di andarmene sarei rimasta in eterno ad aspettarlo in salotto, a comprargli i giornali, a preparargli il bagno caldo, a mettergli sul fuoco il brodo di tartaruga». 

Così prese Kate, la bambina avuta da lui, e da Londra se ne volò in Francia. Ma prima era già apparsa in Blow-Up di Antonioni, e in tenuta nature.

«Antonioni era un gentleman. Mi diede da leggere le poche pagine con le mie battute, avvertendo subito: “Sappia che dovrà essere completamente nuda. Torni a casa e ci pensi su”. Ne parlai con John, che conosceva i miei pudori. Mi disse: “Tu quando ti spogli spegni la luce, ma se devi recitare nuda tanto vale farlo col grande Antonioni”. Allora osai».

In Francia andò per il provino di un film assai meno audace, Slogan, ma nel ruolo del protagonista c’era un certo Gainsbourg. Set galeotto.

«Sulle prime lui fu sprezzante. Mi sfotteva per il mio francese orrendo». 

Finché una sera a Parigi non venne a prenderla in albergo. Quella soirée è tra i pezzi forti del libro.

«Non sapeva ballare. Mi pestava i piedi. Lo trovavo delizioso. Dopo cena mi trascinò in un night russo, il Raspoutine. Uscendo ordinò all’orchestra di suonarci il Valzer triste di Sibelius sul marciapiede, mentre aspettavamo il taxi per andarcene da un’altra parte. Finimmo in un locale che si chiamava Le Calvados. 

Serge suonò la chitarra con i musicisti messicani e il piano con il jazzista afroamericano Joe Turner. Da lì ci trasferimmo da Madame Arthur, un posto di travestiti dove c’erano signori in costume da gallina che per magia facevano spuntare uova da sotto le ascelle degli spettatori attoniti, canticchiando: “Co-co-co…”. All’alba bevemmo champagne al mercato delle Halles tra i macellai che scaricavano la carne coi grembiuli insanguinati».

E non era ancora finita.

«Quando Serge mi propose di riaccompagnarmi in albergo, mi sorpresi a rispondergli “No”. Pensavo che saremmo andati a casa sua. Viveva ancora con i genitori! Invece mi portò all’Hotel Hilton. E all’ingresso il portiere di notte lo accolse con un: “Solita camera, monsieur Gainsbourg?”. 

A quel punto non ero più tanto sicura di aver fatto la scelta giusta. Appena entrati in camera mi sono chiusa in bagno per prendere tempo. Quando sono uscita Serge dormiva profondamente. Allora mi è venuta un’idea. Lasciando la porta socchiusa, sono corsa al Drugstore a comprare il 45 giri di Yummy Yummy Yummy (I Got Love In My Tummy), la canzone sulla quale avevamo ballato tutta la notte. Sono tornata all’Hilton, gli ho sistemato il disco tra le dita dei piedi e me la sono svignata».

[…] Ma il “degenerato” la stregò. Una notte lei gli disse: «Portami in un bordello». Un tuffetto nei bassifondi. Un gioco erotico. Finiste a Pigalle.

«Indossavo un abitino nero e stivali kinky sopra il ginocchio, color rosso fuoco, tacco altissimo. Nei vicoli le puttane mi urlavano contro. Difendevano il loro territorio, pensavano fossi una concorrente. 

Strappale gli occhi!” gridavano a Serge. Piombarono su di noi in quattro. Riuscimmo ad allontanarci. Andammo a infilarci in un alberghetto. Il vecchio concierge non si fidava: “Quanti anni ha la ragazzina?”. “Ventuno” disse Serge senza convincerlo. Mostrai il passaporto. 

Mentre salivamo le scale il portiere ci fissava biecamente assieme a un gruppetto di compari. Nella stanza c’erano solo un letto matrimoniale e un bidet che faceva ploc-ploc. Il letto era umido.

Recita la puttana sordida” mi disse Serge. Rimasi in calze e reggicalze. Mentre mi esibivo in una serie di gridolini, sentimmo bussare violentemente alla porta. “Apri!” urlò qualcuno. “Vattene!” rispose Serge. E dall’altra parte: “Apri o sfondiamo la porta!”. Serge mi consigliò di rivestirmi. Ma in quel momento ci fu uno schianto. Quei tizi avevano buttato giù la porta e Serge c’era finito sotto. “Non farti toccare, prendili a calci!” mi strillava». 

Però le intenzioni del branco si rivelarono sorprendenti.

« “Tutto bene, piccola?” mi chiese quello che guidava il gruppo. Mentre cercavo le mutande mi spiegò che la settimana prima in albergo c’era stato un omicidio e da allora lui era sul chi vive.Era preoccupato per me, le mie grida lo avevano spaventato. “Ma io quest’uomo lo amo!” dissi indicando Serge che si stava rialzando. Tornammo giù in mezzo a una folla di arabi esterrefatti». 

La vostra storia iniziò nel ’68, anno-terremoto.

«Ma lui se ne fregava della politica. Una volta votò per Giscard d’Estaing. E la gente non ci credeva perché tutti pensavano che fosse di ultrasinistra. Quanto alle rivolte studentesche, diceva che erano bambinate rispetto alle vere rivoluzioni. I suoi genitori erano fuggiti da quella russa». 

Veniamo a Je t’aime… moi non plus. Il disco uscì con scritto sulla copertina: vietato ai minori di 21 anni. Però piovvero lo stesso scomuniche, censure, sequestri. Tra gemiti e sospiri, la pop music entrava per la prima volta nell’alcova. Come andò la registrazione?

«Molto professionale. Con Serge eravamo in due cabine separate. Lui mi faceva segni con le mani per guidare il mio respiro».

L’impressione è che giocando con l’eros, con Serge vi siate divertiti un mondo. E ci abbiate preso simpaticamente per i fondelli.

«C’era senz’altro una componente ludica. Ho fatto sempre tutto con grande allegria». 

Anche quel servizio fotografico in stile sadomaso che la ritraeva in reggicalze ammanettata a un termosifone?

«Sì. Però forse in quel caso esagerammo. Perfino mia madre, che non si scandalizzava facilmente, reagì malissimo». 

Oggi le femministe che direbbero?

«Direbbero: aaargh!». 

Con l’alcol Gainsbourg non simulava.

«No, ma all’epoca bevevamo tutti come pazzi». 

Pure in fatto di tabagismo fu un recordman. Gli attribuiscono un consumo di cinque pacchetti di Gitanes al giorno.

«Dopo l’infarto sembrava aver smesso. Ma all’ospedale ci chiedeva bombolette di deodorante spray in quantità che avrebbero dovuto insospettirci. Quando lasciò la camera, gli infermieri trovarono nascoste centinaia di fialette medicinali con mozziconi di sigaretta spenti dentro». 

Siccome sfoggiava un aspetto da snob trasandato c’era chi malignava sulla sua igiene personale.

«Era superpulito, ma si lavava a pezzi. Non sopportava l’idea di immergersi interamente in una vasca da bagno. Ed era pudicissimo. Non l’ho mai visto nudo». 

Anche a gelosia non scherzava.

«Quando John Barry veniva a trovare nostra figlia Kate, Serge era sempre nervosissimo. Sfogava la rabbia al pianoforte, pestando sui tasti come un matto il tema di James Bond».

Nel ’71 da Birkin e Gainsbourg nacque Charlotte e Serge festeggiò subito la paternità a modo suo.

«Durante il parto camminava a quattro zampe dietro la porta con uno stetoscopio per ascoltare che cosa succedeva dentro. Con mio fratello Andrew s’erano scolati tutti i liquori che avevano potuto trovare in albergo. Incluso quello alla banana». 

Come ogni amour fou, anche il vostro finì tra pianti e strepiti.

«Quando Serge capì che l’avrei lasciato per lui fu una tragedia. Ma non voleva che si dicesse male di me. E in giro ripeteva che era tutta colpa sua». 

[…] Dai Diari viene fuori che a 13 anni lei  aveva già il terrore di invecchiare.

«Ero carina. Pensavo che dopo i 40 anni sarebbe finito tutto. Invece è l’età più bella». 

Che fine ha fatto la scimmia di peluche?

«L’ho messa nella bara di Serge. Per proteggerlo nell’aldilà. Come un faraone».

Da agi.it il 12 luglio 2023.

È morto lo scrittore ceco di fama mondiale Milan Kundera, autore di "Joke", "L'insostenibile leggerezza dell'essere" e "Amori ridicoli".  Lo ha annunciato la tv ceca. Era nato a Brno, ma era emigrato in Francia durante il regime totalitario e vi era rimasto dopo la Rivoluzione di Velluto. Aveva 94 anni.

Da cinquantamila.it – la storia raccontata da Giorgio Dell’Arti

Milan Kundera, nato a Brno il 1° aprile 1929 (94 anni). Scrittore. Spesso considerato papabile al Nobel per la Letteratura. Autore del romanzo L’insostenibile leggerezza dell’essere, scritto nel 1982 e pubblicato nel 1984, che lo rese famosissimo

• «Negli anni Ottanta è diventato per la Cecoslovacchia quello che Gabriel García Márquez fu per l’America latina degli anni Sessanta e Aleksandr Solgenitsin per la Russia degli anni Settanta. Ha portato l’Europa orientale all’attenzione dell’opinione pubblica occidentale, e lo ha fatto con una sensibilità letteraria di valore universale» (Olga Carlisle, New York Times, 19/5/1985)

• «È stato il Grande Esule, l’ultimo di una generazione che si ribellò al “socialismo reale”» (Mario Baudino, La Stampa, 16/11/2018)

• Scappato dalla Cecoslovacchia comunista nel 1975, si trasferì in Francia, ne prese la cittadinanza e cominciò a scrivere in francese • «Scrive una cinquantina di opere tra romanzi, saggi, drammaturgie: ciascuna di esse va letta come un continuo dell’altra, un capitolo aggiunto di una nuova letteratura» (Marco Missiroli, La Lettura, 30/9/2018)

• «Crea intorno ai personaggi una fitta tramatura di riflessioni e pensieri, un clima quasi evanescente dove essi si sfaldano, casuali silhouettes in un gioco in cui tempo e oblio, memoria e nostalgia sono i veri protagonisti» (Luigi Forte, Tuttolibri, 1/6/2001) • «Ci sono autori i cui libri sembrano esistere allo scopo di essere sottolineati, scarabocchiati, chiosati sfrenatamente, a costo di ridurli in pezzi. Milan Kundera è tra questi: ogni capoverso, ogni paragrafo ha il potere di schiudere spazi nuovi e autosufficienti, monadi testuali con cui baloccarsi selvaggiamente» (Alessandro Piperno, Corriere della Sera, 28/3/2019). 

Titoli di testa «Debbo avvisarla che non sono la persona giusta per essere intervistata. Non voglio parlare di me, né della mia vita, né tantomeno della condizione della mia anima. La mia discrezione rasenta livelli patologici, e non c’è niente che possa farci. Se per lei va bene, vorrei parlare esclusivamente di letteratura» (alla Carlisle).

Vita «Sono nato un primo aprile. Questo non può non avere un impatto sul piano metafisico» (Leonardo Martinelli, La Stampa) • Suo padre, Ludvik Kundera, è un pianista. Ha una passione per le avanguardie - Stravinsky, Bartok e Schoenberg - è stato anche allievo del compositore Leoš Janácek

 • «Mio padre suonava in sale da concerto semi-vuote. Da ragazzino odiavo il fatto che il pubblico si rifiutasse di ascoltare Stravinsky e applaudisse solo Tchaikovsky o Mozart. È stato così che mi sono appassionato all’arte moderna, per una specie di fedeltà a mio padre, però mi sono rifiutato di intraprendere la carriera di musicista. La musica mi piaceva, ma non mi piacevano i musicisti. Al solo pensiero di passare la vita tra i musicisti, mi mancava il respiro» (Carlisle)

 • Milan sceglie la letteratura. Scrive tre volumi di poesia, un testo teatrale, un saggio letterario, un volume di racconti. Poi decide di iniziare il suo primo romanzo: «Ho cominciato a scrivere Lo scherzo verso il 1961, più o meno sicuro che sarebbe stato pubblicato. Durante gli anni sessanta, molto tempo prima della Primavera di Praga, il realismo socialista e tutta l’ideologia ufficiale erano già morti, avevano ormai solo una funzione di facciata che nessuno prendeva più sul serio. Terminato nel dicembre del 1965, il manoscritto rimase circa un anno negli uffici della censura che, alla fine, non pretese nessun cambiamento. Il romanzo fu pubblicato nella primavera del 1967 ed ebbe in rapida successione tre edizioni che raggiunsero globalmente una tiratura di 117.000 copie» (in Massimo Rizzante, Un dialogo infinito. Note in margine a un massacro, Effigie, Milano, 2015)

• La trama: «Nella Cecoslovacchia socialista del secondo Dopoguerra, uno studente provoca una ragazza che lo trascura per i corsi di partito. “L’ottimismo è l’oppio dei popoli! Lo spirito sano puzza di imbecillità! Viva Trockij!” scrive Ludvík a Markéta. La sua cartolina non ha alcun significato politico: è un messaggio privato, la battuta pretestuosa di una scaramuccia d’amore. Ma nel nuovo regime non c’è posto per questo registro, e lo studente cade in disgrazia. Viene espulso dal partito e dall’università, sconta il servizio militare in un villaggio minerario, conosce il carcere. La sua esistenza è rovinata da un gesto frivolo, sentimentale e umoristico, compiuto in un paese che non sa più stare allo scherzo. Molti anni dopo, contro i propri persecutori, Ludvík progetterà una vendetta che passa specularmente per una sorta di machiavellismo erotico» (Matteo Marchesini, Il Foglio, 21/9/2019)

• «“Nella primavera del 1968 il libro ottenne il premio dell’Unione degli scrittori cecoslovacchi. Dal romanzo ricavai in seguito una sceneggiatura per il mio amico Jaromil Jireš, il quale ne fece un film che non ho mai smesso d’amare. La critica letteraria si occupò poco dell’aspetto politico del libro, mettendo in evidenza invece la sua matrice esistenziale [...] Come vedi, agli inizi del mio percorso di romanziere mi sono sentito perfettamente compreso in patria. Ma fu un momento di breve durata. Un anno dopo, nel 1968, l’invasione russa instaurò di nuovo uno stalinismo antidiluviano e intellettualmente oppressivo. Fu allora che Lo scherzo sparì dalle librerie e dalle biblioteche”. E fu allora che l’avventura internazionale del tuo romanzo ebbe inizio... “Nel 1967, subito dopo la pubblicazione del romanzo, la mia casa editrice praghese, euforica per il successo del libro, propose il romanzo a Gallimard.

Qui il manoscritto fu consegnato, come di regola, a un lettore, un ceco che viveva a Parigi. Questi trovò il romanzo privo di ogni interesse e la faccenda finì lì. Il caso volle che un intellettuale praghese, Antonín Liehm, una sorta di emissario dell’arte non ufficiale ceca all’estero, parlasse del romanzo ad Aragon che, a quell’epoca, mostrava una grande solidarietà nei confronti degli intellettuali dei paesi comunisti che si opponevano ai loro regimi […] Senza neppure conoscere il testo ceco, egli lo raccomandò a Claude Gallimard, il quale decise di pubblicarlo. A questo punto il caso intervenne di nuovo: Lo scherzo uscì i primi giorni di settembre del 1968, cioè esattamente tre settimane dopo l’invasione russa della Cecoslovacchia! Fu sotto lo choc provocato da quell’avvenimento che Aragon, probabilmente di getto e all’ultimo momento, scrisse la sua prefazione al romanzo, diventata poi celebre”» (Rizzante) 

 • «Il libro ha natura, diciamo, crittografica, nel senso che dice meno cose di quante ne sottintenda, e non sembra che il suo illustre prefatore, lo scrittore francese Louis Aragon, si sia gran che preoccupato di renderne i significati nascosti» (recensione del Corriere, 1969)

 • «Per tutti io ero soprattutto un soldato giunto a bordo di un carro armato e tutti elogiavano il coraggio con il quale avevo lottato contro il totalitarismo. Ma quando stavo scrivendo Lo scherzo io non mi sono mai sentito particolarmente coraggioso. La mia sfida non era politica, ma esclusivamente estetica» (in Rizzante)

• «Il regime mise al bando i suoi libri nel 1970. Kundera, che insegnava alla Scuola di cinema di Praga, ne venne allontanato. Sopravvivrà, fino all’ esilio, facendo oroscopi sotto pseudonimo in riviste per ragazzi. E, visto che sapeva suonare il pianoforte, venne ingaggiato in un’orchestrina che si esibiva nelle taverne di una regione mineraria» (Martinelli) 

 • Nel 1975 gli concedono un visto per andare a insegnare all’università di Rennes, nel 1977 glielo rinnovano. Ma dopo la pubblicazione del Libro del riso e dell’oblio e di un’intervista a Le Monde in cui critica il partito, gli tolgono la cittadinanza e lui diventa apolide 

• «L’oppressione può distruggere completamente la cultura. La cultura ha bisogno di dibattito pubblico, di libero scambio di idee; le servono libri, mostre, dibattiti e confini aperti» (alla Carlisle) • Nel 1981, dopo l’elezione di François Mitterrand a presidente della Repubblica, la Francia gli concede la naturalizzazione. Nel 1984 esce L’insostenibile leggerezza dell’essere e diventa famosissimo. «Subito smise di concedere interviste: prima di lui, dovevano “parlare” le sue opere» (Martinelli)

• «Nessun protagonista nei miei romanzi è un auto-ritratto, e nessuno dei miei protagonisti è la trasposizione di una persona vera. Non mi piacciono le autobiografie sotto mentite spoglie. Odio i pettegolezzi degli scrittori. Per me, essere indiscreti è un peccato capitale. Chiunque riveli la vita intima del prossimo dovrebbe essere frustato. Viviamo in un’epoca in cui la vita privata è stata distrutta. La polizia l’ha distrutta nei Paesi comunisti, i giornalisti la minacciano nei Paesi democratici, e poco per volta la gente perde l’idea stessa che la vita privata sia importante. Vivere senza potersi nascondere dallo sguardo altrui è l’inferno. Chi vive sotto un regime totalitario lo sa, ma quel sistema non fa che amplificare, come una lente d’ingrandimento, le tendenze della società moderna. La devastazione della natura; il declino del pensiero e delle arti; la burocratizzazione, la spersonalizzazione; la mancanza di rispetto per la vita privata. Senza riservatezza, niente è possibile – non l’amore, e nemmeno l’amicizia»

• Philip Roth, negli anni Ottanta, riporta queste sue parole: «Quando portavo i pantaloni corti, sognavo di avere una pozione magica che mi rendesse invisibile. Poi, diventato adulto, ho cominciato a scrivere, e volevo avere successo. Ora che ho successo, vorrei di nuovo avere quella pozione e diventare invisibile» 

 • «Dal romanzo La lentezza Milan Kundera ha trovato la sua patria nella lingua francese. È diventato leggero, sobrio, conciso. Il terreno della sua prosa resta il conte philosophique, il romanzo di idee tenute insieme spesso da un’esile trama, un gioco di specchi in cui s’inseguono realtà, sogno e fantasia. Ma la lingua ora è più rarefatta, vagamente astratta. Concreti restano invece i suoi interrogativi: l’esilio, il tempo, la memoria. È come se la lingua francese lo riportasse alla sua sperduta identità ceca, ai temi esistenziali radicati in una frattura originaria, che gli attraversa anima e corpo: una patria da riattivare nei ricordi con un idioma straniero che è mite distanza, elaborazione del lutto. Così come la fredda geometria dei viali parigini lo rimanda per contrasto alle viuzze tortuose, a saliscendi, di una Praga priva di ogni enfasi magica» (Forte).

Vita privata Sposato con Vera Hrabanková. Non hanno avuto figli.

Curiosità Gli piacciono i film di Fellini e la musica jazz • Detesta la retorica e le cerimonie • «Non sono mai stato un credente, ma dopo aver visto i cattolici cechi perseguitati durante il terrore staliniano, ho provato per loro la più profonda solidarietà. Quel che ci separa, la fede in Dio, era secondario rispetto a quel che ci univa» • Ha riavuto la cittadinanza ceca solo nel 2019, ma ha deciso di rimanere in Francia

• Abita con la moglie a Parigi, dove conduce una vita riservatissima, non partecipa a eventi e non concede interviste. Ha casa in rue du Cherche-Midi, nel sesto arrondissement • La sua ultima intervista a un giornale risale al 1986 • «Chi lo frequenta dice che è spiritoso e sarcastico» • «Lo si può ancora vedere in giro per il centro di Parigi a braccetto con Vera» (Martinelli).

Titoli di coda «Riservato, in realtà nelle foto anche recenti, scattate talvolta suo malgrado, sorride, con quella bella faccia d’anziano, un naso da pugile e gli occhi azzurri».

La morte di Milan Kundera: il primo che ha pubblicato L’Identità. Nicola Santini su L'Identità il 12 Luglio 2023 

C’è uno di quei nomi che quando li pronunci, suscitano rispetto ed ammirazione. Milan Kundera, il romanziere ceco che ha saputo ispirare milioni di cuori e farsi un nome nel cuore pulsante della letteratura mondiale, che ieri ha raggiunto quella leggerezza tanto aspirata che separa il corpo ormai stanco da una mente che, pur essendosi allontanato dalla scena letteraria da anni, non ha smesso di far sentire la sua presenza fino all’ultimo. Aveva 94 anni ed è morto a Parigi.

Morto Milan Kundera: dalla gioventù alle opere più famose

Nato a Brno, in quella che oggi chiamiamo Repubblica Ceca, nel 1929. Da giovane, si gettò a capofitto nell’amore per le arti, e ne uscì laureato dall’Accademia di Musica e Arti Drammatiche di Praga. Dal 1953, iniziò a popolare le biblioteche con le sue poesie, ma il Vate si sarebbe rivelato in tutto il suo fulgore solo con i romanzi.

L’opera per cui tutti lo conoscono, ossia il libro che tutti abbiamo comprato, che citiamo per vezzo e per vizio, ma che pochissimi, in realtà hanno letto: “L’insostenibile leggerezza dell’essere” (1984), una radiografia dell’umanità che sventra le maschere di quattro protagonisti nel vortice dell’invasione sovietica del 1968. Il romanzo è una lezione di vita e filosofia, ed è considerato un vero e proprio pilastro della letteratura mondiale.

Kundera, poi, dovendo fare i conti con le grinfie del regime comunista, nel 1975 scelse di fuggire in Francia, il nuovo campo di battaglia per la sua arte, dove scrisse in francese.

Kundera: “Un uomo di polso”

Lo sappiamo, Kundera è un uomo di polso: si preparò una nuova vita, si conquistò la cittadinanza francese nel 1981 e divenne una voce autorevole a livello accademico.

Gli ultimi decenni si sono rivelati fruttuosi per questo monumento alla letteratura: Kundera ha prodotto gioielli come “L’identità” (1998) e “L’ignoranza” (2000), traendo ispirazione, a quanto pare, dal cuore pulsante della cultura e della lingua francese. Onorato con premi come il Premio Jerusalem, il Premio Mondello e il Premio per la letteratura della Repubblica Ceca, la statura di questo maestro non è mai venuta meno. La sua penna ha plasmato storia, politica, amore, esistenza umana – tutto rifuso in opere che porgono alla letteratura una densità e una profondità mai vista.

Milan Kundera, uno scrittore che ha saputo fare un colpo al cuore della letteratura mondiale, lasciandoci pagine ed emozioni indelebili nel tempo.

Tra Roma e Bisanzio. La profezia di Milan Kundera e l’Occidente prigioniero dell’insostenibile egoismo russo. Paul Berman su L'Inkiesta il 13 Luglio 2023

Un saggio di quarant’anni fa dello scrittore ceco, scomparso l’11 luglio a 94 anni, conteneva già tutte le chiavi per capire l’attuale guerra in Ucraina, spiega Paul Berman. E fa venir voglia di rileggere un testo del 1919 di Paul Valéry sul significato della civiltà europea

Questo è un articolo del nuovo numero di Linkiesta Magazine, con gli articoli di Big Ideas del New York Times. Si può comprare già adesso, qui sullo store, con spese di spedizione incluse. In edicola a Milano e Roma e negli aeroporti e nelle stazioni di tutta Italia dal 15 luglio.

L’editore americano HarperCollins ha avuto l’ottima idea di riproporre nel volume intitolato A Kidnapped West. The Tragedy of Central Europe, la traduzione inglese dell’omonimo saggio scritto quarant’anni fa da Milan Kundera (morto a Parigi l’11 luglio 2023. Lo stesso saggio è pubblicato in italiano da Adelphi, nella traduzione di Giorgio Pinotti, all’interno della miniraccolta kunderiana intitolata Un Occidente prigioniero). Questo testo si rivela essere la chiave perfetta per comprendere il significato dell’attuale conflitto russo-ucraino. O, quantomeno, a me pare che lo sia. Kundera, che a quel punto della sua vita aveva abbandonato casa sua, nella Cecoslovacchia comunista, per cercare un’esistenza migliore in Francia, aveva intitolato quel suo saggio Un Occident kidnappé ou la tragédie de l’Europe centrale e l’aveva pubblicato sulla raffinata rivista parigina Le Débat, ora purtroppo defunta.

Quel saggio divenne famoso. Ne uscirono delle traduzioni sulla New York Review of Books e su altri periodici di quello stesso tipo in giro per il mondo. Poi, dopo le rivoluzioni del 1989, quando la Guerra fredda stava diventando un ricordo sempre più sbiadito del passato, si sbiadì allo stesso modo anche il ricordo di quel celebre saggio. E fu un peccato.

Kundera, in quel lontano 1983, voleva convincere i suoi lettori ad accantonare il pensiero politico convenzionale, che descriveva la Guerra fredda come un gigantesco conflitto fra due sistemi imperiali o “blocchi” – l’Europa occidentale contro l’Europa orientale – oppure come un conflitto fra principi politici – la democrazia liberale contro il comunismo. Questa visione presupponeva una divisione antropologica di fondo tra l’Occidente e l’Est e riteneva che il blocco sovietico fosse pervaso da un’“anima slava” che difficilmente avrebbe potuto essere compresa dai più razionali cittadini occidentali. Ma Kundera rifiutava tutte queste analisi.

Nella sua interpretazione, il confine che durante la Guerra fredda separava i due blocchi era semplicemente un accidente della guerra, una linea tracciata artificialmente e superficialmente attraverso il Vecchio continente alla conclusione della Seconda guerra mondiale nel punto in cui erano arrivati l’esercito degli Alleati e quello dei sovietici alla fine della loro avanzata, l’uno da Ovest e l’altro da Est, contro i tedeschi.

Ma, più in profondità, l’Europa era attraversata da un’altra divisione, questa sì antica e autentica. Si trattava, in questo caso, di un’eredità del tardo Impero romano e della fatidica separazione tra le due capitali, Bisanzio e Roma. In conseguenza di questa divisione, in una delle parti dell’Impero sorse la Chiesa ortodossa orientale, con le sue tradizioni culturali che si mescolarono poi con quelle dell’Impero russo e con l’insaziabile desiderio di quest’ultimo di inghiottire le nazioni vicine. Nell’altra parte dell’Impero romano, invece, quell’antica divisione generò la Chiesa cattolica e le tradizioni a essa legate, che diedero poi vita al Rinascimento, allo spirito della civiltà occidentale e all’età moderna – «l’epoca fondata sull’ego che pensa e dubita, e caratterizzata da una produzione culturale che di tale ego unico e inimitabile era l’espressione» – nelle parole di Kundera. E l’“anima slava” con tutto ciò non ha niente a che fare.

Durante la Guerra fredda, secondo l’analisi di Kundera, non c’erano due Europe, ma tre. L’Europa dell’Est era la Russia. Le piccole nazioni a Ovest della Russia costituivano l’Europa centrale e non si identificavano con la tradizione russa. Si identificavano invece con la civiltà occidentale e con le sue aspirazioni universali, anche se erano rimaste intrappolate dietro le linee sovietiche. Queste piccole nazioni, però, avevano dei tratti propri che le distinguevano dall’Europa occidentale.

L’Europa occidentale aveva, a suo modo, una pulsione verso il dominio, dettata dalla convinzione che a fare da garante del suo potere e del suo successo ci fosse la Storia con la “s” maiuscola. Le nazioni dell’Europa centrale, invece, nutrivano una sensazione di fragilità – la fragilità delle loro lingue e delle loro culture, talvolta sull’orlo dell’estinzione. Questo generava un “tono” ironico, beffardo, stravagante, come si può vedere nei loro principali scrittori, che, secondo Kundera, erano Hermann Broch, Robert Musil, Jaroslav Hašek e Franz Kafka (ma doveva avere in mente anche se stesso).

La vera storia della Guerra fredda, secondo il punto di vista di Kundera, non era, in sostanza, la storia della Nato e della sua contrapposizione con il blocco sovietico. Era, invece, la storia di quelle nazioni fragili e della loro lotta per preservare le proprie lingue e le proprie culture: si trattava di una storia di sollevazioni e di ribellioni contro i sovietici – in Ungheria e in Polonia nel 1956, in Polonia e in Cecoslovacchia nel 1968, poi di nuovo in Polonia e poi così via negli anni a seguire. Erano sollevazioni e ribellioni per difendere la propria identità culturale e finirono per essere, come divenne poi chiaro, la rampa di lancio che consentì alla rivoluzione che avvenne in quella regione nel 1989 di ascendere fino al trionfo.

A Kundera sembrava poi che gli ebrei dell’Europa centrale fossero un’altra di quelle nazioni – «la piccola nazione per eccellenza» – e che avessero giocato un ruolo particolare nel creare l’«unità spirituale» dell’intera Europa centrale. E anche il sionismo gli sembrava essere l’espressione della decisione di esistere da parte di

un’altra piccola nazione.

E gli ucraini? Nel 1983 Kundera dedicò loro solo una singola, scandalizzata nota a piè di pagina [che compare nell’edizione americana, derivata dalla traduzione apparsa a suo tempo sulla New York Review of Books, ma non in quella italiana – N.d.T]: «Una delle più grandi nazioni europee (gli ucraini sono quasi quaranta milioni) sta lentamente scomparendo. E questa cosa, enorme e quasi incredibile, sta avvenendo senza che il mondo se ne avveda». Ma quella nota a piè di pagina fu profetica.

Nessuno che legga oggi il saggio di Kundera potrà non accorgersi del fatto che l’Ucraina ha dato prova di essere a sua volta un’altra delle nazioni ribelli dell’Europa centrale. Certo, l’identità ucraina attinge al Cristianesimo ortodosso e non al Cattolicesimo. Kundera ha forse un po’ sottovalutato le risorse dell’Ortodossia. Ma il modo di fare impetuoso del presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, che come tutti sanno è ebreo, si adatta perfettamente alla descrizione da parte di Kundera della resistenza dell’Europa centrale nel suo complesso e del ruolo giocato dagli ebrei in quel contesto.

Per poter pubblicare questo saggio di Kundera, che è molto breve, in un volume autonomo, HarperCollins [così come hanno fatto Gallimard in Francia e Adelphi in Italia – N.d.T.] ha scelto di proporlo in combinato con un altro suo scritto del 1967, La letteratura e le piccole nazioni, e con due introduzioni ben informate scritte dallo storico Pierre Nora, che fu tra i fondatori della rivista Le Débat, e dall’intellettuale franco-ceco Jacques Rupnik. Ma questo è un libro che chiede a gran voce di essere letto alla luce della guerra in Ucraina.

Se fosse mai possibile fare un’altra edizione di questo testo di Kundera, spero che venga invece accoppiato con un saggio del 1919 di Paul Valéry, La crisi dello spirito, sulla necessità, per gli europei, di riflettere sul significato della loro civiltà e sulle sue antiche radici [una traduzione italiana di questo testo di Valéry si trova nel volume intitolato In morte di una civiltà. Saggi quasi politici, una raccolta di scritti del poeta francese pubblicata da Aragno a cura di Massimo Carloni – N.d.T.]. Fu proprio Valéry a infondere questi temi nella letteratura moderna. E Kundera è il suo erede.

Il saggio di Valéry, per certi aspetti, potrebbe essere addirittura migliore di quello di Kundera, perché è più disposto a riconoscere che anche la civiltà occidentale è capace di orrori. In ogni caso, però, trovo che questi due saggi, La crisi dello spirito di Valéry e Un Occidente prigioniero di Kundera, siano le grandi articolazioni letterarie di una identità spirituale occidentale attraente e variegata e che siano scritti con un tono che soltanto i più grandi autori possono avere: profondo, umano, naturale e moralmente avvertito. Sono due grandi testi, degni dell’eroismo a cui stiamo assistendo, proprio ora, in Ucraina.

Questo articolo è stato pubblicato su Air Mail.

Questo è un articolo dell’ultimo numero di Linkiesta Magazine, con gli articoli di Big Ideas del New York Times. Si può comprare già adesso, qui sullo store, con spese di spedizione incluse. In edicola a Milano e Roma e negli aeroporti e nelle stazioni di tutta Italia dal 15 luglio.

La sua opera più nota è stata il romanzo L'insostenibile leggerezza dell'essere. REDAZIONE ONLINE su La Gazzetta del Mezzogiorno il 12 Luglio 2023  

È morto all'età di 94 anni a Parigi lo scrittore, poeta, saggista e drammaturco ceco Milan Kundera. La sua opera più nota è stata il romanzo L'insostenibile leggerezza dell'essere.

Nato a Brno, nell'allora Cecoslovacchia (attualmente in Repubblica Ceca), il 1º aprile del 1929, Kundera studiò letteratura e musica a Praga. Suo padre Ludvík (1891-1971) era direttore dell'Accademia musicale di Brno, la JAMU, e un noto pianista. Fin da piccolo Kundera studiò musica, in particolare pianoforte, e la passione per la musica tornerà spesso nei suoi testi letterari. Pubblica le prime poesie ancora adolescente, grazie al cugino Ludvík, di alcuni anni più anziano di lui, figura poliedrica nella cultura ceca, poeta uscito negli anni della Seconda guerra mondiale dalla costola "surrealista" del gruppo RA, prosatore, pittore, traduttore dal tedesco e studioso del Dadaismo, all'epoca già collaboratore di varie riviste letterarie.

Dopo aver seguito per un anno (a partire dal 1948) i corsi di letteratura all'Università Carlo di Praga, Kundera passa alla Scuola di Cinema, la FAMU, dove si laureò e dove in seguito tenne corsi di letterature comparate. Nel 1948, ancora studente, si iscrisse al Partito comunista, ma ne fu espulso nel 1950 per via di alcune critiche alla sua politica culturale contenute in una lettera a lui indirizzata da un amico; tuttavia nel 1956 fu riammesso, diventando un punto di riferimento importante nelle discussioni di quegli anni. Nel 1968 si schierò apertamente a favore della cosiddetta "Primavera di Praga", e fu per questo costretto a lasciare il posto di docente e, nel 1970, nuovamente espulso dal partito.

Nel 1975 è emigrato in Francia, ove ha insegnato alle università di Rennes e di Parigi, dove oggi vive con la moglie Vera Hrabanková. Nel 1979, a seguito della pubblicazione de Il libro del riso e dell'oblio, gli fu tolta la cittadinanza cecoslovacca. Nel 1981, grazie a un interessamento da parte del presidente francese François Mitterrand, ottenne quella francese. Nel 2008 un documento rinvenuto a Praga negli archivi della Polizia e ritenuto attendibile testimonia di una sua delazione, nel 1950, nei confronti di un ventenne impegnato in un'ingenua operazione di "spionaggio" tra Germania Ovest e Cecoslovacchia; il giovane venne poi condannato a 22 anni di lavori forzati. Kundera ha sempre negato ogni responsabilità nella vicenda.

Dopo la Primavera di Praga le sue opere sono state proibite in Cecoslovacchia; i suoi romanzi più recenti li ha scritti in lingua francese e non ha concesso a nessuno i diritti di traduzione in lingua ceca. Per questa ragione, l'Autore ha subito forti critiche in patria, persino negli ambienti del dissenso, sin dall'atto della pubblicazione nel 1984 del suo più clamoroso successo, L'insostenibile leggerezza dell'essere, in Francia. Bisognerà attendere sino al 2006 affinché Kundera dia il permesso di pubblicazione del romanzo anche nella Repubblica Ceca, tramite un'edizione anastatica di quella pubblicata in ceco a Toronto già nel 1985.

Due parole per Milan Kundera. «Se ne va un grande novecentista, un europeo autentico, e un solitario, orgoglioso, infine silenzioso difensore del Romanzo come forma di conoscenza del mondo, dell’amore, di se stessi e del tempo che ci è dato». Lo scrittore ceco è scomparso a Parigi a 94 anni. OSCAR IARUSSI su La Gazzetta del Mezzogiorno il 12 Luglio 2023  

«Il massimo di diversità nel minimo spazio». Troviamo questa frase appena citata in un prezioso volumetto uscito per Adelphi l’anno scorso, “Un Occidente prigioniero o la tragedia dell’Europa centrale”. Ne è autore il ceco Milan Kundera, scomparso oggi a 94 anni, naturalizzato francese dopo essere fuggito a Parigi negli anni successivi alla fine della Primavera di Praga del 1968 (la seconda rivolta antisovietica, dopo la Rivoluzione ungherese del 1956).

Kundera diventò popolare in Italia anche grazie al titolo di un suo romanzo, “L’insostenibile leggerezza dell’essere” (1984) usato come «tormentone» da Roberto D’Agostino nel programma “Quelli della notte” di Renzo Arbore. Negli stessi anni scriveva un articolo per la rivista francese «Le Débat» che, insieme a un testo precedente, è confluito in “Occidente prigioniero”. Il libello colpisce al cuore l’attualità, parla di noi: «L’Europa centrale voleva essere l’immagine condensata dell’Europa e della sua multiforme ricchezza, una piccola Europa ultraeuropea, modello in miniatura dell’Europa delle nazioni concepita sulla base di questa regola: il massimo di diversità nel minimo spazio. Come avrebbe potuto non inorridire di fronte alla Russia, che si fondava sulla regola opposta: il minimo della diversità nel massimo spazio?». Punto. Non v’è opinione che possiamo ascoltare in Tv sull’invasione russa dell’Ucraina in grado di reggere il confronto con il lapidario passaggio di Kundera.

Poco oltre, l’autore si fa una domanda e si dà una risposta, un po’ alla Marzullo ante litteram: «Ma il comunismo è la negazione della storia russa o piuttosto il suo coronamento? Senza dubbio è insieme la sua negazione (negazione della sua religiosità, per esempio) e il suo coronamento (coronamento delle sue tendenze centralizzatrici e dei suoi sogni imperiali)». Una fenomenologia di Vladimir Putin o quasi, scritta nel 1983, molto prima che il nuovo zar salisse al potere... Profezia? Diciamo: grande letteratura, sentimento identitario, acume intellettuale.

“Un Occidente prigioniero” è l’ultimo dei libri di MK letti, amati, sottolineati, “rivisti” talora al cinema. Se ne va un grande novecentista, un europeo autentico, e un solitario, orgoglioso, infine silenzioso difensore del Romanzo come forma di conoscenza del mondo, dell’amore, di se stessi e del tempo che ci è dato.

Milan Kundera ci ha insegnato il valore del tempo. Roberto Saviano su L'Espresso il 10 agosto 2020.

Lo scrittore con “la lentezza” ci ha spiegato la matematica esistenziale del tempo umano. Da riscoprire, in un’epoca che impone dogmaticamente la fretta

12 luglio 2023: Lo scrittore ceco Milan Kundera è morto a 94 anni a Parigi, dove si era trasferito dal 1975. Era nato a Brno, il 1 aprile 1929. Il suo primo grande successo fu "Lo scherzo", del 1967. Seguito da "Il valzer degli addii", quindi nel 1984 dal successo planetario de "L'insostenibile leggerezza dell'essere".

***

Prendiamo una situazione delle più banali: un uomo cammina per la strada. A un tratto cerca di ricordare qualcosa, che però gli sfugge. Allora, istintivamente, rallenta il passo. Chi invece vuole dimenticare un evento penoso appena vissuto accelera inconsapevolmente la sua andatura, come per allontanarsi da qualcosa che sente ancora troppo vicino a sé nel tempo». 

Milan Kundera pubblica “La lentezza” nel 1995 consegnandoci riflessioni sull’essere umano, sull’utilizzo che fa e sulla percezione che ha del tempo; riflessioni che oggi ci sono utili per capire cosa accade quando deleghiamo alla tecnologia la mediazione tra uomo e vita, tra uomo e ciò che accade, tra uomo e politica e, in ultima istanza, tra uomo e uomo. 

«C’è un legame segreto fra lentezza e memoria, fra velocità e oblio”, dice Kundera e aggiunge: “[…] la nostra epoca è ossessionata dal desiderio di dimenticare, ed è per realizzare tale desiderio che si abbandona al demone della velocità». 

Questa ultima considerazione non ha solo un valore filosofico, ma anche e soprattutto pratico, perché non si dimenticano solo le sofferenze: si dimentica soprattutto l’esperienza, la storia, le best practice e ciò che è accaduto e che possibilmente non dovrebbe ripetersi mai più. 

È qui la chiave di volta. Al motociclista l’ebbrezza della velocità fa dimenticare tutto, fa dimenticare il futuro perché la concentrazione è tutta sul momento attuale. E senza il pensiero del futuro, l’uomo dismette ogni paura. Nel camminare invece - gli arti inferiori che impattano il suolo, l’affanno, la stanchezza, magari la sete - il corpo ci ricorda che la sua velocità di crociera è esattamente quella che può sopportare. Nessuna possibilità di appaltare quel lavoro. 

Il movimento affidato al mezzo meccanico è una metafora che spiega benissimo cosa accade quando il corpo non è coinvolto nell’azione che stiamo compiendo. Semplificando si giunge a una deresponsabilizzazione che spiega bene la superficialità - per non dire la ferocia - di certa politica, la violenza di certi commenti sul web che, dapprima incorporei e immateriali, finiscono per entrare prepotentemente nelle nostre materialissime e concretissime vite, condizionandole, spesso peggiorandole. 

«La velocità è la forma di estasi che la rivoluzione tecnologica ha regalato all’uomo», continua Kundera. «Ma quando (l’uomo ndr) delega il potere di produrre velocità a una macchina, allora tutto cambia: il suo corpo è fuori gioco, e la velocità a cui si abbandona è incorporea, immateriale – velocità pura, velocità in sé e per sé, velocità estasi». 

E nell’estasi della velocità, che decisamente smette di essere un valore e che diventa, filosoficamente, un mezzo per raggiungere l’oblio e, praticamente, una scorciatoia per portare attenzione su di sé, finiamo per accettare un racconto della realtà incompatibile con ciò che viviamo, che vediamo, che sperimentiamo, ma perfettamente in linea con la volontà di perdersi nell’oblio che impone le sue regole sui social. 

Il grado di lentezza è direttamente proporzionale all’intensità della memoria; il grado di velocità è direttamente proporzionale all’intensità dell’oblio: cerchiamo di non dimenticare queste due equazioni della matematica esistenziale di Kundera; ricordiamocene quando pretendiamo che tutto accada nel minor tempo possibile, quando pensiamo di non avere tempo da concedere all’approfondimento, alla comprensione, alla lettura, all’ascolto. Ricordiamocene quando avvertiamo forte lo scollamento che tra ciò che viviamo e ciò che ci raccontano; quella è la spia, e ci dice: fermati! Prenditi del tempo. Non è l’oblio la strada da seguire. Non si vive per dimenticare, ma per ricordare.

La libertà della letteratura contro lo spietato comunismo. Con l'autore ceco dell'"Insostenibile leggerezza dell'essere" muore l'ultimo romanziere autenticamente "europeo". Davide Brullo il 13 Luglio 2023 su Il Giornale.

Con sinistra preveggenza, Gallimard ha mandato in libreria, il mese scorso, una biografia di Milan Kundera. A firmarla è Florence Noiville, antica amica di Kundera, che all'arte della biografia ne ha scritta una, di successo, su Isaac B. Singer alterna, per sport, il romanzo. Il libro ha due fermoimmagine, per così dire, che fungono da icona. Nel primo c'è Milan Kundera, arreso alla demenza, che domanda, in ceco, ossessivamente, «Che fa per vivere?»; quando la tizia gli risponde, «Scrivo», lui passa al francese e replica, in gergo kunderiano: «Scrivere? Che roba buffa!». Nell'altra immagine c'è Vera, la moglie di Kundera, che sbriciola, letteralmente, corrispondenze e documenti di Milan. «Dalla metà degli anni Ottanta, Milan Kundera ha cercato di annientarsi. Nessun discorso, nessuna intervista. Nessuna traccia pubblica di una vita reale. Nulla, di Milan, dopo Milan dovrà rimanere. Tranne i suoi libri. Dobbiamo far credere ai posteri di non aver vissuto, diceva Flaubert; così dice Kundera».

Di Milan Kundera, per lo più, sappiamo tutto: nato a Brno l'1 aprile 1929, figlio di un musicologo, comunista si iscrive al Partito nel '47, salvo essere espulso e riammesso più volte esordisce come poeta; il primo romanzo, Lo scherzo, esce nel 1967, immediatamente tradotto da Gallimard, con la prefazione di Louis Aragon. È l'inizio di una carriera letteraria formidabile e del precipizio politico. Cacciato dal partito nel '70, gli è interdetto l'insegnamento; i premi il Médicis nel 1973 per La vita è altrove consolidano la sua fama. Perfino Philip Roth, atterrato allo Yalta Hotel di Praga con il pretesto di studiare Franz Kafka, trescò per aiutare Kundera contro «la spietata macchina traumatica del totalitarismo»: fece pubblicare da Penguin, nel '74, Amori ridicoli, in una collana da lui ideata, «Scrittori dell'altra Europa». L'anno dopo, Kundera e la moglie riescono a trasferirsi in Francia, grazie a un permesso di Stato temporaneo. Lo scrittore non si muoverà più da lì, scrivendo, dal 1995, da La lentezza, direttamente in francese, rarissimo caso di scrittore «ambidestro», capace di dominare più lingue. Documenti attestano che sarà spiato per molto tempo dalla polizia segreta cecoslovacca, la StB. Altri documenti, però tornati in auge nel 2020 con la pubblicazione dell'immane biografia di Jan Novák raccontano una storia diversa. Secondo il biografo, la leggendaria reticenza di Kundera nasconderebbe una tattica: celare la gioventù stalinista. «Nei primi anni '50 Kundera era un poeta stalinista. Era un potente funzionario letterario. Lasciò la Cecoslovacchia con la benedizione del Governo». Eppure, il documento rivelato dalla rivista Respekt nel 2008, che testimonierebbe la delazione di Kundera ai danni di un disertore, Miroslav Dvoáek, condannato a 22 anni di gabbia, era il 1950, sarebbe un falso, il lascito di una guerra fredda culturale sempre in corso.

A Parigi dal 1978, francesizzato, Milan Kundera diventerà una superstar della letteratura mondiale. Edito nel 1984, L'insostenibile leggerezza dell'essere da cui il film, paludato, con Daniel Day-Lewis e Juliette Binoche ha avuto il pregio, tra l'altro, di salvare l'Adelphi da un quasi fallimento. Intervista da Olga Carlisle per il New York Times 19 maggio 1985 Kundera lanciò i suoi strali contro «l'impero totalitario», dicendo, in sostanza, che Dio è meglio di Mao: «Non sono mai stato credente, ma dopo aver visto i cechi cattolici perseguitati durante il terrore staliniano ho provato profonda solidarietà verso di loro. Una solidarietà da impiccati».

Nel 2011 l'opera di Kundera, rarissimo privilegio per un vivente, è accolta nella «Bibliothèque de la Pléiade». Più che Italo Calvino o gli adelphiani vari, in Italia è stato Cesare Cavalleri l'esegeta máximo di Milan Kundera. A suo dire, Kundera «ci ha insegnato che non si può ridere sempre perché, malgrado tutto, la vita è tremendamente seria e dopo la sospensione estatica della risata o del romanzo non realista, alternativo alla vita bisogna ricominciare a vivere... e anche a diffidare del ridere» (17 aprile 1994, Avvenire).

Autore di romanzi spesso funambolici da L'immortalità a L'ignoranza, da Il valzer degli addii a Il libro del riso e dell'oblio anche noi io, a debita distanza di grazia, crediamo, come Cavalleri, che «uno dei più bei testi dell'autore» sia I testamenti traditi (1992). In quel libro, Kundera si scaglia contro la pretesa, pretestuosa, della buona morale in letteratura «Da sempre, detesto profondamente, violentemente quelli che in un'opera d'arte vogliono trovare una posizione (politica, filosofica, religiosa ecc...), invece di cercarvi una intenzione di conoscere» e contro «il conformismo dell'opinione pubblica» che, ad esempio, non riesce a capire Céline, i cui romanzi, lungi dall'esprimere l'orrenda banalità dell'antisemitismo, riescono a «riscattare l'orrore transustanziandolo in saggezza esistenziale». Soprattutto, in quel libro Milan Kundera si erge a campione del «romanzo europeo», inserendosi in un lignaggio che va da Cervantes a Goethe, passa per Kafka e Musil: «Se l'Europa fosse una nazione unica, non credo che la storia del suo romanzo avrebbe potuto protrarsi per quattro secoli con tanta vitalità, tanta forza e tanta varietà». Detto tutto. Con Milan Kundera muore l'ultimo romanziere autenticamente «europeo».

Addio a Milan Kundera, autore de "L'insostenibile leggerezza dell'essere". Libero Quotidiano il 12 luglio 2023

Milan Kundera, autore de L'insostenibile leggerezza dell’essere (1984, pubblicato in italiano da Adelphi, come tutti i suoi libri), un titolo enigmatico che si è impresso nella memoria collettiva degli anni ’80 e considerato un capolavoro della letteratura contemporanea, è morto a Parigi all’età di 94 anni. L’annuncio della scomparsa è stato dato dalla televisione ceca questa mattina. Di origine ceca, naturalizzato francese fu espulso dal regime comunista. Kundera emigrò in Francia nel 1975 con la moglie Vera Hrabanková, che è stata accanto a lui fino all’ultimo. Nel 1979, dopo la pubblicazione de Il libro del riso e dell’oblio gli fu tolta la cittadinanza cecoslovacca. Nel 1981, grazie all’interessamento del presidente François Mitterrand, ottenne la cittadinanza francese, cominciando a scrivere un decennio più tardi nella lingua della nazione adottiva.

In occasione dei suoi 90 anni, il governo di Praga ha restituito la cittadinanza ceca al grande scrittore. Nei suoi racconti e romanzi, che gli hanno procurato fama internazionale (tra cui L’immortalità, 1990), Kundera ha affrontato i temi dell’attualità politico-sociale del suo paese inserendoli nella più vasta problematica della condizione dell’uomo moderno.

Importanti e influenti anche le riflessioni sul romanzo europeo contenute in L’arte del romanzo (1986). Dalle sue opere sono stati tratti soggetti e sceneggiature, fra i quali Lo scherzo (1969) e soprattutto L’insostenibile leggerezza dell’essere (1988), film diretto da Philip Kaufman con Daniel Day-Lewis (Tomáš) e Juliette Binoche (Tereza), dove si fondono storia, autobiografia e intrecci sentimentali: ambientata nel 1968 a Praga, la storia racconta la vita e le vicende di un quartetto di artisti e intellettuali cecoslovacchi durante la Primavera di Praga interrotta dall’invasione sovietica con il proposito di "correggere fraternamente il deviazionismo" dalla buona strada socialista che aveva contagiato l’intera nazione. 

L’insostenibile addio a Kundera, militante dell’arte del romanzo. Lo scrittore è morto a 94 anni a Parigi, dove viveva dal 1975. Ha reinventato l'arte del romanzo raccontando la vita sotto il giogo comunista nell'impero sovietico. Monica Musso su Il Dubbio il 12 luglio 2023

Chiunque abbia letto la storia di Tereza e Tomáš, i protagonisti de L’insostenibile leggerezza dell’essere, sarà andato sicuramente alla ricerca delle coincidenze, unico criterio per stabilire se un amore sarà davvero indimenticabile. Soltanto il caso può apparirci come un messaggio, scriveva Milan Kundera, il romanziere ceco morto ieri a Parigi, a 94 anni. Se n’è andato senza rompere il silenzio in cui si era chiuso da oltre trent’anni - È un autore deve scomparire dietro i suoi libri, disse - senza mai vincere quel Nobel che tutti mentalmente gli hanno attribuito. Il grande pubblico lo scopre nel 1984, quando pubblica il suo capolavoro, L’insostenibile leggerezza dell’essere, tradotto in 40 lingue. Nato il 1 aprile 1929 a Brno, in Cecoslovacchia, da padre musicologo e pianista, la sua vita di scrittore si intreccia con la storia di un secolo che ha visto crollare il comunismo, evento che sarà alla base della vocazione letteraria di Kundera, che nel 1967 pubblica il suo primo romanzo, Lo scherzo. È la storia del giovane Ludvik, che all'inizio del libro è un membro attivo del Partito Comunista. Ad inguaiarlo una cartolina inviata ad un amico, sulla quale scrive «L'ottimismo è l'oppio dell'umanità. La mente sana puzza di cazzate. Lunga vita a Trotsky». Il suo scherzo viene frainteso e Ludvik viene espulso dal partito, umiliato e messo alla berlina di fronte a tutti i suoi compagni. Un evento che segna un punto di svolta per il giovane e il romanzo esplora le conseguenze della sua esperienza e le riflessioni sul senso della vita, dell'amore e dell'identità. Inizialmente la critica letteraria si concentra principalmente sulla matrice esistenziale del libro, nel quale si sviluppa uno dei temi fondamentali del suo lavoro: il confronto, insieme drammatico e comico, tra la vita intima dell'individuo, la sua inafferrabilità e casualità, e la finzione di un'ideologia collettiva. Un pretesto per mettere anche in luce le contraddizioni e l'ipocrisia del sistema politico comunista, mostrando come le ideologie e le regole imposte dallo stato possano influenzare la vita quotidiana delle persone in modi inaspettati e spesso oppressivi. Nel 1968, un anno dopo la pubblicazione del libro, l'invasione russa instaura di nuovo uno stalinismo intellettualmente oppressivo e Lo scherzo sparisce dalle librerie e dalle biblioteche. Espulso dal partito per la prima volta nel 948, a 20 anni, per aver mostrato «pensieri ostili e tendenze individualistiche», viene riammesso nel partito, e poi riespulso, negli anni ‘50 e poi negli anni ‘70, quando si schiera contro la repressione della Primavera di Praga. Kundera viene poi cacciato dall’Associazione degli scrittori e poi dal Paese, subendo la censura di libri e teatrali. Dopo aver pubblicato Amori ridicoli (1971), Il valzer degli addii (1976) e La vita è altrove (1973), Kundera afferma di non voler più scrivere. Ma i suoi ammiratori e amici lo convincono a continuare, invitandolo in Francia, dove si trasferisce nel 1975. Insegnante all'Università di Rennes, nel 1981 François Mitterrand gli concede la nazionalità francese, contemporaneamente a Julio Cortazar. Ben presto sceglie Parigi come sua «seconda città natale». Il successo mondiale arriva nel 1984, con un romanzo ispirato al tema nietzscheano del rifiuto dello spirito di pesantezza, che esplora il conflitto tra il desiderio di autenticità e il dovere di lucidità. Come amare senza lasciarsi ingannare, di se stessi e dell'altro? Se l'amore e l'erotismo formano gran parte del tessuto dei suoi romanzi è perché l'amore è una prova di verità che non lascia scampo. Ma nei romanzi di Kundera c’è anche l'ossessione dell'insignificanza e la critica al kitsch, un'arma potente nelle mani delle forze totalitarie, in quanto semplifica e manipola le emozioni delle persone, offrendo loro una falsa sensazione di conforto e sicurezza.

Nel 2008 viene accusato di aver tradito, negli anni ’50, un membro dell’opposizione ceca e di aver contribuito al suo arresto da parte della polizia segreta. Accuse che Kundera ha sempre negato, parlando di un tentativo di «assassinio». In un tentativo di riconciliazione, l’ex Primo ministro ceco Andrej Babis gli offre la cittadinanza ceca, che lo scrittore però rifiuta. Ma nel 2019, in occasione del suo novantesimo compleanno, la cittadinanza ceca gli viene comunque restituita dall’ambasciatore di Praga a Parigi, Petr Drulak.

Aveva 94 anni. È morto Milan Kundera: addio all’autore de “L’insostenibile leggerezza dell’essere”, scrittore che ha segnato il 900. Era nato a Brno, si era trasferito in Francia e non rilasciava interviste. Le sue opere sono state tradotte in tutto il mondo. Puntualmente candidato, non ha mai vinto il Premio Nobel per la Letteratura. Redazione Web su L'Unità il 12 Luglio 2023 

Lo scrittore Milan Kundera è morto a 94 anni. A dare la notizia l’emittente Ceska Televize, la televisione ceca. Romanziere e saggista ceco, ogni anno puntualmente candidato al Premio Nobel per la Letteratura senza mai riuscire a vincerlo, Kundera si era ritirato da tempo in una vita lontana dai media. Non rilasciava interviste. Si era trasferito in Francia nel 1975. Era malato da tempo. Alcuni dei suoi romanzi hanno segnato la letteratura del Novecento, è letteralmente esploso con L’insostenibile leggerezza dell’essere, un best seller mondiale. Le sue opere erano state tradotte in una quarantina di lingue.

Kundera era nato a Brno il primo aprile 1929. Il padre Ludvík Kundera era un noto pianista, direttore dell’Accademia musicale di Brno, la Jamu. Lui aveva studiato la musica e si era appassionato alla poesia. Si era laureato alla Scuola di Cinema, la FAMU. Fu espulso dal Partito Comunista dopo alcune sue critiche alle politiche culturali nel Paese, era stato riammesso nel 1956 con la “destalinizzazione”. Fu di nuovo espulso nel 1970 e lasciò il posto di docente dopo che due anni prima si era schierato apertamente a favore della “Primavera di Praga” che aveva difeso il “socialismo dal volto umano” sperimentato da Alexander Dubcek. Con la “normalizzazione” seguita all’invasione sovietica lo scrittore considerato uno dei simboli della Primavera era diventato un bersaglio.

Le sue opere vennero proibite in Cecoslovacchia, quelle già diffuse ritirate dal commercio e dalle biblioteche. Dopo la pubblicazione de Il libro del riso e dell’oblio, gli venne tolta la cittadinanza cecoslovacca. Il presidente francese François Mitterrand si impegnò a fargli ottenere quella francese nel 1981. Kundera si era infatti trasferito nel 1975 in Francia, dove insegnava alle università di Rennes e di Parigi: viveva tuttora nel paese d’Oltralpe con la moglie Vera Hrabanková. I suoi romanzi più recenti li aveva scritti direttamente in francese. Non aveva concesso i diritti di traduzione in lingua ceca fino al 2006. In Italia le sue opere sono state pubblicate da Adelphi.

Del 1984 il suo romanzo più celebre di tutti: L’insostenibile leggerezza dell’essere. Un capolavoro ambientato intorno al 1968 che racconta le vite di quattro protagonisti, due uomini e due donne, legati da diverse relazioni amorose. Memorabili gli sforzi dei personaggi per liberarsi dei vincoli e delle frustrazioni che condizionano l’esistenza e la critica del “kitsch” come “dittatura del cuore”. Altra opera che rifletteva un uomo sempre in bilico tra due mondi, da una parte e dall’altra della Cortina di Ferro. Con quell’opera Kundera era riuscito dove non erano riusciti giornali e altri media: far conoscere porzioni di realtà della parte di mondo legata all’Unione Sovietica anche a chi non era un abituale lettore di romanzi. Una condizione che non aveva mai smesso di rincorrerlo negli anni. Al 1950 risaliva il documento ritrovato nel 2008 secondo cui Kundera aveva denunciato alla polizia che Miroslav Dvorácek, disertore dell’esercito cecoslovacco, si trovava nel dormitorio universitario. Il ragazzo venne arrestato e condannato ai lavori forzati. Kundera aveva sempre negato quella delazione. “Sono sconvolto da questa storia che non mi aspettavo, che fino a ieri non conoscevo, e che soprattutto non è mai successa”. Da quel momento smise di rispondere a domande sul suo passato in Cecoslovacchia.

Non aveva mai frequentano l’opposizione ceca che aveva riparato all’estero. Kundera era apparso pubblicamente nel 27 gennaio 1984, quando fu ospite di Bernard Pivot, conduttore e critico letterario di “Apostrophes”, all’epoca il programma culturale più seguito della televisione francese. Con la moglie aveva formato la “coppia più silenziosa di Parigi”, com’era stata definita. Ha pubblicato in tutto dieci romanzi: sei in ceco e quattro in francese. In La Lentezza criticava anche il modello di sviluppo del mondo occidentale. Lo scrittore tornava saltuariamente in Repubblica Ceca. Il primo ministro Andrej Babis nel 2018 aveva raccontato di averlo incontrato e di avergli proposto la restituzione della cittadinanza. La cittadinanza gli venne restituita nel 2019, in occasione del suo novantesimo compleanno, dall’ambasciatore di Praga a Parigi, Petr Drulak. L’ultimo romanzo che ha pubblicato è stato La festa dell’insignificanza, pubblicato nel 2013. “L’ambizione della mia vita è unire la serietà delle domande alla leggerezza della forma”.

Redazione Web 12 Luglio 2023

Estratto dell'articolo di Lara Crinò per repubblica.it il 12 luglio 2023.

Correva l’anno 1985, e la sera la tv mandava su Rai2 Quelli della notte, il programma di Renzo Arbore che rivoluzionò la satira in tv. Fu in quel finto salotto, baciato nel momento di massima popolarità dal 50 per cento di share e popolato sera dopo sera dalle più strane bestie televisive, che il romanzo di un allora sconosciuto autore ceco immigrato in Francia, Milan Kundera, con un titolo misterioso e difficile, L’insostenibile leggerezza dell’essere, venne consacrato imprevedibilmente a romanzo di culto.

Artefice della magia, in tempi in cui il rapporto tra libri e tv non era quello di oggi, né esisteva per i libri il volano dei social, fu Roberto D’Agostino, chiamato da Arbore a interpretare in trasmissione prima il lookologo e poi l’intellettuale “post-tutto e post-niente”. 

E fu in quelle vesti che grazie al tormentone di citare il titolo del libro senza mai raccontarne la trama D’Agostino contribuì a rendere il romanzo  dello scrittore scomparso un fenomeno di massa.

D’Agostino, come andò che tra tutti i romanzi scelse proprio L’insostenibile leggerezza dell’essere per prendere in giro gli intellettuali?

Arbore mi aveva chiesto di "interpretare" l'intellettuale post-tutto e ante-niente, così in auge in quella prima metà degli anni Ottanta. Consideri che eravamo un gruppo, ci piaceva lavorare insieme a ideare Quelli della notte, e avevamo questa cosa molto romana, cinica, di non prendere niente sul serio.

Il mondo dei salotti, il mondo dell’intellighenzia ci faceva molto ridere e ci piaceva dimostrare che nel gioco tra “alto” e “basso” il basso era molto più perspicace dell’alto. Io facevo il “cazzaro”, ma nella consapevolezza che si era chiuso il ciclo degli anni Settanta, della politicizzazione. Volevo far vedere che tipo di formazione avevano gli intellettuali del momento, di cosa si nutrivano. 

Citavo il pensiero debole di Vattimo, che nessuno sapeva cos’era, dicevo “edonismo reganiano” e la sera, dopo la trasmissione, fuori da Teulada, la gente gridava “edonismo reganiano”; bastava una battuta per fare un partito, insomma, anche se in realtà quella cosa dell’edonismo descriveva perfettamente il momento storico. Insomma, il libro di Kundera era uscito da poco per Adelphi e mi divertiva l’idea di prendere in giro quelli che si davano un tono acquistando i libri azzurro polvere di Calasso, che ci andavano in giro. Tutto nacque perché c’era una recensione di Severino Cesari, compianto editor dei “cannibali” per Einaudi, al romanzo di Kundera sul Manifesto e pensai che era perfetta. 

Insomma, il libro non l’aveva letto, solo la recensione

Io ero uno che leggeva, leggevo Albert Hirschmann e il suo Felicità privata e felicità pubblica, leggevo l'Estetica del brutto di Johann Karl Friedrich Rosenkranz, leggevo Bonito Oliva e il suo L'ideologia del traditore. Mi piaceva mostrare il meccanismo: erano gli anni di Eco, c’era stato il gruppo ’63, si parlava della fine della letteratura, però poi Eco scrisse Il nome della rosa e ne fece un successo da segretarie, il libro che tutti leggevano. 

Insomma, io in tv facevo il pupazzo prendendo in giro un mondo di pupazzi che però era molto paludato e si prendeva molto sul serio. Bastava mettere in fila indiana i titoli che le ho detto prima per ottenere il display del cambiamento, dell'ebbrezza del nuovo e del post-moderno.

Ma mi mancava “il” titolo che racchiudesse lo spirito del tempo, di quegli anni "senza deposito", né ideologico né morale, che erano gli anni Ottanta. E non ci poteva essere titolo migliore de L’insostenibile leggerezza dell’essere. Sta agli anni Ottanta, come Il giovane Holden ai Cinquanta o Porci con le ali ai Settanta. 

Mica serviva leggere il romanzo, bastava citare il titolo e qualche paragrafo della recensione. In trasmissione Arbore la chiamava “la Milan”, come se Kundera fosse femmina…

Ma insomma fu così che lo lanciai, perché la gente, la massa si incuriosì. Pensi che assediato da associazioni e librerie e Rotary vari, cominciai a tenere conferenze su Kundera e il suo osannato libro. Continuando anche lì a fare il cazzaro. 

E con Adelphi come andò, Calasso era contento di questa pubblicità gratuita?

Non mi ha mai fatto neanche una telefonata. Calasso la soffriva questa cosa, anche se avrebbe dovuto essere contento. Una volta, anni dopo, l’ho incontrato sulla spiaggia di Sabaudia, l’ho riconosciuto dal riporto che con il vento s’alzava in verticale. Mi sono avvicinato e mi aspettavo un “grazie”, invece ha borbottato qualcosa e mi ha dribblato. Eppure gli ho fatto arrivare uno scrittore che nessuno conosceva sotto tutti gli ombrelloni d’Italia. 

Per curiosità, alla fine è andato mai oltre il titolo del libro?

Ma certo, ho imparato la lettura veloce, a piombo, di traverso alla pagina, e così l’ho letto. E ho scoperto che il libro simbolo degli anni Ottanta parlava degli anni Settanta.

Roberto D'Agostino per Dagospia il 12 luglio 2023.  

Posso raccontarlo? Questo Kundera avrà pure lanciato l'Adelphi nella classifica del best-sellerismo da Autogrill, però ha rovinato la mia vita. Per pochi giorni, fortunatamente, e poi è accaduto molti anni fa. Ma rovinata, veramente. Arriva dunque "Quelli della notte" e decido, garantito da Arbore, di "interpretare" l'intellettuale post-tutto e ante-niente, così in auge in quella prima metà degli anni Ottanta.  

E si vedeva allora sullo schermo, in precario equilibrio fra il demente e il demenziale, un "pupazzo animato" ben consapevole che si era chiuso il ciclo "Settanta" della politicizzazione, del protagonismo collettivo e della ricerca della felicità sociale, secondo l'espressione coniata dal sociologo Albert Hirschmann, autore appunto del libro "Felicità privata e felicità pubblica" (che spiega come i pendolarismi della storia derivino dall'oscillazione dei gusti del pubblico fra questi due poli). 

Da qui farfugliavo, notte dopo notte, di "look paninaro" e di "edonismo reaganiano" e farneticavo, puntata dopo puntata, quali erano i pensatori che stavano dietro al nuovo intellettuale post-moderno, autori scelti con cura in base alla struttura del nome o dei titoli dei loro libri ("Il pensiero debole" per Gianni Vattimo, "L'estetica del brutto" per Karl Rosenkranz, "L'ideologia del traditore" per Achille Bonito Oliva).

Ecco, bastava mettere in fila indiana i titoli di cui sopra per ottenere il display del cambiamento, dell'ebbrezza del nuovo e del post-moderno? No: mancava "quel" titolo capace di racchiudere lo Spirito del Tempo, quegli anni "senza deposito", né ideologico né morale, che sono stati gli Ottanta.  

Da una parte. Dall’altra, mi eccitava l’idea di perculare quella cultura editoriale che sfornava libri basati su una formula che illudeva la gente della classe media di appartenere all'alta cultura, in primis i volumi Adelphi.  Per caos e per fortuna, mi capitò sotto il naso il "manifesto" e sotto gli occhi una critica letteraria del compianto Severino Cesari (che fu editor dell'einaudiana Stile Libero). 

Cesari ruotava come le pale di un Moulinex impazzito su un autore di cui non sapevo assolutamente nulla, tale Milan Kundera. Uno scrittore mezzo-ceco mezzo-parigino che in Italia continuava a cambiar editore (il primo fu Mondadori su intuito del grande Oreste Del Buono) perché i suoi romanzi non ottenevano né attenzione dal pubblico né osanna dalla critica.  

Ma il titolo del suo libro mi sembrò un'insegna-epitaffio sublime, sfavillante al neon, per la decade: "L'insostenibile leggerezza dell'essere". (Che sta agli anni Ottanta, come "Il giovane Holden" ai '5O, "Sulla strada" ai '6O, "Porci con le ali" ai '7O, "Va' dove ti porta il cuore" ai '9O). 

Devo confessarlo: quando menavo il tormentone de "L'insostenibile leggerezza dell'essere", non avevo nemmeno sfiorato il libro. 

Ogni sera mi limitavo a parodiare un paragrafo della recensione, stilisticamente demente e involontariamente demenziale, di Cesari. Quindi rimasi a mani vuote allorché Roberto Calasso, editore di Adelphi, omaggiò il circo Barnum di "Quelli della notte" di copie kunderate. Al mio indirizzo ricevetti invece un librone gotico-funebre intitolato "Aberrazioni".  

Pensai subito che era un titolo perfetto per il riporto a 33 giri che, partendo dfai peli della schiena, inalberava Robertino Calasso. Rimasi poi di stucco quando l'unico Milan (che Berlusconi non poteva comprare) fu scoperto in mano alle casalinghe sotto l'ombrellone e alle segretarie d'azienda sopra la scrivania. 

Infine, arrivò l'inenarrabile: assediato da associazioni e librerie e Rotary vari, cominciai a tenere conferenze (sic!) su Kundera e il suo osannato libro che, grazie al can can televisivo, rimise in sesto il bilancio dell’Adelphi. Così, fedele come un carabiniere al cliché di successo di "Quelli della notte", tenni a debita distanza il libro e continuai a blablare goliardismi a calembour sciolto (la scaletta delle conferenza era: "L'amore è Cechov?", "Parmenide o Parmalat?", "Etere o catetere?").  

Poi un bel giorno mia sorella mi regalò "L'insostenibile leggerezza dell'essere" (ne aveva ricevuti due per il suo compleanno), e leggendolo velocemente a piombo, trasversalmente la pagina, ho scoperto che il libro-simbolo degli anni Ottanta parlava degli anni Settanta…

Estratto dell’articolo di Massimiliano Parente per “il Giornale” il 13 luglio 2023.

È morto Milan Kundera, ma non è morto per fortuna Roberto D'Agostino, che fece la fortuna del suo titolo più famoso: L'insostenibile leggerezza dell'essere, pubblicato da Adelphi che senza quel bestseller, diventato tale perché D'Agostino ne fece un tormentone a Quelli della notte negli anni Ottanta, sarebbe fallita. 

[…] D'Agostino ci aveva visto lungo, come oggi fa con Dagospia: il titolo funziona, perché significa tutto e significa niente, il romanzo non è niente di che, ma di fatto tutti cominciarono a comprarlo. Neppure D'Agostino l'aveva letto, poi lo lesse e scoprì che non era un libro sugli anni Ottanta, ma sugli anni Settanta. Ma non importava.

Tutti, di Kundera ricordano solo quello, il titolo, l'insostenibile leggerezza dell'essere. Che suona bene. Perché la vita è leggera ma pesante, o pesante ma leggera, pesante ma troppo pensante, va bene in ogni condizione esistenziale, come gli oroscopi. E l'essere, oh, l'essere è già una parola che ti mette dentro una dimensione spirituale che non esiste ma è tanto bello pensare che ci sia. 

Se chiedi a chiunque la trama, nessuno se la ricorda. Se chiedi di Kundera, ti rispondere: l'insostenibile leggerezza dell'essere. Sei colto, tra quelli che Dwight Macdonald chiamava Midcult, cioè quella narrativa che si finge letteratura alta ma è non è neppure bassa (Masscult, che ha una sua dignità), è una via di mezzo per far credere colto chi non lo è, il Premio Strega insomma.

Se Kundera fosse stato italiano l'avrebbe vinto a mani basse, in fondo non dava fastidio a nessuno. […] Insomma, a mio non modesto avviso era uno scrittore molto ma molto sopravvalutato, ma siccome siamo pieni di sopravvalutati viventi molto peggio di lui, mi dispiace che sia morto. Ma l'insostenibile leggerezza dell'essere resterà nella storia. Grazie non a Calasso, ma a D'Agostino.

Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 14 luglio 2023.

Milan Kundera e la televisione. Come è già stato sottolineato, il paradosso della notorietà in Italia di Milan Kundera nasce dalle reiterate e surreali citazioni di Roberto D’Agostino a Quelli della notte (1985). Strano destino per uno scrittore che non amava apparire e detestava il kitsch. Di lui si ricorda la famosa e unica apparizione ad Apostrophes , la celebre trasmissione letteraria di Bernard Pivot (era il 27 gennaio 1984, per un certo periodo è circolato persino un dvd della serata), ma pochi sanno che Kundera è apparso anche alla tv italiana.

Era il 1980 e in Italia era appena uscito da Bompiani Il libro del riso e dell’oblio . Anche la Rai, dal 1967, aveva un bel programma di libri voluto da Raffaele Crovi, si chiamava Tuttilibri , la conduzione della stagione 79-80 era stata affidata a Guglielmo Zucconi. Nel frammento conservato dalle Teche, c’è una voce fuori campo che pone alcune domande.

Kundera risponde in francese ed è tradotto da un’altra voce fuori campo (una situazione un po’ assurda per un autore così sorvegliato nel curare le traduzioni dei suoi libri).

Dice Kundera «L’io è la somma di ciò che abbiamo nella nostra memoria: la morte, infatti, è terribile non perché perdiamo l’avvenire, ma perché perdiamo il nostro passato». E prosegue: «La morte è sempre presente nella nostra vita quotidiana sotto forma di oblio». 

Non solo Kundera non è più apparso in televisione, non solo ha cessato di dare interviste («Nel giugno 1985 ho preso una decisione definitiva: mai più interviste. Con l’eccezione dei dialoghi, trascritti in collaborazione con me e accompagnati dal mio copyright, tutte le mie parole riferite devono considerarsi, a partire da quella data, come dei falsi»), ma la sua grande ossessione letteraria è, appunto, l’oblio. Nelle sue pagine, si vedono agire quegli agenti dell’«errore universale», di cui si comporrebbe la storia; il loro compito principale è quello di fomentare l’opera dell’oblio e della devastazione: «l’angelo della rapina» presiede sovrano. Per andare avanti, ci è solo concesso di dimenticare (e noi siamo qui a ricordarlo).

Estratto dell'articolo di Stefano Ciavatta per esquire.com il 14 luglio 2023.

Era il 2002 quando Roberto Calasso di Adelphi, in un'intervista al Corriere della Sera, ricordava che “L'insostenibile leggerezza dell'essere è stato uno dei più grandi successi editoriali degli ultimi cinquant'anni, sullo stesso piano di Cent'anni di solitudine di García Márquez. In Italia il successo fu ancor più clamoroso che altrove. 

Partimmo con una tiratura prudente di 10mila copie, perché l'autore era ancora un'entità molto vaga per il pubblico italiano”. L’allusione era ai romanzi e racconti pubblicati da Mondadori e Bompiani tra il 1969 e il 1980, poi diventati classici kunderiani anche per il pubblico italiano. “Per mesi abbiamo fatto fatica a tenere dietro alle ristampe. In un anno si vendettero 225mila copie. A oggi il venduto totale è di circa un milione di copie”. Calasso diede poi a Cesare quello che si sapeva da tempo fosse di Cesare: “La cosa diventò anche un fenomeno mediatico, per la coincidenza con la trasmissione del momento, Quelli della notte di Arbore, dove la formula magica del titolo di Kundera veniva usata da Roberto D'Agostino come tormentone”.

(...)

Del salotto fa parte anche Roberto D’Agostino, all’epoca ex impiegato di banca in caciarona fuga dal cartellino, critico musicale, penna di costume (si dice ancora così?), un Arbasino autodidatta, una versione nottambula e festaiola di Irene Brin, insomma pre-fondazione Dagospia (lontanissima e inimmaginabile), autoproclamatosi lookologo degli smodati anni Ottanta, in cerca di vecchie faune travestite da nuove tribù, piene di velleità edonistiche ed effetti speciali, l’apparire come unico miraggio possibile, “l’edonismo reaganiano” come fototessera e passepartout di un decennio. 

L’instant book Look Parade (Sperling, novembre 1985) sembra un gioco da antropologo dandy in mezzo a Paninari, Yuppies, Rambo, Eccentrici e Inautentici, in mezzo al riflusso, la frivolezza, il consumismo, il disimpegno, il fastidio per l’aria da caserma militante degli anni Settanta. Prelude invece ai brillanti sciocchezzai postmoderni di battute, idee, opinioni carpite ovunque sui media: Il peggio di Novella 2000 (con Renzo Arbore, Rizzoli), il rarissimo Libidine (Mondadori), Come vivere e bene senza i comunisti (Mondadori), Chi è, Chi non è, Chi si crede di essere (Mondadori), L’insostenibile pesantezza del Sublime (Mondadori), Sbucciando piselli (con Federico Zeri, Mondadori).

D’Agostino aveva intercettato subito la fortuna del libro di Kundera. Copertina chiara, quel pantone Adelphi che cambia sfumatura col tempo, come i colori dei dipinti italiani nei manuali d’arte, solita eleganza con Les Pléiades di Max Ernst in bella mostra, un nudo forse non instagrammabile oggi. Lo citava a proposito e a sproposito, chiamandolo in causa per introdurre gli argomenti più vari. 

Già il titolo del libro, un ossimoro sontuoso ma “paraculo” (avrebbe detto Diamante Covelli), lungo ma definitivo, prestava il fianco a essere equivocato ed evocato come mattone da dissacrare. Come non approfittarne? Lo stesso gioco non si sarebbe potuto fare con un altro bestseller (accusato anch'esso di aver venduto troppo): Il nome della rosa di Eco, uscito nel 1980 e rilanciato nel 1986, era un titolo innocuo. 

(...)

Ecco dunque l’arringa per Kundera, depositata nel “vizionario dei nomi famosi” di Chi è, chi non è, chi si crede d’essere: “Siamo tutti Milanisti. Se lo merita, non solo per le rapinose trame che tesse nei suoi romanzi, quanto perché quello Spirito del Tempo che lo scrittore cecoslovacco ha battezzato L'insostenibile leggerezza dell'essere spiega bene questi anni senza deposito, né ideologico né morale, che sono gli '80. 

Fornito di un oculato volto da zingaro triste, con quella piega amara, ma così amara che sembra un Fernet, Milan Kundera, spretatosi di comunismo ceco e tirannico, sistematosi dal 1975 a Parigi (è cittadino francese grazie all'intervento del presidente Mitterrand), con il suo celebre romanzo filosofico ha scritto un epitaffio a un decennio ingorgato da valori in via di risucchio e soffocato dalla pesantezza dell'anima.

(...) 

Nella Storia confidenziale dell'editoria italiana (Marsilio), Gian Arturo Ferrari ha ricordato il precedente in tema di bestseller e televisione italiana, il libro Così parlò Bellavista di Luciano De Crescenzo, romanzo Mondadori del 1977, a cui diede una mano decisiva la presenza dello stesso autore nel talk show Bontà loro di Maurizio Costanzo su Rai 1. Per altre latitudini editoriali, però, anche De Crescenzo soffrì la diffidenza e lo scetticismo verso il suo successo.

C’era insomma chi vedeva l’apocalisse e i barbari alle porte, in anni in cui il sistema editoriale era granitico, milionario, i suoi protagonisti venerati e autorevoli, i lettori forti erano veramente forti e tanti. Nel 1989, sul Messaggero, Giorgio Manganelli, tra i più liberali e illuminati uomini delle patrie lettere, relativizzava la faccenda Kundera ma non vedeva lontano: “Un amico mi dice che una recensione favorevole di Geno Pampaloni fa subito vendere qualche centinaia di copie, nella sola Milano: questa è la misura autentica dell'efficacia di una buona recensione: agisce sui libri che aspirano a tirature non oltre le diecimila copie; se va oltre, le recensioni non c'entrano; magari c'entrano i premi, sempre meno, e qualche battuta televisiva.

La televisione non si rivolge in primo luogo ai lettori”. Tra le accuse di calcolo editoriale, “troppo ricercato e zuccherino” (Ruggero Guarini), “il messaggio del libro è programmato a tavolino, perde anima e si neutralizza” (Asor Rosa), si infilò barricadero anche Aldo Busi che aveva esordito clamorosamente con Adelphi l’anno prima: “Pessoa, Yourcenar, Eco, Kundera, appartengono a quell'inconsistenza di buon tono su cui l'editoria ha fondato un impero per catturare gli ansiosi di non sfigurare in materia di Destino & Arredocasa”. Questi e altri giudizi critici sono inclusi da D'Agostino nella voce Kundera del suo Chi è, Chi non è, Chi si crede di essere. 

E pensare che c’era un altro editore che lo avrebbe pubblicato di corsa. Un retroscena nel retroscena delle fortune kunderiane lo ha raccontato Paolo Di Stefano in Potresti anche dirmi grazie (Rizzoli). Sandro Ferri di E/O, oggi casa editrice di Elena Ferrante, ieri punto di riferimento per autori dell’Est, era in contatto con Kundera per i diritti: “Ci teneva al corrente dello sviluppo del libro. Diceva: «Vediamo, forse». Ma si capiva che sua moglie non voleva, ci considerava troppo piccoli. E quando il libro è andato all'Adelphi ci siamo offesi. L'abbiamo considerato un tradimento”.